La comune umanità


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Stefano G. Azzarà

La comune umanità

Diotima Questioni di filosofia e politica

La scuola di P itagora editrice

INDICE

Domenico Losurdo 1941-2018, in memoriam La comtme umanità

37

Tavola delle sigle

39

I.

Ifi. RESA DEI CONTI CON IL LIBERALISMO

11

45

1. L'egemonia liberale

e la necessità di una controstoria 2. Schiavitiì e genocidio nella storia del liberalismo 3. Potere statale e società civile: liberalismo come «democrazia per il popolo dei signori» 4. Per una ridefinizione del liberalismo 5. Limiti e i meriti del liberalismo: verso la democrazia moderna

45 50 55 64 76

Integrazioni al capitolo I Liberalismo, consetvatorismo e universalismo incompiuto I.a:

I.b: I.e:

II.

83

Friedrich Nietzsche dal nazional-liberalismo all'illuminismo antipopolare e alla Rivoluzione consetvatrice 87 Ideologia della guerra,pathos del'Occidente e nazionalsocialismo in Martin Heidegger 103 Giovanni Gentile e la controriforma della filosofia classica tedesca di Emiliano Alessandroni 119

IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

129

1. KAnt e la Rivoluzione francese

130

2. Hegel, le guerre di liberazione e la questione nazionale tedesca 3. I.A politica culturale di Hegel: religione, Stato e filosofia di fronte ai compiti del progresso 4. Dialettica e categorie universali tra logica e storia 5. Hegele il liberalismo 6. Superamento del liberalismo 7. Da Hegel a Marx Integrazioni al capitolo II Losurdo, Hegel e il marxismo di Emiliano Alessandroni II.a: Lotte per il riconoscimento e universale concreto in Hegel secondo Domenico Losurdo

137

143 152 161 169

175

179

180

II.b: Hegel: dalle lotte per il riconoscimento fra gli individui e fra le classi sociali alle lotte per il riconoscimento fra le nazioni II.e: Hegel e il nucleo scientifico delmaterialismo storico

I!J.

185 191

«MAruaSMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DELMATERL\LISMO STORICO

195

1. Recuperare l'autonomia del pensiero 2. Il materialismo storico

195 198 3. Marxismo come universalismo 205 4. Da Marx a Lenin 209 5. Gramsci e l'innovazione del marxismo 217 6. La catastro/edel comunismo novecentesco 228

7. Trionfo della borghesia e ricoloniv:azione della TetTa: i problemi del mondo contemporaneo 232 Integrazioni al capitolo III Gli ultimi testi

di Emiliano Alessandroni III.a: Oltre demonologia e agiografia: la questione Stalin III.b: La lotta di classe veicolo dell'universalità concreta III.e: Pace e non-violenza, fuori e dentro la spinta del materialismo storico III.d: Losurdo e la Cina 1. La Repubblica Popolare Cinese

e la lotta anticoloniale 2. La Repubblica Popolare Cinese e la lotta di classe

241 242 252 258 266 266 273

Conclusione Sulle orme di Domenico Losurdo, verso un universalismo concreto

283

UNA CONVERSAZIONE CON DOMENICO l..oSURDO

(Urbino, maggio 2011)

287

Do112enico Losurdo 1941-2018, in memoriam*

A chi, per lusingarlo o con sincera ammirazione, gli faceva notare quanto originale e personale fosse il suo modo di pensare, Hegel rispondeva che se mai fosse stato presente qualcosa di esclusivamente personale nel suo sistema, questa cosa sarebbe stata senz'altro sbagliata. E' un episodio che Domenico Losurdo era solito raccontare spesso ai propri allievi, per spiegare quale fosse il giusto atteggiamento conoscitivo degli studiosi e in particolare degli storici della filosofia. Ma è anche una citazione che sintetizza in maniera assai efficace il modo di praticare il lavoro filosofico al quale Losurdo stesso ha sempre cercato di attenersi.A differenza di molti altri intellettuali, i quali anche quando parlano del mondo finiscono in realtà per parlare in

* Pubblicato in "Materialismo Storico", 1/2018, pp. 5-22 (con leggere differenze).

11

Stefa,w G. .Azz-arà

primo luogo di sé stessi e della propria distinzione nei suoi confronti, in Losurdo era infatti assolutamente preminente il rigore dell'oggettività. La volontà pervicace, cioè - radicata in una scelta argomentata sul piano teoretico in favore della "via hegeliana" rispetto alla "via fichtiana" - di concepire tale lavoro come uno sviluppo il più possibile coerente delle determinazioni inscritte nell' ossetto, ovvero nella cosa stessa. L'idea che il movimento storico, la cui comprensione era ciò che gli stava più a cuore, scaturisse non dall'attività produttiva della coscienza che incontra il reale e se ne appropria o lo risolve in se stessa, oppure se ne tiene a distanza e lo deplora per specchiarsi nella propria superiore immacolatezza, ma da una contraddizione che è inscritta già nell'oggettività. In un tessuto ontologico che è intrinsecamente lacerato, scisso. Agitato da una conflittualità immanente che con la sua trama tragica costituisce il presupposto del dolore del negativo e che, trasmettendosi semmai al soggetto che se ne fa carico nella relazione, chiama sempre di nuovo all'appello la fatica del concetto. Sebbene lui stesso si sarebbe con ogni probabilità sottratto a questo genere di considerazioni, c'è però, a guardar bene, qualcosa di decisamente personale che possiamo comunquerichiamare, a proposito di questo lavoro di ricerca giunto all'improvviso a conclusione dopo cinquantun anni (al 1967 risalgono le sue prime pubblicazioni); qualcosa, cioè, che può assumere un valore generale che vada al di là dell'esperienza soggettiva di un singolo. Losurdo, infatti, ha dovuto faticare e lottare con enorme determinazione per il riconoscimento delle proprie posizioni, sia in ambito accademico

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I::bMENICO losuRDO 1941-2018, m MEMO.RIAM

che in altri contesti. Ma questo sforzo necessario non è stato il marchio del suo percorso individuale, bensì la presa di coscienza del fardello che era ricaduto su un'intera generazione di intellettuali costretti dalla storia a fare i conti con il u-amonto di un'epoca e di un intero mondo etico. E destinati ad affrontare questa crisi in maniere profondamente diverse e ad uscirne lungo percorsi che alla fine si riveleranno divergenti. Da hegeliano e da marxista, Losurdo era assolutamente convinto della politicità intrinseca della filosofia: la filosofia è in primo luogo il nostro tempo appreso nel concetto e proprio per questo motivo la politica ne costituisce il primo e più importante banco di prova. Non certamente nel senso che questa disciplina debba limitarsi a una mera descrizione del mondo, o addirittura a una sua giustificazione, come sempre gli rimproveravano gli interpreti malevoli del motto di Hegel su reale e razionale: anche volendo, questo non sarebbe possibile perché la filosofia, quando è realmente tale, conserva sempre una missione di trascendenza che è la conseguenza inevitabile della sua potenza discorsiva universalistica e cioè del suo incardinarsi nello spirito assoluto. Lo è, piuttosto, nel senso che il giudizio politico è il vero experùnentu11z crucis della ragione. E la capacità di esercitarlo in maniera corretta può al limite falsificare intere filosofie, fino a dimostrare, in molti casi, la meschinità delle costruzioni teoriche anche più grandiose. Enorme è stata ad esempio la profondità filosofica di Nietzsche nel confrontarsi con i conflitti della propria epoca e nel rivelare l'ipocrisia dei sentimenti morali e dello spirito del progresso, dietro i quali si cela spesso

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Stefanc G. A.zzarà

nient'altro che una diversa forma di volontà di potenza, per quanto priva del coraggio e della buona coscienza di chi sa riconoscere la necessità della forza e persino della schiavitù. Oppure quella di Heideggernel denunciare nel cuore della metafisica soggettocentrica della modernità e nello sviluppo della tecnica e delle forze produttive capitalistiche un progetto che ha i caratteri del dominio. Oppure ancora la lucidità di Schmitt nel mettere a nudo le aporie di quel pacifismo idealistico wilsoniano e liberale dietro il quale, ancora ai nostri giorni, si muove l'idea di un nuovo ordine mondiale tipicamente imperiale; un ordine che supera in una direzione globale ogni localizzazione e ha già posto fine all'ordinamento eurocentrico della terra per sostituirlo con un ordinamento diverso ma non meno aggressivo. Tuttavia, nel momento in cui questi intellettuali dalla statura gigantesca sono stati posti dagli eventi davanti alla necessità del giudizio politico, alla scelta di fronte al corso del mondo, ecco che proprio la loro pretesa di trascendenza filosofica è venuta immediatamente meno. E alle molteplici contraddizioni dell'universalismo, nella cui esplosione si annunciava già ali'epoca la crisi della modernità, non sono riusciti a contrapporre nient'altro che una miserevole apologia del particolarismo. Ragion per cui, concludevaLosurdo, «nonostante la sua radicalità e gli straordinari risultati conoscitivi che permette di conseguire», la loro dirompenza decostruttiva, e cioè «la distruzione dei fiori immaginari» esercitata da quelle celebrate filosofie, finiva in realtà «col rinsaldare le catene della schiavitù salariata e della schiavitù vera»1. 1

14

Losurdo 1987b, p . 108.

I:::loMENICO losURDO

1941-2018, L\' M.EMO.RlAM

Così che quei potenti dispositivi si rivelavano essere una critica dell'ideologia raffinatissima ma di natura . . tutta reazionana. La politica come dissacrazione del discorso filosofico e riconduzione alla sua sostanza, dunque. O forse meglio: come quella sua mondanizzazione che, facendola scendere dal cielo delle idee alla terra del conflitto secolare, esalta semmai, anche richiamandola al suo compito, le potenzialità umanistiche di questa forma di sapere, la sua natura progettuale. «Se Hegel ha insegnato l'ineludibilità della situazione storica», insomma, «Marx insegna l'ineludibilità in essa dei conflitti politico-sociali» e in questo modo definisce da quel momento «la qualità nuova del discorso filosofico»2; il quale adesso, di fronte a tali conflitti, è obbligato in quanto tale - e non in virtù delle sue eventuali ricadute morali - a prendere posizione. Ebbene: poiché ha praticato in prima persona questo «engage,nent oggettivo» in tempi che per la politica erano divenuti assai difficili - in tempi di riflusso nei quali ogni possibilità di trasformazione del mondo era stata negata e il lavoro intellettuale veniva sempre più ad essere concepito come apologia, edificazione, consolazione e supplemento d'anima rispetto alla mera amministrazione di ciò che è esistente - , a Domenico Losurdo come ad altri intellettuali della sua generazione questo prendere posizione è spesso valso le diffidenze e i sospetti di chi, dietro ogni ragionamento che non occulti la propria politicità militante, avverte subito il sentore della propaganda. Di una propaganda fuori 2

Losurdo 1991a, p. 128.

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Stefaw G. A.n-arà

luogo e fuori tempo massimo, oltretutto, visto che alle spalle di essa - e cioè in quel campo filosofico-politico che a lungo si era richiamato all'emancipazione del genere umano - si poteva riconoscere non il fragore di un'avanzata trionfale ma il tono sordo di un esercito in rotta. Un'armata sconfitta e umiliata che nella sua fuga dal marxismo (ma anche dalla storia stessa) si andava disperdendo in mille direzioni. Proprio per questo allora, proprio perché teneva sempre unite filosofia e politica in un'epoca che aveva voltato le spalle alla rivoluzione, proprio perché, dato lo spirito dei tempi, l'accusa di parzialità o partigianeria sarebbe stata sempre dietro l'angolo non meno di quella di giustificazionismo, Losurdo sapeva che per farsi riconoscere in ambito accademico avrebbe dovuto essere assolutamente impeccabile proprio su quel presunto piano filosofico "puro", e in apparenza asettico rispetto ad ogni conflitto, del quale i suoi critici interlocutori culturali- sempre pronti a denunciarel'ideologia ovunque tranne che presso se stessi- si ergevano a custodi. Solo in questo modo, solo anticipando ogni obiezione e scavando minuziosamente tra le fonti, solo padroneggiando a menadito gli autori di cui si occupava - e senza sottrarsi alle questioni teoretiche più sottili - poteva permettersi di portare la filosofia sul terreno di una politica intesa come la trasposizione sul terreno culturale della contesa tra emancipazione e de-emancipazione. Anche grazie a una conoscenza sterminata, va aggiunto, che gli consentiva di spaziare lungo due millenni e più di una storia universale che al suo sguardo abbracciava anche quel mondo negletto e misconosciuto che sta al di là dei confini dell'Occi-

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l:>oMENICO losURDO

1941-2018, IN MEMO.Rlil.\l'

dente. Ecco, allora, che coloro che prima ancora che le posizioni particolari ne mettevano in discussione il metodo, raramente hanno avuto il coraggio di sfidarlo in pubblico, ben sapendo che chi lo aveva fatto ne era uscito per lo più con le ossa rotte. Ecco, ad esempio, che anche i più rinomati specialisti di Hegel, e soprattutto quelli più risoluti nel rinchiudere il discorso del filosofo tedesco in una dimensione conservatrice e prevalentemente coscienzialista, ne rispettavano il giudizio e si dimostravano improvvisamente concilianti quando gli capitava di confrontarsi con lui. Torniamo sul terreno dell'oggettività, allora, dal quale abbiamo preso le mosse. Losurdo è stato uno degli studiosi italiani più noti e tradotti al mondo. Si è confrontato anzitutto con la filosofia classica tedesca sulla scorta dell'eredità di Arturo Massolo e Pasquale Salvucci e del loro impianto hegelo-marxiano e di quel periodo storico e filosofico ha cambiato per sempre la nostra conoscenza. Con Autocensura e co1npro1nesso nelpensiero politico di Kant, la sua prima monografia, ha sottratto il filosofo tedesco alla «rispettabilità borghese e filistea»3 consacrata dalla storiografia filosofica e cioè all'ambito del conservatorismo o del moderatismo politico nel quale era stato inscritto dalla tradizione degli studiosi liberali ma anche, nonostante Engels, da quella degli studiosi marxisti: in realtà, la «negazione del diritto di resistenza» in Kant rispondeva certamente alla opportunità di «rassicura[re] le corti tedesche» ma era soprattutto una mossa che «permetteva di affermare 3

Losurdo 1983c, p. 14.

17

Stefano G. Azi:arà

l'irreversibilità della Rivoluzione francese e quindi di condannare i tentativi di restaurazione» 4 • Contro le insorgenze reazionarie come la Vandea e contro ogni tentativo di riscossa feudale, perciò, il filosofo tedesco continuerà ad essere "giacobino" perché continuerà ad aspettarsi, persino con troppa ingenuità, che «in seguito alla u-asformazione prodotta da alcune rivoluzioni [nach tnanchen Revolutionen der U,nbildung] sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la man-ice nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana>>-5. Con saggi comeFichte, la rivoluzione francese e l'ideale della pace perpetua6, oppure Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedescaì o ancora Fichte e la questione nazionale tedescas, Losurdo ha scandagliato poi la dialettica che ha animato la parabola filosofico-politica di una figura chiave della storia culturale e politica tedesca ma, più in generale, dell'ideologia europea: se in un primo momento «alla Francia rivoluzionaria, Fichte guarda ... come al paese che non solo avrebbe potuto o dovuto aiutare la Germania a scuotere il giogo del feudalesimo e dell'assolutismo monarchico, ma che avrebbe anche contribuito in modo decisivo alla realizzazione di una

• Ivi, p. 31. $ I. Kant, Idee m einer allgemeinen Geschichte in weltburgerlicher Absicht (1784), cit. in Losurdo 1983c, p. 27. 6 Losurdo 1983-84. ' Losurdo 1983d. 8 Losurdo 2004.

18

I::bMENICO losuRDO 1941-2018, IN ,\IEMORIA.\>2- 7 e cioè di «democrazia che vale solo per il "popolo dei

25

e·lt. IVI,. p. 4.

2' 2;

Ivi, p. 67. Ivi, pp. 107 e 333. Cfr. P.L. Van den Berghe, Race and Racism: A Comparative Perspective, Wiley, New York 1994; G .M. Fredrickson, White Supremacy: A Comparative Study in American and South African History, Oxford U.P., New York 1981.

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Stefa,w G. Azzarà

signori"». In quel tipo di regime si dipanava un preciso movimento dialettico, del quale proprio la distinzione della razza bianca superiore da quella nera costituiva il perno. La discriminazione nei confronti dei neri e la loro riduzione a proprietà umana, assieme a un' ampia disponibilità di terra strappata agli indiani nell'avanzamento della frontiera del West, facilitava cioè lo sviluppo di rapporti tendenzialmente paritari, sebbene non privi di contraddizioni e conflittualità di classe e status, all'interno della comunità dei bianchi liberi2s. «I membri di un'aristocrazia di classe o di razza tendono ad auto-celebrarsi come i "pari"»29 e proprio la «netta disuguaglianza imposta agli esclusi è l'altra faccia del rapporto di parità che s'instaura fra coloro che godono del potere di escludere gli "inferiori"», commentava a questo proposito. Un ragionamento analogo può essere fatto però anche per ciò che accadeva all'interno dell'Impero britannico, nel quale tra la casta dei bianchi liberi e dei neri schiavi, confinati per lo più nelle colonie, si ingrossava sempre più quella intermedia dei servi, in questo caso bianchi, le cui "libertà" non erano minimamente paragonabili a quelle dei padroni e che non potevano certamente essere detti "liberi" in senso stretto, viste le limitazioni e i doveri ai quali erano sottoposti. In quella che costituiva di fatto una «razza

28

DB, pp. 36-8. Sulla complicata evoluzione della Costituzione americana e dei rapporti sociali interni agli USA v. REV, pp. 56-7 e REP, p. 69 sgg. 29 CL, pp. 107-8. Cfr. REV, pp. 76-7.

60

LA RESA DEI CONTI CON IL LIBERALISMO

inferiore>»0 - alla quale dai liberali era negata già la libertà moderna, la libertà negativa, e che agli occhi di certi autori, soprattutto con l'affermarsi delle tendenze socialdarwinistiche ed eugenetiche, prendeva le forme di una vera e propria razza da allevamento>1 - doveva essere inscritto fin oltre la metà dell'Ottocento lo stesso lavoro salariato e, in generale, il vasto mondo degli indigenti e dei miserabili, spesso costretti a mendicare e a perdere in tal modo ogni diritto civile. E' chiaro che a questa «moltitudine ... bambina»J2, priva di cultura e discernimento politico, non poteva essere concesso il diritto di voto. Qui «all'apartheid razziale sembra[va] corrispondere una sorta di apartheid sociale>:»3, mentre le veci dei neri o degli indiani veri e propri erano svolte dalla popolazione irlandese o dell'India sottomessa. Già un autore insospettabile come Tocqueville, del resto, aveva notato a questo proposito come in Inghilterra prevalesse una «concezione aristocratica della libertà»3 4, la quale era intesa come il privilegio di una casta proprietaria. Insomma, almeno fino ad un certo periodo, concludeva Losurdo, «anche la società scaturita in Inghilterra dalla Gloriosa Rivoluzione si configura[va] come una sorta di "democrazia per il popolo dei signori">>-35, con la differenza che qui le stes,o DB,p. 44. Cfr. REP, pp. 24-6, in cui si precisano i termini

della «razzizzazione» liberale delle «sottoclassi della società» e dei «falliti della vita». "CL,pp. 114-16e 212-15. 2 ' DB, p.42. '' CL, p. 113. "e·1t. 1v1, · · p. 123 . 5 > ivi,p. 124. Cfr. PECC, p. 19 sgg.

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Stefano G. A.u-arà

se classi subalterne bianche «continua[va]no a essere separate dalla classe o casta superiore da un abisso che fa pensare a quello vigente in uno Stato razziale». Non si trattava soltanto del fwizionamento interno di questi Stati. Lo stesso fenomeno si può constatare, infine, se si solleva lo sguardo al campo delle relazioni internazionali. Nel corso dei secoli, l'espansione coloniale dell'Occidente, e dei paesi liberali in primo luogo, aveva infatti finito per erigere una sorta di «"democrazia per il popolo dei signori" di dimensioni planetarie»%. Da un lato, la rivendicazione della libertà di movimento delle grandi potenze, che pretendevano il diritto di procacciarsi risorse, mercati, materie prime e persino uno "spazio vitale" al di fuori dei confini del mondo cosiddetto civile. Dall'altro, le terre "vergini", le culle vuote (ancora Tocqueville) dei territori coloniali, alle cui popolazioni non veniva conferito nessun tipo di riconoscimento. Vìvendo in condizioni di barbarie, queste comunità non avevano alcuna possibilità di autodeterminarsi e non potevano rivendicare alcun diritto. Su di esse poteva invece essere esercitata la più ferrea dittatura pedagogica e la loro schiavizzazione o sfruttamento non costituiva sotto questo aspetto nessuna violazione del principio di libertà. Persino il loro sterminio, al contrario, era per certi versi un atto dovuto, di fronte alla resistenza illegittima e piratesca che essi opponevano irrazionalmente alla marcia provvidenziale della civiltà liberale. Anche in questo caso, poi, è possibile osservare la dialettica strettissima di inclusione ed esclusione che '6

62

CL, p. 216 sgg.

LA RESA DEI CONTI CON IL LIBERALISMO

animava il pensiero e la prassi liberale: al rilancio dell' espansione coloniale corrispondeva sistematicamente una simmetrica nazionalizzazione delle masse in chiave social-imperialistica e cioè l'inclusione graduale delle classi subalterne della metropoli, facilmente decapitate sul piano ideologico (pensiamo all'apprezzamento del colonialismo da parte di certi filoni sciovinisti dello stesso socialismo europeo) e cooptate nella cerchia dei "signori", sebbene in posizione subalterna37 . Per tanti aspetti, questo medesimo meccanismo dialettico di «estensione della cittadinanza nella metropoli capitalistica e proiezione all'esterno del processo di razzizzazione»,s avrebbe condotto nel secondo dopoguerra del Novecento a riassorbire o cooptare gli ebrei e lo stesso Stato di Israele, a lungo considerati come un corpo estraneo al mondo civile e pericoloso, nell'ambito della comunità occidentale dei popoli liberi, con la simultanea intensificazione delle discriminazioni nei confronti dei popoli musulmani e dei paesi arabi, rei di non accettare il ruolo semiservile che spettava loro all'interno del nuovo ordine internazionale semicoloniale3~. Ivi, pp. 223-4. V. REV, p. 106, dove si citano le parole di Rhodes: «se non si vuole la Guerra civile», e cioè se si vuole neutralizzare l'agitazione del movimento operaio e socialista, «occorre diventare imperialisti». ,a DB, p. 78. 39 Sui complicati rapporti di integrazione e discriminazione tra l'Occidente e l'ebraismo, sino alla "soluzione finale" v. CRISI, passim; sulrecupero dell'ebraismoe dello Stato di Israele nell'ambito dello spazio sacro della civiltà v. LING, il cap. IV, "Antisemitismo", pp. 114-52, e il cap. V, "Antisionismo", pp. 153-86. Per 37

63

Stefatro G. A.ttarà

4. Per una ridefinizione del liberalis1110

Alla luce di queste considerazioni, lo stesso concetto di liberalismo dimostrava di aver bisogno di una drastica revisione rispetto alla sua definizione usuale. Il liberalismo, cioè, non va considerato come una categoria dello spirito ma come un movimento politico che è scaturito da una situazione storicamente determinata e che ha alla propria base un preciso retroterra sociale con i suoi rapporti di forza. Il termine "liberale", spiegava Losurdo, nasceva da un lato, in un contesto politico, in opposizione al concetto di "servile", attribuito spregiativamente ai seguaci dell'assolutismo monarchico. Ma esso sorgeva per un altro verso anche in opposizione a quei ceti subalterni che la necessità del lavoro obbligava a una vita che non poteva essere detta propriamente umana, in opposizione cioè alla «condizione servile»40 in senso stretto, «o anche solo plebea». Si trattava dunque del rispecchiamento concettuale di una precisa configurazione sociale, attraverso il quale «i ben nati e i ricchi», i quali godevano di un'educazione superiore, erano avvezzi alle arti liberali e non avevano bisogno di svolgere un lavoro manuale, diventavano consapevoli della propria distinzione «contro le masse popolari e la loro volgarità». I "liberali" erano dunque originariamente le classi proprietarie colte, coni loro interessi specifici. Questo termine «nasce[va] da un'auto-designazione orgogliosa, quanto riguarda la discriminazione verso gli arabi v. il cap. VI, "Filo-islamismo", pp. 187-243. •° CL, pp. 239-42.

64

LA RESA DEI CONTI CON IL LIBERALISMO

che [aveva] al tempo stesso una connotazione politica, sociale e perfino etnica» (sia nei confronti delle classi subalterne che, soprattutto, dei popoli colonizzati). Si trattava, in sostanza, «di un movimento e di un partito che tend[eva]no a chiamare a raccolta le persone fornite di un'"educazione liberale" e autenticamente libere, owero il popolo che ha il privilegio di essere libero, la "razza eletta" ... i ben nati». È qui che per Losurdo le categorie della storiografia tradizionale si rivelavano insufficienti o mistificatrici e il confine tra il liberalismo e il consetvatorismo, o addirittura la reazione, si faceva labile. Sussiste in fondo una differenza così netta tra queste posizioni del liberalismo ottocentesco e quelle di un filosofo considerato ferocemente antiliberale come Friedrich Nietzsche? In tutto l'arco della sua pur complessa evoluzione, il pensiero di Nietzsche è stato caratterizzato da un motivo di fondo: la «critica e la denuncia militante della rivoluzione e della modernità»41 , intesa come critica e denuncia dei processi di democratizzazione che ad esse si erano accompagnati. Come contestazione, cioè, di quella massificazione e omogeneizzazione che, all'insegna della ragione «calcolante» 42 e del principio di eguaglianza insito nell'umanesimo e nell' «ottimismo»43 moderno, bru-

◄1

NIET, p. 900. Cfr. HEID, p. 119 sgg. NIET, p. 1070 sgg. La denwicia del «pensiero calcolante», o della «hybris della ragione», sarà poi Wl Leitmotiv della critica heideggeriana della modernità: v. HEID, pp. 22-3, 113-19, 154 •2

e passim. ◄;

NIET, p. 7.

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Stefa,w G. Azzarà

ciava il terreno sotto i piedi del genio, degli individui eccezionali, delle caste superiori; di quei pochi esemplari fortunati che erano degni dell'appellativo di uomo e la cui missione superiore consisteva nella produzione della cultura, dell'arte, della letteratura. Ebbene, questa contrapposizione, lungi dal costituire un'eccezione nel panorama culturale e politico dell' epoca, trovava una piena consonanza con la parallela denuncia liberale del radicalismo scaturito dalla Rivoluzione francese e con la difesa dei privilegi della proprietà e della cultura enunciata da autori come Tocqueville e Constant44, Nell'ultima fase della sua vita cosciente, poi, Nietzsche era arrivato a contrapporre alla ribellione delle classi subalterne, di questi moderni schiavi salariati la cui unica ragione di vita era il lavoro e il fardello della riproduzione sociale, la fondazione di un «partito della vita»4> che avrebbe dovuto rappresentare il fronte del «radicalismo aristocratico»: il partito dei ben riusciti e di quei potenti, dunque, che non si sentono in colpa per il proprio rango gerarchico né si vergognano di ribadirne la legittimità naturale. Nell'appello dionisiaco rivolto al superuomo, nelle fantasie ellenizzanti di «reintroduzione della schiavitù»46 in Europa o in quelle positivistiche ed eugenetiche di «allevamento» di una razza di servi separata da quella dei signori, commentava Losurdo, è impossibile non riconoscere un programma " Ivi, p. 317 sgg. ◄s Cit. ivi, pp. 366-67. •6Ivi, pp. 412 e 651.

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LA RESA DEI CONTI CON n, LIBERAIJSMO

politico che costituiva nulla di più che una «drastica radicalizzazione» 47 delle stesse posizioni liberali, le quali chiamavano in quegli anni alla sottomissione aperta sia delle masse popolari che dei popoli coloniali. Così come va riconosciuto in essi l'invito, rivolto alle classi dominanti, a lasciarsi alle spalle le remore e i freni inibitori della morale da gregge del cristianesimo e del razionalismo universalistico e a rispondere alla sfida delle classi subalterne e delle razze inferiori non con il compromesso e la democrazia concertata ma con il conflitto totale e il cesarismo. Nietzsche, perciò - come poi nel Novecento avrebbe fatto per certi aspetti anche Heideggef4S -, stava lanciando in realtà un preciso monito e al tempo stesso una sfida non tanto al liberalismo in quanto tale, bensì al liberalismo codardo e "degenerato" della propria epoca e cioè a quel liberalismo che sembrava ormai pronto a venire a patti con la rivoluzione o con la democrazia e a prevenirle attraverso massicce concessioni. Ecco che Losurdo tornava a questo punto al cuore del paradosso del liberalismo. Il paradosso, in realtà soltanto apparente, di una teoria e di una prassi politica che si rivelavano attraversate da una lacerazione costitutiva e strutturale tra spinte di «emancipazione» 49 e spinte di violenta «de-emancipazione», secondo una ◄;

Ivi, p. 442. ◄s V. HEID, p . 89 sgg. Sulle affinità e differenze tra l'«antimodemismo radicale» in Nietzsche e Heidegger, cfr. HEID, p. 196 sgg. In Heidegger, la «denuncia... della tradizione rivoluzionaria» troverà «il suo momento più alto di generalizzazione e metafìsicizzazione»: REV, pp. 32-3. ◄9 Cfr. DB, p. 34 sgg.

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Stefa,w G. A.zzarà

coppia categoriale che era già stata proficuamente utilizzata nelle sue ricerche sulla costituzione della democrazia moderna. Il liberalismo, in altre parole, va visto in primo luogo come il movimento di emancipazione degli aristocratici e dei proprietari, i quali in un certo momento storico si sono liberati di ogni tutela da parte di un potere sovrano superiore, dinatura politica o anche religiosa, imponendo all'autorità sovraordinata una costituzione da essi ispirata. Questa emancipazione, però,non andava a coinvolgere la totalità sociale: al contrario, essa si rendeva anzi possibile proprio in quanto escludeva tutta una serie di gruppi subalterni - ceti popolari, servi, schiavi e popoli coloniali - e consentiva finalmente ai veri "liberi" quella netta distinzione dal volgo che la comune soggezione al sovrano, livellando la società, aveva sino a quel momento ostacolato. Per questi ultimi gruppi, tutto al contrario, era in procinto di arrivare invece una vera e propria ondata di de-emancipazione, perché su di essi si riversava da quel momento la libertà d'azione degli interessi superiori di ceto non più sottoposti ad alcun vincolo, né politico né tantomeno cultural-religioso. Siamo in presenza, perciò, dell' «autonomizzarsi ... di coloro che già god[eva]no del riconoscimento, dicoloro che aspira[va]no a configurarsi come la comunità ovvero la casta degli uomini liberi»50, e cioè di una «società civile», che non è mai stata un campo neutro ma «[poteva] essere di volta in volta egemonizzata dalla borghesia ovvero dall'aristocrazia terriera, oppure [po-

so CL, p. 316.

68

LA RESA DEI CONTI CON n, LIBERALISMO

teva] essere caratterizzata dal compromesso tra queste due classi». Alla luce di queste considerazioni, il liberalismo doveva essere identificato allora, per Losurdo, non con la limitazione del potere in quanto tale ma con una riconfigurazione dei rapporti di potere sulla base di una precisa delimitazione tra riconosciuti e non riconosciuti51. Tra i primi, i quali si erano emancipati dal potere assoluto del monarca, si dispiegavano a quel punto rapporti sociali sempre più liberi e tendenzialmente paritari, all'insegna di un individualismo orgoglioso della propria autonomia che si era reso libero da ogni coercizione, tanto da parte dei pari, tanto da parte di un potere superiore quale lo Stato (cui veniva attribuito un compito di polizia ma era negato ogni diritto di intervento nella sfera della società civile, qualora questo fosse rivolto a una perequazione degli squilibri sociali). Lo stesso non si verificava però peri secondi, per i non riconosciuti, i quali non solo non acquisivano nessuno dei nuovi diritti liberali, né quelli civili né tanto meno quelli politici, ma all'antico potere vedevano ora sostituirsi o sommarsi una nuova forma di dominio non meno oppressiva, un dominio che giungeva sino alla «reificazione»52 o alla «despecificazione su base naturale>Y'. Quanto accadeva a questi gruppi sociali non costituiva però un problema nemmeno percepibile per l'autocoscienza liberale di quell'epoca, in quanto alle spalle della loro discriminazione agiva una distin51

52 S$

Ivi, p. 180 sgg. Cfr. DB, pp. 24-6. CL, p. 298. REV,p. 67.

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zione drastica tra uno «spazio sacro».5 4 inteso come l'ambito dei pari, dei ben nati che si riconoscevano tra loro e che tra loro sviluppavano relazioni liberali, e uno «spazio profano» belluino e intrinsecamente lacerato dal conflitto e dal negativo, nel quale il problema della libertà non si poneva neppure. Hic sunt leones, dunque, e chi si collocava in quest'ultimo ambito - lavoratore manuale, servo, contadino, donna, indiano, nero, coolies cinesi, oppure oggi i cosiddetti Rogue States, gli arabi e la manodopera extracomunitaria a basso costo - non poteva e non può, né di fatto né di diritto, esser detto "libero". È per questo motivo che le molteplici «clausole di esclusione».55 che tenevano fuori dal mondo della libertà la vasta massa dei subalterni, definiti sul piano sociale come su quello nazionale o razziale, sono state per secoli per il pensiero liberale un problema inconsistente. Ed è per questo, ad esempio, che così a lungo nei paesi europei e nella stessa Inghilterra ha potuto resistere ed essere apertamente rivendicata la «restrizione censitaria»56 del suffragio. Ciò che andava assolutamente salvaguardato era in primo luogo lo spartiacque tra spazio sacro della distinzione e spazio profano degli ignobili che sono privi di soggettività e di fatto indistinguibili tra loro. Ogni tentativo di far saltare questo litnes, o soltanto di ridefinirlo forzandone i confini e aprendolo all'inclusione dei gruppi sociali ed etnici de-emancipati, costituiva in questa prospettiva CL, p . .305. ss PECC, p. 19. 54

s6 DB, p. 12 sgg.

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un'indebita intromissione nella sfera politica di tematiche sociah allotrie5 7 e comportava una crisi dell'ordine vigente tale da dover essere prevenuta e sventata con la massima cura. Nessun riconoscimento poteva trovare la rivendicazione da parte degh esclusi di una universalizzazione della liber tà liberale: tutti i movimenti e le lotte per la conquista dell'inclusione e dei diritti del cittadino moderno andavano invece stroncati col pugno di ferro come aggressioni illegittime alla libertà dell'unica soggettività che il liberalismo conosceva: quella dell'individuo proprietario, bianco e maschio. A tal fine, quello stesso pensiero che così accuratamente aveva delimitato il campo di intervento del potere politico espellendolo dalla sfera privata e che aveva affermato il principio della sovranità della società civile e dell'individuo, era perfettamente in grado di trasformarsi nel proprio opposto. Ed ecco che nei confronti della «zavorra»58 dei pellerossa e dei popoli coloniah in generale potevano essere tranquillamente teorizzati e praticati la guerra totale e il genocidio, così come nei confronti degh «strumenti umani» neri potevano essere esercitate la compravendita e la schiavizzazione, o verso l' «agente patogeno» ebraico poteva essere conCL, pp. 186 sgg. Sulla delimitazione tra spazio sacro della civiltà e spazio profano della barbarie cfr. REV, pp. 174-78, in cui si mostra come questo atteggiamento sia radicato nella cultura occidentale sin dai tempi della filosofia greca classica. 58 RAZZ, pp. 111-5, 122-4, 129, 147. Cfr. REV,pp. 205 sgg. e 251 sgg. Sulle diverse forme di discriminazione degli ebrei nella storia dell'Occidente - «antigiudaismo», «giudeofobia», «antisemitismo» - v. GIUD,passim, in cui si contesta la tesi cara a Poliakov dell' «antisemitismo eterno». 57

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dotta una spietata opera di estirpazione. Ecco, inoltre, che i maggiori pensatori liberali, come tutte le classi dirigenti politiche liberali, si sono dimostrati sempre disposti ad affrontare lo stato d'eccezione attraverso la sospensione immediata del governo della legge e l'instaurazione di un forte potere di tipo personale e dispotico, sino all'invocazione del «cesarismo» e della «dìttatura»59, senza preoccuparsi troppo del pluralismo. Se la messa in discussione della schiavitù ha avuto come conseguenza un conflitto sanguinoso tra bianchì come la Guerra di Secessione, non c'è da stupirsi allora che le lotte dei ceti subalterni nell'Europa del XIX secolo siano state fronteggiatemedìante una repressione militare e poliziesca che violava tanto la libertà politica quanto quella privata e che quanto mai numerosi siano stati i colpi di Stato teorizzati o praticati dalle forze liberali al fine di arrestare le crisi rivoluzionarie che di volta in volta si susseguivano60• Anche in caso di una conflittualità acuta tra le nazioni appartenenti al medesimo spazio sacro, del resto - come dimostra l'esperienza delle due guerre mondiali - i liberali non hanno mai obiettato nulla dì fronte alla necessità dì un'irreggimentazione totale o totalitaria61 della società civile. Un'irreggimentazione che non è arretrata nem9

CL, p. 248 sgg. Cfr. DB, pp. 66 sgg., 97-ll6, 172 sgg. DB, pp. 35, 91-5, 157. 61 Losurdo denuncia il significato tutto ideologico del termine «totalitarismo», utilizzato a partire dalla Dottrina Truman per assimilare nazismo e comunismo di contro alla democrazia liberale, e riconduce la genesi delle istituzioni totali alla tradizione coloniale dell'Occidente e degli stessi paesi liberali: v. REV, p. 188 sgg. e, in generale, PECC, passim. '

60

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meno di fronte alla sospensione del diritto e all'introduzione di misure come i campi di concentramento o la deportazione 62 e che si è ripetutamente fatta forte, in spregio di ogni presunto "individualismo" liberale, della celebrazione entusiastica della «Genzeinschaft»63 e del «destino» 64 della patria, sollecitando la fusione organicistica dell'intero sociale nella «mobilitazione totale» ogni qual volta tutto ciò è stato ritenuto utile. Un allargamento dello spazio sacro, semmai - è questa una significativa spaccatura nell'ambito del movimento liberale, che ad un ceno punto ne determinerà un salto evolutivo -, avrebbe potuto essere effettuato legittimamente secondo i liberali non mediante un'autonoma forzatura dal basso operata dai settori sociali esclusi o dalle nazionalità oppresse ma solo attraverso una selettiva cooptazione dall'alto operata da parte delle stesse classi dirigenti65, Le élites hanno aperto gradualmente le porte della libertà a determinati gruppi solo quando non hanno più potuto fame a meno, oppure quando ciò si è reso necessario per compattare il corpo della nazione o, ancora, per ritrovare l'unità dei popoli bianchi contro la barbarie extra-occidentale. Anche in tal caso, l'inclusione delle 62

V. REV, pp. 183-84.

63

HEID, p. 41. Il concetto chiave di tutte le teorie organicistiche e antimodeme, quello di «comunità», nasce in realtà in ambito liberale: Gentz traduce con «Gemeinschaft» la «partnership» esaltata da Burke nelleRiflessioni suluz R.ivolu:i.ionefrancese, V. HEID, pp. 191-93. 6" HEID, pp. 4 e40. DB, p. 165. 6 ' Sulle spinte «radicali» dal bassov. CL, p. 167. Sull'evoluzione del liberalismo v. ivi,pp. 277-81.

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classi subalterne è sempre avvenuta però per lo più in maniera passiva, mediante l'elaborazione di «un nuovo modello di controllo politico e sociale» 66, il bonapartismo, che consentiva ai leader politici del momento di dominare carismaticamente le masse e controllarle. Il bonapartismo è sempre stato accompagnato, inoltre, da meccanismi elettorali di tipo maggioritario, volti a decapitare l'autonomia dei partiti socialisti e radicali e a neutralizzare preventivamente la fonnazione di eventuali maggioranze di estrazione popolare attraverso la neutralizzazione de facto del principio individualistico "una testa, un voto"67, Questo movimento di "emancipazione passiva" si è associato poi il più dellevolte al rilancio dell'espansione coloniale oppure a guerre tra gli stessi paesi liberali, e cioè a episodi di crisi che di volta in volta hanno messo in discussione e alterato i confini internazionali vigenti dello spazio sacro. L'emancipazione controllata delle masse poteva così rovesciarsi alla bisogna in f onne di nazionalismo aggressivo e sciovinistico, nel contesto di uno sfrenato «pathos dell'Occidente e della civiltà»68 che - e in questo i più insospettabili pensatori liberali si sono spesso rivelati sorprendentemente affini a un filosofo vicino sino all'ultimo al nazionalsocialismo come Heidegger69 - esaltava la guerra e i suoi riti di «vicinanza alla morte»70 come elemento privilegiato

"DB,p. 60. 67 DB, pp. 55 sgg. e 196 sgg. 68 HEID, p. 68. 69 Ivi, p. 150 sgg. 70 Ivi, p. 10.

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di identificazione della comunità nazionale. E' stata la manifestazione di un pathos crudele, che si è per lo più nuu·ito di bellicosi miti delle origirù dal carattere fondamentalistico e ha prodotto teorie del complotto assieme a deliranti visioni naturalistiche, psicopatologiche e persino razziali del conflitto tra Statii1: l'ideologia di un nazionalismo imperialistico che si è realizzata nella drastica de-emancipazione e sottomissione di altri popoli e paesi, cui poteva essere di volta in volta contestata e negata a piacimento della potenza egemone quella stessa appartenenza allo spazio sacro riconosciuta in precedenza (è quanto accade ancora oggi con il primato planetario degli Stati Uniti, un paese che si riserva il privilegio di definire ciò che è bene e ciò che male, chi è civile e chi barbaro). Insomma, studiato nella prospettiva di una revisione storica, il liberalismo si presentava secondo Losurdo come «l'autocoscienza di una classe di proprietari di schiavi o di servi»n, la quale agli esordi dell'epoca capitalistica ha rivendicato «contro il dispotismo monarchico e il potere centrale ... l'autogoverno e il godimento tranquillo della sua proprietà (compresa quella in schiavi e servi), il tutto all'insegna del governo della legge». Al contrario di quanto sostiene la vulgata auto-apologetica, esso va considerato allora anzitutto come «la tradizione di pensiero che con più rigore ha circoscritto un ristretto spazio sacro» destinato ai pochi che potevano essere considerati effettivamente liberi. In esso - che risulta in ciò erede di un atteggiamento ;i

Ivi, p. 93 sgg.

;2

CL, p. 305.

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fonemente radicato nelle forme ideologiche della cultura occidentale già a panire dal Vecchio Testamento - ciò che più conta non è dunque «la celebrazione della libenà o dell'individuo» in quanto tale, come oggi viene pressoché unanimemente ritenuto, ma la «celebrazione di quella comunità degli individui liberi che definisce lo spazio sacro» e che si distingue così sempre più da quegli individui e da quelle comunità o Stati nazionali che sono relegati nello spazio profano.

5. Lùniti e i ,neriti del liberalis,no: verso la de1nocrazia 1noderna Proprio a questa altezza cominciamo a vedere come negli ultimi lavori di Losurdo siano sfociati, intrecciandosi, motivi diversi che hanno in realtà attraversato sin dall'inizio tutta la sua ricerca per vie parallele. Non siamo di fronte a una requisitoria manichea che si colloca sul piano della polemica ideologica ma a un tentativo di comprensione concettuale integrale sul piano storico-politico. Proprio per questo, pur nel suo andamento impietoso, la dissezione dei movimenti reali che hanno accompagnato lo sviluppo del pensiero liberale non ha condotto mai e in nessun caso Losurdo a misconoscere o a criminalizzare questa tendenza. Né mai la sua comparatistica è giunta a rigettarne i «meriti»i>, l'originalità e la ponata progressiva. Se pure per certi aspetti il liberalismo si è configurato in nwnerose circostanze come un movimento ;s lvi, pp. .3.36-.39.

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reazionario, come una rivolta degli egoismi di classe o di nazionalità o di razza contro ogni controllo e limitazione da parte di quel potere superiore che si poneva il compito di una regolazione generale della società, nel complesso esso non può essere in nessun modo ridotto a questa dimensione. Non solo questa tradizione ha dimostrato «una straordinaria duttilità» e capacità di modernizzazione, cosa che le ha consentito di sconfiggere ogni avversario e di giungere vittorioso sino a noi. Non solo ha dimostrato un grande realismo, a partire dal riconoscimento epistemologico di quella natura intrinsecamente contraddittoria della realtà sociale che si esprime nella «competizione tra gli individui nell'ambito del mercato, ai fini dello sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive». In realtà, riconosceva Losurdo, quella liberale è stata la tradizione politica che come «nessun'altra» ha pensato «il problema decisivo della limitazione del potere». Di per sé, «la conquista dell'autogoverno da parte della società civile ha [avuto] una reale portata rivoluzionaria»74 ed è da intendere come una tendenza progressiva. «Liberatisi da un potere arbitrario», infatti, «i membri della classe giunta al potere si garantiscono reciprocamente la libertà e il rispetto delle regole, con l'edificazione dello Stato costituzionale e l'avvento del liberale governo della legge», fondando un ordinamento che mai aveva avuto luogo in precedenza e che ha costituito un'acquisizione decisiva non solo per coloro che ne hanno tratto giovamento nell'immediato ma per l'umanità nel suo complesso. Si tratta perciò innegabilmente "lvi,p. 304.

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di uno dei punti più alti della storia umana, al punto che qualunque tendenza politica si sia posta il problema di un superamento del liberalismo non ha potuto prescindere dal concomitante compito di ereditarne le acquisizioni. Cosa che - come vedremo -il comunismo novecentesco non si è dimostrato in grado di fare. Nonostante le obiezioni dei critici, dunque, costante era nella Controstoria e nei testi di quel periodo il riconoscimento dei «reali punti di forza»75 del liberalismo. Altrettanto costante, però, era una duplice constatazione, che possiamo spiegare con l'approccio filosofico di Losurdo alla storia. In primo luogo, Losurdo contestava l'idea di un'evoluzione puramente «lineare»16del liberalismo da una preistoria ancora rozza e incompiuta, nella quale potevano essere giustificate le clausole d'esclusione che abbiamo appena ripercorso, sino a una sua modernità pienamente dispiegata, nella quale si sarebbe assistito al trionfo della libertà liberale generalizzata. L'analisi storica confuta in realtà nel modo più assoluto questa apologetica. La storia che ha condotto da Locke al liberalismo democratico del Novecento (il quale ultimo ha costituito comunque solo una parte minoritaria del liberalismo stesso e solo un suo momento storico particolare) non si è sviluppata in continuità ma è si è frammentata in un susseguirsi contraddittorio di movimenti progressivi e regressivi, in un «intreccio» indissolubile di spinte di emancipazione e di altrettanto drastiche ricadute de-emancipative. Tante volte il liberalismo è ;s Ivi, p. 339. ;, DB, pp. 34-5.

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arrivato a pensare e realizzare l'ampliamento della sfera dei diritti e delle libertà nei confronti dei gruppi subalterni e delle razze escluse, altrettante volte esso, di fronte alla contingenza storica e allo stato d'eccezione, si è dimostrato privo di scrupoli nel rimetterlo in discussione e nel revocarlo, fino a «tornare» a quel «"liberalismo puro"» che non va confuso in alcun modo con il più tardo «"liberalismo democratico"»77• In particolar modo, tutta la prima parte del Novecento è stata attraversata dal tentativo ricorrente di ricacciare indietro su scala planetaria le spinte di emancipazione degli esclusi, tanto per quanto riguarda la pressione delle classi lavoratrici verso una piena inclusione sociale, quanto peri movimenti di liberazione nazionale dei popoli coloniali. Un tentativo - che ha costituito il proseguimento dell'esperienza coloniale con altri mezzi e che dalla guerra totale imperialistica ha condotto alle guerre e alle istituzioni totali del XX secolo - nel quale il liberalismo maggioritario si è trovato però completamente compromesso, al punto di poter essere annoverato tra i principali corresponsabili dello scatenamento della cosiddetta «Seconda guerra dei Trent'anni>:,78 • In secondo luogo, anche l'idea di uno «sviluppo spontaneo dal liberalismo in direzione della democrazia»79, sostenuta con passione tra gli altri da Norberto Bobbid3°,

;7

REP, pp. 38-9. Cfr. DB, pp. 101 sgg., 130 sgg., 162 sgg.

;s PECC, p. 36. Per una discussione di questa categoria v. REV, p. 135 sgg. 79 DB, p.46. so V.

N. Bobbio, Il futuro della democr(l)'.Ìa, Einaudi, Torino

1984.

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risultava secondo Losurdo errata. Lungi dal dimostrare un processo di maturazione immanente, che lo avrebbe portato pian piano a liberarsi da sé delle clausole d'esclusione che lo avevano caratterizzato sin dall'inizio, il liberalismo è evoluto unicamente attraverso l'urto con l'esterno, con l'altro, con la realtà storico-sociale e politica. Non è stato il dispiegarsi coerente di un'idea ciò che si è verificato, insomma, ma lo scontro drammatico con la durezza dell'oggettività costituita dal governo degli uomini e delle cose e dal conflitto con altri interessi e altre istanze politiche. A partire dalla sua genesi storico-sociale determinata, il pensiero liberale ha scontato sin dall'inizio della sua parabola un'irriducibile refrattarietà a pensare in maniera compiutamente universalistica. La cesura tra spazio sacro e spazio profano, che è costitutiva del suo statuto epistemologico, non gli ha mai permesso di pensare fino in fondo i diritti e le libertà, che esso ha percepito sempre e unicamente come diritti e libertà parzialz': non più come privilegi aristocratici, certo, ma comunque esclusivamente propri di coloro che godono del riconoscimento, dei soli membri della comunità dei liberi, al punto che Losurdo è arrivato a contestare a questa teoria - esattamente all'opposto di ciò che oggi è ritenuto ovvio - di «ignora[re] del tutto la figura dell'individuo moderno come soggetto autonomo di diritti» 81! L'atteggiamento ostile del liberalismo di fine Settecento nei confronti della Rivoluzione francese e soprattutto la sua avversione verso i principi generali da 81

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DB, p. 48.

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questa affermati, in particolare, dimostravano a suo avviso come all'epoca esso non avesse affatto ancora conseguito nella sua concretezza quel concetto universale di uomo che, solo, può essere il fondamento di una reale riflessione sulla libertà umana. C'era e c'è senz'altro tutt'ora nel liberalismo, si può dire, la forma dell'universalità; ma questa forma è rimasta a lungo un'esigenza priva di contenuto, perché priva di quel soggetto - l'uomo in quanto tale - che avrebbe dovuto esserne il portatore. Solo il conflitto, solo l'incontro con il negativo, e cioè con la reale presenza degli esclusi e delle loro rivendicazioni, ha costretto ad un certo punto la tradizione liberale, ormai «contaminata dalle lotte del movimento democratico e socialista»s2, ad aprirsi. È stata una dialettica oggettiva, dunque, una dialettica inscritta nella realtà, ciò che ha condotto questa scuola a dividersi al proprio interno e a riemergere con scandalo o insoddisfazione di non pochi liberali conservatori - nelle forme del liberalismo "democratico" al quale ci siamo via via abituati. E questa dialettica è quella storia che lo ha opposto da un lato al radicalismo politico e sociale sorto nel corso della Rivoluzione francese e poi al socialismo vero e proprio, dall'altro alle lotte di emancipazione dei popoli coloniali. 1, denunciava ad esempio il fallimento finale di questo «intellettuale borghese d'avanguardia» proprio nel suo mancato incontro con il «movimento rivoluzionario del proletariato», degli «esclusi» e «sfruttati» dalla ratio capitalistica, lamentando al tempo stesso la sordità della cultura socialista o comunista di impostazione hegeliana, moralista e lavorista, e auspicandone un rinnovamento. Né diversa, in fondo, era la prospettiva di ricerca su tutto il «pensiero negativo» avanzata da Massimo Cacciati in Krisis 2 , o quella di Mario Tronti3•

G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il probl.ema della liberazione, Bompiani, Milano 1974, pp. 236 e 184-85. 2 M. Cacciari, K.risis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976. 3 M. Tronti, Sull'autonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977. 1

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Mentre queste interpretazioni prevalentemente filosofiche si diffondevano, e mentre la reiterata retorica dell"'inattualità" di Nietzsche veniva assorbita anche dalla cultura di massa, alcuni storici stavano proponendo però un approccio completamente diverso. Sostenevano, cioè, che la Lebensphilosophie e il positivismo socialdarwinistico, assieme al ribellismo di ispirazione nietzscheana, fossero stati alla fine del XIX secolo non una raffinata eresia nell'oceano del conformismo e del moralismo borghese ma una vera e propria forma di autocoscienza egemone tra le classi dominanti europee. Uno strumento «immensamente significativo e prezioso per le élites impegnate nella riaffermazione del proprio dominio», ovvero «la fonte congiunta, spirituale ed intellettuale [. .. ] che sullo scorcio dell'Ottocento dette il via alla campagna per preservare o rinvigorire l'ordinetradizionale»4. E cioè l'ordine di quel blocco sociale delle classi dominanti aristocratico-borghesi nel quale conservatorismo e liberalismo si erano compenetrati dopo il 1848. Lungi dal costituire una critica sistemica insomma, come molti a sinistra ormai ritenevano, le «teorie delle élites» di cui Nietzsche è stato capostipite «rispecchiavano, e razionalizzavano» in realtà in maniera evidente, secondo Arno]. Mayer, «prassi di dominio correnti»5. Era una rilettura attenta alle basi sociali dell'ideologia e che stava molto a cuore anche a Norbert Elias, per il quale proprio Nietzsche rappresentava la figura • AJ. Mayer,Jl poteredell'Ancien Régimeftn-0 alla Primague"a mondiale, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 271. 5 Ivi, p. 264.

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maggiormente espressiva della riconfigurazione ideologica di quel periodo storico. Nietzsche incarnava, in questo senso, la tipica forma dell'autocoscienza della società gugliehnina e del suo autoriconoscimento portato sino al radicalismo più estremo - nei valori dell'ordine dommante. «Ciò che Nietzsche predicava così rabbiosamente e a gran voce, come se fosse qualcosa di nuovo e straordinario», scriveva a questo proposito il sociologo tedesco, «in sostanza non era che la verbalizzazione di una strategia sociale molto antica»6. Egli non faceva che portare a coscienza erivendicare, attraverso le forme trasfigurate di un nuovo mito filosofico-politico, i fondamenti ideologici di quel blocco sociale europeo dommante nel quale un ruolo notevole avevano mantenuto la tradizione e l'eredità della mentalità, dei valori e degli schemi di comportamento dell'aristocrazia. Posizioni come «il disprezzo per i deboli e i falliti», o «il grande valore attribuito alla guerra», erano in realtà atteggiamenti consustanziali all'ethos guerriero. Valori che erano andati via via "civilizzandosi" nella prassi di governo dell'aristocrazia e che Nietzsche invece recuperava, estremizzava ed elevava «ad un livello ancora superiore di generalizzazione», trasformandoli addirittura «in un imperativo ancor più universale». In una sorta di contro-morale socialdarwinista che desse orgoglio e sicurezza di sé ai conservatori come ai liberali, depressi per l'ascesa delle masse, e preludesse alla rimobilitazione integrale del vecchio ordine in vista della controffensiva finale. 6

N. Elias, I tedeschi. Lotte di potere ed evoluzione dei costumi nei secoli XIX e XX, il Mulino, Bologna 1991, pp. 130-33.

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Per Elias, Nietzsche non inventava nulla di realmente nuovo, dunque, ma rifletteva, elaborava e conduceva a una sintesi superiore lo spirito di quell'alleanza di ceti ai quali era organicamente collegato. La sua proclamazione del diritto del più forte e la sua celebrazione della violenza civilizzatrice, «ben prima di essere espresse concettualmente ad un livello più alto, erano già presenti nel costume sociale», in quanto valori condivisi di un ethos e criteri della pratica sociale. Ben più profondo di quanto molti degli attuali interpreti postmoderni vedano era il «legame della sua esaltazione della forza e della volontà di potenza con gli avvenimenti dell'epoca». Cogliendo in maniera brillante le conseguenze ideologiche dello Zeitgeist sul proprio blocco sociale di appartenenza, Nietzsche in realtà «esprimeva, in forma riflessa e sul piano della più elevata universalità filosofica» nient'altro che le linee di sviluppo fondamentali della società guglielmina, a loro volta esito finale del filtraggio di «forme di comportamento e di valutazioni che fanno parte degli elementi costitutivi dell'esistenza sociale di molti gruppi guerrieri dell'umanità». In particolare, egli era la figura espressiva di quella fase determinata dello sviluppo storico europeo caratterizzata dall' «accoglimento da parte di ampi spazi sociali borghesi del suo tempo di un codice guerriero, di cui all'inizio erano portatori i nobili». Un assorbimento nel quale i borghesi si andavano distinguendo proprio per il tipico «zelo dei neofiti» con cui elevavano questo ethos, facendone «una dottrina nazionale borghese» o addirittura «una dottrina filosofica universale» che segnava una sorta di programmatico

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distacco dalle precedenti istanze culturali, morali e universalistiche della borghesia stessa. Tematizzato sino a quel momento soltanto di passaggio e in maniera del tutto insufficiente, proprio questo legame organico tra il pensiero di Nietzsche e i complessi processi storico-politici di trasformazione della società europea di fine Ottocento - un legame che come si può vedere chiama inevitabilmente in causa anche il rapporto tra il nietzscheanesimo e più in generale il conservatorismo radicale da una parte e il liberalismo coevo dall'altra - ha costituito invece il tema centrale dell'imponente studio che Losurdo ha dedicato al grande filosofo tedesco, pubblicato nel 2002. Mostrandoci «la consonanza del suo discorso con lo spirito del tempo»', Nietsche. Il ribelle aristocratico ha tratto le conseguenze del discorso di Mayer e di Elias. E ha cercato di mostrare dal di dentro la cultura, la visione del mondo e persino la mentalità del blocco dominante aristocratico-borghese- liberale e conservatore ad un tempo - alle prese con i nuovi problemi posti dal sorgere della società di massa e dall'avanzata delle classi subalterne organizzate, ma anche con i problemi legati alla gestione del mondo colonizzato in via di sollevazione. Lo ha fatto, oltretutto, riconoscendo a Nietzsche, da una prospettiva storico-filosofica, quella «eccedenza teorica» (893) e quell'effettivo rango di pensiero che Mayer o Elias, in un'ottica prevalentemente storiografica o sociologica,

1

NIET, p. 665; d'ora in avanti i riferimenti di pagina saranno indicati tra parentesi nel testo.

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non erano stati capaci di cogliere o avevano finito per sottostimare. Si trattava in ogni caso di una proposta interpretativa spiazzante rispetto alle più consuete ricezioni del pensiero di Nietzsche. Per confutare il grave equivoco che obbligava gli interpreti a forzare sempre più in chiave "metaforica" i testi nietzscheani e a reinterpretarli in chiave individualistico-libertaria o addirittura rivoluzionaria e per impostare una lettura più realistica, non era necessario né utile infatti, per Losurdo, ricordare banalmente l'uso che di quel pensiero era stato fatto durante la stagione del nazismo; né era utile riattualizzare un'interpretazione pur importante come quella di Lukacs, i cui presupposti- la decadenza ideologica della borghesia e l'inarrestabile avanzata del movimento operaio in Europa - si erano rivelati del resto caduchi. Ciò che per Losurdo si mostrava indispensabile, piuttosto, era una rigorosa contestualizzazione storica: leggere Nietzsche direttamente «nel suo tempo» (.3), diceva, significa mantenere un costante riferimento tra una filosofia presunta inattuale e le concrete trasformazioni che nella seconda metà dell'Ottocento animavano la storia mondiale, nonché ripercorrerne l'evoluzione alla luce dell'intero dibattito filosofico e ideologico nel quale Nietzsche era rmmerso. Era l'unica metodologia corretta, a suo avviso, per afferrare dawero l'importanza di questo filosofo, la cui indiscutibile grandezza -che non necessita di 1naquillages a posteriori - consisteva proprio nell'essersi confrontato, in maniera originale, con tutte le principali contraddizioni storico-politiche della propria epoca, cogliendone

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le tendenze di fondo e elaborando un ambizioso progetto di superamento integrale della modernità. Grazie a questo cambio di prospettiva, scopriamo allora che il problema di Nietzsche era in realtà quello che un'intera epoca storica poneva alle classi dirigenti di tutta Europa. Il blocco delle élites al potere - nel quale l'aristocrazia aveva ormai cooptato la grande borghesia - si trovava di fronte alle conseguenze di quell'imponente processo di emancipazione generale che era stato innescato dalla Rivoluzione francese e portato avanti dal movimento socialista organizzato; l'epoca delle masse era iniziata e l'avanzata della democrazia moderna, come democrazia politica ma anche economica e sociale, appariva inarrestabile: come sventare il pericolo di uno sconvolgimento radicale di quegli ordinamenti che storicamente avevano garantito l'intangibilità della proprietà privata e il dominio dei ceti fino ad allora privilegiati, all'interno della nazione ma anche su scala planetaria? Il liberalismo europeo da quel momento si divide e sperimenta nuove strade. Essendo ormai inane la difesa conservatrice dell'esistente, non restava forse che il compromesso con le nuove classi sociali, attraverso una «rivoluzione dall'alto» (555) che tenesse conto dei nuovi rapporti di forza e sviluppasse meccanismi di inclusione delle masse e di assorbimento omeopatico dei loro gruppi dirigenti. E però, identificando la democratizzazione con la fine della stessa civiltà europea, significativi settori del liberalismo non accettavano affatto questo scenario e si orientavano - tutt'al contrario di quanto oggi viene per lo più ritenuto - peruna controffensiva in grande stile, forse disperata ma destinata a rivelarsi vitale ed efficace. Si orientavano, cioè, per il

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progetto di una «rivoluzione conservatrice» (892) o di una «reazione aristocratica» che, lungi dall'accettare mediazioni, sfidasse i processi di emancipazione sul loro stesso terreno: quello della politica di massa, del cesarismo plebiscitario, dell'agitazione sciovinistica e colonialista, persino dello stile rivoluzionario. E' a quest'altezza, ben immersa nel suo tempo e tutt'altro che "inattuale", che si è dipanata la filosofia di Nietzsche. Un pensiero che era stato dunque «totus politicus» (897), commentava Losurdo, e che, sin dal confronto terrorizzato con la Comune di Parigi e attraverso configurazioni anche molto diverse, aveva trovato il proprio cuore «nella critica della rivoluzione» (19.3). Affinché ci sia civiltà, è necessario che la maggioranza degli uomini sia impiegata nella produzione, liberando così dal lavoro l'élite di quei pochi individui pienamente umani che sono capaci di vera creazione. L'epoca del «nichilismo europeo» (9.38) e della «decadenza», l'epoca della fine del genio e delle individualità eccezionali, dunque, era in realtà per Nietzsche in primo luogo proprio l'epoca terribile della rivoluzione e dell'avanzata delle masse, l'epoca dell'irrompere dei "nuovi barbari" che assediano i santuari della cultura e della distinzione di ceto. Ma questa orrida «rivolta degli schiavi» (58), che sovvertiva l' «ordinamento naturale» delle cose imponendo il dominio delle masse e la diffusione generalizzata dell'ideologia del lavoro, costituiva a guardar bene il culmine di un processo che era in corso da millenni e che andava smantellato alla radice. Già due millenni prima, la scoperta socratica del concetto aveva individuato sul terreno della comune ragione i fondamenti logici dell'eguaglianza umana.

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Non diverso era stato l'esito della carica universalistica insita nel profetismo biblico, per non parlare della predicazione d'amore e fratellanza del Cristianesimo. Riconducendo a unità i fili dispersi nell'opera del filosofo tedesco, Losurdo ha mostrato perciò come non solo alcuni segmenti ma l'intera storia della cultura europea e della formazione dei suoi sentimenti morali, la storia dello stesso concetto di umanità, fosse per Nietzsche egemonizzata dal ressentitnent e dall'invidia plebea dei malriusciti, i quali hanno castrato la superiore volontà di potenza dei dominatori attraverso l'induzione del più subdolo senso di colpa. È stato con la modernità, però, grazie anche all'emergere di un ceto di intellettuali di professione fanatizzati dal loro credo criptoreligioso nella ragione universale e nel progresso comune del genere umano, che la rivolta servile si è fatta organizzata, sino a prorompere nella Rivoluzione francese prima e nel movimento socialista poi. Di contro a questa catastrofe dalle radici antiche, non aveva senso dunque, per il «ribelle aristocratico», richiamarsi alla tradizione o alla religione cristiana. Occorreva semmai, spiegava Losurdo, smantellare i freni inibitori che proprio queste ultime barriere religiose opponevano alla controffensiva del "partito della vita", ed elaborare di conseguenza un vero e proprio «contromovimento» (842 e 957) nei confronti della modernità: «una piattaforma filosofico-politica del tutto nuova». L"'immoralista" nietzscheano ribadiva così con coraggio i diritti della gerarchia e mirava a risolvere per sempre, attraverso lemisure più drastiche, la questione del potere posta dalle «guerre socialiste» (1087) all'epoca già in corso: non bisognava più arretrare di fronte all'idea di

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nuove forme di schiavitù, né a programnù eugenetici di «aruùentamento di milioni di malriusciti» (651) e «allevamento» dell' «umanità superiore», né di fronte allo sterminio delle «razze inferiori». Bisognava, piuttosto, contrapporre alla sfida dei barbari salariati come di quelli di colore una determinazione impietosa, capace di sopportare anche il peso del genocidio. Siamo agli antipodi dell'irenismo nietzscheano postmoderno, dunque. E tuttavia è proprio in questo abisso concettuale - oggi abilmente rimosso - che Losurdo ha individuato anche il valore perenne del pensiero di Nietzsche. Nel ricostruire le origini della rivolta che metteva a repentaglio la civiltà occidentale, infatti, Nietzsche è stato costretto a operare un bilancio critico immenso che è arrivato a «mettere in discussione due milleruù di storia» (935). Ha elaborato cioè un progetto filosofico che è grandioso esattamente nella sua portata reazionaria e dunque nella sua capacità di ricondurre a un comune denominatore tutta la storia della sovversione e della tradizione rivoluzionaria. Ed è stata questa capacità di assumere la prospettiva della lunga durata, al fine di denunciare il nesso socratismocristianesimo-socialismo sin nella sua scaturigine, che fa spiccare ancora oggi Nietzsche come un gigante rispetto al ristretto orizzonte della cultura nazionalliberale e teutomane del suo tempo. La classica Kulturkritik tedesca, con il suo rifiuto della modernità e quindi della filosofia hegeliana che la legittimava (massificazione, democrazia, livellamento... ), veniva così condotta al parossismo. Nell'esprimere il fondo oscuro e ancora sconosciuto o occultato di un ritorno alla selva che rappresentava il punto di

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vista estrenùsta di quella parte del blocco liberalconseivatore che non si rassegnava alla democrazia, Nietzsche sapeva però anche ammantare di ribellismo il proprio progetto e, come abbiamo visto, sapeva usare provocatoriamente persino la parola d'ordine della rivoluzione. Ed era perciò capace di criticare - con il cinismo anarchico tipico del Gran Signore - anche le ipocrisie moralistiche della borghesia del proprio tempo, come quando smascherava e rivendicava senza timori la natura imperialista e coloniale di guerre di conquista sanguinarie ma camuffate (ieri come oggi) da inteiventi filantropici condotti in nome della "civiltà", della "morale" o dei "diritti umani". Ciò non toglie, tuttavia, che la critica nietzscheana dell'ideologia, la sua contestazione della falsità dell'universalismo borghese e dei suoi ideali morali, abbia condotto secondo Losurdo non già alla ricerca di un universalismo autentico, pieno e compiuto, ma, piuttosto, alla rimozione di ogni vincolo etico e alla trasfigurazione filosofica della più brutale parzialità insita nella legge del più forte: quella legge che il "popolo dei signori" ha praticato da sempre e continua a praticare, prima contro le classi subalterne e poi contro i "sottouomini" delle colonie. «Il più grande pensatore tra i reazionari e il più grande reazionario tra i pensatori», dunque: la "liberazione" dagli assoluti della metafisica promessa da Nietzsche si rivelava, alla lente del metodo storicomaterialistico della ricerca di Losurdo, come l'elaborazione di un progetto di dominio talmente radicale ed orgoglioso che nemmeno l'epoca terribile che si aprirà con la sua morte sarebbe stata capace di fame pienamente propri gli intenti.

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I.b Ideologia della guerra, pathos dell'Occidente e nazionalsocialismo in Martin Heidegger

Nonostante un annoso e estenuante dibattito, negli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo la questione dei legami tra Martin Heidegger e il nazionalsocialismo aveva trovato un approfondimento storiografico e interpretativo ancora poco soddisfacente e anche le spigolose polemiche suscitate all'epoca dagli studi di Victor Farias avevano confermato un vizio di fondo. Mentre i critici denunciavano le compromissioni del filosofo tedesco limitandosi per lo più a chiamarne in causa le vicende biografiche ma senza riuscire a eviscerare il loro nucleo filosofico profondo, i difensori salvavano invece il maestro facendone una sorta di idiota politico. Un genio ingenuo che - tutto immerso nella superiore purezza della sfera filosofica - sarebbe stato assolutamente incapace di operare valutazioni corrette nell'ambito delle basse faccende terrene e andava pertanto assolto in quanto incapace di intendere e di volere (di quei seguaci che erano arrivati a sostenere

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addirittura un antinazis,no esoterico di Heidegger non è nemmeno il caso di parlare). Con oltre due decenni d'anticipo rispetto alla recente pubblicazione degli Schwarze Hefte, nel suo studio su Heidegger' Losurdo aveva cercato già allora, nel 1992, di sfuggire a questa falsa contrapposizione. Respingendo l'idea che il pensiero possa essere neutrale e svincolato dal contesto storico e sociale nel quale viene generato - ma anche quella secondo cui in tale contesto esso si risolva interamente - , affrontava piuttosto la questione della politicità interna alla filosofia heideggeriana. E lo faceva riconducendo questo nesso al giudizio che il fùosofo tedesco aveva espresso in maniera continuativa sulla realtà storica a lui contemporanea nelle sue contraddizioni oggettive, oltre che alla posizione da lui assunta nei confronti dello sviluppo storico complessivo dell'età moderna. Sappiamo che con la Prima guena mondiale anche i conflitti tra gli Stati europei hanno cominciato a prendere le forme tipiche della guena coloniale e dunque a presentarsi come guerre di tipo totale che richiedevano una mobilitazione altrettanto totale: una totale Mobil1nachung, avrebbe detto ErnstJiinger, della società e delle coscienze. Alla dimensione puramente militare e alla riorganizzazione dell'apparato produttivo a fini bellici essi andavano sommando sempre più perciò, in forme mai viste prima, un'onnipervasiva mobilitazione ideologica. Ebbene, Losurdo faceva affiorare il pensiero di Heidegger esattamente da questo suo contesto più prossimo, a partire da un'analisi del significato e 1

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dei caratteri fondamentali della peculiare «Kriegsideologie» - per usare le parole di Thomas Mann - che si era andata affermando in Germania prima e dopo l'esplosione di entusiasmo nazionalista dell'estate 1914. Non si trattava affatto, precisava Losurdo, di una peculiarità degli Imperi Centrali e dunque di paesi ritenuti estranei al liberalismo e quindi per definizione conservatori o reazionari. Forme specifiche di ideologia della guerra erano state sviluppate con efficacia, durante il primo conflitto mondiale, su entrambi i fronti. Ed esisteva anche una specifica ideologia della guerra liberale, propria dei paesi dell'Intesa, che si era raccolta atto1no al principio dell' «inteiventismo democratico» e all'idea wilsoniana di missione civilizzatrice: la guerra come una Santa Crociata in nome dei diritti universali dell'uomo, capace di sgominare l'eterna Germania militarista e autocratica e di favorire così una sorta di grande «rivoluzione democratica internazionale», imponendo la pace e la giustizia tra i popoli. L'ideologia della guerra tedesca manifestava, di contro, caratteri altrettanto peculiari. In una spirale di radicalizzazione, anch'essa presentava il conflitto in corso come un grande scontro di civiltà, di fedi e visioni del mondo - persino di razze - inconciliabili tra loro. Per questa via, attraverso la celebrazione della guerra e la trasfigurazione dello scontro inter-imperialistico nei termini di un'opposizione tra i «principi del 1914» e le «idee del 1789» (Plenge), veniva affermata non solo la superiorità della civiltà tedesca sulle nazioni avversarie, degli «eroi» sui «mercanti» (Werner Somban), ma veniva anzitutto promossa l'ipotesi di una costruzione alternativa della modernità. Un'ipotesi che rifiutava

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integralmente i processi di emancipazione e democratizzazione connessi all'universalismo, ponendosi nel solco di quelle radicali suggestioni di palingenesi della peculiare civiltà ew·opea che Nietzsche, come abbiamo appena visto, aveva delineato con troppo anticipo sui propri tempi. Losurdo ha esaminato tutti i caratteri fondamentali di questa costruzione ideologica, nella quale Heidegger era immerso dalla testa ai piedi e il cui cardine era costituito dall'idea della nazione tedesca come Ge1neinschaft e cioè come comunità compatta e priva delle lacerazioni interne dovute a uno sviluppo eccessivo e squilibrato. Una comunità i cui membri sembravano godere del miracolo di riconoscersi in una totalità originaria, che li fondeva in una superiore unità dei produttori, conservando però al tempo stesso la loro individualità più autentica. Questa idea non solo copriva il conflitto di classe, rovesciandolo in una forma di integrazione aggressiva delle masse a sostegno dell'impegno bellico, ma reinterpretava lo stesso scontro in atto trasfigurandolo in chiave metafisica o di filosofia della storia. Inoltre - cosa assai importante per comprendere il clima dell'epoca - essa era presente presso il pensiero più esplicitamente orientato a destra ma anche in autori oggi considerati capostipiti del liberalismo europeo, come Max Weber o, ancora una volta, il primo Thomas Mann. L'idea di Ge,neinschaf, come è noto, era stata elaborata - sulla scorta di Tonnies -in opposizione a quella di Gesellschaft. La filistea "società" capitalistico-liberale dei paesi dell'Ovest era esattamente il risultato della disgregazione della "comunità" autentica, provocata

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dell'opera corrosiva dell'econonùa borghese e mercantile, dalla circolazione sregolata del denaro, dai processi repentini di industrializzazione e urbanizzazione. Gli individui atonùsticamente isolati che la popolavano sembravano entrare in relazione tra loro unicamente attraverso rapporti di scambio; essa, nel suo utilitarismo elevato a principio universale, preannunciava perciò la catastrofica affermazione di quella società integralmente materialista e priva di spiritualità che minacciava di realizzarsi nel socialismo e nelle sue rivendicazioni rivoluzionarie. La Gesellschaft era in questo senso il destino di una Kultur, di una civiltà, divenuta succube della follia moderna della ragione astratta, del culto massificante dell'universalismo e dell'egualitarismo. La civiltà socializzata è quella che ha reciso il proprio radicamento nella tradizione originaria del popolo e della nazione ed è decaduta a mera Zivilisation, incremento meccanico di conoscenze, benessere e co,nfort, progresso tecnico senz'anima. Questa società, tutta intenta a produrre beni materiali e a ubriacarsi nei divertimenti di massa, aveva rimosso la dimensione tragica dell'esistenza e eludeva così la presenza costante della contraddizione e della morte. Proprio l'esperienza della vicinanza alla morte sui campi di battaglia, spiegava Losurdo, diventava invece per gli ideologi tedeschi il rito di passaggio capace di forgiare una nuova gioventù germanica e addirittura una nuova umanità. Nel coraggio di fronte alla morte, questa gioventù comprendeva la necessità ineluttabile del "destino" tedesco e si lasciava alle spalle l'egoismo della Zivtlisation borghese e materialista, riscoprendo

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nel cameratismo delle trincee l'unità della autentica Ge,neinschaft e il senso di responsabilità verso la patria e la sua collocazione occidentale. La dimensione di mobilitazione totale della Prima guerra mondiale ha costituito il grande laboratorio del totalitarismo e del regime nazista. Anche sul piano strettamente ideologico, il nazionasocialismo erediterà integralmente i «principi del 1914» e nella sua rozza logica naruralistica e biologistica li radicalizzerà sino ali'estremo, attraverso una declinazione in chiave razziale ispirata ai canoni di un «darwinismo sociale» che, come abbiamo visto, era all'epoca largamente diffuso anche nel mondo liberale. E proprio nella partecipazione alla versione più radicale di questa Kriegsideologie Losurdo ha individuato il contesto che ha consentito l'incontro di Heidegger con il nazismo. All'interno del pensiero heideggeriano degli anni di guerra è rintracciabile infatti la presenza di tutte le idee-chiave della mobilitazione ideologica tedesca. Già in Essere e tenzpo e ancora dopo gli anni del Rettorato a Freiburg, non a caso, proprio le idee di Getneinschaft, di morte e di destino costituivano il cuore di una filosofia dell'esistenza che reagiva anch'essa, pur ad un livello diverso, ai processi di emancipazione della società moderna e ali'emergere di una dimensione sociale di massa. Era un aperto rifiuto della modernità, dunque, che passava attraverso la distruzione consapevole di ogni universalismo al fine di affermare la storicità e la differenza peculiare del popolo tedesco. Una storicità alla quale la stessa conoscenza filosofica e scientifica sarebbero dovute rimanere subordinate.

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Si trattava di un atteggiamento militante (o persino militare), del resto, che ancora una volta non riguardava solo Heidegger ma era massicciamente diffuso nella filosofia europea dell'epoca anche al di là della destra strettamente intesa. Anche un altro autore come Jaspers, ad esempio - riconosciuto dopo la guerra come un campione dell' antinazismo e oggi ritenuto liberale -, condivideva all'epoca le categorie della Kriegsideologie e si era persino infruttuosamente impegnato, a partire da esse, a stabilire un dialogo con il regime hitleriano. Secondo Losurdo, l'ideologia della guerra aveva attraversato però in Heidegger un processo di radicalizzazione che la rendeva estremamente più ambiziosa anche rispetto agli obiettivi contingenti della stessa guerra tedesca: non diversamente da quanto abbiamo visto discutendo il rapporto di Nietzsche con il nazional-liberalismo del suo tempo, lo scontro di civiltà diventava infatti anche per lui l'idea di un superamento integrale dell'età moderna e della relativa visione del mondo. Un superamento che, attraverso un recupero della grecità originaria, avrebbe dovuto un giorno salvare l'Occidente dal tramonto profetizzato da Spengler e da un'imminente bolscevizzazi.one. Il pensiero di Heidegger manifestava qui, al livello metafisicamente più rarefatto, una tendenza da tempo presente nella filosofia tedesca. Losurdo spiegava come sulla scorta dei controrivoluzionari di fine Settecento e soprattutto della lezione di Burke - un altro autore anche oggi assai caro ai liberali-, dopo la crisi dell'idealismo fosse attecchito anche in Germania un filone di pensiero che esprimeva un consapevole rigetto di ogni istanza universalistica. La diffusione di questo

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massiccio «nominalismo antropologico» nato in ambito anglosassone poneva così le premesse per un'esplicita «distruzione del concetto universale di uomo». L'idea di una comune umanità, al di là di ogni differenza di classe, nazione o razza, veniva negata nella rivendicazione della particolarità irriducibile e della storicità peculiare di ciascun popolo e di ciascuna nazione appunto - storica. Allo stesso modo, anche la cultura e l'impegno intellettuale dovevano assimilarsi a una dimensione particolaristica e tutta nazionale che non riconosceva la portata universale della ragione, della libertà e del principio di eguaglianza. Già il nome di Dasein ("Esserci") negava in questo senso in Essere e te111po la realtà di un'essenza universale dell'esistenza umana e rinnovava l'antico rifiuto di quei processi di emancipazione che, muovendo dai diritti universali dell'uomo affermati dalla Rivoluzione francese, realizzavano nel mondo moderno l'istanza egualitaria. Questa idea di una differenza irriducibile delle diverse storicità veniva recuperata però negli stessi anni dall'ideologia nazista, la quale la ripresentava a sua volta nella forma di un aperto conflitto tra le razze per la supremazia mondiale. Un conflitto che poteva essere deciso unicamente dalla vittoria o dalla sconfitta e che avrebbe dovuto condurre all'asservimento dei popoli dimostratisi inferiori. La subordinazione della cultura alla dimensione nazionale sarebbe stata affermata in maniera esplicita da Heidegger a cavallo del suo Rettorato nell'idea del «servizio del sapere». Secondo Losurdo, Heidegger intendeva contestare con ciò l'interpretazione husserliana della filosofia e della scienza intese come dimensioni

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teoretiche fondate su una razionalità pura che supera ogni barriera nazionale e allarga il concetto di umanità e dunque irrimediabilinente /reischwebend, sradicate (pensiamo alle riflessioni sulla crisi delle scienze europee). D'altro canto, Losurdo fa notare come anche in autori che nulla hanno a che vedere con il nazismo - come il già ricordato Weber e persino nello stesso Husserl da Heidegger criticato - questa istanza universalistica fosse in realtà assai dubbia, perché pesantemente inficiata a monte da una granitica prospettiva eurocentrica o occidentocentrica. Una prospettiva che riconduceva inesorabilinente l'ampiezza della civiltà e della stessa umanità (e della scienza) ai confini della sola area euro-americana, scontando un pregiudizio insuperabile nei confronti delle civiltà non occidentali, dei «popoli di colore» (ancora Spengler) e in misura non minore dell'Urss, il paese divenuto capofila, in quegli anni, della riscossa dei «barbari» delle colonie. Contrapponendosi all'apparente autonomia disinteressata della teoria pura husserliana, Heidegger, Schmitt e gli autori della coeva "rivoluzione conservatrice" riuscivano sì, in questa prospettiva, a smascherare con efficacia la natura falsa e aggressiva dell'ideologia universalistica wilsoniana, nel momento in cui questa veniva utilizzata ai fini della guerra contro la Germania. Invece di negarla con coerenza per rivolgersi a tutti i popoli del mondo, finivano però semplicemente per rovesciarla di segno a favore del proprio particolarismo nazionale. Conciliandola cioè con l'idea della missione di una Germania - il «paese di mezzo», il «popolo metafisico» umiliato a Versailles - della quale si pretendeva un'immediata riammissione tra i ranghi 111

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ristretti delle grandi potenze coloniali bianche e alla quale veniva assegnato il compito destinale di guidare l'Occidente nella riaffermazione della sua egemonia planetaria. Accanto alla grandezza nazionale, una non minore preoccupazione di questa ideologia, notava Losurdo, era infatti in quegli anni proprio l'affermazione e il consolidamento dell'unità dell'Occidente, un'unità che era stata messa in crisi dalla guerra fratricida appena conclusa e che andava ribadita in primo luogo contro la crescente minaccia "orientale" e bolscevica. Cos'era l'azione internazionalista dell'Urss se non un pericoloso complotto politico, sempre in procinto di assumere, nell'interpretazione di molti autori, l'aspetto di un complotto razziale strisciante? Un pericoloso piano per la conquista del potere planetario, dunque, che vedeva nella figura dell'ebreo-bolscevico, responsabile della Machenschaft moderna ma anche della diffusione del virus rivoluzionario, il proprio artefice occulto. La Kriegstdeologie si saldava qui con la tradizionale critica antigiudaica e giudeofoba. Questa ispirazione, largamente presente nella cultura non solo tedesca dell'epoca, stentava sempre più però a mantenersi su un piano storico e culturale e anche negli autori più raffinati andava declinando in maniera cospicua verso una forma di naturalismo. Se in Heidegger e Jaspers la denuncia del giudaismo si manteneva ancora - almeno in gran parte - sul piano di una critica cultw·ale e religiosa, già in Schmitt essa propendeva così verso un deciso antisemitismo, per degenerareinfine in uno scoperto razzismo biologistico nei progetti nazisti di espansione.

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Opponendosi alle «idee del 1789» e immaginando i più diversi complotti, razziali o meno, orditi dalle forze fauu-i.ci dell'emancipazione wùversale, la Kriegsideologie tedesca si era andata tuttavia caricando di una spinta antimodernista che alla lunga doveva rivelarsi contraddittoria. L'idea di Ge,neinschaft era risultata certamente molto efficace ai fini della mobilitazione ideologica della nazione. E però, il rifiuto integrale della modernità e la denuncia conseguente dell'industrializzazione e dello sviluppo tecnologico mal si conciliavano con la necessità di preparare adeguatamente il paese e la popolazione a un'ulteriore guerra di tipo totale, una guerra da più parti auspicata e che ancor più del primo conflitto mondiale avrebbe richiesto un immane sviluppo dell'apparato militare-industriale e un'enorme capacità produttiva. Ecco allora che Losurdo mostrava come alle tradizionali forme di antimodernismo «Blut und Boden», ispirate al rifiuto diretto della civiltà industriale e alla nostalgia romantica per la terra e per il mondo agrario, si fosse andato ad un certo punto affiancando in Germania un fenomeno culturale di aperto «modernismo reazionario» Qeffrey Herf). E' a partire dall'esperienza bellica e dall'impiego delle macchine in guerra, in questa prospettiva, che Ernst Junger recupererà il tema della tecnica in chiave di dominio e di potenza. La tecnica poteva essere così liberata da ogni compromissione con il materialismo e con l'utilitarismo borghese, nonché da quella carica di progresso ed emancipazione wùversale che lo sviluppo delle forze produttive incorporava nella lettura datane dal marxismo. E, ricondotta alla sua dimensione più strumentale e demoniaca, poteva essere facilmente

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associata all'idea della superiorità tedesca e del suo dominio mondiale. La contraddizione tra nostalgia «Blut und Boden» e «modernismo reazionario» era massicciamente presente nelle diversecomponenti del nazismo. Nello Heidegger degli anni Trenta, l'avversione verso la civiltà delle macchine era in questo senso palese e il suo dialogo con Junger non avrebbe mai potuto spingersi fin sul terreno modernista-reazionario. Al pensiero calcolante, alla meccanizzazione del mondo e alla massificazione industriale, Heidegger avrebbe sempre più opposto tuttavia, dalla metà del decennio in poi, non già un rifiuto netto e nostalgico ma - anche in questo caso sulla scorta di Nietzsche - l'idea di una volontà di potenza superiore, che diviene capace di dominare la tecnica impedendo che a dominare sia essa, e che la sottomette alla storicità originaria del popolo tedesco dando vita a un miracoloso equilibrio di tradizione e futurismo. Nei corsi universitari dei primi anni Quaranta, il nietzscheanesimoveniva perciò esaltato come il «contromovimento» che si opponeva alla decadenza dell'Occidente conseguenza dell'universalismo cristiano ereditato dal mondo moderno, a quello scenario di tramonto che veniva ormai unanimemente chiamato «nichilismo», ela stessa Germania finiva per apparire come l'estremo baluardoantinichilista d'Europa. Le ricadute ancora assai "mode1ne" del nazismo-la dimensione di massa delle sue parate, o la stessa dottrina della razza - non erano certamente ignorate da Heidegger, il quale misurava la «grandezza» di quel regime proprio sulla sua capacità effettiva di oltrepassare o contenere simili tendenze. Questo confronto critico, però, non

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sarebbe mai divenuto in lui opposizione politica ma sarebbe andato evolvendo semmai, in maniera sempre più esplicita, come la richiesta implicita o espressa in forme criptiche di una maggiore coerenza e radicalità, secondo un intento meno gridato ma non diverso da quello della critica nietzscheana del Secondo Reich. Liquidando l'ideale della pace perpetua, Heidegger appoggerà in maniera convinta l'impegno nazista nella Seconda guerra mondiale e si impegnerà addirittura in una costante trasfigurazione in chiave metafisica delle vicende belliche più minute. Losurdo scopriva però a questo punto qualcosa di nuovo. Maturava infatti proprio nel corso della guerra un primo significativo spostamento nell'ordine del pensiero heideggeriano. Il nuovo conflitto che stava dividendo l'Occidente costituiva la manifestazione suprema del nichilismo, certamente. Ma il nichilismo stesso veniva ora letto non più in opposizione bensì in accordo con la volontà di potenza: la guerra metteva in scena precisamente il trionfo della volontà di potenza planetaria, il cui principio occulto muoveva le azioni di tutti gli Stati in lotta. Negli anni delle vittorie naziste, ancora seguendo Nietzsche, Heidegger poteva perciò distinguere all'interno della volontà di potenza il nichilismo «passivo», incompiuto e dunque perdente delle potenze alleate dell'Ovest, dal nichilismo «attivo» e completo della Germania. In questa prospettiva, la superiore volontà di potenza della macchina da guerra tedesca avrebbe dovuto condurre alle estreme conseguenze il nichilismo moderno in tutte le sue potenzialità e in tal modo compierlo ed esaurirlo. Si trattava di un doloroso ma necessario passo intermedio che avrebbe aperto

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la strada, una volta unificato l'Occidente all'insegna dell'egemonia germanica, all'oltrepassamento integrale del nichilismo stesso e da lì, finalmente, al vero «nuovo inizio» della storia tedesca e occidentale. Una nuova storia che avrebbe superato la modernità "romana" della tecnica riconnettendosi alla grecità originaria e al suo pensiero così prossimo alla poesia. Le sorti della guerra smentiranno però presto e in maniera clamorosa il presunto primato metafisico della Germania nel padroneggiamento della tecnica. Di fronte all'evidente superiorità dell'Unione Sovietica staliniana, continuava Losurdo, Heidegger riaggiusterà ancora una volta il tiro e completerà il suo distacco da Nietzsche giungendo a una drastica revisione della propria filosofia della storia e a una condanna conclusiva della volontà di potenza, nella quale da quel momento in poi non sarà più possibile in alcun modo per lui distinguere un nichilismo attivo e creatore di nuova storia da uno passivo e meramente deiettivo. Contro lo scatenamento nichilistico dell'Armata Rossa bolscevica, non gli sarebbe rimasto a quel punto che chiamare a raccolta le forze umane residue per l'estrema difesa della Germania e dell'Occidente, invitando i tedeschi al fronte e nelle retrovie al supremo «sacrificio per la verità dell'essere». Fino in fondo, dunque, Heidegger avrebbe continuato a identificarsi con la guerra della Germania e della sua leadership e anche alla fine del conflitto si sarebbe rifiutato di riconoscere le responsabilità storiche del nazismo. Rigettando ogni autocritica, dopo il 1945 il suo bilancio indifferenziato e autoassolutorio equiparerà infine la responsabilità di tutti gli Stati

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coinvolti nella guerra nella comune subordinazione deiettiva alla volontà di potenza planetaria del mondo moderno, cercando così di confondere i torti e le ragioni - i programmi di aggressione coloniale come gli sforzi di impedire tale aggressione - con l'intento di preservare la Germania da una nuova attribuzione globale di colpa. E' chiaramente impossibile, concludeva Losurdo, cancellare la dimensione politica del pensiero di Heidegger e cioè di un pensiero che si è articolato come una critica della modernità ancora più radicale e profonda di quella nazista. Se in Adorno e Horkheimer la critica appassionata degli esiti totalitari della ragione moderna va in realtà intesa come la simultanea riaffermazione di una ragione non dimidiata alla sola dimensione strumentale e di un illuminismo e di un universalismo più estensivi, in questo senso, ben diverso è stato l'antimodernismo reazionario di Heidegger. In Heidegger come in Junger e in Schmitt, la critica dell'universalismo falsoe aggressivo dell'Intesa contro la Germania si presenta dall'inizio alla fine come una denuncia apocalittica dei processi di emancipazione dell'età moderna e come una condanna senza appello della tradizione rivoluzionaria. Responsabile- a partire dalla Rivoluzione francese - di aver creato la figura del nemico totale ma anche di aver prodotto, nella sua promessa di una pace perpetua, la guerra totale. Non diversamente da quanto avveniva in Nietzsche, siamo di fronte a un rifiuto dell'universalità in quanto tale e a una condanna della modernità nel suo comlesso. Una negazione totale e indeterminata rispetto alla quale la tradizione liberale - impegnata anch'essa

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in quegli anni in una delegittimazione parallela e non meno virulenta di quei processi di emancipazione che si sforzavano di dare realtà ai fondamenti filosofici della nostra epoca mediante una trasformazione della società - non era però poi così estranea. A ulteriore conferma di un'affinità, o persino di una parentela, che oggi è stata completamente rimossa sino ad essere diventata invisibile.

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I.e Gentile e la controriforma della filosofia classica tedesca

di E1niliano Alessandroni

La filosofia di Giovanni Gentile poteva essere letta, secondo Domenico Losurdo, come un raffinato tentativo di attutire sul piano teorico ma anche politico l'impatto provocato dalle più importanti conquiste culturali della filosofia classica tedesca. Già il richiamo di Gentile a Fichte si caricava a suo avviso di «torbidi contenuti» che difficilmente potevano essere conciliati con una lezione «da cui [veniva] in ogni caso espunta la celebrazione della Rivoluzione francese (le odiate "idee del 1789")» e la non meno significativa «critica plebea delle stridenti disuguaglianze sociali»1• Dal canto suo, poi, Hegel era letto in primo luogo come un teorico della guerra anziché come il filosofo delle lotte per il riconoscimento, ragion per cui «le categorie dialettiche di discontinuità, salto qualitativo, lotta», venivano poste da Gentile «in relazione ai rapporti internazionali, al fine di 1

GR, p. 111.

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negare l'ideale di pace perpetua», non già «per pensare lo sviluppo all'interno della società e dello Stato» e meno che mai «per pensare una rivoluzione come quella bolscevica nata sull'onda della lotta contro la guerra>>-2. Lo stesso volume giovanile gentiliano dedicato al filosofo di Treviri andrebbe in questo senso collocato «nell'ambito della reinterpretazione e del riassorbimento della filosofia di Marx, al fine della decapitazione intellettuale del movimento socialista>>3. È soprattutto alle letture di Hegel e Marx radicatesi in Italia in importanti figure come Bertrando Spaventa e Antonio Labriola che, per Losurdo, Gentile reagiva. In Spaventa, ad esempio, già dalla fine dell'Ottocento venivano «chiaramente teorizzati i diritti dell'uomo in quanto tale, inteso nella sua universalità»4. Si tratta di una questione di enorme rilievo. «"Affinché non ci sia schiavitù è necessaria anzitutto [...] la nozione che l'uomo come tale è libero"», aveva scritto infatti Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia; «"né Socrate né Platone né Aristotele"», però, «"hanno avuto coscienza che l'uomo astratto, universale, sia libero"», perché affinché tale consapevolezza sia possibile «"occorre che l'uomo possa essere pensato come universale, e che si prescinda dalla particolarità secondo cui esso è cittadino di questo o quello Stato">Y. Tanto in Hegel quanto in Spaventa, in altre parole, lo Stato era già pensato come «lo Stato moderno», nel quale deve co2

Ivi, p. 64. Ivi, p. 113. • SPAV, p. 114. s Hegel, in IPOC, pp. 42-43. 3

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stituire «un punto fermo il riconoscimento del valore dell'individuo». Evidentemente, concludeva Losurdo, «non potrebbe risultare più netta l'opposizione rispetto a Gentile» 6, la cui divergenza con la tradizione hegehana in merito a tale questione costituisce il risultato di una visione dello Stato profondamente diversa. «Nonostante le assonanze», allora, va detto che «la teoria gentiliana dello Stato ha ben poco a che fare con la teoria hegehana». E ciò non soltanto per il fatto che «è fuori discussione in Hegel il riconoscimento del valore e della hbertà dell'individuo» (al punto che è dato parlare«dello Stato come realizzazione del divino in quanto lo Stato stesso rende concreta e mondana la hbertà dell'individuo»i) ma anche perché «mentre in Hegel il pathos dello Stato è il pathos della comunità pohtica, questo tema è invece del tutto estraneo a Gentile», per il quale ciò che conta «è in realtà la comunità organica cara al romanticismo della Restaurazione e soprattutto al romanticismo cattohco»8• Assai diverso era del resto anche il modo in cui i due filosofi. configuravano il rapporto tra Stato e rehgione: se Hegel veniva spesso accusato «di rendere sostanzialmente superflua la rehgione e la Chiesa dato che fa dello Stato la compiuta realizzazione mondana del divino», Gentile, al contrario, «insiste sul fatto che lo Stato non può essere pensato senza rehgione e senza accordo e unità con la Chiesa». In sostanza, «se Gentile fa professione di fede cattohca, Hegel denuncia con forza la 6

SPAV, p. 113. CAT, p. 116. 8 Ivi, pp. 118-19.

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sconsacrazione che il cattolicesimo opera del mondano e del politico»~. D'altro canto, continuava Losurdo, nei Fonda,nenti di filosofia del diritto «è lo stesso Gentile a riconoscere la grande distanza che lo separa da Hegel», il cui concetto di Stato «non può dirsi veramente "infinito"» giacché «rivela una triplice limitazione: famiglia e società civile, spirito assoluto, infine e soprattutto rapporto con gli altri Stati», ragion per cui nella sua filosofia «il vero infinito non è lo Stato, ma il rapporto tra gli Stati e cioè la storia universale»io. Un altro esempio di questa profonda divergenza è rinvenibile nella polemica di Gentile contro l'edonismo, nella quale è in realtà possibile leggere una contestazione dei diritti materiali intesi ancora una volta come un intollerabile limite operativo alla sovranità dello Stato. Anche qui abissale è la distanza che lo separava da Hegel e da Spaventa. Se in quest'ultimo «il tema dei diritti inalienabili dell'uomo in quanto tale e la celebrazione dell'égalité svolgevano un ruolo fondamentale», in Gentile per essi «non sembra esserci posto». La sua idea di libertà non ha quindi alcun rapporto con il diritto e con l'uguaglianza ma anzitutto con la gerarchia. La «teorizzazione presente in Hegel, e in qualche modo anche nei fratelli Spaventa, di "diritti materiali" e "positivi"» risultava completamente «estranea a Gentile», il quale, dal canto suo, lanciava incessantemente invettive contro «la "concezione utilitaria, materialistica, e quindi egoistica della vita"» che era propria «del marxismo e del socialismo». 9

Ivi, p. 118. pp. 117-18.

10 Ivi,

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LA RESA DEI CONTI CON IL LIBERALISMO

Tale «edonismo di massa» alla Heine, che costituiva «motivo di scandalo» già «per Tocqueville, Zeller e Treitschke», veniva invece «tranquillamente teorizzato» da Bertrando Spaventa, secondo il quale «lo Stato etico è quello che realizza la civiltà e c'è civiltà non là "dove solamente pochi sanno e godono", ma dove "sanno e godono il maggior numero"». Tutto al contrario, Gentile «non si stanca[va] di insistere sul "sacrificio" e su una visione della vita intesa non "come campo di diritti da rivendicare", ma "come palestra di doveri da compiere"». Si tratta di un tema, quello dell'esistenza come sforzo e fatica, della vita come assenza di diletto e priva di piaceri ma unicamente composta di doveri, che anzi in Gentile «ritorna in modo ossessivo»u come una sorta di imperativo categorico. Lo scarso valore attribuito dal filosofo neoidealista alla questione materiale costituiva, secondo Losurdo, un corrispettivo del ruolo pressoché inesistente che sul piano filosofico giocava in lui la dimensione oggettiva, a tutto vantaggio di quella soggettiva. Se dopo la Seconda guerra mondiale la cultura della «Nuova Destra» negherà in modo radicale «la categoria di necessità storica» e riterrà privo di senso «parlare di leggi storiche», commentava, non meno significativa risultava già «la costante polemica di Gentile contro l'idea di oggettività del processo storico»: «"Nella storia, nella società, nelle cose non c'è significato né legge"», affermava con tono decisamente antihegeliano e in polemica con Labriola. Sin dal principio veniva da lui espresso, dunque, un netto rifiuto della «dialettica della storia», reputata in 11

SPAV,pp. 159-60, con citazioni di Spaventa e Gentile.

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stridente contraddizione con quella celebrazione della «creatività» del gerùo, nonché del «Duce», alla quale sì sarebbe abbandonato il Gentile «divenuto ormai ideologo del fascismo»12• Ma assieme all'oggettività delle leggi storiche e al concetto dì necessità, non meno «priva dì senso» risultava essere peril filosofo neoìdealìsta «la categoria dì contraddizione oggettiva»13 , accettando la quale sì sarebbe implicitamente postulato l'ancoraggio dell'Io e del pensiero all'essere sociale. Nel complesso, la stessa «affermazìone della razionalità del reale e la conseguente visione della filosofia non come creazione solitaria del soggetto bensì come concettualizzazione della realtà storica» conteneva «elementi dì "materialismo" inaccettabili per il teorico dell"'atto puro">>1◄. A Gentile sfuggiva insomma, in tutta la sua ricchezza e complessità, il nucleo profondo del pensiero di Hegel, nonché la relativa idea di prassi trasformatrice: «prima dì essere un'attività del soggetto», per l'autore della Feno,nenologia, spiegava Losurdo, «la negatività è già insita nell'oggettività», così che «l'attività è già implicita nelle contraddìzìorù oggettive che lacerano la "sostanza", la realtà». Pertanto, «il primo presupposto del "mutamento", dell'attività di trasformazione del reale», non sì trova nella disuguaglianza dell'Io verso il proprio oggetto ma «nella "disuguaglianza" del reale "con sé stesso"» 15, vale a dire dell'oggetto con la propria ìpseìtà. L'ascensione hegelia12

CAT, pp. 144-45. HGR,p. 108. ,. Ivi, p. 103. u Ivi, pp. l 05-06, con citazioni di Hegel.

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LA RESA DEI CONTI CON Il, LIBERAIJSMO

na all'Io (inteso quest'ultimo non già come dimensione alu-a dall'oggetto ma come luogo di esso in cui questi appare a sé) veniva invece da Gentile capovolta. Rimossa la necessità e la razionalità storica, rimosse le leggi della realtà e la contraddizione oggettiva, il soggetto si configurava, secondo l'attualista, come l'autentico demiurgo del reale, come l'agente in grado di plasmare la sostanza esterna a proprio piacimento, di scolpire il mondo a propria immagine e somiglianza. Da qui una ,netafisica dell'azione e un idealisnzo della prassi alle cui spalle, ben più di Fichte (e tantomeno Marx), agiva secondoLosurdo «Mazzini»: un autore la cui prospettiva - «"la vertue c'est l'action"» - giungeva a sposare «la critica dei giovani hegeliani alla tesi della razionalità del reale e alla visione della filosofia come concettualizzazione del proprio tempo». Certo, anche tramite questa lettura di Mazzini «motivi fichtiani sono comunque presenti in Gentile>f6 , soprattutto nel periodo della Grande Guerra e nel clima attivistico della mobilitazione totale17• Ma la teoresi fichtiana, come è stato detto, era scrupolosamente mutilata a monte di tutti i motivi rivoluzionari e veniva riabilitata anzitutto contro Hegel. Proprio su questa mutilazione, non a caso, Gentile poteva innestare «un topos della tradizione spiritualistica e conservatrice»: ora «la "prassi" diventa "autoprassi"», la quale «non solo si svolge tutta in interiore ho111ine» ma talvolta «assume un significato ascetico e moraleggiante». A questo punto «il tema gentiliano della prassi non solo non ha nulla a che fare 16 17

Ivi, p. 110. Cfr.ivi, p. 111.

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con Marx» ma «ha ben poco a che fare anche con Fichte». «Vien fatto semmai di pensare», concludeva Losurdo, «a Blondel che della "filosofia dell'azione" fa la moderna apologetica» e a «Laberthonnière», cui d'altro canto «Gentile fa esplicito riferimento>>1 8• Il concetto di autoprassi, del resto, rinviava a un'ipostatizzazione dell'interiorità che, ancora una volta, coinvolgeva anche il concetto di Stato, il quale per Gentile non coincideva con un organismo esteriore, forma di regolamentazione inter ho,nines, ma si trovava non casualmente «dentro di noi». Siamo in presenza qui, a tutti gli effetti, «di quell'intimismo che costituisce il principale bersaglio polemico della celebrazione hegeliana della comunità politica come luogo privilegiato della realizzazione dei valori spirituali, compreso quello della libertà>>19. Ma la medesima prospettiva finiva per deformare anche il concetto di ùn,nanenza, il quale - così importante nelle riflessioni di Hegel e poi di Marx, Labriola e Gramsci - si presentava con una certa regolarità anche in Gentile. Tuttavia, mentre nei primi tale concetto risultava inscindibile da quelli di contraddizione oggettiva e necessità storica, «nel filosofo attualista», proprio come in Blondel e Laberthonnière, «l'immanenza è l'immanenza non già alla realtà oggettiva, bensì al soggetto, allo spirito, all'interiorità>;o. Sia pur fortemente critico, il giudizio di Losurdo su Gentile non ha comunque mai assunto toni liquidatori. il pur combattivo confronto con la filosofia di Hegel e 18

Ivi, p. 112. "CAT, p. 118. 20 GR, p. 114.

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LA RESA DEI CONTI CON n, LIBERAIJSMO

Marx, nonché con quella di Spaventa e Labriola, ha lasciato in ogni caso nel filosofo neoidealista le sue tracce e Losurdo riconosceva come un merito la denuncia che Gentile, intervenendo sulla scia di Croce nel dibattito sulle motivazioni "culturali" della Pi-ima guena mondiale, aveva rivolto allo «"pseudoconcetto" di "razza"» e la sua precisazione per cui «nulla guadagna in serietà e validità quello pseudoconcetto se viene utilizzato per dimostrare, invece che "la senile decadenza latina", !"'inferiorità della razza gennanica"». A tale proposito, spiegava Losurdo, se «fissare in termini grevemente nazionali o nazionalistici la cultura è già procedere ad una sua naturalizzazione, e tale naturalizzazione, spinta all'estremo, produce lo "pseudoconcetto" di razza»21, la difesa «dell'universalità della filosofia, dell'arte e della scienza>>22 compiuta dal Gentile prefascista ha senz'altro contribuito a contrastare il facile scivolamento dello «stereotipo nazionale» in «stereotipo razziale>>23• Si tratta di un aspetto ricordato in più di un'occasione: Profondo conoscitore della storia del pensiero nei suoi complessi rivolgimenti e nei suoi intrecci, che ignorano e travalicano i confini statali e nazionali, Gentile svolge un ruolo assai positivo e di rilievo internazionale allorché ridicolizza gli stereotipi emersinel corso della Prima guerra mondiale. Egli sa mettere a frutto brillantemente il suo idealismo per contrastare gli ideologi della guerra, francesi o tedeschi che siano, i quali irrigidiscono in senso naturalistico le diverse 21

SPAV,p. 214. lvi, p. 220. 23 Ivi, p. 214.

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tradizioni culturali, contrapponendole l'una all'altra senza tener conto dei loro scambi e dei loro rapporti reciproci, della "circolazione dello spirito" che, nonostante il conflitto, 4 le congiunge e le intreccia2 •

A ben vedere, wi ulteriore elemento di merito viene sottolineato da Losurdo: «sempre dal suo idealismo Gentile trae grande profitto per confutare le letture in chiave positivistica e volgarmente materialistica di Marx e per evidenziare in quest'ultimo il tema della prassi e, quindi, della soggettività e dell'attività del soggetto». Vi è tuttavia un «rovescio della medaglia» che peserà sul giudizio finale: «Estremamente rigoroso nello spingere l'ideahsmo sino alle sue estreme conseguenze, il filosofo attualista non si è mai realmente interrogato sul grande tema marxiano del rapporto tra coscienza e realtà», tant'è che «le categorie di condizionamento materiale del pensiero, di ideologia, di falsa coscienza, di critica dell'ideologia sono rimaste per lui un mistero dai sette sigilli»25, Non v'è alcun dubbio, allora: se l'attualismo si rivela profondamente distante, per quanto attiene alle questioni centrali, dal pensiero di Hegel e per buona parte anche da quello di Fichte, a maggior ragione «risultano fondati su mere assonanze verbali» anche «i ripetuti tentativi di accostare Gentile a Marx>>26. Il semantico interno al linguistico rivela immancabilmentele profonde divergenze che albergano sotto le apparenti affinità. GR, p . 132. Ivi, pp. 132-33. 26 Ibidem.

2•

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II IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

Come abbiamo visto, il lavoro di Losurdo ci mette di fronte a una metodologia di interpretazione che aveva alla base una lettura forte del movimento storico e persino, si potrebbe dire, una filosofia della storia. Non a caso, il retroterra delle produzioni sul liberalismo e sul nesso tra liberalismo e conservatorismo va rinvenuto negli studi che Losurdo aveva condotto per lunghi anni sulla filosofia classica tedesca, dalla cui lettura aveva dedotto importanti chiavi concettuali. IlLeit!notiv era costituito anche in quella circostanza dall'individuazione della centralità che la dimensione politica ha occupato in quella decisiva stagione della filosofia europea. Non si trattava però soltanto della posizione immediata che i suoi protagonisti avevano assunto nei confronti della Rivoluzione francese o dei diversi movimenti rivoluzionari e nazionali che le erano susseguiti ma piuttosto del modo in cui queste concrete esperienze storico-politiche erano diventate filosofia, si

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erano espresse nella forma di categorie universah e di metodologie filosofiche che avrebbero consentito una più profonda comprensione della realtà e ne avrebbero preparato la trasformazione. Per Losurdo ne derivava da un lato una revisione integrale del significato e dell'immagine di quel periodo e una diversa configurazione del suo rapporto con la tradizione del hberahsmo e del materiahsmo storico; dall'altro la sistemazione di un quadro epistemologico di lettura della realtà che era fondato su precise configurazioni storiche ma che poteva essere flessibilmente apphcato a situazioni comparabili sul piano idealtipico.

1. Kant e la Rivoluzione francese Già nello studio su Kant - la prima opera di ricerca storiografica e filosofica che Losurdo ha pubbhcato dopo anni di intenso impegno pohtico diretto - questa hnea interpretativa era pienamente espressa. Nonostante il suo entusiasmo per la Rivoluzione francese -e nonostante Marx ed Engels avessero sottohneato la portata rivoluzionaria della sua filosofia e dell'intero ideahsmo tedesco-, il significato del pensiero pohtico di Kant è stato a lungo distorto dal prevalere di uno stereotipo culturale che ancora oggi grava sul filosofo ma anche sulla stessa Germania. Kant sarebbe stato interamente partecipe di quell'atteggiamento conservatore e decisamente ostile ad ogni trasformazione pohtico-sociale che caratterizzerebbe l'intera tradizione dei ceti intellettuah tedeschi, da sempre ritenuti

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IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

difensori dell'ordine e dell'autorità costituita1• Diffuso strumentahnente negli ambienti nazional-liberali dopo la sconfitta dei moti del 1848 e soprattutto dopo il 1870, questo pregiudizio è stato fatto proprio in seguito dai radicali delusi come dai socialisti e, dopo le due guerre mondiali, è divenuto un luogo comune dalla storiografia liberale sopratrutto di stampo anglosassone o anglofilo2. Esso è però del tutto errato sia in relazione alla storia tedesca (che trova un momento decisivo nella Riforma protestante, caposaldo della modernità, e non si dipana affatto come un Sonderweg rispetto ad una presunta "normalità" liberale anglosassone), sia, in particolare, in relazione a Kant. Nonostante lo sforzo di autocensura e dissimulazione a cui si era sottoposto, per evitare di incorrere nei rigori della legge in un momento in cui particolarmente forte era la pressione del governo prussiano sugli intellettuali, tutto il pensiero politico di questo autore mostrava una straordinaria attenzione simpatetica nei confronti degli eventi francesi. La negazione del "diritto di resistenza" al sovrano, in particolare, è stata spesso interpretata come la dimostrazione del suo moderatismo e del suo allineamento nei confronti del legittimismo feudale in Germania. In realtà, se collocata nel concreto contesto storico, quella presa di posizione si rivelava secondo Losurdo come una poderosa difesa della rivoluzione: negare il diritto di resistenza significava «affermare l'irreversibilità della 1

KANT, pp. 11-20. Ivi, p. 21 sgg. Tra gli interpreti di quel periodo, Losurdo polemizzava soprattutto con Vlachos, Delekat ePhilonenko. 2

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Rivoluzione francese»3 e quindi «condannare i tentativi di restaurazione». Nel momento in cui la nuova repubblica era minacciata dall'erompere dell'insorgenza vandeana e dalla reazione della Chiesa ali' esproprio dei beni ecclesiastici, sostenere questo diritto, infatti, equivaleva in sostanza ad appoggiare i nemici del 1789. Contava poco, qui, la delegittimazione indiretta di un'eventuale «sollevazione rivoluzionaria contro il potere monarchico e feudale in Germania», cosa in quel momento del tutto «improbabile». In quella situazione concreta, tutto al contrario, la "resistenza" coincideva con il revanscismo dei difensori deltAncien R.égùne nei confronti della repubblica francese. Rappresentava, cioè, la rivendicazione dei privilegi tradizionali di stampo feudale nel momento in cui la rivoluzione operava profonde trasformazioni politiche e sociali: la difesa degli interessi particolari dei ceti dominanti aristocratici di contro alla rappresentanza generale della nazione introdotta dagli ordinamenti repubblicani. Contestare il diritto di resistenza significava, al contrario,legittimare l'abolizione rivoluzionaria dei privilegi corporativi e sostenere la politica delle confische, dei prestiti forzosi e della leva obbligatoria per la difesa della nazione4 • Significava affermare la sovranità dello Stato come interprete della volontà generale e pretenderne il rafforzamento, contro la reazione rabbiosa degli egoismi di rango scatenata dai vecchi gruppi dirigenti.

p. 37. • Ivi, p. 49 sgg. > Ivi,

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IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

Era una posizione politica precisa e coraggiosa, dunque. In primo luogo, abbiamo qui il riconoscimento della legittimità del nuovo potere politico che la rivoluzione aveva fondato, un potere non meno valido, una volta che era stato instaurato, di quello dei sovrani europei. Ma abbiamo soprattutto la difesa di un potere di tipo nuovo e cioè di uno Stato che, decidendo di intervenire attivamente nei rapporti politico-sociali, trasformava in modo irreversibile il concetto di sovranità5. Uno Stato che imponeva la propria autorità civile nei confronti della Chiesa e delle sue pretese mondane di farsi corpo separato. Uno Stato, soprattutto, che ancora meglio di quanto non era risultato possibile alla monarchia illuminata di Federico II -aveva finalmente la forza di afferma re la propria centralità rispetto al particolarismo feudale e di piegarlo, imponendogli anche con la forza le proprie riforme e preparando in tal modo il terreno per un ordinamento politico tendenzialmente egualitario. Emergeva qui secondo Losurdo - e torniamo con ciò al confronto con il liberalismo - tutta la distanza del pensiero di Kant e della tendenza di cui si fa interprete rispetto alla piattaforma erede della rivoluzione inglese del 1688, della quale Edmund Burke era stato tra gli interpreti più prestigiosi e, nella stessa Germania, più ascoltati. Di questa piattaforma liberale, anche in quel momento considerata all'avanguardia, Kant mostrava tutti i limiti e le origini genuinamente feudali, rese del resto evidenti dalla celebrazione che, in opposizione all"'illimitato" potere di intervento dell'Assemblea Na$

lvi, pp. 46 e 58.

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zionale, ne facevanoi fautori della reazione>. In Burke, nel liberalismo e nella Costituzione inglese, lo Stato era concepito come una sorta di patto federativo o addirittura di contratto commerciale tra soggetti privati proprietari, i quali gli assegnavano il compito limitato della difesa della propria sicurezza e delle proprie "libenà", ovvero dei propri privilegi storici. Non esisteva qui universalità della legge ma soltanto un accordo tra i ceti dominanti sulle spalle degli altri cittadini e lo Stato non aveva alcun diritto di intervento se non nei settori che gli erano stati esplicitamente assegnati. Esso era «una mera aggregazione tra singole e inviolabili proprietà»', o persino un «"sistema federativo" dei maggioraschi dotati di una loro inviolabile autonomia». Era cioè un sistema contrattato di «giurisdizioni particolari» separate, in cui ciascun soggetto proprietario faceva difendere i propri privilegi dalla forza pubblica. Questo è il punto: nel mettere in discussione ogni corpo intermedio tramandato e ogni sistema corporativo tradizionale, nell'affermare il diritto di intervento dello Stato anche nella sfera della proprietà privata e anche con l'uso del dispotismo, la repubblica francese stava affermando l'universalità della legge contro il predominio degli interessi particolari e stava quindi affermando la vera sovranità popolare. Una sovranità che non era affatto garantita dalla divisione dei poteri e dai "limiti" sanciti dalla Costituzione inglese, nella quale non solo non era previsto alcun diritto di resistenza al sovrano ma il Parlamento era un mero 'Ivi, pp. 44 e 54-5. 7 Ivi, pp. 53-4.

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simulacro di sovranità, in realtà sempre pronto alla collusione con gli interessi convergenti di un monarca il cui potere risultava alla fine pressoché assoluto. La natura feudale e particolaristica del pensiero liberale inglese era d'altro canto evidente nella rivendicazione che Burke operava dei diritti "storici" degli Inglesi, contrapposti ai diritti universali dell'uomo dichiarati dalla Rivoluzione francese 8• A Kant appariva ormai chiaro allora, secondo Losurdo, come la Rivoluzione avesse finalmente conquistato quel concetto universale di uomo che il liberalismo non era stato in grado di conseguire e come essa rappresentasse «la causa del progresso, della ragione, degli universali diritti dell'uomo»9. Nettamente più arretrato si mostrava, dopo questa rottura, il modello liberale di paesi come Inghilterra, Svizzera e Olanda, che nascondeva dietro la rivendicazione della libertà della società civile dal dispotismo dello Statola difesa degli interessi particolari dei ceti proprietari e il rigetto preventivo di questa universalità10 • Un rigetto che oltretutto si manifestava anche sul piano del rapporto tra le nazioni, come dimostrava la politica egoistica di potenza che l'Inghilterra conduceva in tutto il mondo. L'Inghilterra che imponeva con la forza i propri privilegi nel commercio internazionale era non a caso lo stesso paese che guidava la coalizione feudale contro la Francia rivoluzionaria e che secondo Kant dava 8

Ivi, pp. 81-2 e 88-9. Sullo "storicismo" anti-universalistico

di Burke cfr. REV, p. 41 sgg. ' KANT, p. 89. 10

lvi, pp. 92-9.

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pessima prova di sé nella sottomissione dell'Irlanda, ridotta a vera e propria provincia coloniale. A questo punto, Losurdo poteva far emergere con forza «la consonanza»11 tra la Rivoluzione francese e la filosofia di Kant: sia sul piano internazionale (come si evince dal testo sulla Pace perpetua), sia su quello degli ordinamenti interni, la rivoluzione era percepita come la realizzazione della stessa filosofia pratica kantiana e cioè come l'idea di un autogoverno della volontà popolare che si fondava sull'uso pubblico della ragione universale. Una ragione che dava norme a se stessa attraverso il potere legislativo. Solo a queste condizioni, solo «con la soppressione dei privilegi feudali e la realizzazione di una comunità politica fondata sulla libertà e l'uguaglianza giuridica, l'uomo veniva concretamente riconosciuto come fine in se stesso». Questo nesso, del resto, era riaffermato indirettamente nella difesa che Kant svolgeva dell'intervento della teoria e dei principi fùosofici nell'attività politica12. La reazione e i liberali alla Burke, ancora una volta accomunati, vedevano nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e nei principi universali proclamati dalla Rivoluzione francese la prova delle gravi responsabilità della filosofia e della ragione astratta, colpevoli - insieme al ceto degli intellettuali, quei «pezzenti della penna»13 loro fautori - di aver scatenato la sovversione e di aver imposto ordinamenti politici dispotici e privi 11

lvi, p. 1.39. p. 158 sgg. u Cit. in REV, p. 8.3; cfr. p. 220 sgg. Sulla sociologia dell'intellettuale moderno, decisamente più "progressista" rispetto all'in12 lvi,

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IL CONFRONTO CON LA PILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

di fondamento nella tradizione e nella pratica consuetudinaria, fino al punto di mettere in discussione i sacri diritti della proprietà. Tutto al contrario, Kant sosteneva la capacità della teoria di «informare di sé il reale e di trasformare il mondo»14: erano esattamente i principi di un ordinamento razionale della realtà che trovavano una realizzazione nelle tre parole d'ordine universalistiche della Rivoluzione francese.

2. Hegel, le guerre di liberazione e la questione na-

zionale tedesca Universalismo contro particolarismo, dunque: è questa la coppia concettuale, eminentemente filosofica, che sin dall'inizio della sua esperienza intellettuale Losurdo ha individuato come chiave di volta per indagare i processi politici degli ultimi due secoli. Lo sforzo della ragione universale di farsi reale oggettività ed istituzione si è incarnata nella concreta dialettica storica e nei conflitti politico-sociali che l'hanno animata. E' un percorso che Losurdo seguirà, da qui in poi, soprattutto attraverso un lunghissimo e approfondito confronto con il pensiero di Hegel, portato avanti in numerosi libri e saggi dedicati al filosofo tedesco, al suo pensiero e al senso politico della sua eredità filosofica. Proprio questo confronto gli consentirà di porre le basi della successiva decostruzione dell'auto-apologetica tellettuale tradizionalmente legato all'aristocrazia e al clero, v. INT, p. 77 sgg. 1• KANT,p. 161.

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liberale. Incrinando le cenezze della storiografia già al livello della delimitazione tra le diverse tradizioni filosofico-politiche, a panire - come abbiamo visto dalla messa in discussione di quella netta contrapposizione che viene usualmente postulata tra liberalismo e conservatorismo. Anche Hegel seguiva con grande panecipazione le vicende della Rivoluzione francese, un evento che aveva apprezzato - sostenendone le correnti meno radicali - come un momento decisivo del dispiegamento della modernità e dal quale si attendeva un impulso decisivo al «rinnovamento politico e culturale>>15 della Germania. Hegel era costretto però a confrontarsi con una dialettica storica nuova rispetto a quella innescata dal giacobinismo; una dialettica dalla quale il suo pensiero avrebbe tratto un grande ammaestramento. La Francia repubblicana aggredita dalla coalizione feudale, infatti, si era ormai trasformata,con Napoleone, non già nel faro della pace perpetua atteso da Kant e Fichte ma in un paese aggressore che attentava alla sovranità degli Stati europei indipendenti, intenzionato a costruire un impero continentale attraverso guerre di conquista territoriali. Ecco che, in seguito all'invasione da pane degli eserciti napoleonici, la simpatia e persino l'entusiasmo che la Francia e la sua esperienza rivoluzionaria avevano saputo attrarre in terra tedesca, e che nemmeno il Terrore aveva messo del tutto in crisi, si rovesciavano rapidamente nel loro opposto. All'invasione napoleonica si opponeva ora un vasto movimento indipendentista, che aveva saldato i ceti is

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HQN, p. 25.

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dirigenti a W1a notevole mobilitazione popolare e aveva dato vita ai Be/reiungskriege16 • Alla testa di questo movimento che aveva assW1to caratteri di massa erano collocati intellettuali che erano stati amici della Rivoluzione, come lo stesso Fichte, ma che non esitavano a quel pW1to a manifestare la loro delusione e a gridare al tradimento da parte della Francia. Si trattava di un movimento nel cui seno si andava risvegliando il sentimento nazionale tedesco e persino l'aspirazione alla costituzione di uno Stato unitario e quindi di un movimento con forti caratteri progressivi che non guardava al legittimismo ma si opponeva alla politica con la quale il Congresso di Vienna aveva decretato la restaurazione dei regni invasi da Napoleone. Ma si trattava anche, simultaneamente, di una forma di elaborazione del lutto e della delusione del tutto contraddittoria, perché inadeguata a riconoscere le trasformazioni intervenute nella politica francese a partire dall'oggettività del movimento storico e al tempo stesso incapace di ricondurre la perdita dell'indipendenza del paese all'arretratezza feudale della stessa struttura politica tedesca, priva di unità e inetta a mobilitare durevolmente le masse. Questa risposta metteva perciò capo a una contestazione che investiva non soltanto il napoleonismo ma la stessa Rivoluzione francese e che finiva per rigettare quelle idee, fino a poco prima ammirate, che attraverso gli eserciti napoleonici venivano imposte in tutta Europa17. Era un movimento fortemente gallofobo, 16 17

Ivi, pp. 25-37. Ivi,p. 37 sgg.

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dunque, che mirava a respingere qualunque influenza provetùente da oltre Reno senza saper distinguere tra l'eredità positiva dell'Illwnitùsmo e della rivoluzione e la degenerazione espansiotùstica della Francia, dipinta da quel momento come una nazione rapace e perennemente antitedesca. Ed era anche in numerose frange un movimento fondamentalista dai caratteri teutomatù, in quanto, nel suo sforzo di sollecitare lo sviluppo del sentimento nazionale, cercava di costruire un'identità storica tedesca incontaminata da ogtù influenza straniera, differente e separata da ogtù altra identità nazionale, segnata da un'ininterrotta continuità che era immaginata come aliena dal corso di tutto lo sviluppo storico moderno. Un'identità, perciò, irrigidita e persino naturalizzata, che si trattava di ripristinare nella sua purezza e peculiarità affinché la Germatùa smettesse di imitare artificiosi modelli stranieri - i quali, pure, tanto superiori si erano dimostrati sia sul piano politico che su quello militare - e ritrovasse in se stessa la grandezza degli antichi germatù o di un passato medievale e imperiale nostalgicamente rimpianto. Hegel saprà liberarsi dell'ingenuo entusiasmo iniziale verso la «splendida aurora»18 della Rivoluzione francese senza lasciarsi però travolgere dalla delusione e dal riflusso verso queste posiziotù «volkstii1nlich>'>1-9 spesso ambigue o reazionarie. Allo stesso modo, dopo l'iniziale avvicinamento, segnato dall'amicizia con Holderlin, saprà operare un «processo di superamento

18

e·1t. 1V1, · · p. 33.

19

Ivi, p. 363.

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della Ro1nantik>>2° e non scivolerà nemmeno in quell'ipocondriaco rifiuto della sfera pohtica - condannata in quanto tale,insieme al mondo moderno, come irrimediabilmente profana, negativa e allena da ogni nobiltà ideale - che in Germania avrebbe invece segnato più di una stagione culturale. Questi virtuosi, incapaci di riconoscersi nel reale e di scorgerne l'immanente razionahtà, reagivano alla crisi del mito rivoluzionario, ma anche alle contraddizioni della società borghese, ritraendosi dal terreno mondano e rinchiudendosi narcisisticamente nella contemplazione della propria presunta superiore interiorità - rivolgendosi alla rehgione, all'arte o allo studio della natura - con una scelta aristocratizzante e conservatrice21• Al contrario, Hegel dimostrerà già a questa altezza, secondo Losurdo, la propria profondità di lettura critica del processo storico. La dialettica della rivoluzione non poteva essere afferrata con la categoria del dover essere o del "tradimento" degh ideah e non comportava necessariamente una condanna sul piano meramente morale, né obbhgava a una scelta soggettivistica e impohtica di sdegnoso rifiuto dell'azione e di ogni impegno nella trasformazione del reale2 2• Bisognava, piuttosto, coghere il nucleo essenziale della rivoluzione (e dello stesso napoleonismo), la sua fondamentale essenza progressiva, così come bisognava afferrare i hrnitie le contraddizioni cui essa era andata incontro nell'ambito della sfera pohtica moderna e dei suoi rapporti di forza oggettivi. 20

IPOC, p. 81. Cfr. p. 86sgg. lvi, p. 125 sgg. 22 lvi, p. 137 sgg. 21

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Bisognava, infine, ripensarla e attualizzarla nel contesto tedesco, imparando da essa nonostante la degenerazione alla quale era andata incontro. Ecco che il proposito di Hegel diventava da quel momento quello di «ridare in qualche modo diritto di cittadinanza alle idee provenienti da Oltrereno>:73, cercando però «di innestare queste idee su una tradizione nazionale tedesca», secondo una precisa «operazione di politica culturale» di orientamento dell'opinione pubblica colta e della cerchia accademica ma anche dei ceti medi e dei funzionari dell'apparato statale. La Germania si presentava come nettamente più arretrata della Francia, sul piano politico. Quelle idee e principi che in Francia avevano trovato diretta espressione politica, potevano manifestarsi in Germania soltanto su un piano più strettamente filosofico, ma in compenso potevano farlo qui al massimo livello di elaborazione concettuale e cioè attraverso la consapevole acquisizione della dimensione dell'universalità. Proprio la filosofia tedesca rappresentava perciò, come un giorno avrebbe messo in evidenza Engels, il pendant teorico più compiuto della Rivoluzione francese. Si trattava adesso di riconoscere e far agire politicamente nel dibattito intellettuale questa eredità, confrontandosi con la realtà e promuovendo in maniera organizzata un rinnovamento complessivo della vita nazionale. E il primo passo in tal senso consisteva nel creare una vera sfera pubblica che stimolasse la partecipazione politica dei cittadini e favorisse una presa di coscienza e la risoluzione della questione nazionale. 1 '

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HQN, p. 35.

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3. La politica culturale di Hegel: religione, Stato e

filosofia di fronte ai co,npiti del progresso Nel movimento di liberazione, che aveva avuto grande presa sulla gioventù studentesca delle Burschenschaften 24, Hegel aveva saputo riconoscere una guerra giusta a difesa dell'indipendenza nazionale e dell'autodeterminazione del popolo tedesco di fronte all'invasore (una difesa che poteva essere oltretutto il germe dell'unificazione e di una costruzione dello Stato moderno in Germania che procedesse non solo dall'alto ma anche dal basso). Come abbiamo visto, assieme alla condanna del napoleonismo e al riconoscimento della questione nazionale, che per Hegel - a differenza di altri intellettuali filonapoleonici - acquistava a quel punto un rilievo sempre più importante25, nel movimento era però pericolosamente presente un elemento regressivo. Il rifiuto dell'influenza francese si configurava anche come la negazione della lezione della Rivoluzione e dunque come la contestazione della tappa culminante dello sviluppo della modernità. In ciò, l'opposizione teutomane finiva per configurarsi come un movimento di «opposizione reazionaria con basi sociali di massa» 26 e per convergere oggettivamente con la Restaurazione. Denunciando come "stranieri" i diritti dell'uomo e le idee del 1789, cui contrapponeva l'"onore", la "fedeltà", la "libertà" genuinamente tedesche, questo 24

Ivi, pp. 297-306. Ivi, p. 259 sgg. 26 lvi, p. 348. 25

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patriottismo si mostrava succube di un nemico non meno pericoloso di Napoleone e cioè delle correnti ideologiche e politiche più reazionarie; le quali, come accadeva con Haller, nel loro sostegno al regime feudale restaurato contestavano, insieme alla Francia rivoluzionaria, l'illuminismo e la modernità in quanto tali. In questo contesto, ogni progetto di rinnovamento della struttura politica tedesca, ogni aspirazione al superamento del feudalesimo e dell'arretratezza del paese e ogni istanza di democratizzazione, tutte cose che in quel momento non potevano che ispirarsi all'esperienza francese, finivano per attirare su di sé l'immediato sospetto di filisteismo e insensibilità nazionale o addirittura di antipatriottismo e collusione con il nemico27, Bisognava invece dimostrare come la Germania non fosse affatto estranea al corso storico che aveva condotto al dispiegamento della modernità, come volevano le frange più conservatrici, ma che di questa era stata invece uno dei principali centri di elaborazione. Bisognava costruire, in altre parole, una sorta di «tradizione nazionale alternativa».28 che fosse in grado di corroborare il nascente sentimento nazionale coniugandolo, al tempo stesso, con l'esigenza del superamento dei particolarismi feudali e della costruzione di uno Stato all'altezza dei tempi. Ricollegando in tal modo la Germania al fronte più avanzato dello sviluppo politico europeo. In questo contesto può essere compresa, secondo Losurdo, la "riscoperta" hegeliana del protestantesimo, 27

Ivi, pp. 386-91. ZS lvi, p. 41.

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che era tutt'altro che indice di un ripiegamento conservatore e bigotto rispetto alla giovanile critica della coscienza religiosa e del cristianesimo condotta in nome dell'eticità greco-romana29• La religione luterana aveva infatti assunto nel corso delle guerre di liberazione il ruolo tutto politico di religione nazionale tedesca di contro al cattolicesimo francese e Lutero, con l'esempio della sua lotta al papato romano, era diventato il simbolo dell'indipendenza tedesca da ogni egemonia straniera. Se non poteva essere sottovalutata la forte presa della religione tra le masse tedesche, che poteva anzi essere assunta come base per la costruzione di un'identità e di una cultura nazionale radicata anche negli strati popolari, era necessario però reinterpretare radicalmente la figura di Lutero, sottraendola all'uso strumentale esercitato sia dai fautori della Restaurazione che dai teutomaru,o. Il cristianesimo luterano non era la legittimazione religiosa del feudalesimo germanico, né era la religione autoctona dei soli tedeschi, ma rappresentava per Hegel una tappa fondamentale di un progresso storico ben più ampio che riguardava tutti gli uomini. La Riforma inverava il principio della libertà del soggetto contenuta in nuce nel messaggio evangelico e costituiva un decisivo momento della sua universalizzazione perché consentiva di superare quella svalutazione del mondano, e dunque della dimensione politica e dello Stato, che era stata propria del cristianesimo medievale 29

lvi, p. 79 sgg. Sull'iniziale critica hegeliana del cristianesimo v. lPOC, p. 327 sgg. 30 HQN, pp. 138 sgg. e 148 sgg.

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e poi elemento fondante dell'intinùsmo cattolico. La traduzione in volgare della Bibbia, in particolar modo, che aveva reso più disponibile alle larghe masse popolari un rapporto diretto e razionale con l'assoluto e aveva abolito ogni distinzione tra autorità religiosa e laicità profana "divinizzando" il mondo reale, era per Hegel - il quale coglieva il significato tutto politico e progressivo del protestantesimo nel clima cattolicheggiante della Restaurazione e delle rivolte sanfediste contro le istanze liberali e costituzionali - «il punto di partenza dello svilppo culturale e politico moderno, lungo una linea di continuità con l'illuminismo ... e la stessa Rivoluzione francese»s1, oltre che con la società borghese. Lo stesso significato Losurdo individuava nell'apprezzamento di Hegel verso la figura di Federico II e nel suo atteggiamento più generale nei confronti della monarchia prussiana32• Più che di acquiescenza conservatrice verso il potere costituito, si trattava anche in questo caso dello sforzo di ricollocare la tradizione nazionale tedesca nell'ambito dell'evoluzione politica europea e della storia generale della libertà. L'ammirazione per il monarca riformatore - che non taceva sui limiti politici di questo sovrano, soprattutto rispetto alla sua scarsa comprensione della questione nazionale - era semmai la difesa della cultura illuministica da questi promossa in collegamento con gli intellettuali francesi e perciò la difesa dello spirito razionalistico e dell'individuo moderno contro l'oscurantismo rea zion Ivi, p. 74. 32

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Ivi, p. 161 sgg.

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nario, come già era stato compreso da Kant. il sovrano prussiano, inoltre, nel suo sforzo di costruzione di una burocrazia efficiente e di un ceto di funzionari competenti e disinteressati, così come nella sua razionalizzazione amministrativa della Prussia, aveva incarnato per Hegel lo spirito dello Stato moderno impegnato ad affennare l'universalità della legge e l'interesse generale contro i particolarismi e i privilegi dell'aristocrazia feudale. Progressivo era quindi per lui il significato dell' assolutismo illuminato, nel contesto dell'arretratezza tedesca,3, Era semmai la diffusa contestazione di marca aristocratica nei confronti dello "statalismo" federiciano, della sua costruzione di uno "Stato-macchina" accusato di opprimere l'individualità e i diritti personali, nonché la rivendicazione romanticheggiante della politica come arte ed esercizio del solo genio, a rappresentare in quel periodo la reazione conservatrice all'avanzata della modernità. In questo senso, anche la celebrazione della Prussia negli anni berlinesi non era riconducibile a un cedimento di Hegel allo sciovinismo, né costituiva l'esaltazione del paese dell'assolutismo, della politica di potenza e del militarismo guerrafondaio, come invece sosterrà più tardi certa vulgata storiografica, ma era parte integrante di una precisa politica culturale che, negli anni della Restaurazione e della xenofobia, mirava a ridefinire la Prussia come uno «Stato fondato sul pensiero»34 • Nei momenti più alti della propria storia, la Prussia ;; lvi, pp. 189sgg. e 200 sgg. " Ivi, p. 236.

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aveva saputo essere il paese della Riforma, dell'illuminismo tedesco e poi dell'idealismo, del codice civile e delle leggi antifeudali di Stein e Hardenberg: se si fosse mantenuta all'altezza di questa tradizione e non si fosse chiusa nel provincialismoteutomane scaturito dalle guerre di liberazione, quelLand avrebbe potuto rappresentare in questo senso la punta avanzata della modernità in terra tedesca. Poteva proporsi, cioè, come il vero contraltare di quell'Inghilterra liberale che negli stessi anni veniva esaltata dagliJunker come patria delle libertà contro l'assolutismo statale "giacobino" ma che era stata condannata al contrario da Hegel come nemica della rivoluzione e come terra del privilegio ereditario e dello sciovinismo nazionalistico35. Era nella filosofia tedesca e in particolare nell'idealismo, però, che la tradizione culturale della Germania forniva secondo Hegel il suo contributo più importante e originale all'affermazione della libertà universale36 • Come abbiamo visto, durante e dopo la Rivoluzione francese il fronte reazionario aveva denunciato con Burke e i suoi epigoni il ruolo sovversivo della filosofia e della teoria, vedendo in esse il «fanatismo»'; e persino il «delirio» di una ragione astratta, atea e sacrilega di fronte all'autorità suprema della fede, nonché irrispettosa di fronte ai diritti storici dei ceti superiori e delle istituzioni sancite dall'Ancien Régùne; una ragione pronta a tagliare le teste e persino a radere al suolo il mondo pur di farlo rientrare nella camicia di forza dei Ivi, p. 243 sgg. ) 6 Ivi, p. 207 sgg. n Sulla «follia» rivoluzionaria cfr. REV, p. 37 sgg. )5

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propri principi universali. Dopo le guerre di liberazione, poi, anche gran parte di quegli intellettuali patrioti che avevano dedicatole proprie riflessioni a un'analisi simpatetica della rivoluzione e che avevano cercato di trasporne le idee in Germania, salutando con entusiasmo il rinnovamento filosofico inaugurato da Kant, nel mutare drasticamente la loro posizione contesteranno l'idealismo come una stagione di pensiero filofrancese, un momento di subordinazione culturale al nemico. Come ha spiegato Losurdo, Hegel vedeva invece nella filosofia - la cui furia razionalistica e legislatrice veniva attaccata in quegli anni in particolare dalla «scuola storica» in nome del «diritto consuetudinario vivente»3s e della peculiarità delle tradizioni feudali tedesche - l'autocoscienza del proprio tempo e cioè la comprensione concettuale dello spirito del mondo al livello al quale questo era giunto39. I n altre parole, essa era la confutazione di quella visione reazionaria che denunciava la "prosa" del mondo moderno come una forma di inarrestabile decadenza rispetto alla "poesia" degli antichi, dei nobili costumi o dei valori religiosi e spirituali. E a questo culto giustificazionista di un passato idealizzato contrapponeva il riconoscimento dello Zeitgeist, dell'inarrestabile progresso storico sospinto dalla marcia della libertà universale, che rivoluzionava tutte le istituzioni e consuetudini ormai intimamente esaurite40 •

Cit. in IPOC, p. 285. HQN, p. 216 sgg. 0 ◄ IPOC, p. 289 sgg.

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A questa consapevolezza, proprio la Germania e i suoi intellettuali avevano fornito il contributo maggi.ore attraverso l'idealismo: in quella stagione si era attuata una vera e propria «rivoluzione filosofica»41, la traduzione in termini di pensiero di quello sconvolgimento reale che in Francia era avvenuto sul piano politico. L'idealismo era dunque a tutti gli effetti parte integrante del cammino della libertà, a partire dall'affermazione dell'autonomia della ragione, dalla rivalutazione dell'autocoscienza finita di fronte a quella assoluta, del mondano - e del politico - rispetto al trascendente42 • Denunciare il ruolo di controllo sociale e il fiancheggiamento ideologico della religione nei confronti del potere politico4> e affermare, contro ogni scetticismo o malinteso criticismo, la potenza conoscitiva della ragione nei confronti del mondo (sottoponendo al suo tribunale qualunque autorità e istituzione, in primo luogo quelle storiche e consuetudinarie che i difensori del feudalesimo ritenevano naturali e incontestabili), era in questo senso il passo preliminare per affermare, conseguentemente, la missione di rinnovamento e trasformazione razionale che Hegel assegnava alla filosofia. Non rinchiudersi con pathos spiritualistico nell'introspezione dei problemi della coscienza e dell'esistenza individuale, né moraleggiare con intenzione edificante: aprirsi invece alla totalità, informare il mondo secondo principi universali che si realizzino •• HQN, p. 211. • 2 IPOC, p. 121 sgg. • 3 Ivi, pp. 321 sgg. e 279 sgg.

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in istituzioni oggettive, nella forma dello Stato che si impone sopra gli interessi particolari della società civile e ne regola i conflitti attraverso la costituzione e il governo di una legge scritta e valida per tutti. La filosofia idealistica era in questo senso non solo «profondamente radicata nella vita nazionale tedesca» 44 ma era anche indissolubilmente connessa «allo sviluppo storico moderno dell'Europa .. . alle sue idee e ai suoi risultati più avanzati». Questa politica culturale - che era anche in qualche modo un'aspra lotta di "partito"45 e veniva fermamente osteggiata dai sostenitori della Restaurazione e dalla censura - si dipanerà tra alti e bassi lungo tutto il corso della vita di Hegel, da Jena a Berlino, e avrà un'influenza notevole non solo nella vita intellettuale tedesca ma anche in quella politica. Agli oppositori dello status quo feudale, entusiasmati dal risveglio nazionale, Hegel offriva con ciò una piattaforma politica razionale, rivolta a una comprensione concettuale della realtà storica e delle sue contraddizioni. Era una piattaforma nettamente alternativa rispetto al facile sentimentalismo di chi, come Fries, si richiamava alla grandezza del passato medievale, all'"onore" tedesco o addirittura ai miti nibelungici di una Germania eterna46• Una posizione molto popolare, questa; ma che, per la sua xenofobia antifrancese e spesso anche giudeofoba, così come per il suo irrazionalismo e per il richiamo al primato della tradizione e della religione HQN, p. 210. ., lvi, p. 297 sgg. ◄6 lvi, pp. 352 sgg. e 362 sgg. ◄
>9> delle classi subalterne. Senz'altro notevoli andavano dunque considerate le distanze tra Hegel e il liberalismo della sua epoca. A questo punto, però, nell'analisi di Losurdo, rispetto n lvi, p. 170sgg.

,s lvi, p. 158.

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all'immagine consueta del filosofo tedesco le parti si erano completamente rovesciate ed era il liberalismo a dover rendere conto delle proprie origini feudali e particolaristiche e della propria arretratezza rispetto a un pensiero che si era dimostrato capace di pensare in maniera più compiuta,perché più universale, la libertà moderna. Si ritorna perciò ancora una volta alla Rivoluzione francese e al nesso che sussiste tra Hegel e tutta la tradizione rivoluzionaria che ad essa nel corso del XIX e XX secolo si sarebbe ispirata. Il fatto è che Hegel ha riconosciuto fino in fondo questa rivoluzione come la definitiva affermazione del principio della Allge,neinheit e, sebbene non ne condividesse le posizioni, ha coinvolto in questo giudizio positivo anche le sue componenti più radicali. il 1789 non è stato una semplice rivoluzione borghese ma una rottura storica che portava nel proprio seno un elemento popolare e «plebeo» che andava anch'esso riconosciuto, se l'idea di eguaglianza universale doveva essere presa sul serio fino in fondo94 • Persino il Terrore, in questo senso, mostrava di avere nell'analisi hegeliana le proprie ragioni. Di fronte a questa deviazione massimalistica della rivoluzione, invece, il liberalismo dell'epoca si era «ritratto inorridito»95, Conservando per sempre, a partire proprio da Burke, il rimpianto perii sovvertimento che la Dichiarazione dei diritti universali dell'uomo aveva rappresentato rispetto al modello costituzionale della Rivoluzione inglese, un modello che solo parIvi, pp. 107 e 135-40. ,s Ivi, p . .398.

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ziahnente era stato intaccato dall'indipendenza delle colonie americane ma che la nuova repubblica francese aveva reso completamente obsoleto96 • Non è stato un caso, perciò, che mediante «periodici movimento di reazione»97 la borghesia europea abbia cercato - e, come sappiamo, cerchi ancora oggi - «di depurare il più possibile il regime liberale degli elementi di natura democratica o sociale» introdotti dalla lotta delle classi subalterne e da essa «considerati spuri». Le remore del liberalismo di fronte agli eventi francesi erano però secondo Losurdo soltanto il sintomo di un più ampio «disagio»9s del liberalismo di fronte alla modernità stessa. Se ha comportato l' affennazione della società borghese, quest'ultima ha preparato però anche l'emergere di contraddizioni sociali che generano inevitabilmente conflitti per l'allargamento della libertà e dei diritti, vere e proprie lotte per il superamento delle clausole d'esclusione e per l'universalità. A partire da queste lotte, la modernità implica dunque anche l'attivazione di una serie di processi di democratizzazione e massificazione di fronte ai quali l'individuo proprietario ha sentito messi in pericolo i fondamenti del proprio privilegio e del potere sociale e politico appena conseguito. La denuncia della «mediocrità minacciosamente avanzante del mondo moderno» è sempre stata di conseguenza «un tema ricorrente della tradizione liberale» in quanto ha costituito il primo sintomo dell' «angoscia» e del «disgusto ispirati da un temutofuturo, dal pericolo 96

REV, pp. 43-5. REP, p. 40. 98 HLM, pp. 331-35. 97

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mortale del socialismo». Ed è per questo che, sulla scia dell'atteggiamento di Burke verso la Rivoluzione francese, né Tocqueville né Constant, né Mili né Bentham, né a maggior ragione i liberali tedeschi potranno riconoscersi nell'identificazione hegeliana di reale e razionale, laddove potranno ben farlo, invece, Marx, Engels e la tradizione socialista. Anche nel Novecento, del resto, il «legame ... tra critica della modernità e tradizione liberale>>99 continuerà a sussistere in maniera evidente, soprattutto in autorineoliberali radicali come Hayeke Strauss, finché nel revisionismo storico oggi dominante si giunge all'esplicita «condanna senza appello»ioo della stessa Rivoluzione francese, contrapposta alle rivoluzioni liberali anglosassoni o atlantiche e «ormai vista come prima tappa del processo rovinoso che conduce alla rivoluzione d'Ottobre e alle rivoluzioni del Terzo Mondo», vera e propria «minaccia» per «le basi stesse della "civiltà occidentale"». La grandezza di Hegel è consistita perciò, per Losurdo, esattamente nel fatto che il filosofo tedesco è riuscito a tenere insieme il riconoscimento sostanziale della modernità e la comprensione di quelle sue contraddizioni che esigono un superamento attivo; nell' equilibrio, dunque, tra rivendicazione e critica dello spirito del proprio tempo. Nel teorizzare l'esistenza di diritti materiali, di un «diritto di vivere»101 superiore al diritto della proprietà privata, Hegel ha colto la vera lezione di Robespierre e cioè «la messa in discussione che il '' HEID, p. 195. 100 REV, p. 17. 101 Cit. in HLM, p. 243.

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processo di radicalizzazione della rivoluzione ha operato del rapporto, istituito dalla tradizione liberale, tra politica ed economia>;,,1°2 • Proprio per questo, egli ha potuto enunciare la natura politica e strutturale della questione sociale nell'ambito di una società industriale che moltiplicava la ricchezza ma anche i bisogni insoddisfatti. A questo punto, secondo Losurdo, siamo però già oltre: «la filosofia hegeliana della storia, mentre legittima pienamente il moderno, non considera concluso, o consente comunque di non considerare concluso il processo di emancipazione che nel suo ambito si è sviluppato», e questo perché essa ci permette di individuare i «limiti di classe» entro cui tale processo si è sinora svolto. Le molteplici clausole di esclusione, cioè, che avevano impedito il pieno superamento di ogni particolarismo e che richiedevano da quel momento in avanti di essere superate nella direzione dell'universalità.

7. Da Hegel a Marx Siamo giunti a un punto di svolta che ha segnato il passaggio di testimone, nella lettura di Losurdo, dal pensiero di Hegel al materialismo storico. Grande ma breve, del resto, è stata la stagione dell'egemonia hegeliana in Germania. Negli anni Trenta dell'Ottocento sembrava ormai assicurato un futuro di pace e progresso all'Europa e si realizzava finalmente l'unità del movimento liberale tedescol03• Era l'esito che Hegel aveva 102 100

Ivi, pp. 397-98. HQN, p. 521 sgg.

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auspicato, constatato il fallimento di una restaurazione che non era riuscita ad arrestare la marcia dei principi di libertà inaugurati dalla Rivoluzione francese; un esito felice che il filosofo giudicava ormai raggiungibile in modo «evoluzionistico e gradualistico>>1°4 , senza eccessivi sconvolgimenti sociali e internazionali e attraverso un'opera illuminata di moderate riforme dall'alto. È per questo motivo, secondo Losurdo, e non per una piega conservatrice del suo pensiero, che Hegel sarebbe stato molto cauto a proposito della Rivoluzione di luglio, temendo un'ondata di conflittualità internazionale che avrebbe portato a una nuova guerra tra Germania e Francia e al risveglio sia dell'espansionismo francese che dell'ideologia teutomane. Ed è sempre per questo, oltre che per un'incomprensione del nesso tra la questione nazionale e la coscienza religiosa radicata in questi paesi, che sarebbe stato freddo anche verso l'agitazione del Belgio cattolico contro l'Olanda protestante e verso il movimento polacco, due sollevazioni sospettate di essere inclini al sanfedismo105. Se Hegel non ebbe il tempo di approfondire questi avvenimenti, sarà però la sua scuola a farlo e a coglierne il significato progressivo in continuità con la lezione e il metodo del maestro. Dal 18.30 in avanti, «movimento liberale e movimento nazionale»106 in Germania si avvicineranno l'un l'altro e l'hegelismo dispiegherà a quel punto la sua massima influenza: «tutti i momenti fondamentali della sua ritrascrizione in chiave naziona104 105

'°' 176

Ivi, p. 475. V. pp. 475-86. Ivi, pp. 486-90 e 490-05. Ivi, pp. 522 e 524.

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le tedesca della storia della libertà diventano ... altrettanti punti di riferimento ... per una parte consistente del movimento liberale» e «altrettante parole d'ordine nella lotta per il rinnovamento culturale e politica». Si trattava però di un successo effimero. L'awento altrono di Prussia di Federico Guglielmo IV avrebbe posto fine in pochi anni all'egemonia della politica culturale hegeliana e avrebbe mandato al governo la generazione dei Be/reiungskriege, riportando al tempo stesso in auge la cultura romanticheggiante e teutomane di quel periodo1°1. I liberali, il "partito filosofico hegeliano" e i settori progressisti filofrancesi dell'apparato statale sarebbero stati invece messi nell'angolo, anche per il palese riemergere della conflittualità franco-prussiana. Soprattutto, però, l'ingresso sulla scena politica europea e tedesca del movimento operaio, che affermava di voler raccogliere e rilanciare le parole d'ordine di libertà della Rivoluzione francese, stava per comportare un «decisivo mutamento»108 della situazione politica. La scuola hegeliana, o quantomeno una sua parte, aveva saputo interpretare queste trasformazioni oggettive ed era stata costretta dagli awenimenti stessi ad un «processo di radicalizzazione»109: è questo che spiega il grande ruolo propulsivo di questa scuola nell'agitazione del Vor111a17,. Il fallimento del '48 in Francia (dove l'awento del bonapartismo sembrava rinnovare i pericoli dell'espansionismo napoleonico) e nella stessa Germania imponeva però da quel momento la necessi,o; lvi, p. 533 sgg. 108 Ivi, p. 515. 109 Ivi, p. 534. V. pp. 540-01 e 545-46.

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tà di prendere atto di una situazione storica e politica radicahnente nuova, con il passaggio della borghesia tedesca dal patriottismo democratizzante delle sollevazioni appena concluse a posizioni che divenivano di nuovo ferocemente antifrancesi e antidemocratiche. E' di quegli anni la nascita del partito nazional-liberale, che si sarebbe orientato verso una politica piccolotedesca e avrebbe atteso il conseguimento dell'unità nazionale unicamente dalla potenza militare prussiana, respingendo ogniideale democratico e ogni spinta popolare dal basso. L'avventodelnazional-liberahsmo, che avrebbe dominato la successiva storia della Getmania, sancirà perciò a quel punto «il definitivo tramonto dell'hegelismo nella cultura tedesca ... in stretta connessione col progressivo ripudio delle idee del 1789»110• La lezione di Hegel sarà spazzata via dallo «sciovinismo culturale, prima ancora che politico», legato alla guerra franco-prussiana. Mentre la scuola si dissolverà e alcuni suoi esponenti, come David Strass, passeranno alnazional-liberahsmo, altri discepoli di Hegel avvertiranno però la necessità di elaborare posizioni nuove e si accosteranno al movimento socialista nascente111 •

110

Ivi, p. 547. Su D . Strauss v. ivi, pp. 549-52. Sulla progressiva spaccatura nella scuola hegeliana in relazione al precipitare degli avvenimenti storici concreti v. ivi, p. 528 sgg. e, per capire come questa spaccatura si rifletta nell'interpretazione delle categorie filosofiche del maestro, IPOC, pp. 217 sgg. e 243 sgg. 111

178

Integrazioni al capitolo II LOSURDO, HEGEL E IL MARXISMO

di E,niliano Alessandroni

II.a Lotte per il riconoscimento e universale concreto in Hegel secondo Domenico Losurdo

Nella storia della filosofia, Hegel è stato il pensatore che più di ogni altro ha concepito il mondo sociale e politico non come un momento dell'essere secondario e derivato ma come il regno in cui la realtà si concretizza, come il luogo in cui l'essenza giunge a manifestarsi. E' un aspetto che, sottolineava Losurdo, lo collocava agli antipodi della prospettiva naturalistica cara fra gli altri a Friedrich Schiller, per il quale «"solo sui monti è libertà!"» e cioè «solo dove la natura è ancora incontaminata dall'uomo» e «si è lontani dal rumore effimero degli sconvolgimenti storico-politici» il mondo «"è perfetto"». Ed è proprio«contro Schiller e la sua "invocazione alla natura"», del resto, che più volte «aveva polemizzato Hegel», il quale respingeva «ogni evasione consolatoria ... dalle contraddizioni e dai conflitti del mondo politico»1 anche quando essa, 1

180

LC, p. 48.

IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

anziché asswnere la veste dell'intimismo religioso e dell'estasi naturalistica, si presentava nelle forme del campanilismo sociale, owero come il fascino per la piccola comunità che vive ai margini dei grandi eventi umani. Si tratta di «una retorica che in Germania si era diffusa già dai tempi della Rivoluzione francese e della reazione ad essa» e contro una simile narrazione persino «nell'Estetica Hegel aveva osservato che, mentre da un lato può stimolare un atteggiamento da "ottuso filisteo", la ristretta cerchia sociale propria di un piccolo paese di campagna non protegge dai "maggiori awenimenti mondiali"» e cioè «dai grandi sconvolgimenti storici>>2. Vi è tuttavia un'ulteriore evasione rispetto alle contraddizioni di cui si compone l'oggettività sociale che era stata sottoposta a dura critica da Hegel ma che eserciterà nondimeno pesanti influenze sullo stesso Marx. Un'evasione che si fonda su una dilatazione dell'intenzionalità e del dover essere talmente estrema che finisce per conferire autonomia alla sfera soggettiva e per subordinare a quest'ultima la realtà oggettiva con le sue molteplici articolazioni. Si tratta di un «idealismo della prassi» che rinvia in particolare a Fichte - nella cui filosofia il Fur sich si svincola dall'.An sich, l'interno dall'esterno, fino ad acquisire un'indipendenza motoria e produttiva - e che emerge in modo lampante, ad esempio, nel «parallelismo» che questi istituisce «tra la sua Dottrina della scienza e l'energica azione della Francia rivoluzionaria»: «"Come quella nazione dà all'uomo 2

Ivi, p. 341.

181

Stefa,w G. ~arà

la libertà dalle catene esterne"», diceva il filosofo, «così il mio sistema lo libera dai vincoli delle cose in sé, dalle influenze esterne"». Era una teorizzazione densa di «pathos» del carattere infinito della potenza soggettiva e «dell'agire dell'uomo» che Hegel non poteva apprezzare, evidentemente. Eppure, notava Losurdo, in Marx ed Engels «la presenza di Fichte e quella di Hegel», lungi dal divaricarsi, per un lungo periodo «coesistono, in un intreccio a tratti contraddittorio». I fondatori del materialismo storico, infatti, si formano negli anni in cui da un lato sono ancora presenti gli echi della Rivoluzione francese, dall'altro già s'intravvedono i segni premonitori della rivoluzione che nel 1848 avrebbe investito l'Europa continentale e che, nelle speranze dei due giovani rivoluzionari, oltre ai vecchi rapporti feudali, avrebbe finito col mettere in discussione anche l'ordinamento borghese. Collocati tra queste due gigantesche ondate di sconvolgimenti storici che sembrano dover rimodellare il mondo dalle fondamenta e aprire uno spazio sconfinato alla trasformazione rivoluzionaria promossa dalla lotta di classe, ben si comprende che ... risultino inclini anche loro a slittare nell'idealismo della prassi. Nel futuro comunista evocato da Marx ed Engels, assieme all'antagonismo delle classi, sembrano dileguare il mercato, la nazione, la religione, lo Stato e forse persino la norma giuridica in quanto tale, resa tanto più superflua da uno sviluppo delle forze produttive cosi prodigioso da consentire il libero appagamento di ogni bisogno, col superamento quindi del difficile compito della distribuzione delle risorse. In altre parole, è come se dileguassero i

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IL CONFRONTO CON LA PILOSOPIA CLASSICA TBDBSCA

"vincoli delle cose in sé". Non a caso il tema dell'estinzione dello Stato si affaccia già in Fichte5 .

Verùva qui sottolineato, in sostanza, come l'attitudine a evadere dalle contraddizioni che lacerano il tessuto storico-sociale sia stata sottoposta da Hegel a una critica così profonda e articolata da superare in oggettivismo le stesse teorie di Marx ed Engels, le quali nel sistema hegeliano possono trovare un sostegno teorico utile per evitare o superare le frequenti ricadute nell'idealismo della prassi che contraddistinguono, come vedremo più avanti, anche la storia del marxismo. Questa propensione oggettivista di Hegel costituisce dunque un contributo di enorme valore scientifico per lo stesso materialismo storico. Secondo Losurdo, tuttavia, la filosofia hegeliana non conteneva soltanto elementi che avrebbero potuto integrare questa teoria indirettamente ma anche principi che la chiamano in causa in modo diretto, a partire dal concetto di lotta di classe. A ben vedere, infatti, il conflitto sociale e di classe è ben presente inHegel, che ad esso fa costante riferimento per spiegare ad esempio il crollo nell'antica Roma della monarchia, rovesciata da wi'aristocrazia decisa a rafforzare il suo dominio sulla plebe, o per gettar luce sul processo che in età moderna vede la monarchia assoluta linùtare progressivamente il potere e i privilegi di wi'aristocrazia feudale tenacemente aggrappata ai suoi privilegi e al servaggio e allo sfruttamento imposti alla massa di contadirù. D'altro canto, [anche] conl'awento dello Stato 3

Ivi, pp. 241-42.

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Stefaw G. karà

rappresentativo moderno scaturito dalla Rivoluzione francese, per Hegel il conflitto sociale è tutt'altro che dileguato: il proletario licenziato o inabilitato a lavorare,il povero che rischia la morte per inedia è in una condizione simile a quella dello schiavo e dunque ha pieno diritto di ribellarsi4.

Occorre oltretutto considerare come per Hegel la lotta di classe non fosse soltanto di natura materiale: tenendo conto che per secoli sono sopravvissute «clausole d'esclusione a danno dei popoli coloniali, delle classi subalterne, delle donne», clausole cioè che estromettevano intere categorie di esseri umani dal concetto di uomo, commentava Losurdo, ecco che per lui «il conflitto sociale è al tempo stesso una lotta per il riconoscimento» e che «la teoria generale del conflitto sociale è al tempo stesso una teoria generale della lotta per il riconoscimento>>5. Già nella filosofia hegeliana il processo di emancipazione che viene innescato dalla lotta di classe non si presentava soltanto come una forma di redistribuzione più equa della ricchezza ma mirava anzitutto ad estendere il concetto di uomo e ad abbattere le clausole di esclusione che, dal canto loro, tendevano a comprimere questo concetto. Esattamente come la denuncia marxiana dei fenomeni di immiserimento materiale a danno dei lavoratori sarà al tempo stesso anche la denuncia delle pratiche di imbarbarimento antropologico, de-umanizzazione e disconoscimento che il sistema capitalistico mette in moto. • Ivi, p. 56. ' Ivi, p. 10.3.

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II.b Hegel: dalle lotte per il riconoscimento fra gli individui e fra le classi sociali alle lotte per il riconoscimento fra le nazioni

Ma l'idea hegeliana di riconoscimento non riguardava secondo Losurdo soltanto gli individui e i ceti sociali: essa aveva a che fare anche con i conflitti tra le nazioni. Proprio l'osservazione di questi conflitti aveva già consentito a suo avviso a Kant, a partire dall'ideale di pace perpetua, di sviluppare nel tempo una più matura coscienza dell'universalità. «"L'aspirazione di ogni Stato (e del suo sovrano)"» a «"porsi nella condizione di pace durevole dominando, se è possibile, l'intero mondo"» non avrebbe costituito affatto, sosteneva, il trionfo della pace universale ma semmai quello di una «"monarchia universale"», ovvero di un «"dispotismo senz'anima"» che, oltre a costituire la «"vera tomba della libertà"», avrebbe comportato altresì una «stagnazione culturale ed economica». L'idea di pace universale poteva svilupparsi dunque, per il filosofo, soltanto in antitesi alla monarchia universale, giacché implicava «la molteplicità e la permanenza degli Stati, dei popoli, delle culture, dei

185

Stefa,w G. A.zzarà

centri di potere». D'altro canto, essa non poteva però «neppure essere confusa con la "repubblica universale"», owero con «un unitario "Stato di popoli" di dimensioni mondiali», il quale avrebbe annichilito il molteplice e le diverse specificità di cui questo si compone. Ecco che Kant finiva per maturare allora «una coscienza nuova ... in grado di pensare un'universalità che non inghiotte le peculiarità e identità nazional.i.>>1 . Si tratta di un principio che avrebbe trovato un'enunciazione teoretica esplicita proprio in Hegel, secondo il quale «l'universalità concreta è tale nella misura in cui "abbraccia in sé la ricchezza del particolare">>2. Di tale principio Hegel darà però un'articolazione molto più sistematica e coerente di quanto non avessero fatto lo stesso Kant e poi Fichte, perché comprenderà che in detenninate circostanze - in vistoso aumento in seguito allo sviluppo del mondo moderno - è l'universalità stessa che può assumere una configurazione violenta e rovesciarsi nel proprio contrario, fino a promuovere l'affermazione di una realtà opposta a quella prefigurata nei principi. Ci troviamo, spiegava Losurdo, non più di fronte al «comune empirismo, che cerca di far valere un contenuto detenninato in concorrenza o in contrasto con altri contenuti determinati, nel corso di un confronto in cui si misurano diversi e contrastanti interessi», ma in un caso differente: «ora», commentava, «"l'assolutezza che è nel principio" viene estesa a un contenuto empirico determinato, il quale risulta trasfigurato e innalzato alla dignità di assoluto». 1 2

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MSG, pp. 43-44, con citazioni di Kant. Ivi, p. 147.

IL CONFRONTO CON LA Pn,OSOPIA CLASSICA TEDESCA

Nella misura in cui presenta «interessi particolari e determinati quali espressione di valori universali e indiscutibili», però, questo «"empirismo volgare"», o «"empirismo assoluto"», mette capo a «uno stravolgimento e una truffa» che sono inaccettabili «non solo sul piano "scientifico" ma anche su quello "etico"»3 • Grazie a questa comprensione, Hegel era riuscito a risolvere una «conu-addizione di fondo» presente nel discorso di Kant e Fichtesulla pace perpetua. Pur cercando «la realizzazione di questo ideale sull'onda del rovesciamento dell'Antico regime e dell'assolutismo monarchico», e cioè puntando a eliminare la distanza tra potere decisionale e volontà collettiva, entrambi finivano infatti «con il prendere di mira in particolare un paese (la Gran Bretagna) in cui lo sviluppo economico e commerciale aveva soppiantatoil mondo feudale e la rivoluzione politica aveva imposto il regime rappresentativo». Hegel spiegherà invece come il fatto che i responsabili delle guerre post-rivoluzionarie in Europa fossero proprio «i due paesi più moderni e più sviluppati» 4 non fosse affatto un'anomalia logica: l'esaltazione sfrenata dell'universalità poteva infatti indurre questi paesi a ritenerne legittima l'esportazione anche per via militare. Si trattava di «"un entusiasmo che riduce a uno stato di dipendenza"».5 e così, ad esempio, «"la repubblica francese"», la quale «"operava rigorosamente secondo principi generali, li realizzava con la sua forza fin nei minimi particolari, e schiacciava 3

Ibidem.

• Ivi, pp. 143-44. 5 Hegel, ivi, p. 141.

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Stefa,w G. Azzarà

sotto tali principi tutti i diritti e le situaziorù particolari"». Bisognava dunque «"distinguere tra dichiaraziorù pubbliche e obiettivi realmente perseguiti"», i quali possono condurre a un esito contrario rispetto a quanto promesso verbalmente. Le guerre condotte dall' esercito di Napoleone, nel caso specifico, non intendevano certamente «aiutare i popoli nella loro lotta per il progresso», come spergiurava la propaganda francese dell'epoca, ma rispondevano «a una spietata logica borghese di accumulazione della ricchezza» e si presentavano pertanto come guerre di «conquista e rapina»6 • Cosa dire del resto dell'Inghilterra liberale, che era già da tempo dotata di organismi rappresentativi ma pretendeva il monopolio del commercio mondiale? Vediamo dunque che la riduzione della distanza tra potere decisionale e volontà collettiva perseguita da Kant e Fichte non contiene di per sé nessuna garanzia di pace. A diventare facile preda di «bollori bellici» possono essere infatti non soltanto le classi dirigenti ma intere nazioni. Ecco allora che l'universalità si rovescia in una particolarità aggressiva, la lotta per il riconoscimento si tramuta in una lotta per il disconoscimento e l'estensione dei diritti in una loro compressione. In questa circostanza, notava Losurdo, a tenere alta la bandiera dell'urùversalità, del riconoscimento e dei diritti non sarà la forza politico-militare a inclinazione espansiva che pure li rivendica apertis verbis ma, al contrario, proprio quella che vi si oppone cercando di difendersi. Dacché tuttavia lo Schein, la «parvenza», esprime secondo He-

6

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Ivi, p. 142.

IL CONFRONTO CON LA Pll.OSOPIA CLASSICA TEDESCA

gel «un livello, sia pure assai superficiale, di realtà»i, la semplice lotta inconsapevole per l'universalità de facto è insufficiente e deve diventare anche una lotta consapevole per l'universalità nei principi e nei valori, nonché una lotta per l'universalitàdejure. In questo senso, nelle condizioni specifiche della Germania dell'epoca, la resistenza nazionale contro l'espansione e la pax napoleonica incarnava certamente un contenuto progressivo ma avrebbe potuto a sua volta «costituirsi in Stato, e in Stato nazionale unitario, solo facendo propri e assimilandola lezione dello sviluppo borghese moderno, "i progressi della ragione e l'esperienza delle convulsioni della libertà francese">>8. E dunque solo liberandosi in via preliminare dall' «odio antifrancese e antirivoluzionario», ovvero, in sostanza, dall'odio verso l'universale. Hegel aveva dimostrato in tal modo, secondo Losurdo, di aver compreso la vicenda di Napoleone e il suo significato meglio di quanto non avrebbe fatto gran parte del marxismo. Meglio di Lukacs, ad esempio, il quale avrebbe ravvisato nell'ostilità di Hegel all'espansionismo francese una progressiva adesione all'orizzonte ideologico della Restaurazione. Ma anche meglio dello stesso Marx, il quale tenderà al contrario «ad assimilare Napoleone ai giacobini»9 suggerendo che «la rivoluzione borghese in Germania sarebbe iniziata con la conquista napoleonica, non già con la rivolta contro di essa»10• Proprio quest'ultima posizione 7

LC, p. 68. MSG, p. 143, con citazioni di Hegel. ' Ivi, p. 220. 10 lvi, p. 219. 8

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Stefano G. A.ttarà

sarà assunta invece da Engels, il quale - in sintonia con la linea hegehana - denuncerà nell'Anti-Duhring l'espansionismo dell'Imperatore di Francia («"la pace perpetua che era stata promessa [dalla Rivoluzione francese] si trasformò in una guerra di conquiste senza fine">>1 1), e in ultimo anche da Lenin, che diversi decenni più tardi parlerà a sua volta di «"imperialismo napoleonico"»12 •

11

12

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Engels, in LC, p. 222. L erun, . 1vi, . . p. 112.

II.e Hegel e il nucleo scientifico del materiahsmo storico

Possiamo ben comprendere, a questo punto, in che senso la filosofia di Hegel fornisse secondo Losurdo gli strumenti concettuah ai quali il marxismo poteva attingere per scongiurare il rischio di uno scivolamento verso letture semplicistiche e binarie degli avvenimenti storici. Essa può costituire in effetti un antidoto contro quei cedimenti "speculativi" che hanno contraddistinto una larga parte del marxismo occidentale, il quale nei suoi momenti più critici ha finito col rappresentare due figure che sono il bersaglio della critica di Hegel: nella misura in cui si appaga della critica e anzi nella critica trova la sua ragion d'essere, senza porsi il problema di formulare alternative percorribili e di costruire un blocco storico alternativo a quello dominante, esso è l'illustrazione della saccenteria del dover essere; allor-

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Stefa,w G. .Azz-arà

ché poi gode della lontananza dal potere come di una condizione della propria purezza, esso incarna l'anima bella1.

Ricordando la nota definizione della filosofia come «"il proprio tempo appreso col pensiero"» - ma ricordando anche la biografia di Rosenkranz, che racconta come l'autore dellaFeno,nenologia fosse «"solito leggere un immenso numero di giornali"» pari soltanto a «"un uomo di Stato"»2 e mescolasse «i ritagli della stampa tedesca e internazionale» ai «classici della filosofia e del pensiero» - , Losurdo sottolineava come nel sistema del filosofo tedesco fosse presente una singolare attenzione per il reale e per l'intreccio di politica, logica e storia. Gli avvenimenti politici venivano da Hegel indagati ma «senza mai appiattirsi sulla loro immediatezza»: «ci s'interroga sul significato anche logico ed epistemologico delle categorie cui fanno ricorso i protagonisti della lotta politica o che sono implicite nel loro discorso» e così «le singole vicende sono inserite in una prospettiva di lunga durata»>. L'attenzione di Hegel verso la realtà non riguardava però soltanto il processo di costruzione filosofica del tempo storico ma, a ben vedere, anche il processo di costruzione storica dei sistemi filosofici. Arturo Massolo aveva evidenziato a questo proposito come Hegel avesse scotto nell'uomo di Kant il Privat,nensch del mondo moderno in ascesa e come anche in Fichte, «in quella assolutizzazione dell'Io che ha tutto l'opposto ai 1

MO,pp. 166-67. Ivi, p. 187. 3 Ivi, p . 188. 2

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IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

suoi piedi», l'autore della Feno,nenologiavedesse «una Erscheinung der Zeit» 4 • E' proprio a partire da queste considerazioni, ricordava Losurdo, che «Massolo matura la ferma convinzione che ai giorni nostri non è più possibile, o comunque non ha più senso, filosofare come si filosofava prima di Hegel e Marx» in quanto la scoperta hegeliana del «"rapporto dei sistemi col loro tempo"»5 costituisce «un risultato irreversibile»6 • Questo rapporto tra sistema ed epoca, tuttavia, non deve essere inteso nei termini di un'emanazione immediata che incatena irresistibilmente ogni discorso filosofico al proprio contesto storico: da un lato, «collocare un autore nel suo tempo non significa negare l'eccedenza teorica presente nel suo pensiero»ì; dall'altro, ogni eccedenza appare riscontrabile soltanto una volta individuato tale rapporto. Si tratta, naturalmente, di un'operazione non semplice. Di un'operazione che non ha però alternative, se si vuole evitare che «alla fatica della ricerca storica» si sostituisca «il pigro arbitrio dell'ermeneutica dell'innocenza»8 • Losurdo ricordava ancora come per Massolo «se è vero, come dice Hegel, che ogni filosofia è figlia del proprio tempo, è pur vero che ancora con Hegel

• A. Massolo, Pn'me ricerche di Hegel, in Id., La storia della filosofia come problema ealtrisaggi, a cura di L. Sichirollo, Vallecchi, Firenze 1967, p. 52 1 MASS, p. 51. 6 lvi, p. 53.

'MO,p. 189. 8 Ibidem.

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Stefa,w G. A.zzarà

dobbiamo distinguere tra espressione e concetto>>9 di questo stesso tempo. Questa distinzione sarà a ben vedere la medesima che verrà tracciata da Marx fra ideologia e scienza. In entrambe queste coppie lessicali, il secondo termine, vale a dire rispettivamente il concetto e la scienza, corrisponde ali'«eccedenza teorica». Quest'ultima - e quindi la concettualità e la scientificità di un discorso - può crescere nondimeno soltanto tenendo presente il rapporto tra storia e pensiero. In caso contrario, il discorso potrà anche assumere forme astratte e generali, potrà anche esprimere finalità universali, ma risulterà comunque modellato in maniera inconsapevole dalle pulsioni del proprio tempo, le quali avranno agito tanto più in profondità sulle sue categorie generali quanto più esso tali pulsioni avrà deciso di ignorare. Si assiste perciò alla «"vanificazione della filosofia in ideologia ... ogni qual volta noi, credendo di trascender la società nella quale viviamo, la subiamo e la riflettiamo con la fedeltà, ma anche con la vile inerzia di acque stagnanti"»10 • Il rifiuto di pensare la società e i suoi conflitti, in altre parole, la rinuncia alla loro deliberata concettualizzazione, porta inevitabilmente a subire l'azione di questi conflitti sulle nostre /or1nae ,nentis e dunque, da ultimo, allo scivolamento del discorso in una mera espressione del nostro tempo, in una ideologia.

A. Massolo, Schelling e l'idealismo tedesco, in Id., La storia della filosofia ... , cit., pp. 125-26. 10 A. Massolo, in MASS, pp. 63-4. 9

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III «MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

1. Recuperare l'autono,nia del pensiero

L'eredità della lezione hegeliana è stata rielaborata da Marx ed Engels a panire dal pieno assorbimento del nesso tra critica filosofica, indagine storica e analisi politica, dunque: su queste basi, essa costituirà per un ceno periodo un elemento costitutivo - ma, come vedremo, non sempre quello dominante - della tradizione del materialismo storico1 • Incontriamo qui un altro filone imponante del lavoro di Losurdo: l'approfondimento delle categorie del marxismo e il bilancio storico del movimento radicale e rivoluzionario come prima sperimentazione della ricostruzione di una teoria storico-materialistica che faccia i conti con il proprio passato e si attrezzi alle necessità dei nostri tempi. Per comprendere come Losurdo abbia affrontato questa 1

Cfr. HLM, pp. 401-2 e HQN, p. 399.

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Stefaw G. A.n-arà

tematica, bisogna però in primo luogo sottolineare quanto in profondità nella sua lettura l'insegnamento della filosofi.a classica tedesca fosse diventato un metodo acquisito e persino una pratica di vita. Losurdo si è confrontato con le questioni teoriche e con l'esperienza storica della tradizione rivoluzionaria, infatti, nel momento stesso della sconfitta e dissoluzione di quest'ultima, alla fine degli anni Ottanta del Novecento. In un momento cioè, fatte le debite distinzioni, sostanzialmente assimilabile sul piano idealtipico sia a quello della degenerazione napoleonica della Rivoluzione francese e della Restaurazione, sia a quello della momentanea sconfitta delle sue conseguenze, segnata dal fallimento del 18482. Proprio l'esempio dell'atteggiamento e del paradigma hegeliano diventerà a quel punto un riferimento privilegiato nella ricostruzione della storia e della tragedia del movimento comunista. Molti intellettuali italiani stavano vivendo negli stessi anni «il radicale mutare dello spirito del tempo>>-3 nella forma di un'insuperabile fine dei miti e ne avrebbero tratto spunto per transitare a posizioni politiche e ideologiche molto diverse. Non si tratta soltanto di transfughi passati al liberalismo. Anche per un autore come Marco Revelli, per citare un nome di rilievo - il quale ha continuato senz'altro a collocarsi nella "sinistra critica"-, a causa del suo «smarrimento "dell'anima"»4 e del tradimento del suo «senso ideale», 2

FUGA,p. 7. ; REV, p. 18.

• M. Revelli, Oltre il Noveçento. La politiça, le ideowgie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

il comunismo aveva «irrimediabilmente consumato ogni credibilità» e andava posto ormai «nel campo dei progetti non solo praticamente non realizzabili, ma neppure teoricamente auspicabili». Losurdo ha scelto invece di percorrere una strada diversa, che non passava né per la facile abiura di chi proclamava il comunismo come un cane mono, né per un arroccamento nostalgico e antiscientifico nella difesa di un passato sconfitto. Non si potevano negare «gli errori», «i crimini», «i disastri>>-5, né la catastrofe finale delmovimento comunista novecentesco, cenamente; ma questa autocritica non aveva nulla a che fare per lui con una condanna di natura etica, né con la criminalizzazione di una tradizione di pensiero e di lotte senza la quale non sarebbero stati pensabili la democrazia moderna e la configurazione delle società occidentali avanzate. Il problema era dunque per tanti aspetti il medesimo che oltre un secolo prima era stato quello di Hegel e della sua scuola: comprendere criticamente la storia della tradizione rivoluzionaria, riconoscendone il significato complessivamente positivo accanto ai limiti strutturali e a quelli storicamente contingenti, per individuarne le insufficienze e render conto delle ragioni della sua sconfitta. Contro la «fuga dalla storia»6 e la «colonizzazione della coscienza storica», bisognava dunque in primo luogo recuperare «la capacità di pensare autonomamente».

5 6

MBN, p. 180. FUGA, pp. 46 e 29.

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Stefano G. Azi:arà

2. Il 1naterialis1no storico

La continuità con il pensiero hegeliano e la stagione dell'idealismo, come è noto, è stata esplicitamente rivendicata da Engels, il quale - con un inevitabile pizzico di retorica - aveva visto nel proletariato tedesco e nel movimento socialista internazionale il prosecutore di quella stagione di pensiero. Losurdo ha mostrato come questa assunzione di eredità sia stata sin dagli esordi l'atto costitutivo del materialismo storico, la genesi del suo sguardo critico sulla realtà e del suo atteggiamento politico. Non si trattava soltanto del fatto acquisito per cui l'opera di Hegel aveva costituito un riconoscimento e una legittimazione di tutte le tappe di una lunghissima tradizione rivoluzionaria, procedendo a ritroso dalla Rivoluzione francese a quella americana, da quella inglese sino all'Olanda e alla Svizzera, dalla Riforma a quella vera e propria prima «rivoluzione» costituita dal cristianesimo, dalla sollevazione degli schiavi alle tendenze plebee nel mondo romano 7• Ancora più in profondità, è proprio perché hanno preso sul serio il recupero hegeliano della dimensione mondano-politica che Marx e Engels hanno preteso che questo bilancio compisse un salto nella prassi, hanno preteso cioè la «realizzazione della filosofia»8 : la tesi della razionalità del reale doveva confrontarsi con il concreto movimento storico e affermarsi come realtà della razionalità, affinché la potenza conoscitiva della ragione, la capa' Cfr. HLM, p. 126 sgg. 8 HQN, p. 533; cfr. HLM, pp. 341-43.

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«MARXISMO CRITico>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

cità critica del pensiero che aveva saputo riconoscere il corso strategico del progresso al di sotto della superficie dei fenomeni storici, non si riducesse a mera consolazione, impotente di fronte all'arretratezza del presente feudale in Germania e di fronte alle stridenti contraddizioni della società borghese in tutta Europa. L'acquisizione di uno sguardo integralmente storico sulla realtà, il frutto principale dell'insegnamento hegeliano, insieme a quella delle categorie della logica - l'idea del processo storico-sociale come salto qualitativo che si muove per contraddizioni oggettive secondo un andamento dialettico - fondava allora un atteggiamento politico radicalmente nuovo: «Noi non anticipiamo dogmaticamente il mondo, ma dalla critica del mondo vecchio vogliamo trovare quello nuovo»\ scriveva a questo proposito Marx a Ruge. La "critica" del proprio tempo, la "critica" della società borghesecapitalistica, non era allora la deplorazione moralistica dei suoi mali ma significava anzitutto, kantianamente e hegelianamente, la sua comprensione razionale. La comprensione delle condizioni storiche e strutturali per cui la società e le sue istituzioni si sono costituite in una certa maniera e a partire da ciò hanno assunto necessariamente un determinato funzionamento, assieme alla comprensione dei limiti intrinseci a questa formazione economico-sociale e a questo tipo di Stato storicamente determinato. Infine, l'individuazione di quelle contraddizioni interne alla società che, se porta• Lettera del settembre 184:3, in K. Marx,La questione ebraica e altri scritti giovanili, a cura d U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 42.

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te a coscienza e adeguatamente sollecitate dall'azione soggettiva organizzata, possono farne saltare la stabilità e condurre verso una configurazione sociale e politica meno contraddittoria, più razionale, più con-i.spondente all'idea. Solo questo nuovo sguardo "scientifico" sulla realtà - scientifico non nel senso del positivismo delle scienze naturali ma in quello della Wissenschaft hegeliana, della scienza del concetto come universale concreto avrebbe fornito al socialismo la possibilità di guardare alla realtà nella sua totalità e ne avrebbe consentito il passaggio dall'utopia alla scienza. Questo è stato l'atto di fondazione del materialismo storico: esso ha defmito da subito il proprio peculiare "realismo" in contrapposizione a quella componente della tradizione rivoluzionaria, da Fichte sino ali' anarchismo (e nel Novecento sino a Sartre), che appoggiava invece ogni progetto di trasformazione della realtà sulla capacità prometeica del soggetto- spesso una capacità soltanto utopicamente sognata - di imporsi su un'oggettività pensata a sua volta come inerte, e di determinare il corso del mondo unicamente a partire dalla propria coscienza e volontà e a partire dai propri ideali10 • La "scienza" rivoluzionaria della storia ereditava però dallo hegelismo anche un altro aspetto altrettanto

Sulla differenza tra la tradizione hegelo-marxiana e quella fìchtiana, sia per quanto riguarda l'interpretazione della storia che per il tema dell'impegno degli intellettuali, cfr. GR, pp. 176-79; SPAV, pp. 67-71, in cui si affronta il problema del «fìchtismo» dei giovani hegeliani; ENG, pp. 110-13, 127-29; INT, pp. 81-2. 10

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essenziale. Era il superamento di quella «ingenua»11 fenomenologia del potere che, come abbiamo visto, era propria del pensiero liberale ma che secondo Losurdo avrebbe influenzato in maniera massiccia gran parte della stessa sinistra rivoluzionaria più incline alle istanze "libertarie". Quella lettura, cioè, che vedeva la categoria di subordinazione, e dunque di conflitto, unicamente nel rapporto tra potere costituito in Stato e istituzioni da un lato e libere individualità che si muovono nella società civile dall'altro. La condizione di affermazione della libertà consisterebbe in questa prospettiva nella limitazione del potere dello Stato, cui andrebbe sottratto il più possibile ogni margine di inteivento nei rapporti tra gli individui che spontaneamente interagiscono tra loro. La teoria hegeliana della società civile aveva insegnato però a Marx ed Engels che la dislocazione dei rapporti di potere e dominio è molto più complessa di quanto sostenga questa visione minimale e che forme di non riconoscimento, sopraffazione e sfruttamento sono presenti anzitutto nell'ambito dei rapporti sociali tra gli individui, le diverse classi e anche tra i gruppi nazionali ed etnici e cioè anzitutto all'interno della società civile12 • La limitazione del potere di inteivento dello Stato in nome della libertà formale dei cittadini può sempre rovesciarsi, perciò, in una mostruosa espansione del potere di alcune parti della società su altre e la libertà formale può entrare in conflitto con la «libertà GR, p. 198. Oltre al già citato FEN, cfr. FUGA, p. 69, OLTRE, p. 60, UT, p. 116. 12 REP,pp. 118-19. 11

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Stefano G. ~arà

reale»B, come la dura esperienza del «dispotismo»14 di fabbrica, che prospera nell'indifferenza del laissez /aire liberale, dimostrava. Al tempo stesso, Hegel aveva mostrato a Marx ed Engels la complessità della contraddizione che intercorre tra libertà ed eguaglianza: «Al di là di un certo limite, la disuguaglianza delle condizioni economicosociali finisce col vanificare la libertà pur solennemente garantita e consacrata a livello giuridico-formale»1' , oltre che «la libertà concreta>>16. Ed ecco che diventava necessario formulare accanto ai diritti civili anche l'esistenza di concreti «diritti materiali», senza i quali la stessa libertà negativa sarebbe rimasta una parola vuota. Faceva con ciò la propria irruzione l'altro elemento della «rivoluzione epistemologica».11operata da Marx ed Engels, owero la dimensione «materiale» della storia, laddove la "materia" non è banalmente l'economia ma quel complesso sistema di bisogni e interessi, individuali e di classe, che costituisce la vita dei gruppi umani: «l'esistenza terrestre della società, il concreto mondo della vita». E' a partire da questa consapevolezza che, secondo Losurdo, Marx ed Engels hanno spezzato la «barriera» che «separa il sociale del politico» e hanno potuto denunciare apertamente la natura tutta politica della questione sociale, per poi

n Cit. in HLM, p . 119. u Cit. inMANIP, p. XVIII. IS

16

M.BN, p. 10.

HLM, p. 158. n MANIF, pp.XIV-XX.

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metterla in connessione con i rapporti di proprietà e pro1uzione e con la sfera giuridico-statale che li tutela. E nel vivo della società, infatti, nella concreta posizione degli individui e dei gruppi nell'ambito del processo di produzione materiale e riproduzione sociale, che sorgono le gerarchie di subordinazione e dominio, che si determinano le condizioni di quella «schiavitù moderna» che è costituita dal lavoro salariato e dal lavoro manuale in generale1 8• E dunque «è necessario inteivenire nei rapporti rimossi in una sfera meramente privata dall'ideologia e dalla società borghese»1~, a partire dalla fabbrica e dalla sua organizzazione pressoché militarizzata. Dal quel dispotismo, cioè, che il pensiero liberale avrebbe voluto mantenere separato rispetto alla sfera di ciò che è politicamente rilevante ma che costituisce di fatto una radicale negazione della «libertà formale -negativa a determinati gruppi sociali>>20 e cioè alla maggioranza della popolazione. Ecco che diventava urgente un intervento politico nell'ambito dei rapporti di produzione, la «lotta contro un'organizzazione fondamentalmente militare e dispotica qual è la fabbrica capitalistica>:f1 , condotta anche attraverso la pressione su quei governi che, sebbene costituissero i guardiani della ricchezza e della proprietà - «l'espressione politica in ultima analisi della classe dominante»,

18

Sulla sostanziale assim.i.lazione del lavoro manuale alla schiavitù-servitù nell'ambito della tradizione liberale cfr. NIET, p. 417 sgg. 19 MANIF,p. XVII. 20 MBN, p. 38. 21 MANIF,pp. XVIII-XIX.

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Stefa,w G. A.zzarà

come rivendicavano esplicitamente Constant e i liberali -, dovevano essere chiamati a regolare anche questa sfera della vita sociale. Era evidente, certo, come una trasformazione strutturale della società, un mutamento che superasse alla radice la genesi dei rapporti di subordinazione e sfruttamento, non fosse possibile attraverso semplici miglioramenti della configurazione sociale esistente ma richiedesse una profonda modifica dei rapporti di proprietà e produzione che soltanto la «conquista del potere politico>>22 da parte delle classi subalterne avrebbe potuto conseguire. A tal fine, era richiesto che i lavoratori si riconoscessero come classe e si costituissero in soggettività politica, dotandosi di una consapevolezza teorica della totalità dei nessi sociali e delle tendenze di fondo del corso storico che superasse l'ambito meramente economico-sindacale. Di una comprensione critica delle contraddizioni della società e di una organizzazione politica generale, dunque, che li unisse, al di là delle differenze di etnia o di genere, in quanto portatori di bisogni e istanze comuni che rappresentavano gli interessi della maggioranza della società. Si era innescato in tal modo un processo di portata storica che costituiva secondo Losurdo «la novità più radicale del Manifesto» di Marx ed Engels: come nella figura hegeliana del servo e del padrone, «la dura esperienza, quotidiana e collettiva, dello sfruttamento e del "dispotismo" in fabbrica» diventava «il presupposto perché la classe operaia si configur[asse] come 22

204

Ivi, p. XXV-XXIX.

«MARXISMO CRIT!Co>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

il soggetto centrale della trasformazione». Più che il risultato effettivo di questa lotta e le sue modalità concrete di esecuzione, però, ciò che più è stato imponante in questa storia è il significato complessivo dell'intero processo. Quegli individui «de-umanizzati dall'ordinamento sociale e dall'ideologia ... dominanti» arrivavano a rifiutare «la condizione sino a quel momento subita come una calamità naturale», riconoscevano sé stessi come uomini tra gli uomini e pretendevano il riconoscimento generale di questa condizione. Ecco il senso più autentico dell'idea marxiana per cui «il proletariato è il "cuore" stesso dell'emancipazione umana>>2>: «un'intera classe sociale conquista la sua dignità» e pretende di accedere a quei diritti universali che la società borghese aveva prima affermato e poi drasticamente limitato. La lotta del movimento operaio è stata perciò in primo luogo non una lotta economica per la redistribuzione e nemmeno per la conquista del comando della produzione ma «una lotta per la libenà» 24, una lotta per la democrazia, per «universalizzare e rendere concreta la stessa libenà negativa» oltre e contro il liberalismo stesso .

.3. Marxis1110 conze universalis,no E' proprio a questa altezza, secondo Losurdo, che il materialismo storico ha oltrepassato sul piano epistemologico e fùosofico la u-adizione liberale. Esso ha 23

2•

Ivi, p. XXVIII. Ivi, pp. XVIII-XIX.

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Stefano G. A.u-arà

messo a nudo le ormai note clausole d'esclusione alle quali il liberalismo sottoponeva il proprio "individualismo" e ha disvelato quella parzialità che per gli eredi di Locke si era dimostrata insuperabile, dato che in quella impostazione di pensiero, gravata da costitutivi limiti di classe, non c'era spazio per un riconoscimento pieno della comune umanità degli uomini e delle donne e non esisteva l'uomo in quanto tale «come "ente generico"»25 ma soltanto l'individuo proprietario. Il liberalismo e il pensiero conservatore consideravano nominalisticamente l'idea di umanità come un mero flatus vocis privo di realtà sostanziale.26. Solo la piena acquisizione di quel concetto universale di uomo che Hegel e l'idealismo tedesco avevano elaborato, sulla scorta del salto storico costiruito dalla Rivoluzione francese, consentiva perciò a Marx di prendere sul serio l'obiettivo della libertà umana in quanto dimensione realmente universale 27• La lotta del movimento dei lavoratori era quindi, in questo senso, anzitutto la «rivendicazione dell'uguaglianza politica e della piena dignità umana>:>28 e anche nelle sue richieste più concrete e materiali era in realtà «una lotta anche per il riconoscimento», la lotta per realizzare il concetto universale di uomo e universalizzare i principi della Rivoluzione francese. Questo era per Losurdo il significato fondamentale del materialismo storico come erede critico della stessa tradizione rivoluzionaria borghese: 2$

Cit. in MBN, p. 23. RN,passim. 27 Cfr. MBN, p. 42. 2s MANIF, p.XXX. 26

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«MARXISMO CIUTICo>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

Marx ed Engels sono stati gli scopritori di un nuovo «continente politico-sociale»29 - per citare Althusser contro Althusser stesso - perché sono stati i fondatori di una concezione universalistica e umanistica della storia e della società finalmente compiuta. È chiaro che questa prospettiva poteva essere conquistata esclusivamente muovendo da una posizione di difficilissimo equilibrio teorico che solo con i fondatori del materialismo storico era stata raggiunta e che aveva portato alle estreme conseguenze l'approdo della filosofia della storia di Hegel: il raggiungimento consapevole della necessità, che già conosciamo, di tenere insieme legittimazione e critica del Moderno. Si tratta di una costante del pensiero di Marx ed Engels, i quali sin dal Manifesto non avevano esitato a sottolineare il netto progresso rappresentato dal modo di produzione capitalistico rispetto alla società preborghese, fondata sui rapporti personali di dipendenza e servitù e sulle ristrettezze comunitarie, mettendo in guardia il movimento operaio dai rischi insiti nelle posizioni antimoderne di chi, ad esempio, si opponeva al libero scambio3°. Bisognava perciò riconoscere la modernità e la stessa società borghese e capitalistica come tappa culminante della storia universale della libertà umana. Una storia in cui, a partire dalla Riforma, era sorta la soggettività dell'individuo libero che si era affermata nella figura del citoyen con la Rivoluzione francese e aveva 29

UT,p. 96. °Cfr. S. G. Azzarà, "Comunismo modemo"versusnostalgia della comunità in KarlMarx, "MarxismoOggi", n° 12003, pp. 33-67. 3

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dato vita all'impressionante sviluppo delle forze produttive consentito dalla rivoluzione industriale. Tale riconoscimento andava condotto sino in fondo, senza abbandonarsi a quella nostalgia per forme premoderne e a quella lamentazione moraleggiante che in ambito conservatore assumevano un atteggiamento chiaramente reazionario ma che inficiavano e inficiano a volte anche ai nostri giorni lo stesso campo dell'emancipazione nella forma del «populismo»-31 • Bisognava però al tempo stesso andare oltre Hegel e compiere il salto che Hegel «non [era stato] capace o non [aveva avuto] il tempo di compiere>»2 e passare così dall'individuazione dei residui di stato di natura presenti nella società civile alla scoperta della loro radice, occultata dall'economia politica borghese, nell'ambito dei rapporti di produzione. Una volta compresa la genesi inevitabile di queste contraddizioni e compreso che esse sono insuperabili nell'ambito della società capitalistica, la quale può funzionare soltanto nella misura in cui riproduce i rapporti vigenti di proprietà e genera dunque subordinazione ed esclusione, il quadro era completo e non rimaneva che seguire la strada di una trasformazione dei fondamenti strutturali della società stessa. Attraverso, come ha detto lo stesso Marx, una «rivoluzione politica con un'anima sociale»>3.

"POP,passim. 2

HQN, p. 517. ;; Cit. inMANIF, p. XXV. '

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

4. Da Marx a Lenin

L'enfasi sul recupero del nesso Hegel-Marx non significava affatto però, per Losurdo, che la crisi del socialismo alla fine del XX secolo potesse essere affrontata attraverso un semplice «ritorno a Marx, a quello "autentico"».34, e cioè attraverso un'operazione di epoché che retrocedesse al di qua dell'esperienza storica del movimento operaio, del socialismo reale e del comunismo novecentesco per attingere una sorta di purezza originaria nei testi sacri del fondatore, come diversi altri intellettuali di estrazione marxista alla fine della Guerra fredda ritenevano35. Era certamente errato, a suo avviso, il ragionamento sofistico degli apologeti del liberalismo, i quali - con Talmon e altri autori come Popper, Hayek o Furet tracciavano una linea di continuità che conduceva da Marx, se non da Rousseau e Robespierre, sino ai gulag staliniani>6, Costoro erano soliti contrapporre a una tradizione rivoluzionaria intrinsecamente totalitaria e dittatoriale, vocata alla violenza e responsabile in ultima analisi degli orrori del Novecento, l'immagine MBN, p. 184. Era in fondo la proposta di F. Bertinotti (ali' epoca ritenuto una voce autorevole), sviluppata in Le idee che non muoiono, Ponte alle Grazie, Firenze 2000, pp. 7-53 (il capitolo su "La libertà") e pp. 169-209 (il capitolo su "Il comunismo"). In quel libro il ritorno a Marx si coniugava però con il recupero di Rosa Luxemburg e Walter Benjamin e dunque con una precisa scelta all'interno del Novecento. 36 Di«sofisma di Talmon» Losurdoparlava inREV, p. 75 sgg. e PECC, p . 55 sgg. Cfr. MBN, p. 172 sgg. >< 3'

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trasfigurata di una tradizione liberale sempre tollerante, democratica e monda da ogni «peccato originale»37 • Per far ciò, i veterani e i neofiti del liberalismo dovevano però comparare entità non omogenee, confrontando la storia dei paesi liberali presi in una situazione di normalità (una normalità, oltretutto, dalla quale era rimosso l'orrore del colonialismo, della schiavitù, della discriminazione sociale ed etnica e della mobilitazione totale di guerra, vero antecedente del "totalitarismo"38) alla storia di un mondo socialista inchiodato alle violenze di uno stato d'eccezione prolungato (che certamente non giustificava gli orrori della dittatura, del terrore e dei gulag ma che in qualche modo li aveva facilitati). Uno stato d'eccezione, del resto, che proprio le potenze occidentali avevano rafforzato, praticando una politica di accerchiamento che andava ad aggravare la situazione di crisi iniziata con la guerra civile all'epoca della rivoluzione d'Ottobre e prolungando poi con la Guerra fredda quello stato d'assedio che il nazismo aveva per primo messo in atto contro l'Urss39• Allo stesso modo, però, era non meno errato secondo Losurdo anche l'atteggiamento da «anima bella» 40 di coloro che si consideravano«assolutamente estranei rispetto a quella vicenda storica, pur continuando a dichiararsi comunisti e marxisti» e che a una realtà che grondava sangue contrapponevano l'ideale incontarni• PECC, p. 5. Su questa "depurazione" v. REV, pp. 45-59. 39 Un'analisi puntuale di questa dinamica è presente in CALEND. Sulla guerra civile dopo il 1917 v. REV, pp. 98-101. • 0 MBN, pp. 180-85. 37 38

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nato del socialismo dei loro sogni e delle loro «buone intenzioni». Cosi come era errato l'atteggiamento del «profeta» - il riferimento qui era soprattutto a figure storiche del marxismo italiano come Rossana Rossanda o Pietro Ingrao - , che prendeva le distanze dalla storia del socialismo reale derubricandolo a un mero «equivoco» e rivendicava per sé la comprensione e la rivelazione della «lezione di Marx nella sua autenticità». Si trattava non solo di un atteggiamento antistorico e dunque drasticamente antimaterialistico. Questa pretesa, soprattutto, finiva per rimuovere anche i gravi «linùti»41 teorici e politici presenti nella riflessione dello stesso Marx. Limiti che certamentenon avevano provocato il gulag (almeno non più di quanto i testi di Locke avessero causato la tratta dei neri e la schiavitù in America) ma che avevano senz'altro «favorito il processo di degenerazione>>42 del movimento rivoluzionario, perché ne avevano indebolito la capacità di comprendere il conflitto e di fronteggiare la complessità del processo di costruzione del socialismo riducendo l'esercizio della violenza. Erano limiti che bisognava invece affrontare in tutta loro portata e che solo un confronto con l'esperienza storica del Novecento, e con i protagonisti di questa storia, metteva in luce e consentiva di nominare. Secondo Losurdo, era il caso in primo luogo di Lenin, considerato oggi anche a sinistra come il principale responsabile della defotmazione "totalitaria" del

" Ivi, p. 114. ◄2 Ivi, p. 189.

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marxismo e della «militarizzazione della politica»43 attuata dal movimento comunista, ma protagonista invece, a suo avviso, di un decisivo momento di superamento delle insufficienze del marxismo stesso. Bisognava ammettere infatti, diceva, che anche il pensiero di Marx ed Engels era ancora per certi aspetti interno alla visione etnocentrica della storia propria dell'ideologia occidentalista liberale della seconda metà del XIX secolo. Nel descrivere la particolare situazione politica degli Stati Uniti, o ancor più nell'indicare l'elemento «oggettivamente» 44 progressivo presente nell'espansione coloniale dell'Occidente, per citare una questione dirimente, Marx ed Engels scontavano un'ambiguità che non consentiva loro di essere fedeli alle posizioni universalistiche pur acquisite. Anche se nelle loro parole erano chiaramente denunciati gli orrori che la accompagnavano, ad esempio, «l'espansione coloniale [veniva] comunque considerata come un momento essenziale del processo di unificazione del genere umano, della produzione del mercato mondiale e della storia universale»45 , tanto che «la visione che qui emerge[va] del rapporto tra meu-opoli capitalistica e periferia owero u-a Europa e colonie non [era] molto , diversa da quella propria della tradizione liberale». E solo con Lenin, invece, che lo stesso movimento socialista comincerà effettivamente a realizzare il concetto universale di uomo - un concetto che per Marx ed Engels valeva di

M. Revelli, Oltre il Novecento, cit., p. 6. •• LENIN, p . .3.3. 0

"Ivi, p. 27.

2 12

«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATBRIAIJSMO STORICO

fatto soprattutto all'interno dell'Occidente - su scala planetaria e quindi reahnente universale. A partire dalla denuncia dei massacri e dei genocidi legati al colonialismo e alle sue guerre di conquista, oltre che del mattatoio della Prima guerra mondiale, Lenin - del quale Losurdo ha più volte ribadito la statura eminentemente filosofica, oltre che politica - ha messo in discussione «la dicotomia civiltà/barbarie»46 secondo la quale l'Europa leggeva il rapporto Occidente-Oriente. Più che sul nodo riforme-rivoluzione o sulla teoria delle avanguardie e della dittatura del proletariato, è stato principahnente su questo punto, sulla critica della «visione unilineare del processo storico propria della filosofia borghese della storia» e sui suoi esiti aggressivi e persino razzisti, che si è non a caso prodotta la rottura con il marxismo "ortodosso" di Bemstein e di gran parte della socialdemocrazia europea (la quale aveva fatto proprie le parole d'ordine liberali del colonialismo progressivo o addirittura rivoluzionario, declinandole in chiave socialsciovinistica, e si preparava a votare i crediti di guerra) 4i. Ed è stato dunque a questa altezza che ha avuto inizio l'esperienza del comunismo novecentesco. Se per il sedicente mondo civile i conflitti scatenati per la conquista delle colonie non erano da considerare come guerre ma come semplici operazioni di polizia internazionale, ciò avveniva perché tale mondo non rimandava a quei paesi nessuno status giuridico e non riconosceva ai milioni di persone che li popolavano 6

Ivi, pp. 42 e 44. •; Cfr. ivi, pp. 35-9 e MBN, p. 85 sgg. •

21.3

Stefaw G. A.n-arà

nessuna dignità umana ma li assimilava - come già ai tempi del primo colonialismo - a bestie feroci o a criminali ribelli48 • L'apertura dell'orizzonte del marxismo ai "selvaggi" delle colonie, il suo completamento nel senso di una critica generale dell'imperialismo, non rappresentava tuttavia per Lenin la denuncia del1'«Occidente materialista»4~ e «putrefatto» e l'evocazione populistica di una salvezza che andava sorgendo da un «Oriente mitico e incontaminato» - come avviene ancora oggi nel caso degli eurasiatisti alla Dugin, ad esempio, o negli ambigui tentatividi mescolare sinistra e destra, antimperialismo e tradizionalismo - ma era, al contrario, una teoria della liberazione generale. Una teoria che da quel momento imparava a parlare a tutti gli uomini e a tutte le donne, indipendentemente dai confini nazionali e dalle razze, invitandoli a recepire i «punti alti della tradizione europea e occidentale», guardando in primo luogo alla Rivoluzione francese e al materialismo storico. Con questa mossa, Lenin legherà da quel momento in avanti la lotta condotta dal proletariato occidentale per la rivoluzione socialista nel mondo capitalistico alla lotta dei popoli sottomessi per la loro indipendenza nazionale, ponendo le premesse del successo planetario del comunismo nel corso del XX secolo-5°. Secondo Losurdo, la sua innovazione del marxismo non implicava soltanto, per la prima volta nella storia, la totale generalizzazione del concetto universale di uomo ma •s V. MBN, p. 58 sgg. Cfr. REV, pp.155-56. ., LENIN, pp. 68 e 69. so Cfr. MBN, pp. 147-48.

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rappresentava anche la comprensione del ruolo della questione nazionale e dell'autodeterminazione dei popoli come punto cruciale del conflitto politico novecentesco all'interno del mondo capitalistico-imperialistico e tra questo mondo e il socialismo51 • In questo senso, a suo avviso, non è stato per nulla un caso - e nemmeno un elemento di debolezza, come molti marxisti hanno spesso lamentato - che il processo rivoluzionario si sia costruito, in Russia e poi in un gran numero di paesi periferici, al di fuori dell'area della cosiddetta "civiltà" e dello «spazio sacro» dei liberi. Non è stato un caso, cioè, ma corrisponde al senso più profondo dell'universalismo leninista, il fatto che la rottura sia avvenuta non nei punti alti dello sviluppo capitalistico, come aveva supposto Marx, ma negli anelli deboli della catena imperialistica, attraverso l'innesto delle lotte dei lavoratori per la trasformazione sociale sulla lotta generale dei popoli oppressi per l'indipendenza nazionale o contro la guerra. L'emergere di un «processo di ricolonizzazione>>52 del mondo in seguito alla sconfitta del socialismo e il conseguente recupero della guerra come modalità normale di gestione dei rapporti di forza planetari da parte del capitalismo vincente dimostrava per Losurdo quanto ancora ai nostri giorni la questione nazionale fosse (e per tanti aspetti rimanga) il problema centrale della politica dell'età contemporanea. La storia del campo socialista deve farci capire, però, come tale questione non sia mai stata adeguatamente fronteggiata nemmeno 51

52

REV,pp. 114-17. PECC, p. 72. Cfr. DB, p. 275; UNIV, pp. 109 e 113.

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dagli eredi dì Lenin, tanto che i momenti dì crisi dì quel sistema politico, sino al suo crollo finale, sono legati esattamente all'esplodere delle contraddizioni nazionali e cioè di attriti che, come Lenin aveva compreso, lungi dal dileguare con il superamento del capitalismo, hanno assunto nell'ambito del socialismo una fonna nuova che ha finito per accompagnarsi anch'essa alla presenza dì «tendenze scioviniste o egemoniche»53 • L'occupazione dei paesi baltici, l'esportazione del socialismo nell'area di influenza sovietica dopo Yalta, gli interventi "internazionalisti" in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia, la rapida secessione delle repubbliche sovietiche dopo il 1989-1991, dimostrano come mancasse totalmente nei dirigenti comunisti la minima consapevolezza di tale problema54. Del resto, anche il rapporto tra città e campagna durante il processo di collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione dell'Urss era stato inteso da Stalin, ma anche dagli oppositori come Preobrazenskij, come una sorta di civilizzatrice «esportazione della rivoluzione»55 dalla città avanzata alla campagna arretrata, con un approccio pesantemente "colonialista" che non poteva trovare antidoti nella lezione di Marx ma che ne avrebbe trovati invece a profusione in Lenin (al quale, non a caso, si sarebbe ispirato Mao nella conduzione della lotta rivoluzionaria in un paese contadino come la Cina56).

LENIN, p. 47. Cfr. MBN, p. 149 sgg. "Cfr. MBN, p. 162 sgg. » Ivi, p. 157. Sulla collettivizzazione e industrializzazione in Urss v. REV, pp. 227-36. 56 Cfr. MBN, p. 163. 53

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5. Gra,nsci e l'innovazione del 1narxis1no Chi più di ogni altro può aiutarci a pensare sino in fondo i limiti del pensiero marxiano è stato però, per Losurdo, Antonio Gramsci. Proprio Gramsci ha condotto a piena consapevolezza teorica l'esperienza originale del leninismo ed è stato in grado di contribuire a quella drastica innovazione che faceva compiere al materialismo storico un salto qualitativo rispetto allo stesso Marx ma soprattutto rispetto agli autori marxisti dell'epoca. Nell'Italia ancora pesantemente egemonizzata dal conservatorismo cattolico e dalle posizioni reazionarie espresse nel Sillabo, le idee di Hegel introdotte da Croce e Gentile rappresentavano per il giovane Gramsci l'ingresso nella modernità e dunque un primo approccio al tema della libertà moderna, della capacità degli uomini di fare la storia e del superamento dell'antico regime sul piano politico e sociale. L'incontro con «gli autori che esprim[eva]no la più avanzata cultura europea e mondiale»57, anche se liberali, era in questo senso per lui in qualche modo obbligato, tanto più che la cultura del partito socialista era ormai gravata da pesanti zavorre positivistiche che si erano rese particolannente evidenti nell'atteggiamento di alcune tendenze verso la questione meridionale58 • Proprio l'accortezza politica desunta dalla lezione hegeliana, oltre che una concezione universalistica della cultura legata all'idea di spirito assoluto, consentiva del resto in quegli anni a Croce di "GR, p.25. $S

Cfr. ivi, p. 17 sgg.

217

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sfuggire all'«ideologizzazione>>'~ della guerra mondiale; una catastrofe senza precedenti che, come sappiamo, veniva trasfigurata invece in termini di scontro di civiltà o di religioni da gran parte degli intellettuali ew·opei di quegli anni, come Weber o Husserl in Germania o Bergson e Boutroux in Francia6°. Questo profondo realismo non aveva impedito tuttavia a Croce di associarsi alla causa dell'imperialismo italiano e di vedere nella catastrofe europea un'occasione favorevole per superare le divisioni nazionali prodotte dal socialismo e dalla lotta di classe, esternalizzando il conflitto sociale. Né esso gli aveva impedito di ribadire il ruolo subalterno delle classi lavoratrici, configurate sempre e comunque come carne da macello da sacrificare in nome della potenza della nazione e del suo diritto al "posto al sole"61, Allo stesso modo, l'ispirazione hegeliana - drasticamente ridimensionata, tra l'altro, a partire dalla teoria della distinzione nell'ambito del processo dello spirito - non gli avrebbe impedito più avanti, al momento della crisi del liberalismo italiano e dell' awento del fascismo, di prendere le distanze dal liberalismo "democratico", gravato dall'influenza sgradita delle idee del 1789 e degli "ingenui" principi universalistici della Rivoluzione francese, e di simpatizzare momentaneamente per la dittatura, intesa come garanzia della stabilità ,. HEID, p. 10. 60 Cfr. GR, p. 49 sgg. Su Weberv. HEID, pp. 11 sgg., 17,22 sgg. e passim, DB,pp. 172-80; su Husserl v. HEID, p. 12 epassim; su Bergson e Boutroux v. GR, p. 49, REV p. 181. 61 GR, p. 53 sgg.

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«MARXISMO CRIT1co» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

sociale e del diritto di proprietà e come argine contro il socialismc,62 • Netta era stata a quel punto la rottura di Gramsci con il neoidealismo italiano. Se l'attivismo di Gentile veniva rifiutato come una forma di fichtismo che retrocedeva al di qua della categoria hegeliana di contraddizione oggettiva, un ultrasoggettivistimo vuoto e portato a sussumere ogni forma di prassi, in primo luogo quella della mobilitazione totale e della guerra 63, nemmeno il liberalismo di Croce possedeva appieno quel concetto universale di uomo che avrebbe consentito a quella parte politica di pensare finalmente la comune dignità umana delle classi subalterne e dei popoli coloniali. Il liberalismo aveva perciò in qualche modo tradito la propria «migliore eredità»6◄ e il marxismo si presentava sin dall'inizio per Gramsci, ma anche per Togliatti, come il prosecutore di quei momenti più significativi della tradizione occidentale alla cui altezza i liberali, soprattutto dopo il 1848, non erano stati in grado di mantenersi; come l'erede, cioè, «delle conquiste ideali e politiche della Rivoluzione francese e della civiltà moderna, anzi di "tutta la modernità"». Per Gramsci, commentava Losurdo, «la marcia del comunismo [era] in un certo senso la marcia dell'universalità» 65; una mobilitazione dal basso che portava a compimento,

62

Ivi, p. 69 sgg.; cfr. HEID, pp. 189-90. Sono le stesse argomentazioni di Pareto, Einaudi e di molti altri intellettuali: v. DB, p. 180 sgg. e REP, p. 37 sgg. 63 GR, p. 95 sgg. Cfr. REP, pp. 42-3 e 305-8. 6< GR, pp. 73 e 74. Su Togliatti v. REP, pp.172-78 e 197-98. "GR, p. 93.

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«all'insegna di una universalità più ricca e concreta», quel «processo di emancipazione» che era iniziato con la «rivoluzione borghese» ma che i liberali avevano lasciato a metà strada. Il marxismo di Gramsci era molto diverso però, nella lettura di Losurdo, da quello degli altri interpreti marxisti dell'epoca. E' noto che la Seconda Internazionale aveva condannato la rivoluzione d'Ottobre, dal punto di vista di un marxismo ritenuto ortodosso, come una forzatura volontaristica avvenuta in un paese feudale e arretrato. In Russia mancavano le condizioni di maturità per il passaggio al socialismo, una transizione che presupponeva invece la società borghese-capitalistica e un grande sviluppo delle forze produttive. Nel definire il 1917 come una «rivoluzione contro Il capita/e»66, Gramsci prenderà invece le distanze da ogni lettura evoluzionistica e meccanicistica del processo rivoluzionario, denunciando l'economicismo e il materialismo volgare dei dirigenti socialisti ma facendo in parte valere l'esperienza di Lenin anche contro lo stesso Marx. In quest'ultimo era infatti spesso postulata una teoria piuttosto semplificata della rivoluzione, che guardava principalmente all'accumularsi delle contraddizioni in ambito economico nei paesi industrializzati europei. In altri momenti, invece, Marx si era mostrato più attento alla natura complessa del processo rivoluzionario e lo aveva definito come un intreccio di lunga durata tra l'economia e componenti di tipo politico, come la guerra o l'oppressionenazionale. Tra «maturità econo"C'lt. 1VI, . . p. 62 .

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

mico-sociale» 67 e «maturità politica» della rivoluzione non sempre c'è sincronia e la componente politica poteva perciò rendere realistico l'innesco di «un'epoca di rivoluzione sociale» anche in paesi più arretrati come la Germania o persino in colonie come l'Irlanda, a partire da specifiche peculiarità nazionali tra cui le «tradizioni storiche e culturali di un determinato popolo». Era proprio a questa visione più complessa che il leninismo aveva dato attualità, a partire dall' «acquisizione teorica del carattere sempre peculiarmente determinato della situazione e del processo rivoluzionario» e soprattutto «del peso e dell'importanza della questione nazionale» (laddove per Gramsci il trotzkismo, con la sua teoria della rivoluzione permanente e della necessità di esportare il socialismo al fine di garantire la salvezza dello stesso Ottobre, ricadeva su posizioni economicistiche, mensceviche e ancora eurocentriche). Se un'«accurata ricognizione nazionale» si imponeva secondo Gramsci ai dirigenti rivoluzionari in Russia, tanto più essa si imponeva però nei diversi paesi dell'Occidente, dove la rivoluzione, sebbene potesse . ' . p1u .' contare su una matunta econonuca accentuata e sullo sviluppo di un proletariato industriale, doveva necessariamente fare i conti con una società civile molto più articolata e un blocco dominante molto più forte e ideologicamente attrattivo. La rivoluzione si presentava perciò qui non come una guerra di movimento che attaccava frontalmente le roccaforti del potere ma come una lunga guerra di posizione68 che, di trincea 67 68

Ivi, pp. 138-43. Cfr. ivi, p. 150.

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in trincea, di casamatta in casamatta, avrebbe dovuto avvolgere la società in una rete di contropoteri. Soprattutto, attraverso il lavoro dei propri «intellettuali "organici"»69, essa avrebbe dovuto espugnare dall'interno il mondo borghese attraverso una sottile operazione egemonica e culturale, elevando la coscienza delle classi lavoratrici ma conquistando anche a poco a poco il consenso della borghesia nazionale. E' per questo, commentava Losurdo, che il partito della classe operaia, in Occidente ancor più che in Russia, oltre a dotarsi di un'organizzazione capillare ed efficace, doveva «sapersi in qualche modo "nazionalizzare"»io e adeguare alla situazione specifica di ciascun paese, senza contare su un modello di rivoluzione passepartout. Esso inoltre, come effettivamente sarebbe avvenuto più avanti nel corso della guerra di liberazione dal nazifascismo, avrebbe dovuto farsi carico dell'interesse generale della nazione e della sua autodeterminazione nel momento stesso in cui si poneva l'obiettivo di trasformarne gli assetti politico-socialii1• Ma il marxismo di Gramsci si distingueva per Losurdo da quello dei suoi contemporanei anche per altri aspetti essenziali. Già in Marx ed Engels si era presentata in alcuni momenti l'idea di una «generalizzata decadenza politica e ideologica»72 della borghesia. Terminata la sua fase rivoluzionaria, dopo il '48 la borghesia europea sembrava del tutto inetta a portare "Ivi, p. 235. ,o Ivi, p. 143. a Ivi, p. 204. 2 ' Ivi, p. 153; cfr. p. 145 sgg.

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avanti il processo di emancipazione che pure aveva inaugurato e a porsi alla testa del progresso storico e si era ritratta su posizioni univocamente conservatrici, per contrastare l'ormai maturo soggetto antagonista proletario. Oltre che una speranza, questa ipotesi era chiaramente un retaggio della concezione meccanicistico-economicistica della teoria della rivoluzione. Nel marxismo della Seconda Internazionale, essa si legava a una lettura esasperata della tesi marxiana sulla caduta del saggio di profittois e diventava con ciò l'annuncio messianico dell'inevitabile «crollo»i4 del sistema capitalistico e dell'imminente rivoluzione socialista, di fronte a una borghesia ormai sostanzialmente morta e priva di soluzioni politiche innovative. Persino in Lenin, sebbene per lo più soltanto nel periodo della guerra, di fronte all'esplosione del nichilismo militarista delle grandi potenze era stata ribadita con enfasi «la tesi dell'irrimediabile putrefazione del capitalismo imperialistico»ì5, prodromo di quella che sarebbe stata alla fine degli anni Ventila teoria del «socialfascismo». Nulla di tutto questo invece in Gramsci, che era stato costretto dalla situazione storica oggettiva a confrontarsi con la sconfitta dei tentativi di rivoluzione in Occidente, che ha vissuto «l'esperienza del fascismo e della stabilizzazione del capitalismo» e che aveva potuto comprendere dunque quantoviva e vitale, oltre che pericolosa, potesse ancora essere la borghesia e quanto complicata e lontana fosse la prospettiva della ;s lvi, p. 169. ;◄ Ivi,p. 267. ;s Ivi, pp. 165-70.

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transizione sociale. Proprio in questo contesto si collocava per Losurdo la teoria gramsciana della rivoluzione passiva, in cui il grande intellettuale sardo riconosceva «la persistente capacità d'iniziativa della borghesia>i6 • Una classe che bisognava certamente combattere ma dalla quale - pensiamo alle tesi di .AJnericanis1no e /ordis1no ii - era pur sempre necessario che le classi lavoratrici continuassero a imparare, visto che essa riusciva ancora «a produrre trasformazioni politico-sociali ... conservando saldamente nelle proprie mani il potere, l'iniziativa e l'egemonia, e lasciando le classi lavoratrici nella loro condizione di subalternità»ìs. Arriviamo così al punto decisivo della ricostruzione che Losurdo ha operato del pensiero di Gramsci e del bilancio della storia del comunismo novecentesco che da questa ricostruzione emergeva in controluce. Il fatto è, come accennavamo sopra, che nel marxismo del XX secolo gli sembrava il più delle volte essere completamente saltato quell'equilibrio marxiano tra legittimazione e critica del Moderno alla quale abbiamo ormai più volte accennato. L'esperienza tragica della guerra mondiale, in particolare, aveva messo in evidenza tutto l'orrore che era inevitabilmente connesso alla società borghese giunta alla sua fase imperialistica; l'avvento del fascismo e del nazionalsocialismo e in seguito l' ancor più grave disastro della Seconda guerra mondiale

;6 Ivi,

p. 155. ;; V. LING, pp. 9.3-4. In queste pagine, tra l'altro, a partire da Gramsci ma anche dallo stesso Marx, viene smontato il «mito del!' antiamericanismo di sinistra». ;s GR, p. 155.

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avrebbero rafforzato questa convinzione79• Ecco che la storia del mondo moderno, che Marx ed Engels avevano descritto nel Manifesto con accenti di ammirazione per le propensioni progressive della borghesia, sarebbe stata ricostruita acriticamente da quel momento come la preparazione diretta di questa tragedia ed ecco che sempre maggiore spazio nel movimento socialista avrebbero trovato quelle posizioni ambigue e antimodeme che già Marx aveva criticato in Bakunin e nella tradizione anarchica. Tutto il passato valeva per questa impostazione come una morta negatività, un unico accumulo di orrori e sopraffazioni del quale nulla c'era da salvare, né da ereditare. La stessa storia culturale dell'Europa era letta «come un delirio e una follia» 80, qualcosa di «"irrazionale" e "mostruoso"», secondo ciò che si configurava, deplorava Gramsci, come un «trattato storico di teratologia». Era una vera e propria «liquidazione in chiave escatologica della modernità», commentava Losurdo81 : ne derivava l'emergere e il radicarsi di posizioni che distorcevano sempre più il marxismo in chiave messianica e interpretavano la rivoluzione socialista come una vera e propria «palingenesi»82 che avrebbe dovuto condurre l'Europa fuori da questa catastrofe. Il mondo moderno, 79

MBN, p. 103 sgg. Nonostante vengano spesso avvicinati a un autore anti.modemo come Heidegger, questo equilibrio secondo Losurdo non viene mai meno in Horkheimer e Adorno, in cui non si ha «liquidazione» ma «autocritica» del pensiero illuministico e della modernità (HEID, p. 182). so Cit. in GR, pp. 250-51. 81 Ivi, p. 176. 82 Ivi, p. 1.37.

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piuttosto che compreso criticamente, doveva essere prima condannato in toto e poi redento, attraverso la violenza purificatrice rivoluzionaria e l'edificazione di un mondo radicalmente nuovo e diverso, che instaurasse magicamente sulla terra il regno comunista della felicità e dell'abbondanza. A questa «visione luddistica»8> della storia e a questa concezione religiosa e utopistica del marxismo era legata, inoltre, la tendenza - egemone anzitutto nel cosiddetto marxismo occidentale 84 - a leggere il comunismo come un nuovo inizio, come la plenitudo te1nporu1n che trasfigura integralmente il volto del mondo. Essa si poneva l'obiettivo di una totale sowersione della società borghese e approdava alla pretesa di eliminare nella società senza classi lo Stato e il mercato, i confini e le tradizioni nazionali, le religioni e ogni forma giuridica. In tanto poteva essere netta da parte di Gramsci la contestazione di questa visione caricaturale della storia e del ruolo della borghesia, in quanto, spiegava Losurdo, rimaneva fermo nel suo approccio il riconoscimento, seppur critico, della modernità come epoca dell'emancipazione e della libertà individuale. Porsi il problema dell'eredità dei punti alti di questa storia significava per lui e significa ancora oggi per noi, tutto al contrario, rinunciare a priori ad ogni infantile uto83

Ivi, p. 161. s• Ivi, p. 241 sgg. È un giudizio che 1-iguarda anche le posizioni giovanili di Lukacs e Bloch. Anche in questo caso, però, il loro pur potentemessianismomoralistico non scivola mai nell'antimodemismo: v. ivi, pp. 171-9; cfr. HEID, pp. 16 e 177-79. Losurdo ha sviluppato queste tematiche in MO, per il quale v. l'appendice al cap. III.

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pismo e recuperare la concretezza della prospettiva storico-politica, intendendo il comunismo come il reale co,npùnento della modernità. Significava e significa in primo luogo riconoscere il ruolo dello Stato come forma dell'universalità, una forma che non è ancora sostanza ma che non è nemmeno «il nulla» 8J e che dunque immette già nel funzionamento della società borghese quegli elementi di regolazione di cui anche il proletariato si è avvalso nel corso della propria lotta (dalle leggi che riducono l'orario di lavoro sino a quelle che sanciscono il progressivo allargamento del suffragio). Certamente bisognava svelare il ruolo dell'apparato repressivo statale, che in situazioni di crisi può arrivare ad «inghiottire la società nel suo complesso>>86, trascinandola nella mobilitazione totale sino a sfociare nella dittatura e nella guerra. Nonva però dimenticato che, assieme alla funzione di controllo delle classi subalterne in nome del dominio borghese, lo Stato svolge anche un'essenziale funzione di «garanzia reciproca» 8i per i cittadini nell'ambito della classe dominante e che può farlo proprio a partire da quel principio di limitazione del potere che, come viene ribadito nella Controstoria, è stato il frutto migliore del pensiero liberale e che il socialismo dovrebbe saper fare proprio. Ecco che questo socialismo, lungi dal presentarsi come l'utopia armonica di un mondo privo di conflitti e contraddizioni, si rivelava come un complesso ss MBN, p. 127. 66

MANIF, p. LX. MBN, p. 127; cfr. FUGA, p. 68. Si tratta di una tematica di chiara origine hegeliana: v. HLM pp. 89-92. 67

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processo di transizione che si sarebbe dispiegato su tempi lunghi e che sarebbe dovuto approdare, con le parole di Gramsci, alla «società regolata» 88, a una società costruita su basi razionali in cui il legame solidale tra gli uomini viene garantito da una serie di regole e procedure che non rinnegano ma semmai universalizzano le conquiste della modernità. Una società che non pretende di superare in un colpo solo la moneta, il valore di scambio e ogni forma di divisione del lavoro ma che, attraverso la sperimentazione di forme economico-sociali inevitabilmente ibride e "impure" come la NEP leniniana, approda alla costruzione di un mercato socialista equo ed efficiente89, Di una società che non pretende di cancellare immediatamente i confini, le identità nazionali, le tradizioni anche religiose dei popoli in nome della repubblica mondiale dei soviet o dell'ateismo di Stato ma che sa tener conto delle differenze particolari e sa valorizzarle in chiave solidale, prevenendo ogni egemonismo attraverso quell'universale concreto che è l'internazionalismo rettamente inteso.

6. LA catastrofe del co1nunis1110 novecentesco La vicenda storica concreta del movimento comunista novecentesco e del socialismo reale dimostravano secondo Losurdo quanto poco, nonostante l' omagCit. in GR, p. 137; cfr. p. 190 sgg. V. GR, tutto il cap. V, "Estinzione dello Stato? Il comunismo fuori dell'utopia". 88

89

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gio formale, le idee di Gramsci siano state realmente assimilate da questa tradizione. Il primo tentativo di edificazione di una società socialista è stato sconfitto nel corso di settant'anni a causa dei pesanti condizionamenti esterni dovuti al conflitto con il mondo capitalistico, di ardue conu-addizioni oggettive su scala internazionale ma anche di gravi limiti interni; limiti legati alle insufficienze teoriche presenti nello stesso marxismo, che i suoi dirigenti sono stati inetti a padroneggiare e che si sono dimostrati insuperabili. Due guerre mondiali, l'accerchiamentointernazionale e la Guerra fredda hanno certamente prodotto uno «stato d'eccezione permanente».9o, una situazione di crisi perenne che è risultata estremamente difficile da fronteggiare e che imponeva oggettivamente, in certi casi, l'irreggimentazione della società. L'impossibilità per i dirigenti comunisti «di passare dallo stato d'eccezione alla normalità».91 socialista anche nei momenti di crisi meno acuta, superando o limitando la necessità di ricorrere alla repressione e al controllo sociale e ottenendo un consenso spontaneo e non manipolato, non poteva essere spiegata però, secondo Losurdo, se non si teneva conto che questa fibrillazione era stata aggravata e sempre di nuovo rilanciata dall'utopismo estremo di un'ideologia politica che era rimasta sino all'ultimo refrattaria a pensare realisticamente la transizione «dal socialismo al comunismo>>92•



0

•1 •2

UT,p. 5. Ivi, p. 75. Ivi, p. 90.

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Appariva paradossale e tragico al tempo stesso, per lui, il fatto che ancora negli ultimi anni di vita del campo socialista, pur nella sclerosi generale di un sistema divenuto autoreferenziale e nella corruzione dilagante, questa ideologia annunciasse l'imminente avvento salvifico di un comunismo ridotto, evidentemente, a vuota retorica e a «teologia di Stato»93, Non è stato il culto dello Stato, l' onnipervasività totalitaria dell'apparato istituzionale, però a segnare la sorte del socialismo - come spesso viene detto - ma semmai l'inadeguata riflessione su cosa sia una società postcapitalistica, su quali forme economiche, giuridiche ed istituzionali essa richieda, sul tipo di soggettività sulla quale debba poggiare. «Che senso ha impegnarsi faticosamente nel processo di costruzione di uno Stato socialista di diritto quando lo Stato in quanto tale è destinato a dileguare)).94 e quando, in nome dell' «antiautoritarismo», si considera la legge e la Costituzione come «un'idea borghese», chiedeva Losurdo? A che serve riflettere sui diritti e i doveri degli individui in una società socialista quando si crede «alla mitologia anarchica dell'avvento dell"'uomo nuovo" il quale si identifica spontaneamente con la collettività»? Perché sforzarsi di elaborare «un sistema di regole, di incentivi (materiali e morali) e di controlli che assicurino la trasparenza, l'efficienza e la produttività» dell'economia quando si attende l'avvento dell'abbondanza comunista? A quale scopo, infine, costruire un campo socialista basato sul rispetto ,; lvi, p. 78. ,. lvi, pp. 115-7. Cfr. REP, pp. 120-21.

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dell'autonomia dei popoli, che prevenga ogni «ideologia sciovinistica», quando è imminente il «superamento dei confini e delle stesse identità nazionali»? Losurdo ricordava come negli anni Cinquanta Norberto Bobbio, non ancora approdato all'identifìcazione acritica con il liberalismo, avvertisse, polemizzando con Togliatti, «che un regime socialista, se voleva tener fede alle sue promesse di emancipazione, non poteva trascurare la libertà "formale"»95, le «regole del gioco» proprie di una società democratica. Ebbene, proprio il rifiuto di «mettere realmente in discussione questa visione utopistica della società socialista»% ha finito per rimuovere il tema della normalità, delle regole e dei limiti del potere e per «stimolare la dialettica nefasta per cui, nel corso del "socialismo reale", l'ortodossia "marxista" si [è trasformata] in un volontarismo che [ha comportato] una carica ossessiva e inane di violenza». E' per via di questi limiti che il mondo socialista, non in grado di autoriformarsi, è stato alla fine travolto dai propri stessi successi. La capacità del socialismo di influenzare i paesi capitalistici ha finito per rafforzare l'avversario e renderlo enormemente attrattivo, poiché lo ha stimolato a prevenire la rivoluzione sociale mediante la costruzione anche dall'alto di un capillare sistema di Wet/are e di riforme che hanno sancito i diritti economici e sociali dei cittadini e hanno costituito la base materiale della democrazia moderna e della società dei consumi97, Nel frattem95

MBN, pp. 76-7. " UT, p. 119. 9 ; V. DB,pp. 50-4 e PECC, pp. 25-30. C&. UT, p. 78.

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po, l' «effetto modernizzante»98 ottenuto nelle stesse società socialiste con il superamento generalizzato dei bisogni primarie l'awio di un gigantesco processo di istruzione di massa e di mobilità sociale creava una società civile ricca e articolata che nessuna forma di coazione o nessuna eternizzazione del «socialismo di guerra»99 potevano alla lunga tenere assieme ma che richiedeva, inascoltata e insoddisfatta, «la democrazia e le sue garanzie e le sue regole».

7. Trionfo della borghesia e ricolonhzazione della

Terra: i proble,ni del inondo conte,nporaneo La vicenda del comunismo novecentesco in Europa si è ormai conclusa. Sotto il peso della sconfitta non è crollato però soltanto un progetto di trasformazione degli ordinamenti sociali e di quelli internazionali, che potrebbe essere sempre aggiornato con un nuovo progetto più adeguato ali' epoca in cui viviamo, ma sembra rimasta travolta la stessa propensione dell'intellettualità critica a riflettere in chiave storica e politica. Da un lato abbiamo assistito al trionfo dell'apologetica liberale, al quale si sono adeguati i neofiti del liberalismo provenienti dalla sinistra. Dall'altro, però, esattamente come era accaduto con la Restaurazione o con il riflusso post-' 48, anche quegli intellettuali che nonostante tutto si sono sforzati di rimanere collocati ,s UT, p. 104; cfr. pp. 77 e 79. "MBN, p. 197.

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su posizioni critiche rispetto ali'esistente hanno finito per «riecheggiare»100 dal liberalismo egemone, sebbene «inconsapevolmente», le stesse categorie con cui pensano la realtà. Non pochi autori - emblematico il caso di Toni Negri- occultano così nell'idea della fine dello Stato nazionale e della genesi di un «impero ... privo di centro e di sovrano»J.01 la brutale realtà delle nuove gerarchie di subordinazione e dominio imposte a tutto il mondo dal vero sovrano liberale, gli Stati Uniti. Altri, poi, «respingono sdegnati il sospetto che un qualche filo li colleghi con la storia del "socialismo reale", e riducendo quest'ultima a una semplice sequela di orrori, sperano di riguadagnare credibilità, talvolta agli occhi della stessa borghesia liberale»102. Tutti, comunque, hanno finito per vivere la propria stessa sconfitta con «un sentimento di sollievo e di "liberazione"» per la conclusione di un'esperienza che ha macchiato irrevocabilmente, a loro avviso, la purezza degli ideali. Si tratta di una regressione ad una forma di pensiero «essenzialmente religioso» che non costituisce un antidoto al messianismo e all'utopismo anarchicheggiante che erano già stati individuati a suo tempo da Nietzsche103 e che hanno finito per minare alle fon100

LING, p . 285. Cfr. A. Negri, M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2002. 101 LING, p. 285. 102 FUGA, pp. 13-5. 103 Sulla denuncia della tradizione rivoluzionaria come una forma di messianismo e fanatismo religioso, presente nel conservatorismo successivo al l 789e poi radicalizzata da Nietzsche, v. NIET, p. 259 sgg. e pp. 487-521.

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damenta il comunismo del Novecento, ma ripropone semmai come rimedio le stesse ragioni del male. Soprattutto, si tratta di una forma di coscienza che agli occhi di Losurdo aveva programmaticamente rinunciato ad ogni sforzo di «analisi storica e politica».1°4 del contesto in cui quelle vicende si sono svolte, dei condizionamenti. oggettivi, dei conflitti e contraddizioni che le hanno attraversate e dei rapporti di forza in cui erano collocate, e che lo ha fatto perché «impegnata solo a proclamare (e a godere narcisisticamente) la propria presunta immacolatezza». Sconfiggere questa forma di «primitivismo» e recuperare la profondità e l'obiettività di quello sguardo critico che il materialismo storico aveva desunto dallo hegelismo, depurandolo dalle sue insufficienze, rimaneva però a suo avviso una questione inaggirabile, il compito principale -e forse l'unico - che l'intellettualità critica debba proporsi nelle condizioni attuali. Troppo «grande e terribile e complicato»105, come avrebbe detto Gramsci, è questo nostro mondo contemporaneo perché possa essere affrontato e compreso soltanto con le lenti del sapere immediato, del sentimento o del moralismo. Nonostantela reiterata proclamazione della fine della storia, infatti, la dialettica del reale prosegue inesorabile e nuove e antiche contraddizioni covano sotto la cenere del presente.

104

FUGA, pp. 16-7. > A. Gramsci, lettera a Giulia Schucht del 18maggio 19.31, in Lettere dal carcere, a cura di A.A. Santucci, Sellerie, Palermo 1996, voi. 2, p. 42.3. 10

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«Siamo in presenza di una fase di de-emancipazione, una di quelle che hanno caratterizzato il cammino lungo e tortuoso della democrazia, ma di cui per ora non si riesce a intravedere il superamento»106, rifletteva Losurdo al termine di una delle sue opere più fortunate con parole che sono oggi ancora più attuali. La «restaurazione»107 dell'ordine capitalistico nei paesi ex socialisti e l' «ondata neoliberista>>1°8 e neoconservatrice che si è dispiegata in Occidente sembrano minare i fondamenti della stessa democrazia moderna. Da un lato, vengono strappati alle classi subalterne, con gli interessi, quei diritti che esse avevano conquistato nel corso di centocinquant'anni di lotte, fino alla «tendenziale cancellazione dello Stato sociale»; dall'altro, anche grazie all'uso monopolistico e manipolatorio dei mass media da parte della grande proprietà, viene «condotta definitivamente a termine la riduzione della comunità politica a mercato»109 ed è instaurata una sorta di «monopartitismo competitivo». Al ristabilimento dei «rapporti di forza a favore delle classi abbienti» 110 e alla subordinazione delle rappresentanze parlamentari al mito dell'efficienza decisionale degli esecutivi nella metropoli capitalistica si è poi associata un'offensiva neoimperialista su scala internazionale che si è ammantata della retorica dell'universalismo dei di-

106

DB, p . .316.

1o, UT, p. 6.3. 106

REP, pp. 9 e .32. DB, pp. 282-.3. Sul controllo oligopolistico dei media v. REP, p. 56 sgg. Sui sistemi maggioritari cfr. ivi, p. 64. 110 REP, p. 59. 109

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ritti umani e delle guerre umanitarie. L' «interventismo democratico»111 segue i contorni del disegno egemonico statunitense e mira a stabilizzare le fondamenta di un nuovo ordine occidentocentrico imperniato sul progetto del «Secolo americano»112, allargando e ridefinendo l'area dell'esclusione e della dipendenza delle nazioni e dei popoli e ribadendo il primato di Washington - divenuta una vera e propria potenza teologica in grado di elargire grazie o bandi di scomunica1 1} - sugli stessi alleati europei. A questo progetto, rivendicato esplicitamente come una sorta di «revival altruistico del colonialismo»114 da autori comeJohnson e Popper, avvertiva, il mondo sembra però resistere. Al «fondamentalismo dell'Occidente>>115, e cioè alla religione politica del liberalismo civilizzatore, oltre che allo specifico «fondamentalismo americano» del Manz/est Destiny, il mondo in via di ricolonizzazione risponde con un fondamentalismo religioso altrettanto irrigidito ma che appare a milioni di persone, come l'unica possibilità di dotarsi di un pensiero autonomo, dopo la sconfitta del progetto socialista e il venir meno di ogni alternativa politica e ideologica credibile. Un fondamentalismo complesso e di per sé tutt'altro che ostile alla modernità, ma che stenta ancora a conseguire quella maturità politica che

MBN, p. 58. V. PRESENTAZ,soprattutto pp. 32-40. Cfr. UNIV, p. 111 sgg. e REV, pp. 144 e 156. 113 LING,pp. 247-53. Il◄ Cit. in REV, p. 129. "' LING, pp. 82-3. lii

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potrebbe inserire masse sterminate di uomini e donne in un grande processo di emancipazione e di trasformazione dei rapporti internazionali116• Ecco lo scenario spaventoso dello "scontro di civiltà", che gli ideologi del primato della civiltà occidentale -dimenticando gli orrori di cui l'Occidente e stato responsabile nel corso della propria storia e rimuovendo secoli di scambi e circolazione delle idee tra Occidente e Oriente - agitano come uno spauracchio che chiama alla mobilitazione le società opulente dei paesi capitalistici e che suscita già oggi, nelle nostre metropoli, il ritorno di forme infami di razzismo e de-umanizzazione nei confronti del mondo arabo e musulmano e più in generale delle minoranze escluse11, . Da questo scenario pericolosamente conflittuale, infine, non viene sottratta neanche quell'altra parte del mondo che resiste, quel mondo misterioso e ancora incompreso che è la Cina, messa già nel mirino dagli Stati Uniti come il vero avversario strategico del XXI secold18 • Non è stato un caso, secondo Losurdo, che la Cina abbia resistito al crollo del campo socialista e abbia intrapreso la strada di una crescita vertiginosa e presumibilmente foriera di un grande futuro. Sembra che in quel paese il socialismo abbia saputo fuoriuscire dalla spirale utopia-stato d'eccezione, sostituendo al messianismo ai limiti del bonapartismo proprio degli anni della Rivoluzione culturale119 un atteggiamento 116

Ivi, pp. 51-54 e 57-60. Cfr. FOND, p. 119 sgg. LING, p. 193 sgg. us Cfr. CINA, passim. 119 DB,p. 189.

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di pragmatica sperimentazione. Non la restaurazione del capitalismo, come molti critici sostengono, ma un processo di «apprendimento>>120 che ha fatto i conti con la complessità e i tempi lunghi del processo di transizione e pertanto non ha avuto paura di confrontarsi con il capitalismo, la sua ricchezza e la sua tecnologia, né di sottoporre alla verifica dei fatti i propri risultati e di riconoscere apertamente le contraddizioni politiche, sociali e ambientali che di volta in volta si presentano. Una via nazionale al socialismo, gelosa della propria autonomia e consapevole del proprio peso crescente nell'equilibrio globale ma che non pretende di costituire un modello universalmente esportabile. La pratica concreta di un progetto politico che porta fuori dalla povertà, anno dopo anno, milioni di persone mentre al contempo persegue l'obiettivo della costruzione di uno Stato socialista di diritto e, come in una «gigantesca e prolungata NEP»121, dell'edificazione di un mercato socialista efficiente sia nel redistribuire il reddito che nell'incentivare la produttività. Di enorme portata sono, dunque, le contraddizioni del mondo contemporaneo e i conflitti che in esso si preparano ed è su tutto questo che, fino all'ultimo, Domenico Losurdo ci ha invitato a riflettere. Ancora una volta, comprendere il nostro tempo attraverso il concetto e individuare le condizioni oggettive del mutamento storico e le linee di fondo dei suoi sviluppi: è il senso di una ricerca che per più di cinquant'anni si è confrontata con le vicende di oltre due secoli di storia 120

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PROG, p. 228. FUGA, p. 59.

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e con le tradizioni filosofico-politiche che le hanno inneivate e che abbiamo cercato di ricostruire nella sua coerenza e nei suoi motivi di fondo. Affinché questa presa di coscienza sia possibile, è necessario anzitutto sottrarsi all'adesione ingenua a un'egemonia liberale che sembra aver smarrito qualunque capacità critica e autocritica e che ha dimenticato anche quei momenti nei quali il liberalismo ha saputo guardare in faccia i propri limiti e le proprie clausole d'esclusione. Ed è necessario, poi, recuperare l'autonomia e la forza progressiva di un pensiero che non si rinchiuda nell'illusione della partenogenesi delle idee ma si confronti con la complessità del reale, con quel negativo che è inevitabilmente immanente alla storia e alla politica. Acquisito faticosamente nel corso dei secoli nella coscienza filosofica e divenuto carne e sangue nell'agire politico concreto di milioni di uomini e donne nell'età moderna, il concetto universale di uomo è ancora lontano dall'essere effettualmente realizzato e richiama la teoria alla sua responsabilità nei confronti del mondo. È questol'e.xperùnentu1n cructsche richiamavamo all'inizio nel commemorare Losurdo ed è questa l'orgogliosa ambizione di un pensiero che ha conosciuto i rischi di un'universalità che sa farsi aggressiva e di una ragione che sa diventare strumento di parte ma che ha imparato, al tempo stesso, come al di fuori dell'universalità e della ragione non ci sia comunità del concetto, non ci sia comune umanità.

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Integrazioni al capitolo III

GLI ULTIMI TESTI di E1niliano Alessandroni

III.a Oltre demonologia e agiografia: la questione Stalin

Nell'aprile del 2009 Guido Liguori - allora vicepresidente dell'International Gramsci Society e caporedattore di "Critica Marxista" - pubblicava sul quotidiano "Liberazione" una recensione critica al libro di Losurdo su Stalin, suscitando la protesta di venti. redattori. Immediatamente dopo, i giornalisti avrebbero inviato alla testata una lettera nella quale l'autore del libro era accusato di agiografia e quello dell' arti.colo di eccessiva indulgenza. In realtà, nel volume di Losurdo veniva deplorato in maniera esplicita «il peso che demonizzazione e agiografia continuano ad esercitare nella lettura del Novecento»1 e l'approccio agiografico costituiva un bersaglio polemico non minore dell'approccio demonologico. E se non v'è alcun dubbio che i suoi capitoli fossero ben più impegnati a confutare le letture terato1

242

STA, p. 316.

«MARXISMO CRITico>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

logiche dell'esperienza staliniana, ciò non avveniva allo scopo di incoraggiare quelle apologetiche ma soltanto perché sono state le prime e non le seconde ad avere trovato negli eventi storici posteriori al 1956 una poderosa spinta che le ha condotte in poco tempo ad egemonizzare in maniera vieppiù crescente la storiografia e il senso comune. Come è stato fatto notare anche da André Tosel, però, «in nessun momentoLosurdo nega la massa enorme di orrore implicita nelle violenze della politica staliniana»2. E si potrebbe aggiungere che, in ultima analisi, era stato proprio il riconoscimento di questa «massa enorme di orrore» che aveva spinto l'autore a rintracciarne le cause, sondando gli avvenimenti storici e le influenze culturali, senza risparmiare critiche alle stesse teorie di Marx ed Engels. Se dunque veniva respinta da Losurdo quella storiografia di orientamento liberale che, prendendo le mosse dall'arco storico staliniano, aveva tentato di ridurre «a crimine o a follia criminale l'intera vicenda iniziata con l'ottobre 1917» e spesso l'intera tradizione marxista nel suo complesso, veniva respinta altresì quell'altra storiografia che, al fine di «difendere in qualche modo l'onore del comunismo», aveva finito per «prendere le distanze dalle pagine più nere della storia di tale movimento», liquidandole come un «tradimento» o una

2

A. Tosel, lettera inviata a "Liberazione", rifiutata dalla direzione e pubblicata sul blogdi DomenicoLosurdo. Non è un caso, si può aggiungere, che Losurdo sia stato accusato di stalinismo dalla demonologia di matrice trotskista non meno di quanto sia stato accusato di trotskismodall'agiografìa stalinista. Suquest'ultimo punto cfr. http://www.pmli.it/biografìalosurdo.htm.

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Stefano G. Azzarà

«degenerazione degli originari ideali della rivoluzione bolscevica ovvero degli insegnamenti di Lenin o di Marx>>3, sino a scindere radicalmente la teoria dalla pratica. Pur diversi tra loro, rilevava Losurdo, questi due approcci «che fanno leva rispettivamente sulla categoria di crimine (o di follia criminale) ovvero di tradimento ... presentano una caratteristica comune: essi hanno la tendenza a concentrare l'attenzione sulla natura rispettivamente criminale o traditrice di singole individualità» ◄.

Per quanto riguarda Stalin, tuttavia, questi due approcci non sono stati sempre egemoni nelle opinioni correnti: Losurdo ricordava come nel 1944, ad esempio, Alcide De Gasperi avesse evidenziato lo «sforzo verso l'unificazione del consorzio umano» compiuto dal leader dell'Urss come un atto «cristiano» ed «eminentemente universalistico nel senso del cattolicismo». Gli avrebbe fatto eco l'anno successivoHannah Arendt, la quale avrebbe messo in luce i meriti avuti dal governo staliniano nel «comporre i conflitti di nazionalità» e nell' «organizzare popolazioni differenti sulla base dell'eguaglianza nazionale» 5• E se ancora nel 1954 Norberto Bobbio attribuiva all'Urss e alle esperienze socialiste la capacità di aver dato avvio a «una nuova fase di progresso civile in paesi politicamente arretrati, introducendo istituti tradizionalmente democratici, di democrazia formale, come il suffragio universale e l'elettività delle cariche, e di democrazia ' STA, p. 310. • Ivi, p. 314. ' Cit. ivi, p. 13.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

sostanziale, come la collettivizzazione degli strumenti di produzione»6 , nel settembre del 1946 persino Gandhi aveva parlato senz'altro di Stalin come di «un grande uomo>>Ì. Lo spartiacque nel giudizio storico sul dirigente sovietico è stato dunque, inequivocabilmente, il Rapporto Chruscev del 1956; un testo che ha fomentato l'approccio teratologico alla storia del Novecento dipingendo il leader sovietico come un «enorme, cupo, capriccioso, degenerato mostro umano» 8 ma che sembrava sin dall'inizio formulato, più che per la ricostruzione della verità storica, al fine esplicito di «additare in Stalin il responsabile unico di tutte le catastrofi abbattutesi sull'URSS», mettendo ogni «orrore ... sul conto pressoché esclusivo di un individuo assetato di potere e posseduto da una paranoia sanguinaria»~. Anche la storiografia di orientamento liberale sembrava però a Losurdo essere interessata più che altro a un giudizio politico. La focalizzazione sui Gulag come risultato della perfidia di Stalin, la «reductio ad Hitleru111>> del dirigente russo e la raffigurazione di Stalin e Hitler come «mostri gemelli»10, se da un lato si inseriva in una dinamica politica di criminalizzazione del nemico e di equiparazione di nazismo e comunismo, dall'altro costituiva anche una forma di autoassoluzione. Se i morti del Gulag e dei Lager sono stati vittime di due f eroei tiranni che hanno monopolizzato la storia

6

C.1t. lVl, . . p. 15

; Cit. in VIOL, p. 130. 8 I. Deutscher, in STA, p. 21. 'Ivi, p. 45. 10 Ivi, p. 174.

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Stefa,w G. A.zzarà

del Novecento a danno delle istanze di libertà e democrazia, cosa dire infatti dei «dissidenti irlandesi», i quali «tra il Settecento e l'Ottocento» avevano incontrato «nell'Australia la loro Siberia ufficiale», oppure degli «schiavi neri» e dei «coolies indiani e cinesi nonché degli altri popoli coloniali»11 ? Dalla comparatistica liberale, ad esempio, erano completamente scomparsi i «campi di lavoro militarizzati dell'India coloniale del 1877 e i campi di concentramento in cui i libici sono stati rinchiusi già dall'Italia liberale», e assieme ad essi era scomparso il cosiddetto «olocausto canadese», avvenuto allorché nei «campi della morte ... uomini, donne e bambini» erano stati sistematicamente «sterminati in modo deliberato» quando non avevano subito la sorte della «sterilizzazione coatta»12. E si potrebbe continuare a lungo: in realtà, più che il comunismo, proprio la tradizione liberale mostrava semmai secondo Losurdo i tratti più affini con l'universo concentrazionario nazista. E non soltanto perché nelle colonie e nelle operazioni coloniali lo sterminio dei nativi di cui i paesi liberali si erano macchiati era avvenuto più che su base politica, come nel caso dell'Urss, su base etnico-razziale, ma anche per il fatto che mentre le stragi politiche imputabili all'Unione Sovietica si erano consumate in un paese che per tutta la sua durata non è uscito dallo stato d'eccezione, ovvero dalla tensione dell'assedio, le morti su base razziale nella Germania nazista e nei paesi

11

12

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Ivi, pp. 150-51. Ivi, p. 158.

«MARXISMO CRlTICo>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAlJSMO STORICO

liberali erano avvenute entro una condizione politica di normalità decisamente maggiore. Questo tuttavia non doveva costituire secondo Losurdo un pretesto per attenuare le responsabilità della dirigenza sovietica. Ricordare la «"Katyn" statunitense e sudcoreana>> verificatasi quando, nel corso della guerra di Corea, i profughi provenienti «dal nord selvaggiamente bombardato» sono stati in gran parte sterminati su ordine del generale Patton per timore di infiltrazioni13, ad esempio, non elimina l'efferatezza della Katyn sovietica vera e propria, che rimane «un crimine in sé» per il quale «sarebbe errato invocare ... }"'emergenza suprema", dilatando ulteriormente un criterio che già di per sé rischia di essere a maglie troppo larghe»14. Doveva invece aiutare a evitare inutili criminalizzazioni ad persona,n; a tener presenti le dinamiche oggettive, i conflitti reali entro cui la dirigenza staliniana si era trovata a operare e ad assumere le proprie decisioni. La guerra che aveva visto scontrarsi «la rivoluzione» e «il fronte variegato dei suoi nemici, appoggiati dalle potenze capitalistiche impegnate a contenere con tutti i mezzi il contagio bolscevico»15 , ad esempio. Ma anche il tormentato processo di modernizzazione e di collettivizzazione dell'agricoltura, che aveva lacerato il paese in due contrapposte «fedi furiose», scatenando un conflitto trasversale suscettibile di assumere «la ferocia della guerra di religione».

" Ivi, pp. 259-60. 14 Ivi, pp. 258-59. "Ivi, p. 92.

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Stefa,w G. Attarà

Proprio i conflitti che già infiammavano la società russa e quelli che si profilavano all'orizzonte spingevano in realtà Stalin a «promuovere uno sviluppo economico più rapido possibile, al fine di salvare al tempo stesso la nazione e il nuovo ordinamento politico-sociale che si era data>>16 • Siamo dunque al cospetto, più che alno, di una «dittatura sviluppista» imposta non già dalla perfidia del dirigente russo ma dal rischio che incombeva sulle sorti dell'intera nazione, costantemente impegnata a respingere un estenuante stato d'assedio. E il dato che maggiormente suscita l'imbarazzo del pensiero liberale e della logica binaria nel suo complesso (inclini a separare in modo manicheo bene e male, democrazia e dispotismo) è semmai, in questo senso, che senza una tale «dittatura sviluppista» non si riuscirebbe a spiegare in nessun modo la vinaria di Stalingrado, ovvero la principale vicenda attraverso cui è passata la salvezza dell'Europa e, a ben vedere, del mondo intero, a partire proprio dalle sue aree capitalistiche. Tale processo di sviluppo industriale, tuttavia -ben sapeva Losurdo -, si è svolto in modo tutt'altro che indolore. I conflitti dei «quadri tecnici ... contro i bolscevichi e a fianco dei Bianchi». Quelli tra i tecnici e gli specialisti leali al potere sovietico ma sfidati e intimiditi dai «lavoratori d'assalto» fanatizzati. I settori ostili a quell'immane sforzo che avrebbe dovuto «sviluppare le forze produttive e raggiungere o superare i paesi più avanzati dell'Occidente», settori che non lesinavano «i malwnori» e «la sorda resistenza ovvero l'aperta 16

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Ivi, p. 165.

«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

ostilità». Infine, la guerra civile contro il governo condotta dalla corrente guidata da Trockij, una gue1ra che aveva in palio la conquista del potere sovietico e non era priva di addentellati internazionali. Su tutti questi conflitti che dilaniavano la società russa si insinuava poi l'attività del Terzo Reich. Subito dopo l'inizio dell'operazione Barbarossa, ad esempio, proprio Joseph Goebbels annotava sul suo diario: «"Ora lavoriamo con tre radio clandestine per la Russia: la prima è trockijsta, la seconda separatista, la terza nazional-russa, tutte e tre aspre contro il regime staliniano"»11. Infine, lo stato d'eccezione dovuto al conflitto con la Wehrmacht non faceva a tempo a concludersi che un altro bussava già alle porte: «dopo Hiroshima e Nagasaki l'Unione Sovietica deve impegnarsi in una nuova "marcia forzata" per inseguire la nuova "rivoluzione tecnologica occidentale". Si è liberata dall'"occupazione occidentale tedesca", ma non può "concedersi un riposo": è emersa una nuova terribile minaccia»18. Se la rimozione delle circostanze oggettive e delle loro concrete articolazioni impedisce di comprendere adeguatamente la vicenda di Stalin, incoraggiando l'insorgere di approcci e paradigmi psicopatologici suscettibili di mettere sul conto della follia individuale la tragicità degli avvenimenti, tali circostanze, come è stato già accennato, non erano però di per sé sufficienti secondo Losurdo ,a eliminare il peso delle responsabilità soggettive. E stato in questo senso anzitutto il retaggio dell'utopia, e dunque l'incomprensione della n Ivi,p. 87. 18

Ivi, pp. 135-36.

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Stefano G. ~arà

tortuosità dei processi storici e la fiducia fanatica nei tempi brevi della transizione dal vecchio al nuovo sistema sociale, a giocare a suo avviso un ruolo ideologico nefasto dopo la rivoluzione d'Ottobre, «ostacolando il passaggio ad una condizione di normalità e prolungando e acutizzando lo stato d' eccezione».19. Diceva Trockij con convinzione fideistica, ad esempio, che «"la generazione che ha conquistato il potere, la vecchia guardia, comincia la liquidazione dello Stato; la generazione seguente porterà a termine questo compito"»: a partire da questi presupposti, come spiegare la mancata realizzazione di questo vero e proprio «miracolo» se non rinviandone la responsabilità alla «traditrice burocrazia staliniana»20? La trascuratezza soggettiva della complessità dei processi oggettivi, insomma, induceva la coscienza di cospicui strati bolscevichi a mettere tutti gli avvenimenti sul conto della volontà, ovvero a dilatare oltremisura la dimensione del soggetto. Ed è proprio all'interno di questa dinamica perversa che la categoria di traditnento ha conosciuto la propria fortuna. Sia quando veniva rivolta da Trockij a Stalin, sia quando da quest'ultimo era rinfacciata all'avversario, però, questa categoria non era altro che il vano grido di protesta «dell'universalità astratta», incapace di riconoscere i «diritti» o la «forza» della «particolarità» e votata dunque allo scacco. Queste gravi responsabilità soggettive non dovevano comunque impedire, secondo Losurdo, di riconoscere i meriti che il gruppo dirigente bolscevico aveva 19

20

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Ivi, .314. Ivi, 122.

«MARXISMO CIUTICo>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

accwnulato nel processodi fuoriuscita della Russia da una condizione di arretratezza e vulnerabilità, nella sconfitta del Terzo Reich e nella sopravvivenza di uno Stato che costituiva già un punto di riferimento, oltre che un suppono fondamentale, per le più grandi lotte di emancipazione del mondo: dagli Stati Uniti in cui il Partito Comunista difendeva i neri dai linciaggi pubblici e dal regime di White Supre,nacy alla Rivoluzione di Agosto, condotta da Ho Chi Minh in Vietnam dopo avere ottenuto riparo in Russia nel 1927 per sfuggire alla repressione di Chieang Kai-shek; dalla resistenza panigiana italiana contro l'occupazione tedesca alla Rivoluzione Cinese. Non è poco e - tenuto conto dei limiti oggettivi, ovvero delle immani difficoltà a cui aveva dovuto far fronte quella generazione di militanti e in particolare la dirigenza staliniana - era sufficiente a suo avviso per tracciare di quella esperienza un bilancio complessivamente favorevole.

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III.b La lotta di classe veicolo dell'universalità concreta

La lotta di classe, ha ricordato Domenico Losurdo, è stata pensata da Marx ed Engels come un criterio di interpretazione della storia e dunque come una teoria generale del conflitto che si contrapponeva ai paradigmi dominanti nel XIX secolo: quello etnico-razziale, quello psicopatologico e quello cospirazionista. Respingendo ogni spiegazione naturalistica o soggettivistica, questa teoria riconduceva cioè la genesi dei conflitti e degli avvenimenti storici alle contraddizioni oggettive che lacerano il tessuto sociale. Come dev'essere pensata però la lotta di classe? Quali sono, vale a dire, le sue caratteristiche? Occorre tenere presente, in primo luogo, che essa non costituisce una prerogativa dei ceti subalterni ma può vedere come protagoniste anche «le classi sfruttatrici»1: esistono perciò lotte di classe che tendono ad emancipare, altre a conservare e altre an1

252

LC, p. 23.

«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAUSMO STORICO

cora a de-emancipare. Inoltre, va notato che ad essere attivamente coinvolti nelle lotte per l'emancipazione non sono soltanto i ceti subalterni o gli operai delle fabbriche ma, ad esempio, anche le donne, spesso ridotte in condizioni di schiavitù nelle più diverse classi sociali, in quelle subalterne non meno che in quelle dominanti. Appartengono però al novero delle lotte di classe anche le sollevazioni anticoloniali delle «nazioni oppresse» contro il dominio straniero - pensiamo alla «lotta per "l'emancipazione nazionale dell'Irlanda">>2 -, e questo persino quando al movimento di liberazione nazionale partecipano classi che in astratto sono oppressive e persino dispotiche, come la stessa nobiltà (è il caso della Polonia, un paese nel quale pur di conseguire la fine dell'oppressione e dell'umiliazione nazionale questa classe si era dimostrata disposta a rinunciare ai suopropri privilegi feudali per allinearsi «alla rivoluzione democratico-agraria»). E' chiaro allora che per Losurdo il concetto marxiano di lotta di classe risulta legato ad almeno tre tipi di coercizione che il sistema capitalistico tende ad alimentare, ai quali rispondono rispettivamente tre tipi di lotte: la lotta di cui sono protagonisti i popoli in condizioni coloniali o semicoloniali o di origine coloniale; la lotta condotta dalla classe operaia nella metropoli capitalistica ... ; la lotta delle donne contro la "schiavitù domestica". Ognuna di queste tre lotte mette in discussione la divisione del la-

2

Marx, ivi, p. 10.

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Stefano G. Azl:-arà

voro vigente a livello internazionale, nazionale e nell'ambito della famiglia'.

In tutti e tre i casi, va poi notato, queste lotte hanno un carattere reciproco: anche gli uomini, le nazioni colonialiste e le classi sfruttatrici conducono a loro volta una lotta di classe, benché di segno reazionario. Inoltre, ciascuna di queste lotte biunivoche si svolge in numerosi ambiti: in quello econonùco, in quello politico e in quello nùlitare ma anche nel campo ideologico. Proprio quest'ultimo aspetto può aiutarci a mettere in luce la complessità di tale fenomeno, mostrandone la natura dialettica. La lotta di classe ideologica, infatti, non si svolge soltanto per l'affermazione di una determinata visione del mondo, del conflitto in corso e dei soggetti implicati, ma anche per il mascheramento o lo smascheramento degli interessi profondi che danno vita a una determinata situazione. In tal senso, anche un'ideologia laica e progressista può assolvere la funzione di occultamento delle ragioni profonde di un conflitto quando le riconduce a fattori unicamente ideologici (filosofici o religiosi). Vìceversa, un'ideologia oscurantista può assolvere nel breve periodo una funzione emancipatrice quando funge da collante identitario di una deternùnata soggettività in lotta: l'Irlanda e la Polonia, ad esempio, hanno saputo mettere in piedi una solida resistenza anche in virtù della spinta unificante che l'ideologia religiosa aveva loro impresso. A dimostrazione che ogni elemento coinvolto nel conflitto - e questo vale per tutti gli ambiti ; Ivi, p. 54.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

in cui tale conflitto si manifesta e a tuti i livelli - non ha un'identità rigida ma vive nella storia e può essere visto in almeno due modi diversi. Avvicinandosi all'attualità, l'analisi di Losurdo individuava la presenza della lotta di classe anche in ambiti inusitati e apparentemente estranei al paradigma marxista classico. È il caso della sfera del «sentimento», nella quale è possibile sviluppare un «terrorismo dell'indignazione»4 ovvero procedimenti di «selezione e incanalamento dell'indignazione>>5 che nel corso del Novecento hanno colpito e modellato, con particolare efficacia, l'animo dell'opinione pubblica. Né alla lotta tra progresso e reazione, tra emancipazione e deemancipazione, si sottrae lo sviluppo tecnologico e in particolare quello ancor più recente della tecnologia informatica, indispensabile oggi per il controllo delle idee e delle emozioni. Queste incursioni non facevano però che confermare la sostanza di una radicale rilettura della teoria marxiana con la quale Losurdo intendeva superare integralmente quella logica binaria che per lungo tempo ha pensato la conflittualità in modo meccanico, quale semplice scontro tra oppressori e oppressi (o, per dirla con Simone Weil, tra «coloro che obbediscono» e «coloro che comandano» 6) . Mentre la logica liberale e quella populista tendono a edificare prigioni teoriche e a scivolare in visioni manichee delle collisioni sociali, infatti, la dialettica consentiva al marxismo, a suo avviso, di afferrare la complessità ◄

SA, p. 71. s Ivi, 94. ' Ivi, p. 326.

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Stefatro G. A.zzarà

degli avvenimenti e di comprendere che «una concreta situazione storica, e soprattutto una grande crisi storica, è caratterizzata dall'intreccio di lotte di classe molteplici e contraddittorie»i. In questo intreccio, anziché configurarsi come una guerra tra il bianco e il nero, tali lotte appaiono piuttosto composte da scontri tra diverse, ancorché non equipollenti, tipologie di cromatismi, i quali al proprio interno contengono a loro volta ulteriori conflitti. Sicché non la lotta della libertà contro l'oppressione scandisce il ritmo della storia ma un compenetrarsi di contrasti tra diverse tipologie di oppressione e di urti tra diverse tipologie di libertà: «a caratterizzare una situazione storica determinata è sempre una molteplicità variegata di conflitti» e «per orientarsi in questa so1ta di labirinto è necessario indagare non solo la configurazione interna di ciascuno di questi conflitti ma anche in che modo essi si articolano e si strutturano in una totalità concreta». E' per questa ragione, commentava Losurdo, che «padroneggiare una crisi storica è una sfida sul piano teorico e politico». Spesso,infatti, ci troviamo dinanzi «a un insieme di rivendicazioni e di diritti che, presi isolatamente, sono tutti legittimi e anzi sacrosanti», ma il cui «intreccio» costituisce «un problema» e suscita «dilemmi»8• Innumerevoli sono stati nella storia, ad esempio, «i movimenti separatisti suumentahnente promossi o appoggiati da grandi potenze che per un altro verso [erano] protagoniste di un'oppressione nazionale su larga scala», ragion per cui «può persino ; Ivi, p. 25 8 Ivi, pp. 128-29.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

accadere che il riconoscimento dell'autodetemùnazione a un popolo rafforzi il nemico principale del movimento di liberazione dei popoli oppressi preso nel suo complesso». È allora di vitale importanza, in questi grovigli di contrapposizioni sociali e politiche, non perdere di vista «il conflitto delle libertà» che tende sistematicamente ad insorgere tra esse, a partire dall'individuazione della contraddizione principale. Se da un lato occorre «respingere la mutilazione delle lotte di classe» e la loro riduzione economicistica in modo da costruire il fronte più ampio possibile contro la minaccia di volta in volta più pericolosa, insomma, dall'altro non è mai lecito ignorare «il problema per cui una situazione storica (e soprattutto una grande crisi storica) può costringere a una [loro] gerarchizzazione»9.

9

Ivi, pp. 130-31.

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III.e Pace e non-violenza, fuori e dentro la spinta del materialismo storico

Nel quadro di questo complicato incrocio di contraddizioni andava collocata secondo Losurdo anche la lotta per la pace e per la riduzione della violenza nel mondo. Questa lotta risulterà infatti tanto più efficace e incontrerà minore scarto tra intenzioni e risultati quanto più saprà tenere conto dell'intero, delle sue articolazioni concrete e dell'intreccio di conflitti di cui si compone. Essa trova pertanto un 1nediu11t reale, un veicolo effettivo, proprio nella lotta di classe, la quale è al tempo stesso una lotta per l'affermazione di un'universalità sempre più concreta in ciascuno degli ambiti precedentemente indicati. Non a caso, è stato proprio sotto l'impulso dell'afflato universalistico diffusosi a partire da due eventi mondiali di cui si sono resi protagonisti soggetti storici direttamente legati alla lezione di Marx che hanno trovato il massimo sviluppo anche le lotte di emancipazione non-violenta sorte intorno alle figure di Gandhi e di Martin Luther King.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERJALJSMO STORICO

Il primo di queste due importanti leader ha maturato molto faticosamente il pacifismo anticolonialista che l'ha reso celebre. In una fase iniziale, ricordava Losurdo, Gandhi e gli indiani da lui influenzati hanno partecipato come volontari alla guerra in Sudafrica tra i soldati dell'Impero britannico e i boeri1, una guerra nel corso della quale la Gran Bretagna non ha esitato a rinchiudere gli avversari in campi di concentramento senza risparmiare donne e bambini. Successivamente, ha appoggiato gli stessi boeri e l'Impero britannico nella repressione degli zulù, i quali venivano «"falcidiati dalle mitragliatrici, frustati e impiccati, oppure feriti e lasciati morire" senza soccorsi», come nella consuetudine delle guerre coloniali. Per il futuro leader anticolonialista, insomma, l'Impero inglese era in quel momento l'incarnazione stessa del bene2, tanto che allo scoppio del primo conflitto mondiale «si decide per la partecipazione alla guerra e si impegna a spingere in questa direzione anche i compagni e gli amici riluttanti ovvero decisamente contrari all'avventura bellica»3, incoraggiando ad arruolarsi nell'esercito inglese persino i propri figli. A quel tempo, in realtà, Gandhi pensava ancora indiani e inglesi come coespressioni sanguigne di una razza eletta. A determinare «la crisi definitiva di questa piattaforma ideale e politica», conducendo il leader indiano dalla ricerca di una cooptazione militare e razziale alla «rivendicazione di un riconoscimento e 1

VIOL, p. 29. lvi, p. 30. 3 Ivi, p. 33. 2

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di un'emancipazione generalizzati», saranno secondo Losurdo due awenimenti decisivi: il «massacro di Amritsar», nel quale l'esercito britannico ucciderà barbaramente «centinaia di indiani inermi», ma anche «la rivoluzione d'Ottobre e la diffusione dell'agitazione comunista nelle colonie e nella stessa India», con l'affermazione di parole d'ordine che infliggeranno «un formidabile colpo di piccone all'ideologia della piramide razziale» fino a rendere «obsoleta l'aspirazione alla cooptazione nella razza bianca o ariana, che ora deve fronteggiare la rivolta generalizzata dei popoli di colore>>4. È a partire da questa cesura, dunque, che Gandhi è giunto ad abbracciare pienamente la causa della lotta anticolonialista, una scelta che lo porterà ad organizzare la resistenza contro l'Impero inglese ma anche a condannare il movimento sionista, a guardare con simpatia all'Unione Sovietica di Stalin, ad esprimere giudizi positivi sulla Rivoluzione cinese di Mao Zedong e a denunciare come «hitleriano» il bombardamento atomico effettuato dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki. Un analogo passaggio da una richiesta di cooptazione all'interno del potere coloniale all'organizzazione di una lotta a trecentosessanta gradi per l'emancipazione da esso è possibile rinvenire, secondoLosurdo, anche in Martin Luther King. In una prima fase, il leader afroamericano era ancora restio a «far valere la regola della non-violenza anche per i rapporti internazionali e per la politica estera di Washington». Da un lato, per via dei rapporti di forza vigenti, la lotta awiata • Ivi, pp. 86-87.

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da King non mirava a una rivoluzione che rovesciasse il blocco di potere americano; dall'altro, essa restava interamente confinata nel perimetro geografico degli Stati Uniti: «gli inizi del movimento per i diritti civili negli Usa cadevano negli stessi anni in cui conosceva un forte sviluppo la lotta dei neri in Sudafrica», ad esempio, «e, tuttavia, a questa lotta prestavano scarsa attenzione King e i suoi collaboratori, i quali si guardavano bene dal denunciare l'appoggio diplomatico che il governo statunitense forniva agli artefici del regime di apartheid». La ragione si può ben comprendere: «forte era il timore di essere bollati e perseguitati quali comunisti e chiara era la consapevolezza che Washington era disposta a guardare con indulgenza o benevolenza un movimento per la cooptazione, [ma] non certo una lotta che collegasse l'emancipazione del popolo di origine coloniale negli Usa (gli afroamericani) con il riconoscimento e l'emancipazione generalizzata dei popoli in condizioni coloniali o semicoloniali nel resto del mondo>>5. Se inizialmente King non si curava della guerra scatenata dagli Stati Uniti contro il Vietnam e concepiva il proprio «sogno» come un momento del «sogno americano» 6, in seguito al perdurare della lotta di liberazione promossa da Ho Chi Minh e allo sviluppo delle lotte di liberazione nazionale contro il dominio dell'Occidente in numerose parti del mondo, spiegava Losurdo, il suo sguardo conosce però un simultaneo processo di ampliamentoe radicalizzazione, avvicinan• Ivi, p. 148. 6 Ivi, p. 147.

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dosi progressivamente alla «costruzione» di una nuova «identità» che avrebbe spinto sempre più «i neri a schierarsi col movimento anticolonialista e a dialogare coi comurusti (ben presenti in quel movimento)», fino a «suscitare reazioni allarmanti in ampi settori dell' opinione pubblica statu!Ùtense»i. Anche concentrando l'attenzione sul solo spazi.o americano, la battaglia per i diritti civili dei neri condotta da King si estende a quel punto a quella dei diritti sociali, assumendo ben presto le forme di una lotta per il riconoscimento a tutto campo, suscettibile di penetrare in ogni ambito della realtà sociale. Il leader afroamericano si rende ben presto conto che «il segregazionismo, la discriminazione razziale e la violenza in essi implicita non si manifestavano soltanto sul piano legale»: occorreva quindi seguitare a combattere per «"la fine del segregazionismo di fatto attuato nelle scuole"» e per «"l'eliminazione della discriminazione nelle abitazioni e nei posti di lavoro"», fino a pretendere la trasformazione dei «rapporti sociali in quanto tali», così da porre fine alla «"violenza della povenà e dell'umiliazione"», ovvero alla continua violenza «implicita nella polarizzazione estrema di ricchezza e povertà»8 • Ecco che nel suo processo di radicalizzazione King si avvicina sempre più alle posizioni marxiste, come emerge dall'omaggio reso a William E.B. Du Bois9, Sia il secondo Gandhi che il secondo King, dunque, sono andati incontro a un processo di radicalizzazio7

Ivi, p. 154. • Ivi, p. 166, con citazioni di King. • Ivi, p. 168.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

ne che ha via via esteso il loro antirazzismo ai confini dell' anticolonialismo e ha assunto rivendicazioni sociali sempre più vicine a quelle dei marxisti, penandoli da una richiesta di cooptazione a una lotta per il riconoscimento su larga scala. nloro impegno è diventato tanto più concreto nella lotta contro la violenza quanto più tale lotta ha assunto le forme di un attacco alla violenza colonialista. In un confronto complessivo sulle concezioni generali da cui scaturiscono le diverse forme di lotta, il «partito di Lenin» - il partito dell'emancipazione dei popoli nato dalla rivoluzione d'Ottobre - appariva certamente a Losurdo piùmaturo del «partito di Gandhi», così come quello di Ho Chi Minh appariva più maturo del partito di King. Queste quattro figure, tuttavia, andavano per lui non contrapposte ma collocate tutte insieme nel solco di un'unica, ancorché variegata, tradizione: quella di una rivoluzione internazionale che ha tentato di combattere il dominio della White Supre111acy su scala planetaria. D'altro canto, se guardiamo alla lunga durata dei processi, la questione novecentesca della non-violenza non può essere separata dalla ben più antica questione della pace, una pace che sembrava essersi tutt'altro che consolidata - diversamente dagli auspici di Kant - con l'avvento del sistema che aveva soppiantato l'Antico regime. Al contrario, proprio il movimento reale che ha preso le mosse da Marx ed Engels si è accorto assai presto che «i rapporti feudali, il dispotismo monarchico e la società precedente l'avvento dell"'epoca del commercio", dell'industria e della finanza non erano le radici uniche della guerra»10, così che per estirpare 10

MSG, p. 186.

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«una volta per sempre» questo pericolo - sosterranno Lenin e Gramsci, memori della carneficina scaturita dal primo conflitto mondiale e dei genocidi commessi soprattutto fuori dal continente europeo - «non si tratta[va] più di farla finita con l'Antico regime feudale e con l'assolutismo monarchico, bensì con il capitalismo e il colonialismo-imperialismo a esso strettamente connessi.»11 • Quanto più ci si avvicina ai giorni nostri, tanto più la questione della non-violenza e della pace si legherà al rischio di «catastrofe nudeare».1 2 a cui l'intero pianeta è stato esposto durante la Guerra Fredda. Ancora una volta, in una prospettiva marxista si tratta non già di evocare una semplice idea di amore universale ma di trasformare i rapporti reali che rendono tale rischio sempre incombente. In questo senso, commentava Losurdo, «se c'è un nesso tra democrazia e pace», questo non è certamente rappresentato dall' «interventismo democratico e umanitario», ovvero dalla «pretesa di una grande potenza o di una grande "civiltà" di poter decidere in modo sovrano le sue spedizioni punitive» - cosa che costituirebbe «sul piano delle relazioni internazionali l'analogo di quello che il colpo di Stato rappresenta all'interno di un singolo paese», vale a dire «il contrario della democrazia (e della pace)» - ma, piuttosto, dal «nesso che lega la pace alla democrazia nei rapporti internazionali»B.

Ivi, p. 199. VIOL, p. 241. "Ivi, p. 262. 11

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«MARXISMO CRlTICo>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAlJSMO STORICO

Restava dunque assodato, per lui, che «sino a quando non saranno divelte le radici della politica di "conquista", di "rapina", di dominio, il flagello della guerra potrà essere contenuto e limitato da un'istituzione quale l'Onu,ma è destinata a restare delusa l'attesa fiduciosa di Tolstoj e di altri grandi interpreti della non-violenza, che vedevano il fenomeno della guerra e del duello tra gli Stati dileguare dalla scena della storia al pari del fenomeno del duello tra gli individui>>14 • Poiché, come affermava lord Acton, «il potere assoluto corrompe in modo assoluto», si tratta allora di impegnarsi per limitare su tutti i piani dello spettro politico e sociale questo potere, ovvero per «superare o contenere l'anarchia dei rapporti internazionali e il connesso costante pericolo di guerra, limitando in modo più o meno eguale il potere dei singoli Stati>>15.

Ivi, p. 263. "Ivi, pp. 329-30. 14

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III.d Losurdo e la Cina

1. La Repubblica Popolare Cinese e la lotta antico-

loniale Abbiamo visto come anche la lotta per l'emancipazione e l'indipendenza nazionale costituisca una tipologia fondamentale di lotta di classe. Abbiamo esaminato, altresì, come quest'ultima sia contraddistinta da un carattere di reciprocità. La Repubbhca popolare cinese, protagonista della più grande rivoluzione anticoloniale della storia, ha rappresentato in questo senso per Losurdo il bersagho privilegiato di una prolungata lotta di classe da parte del Primo Mondo, impegnato a ristabilire su quel vasto territorio il dominio abbattuto con la Rivoluzione del 1949 e a porre fine ad una crescita economica e pohtica che ormai da diversi decenni mette in discussione gh equilibri di potere di un assetto geopohtico a trazione unipolare.

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«MARXISMO CRITICo>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

In questa lotta, le manovre messe in atto contro la Cina si sono concentrate a lungo su un obiettivo principale: la balcanizzazione del territorio. Innumerevoli, commentava Losurdo, sono state «negli Usa e nei paesi a essi alleati ... le prese di posizione di analisti, strateghi, politici, uomini di Stato che prevedono o invocano la "frammentazione del colosso cinese", il suo smembramento in "sette Cine" o in "molte Taiwan">>1. In effetti, a partire dal 1949 l'Occidente «appoggia e alimenta tutti i movimenti secessionisti (nel Tibet, nel Xinjiang, nella Mongolia interiore e altrove)>>2 che possono minare l'unità politica della Cina. Ed emblematica risulta a tal proposito proprio la cosiddetta questione tibetana. Se da sempre l'Occidente si è impegnato in un'opera di demonizzazione dei propri nemici, infatti, a partire soprattutto dalla seconda metà del Novecento ha cominciato a promuovere, simultaneamente, una «trasfigurazione "non-violenta" dei suoi amici>>'. Ecco allora che la società tibetana, a scorno di tutte le evidenze storiche, cominciava ad essere descritta come una sorta di giardino dell'Eden, nel quale regnavano una pace e un'annonia distrutte soltanto con l'avvento del comunismo. Sappiamo però che non è questa la storia di quel territorio. Già «nel 1660, nel reprimere una rivolta scoppiata in Tibet, il V Dalai Lama ordinava lo sterminio sistematico non solo degli uomini e delle donne, ma anche dei loro figli e nipoti: dovevano essere annientati 'SA, p . 222. LC, p. 311. 3 VIOL, p. 224. 2

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sino all'ultimo "a guisa di uova schiacciate contro le rocce"» 4• Queste reazioni contro quanti tentavano di mettere in discussione il dominio dell'aristocrazia ecclesiastica non si sono però ridotte con l'avanzare dei secoli, spiegava Losurdo: Dopo la caduta della dinastia manciù nel 1911 - ad esempio - mentre si infittivano le manovre delle grandi potenze per lo smembramento della Cina, in Tibet, equipaggiati con "armi inglesi e giapponesi" e "ben pagati", i gruppi secessionisti conseguivano una facile vittoria sui soldati cinesi allo sbando. Dura era la sorte che attendeva gli sconfitti fatti prigionieri: "In ispregio degli accordi molti vengono annegati da 'giustizieri' riuniti in gruppi"; per quanto riguarda quelli che giungono vivi fino a Lhasa, "gli ufficiali tibetani li costringono a sfilare dietro le carogne fatte a pezzi dei cinesi che sono morti nella marcia" forzata5 .

Si tratta forse di una ferocia che investiva soltanto i nemici di un regno intimamente votato alla pace e all'armonia? In realtà «la violenza investiva tutti i settori della tradizionale società tibetana». Certo, le prescrizioni religiose vietavano la pena di motte. Ma spesso si faceva ricorso a un espediente per aggirare questo comandamento: «al colpevole era inflitta "solo" la mutilazione; la motte - si argomentava - sopraggiungeva per volontà divina». Varie e numerose risultano a tal proposito le casistiche della violenza lamaista6 • Va ◄

V.G. Kiernan, cit. ivi, p. 188. $ Ivi, p. 188-89. ' Ivi, p. 191.

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«MARXISMO CIUTICo>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

tuttavia notato che questa violenza fondamentalista si affiancava alla violenza profonda di una struttura sociale già di per sé fondata sulla «schiavitù» e sul «servaggio»7, realtà che certamente non potevano trovare spazio in un'operazione di «trasfigurazione non-violenta del Tibet» che raggiungerà il parossismo quandola propaganda occidentale incontreràla figura del Dalai Lama, da subito immerso dalla stampa e da Hollywood «in un'aura di "sublime misticismo"»8 • Il supporto occidentale alle spinte secessioniste del Tibet non si è limitato però al piano ideologico. Consistente è stato anche l'appoggio militare, a partire dall' «addestramento sofisticato fornito ai guerriglieri>> tibetani e alla disponibilità da parte di questi ultimi «di un "inesauribile arsenale nel cielo" (le armi paracadutate dagli aerei statunitensi)»~. A questa infiltrazione interna si è aggiunto poi l'accerchiamento esterno: «ancora alla fine della guerra fredda gli Stati Uniti violavano indisturbati lo spazio aereo e marittimo cinese»10• Si tratta di uno stato d'assedio che, se pure ha conosciuto fasi alterne, non è mai cessato del tutto: «attualmente, la marina militare statunitense, che gode di una schiacciante superiorità, "opera a poche miglia di distanza da molte delle più importanti città cinesi"». Quali sarebbero le reazioni in Occidente, si chiedeva Losurdo, nel caso «di una situazione rovesciata» nella quale «fosse una superiore marina militare cinese a 7

Ivi, p. 192. Ivi, p. 200. 9 Ivi, p. 197,con citazionidiJ.K. Knaus. 10 SA, p. 218. 6

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tenere sotto controllo e sotto minaccia, a distanza di poche miglia, San Francisco e NewYork?»ll. Ma l'opera di accerchiamento e di supporto del secessionismo tibetano è avvenuta, oltre che sul piano ideologico e militare, anche su quello prettamente politico. Ancora nel 1951, sull'«appanenenza del Tibet alla Cina ... erano concordi tutti i partiti cinesi» ma già «agli inizi del 1954», sottolineava Losurdo, «Walter Robertson, segretario di Stato aggiunto per l'Estremo Oriente, chiariva in questi termini la politica perseguita da Washington: "La nostra speranza di risolvere il problema della Cina continentale non si affida agli attacchi contro il continente ma piuttosto ad azioni chiamate a promuovere la disintegrazione dall'interno>>1 2• Ecco allora che «il fratello maggiore (e collaboratore di primo piano) del leader in esilio è sin dagli inizi strettamente legato alla Cia»13, E saranno gli stessi «esperti statunitensi» a fornire un aiuto «decisivo» nella redazione della «nuova Costituzione tibetana>>14• Vediamo dunque l'Occidente «impegnato a costruire un'identità nazionale tibetana suscettibile di mettere in crisi l'unità del grande paese asiatico, la cui ascesa è vista con preoccupazione e sgomento»15 . Questo incessante tentativo di balcanizzazione della Repubblica popolare cinese viene oltretutto accompagnato da una guerra sofisticata che si svolge sul piano

Ivi, p. 219. VIOL, p.211. u Ivi, p. 198. 1• Ivi, p. 201 u Ivi, p. 219. 11

12

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

economico. Sì, «"gli Stati Uniti hanno un profondo interesse a un considerevole allentamento della crescita economica della Cina"»16 • E così per decenni l'intera nazione orientale viene sottoposta a «un embargo che mirava a condannarla alla fame e all'inedia o comunque al sottosviluppo e all'arretratezza»17• Contro un simile tentativo di «strangolamento diplomatico ed economico»18 (già «agli inizi degli anni '60 un collaboratore dell'amministrazione Kennedy, Walt. W. Rostow, si vantava del trionfo conseguito dagli Stati Uniti, i quali erano riusciti a ritardare lo sviluppo della Cina per "decine di anni">>19) ha tentato di reagire la Repubblica popolare, consapevole che se «il mancato appuntamento con la prima rivoluzione industriale e tecnologica aveva segnato l'inizio del "secolo delle umiliazioni"», nel XX secolo «il mancato appuntamento con la rivoluzione industriale, tecnologica e militare in corso avrebbe comportato il ripetersi della tragedia forse su scala più larga»20• Così, se nel 1949 la Cina «rischia[va] di dipendere dalla "farina americana" e di "diventare una colonia americana"», questo medesimo problema di dipendenza economica si ripresenta oggi sul piano tecnologico-scientifico. Tuttora, infatti, gli Usa «cercano di sottoporre il grande paese asiatico a una sorta di embargo tecnologico», minacciando ad ogni pie' sospinto «un attacco "nucleare" sotto forma

MSG,p. 313. i; Ivi,p. 307. 1 • SA, p. 218. 19 MO,p. 152. 20 SA, p. 219. 16

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commerciale» al fine di riportare la Cina all'«"epoca colombiana"», vale a dire al secolo delle umiliazioni coloniali che avevano fatto diventare quel territorio uno dei paesi più poveri del mondo21• Si comprende, in questo quadro, che per venire «riconosciuta come paese a economia di mercato (e così essere in qualche modo garantita contro la minaccia protezionista)» e soprattutto per «allentare l'embargo tecnologico cui continua ad essere sottoposta»22, la Cina si è vista costretta a svilupparsi ulteriormente lungo la linea di riforme e aperture inaugurata da Deng Xiaoping. Si è trattato di un tradimento degli ideali socialisti? L'indipendenza economica è stata pagata al prezzo di una restaurazione capitalistica2>? In realtà, notava Losurdo, le attività economiche private possono svolgersi ancora oggi in Cina unicamente lungo tracciati ben stabiliti, che rimangono all'interno della pianificazione socialista e non deragliano mai verso una speculazione capitalistica priva di limiti che potrebbe mettere a repentaglio la stessa linea politica del PCC. Ancora nel 2015 «le imprese statali» producevano «"il 40 per cento del PIL cinese"»-24 • Significativo, inoltre, «il rapido innalzamento dei livelli salariali e l'introduzione dei primi elementi di Stato sociale>>25 , un aspetto, quest'ultimo, che non ha coinvolto soltanto le classi economicamente più deboli ma anche le aree LC, pp. .311-13, concitazioni di Mao. Ivi, p . .320. 2; MSG, p . .308. 2• M . Pilsbury, cit. ivi, p . .312. 2$ LC, p . .312. 21

22

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

geografiche più arretrate: «lo Stato sociale trova la sua espressione in Cina anche nell'aiuto che le regioni più avanzate, quelle costiere ... sono tenute a fornire alle altre>>26 • Nessuna restaurazione capitalistica e nessun tradimento ideologico, dunque. Al contrario, secondo Losurdo proprio «la Russia sovietica della NEP è il punto di partenza della Repubblica popolare cinese, almeno per larga parte della sua storia» 27. Lo era già per Mao, il quale, distinguendo tra «espropriazione politica» ed «espropriazione economica» della borghesia spiegava al proprio paese che «la lotta per lo sviluppo della produzione si configura come una continuazione della lotta contro il dominio coloniale o semicoloniale»2s. E lo è stato anche per Deng Xiaoping, il quale ribadirà che «"per conseguire una genuina indipendenza politica, un paese deve fuoriuscire dalla povertà"»29,

2. La Repubblica Popolare Cinese e la lotta di classe

L'apertura della Cina al mercato capitalistico restava per Losurdo all'interno di un'orbita socialista non soltanto perché contenuta e controllata - sicché «è lo stesso potere economico della borghesia a subire forti condizionamenti politici»>0 - ma anche perché la

2, SA, p. 228. 27

LC, p. 225.

28

lvi, p. 307. 29 Deng, Ibidem . ,o Ivi, p. 323.

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limitazione del potere capitalistico ad opera del Partito comunista cinese impedisce ai ceti proprietari di trasforma re gli spazi di potere economico concessi in un potere politico suscettibile di sovvertire l'ordine in vigore e di ridurre il paese in balia della speculazione straniera. La classe dirigente di questopaese, dunque, ha attuato sì liberalizzazioni in materia economica per consentire l'accrescimento delle forze produttive, la modernizzazione delle infrastrutture e l'uscita della popolazione dalla povertà, ma è rimasta pur sempre vigile affinché l'imprenditoria venuta formandosi in seguito a queste misure non fosse messa nelle condizioni di sviluppare una coscienza di classe, una struttura organizzativa e una forza politica autonoma. Infatti Nel proletariato il processo di formazione della coscienza di classe è ostacolato e può essere interrono o ricacciato indietro sia dalla concorrenza che oggettivamente sussiste tra i singoli operai, sia in conseguenza dell'iniziativa politica e ideologica della classe dominante. Qualcosa di analogo vale per la borghesia, in seguito a una rivoluzione che ha liquidato in modo più o meno radicale il suo potere politico e l'ha screditata sul piano ideologicd1•

Come ha chiarito Deng Xiaoping, «la lotta contro questi individui» che compongono il nuovo ceto capitalistico cinese «è diversa dalla lotta, che si è verificata nel passato, di una classe contro un'altra». Nonostante la ricchezza che possono aver accumulato singolarmente, infatti, «questi individui non possono formare 11

274

Ivi, p. 235.

«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

una classe coesa e aperta» e non la possono formare in quanto frammentati e privi di coscienza di classe. Ecco allora che, secondo il dirigente cinese, non «"c'è la possibilità che emerga una nuova borghesia"»: può certamente «"formarsi un pugno di elementi borghesi, ma essi non costituiranno una classe", tanto più che c'è un "apparato statale" che è "potente" ed è in grado di controllarli».32 • Oltre a questa lotta affinché gli alti ceti imprenditoriali non realizzino il passaggio da classe an sich a classe fur sich, esiste però anche un ulteriore duplice processo di egemonia culturale esercitato dal Partito comunista cinese. Un duplice processo nel corso del quale, cioè, non pochi elementi dell'imprenditoria aderiscono con convinzione alla linea politica del partito stesso. Il primo di questi due processi riguarda la lotta ideologica che il partito conduce affinché nelle scuole e nelle università l'ideologia dell'Occidente liberale non prenda il sopravvento e il marxismo-leninismo continui a costituire la linea-guida per la comprensione del mondo e della realtà nel suo complesso. Il secondo riguarda il potere di attrazione che la dirigenza del paese esercita sui quei ceti, per il fatto che essi stessi individuano pur sempre nel PCC il nucleo ideologico, politico ed emotivo di un'identità nazionale alla quale non intendono rinunciare. Ecco allora il quadro che Losurdo ha tratteggiato per sommi capi dell'egemonia culturale e politica impostasi in Cina durante gli ultimi tre quarti di secolo:

32

Ivi, pp. 235-36, con citazioni di Deng.

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Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, a partire dal riconoscimento e dall'ammirazione per ilruolo svolto dall'Urss e dai partiti comunisti nella resistenza e nella lotta contro la barbarie nazifascista, marxismo e comunismo hanno dispiegato una capacità di attrazione che andava al di là delle classi popolari. Il processo inverso si è verificato a cavallodel 1989, allorché diffusa e assillante è l'aspirazione a volgere le spalle a quella che gli Usa e l'Occidente non si stancano di bollare quale wrong side ofhistory, una corrente politica destinata a tramontare o a finire nella pattumiera della storia. Quest'ultimo processo è ancora in corso, ma rivela scarsa forza in un paese che nel 1949 era uscito dal secolodell'umiliazione colonialista e imperialista e che oggi, dopo decenni di impetuoso sviluppo economico, sembra destinato a svolgere un ruolo crescente sulla scena internazionale. Sono circostanze che rafforzano il lealismo patriottico dei singoli borghesi e capitalisti, i quali comunque, già per ragioni oggettive, incontrano difficoltà assai grandi a costituirsi come classe per sé".

il potere di attrazione "patriottica" esercitato anche sui ceti più abbienti del paese, tuttavia, non esauriva secondo Losurdo l'identità e la progettualità politica dei comunisti cinesi. Accanto a una prima linea di dirigenti politici e intellettuali che esprime unicamente la prospettiva della coscienza nazionale, è presente infatti una seconda linea che a quest'ultima aggancia una coscienza di classe e che sul nesso di queste due coscienze fonda il proprio orientamento e la propria influenza:

;; LC, pp.237-38.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAUSMO STORICO

Occorre tener presente che all'interno del Partito comunista cinese sembrano fronteggiarsi una corrente puramente nazionale, che vede concluso il processo rivoluzionario col conseguimento degli obiettivi nazionali (modernizzazione, recupero dell'integrità territoriale e rinascita della Cina), e una corrente con obiettivi ben più ambiziosi, che rinviano alla storia e al patrimonio ideale dd movimento comunista34.

Siamo in presenza, con questa seconda corrente, dell'avanguardia del processo di emancipazione, la quale può conservare un simile ruolo avanguardista soltanto nella misura in cui mantiene la propria specificità e non viene assorbita dalla prima. Per Losurdo - che nella prassi politica della classe dirigente cinese leggeva dunque anche importanti insegnamenti teorici - la coscienza di classe deve, in tal senso, abbracciare la coscienza nazionale ma non annullarsi in essa. Le fasce produttive della società possono infatti essere trascinate con facilità «su posizioni scioviniste e di appoggio alla guerra colonialista e imperialista». Nondimeno, «anche nel caso di una guerra di resistenza e di liberazione nazionale, se da un lato il proletariato è chiamato a parteciparvi attivamente, assumendo quando è possibile un ruolo di direzione, dall'altro esso deve evitare di smarrire la sua autonomia fondendosi con la borghesia». Per cui rimaneva assodato, per lui, che fin dal principio in Cina «il proletariato organizzato nel Partito comunista» è chiamato a «salvaguardare, assieme alla coscienza e all'identità nazionale, la coscienza e l'identità di clas34

Ivi, p. 324.

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se», fermo restando che questo obiettivo può essere raggi.unto «solo liquidando una volta per sempre ogni forma di nichilismo nazionale>»5 • Come si può vedere, dalla Cina proveniva chiaramente per Losurdo un'importante lezione suscettibile di fungere da antidoto (teorico oltre che pratico) al populismo e al trade-unionismo che così spesso avevano indebolito il marxismo occidentale. In ultima analisi, infatti, «la Repubblica popolare cinese è il paese che al tempo stesso sintetizza la storia del movimento comunista e del movimento anticolonialista», sintetizzando altresì coscienza di classe e coscienza nazionale. Certo, quest'ultima risulta oggi.in Cina più accentuata, ma ciò non è dovuto al dileguare della prima bensì alla priorità che le contraddizioni storiche determinate richiedono, ovvero alla priorità della questione coloniale. E in questo senso «affermare la centralità nel XX secolo e in questo inizio del XXI della lotta tra colonialismo e anticolonialismo non significa ignorare la lotta anticapitalistica» ma, al contrario, «comprendere quest'ultima a partire dalla prima»>6. D'altro canto, quello sviluppo economico che la Repubblica popolare cinese persegue non costituiva per lui soltanto una forma di resistenza alle mire coloniali dell'Occidente e in particolar modo degli Stati Uniti, ma anche una forma di lotta globale contro il sistema capitalistico mondiale:

5

Ivi, pp. 238-39. "SA, p. 214. •

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«MARXISMO CRITico>> E RICOSTRUZIONE DEL MATERIAIJSMO STORICO

Deng Xiaoping e i suoi successori devono aver riflettuto sulle modalità con cui si è svolta la guerra fredda sul piano ideologico: se il "campo socialista" esibiva orgogliosamente lo spazio senza precedenti garantito ai diritti economici e sociali (piena occupazione, accesso gratuito anche ai livelli più alti dell'istruzione, all'assistenza sanitaria e al godimento di un periodo di vacanze), l'Occidente, mentre cercava di fronteggiare l'offensiva su questo campo introducendo qua e là uno Stato sociale più o meno avanzato, contrattaccava esibendo una società dei consumi decisamente più opulenta. Alla fine era quest'ultima mossa a risultare vincente ... Se non affrontata adeguatamente la sfida rappresentata dalla società dei consumi, una società postcapitalisticanon è in grado alla lunga di difendere lo Stato sociale;7_

Accanto alla lezione relativa alla coscienza di classe e alla coscienza rivoluzionaria, dalla Cina proviene quindi anche un prezioso suggerimento su come condurre la lotta contro il colonialismo e contro il capitalismo all'interno di uno scenario dai rapporti di forza massicciamente squilibrati. Ma questa apertura della progettualità socialista al mondo dei consumi e dell'opulenza non si verifica forse a discapito della democrazia e dei diritti economico-sociali? Per quanto concerne la prima, occorre tenere bene a mente secondo Losurdo «la lezione di Hamilton, il quale ha spiegato una volta per sempre che una situazione di tranquillità geopolitica è la condizione per lo sviluppo del governo della legge, delle istituzioni liberali e della democrazia». E a tal proposito è stata la stessa classe " Ivi, pp. 246-47.

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dirigente cinese ad ammettere un deficit di democrazia e di Rule of Law nel proprio paese. Un deficit, tuttavia, al quale tale dirigenza afferma di volere far fronte di pari passo alla riduzione del proprio livello di vulnerabilità. Un idealismo della prassi che intendesse imprimere una forte accelerazione alla lotta contro questo deficit, nelle circostanze di uno stato d'assedio permanente operativo su numerosi fronti, potrebbe infatti mettere a serio repentaglio la sopravvivenza stessa dello Stato38. Un ragionamento analogo va fatto a proposito della questione dei diritti economico-sociali. Certo, nonostante la crescita imponente dei salari il Welfare State costituisce un obiettivo ancora ben lungi dall'essere realizzato, e tuttavia, anche volendo fare astrazione dalla diversa storia alle spalle e dai rapporti di forza su scala globale, mettere a confronto Cina e Occidente nel loro hic et nunc costituiva per Losurdo un «approccio empirista» inadeguato. Cosa ci dicono infatti le «linee di tendenza» dello sviluppo di questi modelli sociali? Il quadro è ben diverso da quello che emerge da una semplice constatazione numerica: «se in Cina ... lo Stato sociale è in corso di edificazione, in Occidente è nel complesso in via di smantellamento; se nel primo caso tutte le previsioni (anche occidentali) parlano di rapido ampliamento della classe media, nel secondo caso nessuno mette in dubbio il progressivo restringersi della classe media e la crescente polarizzazione sociale>:»9.

n Ivi, pp. 230-31. ,. Ivi, pp. 252-53.

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«MARXISMO CRITICO» E RICOSTRUZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

E' un altrodei motivi per cui la Repubblica popolare cinese era agli occhi diLosurdo non soltanto la protagonista di uno straordinario processo di emancipazione, di democratizzazione dei rapporti internazionali e di una lotta di classe su scala planetaria, non soltanto un punto di riferimento dell'anticolonialismo mondiale e il principale veicolo di una straordinaria lotta per il riconoscimento, ma anche la fonte di un insegnamento teorico prezioso per quella cultura critica alla quale sta a cuore l'emancipazione del genere umano.

281

Conclusione

Sulle ortne di D01nenico Losurdo, verso un universalis,no concreto

A che punto è la ricostruzione del materialismo storico della quale Domenico Losurdo ha posto le basi e le cui linee guida abbiamo cercato qui di ripercorrere? Andiamo verso unrinnovamento del marxismo, verso un marxismo del XXI secolo, oppure andiamo verso una sua ulteriore degradazione? Sappiamo che per diversi decenni la dissoluzione della cultura marxista è passata per un trasformismo intellettuale di massa che ha condotto all'assimilazione in chiave edonistica e libertaria delle istanze postmoderne. Oggi invece, nel pieno della crisi della globalizzazione capitalistica e della democrazia moderna, le cose sono molto cambiate. La versione liberale ottimistica e politicamente corretta del postmodernismo, cioè la sua versione universalistica, si è logorata nella depressione economica permanente che ha investito le società occidentali e trova sempre meno ascolto e fortuna soprattutto presso quei ceti medi che le vecchie élites stabilite non

28.3

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riescono più a garantire e che dappenutto si ribellano invocando nuovi padroni. E sulle macerie di quella cultura che dal messianismo rivoluzionario marxiano era transitata all'opposto dialettico della contemplazione ermeneutica dell'esistente regna, non casualmente, la confusione totale. Si tratta di una confusione pericolosa, però, perché si affaccia sin troppo di frequente in essa la tentazione compensativa di rincorrere improponibili scenari metafilosofici e metapolitici. Scenari nei quali Marx diventa improvvisamente un bizzarro filosofo comunitarista che critica la modernità e il capitalismo dal punto di vista della tradizione e dei vincoli personali, tanto che il suo sistema può essere assimilato a quello di Friedrich Listo allo Stato commerciale chiuso, ad esempio. Oppure nei quali Gramsci e Gentile sono identificati dalla comune awersione nei confronti della società borghese e dal comune atteggiamento "ribellistico" e attivistico (la praxis). Scenari, inoltre, nei quali - in un'ulteriore deriva trasformistica non meno postmoderna di quella precedente - le posizioni politiche estreme, tagliate fuori dalla ridefinizione neoliberale dei sistemi politici, presso i quali spesso sono state sostituite dai movimenti populistici, troverebbero un terreno d'incontro nel principio di una sovranità nazionale deturpata in chiave naturalistica e nella difesa dei piccoli produttori e delle identità particolari (oppure - paradossalmente - nell' eurasiatismo). E, individuato finalmente nelle finanza nomade, nelle sue tecnostrutture e nei suoi ceti politici e intellettuali il nemico comune dopo decenni di sviamento dovuto alla persistenza dell'obsoleta dicotomia tra destra e 284

VERSO UN UNIVERSAIJSMO CONCRETO

sinistra, si salderebbero in una lotta a tenaglia contro il capitalismo finanziario cosmopolitico e contro i "poteri forti" sovranazionali apolidi (responsabili delle grandi migrazioni dei popoli e della "sostituzione" della classe operaia e della piccola borghesia bianca preventivamente mandate in rovina) . Dando finalmente vita, così, alla Terza posizione riclùamata da Arthur Moellervan den Bruck un secolo fa a Weimar. Oppure ancora a una Quarta teoria politica, come dice oggiAlexander Dugin, pronta a dotarsi delle proprie organizzazioni. Da un estremo all'altro, dunque, sebbene sempre all'insegna della subalternità ideologica e del codismo: dalla totale adesione all'universalismo astratto liberale di ieri, sino al rigetto di ogni tensione universalistica e all'arroccamento non meno acritico sulle posizioni particolaristiche regressive del socialsciovinismo di oggi; dal misconoscimento della questione nazionale in nome di un malinteso internazionalismo immediato al suo stravolgimento "sovranista", con il tentativo di ridefinire i confini della comunità dei liberi a partire da nuove clausole d'esclusione e nuove discriminazioni e dalla vergognosa criminalizzazione delle vittime del neoliberalismo e della ricolonizzazione del mondo. E' un esito che per il marxismo comporterebbe il più umiliante di tutti i trapassi. Ed è un esito che Domenico Losurdo temeva e che, anche grazie al suo insegnamento - una lezione che è inequivocabile e che in nessun modo può essere distorta - abbiamo il compito di sventare.

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UNA CONVERSAZIONE CON DOMENICO LOSURDO (Urbino, maggio 2011)

[SGAJ La Controstoria del liberalismo (CL) stariscuotendo un notevole successo nell'area anglosassone. Anche un giornale che è punto di n/erùnento delneoliberis,no internazionale, il "Financial Tùnes'~ ha dedicato a questo libro una recensione 1nolto attenta, dùnostrando di saper dialogare con posizionianche estrenzanzente critiche. In altre aree culturali, invece, l'establish,nent liberale non ha tnanifestato la stessa volontà di confronto. In Italia, ad ese,npio, ti "Corriere della Sera" se,nbrava quasi infasttdt'to dal successo di un testo che ,nette in discussione la tradizione liberale nel suo nucleo concettuale più profondo. Da cosa dipendono queste differenti reazioni? [DL] Ovviamente, gioca un ruolo il provincialismo. Ma non dobbiamo perdere di vista altri fattori, forse più importanti. Nel tentativo di individuarli, ripercorriamo la storia degli Usa, seguendo un testo classico del liberalismo italiano: Guido De Ruggiero, Storia

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Stefa,w G. karà

del liberalis1no europeo. Ci imbattiamo nella Guerra di secessione e nella conseguente abolizione della schiavitù; balza subito agli occhi che a questo istituto si fa riferimento solo al momento della sua abolizione; è del tutto ignorato il ruolo svolto dalla schiavitù in un paese in cui si è incarnata la tradizione liberale e che nei primi decenni della sua esistenza ha avuto quali Presidenti quasi sempre proprietari di schiavi. Come spiegare questo singolare modo di procedere? Polemizzando contro la dittatura fascista, De Ruggiero le contrappone la tradizione politica liberale, da lui evocata sì con nobile passione civile, ma anche con toni tendenzialmente agiografici: il liberalismo si configura così come la «religione della libertà» di cui parlava già Benedetto Croce. La distanza spaziale e temporale rende più agevole il processo di trasfigurazione agiografica. In paesi, invece, quali l'Inghilterra e gli Stati Uniti, l'ideologia dominante può certo continuare a coltivare i miti genealogici che accompagnano e promuovono una politica imperiale. E, tuttavia, nei circoli più colti e più spregiudicati c'è troppa dimestichezza con il liberalismo reale e con le sue effettive pratiche di governo, perché ci si possa prosternare acriticamente dinanzi alla presunta «religione della libertà». Occorre prendere altresì in considerazione un'altra circostanza, che chiama in causa questa volta la sinistra. Paradossalmente, proprio nei paesi dell'Occidente dove più forte si faceva avvertire la loro presenza, i marxisti hanno dato prova di una sostanziale subalternità nei confronti della tradizione liberale. Da due secoli questa ama presentarsi come la custode in ogni caso della libertà dell'individuo nella sua sfera

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UNA CONVERSAZIONECON DoMENICO losURDO

privata, della «libertà moderna» (Constant), della «libertà negativa» (Berlin). Limitandosi a criticare il carattere «astratto» e «formale» di tale libertà, spesso in Occidente i marxisti hanno finito col sottoscrivere implicitamente la sottile auto-apologetica, in base alla quale i liberali si pavoneggiano quali campioni della libertà individuale, per «astratta» e «formale» che essa possa essere considerata. Ferma restando la necessità di un'idea di libertà che non ignori le condizioni materiali di vita, il mio libro s'impegna a dimostrare che già per quanto riguarda la «libertà moderna» ovvero la «libertà negativa», da essi proclamata irrinunciabile, i liberali hanno a lungo messo in atto macroscopiche clausole di esclusione a danno dei popoli coloniali o di origine coloniale e spesso degli stessi lavoratori salariati della metropoli. La mia è una mossa che spiazza e disorienta un certo marxismo occidentale, ma che forse suscita meno scandalo in paesi nei quali nessun libro di storia può ignorare la tragedia dei neri (negli Usa) o degli irlandesi (in Gran Bretagna), gli uni e gli altri per secoli privati anche della «libertà moderna» ovvero della «libertà negativa».

[SGAJ LA Controstoria ca,nbia in profondità l'ùn1nagine del liberalis,no alla quale sia,no abituati. Vi si spiega che esso, alle sue origini, era in sostanza una teoria dell'autogoverno della societas civilis, intendendo con questo ter112ine i ceti aristocratici e quelli proprietari. Il liberalisvzo co11rporta perciò la nascita sùnultanea delta distinzione tra uno «spazio sacro» dei "liberi", che si riconoscono tra loro co,ne pari e per i quali vale il governo delta legge, e uno «spazio profano» riservato ai ceti oppure

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alle razze inferiori, nel quale invece non se1nbra esserci lùnite all'esercizio della violenza da parte chi detiene il potere legittùno o la forza ,nateriale. E' stato l'urto con la realtà storico-politica - l'ascesa delle classi subalterne e l'avvio del processo di decolonizzazione - , assie,ne al confronto conflittuale con altre tradizioni filosofiche e politiche, co,ne il radicalis1110 e il socialis1110, a sollecitare una ,nutazione in chiave de1J1ocratica del liberalis1no. Oggz; tuttavia, nel 1no1nento in cui queste tradizioni antagoniste se,nbrano essere state sconfitte, si assiste a un'involuzione del liberalis1no stesso e ad un revival di istanze che potre1111110 definire protoliberalz; istanze che 1nant/estano spesso un rapporto irrisolto nei confronti della den1ocrazia e dell'idea di eguaglianza, sia all'interno delle singole nazioni sia nello scenario tntemazionale. Soprattutto quest'ultùno versante offre spuntidi riflessione 1nolto interessanti; perché dopo il 1989 e la fine della Guerra Fredda è iniziato un processo di ridefinizione dei confini geopolitici dello «spazio sacro» della civiltà. E però ,ni se1nbra che lo stesso pensiero liberale, pur 1nuovendo da un intento fonda1nental1nente condiviso, su questo ten1a si divida. Da un lato abbia,no le posizioni "idealistiche" di chi tiene fermo il concetto di esportazione della de,nocrazia, da Bush jr. a Oba,na ai rispettivi Think Tank; dall'altro abbianzo invece diversi autori - penso ad ese,npio a Savzuel P. Huntington - , che non esitano ad a1121nettere che l'universalis,no occidentale è in realtà una for1na di ideologia della guerra e glisostituiscono la rivendicazione cinica del particolarisnzo e del pri1nato della forza ... [DL] Io distinguerei tra uomini di Stato da un lato e intellettuali dall'altro. Quando si parla di esporta-

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UNA CON\IERSAZIONE CON Do.\.!ENICO LosURDO

zione a mano armata della democrazia, occorre far riferimento in primo luogo al presidente statunitense Wilson che promuove l'intervento del suo paese nella Prima guerra mondiale, quale contributo essenziale alla diffusione su larga scala della «libertà politica» e della «democrazia» e, conseguentemente, alla promozione della «pace definitiva del mondo». I toni usati sono improntati ad un'ideologia che oggi definiremmo fondamentalista: si tratta di condurre una «guerra santa, la più santa di tutte le guerre». D'altro canto, però, subito dopo l'intervento, in una lettera al colonnello House, così Wilson si esprime a proposito dei suoi «alleati»: «Quando la guerra sarà finita, li potremo sottoporre al nostro modo di pensare per il fatto che essi, tra le altre cose, saranno finanziariamente nelle nostre mani». In altre parole, negli uomini dì Stato l'idealismo più esaltato può ben andare di pari passo con la Realpolitik. Ciò vale per Wilson, così come, in misura maggiore o minore, per i diversi esponenti della tradizione wilsoniana. Per gli uomini dì Stato vale quello che Marx osserva a proposito degli imprenditori: gli uni e gli altri sono troppo impegnati nella produzione materiale ovvero nello svolgimento delle loro funzioni politiche, per abbandonarsi alle astrazioni alla maniera dei ceti ideologici in senso stretto. E' giusto richiamare l'attenzione su Huntington, ma occorre confrontarlo con intellettuali quali Bobbio e Habermas. il primo, collaboratore assiduo dì una rivista vicina al Dipartimento di Stato ("Foreign Affaìrs"), analizza in modo spregiudicato la guerra del Golfo del 1991: «La posta in gioco era stabilire seil grosso delle maggiori riserve petrolifere del mondo sarebbe stato

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Stefa,w G. ~arà

controllato dai goverrù sauditi e dagli emirati - la cui sicurezza era affidata alla potenza militare occidentale - oppure da regimi indipendenti. antioccidentali in grado e forse decisi a utilizzare l'arma del petrolio contro l'Occidente»; fortunatamente, ora il Golfo Persico è «diventato un lago americano». E ora vediamo Bobbio. La parola «petrolio» non compare mai nelle sue analisi. Qualche anno dopo, nel 1999, è la volta della guerra contro la Jugoslavia. E di nuovo: sulla stampa occidentale meno direttamente impegnata nella propaganda dell'ideologia della guerra si potevano leggere articoli e commenti. che sottolineavano l'importanza geopolitica dei Balcani (e dell'enorme base militare installata dagli Usa subito dopo la vittoria) oppure richiamavano l'attenzione sul carattere benefico della lezione impartita alla Jugoslavia («Ciò che di buono emerge dal Kosovo è che ora il mondo dovrebbe prender nota di un punto: la Nato può e vuole fare tutto quello che è necessario per difendere i suoi interessi vitali» - così J oseph Fitchett, Clark Recalts 'Lessons' o/Kosovo, "International Herald Tribune" del .3 maggio 2000, p. 4). Nulla di tutto ciò in Bobbio, che si limitava a celebrare la sublimità della libertà, della democrazia e della morale! Intervenivano poi la «no-fly zone» e i bombardamenti ricorrenti sull'Irak sfociati, nel 200.3, nella Seconda guerra del Golfo. E di nuovo si verificava lo spettacolo che già conosciamo ... Dileguano regolarmente in Bobbio (e Habermas) il contenzioso geopolitico e geoeconomico e il calcolo realpolitico: vediamo fronteggiarsi esclusivamente la libertà e la dittatura, l'ordine internazionale e i tiranni fuorilegge. Le opzioni politiche dei due filosofi (italia-

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UNA CONVERSAZIONE CON Do."ll!NICO losURDO

no e tedesco) non sono diverse da quelle del politologo staturùtense (Huntington). Solo che in Bobbio e Habermas l'Occidente e gli Usa diventano l'espressione dell'urùversalità giuridica e morale in quanto tali, sicché i nemici dell'Occidente e degli Usa si configurano quali nemici non di un singolo paese o di una determinata alleanza politico-militare, bensì dell'urùversalità giuridica e morale in quanto tali e subiscono così un processo più o meno accentuato di criminalizzazione. Dal punto di vista del blocco dominante risultano utili o preziosi entrambi i tipi di intellettuali: quelli più attenti alla pratica reale di gestione del potere e di conduzione della politica interna e internazionale e quelli impegnati nella costruzione di un mondo ideale di norme e valori a partire dal quale (apparentemente) dovrebbero essere giudicati gli avvenimenti concreti e le singole personalità politiche. Vale tuttavia la pena di notare le conseguenze particolarmente devastanti del secondo approccio: in autori quali Bobbio e Habermas il disdegno per l'empiria geopolitica e geoeconomica e l'attenzione riservata esclusivamente alle «norme» e ai «valori», questo idealismo esaltato, veicolano il manicheismo e un supplemento di violenza. Come spiegare questo risultato paradossale? Siamo in presenza di quello che Hegel analizza e critica quale «empirismo volgare» ovvero «empirismo assoluto» e Marx quale «positivismo acritico». Bobbio e Habermas pretendono di muoversi in una pura sfera ideale di norme e valori urùversali. Sennonché, non ci si può librare nel vuoto. Ad un contenuto empirico si è costretti in qualche modo ad appoggiarsi, ed ecco che, surrettiziamente, fa irruzione nel discorso apparentemente

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Stefano G. A.ztarà

puro una tradizione culturale determinata, una civiltà determinata, una prospettiva determinata; e tutto ciò, tutto questo contenuto empirico determinato, si vede ora conferito il crisma dell'assolutezza e dell'universalità. Un tal modo di procedere - osserva Hegel - è inaccettabile sia sul piano logico che su quello etico. Per dirla col saggio sul diritto naturale, tale modo di procedere sirende colpevole di «stravolgimento e truffa» e costituisce anzi «il principio dell'immoralità» (Unsittlichkeit). Siamo in presenza - ribadisce Fede e sapere - di un «assoluto empirismoetico e scientifico». Il problema è allora di vedere in che modo l'esaltato idealismo «etico e scientifico» di Bobbio e Habermas si rovescia nel suo contrario. A produrre questo risultato è in primo luogo l'assenza di indagine empirica ovvero il suo carattere assai sommario e limitato. Non si può comprendere il significato reale di una guerra attenendosi a vuote generalità, senza analizzare il contesto storico e il contenzioso geopolitico e geoeconomico. Al di là di ciò, a produrre un effetto devastante è la logica binaria cui Bobbio fa ricorso con accanimento particolare. «Dittatura contro democrazia»: ma perché il principio della democrazia dovrebbe essere fatto valere solo nei rapporti interni a un singolo paese e non nell'ambito dei rapporti internazionali? In questo secondo caso, si configurano chiaramente quali manifestazioni di prepotenza antidemocratica le guerre dell'Occidente imposte al di fuori del Consiglio di sicurezza dell'Onu. «Norme e valori universali in contrapposizione al particolarismo della sovranità statale»: ma perché mai non potrebbe essere considerato quale valore universale il rispetto della sovranità statale, che ha posto fine alle guerre di

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UNA CONVERSAZIONE CON DoMENICO losURDO

rehgione e ha evitato innumerevoh conflitti, compreso l'olocausto nucleare in cui minacciava di sfociare la guerra fredda? «Protezione dei diritti dell'uomo contro coloro che li calpestano»: ma i diritti dell'uomo sono moltephci e possono essere definiti diversamente; certi paesi possono essere valutati positivamente per il rispetto di certi diritti e non di altri; in certi paesi il rispetto o il mancato rispetto di certi diritti può dipendere sì dal componamento dei governanti ma anche dalla situazione geopolitica e dal contesto internazionale (la libertà di espressione e di associazione risulta più agevole in un paese che non è esposto al pericolo di aggressione o che non deve fronteggiare uno stato d'eccezione derivante dalla miseria o dai disordini civili); e comunque tra i diritti dell'uomo può ben essere annoverato il diritto a vivere in uno Stato la cui sovranità non sia alla mercé della legge del più forte. Tutto ciò è troppo comphcato per la logica binaria. Huntington e coloro che nell'analisi di un conflitto fanno intervenire i contrastanti interessi, sono meno esposti alla deriva della logica binaria: gli interessi sono molteplici; soprattutto, anche se anahzzato a partire da una presa di posizione dettata solo dall'empirismo dell'appartenenza a un paese o a una civiltà determinata, il conflitto di interessi vede pur sempre fronteggiarsi realtà omogenee e tutte affette più o meno dalla particolarità. Al contrario, il discorso caro a Bobbio (e a Habermas) vede regolarmente scontrarsi un valore universale e un malvagio disvalore, una norma universale e una violazione criminale di tale norma. La logica binaria raggiunge così il suo acme e si rivela intrinsecamente affetta da manicheismo.

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[SGAJ Nel confronto tra le grandi aree geopolitiche e in questo processo di ridefinizione dello «spazio sacro» un ruolo tnolto ùnportante sul piano ideologico e politico è svolto oggi dalla questione dei "diritti utnani" e in generale dalle istanze universalistiche, co,ne l'idea di denzocrazia, di libertà e così via. Nei suoi libri ha spesso indagato la dialettica dell'universalis,no, che tante volte si è rovesciato in una for,na di legittùnazione ideologica dell'interventistno, dall'espansionistno napoleonico fino alla Pri,na guerra ,nondiale e oltre. Il richianzo ai principi universali conserva ancora oggi questa funzione? Non c'è alternativa all'uso strunzentale del concetto universale? [DL] Non si tratta solo dell' «uso strumentale»: questo è certo un problema serio e anzi drammatico nell'epoca dell'imperialismo dei diritti umani e delle guerre umanitarie; giammai l' «universalismo» aveva assunto un volto così cinico e così ripugnante. E, tuttavia, occorre andare oltre. Siamo in presenza di una dialettica oggettiva, in base alla quale l'universalità è da un lato ineludibile, dall'altro potenziahnente aggressiva. È ineludibile per il fatto che - come osserva Hegel - negare l'universalità significa non lasciare in piedi «nulla di oggettivamente comune» nel rapporto tra gli uomini, sicché per la soluzione di ogni conflitto resta solo la violenza. D'altro canto, anche i più aspri critici dell'universalità finiscono in realtà col presupporla. È vero, l'ideologia è il conferimento della forma dell'universalità a contenuti e interessi empirici determinati, che ne risultano in tal modo trasfigurati. Ma alla categoria di universalità non può non far riferimento la stessa critica dell'ideologia che consiste

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UNA CON\IERSAZIONECON DoMENICO LosURDO

infatti nella denuncia della pseudo-universalità, del potenziamento arbitrario e surrettizio a universale di un particolare determinato e spesso vizioso. La condanna della sopraffazione, esercitata a danno di un individuo o di un g1uppo sociale o etnico, è la denuncia dell'esclusione di questo individuo o gruppo da un'universalità che si rivela così illusoria o mistificatrice. E cioè, tale condanna presuppone il riconoscimento della dignità di ogni individuo o uomo in quanto tale; non è possibile mettere in discussione una determinata ideologia universalistica senza far ricorso ad una metauniversalità, ad un'universalità più ricca e più vera. Non procedono così anche i militanti afroamericani allorché rimproverano all'Occidente di aver scambiato il bianco e l'occidentale con l'uomo in quanto tale? E questo è il reale significato della critica rivolta dalle femministe ad esempio alla Dichiarazione dei diritti scaturita dalla rivoluzione americana: è evidente che l'uomo di cui essa parla, ben lungi dall'essere l'uomo in quanto tale e nella sua universalità, è in realtà il maschio bianco e proprietario. Sennonché, un'osservazione analoga può essere fatta a proposito della categoria di donna in quanto tale. Negli Usa della schiavitù e della white supre11zacy non si contano le prese di posizione che, nel condannare gli stupri attribuiti ai neri, celebrano con accenti eloquenti e commossi l'inviolabilità del corpo femminile. In realtà, fanno riferimento alla donna bianca (e, per lo più, di elevata condizione sociale), non certo alla schiava o semi-schiava nera che ben difficilmente può sottrarsi alle voglie del padrone. Ma, ancora una volta, questa critica del carattere mistificatorio dell'universalità attribuita, in determinati contesti, al

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concetto di uomo in quanto tale o di donna in quanto tale implica il rinvio ad un'autentica universalità o meta-universalità. Per un altro verso,l'universalismo è potenzialmente aggressivo in quanto di per sé delegittima tutto ciò che non è conforme alla nonna universale. E' sempre in agguato il rischio per cui l'universalità si trasforma in ideologia, trasfigurando in modo abbagliante interessi particolari; in altre parole è sempre in agguato il rischio di rovesciamento dell'universalismo in «empirismo assoluto». Come fronteggiare tale rischio? Ho già espresso il mio punto di vista sui vizi di fondo della logica binaria che presiede all'odierno imperialismo dei diritti umani. Per fare un ulteriore esempio, torniamo alla Guerra di secessione. Possiamo ben dire che l'universalità era in ultima analisi rappresentata dal Nord, che in qualche modo metteva in discussione l'istituto della schiavitù owero non ne escludeva l'abolizione, sia pure in un futuro più o meno vago. E, tuttavia, non bisogna perdere di vista gli altri elementi del contenzioso: la contesa tra le diverse sezioni dell'Unione per il controllo del potere federale e il conflitto che contrapponeva il Nord industriale e interessato al protezionismo al Sud agricolo, danneggiato da tale politica. E dunque: occorre liberarsi dalla visione ingenua, secondo la quale l'universale si contrappone con nettezza ed evidenza al particolare e si incarna in modo univoco in uno dei protagonisti del conflitto. C'è un'ulteriore ragione che ci impedisce di leggere la vicenda storica qui evocata come lo scontro tra valori universali e interessi particolari. Non solo la libertà dei neri, anche ilself governe112ent costituisce

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UNA CON\ll!RSAZIONECON DoMl!NICO l..osURDO

un valore universale; per non parlare del fatto che, dal punto di vista degli Stati del Sud, l'Unione aveva altresì il torto di calpestare il principio universale del rispetto della proprietà privata (compresa quella in schiavi neri). Certo, oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che quella invocata dal Sud era un'universalità drasticamente amputata, fondata in ultima analisi sulla de-umanizzazione dei neri. Resta tuttavia fermo che una grande crisi storica si caratterizza per l'intreccio tra universalità e interessi empirici determinati nonché per lo scontro tra contrapposte universalità che non sono tra loro equipollenti e tra le quali, in una situazione determinata, occorre scegliere. Ecco perché, secondo l'indicazione di Lenin, siamo sempre costretti a sviluppare un' «analisi concreta della situazione concreta». L'antidoto al manicheismo, e al rischio di «empirismo assoluto» implicito nell'universalismo, non è il relativismo bensì la dialettica. Per citare ancora Lenin: «La dialettica, come già spiegava Hegel, comprende in sé gli elementi del relativismo, della negazione, dello scetticismo, ma non si riduce al relativismo».

[SGA) Un altro suo recente libro che ha suscitato notevolipolenziche è quello su Stalin e sulla «leggenda nera» che ne sancisce la damnatio memoriae 1. Seroendosi di argo,nentazioni tratte da fonti insospettabili disùnpatie verso Stalin, lei contesta la denzontzzazione che si è ùnposta nella storiografia conte,nporanea dopo Cruschev. Propone inoltre un'analisi' dalla quale Stalin e,nerge co,ne un leader 'STA.

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equilibrato e conze l'interprete di una linea 1noderata di realis,no politico che si scontra con forti resistenze nello stesso 1novùnento co,nunista internazionale. [DL] A stimolare questo mio libro (STA) è stata in primo luogo quella che si potrebbe definire una indignazione intellettuale: come si può pretendere di spiegare trent'anni di storia mondiale rinviando alla «paranoia» da cui sarebbe stato affetto il le~der del paese scaturito dalla rivoluzione d'Ottobre? E dura a morire la cultura della Restaurazione che, con Franz von Baader, metteva la Rivoluzione francese sul conto della «follia satanicamente invasata» che aveva cominciato a infuriare nel 1789. Più tardi, la rivoluzione del '48 e soprattutto la rivolta operaia spingono Tocqueville a denunciare il dilagare di «virus di una specie nuova e sconosciuta». E' un motivo che Taine riprende e radicalizza dopo la Comune di Parigi. Per farla breve, non c'è crisi rivoluzionaria o movimento rivoluzionario che non siano stati diagnosticati dall'ideologia dominante quali espressioni di follia e di follia sanguinaria. Il mio libro su Stalin vuole essere una confutazione della lettura in chiave psicopatologica dei movimenti rivoluzionari e, più in generale, delle grandi crisi storiche. Il punto di partenza è la storicizzazione dell'i1nmagine di Stalin. Oggi è di moda bollarlo in quanto folle e sanguinario e accostarlo a Hitler. Può essere allora interessante vedere che negli anni Trenta del Ventesi1no secolo, nel Sud degli Usa, dove ancora infuriava il regime di White Supre,nacy, non erano pochi gli afroamericani che vedevano in Stalin il «nuovo Lincoln», il Lincoln che avrebbe messo fine questa volta

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UNA CONVERSAZIONE CON DoMENICO LosURDO

in modo concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, ali'oppressione, alla degradazione, all'umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi continuavano a subire. Gli afroamericani impegnati nella lotta per l'emancipazione a Hitler e ai nazisti paragonavano non già Stalin e gli «stalinisti», bensì il Ku Klux Klan e le bande razziste bianche, i campioni del regime di supremazia bianca contro il quale lottavano fianco a fianco i comunisti e i militanti neri(spesso anche loro influenzati dal movimento comunista). Agli occhi di Gandhi, se c'era uno statista che poteva essere accostato a Hitler, non era Stalin bensì Churchill («in India abbiamo un governo hitleriano, sia pure camuffato in termini più blandi»). Gandhi si sbagliava, non si rendeva pienamente conto della mostruosa radicalizzazione che la tradizione coloniale conosceva con Hitler. E' il movimento comunista diretto da Stalin a spiegare pazientemente un punto di non facile comprensione e anzi a prima vista conu·ario all'evidenza empirica: nonostante fosse sprovvista di un impero coloniale, la Germania hitleriania costituiva il nemico principale anche per i popoli coloniali; la sua vittoria avrebbe costituito un netto rafforzamento e un ulteriore imbarbarimento del regime di supremazia bianca su scala planetaria, mentre la sua disfatta avrebbe suonato la campana a morto anche per il colonialismo classico (come poi di fatto avviene). È anche per questa sua lucidità e lungimiranza che Stalin, nonostante le pagine tragiche e talvolta orribili del suo trentennio di governo, riesce a guadagnarsi in certi casi l'ammirazione e comunque la stima di grandi intellettuali e di grandi uomini politici (compresi Churchill e Gandhi).

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[SGAJ Il suo libro su Stalin non ha scandalizzato soltanto quella parte del inondo intellettuale che si autodefinisce liberale e che nel corso della Guerra Fredda aveva attiva,nente parteggiato per l'Occidente e gli Stati Uniti. Anche all'interno della sinistra le reazioni sono state in alcuni casi 1nolto negative. È co,ne se, in nonze di stereotipi' che sono onnai ben radicati, ci fosse un rifiuto dell'analisi storica rigorosa. Nella sua analisi, questa regressione storico-politica dz' una parte della sinistra ha a che fare con una certa ricezione della stessa teoria ,narxiana e con la pratica effettiva che il 1narxis1110 ha avuto nel corso del XX secolo. Più volte lei ha denunciato l'«utopistno», il «1nessianis1110» e l'incapacità di «apprendùnento» che ha iv;pedito alla sinistra di operare analisi concrete della realtà. Per andare alla radice di questo deficit teon·co: c'entra qualcosa, in questa ùnvzaturità nei confronti della storia e della politica, un certo pregiudizio filosofico nei confrontidi Hegel, che anche a sinistra viene ancora spesso interpretato co,ne un teorico del pninato dello Stato e co,ne un conseroatore? È co111e se per larga parte del Novecento si fosse cercato di coniugare Marx con Fichte, più che di co11;prendere le potenzialità del 1naterialis1no storico e della dialettica ... [DL] Hegel è un punto di riferimento ineludibile per ogni reale progetto di emancipazione per il fatto che egli più di ogni altro ha compreso e ci aiuta a comprendere quello che io definisco il «conflitto delle libenà». Si tratta di un conflitto che, nell'ambito della tradizione liberale, è stato intuito forse solo da Adam Smith. In una pagina non a caso dimenticata o rimossa dalla consueta apologetica liberale e dagli autori irrimediabilmente

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UNA CONVERSAZIONE CON DoMENICO losUROO

rinchiusi nella gabbia dì ferro della logica binaria, egli osserva che la schiavitù può essere soppressa più facilmente sotto un «governo dispotico» che non sotto un «governo libero», con i suoi organismi rappresentativi esclusivamente riservati, però, ai proprietari bianchi. Disperata è in tal caso la condizione degli schiavi neri: «Ogni legge è fatta dai loro padroni, i quali non lasceranno mai passare una misura a loro pregiudizievole». E dunque: «La libertà dell'uomolibero èla causa della grande oppressione degli schiavi[...] E dato che essi costituiscono la parte più numerosa della popolazione, nessuna persona provvista dì umanità desidererà la libertà in un paese in cui è stata stabilita questa istituzione». Dà da pensare la preferenza qui indirettamente espressa da Smith per il «governo dispotico», il solo in grado dì eliminare l'istituto della schiavitù! il conflitto dinanzi al quale qui ci troviamo non è quello tra libertà «formale» da un lato e «sostanziale» dall'altro, come nella vulgata marxista; e neppure quello che contrappone difensori e nemici della «libertà negativa». Nel caso che stiamo esaminando i termini del conflitto sono del tutto diversi. Non è messo in dubbio néil valore della libertà «formale» o «negativa» né il valore della libertà politica (e dell'autogoverno locale).Sennonché, in una situazione concreta e determinata, la rivendicazione della libertà «negativa» e tanto più dì quella politica risulta in insanabile contraddizione con l'autogoverno locale e con la libertà politica dei proprietari dì schiavi. In effetti, molti decenni più tardi, nel Sud degli Stati Uniti la schiavitù viene abolita solo in seguito ad una guerra sanguinosa e alla successiva dittatura militare imposta dall'Unione a carico degli Stati secessionisti e schiavisti. Quando

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l'Unione rinuncia al pugno di ferro, i bianchi si vedono sì di nuovo riconosciuto l'habeas corpus e l'autogoverno locale, ma i neri non solo vengono privati dei diritti politici, ma sottoposti ad un regime che implica apartheid, rapporti di lavoro semi-servili e linciaggio, ad un regime cioè che in pratica continua a comportareper gli ex-schiavi l'esclusione dalla libertà negativa. Quello che in Smith è uno spunto isolato diventa in Hegel il filo conduttore della lettura del processo storico nel suo complesso. Ciò vale per la storia antica come per quella moderna e contemporanea. Mi limito a un esempio. Nell'ambito dell'Antico regime, la «libertà dei baroni» comporta l' «assoluta servitù» della «nazione» e impedisce la «liberazione dei servi della gleba». Per questo «il popolo [ ...]dappertutto si è liberato (befreit) mediante la repressione (Unterdruckung) dei baroni». L'aristocrazia avverte la perdita del privilegio, come oppressione della libertà (Unterdruckung der Freiheit) e come dispotismo». Ma, agli occhi di Hegel, se di dispotismo si tratta, si tratta comunque di un dispotismoche costituisceuna tappa nella storia della libertà. Resta fermo, tuttavia, che occorre lavorare per il superamento del conflitto delle libertà. Questa lezione di metodo non può essere ignorata se si vuole comprenderei! capitolo di storia, esaltante e tragico al tempo stesso, iniziato con la rivoluzione d'Ottobre. Seè giusto rimproverare a Marx la sottovalutazione e alla vulgata marxista la disinvolta cancellazione del problema della libertà formale,è tuttavia privo di senso ignorare il drammatico conflitto delle libertà (reso più aspro dall'intervento militare e dal blocco economico promossi dall'Occidente), che ha pesato nel concreto

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processo di sviluppo dei paesi socialisti. e che ancora oggi si fa sentire in modo più o meno accentuato in paesi come Cuba o la Repubblica Popolare Cinese. Si prenda in particolare un piccolo paese come Cuba. A esigere imperiosamente «libere elezioni» è la superpotenza che si ostina a renderle impossibili: come potrebbero essere considerate «libere» elezioni che si svolgono mentre il popolo continua ad aver puntato alla gola il coltello dell'embargo (e della minaccia di aggressione)? Se, facendo leva sul ricatto economico e militare e su un mostruoso apparato multimediale, Washington riuscisse ad imporre il Regùne Change a cui lavora da oltre mezzo secolo, ci sarebbe forse un'espansione della libertà di espressione e di associazione. E però al tempo stesso, si verificherebbe la liquidazione dei diritti economici e sociali e dei diritti nazionali del popolo cubano, con la consacrazione a livello internazionale del diritto del più forte. Nel complesso, sarebbe una disfatta della causa della democrazia. E dunque, solo chi ignora il conflitto delle libertà può associarsi alle minacce o alle prediche che, in nome della «libertà», gli Usa e l'Occidente rivolgono ai dirigenti. (e al popolo) di Cuba.

[SGAJ Come incide questa debolev.a teorica sullo stato della sinistra attuale? L'Europa si confronta oggi con trasfonnazioni ùnponenti che stanno 1nutando il volto del inondo. Sono trasfonnazioni che riguardano i rapporti di forza internazionalt' sul piano politico e su quello econo1nico, 111a anche l'equilibrio tra Stato e 1nercato, la natura della denzocrazia, le grandi 1nigrazioni. La sinistra non se11zbra avere oggi né idee, né prospettive politù:he.

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[DL] Con la crisi prima e col crollo poi del «socialismo reale», in Occidente e in Italia in modo particolare la sinistra ha smarrito ogni reale autonomia. Sul piano storico ha sostanzialmente desunto dai vincitori il bilancio storico del Novecento. Due sono i punti centrali di tale bilancio: per larghissima parte della sua storia, la Russia sovietica è il paese dell'orrore e persino della follia criminale. Per quanto riguarda la Cina, il prodigioso sviluppo economico che si verifica a partire dalla fine degli anni '70 non ha nulla a che fare col socialismo ma si spiega soltanto con la conversione del grande paese asiatico al capitalismo. A partire da questi due capisaldi ogni tentativo di costruire una società post-capitalistica è oggetto di totale liquidazione e persino di criminalizzazione, e l'unica possibile salvezza risiede nella difesa o nel ristabilimento del capitalismo. E' paradossale, ma sia pure con sfumature e giudizi di valore talvolta diversi, questo bilancio viene spesso sottoscritto dalla sinistra, compresa quella «radicale». Ancora più grave è la subalternità di cui la sinistra dà prova sul piano più propriamente teorico. Nell'analizzare la grande crisi storica che si sviluppa nel Novecento, l'ideologia dominante evita accuratamente di parlare di capitalismo, socialismo, colonialismo, imperialismo, militarismo. Queste categorie sono considerate troppo volgari. I terribili conflitti e le tragedie del Novecento vengono invece spiegate con l'avvento delle «religioni politiche» (Voegelin), delle «ideologie» e degli «stili di pensiero totalitari» (Bracher), del1'«assolutismo filosofico» ovvero del «totalitarismo epistemologico» (Kelsen), della pretesa di «visione totale» e di «sapere totale» che già in Marx produce

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il «fanatismo della certezza» Q"aspers), della «pretesa di validità totale» avanzata dalle ideologie novecentesche (Arendt). Se questa èl'origine della malattia novecentesca, il rimedio è a portata di mano: è sufficiente un'iniezione di «pensiero debole», di «relativismo» e di «nichilismo» (penso al Vattimo degli anni Ottanta). In tal modo non solo la sinistra fornisce il suo bravo contributo alla cancellazione di capitoli fondamentali di storia: i massacri e i genocidi coloniali sono stati tranquillamente teorizzati e messi in pratica in un periodo di tempo in cui il liberalismo si coniugava spesso con l'empirismo e il problematicismo; prima ancora dell'avvento del pensiero forte novecentesco, la Prima guerra mondiale ha imposto col terrore a tutta la popolazione maschile adulta la disponibilità e la prontezza ad uccidere e ad essere uccisi. Per di più, come medico per eccellenza della malattia novecentesca viene spesso celebrato Nietzsche, che pure si attribuisce il merito di essersi opposto «ad una falsità che dura da millenni» e che aggiunge: «Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata» (Ecce ho1110, Perché io sono un destino, 1). Così enfatica è l'idea di verità, che coloro i quali sono riluttanti ad accoglierla sono da considerare folli: sì, si tratta di farla finita con le «malattie mentali» e con il «manicomio di interi millenni» (L'Anticristo, § 38). D'altro canto, il presunto campione del «pensiero debole» e del «relativismo» non esita a lanciare parole d'ordine ultimative: difesa della schiavitù quale fondamento ineludibile della civiltà; «annientamento di milioni di malriusciti»; «annientamento delle razze decadenti.»! La piattaforma teorico-politi.ca suggerita

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a suo tempo da Vattimo - ma che Vattimo stesso pare oggi mettere in discussione - mi sembra insostenibile da ogni punto di vista. Altre correnti del pensiero dominante indicano il rimedio alle tragedie del Novecento non già nel relativismo, ma, al contrario, nel recupero della saldezza delle norme morali, sacrificate da comunisti e nazisti sull'altare del machiavellismo e della Realpolitik (Aron e Bobbio) ovvero della filosofia della storia e della presunta necessità storica (Berline Arendt). Nella sinistra e nella stessa sinistra radicale (si pensi a «Empire» di Hardt e Negri) è divenuta un punto di riferimento soprattutto Arendt. Rimossa o sottoscritta è la liquidazione a cui lei procede di Marx e della Rivoluzione francese con la connessa celebrazione della rivoluzione americana (e il conseguente indiretto omaggio al mito genealogico che trasfigura gli Usa quale «impero per la libertà», secondo la definizione cara a Jefferson, che pure era proprietario di schiavi). In questo caso ancora più assordante è il silenzio sulla tradizione colonialista e imperialista alle spalle delle tragedie del Novecento. Arendt condanna l'idea di necessità storica nella Rivoluzione francese, e soprattutto in Marx e nel movimento comunista; dimentica però che il movimento comunista si è formato nel corso della lotta contro la tesi del carattere ineluttabile e provvidenziale dell'assoggettamento e talvolta dell'annientamento delle «razze inferiori» ad opera dell'Occidente, si è formato nel corso della lotta conu·o il «partito del destino», secondo le definizione cara a Hobson, il critico inglese dell'imperialismo, letto e apprezzato da Lenin. Arendt contrappone negativamente la Ri-

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voluzione francese, sviluppatasi all'insegna dell'idea di necessità storica, alla rivoluzione americana, che trionfa all'insegna dell'idea di libertà. In realtà l'idea di necessità storica agisce con modalità diverse in entrambe le rivoluzioni: se in Francia viene considerata ineludibile anche l'emancipazione degli schiavi, che è in effetti è sancita dalla Convenzione giacobina, negli Usa il motivo del Mani/est Destiny consacra la conquista dell'Ovest, inarrestabile nonostante la riluttanza e la resistenza dei pellerossa, già agli occhi di Franklin destinati dalla «Provvidenza» ad essere spazzati via. Arendt muore nel 1975, non ancora settantenne. In questa morte precoce c'è un elemento paradossale di fortuna sul piano filosofico. Solo successivamente intervengono gli sviluppi storici che falsificano totalmente la piattaforma teorica della filosofa scomparsa: a partire dalla presidenza Reagan sono proprio gli Stati Uniti a impugnare la bandiera della filosofia della storia contro l'Urss ei paesi che si richiamano al comunismo, destinati a finire nella «spazzatura della storia» e comunque collocati - ai giorni nostri lo proclamano Obama e Hillary Clinton - «dalla parte sbagliata della storia». Più longevi ma meno fortunati sul piano filosofico sono i devoti di Arendt, che continuano a ripetere la vecchia filastrocca, senza accorgersi del radicale rovesciamento di posizioni che nel frattempo si è verificato sul piano mondiale. Subalterna sul piano del bilancio storico così come delle categorie filosofiche, la sinistra (compresa quella radicale) è chiaramente incapace di procedere a un' «analisi concreta della situazione concreta». Tanto più, se teniamo presente che alla catastrofe teorico-politica ha contribuito ulteriormente una mossa sciagura-

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ta, quella che conu.1ppone negativamente il «marxismo orientale» al «marxismo occidentale». Alle spalle di questa mossa agisce una lunga e infausta tradizione. In Italia, subito dopo la rivoluzione d'Ottobre, Filippo Turati, che continua a fare professione di marxismo, non riesce a vedere nei Soviet null'altro che l'espressione politica di un' «orda» barbarica (estranea e ostile all'Occidente). A partire dagli anni '70 del secolo scorso, la divaricazione tra marxisti orientali e marxisti occidentali ha visto contrapporsi da un lato marxisti che esercitano il potere e dall'altro marxisti che sono all'opposizione e che si concentrano sempre più sulla «teoria critica», sulla «decostruzione», anzi sulla denuncia del potere e dei rapporti di potere in quanto tali, e che progressivamente nella loro lontananza dal potere e dalla lotta per il potere ritengono di individuare la condizione privilegiata per la riscoperta del marxismo «autentico». È una tendenza che ai giorni nostri raggiunge il suo apice nella tesi formulata da Holloway, in base alla quale il problema reale è di «cambiare il mondo senza prendere il potere»! A partire da tali presupposti, cosa si può capire di un partito come il Partito comunista cinese che, gestendo il potere in un paese-continente, lo libera dalla dipendenza economica (oltre che politica), dal sottosviluppo e dalla miseria di massa, chiude il lungo ciclo storico caratterizzato dall'assoggettamento e annientamento delle civiltà extra-europee ad opera dell'Occidente colonialista e imperialista, dichiarando al tempo stesso che tutto ciò è solo la prima tappa di un lungo processo all'insegna della costruzione di una società post-capitalistica?

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[SGAJ Un altro suo recente intervento si occupa della tradizione del paci/is1no e della non violenza~ In effetti, proprio questo è stato il terreno sul quale negli ultitni decenni la sinistra ha tentato di intraprendere un processo di rinnova,nento. Lei se11zbra però 1nolto critico rispetto a questo sforzo e rispetto al ,nodo in cui l'esperienza pacifista è stata assùnilata. [DL] La rilettura del movimento indipendentista indiano era un'occasione d'oro per ripensare la storia del Novecento e ridicolizzare il tentativo portato avanti dal revisionismo storico di liquidare e criminalizzare la tradizione rivoluzionaria. Ai suoi inizi Gandhi non coltiva affatto l'idea di un'emancipazione generalizzata dei popoli coloniali; mira soltanto alla cooptazione del suo popolo tra le razze dominanti. E, nell'inseguire questo obiettivo, egli richiama l'attenzione sull'antica civiltà e persino sulle radici «ariane» del popolo indiano, che dunque non sarebbe lecito confondere coi «rozzi cafri», coi neri rinchiusi nella barbarie. Al di là della brutalità del dominio coloniale britannico, a stimolare il passaggio di Gandhi dall'obiettivo della cooptazione esclusivistica a quello dell'emancipazione generalizzata è la rivoluzione d'Ottobre, che mette in crisi l'idea di gerarchia razziale e imprime un poderoso sviluppo al movimento anticolonialista in tutto il mondo. Nel giugno 1942 il Gandhi più maturo esprime la sua «profonda simpatia» e la sua «ammirazione per l'eroica lotta e gli infiniti sacrifici» del popolo cinese, 2

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deciso a difendere (con le armi in pugno) «la libertà e l'integrità» del paese. È una dichiarazione contenuta in una lettera indirizzata a Chiang Kai-shek, allora alleato del Partito comunista cinese. Poco più di tre anni dopo, messo in atto mentre il Giappone è alle soglie della capitolazione, l'annientamento di Hiroshima e Nagasaki segna sì la fine della Seconda guerra mondiale ma suona al tempo stesso come un minaccioso awertimento all'Unione Sovietica. Gandhi bolla il ricorso all'arma atomica contro la popolazione civile di città indifese quale sinonimo di «hitlerismo» e di «metodi hitleriani». Nel settembre 1946 - nel frattempo Churchill ha aperto ufficiahnente la Guerra fredda con il suo discorso a Fulton- Gandhi si mostra scettico a proposito delle accuse di espansionismo rivolte all'Unione sovietica, in considerazione anche del fatto che quel paese e quel «grande popolo» sono diretti da «un grande uomo quale Stalin». L'omaggio è qui rivolto soprattutto al protagonista di Stalingrado: il leader indiano si rivela consapevole del nesso che lega la disfatta subita dal Terzo Reich, e più in generale dai tre paesi (Germania, Italia e Giappone) che si sono maggiormente impegnati nel rilancio della tradizione coloniale, con lo sviluppo del movimento anticolonialista mondiale e con la conquista dell'indipendenza da parte dell'India (formahnente sancita l'anno dopo). Tutto ciò è dimenticato dal revival di Gandhi a sinistra, così come largamente dimenticato o rimosso è il fermo atteggiamento antisionista del leader indipendentista indiano, che già il 20 novembre 1938 non esita a condannare la colonizzazione sionista della Palestina

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in quanto «scorretta e disumana» e contraria a ogni «codice morale di condotta». Collocandosi pienamente sulla scia dell'ideologia dominante, il revival a sinistra preferisce invece contrapporre la «non-violenza» di Gandhi alla «violenza» di Lenin. Si dimentica o si ignora che in occasione della Prima guerra mondiale il primo si propone di reclutare cinquecentomila soldati indiani per l'esercito britannico. In quest'opera s'impegna con tanto zelo da scrivere al segretario personale del vicerè: «Ho l'impressione che se divenissi il vostro reclutatore capo, potrei sommergervi di uomini». E rivolgendosi sia ai suoi connazionali sia al viceré, Gandhi insistein modo persino ossessivo sulla disponibilità al sacrificio di cui è chiamato a dar prova un intero popolo: l'India deve essere pronta a «offrire nell'ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all'Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio perl'Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell'Impero ogni uomo di cui disponiamo». A contrastare questo gigantesco rito sacrificale, è il «partito di Lenin» che saluta e promuove la fraternizzazione nelle trincee. In questo contesto conviene citare soprattutto Karl Liebknecht. Dopo aver a lungo lottato contro il riarmo e i preparativi di guerra, chiamato al fronte, prima di essere arrestato a causa del suo pacifismo, egli invia una serie di lettere alla moglie e ai figli: «Io non sparerò [ ...] Io non tirerò anche se mi fosse ordinato di tirare. Mi si potrebbe per questo fucilare». Certo, più tardi Liebknecht aderisce con entusiasmo alla rivoluzione d'Ottobre che scoppia contro la violenza insensata della Prima guerra mondiale ma che è essa

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stessa violenta. Il fatto è che le grandi crisi storiche si caratterizzano per il fatto che consentono di scegliere non già tra violenza e non-violenza bensì tra diverse forme di violenza. Nel mio libro (VIOL) dimostro che i dilemmi morali dei bolscevichi non sono diversi dai dilemmi morali affrontati negli Usa dai cristiani che nella prima metà dell'Ottocento sono impegnati nella lotta non-violenta contro la schiavitù e che finiscono con l'appoggiare quella sona di rivoluzione abolizionista in cui sfocia la Guerra di secessione; o dai dilemmi morali del grande teologo protestante tedesco Dietrich Bonhoeffer che, in nome sia del cristianesimo sia del gandhismo, fa professione di non-violenza ma che alla fine non solo si sente morahnente obbligato a panecipare alla cospirazione contro Hitler ma addita l'autentica ùnitatio Christi nella panecipazione alla lotta (anche violenta) contro il nazismo. Il revival a sinistra di Gandhi si rivela del tutto subalterno all'ideologia dominante anche sul piano immediatamente politico. Per fare solo un esempio, volgiamo lo sguardo alla Palestina dei giorni nostri: vediamo che la proclamazione del principio della nonviolenza tende a prendere di mira in primo luogo le vittime, mentre passa sotto silenzio o mette in secondo piano non solo l'occupazione militare in atto da decenni, ma anche un processo di espropriazione e colonizzazione delle terre delle vittime ancora oggi in corso, protetto da un formidabile apparato militare, che rimane tuttavia nell'ombra.

[SGA] Infine, una questione più generale. Da ,nolto te,npo il suo lavoro si pone il proble,na di una ricostru-

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zione del 1naterialis1no storico. Questo sforzo si configura co111e il tentativo di elaborare una teona generale del conflitto. Più di recente, poi, si è specificato co111e uno sviluppo dell'ontologia dell'essere sociale. Vuole spiegare cosa intende con questi due concetti e in che senso questo tentativo teorico rappresenta un'innovazione anche nei confronti del pensiero 111arxiano e del leninis1no? [DL] Posso solo accennare ad una ricerca che è ancora in corso. È nota la tesi con cui si apre il Manifesto del partito co1nunista: «La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe». Sennonché, quando prestigiosi autori di orientamento marxista si interrogano sulle lotte di classe più significative del Novecento, essi indicano forse la rivoluzione d'Ottobre, ma rinviano in primo luogo al '68 o agli scioperi operai e alle agitazioni contadine in questo o quel paese. E la Seconda guerra mondiale? Ci troviamo dinanzi a un dilemma: o è valida la tesi di Marx, e allora occorre saper leggere in chiave di lotta di classe l'avvenimento decisivo del Ventesimo secolo, oppure se tale avvenimento nulla ha a che fare con la lotta di classe, occorre prendere congedo dalla tesi enunciata dal Manifesto del partito co111unista. In realtà, ad uno sguardo più attento, Stalingrado appare come il momento più alto della lotta di classe del Ventesimo secolo: tale battaglia preannuncia la sconfitta del progetto del Terzo Reich, che si proponeva di creare il suo impero coloniale in Europa orientale, riducendo popoli di antica civiltà per un verso alla condizione di «indiani» (da decimare al fine di consentire la germanizzazione dei territori conquistati), per un altro verso alla condizione di «ne-

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gri» (destinati a lavorare come schiavi o semischiavi al servizio della «razza dei signori»). A Stalingrado è sconfitto il tentativo di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale e la divisione internazionale del lavoro ad essa connessa; non a caso, alla disfatta inflitta alla pretesa hitleriana di edificare le «Indie tedesche» in Europa orientale s'intreccia un irresistibile movimento di emancipazione dei popoli coloniali. Dovrebbe essere agevole comprendere tutto ciò per chi ha presente l'awertenza del Manifesto («nelle diverse epoche» gli «antagonismi di classe» assumono «forme diverse») o la lezione di metodo più tardi da Marx impartita a proposito dell'Irlanda (dove la «questione sociale» si presenta come «questione nazionale»). La teoria della lotta di classe deve essere letta come una teoria generale del conflitto, e solo a partire da tale lettura possiamo rendere giustizia alla tesi centrale del Manifesto (e del materialismo storico). L'«ontologia dell'essere sociale» di cui parla Lukacs, o meglio la sua mancata elaborazione, ci consente di comprendere meglio la storia dei paesi socialisti e del movimento comunista nel suo complesso. Nel 1991 Fidel Castro ha sottolineato le conseguenze nefaste della sottovalutazione della religione e della questione nazionale. Pressappoco nello stesso periodo di tempo, dando di fatto l'addio alla tesi dell'estinzione dello Stato, DengXiaoping ha chiamato la Cina a migliorare il «sistema legale» e a introdurre il «governo della legge» nel Partito comunista e nella società nel suo complesso quali precondizioni per lo sviluppo della «democrazia» (che è essa stessa una forma di Stato). Si può fare una considerazione di carattere generale. 316

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Leggendo Marx ed Engels, si ha talvolta l'impressione che, col superamento definitivo del capitalismo, siano destinati a dileguare, oltre alle classi antagonistiche, anche lo Stato, la divisione del lavoro, le nazioni, le religioni, il mercato, ogni possibile fonte di conflitto. La storia del «socialismo realizzato» è anche la storia della presa di coscienza (parziale, contraddittoria e dolorosa) del carattere illusorio di tale prospettiva. Occorre sviluppare un'idea di emancipazione radicale e tuttavia realistica; occorre non perdere di vista lo spessore dell'essere sociale dello Stato, della nazione, della lingua, della religione, del mercato, lo spessore di tutto ciò che era stato chiamato a dileguare. Più ancora che l'idealismo della prima natura, occorre combattere l'idealismo della seconda natura: è in questa prospettiva che risulta essenziale l'elaborazione di un'ontologia dell'essere sociale. Ai miei occhi teoria, generale del conflitto da un lato e ontologia dell'essere sociale dall'altro sono i due pilastri grazie ai quali è possibile ricostruire materialismo storico e conferire nuovo slancio al progetto di emancipazione rivoluzionaria che ha preso le mosse da Marx ed Engels.

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