La guerra grande. Storie di gente comune 8858114019, 9788858114018

Uomini che furono chiamati a far parte della grande macchina della guerra e ne conobbero la dimensione smisurata e inelu

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Italian Pages 343 [379] Year 2014

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La guerra grande. Storie di gente comune
 8858114019, 9788858114018

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i Robinson / Letture

Antonio Gibelli

La guerra grande Storie di gente comune 1914-1919

Editori

Laterza

© 2014, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione ottobre 2014

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Edizione 5 6

Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-1401-8

Indice

Premessa

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Avvertenza

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Scritture di guerra

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Lettere, p. 3 - Bisogno di corrispondenza, p. 14 - Flussi postali, p. 23 - Taccuini e quaderni di guerra, p. 26 - Memorie, autobiografie, p. 35

Combattenti 45 Le dimensioni della guerra, p. 45 - Nelle retrovie, p. 49 Guerra senza fine, p. 59 - “Gnente di nuovo” sul fronte del Trentino, p. 66 - Una catastrofe europea, p. 76 - La grande strage, p. 82 - Lo spettacolo della guerra, p. 89 - Il dominio del caos, p. 94 - Sopravvivere nella terra di nessuno, p. 100

Donne

104

Supplenze, p. 104 - Separazioni, p. 115 - Amore coniugale, p. 129 - Una madre borghese, p. 136 - Patriottismo femminile, p. 142 - Infermiere volontarie, p. 149

Fuggiaschi 162 Caporetto: l’evento e le sue memorie, p. 162 - Il “nemico interno”, p. 168 - Uomini e animali nella rotta, p. 174 - La disastrosa ritirata, p. 178 - Tra Carnevale e Quaresima, p. 182 - Saccheggi, fiumi di vino e desolazione, p. 187 - Fuga senza fine, p. 192 - La ritirata in bicicletta, p. 196 - Dopo la cattura, p. 206

Prigionieri 212 L’Europa dei prigionieri, p. 212 - Il diario della fame di Luigi Colombini, p. 217 - Scrivere per sopravvivere, p. 229 - Prigionieri in campagna, p. 234 - A Vienna, p. 245 - Reti epistolari, reti assistenziali, p. 262 v­­­­

Indice La via di casa

281

L’attesa, p. 283 - Rientri avventurosi, p. 289 - Peregrinazioni, p. 293 - Inno alla gioia, p. 297 - Postumi, p. 301

Fonti e bibliografia 307 Indice dei nomi 325

Premessa

Questo libro parla di gente comune, uomini e donne, che vissero al tempo della prima guerra mondiale e furono interamente coinvolti e travolti da quell’evento, che modificò radicalmente il corso delle loro vite: sia che essi fossero inquadrati nell’esercito e chiamati a far parte della grande macchina del conflitto, nelle retrovie, al fronte o direttamente nelle prime linee, e di qui eventualmente rifluiti verso i campi di prigionia; sia che dovessero far fronte – come le donne – all’assenza di padri, figli, fratelli e mariti nella vita quotidiana, nelle cure domestiche e nell’allevamento dei figli, e seguirli a distanza nelle loro peregrinazioni dando loro conforto, trasmettendo notizie, elargendo parole di incoraggiamento. La prima constatazione che si ricava dalla narrazione delle loro vicende è appunto questa: allora, per la prima volta in Italia e in Europa, le sorti di milioni di uomini e donne comuni furono simultaneamente legate a un unico filo, o meglio a un’unica rete, che le rese in certa misura interdipendenti, intrecciate tra loro, collocate su un comune orizzonte, segnate in gran parte dagli stessi disagi, dagli stessi timori, dalle stesse aspettative, dalle stesse sofferenze. Ciascuno a suo modo, naturalmente, a seconda della collocazione geografica e sociale, dell’appartenenza a un corpo militare piuttosto che a un altro, dell’età, della posizione al fronte o nell’interno, ma tutti sottilmente legati fra loro e al conflitto: gli eventi salienti della guerra dal punto di vista politico e militare – il suo prolungarsi, il suo rallentare o inasprirsi, le vicende dei diversi fronti che provocarono lo spostamento di contingenti di truppe dall’uno all’altro, vii­­­­

Premessa

e le sorti dei diversi contendenti, il loro ingresso o la loro uscita dalla contesa –, tutto si ripercuoteva su tutti, segnandone profondamente l’esistenza, rendendoli attori su un’unica scena, vittime di un unico flagello, protagonisti, sebbene involontari e riluttanti, appunto di un unico evento. Una cosa così, per un tempo tanto lungo – oltre quattro ininterrotti anni per l’Europa, oltre tre per l’Italia – non si era mai vista. Bisogna risalire alle guerre napoleoniche e a quella dei Trent’anni per trovare eventi bellici di così lunga durata e di simile portata, tanto determinanti per la vita degli europei: ma anche in quei casi nulla che assomigli alla dimensione, alla capillarità, all’estensione della prima guerra mondiale, come bastano a testimoniare le cifre della mobilitazione, che parlano di oltre settanta milioni di uomini coinvolti nelle nazioni impegnate nel conflitto. Se calcoliamo una media – del tutto ipotetica ma certo non eccessiva se si considerano gli standard demografici dell’epoca – di tre componenti a famiglia per ognuno di questi uomini, siamo oltre i duecento milioni tra uomini e donne direttamente toccati dall’evento, presi nelle maglie della sua rete, negli ingranaggi del suo meccanismo, nella coazione delle sue regole, nella sua capacità di determinare i destini individuali. Milioni di Tedeschi – uomini, donne e bambini – patirono la fame per il blocco subito dagli imperi centrali, mentre milioni di donne contadine italiane sopportavano fatiche supplementari per tirare avanti le aziende domestiche; gli uni e gli altri per lo stesso motivo, legati a qualcosa che potremmo chiamare sorte comune. In molte parti d’Europa lontane e diverse fra loro, dalla Galizia austriaca (l’odierna Ucraina) al Friuli, dalle Fiandre al Trentino, in Istria e in Transilvania, nella regione della Somme e sul Carso, si potevano trovare schiere di uomini inquadrati e comandati con metodi simili, che si fronteggiavano stando rintanati in trincee, che si proteggevano dalle esplosioni delle artiglierie, che si lanciavano in assalti disperati dai quali in percentuali molto elevate non uscivano vivi, oppure che giacevano inerti in letti di ospedale viii­­­­

Premessa

o si ammassavano in campi di prigionia sopportando privazioni di ogni tipo. In molte città e paesi d’Europa lontani e diversi tra loro si disperdevano e si addensavano schiere di profughi o di internati – donne, bambini e vecchi – spostati a forza o dal corso degli eventi dalle loro case e dalle loro terre, costretti a vivere in baracche o in abitazioni di fortuna. In molte città e campagne si potevano vedere popolazioni occupate sottoposte alla prepotenza degli eserciti occupanti che umiliavano e vessavano i sottomessi, rapinavano le risorse, insidiavano e violentavano le donne. Tutto ciò aveva un nome solo, guerra mondiale, e tutti erano legati da quell’unico evento, conoscevano le stesse esperienze, raccontavano – quando erano in grado di farlo – e avrebbero ricordato più o meno le stesse cose. Tutti o quasi scrivevano lettere che testimoniavano del loro essere in vita, raccontavano i propri disagi, esprimevano le proprie speranze, una per tutte che la guerra finisse, ossia che quel potere misterioso e ineluttabile che muoveva le loro vite cessasse di avere effetto, che il corso delle cose tornasse ad essere quello di prima. Gli uomini e le donne di cui parla questo libro hanno una caratteristica: quella di non essere anonimi. Noi non parliamo dei circa quattro milioni di maschi italiani che fecero per tempi più o meno lunghi l’esperienza del fronte, ma di alcuni di loro, di cui conosciamo nomi e cognomi, il luogo di residenza, la condizione sociale e professionale, spesso anche la composizione della famiglia, le competenze alfabetiche, ed anche se uscirono vivi dal conflitto o se ne furono ingoiati. Non parliamo delle migliaia di volontarie della Croce Rossa che diedero assistenza ai feriti negli ospedali delle retrovie o dell’interno, ma di alcune di loro, di cui, anche in questo caso, conosciamo nomi e cognomi, età, luoghi e ospedali in cui prestarono la loro opera. Nell’un caso e nell’altro possiamo spingerci anche un po’ più in là, esplorare i loro sentimenti, i moti del loro animo, i loro dialoghi con i rispettivi interlocutori, siano essi le mogli per i mariti mobilitati o i pazienti assistiti per le infermiere. Questa identificazione personale dentro le grandi masse ix­­­­

Premessa

anonime, questa esplorazione all’interno dei soggetti identificati sono rese possibili dall’esistenza di reperti documentari sulle cui tracce ci ha portato un metodo, ma che poi è stato il caso a farci incontrare: parlo del reticolo di parole scritte in forma di lettere e cartoline ma anche, come vedremo, di taccuini e quaderni di guerra, di diari e memorie, che si alzò allora dagli eventi, attraversò le esistenze, ricongiunse le separazioni, in altre parole ricoprì l’Europa in guerra facendo echeggiare sugli eventi stessi, sulla distruzione e sulla morte, sulla violenza e sulla sofferenza, le note del linguaggio umano, delle inquietudini e delle lamentazioni, delle gioie e delle disillusioni, degli avvicinamenti e degli allontanamenti, di questi milioni di esseri umani presi dall’unico vortice, o meglio dall’unica macchina della guerra. Quando abbiamo la possibilità di leggere le oltre trecento lettere che si scambiarono Vittore e Maria B., una coppia di contadini parmensi, lui mobilitato, lei a casa a seguire il lavoro dei campi, l’allevamento degli animali e l’educazione dei figli, noi siamo in condizione di evocare sulla scena della storia, precisamente sullo scenario della prima guerra mondiale, due protagonisti simili a tanti altri ma diversi da tutti gli altri, che ci dicono qualcosa di assolutamente unico e insieme di assolutamente ordinario sulla natura dell’evento. Gente comune dentro un evento fuori dal comune. Per fare questo lavoro di scandaglio e di recupero dall’anonimato di gente comune ho attinto alle maggiori raccolte di scritture di guerra esistenti in Italia. Innanzitutto l’Archivio ligure della scrittura popolare (ALSP) di Genova che, malgrado la mia dimestichezza e immedesimazione nella sua struttura, mi ha riservato sorprese, mostrandomi le straordinarie ricchezze di un materiale accumulato nel tempo al di là di quanto ricordassi per averne seguito passo passo l’acquisizione. Molte delle storie raccontate in queste pagine, molti dei personaggi di cui delineo il profilo attingono ad altrettanti reperti conservati nell’ALSP, inediti e mai studiati da alcuno. Tra questi, l’epistolario di Demetrio D. e Agnese G., quello di Giovanni Panattaro, particolarmente consistenti per x­­­­

Premessa

le dimensioni e rilevanti per la qualità della testimonianza, nonché il quaderno delle dediche dell’infermiera volontaria Anna Lazzari, esempio raro se non unico nel suo genere. In altri casi si tratta di vicende che avevo già presentato in varie occasioni ma su cui sono tornato, rivedendo i materiali a distanza di tanti anni con occhi diversi, resi più sensibili dall’affermarsi di nuovi orizzonti storiografici, ovvero ritrovando intatta la potenza delle suggestioni che già allora mi erano apparse: penso, per esempio, alle figure e ai testi sorprendenti di Carlo Verano, nella cui prosa insieme concitata e tormentata mi era parso di intravedere fin dai primi anni Novanta pagine di grande letteratura sulla guerra totale. Lo stesso vale per le pagine della memoria di Giovanni Pistone, un protagonista che ebbi la ventura di conoscere di persona. Anche per questo devo un ringraziamento speciale a tutti coloro che, alternandosi in oltre venticinque anni di lavoro, mi hanno coadiuvato nell’opera di raccolta e hanno contribuito a far crescere e a consolidare l’ALSP come struttura di conservazione documentaria e di ricerca. Ho attinto poi al patrimonio di quello che resta il maggiore deposito archivistico di materiali autobiografici in Italia, l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. L’esplorazione dell’Archivio di Pieve e la scoperta dei suoi segreti sono state favorite dal mio essere parte, da una quindicina d’anni, della giuria che assegna ogni anno l’omonimo premio. È nel leggere le decine di testi selezionati ogni anno in vista dell’appuntamento del premio che sono venuto a contatto con materiali di eccezionale qualità memorialistica e testimoniale, con personaggi degni di apparire come protagonisti in questa rassegna di storie di guerra. La prima guerra mondiale continua ad affiorare dalle profondità della memoria pubblica e privata nazionale come uno degli eventi capitali che ne hanno scandito con maggior forza il percorso. Per questo si può dire che non sono mai mancati, fra i testi selezionati per il premio nelle diverse edizioni, quelli scaturiti dal ventre terribile e smisurato della “guerra grande”, siano essi di natura epistolare, diaristica o memorialistica. Soxi­­­­

Premessa

stenni alcuni di questi, che mi avevano particolarmente colpito per la forza della narrazione, come candidati all’assegnazione del premio, non sempre con successo. Ricordo perfettamente quando, assieme ad altri giurati, caldeggiai, malgrado il giustificato scetticismo dovuto alla difficoltà estrema di editare un testo come quello, la premiazione e quindi la pubblicazione della monumentale autobiografia di Vincenzo Rabito, poi divenuto un libro e un caso letterario col titolo Terra matta. Tra gli altri, voglio inoltre menzionare la memoria di Ubaldo Baldinotti, di cui faccio largo uso in questo libro, e quella di Giuseppe Manetti, da cui rimasi affascinato per la singolare commistione tra saggezza contadina e ampiezza dell’orizzonte ideale, improntato a una sorta di umanesimo pacifista di stampo europeo. Sono perciò molto grato al compianto Saverio Tutino, che mi chiese molti anni fa di far parte della sua avventura, e a tutti i responsabili attuali dell’Archivio di Pieve che mi hanno sempre accolto generosamente offrendomi la possibilità di utilizzare le ricchezze documentarie accumulate. Un altro punto di riferimento obbligato di queste ricerche rimane l’Archivio di scrittura popolare trentino. Una lunga amicizia mi lega a questa istituzione e a coloro che negli anni l’hanno costruita. Si tratta di studiosi che hanno dedicato a questa impresa una passione e una sensibilità straordinaria, facendo di essa uno dei centri motori italiani più significativi della ricerca sulle scritture di gente comune e in particolare sulle scritture di guerra. Trattandosi di un terreno ampiamente dissodato, il ricorso a figure e testi di area trentina è stato però relativamente modesto. Anche ai responsabili dell’istituzione trentina va comunque, collettivamente, il mio ringraziamento. Quella che si narra nelle pagine che seguono non è dunque la storia della guerra, ma la storia di questi singoli uomini e donne comuni, ricostruita grazie alle loro scritture, in senso lato, autobiografiche. E tuttavia noi sappiamo bene, perché lo abbiamo imparato in decenni di lavoro storiografico su documenti del genere, che la storia di questi individui non sarebbe intellegibile senza la storia dell’evento che prese e deviò le loro xii­­­­

Premessa

vite, delle sue dinamiche, delle sue logiche, delle sue tecnologie, delle sue procedure discorsive, logistiche, organizzative, della sua potenza plasmatrice. E, viceversa, che la storia di questo evento sarebbe molto più povera senza la storia delle loro vite. Delle loro e di altri come loro: sonde gettate nel cuore di una vicenda che ha marcato profondamente la storia dell’Europa e del mondo, reperti e tracce di una straordinaria movimentazione, di uno straordinario scuotimento delle esistenze quali furono quelli che presero forma negli anni fatali della guerra grande per antonomasia, tra il 1914 e il 1918. Queste due date costituiscono ormai il riferimento canonico per designare la prima guerra mondiale. Nel caso dell’Italia al 1914 si sostituisce di regola l’anno successivo, quello della sua entrata nel conflitto. Tuttavia, parlando esclusivamente di esperienze di singoli e di testimonianze scritte, anche per quanto riguarda i protagonisti italiani, o per meglio dire italofoni, il 1914 rappresenta il termine iniziale, se si considera che i sudditi asburgici del Trentino e dell’area istriana furono coinvolti fin dallo scoppio europeo del conflitto. Idealmente, il termine finale di questo libro si spinge oltre la conclusione armistiziale della guerra, almeno fino al 1919, quando tornarono a casa buona parte dei reduci, sia che provenissero dai luoghi della mobilitazione sia che tornassero dai campi di prigionia. Per quelli che dal conflitto uscirono vivi, fu generalmente questo l’anno del ricongiungimento con le famiglie, quello che pose la parola fine alla loro drammatica esperienza. Per alcuni, mutilati e invalidi, le vicende andarono ancora oltre. Quanto alla memoria, quella mentale, ma anche – come vedremo – quelle scritte hanno continuato ad attraversare il tempo come un fiume carsico continuamente riaffiorante, e neppure oggi esaurito.

Ringraziamenti Un ringraziamento particolare devo a Fabio Caffarena e a Carlo Stiaccini, attuali direttore e vicedirettore dell’ALSP, per avermi puntualmente segnalato materiali editi e inediti interessanti per xiii­­­­

Premessa

la mia ricerca, nonché per la collaborazione ormai pluridecennale nel consolidamento scientifico e istituzionale dell’ALSP stesso, cui avevo dato vita ormai un quarto di secolo fa, divenuto grazie anche al loro lavoro metodico e accurato uno dei centri più importanti di raccolta e di studio delle scritture di gente comune in età contemporanea. Anche Graziano Mamone, studente del dottorato in Storia di Genova e collaboratore dell’ALSP, mi ha aiutato, con pazienza e precisione, a scovare negli scaffali materiali e informatici dell’Archivio i preziosi testi accumulati nel corso degli anni, al cui riordino e schedatura ha collaborato negli ultimi tempi. Devo ringraziare inoltre Camillo Brezzi, presidente dell’Archivio diaristico nazionale (ADN) di Pieve Santo Stefano, e il personale dello stesso Archivio, in particolare Cristina Cangi, per avermi agevolato nel recupero e nella consultazione degli originali di testi conservati da questa importante istituzione, in particolare quelli di Ubaldo Baldinotti e di Giuseppe Manetti, di cui avevo a disposizione solo trascrizioni e/o versioni a stampa. Sono grato ai familiari dell’uno e dell’altro che hanno offerto il loro consenso e la loro collaborazione. Dall’ADN ho avuto assistenza anche per quanto riguarda le immagini relative a Baldinotti, a Manetti e a Vincenzo Rabito, di cui ho fatto uso. Ringrazio Luigi Burroni per avermi messo a disposizione alcune fotografie di cui è autore. Gino Bogliolo mi ha aiutato, seguendo con tenacia un complicato percorso, a recuperare l’originale della memoria di Giovanni Pistone, oggetto molti anni fa della sua tesi di laurea, fin qui conservata presso l’ALSP solo in fotocopia. Fabiano Quagliaroli mi ha generosamente fornito la segnalazione e la documentazione del caso di Giovanni Danella, cieco di guerra, e tutte le informazioni utili a ricostruirne la vicenda. Carlo Fabbri e Dante Priore mi hanno trasmesso informazioni sulla seconda edizione del diario di Giuseppe Capacci e mi hanno aiutato a reperire le foto del manoscritto e del personaggio, che tuttavia non ho poi utilizzato. Federico Coci mi ha dato una mano a decifrare i brani in lingua portoghese citati in una lettera del volontario italo-brasiliano Americo Orlando. A tutti sono grato. Antonio Gibelli

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Avvertenza

Questo libro fa largo uso di citazioni da testi spesso redatti in condizioni fortunose e disagevoli (come le lettere dalla trincea o i diari di prigionia), in ambienti poco adatti e poco accoglienti, da scriventi scarsamente alfabetizzati, molti dei quali non avevano superato la terza elementare, in una lingua che gli studiosi specialisti hanno qualificato come “italiano popolare” o “italiano dei semicolti” o ancora “italiano nascosto”, dotata di caratteristiche particolari diverse da quelle dell’italiano standard, spesso trascurata negli accessori che vi si utilizzano, come i segni di interpunzione, gli accenti e gli apostrofi, essenziali per la comprensione e la lettura scorrevole di un testo. Tutto ciò naturalmente non solo ha reso difficile la lettura a chi scrive, ma ha imposto una scelta non scontata tra i molti possibili criteri di trascrizione. Ho pensato di confermare anche in questo caso criteri di massima fedeltà alla testualità originaria, generalmente seguiti ormai per tradizione da coloro che fanno uso di documenti simili. Ciò nella convinzione che la forma linguistica e le caratteristiche generali dei testi siano di per sé un documento della storia italiana ed europea di quegli anni, di cui segnalano in quanto tali i tratti di discontinuità e la tensione drammatica spesso estrema. Basterebbe pensare all’uso sistematico delle lettere maiuscole per indicare i generi alimentari e in particolare il pane in taluni diari di prigionia. Per facilitare la lettura senza sottoporre il lettore a un defatigante esercizio di pazienza sono però intervenuto con qualche rara aggiunta (per esempio di punteggiatura), con xv­­­­

Avvertenza

qualche commento di chiarimento o suggerimento di interpretazione là dove questa poteva risultare problematica, con qualche soppressione dove era evidente una svista (per esempio nel caso di ripetizione di una parola dopo un cambio di riga o di pagina), segnalando puntualmente queste operazioni e racchiudendole tra parentesi quadre. Nei casi di dubbio, per esempio sulla presenza o meno di segni di punteggiatura, dubbi molto frequenti specialmente nella consultazione di copie elettroniche per quanto accuratamente prodotte o di pagine in non perfette condizioni, ho adottato la soluzione più favorevole agli standard e quindi alla leggibilità. Un’altra libertà mi sono consentito, questa volta senza segnalarla: la riduzione drastica degli a capo che, se mantenuti specialmente in citazioni brevi, avrebbero reso le citazioni stesse inutilmente e fastidiosamente frammentarie. Sempre per questioni di leggibilità ho del tutto omesso le cancellature dell’autore e la segnalazione del cambio di riga e di pagina, come si usa invece nelle edizioni filologiche dei testi in questione. Un altro problema si è posto, per quanto riguarda la segnalazione del luogo della citazione, nel caso piuttosto frequente di testi le cui pagine non fossero numerate. Nei testi strettamente e formalmente diaristici, caratterizzati da una scansione giornaliera abbastanza regolare, mi sono in genere limitato a indicare la data della citazione, più che sufficiente per rintracciare il passo. Negli altri casi, ho adottato soluzioni diverse suggerite dall’organizzazione del testo esaminato: talvolta ho usato il numero e il titolo dei brevi capitoletti in cui era suddiviso, in altri casi ho adottato una numerazione convenzionale delle pagine, facilmente ricostruibile sul testo originale e talvolta già presente nella riproduzione in fotocopia del testo, conservata nel faldone corrispondente. Mi auguro di essere riuscito grazie a tali accorgimenti nell’intento di mantenere la forza comunicativa di linguaggi graficamente e linguisticamente difformi, senza perdere in scorrevolezza nell’analisi e nella narrazione. Un’ultima avvertenza devo al lettore, concernente l’omisxvi­­­­

Avvertenza

sione dei cognomi di alcuni tra i protagonisti di cui si sono citate ampiamente le scritture epistolari. Ho usato questo accorgimento in quei casi in cui mi pareva che il carattere strettamente intimo di alcune annotazioni, la cui citazione risultava tuttavia necessaria per una migliore comprensione del contesto sociale, antropologico ed emotivo dello scambio epistolare, esigesse una speciale riservatezza per rispetto dei protagonisti, anche se si tratta di persone ormai scomparse, che tuttavia hanno spesso figli e nipoti grazie ai quali in qualche caso abbiamo potuto acquisire le scritture utilizzate. L’uso in chiave storica della biografia e dell’autobiografia di persone comuni che hanno vissuto a poche generazioni di distanza dalla nostra, specie se le loro scritture non hanno carattere di testimonianza intenzionale e ancor più se – come nella maggioranza dei casi – gli autori erano ben lontani dal pensare che qualche estraneo potesse gettarvi lo sguardo, pone problemi e talvolta dilemmi di discrezione che sono per solito estranei alla pratica storiografica. Nel nostro caso (mi riferisco ai cultori di questo genere di testimonianze) si tratta invece di problemi che ci siamo posti da tempo e che di volta in volta cerchiamo di risolvere meglio che possiamo.

La guerra grande

Scritture di guerra

Lettere Dal cuore della più disumana e meccanica delle guerre fino a quel momento conosciute, tanto ai fronti come nelle retrovie, fluì un fiume copioso, ininterrotto di scritture prodotte dai suoi attori in gran parte sconosciuti, che ne erano in primo luogo le vittime e che tuttavia ne riflettevano a modo loro, a dispetto dei modesti mezzi linguistici generalmente disponibili, la trama. Di questo processo fu pienamente partecipe la popolazione italiana. La Grande Guerra fu la prima grande esperienza collettiva degli Italiani: combattenti e civili, uomini e donne, adulti e bambini, operai e contadini, dislocati al Nord e al Sud, nei centri e nelle periferie, nell’area continentale e nelle isole. Anche la grande emigrazione aveva avuto caratteristiche largamente diffusive e aveva toccato un numero ancor più grande di uomini e donne, ma era stata un’esperienza socialmente più selettiva e diluita nel tempo, mentre quella della prima guerra mondiale fu simultanea e indifferenziata, nel senso che concentrò i suoi effetti in tre anni e mezzo durante i quali tutti furono travolti dalla stessa macchina, toccati da problemi simili, colpiti dai medesimi lutti. Se è vero che l’identità nazionale può coincidere col sentimento di grandi cose fatte assieme o patite assieme, possiamo senz’altro dire che nel corso della Grande Guerra molte cose furono fatte, molte di più patite insieme da un grandissimo numero di Italiani, pressoché dalla totalità. Tra questi, anche una quota di italiani emigrati all’estero, che allo scoppio della guerra avevano ormai raggiunto un numero elevatissi3­­­­

La guerra grande

mo, costruendo proprie comunità, stabilendo legami solidi coi paesi di accoglienza, coltivando una propria immagine spesso idealizzata di quello lasciato più o meno definitivamente. Così, se non mancano, anzi sono numerose le renitenze dei residenti all’estero, anche tra loro ci sono partenze e distacchi dovuti al richiamo alle armi, e non mancano quelle volontarie, mosse dalla forza di attrazione di un’identità nazionale che non di rado, assente all’inizio dell’esperienza migratoria, si è costruita interamente all’estero per effetto dei processi di inserimento nel nuovo mondo, che sollecitano la costruzione di reti più ampie di quelle regionali o locali, e per i contraccolpi della nostalgia. Partiti piemontesi, liguri o siciliani, i migranti diventano Italiani nel contesto della nuova vita e alcuni di loro vagheggiano il ritorno nel Paese d’origine. Nei loro casi la corrispondenza di emigrazione si intreccia in modo inedito con la corrispondenza di guerra. Particolarmente interessante e ben documentato è quello di Americo Orlando, di origini abruzzesi, concepito in Italia ma nato in Brasile, che fin dal nome e dalle circostanze anagrafiche sembra portare l’impronta di una vita sospesa tra le due sponde dell’oceano. Di lui sono state conservate e pubblicate le lettere dal fronte indirizzate prevalentemente alla madre, in un libro a cura di una nipote che ricostruisce puntualmente la vicenda. Americo era figlio di Francesco Orlando e di Eleonora Scioli, originari di Guardiagrele in provincia di Chieti, paese che avevano lasciato nel 1895 per sbarcare nel porto di Santos nello Stato di San Paolo. Qui trovarono lavoro come commercianti di pasta alimentare, un mestiere che Francesco già esercitava nel proprio paese d’origine. Dopo tre mesi dallo sbarco nacque Americo, ultimo di quattro figli (uno dei quali lasciato in Italia perché ammalato, dove presto morirà), e primo dei tre che nasceranno in Brasile. Allo scoppio della guerra Americo non ha ancora compiuto vent’anni, qualche anno prima, dodicenne, ha conosciuto l’Italia facendovi ritorno e soggiornandovi per circa due anni con i genitori, lavora per il giornale nazionale “Fanfulla”, ha 4­­­­

Scritture di guerra

elaborato un’immagine ideale del suo paese d’origine verso il quale prova un sentimento di attrazione e di amore filiale, non meno grande di quello che lo lega alla madre e alla Madonna, “Nossa Segnora de Penha”, che invoca spesso nelle lettere. Nel maggio del 1915 viene investito dai clamori dell’interventismo e dal richiamo patriottico. È finalmente l’occasione che aspetta per ritornare: due mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia parte da Rio de Janeiro senza preavviso, all’insaputa dei genitori, per arruolarsi. Il servizio militare per la nazione in guerra genera un distacco traumatico dalla madre, che verrà compensato da una corrispondenza fitta e affettuosa per il periodo della lontananza e della guerra fino alla morte, avvenuta sul fronte dell’Isonzo nell’agosto del 1917. Il 3 ottobre del 1916, esprimendo le sue apprensioni per la salute di lei, le scrive: “cara madre se ritorno al Brasile e [è] solo per te e per nessuno altro, figurate se serei disgraziato a non trovarti al mio ritorno, l’unico per me è [sarebbe] la morte che mi consolerà a venirte a trovare all’altro mondo, spero che Dio mi farà la grazia e di ritornare presto per poterti abbracciare e di essere perdonato della trascurità [trascuratezza] che o comesso di abandonarti senza avisarti”. E suggerisce che il “tanto soffrimento” da lui patito non è quello della guerra ma quello del distacco della madre, o meglio quello derivante dall’aver dovuto infliggere alla madre il dolore del distacco. La centralità della figura materna, su cui ci soffermeremo in seguito, esaltata dalla guerra come punto di riferimento dei giovani coscritti o volontari, si potenzia qui e si prolunga in quella della madrepatria. Ma per soddisfare l’amore adulto per quest’ultima occorre recidere il legame fisico infantile con la prima. Il dominante riferimento affettivo materno, si direbbe l’amore passionale per la madre e la devozione per la Madonna non sono incompatibili, al contrario si conciliano benissimo con la ferocia dell’atteggiamento che egli esibisce parlando di un nemico di cui ha evidentemente interiorizzato l’immagine demoniaca. Preso dal furore della battaglia, il focoso Ameri5­­­­

La guerra grande

co ci offre esempi, di regola piuttosto rari nell’epistolografia di guerra, di aperta manifestazione del piacere di uccidere. Scriverà infatti il 2 aprile 1916 in una lettera al fratello, descrivendo una fase concitata di attacchi e contrattacchi contro gli Austriaci: con la nostra famosa artiglieria, gli abbiamo ricacciato con grande perdite circa migliai[a] di austriaco morti e ferite. Io con sangue freddo sotto i tire della artiglieria nemico non ho mai abbandonato il mio posto della feritoia e ho fatto circa 8 hora di fuoco contra gli austriaci e forse o ucciso una cinquantina di austriaco questa volta, col mio fucile mi dispiace molte che non ho potuto uccidere nemeno uno austriaco colla baionetta questa volta, perché quando abbiamo dato l’asalto loro hanno fugito tutte dal posizione che abbiamo conquistato.

Di tono analogo è la lettera che scrive alla sorella il 15 maggio dello stesso anno, usando questa volta il portoghese. Anche in questo caso buona parte della lettera è occupata dalla descrizione di un feroce combattimento nei pressi di Monfalcone, dall’esaltazione per la vittoria ottenuta, dall’esultanza per l’alto numero di vittime registrate da “os barbaros austriacos”: “Aqui a nós è um divertimento ver os austriacos pular pelos ares pedaços dos nossos golpos de canhão que arrrebemtam nas suas trinsceras [qui per noi è un divertimento vedere gli austriaci saltare per aria a pezzi dai nostri colpi di cannone che esplodono nelle loro trincee]”. Rinforzato dall’identità acquisita nel contesto migratorio, il sentimento nazionalista si trasforma in quell’aggressività personale che nella generalità dei combattenti è mancata fin dall’inizio o è stata erosa dal logorio deprimente della guerra grande. Naturalmente l’esperienza della guerra non fu affatto egualitaria, non venne vissuta e patita da tutti nello stesso modo, non ridusse né abolì le differenze geografiche e sociali. Ciascuno la visse a partire dalla sua condizione e pagò prezzi diversi, ma tutti furono travolti dallo stesso sommovimento e tutti poterono dire di aver partecipato ad un unico 6­­­­

Scritture di guerra

evento. Non ci fu la cancellazione delle differenze, anzi per certi aspetti la loro accentuazione, ma anche la mescolanza di esperienze e di linguaggi, l’elaborazione improvvisata ma efficace di codici comuni. A dircelo, con alcune delle sue folgoranti e lapidarie sentenze, è tra gli altri il contadino siciliano Vincenzo Rabito, “inalfabeto”, come egli si dichiara, e ciò malgrado autore di una monumentale autobiografia sulla quale ci soffermeremo più avanti: “cominciammo a camminare verso dove c’era la querra e cominciavo a piovire, e camminammo con la strada tutta infancata, poi che emmo carrecate come li vero mule ed erimo sempre stanche e bagnate, con la bocca aperta coma li cane arrabiate, e bestimiammo, che d’ognuno bestemiava al santo protettore del suo paese”. La pena della marcia o l’inferno della battaglia mescolano i santi e i linguaggi unificandoli sotto il segno della bestemmia, insieme uguale e diversa: “E per tre ciorne fuommo abbandonate dal Padre Eterno, senza rancio e senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure, e poi che la strada era tutta voltata sotta e sopra con li cannonate. Ed erimo tutte strapate e piene di fanco. E il nostro elemento [alimento] era la bestemmia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto: che [chi] buttava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemmia per noi era il vero conforto”. La Grande Guerra fu insomma un potente fattore di inclusione, se non altro nel senso del contatto e della mescolanza. Certo ci furono gli esclusi: i morti, i mutilati, i matti, i fucilati. La loro esperienza, a lungo tenuta in ombra, è recentemente riaffiorata, perché è anch’essa documentata: le foto dei cadaveri, le file di croci nei cimiteri, gli istituti per la fabbricazione degli arti artificiali, le cliniche di restauro maxillofacciale, i luoghi di rieducazione dei nevrastenici, le scuole per i ciechi, le rare foto dei prigionieri in Austria e in Germania ridotti a scheletri per la denutrizione. Ma l’elemento più significativo dal punto di vista dell’esperienza e della memoria storica è 7­­­­

In questa e nelle pagine successive  Quaderni autobiografici e ritratto fotografico giovanile di Vincenzo Rabito, Archivio diaristico nazionale, Pieve Santo Stefano (AR), foto di Luigi Burroni. Si nota l’inserimento di un punto e virgola a titolo di conferma della separazione tra le parole.

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l’inclusione. E lo strumento e la testimonianza più significativa di questa inclusione, intesa come intreccio di esperienze diverse in un unico evento, è appunto la scrittura. Innanzitutto, come si è accennato, la scrittura di lettere, che vuol dire anche cartoline, cartoline illustrate, in franchigia o meno. La lettera è il materiale costitutivo primario di questo fiume di scrittura che sgorga dalla guerra e reca traccia anche delle voci più fragili, marginali, frammentarie: “che noi qua – scrive un giovane contadino vercellese di nome Giovanni Panattaro, di cui parleremo ampiamente in seguito, in una lettera agli zii dell’11 maggio 1916 – quando non sapiamo cosa fare si mettiamo scrivere e anche un divertimento pernoi scrivere acasa cosi voi non starbatevi [disturbatevi?] tropo e poi tutte le volte che scrivete dovete sempre pagare invece noi nò che abiamo le cartoline [in franchigia] quando non sapiamo cosa fare scriveremo sempre”. E in una cartolina successiva (18 maggio 1916): “se io avrei tempo vi scriverei tutti li giorni”. A lui dobbiamo un’altra schietta testimonianza del piacere di ricevere posta, soprattutto se accompagnata dal denaro di un vaglia postale: Caro Zio e Zia Ierisera mentre stavo anchio sentire leggere laquale stribuire [distribuire] laposta, o sentito chiamare il mio Nome alquale era un vaglia, mi chredevo forsi mio Papà e poi lovolto didietro vedo il Nome da mio piu Caro Zio e Famiglia nel medesimo tempo arimasto lì, mapoi il mio cuore tutto nun momento sia allegrito [si è rallegrato] nuna tale maniera chevoi nonvi chredete, il quale né avuto molto piacere dei Denari Ma il piu del vostro Buon Cuore che avete usato sempre verso dimè benche nonsono Vostro Figlio ma il quale osempre veduto, e ancora vedo che mi fate dipiu che sefosso Vostro Figlio in quanto vi osempre stimati per un Zio come pure Zia per gli unichi miei cari, al quale Vi osempre Considerati e sempre Vi Considero Come Limiei Genitori [...] (lettera del 13 luglio 1916).

Sono lettere e cartoline di tutti i tipi: da quelle che condensano, nella loro struttura tormentata, lo sforzo estremo, 8­­­­

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quasi disperato di chi la penna non l’ha quasi mai tenuta in mano, piene di graffi e scarabocchi, macchie e parole illeggibili, a quelle compilate con la diligenza di chi qualche anno di scuola elementare lo ha fatto, e talvolta vi aggiunge schizzi e rudimentali disegni, fino agli esercizi di abilità di qualche buontempone virtuoso che scrive la sua lettera alla mamma lungo un percorso a spirale, costringendo il lettore a ruotarla per seguirne il tracciato e dipanarne il significato. Lettere che raccontano molte cose e lettere che non dicono nulla, almeno nulla di esplicito, se non un lamento o un saluto, talvolta una sequenza infinita di saluti, rassegna puntigliosa di legami interrotti che si desidera ricostituire virtualmente. Vogliamo qui premettere un altro esempio eccentrico, un po’ come quello di Americo prima richiamato, riferito a due corrispondenti istriani appartenenti all’impero asburgico. Migliaia di uomini e donne sudditi della duplice monarchia, che parlavano e scrivevano in italiano o in dialetti italici, come quello trentino e veneto o istriano, presi dall’ingranaggio della guerra furono trascinati nel cuore dell’Europa come internati, oppure come combattenti sul fronte orientale, e si scambiarono notizie a distanza, tra un campo di internamento, una residenza provvisoria, un ospedale militare, una trincea sul fronte galiziano, la prigionia nei territori di un altro impero, quello zarista. Un piccolo fascio di corrispondenze di tale provenienza è stato ritrovato da uno studioso rumeno nell’archivio di un ospedale militare a Cluj in Transilvania, immerso in un mare di 12.000 lettere e cartoline rimaste depositate in quell’archivio, appartenenti a soldati delle più diverse nazionalità arruolati nell’esercito asburgico, transitati nell’ospedale di quella cittadina, e soprattutto ai loro parenti e conoscenti. Nel caso degli italofoni, i parenti mandano loro notizie dall’Istria, dalla Croazia, qualcuno dal Sud Tirolo, ma anche dall’Ungheria e da altri territori dell’impero dove sono stati forzatamente spostati per timore di manifestazioni di infedeltà o addirittura fenomeni di spionaggio. Sono tracce di una diaspora impressionante, che sospinge i protagonisti nei 9­­­­

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luoghi più lontani e li ricollega fra loro attraverso i tenui ma pur tenaci fili postali. Sono reperti di una scrittura elementare, dal contenuto essenziale, che raccontano la vita faticosa e precaria di gruppi umani sui quali gli Stati militarizzati e la guerra esercitano la pressione più violenta, provocando separazioni, producendo morti, ferite e malattie, disagi di ogni tipo affrontati con una rassegnazione che si direbbe illimitata, con la forza apparentemente inattaccabile delle persone abituate a patire, che non si aspettano niente dalla vita e si accontentano di augurarsi reciprocamente buona salute. Le appartenenze ideali, nella specifica forma delle identità nazionali che sono alla base del cataclisma continentale, non li sfiorano neppure. L’odio anti-italiano che traluce da alcune di queste lettere non è un frutto squisitamente ideologico di propaganda asburgica, ma più semplicemente la conseguenza dell’avversione immediata contro un Paese responsabile di aver trascinato le loro contrade in un conflitto che altrimenti sarebbe stato per lo meno più lontano. La guerra passa sulle loro teste e sulle loro vite come un rullo compressore al quale è del tutto vano pensare di sottrarsi. Ecco dunque l’esempio, tratto dalla lettera che nel luglio del 1915 una donna istriana, Maria Zanfabbro, con il marito prigioniero in Russia, scrive dall’Ungheria al cugino ricoverato a Cluj: Mi allegro di sentire che tu mi scrivi che il tuo malle ti sempre piu amiliorando e che non di portera nisun danno alla tua vita. Dunque mio caro cugino coraggio per noi basta che idio ci daghi la salute che speriamo di terminare in breve e di poter ritornare sanni e salvi e rivederci a sieme ai nostri paesi. Oltre piu mio caro cugino ti ripeto che a Valle [il paese di origine] non sono rimasto che 53 persone, e non familie, civil ne sono 18 tra done e uomini e queste sono rimaste a servire lo stato noi tutti siamo scaciati sforzatamente via del Istria a cio che non avesi di venire tradimenti. Ma speriamo che quei cani di taliani non rivera [arriveranno] nei nostri luoghi speriamo che ben presto ritorneremo a Valle in Istria. Mio caro cugino riguardo a quelo del zio fioretto non manco mai di scriverti io fin ora non posso darti nisuna notizia di lui li o scrito da tante 10­­­­

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parti e nisuno pol darmi notizia in dove che il se ritrova ma se per caso vegnero a sapere non manchero mai di scriverti. Guarda di far melio che tu poi mi chredo che tu capisi che non sei ragaso [non sei più un ragazzo] il mio sposo se ritrova prigioniero in Rusia sensa nisuna ferita non mi resta che di salutarti di cuore bacci e salutte da la mia familia medesimo da quela di tua sorella [...].

Questo immenso flusso di corrispondenza, che sembra quasi smentire e offuscare i dati sull’analfabetismo ancora consistente, dipende da un bisogno inesausto di contatto che promana invariabilmente tanto dai fronti quanto dall’interno. Dai fronti, esso è l’evidente espressione della situazione di precarietà e di spaesamento dei soldati, proiettati da una condizione di vita che può non essere facile ma risponde a codici e a ritmi conosciuti, spesso legati a una tradizione, a un mondo coatto non solo carico di sofferenze e di minacce per la vita, ma pieno di novità e plasmato da logiche tanto incomprensibili quanto implacabili. L’invio al fronte è un salto nel buio che produce sgomento e reclama un’intensificazione dei contatti. “Ti racomando – scrive un contadino di nome Demetrio D., dell’estremo Ponente ligure, prossimo al trasferimento in zona di guerra dopo una lunga permanenza nelle retrovie – di scrivermi spesso, e anche tutti igiorni; perche sai che inzona di guerra non si ricevono mai tutte le lettere; e di fare ben chiaro l’indirizzo che ti mando; sai che trovandosi tanto lontano, dispiace se non si riceve le notissie della famiglia. Io non mi stancherò mai di scriverti, e ti farò stare contenta dandoti sempre lemie notissie”. E nella lettera successiva, la prima dalla zona di guerra, ribadisce: “Era abituato che ogni 5 giorni riceveva letue care notissie, ed’era tanto contento, mentre invece adesso, chisa quando potrò ricevere ituoi scritti. Ti racomando di scrivere sovente, e di fare lindi risso [l’indirizzo] chiaro, che non siposino perdere; perche din questi posti non si desidera altro che le notissie di famiglia”. L’angoscia di perdersi nei gorghi delle trincee della guerra guerreggiata ha un solo antidoto: il frequente contatto postale. Quanto a lui, si impegna a non 11­­­­

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risparmiarsi: “Oscritto diverse cartoline ai parenti, e continuo a scriverci che così anche te sai da essi sempre mie notissie io scrivo tutti i giorni e credo che ben spesso saprai le mie notissie”. Egli tiene accuratamente nota delle lettere inviate e ricevute, e usa il contatto coi parenti come una rete che gli permette di consolidare il rapporto con la moglie. “Quando mi scrivi – la esorta in una lettera del 16 maggio 1918 – mi farai sapere se la cunà [cognata] Catainolla anno ricevuto imiei scritti; come pure Cesira e la Cuna Giromina; e Santin lurensò. ciò scritto a tutti, e credo che lavranno ricevute, scrivo atanti, appositamente perche anche te odauno; odal’altro abbi sempre le mie notizie; e stai più tranquilla”. Il tempo della guerra, specialmente al fronte, è un tempo sostanzialmente vuoto, di cui c’è sempre poco da raccontare e comunque poco di raccontabile, a differenza del tempo della vita e della campagna, sempre pieno di cose concrete come la semina e il raccolto, la nascita e la crescita di figli e animali, le grandinate e le nevicate. Ma non c’è contraddizione tra questa constatazione e il proposito di scrivere “tutti i giorni”: quello che conta nella lettera non è il contenuto, ma il fatto, il messaggio è la lettera stessa. È quel che ci dice l’autore appena citato, le cui lettere, una volta giunto al fronte, sembrano più vuote e ripetitive: “Non mi prolungo ascrivere perche nonsò che cosa dirti sono sempre le stesse cose, però, mi contento di poterti dare sempre lemie buone notissie; e tanto dipiù, sono soddisfatto di ricevere sempre letue. Io non mi stancherò mai di scrivere, o più tanto o più poco; cercherò di scrivere tutti i giorni, e lo stesso farai te; perché lenotissie di famiglia che io ricevo, sono quelle che mitengono solevato e coragioso lostesso è dite, ricevendo dispesso le mie”. Dall’interno, il bisogno di ricevere posta dai congiunti sotto le armi, specialmente se dislocati in zona di operazioni e in trincea, nasce da un imperativo in certo senso ancor più cogente, quello di avere segnali di vita, da rinnovarsi con frequenza il più possibile fitta. Segnali talvolta fallaci, perché tra il momento in cui la missiva è scritta e quello in cui viene 12­­­­

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ricevuta può capitare che il soldato venga colpito a morte, sicché essa sarà conservata come ultima nella raccolta delle lettere del congiunto, ormai divenute lettere del caduto. È il caso del soldato Giacomo Rettagliata, rivenditore di carbone a Milano, al quale la moglie Carlotta richiede con insistenza una corrispondenza regolare, per potersi sentire ogni giorno rassicurata. Lei sa fin troppo bene che quando una lettera o una cartolina arriva nelle sue mani, altro tempo è trascorso per suo marito tra i rischi del fronte, per cui la sua apprensione non si può mai placare. Carissimo marito – gli scrive il 29 maggio del 1917 – è un po’ di tempo che ricevo più di raro le tue desiderate notizie. O’ ricevuto ieri sera quella del 21 corrente e mi fece molto piacere perché da giorni l’aspettavo. Tu dici che sempre stai bene e di non pensare mai male di te anche se non ricevo tue notizie, ma come fare? Io penso sempre a te e vorrei avere tutti i giorni tue notizie.

In realtà non si inganna. Il certificato di morte di Giacomo, compreso tra le carte di famiglia conservate, attesta che egli è morto cinque giorni prima, il 24 maggio, per ferite in combattimento. In precedenza, lei gli ha inviato un’altra lettera che, come quella appena citata, il soldato non potrà più leggere, nella quale segnala una curiosa, inquietante premonizione. La lettera è datata 24 maggio, ossia il giorno della morte del marito, evento che lei ovviamente al momento ignora, e nell’esordio dice così: Carissimo marito, Come sempre ti ò detto finora ò ricevuto tutte le tue tanto care cartoline, però ora sono due giorni che nulla ricevo, essendo ormai abituata così, mi sembra tanto di non aver ricevuto tue notizie. Dunque ti prego appena puoi di riscontrarmi, specialmente perché ieri mattina mi sono sentita chiamare in sogno, mi sono svegliata di soprasalto e non vidi nessuno. A questo però faccio poco caso, perché come sai io non sono superstiziosa, ma non vedendo più tue frequenti notizie anche questo mi fà pensare e stò più in ansietà. 13­­­­

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La frequenza dei casi in cui le lettere dei genitori e dei parenti si perdono senza arrivare a destinazione, per il solo fatto che il destinatario nel frattempo è morto, viene registrata con sgomento nei quaderni di un giovane monaco benedettino, Francesco Olivero, anche lui al fronte, di cui ci occupiamo ampiamente più avanti. La morte avanza con lo strazio dell’anonimato nei cumuli di cadaveri abbandonati nella terra di nessuno, dove non potranno più leggere le missive loro indirizzate. Fa pietà, e strazia il cuore nel vedere colla nostra posta quella di tanti morti – annota il giovane –. Tanti e tanti genitori scrivono ai loro figli, domandano loro notizie, li pregano che corrispondano presto, e loro invece o sono sepolti già da tempo o ancora ne sono privi [di una sepoltura]. Questa mattina nella posta c’era una cartolina postale con risposta pagata mandata da un padre al figlio, che lo scongiurava di mandargli almeno una parola in risposta alle tante lettere, ed al telegramma che lui ha spedito. Il figlio invece è più di venti giorni che è morto. Simile a questo se ne trovano tanti altri casi che straziano il cuore. Poveri genitori, loro che hanno sofferto moltissimo per mantenere educare un figlio, e poi lo portano a morire come un malfattore. Di tutti questi morti che si trovano tra la nostra trincea e loro, le famiglie ne sanno nulla [...].

Bisogno di corrispondenza Nella richiesta di posta frequente c’è poi un desiderio tipico della corrispondenza in condizioni di lontananza forzata e prevedibilmente prolungata, ampiamente riscontrabile anche nel caso dei migranti: quello di tenere aperto un canale permanente di contatto e di aggiornamento, per evitare che la lontananza stessa produca fenomeni di sfilacciamento del tessuto relazionale, per rinnovare la frequentazione interrotta tramite le parole, gli aggiornamenti sullo stato di salute e sulle novità via via emergenti, a cominciare dalla crescita e dalle progressive conquiste dei figli piccoli. Si tratta, insomma, di evitare di essere tagliati fuori: la corrispondenza rivela qui la 14­­­­

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sua funzione di ricucitura continua del tessuto di relazioni famigliari: “quando tardo a ricevere sto male” annota perentoriamente il soldato spezzino Amedeo Andolcetti scrivendo il 7 agosto 1915 alla moglie. Il suo bisogno di aggiornamento è spasmodico e perciò la tempesta di domande in un crescendo che talvolta appare parossistico: “Luigin pure del 22 guarda la posta che salti fa? I pacchi gli ai spediti? Con Carlevaro il conto l’hai fatto? La stadera la mandasti a prendere? evero che la Privato e venuta a stare in casa Tritino? Il palazzo Malatesta e tutto affittato? e venuto a starci Botto il cassiere? Parlasti col marito dell’Angiolina la vedova?” e così avanti per altre due o tre righe (cartolina postale del 27 settembre 1915). Ma la moglie non è da meno: “scrivimi un giorno si e un giorno no” gli manda a dire. E in un’altra lettera lo esorta: “scrivimi a lungo, parlami di te anche se si tratta di cose insignificanti, io lo desidero tutto quello che ti riguarda, per me è della massima importanza e sono contenta quando ricevo un tuo lungo scritto” (lettere del 15 gennaio 1917 e del 18 gennaio­1918). La frequenza è in effetti così elevata che le lettere in arrivo e in partenza rischiano di incrociarsi o di disperdersi; per questo i due usano l’espediente di numerarle in modo da tenere la sequenza sotto controllo, e non sono i soli a farlo. Il bisogno di scrivere e di ricevere posta è così pressante da travolgere d’un colpo gli ostacoli dovuti alla scarsa dimestichezza col mezzo. Francesco Ferrari, caporalmaggiore bergamasco, classe 1893, è autore di una copiosa corrispondenza conservata, come poche volte accade, in un archivio pubblico, interamente trascritta e commentata in uno studio intitolato Scrivere per non morire. Il carteggio di Ferrari, che non si accontenta di scrivere ai genitori ma indirizza lettere e cartoline a fratelli e sorelle, allo zio curato e ad altri destinatari, è un esempio compiuto e lampante della forza imperiosa che spinge alla scrittura epistolare i soldati al fronte, anche quelli di estrazione contadina che non hanno superato i primi livelli dell’istruzione scolastica. Il nostro ha compiuto gli 15­­­­

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studi fino alla terza elementare, quanto basta per apprendere i primi rudimenti della scrittura in lingua italiana e del far di conto, prima di dedicarsi al lavoro dell’azienda familiare nel settore della bachicoltura, ma non certo per appropriarsi pienamente del mezzo. L’insufficiente apprendistato e probabilmente il modesto ricorso alla scrittura nella vita civile non lo predispongono a scrivere in maniera disinvolta nel rispetto delle regole dell’italiano standard, e la sua prosa tradisce la difficoltà di destreggiarsi nel mondo complesso che segna il passaggio dall’oralità al testo scritto, pieno di insidie, affidato alle minuzie grafiche come gli apostrofi e gli accenti. Ma non gli impedisce affatto di dedicarsi con assiduità decisamente considerevole a questo esercizio che egli e i suoi interlocutori considerano vitale. A dircelo sono il grande numero delle lettere e cartoline spedite (quelle conservate sono quasi duecento), la frequenza degli invii, il numero dei destinatari, ma anche dichiarazioni esplicite che mettono sull’attività scrittoria un’enfasi sorprendente. Ci può essere alcunché di convenzionale nella formulazione che segue, contenuta in una sua cartolina del 1916 alla sorella, ma fa ugualmente effetto sentirlo dire così, come se la scrittura fosse la sua occupazione principale in trincea: Tutte le mattine nello spuntar del sole il mio primo mestiere è quello di prender la matita e inviarvi i miei più sinceri saluti e baci a tutti di famiglia. Intanto chè vivo – aggiunge con allusione esplicita alla correlazione stretta tra scrittura delle lettere ed esistenza in vita – (e chè mi trovo in questo posto) venescrivo una al giorno (cartolina del 26 aprile 1916).

Ma c’è di più. L’insufficiente disponibilità di lettere e cartoline costituisce un autentico assillo per Francesco, che si preoccupa di farne scorte sufficienti e si lamenta quando la disponibilità viene meno, fino a usare – per segnalarne la carenza – un termine come “caristia”, che condensa la memoria contadina di altre, più irrimediabili scarsità: “Cari genitori 16­­­­

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ora mitrovo con un pò di scorte di carta e cartoline, non c’è più quella caristia come nei giorni passati, se vi arrivera tutte quelle lettere e cartoline chè vimando vedrete ogni giorno vi arrivera qualchè cosa” (lettera del 2 settembre 1915). L’epistolario di Ferrari va inoltre segnalato perché presenta un repertorio particolarmente ampio e vario di quelle “scuse per il male scritto” che costituiscono una caratteristica tipica dell’epistolografia popolare, in particolare di quella della “guerra grande”, punto d’incontro e di collisione tra il massimo di analfabetismo ancora diffuso e il massimo di bisogno di scrivere. Sono scuse, o meglio giustificazioni, in cui la manifestazione di un disagio verso il mezzo, così poco maneggevole per chi non ne ha pratica, viene ora correttamente ascritta all’insufficiente scolarizzazione (“credo chè mi avrete compatito secondo la scuola che ò”, si legge nella lettera alla sorella del 12 ottobre 1915), ora schermata da un disagio fisico, ambientale, meteorologico, persino morale, come se la postura improbabile tra i massi di una trincea o il freddo o la dimensione destabilizzante della guerra in quanto tale potessero di per sé giustificare gli esiti insoddisfacenti dell’esercizio scrittorio non solo dal punto di vista grafico, ma anche da quello linguistico o stilistico. Il tutto temperato però dalla ricorrente ironia, tinta di intenzioni scaramantiche, sul fatto che è sempre meglio scrivere male ma scrivere, che non essere più in condizione di farlo: “Perdonami del mio mal scritto – scrive ancora alla sorella il 6 febbraio 1916 –, della mal composizione e degli errori. Speriamo chè abbia à poterne scrivere ancora anchè di qui e un’anno di queste lettere così mal composte”. Proprio in quanto generalizza ed esaspera il bisogno di contatti a distanza, la guerra diviene in effetti un formidabile volano di diffusione delle competenze alfabetiche. Capita che chi ha completato la terza elementare si improvvisi scrivano per conto terzi e insegnante di scrittura. È il caso di Giovanni Pistone, contadino di Roccaverano, un piccolo comune dell’astigiano, classe 1895, autore di una robusta memoria di guerra di cui ci occupiamo più avanti, che si incarica di redigere la 17­­­­

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corrispondenza per conto di circa quaranta persone, dal momento che nel suo reparto – ricorda – “eravamo sesanta ma tutti analfabeti”; “non sapeva né leggere ne scrivere – dice di un commilitone nella memoria – Io da quando siamo cono siuti le hò sempre scritto alla sua famiglia è più alla sua fidanzata. Nel 15 sul carso poi sul trentino ed i suoi famigliari e fidanzata sebbene che non mi conosesero mi mandavano i suoi saluti. Quando le scrivevo è le dicevono saluti al tuo scrivano Pistone”. L’assistenza viene praticata – come si vede – da uno scrivente tutt’altro che esperto, ma Pistone è orgoglioso di questo suo ruolo e guarda i compagni con un certo senso di superiorità, irridendo alla loro abitudine di mandare saluti a tutti, persino all’asino. Egli ricorda che la comunicazione era generalmente stereotipata, basata su formule, e narrava ben poco dell’esperienza realmente vissuta: “Scrivevamo – racconta in una testimonianza orale – io sto bene e voi altri, niente altro... delle situazioni che ci trovavamo non mettevamo niente... Io scrivevo secondo quelli che erano, c’erano quelli che erano fidanzati e c’erano quelli che erano in famiglia”. Pistone non manca di tentare un rudimentale e accelerato corso di scrittura per un compagno: C’era un romano, gli ho insegnato, avevo tanta pazienza, mah pazienza. Gli ho insegnato l’alfabeto, lo chiamavano Peris era di Roma, ma lui di pazienza ne aveva più di me. Per fare Peris gli ho detto Pe, E, Erre e va bé; allora gli insegnavo, questo cos’è? È pe e va bene. E allora? Non lo so più. Ma se te l’ho detto adesso che questo è per per fare Peris! Ha avuto pazienza e ha imparato, scriveva a casa e metteva Peris, che era Peris, differente non metteva niente.

Molto spesso, la morte interviene drammaticamente a spezzare le catene di informazioni, rassicurazioni reciproche e scambi affettuosi, apre un vuoto che niente riesce a colmare e che esalta il valore di reliquia della corrispondenza nel frattempo accumulata. Radunare e conservare le lettere, anche quelle indirizzate ai diversi parenti e amici, diventa in questi 18­­­­

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casi un modo per ricomporre il trauma o almeno per alleviarlo, quasi che, nel ricomporsi in una raccolta compatta, le missive surrogassero la ricomposizione delle spoglie scomparse, non di rado irrecuperabili, e compensassero la mancanza di una sepoltura: il corpus delle lettere e delle cartoline ricevute dal fronte finisce per assumere il carattere di surrogato del corpo scomparso e oggetto di culto della memoria, che non ha altri luoghi o simulacri su cui esercitarsi. Ce lo segnalano le informazioni fornite da un discendente a proposito del soldato Giovanni Panattaro che abbiamo nominato sopra: Quando suo fratello cadde in guerra la nonna Pinota aveva 26 anni. Aveva due bambine, Jolanda di tre anni e Olga (mia madre) di un anno e mezzo. Era sola. Il marito era al fronte. I suoi parenti erano gente di cascina ed abitavano sparsi nelle campagne del Vercellese. [...] Quando venne la feroce notizia era ormai inverno. Quel morto senza tomba ritornava in una afflizione senza tregua ed era come colpa non averlo accompagnato e pianto nel funerale di ogni cristiano. Fu così che ella decise di camminare per chilometri nell’inverno verso le cascine: la Grangia, Mileggio, Toli. Doveva raccogliere dal padre, dagli zii e dai cugini le lettere del fratello come pezzi di una vita. Riunite diventarono riferimento della memoria e del compianto.

Ma anche quando la morte non si accompagna alla scomparsa della salma, disintegrata o dispersa in qualche parte della terra di nessuno, l’epistolario diventa oggetto di un culto della memoria che esige l’unificazione delle sue parti disperse: così è nel caso segnalato sopra di Francesco Ferrari, morto l’11 agosto del 1916 in un ospedale da campo in seguito a una ferita subita qualche giorno prima. Le lettere e le cartoline del giovane contadino caduto, che appartiene a una famiglia decimata dalla guerra (a morire, oltre a Francesco, sono suo fratello Giacomo, più vecchio di due anni, e il marito di sua sorella Marta, anche lui di nome Giacomo), 19­­­­

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vengono amorevolmente riunite, con una paziente raccolta tra i diversi parenti, dallo zio curato, anch’egli destinatario di una parte delle missive, che accoglierà poi l’invito delle autorità a consegnarle all’Archivio di Stato di Brescia, dove sono ora conservate, per custodirle nel culto della memoria non più privata ma pubblica. A queste pietose operazioni di raccolta delle testimonianze, che talora divengono reliquie, del congiunto al fronte dobbiamo il fatto che gli epistolari dei combattenti siano giunti sino a noi, qualche volta negli stessi involucri improvvisati dove erano stati inizialmente composti. Come già si è accennato, le lettere dal fronte non hanno come destinatari solo i parenti stretti, ma anche persone esterne alla cerchia familiare, parroci, notabili, autorità. I parroci sono autentici punti di raccordo della comunità contadina, percepiti come autorità morali ma anche di mediazione coll’ambito civile, talvolta come confidenti, ai quali se occorre si possono raccontare cose che ai familiari è meglio tacere, compresi gli orrori inenarrabili della guerra, e ai quali si possono chiedere favori, consigli di comportamento in circostanze estreme, assoluzioni preventive e dispense da doveri rituali, autorizzazioni a pratiche devozionali e scaramantiche che suonano superstiziose o incompatibili con l’ortodossia, ma a cui l’ambiente e le circostanze inclinano i soldati: “Il mondo celeste e i santi protettori, in tali frangenti, non potevano non intervenire e sostenere. La mediazione, per la mentalità religiosa del tempo, passava pur sempre dal parroco, custode dei riti collettivi di espiazione e di supplica. Ma al parroco si affidavano anche confidenze e memorie domestiche, perché le conservassero, sublimandole in una sfera più alta”. Mediatore ad ampio spettro tra l’umano e il divino, il parroco diviene dunque naturalmente destinatario di una corrispondenza copiosissima segnata dai più diversi registri e scopi, che esalta la sua funzione e più in generale la funzione della Chiesa in un momento di particolare emergenza. Così accade ad esempio a quello di Fara Novarese, un piccolo comune 20­­­­

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rurale padano, segnato da una presenza dominante del cattolicesimo come fattore di coesione e di formazione della mentalità comunitaria: 2.700 anime, tra le quali si contano ben 500 richiamati, almeno cento dei quali intrattengono col parroco una corrispondenza abbastanza regolare, producendo una copiosa messe di lettere e cartoline (quasi 800 quelle conservate, comprendenti in verità anche missive di cappellani militari e altri sacerdoti). A quanto risulta dalla corrispondenza, a Fara il parroco è tutto e fa di tutto: conosce molte autorità, può ottenere per i suoi parrocchiani sotto le armi attenzioni e favori, si prodiga in ogni modo per alleviare le loro sofferenze e venire incontro ai loro bisogni, dispensa attenzioni, consigli e buone parole, cercando in questo modo anche di mantenerli o all’occorrenza di ricondurli nell’ambito della fede e della devozione. A lui i soldati al fronte rivolgono lettere di deferenza, di sottomissione, di raccomandazione. A lui chiedono conforto morale e aiuti materiali, attenzioni alle proprie famiglie, appoggio e consigli nella gestione delle aziende domestiche e nella compravendita di beni, persino supplenza e appoggio alle mogli nella sorveglianza e nell’educazione dei figli, per evitare che tralignino dalla retta via in loro assenza. “Signor Arciprete – lo apostrofa convinto un soldato nel gennaio 1917 – farà piacere sorvegliare i miei cari figli, e specialmente Giromino che è molto vivo e quando sbagliano darà il castigo che loro meritano come se fosse suo padre. Sarebbe bene sorvegliarlo qualche volta anche nei suoi lavori e se qualche volta andrà a scuola, prender conto della Maestra, se è diligente o no”. Un altro gli raccomanda di “strapazzare” ben bene i figli nel caso li sorprenda in strada, renitenti alle lezioni di dottrina. E aggiunge: “lei lo dira di raccomandare anche a mia moglie, ma si come che ella dovrà recarsi alla campagna da mattina e sera e non potrà acondurli a sempre”. I soldati chiedono al parroco soprattutto rassicurazione e protezione di fronte all’immane flagello che si è abbattuto su di loro, allo scopo di vincere la precarietà e l’impotenza che avvertono come nuovo elemento dominante della propria 21­­­­

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condizione. Il solo fatto di ricevere posta da lui è fonte di sollievo. “Ho ricevuto oggi la sua preziosissima lettera – gli scrive uno di loro nell’ottobre del 1915 – la quale lessi e rilessi, più volte, giovandomi grandi soll’ievo in questa vita solitaria”. “Ieri – gli scrive un altro nell’agosto del 1916 – o ricevuto la lettera della mia famiglia nel quale cera pure i suoi saluti e dicono che lei si ricorda sempre in modo speciale per me. Io non so in che modo ringrazziarlo per il bene che lei fa in questi momenti per me nel quale io lo ringrazio con tutto il mio cuore che mi sento il bisogno di questo e non mi dimentichero mai più, e mi ricorda sempre di lei in ogni ora di mia vita”. Un altro ancora, più esplicitamente, invoca la sua protezione superiore, quasi una richiesta di garanzia a tutto campo di fronte alle molteplici minacce della guerra, conclusa con un innesto del linguaggio patriottico ufficiale: Mi rivolgo a lei con preghiera onde possa supplicare, come rappresentante della nostra gran fede e religione cattolica ad implorare al nostro buon S. Damiano gran protettore nostro che ci illumina coi suoi raggi alla via della nostra salvezza e che ci guarda dalle granate, dagli shrapnels dalle insidie e dagli agguati che ogni giorno sta preparando il nostro barbaro e secolare nemico Austriaco.

Ma c’è anche chi traduce e sintetizza questo bisogno di protezione in formule e giaculatorie scaramantiche, riprendendo forse slogan impressi nelle immaginette e nel materiale devozionale distribuito dai cappellani: “L’unione fa la forza, e ha chi sta ben unito col nostro buon Dio non perisce in eterno e con questo segno + vinco. Viva Gesù, Viva Maria, Evviva S. Damiano. Addio”. Oltre ai parroci, con poteri analoghi anche se limitati all’ambito delle cose terrene, ci sono poi le autorità civili e politiche e i notabili, ai quali viene indirizzata una corrispondenza anche in questo caso fitta e insistente, alimentata dallo stesso bisogno di protezione in circostanze particolarmente difficili e destabilizzanti. Ad essi ci si rivolge per chiedere 22­­­­

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raccomandazioni e favori, offrendo in cambio deferenza e promesse di voto in occasione di elezioni. In queste pratiche tralucono l’attitudine alla contrattazione e allo scambio, maturata in una lunga tradizione di politica e amministrazione nell’Italia liberale e ora rivitalizzata dall’emergenza della guerra, nonché le gerarchie di rilevanza nelle aspirazioni dei soldati mobilitati: in testa a tutte, il desiderio di evitare l’inquadramento nella fanteria, che ha la fama del tutto giustificata di anticamera della morte.

Flussi postali Sulla spasmodica attesa della posta nel contesto della vita di trincea esiste un’ampia letteratura e una non meno ampia iconografia. Il fenomeno non sfugge all’attenzione delle autorità civili e militari specie da quando, piuttosto tardivamente, l’organizzazione del consenso diventa un impegno dichiarato e sorretto da una struttura organizzativa. Ce lo dice, tra le righe e con non poche concessioni all’enfasi patriottica, il passo di un’orazione tenuta dal giovane Piero Calamandrei, solerte attivista del neonato Ufficio Propaganda: “In verità, o signori, la posta è il più gran dono che la patria possa fare ai combattenti: perché in quel fascio di lettere che giunge ogni giorno fino alle trincee più avanzate, la patria appare ai soldati non più come una idealità impersonale ed astratta, ma come una lontana moltitudine di anime care e di noti volti, in mezzo alla quale ciascuno riconosce un bene che è solamente suo, uno sguardo che soltanto per lui riluce, una voce che per lui solo canta”. I soldati sono i primi a rendersi conto di quanto la loro incontinenza postale in partenza e in arrivo, moltiplicandosi per i milioni di commilitoni e incontrando inesorabilmente i filtri della censura, possa creare problemi. “Ieri sera – scrive uno di loro, un sardo di nome Efisio, nel 1915 – ho ricevuto la cartolina postale scritta da Tonio e mi fa meraviglia sentire come di tante cartoline e lettere che ho spedito ne abbiano ri23­­­­

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cevuto solo una o due. Ciò dipenderà però dall’enorme quantità di lettere e carte ammassate negli uffici postali e anche per le soste che faranno negli uffici della censura”. Per far fronte a questo fiume in piena fu allestita da parte della Posta militare una complessa struttura organizzativa, di cui tracciava un’accurata descrizione un articolo comparso sulla “Rivista mensile” del Touring Club nel febbraio del 1916. Nel centro di smistamento postale di Bologna, dove veniva convogliata la corrispondenza dal Paese al fronte, transitavano ogni giorno 800.000 lettere, stipate in 18.000 pacchi, impegnando un personale di 198 impiegati militarizzati e assimilati a ufficiali, 88 commessi assimilati a impiegati, 100 soldati di truppa. Da qui i sacchi, caricati su vagoni postali, viaggiavano su convogli verso l’area del fronte, dove 20 autocarri (“carri automobili”) li prendevano in carico e si dirigevano a ventaglio verso gli uffici postali di corpo d’armata, dove si accumulavano contemporaneamente le missive provenienti dai reparti e in viaggio verso l’interno: “tavoli sgangherati, requisiti, acconciati alla meglio, raccolgono cumuli di lettere e cartoline, or ora portate dai portalettere reggimentali e dei reparti, le quali passano veloci fra le mani dei soldati intenti a bollarle. Il tic a tac del bollo, che va dal cuscinetto alla lettera, si confonde col rombo del cannone, al di fuori”. Qui la corrispondenza proveniente da Bologna viene consegnata ai portalettere militari, uno per ogni reggimento e reparto, che la portano a destinazione. “Ogni battaglione ha un incaricato. Ognuno di essi prende le corrispondenze del proprio battaglione e va fin nelle trincee di prima linea a farne la distribuzione e la consegna. Per la sera la corrispondenza partita da Bologna al mattino è già nelle mani del destinatario”. Le lettere e le cartoline che viaggiano in senso inverso si raccolgono a loro volta nel centro di Treviso, dove ne arrivano ogni giorno 1.400.000 e altrettante ripartono in direzione del territorio nazionale. Non c’è da credere che la descrizione sia solo frutto di intenti propagandistici ed esageri perciò nella sottolinea24­­­­

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tura dell’efficienza. I sondaggi resi possibili dalla raccolta degli epistolari conservati suggeriscono che in effetti, salvo nei momenti di emergenza, tra i quali spiccano per forza di cose le settimane della rotta di Caporetto, una sorprendente puntualità caratterizzò in molti casi il servizio. A dircelo sono soprattutto gli epistolari in cui i partner della corrispondenza, particolarmente assidui e precisi, non solo si scrivono con notevole frequenza ma, nel timore di qualche smarrimento, numerano le lettere in partenza e in arrivo e talvolta vi appongono una data di ricevuta. Queste sovrascritture e i timbri di partenza e di arrivo danno in tal senso responsi inequivocabili. È il caso del rapporto epistolare tra il soldato spezzino citato prima, Amedeo Andolcetti, e la moglie Gemma. Essi lamentano a tratti qualche disguido e qualche ritardo, ma vi sono casi in cui certificano la ricezione della lettera nel giro di ventiquattro ore. Così il 3 settembre 1917 Gemma scrive una lettera ad Amedeo, che contrassegna con il numero 80, e il giorno dopo nuovamente una cartolina che contrassegna col numero 81: quest’ultima reca la data scritta a mano nonché il timbro postale, entrambi del 4 settembre, e viene contrassegnata da Amedeo con la sigla “ric[evuta] 5.9.17”. Insomma, la cartolina, scritta e impostata il 4 settembre, arriva nelle mani di Amedeo, dopo aver compiuto il viaggio descritto dalla rivista del Touring, il giorno dopo. Soldati e popolazione usavano ampiamente, per la corrispondenza, le cartoline illustrate, spesso offerte in franchigia, adatte a una comunicazione più stringata alla portata di ogni penna, anche se non coperte dalla riservatezza assicurata dalle buste chiuse. Le cartoline illustrate registrarono in quegli anni un boom di produzione e di consumi, in Italia come in tutti i paesi belligeranti, e divennero il primo mezzo di comunicazione figurato autenticamente di massa, che cominciò a forgiare la grammatica e la sintassi dell’immaginario nazionale in forme moderne. Il racconto della guerra, la sua banalizzazione, il suo addomesticamento passarono attraver25­­­­

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so il lavoro di centinaia di illustratori, attraverso migliaia di soggetti e centinaia di migliaia di esemplari che correvano di mano in mano. Ma le figure delle cartoline erano spesso le stesse che comparivano sui manifesti murali, che venivano riprodotte in gigantografie esposte nelle piazze, che facevano capolino anche nei giornalini per ragazzi, che si materializzavano in oggetti, gadget, statuette. Insomma, che avevano una circolazione multimediale. Accanto a questi circuiti vorticosi di posta e di contatti a distanza, che scorrono nei gangli vitali della socializzazione epistolare, va ricordato il caso di quelle corrispondenze virtuali che non ingorgavano gli uffici per il semplice fatto che in gran parte non giungevano a destinazione perché non uscivano dalle istituzioni di segregazione entro le quali venivano prodotte. Parlo delle lettere dei soldati ricoverati nei manicomi, dove li avevano portati i traumi della guerra o gli espedienti della simulazione, che generalmente non venivano inoltrate ai destinatari ma usate come strumenti di osservazione e di indagine clinica e perciò andavano a incrementare le cartelle cliniche dei ricoverati, dove oggi possiamo ritrovarle. Erano tentativi di comunicazione frustrati, messaggi soffocati, impulsi di contatti mai stabiliti, lamenti inascoltati, perorazioni senza seguito, imprecazioni che cadevano nel vuoto. Ma c’erano anche, ugualmente dirottate in canali riservati e trattate con cautela, le voci anonime, le lettere oscene di invettive e di improperi, indirizzate ai regnanti e ai capi di governo che avevano voluto la guerra, le quali non transitavano nei normali canali di movimentazione postale fino ai destinatari dichiarati, ma andavano direttamente a ingombrare gli uffici di polizia.

Taccuini e quaderni di guerra Se le lettere e le cartoline in genere fluivano copiose, fisicamente ingombranti e perfettamente visibili nel loro transitare attraverso i canali della posta militare, non così altri tipi di scritture, rimaste a lungo appartate nelle pieghe degli zaini e 26­­­­

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poi nei cassetti, circondate spesso da pudore e da riservatezza, addirittura nascoste, talvolta non condivise con nessuno per tutto il tempo della vita ma anch’esse, se pur in misura più contenuta, tali da configurare un ricorso alla scrittura di dimensioni inedite: parlo dei taccuini e dei quaderni di guerra, variamente utilizzati ma spesso compresi dagli autori sotto la denominazione generica, e non sempre tecnicamente appropriata, di diari, così come delle memorie e delle vere e proprie autobiografie. La motivazione che spinge a scrivere un diario o una memoria, soprattutto nel caso di un semiletterato abituato a maneggiare altri strumenti (la zappa del contadino o le forbici del sarto, per non dire che di due casi possibili), è assolutamente meno immediata di quella che sta dietro alla corrispondenza, richiede perciò di essere esaminata con attenzione e non si presta a un’interpretazione univoca. A ricorrere a questo genere di scrittura furono se non statisticamente molti soggetti (un calcolo simile è impossibile da farsi), certo molto numerosi tra coloro dai quali meno ci si aspetterebbe un tale esercizio, se non altro appunto per la considerevole difficoltà che tradiscono nella produzione della scrittura stessa. Da questo punto di vista una prima considerazione utile concerne il processo genetico di questi testi e la loro natura materiale. Come ha suggerito una casistica di una certa ampiezza, specialmente relativa all’area trentina, supporti di scrittura della dimensione di un taccuino o di un quaderno entrarono spesso nella dotazione di base del soldato fin dalla partenza per il servizio, evidentemente nella convinzione che potessero essere di una qualche utilità almeno come ausili per la memoria, sede di annotazioni di indirizzi, propri e dei commilitoni, numeri di circolari, brani di canzoni e altro ancora. Ma forse anche nell’intima, confusa e persino inconsapevole intuizione che l’evento incombente avesse qualcosa di potentemente invasivo che lo avrebbe reso memorabile. Dunque, poteva essere opportuno, inoltrandosi in esso, avere modo di lasciare qualche traccia dell’esperienza compiuta, di cui il taccuino sarebbe stato il ricettacolo. Solo col passare dei 27­­­­

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giorni e dei mesi le pagine bianche rivelano e dispiegano in pieno le loro potenzialità, si aprono a usi diversi. Di qui la morfologia testuale composita, evolutiva e talvolta imprevedibile di queste scritture, rispondenti a comuni o simili codici culturali, ma ciascuna diversa dalle altre. Spesso gli scriventi di estrazione popolare chiamano diario quello che è in realtà una memoria di vicende pregresse. La parola viene usata per indicare un resoconto dettagliato, veritiero ed eventualmente scandito in maniera ordinata, fase per fase se non giorno per giorno. In molti casi non si tratta di diari in senso stretto ma appunto di memorie, ossia di racconti di vicende concluse, per esempio un periodo di guerra o di prigionia, narrate con lo sguardo volto al passato e non al presente e all’imprevedibile futuro come accade nei diari veri e propri. Anche se è vero che tali memorie sono altrettanto frequentemente lo sviluppo di appunti, annotazioni, tracce stese sul momento o a breve distanza dagli avvenimenti, proprio nell’intuizione della loro straordinarietà. A darci conferma di questo percorso è il caso del diario (come vedremo riscritto e rielaborato più volte, su cui dunque il tempo della memoria ha esercitato il suo lavorio) di un sarto piemontese, langarolo per la precisione, di nome Giovanni Bussi, detto Gasan, che è stato oggetto di un accurato studio, fondato tra l’altro sul confronto tra diverse stesure e sulla raccolta della testimonianza orale dell’autore. L’idea di scrivere un diario – dice Bussi – mi venne perché avevo visto Gilardino, il mio primo padrone, che lo faceva. Lui segnava anche gli aghi che vendeva. Quando fui sul fronte capii che stavo vivendo una grande esperienza, che sarebbe stata una cosa importante, che forse saremmo andati a finire male, che bisognava scrivere tutto. Ho iniziato il diario all’inizio della mia guerra.

A motivare il gesto sono dunque due fattori: la scoperta straordinaria, quasi magica, della forza della scrittura scrutata nelle abitudini metodiche del padrone, e l’intuizione sulla 28­­­­

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drammatica rilevanza degli avvenimenti in corso, di cui egli ha una percezione immediatamente catastrofica. Grazie alla loro combinazione scatta la molla che spinge a procurarsi un supporto quale che sia e a prendere “la penna in mano”. Egli ha dapprima interiorizzato, “l’importanza dell’annotare” – come sottolinea il curatore –. “Lui che arriva da un mondo contadino ancora caratterizzato da un sapere orale gestuale pressoché primario, rimane colpito dall’ordine e dalla forza della scrittura”. Poi, una volta gettato nel caos razionale del fronte, capisce che incombe una catastrofe e quindi che c’è qualcosa da scrivere. “Un impegno – quello della scrittura, che dà un senso alla sua presenza al fronte, una ragione che lo coinvolge e gli permette di razionalizzare la situazione drammatica che sta vivendo”. A questo punto Bussi prende un blocchetto pubblicitario della Cinzano che ha già con sé e comincia a prendere nota di tutte le circostanze e di tutte le vicende che vive, con una sorta di originale stenografia o meglio con l’uso di un “linguaggio iconico” che gli permette di tenere a memoria e di indicare in sequenza gli accadimenti, usando un simbolo diverso per ogni tipo di avvenimento, in vista di una successiva rielaborazione. Ma la vicenda scrittoria non finisce qui, anzi è solo all’inizio. Andato perduto per circostanze fortuite il blocchetto di appunti, su cui si è esercitata la prima fissazione icastica della memoria, Bussi si affretta, mentre è ancora al fronte, a rimpiazzarlo con la stesura di un quaderno di appunti che riproduce il più fedelmente possibile la prima e che prosegue con la narrazione degli avvenimenti seguenti fino al ritorno a casa. Non sarà l’unico. Con l’andare del tempo, questo scrigno delle vicende memorabili che lui ha costruito con grande cura, e che considera un oggetto prezioso, subirà ulteriori insidie, come un’alluvione, e anche per questo, per garantirne la conservazione, oltre che per perfezionarne e completarne il testo, lo farà oggetto di ulteriori trascrizioni, sicché alla fine i quaderni saranno tre. Tutta la procedura seguita e l’impegno, a lungo insoddisfatto, di vederlo pubblicato, sono una 29­­­­

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testimonianza eloquente dello straordinario valore attribuito dall’autore all’operazione compiuta: osservazione dei fatti e loro fissazione nella memoria grazie alla potenza pressoché indelebile della scrittura. La natura esemplare del caso, così ben documentato in tutto il suo iter, appare una preziosa conferma di quel che sappiamo anche da altri ritrovamenti, e che in parte possiamo congetturare, sui meccanismi di innesco dell’attività scrittoria di tipo in senso lato memorialistico, nel contesto della prima guerra di massa. Il “diario” di Bussi presenta inoltre un’altra caratteristica che ritroviamo, in forme anche più cospicue, in quasi tutti i taccuini dei soldati contadini, ossia il carattere ibrido, composito, misto dei testi: come si accennava, non solo resoconti di avvenimenti cui si assiste o si prende parte, ma annotazioni con scopi pratici, promemoria che riprendono in questo senso la pratica delle agende di lavori. Gli spazi rimasti eventualmente bianchi vengono successivamente riutilizzati, con una pratica dell’“accomodare” che caratterizza i saperi tradizionali studiati dagli antropologi. Nel caso del testo di Bussi, questa pratica si manifesta nella scrittura, sulla parte finale del quaderno, rivoltato, di un tentativo di sonetto in onore di due sposi. In altri casi si tratta di elenchi di commilitoni, di preghiere, poesiole, canzoni, testi comici e satirici. Tanto nei diari come nelle memorie il filo conduttore è dato non raramente dalle coordinate geografiche degli spostamenti, dalla topografia dei luoghi. Come nei diari di viaggio, sono i luoghi via via toccati e scoperti a fornire la trama della registrazione. Un caso molto interessante in questo senso è quello del caporalmaggiore degli alpini Luigi Marenco, nato nel 1889, originario di Cortemilia (Cuneo), che ci ha lasciato un esemplare significativo e singolare di diario in senso proprio, come non se ne trovano di frequente. Di ambiente contadino come Bussi, Marenco è in realtà un muratore. Al pari di Bussi e di Francesco Ferrari, il suo percorso scolastico si è fermato ai primi anni delle scuole elementari, tre in tutto: anche nel suo caso troppo pochi perché possa padroneggiare con piena 30­­­­

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disinvoltura la scrittura secondo le regole standard dell’italiano, troppi perché lo si possa dire illetterato, tant’è che è autore del diario in cui la sua formazione scolastica e forse le sue abitudini costruttive di muratore sembrano tralucere: il suo è un taccuino a pagine quadrettate, e grazie ai quadretti egli le correda di disegni geometrici astratti o figurativi che lasciano pensare alle attività della figurazione elementare guidata dal maestro. Le pagine si succedono con una regolare alternanza, presentando quelle a sinistra sempre il testo diaristico, quelle a destra quasi sempre disegni decorativi o – in grande prevalenza – topografici, nel senso che delineano profili accurati delle montagne avute di fronte sul confine orientale, con indicazioni toponomastiche e di altitudini. A quanto pare nell’esperienza di Marenco l’elemento visivo dell’altimetria di montagna sembra essere la cosa più interessante e memorabile. È anche probabile che egli abbia previsto in partenza, memore di un’esperienza scolastica, la ripartizione dello spazio grafico in due comparti, uno riservato alla scrittura e uno figurativo e decorativo, i quali scorrono nel suo caso autonomamente, nel senso che le illustrazioni non sono riferite alle località nominate nel testo a fronte e, anzi, sembrano non essere state tracciate in successione cronologica, come si può notare dalla datazione delle rispettive didascalie. Niente vieta di pensare che nei momenti di riposo Marenco si dedicasse alternativamente alla scrittura o al disegno, scegliendo per quest’ultimo le pagine libere a destra senza rispettarne la successione. Comunque sia, il taccuino ci accompagna nel suo viaggio percettivo attraverso quelle montagne che – come dicono i loro nomi (tra gli altri Rombon) – saranno teatro di tremende carneficine e della stessa memorabile rotta di Caporetto, ma che per il momento sono solo lo scenario della sua prima esperienza del fronte: scenario probabilmente dotato di un certo speciale fascino per chi viene, come lui, dalla pianura. Per quanto riguarda il testo, esso si caratterizza per essere decisamente succinto e quasi telegrafico. Consiste in appunti stringatissimi, una riga o poco più al giorno con attenzione 31­­­­

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prevalente agli spostamenti, il che gli consente di tenere il ritmo di un diario in senso stretto con regolarità quasi assoluta. Dopo l’esordio del 23 maggio 1915, come sempre privo di enfasi ma solennizzato e impreziosito da una impostazione grafica che tende a richiamare l’attenzione sulla parola “guerra” a mo’ di titolo (“Il primo giorno di guerra Il 23 Maggio 1915”), il testo prosegue poi con brevissime note il 24, 25, 26, 27 e 28 (tutto su una paginetta) e di seguito (ma due pagine dopo, per l’intervallo di quella a carattere iconografico) ancora il 29, il 30, il 31 e così via praticamente per tutta la lunghezza del diario. Quando, raramente, la sequenza giornaliera si interrompe raggruppando più giorni, esplicitamente lo segnala. Ad esempio, dopo aver annotato, il 12 giugno del 1915, la partenza per il monte Sinuis per dare il cambio alla 209a compagnia, il giorno dopo registra: “13 sinuis per 4 giorni mulatiere e trincere” e subito dopo riprende col 17 con questa annotazione conclusiva: “17te cambio dal sinuis al mte ckila”. Questa registrazione neutra ed essenziale, priva di emotività, presenta un’eccezione abbastanza significativa quando è costretto a dar conto dei primi combattimenti, dove perde diversi amici. Il 23 agosto 1915 esordisce: “23 tutta la notte in trincera con il bombardamento della artiliera astriaca sul fronte questa e la prima giornata di combattimento un morto e 3 feriti”. Poi prosegue “24 cambia [cambio?] dalla 209 connia 25 Riposo caffe sigari. 26 Una vanzata verso il rombon dove o lasciato i miei due cari amici e dove lo passa[ta] liscia anchio la compania 210 a lasciato 65 uomini fori conbattimenti 20 morti 10 spersi e 35 feriti il giorno 26 agosto. 1915. io mi sono perso e sono rientrato il giorno dopo. 27 la compania tutta”. Lo stile apparentemente è lo stesso di sempre ma alcuni indizi tradiscono l’emozione, come l’interruzione della frase a questo punto, senza una ripresa successiva, e poco dopo il goffo e incompiuto tentativo di comporre una canzone per i caduti. Inoltre, non sembra un caso che il monte Rombon, teatro del sanguinoso assalto, sia 32­­­­

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raffigurato due volte nelle pagine iconografiche, la seconda delle quali con una didascalia che richiama le perdite subite nel combattimento. Non è escluso del resto che proprio questo episodio, che forse interrompe il periodo di relativa routine fino a quel momento vissuto e apre una fase più tumultuosa, e più penosa, della vita di Luigi al fronte, sia il motivo della cessazione, altrimenti inspiegabile, del diario. Dopo la pagina appena citata, poche altre ne seguono, occupate da diversi elenchi dei componenti della sua squadra, in cui il suo nome compare per primo in qualità di caporalmaggiore; dal testo di una canzonetta popolare che mette in scena un ungherese, un italiano, i serbi, la Triplice, l’arciduchessa e l’arciduca d’Austria e così via; dalle annotazioni sulla prima, stupefacente comparsa della neve in montagna, che si verifica su diversi dei monti in vista a giugno, luglio e agosto. Dopo questo, compare l’ultima, la quarantottesima, delle pagine scritte o disegnate che compongono il taccuino. Per quanto ci riguarda, la guerra di Luigi Marenco, cominciata con tanto impegno grafico e tanta leggerezza di annotazioni, quasi per un intento ricreativo e senza sentore di drammaticità, finisce qui. A spingere i soldati alla scrittura è spesso un sentimento profondo di sgomento per l’incertezza della propria sorte, per la morte che incombe e per la minaccia della propria sparizione nel gorgo della guerra immane. Scrivere significa lasciare una traccia, l’ultima, della propria esistenza, da recapitare alle persone care, di modo che la morte non sia anche, letteralmente, scomparsa, ossia sparizione nel nulla. Così l’impulso a scrivere, nel caso del fante toscano Giuseppe Manetti, di cui daremo conto più avanti, è proprio l’imminenza di un temuto trasferimento al fronte, che improvvisamente vanifica l’illusione di mantenere una posizione poco esposta e getta un’ombra di precarietà assoluta sulla propria vita. È per questo che Giuseppe comincia a scrivere il suo diario, distribuito in due quadernetti, ai quali a un certo punto farà precedere alcuni brani di accompagnamento nel caso di ri33­­­­

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trovamento dopo la sua morte. Il primo quaderno è aperto da due brani. Uno contiene delle istruzioni, datate Palmanova 3 giugno 1917, dirette a chi lo troverà sopra il suo cadavere, autorizzato a prendere tutto di lui, ma a garantire l’inoltro di quell’oggetto così prezioso all’indirizzo di sua moglie: O essere umano, che troverai questo libretto, tù lo spedirai alla mia cara famiglia, in nome di Dio e di un morto, ti autorizzo se tù voi di prendere per tuo, tutto ciò che io porto in dosso, ma questo libretto spediscimelo a questo indirizzo che io se posso pregherò perté per il favore che mi hai fatto. Alla Signora Manetti Cesira – Candeli Villamagna (Firenze)

Il secondo è un pacato commiato dalla stessa moglie, rivolgendosi alla quale, come se fosse già estinto, le indirizza sommessi inviti alla serenità e calde raccomandazioni, in cui l’elemento dominante è la salvaguardia della pace in famiglia, con un parallelo tra l’armonia domestica e quella del mondo intero. Altri destinatari minori sono i fratelli e le sorelle. Eccone qualche parte. Mia cara moglie Quando ti giungerà questo libriccino, io sarò belle estinto io capisco quale effetto ti farà ma io ò pensato di far così in modo che tu non stia qualche mese senza sapere ciò che mi è accaduto, se tu credi di rimaritarti permé non trovo cosa in contrario però, una raccomandazione ti faccio quella di tenere di conto della nostra piccina che ò amato teneramente e di trovare unuomo che sappia amarti come ti ò amato io che quando sposai te, ti giurai fedeltà e ti sono stato fedele [...] Se tù resterai conla mia famiglia mi raccomando la pacie ha voi tutti, che per causa di non esserci la pacie vedete a che punto siamo arrivati lo dico a te come lo dico all’intera famiglia [...] Se questo libretto vi giunge sarà l’ultimo scritto che da me ricevete. perciò con questo vi giunge l’ultimo mio saluto e bacio dal più piccolo al più grande di voi ed à te mia cara moglie lostesso questo e l’u[l]timo bacio che ben per i scritto parte dal mio quore e lo darai alla mia bambina tutte le volte che ti rammenti di me[.] 34­­­­

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Ma anche sul secondo quaderno Giuseppe si preoccupa di scrivere istruzioni di consegna: questa volta non alla moglie ma al padrone del podere nel quale lavora come mezzadro. La formula è leggermente modificata: “O essere umano che troverai questo libriccino con questo indirizzo tu lo spedirai annunziando la mia disgrazia in nome di dio e di un morto”, cui segue il nome e l’indirizzo del destinatario.

Memorie, autobiografie Non dettate da questo impulso immediato e doloroso, da questa angoscia di sparizione, ma da un più meditato desiderio di sistemazione della memoria e di trasmissione della propria esperienza a chi verrà dopo, figli e nipoti, a scopo di memento e di insegnamento per il futuro, sono le vere e proprie memorie, che a differenza dei diari vengono redatte a eventi conclusi, quando si volta pagina, sia che siano scritte a ridosso degli avvenimenti, appena tornati a casa, sia che vengano stese molti anni e decenni dopo, sotto gli impulsi più diversi, a titolo di ripensamento o bilancio o sistemazione postuma. Un esemplare di memoria in senso proprio, ossia di scrittura a distanza dagli avvenimenti narrati, senza un filo grafico (come appunti stesi sul momento o poco dopo) che la colleghi ad essi in maniera diretta, è quella del contadino Giovanni Pistone, che abbiamo già evocato come scrivano e maestro improvvisato di scrittura dei suoi commilitoni. Tra la sua scrittura, stesa nel 1973 e ripresa con qualche variante nel 1983 – che egli designa quale “libro ho Diario come si vuol chiamare” –, e gli avvenimenti narrati non c’è che un ancoraggio di memoria orale, anche se nella ripetizione del racconto orale ai compaesani, che è a quanto pare un esercizio da lui praticato regolarmente, la memoria stessa sembra assumere la fissità, o forse meglio la persistenza della scrittura. Seguiamo infatti la dettagliata premessa del suo racconto, nella quale, dopo aver enunciato sinteticamente il contenuto, 35­­­­

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coincidente con la sua intera esperienza di combattente, egli definisce, con una certa precisione di dettagli, la genesi del testo. Le parole che seguono aprono la prima pagina a destra, non numerata, della memoria, a fronte di una pagina sinistra dove campeggia un suo ritratto fotografico in divisa e in posa, sovrastato nella parte bassa da una sua ampia firma impreziosita da uno svolazzo: Io sottoscritto – è l’esordio in linguaggio burocratico, su più righe di dimensione decrescente allineate solennemente al centro a mo’ di intestazione o frontespizio – Pistone Giovanni nato a Roccaverano è residente a Roccaverano Prov. di Asti classe 1895 Cavagliere di Vitorio Veneto Essendo giusto di memoria dopo 50 anni ho scritto un libro ho Diario come si vuol chiamare che racconta dalla mia partenza militare al ritorno in congedo. Il mio libro è più di 200 pagine; e dovrebbe essere molto più lugo ma credo che il principale che ci sia notato. Perché io sono partito per il militare del 1915 e sono venuto in congedo del 1920 [in realtà 1820 per una svista] ho fatto tutta la guerra 15 e 18. ero nel 63 Rg. fanteria a Salerno secondo reparto zappatore e ho preso [ripetuto per svista al voltar di pagina] parte di versi combatimenti sono sempre stato in prima linea di trincee di tutti i fronti del 1915 sul Carso del 1916 sul Trentino poi in Grecia è Macedonia. Trovandomi con amici e racondandisi la vita militare mi dissero tu; che ai la memoria buona scrivi la tua vicenda militare; che pare che sia molto importante.

La rilevanza degli avvenimenti trattati, la sua posizione di testimone in prima persona, per giunta sempre nel cuore delle vicende ossia in prima linea, la solidità della sua memoria attestata dalla cerchia degli amici (con tutta probabilità una parte dei quali anch’essi reduci), la lunghezza, e insieme l’essenzialità del testo, sono dunque i fattori di legittimazione della scrittura testimoniale di Giovanni Pistone. Essa sembra nascere almeno in parte da un’istanza collettiva e rispondere a uno scopo di memoria collettiva. Sappiamo che circa settanta erano originariamente i reduci compaesani, compagni di 36­­­­

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avventura bellica di Giovanni, ma con l’andare del tempo le loro fila si erano notevolmente assottigliate. Sembra di poter leggere tra le righe che egli si senta investito di un mandato da parte dei rimasti, al fine di conferire alla memoria orale la maggiore durabilità e il maggior prestigio sociale che le viene dalla scrittura. Come nota Halbwachs, “quando la memoria si disperde nella mente di pochi individui isolati, persi in nuove società cui questi fatti non interessano perché decisamente estranei, allora il solo mezzo per salvare questi ricordi è di fissarli per iscritto in un racconto”. In questo senso proprio la distanza cronologica dall’evento esalta la necessità della scrittura. L’autore si preoccupa di farcene conoscere in dettaglio anche le circostanze di produzione: “Così ho fatto misono messo li in una camera da solo e ho cercato di rammintare il passato scrivevo non sempre; tempo libero e piu alla sera che fosse stato in silenzio. Ma tanto per dire che dallinizio al termine ciò in pegnato tremesi. Mi firmo Pistone Giovanni”. La concentrazione nell’esecuzione e la sua durata contribuiscono a conferire dignità al testo prodotto e alla testimonianza che esso compendia e consegna non solo ai compaesani viventi ma anche ai posteri. Al centro di questa costruzione stanno insieme l’importanza oggettiva delle vicende e quella del proprio ruolo, sia in quanto protagonista sia in quanto testimone, che assume pertanto un rilievo pubblico, come ci conferma il fatto che Giovanni partecipa a incontri con le scolaresche e che la seconda stesura viene prodotta in preparazione di un programma televisivo a cui pensa di prendere parte. Di questo ruolo egli appare ben convinto, e la sostanza delle vicende narrate, il loro significato per così dire morale, oltre alla stima di cui gode e all’evidente autostima sembrano esimerlo dall’obbligo di fornire prove dettagliate della veridicità del suo racconto. A differenza di altri memorialisti, Pistone non sente il bisogno di comprovare e corroborare l’attendibilità della narrazione con riferimenti cronologici precisi, quelli che in genere giustificano il ricorso alla definizione del testo come “diario”. Su di essi anzi egli si permette 37­­­­

In questa e nelle pagine successive  Pagine di apertura della memoria di Giovanni Pistone, seconda redazione, con una foto dell’autore in divisa militare, Archivio ligure della scrittura popolare, Genova.

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di sorvolare, fornendone pochi e talvolta approssimativi. Ad esempio, dopo una lunga e drammatica sequenza di assalti, al termine della quale un suo commilitone tenta senza successo di uscire vivo, strisciando al suolo, dalla terra di nessuno, il nostro annota: “Questa teribile stragedia è stato ne me[se] di Ottobre 1915 davanti alla trincea delle Frasche credo che sia il 23 o il 24”. E un’altra volta scrive così: Come giá neo cenato [ne ho accennato] che noi da Monfalcone ragiunto il regimento siamo subito mandati in prima linea sul trentino credo che sia nel mese di Febraio ho Marzo. Ma questo non mi da molta importanza Quello che conta e che noi siamo sempre sti [stati] di prima linea dopo tanto tempo ci viene il cambio e credo che sia il 18 Maggio 1916.

Dunque, non ci sono appunti o annotazioni prese sul momento che gli consentano di essere preciso nelle indicazioni cronologiche, anche se gli eventi sono in quanto tali scolpiti nella memoria che ora finalmente, dopo cinquant’anni dalla fine della guerra, Giovanni ha deciso di trasformare in un testo scritto. Gli eventi si impongono alla memoria e alla scrittura, e il testo si materializza in un manufatto che incorpora, nella sua interezza fisica, tutta la portata dell’esperienza che si intende consegnare alla storia. A dircelo è un altro particolare, piuttosto curioso, riscontrabile nella prima redazione del testo, consistente nel tentativo di far coincidere le dimensioni del racconto con le dimensioni del quaderno, ossia il testo col suo supporto. Giunto a un punto che considera conclusivo, Pistone lo sigilla con una dichiarazione inequivoca: “Qui finise il diario”. Ma di seguito, resosi evidentemente conto che rimangono vuote alcune pagine, riavvia il testo con la riproposizione di un episodio già raccontato in precedenza, finché nella penultima pagina rinnova il congedo (“qui chiodo [chiudo] il mio Diario”) ingrandendo poi e comprimendo i caratteri, in modo da esaurire totalmente lo spazio grafico disponibile. Più memoria che diario, quantunque venga così nominato, anche in questo caso, dall’autore, è quello di Carlo Vera38­­­­

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no, un contadino del Ponente ligure (nato nel 1894 a Sarola, nel comune di Chiusavecchia in provincia di Imperia), che confida e affida alle pagine di un italiano sintatticamente traballante, ma sufficientemente disinvolto, tutti gli stupefacenti orrori della guerra appena conclusa, a cui egli è miracolosamente scampato. Tornato dall’inferno, il contadino Carlo sente il bisogno di fissarne i tratti salienti, forse anche per liberarsi dall’incubo del ricordo. Per farlo, probabilmente utilizza e rielabora pagine di appunti presi sul momento, come farebbero pensare le indicazioni cronologiche piuttosto accurate sebbene incostanti, che all’occorrenza segnalano con precisione i giorni e le ore degli accadimenti, anche se non mancano vistose incongruenze, come l’apparente salto di circa un anno dal maggio del 1916 al maggio del 1917. La memoria rimane nei suoi cassetti, a nessuno mostrata, a nessuno fatta leggere, fino alla morte dell’autore, oltretutto celibe e senza figli: non è dunque un messaggio inviato agli altri, un monito o un insegnamento, ma un modo di fare i conti con se stesso, con l’esperienza indicibile dell’orrore appena vissuta. A prima vista, tutto rientra e ricade nella sfera privata dello scrivente. Nessuna ambizione affiora di render pubblici i suoi ricordi, anche se l’esistenza, pure nel suo caso, di una doppia stesura, indica un forte impegno di messa a fuoco, di perfezionamento del testo, un desiderio di completezza e di precisione tale da rendere il documento attendibile e fedele ai fatti. A differenza che nel caso di Pistone, in quello di Carlo Verano né i tempi, né le motivazioni né infine le modalità della scrittura sono esplicitamente dichiarati. Egli non ci dice quando, né esattamente perché, né in quali circostanze si sia dedicato all’esercizio, che per lui dovette essere tutt’altro che facile, di stendere la memoria, e poi di correggerla, infine di riscriverla dandone una seconda redazione piuttosto diversa dalla prima. Per quanto riguarda i tempi della prima stesura, malgrado l’uso del passato remoto (che peraltro non di rado lascia spazio al presente, segno di un andamento originaria39­­­­

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mente diaristico degli appunti di partenza o dell’imporsi a tratti di un modello diaristico di narrazione), alcuni indizi sembrano suggerire una certa prossimità agli avvenimenti appena conclusi: a farcelo pensare è soprattutto il tono della chiusa, che pare voler porre la parola fine a un’esperienza ancora fresca, ancora bruciante, carica di risonanze emotive. Venne quel giorno beato e tanto disiato che sarebbe il giorno del congedo che sarebbe stato il giorno 12 settembre 1919 e quel tenente mi feci tanto i miei auguri che ci cascava le lacrime e mi raccomandò di ricordarlo e di stare sempre allegro e contento. E parto l’acqua scendeva a catinelle ed ero distante dalla stazione due chilometri circa ma l’acqua in quel momento non si temeva e andai lo stesso. presi il treno delle 7 di sera ed arrivai a casa al giorno 14 alle 11 e mezza di notte e feci tutta la mia strada a piedi sino a casa che sono nove chilometri, ma la strada non la vedevo nemmeno dalla contentezza e la mia vita ora riposa un poco da quella vita così triste e penosa com’era la morte sopra ogni momento ma dico la verità e pregherò sempre alla Madonna Santissima dove lei mi ha aiutato e protetto dalle mie sofferenze e pericoli avuti Ringrazio sempre di cuore. Soldato Verano.

Per quanto riguarda il bisogno intimo che spinge l’autore alla fatica dello scrivere, esso va ricercato all’interno stesso del testo: un testo che ci conduce senza preamboli dentro gli avvenimenti, quasi a manifestare lo sconcerto per esser stato preso dentro un ingranaggio di violenza e di morte senza preavviso, senza preparazione, senza giustificazione. Più che un desiderio di testimonianza o un proposito didascalico e morale nei confronti dei posteri, più del semplice e pur presente sentimento della straordinarietà di quanto ha vissuto, che certo lo accomuna agli altri memorialisti, a spingerlo sembra qui il bisogno di mettere ordine nel caos che lo ha circondato. La scrittura appare il mezzo essenziale per introdurre un principio d’ordine nell’orrore del vissuto, rielaborandolo. Cosa resta da fare quando hai visto la disumanità e la follia prevalere, se non fronteggiarle attraverso la narrazione, e più 40­­­­

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precisamente attraverso la narrazione scritta, che ti impegna e ti vincola e ti permette di tradurre nella successione dei segni sulla carta il travolgente e destabilizzante, scomposto succedersi degli avvenimenti: gli assalti da cui è quasi impossibile scampare, la contaminazione dei pozzi avvelenati dalla putrefazione, la convivenza con i morti, la brutalità dell’uccidere e dell’essere uccisi, la violenza spietata e insensata della disciplina? Tocchiamo qui con mano una delle funzioni si direbbe primordiali della scrittura: quella terapeutica, nel senso mentale. E tutto lascia credere che nel caso di Verano proprio questo abbia guidato la mano dell’autore. Anche se di tale principio salvifico e rigeneratore dell’ordine egli offre, in sovrappiù, una sorta di ipostasi nell’idea continuamente richiamata della protezione superiore della Madonna. La scrittura permette di fronteggiare il caos anche perché permette di introdurre, di celebrare in ogni momento l’azione riordinatrice della Madonna che salva e protegge: in questo caso salva e protegge lui stesso, conducendolo fuori dall’orrore come una mano invisibile ma potente, quasi occhieggiante tra le nuvole come in un ex voto. Apparentemente simili ai più comuni esempi di diari o memorie dei fanti sono i quattro quaderni manoscritti lasciatici da un giovane monaco benedettino, Francesco Olivero, in cui il fattore religioso entra in gioco in maniera molto diversa da quella appena richiamata. Lo scrivente appartiene a una famiglia contadina, ma il suo scritto rivela – nell’impianto come nella sintassi e nel lessico – l’accrescimento linguistico e culturale derivante dal percorso di formazione superiore garantitogli dalla scelta monastica. Nato nel 1894 in un piccolo comune del Monferrato, Francesco veste l’abito nel 1912, viene richiamato alle armi nel gennaio del 1915, parte per il fronte il 4 giugno come soldato semplice e muore in battaglia poco più di un anno dopo, il 29 giugno 1916. I suoi quaderni – due con copertina nera e due con copertina tricolore e la scritta a stampa “Avanti Italia”, conservati nella sede dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, casa madre della congregazione a 41­­­­

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cui apparteneva – si presentano come una mescolanza, piuttosto frequente in testi del genere, tra il diario vero e proprio e la memoria, tra la registrazione in presa diretta di vicende via via che esse vengono vissute e momenti più distesi di riepilogo e riflessione di episodi pregressi e conclusi. Essi tuttavia contengono qualcosa di più e di diverso. L’organizzazione testuale appare infatti più strutturata del consueto: la narrazione è suddivisa in capitoli e questi in paragrafi, tutti titolati, e non rispetta in modo regolare la sequenza cronologica, presentando qua e là delle inversioni che fanno pensare al montaggio di precedenti stesure parziali. Infine il testo è corredato da un indice, che funge per così dire da sommario o indice analitico delle materie. Tutto questo sembra rinviare a modelli testuali didascalici o edificanti, come quelli che presumibilmente il nostro scrivente si è trovato davanti nel corso degli studi, in cui le vicende della vita sono esposte in modo da superare la casualità per assumere un significato più ampio, ossia da rientrare in un superiore ordine. E l’ordine morale e religioso a cui esse riconducono è quello della pace (“pacem oliva tulit” recita il motto olivetano che compare in uno dei quaderni accanto allo stemma dell’ordine), una pace la cui violazione conduce agli orrori e alle sofferenze testimoniate esaurientemente dalla pur breve esperienza di Francesco e materia del diario. Il rifiuto, la condanna della guerra, partendo dall’esperienza vissuta e patita dall’autore, assumono un significato universale riconducendosi a un ideale pacifista di ispirazione trascendente. Le atrocità della guerra totale vengono non solo narrate a futura memoria ma anche ad ammonimento perenne in un inquadramento che – pur non scostandosi molto dalla saggezza contadina di altri scriventi – vi aggiunge il portato di una forma mentis influenzata dalla formazione religiosa. Così la condanna della guerra, in uno degli ultimi passi del testo, assume l’andamento di un sermone rivolto a chi la guerra continua a esaltare – ignorandone il carattere aberrante per non averla conosciuta – che egli apostrofa con queste parole: 42­­­­

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tu che passeggi per la grande città, leggendo il giornale perché non hai da fare, e che sei tanto scaldato per la guerra e per le nostre avanzate vieni qua a vedere e ad ascoltare. Sí, i nostri sono arrivati in trincea nemica ma senti che lamenti e che grida di dolore [...] guarda quel ferito alla gamba che si trascina da sé in trincea nostra. Guarda quello come corre con il braccio spaccato da una scheggia di granata. Guarda il capitano che dá da bere a quel ferito che si trova in barella. Guarda quei due che si medicano da sé. Guarda questo poveretto morto per una pallottola alla testa. Chi consolerà i suoi cari? Chi aiuterà la sua famiglia? Questo è il frutto della guerra che tu gridi a squarciagola.

Da ultimo, tra le scritture di guerra possiamo includere le vere e proprie autobiografie, in cui spesso la guerra occupa un posto preminente. Anche in questo caso è difficile evocare testi esemplari in cui la forma autobiografica, nettamente distinta da quella di una memoria, si presenti allo stato puro, relegando perciò la guerra, per “grande” che sia, a un momento fra i tanti di un lungo percorso in cui a contare è prima di tutto il personaggio del protagonista. Tra i più noti, certamente quello già citato del siciliano Vincenzo Rabito. Vincenzo è un “ragazzo del ’99” la cui personalità e soprattutto la cui vena narrativa sembrano però espandersi ben oltre la matrice testimoniale legata alla memorabilità dell’esperienza di guerra, che abbiamo fin qui richiamato come principale motivazione alla scrittura diaristica e memorialistica dei fanti. Di certo, il piacere di raccontare gli è per così dire connaturato, e non a caso esso sfocia nell’imponente, torrenziale autobiografia. Ma già a partire dal tempo di guerra si manifesta e viene apertamente dichiarato, enunciato come un piacere superiore all’orrore delle cose raccontate, che pure egli non esita più volte a paragonare all’inferno. Nessuna pena è abbastanza grande, né così priva di un lato ironico, drammatico o stupefacente, da non giustificare, anzi da non reclamare la narrazione. A patto di rimanere vivo, naturalmente, condizione del raccontare stesso, per il momento in forma orale, come dice in un passo del suo esilarante testo: “Perché amme 43­­­­

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mi piaceva di fare la querra e magare sofrire assai, ma restare vivo, che poi quando si n’antava concerato [congedato] raccontava queste fatte di querra”. E ribadisce, immaginandosi al posto del fratello mutilato ma vivo: “mi piacesse di essere ferito come Ciovanni, e cosi, alla fine, contasse [raccontarsi] tante cose di querra”. Quello di Rabito è un racconto picaresco, che mescola epico e comico, incentrato sulla rappresentazione di sé come un misto tra briccone e ingenuo, che se la cava di fronte a tutte le prove della vita e alle situazioni difficili grazie alla sua sfacciataggine, alla battuta pronta, alla mancanza di scrupoli. Così è anche nella guerra grande, che egli riduce alla portata della sua vena e del suo registro narrativo. Affrontata con la paura reverenziale di un ragazzo quale lui è, inesperto e indifeso, che però impara presto a districarsi dalle situazioni difficili, mettendo a frutto l’esperienza dei più anziani, passando attraverso l’inferno della trincea senza perdere lo sguardo disincantato, il senso della comicità sferzante e il buonumore.

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Le dimensioni della guerra Per i nostri protagonisti, uomini e donne, al fronte e nelle retrovie, la guerra è un evento totalmente al di sopra della loro portata, al di fuori e oltre le loro possibilità di comprensione e soprattutto di controllo. Comincia per ragioni imperscrutabili, li coinvolge secondo logiche che loro sfuggono, prosegue per una durata che a un certo punto appare illimitata, termina quando meno lo si aspetta, quasi all’improvviso, anche se poi ci vorrà dell’altro tempo prima di tornare a casa. È un evento che li sovrasta, dal quale non si può far altro che tentare di difendersi, di ripararsi, possibilmente di sottrarsi, anche con mezzi estremi come le diserzioni, le autolesioni e le simulazioni di pazzia, tutti eventi ai quali per lo più si allude con giri di parole senza nominarli. E poi solo sperare, raccomandarsi a Dio, pregare, sopportare, imprecare talvolta, ma sapendo che tanto non serve a nulla. È questo potente sentimento di sottomissione a un meccanismo inesorabile a dominare la prosa contadina di guerra, soprattutto nelle lettere, ma spesso anche nelle altre forme testuali. In questo senso quella è, per tutti loro, una guerra grande, che irrompe nelle loro esistenze, nella vita quotidiana, la sconvolge, la rimodella per un tempo che non sembra prevedibile. Il sentimento dell’imprevedibilità, dell’impossibilità di sapere prima dove si verrà spostati, se si passerà dalle retrovie alla prima linea o viceversa, se si potrà usufruire di una licenza, se si verrà finalmente congedati, domina la corrispondenza dei soldati con i propri congiunti. 45­­­­

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In secondo luogo la guerra è grande in ragione della sua durata, in quanto evento che sembra non finire mai. Essa si protrae ben oltre il succedersi delle stagioni, il trascorrere degli anni, il ritorno delle feste patronali e delle altre ricorrenze che nella società contadina scandiscono il tempo. E la durata appare potenzialmente illimitata perché si avverte che nessuna volontà, nessun soggetto, capo militare, uomo di governo o Stato è in grado di farla terminare. Anche i soldati semplici manifestano quel dubbio che nella società europea affiora soprattutto a partire dal 1917: ci sarà mai qualcuno capace di placare l’incendio come c’è stato qualcuno che è stato capace di scatenarlo? In terzo luogo la guerra è grande per la sua smisurata capacità di annientamento, per le sue dimensioni industriali, per il carattere seriale della sua produzione di morte. Questa annotazione non appartiene soltanto alla letteratura colta, alle pagine di intellettuali come Barbusse o Remarque, Céline o Freud, Jünger o Zweig, ma affiora con pienezza di significato nella prosa contadina. I nostri testimoni avvertono chiaramente che c’è qualcosa di nuovo nel meccanismo distruttivo della guerra, che la sua voracità non ha limiti e che forse questo avrà l’effetto di desertificare il mondo. La morte di massa che essi colgono come il nuovo prodotto della guerra totale non è solo un dato oggettivo. È prima di tutto l’esperienza vissuta degli assalti e dei bombardamenti dove la carne umana viene dilaniata e macellata, si confonde con la materialità senza vita delle cose, si frantuma e si disperde in brandelli e frammenti senza identità. E dove avviene una trasformazione dell’uomo assuefatto all’aggressività belluina, quasi in preda a un raptus sanguinario. Anche nella prosa scanzonata e spavalda del siciliano “inalfabeta” Vincenzo Rabito irrompe ben presto, dopo i primi scontri, questa guerra smisurata, tragica ed oscena degli assalti forsennati, dove ogni cosa perde il suo volto riconoscibile e umano. Anche nella sua autobiografia entra, come nei testi di quasi tutti i memorialisti che abbiano conosciuto 46­­­­

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direttamente la prima linea, l’esperienza della terra sconvolta dai bombardamenti. “E compuro [sebbene] che c’era la nebbia – dice quando partecipa alla sua prima battaglia per la conquista di monte Fiore, sulla scia di un battaglione di Arditi – si vedeva che il monte era rosso. E tanto romore che se senteva di bombe e cannonate, e poi che li cride e il pianto si senteva di dove era io e il calabrise. E la terra tutta tremava, e io e Ciampietro [il compagno calabrese anziano che gli fa da guida] tremammo come tremava la terra, perché avemmo troppo paura. Amme mi pareva una festa, – aggiunge, proponendo un paragone ironico ricorrente nella prosa dei fanti contadini – a guardare quel monte, perché aveva visto tante fuochi alte uficiale [fuochi artificiali]”; “di notte si vedevino li monte – aveva già notato nell’avvicinamento all’area del combattimento –, che annoi ni pareva che doveva fare malotempo, e invece erino le cannonate che lampeciavino e si sentevino li tuone”. Echeggiando così, senza saperlo, un’annotazione della Montagna incantata di Thomas Mann: “Il tempo in realtà non ha suddivisioni, non ci sono tempeste, non v’è rumoreggiare di tuoni all’inizio del nuovo mese o del nuovo anno, e anche a quello del nuovo secolo: siamo soltanto noi uomini che spariamo e tuoniamo”. Ma soprattutto nella sua prosa entra subito la visione della morte seriale, di massa, esorbitante, ridondante: i cumuli di cadaveri, la contaminazione, la promiscuità coi corpi in decomposizione. “Così, venne l’ordene di avanzare anche noi, e antare in quello Monte Fiore pieno di catavore [cadaveri]. Povere descraziate, quanto ni morevino! [...] che prima di arrevare al monte, caminanto caminanto, di quanto morte e ferite che c’erino, non avemmo dove mettere li piede”. Vincenzo Rabito non tarda dunque a cogliere, come effetto su di sé – e di tutti i ragazzi del ’99, come lui appena arrivati – di questa esperienza estrema, una metamorfosi, un processo di brutalizzazione, fatto di assuefazione all’uccidere, allo spettacolo e al contatto quotidiano con i morti. Una volta conquistata la trincea nemica, a lui e al suo reparto zappatori viene affi47­­­­

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dato il compito “di sepolire muorte”. “E cosí, amme, tutta la paura che aveva, mi ha passato, che antava cercando li morte magare di notte, che deventaie un carnifece. Impochi ciorne sparava e ammazava come uno brecante, no io solo, ma erimo tutte li ragazze del 99, che avemmo revato [eravamo arrivati] piancendo, perché avemmo il cuore di picole, ma, con questa carnifecina che ci ha stato, deventammo tutte macellaie di carne umana”. Infatti ammette poco più oltre, riprendendo per un momento la sua ostentata spavalderia: “E menomale che in certe tasche delle morte austriece ci trovammo una scatola di trenciato per fare sigarette e fumare, e magare qualche scatola di carne”. E conclude, segnalando con eccezionale precisione il processo di straniamento, di disumanizzazione ormai subito, quasi un passaggio antropologico di status: “Tutte erimo redotte senza penziero, erimo tutte inrecanoscibile, erimo tutte abandonate del monto [abbandonati dal mondo, ossia usciti dai confini del mondo umano]. Il tema ritornerà con forza più avanti, in una fase ulteriore della sua esperienza di combattente, una volta passato al rango di ardito, in una delle ultime battaglie della sua guerra e di tutta la guerra, la controffensiva italiana dell’autunno del 1918. Qui, nel corso di un feroce assalto, durante il quale gran parte dei soldati perde la vita, Rabito osserva con stupore il compiersi totale della metamorfosi che da giovane pietoso lo ha fatto diventare un vendicatore assetato di sangue. Ecco come racconta l’irruzione sua e dei suoi nella trincea nemica, dove si sono a lungo annidati i micidiali cecchini, con un evidente riferimento a esperienze tipiche della civiltà rurale e al suo rapporto con gli animali: “Perché noi, quelle che per fortuna ancora erimo vive, arrevammo nella sua posizione con la scuma nella bocca come cane arrabiate. E tutte quelle che trovammo l’abbiamo scannate come li agnelle nella festa di Pascua e come li maiala. Perché in quello momento descraziato non erimo cristiane, ma erimo deventate tante macillaie, tante boia, e io stesso diceva: ‘Ma come maie Vincenzo Rabito puó essere diventato così carnifece in quella matenata del 28 ottobre?’ Che io, durante 48­­­­

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tutta la querra che aveva fatto, quanto vedeva a qualche poviro cechino ferito, se ci poteva dare aiuto, ci lo dava. Ma in questa mattina del 28 ottobre, ero deventato un vero cane vasto [guasto], che non conosci il padrone”. E conclude, segnalando un folgorante paradosso nel quale condensa il suo sentimento della guerra: “che fu propia in queste sanquinose ciorne che mi hanno proposto una medaglia a valore miletare...”. È la degna conclusione di una pagina nella quale Vincenzo ha appena tracciato una delle più terrificanti scene di assalto della sua autobiografia e della letteratura di guerra in generale. Le grida “Avanti Savoia”, i carabinieri schierati alle spalle pronti a colpire gli arretranti, l’avanzare col pugnale nella mano e il tascapane pieno di bombe, i lanciafiamme in azione, le poche centinaia di metri sotto il fuoco nemico, in mezzo al filo spinato e alle trappole, il ruzzolare delle pietre, tre soldati morti ogni cinque, il dominio del caos e della crudeltà. Un trionfo della morte, una festa danzante di folli e di belve feroci: “E cosí partiemmo, che paremmo uscite dal manicomio, perché erimo deventate tutte pazze”.

Nelle retrovie Demetrio D., detto Luigi o Luigin, è un contadino dell’estremo Ponente ligure proveniente da un comune montano di poche centinaia di abitanti, Cosio d’Arroscia in provincia di Porto Maurizio (oggi Imperia). È sposato con Agnese G., da cui ha quattro figli. Nato nel 1880, viene richiamato in servizio presumibilmente allo scoppio della guerra o subito dopo, visto che la prima lettera alla moglie è datata 2 giugno 1915, ed è inquadrato come caporale nella milizia territoriale. Passa dunque un lungo periodo nell’interno, in particolare a Genova e nel comune industriale limitrofo di Sestri Ponente, dove svolge diversi compiti tra cui la custodia di prigionieri austriaci e la sorveglianza di stabilimenti. Solo a partire dal marzo del 1917 conoscerà l’esperienza del fronte, sia pure per periodi non lunghi intervallati da diversi ricoveri 49­­­­

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in ospedale e convalescenze. Ci soffermeremo ampiamente più avanti sulla natura dei rapporti strettamente personali tra Demetrio e sua moglie e sul ruolo di quest’ultima. Qui prendiamo in considerazione lo sguardo del caporale sulla “guerra grande”, sguardo che non coincide con quello di coloro che vivono una prolungata esperienza della linea del fuoco, non è esposto agli stessi rischi e ha opportunità diverse, per esempio quella della regolare lettura dei giornali. Pur filtrata dagli stereotipi della propaganda, la sua immagine della guerra è quella di un evento fuori dell’ordinario, che sta sfociando in un immane macello. Egli prevede che tutto questo procederà a scapito esclusivo del nemico: “Acuello che dice igiornali, se diranno laverita, pare che inquesta primavera cisie una buona speransa perla ultimasione della guerra; perche la Francia, e la Russia si fanno molto coraggio contro i Tedeschi; sitratta che inpochi giorni la Francia solamenti abbia uciso 50 milla Tedeschi senza [contare] iferiti, e prigionieri; e naltretanto afatto la Russia; e per questi casi se tutto è vero, si spera che presto finirà questa cativa pantomina” (lettera del 9 marzo 1916). Egli sembra intuire come il conflitto sia ormai una sorta di macchina di distruzione in serie delle vite umane, rimpiazzate a getto continuo, come in una catena di montaggio che tuttavia non potrà andare all’infinito, a meno che non si pensi di produrre automi, esseri inanimati capaci di condurre la guerra al posto dell’uomo: “se è vero quello che dice i giornali; li perfidi Tedeschi sono incative condissioni si tratta che ni debba morire dieci milla tutti i giorni, soltanto sotto il fuoco Francese; e quindi per questo tengo buona speransa, che impochi mesi debba finire questa guerra. Non importa che chiamino sempre uomini sotto learmi, perche ormai la mobilitasione la vogliono chiamartutta ma per questo motivo non è posibile chedebba continuare la guerra; ecettuato se itedeschi fanno gli uomini di legno, che di quelli non si avrebbe paura” (lettera del 18 marzo 1916). La spropositata distruttività della guerra – arguisce Luigin – pone limiti alla sua durata. Perciò egli razionalmente re50­­­­

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spinge l’idea che essa possa prolungarsi oltre un certo limite. “Mia cara – scrive alla moglie il 25 aprile del 1916 –, non credere alle chiacchere che fanno in Cosio, dicendo che laguerra finirà del 1918 perche non è posibile; se avesse mai dadurare ancora tanto tempo come dicono, almodo che ogni giorno se neamassa [se ne ammazza] tanti nonci resterebbe neanche più le pietre al mondo”. Sotto gli effetti della propaganda (egli accenna più volte ai giornali come sua fonte di informazione), considera il massacro dei “tedeschi” come condizione necessaria per raggiungere la sospirata pace, perciò si augura “che doppo tanti mesi di tribulasione si potesse arivare a quel benedetto giorno da tutti desiderato [...] però prima di arivare aquei punti danoi desiderati, il teretorio Tedesco deve comparire roso di sangue e coperto di cadaveri” (lettera del 4 maggio 1916). L’idea di una guerra troppo grande, cioè troppo costosa, troppo distruttiva per durare a lungo torna spesso nei suoi pensieri di rassicurazione. Cosí nella lettera del 6 febbraio 1917, manifesta la “buona speransa di ritornare tranquillo perche credo che tanto una nassione come l’altra non avranno volonta di sacrificarsi tutto il suo esercito; e devono pensare che dopo si citrova troppe spese da pagare”. Tanto lui come la moglie inseguono le voci ricorrenti sulla fine della guerra, le notizie che transitano sui giornali, le dicerie, le previsioni più o meno attendibili. La guerra è avvertita da entrambi come un fattore di disordine e di sofferenza e l’unica cosa che a entrambi interessa è che tutto questo finisca, che si ricomponga l’ordine originario. Luigi si affretta a cogliere sullo scenario internazionale ogni minimo indizio positivo: sono contento – scrive alla moglie il 13 giugno 1916 – dilegere questi giornali e di, sentire le buone avansate che fanno inaustria inostri aleati Russi. Si sa, e sie certi che impochi giorni la Russia ha preso Prigionieri, Austriaci il numero di Cento Milla e seicento setanta prigionieri, senza [contare] imorti, e feriti Parechie centinaia di cannoni, e 40 treni, carichi di Mitragliatrici, e altri materiali da 51­­­­

In questa e nelle pagine successive  Pagine e frammenti di lettere di Demetrio D. alla moglie Agnese, di quest’ultima al marito, e pagina di un’agendina utilizzata da Demetrio D. per appunti diversi, che lui chiama “libretto”, Epistolario Demetrio D., Archivio ligure della scrittura popolare, Genova.

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guerra. Sta pur siqura che se sivà avanti di questo passo inpochi giorni la Russia riesce aragiungere i nostri Italiani sul Trentino, è alora si potra dire che la guerra e terminata.

Ma la fine della guerra appare un traguardo problematico, che solo qualche accadimento imprevedibile potrebbe propiziare: “così presto fosse finita – scrive Agnese in risposta il 16 giugno 1916 – questa tribulatrice di guerra che perme è un maldicuore se durasse ancora molto tempo ma speriamo che Iddio ne aiute un corpo [colpo] di mano speriamo sempre bene poi faremo quello che dio vora”. L’attenzione di Luigi è sempre vigile anche sui segni di difficoltà del fronte interno. Il 15 settembre del 1916 registra ad esempio le notizie circolanti sulle manifestazioni contro la guerra in atto in diverse città. Nella cittadella operaia di Sestri Ponente dove attualmente si trova, gli echi di fenomeni di insubordinazione sociale sono evidentemente molto forti. “In diverse Cita si sente dire che fanno dei gran scioperi, per acarmare [calmare] questa Guerra; preciparmente a Roma Si tratta che ci sia stato piú di cinquanta milla persone sotto il Palasso Reale, che gridavano abasso la Guerra è ora di finirla. Anche qui in Sestri domani sabato si tratta che ci sia dei tomulti per questi riguardi, che cosa socederà, non lo so”. Inoltre ripone nuove speranze nel profilarsi dell’intervento statunitense: “Adesso esce anche i Stati uniti, per vedere se possono agiustare questa pace” (lettera del 6 febbraio 1917). E nella lettera successiva: “Ora pare che anche i Stati Uniti abiano volonta di andare anche essi contro Laustria, e Germania; e se per caso socede questo, alora siamo siquri che non passa 4 mesi che la guerra è finita sensa combatere. Perche i Stati Uniti fanno 22 nassioni e quindi i Tedeschi ci tocca acedere per forza. Cianno già preso parecchie navi, e quindi si conoscie che anno volonta di far finire questa storia che ormai tutto il mondo è stuffo” (12 febbraio 1917). Le voci della prossima fine si infittiscono nella primavera del 1917 di conserva con le notizie sulla stanchezza delle popolazioni e degli eserciti. 52­­­­

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Nel sentire – dice Luigin in una lettera del 16 marzo – da voci, di buone e grande persone pare che nella prossima primavera si debba finire questa storria, e per questo tentano un colpo decisivo, e quasi siquro; e quindi tengo buona speransa; fuori [salvo] disgrassie, di essere liberato prima di S. Pietro [la festa patronale]. Ormai le Nasioni sono stanche, e vedono che anche la poppolassione mormora contro questo disastro, e quindi si sono decisi di dare l’ultimo colpo dicisivo. Coi preparativi che hanno fatto le potense aleate, sarà dificcile che i Tedeschi posano afrontarle; e quindi si spera presto la fine.

Le annotazioni dei coniugi registrano un’altalena di speranze e previsioni fosche, di attese e disillusioni, di voci più o meno fondate su indizi sconfortanti. La guerra è un flagello, un “crodele masacro”, un “masacro straordinario”, come la definisce lui nelle lettere del 1 luglio 1916 e del 12 gennaio 1917: “dio desse la fortuna – scrive a sua volta Agnese dopo aver dato al marito la notizia di un altro paesano morto al fronte e di numerosi feriti – che potesse terminare presto questa benedeta querra ma opaura che prima che sia terminata ciresteranno [rimarranno uccisi] tutti” (27 giugno 1916). Dall’osservatorio del paese, dove ogni risorsa, uomini e bestie, viene progressivamente requisita per alimentare il conflitto, la percezione del disastro appare ancor più chiara. Agnese commenta così il richiamo di sempre nuove classi, di cui si vedono ogni giorno i riflessi nella comunità per la mancanza di braccia: “poveri noi come si fara unaltrano saremo ridoti amorire tutti di fame per questa benedeta querra ma tutti parlano che farà una crossa durata... tutti non siposono levar din [dalla] testa che durera ancora due o 3 anni” (lettera del 4 luglio 1916). La conquista di Gorizia suscita nuove attese: Riguardo alla presa di Gurizzia ormai siamo siquri – commenta Luigi sempre da Sestri Ponente – e nonostante inostri soldati continuano avansare, e afare prigionieri Austriaci. Anche la nostra Cavaleria ormai apreso parte a l’aspro combatimento, e comincia benissimo aspingere il nemico indietro. Finora ciera poco dasperare, perche Gorizzia era proppio fortificata così; isuoi aspri monti, ma ormai il 53­­­­

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più brutto è finito e dunque ormai si può sperrare benissimo che impoco tempo la Guerra deve terminare (lettera dell’11 agosto 1916).

Col prolungarsi della ferma di Luigi e col suo passaggio alla zona di guerra le speranze cedono il passo a un atteggiamento più scettico e disilluso: “questa è una guerra, che non sene può acapire più nulla, e quindi bisogna vivere sempre con buona sperannsa, e pregare alla buona fortuna che cisalvi una luce divina” (lettera di Luigi, 28 maggio 1917). “Nonpuoi immaginarti mia cara – scrive alla moglie il 26 dicembre 1917 in preda all’esasperazione, benché sia tornato definitivamente nelle retrovie – come son stufo di questa vita; e non finisce mai mai, e mai; e non si può acapire quando finira [...] il mio cuore trema; e bate pensando ai tristi momenti inqui [in cui = che] atraversiamo; sensa saperne la fine. Speriamo al bene; e faciamoci sempre coraggio; che se ha avuto principio; avra anche la fine”. Ma solo debbo dirti – ribadisce il 17 gennaio 1918 – che il mio quore è sassio [sazio], e stanto [stanco] di sofrire, e soportare questa vita distante dalla cara famiglia e sensa sapere quando sipossa ottenere il termine di questa storia, da potersi unire fra noi, e bambini, e godersi la cara felicità. Son contento di sentire che la povera Angiolina [la figlia nata durante il servizio] comincia achiamar madre; e padre; ma io non lasento; e essa non mivede e nepure mi conosce; che brutti dolori pasiensa.

La separazione forzata dalle gioie ma anche dalle fatiche domestiche, lo stato prolungato di dipendenza e di inazione a cui la ferma militare lo costringe, a un certo punto sembra generare in lui un sentimento di impotenza che intacca il ruolo direttivo e preminente sempre mantenuto pur nella lontananza rispetto alla famiglia. Se altre volte era lui a dettare alla moglie i comportamenti, a indicarle le iniziative da prendere, a sollecitarla, ora il rapporto si è invertito. All’alba del 1918, Luigi non ha più energie per lottare contro le circostanze avverse: “Cara Moglie, la tua idea è buonissima 54­­­­

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al riguardo delle carte che ai volonta di fare per un congedo provisorio, ma cara! io ciò poca fiduccia per questo speriamo che latua volonta possa portarci buona fortuna; ma perme, cara; ciò poca speransa; saraben dificcile, che inquesti tempi mi concedino questa fortuna; basta! fa pure tutto quello che puoi; e metici tutta latua abilità, che se riesci, a far questo, io posso dire, che midai la vita! e posso ringraziarti”. Di questo suo stato melanconico e depresso abbiamo esplicita conferma nella lettera successiva (6 febbraio 1918), dove Luigi riflette sull’espressione involontariamente cupa rimastagli nelle fotografie che invia ad Agnese, ancorché esse continuino a dar prova della sua buona salute fisica. Ne viene fuori uno straordinario autoritratto: Anchio finora godo perfetta salute come puoi credere vedendo le mie pietose fotografie che tiò mandato. Era proppio indisposto a mandartele avendo visto dame stesso che sonrimasto troppo serrio; ma però non devi spaventarti di questo. Non posso in questo momento spiegarti il motivo della mia malinconia ma se avrò la fortuna di venire acasa, alora potrò benissimo racontarti il difetto della mia serenita. Tanto per dartene un idea! Questo dipende dai dizaggi [disagi], che hò passato sul Carso ecco; il motivo inqui [in cui = che] miá reso il mio sguardo troppo serio. La mia bella legressa [allegria]; i miei occhi ridenti; il mio quore tranquillo;? Sai quando ritorneranno? Apena verà il giorno inqui potrò essere altuo fianco acerchiato dai cari nostri bambini e vechi; e che saprò dinon ritornare più sotto questa vita, non sicura. Al’ora ritornerà dinuovo tutte lemie fortune Imiei occhi diventeranno brilanti, il mio pensiero sará felice il mio quore si coprirà di gioia per sempre.

Finalmente, nell’estate del 1918 Luigi avverte che la situazione sta prendendo una piega favorevole alle potenze dell’Intesa e che le potenze centrali sono vicine al collasso. Cara Moglie – le scrive il 20 luglio, dopo essere rientrato dalla zona del fronte al servizio territoriale nei pressi di Genova – tiracomando di non impaurirti di questa guerra; perche io, come tiò sem55­­­­

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pre scritto, e ancora te lo reprico [replico, ripeto], io tengo buona speransa, che finisce più presto che non si crediamo; salvando sempre che sia vero quello che io trovo sui giornali. Solamenti la Russia; dai primi di Giugno, al 12 Luglio affatto prigionieri; venti nove, milla; Ufficciali, e un milione di soldati tutti, austriaci e Tedeschi e, dal 12 Luglio, a questa mattina, si fa naltra bella nota di 18 ml, 442 Tra soldati e uficiali E poi bisogna carcolare che per prendere tanti prigionieri bisogno farsi una idea che altretanti di questi numeri, ci debbono essere tra morti; e feriti, e dunque guarda, se questi Tedeschi possono resistere ancora tanto senza rendersi bisogna che si rendino per forsa. Unaltra bella botta cela data la Francia; e unaltra cela data L’inghilterra e qualche cosa fà anche Litalia, e continuano tutte queste Potense adestrugere lo stesso nemico, e dunque per forsa bisogna che, cede[.]

Torna l’immagine che accosta la morte su scala industriale prodotta dalla guerra meccanica all’ipotesi paradossale di una produzione in serie di soldati finiti, come unica condizione perché la guerra stessa possa prolungarsi. “Dunque – prosegue – come ti dico, mia cara se non sono falsità, che raconta questi giornali, ben presto deve finire questa storia; ameno che; le donne Austriache non partoriscono giorno, e notte soldati; già belli vestiti, e col fucile inspalla questo poi, non potrà socedere”. L’atteggiamento del nostro caporale di fronte alla guerra è quello tipico della popolazione rurale: una totale indifferenza nei confronti delle ragioni del conflitto e insieme una radicale opposizione dovuta al fatto che la mobilitazione costituisce un danno materiale e lavorativo gravissimo, è fonte di disagi e determina un aggravio di condizioni per chi rimane a far fronte alle necessità della campagna. Luigi è preoccupato che ne risenta la salute della moglie. “Riguardo a quello chetu miscrivi – dice in una lettera del 24 luglio 1915 – tanto di campagna, e come di vino e, pure delle giornate; ti prego di non far più di quello che puoi per che io sò tutto apieno quel che civuole e o già fatto ilmio conto di quello che mi costa la gran vile chiamata dime sotto le armi. Prenditi pazienza e datti cura alla salute 56­­­­

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e ai ragassi, che io di qui non tiposso dir nulla, apena avrò la fortuna di venire acasa agiusteremo tutto secondo il nostro interesse”. La parola “vile” riferita alla chiamata alle armi gli viene suggerita dal pensiero di quanto la mobilitazione gli costi in termini di denaro e di fatica per la moglie. Un’altra volta manifesta i suoi sentimenti di estraneità alla guerra, esprimendo il timore di essere mandato a combattere anziché lasciato nell’interno dove si trova: “Vedrai che prima di finire la guerra prenderanno ancora l’altra vacca questo sarebbe il meno, mi rincresce [mi dispiace] che prima che sia finita mi tocherá anche ame, andare a visitare quelli maledetti Austriachi”. Il suo risentimento si indirizza contro gli Austriaci solo in quanto per causa loro toccherà anche a lui andare ad affrontare i rischi della battaglia. In qualche caso denuncia la condizione di assoluta dipendenza del soldato, la mancanza di rispetto dei suoi diritti elementari. Alla vigilia dell’epifania del 1916 si esprime così: “siamo sotto una cattiva famiglia [allude all’esercito] non posiamo farsi valere le nostre ragioni perche; la ragione del soldato è depinta sotto la suola delle scarpe” (lettera del 4 gennaio 1916). Più avanti, il 12 luglio del 1916, esasperato dal vedersi negato il diritto alla licenza agricola, sospettando favoritismi, eromperà in un’invettiva di stampo confusamente classista, rara nei toni e ancor più sorprendente a confronto con la sua abituale moderazione e inclinazione alla pazienza, indizio di un’insofferenza compressa e latente, ma pronta a esplodere, diffusa nei ceti contadini che dalla guerra si sono visti portare via tutto. Vale la pena di citarne un lungo brano: Abenche io debba sofrire di rabbie e di cative ingiustizzie sotto questa perfida vita male organizata dai nostri comandatori, che sono capaci afare di tutto cetuato [eccettuato] che del bene preciparmente al basso poppolo contadino; che siamo quelli che li manteniamo al potere. [...] Ma spero che presto verra quel giorno da straparmi dequeste catene infame, e alora verá il momento di spudare in faccia a qualcheduno. Ormai che isignori delle belle pianure, anno finito di racogliere il suo grano, e che tutti anno avuto la sua consolante licenza deve proppio ora scoppiare lordine di chiudere queste li57­­­­

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cenze; ma perrò sempre per noi montagnari; che gli altri citadini continuano andarci Da chi dipende questo? dai nostri comandatori che abbiamo nella nostra provincia, che non si oqqupano di fare dei ricorsi dove merita di farli, per questi riguardi; e la seconda colpa è dei nostri Comunisti che ne anche loro siprendono qura di farcelo sapere quello che socede, nei paesi di montagna. Siamo soltanto buoni Alepuca [all’epoca] delle votassione, che vengono aprendere alle buone, perche si cidia [ci si dia] il voto, da poter rientrare al potere, e alora quando sono a suo piacere; noi zappa terra siamo subito dimenticati. Non cisiamo solo noi di Cosio che non abbiamo avuto questa licenza, ci sono la miglior parte dei picoli paesi che sono rimasti indietro. Perche come dico; noialtri montanari siamo buoni soltanto, per votare, e per costituire dei buoni alpini, per mandare a difendere la patria; ma per ottenere dei favori da qurare le nostre famiglie, alora siamo dimenticati.

Il risentimento sociale, innescato dalla questione della licenza prima ritardata e poi negata, interpreta gli umori della campagna e della montagna povera contro la città e la ricca proprietà di pianura, dei piccoli proprietari contro i notabili, del popolo rurale contro il ceto politico, anche quello che pretende di interpretarne le istanze (da notare in questo senso il precoce, inaspettato comparire di un termine come “comunisti”, che si supporrebbe entrato nel vocabolario corrente dei ceti semiletterati solo più tardi, almeno dopo l’ottobre del 1917). La lettera di Luigin ci permette così di gettare uno sguardo oltre la superficie di coesione garantita dai rapporti di paternalismo e deferenza particolarmente visibili al livello delle piccole comunità, nelle tensioni che la guerra ha generato nel tessuto sociale, sottoponendo la popolazione a uno sforzo enorme non ripagato da chiari segni di compensazione egualitaria, al contrario esasperato dall’evidenza di antichi, ribaditi privilegi. La preoccupazione maggiore del nostro caporale consiste nell’evitare l’invio al fronte e, nel caso deprecabile che questa eventualità si verifichi, nell’evitare la prima linea. Il 20 gennaio 1917, dopo che da qualche tempo si sono infittite le voci 58­­­­

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sul prossimo trasferimento, esorta la moglie a “pregare, che se avesse la disgrazia di dover andare al fronte; di poter ritornare sano e salvo, come si spera Se a caso il destino volesse darmi quel crodele viaggio; cercheró tutti i mezzi posibbili di non lasciarmi mandare acombatere. Tengo buona speransa di quello che dice inostri Uficciali; che si andrà inzona di Guerra ma non a combattere; noi faremo altri lavori”. Il 16 marzo le scrive: “ma pure ormai debbo dirti che per nostra disgrasia fra pochi giorni siamo di partensa, nel sentire da nostri Uficciali, pare che entro questo mese dobiamo partire, ma non posso asiqurarti il giorno. Ti racomando di farti coraggio, e di non pensare male abenche abbia da partire, perche noi non andiamo acombattere, se noné proppio uncaso ecesionale”. Lo ripete nella lettera successiva, del 31 marzo, in cui dà notizia della partenza, dice di non sapere quale sia la meta, si augura che sia il Trentino e che non sarà chiamato a combattere, “salvo uncaso ecesionale. Ma – aggiunge – se a caso avrò la disgrassia di dover combatere saprò benissimo cercare il modo di salvarmi la vita”. La sorte gli sarà propizia. La permanenza al fronte sarà piuttosto breve, perché la malattia (a quanto pare febbre malarica) lo riporterà presto nelle retrovie, suggerendogli il seguente commento lapidario: “Pero inquesti momenti, si sta meglio ammalati alospedale; che sani al fronte” (lettera del 21 maggio 1917). Conoscerà il Trentino, ma anche il terribile Carso, sia pure per poco, quanto basta però per averne un ricordo terrificante: “spero di rimanere qui – scrive da Modena dopo la guarigione l’11 ottobre 1917 –. Si; cié molto servissio, quasi non cié nemmeno tempo ascrivere; maperò meglio che sul Calso si sta sempre; maledetto a quel posto”.

Guerra senza fine Vittore B. è un contadino piccolo proprietario della provincia parmense, originario di Masanti, un comune montano situato sul crinale appenninico tra l’Emilia e la Liguria. Si tratta di 59­­­­

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una zona povera, che ha conosciuto movimenti migratori di grande intensità, soprattutto legati all’esercizio di mestieri girovaghi come quelli degli ammaestratori e conduttori di animali per spettacoli di strada allestiti nelle contrade di mezza Europa. Anche Vittore ha cercato per qualche tempo nella migrazione all’estero un incremento alle sue risorse, infatti lo scoppio della guerra europea lo vede in Francia, a Boulogne Billancourt nei pressi di Parigi, dove si trova da qualche tempo con la famiglia e dove esercita il mestiere di spazzacamino. L’avvio del conflitto spinge evidentemente Vittore e i suoi a tornare a Masanti, dove infatti il 24 ottobre nasce la terza figlia, Margherita. Meno di due anni dopo, nel luglio del 1916, sarà anche lui afferrato dal processo di mobilitazione e verrà richiamato alle armi. Quando parte per i luoghi dell’addestramento in Friuli, Vittore ha trentadue anni e da undici è sposato con una compaesana, Maria, che porta il suo stesso cognome anche prima di sposarsi (un fatto tutt’altro che infrequente nelle piccole comunità) e di anni ne ha trentasei. Da lei ha avuto fino a quel momento tre figli, ossia Antonio nato nel 1911 e quindi di circa cinque anni, Enrico di tre e, come abbiamo detto, Margherita che ne ha due. Antonio ed Enrico sono nati entrambi a Parigi, segno che l’esperienza migratoria della famiglia datava almeno dal 1911, anche se non era stata ininterrotta e aveva alternato separazioni e ricongiungimenti: tant’è che nel maggio del 1914 una lettera di Vittore chiede a Maria, in quel momento a Masanti, di raggiungerlo in Francia, cosa che avverrà di lì a poco. Nel 1916 nasce Vittorina e più tardi verranno altri due figli: uno che porta il suo nome, Vittore, nato nel 1918 ma morto nello stesso anno a pochi mesi, ed Edoardo, nato a guerra finita, nel 1921. Una foto di epoca più avanzata, probabilmente gli anni Trenta, mostra l’intera famiglia salvo Antonio, colta nell’immobilità di una posa molto rigida, piena di dignità e di forza, il padre al centro, simbolicamente asse portante del gruppo, la madre seduta in attitudine di modestia e con i segni delle fatiche affrontate. 60­­­­

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Vittore scrive la prima lettera a Maria quando è appena partito e si trova a Parma, non molto lontano dal luogo di residenza. “Cara moglie ti fo sapere che domani mattina alle ore tre partiamo per Gemona ci vuole 22 ore di treno e mianno messo nellottavo Regimento e dudicesimo quadrone e mi trovo insieme a figlio del Piero di scopoli ma addiamo tutti a Gemona” (30 luglio 1916). È l’inizio di una separazione che durerà, salvo brevi licenze, fino all’inizio del 1919, e che pesa subito molto a Vittore, indipendentemente dalla natura delle fatiche e dei rischi cui va incontro, le prime subito notevoli, i secondi per il momento modesti. È lui stesso a dircelo, dicendolo alla moglie con il ricorso a iperboli che surrogano la disponibilità di un linguaggio letterariamente elaborato: “Cara moglie io e ventotto giorni che sono partito dacasa mi sembra ventotto mila secoli che non vi abbia visto io tio sempre davanti a mie occhi non vi posso dimenti carvi umminuto e pure non vevedo [non vi vedo] che siamo molto lontani” (27 agosto 1916). L’uso del vocativo plurale, abituale in Vittore, indica il riferimento all’insieme della famiglia, figli inclusi, come unità inscindibile, come nucleo il distacco dal quale è vissuto come innaturale, quindi doloroso, anche se non è la prima volta che Vittore si separa, a causa dei mestieri girovaghi esercitati. Il tempo della lontananza viene perciò scandito con puntiglio: “mia tanto cara – scrive il 7 novembre in una lettera eccezionalmente lunga (dieci facciate) ripetendo l’immagine iperbolica – e tre mesi che non si siamo visti mi sembrano miglioni e miglioni di secoli ho cari non vi posio proprio di menti carvi ummi nuto”. La vita di Vittore è stata sconvolta dalla separazione. Non è la prima volta che è lontano dai suoi, ma ora i suoi movimenti non dipendono più da lui, sono nelle mani di terzi, che operano in modo insindacabile, spesso arbitrario: sono le gerarchie militari e le autorità civili, che insieme hanno la possibilità di accordargli o negargli licenze e congedi, che spesso non arrivano nei tempi e nei modi sperati. È entrato nella macchina della guerra e ne dipende non si sa fino a quando: “qui della 61­­­­

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guerra si parla che durerà ancora un anno – scrive pochi giorni dopo che è partito da Parma – ma ilsicuro non losa nesuno” (3 agosto 1916). La prima tappa per lui è a Buia nel Friuli dove si fermerà, salvo una licenza, fino al gennaio del 1917. Poi passa a Brescia, dove affronta la preparazione specifica nella sezione mitraglieri, infine in Valsugana, sede di esercitazioni nel reparto Alpini Mitraglieri Sciatori. Dopo altri numerosi spostamenti, nella prima metà del 1917, col prolungarsi del conflitto e i vuoti aperti dalle grandi offensive, comincia ad avvicinarsi alla prima linea, subisce un ricovero in ospedale per via di diversi acciacchi e successivamente viene dislocato in Cadore, rimanendo a lungo sulla linea del fuoco fino a essere travolto dalla rotta di Caporetto. Egli comincia ad avvertire la speciale precarietà che caratterizza la vita del soldato al fronte. Al dolore della lontananza dalla moglie e dai figli, al sentimento dell’incertezza sul futuro si aggiunge ora il senso del rischio ravvicinato e il presentimento di una sorte infausta. Cara moglie si vede proprio che questa triste guerra non a affine [non ha fine] – scrive a Maria il 31 agosto 1917 – linverno sia vicina e la pace sia lontana cara moglie ti avevo scritto una lettera che dicevano che andiamo via da dove eravamo e che andiamo ancora i lavori in vece statto tutto all’incontrario vedi come fanno abbiamo viagiato tre giorni e notte e oramai mitrovo in trincera sotto al fuoco e cosi non si può scambiare faccia alla vololtà [sic] di Dio ti fo sapere che i tugni [allude forse agli Austriaci] sono molto vicino non so se capirai o Dio chi sa se avero più grazia rivedervi tanto cari si vive sempre a sperando fino che si va alla morte senza inscorgesene [accorgersene] Cara moglie ormai le lettere ritarderano ancora dipiu a venire e aricevere io perche qui in trincera non ce cominicazione come a essere piu in dietro Cara moglie se delle volte stai qualche giorno senza riceverne non stare pensare male per che tutto le volte oramai non o nemeno tempo scrivere due righe ma io di giorno o di notte guardero di farti avere delle mie notizie ti diro che di notte mitocca montare di vedetta e delle volte anche di giorno e quando non si monta di vedetta bisogna andare a prendersi il rancio Cara moglie ti fosapere che quando ero accasa mi dicevi che don Emiglio diceva che i 28 di 62­­­­

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questo mese sara stato la pace invece per me proprio in giorno 28 mie tocato andare in trincera dove le palotole piovono molto e cosi non bisogna credere piu niente la pace forse vera quando non ci sarò piu [...].

Con l’arrivo alle prime linee tutto cambia nella condizione di Vittore e nel suo stato d’animo, i ritmi della vita si fanno più intensi, le minacce crescono col crepitare delle pallottole, mentre le speranze di pace sembrano allontanarsi. Una maggiore confusione e concitazione attraversa la sua corrispondenza sotto l’incalzare de pericoli, le imprecazioni contro la cattiva sorte e il “mondo vigliacco” (3 settembre 1917) si sprecano. La sensazione di essere preso nella trappola di un meccanismo implacabile dal quale sarà difficile uscire vivo si fa più stringente. Il volto terribile della guerra grande si dispiega ai suoi occhi in tutta la sua spaventosa potenza. Già nei mesi precedenti, sempre in attesa e nel timore del trasferimento al fronte, aveva avvertito questa sensazione di una direzione dall’alto senza controllo, di un potere imperscrutabile e insindacabile che regolava ormai i movimenti e i destini individuali. Il 7 settembre scrive: “quelli che sono venuti sotto il mese di maggio neson partiti per il fronte due mila e cinque cento alla sera non sapevano niente e a mezanotte sono partiti duncue guarda da un momento a l’altro come si fa presto quando riva laviso andare in dieci minuti bisogna essere pronti e andare”. Quando poi arriva il Natale, dalla constatazione amara sul modo inusuale e triste di trascorrerlo in solitudine nasce la domanda senza risposta su quel che sarà negli anni successivi (“chi sa l’anno venturo come sara sara peggi sara meglio non sisa”), che sfocia di necessità nell’invocazione a un altro potere imperscrutabile, quello divino: “Ho Dio di mesaricordia fate fenire questa strste [triste] guerra e fatecine riunire ancora come eravamo prima in sieme alla mia tanto cara moglie e figli cari che tanto mi amano” (25 dicembre 1916). Un concetto su cui tornerà più volte: “Si vede proprio che non affine questa teribbile macello se non 63­­­­

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ce propri un dio che ne salva non c’è più persone al mondo [che possano farlo]” (lettera del 20 settembre 1917). La grande lacerazione della guerra non può essere sanata che grazie a un intervento salvifico. Il processo distruttivo è ormai divenuto frutto di automatismi cui nessuna volontà umana è in grado di porre un freno, destinati quindi a protrarsi fino all’esaurimento: “si vede proprio che questa strista guerra non ha proprio nesuna i dea di fenire che si vede proprio che vogliono di struggiere tutti gli uomini quando sara di strutto tutti i poveri allora forsi fenira [...] sivede proprio che non anno ne suna in tenzione di finirla”. Ne consegue l’auspicio di un’infermità che lo sottragga alla presa inesorabile degli eventi: “e poi sarei contento che mi prendesse qualche bronchita che così in tanto che sono qua al meno mi condurebbero allospitale e così sarei sicuro di rivedervi ancora una volta” (17 gennaio 1917). Ma è nell’inferno del fronte che si delinea più nettamente il carattere della guerra come evento senza soggetto, processo meccanico in cui muta la dimensione del tempo lineare o ciclico, dove gli uomini non si orientano più secondo le scansioni abituali del vissuto (il giorno e la notte, la veglia e il sonno, le feste e i giorni feriali, il ritmo delle settimane e delle stagioni) ma sono sussunti nei ritmi regolari della macchina e perciò vengono espropriati della loro soggettività, dell’autocoscienza e di ogni possibilità di autodeterminazione: “ti fosapere che qui ne sparano accuasi [quasi] tutti i giorni e notte delle volte si lavora alla notte per farsi dei ripari e bisogna scapare dalle bombe che ne titrano” (20 settembre 1917); “Cara moglie in tanto che sei a bedonia [un centro vicino a Masanti] poi domandare che licenze ci sono perche qui giornali non se ne vede e non si sa ne meno che gior[no] della settimana non sisa ne quando e domenica ne quando e lunedì” (30 settembre 1917). Vittore riconosce lucidamente gli effetti di spaesamento che questa immersione nella guerra totale genera in lui: “io cara non mi ricordo proprio piu di niente – ammette sconcertato – tra che memoria ne avevo po64­­­­

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ca ma questa guerra mia proprio ridotto tanto imbambolato che delle volte non so nemmeno più quello che fo va la a che stato ci riduciamo” (11 settembre 1917). Ecco dunque profilarsi ai suoi occhi la debordante catastrofe, senza più logica né svolgimento, senza inizio né fine, oltre ogni immaginazione possibile. Vittore coglie in maniera precisa, anche se in un italiano sconnesso, la dinamica della guerra divenuta ormai scontro fino a esaurimento totale delle risorse umane. Dio voglia – scrive il 24 ottobre del 1917 rivolgendosi come sempre alla moglie e ai figli – che il Signore vela conservi [la salute] ancora per lunghissimi annni [sic] che ne desse quella bella grazia di fare finire questa teribbile guerra [...] ma sara ungran dificcile per che si vede proprio che non ce piu affine la fine verra ma quando non sisono piu e ce ne sara pochissimi di uomini che vedranno il giorno della pace per che solo che li dea che anno fino a che averanno uomini da fare macelare seguiteranno e quando non ce ne avranno piu alora saranno costretti a lasiare li e saranno sempre [due parole illeggibili] per che uno che non estato in guerra a conbattere non puo nemeno farsi unidea del di sastro uno che non avisto non puo immaginarsi di sicuro che quelli che anno gridato viva la guerra di quelli al fronte non ce ne [n’è] si sono im boscati tutti la guerra e solo peri poveri pasiensa [...] qui cara dumanita non cenepiu[.]

Nella tempesta di fuoco, nel caos della ritirata, l’unico punto fermo per lui rimangono l’affetto della moglie, le sue parole copiose che gli giungono attraverso una corrispondenza più irregolare ma mai interrotta, e il ricordo dei figli, tenue filo di speranza nel possibile ripristino di un mondo umano che pare aver subìto una drammatica eclissi. Vittore non manca di far ricorso alla comparazione con altre vicende del fronte occidentale la cui eco si è ormai sparsa in Europa, dove il carattere totale della guerra, la dinamica della distruzione, ha raggiunto il suo apice, segnando la fine della dimensione classica della battaglia in uno scontro immane di materiali di proporzioni e durata incommensurabili: “per che qui dove si troviamo sul 65­­­­

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piave e stato una ofensiva peggio che a verdon che dicevano che averdon ce ne sono ri masti [ne sono morti] in tanti ma qui ancora di piu ma i tedeschi gli abiamo fer mati e si falciavano con le metraglie come a falciare il fieno i morti non sipuo imaginarsi a muchi [mucchi]” (28 novembre 1917). Nella stessa lettera la visione apocalittica gli suggerisce, in un contesto per la verità non del tutto chiaro, il riferimento al paradosso del “distruggiere per fare un mondo nuovo”. E in un’altra del 22 dicembre ribadirà: “Questa e proprio una guerra che non a piu affine il nostro bataglione che si trovava in linea e stato a cuasi di trutto [distrutto] [in] tutto se ne sono salvati ben pochi non solo il mio bataglione anche molti altri e così e solo per di trugere la carne umana non per altro”. Vittore si sente preso in una trappola mortale e immagina di fuggire insinuandosi nella sua lettera per seguirla lontano dal fronte: “se potessi rachiudermi qui dentro in questa mia lettera e venire tra di voi tanto cari allora passerebbe tutto le angosie” (lettera dell’1 dicembre 1917). L’esito del conflitto non sarà per lui infausto: tornerà vivo dal fronte, vedrà l’insperato ricongiungimento con la moglie, avrà da lei un altro figlio, ma – c’è da credere – senza poter più dimenticare il tempo inesorabile della guerra grande che aveva interrotto all’improvviso la sua vita di migrante e di marito affettuoso.

“Gnente di nuovo” sul fronte del Trentino Diversa è la sorte di Giovanni Panattaro, il lavoratore agricolo della pianura vercellese che abbiamo già incontrato. Prima di essere inghiottito dalla morte, Giovanni racconta giorno per giorno, con infinita pazienza e remissività, la sua guerra grande. Racconta la sua storia di giovane contadino inesperto in un mondo che scopre per la prima volta, alle prese con mille difficoltà: la lontananza dai parenti, i complicati servizi postali che vanificano l’attesa dei pacchi inviati da casa con gli indumenti richiesti, la stessa scrittura, un mezzo divenuto oltremodo necessario ma di cui non conosce che pochi ru66­­­­

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dimenti, per di più dovendo fare i conti con strumenti non sempre adeguati, come una matita il cui segno fatalmente impallidisce col tempo. Il rapporto di Giovanni con la scrittura è uno specchio e un condensato del suo rapporto con la nazione che lo ha chiamato a prestare servizio in sua difesa: è un rapporto fragile, cui si assoggetta di buon grado non avendo alternative, ma costretto ad affrontare enormi ostacoli e disagi. Le regole della scrittura, le forme di separazione delle parole, l’uso delle doppie e degli accenti, quello della “h”, gli sono largamente ignoti, non meno del senso della guerra e dei suoi scopi. Si veda questo brano tratto da una cartolina illustrata spedita il giorno dei Santi del 1915: “Vimando questa cartolina – scrive da Ala in Trentino – per darvi lemie buone notizie, benche abiamo stato tanto tempo su per li montagne ma questo oggi si troviamo ala [ad Ala] pasare un giorno di festa fare una rimonia [cerimonia?] tutti sieme [insieme] mezza compagnia oggi e mezza domani stamatina abiamo andato mesa [a Messa] inmezo boscho” (1 novembre 1915). Solo col tempo le sue frasi si faranno un poco più articolate e sicure, così come il segno, grazie anche al sempre più frequente uso di penna e inchiostro. Lo stesso controllo dello spazio grafico si affina, sicché troviamo cartoline postali in cui, grazie a una scrittura ordinata, minuta e fitta, riesce a occuparlo tutto, scrivendo testi piuttosto lunghi pur nei limiti ridotti del supporto. Ma ancora nel gennaio del 1916 troviamo un brano come questo, dove parla di una licenza rinviata: “per la mia disfortuna non poscio venire presto” e notifica con una certa difficoltà il suo nuovo indirizzo: “Al soldato Panattaro Diposeto [Deposito] speciale di rifornimento 65° Regg. Fanteria Caserma San Sigismondo Cremona” (1° gennaio 1916). Il suo approccio alla scrittura rimane pieno di incertezze, e la stessa calligrafia tentenna, per esempio nella formulazione della “a” e della “o” minuscole, che risulta difficile distinguere (la parola “Cremona” è scritta in realtà “Cremono”). Analoghe asperità nella lettera successiva, dove leggiamo, sempre a proposito della 67­­­­

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licenza mancata: “guardate di stare allegri lostesso come sia [se fossi] venuto anchio, staro alegro anchio lostesso come abia venuto”. Qualche volta il tratto e lo stile appaiono decisamente più disinvolti, ma cambia anche la grafia, segno che in questi casi ha chiesto aiuto a qualche commilitone più esperto, a qualche prete o insegnante della casa del soldato (ad Ala, dove lui è di stanza per qualche tempo, ce n’è sicuramente una) che scrive in suo nome e in sua vece. “Mi faccio lecito – si legge ad esempio il 10 settembre 1915 in una cartolina postale a sua firma indirizzata al padre – farvi una osservazione, e pretendo che la rispettiate, non voglio più che mi mandiate cartoline con la risposta pagata”. L’espressione ampollosa e il corretto uso dei congiuntivi tradiscono evidentemente una mano ben più esperta della sua. Lo stesso si può dire di una cartolina postale in franchigia datata 25 ottobre 1915, vergata in un corsivo assai disinvolto anche se non particolarmente ordinato, che esordisce: “Carissimi genitori, la dimora che ho presentemente chiamasi Ronchi, trovasi nei pressi di Ala ed in posizione ridente”. Ma di solito è lui ad affrontare l’impervio cimento, affidandosi a formule, ai rituali auguri di buona salute, a frasi fatte, ripetendo esortazioni sempre uguali, inviti a non preoccuparsi, ma lasciando di quando in quando il guizzo di qualche annotazione non scontata, di qualche osservazione ironica. Nei primi mesi dopo la partenza la corrispondenza si snoda come un ininterrotto seguito di conferme sulla buona salute e la vita accettabile, per il momento lontana dai pericoli, conferme che tradiscono per contrappunto una sottile inquietudine; nonché come riconferma desolata della mancata ricezione di un pacco di indumenti richiesti (un paio di mutande di lana, tre paia di calzette di lana, una “cravatta” – forse intende sciarpa – di lana di colore scuro) (cartolina del 10 settembre 1915). La lettera del 3 ottobre 1915 manifesta tutta la rassegnata impotenza di Giovanni di fronte alla complessità dei meccanismi che presiedono ai rapporti postali almeno nel caso della spedizione di pacchi. La descrizione 68­­­­

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delle peripezie occupa quasi due facciate delle quattro di cui è composta la lettera, quasi a segnalare l’esasperazione dello scrivente: Caro padre – precisa – o saputo che il pacco è venuto in dietro ma non pensare male perche non lo ricevuto che io non sono il primo che miva il pacco in dietro, non sisa piu che indirizzo mettere [:] mettere la località venga in dietro mettere lazona vengano in dietro quindi non sisa piu come fare, poi sentite uno di questa compania sia [si è] fatto mandare un paia di scarpe dalla sua famiglia lia [le ha] fatto mettere una per pacco con lindirizzo dalla nostra localita uno la ricevuto e laltro è andato indietro anche lui e uno da torino con lindirizzo zona come mè in (3) giorni è venuto e uno con lindirizzo del locale dopo (40) giorni la ricevuto questogi, e inostri comandanti dicono sempre di mettere la zona, quindi non sisa piu cosa mettere[.]

Le due scarpe che separano inopinatamente le loro destinazioni sono un emblema dei meandri in cui la vita del soldato è imprigionata, dell’espropriazione e dello spaesamento. Abituato alla razionalità funzionale della vita contadina, Giovanni appare sbalzato in un mondo labirintico in cui è davvero arduo orientarsi. Così, finisce per cercare rifugio in una bonaria ironia, immaginando che il pacco inutilmente atteso possa mettere le gambe e tornare a casa da solo: “notizie dei pacchi gnenti [niente] – scrive al padre il 21 novembre del 1915 – spero che veneranno poi indietro quando avranno le gambe, in quanto perme state pure tranquilli che ora non neo bisogno benche abiamo gia laneve”. Qualche velata ironia o almeno qualche riserva suscita anche la vicenda della dotazione di indumenti invernali da parte dell’esercito. Giovanni è inviato con altri commilitoni da Ronchi di Ala a Verona per ritirare i ricambi di vestiario previsti. “abiamo venuti Verono prelivare [a prelevare] i documenti [un lapsus: evidentemente intende “indumenti”] di lana per linverno che dove siamo noi fa un freddo che lomai sentito in vita mia finora. Sapesse dopo tanti mesi che mitro69­­­­

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vava in mezzo li montagne e poi venire in pianura mia fatto in presione mi pareva di essere in paradiso” (cartolina del 29 novembre 1915). Ma qualche giorno dopo precisa che la qualità della lana lascia a desiderare: sendo che non poscio ricevere i vostri pacchi e avete saputo che il governo a dato la roba dilana come o detto che andato io pralivarla [a prelevarla], si andato io e tre di miei compagni, ma non chredetevi che sia roba di lana sielta [scelta] si chiama roba di lana perche si dopera [adopera] dinverno ma si stabene lostesso e desso senterete cosa abbiamo, due camicie uso flanella due paia di mutandi che non so nemeno darci il nome ma pero si sta bene losteso e poi due paia di calzi di lana un pasca montagne [passamontagna] e un paia di fasce (6 dicembre 2016).

Per un certo periodo l’esperienza di Giovanni Panattaro si svolge lontano dalle prime linee, relativamente al riparo dai rischi per la vita. La sua è una vita dura ma accettabile. Il suo compito in Trentino è quello del minatore, per costruire trincee e gallerie, per aprire mulattiere. La guerra è per ora essenzialmente lavoro, sia pure faticoso e in un contesto insolito, con il vantaggio però di essere al riparo dal freddo e sostanzialmente al sicuro. È lui stesso a parlarcene in una lettera del 29 settembre 1915, rassicurando i suoi: io non patisco finora dal freddo che il mistiere che ho io fa ancora caldo lavoro da minatore quindi abiamo la mazza inmano dalla matina alla sera, si è un mestiere faticoso ma passa il tempo presto pero non pensar male perche senterete [parola illeggibile] minatore che prima di darie fuoco lemine si prepariamo ben securi quindi vi ricomando di non pensar male di quello che è un divertimento, e per in quanto in pericolo de altre cose che voialtri vi metete in capo non sono securo quindi non pensare male dime per qualunque maniera che finora mi trovo molto sul sicuro della vita[.]

Il discorso cambia quando fa l’esperienza del fronte, a partire dalla seconda metà di gennaio del 1916. Benché i ri70­­­­

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ferimenti alla guerra guerreggiata siano alquanto laconici e non più che allusivi, si intuisce tra le righe che la situazione si è fatta rischiosa e per questo le rassicurazioni ai parenti diventano più insistenti: ora mitrovo direttamente al fronte – scrive il 22 gennaio 1916 – chredo che avrete piacere di sapere la posizzione che mitrovo, qua dove sono io di neve non cine [non ce n’è] il chlima del freddo non è troppo non si parla di gelare i piede dunque sentite di quella parte li non cè male, e poi daltro [d’altra parte?] sisa siamo inguerra potete in maginarvi come è, dunque desso non potete aver forsi [forse] comunicazzione in schritto come prima perche non abiamo comodita di schrivere quando vogliamo, perche quando siva intrincea sista (12) giorni senza oscire e bisogna andar dinotte e oscire dinotte, non spaventatevi per quello che adesso vansate [avanzate] non cene [non ce n’è] mitrovo su lalto isonzo la destra del monte nero [...].

Su queste rassicurazioni torna, con l’uso ripetuto della concessiva “benché”, anche nella cartolina in franchigia del 19 febbraio: “benche io mitrovo in guerra sono sempre di buon umore con scherzando tutti noi compagni insieme benche siamo in trincea”. Anche più avanti vuole confermare che l’atmosfera intorno a lui è allegra, malgrado la vita da lupi: “di giorno siamo sempre intanate come lupi e dinote faciamo quello che bisogna fare, e non chredetevi perche si troviamo in trincea che noi stassero li a pensare [che stiamo a pensare, a tormentarci] noi scersiamo [scherziamo] ridiamo benche siamo in trincea pensiamo neanche [...] chredo che pensate più voialtri cheio [siete più voi di me a preoccuparvi]” (lettera dell’8 marzo 1916). Sarà solo al ritorno nelle retrovie, in un paese vicino a Brescia, per il riposo, che darà – sia pur concisamente – sfogo all’angoscia repressa: “e poi abiamo fatto dietro [?] front senza sentire più il tachpum [ta pum] quella che festa che estato pernoi quasi come venire in congedo” (lettera del 31 marzo 1916). Dopo il periodo di riposo Giovanni torna al fronte, ma questa volta la destinazione è il passo del Tonale, dove le con71­­­­

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dizioni sono migliori: “mi trovo gia contento della posizione che mi trovo sì siamo in Guerra anche qua ma da [rispetto a] dove eravamo prima qua si chiama Guerra moderna e civile”, scrive nella cartolina postale in franchigia del 27 aprile e altrove fa sapere: “siamo inuna bellissima posiscione la quale in valata che porta il nome Giudicaria si trova delle posizione più migliore in quanto del pericolo cine [ce n’è] molto poco”. Si fanno 8 giorni in trincea e otto in riposo, e “quando siamo in riposo abiamo sino la libera sortita” (lettera dell’11 maggio 1916). Naturalmente, i rischi non mancano e il nostro giovane soldato capisce che i parenti preferiscono avere conferme continue della sua incolumità, sicché la corrispondenza si infittisce fino a divenire quotidiana: ci sono cartoline il 27, 28, 29 e 30. Con lo stesso ritmo si prosegue anche nei mesi successivi (“viscrivo lasolita cartolina giornaliera”, leggiamo il 1° maggio 1916), quando i giorni senza corrispondenza da parte sua si contano sulla punta delle dita e vengono per solito segnalati dallo stesso mittente, come accade nella cartolina postale del 16 maggio quando si scusa per non aver fatto a tempo a scrivere il pomeriggio precedente prima della partenza della posta. Il testo si fa di regola assai succinto, riducendosi ai saluti o poco più (“scusatemi di questo poco che viscrivo” si giustifica l’11 giugno 1916). Solo in qualche caso si prende più tempo e distende il racconto, specie a proposito di episodi che provano l’atmosfera allegra, malgrado tutto, della vita di trincea. ieri sera nel ritorno dal lavoro – annota il 18 giugno 1916 – tutti noi compagni insieme abiamo fatto una mezza legria [allegria] abiamo andati prendere del vino in cantina e cosi abiamo fatto unpo di legria abiamo andati dormire unpo ubriachi, dunque vedeti benche siamo dove siamo ma quando potiamo facciamo sempre legria non pensiamo neanche del pericolo ma inquanto cine anche poco qua dove siamo noi.

Ma l’allegria tra commilitoni non esclude presentimenti di morte che affiorano, sia pure in chiave ironica e scaramantica. Un esempio nella cartolina del 15 giugno: “Cosi Caro Papa 72­­­­

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si troviamo nequei 8 giorni che siamo fuori della trincea e gia 4 giorni che tutte le sere che faciamo legria siamo 5 compagni in sieme io e il mio amico Bonino e tre di Como siamo amici veramente come fratelli cosi quando siamo in trincea non sipuo ma quando siamo fuori finche cine [finchè ce n’è, sottinteso di vino] uno [?] sempre ciocca [si fanno tintinnare i bicchieri?] così se dobiamo rimanere qua [morire] almeno le tasche sono pulite, non moriamo con il collo storto”. Ma si corregge subito dopo per non trasmettere pensieri tetri: “non pensate per quello che vi dico che sisà non chredete micca che io abbia la speranza di rimanere quà no non è mica vero lo dico tanto per facescia [facezia?] e per riddere”. Le cartoline e le lettere di Giovanni si snodano con una sequenza fitta e inesorabile, che diremmo monotona se non fossero sospese sulla soglia della sua morte, a riscontro di quelle dei genitori e dei parenti cui egli fa riferimento, che altrettanto numerose arrivano nelle sue mani anche se noi non le possediamo, testimoniando insieme un lavorio ininterrotto delle matite e delle penne tra la trincea e la cascina Grangia nel cuore delle risaie vercellesi, dove risiede il padre, e di altre cascine vicine dove risiedono i parenti, le sorelle e gli zii. A loro Giovanni, via via più pratico nell’esercizio della scrittura, invia consigli e prescrizioni perché usino correttamente la posta, a cominciare dalla formulazione dell’indirizzo, chiave di volta di un recapito puntuale: “fare piu atenzione fare il numero della Compagnia perché vanno quasi tutti al primo Bataglione, così il numero dovete farlo così 9 che li vostri sembrano piutosto due” [il loro “9” assomiglia a un “2”]. Alle fatiche, ai compiti quotidiani della famiglia contadina, espletati come tutti gli altri con pazienza e metodo, si aggiunge questo nuovo della scrittura, del riempire le righe di queste lettere, cartoline illustrate o cartoline postali variamente prestampate, colorate sul giallino o sul verde chiaro o sul rosato, scritte non per deferenza o per svago, ma per necessità, per costruire giorno per giorno la rete invisibile, fragile e tenace, del contatto oltre i vincoli della lontananza e della 73­­­­

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coscrizione. Lo Stato in guerra costringe i contadini a questo adempimento giornaliero, li piega a questa servitù ulteriore, indispensabile per tenere in vita sentimenti e relazioni umane sotto la tempesta delle cannonate, la minaccia permanente per la vita, la violenza ritmata dei movimenti coatti sul territorio. Pagine e pagine di una letteratura sommessa e venata di sopportazione si accumulano, si disperdono attraverso i canali dei servizi postali, si depositano negli zaini e nelle case, distillando i conforti di una presenza virtuale e soprattutto la certezza provvisoria di una vita che continua finché continua, malgrado tutto. Si procede così nei mesi estivi del 1916, nell’alternanza tra giorni in trincea e giorni in riposo, con una frequenza di corrispondenza che, per quanto riguarda le missive inviate da Giovanni ai genitori, oscilla tra la comunicazione telegrafica tutti i giorni e quella un poco più ampia a giorni alterni. Lo scopo è sempre quello di placare le comprensibili ansie dei suoi, ma nelle frasi di conferma della buona salute si insinua in maniera sempre più regolare l’avverbio “sinora”, che attesta un sentimento di precarietà e di attesa. Così anche nella formula, che tornerà spesso a partire da metà giugno, anticipando inconsapevolmente Remarque: “qua perora ce gnente di nuovo”, quasi a significare la speranza che le cose non precipitino verso un esito fatale (cartolina postale in franchigia del 18 giugno 1916). Nella cartolina del 12 luglio la formula si distende in un augurio più ampio: “perora gnente di nuovo tutto vabene speriamo che sempre camina cosi epoi non cemale speriamo ancora di ritornare sano e salvo”. Qua e là gli sfuggono moti di esasperazione perché non si vede la fine di quella situazione: inquanto da dove mi trovo – scrive in una lettera del 24 luglio 1916 – gnente di nuovo perora tutto va bene se non cambia dora e navanti, ma inquanto speriamo che andara [andrà] sempre cosi si lavora bensi, ma inquanto il pericolo cene molto poco Forsi voi non chredete ma in quanto quello che vidico è vero state pure tranquilli che io non sto male e sipuo anche bere qualche bichiere 74­­­­

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divino e non fatevi nessuno pensiero dimale daparte mia benche mi trovo sul trentino che dove mi trovo io è proprio come che io vidico soltanto che questa musica feniscie mai[.]

Così anche più avanti: “è sempre la solita storia – scrive in una lettera del 23 agosto 1916 – sivede gia che anche questo inverno bigona pasarlo nelle condizione di quello scorso e chisà quando sara finita facciamo che sempre dire [non facciamo che dire] pazzienza o per noi o per qualcheduni venira anche la fine [o per noi italiani o per qualcun altro verrà anche la fine] di questa storia”. E il 13 settembre 1916 ribadisce: “anche questanno quasi è lafine e dipace mai se neparla mà chisà quando avremmo fortuna di sentire quella parola secondo amè mipare che non abbia più dà fenire questa storia”. Pochi giorni dopo torna a manifestare la sua insofferenza in una lettera agli zii: “Cari mi pare che questa vita non debba piu fenire, anche questanno quasi e la fine e di pace non se neparla ancora, ma, chisà quando avremmo la fortuna di sentirla” (18 settembre 1916). La stanchezza dei soldati per una guerra che appare senza fine si riverbera e si rinforza in quella dei civili. In una lettera del 19 ottobre 1916 gli zii si affidano ai motti della saggezza popolare per formulare la speranza che finalmente il flagello abbia fine, quasi che non dalla volontà umana ma dal ciclo naturale delle cose possa giungere l’esito sperato: “speriamo che anche questa guerra vorra bene terminare tutte le cose anno un principio e debbano pure avere anche un fino cosi tornerete tutti alla vostra casa che tutti vi aspettiamo a braccia aperte”. E lui di rimando, in una cartolina successiva: “Zii Cari lo sò che tutti siete stanchi di questa storia come pure siamo noi, ma siamo stanchi davero, ma inquanto speriamo che linverno in guerra tutto di non più passarlo, speriamo che fenisce prima” (28 settembre 1916). Le cose precipitano verso la metà di ottobre, quando viene trasferito dal Trentino al Carso, come scrive in una cartolina al cognato commentando: “e così tidico che diqui e sul Trentino ci passa una gran diversità è ancora piu brutto di santa maria” 75­­­­

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(24 ottobre 1916). Dopo una cartolina assai laconica dell’1 novembre, passano nove giorni di silenzio prima che si rimetta in contatto coi suoi. Una cartolina datata 10 novembre, benché presenti un testo completo non risulta spedita perché manca del mittente, ha l’indirizzo incompleto ed è priva di timbri postali: è un segno della concitazione. Con la stessa data si conserva un’altra cartolina, questa volta spedita, con un testo quasi identico, in cui si scusa di aver tardato a scrivere: “ma dovete sapere che non poteva, perche abiamo passati unpo di giorni brutti non si poteva scrivere, e nemeno partiva la posta”. Il 14 parte un’altra cartolina con una grafia più nervosa del solito, dalla quale apprendiamo che è stato inquadrato nella Sezione mitragliatrici. Dal 16 al 21 si trova in riposo. In questa data una cartolina postale in franchigia come tutte le altre attesta ancora una volta la sua “ottima salute”. Ma è l’ultima. Lo stesso giorno Giovanni viene colpito e muore. Finisce così la sua guerra grande, il suo paziente, fugace ingresso nella modernità del ferro e del fuoco automatico.

Una catastrofe europea Una guerra grande, anzi immane, un’autentica catastrofe della civiltà è quella che racconta nei suoi due quadernetti diaristici, pur sommessi e dimessi, un personaggio che abbiamo già incontrato, Giuseppe Manetti, detto Beppe. Manetti è un mezzadro toscano del comune di Bagno a Rispoli, nato nel 1884, quinto di quindici figli, padre di tre, sposato dall’aprile del 1915 con una donna di nome Cesira, richiamato nel luglio del 1916, tornato sano e salvo malgrado le peripezie, morto novantenne nel 1974. Di lui ci restano, oltre ai due quaderni vergati in una scrittura abbastanza ordinata ma incerta, alcune fotografie che lo ritraggono fiero dei suoi baffi a manubrio, spesso in coppia con l’amata moglie, e alcune cartoline. Sappiamo da una testimonianza della nipote che, a disagio per il suo analfabetismo, decise già adulto di “andare a lezione dalla maestra del paese, ma non arrivò oltre un’alfabetizzazione di 76­­­­

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base perché non poteva sottrarre tempo al lavoro e alla famiglia. In ogni modo non si arrese e cercò di progredire da solo. Conservava ogni foglio scritto che gli capitasse sotto mano e nei rari momenti di riposo, si provava a leggerli; se ci riusciva gioiva dei suoi progressi, altrimenti, per raggiungere lo scopo, si rivolgeva a quei pochi che erano in grado di aiutarlo”. L’esperienza di guerra di Manetti si svolge in più tappe. La prima destinazione è a Cervignano, dove rimane diversi mesi per le istruzioni, ma nel febbraio del 1917 viene trasferito a Modena e assegnato a un battaglione di fanteria destinato al fronte. È qui che comincia a raccontare quel che gli accade e a raccogliere le sue sintetiche riflessioni, finché nel giugno del 1917 viene trasferito sul Carso e conosce la “dinamica della distruzione”. Alla fine di settembre torna a casa per una licenza, ma ben presto è nuovamente in prima linea e viene travolto dalla ritirata di Caporetto. Più tardi, intorno al luglio del 1918, la sua narrazione si interrompe per l’esaurimento dello spazio grafico del secondo quaderno, ma sappiamo che in settembre si ammala, viene ricoverato in ospedale militare e probabilmente non fa più ritorno al fronte. Le sue competenze linguistiche e grafiche sono, come abbiamo visto, modeste. La sua scrittura è, dal punto di vista lessicale, grammaticale e sintattico arrangiata alla meglio. Eppure, come in altri casi del genere, la pena e la fatica dello scrivere, ossia di piegare la lingua agli scopi della memoria e del racconto, senza averne appreso tutti i segreti, senza aver imparato a maneggiarla con disinvoltura, lasciano balenare i lampi di un evento che cambiò il mondo e soprattutto il modo di vedere il mondo di coloro che vi presero parte. Nei suoi fragili quaderni senza pretese, reperto apparentemente marginale e minore della guerra delle nazioni, si disegna in filigrana un ritratto a fuoco dell’Europa travolta dal vortice della vicenda destinata a portarla – come riconobbero allora filosofi, poeti e pittori, medici e psichiatri, saggisti e letterati – oltre se stessa, spalancandole un futuro carico di incognite e di estremi. Concepita e accettata da molti come l’ultima delle guerre, quella 77­­­­

In questa e nelle pagine successive  Pagine del diario di Giuseppe Manetti, con ritratti fotografici di lui, della moglie Cesira e della figlia Adele, la foto della casa e un gruppo familiare, Archivio diaristico nazionale, Pieve Santo Stefano (AR). La prima immagine, frutto di una composizione, è di Luigi Burroni. Sotto la fotografia della casa si legge: “Questa la casa dove comprende tutto il mio tesoro”, sotto quella della famiglia: “La mia cara famiglia che io amo teneramente”, con la firma e la data “Sagrado 4.6.17”.

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del 1914-1918 si rivelò invece come l’apertura di un ciclo che sarebbe sfociato in catastrofi ancor peggiori, delle quali aveva posto tutte le premesse, mostrato le avvisaglie, disegnato i contorni. Tutto ciò traspare dalle sue pagine stentate, da una prosa fatta di buon senso, che ha la sua sigla in un lamento pieno di rammarico: “poveri omini!”, ripetuto come un ritornello nel corso della narrazione, a segnalare lo sconcerto del testimone. Sono pagine nelle quali la saggezza contadina, messa di fronte alla potenza distruttiva dell’organizzazione e della tecnologia, afferma insieme il suo primato umanistico e la sua impotenza. Ed eccolo cogliere, senza alcuna enfasi ma con grande lucidità, un’idea che abbiamo già visto balenare in Demetrio D. (Luigi), quella della guerra come una catena di montaggio in cui la morte viene fabbricata in serie, come se gli uomini fossero riproducibili a piacere, simili a qualunque merce. “Si torna in giù – scrive dopo un passaggio in prima linea – e ce li rendono [i soldati morti] come se fosse merce e ci fossero delle fabbriche che fabbricano gli omini! E non costassero altro che della fatica per fabbricarli e delle materie che si possono comprare su un mercato come si compra tutta l’altra merce”. Eccolo, con accenti che si avvicinano al rimpianto per il “mondo di ieri” proprio di tanta letteratura mitteleuropea, segnalare l’assurdo convertirsi della costruzione in distruzione, come se tutto il potere della tecnologia e dell’organizzazione moderne, il primato stesso dell’artificiale sul naturale, l’incessante lavorio dell’uomo già votato al progresso, fossero ora inopinatamente piegati a scopi di annientamento e perciò stesso polverizzati e ridotti al niente: Il posto dove siamo si chiama il vallone di Doberdò – scrive il 13 giugno 1917 – bisognerebbe vedere quante baracche che ci sono quanti ricoveri quanti lavori di offesa e di difesa qua si è creato unaltro nuovo mondo trasformato tutto dalla natura di un terreno civile in una natura artificiale bellica poveri omini tutti i vostri studi come male li ai adoprati [adoperati]! Io sono qui e posso essere nelle ultime ore di vita edamiei bambini cosa li lascierò? altro che della fame perché tutto ciò che noi, ei nostri padri 78­­­­

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avevano prodotto siamo venuti a distruggerli qua su distruggerli sopra a questi monti quanto siamo in civili! [...] si trova dei paesetti che fanno piangere anche i sassi per che non ci e rimasto un muro che sia alto più di due metri ma poi in che condizioni povere famiglie che ci abitano e si combatte per la civiltà? io non so quale siano le barbarie[.]

Dunque Giuseppe non si limita a lamentare le sofferenze personali, a stigmatizzare la sua sorte, ma abbraccia l’umanità nel suo complesso, intravede il disastro della civiltà, ragiona sul rapporto tra trionfo della modernità e riemergere della barbarie, evoca il paradosso del “mondo nuovo” che si sta edificando tra le macerie. Potremmo dire di lui che è una “persona semplice”: ma un universo di valori molto coerente e compatto gli permette di stilare una diagnosi perspicace sulla catastrofe europea che si delinea tra i fragori della guerra di materiali. Ed eccolo, ancora, raccontare la nuova, paradossale esperienza della morte anonima di massa in cui l’individuo, perduta repentinamente la sua identità umana, va a confondersi con le cose, con la materia, in un paesaggio dominato, come una discarica, dalla più oscena delle contaminazioni: Sono andato – scrive il 6 giugno sempre del 1917 – sopra ha una collina ghiamato monte cappuccio non posso ne so descrivere l’effetto che mi a fatto si tratta di vedere trincee distrutte, ricostruite, piante dello spessore anche di 50 centimetri troncate buche fitte alla distanza di pochi metri l’una dall’altra che profonde mezzo metro e che anche due metri poi più qua e più in la si trova croci di legno fatte così provvisorie e quelle segnano un morto e sopra a tante di queste tombe ci sono delle ossa di gambe di braccio dei denti il teschio o rimaste in sepolte o scavate da qualche granata e a queste croci ci è scritto (sconosciuto) chi potrà riconoscerlo se una granata lo ha preso in pieno? povere madri quanto vi pentireste di aver dato la vita a un figlio se voi vedeste cio che vol di[re] guerra [...].

Come altri memorialisti, testimoniando i rapidi cambiamenti della comunicazione e della percezione visiva che 79­­­­

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la società sta conoscendo anche nelle aree rurali, il nostro mezzadro ventitreenne utilizza il paragone col cinematografo per segnalare esperienze nuove, visioni inaspettate. Ma in questo caso a colpire la sua immaginazione non è il mirabile spettacolo della guerra aerea con i suoi dinamismi e i suoi cambiamenti repentini di scena, che il linguaggio cinematografico è capace di rappresentare, bensì l’azione inesorabile del fuoco nemico che annienta le colonne di passaggio nello stesso modo istantaneo in cui la luce brucia una pellicola: “si arriva al vallone Vizzentini – sono le sue parole alla data del 30 agosto 1917 – si fa sosta fino a buio e poi ci si incamino per la solita strada per la 4a volta i reggimenti di fanteria fanno come la pellicola di un cinematografo ogni 10 o dodici giorni passano di sotto al foco come la pellicola di faccia alla luce e tutte le volte ce ne si lascia [rimangono uomini sul terreno]”. E, come altri, anche Manetti coglie acutamente la sproporzione dell’evento cui assiste non solo rispetto ai suoi modesti mezzi linguistici ma persino a quelli di un grande scrittore alla moda, la cui fama di virtuoso della parola è evidentemente giunta fino al suo podere e a lui: “ne io ne un Dannunzio – scrive quando deve misurarsi con la narrazione immane del caos nella ritirata di Caporetto – può esse[re] capacio descrivere” lo scenario che si spalanca davanti ai suoi occhi. Consapevole dei suoi limiti, spostato come un fuscello dai tumulti della guerra, piccolo testimone di una grande tragedia che risparmia lui ma non molti milioni come lui, Beppe Manetti di Bagno a Ripoli, scarsamente alfabetizzato e illetterato, non è rassegnato ma certo si sente impotente di fronte all’evento, e comprende che in questa impotenza è la stessa Europa civile che sta facendo naufragio, anche se di tale deriva non tutti portano la responsabilità nella stessa misura. Di picchetto a Modena, di fronte a una dimostrazione di donne che reclamano la pace, coglie nelle loro voci la voce di sua moglie, si sente chiamato in causa e avverte il peso morale dell’incapacità di ribellarsi: 80­­­­

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e noi non ci si scalda a queste voci – si rammarica in data 16 maggio 1917 – come è vile l’omo non dico di noi soli ma di tutta l’Europa intera che le nostre moglie i nostri bambini ci chiamano a casa a fare il nostro dovere di padre e di marito e noi non siamo buoni a buttare giù questo giogo che pesa tanto sulle spalle fino a toglierci la vita d’altra parte noi non facciamo che obbedire sono i nostri capi che ci anno condotto a questo i capi saranno responsabili di tutte queste creature flagellate.

Per quanto costretto dalle maglie dell’ubbidienza, Manetti non è tuttavia schiacciato in quelle del conformismo, non è vittima passiva della macchina di guerra in quanto macchina di organizzazione del consenso. A dircelo non sono solo le lamentazioni e le denunce che abbiamo fin qui citato, ma le prese di posizione dirette contro i discorsi e gli stereotipi che gli vengono propinati. Di fronte all’idea del nemico, all’imperativo dell’uccidere, esprime i suoi dubbi: il 4 Maggio siamo andati al poligono a fare istruzioni delle bombe a mano, che effetto che fanno! e pensare che fra dei giorni non solo sarò a fare istruzioni ma, a gettarnele contro l’uno con l’altro come se li omini fossero bestie ferocie quello che penso entro di me e questo, me, mi uccideranno ma io non potrò avere il coraggio di uccidere unaltro per quanto i nostri superiori ci dichino che sono nemici i governi ma io che non li conosco neppure per prossimo quello che ammazzerà me se questa sfortuna mi tocca potra essere nemico di me che non mi a mai visto? a che tempi siamo! io non mi so dar ragione che l’omo debba essere uno strumento del suo governo e deve cessare tutto nell’uomo poesia, amori, doveri di padre, doveri di figlio doveri di lavoro per qual ragione? Chi leggie pur troppo lo sapra e ne sentirà e ne vedrà lo scopo[.]

La resistenza contro l’omologazione non potrebbe essere dichiarata con più forza. La scrittura stessa di Manetti diventa, come si vede, mezzo di un pacato ma fermo rifiuto non solo della guerra, ma della sua apologia. Anche contro i gazzettieri che la esaltano senza averla conosciuta, essi stessi comprati o sedotti da un potere più grande di loro: 81­­­­

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questi, della stampa che esaltano tanto la guerra – scrive alla data del 30 agosto 1917 – o per meglio dire liela fanno esaltare vorrei che venissero dove si va noi per vedere se poi avessero il coraggio di esaltarla ancora io credo che quando ci fossero stati tre giorni non solo esalterebbero più la guerra ma cercherebbero di concludere la pace al più presto perche non è questione di morire, la morte di per se stessa non sarebbe niente ma il vedersi la morte tutti i minuti passare colla sua spettra falce a mezzo centimetro dalla gola e peggio ancora e la vita che facciamo non dirrò tanto per il mangiare e bere che tante volte ne soffriamo ma e il riposo che non si sogna per cosi dire mai dormire si tratta in una tana come fanno i toppi [topi] e li quando piove ci piove come ad esser fori e non ci e mezzo di asciugarsi fino che non sorte fori il sole e poi i nostri cari giornalisti esaltano la guerra...

La grande strage Vediamo ora il racconto di Ubaldo Baldinotti, fiorentino di Scandicci, nato nel 1890, figlio di un calzolaio a sua volta figlio di un muratore, calzolaio lui stesso, con qualche anno di scuola elementare. Negli anni Sessanta del Novecento scrive due quaderni: il primo è dedicato al periodo che va dall’infanzia alla giovinezza; il secondo, intitolato Memorie tristi. La prima guerra mondiale 1914-1918, è riservato alla narrazione della sua esperienza di guerra, inserita nel quadro delle vicende generali del conflitto, e si conclude al momento del ritorno a casa. Prima di venire al proprio richiamo alle armi e alla partenza per il fronte, egli dedica altrettanti capitoletti all’uccisione degli arciduchi d’Austria, all’invasione del Belgio, alla neutralità dell’Italia e alla battaglia della Marna. La centralità della guerra, non solo come spartiacque della propria vita privata ma come evento memorabile in sé, è resa evidente dalla presenza di questa cornice e in particolare dal fatto che l’attentato di Sarajevo non solo apre il secondo quaderno ma conclude il primo, entrambi con un capitoletto apposito, assumendo il carattere di evento epocale di svolta. Il secondo quaderno presenta inoltre, all’inizio, una dichiarazio82­­­­

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ne d’intenti e dedica, che suona così: “queste memorie le dedico a miei nipoti perché sappiano, quali e quante sofferenze, ha dovuto sopportare il suo nonno, tutte a causa della guerra 1914-1918, meditino e imparino a conoscere le bruttezze e le tante ingiustizie che esistono nel mondo, tutte causate dalla cattività degli uomini che vivono, in questo globo terrestre”. Segue il cognome e nome e la data: “Firenze, li 1-7-1968” che coincide con la data di termine della scrittura, come risulta dalla segnatura “Finito di compitare il g: 1-7-1968”, che compare al termine del testo. Ciò indica, ovviamente, che la dedica e probabilmente anche l’intitolazione sono state apposte una volta terminato lo scritto. Testimonianze dei nipoti suggeriscono il 1965 come data d’inizio della stesura, il che significa che essa è durata circa tre anni, tre anni e mezzo. Ubaldo ha dunque deciso di intraprendere la stesura del testo circa mezzo secolo dopo l’entrata in guerra dell’Italia, quando lui ha raggiunto i settantacinque anni. Il suo orizzonte non è esclusivamente italiano, com’è evidente dall’assunzione del 1914 come data d’inizio del conflitto: il nostro calzolaio, divenuto nel frattempo portalettere, ha invece ormai ben chiaro che la sua storia personale si colloca in uno sfondo di carattere assai più ampio rispetto a quello puramente nazionale o paesano. Il testo di Ubaldo contiene una narrazione vivacissima, di straordinaria freschezza, piena di saggezza ma anche di arguzia, ricca di dettagli concreti e di efficaci descrizioni, attraversata da intonazioni moraleggianti. La stessa scansione in capitoletti, tutti ben titolati, spesso con il ricorso ad aspetti valutativi ed emotivi, lascia indovinare un intento didascalico e sembra quasi modellata su un impianto narrativo di storie per ragazzi, quali potevano circolare nella Toscana e nell’Italia al tempo dell’infanzia dell’autore, a cominciare – inutile dirlo – da quella dedicata all’immortale burattino di legno. Come una storia per ragazzi, il testo mette in scena marachelle, burle, litigi, personaggi patetici o tenebrosi, ma anche incontri memorabili, eventi inaspettati, scene di allegrezza e di dolore, episodi luttuosi. E in questo modulo narrativo l’autore, senza 83­­­­

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cambiamenti sostanziali di tono, farà rientrare tutta la smisurata e terribile guerra, con gli assalti e i corpo a corpo, le marce e le notti in trincea, la cattura e la prigionia, la fame e la gioia del ritorno a casa sano e salvo. Perciò il suo racconto disegna un nitido e affascinante percorso, dall’inizio alla fine, dentro la più grande, la più memorabile di tutte le guerre, preciso, eloquente e didascalicamente scolpito anche se sommesso. Le competenze linguistiche e grafiche di Baldinotti risultano decisamente superiori a quel che lascerebbero immaginare le informazioni sul suo grado di scolarizzazione. La sua prosa è scorrevole e piuttosto corretta, salvo qualche incertezza o imprecisione nell’uso della punteggiatura, dei pronomi personali e del pronome relativo; il suo lessico di impronta toscaneggiante è ricco, preciso e a tratti forbito (“principiare”, “compitare”), non esente da invenzioni efficaci (“disagioso”). Il suo vero punto debole sta nel fatto che ignora le regole del discorso diretto, benché ne faccia largo uso dipingendo scenette gustose che includono dialoghi serrati tra lui e diversi interlocutori. I suoi ricordi, non si sa se supportati da appunti presi sul momento, appaiono eccezionalmente precisi, le ricostruzioni accurate ed efficaci. La memoria di Ubaldo viene particolarmente sollecitata dagli elementi ironici, paradossali, raccapriccianti, dagli episodi curiosi, inattesi, sorprendenti. Ci soffermeremo più avanti sui temi della rotta di Caporetto in cui è coinvolto, della prigionia e del ritorno a casa. Qui accenniamo all’impatto di Ubaldo con la guerra guerreggiata della prima linea. Malgrado sia questo, come molti testimoni ci dicono, il regno dell’irrazionale, dove avviene lo sfondamento delle coordinate di spazio e di tempo, dove la vita si affaccia alla morte e il caos domina, egli conserva anche qui un notevole controllo dell’impianto narrativo. Una sola volta accenna allo smarrimento della ragione, di fronte allo spettacolo dei feriti che muoiono dissanguati senza che sia possibile portar loro soccorso: “E invece date le tristi circostanze e la situazione in cui ci trovavamo non solo non potevamo porgere nessun aiuto, ma altri ancora disgraziatamente, ne 84­­­­

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vedevamo morire, e tanti altri rimaner feriti, era uno strazio continuo e atroce che ad umana persona, si possa far provare ed a un certo punto era tanto il mio sbigottimento che dubitai di essere giunto al punto di smarrire la ragione, mentre la carneficina continuava senza soste, e tutti i giorni non c’erano che morti e feriti”. Ma il racconto rimane sempre ordinato, composto, ricco di dettagli. Molto puntiglioso ed efficace risulta nella descrizione del paesaggio di guerra, visivo e sonoro. Ad attirare la sua attenzione sono in particolare gli effetti delle artiglierie, che scuotono e trasfigurano le montagne facendole sembrare vulcani in eruzione. Ecco come racconta il crescendo dei bombardamenti durante la battaglia per la conquista di una cima detta della Cavallazza nel maggio del 1916: Era il giorno 21 maggio e albeggiava appena, si principiò a sentire i primi colpi che sparavano le nostre artiglierie, da prima un po’ rado ma via via che il chiarore aumentava, aumentavano anche i colpi delle nostre artiglierie. Quando poi la luce del giorno si fece più splendente e sortì fuori un bel sole, a questo punto la battaglia entrò nella fase più violenta, incominciarono a sparare i grossi calibri ed anche le batterie dei grossi mortai che quando esplodevano facevano un frastuono infernale, ed i suoi colpi venivano sparati sempre con più frequenza, e rimbombavano in tutte le vallate circostanti alla vetta, da sembrare che la vetta della montagna, dovesse crollare da un momento all’altro. Erano passate da poco le ore dieci quando a un tratto, udimmo dei tremendi scoppi, che uniti a quelli che già facevano le artiglierie aumentava d’intensità il già forte frastuono, che già c’era in quella zona. Ci dissero che erano entrate in azione, alcune batterie di nostre bombarde da 280, e infatti guardando bene verso la sua postazione si distingueva bene, ad occhio nudo senza bisogno di adoperare il binoccolo, la traiettoria che facevano e vedevamo bene i loro scoppi sulla vetta della montagna. Il sole era già alto e principiava a scottare, e noi della fanteria eravamo sempre addossati, a ridosso della montagna aspettando ordini su ciò che dovevamo fare.

La visione è nitida, dominata dal profilo della montagna, scandita dal trascorrere delle ore e dal cammino del sole. Il 85­­­­

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racconto prosegue nel capitolo seguente, intitolato La vetta della Cavallazza è conquistata: Saranno state di poco passate le ore dieci e trenta, quando ci fu ordinato di prepararsi, perché è giunto l’ordine di avanzata, e infatti ci alzammo e principiammo a camminare, andando verso la montagna. La vetta che noi dovevamo raggiungere era una cima tutta di pietra, e lo stesso era il terreno dove si doveva camminare, era un terreno tutto scoperto, e non c’era il minimo segno di vegetazione, non c’erano altro che pietre. Principiammo a salire per raggiungere la vetta, la quale dagli scoppi delle cannonate e delle bombarde, che in gran quantità cadevano sempre più fitti, e aumentavano sempre in numero maggiore, sembrava no una vetta di montagna, ma assomigliava più a un vulcano in eruzione, ed era avvolta da un’immensa coltre di fumo.

La grande strage, la carneficina immane alla quale miracolosamente riesce a sottrarsi, nella quale vede cadere molti compagni e sparire due terzi del reparto, è certo la cosa che più lo colpisce, sulla quale torna più spesso con accenti accorati. Il suo sguardo si posa attonito e desolato sulla terra di nessuno dove giacciono in gran numero cadaveri insepolti. La zona era un terreno tutto brullo – scrive nel capitolo 40 intitolato Nelle trincee di Castagnevizza, dove racconta di una battaglia notturna –, era tutto pieno di pietre e non si scorgeva il minimo segno di vegetazione, sembrava di essere in un deserto, con la sola differenza che in mezzo alla sabbia infocata dal sole, lì non c’erano che sassi e pietre e il caldo era soffocante, non respiravamo da come l’aria era impregnata, dal fetido puzzo dei tanti cadaveri insepolti, che c’erano al di la della trincea, e ce ne erano un gran numero ed era assolutamente impossibile il poterli raccogliere e seppellirli, perché se anche un solo soldato si fosse azzardato a fare questo gesto, questi avrebbe fatto la fine che coloro che avevano fatto prima di lui, mentre pietosamente avrebbe tentato il loro seppellimento, perché il nemico gli avrebbe scaricato addosso, non una ma diverse scariche di mitragliatrice. 86­­­­

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La narrazione si sofferma a lungo su questo scenario di morte che circonda e sovrasta i combattenti costretti a un’attesa interminabile appiattiti sul terreno, circondati dai lamenti dei feriti e dei moribondi: Ogni tanto si accendevano in aria dei razzi, che servivano per illuminare la zona, e noi del 2° plotone che eravamo stati mandati fuori oltre la trincea, come posto avanzato, dovevamo stare schiacciati a terra, per fare il minimo bersaglio, ogni poco a distanza di pochi minuti, più a destra oppure alla nostra sinistra, e anche alle nostre spalle su la trincea, eravamo investiti da molti colpi di artiglieria, e da violente scariche di mitragliatrice e fucileria, che sibilavano fischiando a qualche centimetro sopra alle nostre teste, e questi colpi non facevano che mietere sempre nuove vittime ed infatti seppur in mezzo al grande frastuono, distinguevamo bene le grida e i lamenti dei tanti feriti che invano chiedevano di essere aiutati, ma nessuno questo poteva farlo, perché la battaglia divampava, sempre più aspra e violenta. E infatti il mio battaglione fra morti e feriti, subì gravi perdite quando venne il giorno e la battaglia si calmò, ci rendemmo conto del perché del pestilenziale puzzo, che c’era in quella zona, perché il terreno era tutto cosparso di cadaveri insepolti, sia dalla parte delle nostre trincee sia verso quelle del nemico, che non erano tanto lontano dalla nostra posizione, forse a meno di due o trecento metri.

Per quanto Ubaldo sia generalmente poco incline a drammatizzare, portato com’è piuttosto al motteggio e al particolare curioso, descrizioni come queste tornano con insistenza nella sua memoria, segno che anche a distanza di tempo lo spettacolo della morte di massa, questo disfarsi inesorabile dei corpi da cui sempre più fievoli salgono i lamenti, continua a pesare sul suo immaginario e sulla sua coscienza. Alcuni particolari si incidono nel ricordo, come le pastiglie di canfora da tenere in bocca, distribuite ai soldati esposti al puzzo e al contagio della putrefazione nel Vallone di Doberdò. L’esperienza diviene poi ancor più penosa quando deve assistere personalmente alla morte di un amico, col quale ha condiviso numerose volte la libera uscita serale, e che esala l’ultimo respiro sotto i suoi occhi. 87­­­­

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Ma più di tutti mi dispiacque la morte del sergente Valerio un bravo giovine di Torino che era stato tanto affettuoso verso i suoi soldati [...] Quando venni a sapere che questo Valerio, era stato ferito in modo grave, e mi indicarono il punto preciso dove l’avevano messo andai a vederlo, la sua ferita era gravissima era stato investito, da un tremendo scoppio di granata, che gli aveva amputato la gamba destra appena sotto al ginocchio, e in terra dove era stato collocato, c’era una gran quantità di sangue, che egli aveva perso a causa della orribile ferita, e si raccomandava dicendo fatemi qualcosa perché io non voglio morire, lo medicarono un po’ alla meglio li in trincea, lo fasciarono e lo adagiarono su una coperta, perché data la grave ferita riportata che non permetteva di poterlo smuovere, ma dato la grande perdita di sangue da lui subita, dopo pochi minuti esalò l’ultimo respiro. Vinto dalla commozione piansi, ma dovei ritornare al mio posto e farmi animo [...].

A parte questi momenti di rimpianto e di commozione, il racconto di Ubaldo Baldinotti si snoda sempre col piglio dell’osservatore attento e lucido, del cronachista accurato. Così è ad esempio quando, in un capitoletto intitolato Entra in azione anche il forte di Duino, registra un episodio dove il nemico, per un errore di tiro, colpisce le proprie stesse file, decimando un reparto di soldati ungheresi. Una volta di più, stupisce nel narratore l’abile scelta delle similitudini: Dal forte di Duino che era a difesa di Trieste, che era alla nostra destra, spararono a distanza di meno un minuto fra il primo e il secondo, due colpi da 420 e con i quali invece di colpire sulle nostre trincee scoppiarono nel valloncello sottostante e presero in pieno i soldati che c’erano, che erano già pronti per attaccare alla baionetta, e avevano già principiato a urlare urrà urrà, come noi gridavamo Savoia quando attaccavamo alla baionetta. Questi soldati erano quasi tutti ungheresi, e con quei due colpi da 420 che gli aveva presi in pieno, pochi e forse punti rimasero in piedi e caddero come quando si fa il giochetto, rizzando le carte da gioco, che basta toccarne una che cadono tutte [...].

Anche questa è guerra grande, immane macello in cui le perdite dell’amico e del nemico si mescolano e si confon88­­­­

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dono senza più forma né distinzione, sotto il dominio delle artiglierie.

Lo spettacolo della guerra Toscano come Baldinotti, come lui di estrazione contadina, autore di un “diario” steso come si è detto su numerosi quaderni, che è in realtà una scrittura successiva agli avvenimenti, Giuseppe Capacci assume di fronte alla guerra grande la stessa attitudine di osservatore dell’evento dall’esterno, anzi si direbbe propriamente di spettatore e testimone curioso, manifestata dal soldato di Bagno a Ripoli, anche se i suoi mezzi linguistici, per quanto eccezionalmente efficaci, appaiono meno fluidi. “Il diciannove ottobre fu la mia prima giornata da memorare, quando con i miei compagni per la prima volta ci si trovò sotto al tiro del trecentocinque austriaco”, scrive assumendo l’atteggiamento di chi appunto affronta esperienze memorabili, ne esplora cautamente lo svolgersi, ne predispone un resoconto. Egli appare teso a registrare accuratamente ciò che vede, sente e vive: luoghi, situazioni, suoni, luci, comportamenti, senza trascurare annotazioni meteorologiche e climatiche (visibilità, temperatura) e senza mostrare quella sorta di perdita di controllo che è talvolta indicata come uno dei tratti caratteristici di un prolungato contatto con l’ambiente di trincea. Sulle date è anzi precisissimo, lasciandoci nel dubbio che si affidi nella ricostruzione a qualcosa di più che la semplice memoria: “Era il terzo giorno di luglio, la giornata chiara con molto caldo”. Si può quasi dire che il giovane contadino di Pozzo del Pero presenti se stesso nel teatro di guerra più come spettatore che come attore, ciò che conferisce al testo una dimensione riflessiva e per così dire contemplativa inusuale. Possiamo avanzare l’ipotesi che questa attitudine di osservatore derivi all’autore non solo da uno stile narrativo colloquiale acquisito spontaneamente, vicino all’oralità, e dal carattere personale, 89­­­­

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ma anche dalla consapevolezza della guerra come evento sovrastante, sottratto al potere dei singoli, tanto più se si tratta di semplici soldati come lui. La guerra grande di Capacci è un evento che si autoriproduce, impersonale, irrazionale e sottratto alle possibilità di controllo. Dopo la descrizione di una notte passata insonne in turni di guardia, dice: “sono nottate memorabile, ma non ha spiegazioni”. Ed ecco cosa annota a proposito dei suoi spostamenti sul territorio: “Un bel giorno il nostro capitano ci fece lui una morale dicendo: ‘Domani mattina si deve partire di qua’. Ma per dove, noi soldati non si sapeva mai: si vedeva quando eravamo arrivati sul posto”. La direzione, ma anche la logica degli spostamenti sfuggono, in quanto dipendono da un potere superiore sconosciuto. Allo stesso modo non si riesce mai ad afferrare la logica complessiva della guerra, che si presenta come una sequenza casuale di assalti e ritirate, di attese e trasferimenti, di cui è impossibile cogliere il senso benché ne sia evidente l’esito distruttivo. Sembra consistere in questo la spiegazione più profonda del fatto che Giuseppe Capacci osserva la guerra come se si trattasse di vicende esterne all’osservatore. Egli capisce che non è attore, ma è agito dalla guerra, il che evidenzia come meglio non si potrebbe il processo di straniamento connesso alla moderna guerra tecnologica, di masse e di materiali, non di individui e di volontà, che è l’essenza della guerra grande dal lato dell’esperienza vissuta. La sua saggezza consiste così, in più di un’occasione, nel non fare, nel non lasciarsi trascinare dal panico collettivo che talvolta afferra i reparti, nella passività. C’è in tal senso nella sua memoria un bellissimo episodio, nel quale egli vede cessare piano piano attorno a sé il combattimento, senza lasciarsi mai coinvolgere dagli ordini contraddittori e dalle voci concitate che lo investono. Certo, salvo nel caso specifico degli assalti, la guerra assomiglia molto al lavoro, che in fondo lui ha sempre conosciuto. “S’incominciò a lavorare – scrive nel primo dei suoi quaderni –, far trincere, reticolati, strade ecc. Si andava al mattino, si ritornava la sera; il primo rancio ce lo portavano. 90­­­­

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Lo stipendio era di quaranta centesimi del lavoro, cinquanta di cinquina”. E nel quarto quaderno: “Arrivati al camminamento dove noi si doveva lavorare, vi era lì la ferrovia e un casotto; ci si distese a distanza facendoci passare picchi e badili, si posa il fucile e ciberne e giù allavora [al lavoro] come tanti contadini”. Ma si tratta di un lavoro particolare, in uno scenario particolare, incongruo: “Qualche cannonata passava sopra a noi portando il saluto al ponte dell’Isonzo; si lavorava in mezzo a un campo di granturco, ormai secco, le badilate facevano del fracasso, qualche piccone, batteva nel badile; qualche sdrappel [shrapnel] scranò [scoppiò] vicino: tutti si mette la testa sotto al riparo, nessuno parla. Il tenente subito fa riniziare il lavoro. Verso le due della notte si scatena un furioso contrattacco; tutte le armi entrono in azione, le pallottole passavano molte inviperite, chioccando nel granturco e nel ciglio del camminamento”. Rumori usuali e inusuali si sovrappongono, l’ordine ciclico della notte e del giorno a tratti si inverte: “Così il giorno si dormiva, la notte si faceva camminamenti, portare fare caval di fris[i]a; la notte si passava al lavoro al lume delle stelle, ma non mi disturbava a lavorare: ho sempre lavorato? [!]”. Dunque, lavoro come sempre: eppure c’è qualcosa di incomprensibile nella nuova situazione rispetto alla normalità del lavoro contadino che lui conosce. Come abbiamo notato in altri testimoni, la produzione si confonde misteriosamente con la distruzione. Sfugge lo scopo di questa fatica meticolosamente coordinata, di questa imponente organizzazione: “mi parea inutile – annota dopo aver osservato la giornata chiara e il sole splendente –: si va alla morte senza scopo di nessun profitto”. Questa duplicità dello sguardo, questo sdoppiamento tra un Capacci attore e un Capacci osservatore, questo muoversi su una scena apparentemente ben coordinata, in realtà inspiegabile, accentuano l’impressione di irrealtà, fanno pensare a una rappresentazione, a una finzione, e conferiscono una speciale pregnanza alla metafora del “teatro” di guerra. Ma se il paragone col teatro – come notò a suo tempo 91­­­­

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uno degli innovatori della storia culturale della guerra, Paul Fussell – sembra il più appropriato allo scenario prevalentemente statico della guerra di trincea, nel fissarne le singole scene Giuseppe usa più volte procedimenti cinematografici e spesso rinvia esplicitamente al paragone col cinematografo, mostrando come il suo sguardo sia stato già condizionato e modificato da questa forma relativamente recente di rappresentazione. Il paragone viene evocato sia per alludere alla spettacolarità delle scene, sia per renderne il dinamismo, la confusione, i rapidi e improvvisi mutamenti di inquadratura, sia infine per sottolineare l’elemento irreale dovuto all’intervento dei nuovi mezzi tecnici chimici ed elettrici, come i razzi e i riflettori, che modificano profondamente l’ambiente percettivo. “Mi sembrava una rappresentazione al cinema” – conclude ad esempio dopo aver descritto la seguente scena di duello aereo, una novità pressoché assoluta che la modernità ha dapprima proposto in chiave sportiva e la guerra ha ora adottato: Non avevo ancor veduto areoplani nemici, ma lì sin dal primo giorno potei esplementarli [sperimentarli]: mi rimaneva meravigliosa vedendoli lottare con nostri; sentendo stridere nell’aria le famose metraglie; guardando i nostri cacciatori, a guisa di rondinella, con il volo velocissimo in su in giù spesso capovolgendosi come colpiti: invece più veloce riprendono il volo infugando i nemici del [dal] nostro c[i]elo nel suo. Pur i nostri artiglieri con i suoi cannoni gli portavano saluti nell’aria e l’inseguivano; quando non tirava venti si formava nuvolette dal fumo delle splosioni, si vedea la strada che avea fatto per qualche po’ di tempo.

L’intreccio degli aerei che si inseguono in volo come le rondini, le evoluzioni acrobatiche, le nuvole delle esplosioni che lasciano dietro di sé una scia tracciante: è senza dubbio la scena di un film di guerra aerea, che colpisce la fresca immaginazione di Giuseppe Capacci per la sua novità. Ed ecco un’altra scena di guerra, questa volta terrestre, sottolineata come tale dal nostro attento osservatore: 92­­­­

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Era circa le undici di notte: al lume dei razzi che salivano in aria come luti [scintille] di fuoco di un incendio, mi appariva davanti agli occhi come un cinematografo. Correvano giù e su, davanti a’ reticolati, per trovare il passo; qualche granata arrivava sul posto, che formava una grossa nuba di fumo e di terra asciutta; non vedevo più niente; alsato e scomparso il fumo, rivedevo soldati ancora lì, alcuno aveva preso nelle spalle qualche compagno ferito, lo portava al sicuro.

Anche qui, Capacci non assiste alla guerra, ma a un film di guerra, con il succedersi delle inquadrature: la concitazione di un assalto, le nuvole di fumo sollevate dallo scoppio delle granate, l’affaccendarsi dei soldati dopo le esplosioni per il soccorso ai feriti. Ed eccolo ancora sottolineare gli stravaganti giochi di luce provocati dal movimento dei razzi: “Quando gettavano su i razzi alluminosi, che poi ricalano a terra, mentre la luce si abbassa l’ombra dei stacoli corre dall’altra parte: se cascava a senistra, tutte le ombre dei stacoli cor[ro] no a destra; c’era questi fra noi, che non avevano mai veduto, gridavano: ‘Si vedono! Vano di corsa a destra!’”. Lo sguardo veloce di Giuseppe percepisce ciò che altri meno esperti o più ingenui non colgono: l’opposizione tra il movimento delle luci e quello delle ombre proiettate dagli ostacoli che si frappongono. Sono gli elementi di un nuovo paesaggio visivo e sonoro che la tecnologia disegna e la guerra diffonde e amplifica, ridefinendo il rapporto dell’uomo con la natura, creando nuovi dinamismi di luci, suoni, movimenti in successione, illusioni e immagini che ripropongono versanti inediti del reale. Siamo di fronte a un mondo nuovo, che il nostro soldato osserva e racconta, come se avesse ascoltato l’appello a testimoniare di Robert Musil dalla “Tiroler Soldaten-Zeitung”: “Il poeta vede le cose come se fosse la prima volta: ogni soldato che si renda imparzialmente conto di quanto vede, diventa poeta”. Ed eccone una conferma: La sera poi rappresentava meglio il teatro della battaglia: si saliva persin nelle piante per meglio vedere: pareva una linia di fuo93­­­­

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chi artificiali; di dietro alle prime colline si scorgeva il balenio dei cannoni alla partenza dei colpi; si udiva un sordo rombeggiamento lontano, dove i proettoli si radunavano a destinazione; abbruciava la terra, incendiata l’aria. Fra mezzo a quella tempesta si vedeva inalsarsi i razzi, vigorosi, lucenti: è la fanteria che si fa viva [...] I fanali frugavano l’aria e le valli, s’incrosciavano [s’incrociavano], s’incontravano, come avessero fatto a gara chi meglio alluminava quelle posizioni. Non sono io buono a dare una più semplice idea del presente di tutto ciò che si udiva e si vedeva, ma ci voleva un filosofo o un bravo giornalista.

È evidente la modernità di questo sguardo. Capacci è testimone di un mondo in trasformazione che la guerra grande tiene a battesimo con le sue dimensioni inusitate, le sue sequenze visive e sonore inedite, i suoi spettacoli pirotecnici forieri di morte. Ed è lui stesso partecipe di questa trasformazione: essa si svolge anche nella sua sfera mentale. Benché il suo sia un testo per certi aspetti singolare, ormai sappiamo che non si tratta di un’eccezione. Conosciamo ormai molti testimoni di competenze letterarie modeste, lessico poco raffinato, sintassi e grammatica traballanti, ma attraverso i cui testi passa, con il grande terrore e il grande dolore della guerra, la grande ventata del cambiamento in corso. Sono i testimoni di ciò che dovette rappresentare per le schiere di giovani uomini, specialmente di contadini, la partecipazione involontaria a quell’incredibile evento, e su quanto diversi dovettero tornare a casa i fortunati che non ne furono inghiottiti.

Il dominio del caos Da un certo punto in poi la memoria di Carlo Verano, il contadino ligure di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, assume il carattere di una sequenza implacabile di vicende catastrofiche, sempre sull’orlo di esiti fatali, segnate dal succedersi ininterrotto di avvicendamenti tra prime linee e brevi riposi nelle retrovie, da attacchi, contrattacchi, permanenze 94­­­­

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impossibili nella terra di nessuno, bombardamenti senza tregua. A colpirci nella sua prosa è soprattutto l’involontario quanto straordinario mimetismo tra il testo, dal punto di vista lessicale e sintattico, e il carattere degli avvenimenti narrati. Per quanto riguarda il lessico, si tratta spesso di parole, tra cui numerosi neologismi e storpiature, che esprimono dissociazione, scomposizione, disarticolazione, come se fosse scomparsa, dall’ambito dell’esperienza vissuta, ogni traccia di un universo ordinato e razionalmente raccontabile: parole come “finimondo”, “sconvoglio” (nel senso di sconvolgimento), “miscuglio”, “flagello”, “fragellare” (nel senso di sfracellare), “randellati” (nel senso di “a brandelli”), “strage” (molto frequente) si inseguono in rendiconti segnati dall’affidamento quasi fatalistico e persino apparentemente rassegnato alla protezione materna della Vergine. Per quanto riguarda la sintassi, si noti il mimetismo tra la forma scrittoria, disarticolata e torrenziale, del brano seguente, uno fra i tanti del genere, e il suo contenuto, riguardante un bombardamento notturno seguito da un attacco nemico, nel giugno del 1916: Al giorno 25 Giugnio alle ore 2 di notte ecco che sentiamo aprire il suo fuoco da tutto il fronte ed i nostri cannoni ci rispondono. Battono retrovie trincee e tutto, non si sapeva più dove passare e dove stare i feriti andavano giù come le mosche e come tanti morti ed io solo raccomandarmi alla Madonna Santissima che mi protegga e che mi salvi da questo infernale bombardamento che da nessuna parte non si sa dove ripararci. Le trincee sono a terra, tutti quasi siamo al scoperto, in trincea le nostre forze consumano ed alle quattro del mattino ecco che loro vogliono venire all’asalto ma sono respinti: Un’altra volta ancora e ci buttano il Gaz Asfiziante che proprio io lo presi bene in bocca che mi rovinò tutta la lingua che non poté più mangiare solo che bere. Ecco che escono fuori dalla trincea a plotoni affiancati tutti ubriachi e la distanza da loro eravamo a 25 metri ed arrivano ai nostri reticolati che sono nuovamente respinti. Dalla parte sinistra quasi che erano nella nostra trincea l’abbiamo presi prigionieri più di cinquanta. Le forze nostre 95­­­­

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consumano e si chiama rinforzo dal Secondo Battaglione e così subito soppravengono. Era un continuo bombardamento e strage non si sapeva più niente nessuno non comandava più e soli noi a guardare ed a resistere per salvarci.

Non si potrebbe esprimere meglio la perdita di ogni principio di razionalità e di comando, il puro dominio del caos, all’interno del quale il solo elemento ordinatore dotato di una ratio è il soggetto singolo, con la sua volontà e soprattutto la sua speranza di scampare. La sequenza degli assalti continua ininterrotta, occupando diversi giorni e diverse pagine. Lo scenario si carica di lacerazioni improvvise, di urla disumane, fuori controllo e il paesaggio perde i suoi connotati plausibili mentre la terra stessa si squarcia come sotto i fendenti di un terremoto: I nostri cannoni – scrive poco più avanti – erano un fuoco continuo che assolutamente loro non potevano venire dalla grande squarciata di terra che si faceva. Ma sono prepotenti non vogliono darcela vinta Giorno 28 alla mattina all’alba sotto ancora a un bombardamento terribile vogliono venire un’altra volta ma per i primi vengono avanti gli arditi suoi e gridano Urrà e noi pronti a loro con bombe a mano e mitraglia tutti quasi rimasero al suolo ma ecco che esce gli altri dalla trincea a gruppi come le pecore che non possono arrivare a metà trincea che vanno indietro e spersi quei rimasti che dico la verità davanti a noi dalla trincea ci pareva un suolo anzi mucchi di cadaveri e feriti che non si poteva iscrivere perché erano dei centinaia e centinaia ed il passaggio era quasi chiuso che sempre si racchiudevano uno sopra l’altro che continuò due giorni e una notte.

Per ore e per giorni, come in un disegno di Grosz o di Dix gli uomini si azzuffano e si fanno a pezzi, assumendo un’attitudine stupida e feroce, sanguinaria, un caotico e meccanico, compulsivo intento omicida che produce un guazzabuglio grottesco, disordine e morte seriale. Quando il furore si esaurisce e la zuffa si interrompe, allo sguardo attonito del soldato 96­­­­

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si offre lo spettacolo del carnaio, in un paesaggio osceno e desolato: un tema sul quale Verano torna spesso con tono di rassegnato stupore. “Giorno 1 Luglio non c’è tanta tormenta di fronte solo pare che voglia nuovamente piovere tutto è nuvolo, le trincee quasi l’abbiamo reparate alla meglio ma i reticolati ancora sono frandellati e pieni di morti di loro. È proprio un vero sepolcro da tutte parti scende del sangue la terra è rossastra da quei uomini sparsi e fragellati che domanda pietà e pace”. A più riprese nella memoria si disegnano scene dell’Apocalisse in cui tutto fiammeggia, l’aria stessa è frustata e percossa, torme di uomini simili ad animali si alzano a ondate, come sciami di mosche impazzite o di pecore in preda al terrore, si accalcano, si innalzano e poi si abbattono. Il nostro narratore non perde tuttavia le coordinate di tempo e di spazio e riesce a raccontare ciò che avremmo pensato inenarrabile se non per la penna di un grande scrittore come Ernst Jünger. Ecco ad esempio come dà conto di un assalto nemico ripetutamente respinto, nel giugno del 1918: Ma alle 11 e un quarto ecco che incomincia il bombardamento accellerato bombarde di grosso calibro ed i nostri ci rispondono bene. Non pare di notte ma di giorno perché il chiaro fatto dai cannoni è ividente e la terra arde come il fuoco. Poveri noi è proprio un finimondo. Si sente il bombardamento che è un’offensiva su tutto il nostro fronte. Sono le due di notte e la trincea l’abbiamo quasi per terra tutta sfradiciata rotta. [...] Alle ore quattro la sentinella grida all’armi al gas Asfiziante e noi subito la maschera, e si sta più di mezz’ora con la maschera al muso che poi bisogna uscire fuori dalla galleria perché era peggio ed il gas ci colpiva di più. Si esce fuori e si vede da per tutto una fiamma continua la terra si rovescia da una parte e dall’altra, terra e sassi sulla testa. I strapel piovevano come la grandine. I feriti in quel mentre andavano giù come le mosche. Ed il Capitano grida di stare attenti. Una confusione immaginabile. Sono le ore 6 incomincia a venire giorno e tutto si vede. Tutti pronti come belve. Le nostre mitragliatrici cominciano il suono a cantare. Il capitano grida ragazzi pronti fatevi coraggio e piange. Il Maggiore 97­­­­

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dice povero mio Battaglione non lo vedo più e piange anche lui. Ma nella confusione nessuno non sa più nulla [...] Ore sette e un quarto ecco che gli vediamo venire su come le pecore ubriachi e gridando Urrà Urrà. Ma le nostre Mitragliatrici fanno delle strage come le nostre bombe ed i nostri fucili come i nostri cannoni, ma non arrivano a metà trincea che sono tutti a terra. Si alza l’altra linea e vengono come le mosche e noi fuoco accellerato che arrivarono sino ai nostri reticolati e gli saltammo fuori e gli prendiamo tutti prigionieri senza i morti e i feriti dietro. Prendemmo 1080 prigionieri in un colpo. La nostra Artiglieria è implacabile e fortissima che non possono venire per nessuna ragione. Le nostre mitragliatrici è un fuoco immaginabile e si cambiano perché l’acqua bolle e sono rosse [incandescenti] dal fuoco che fanno. Sono le ore 8 un’ora continuo di avansare non si vede più niente, chi grida da una parte chi grida dall’altra sono cose immaginabile [...]. Sono le ore 8½ ecco che vediamo nuovamente uscire da destra e da sinistra gridando sempre come le belve. E noi fuoco con bombe a mano e fucile e Mitraglia che restano quasi tutti al suolo. C’era un piccolo fosso e tutti andavano di lì ed era pieno di morti che non potevano più passare i viventi.

Dopo altre ore e altri giorni di combattimenti quasi ininterrotti, lo scenario non cambia. L’eccitazione della battaglia non sfocia nel compiacimento per la supremazia sul nemico, al contrario si fa strada un sentimento di pietà per le vittime della strage: Siamo alle 10 di notte e si è aperto un fuoco di calibro da 181 bombarde chiamate che è quasi centro sulla trincea. La terra ed i sassi pare una grandine e tutto è rovesciato, e tutto arde come il fuoco in cucina [...] Escono fuori con un terribile slancio che il desiderio vogliono venire a noi, ma col nostro fuoco ardente gli buttiamo quasi tutti a terra, ma incomincia l’altra sua ondata che pargono [paiono] pecore, ma tutti con una voce solo e come tanta confusione nel far fuoco che niente più si sapeva. Le nostre mitragliatrici tante sono fuori uso dal terribile fuoco ma si cambia, e vedendo in quei burroni ammucchiare cadaveri che a sua volta rimasero perduti. Vediamo alla destra del Monte Fiore venire sempre avanti truppa di rinforso ma la nostra Artiglieria gli sperdeva [...] Due ondate di loro sono venute su come le mosche ma noi 98­­­­

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l’abbiamo protetti e serviti. Il suo assalto è andato smarrito anche questo, ma non sono contenti, sono le ore 8 ecco che vediamo uscire di nuovo ma molto ubriachi e questi poveri uomini scendevano giù a terra come le mosche ma tanti e tanti arrivarono nella nostra trincea per rendersi prigionieri disarmati e venivano nelle nostre mani. Anche questo finì così nella sua perdizione. Ma il bombardamento era proprio un finimondo perché pareva che fossimo per aria a ballare e a tenere il liquilibrio per non più abbattersi a terra. Era un miscuglio di tutti soldati tutti eravamo come le belve nessuno non sapeva più nulla.

L’ambientazione sonora, lo spettacolo della morte in serie, la frantumazione della materia e gli effetti di luce producono il senso di una dimensione artificiale: effetti speciali dove lo spazio si disarticola, il sopra e il sotto, l’alto e il basso diventano intercambiabili e l’uomo si libra nell’aria come una figurina di cartone in una specie di pazza danza macabra. Questo racconta il contadino di Sarola Carlo Verano, inconsapevole interprete di una guerra che ha spinto gli uomini sull’orlo del baratro producendo in tutti una profonda metamorfosi. Un evento che ha dell’incredibile, tant’è che egli sente il bisogno qua e là di certificare il suo racconto quasi fosse scolpito nella pietra: “Vi descrivo tutto questo come pietra formidabile incisa dalle mie mani giovar la verità e la sincerità”. Ma accanto al resoconto ininterrotto di questo inferno, Verano non manca di riferire puntualmente su singoli episodi di altra natura, concernenti le pratiche della disciplina militare, che lo vedono protagonista o lo turbano. Così è per l’ingiusta e pesante punizione a cui è sottoposto per una piccola mancanza, o per la decimazione cui assiste, manifestazione di una disciplina feroce che nondimeno egli – se non capiamo male il commento finale – sembra interiorizzare, vivendola come troppo grande e inesorabile per essere in grado di contestarla. Ecco come narra quest’ultimo episodio: Siamo al giorno 28 Luglio e sentiamo dire che il 93 Fanteria in trincea a fatto una rivolta verso i superiori e che sono stanchi della 99­­­­

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trincea e della posizione [...] Vengono giù al Vallone Doberdò e noi eravamo vicino. Alla mattina del giorno 29 alle ore 9 il Colonnello gli fa schierare tutti i battaglioni e passa a contare gli uomini e quando si trovava a dieci ne faceva venire uno fuori. Noi dicevamo cosa sarà questo? E vediamo alla fine contati gli prende tutti quei fuori e comanda un plotone di soldati a fucilargli ma si sono rifiutati, allora ci fa mettere i carabinieri e vedendo quei uomini piangere e gridare io sono innocente l’altro io sono padre di 2 figliuoli ma il comando viene dato fuoco e tutti a terra balsarono. La fossa era pronta e tutti al suo destino. Io dico la verità il sangue mio era in quel mentre acqua e disfatto a vedere quel fatto così di un esempio dato a quei pochi rimasti. Poveri noi cosa siamo a questo mondo. Ma il male è sempre castigato e sempre sarà il modo di farlo castigare.

Sopravvivere nella terra di nessuno Scritto probabilmente a maggiore distanza dagli avvenimenti rispetto a quello di Carlo Verano, ancor più difficoltoso sul piano dell’ortografia e della sintassi, il racconto della battaglia presente nella memoria di Giovanni Pistone appare forse meno concitato, ma non meno drammatico di quello. Anche qui, pagine di alta tensione propongono il tema degli assalti e dei bombardamenti, quelli subìti e quelli compiuti: momenti durante i quali la vita non vale più nulla e scampare il pericolo diventa un’improbabile scommessa. Anche qui, gli istanti possono sembrare una durata interminabile, gli eventi si prolungano indefinitamente per ore e per giorni come se il tempo si sospendesse nella furia dello scontro. Ecco, nella sua prosa sempre pacata, la descrizione di un assalto sul Carso a cui prende parte, preceduto da un forte fuoco di preparazione: Ad tutto un tratto le nostre artiglierie di grosso calibro anno iniziato un borbandamento che duro 3 giorni e tre notte senza cessare il bonbardamento i pezzi da 210 è i 149 allora non cenera dei piu grossi il proietile passavano sopra le nostre teste e si vedevano nella traetoria; Abiamo subito capito che si trattava di una grande offensiva era nel mese di Ottobre credo che sia stata lo fensiva o Batalia Generale come si vol chiamare del 63 Regg. era gia da tempo che 100­­­­

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era lì in prima linea ed erevamo li di fronte alla Trincea delle frasche; dove che il nostro Capitano della 7 compagnia volle andare lui il primo sbalso alla salto [all’assalto] di questa Trincea. lei si credeva di conquistarla come fosse niente è con lui porto [portò] la bandiera è li avevano fatto una ridotta molto avanzato da vanti alla prima linea e lui porto tutta la compagnia e li pronto per il primo sbalzo dato che lui volle andare come volontario da questa ridotta alla Trincea nemica ciera [c’erano] circa 30 metri e di li si parti col grido di Savoia saltando fori dalla trincea; io e pochi altri al primo siamo saltato fuori è siamo arrivati sotto la trincea a 3 metri e avevono già tentato altri io non so a dire chi sono ma avevano già scavato qualche buco ma proprio sotto la trincea li cera anche un po di conca; e noi cessato il bombardamento coi canoni; dato lordine di dare la salto; siamo partiti subito è a fare 30 metri si fa presto è nel fra tempo gli austriaci non anno fatto ne anche tempo per mettersi per aprire il fuoco; così noi siamo arrivati sotto la trincea che non avevano ancora aperto il fuoco. Ma eravamo pochi neve [nove] o dieci soldati e li si siamo messo in sillenzio e aspedando che venga il grosso li era il punto dove si doveva ocupare la Trin[c]ea se avessero voluto mi [ci] avrebero ucisi tutti ma o capito che noi pochi ci davamo poco fastidio, era il grosso che ci faceva paura e loro avevano ragione.

La descrizione prosegue con questo andamento lento, sequenza per sequenza, come se ogni più piccolo gesto e movimento nella terra di nessuno si fosse stampato nella memoria. Quando partì il secondo scaglione per la salto gli astriaci erano a posto ed anno aperto il fuoco e quelli che sono venuti della nostra di rizione [nella nostra direzione] ci sono rimasti [sono stati uccisi] tutti. Noi pochi erevamo sdraiati lì a terra e li videmmo questa disfatta che non potevano piu avanzare. A tutto un tratto cessano il fuoco è non tentano piu di avanzare. Il nostro capitano è rimasto preso dalla mitraglia 7 pallotole mi anno raccontato e tutti quelli che avanzarono dopo di noi ci sono rimasti tutti [sono tutti morti].

Il racconto sullo scontro spietato in quei trenta metri che separano le due trincee si prolunga ancora per pagine e pagine, con alcuni soldati come Pistone bloccati in prossimità del nemico e gli altri assalitori che si abbattono a più riprese sotto 101­­­­

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il fuoco delle mitragliatrici. Le artiglierie italiane riprendono a battere le linee austriache per evitare che arrivino i rinforzi dalle retrovie. Approfittando del gran fumo fatto dai cannoni Giovanni riesce a retrocedere nella propria trincea proprio quando si prepara un nuovo assalto. Come in un cinematografo, la sequenza si ripete simile alla precedente. Nuovamente egli balza fuori dalla trincea e cerca di tornare a occupare il posto che aveva prima, ma senza riuscirci. La carneficina è pesante, ma Pistone, assistito da una certa lucidità e misteriosamente protetto dalla fortuna, riesce un’altra volta a scamparla: ma si capisce che sono secondi non minuti. Pochissimi siamo arrivati la dove erevamo arrivati prima. Dopo gli austriaci anno a perto il foco e tanti che anno sbalzati fuori li ci sono rimasti tutti perché andavano alla salto in piedi o al piu curvi si fa un grande Bersaglio e li le mitraglie che le aveva detto [di cui avevo riferito al maggiore] funzionavano è non potevano farle sal tare perche erano troppo vicine alla nostra linea: Cosi ci viene un masacro che di piu non si puo dire.

Le ondate successive, ostinate, dell’assalto si infrangono sotto l’implacabile fuoco nemico, e Pistone continua ad osservare e a ricordare con ordine ogni minimo dettaglio. Una parte di quelli che sono rimasti vivi decidono di arrendersi, ma anziché gettare il fucile per segnalare la proprie intenzioni, lo tengono fra le mani con tanto di baionetta inastata: “Ma nonso capire perche si arrendevano male si alzavano in piedi con le braccia al zate ma avevano da una mano il fucile con la baionetta sopra; e cosi li falciavano di continuo”. “Io non ero per rendermi” – ci tiene a precisare, ma vedendo i compagni cadere grida loro come devono comportarsi per riuscire nell’intento senza rischiare: Io non ero per rendermi è vedendo in quel modo da quel buco mi sono messo a gridare è fare passare la voce. Buttate i fucili strappate le camicie è alzate bandiera bianca. In fine sono venuti a conoscenza di quello che o detto è anno butta[to] a terra tutti i fu102­­­­

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cili è con le braccia alzate e camicie strappate ed allora non li anno piu uccisi e non so quanti che si sono dovuto arendersi ma erano tanti Io ero lì non sapevo cosa pensare. Quel austrico era li in piedi sulla trincea mentre che i nostri si arrendevano e mi vide e mi fece segno se volevo andare con loro io le dissi di nò e mi chinò nel mio piccolo buco passavano a plotoni uno preso [appresso] allaltro io ero sempre li nel mio posto [...].

Col favore della notte anche il nostro memorialista riuscirà finalmente ad abbandonare il suo rifugio isolato e precario a un passo dal nemico, e a rientrare nella propria trincea. Nel ricordarlo, egli tradisce un certo orgoglio per la sagacia del comportamento che lo ha salvato, e la soddisfazione per la fortuna che lo ha assistito. Nel dominio del caos, la sua narrazione conserva o forse meglio restituisce un ruolo al soggetto: non è stato travolto, ma è riuscito a uscire dagli avvenimenti conservando vita e ragione. La guerra grande non lo ha annientato, benché abbia superato i confini dell’immaginario: “Si capise – scrive fin dalle prime pagine della sua memoria – che queste cose cosi terribili non lo possono con prendere salvo quelli che si sono trovati nel caso e non ce ne anche pretendere di crederci”; “e queste cose qui – ribadirà più avanti – non lo posso capire nessuno salvo quelli che ci sono stati”.

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Supplenze Per una larga ma pur sempre limitata porzione di donne delle classi medio-alte la guerra è un’occasione straordinaria di esposizione e di impegno nella vita pubblica, nei compiti nuovi che il patriottismo impone: infermiere nella Croce Rossa, madrine di guerra, componenti dei comitati di assistenza, degli uffici notizie, delle opere di carità e di cura degli orfani. La patria è il luogo metaforico di questa proiezione pubblica che spinge la donna fuori delle mura e dei compiti domestici. Ma per la stragrande maggioranza, le contadine, le operaie, le bottegaie con il marito al fronte, a parte gli spazi di libertà rispetto alla sudditanza familiare che può offrire l’ingresso nel mercato del lavoro, la guerra è semplicemente la causa di un aggravio delle fatiche, dei compiti e delle responsabilità, pesa sulle loro spalle e contribuisce a ribadire i loro vincoli. La mancanza del marito spesso appesantisce le necessità del lavoro (specialmente nei campi, nelle botteghe, in nuovi impieghi per far quadrare il bilancio), complica i rapporti interpersonali nella famiglia obbligando a un confronto non sempre facile coi suoceri, impone una moltiplicazione dell’impegno educativo nei confronti dei figli piccoli senza la condivisione del padre. Se la funzione di supplenza esercitata dalle donne in alcuni impieghi pubblici urbani, dai trasporti alla nettezza urbana alle banche, si rende visibile fino ad attirare la curiosità del pubblico come una delle stravaganze imposte dal conflitto, quella nelle pieghe della famiglia e delle aziende domestiche rimane un oscuro fardello che solo le 104­­­­

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corrispondenze private rivelano. Talvolta tutto ciò ha però altri effetti: promuove un orgoglio del sé femminile e contribuisce a ridisegnare i ruoli, assegnando alla donna un potere inedito di iniziativa. La responsabilità è un peso, ma può anche irrobustire l’idea della propria identità, giocando anche in queste aree sociali come crescita dell’autonomia, mentre quella dell’uomo si affievolisce nell’inferno delle trincee. Gemma Gorrone è una donna di Spezia di ventisei anni nel 1915, sposata con Amedeo Andolcetti, che ne ha trentadue, da cui ha avuto due figli: Luciano, nato nel 1910, e Licia, nata nel 1912. Insieme gestiscono una macelleria che sembra piuttosto prospera. Dei due è rimasto un epistolario abbastanza ampio, la cui parte maggiore è costituita dalle lettere di Gemma ad Amedeo: lettere ordinate, scorrevoli, con qualche imperizia grafica, grammaticale e sintattica, ma chiare e molto ricche di capacità comunicativa. Quando lui viene chiamato alle armi, i compiti di Gemma si moltiplicano. Gestire la macelleria non è semplice. Amedeo vorrebbe comandare a distanza su ogni dettaglio ma Gemma sembra sapersela cavare da sola: “il bestiame a avuto un forte aumento – gli scrive nel luglio del 1915 – per ora vengono [le bestie costano] £. 2,40 £. 2,60 il Kg e non se ne trova. Papa mi procura buone bestie [...] la vendita e sempre la stessa quasi si vende di più, la carne si vende lesso £. 1,80, magro £ 3,00, filetto £ 4,00 il vitello io non lo tengo ma quei pochi che lo anno lo vendo[no] £ 5,00, il vino e aumentato come pure l’olio e il lardo, la farina e un po calata”. Le difficoltà aumentano se ragioni di salute fanno venire meno l’aiuto della zia in bottega e il lavoro diventa faticoso soprattutto durante le festività importanti, come a Natale, ma non se ne lamenta più di tanto: “Eccomi dopo qualche giorno di sosta a te – scrive la sera del 25 dicembre del 1917 –; come sai in questi giorni il lavoro non manca alla sera ero stanca e francamente l’unico rimedio era il letto, ma anche quest’anno me la sono sbrigata ormai non ci penso più”. Più avanti poi, nuove disposizioni e restrizioni creano difficoltà nell’approvvigionamento delle 105­­­­

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bestie, e generano apprensioni e talvolta tensioni col suocero, anche lui proprietario di una macelleria, in ordine alla suddivisione di quelle disponibili. Ma lei non demorde e con un certo orgoglio femminile smentisce la sorella che la dipinge dimagrita e invecchiata a causa delle fatiche: “riguardo a vecchia certo che con questa batosta ringiovanita non sono ma nemmeno invecchiata, un po stanca si” (lettera non datata). A pesarle sono soprattutto la gestione dei piccoli affari, le beghe per certi affitti non pagati, le tensioni che derivano da controversie coi creditori. In una lettera del 3 settembre del 1917, ad esempio, dopo aver fatto un lungo resoconto della tensione in corso per la riscossione di un affitto, e aver lamentato la mancanza in proposito della solidarietà del suocero, Gemma sbotta: “quando ci saremo sbarazzati di tanti fastidi? io ne sono proprio dannata, per conto mio non mi ci troverò certo più tanto facilmente”. A occupare lo spazio maggiore nelle lettere è però l’educazione dei figli, che vengono osservati crescere e di cui Gemma racconta lungamente al marito, restituendo quadretti di vita domestica che egli evidentemente apprezza. Si tratta della vita scolastica, delle vacanze in campagna e dei bagni di mare, delle prime prove di scrittura del bambino e di cucito della bambina, del taglio dei capelli, delle domande sulla sorte del padre lontano. Ne nasce una serie di episodi che sembrano voler addolcire il peso della guerra e della lontananza al marito, circondandolo di un clima tenero e affettuoso che possa compensarlo dei disagi. La guerra viene insomma addomesticata, neutralizzata dalla vita di tutti i giorni che reclama i suoi diritti e offre i suoi conforti. Di converso, anche la richiesta di notizie al marito assume talvolta un sapore assolutamente ordinario, come se si trattasse di una normale assenza per un viaggio: “qui il cattivo tempo continua, freddo, pioggia, e da te?” (25 marzo 1917). Le lettere di Gemma aprono uno squarcio non scontato sul vissuto infantile della guerra nelle famiglie dove un congiunto, particolarmente il genitore, è mobilitato, nel senso 106­­­­

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che testimoniano le sottili angosce di un’assenza di cui agli occhi dei piccoli non sono chiari il significato e i contorni. A farcelo capire è il racconto delle inquietudini della figlioletta al termine di una licenza, dopo la quale il padre, ricomparso dopo molto tempo, sparisce nuovamente: “Non puoi credere quanto sei rimasto vivo nella mente dei nostri cocoletti, durante la notte la Licia si è svegliata parecchie volte e mi chiedeva, dove sarà ora il mio papa? Ho dovuto finire con dirle che ormai eri arrivato al sicuro e che eri a dormire nella tua branda” (24 agosto 1918). È un documento dell’esperienza di guerra dell’infanzia non drammatico, ma illuminante di una sfera profonda che concorrerà a formare la memoria dell’evento. Malgrado l’immersione totale nel lavoro e nella cura dei figli, la donna non dimentica di tenersi informata sulle vicende della guerra, naturalmente nell’ottica primaria e cogente di ciò che può nuocere o giovare al marito mobilitato. Così il 18 agosto del 1917 commenta la proposta di pace del papa con espressioni di scetticismo: “hai letto l’offerta di pace fatta dal Papa? cosa ne dici? Io dico che sarà una bella bolla di sapone”. Nello stesso periodo echeggia le notizie sulle offensive italiane, interpretandole come un segno incoraggiante: “ora gli animi sono tutti pieni di speranza, i nostri valorosi soldati col loro eroismo e sacrificio hanno riacceso in noi l’entusiasmo” (27 agosto 1917). Nell’ottobre dell’anno successivo segue con trepidazione e speranza le notizie su una prossima fine del conflitto che cominciano a circolare: “la città è in festa, la notizia che la Germania e l’Austria chiedono l’armistizio ha prodotto un effetto grandissimo, tutti credono che la pace sia quasi fatta [...] Per poter avere il corriere della sera i più sono andati alla stazione” (7 ottobre 1918). E pochi giorni dopo: “hai sentito che buone nuove? Tutti fremono d’impazienza, attendono di giorno in giorno la grande parola: pace” (15 ottobre 1918). L’auspicio di pace torna molto spesso nella sua corrispondenza, peraltro non di rado associato a parole chiave come 107­­­­

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“gloriosa” e “vittoria”, nel pieno rispetto dei dettami del discorso pubblico nazionale di cui con evidenza subisce tutta la pressione, specialmente in una piazzaforte militare dell’importanza di Spezia. Chiaramente Gemma non ama la guerra, anzi più d’una volta se ne mostra esasperata per i riflessi che ha sulla sua vita privata: “Luciano e Licia ti aspettano – dice dei figli – ma perché tu non vada più via, se il Signore li esaudisse! se avesse fine una buona volta questa terribile storia” (lettera non datata). Anche gli eventi più lieti sono inevitabilmente guastati dall’atmosfera e dalle restrizioni del conflitto. È il caso del matrimonio di una cognata: “Forse sarà stato perché troppo si pensava a voi lontani o forse anche un matrimonio vero da guerra, cioè senza invitati senza festa, senza pranzo o rinfresco, credi che se non fosse stato per Otello e Cecco sarebbe sembrato tutt’altro che una festa” (7 luglio 1918). Ma è anche vero che manifesta una discreta dose di patriottismo, più esplicita – forse non è un caso – e più robusta di quella che non traspaia dalla corrispondenza del marito. Anche l’odio per il nemico e la sua esecrazione affiorano con nettezza nella sua prosa, sebbene pure in questo caso il fulcro emotivo resti quello della difesa e della protezione dell’amato. Così freme nei giorni di Caporetto al pensiero degli odiati nemici in posizione di forza, li chiama barbari, vili, dice che hanno “il diavolo dalla loro parte” ma si capisce che il suo timore è soprattutto che qualcosa di grave possa capitare ad Amedeo: “Io temo per te” (29 ottobre 1917). La guerra allontana massicciamente i maschi giovani da casa, impone una temporanea, sofferta centralità delle donne, fa di esse il perno e il punto di raccordo di una diaspora che disperde gli uomini sul territorio, dentro e fuori i confini nazionali, ai fronti e nelle retrovie, nei campi di prigionia e negli ospedali, esponendoli a rischi e facendo gravare sulla maggior parte di loro la minaccia di una sorte infausta. Esemplare in questo senso è il caso di Efisia Vassallo, una venticinquenne genovese (in realtà risiede nel comune rivierasco di Quarto che solo più tardi verrà annesso alla Grande Genova), orfana 108­­­­

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di madre, con un fratello emigrato in Sud America e altri tre richiamati per la guerra: Enrico, partito volontario, colpito da un principio di congelamento e perciò al sicuro nelle retrovie; Ernesto, sempre in prima linea; Giovanni, catturato dagli Austriaci nel 1916, alle prese come tutti i prigionieri, specialmente gli Italiani lasciati privi di assistenza dal governo, con la fame e col pressante bisogno di pacchi contenenti generi alimentari. A raccontarci la sua storia è un epistolario abbastanza fitto, che consta in totale di 81 missive scritte in un italiano incerto, pieno di difformità dallo standard. La morte della madre e la diaspora dei fratelli assegnano alla giovane una inusitata centralità nella famiglia. Sorella, madre e figlia contemporaneamente, vive in funzione dei maschi ed appare pressoché priva di una vita propria. Aiuta il padre nel suo negozio e lo consola nelle sue ambasce, sostituisce Giovanni nella bottega che lui gestiva nelle vicinanze, tiene i rapporti epistolari con i fratelli, si preoccupa dell’invio dei pacchi allo stesso Giovanni prigioniero, dà all’uno notizie dell’altro, rincuora tutti, rassicura tutti. Nelle sue lettere si avverte spesso la fatica, la spossatezza di questo lavorio inesauribile, di questa tessitura che grava tutta o quasi sulle sue spalle, di questa rassegna ripetuta di persone lontane, bisognose di parole e di cose, di questa speranza reiterata di ritrovarsi finalmente, prima o poi, tutti insieme. Alle incertezze per la sorte dei fratelli si aggiungono anche le pene per i loro compagni tornati a casa colpiti da gravi malattie, le domande sullo stato dei cugini ugualmente richiamati, mentre del fratello Benedetto, emigrato, si sono perse le tracce. Lo spettacolo delle sofferenze la angustia, non le dà tregua. Ernesto sempre solito posto – scrive a Giovanni il 7 ottobre del 1917 – solo che scrive che e molto stanco, si sente proprio esausto, poverino sempre al pericolo. Enrico sempre a Firenze lui ci sta tanto bene, solo che da un momento all’altro può essere mandato via [...] il pensiero di te e dei fratelli mi da la forza di sopportare tutto di affrontare questa brutta vita, Animo e coraggio mio caro il Signore sempre 109­­­­

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ci ha aiutato, e speriamo presto di trovarci di nuovo tutti riuniti e dimenticheremo questi brutti tempi, domenica sono andata a Nervi a trovare quel tuo compagno Odone Mario, Poverino e sempre piú male si bene sia molto ben trattato e nutrito, Ma si vede che il male era già molto avanzato, Non posso descriverti come tutti le voliono bene pensando che a sofferto tanto, e stato ridotto a quel modo dal cattivo nutrimento Il più che ti raccomando e di farti coraggio non pensa[re] a noi che stiamo bene e di averti riguardo di non ammalarti noi [guarderemo] di fare il possibile per poterti sempre spedire il pacchi anche di vestiario scrivi o manda se puoi telegramma che ti spediremo quello che ti occorre. Dal cugino Vergilio [anche lui prigioniero] non anno più notizie non sanno nemmeno se riceve i pacchi, Eugenio si deve presentare questi giorni Anche Benedetto ci sarebbe [sarebbe sotto le armi, se non fosse in America], ma da lui e tanto tempo che non abbiamo più notizie [...].

Via via la sua prosa si fa più ripetitiva, più esausta, si rinnovano meccanicamente le perorazioni, le invocazioni, le raccomandazioni in attesa che l’evento desiderato, la fine della guerra, sciolga tutti i nodi. “Dio voglia che presto finisca questi brutti tempi e venga la pace mon[d]iale e finisca questi grandi sacrifici che il momento ci impone Coraggio caro non pensare a noi” – scrive al fratello Giovanni il 7 luglio del 1918. Da ultimo si aggiungono a preoccuparla anche la malattia di Ernesto, colpito da tubercolosi, che lei raggiunge in ospedale e che trova debole, fragile, incline alla commozione; e le conseguenze dilaganti della Spagnola che imperversa. Il 6 novembre, con la vittoria e la fine della guerra, sembra avvicinarsi il momento agognato della riunificazione: “Non so descriverti la felicità del babbo per la vittoria delle nostre armi credi che in questi giorni e ringiovanito e a quistato certezza di riabraciarvi tutti sani e salvi”. Ma il tempo che le resta per assaporare questa gioia è poco. Quando la sua estenuante missione sembra ormai compiuta, colpita anche lei dalla febbre, Efisia muore il 12 dicembre. Anche nelle famiglie contadine spesso si nota il forte ruolo delle sorelle dei coscritti nel gioco degli affetti e nella rete 110­­­­

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di assistenza. Un esempio molto interessante in questo senso è fornito dal rapporto di Giovanni Panattaro, il giovane contadino vercellese di cui abbiamo diffusamente parlato in precedenza, e la sorella Giuseppina. Quest’ultima è sposata e ha due bambini, ma è evidentemente legata da un rapporto affettivo speciale col fratello, lo circonda di attenzioni, tiene con lui una corrispondenza abbastanza fitta. Sappiamo da una lettera di Giovanni agli zii che egli è orfano di madre, ed è possibile che il legame speciale del nostro soldato con la sorella dipenda anche da questo (lettera dell’11 maggio 1916). Verso di lei e verso i suoi bambini Giovanni manifesta a più riprese sentimenti affettuosi particolarmente intensi. Il 20 agosto del 1916 le indirizza addirittura una lettera di dimensione assolutamente inusuale (otto facciate numerate). Il motivo di tanta lunghezza è il fatto che Giovanni ha appena ricevuto dalla sorella una somma di denaro. Di questo la ringrazia calorosamente, nello stesso tempo la invita a non farlo più perché teme che si privi di qualcosa per sé e per i figli. A questo punto però le raccomanda a più riprese di non offendersi per questo diniego. Questo complesso di schermaglie gli richiede molte parole, dalle quali trapela l’intensità dei sentimenti e delle attenzioni che caratterizzano il rapporto tra fratello e sorella, ma anche la forza delle reti di relazioni materiali ed emotive che sorreggono il soldato nella sua esperienza bellica di distacco, di paura e di pena. Giovanni esordisce alludendo alla generosità della sorella con un giro di parole per significare che lei preferirebbe sacrificare se stessa che sapere lui in difficoltà: “Giuseppina loso che il tuo Cuore è tropo buono sì, ti conosco molto che se tu sapessi che io dovrei fare della brutta vitaper non poter avere dei denari, loso che ne farei [faresti] piutosto tù della vita [brutta], ma non nelasci fare amè nepure anche il Vincenzo [il marito di lei, anche lui sotto le armi] benche titrovi a casa sola Con due bimbi [...] se fosse ancora come quando cera acasa il Vincenzo pazzienza, maadesso nò, io faccio [a] meno ma non voi [voglio] chetu facci della vita”. Poi ricorda con 111­­­­

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rammarico di aver già accettato da lei dei denari durante una licenza, lamentando che glieli aveva dati di sorpresa, senza lasciagli il tempo di pensare e aggiunge che semmai ne avesse bisogno li chiederebbe al padre e, se lui non potesse, accetterebbe le privazioni pur di non gravare su di lei. Il suo pensiero va infatti alle fatiche e alle responsabilità che gravano sulla sorella sola: “lo so che tu devi lavorare tutto il giorno e anche quando sei acasa devi sempre lavorare che non sei sola ai due bimbi Cari, e cosi io vorrei che ituoi bimbi stiano nell’aqua di rosa, Come chredo che saranno pure benche sei sola tè”. In questo modo Giovanni ci lascia intravedere, oltre alla forza degli affetti, anche un quadro di vita contadina in assenza dei maschi adulti, dove le donne assumono compiti inediti di raccordo, di coesione, di supporto, assumendo in proprio decisioni rilevanti come quelle dell’impiego del denaro. Se il lavoro di conduzione di piccoli esercizi commerciali in assenza del marito può essere duro, più duro ancora è il lavoro agricolo specie nelle aree di piccola proprietà, di mezzadria, bracciantato e in genere di agricoltura povera, dove la miseria è sempre in agguato e i debiti non si contano. Qui la gestione delle piccole aziende domestiche può diventare un’autentica pena, amplifica le fatiche femminili oltre ogni misura, incide sulla salute, costringe a una compressione drastica dei consumi, senza contare la responsabilità crescente, il timore di sbagliare e di disattendere la fiducia del marito, verso il quale permane spesso uno stato di soggezione. È il caso di Cesarina Giamella, una donna dell’Alta Val Bormida in Piemonte, che nel 1915 ha trentacinque anni, vedova con due figli e risposata con Carlo Genta, da cui ne ha altri due. I due sono proprietari di una piccola cascina a Torre Bormida, con terreni coltivati a vite, cereali, legumi, un po’ di bachi da seta e l’allevamento di qualche animale. La chiamata alle armi del marito la lascia dunque con quattro figli, di cui uno lattante, molti debiti, un’azienda per nulla facile da gestire, un cumulo di problemi che a tratti sembrano insormontabili. E tra i tanti ostacoli da superare c’è anche 112­­­­

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quello, davvero arduo, della scrittura, necessaria per comunicare a distanza, per chiedere consigli, per comunicare prezzi e condizioni di vendita. All’esercizio della scrittura le manca evidentemente del tutto la preparazione: la sua prosa appare sconnessa, con le parole separate in più tronconi o agglutinate incongruamente, pressoché priva di punteggiatura, a tratti indecifrabile. Miseria e fatica traspaiono da quasi tutta la sua corrispondenza: mi fa molto pena che tu non ricevi le mie lettera – gli manda a dire a guerra appena iniziata, l’11 luglio del 1915 – guarda che ti o scrito una lettera e una cartolina e ti o mandato L 5 per valio [vaglia] io mi trovo molto disgustata chenon li ricevi Caro Marito tidagouna [ti dò una] notizia che ti fa molto dis pia cere ti dico che non abbiamo piu nien te di uva ma piu niente li o fatto dare il verderame tre volte li o dato il solfato niente li affatto e tutti cosi perche tutti girni [giorni] piove e ce senpre la nebia in quanto alli bozoli li o fatto molta fatiga e poi ne ho fatto 4 chg in quanto al susidio prendo 36 soldi al giorno...Caro marito ti faccio sapere che o cominciatoie ri [ho cominciato ieri] a tallia re il crano e guardo di talliarmelo da me [senza reclutare lavoranti] perchè civile [ci vuole] tropa spesa siamo senpre tutte due [lei e la figlia maggiore] in canpagna alla mattina si alzeremo di buon oro e andiamo e andia subito in canpagna e li bambini li setiamo [li sediamo] alonbra ma dovardino [Edoardino] crida sempre faccio una vita che lo mai ffatta e pure bisoche [bisogna che] facia cosi perchè va molto male [...].

Dappertutto nelle sue missive si parla di debiti, di sacrifici, di privazioni. Persino l’acquisto di un poco di vino è rinviato a futuri ricongiungimenti. Sempre a causa dei costi l’invio delle fotografie dei figli, desiderate dal padre, è una decisione sofferta. In un pacco che riesce a inviare al marito, ci sono piccole cose come caldarroste, noci, nocciole, poco vestiario invernale, oltre ai desiderati ritratti fotografici. Quando insperatamente il marito le invia un vaglia di 30 lire, si stupisce, gioisce e si sente in dovere di mandargli subito un resoconto dettagliato di lavori e di spese fatte. 113­­­­

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Ma la durezza estrema della propria condizione non esclude sentimenti di affetto e di tenerezza verso il marito, la cui assenza viene avvertita come tanto più pesante in quanto fa venire meno, oltre all’appoggio materiale, anche quello morale, indispensabile per fronteggiare le difficoltà. Così, si commuove al pensiero dei suoi disagi: “Caro marito mi affatto molto pena assentire che ai sempre i piedi bagniati io ocoverto la tua lettera di la crime mentre che la legiva i penso senpre ate non passa unsol momento senza che pensa a te forsi [forse] te non lo credi i o senpre pa ura che ti capita qualche cosa ma prego il Siglio [?] che staghi bene” (lettera dell’8 ottobre 1915). Un caso particolare è poi quello delle donne che vivono in zone di confine come il Trentino, dove la guerra si affaccia in tutta la sua potenza devastatrice. Per loro la ferita è più profonda, lo spaesamento più grande. Esse vivono la frattura introdotta dalla guerra non solo come separazione dai familiari mobilitati, dai mariti e dai fratelli, aumento di impegni e di responsabilità, ma anche come diretta irruzione del conflitto nell’ambiente e nell’esistenza privata, violenta trasformazione del paesaggio nel quale hanno proiettato la propria storia interiore e che prima dello sconvolgimento era sede e specchio della propria memoria. Non solo per i maschi trascinati da meccanismi distruttivi della macchina bellica ma anche per loro, quella che si è abbattuta sulle loro vite è davvero una guerra grande. Così, una contadina trentina ventiquattrenne intitola puntualmente il suo diario Memoria dolorosissima sopra la più grande guerra che s’abbia vista sulla terra, guerra Europea, e vi inserisce lamentazioni come questa, rivolta a un luogo familiare: Camin facendo osservo quà e là, Oime! Sei tu mio caro fae luogo mio delizioso memore di tante mie dolcezze verginee?? Sei tu? Io non ti conosco!!. Ad un tratto mi fermo quasi immobile e alla testa mi fo appoggio colle mani e mi trovo nella più profonda mestizia, pensando specialmente a bei giorni trascorsi che come il lampo fuggì e non tornano piú mormorando solo qui riposano i fiori della mia gioventù. Ah! Che scorgo? Dove sono? 114­­­­

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Da queste figure femminili sgorgano scritture diaristiche dolenti, talora monologhi in forma di lettere virtuali, per gli effetti di solitudine e il senso di abbandono indotti dalla separazione dai loro uomini, dalla trasformazione dell’ambiente, dalla rottura di antiche consuetudini che l’immane conflitto ha portato con sé. Senza notizie anche per mesi dei mariti mobilitati e portati a combattere in terre lontane sotto le insegne asburgiche, incerte sulla loro sorte, nulla hanno cui aggrapparsi per vincere il senso improvviso di precarietà che le assale.

Separazioni Un caso per certi aspetti simile a quello di Cesarina Giamella sopra richiamato è quello di Agnese Gastaldi, la moglie del caporale Demetrio D. (detto Luigi o Luigin) della cui esperienza di guerra abbiamo ampiamente parlato. Non conosciamo la sua età ma sappiamo che ha quattro tra figli e figlie, di cui almeno due sono piccole (una lattante). Luigi e Agnese tengono una corrispondenza molto fitta e regolare, molto precisa nell’aggiornamento sui temi importanti, puntuale nell’interlocuzione, evidentemente non rituale e non dettata dal semplice bisogno di tenere aperto il contatto a distanza, ma da esigenze molto concrete di reciproca informazione. L’epistolario presenta inoltre un singolare intreccio di interlocutori che comprende, oltre ai due coniugi, altre figure quali un prete (don Giobatta Gastaldi) e, in almeno un caso, un’autorità comunale vicina al sindaco, forse il segretario comunale del paese. La frequenza con cui il prete scrive a Demetrio è piuttosto elevata e ciò si spiega col fatto che tra la famiglia del prete e quella di Agnese esistono precisi rapporti di lavoro sui quali il rendiconto è costante. Controparte nella gestione degli affari, il prete è però anche parte integrante di quel sistema di persone influenti che possono essere di aiuto a Luigi nel suo percorso sotto le armi. Nel primo periodo la corrispondenza ruota insistentemente intorno 115­­­­

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alla questione della licenza, per la quale si attiva una rete di raccomandazioni e pressioni, in verità inefficaci, comprendente appunto il prete, il sindaco, il brigadiere dei carabinieri e così via. L’epistolario rivela qui in filigrana una comunità locale perfettamente integrata, con la sua struttura gerarchica e paternalistica, i suoi rapporti di deferenza ma anche di contrattazione, il suo intreccio tra autorità civili e religiose. La cosa interessante è che i rapporti tra Luigi e la moglie interferiscono con altri rapporti con i notabili e le persone che contano, in una sorprendente pluralità di relazioni. Quello di Agnese e Luigi costituisce un caso non frequente, e perciò prezioso, di epistolario bilaterale, non completo ma molto ampio e ricco, tra due coniugi di estrazione contadina e di modeste competenze grafiche e linguistiche. Entrambi hanno certamente alle spalle un percorso di formazione elementare ma il marito rivela nello scrivere una maggiore disinvoltura. La moglie mostra maggiori incertezze, ripensamenti, fa più spesso uso di cancellature e in qualche lettera appare più disordinata, forse anche in conseguenza delle condizioni ambientali che le offrono poche possibilità di dedicarsi con calma alla stesura dei testi, in mezzo alle faccende domestiche, al lavoro e alla cura dei figli. Non a caso una lettera di Agnese, scritta in un momento in cui tra l’altro lei non sta bene, viene riscritta e viene conservata in due stesure diverse, la prima delle quali appare rovinata da una bruciatura. Il marito al contrario, non essendo al fronte ma nell’interno, di regola sembra avere agio di un’attività scrittoria più comoda e mostra nel complesso un maggiore controllo del mezzo e una maggiore chiarezza di scrittura. Entrambi, come si è già avuto modo di vedere, presentano numerosissime difformità dall’italiano standard e manifestano le difficoltà tipiche del passaggio dall’oralità alla scrittura, nel caso di bassa scolarizzazione e insufficiente apprendistato: in particolare riguardo all’uso delle maiuscole e delle doppie, dei segni diacritici (pressoché assente l’apostrofo, rari gli accenti), della punteggiatura (usata in modo irregolare e 116­­­­

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improprio, con un abuso di punti e virgola da parte di lui), della separazione delle parole (le separazioni e le congiunzioni incongrue sono frequentissime), all’uso della lettera “q” (sempre utilizzata per la parola “cuore”, salvo rarissime eccezioni). Un’altra caratteristica che hanno in comune con gli altri scriventi di estrazione popolare è l’uso improprio del pronome relativo, che dà luogo non di rado a costruzioni particolarmente macchinose. Ne abbiamo un esempio nell’esordio della lettera che il marito invia alla moglie da Genova il 18 marzo 1916: “Congran piacere, e consolante ricevetti latua gradita letera; che con laquale, miralegro nel sentire che siete tutti inbuona salute”. Le lettere del sacerdote presenti nell’epistolario sono tutte indirizzate a Luigin. Don Gastaldi si intrattiene con il nostro caporale su molti temi diversi: il lavoro dei campi, la vendita dei prodotti, la situazione della famiglia (moglie e figli), la salute della madre probabilmente analfabeta, le pratiche per la domanda di licenza agricola. Evidentemente la famiglia di Luigi lavora in parte terreni di proprietà del prete e della sua famiglia, e in particolare un pezzo di terra (denominato nelle lettere come Pian de Marchi) presso il quale Agnese risiede in certi periodi. Molte lettere del prete, di Agnese e di Demetrio sono dedicate alla gestione degli affari comuni, ai pagamenti in denaro, ai debiti e ai crediti, alla valutazione delle vacche in corso di requisizione. Tra lui e i coniugi non mancano le tensioni. In una lettera Luigin allude ai rapporti burrascosi coi padroni ed esorta la moglie alla prudenza con queste parole, che suggeriscono diffidenza e difesa del proprio nucleo famigliare pur in un contesto consuetudinario di grande dimestichezza con gli interlocutori: “Non farti vedere di prendere odio coi padroni, fa sempre modo di rispetarli, e non racontare nulla anisuno, e pensa soltanto per te, e per la nostra famiglia se a caso i padroni ti faranno delle contrarietà, sarò io capace afare le tue difese” (lettera del 12 dicembre 1915). Siamo nell’ambito di una proprietà fortemente frazionata e di un’economia povera, che genera 117­­­­

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rivalità e controversie continue sulle ripartizioni, la qualità dei prodotti, la cura degli animali. A un certo punto Agnese si lascia andare a un lungo, dettagliato atto d’accusa contro i comportamenti sleali e avidi dei padroni, che sfocia nella lapidaria affermazione secondo cui “nemeno i preti dicono la verita” e “cercano soltanto il suo in tereso [interesse] non il mio” (lettera del 16 dicembre 1915). Il marito, nella lettera di replica, ribadisce: “Riguardo alle polemiche dei nostri padroni, aquello che sento profitano di me perche sono lontano, ma però spero di aver la fortuna di ritornare, e alora parleranno meglio comme. Non potranno maipiù negare, che prima di entrare nella sua cascina si abbiamo segato tutto il fieno noi altri stessi, e quindi non possono dire, di avermi dato la feniera piena” (lettera del 20 dicembre 1915). La tensione si protrae e diventa cronica, giustificando espressioni anche forti e sarcastiche come quelle che Luigin usa nella lettera del 3 aprile 1916 diretta alla moglie: “Nel sentire dalla tua letera; mipare che inostri delinquenti Padroni; abiano proppio diciso di profitarsi delocasione che io mitrovo lontano per poterti far trubilare [tribulare = soffrire]; ma però spero di ritornare ancora; e alora ci prenderò rimedio; dagli pure isoldi del latte de l’anno scorso; lascia che si finiscono di gonfiare”. L’assenza del marito mobilitato ha non solo caricato sulla moglie un’eccedenza di fatiche e di responsabilità, ma ha determinato uno squilibrio di potere che rende la sua posizione più fragile. Nella lettera del 15 settembre 1915, Agnese mette direttamente in relazione il peggioramento dei rapporti coi padroni, il loro atteggiamento più severo e più insofferente nei confronti dei suoi figli piccoli, con il venir meno della protezione del marito: “mi credeva che fossero padroni come dovevano essere in vece e tutaltro da quando che sei partito te anno canbiato dalla note al di [...] caro marito mi sono acorta subito chesei mancato te tanto io come la campagna [ne abbiamo risentito]”. Nella stessa lettera un seguito di lamentazioni per gli animali requisiti dal “coverno”, per la mancanza di braccia a causa degli arruolamenti continui, per le spese necessarie a 118­­­­

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eseguire certi lavori. Per questo si augura fortemente che il marito possa tornare per la sospirata licenza: “che sepotesi venire vedessi un poco gli affari come vanno cio ancora il crano da batere qui e in belun [una località di competenza per l’attività agricola] non so che riu scia [riuscita, resa] mi fara nelle mani delli altri [affidato al lavoro di terzi] anzi ti spetavo che quello di Qutelun [un personaggio non identificato] adeto che venivi vedo che tutto è in contrario pasiensa, ti prego che senon venivi acasa di farmelo sapere qualche cosa di questa campagna se devo andare avanti si o no”. È chiaro che la donna si trova di fronte a una situazione critica, a scelte complesse e il bisogno di avere il conforto del marito si fa sentire. All’impegno agricolo si somma quello, assai rilevante, di custodia e allevamento dei figli, in particolare delle due più piccole. È lei stessa a farlo capire, quando riferisce al marito sulla probabilità che si riesca a ottenere un certificato medico per lei che permetta di ottenere la sospirata licenza, senza la visita del brigadiere. Il marito l’aveva esortata, nel caso che la visita non si potesse evitare, a farsi trovare a letto, ma lei ribatte: “credo che seci parlera il S. Santino [il segretario comunale che si adopera a favore di Demetrio] che non vera nemeno affarmi visita che le altre vorte non sono venuti altri menti edi ficile potermi trovare aleto con tutti questi banbini potrebe essere meza morta che tanto bisogna che mi sveglia ma credo che non vera” (lettera del 10 agosto 1915). La materialità della vita agricola coi suoi problemi di raccolti e animali domina naturalmente l’attenzione dei coniugi, oltre al tema della salute e della crescita dei figli. Diversi passi della corrispondenza nell’estate del 1915 sono riservati alla vicenda disgraziata di una vacca che partorisce un vitellino morto. Un lungo resoconto di come la cosa sia stata scoperta si trova nella lettera di Agnese appena citata, dove però la donna avanza la considerazione che ben peggio sarebbe stata una disgrazia che avesse colpito il marito o i figli: “questanno le discrasie sono tute pernoi passiensa come la prendiamo mi rincresce [dispiace] della vacca che non posiamo fare quello 119­­­­

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che abbiamo volonta ma se fosse stato la di scrasia di te oppure dei nostri cari bambini ancora più cativa”. Nelle lettere di Agnese e Luigin non ci sono però solo affanni, ma anche affetti. Tra i due coniugi le espressioni tenere e premurose, persino gli slanci amorosi sono tutt’altro che rari, non sembrano affatto convenzionali e rituali, ma lasciano pensare a qualcosa di molto intenso. La donna non manifesta solo il desiderio che lui ritorni per alleviarne la responsabilità e la fatica nella gestione dell’economia agricola, ma a tratti esprime sentimenti di trepidazione e di vero e proprio trasporto. Anzi, nella corrispondenza si stagliano a più riprese i segni più espliciti dell’intimità, del calore, delle consuetudini premurose, dell’amore. Luigin riferisce spesso di sognare la moglie: “non passa notte, che non ti veda nel sogno, ma quando mi sveglio resto mortificato” (lettera del 24 gennaio 1916). I sogni sono talvolta riferiti in maniera dettagliata, col carico di emozioni contrastanti che destano, come nella lettera del 20 febbraio 1916: La notte dopo che tiò mandato le fotografie mison sognato che sono venuto acasa; e che tiò trovato aletto, in una stanza stranea [estranea], che io non laveva mai vista, e si trovava in quella stanza 4 letti sensa quello dove eri tu malata, io subito mi sono slanciato ate per dirti cosa avevi di male, e tu tutta ridente miai risposto, che mi metta nell’altro letto apresso che subito che siè addormentato la piccola Giusepina vieni subito anche te adormire comme. Io tutto contento misono messo aletto, mate non rivavi mai, e alora doppo tanto soffrire misono svegliato al suono di quella maledetta tromba che sonava la sveglia.

Lui è pieno di attenzioni per il corpo della moglie in fase di allattamento e per la sua alimentazione: “[ho] oservato che il tuo solito vito [vitto], è sempre latte, e misono acorto che ti fa benissimo, e quindi io ti racomando di non lasciartelo mancare, se non neai basta [ne hai abbastanza] di 2 litri comprane pure 10, e non tenere alla spesa, perche laspesa del latte, è migliore che quella delle medicine, e quindi ladevi seguitare” 120­­­­

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(24 gennaio 1916). Luigi dà inoltre ad Agnese suggerimenti sullo slattamento della figlia, preoccupato per la salute di entrambe: “Riguardo al besletare [allo slattare] la picola, pensa alla tua meglio, ansi io tidirei che sarà meglio levarcielo adesso, che aspetare imprimavera che sarà più peggio, però celo levi poco alla volta che non patisce tutta asieme. Se puoi riuscire a levarci il latte credo che alora prenderai più forsa e aquisterai miglior salute” (12 febbraio 1916). E si compiace quando il risultato è raggiunto, pensando ai benefici che ne riceveranno entrambe: “e tanto più sono alegro del bel lavoro che ai fatto verso la Giusepina alevarci il latte, che così anche te, prenderai più forsa, e starai più bene di salute (lettera del 9 dicembre 1916). In un’altra occasione, avendo sentito che lei ha saldato un creditore, le raccomanda di pensare prima di tutto a sé e ai bambini, perché è più contento “se posso venire a casa di trovarti imbuona salute che trovare i debiti pagati, e quindi pensa prima perte, e per i nostri cari” (12 novembre 1915). Lo stesso concetto verrà da lui ribadito nella lettera già citata del 9 dicembre 1916, parlando dell’alimentazione di lei e della figlia più piccola, che come abbiamo visto si è appena staccata dal latte materno e ha imparato a bere con gusto le uova: “Ti racomando mia cara di darti qura; e di cercare uova, per te e per la Giusepina; e se non trovi uova, compra della vitella e non pensare ai debiti; che se posso tornare io acasa; non sto tanto [non ci metto molto] apagarli, se idio mi tiene questa salute”. Il suo pensiero va spesso alle cure che le ha prestato in passato e se ne compiace: “Mia cara anchio mi ricordo che ti portava illatte aletto alla matina; che tante volte mi sembrava permé undisturbo ma ormai ho conosciuto che ho fatto il mio proppio dovere; perche se io non ti qurava proppio bene chisa adesso in che cative circostanse mi sarei trovato” (lettera del 4 febbraio 1916). L’attenzione alle condizioni corporee della moglie appare particolarmente marcata nel brano seguente, tratto da una lettera del 28 dicembre 1916, nel quale Luigi si rammarica e si preoccupa dello stato di magrezza di lei e si pente di averla messa incinta perché ha constatato che la sua 121­­­­

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salute ne risente in maniera molto pesante. Ancora una volta l’esortazione a nutrirsi adeguatamente acquistando i cibi necessari, evidentemente non prodotti in autoconsumo, come le uova e la carne di vitella, si accompagna al fermo invito a non curarsi dei debiti che così contrarrebbe, dando assoluta priorità alla salute. Ciò sottolinea la sua generosità e la sua premura, ma ricorda anche che l’agricoltura povera dell’Appennino opera permanentemente in regime di debiti, non riuscendo mai ad accumulare risorse di riserva sufficienti, né alimentari né monetarie. In questo contesto l’imperativo di far fronte alle necessità, specie quelle improcrastinabili come la salute, accumulando nuovi debiti, appare fuori discussione. tu devi pensare unpo di più alla tua salute, perche questa volta non tiò trovato amio piacere come lealtre volte, capisco bene che dipende diessere rimasta impedita [incinta], ma adognimodo non dovevi essere così magra come sei, abenche non abbi tanto gusto di mangiare, devi sforsarti e se non tipiace una cosa, devi trovarni delaltra; so bene che uova non senetrova, ma devi aforsarti amangiare della carne di vitello, se non tipiace cotta aun modo si quoce al’altro, si prova atutte le mode; e se non cenanno aCosio fatela portare da Pieve; ma devi trovare il modo di stare più incarne per che cosi sei troppo indicente; neanche quando eri nel corpo della malatia non eri così cadente. Devi pensare che seper disgrassia cascassi dinuovo ammalata io non posso più vivere tranquillo mi tocca a fare del sangue cativo. Dunque ti racomando di fare come tidico, e di non pensare ai debiti, che a quello cipenso io, se non li paghiamo presto li pagheremo più tardi; intanto al presente si deve pensare alla salute; La colpa del male è stata la mia, che non ho usato riguardo verso di te; che se micredeva che restando incinta avesti da sofrire cosi, credi pure che sarei stato più atento; ormai è fatta bisogna rasegnarsi.

Capita anche che, spinta dall’emozione, la prosa di Luigi erompa in slanci di autentico trasporto, forse un po’ involuti e ridondanti, ma indicativi di un’intesa amorosa profonda: Con gran piacere – esordisce nella lettera del 10 aprile 1916 – ò ricevuto la tua cara consolante lettera piena di gran orgoglio verso 122­­­­

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di me, con le tue vive e calde parole mi fai svegliare il mio quore, e mi riempi il mio animo di tanta felicitessa e gran consolasione. Si apre il mio seno, e vola la mia bella speransa fra mezo alle tue braccia, e ai quori dei nostri cari Bambini Cara mia; con letue gradite letere mispieghi benissimo la siquressa e lafetto profondo che contiene nei fondamenti del tuo quore verso di me. Siche; senza cercare altro, ti poso asiqurare che siamo capitati due quori uguali con la stessa precisa e definita idea.

Agnese non è da meno quanto a intensità di sentimenti amorosi nei suoi confronti. Leggiamo nella lettera del 5 marzo 1916: Rincrasio iddio che ti possi conservare di salute senpre cosi guarda mi facio coragio io [...] così devi fartene anche te caro marito che sei lindoratore del mio povero cuore non poi in maginare la consolasione che mi dai quando mi scrivi te il bene che io ti voglio non puoi in maginare che se potessi diventar un ocelino vorei venirti aritrovare quando te sei in branda e tocarti pian pianino epoi di abraciarti per fin lultimo sospiro ma questo non nepuo riuscire passiensa signore Caro Marito non passa giorni che io non mi vieni in memoria quardo sempre la tua fotocrafia per poterti baciare che se capiterà i fotografisti faro linposibile di fassi [farsi] fografare tutta lanostra famiglia poi te lamandero così farai conto di vedere tua cara Moglie e i nostri banbini.

In questo scambio di effusioni, la fotografia gioca un ruolo importante di surrogato della presenza fisica della persona amata, di simulacro e sostituto del corpo desiderato. Al sentire il cuore di lei “così amabile” Luigin si commuove e replica: “stà siqura mia cara che se posso arrivare persempre altuo seno, si godiamo per sempre la nostra felicità” (9 marzo 1916). Su un legame cosí intenso, la forzata e prolungata lontananza fa aleggiare a un certo punto la minaccia delle tentazioni che l’ambiente urbano può presentare per l’uomo. In una lettera del settembre 1915, Luigin introduce un’assicurazione non richiesta, quella di non frequentare prostitute, che proprio per questo sembra mettere in sospetto la moglie: “e stà 123­­­­

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pur siqura e tranquilla che i penso sempre ate e non adaltre donne, e non faccio come fa questi Napoletani, che sono tutti carichi di famiglia più di noi; che i più tanti anno 9,10 e 11 figli acasa e pure si permetono di andare nei posti maligni, ritornano carichi ditutti mali stapur tranquilla che questo ame non mi socederà mai, e mai più perche amo la mia famiglia” (20 settembre 1915). Agnese risponde un po’ sorpresa e forse leggermente impensierita per questa dichiarazione così enfatica, nella lettera del 26 settembre successivo, dove lo ammonisce ricordando una sua imprecisata malattia pregressa della quale lui si era impaurito: “ne hò tanto piacere di sentire queste notissie da donne che io aquesto non ci pensavo neanche a questo riguardo devi pensarci prima perche del male cene abiamo avuto tropo del mio tiricordi il principio della mia malatia che avevi paura di me dunque devi pensare che non sisà cose abbiano din torno gente che non si conoscono sidevono lasciarli da essi e pensa la tua salute”. La questione delle prostitute da evitare ritorna con grande frequenza in una lunga fase della corrispondenza tra i due coniugi, quasi a costituirne un tema fisso. Evidentemente l’ambiente genovese, dove lui presta servizio, rappresenta in questo senso una minaccia ed entrambi tengono a ribadire la necessità di fronteggiarla, lui rassicurando, lei esortandolo a tenersi alla larga, sempre con l’argomento principale del rischio di malattie veneree. Per darti una idea – torna a insistere lui in una lettera del 10 aprile 1916 –, come si comportano imiei cativi coleghi di compagnia, sono stato costretto a comprarmi un rasoio per farmi la barba da perme; perche ovisto, e conosciuto che cenesono di versi che non amano lasua cara moglie; e isuoi Bambini, e nemeno non considerano lasua salute; sono ben diverso dame e per questo caso mivoglio mettere al siquro della mia buona salute; e penso che tengo a casa una cara moglie, che non si merita di farci di questi cativi afronti. Il Barbiere della compagnia, padre di 5 figli; è andato alospitale per causa delle infame donne porche; che si trovano ingenova; io rendo corpevoli essi estessi di questi guai, che cicapita; perche sè stessero alsuo posto; e pensasero alla sua famiglia; come facio io, non ci socederei questi casi. Vivi tranquilla mia cara. 124­­­­

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E la moglie, appena ricevuta la lettera, torna sul tema fin dall’esordio della sua risposta: “Da qualche giorno che hò ricevuto la tua tanto cara letera mi fa molto piacere nel sentire dalla tua letera che sei sano e salvo dalle donne in fame [infami] che se poi le poi aschivarle [schivarle, evitarle] sara meglio che possi ritornare acasa sano e salvo con lonore che potrai aprensentarti davanti achisia persona [a chicchessia] e ti prego di non lasciarti intentare che sarebero la mia rovina di io edei banbini” (15 aprile 1916). Non basta. Anche lui nella successiva non può fare a meno di tornare sull’argomento, per ribadire ancora le rassicurazioni: “Riguardo ame sta pur siqura che mitrovo abastanza bene; tanto più godo felice lamia salute ede il mio onore, al riguardo delle putane di Genova; e di queste malatie tiasiquro che non niprendo; perche cisto abastanza lontano, e quindi sta pur siqura che non milascio tentare; il mio afetto, il mio quore, il mio sangue, il mio animo, e imiei pensieri sono abastanza forti per resistere” (18 aprile 1916). Le manifestazioni di affetto e di tenerezza si intrecciano naturalmente a schermaglie e piccoli malintesi. Una volta Agnese esprime il timore di averlo offeso promettendogli l’invio di una cesta di frutta che in realtà non ha potuto spedirgli, come se lo avesse preso in giro, e si spiega cosí un ritardo postale, ma lui prontamente la giustifica: “Il perdono che mi domandi nella tua letera che ai paura di avermi ofeso stapur siqura che sei dame perdonata”. E si affretta a rinnovarle il suo affetto: “Puoi imaginarti se non mipiace il tuo scritto; che non posso legere letue lettere senza piangere, o già spanto [sparso] piu lacrime in questi 6 mesi che sono lontano date che intutto il tempo della mia vita” (12 novembre 1915). Questo scambio così intenso e intimo attraverso la corrispondenza esprime un desiderio di contatto fisico e ha molto a che fare con il problema del rapporto tra l’oralità, la tecnologia della parola più congeniale alla cultura e all’esperienza dei protagonisti, e la scrittura a cui devono far ricorso. È lei, con molta semplicità, a rendere esplicito questo conflitto, manifestando il suo 125­­­­

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desiderio di vederlo in carne e ossa anziché ricevere lettere pur tanto gradite: “Da parechi giorni che hò ricevuto la tua tanto cara letera che quando riva [arriva] una delle tue letere pare che mi riva una conssolassione che non puoi in maginare ma se ti potesse vedere te sarebe piú meglio” (19 novembre 1915). Sono espressioni che dicono perfettamente il disagio della scrittura come mezzo indiretto di comunicazione, al quale sarebbe ben preferibile il contatto diretto, corporeo, proprio dell’oralità. L’oralità è presenza e interazione, la scrittura è assenza e surrogato di contatto. L’oralità è vicinanza, la scrittura è lontananza, necessaria in certe circostanze ma meno completa, meno gratificante. Lo ribadisce anche lui nel risponderle: “Io credo benissimo che saresti contenta di vedermi arivare, e di potersi parlare a voce e non a letera, anchio sarebbe la mia consolasione; ma intanto per nostra disgrassia sará dificcile poterci riuscire, se non verà il giorno del congedo” (24 novembre 1915). E lo conferma nell’imminenza di una breve licenza, quando la prosa si fa frettolosa rinviando al prossimo incontro: “é inutile che mi prolonghi ascrivere parleremo meglio di presenza con unaltra consolazione [che si potrebbe tradurre in: ‘con ben altra soddisfazione’]” (lettera del 28 dicembre 1915). Un’altra volta scrive: “E faciamosi coraggio che verà anche il momento di chetare [smettere?] di scrivere lettere e discorere meglio di presensa” (lettera del 9 dicembre 1916). Come abbiamo già visto c’è, in verità, la fotografia che avvicina e quindi costituisce un antidoto al dolore della lontananza, un complemento indispensabile della scrittura nell’attestare le buone condizioni di salute. Ma anch’essa, al pari della scrittura, non è sufficiente a colmare il vuoto, come Agnese puntualizza in una lettera al marito del 1° maggio 1916, augurandosi che la salute di lui sia sempre buona, come appare “nella tua fotocrafia che tanto non passa giorni che non ti guarde ma se ti potesse essere vicino proprio, a te sarebe di piu meglio”. Pieni di tenerezza sono poi i riferimenti ai figli, in particolare alle due bambine piú piccole. Scrive lei: “se potesi vedere le 126­­­­

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due bambine più picole e una maraviglia vederle tanto asperte [sveglie] tuti sene danno una mara viglia [si stupiscono] una vol venire con me laltra torna [ugualmente] si portano invidia” (19 novembre 1915). A sua volta lui si esprime così: “Baci ai nostri Bambini, che se mi spessa [mi si spezza] il quore sentendoli mensionare, e non poterli vedere” (24 novembre 1915). Luigi mostra di interessarsi assiduamente della loro crescita e della loro salute, si rammarica che debbano crescere senza la sua presenza e il suo sostegno, rimpiange di non poter godere momenti di affettività con loro, accenna a problemi di educazione soprattutto del più grandicello, ormai in età scolare. Il riferimento fisso ai quattro figli, così come ai “quattro vecchi”, come spesso li chiama nei saluti, ossia ai genitori suoi e di sua moglie, configura il modello di una famiglia molto compatta, luogo ideale delle gioie domestiche, alle quali la guerra ha sottratto forzosamente e malauguratamente il nostro caporale. Agnese non manca di sollecitarlo descrivendogli i pargoli in attitudini aggraziate: “noi siamo tutti bene tanto io come pure i nostri banbini la nostra Giuseppina tinmemoria [ti ricorda] sempre io ci domando cosa ci porterai quando ritornerai essa mi dice che tu, ci porti le bone e io celinmemorio apposta perché non si dimentichi di te, poi ci parlo del capelino come ai detto di mandarlo [il padre le ha promesso un cappellino] poi questa bambina simete lamano sul capo capisce cosa ci voglio dire” (5 giugno 1916). Nel contesto di questa relazione così intensamente affettiva si è abbattuta, poco tempo prima di quest’ultima lettera, tra maggio e giugno, la disgrazia della morte della figlia più piccola, Rosina, che ha gettato entrambi nello sconforto. A recarne traccia è la presenza nell’epistolario di un biglietto anonimo, forse la trascrizione di un telegramma o la notifica di un ufficio notizie addetto ai rapporti coi richiamati, indirizzato al caporale D. Demetrio, del 66° reggimento della milizia territoriale di stanza a Sampierdarena (Genova), del seguente tenore: “Figlia Rosina morta stamattina / Agnese”. Luigi manifesta costernazione per l’avvenimento luttuoso, 127­­­­

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nella lettera che indirizza ad Agnese il 1° giugno 1916, di ritorno dalla breve visita a casa, concessa evidentemente per la circostanza. Il viaggio è andato bene, la rassicura: Solamenti che ho provato un cativo dolore adovel [a dover] lasciare il mio sangue amato, e dovermi recare dinuovo sotto questa crodele vita lontano dalla mia cara moglie e poveri figli inocenti. Fintanto che sono stato acasa, mi sono divagato bene aconsolarmi conla cara Giusepina e gli altri due, che mi facevano pasare il crodele pensiero della povera creatura Rosina, ma ora che mitrovo qui solo abandonato dalla mia cara famiglia mitocca a piangere sovente, e non miposso scordare quella povera fan[c]iulla mi pare sempre di vederla in quella quna [cuna] dove laò trovata.

Di lì a poco più di un anno, una nuova nascita verrà a ricomporre il nucleo familiare nella sua dimensione numerica precedente, favorendo l’elaborazione del lutto. Lo apprendiamo dalla lettera del 6 luglio 1917 dove Luigi si raccomanda con la moglie di fare il possibile per rimettersi, così “da poter dar qura alla picola nata; e agli altri”. E si informa: “quando mi rispondi misaprai dire se è svilupata come gli altri, e se tira bene [se succhia bene il latte], e d’anche come ci avete messo per nome. Lamia volonta sarebbe stata di nominarla Luigina, ma se l’avete giá Batesata; e lo stesso, tutti nomi sono buoni basta che sia in salute”. In realtà, sarà chiamata Angiolina, a somiglianza del fratello più grande, Angelo, ormai adolescente, cui si indirizzano le preoccupazioni del padre per le sue impertinenze: Credo benissimo mia cara – scrive alla moglie l’8 gennaio del 1918, facendo sfoggio di un’indicativa sovrabbondanza di punteggiatura e in particolare di esclamativi – che il figlio Angelo, profitando della mia lontanansa, vorà fare del [il] galetto, e comincierà astrafotersi dei tuoi comandi! ma digli pure amio nome; che se non farà quello che date viene ordinato! Sbaglia il gioco: vale adire! Che almio ritorno; se idio melo concede: invece ditratarlo da figlio; sarà trattato diverso: non rigalli [regali] non divertimenti! Ma gran lavoro e frustate. Spero che non cisarà bisogno di questo? 128­­­­

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Ma se acaso!...Per sua penitenza, desidero e voglio che ogni volta che tu miscrivi ci facci fare da esso stesso un foglio di scritto, e mandarmelo nella tua lettera; ma sempre; afinche [finché] io dica basta. Desidero che nei scritti che mi manda; scongiuri di quore e si penti di tutte le mancanse commesse velso di te; e sappia rendermi persuazo e contento nel suo avenire – mi racomando! ...Anche te; mia cara; cerca di tenerlo basso; che finora sei ancora atempo; e lo stesso faccia inostri vecchi; che non ci diano mai troppa confidenza Peora [per ora] basta: perche miscoppia il quore. Ci farai leggere queste poche righe; vedrai che resterà mortificato.

Amore coniugale Un altro caso di rilievo per la ricchezza della documentazione e la forza dei legami di cui essa costituisce una manifestazione dirompente, quasi un deposito fisico, è quello di Vittore e Maria B., che abbiamo già presentato. Non abbiamo notizie certe sul grado di scolarizzazione dei due coniugi. Come già si è visto, le loro lettere attestano il possesso dei rudimenti indispensabili della scrittura, ma anche la modestia e la precarietà delle loro competenze alfabetiche, al punto che alcuni brani della corrispondenza risultano incomprensibili e tali dovettero apparire in qualche caso agli stessi interlocutori, tant’è che una lettera di Vittore contenente le indicazioni sulle procedure da seguire per ottenere la licenza agricola dovette essere ripetuta per mano del cognato e commilitone Egidio, assai più esperto, capace di produrre un testo decisamente più scorrevole e chiaro, rimasto nel fascio della corrispondenza assieme agli altri e, come gli altri di pugno di Vittore, aperto dal vocativo “cara moglie...” (lettera del 15 aprile 1917). A dispetto di queste evidenti difficoltà, dal momento del loro distacco Maria e Vittore diedero corso a una corrispondenza straordinariamente fitta e compatta, che ammonta, nella parte conservata – certamente incompleta – a ben 359 documenti epistolari (203 di lui, 156 di lei), comprendenti cartoline e lettere, il che fa ascendere la frequenza media delle missive scambiate nel periodo di distacco – pari a due anni e cinque mesi 129­­­­

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complessivi – a un documento ogni due giorni e mezzo circa, con punte di una lettera al giorno inviata dal marito in occasione di un ricovero in ospedale, quando Vittore ha maggiore agio di attendere alla corrispondenza. Ma la cosa per certi aspetti notevole se non sorprendente, è che le lettere tanto dell’uno come dell’altra sono nella maggior parte lunghe e dense, non di rado lunghissime. S’intende che la lunghezza è dovuta in qualche misura alla prolissità, e questa a sua volta è inversamente proporzionale alla dimestichezza degli autori con la scrittura. Nondimeno gli argomenti trattati sono effettivamente numerosi, l’atteggiamento degli scriventi appare tutt’altro che quello frettoloso e sbrigativo di chi si trova impacciato alle prese con la penna o il lapis, e comunque si capisce che il tempo e la fatica dedicati all’esercizio scrittorio sono considerevoli. Tutto ciò configura un ritmo di “corrispondenza” – chiamiamola così in senso pieno, anche letterale – davvero straordinario, come se tra i due la lontananza avesse prodotto per contraccolpo e per antidoto una forza eccezionale di avvicinamento. Il fatto dipende dalla natura decisamente speciale del rapporto amoroso che lega i due protagonisti, e che anima, si direbbe sostanzia dall’inizio alla fine il loro rapporto epistolare: una prosa copiosissima, sovraccarica di sentimenti e di emozioni, di ricordi e di sogni, un flusso pressoché continuo di effusioni e rassicurazioni, incoraggiamenti ed esortazioni, quasi un balsamo offerto reciprocamente con continuità allo scopo di alleviare il dolore della lontananza, della separazione, della guerra, dei sacrifici, e di fronteggiare il peso delle incognite che gravano sul futuro. Prendiamo ad esempio la lettera spedita da Vittore alla moglie il 22 ottobre del 1916, dopo circa tre mesi di distacco. Si tratta di una lettera lunghissima, un autentico fiume in piena scatenato probabilmente dal ricevimento di una fotografia della moglie e dei figli, la prima da quando si è separato da loro, che ha evidentemente molto emozionato il nostro protagonista. Dopo il consueto incipit dedicato ai riscontri dello scambio epistolare e alle assicurazioni rituali di buona salute, Vittore menziona la fotografia ricevuta, manifestando la pro130­­­­

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pria commozione: “tanto cara fotografia unita coi nostri cari pargoletti appena ricevuta vi bacia e ribacia piu mille volte e le lascrime [lacrime] che di sendevano dagli occhi come una fontana e clamai col cuore ho tanto cari chi sa se virivedro piu”. Subito dopo si lascia andare a commenti preoccupati per l’aspetto patito e la magrezza della moglie (“se vede [...] le osse”, “mi sembri proprio che sei venito molto vechia”) e alle raccomandazioni perché non si trascuri e non ceda all’amarezza col rischio di far mancare l’unico sostegno ai figli piccoli. Evidentemente la vista delle sembianze di moglie e figli lo ha scosso. Il piccolo Enrico gli sembra riuscito male nella foto, col ciuffo che gli ingombra la fronte e l’aria spaventata, sicché manifesta un moto di rammarico: “lavevi almeno da vestirlo da uomo”. Viceversa gli altri figli, Antonio, Margherita e Vittorina, gli sembrano “restati naturali”, e nel dir questo Vittore torna a dare sfogo al suo desiderio di riabbracciarli tutti, con un’immagine di grande leggerezza poetica: “ho Dio sepotessi diventare un rondinello e volare im braccio ai miei cari”. Trascinate da queste, altre emozioni si accalcano, intrecciando tenerezza e rimorso: “perdoname me – dice con trasporto alla moglie in risposta a una richiesta di perdono ricevuta da lei per qualche offesa involontaria – che qualche volta ti ho batuta senza nesuna raggione ho Dio che mi sono tanto trovato tanto pentito che nonti avesse maidato unochi affo [che non ti avessi mai dato uno schiaffo]”. E il rimorso si estende anche agli schiaffi destinati ai bambini, che mai avrebbe voluto dare (“vorrei essere morto piu tosto che averli batuti”). Con questo non siamo che a metà della lettera. Seguono un lungo riferimento alla licenza negata, al risentimento nei confronti dei medici e delle altre autorità da cui è dipeso il responso negativo, e poi ancora l’informazione riguardante l’acquisto di una medaglietta portafortuna che tiene al braccio sinistro e impugna nei momenti di rischio, nuove esortazioni alla moglie perché curi la sua salute, interrompendo l’allattamento della neonata per risparmiare le forze, fino allo straripare dei saluti e baci finali e al congedo segnato, come 131­­­­

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spesso gli accade, dalla formula “ti lassio con lo scritto ma non la more [l’amore] ti lassio con la penna ma non col cuore”, che precede la firma. Tutta la corrispondenza tra Vittore e Maria, nei due sensi, ha questo tono, questa generosità, questo trasporto, questa ricchezza emotiva, permettendoci di esplorare dall’interno, con una densità di sfumature e uno spessore di dettaglio documentario decisamente rari, la loro intimità. È un caso di amore coniugale contadino. Un caso che il contesto della guerra grande, col distacco forzato che determina, non solo porta alla luce ma in un certo senso produce. Nel fascio delle lettere che i due coniugi si scambiano prende forma e forza, assume corposità documentaria un sentimento che sicuramente, nello scorrere della vita quotidiana, sarebbe rimasto solo virtuale o latente. In altri termini la guerra con la sua violenza separatrice costringe, ma anche permette, ai due coniugi di lavorare a distanza sul loro rapporto, compensando con le parole una contiguità corporea e gestuale venuta meno e trasformando in discorso amoroso l’intimità semplicemente vissuta. Potremmo anche dire che il flusso della corrispondenza tra Vittore e Maria costituisce non tanto il disvelamento, ma direttamente uno spazio di costruzione dell’affettività tra i due coniugi. L’amore coniugale lascia nella corrispondenza anche tracce di autentico erotismo, sfocia a tratti in una vivida ed esposta corporeità. Alla dichiarazione del marito che esprime il desiderio di essere in compagnia di lei e dei figli a “mangiare un po di polenta”, Maria ribatte con un guizzo di attrazione carnale: “caro marito mi dici che avresti piacere essere qui a mangiare una fetta di polenta sorda [?] e te lo chredo e io vorrei essere nuda come il verme della terra e avere il mio caro Marito qui con me ma chi sa se avero ancora grazia vederti qui atorno a me avero solo la consolazione di insognarti tutte e tutte le notti” (24 dicembre 1917). La lontananza lascia affiorare, nella dinamica dei sogni, qualche inquietudine sulla fedeltà del coniuge subito scacciata: “ti diro – scrive lui 132­­­­

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– che la notte del quindici il giorno di Santa maria mi sono i sognato che sono capitato accasa e che ti ho trovato insieme adormire con un altro uomo credo che questo non sara vero che averai quella idea” (18 agosto 1916). Ma accanto alla reciproca attrazione si coglie spesso nelle lettere anche il calore e la sollecitudine fisica per l’altro, come quando il marito si rammarica di averla messa incinta, preoccupato del fatto che dovrà affrontare da sola le nuove fatiche della gestazione, del parto e dello svezzamento del nascituro, e sembra anzi che le suggerisca di trovare il modo di abortire: cara moglie sento nella tua ame cara lettera che sei rimasta in cinta che non ai piu visto [le mestruazioni] ho quanto mi rincrese [mi dispiace] cenevoleva anche quello li non mi rincreserebbe se fossi accasa io ma cosi mi dispiace molto guarda se puoi che non sono passati i quaranta giorni guarda da furgarti [purgarti?] ascolta mi me chi sa che non torni avedere mi capirai bene [allude nuovamente alle mestruazioni] per che senza nesuno non so proprio come poterai fare per che si vede proprio che questa guerra non ha finizione [...] Cara moglie se avesse saputo che tu resti incinta non ti averei ne meno tucata mi capirai perche ce nabiamo a basta da tribolare [ne abbiamo abbastanza di soffrire] (4 agosto 1917).

La separazione forzata e la sottomissione dell’uomo al meccanismo inesorabile della guerra contribuiscono a fare della donna un asse portante dell’intera famiglia. Le lettere ci parlano di lei innanzitutto come di una consolatrice di Vittore, che lo incoraggia, lo rassicura, gli fornisce sostegno morale trasmettendogli l’immagine di una famiglia ordinata, stabile, che riesce a procedere malgrado la sua assenza. La donna, sostituendo il maschio, ne assume in parte il ruolo e lui a sua volta si lascia andare ad atteggiamenti che ne rivelano l’appannamento della virilità. Il dolore della lontananza da lei e dai figli lo prostra. Egli manifesta questo sentimento con una ridondanza che in parte dipende dalla povertà della sua esperienza linguistica e letteraria, e non equivale per nulla ad affettazione. Spesso si lascia andare al pianto, ma per 133­­­­

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sfogare questi suoi umori malinconici si isola e si nasconde alla vista degli altri, temendo forse di non essere compreso dai commilitoni. Cara moglie i non ti possio scordarti umminuto coi cari figli – le scrive il 26 settembre del 1916 – penso sempre ai miei cari io non ho altra al mondo chete il mio cuore si deffa [desfa = disfa, equivalente a “si scioglie”] tutti i giorni in lacrime per i miei cari che forse non li rivedero piu ho che dolore che provo essere rivato [a essere arrivato] aquesto cosi a questi punti che non averei mai creduto pure bisogna farsi coraggi e sperare sempre in bene le due mesi che mi trovo di stante da voialtri mi sembrano miglioni di seccoli che non vi abbia vi[s]to e tutti i giorni vengono sempre di piu [...] e penso sempre e sempre a te e non ho altra gioia al mondo che te e i nostri cari figli che non li possioproprio di menticarli umminuto il mio povero cuore versa lacrime ogni giorno per imie[i] piu cari[.]

La metafora del cuore che si scioglie in lacrime torna spesso nelle lettere di Vittore. I momenti della commozione sono spesso quelli in cui riceve le lettera della moglie. Quando il pianto sale, egli cerca insistentemente il rifugio nell’intimità, si isola e si apparta come può: “Cara moglie fatti coraggio e cura inostri cari che quando ripenso bisogna che vada alla le trina [che vada al gabinetto] a nascondermi che non mi vede nesuno affarmi una pansata [panciata] di piangere” (27 agosto 1916); “cara moglie la tua cara lettera mia fatto piangere io mimeterei in un anglolo [angolo] e mi disfarei [mi disferei = mi scioglierei] in lacrime” (10 ottobre 1916). Il ruolo della moglie si dilata a dismisura nell’assenza dell’uomo. Oltre a quello di sostegno morale, a lei spettano molti altri compiti assai corposi. Innanzitutto è, come sappiamo, madre di molti figli, alcuni dei quali molto piccoli e una addirittura neonata (nel corso del conflitto, come abbiamo visto, se ne aggiunge un altro, che non avrà la forza di sopravvivere), i quali richiedono cure continue, incluso l’allattamento, attenzioni e fatica fisica. È inoltre lavoratrice sul fondo di proprietà, che ha dimensioni non trascurabili (stando a una 134­­­­

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lettera di Vittore si tratta di due ettari di terreno prativo più un altro ettaro di coltivo) (3 aprile 1917), rispetto alle quali le sue forze si rivelano insufficienti. È anche amministratrice della piccola azienda familiare, compresa la gestione del modesto flusso di denaro costituito dalla compravendita dei prodotti, dal sussidio statale che ammonta a 50 lire mensili e da un continuo giro di prestiti che legano la famiglia di Vittore ad altre di parenti e conoscenti. Sappiamo ad esempio che è lei a dover decidere se comprare un paio di scarpe per sé e uno per la figlia Margherita, “perche non ne avevamo proprio piu” (10 settembre 1916), o a quale prezzo cedere il vitello, per il quale rifiuta la somma di 420 lire offertale sul mercato. Sappiamo che deve affrontare una lite col cognato, il fratello di Vittore, per un prestito che quello vanta, non riconoscendo a sua volta prestazioni in suo favore come la fabbricazione di rastrelli e manici in legno. Inoltre deve decidere se e quando fare ricorso al medico, come avviene nel momento in cui capisce che il figlio nuovo nato è in condizioni estreme (“perché se tu lai portato dal medico e segnio che stava per morire” arguisce straziato Vittore in una lettera del 9 settembre 1918). E deve darsi da fare con la burocrazia per avviare le pratiche riguardanti licenze ed esoneri, le quali richiedono informazioni aggiornate, assidui contatti e sono motivo di uno dei rarissimi casi di screzio col marito che, evidentemente in preda a uno stato di nervosismo, una volta le rimprovera con sarcasmo di non aver fatto abbastanza per ottenere quel che gli spetta, come invece fanno tutte le mogli che amano il proprio marito (“non costava mica umiglione [un milione] andare abedonia”, ossia recarsi nel comune vicino di Bedonia dove andava depositata la domanda) (4 ottobre 1916). Ma ben più frequentemente, Vittore riconosce che i compiti di Maria sono immani, la immagina nelle sue fatiche diuturne e si augura perciò di poter tornare per affiancarla nel lavoro: “e tu ti troverai molto stanca e ti toccherra andare a dormire passate tutte le mesenotte [sempre oltre la mezzanotte] o quanto e dura se potessi levarti una po di fatica chi sa 135­­­­

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se arriveremo a quel beato giorno da rionirsi per sempre sani e salvi tutti” (21 maggio 1918). Lei del resto glielo ribadisce più volte, per esempio quando Vittore le ha chiesto di andare a fargli visita, come accade a molti dei soldati mobilitati: “Caro Marito sento nelle tue lettere che avressi piacere che venisse a trovarti io verei a volo che chisa se si vedremo piu ma a chi devo lasiare il nostro intrego [parola dialettale che indica faccende da sbrigare] ciabiamo troppo da fare figli piccoli le bestie con il strame [...] e poi i bambini di notte che la vittorina non è ancora dislatata” (14 gennaio 1917). La corrispondenza di Vittore e Maria mostra quale pressione straordinaria faccia gravare la guerra sulla società contadina. In assenza del marito, la moglie si carica di una serie enorme di compiti che la consumano fisicamente e la estenuano sul piano emotivo. Senza il suo contributo, che pur rimane totalmente nell’ombra, non diventando mai parte del discorso pubblico ufficiale o della retorica propagandistica, la macchina del conflitto non potrebbe continuare a funzionare. Le donne del fronte interno sono parte integrante anzi decisiva dello sforzo bellico, di questo meccanismo che richiede e consuma un’immensità di risorse materiali, morali ed emotive, visibili e invisibili, riconosciute o misconosciute.

Una madre borghese Come si è visto, nel mondo contadino sono le questioni materiali, le fatiche del lavoro, i rapporti di potere coi proprietari terrieri, la fisicità della cura degli animali, il carico di responsabilità per le pratiche burocratiche connesse alle licenze a marcare l’esperienza femminile col distacco dei maschi adulti, pur senza escludere un intenso riferimento alla sfera dell’affettività. Diverso è il caso dell’ambiente urbano e delle famiglie borghesi. Qui è piuttosto l’orizzonte ideale e ideologico, patriottico e religioso, sono i codici del perbenismo a dare l’impronta al vissuto delle donne che hanno mariti o figli al fronte. Anche in questo caso, tuttavia, spesso la donna assume saldamente la 136­­­­

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funzione di perno e centro della famiglia, di punto di raccordo tra le traiettorie diverse sulle quali la mobilitazione bellica sospinge i diversi membri e, all’occorrenza, di punto di osmosi e di equilibrio sentimentale. La donna e, soprattutto, la madre viene investita nella realtà, nella propaganda e nell’immaginario dell’epoca di compiti centrali: quello di supplenza degli assenti nelle attività familiari, nel ménage di una famiglia borghese, quello di accettazione e di incoraggiamento all’etica del sacrificio, quello di offerta di una protezione salvifica rispetto all’incombenza del tema della morte. Lo si vede bene nella vicenda, fittamente documentata, di una famiglia di ceto medio intellettuale, residente ad Ancona ma attraversata da un’autentica diaspora per motivi che non hanno a che fare solo con la guerra. Si tratta della famiglia di Francesca Mazzoni e di suo marito Giuseppe. Lui nato a Roma, professore di lettere, poi preside in istituti di diverse città dove viene via via assegnato dal Ministero: Foligno, dove conosce e sposa Francesca, Macerata, Parma, Ancona, dove Francesca abita durante la guerra, e poi ancora Cagliari, Genova e Porto Maurizio. Lei maestra, che tuttavia ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi interamente alla famiglia e conserva solo qualche lezione privata. Hanno cinque figli: Olga, nata nel 1892, quindi ventitreenne all’entrata in guerra dell’Italia, Lina di due anni più giovane, Gino, nato nel 1897, volontario, Augusto, nato nel 1899, ed Enrico, nato nel 1903, l’unico che rimarrà in minore età per tutto il tempo della guerra. Il periodo dell’intervento italiano dopo l’arruolamento di Gino vede quest’ultimo al fronte, la madre nell’abitazione anconetana con i due figli minori, dei quali però Augusto farà a tempo anche lui ad arruolarsi coi “ragazzi del ’99”, il padre preside a Cagliari, più tardi spostato in Liguria, le due figlie crocerossine volontarie, anche loro spesso assenti da casa, impegnate in treni-ospedale o in diverse sedi di servizio. Ed è Francesca a mantenere il tessuto dei legami tra tutti i componenti. L’epistolario, particolarmente ricco, ci restituisce gli intensi rapporti tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fra137­­­­

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telli e sorelle, rivelandoci il tessuto connettivo di una famiglia di ferventi cattolici ma educata e fortemente ancorata agli ideali patriottici e al senso del dovere, percorsa da tensioni laceranti tra il modello della rispettabilità borghese e le pulsioni giovaniliste e trasgressive alle quali la guerra sospinge e stimola i maschi appena usciti dall’adolescenza. Gino, infiammato dai discorsi dannunziani, impegnato nelle manifestazioni interventiste in contrasto con le prudenze del padre e i timori della madre, sceglie come si è visto il volontariato. Francesca, dopo le iniziali resistenze, non lo ostacola ma lo accompagna con la sua ala protettiva, lo consiglia, lo circonda delle sue trepidazioni che oscillano tra i sentimenti patriottici e l’amore filiale, cerca di mantenere la sua esperienza in una salda cornice ideale compatibile con le tradizioni e la cultura familiare, ma a tratti lo asseconda e si esalta nel coltivare immagini di eroismo. “E t’assicuro – gli scrive con enfasi palpabile il 2 aprile 1916 – che sebbene il mio amore materno mi fa trepidare per la tua vita, che è parte delle mia, pure non affievolisce in me l’amore per la Patria e mi fa guardare fidente l’avvenire, che vedo radioso di gloria per L’Italia e per la civiltà dei popoli. E tu, so che ti farai onore e ti farai benvolere dai Superiori e dai soldati che ammireranno il tuo coraggio e ti difenderanno col loro petto per la tua bontà. E sento che il figlio mio muoverà un giorno alla pugna col Buon Dio nel cuore, col nome d’Italia sulle labbra e vincerà e porterà i suoi alla vittoria!”. Inoltre cerca di preservarlo dai rischi facendo appello a una religiosità assidua e intensa, intrisa di pratiche devozionali, talvolta miracolistica, al confine con una superstizione più vicina alla mentalità popolare: Mio caro Gino – scrive il 5 aprile 1916 –, Ieri ti spedii il berretto con le stellette che il gentilissimo Don Pio, per mia preghiera, ti ha benedetto avanti alla Reliquia della Madonna e li ha toccati sulla Reliquia stessa, perché tu resti incolume nel pericolo e torni sano, salvo e glorioso [...] E la sorella del Curato vi ha messo nella scatola 138­­­­

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una divozione che finora ha salvato, in ogni combattimento, tutti quelli a cui l’ha data e che la portano con fede, piú la preghiera del buon soldato. Mettila addosso e prega, e Dio t’aiuterà. E procura prima di andare sulla linea del fuoco, di far le divozioni con quella fede profonda e con le disposizioni dell’animo necessarie per ricevere le vere grazie e l’aiuto del Cielo. Tu sei buono e avrai sul labbro e nel cuore il nome di Dio, che è protettore degli eserciti, e la Regina della Vittoria [...] anche la Signora Palazzi mi domanda sempre di te e ieri mi ha mandato un’immagine dei Santi Re Magi, tanto miracolosa e che ha salvato finora il nipote nel pericolo. Mettila insieme alle altre: esse saranno la tua corazza. Dentro al berretto ho messo una medaglietta del Sacro Cuore, cucita, se per caso si staccasse, ricucila, per carità. Io sento che Dio solo può renderti invulnerabile e ridonarti sano e salvo a mamma tua e a tutti i tuoi cari che tanto ti amano.

Gino si salverà e si farà onore, venendo ferito più volte, maturando umori sanguinari e un’esaltazione ardimentosa e aggressiva che lo sospingerà dapprima nelle file degli Arditi, poi, a guerra finita, in quelle dei legionari fiumani. Contemporaneamente, il giovane si sottrae alla cornice di decoro e santità che la madre gli ha ritagliato addosso, forse anche al rapporto di dipendenza affettiva allora così comune pur in presenza di una sfida della virilità propria della scelta di volontariato, subendo una metamorfosi tipica dei combattenti sottoposti a un processo di iniziazione alla violenza e al pericolo. Tradendo le sue aspettative e disattendendone i consigli e le esortazioni, abbandona la fedele e fragile fidanzata Ida, cui è legato da una lunga relazione e ormai entrata nelle confidenze della famiglia, intrecciando diverse, più passionali e più disordinate relazioni. La madre avverte che il figlio sfugge al suo controllo morale, in preda a pulsioni che lei non comprende e non accetta, trasformato dalla crescita tumultuosa e precoce che la guerra stessa ha propiziato. “Di questo tuo distacco completo da lei non so farmene una ragione – gli scrive il 12 luglio del 1918 parlando della fidanzata abbandonata –, perché non è verosimile, Gino mio [...] non 139­­­­

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posso concepire che tu ti distacchi da un affetto così puro e santo che ti conduceva al bene, per seguire il volo di farfalle che ti dimostrano d’essere attratte da te, per attrarti alla loro volta e farti bruciare le ali [...] Non mi dire che sono antica e che ai tempi miei il mondo era differente, perché la bontà la serietà, l’amore sono stati considerati doni buoni sempre ugualmente e non possono cangiare come la moda, perché hanno sempre le stesse leggi, dettate da Dio che non cambia mai”. E più avanti (il 10 ottobre del 1918) ribadirà, con una perorazione appassionata quanto evidentemente inefficace, prospettandogli in un linguaggio piuttosto brutale i rischi di una relazione irregolare e compromettente: Da qualche tempo mi accorgo che tu non vedi più le cose come le vedevi una volta e ti lasci trasportare da una corrente funesta che ti trascina alla leggerezza e... peggio. La relazione che tu stesso ammetti di avere con la Signorina... ti par la cosa più naturale del mondo e non la consideri come cosa grave, mentre io la ho appresa con dolore, poiché ti vedo in grave pericolo, così per l’anima come per il corpo. Per l’anima tu devi ammettere che commetti un gravissimo peccato e non solo offendi il Signore, ma ti attiri il biasimo delle persone ben pensanti e veramente morali. Per il corpo, se non vai incontro a malattie, essendo così più difficile, puoi però essere colto in flagrante e rimetterci la vita a vederti affibbiata (come successe a Gualtiero Ninchi che se la tiene tuttora) una donna che non stimi e non ami profondamente, e andare incontro ad una vita deplorevole per te stesso e per gli altri [...] Non t’illudere dunque di poter troncare a tuo talento, perché quelle donne hanno un ascendente maggiore sul cuore dell’uomo delle giovinette buone e pure e spesso il più esperto non sa uscire dalla pruna in cui s’è lasciato avvolgere leggermente.

In realtà, non è solo Gino, che la guerra ha sottratto al controllo morale della madre, a destare le sue preoccupazioni rompendo i codici dell’etica domestica. Anche Augusto tende a sfuggire a quell’ordine, vorrebbe imitare il fratello arruolandosi volontario, scalpita per andare anche lui alla guerra e raggiunge il risultato all’inizio del 1917, sia pure con 140­­­­

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limitazioni dovute all’età. Essendo per il momento lontano dal fronte, la madre sembra temere soprattutto per le influenze nefaste dei costumi da caserma sulla sua moralità. Fonte di elevazione ideale e di eroismo, come le era parso soprattutto all’inizio dell’esperienza di Gino, l’esercito mobilitato in difesa della patria le appare però anche e soprattutto come luogo possibile di perdizione, specie per i più giovani: “gli hanno detto – scrive al marito l’8 febbraio parlando di Augusto – che essendo del 99 non può che seguire la sorte degli altri, cioè andare soldato nelle territoriali, cosa che avverrà entro la fine di febbraio, perché in marzo devono essere già a destinazione [...] speriamo non lo mandino molto lontano da Ancona, almeno potrò vederlo qualche volta e potrò aiutarlo meglio, se ha bisogno di soldi o di altre cose necessarie. Trepida il mio cuore al pensiero che, ragazzo com’è, si trovi in pericolo per la sua anima e in mezzo ad altri soldati immorali, che lo trascinino al vizio e questo mi tiene agitata”. E poco dopo scrive anche a Gino: “Il nostro Augusto alla fine del corrente [mese] sarà soldato gli hanno detto tanto in Municipio che in Prefettura che a nulla conta l’aver fatto il Nautico per il 99, che deve essere a destinazione ai primi di Marzo. Cosicché appena passata la visita lo vestiranno e non so dove sarà mandato, perché la nuova leva forma un reggimento a sé, non dovendo le giovani reclute essere mescolate con gli anziani e pare debbano avere un trattamento speciale, data la loro giovane età. Speriamo che non me lo allontanino troppo, perché senza la mamma vicina, può correre gravi pericoli morali, nelle caserme e con qualche cattivo compagno, durante le ore d’uscita” (lettera del 9 febbraio 1917). Né le cure di Francesca si limitano ai figli maschi. Anche Olga e Lina, così come la fidanzata di Gino, sono oggetto dei suoi consigli e delle sue esortazioni, consolate nelle loro delusioni e nelle loro schermaglie sentimentali, incoraggiate nelle loro prove formative e professionali, sorrette nelle loro fatiche di volontarie crocerossine, informate delle vicende belliche del fratello. Attraverso l’attività quotidiana e la fitta 141­­­­

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trama epistolare Francesca tenta così, non senza difficoltà, di mantenere saldo il tessuto connettivo e l’ordine morale della famiglia sottoposta a tensioni e a spinte centrifughe. In assenza del marito, certo gravato da compiti professionali impegnativi che limitano anche il suo ricorso alla corrispondenza, è soprattutto su di lei che grava il tentativo di tenere la famiglia unita e ancorata ai propri saldi principi, fronteggiando gli effetti di scuotimento che la guerra esercita. Confermata dal conflitto in corso nel suo ruolo di custode del focolare domestico, vede i suoi compiti resi più gravosi e complessi. Desiderosa di rispecchiare le propensioni patriottiche dei figli, ne teme però le conseguenze. Anche lei è insomma lambita direttamente dall’onda lunga della guerra grande che scuote dalle fondamenta un edificio, quello familiare, creduto forse immutabile.

Patriottismo femminile Accanto alle donne mature, madri e mogli, sul fronte interno della guerra grande ci sono anche le fidanzate. Specie negli ambienti borghesi e urbani, la loro è spesso la guerra totalmente immaginaria e virtuale di chi è troppo giovane per avere qualche esperienza e idea della morte, troppo fresca di letture scolastiche per non risentirne l’effetto profondo e prossimo, troppo esposta alla propaganda per non coltivare eroici furori patriottici senza alcun riscontro coi fatti. Una guerra – diremmo – enfatica ed estatica, come quella di Sandra Andenna, una ventenne romana di famiglia borghese ma non ricca e forse per questo impegnata in un’attività lavorativa di tipo impiegatizio in una grande azienda elettrica internazionale, l’AEG. Sandra è amica, poi segretamente innamorata ma ufficialmente solo madrina di guerra, infine apertamente fidanzata di un impiegato della stessa azienda, più vecchio di lei di otto anni, Ottone Costantini, artigliere, impegnato nella guerra per tutta la sua durata, che diverrà suo marito. I due si scrivono con regolarità e trasporto, salvo una lunga 142­­­­

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interruzione, per tutto il periodo. Un’ampia scelta delle lettere di Ottone è stata pubblicata dal figlio, lo storico Claudio Costantini, che ne ha ricavato un ritratto acuto e affettuoso del padre, riservando alla madre un’attenzione ugualmente affettuosa ma più sullo sfondo, ovviamente a causa dell’accento posto sull’epistolario come testimonianza di guerra. Tuttavia le lettere di lei, conservate in numero minore e non pubblicate se non a piccoli stralci nelle note, sono in verità non meno interessanti sotto il profilo della storia di genere, con le sue asimmetrie, i suoi stereotipi e i suoi conflitti. Sandra si esalta per la guerra eroica che il suo “baldo artigliere” sta combattendo, immaginandola come un seguito di trionfi che la riempiono di ammirazione e la distolgono da ogni altra attenzione. Coltiva un senso patriottico esclusivo e totalizzante, diffidente per tutto ciò che non è italiano. “I giornali – scrive in una lettera del 6 settembre 1917 – riportano tutta la grande importanza che hanno avuto in questa grande offensiva le azioni delle artiglierie, e solo dai giornali so che si lavora senza posa, senza sonno, senza requie!... In questi giorni di ansia e di trepidazione continua provo ancora quel vago senso di stupore snervante che non mi fa amare nessun lavoro”. Si dichiara entusiasta per “la nostra avanzata gloriosa” ma si preoccupa e si indigna per il comportamento degli alleati: “la Russia è veramente vergognosa ed a lei sola dobbiamo ancora tanti sacrifici e dovremo chissà quanto altro tempo di lontananza!... Lo crederai? Io non posso vedere né russi, né francesi, né inglesi, né serbi! [...] Finché in Italia avremo questi uomini... avremo spie: è inutile! Confesso che io non ho fiducia nemmeno nei nostri alleati!... e inutile, l’italiano è unico per ardore di sentimenti ed in fatto di lealtà”. La forza dell’entusiasmo la rende smaniosa e le fa provare un sentimento di insofferenza per la propria femminilità, preclusiva di un impegno diretto nel grandioso compito comune. “Come t’invidio – scrive il 25 ottobre 1917 – e con te tutti i tuoi baldi compagni!... e come sento pesare questo mio sesso debole ora che un’azione della mia persona potrebbe confon143­­­­

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dere il tumulto dell’animo costretto invece a vedere attraverso una lontananza tanta [sic] ed aggravante un conflitto già di per se stesso così immane e distruttivo!”. È un motivo su cui torna più volte, anche con un linguaggio meno tortuoso, a conferma di un’interiorizzazione marcata dei motivi della propaganda che fa gravare un senso di colpa su tutti coloro che non vogliono o semplicemente non possono imbracciare le armi, tra i quali in primo luogo le donne. E che si esaspera di fronte alla vicenda di Caporetto, la quale rende insopportabile il senso di impotenza e il peso dell’inazione che incombe sul genere femminile, specie di fronte all’emergenza, fino al punto da farle immaginare tentativi di travestimento per superare l’handicap. Ecco un brano, in questo senso esplicito, nella lettera del 27 ottobre, quando ha appena appreso, certo confusamente, le prime notizie della rotta: In questi giorni io penso solo alla guerra: dove poi vada, cammini ed operi, nulla vedo, ascolto e sento!... Sento solo sempre più forte nel mio animo un rammarico profondo per la mia inabilità!... Cosa sarebbe poter dividere con voi e sacrifici e pericoli?... Si, è vero, in una città ci sono tante e tante cose da fare!... ma non nella nostra condizione. Chi è costretta a lavorare per vivere e rimanere così fuori di casa ore ed ore che mezzi ha per alleviare le sventure altrui specie quelle causate dalla lontananza di uno o più dei cari figliuoli soldati?... sarebbe quindi molto migliore, dato l’anormalità del momento, essere un baldo giovine e volarsene verso più degno impiego, verso più alto ideale... T’invidio, t’invidio!... Non mi parlare di troppo entusiasmo ed incoscienza perché mi inquieterei questa volta!... Alcune volte ho cercato di studiare il mezzo per divenire un soldatino!... ma c’è troppa scabrosità!... Essere poi scoperte e messe su tutti i giornali è una di quelle pubblicità dalle quali ho sempre rifuggito!...

Quanto alla possibilità, più concreta, di surrogare l’impegno bellico con quello nelle opere di assistenza, con la cura dei feriti e dei mutilati, in questo caso sono gli obblighi lavorativi e il conformismo dei genitori a sbarrarle la strada: 144­­­­

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solo una via io ho trovato migliore – prosegue nella stessa lettera – ... Andare come samaritana, nei pronti soccorsi da campo, però!... e dare tutta l’opera mia, anche prendere parte in qualunque maniera all’azione!... Quanti feriti non muoiono perché abbandonati sul campo di battaglia?... Quanti moncherini per non aver dato tutte le cure pronte ed assidue necessarie in questi casi?... Eppure per una modesta impiegata anche questo è impossibile!... Si è figlie di famiglia: si hanno dei genitori che tengono alle parvenze del mondo e siccome il mondo chiacchera anche queste donne, che pure fanno tanto pure se sono poco dritte nei loro sentimenti del dovere di donna, si è costrette ad andare in ufficio, mangiare, bere e dormire in un’epoca che queste azioni non dovrebbero essere che secondarissime... ed invece in città sono le principali!... Vedessi... io mangio tutto, tutto nutrisce e la mia gioia per questi riusciti, minimi sacrifici mi dà tanta soddisfazione!... Gli abiti?... Chi ci pensa più?... Da quando ho indossato il vestitino d’autunno non ho messo che quello:... Penso agli altri perché mi arride ancora la speranza grande della tua licenza, e solo in quei giorni vorrò essere profondamente donna!... E lo stesso per il cappello, per le scarpe!... Devo comperare i guanti e proprio non ne ho voglia!... Le mani mi si arrossano ma non me importa proprio nulla!... E mi fa rabbia sentirne parlare di queste frivolezze...

L’antinomia tra la vita borghese e l’impegno bellico, tra la routine quotidiana e l’eccezionalità del momento, si veste così di un’insofferenza speciale verso tutto ciò che è frivolo e femminile: indiretta conferma del primato della virilità che la guerra ha esaltato come valore ma che in fondo sono soprattutto i civili e in particolare le donne borghesi a vagheggiare. Al contrario i combattenti, i quali conoscono l’orrore della trincea, l’attesa del ferimento e della morte e patiscono come minimo la lontananza prolungata e lo sradicamento forzato, ne subiscono spesso gli effetti depressivi, talvolta di femminilizzazione e di infantilizzazione. Nella fantasia adolescenziale di Sandra, la femminilità può essere nuovamente esibita solo come premio verso i prodi che fanno il loro dovere, negata ai vili: “Le donne vere d’Italia non 145­­­­

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attendano che i bravi soldati, gli altri rimarranno schivati ed anche insultati se occorrerà!”. Man mano che il disastro di Caporetto si delinea in tutta la sua gravità, il senso negativo della passività proprio della condizione civile e femminile, rispetto a quella che lei immagina essere l’attività dei combattenti, si esaspera e produce per contrasto la nostalgia della stagione risorgimentale, evidentemente conosciuta nelle aule scolastiche e forse nei racconti familiari, quando le guerre erano state frutto di uno sforzo più solidale e anche le donne vi avevano avuto una parte ritenuta maggiore, offrendo alla patria non solo il sentimento ma l’azione: “Ed ecco la mia angoscia; ecco il mio rimprovero di ogni minuto!... – scrive il 28 ottobre – e mi dico e mi ripeto ‘Cosa poter fare?... Perché dover rimanere così inetta?... Perché nulla poter fare in questo momento così decisivo per la nostra Patria adorata?...’ È vero che io do tutto il mio animo a questa causa, ma come dev’esser bello dare anche tutta la nostra forza e il nostro ardimento!... Io solo di questo mi rammarico e per questo soffro tanto, tanto!... Ah!... come ritornano e si affollano alla mente le gesta sublimi delle nostre nonne!... Come invidio il carattere di quelle guerre in cui ognuno poteva cooperare ed agire!”. Sandra tornerà più volte su questa insofferenza verso il proprio essere donna, considerato una diminuzione insopportabile di fronte all’immane, gratificante compito della difesa nazionale. Ecco un altro esempio di tale insistenza, affidato a una lettera dell’8 dicembre: “Felici voi che ve ne partite tutti – scrive dopo aver annunziato l’arruolamento volontario di un cugino, e registrato che nella sua famiglia non rimane a quel punto ‘nessun uomo all’infuori del papà che è troppo anziano’ e dello zio riformato per sciatica –, sapeste con che ardore di desiderio e di ammirazione io vi seguo!... La mia mente ed il mio cuore sono troppo presi del momento attuale e dei vostri sacrifici per non portarmi a rimpiangere la mia antipatica qualità di donna che non può seguire la via del dovere e della vendetta!”. 146­­­­

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A conferma di una sorta di inversione dei ruoli prodotta dalla concreta esperienza, o viceversa dall’inesperienza, della guerra reale, l’amato artigliere alla lunga subisce tanto ardore declamatorio fino a provarne fastidio, specie dopo che gli eventi successivi alla ritirata – come vedremo meglio nel capitolo specifico su Caporetto – hanno prodotto in lui, convinto di aver fatto fino in fondo il proprio dovere ma circondato dalla generale diffidenza come tutte le vittime della disfatta, un senso di mortificazione inatteso. Disilluso e apatico, di fronte all’ennesima manifestazione di slancio patriottico aggressivo e bellicoso offerto da lei in una discussione di cui gli ha evidentemente riferito i contorni con orgoglio, Ottone sbotta in una reazione di insofferenza e di gelosia che si traduce in rimprovero esplicito per i suoi eccessi, i quali finiscono per deprimere e tradire la sua stessa femminilità. In altri termini, le rimprovera proprio quella violazione di confini a cui lei ha mostrato di aspirare con tutta la forza del suo animo. Il patriottismo esasperato, responsabile di un appannamento dell’identità di genere, si insinua dunque come fattore di disturbo nel rapporto amoroso. Non ti sembra – le scrive con una punta di sarcasmo nei primi giorni di giugno del 1918 – che possan suonar male in bocca ad una fanciulla amante propositi così inflessibili di lotta a tutti i costi, mentre anche i meno sentimentali uomini d’arme e di governo ànno titubanze serie?? Credi davvero possa lusingar molto un povero diavolo, che compie il nobile e pur doloroso dovere di ammazzare il prossimo, sentir tanto spesso ripetere incitamenti cruenti da quella che dovrebbe essere la prima custode della integrità della famiglia?! Noi tutti, uomini di fede, abbiamo fatto voto di sacrificio della nostra vita per la causa che [per la quale] combattiamo, ma non dimenticare soprattutto che la causa è l’umanità, che il nemico è il militarismo (questo mostruoso complice dei più bassi istinti di cupidigia e di ambizione!) [...] Tu ài ben detto “fino alla vittoria o fino alla morte”! C’e dunque in te un affetto ch’è più forte del mio [di quello per me]! e al quale mi sacrifichi con tanto entusiasmo!? Non ti sembrerebbe più logico contegno di 147­­­­

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donna accettare passivamente il destino mitigando la perversità del mondo e alleggerendo il sacrificio nostro con un po’ di quell’affetto santamente egoistico ch’è l’affetto familiare? Non è questo più nobile e più santo dell’altro?! Non è forse quest’ultimo la dilatazione di quello?! Perché invertire così inopportunamente l’ordine fissato dalla natura e da Dio? Sapessi com’è adorabile quella santa femminilità, scevra di sentimentalismi eroici, che dà un colore di tristezza ad ogni frase che accenna al massacro dell’umanità! Ne ò intese tantissime di queste adorabili frasi da te! perché dunque ti lasci trasportare, per un nobile sentimento di sdegno, a dimenticare o quantomeno a travisare la tua missione importantissima, che è poi quella della donna in genere? Credi! L’esempio delle madri spartane (se pure vi fu!) non è per la civiltà nostra.

Come si vede Ottone, di fronte alla bellicosa esibizione dell’amata, non solo rivendica, comprensibilmente, i suoi idea­ li umanitari e antimilitaristi, non solo contraddice il modello della donna eroica votata al sacrificio (quello delle persone care), tipico della propaganda cui Sandra è particolarmente esposta, per giunta spinto a sconvenienti eccessi da crociata, ma in certo qual modo sembra negare anche l’aspirazione di lei a uscire dai confini di un ruolo naturalmente votato alla moderazione, alla famiglia, agli affetti domestici. Nella storia dei due fidanzati si riverberano così i dilemmi di un incontro-scontro tra generi che attraversa l’intera storia della guerra. E presto Ottone tornerà a riconoscere in sé tutti i segni di uno scacco di quella virilità che la guerra stessa viceversa avrebbe dovuto esaltare: Sandrina mia / Dire un torrente di tristezza, un vortice di malumore, non sarebbe ancora aver detto tutto il mio stato d’animo di questo momento – le scrive il 21 giugno 1918 –. Infrollito di stanchezza in una attività passiva, col disgusto fisico per le nuove fatiche che, fra un paio d’ore riprenderanno con l’alba, mi ostino a scrivere [...] Io provo l’isolamento desolato dell’uomo sperduto, dimenticato, indifferente a tutti. Se dovessi descrivere il mio sentimento in segni grafici, traccerei una serie infinita, opprimente di circoli perfetti, eccentrici e grandi e piccoli, intreccianti, dove l’occhio non trovasse 148­­­­

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il riposo d’una linea retta, e la mente fosse costretta a turbinare in mille giri. È un turbamento fastidioso, una depressione fisica [...].

Infermiere volontarie Se i simboli del materno sono al centro del ruolo femminile nella guerra, la figura dell’infermiera è quella che li incarna più compiutamente. Protettrice e consolatrice, la volontaria della Croce Rossa si prende cura di un soldato che per la sua stessa condizione di ferito o di ammalato, più ancora se menomato e mutilato, appare fragile, debole, bisognoso di affetto, spesso regredito alla dimensione infantile dopo aver dismesso almeno temporaneamente quella del combattente virile. È vicina al suo corpo, di cui allevia il dolore con massaggi e medicamenti. Gli porge il cibo quando è incapace di prenderlo da solo. Ecco perché le infermiere occupano una posizione di assoluto rilievo, un autentico crocevia simbolico nel fronte interno femminile. Di una di loro parla un soldato pugliese nel documento che segue, dopo aver tracciato la storia dei suoi ferimenti e dei suoi ricoveri: Firenze 14 dicembre [...] 1915 Letto 57 Soldato Coletta Cesare 139 Regg Fanteria 4 Compagnia. Trovandosi il ciorno 26 Luglio dauna vanzata sopra Isamichele [Il San Michele]. Ricevi [ricevetti] due Palottole di fucile Alla Canba sinistra fortonato chemi portava Soltanto unpoco dipelle via e ildolore era poco continovai [continuai] Andare Sempre Avanti solo mime dicai [mi medicai] dentro la trincera efoi [e fui] guerito intrincea. Poi ilciorno 21 Ottobre mitrovava sulcarso Amonte Capuccio facendo lavanzada [l’avanzata] restai ferito Algomito destro ilmio braccio perse Tutta lasua forssa edovetti tornare indietro efoi Portato dauno spitaletto dacanpo N° 225 dopo 7 ciorni foi trasferito dunaltro ospedale diriserva Aluco diromagna dopo 11 ciorni foi portato Afirenza [a Firenze] Alospadale N 1 dopo 14 ciorni foi Portato Aquesto bello spedale N 10 chesono tanto contento Perle signorine che fanno dei massaci [massaggi] Almio braccio Tantirincrazia Menti Alla Signorina lazzari dello suo lavoro chisempre [parola illeggibile] Almio braccio Coletta Cesare Lecce Per felline. 149­­­­

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In questa prosa sgangherata ma comprensibile, piena di discostamenti dalle norme ortografiche e grammaticali, di incertezze sulle separazioni delle parole, le maiuscole e le doppie, il soldato descrive il provvidenziale approdo nell’ospedale fiorentino N. 10 dove presta servizio l’infermiera Anna Lazzari. È lei la destinataria di una serie di “dediche sanitarie” come questa, comprese in un album rilegato in cuoio di cui il resoconto del nostro Coletta occupa la prima pagina scritta. L’album presenta una struttura simile a quella degli album dei ricordi, o libri amicorum, riservati alle dediche dei coetanei in occasione di un compleanno particolarmente importante nell’adolescenza, quasi a segnare un congedo e un rito di passaggio. Le dediche sono rilasciate, sebbene senza un ordine rigoroso di impaginazione progressiva, via via che i soldati si avvicendano sotto le cure della giovane e a quanto pare, di regola, al momento delle dimissioni. La funzione dell’album è quella di fornire un attestato delle benemerenze acquisite dall’infermiera volontaria della Croce Rossa, e celebra perciò indirettamente il suo senso di orgoglio personale per il valore dell’opera prestata. Anna Lazzari era nata nel 1894 e quindi aveva ventun’anni al tempo di questa prima dedica. Figlia di un impiegato delle Ferrovie dello Stato, si era trasferita con la famiglia da Torino a Roma nel 1908 e l’anno seguente a Firenze, dove aveva frequentato l’Istituto superiore di magistero. Qui dopo lo scoppio della guerra divenne infermiera della Croce Rossa e prese servizio presso l’American Hospital for Italian Wounded, classificato come ospedale territoriale N. 10 della Croce Rossa Italiana e ubicato presso la Villa Camerana. L’ospedale, sostenuto da un comitato americano per aiuti all’Italia, era sorto pochi giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, e aveva iniziato a funzionare nell’agosto del 1915. Da quel momento alla fine di luglio del 1918, furono ricoverati nell’ospedale 2.031 pazienti, di cui 1.934 furono dimessi, la maggioranza dei quali tornata alle armi, solo 30 dichiarati inabili al servizio militare e restituiti alla condizione civile. Inoltre furono 150­­­­

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eseguiti nell’ospedale 250 interventi chirurgici di rilievo e si contarono in tutto 7 morti. Questi dati suggeriscono che in genere all’ospedale non venivano indirizzati feriti o malati di particolare gravità. Sappiamo inoltre che i soldati vi giungevano in genere dopo alcuni passaggi presso altri ospedali, spesso a distanza di mesi dal ferimento o dall’insorgenza della malattia, per semplice completamento delle cure (“maggiori cure” è la formula usata numerose volte dagli autori delle dediche), riposo, convalescenza, prima di essere rinviati al servizio. Ciò lascia intendere come la vita quotidiana al suo interno non fosse caratterizzata da situazioni e da emergenze drammatiche, ma scorresse in una relativa tranquillità, nel clima disteso attestato dalle numerose fotografie allegate all’album. Nella sua autobiografia Anna Lazzari parla però di momenti di concitazione nei casi di arrivo simultaneo di un gran numero di ospiti da ricoverare. Per quanto impegnativa, l’esperienza della Lazzari non ebbe dunque nulla di traumatico, come viceversa accadeva in altri settori della vita infermieristica. La ragazza poté sentirsi gratificata per la sua attività di alto valore civile e sociale, appagata nella sua femminilità per l’ammirazione, spesso confinante con la devozione, dei soldati e per il senso materno in essi ispirato dalle sue amorevoli cure, senza dover subire l’impatto destabilizzante coi corpi lacerati e straziati, con le cancrene in atto, col sangue e i lamenti, con gli amputati e i moribondi, che traspare spesso dalle testimonianze autobiografiche delle infermiere operanti in prossimità della zona di guerra. È questo lo sfondo e il contesto nel quale prende forma l’album di dediche. Esso costituisce un documento raro e prezioso dei rapporti tra soldati e infermiere negli ospedali dell’interno durante il periodo di guerra, in particolare dell’autorappresentazione di feriti e mutilati, dell’immagine che essi hanno dell’istituzione destinata ad accoglierli e del personale femminile a cui sono affidati, immagine nella quale la giovane infermiera ama rispecchiarsi. Oltre alle de151­­­­

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diche, scritte generalmente in forma di lettera (forse su suggerimento dell’interessata, o forse per la ben nota familiarità dei soldati, anche quelli più scarsamente alfabetizzati, con la forma epistolare), l’album comprende qualche documento epistolare vero e proprio, fotografie che ritraggono gruppi di ricoverati con o senza le infermiere e ambienti, soprattutto il giardino che circonda la villa dove l’ospedale è ubicato. Ecco come l’infermiera si riferisce all’album nell’autobiografia, dopo averne ricordato la parte fotografica: “Ma l’album è soprattutto interessante per quello che hanno scritto i soldati; in maggioranza poco istruiti, a volte scrivevano come sapevano; ma alcuni (forse vergognandosi della propria ignoranza) copiavano quello che altri avevano scritto. Molti ritornati al fronte o congedati, continuarono per molto tempo a scrivermi lettere o cartoline e mandare fotografie”. In effetti le dediche seguono in genere un canovaccio fisso, quello che abbiamo visto applicato nel testo del soldato Coletta: si aprono con la declinazione delle generalità dello scrivente (talvolta incluso il numero di letto occupato), proseguono con l’informazione sulle circostanze di tempo e di luogo del ferimento o della manifestazione della malattia, poi con la narrazione del percorso seguito dalle prime cure ai diversi ricoveri, fino all’approdo nell’ospedale americano. Infine sfociano negli elogi per tutto il personale, specialmente per le infermiere (chiamate “Signorine”) e si concludono quasi tutte con lodi speciali nei confronti di Anna Lazzari. Qualcuno degli scriventi ci tiene a enfatizzare le circostanze del ferimento, segnalando che esso è avvenuto “dopo diversi combattimenti e assalti alla baionetta”, ovvero “dopo 10 mesi e mezzo di fronte, e avere compiuto sempre il mio dovere, e preso parte, a molti combattimenti”. Altri ricorrono a espressioni tipiche della retorica patriottica, come nel caso seguente, in cui scrive un soldato di Incisa Val d’Arrno: “Mentre ero a compiere il mio sacro dovere verso la mia cara ed amata patria combattendo sul monte S. Michele, contro 152­­­­

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il nostro secolare nemico [...]” Alcune dediche risultano più laconiche e formali, e si capisce che in questi casi l’autore scrive più che altro per dovere e perché richiesto, altre sono invece piene di autentico trasporto e traboccano di gratitudine evidentemente sincera. Un esempio di ridondanza nelle manifestazioni di riconoscenza è il seguente, datato 23 dicembre 1915: Il sotto schritto soldatto Bordiga Martino, 121mo Reggim Fanteria, della 7ma Compagnia Acadutto [è caduto] amalatto, Sul Carso da gastro Endritte [gastro-enterite], questa malattia esendo Grave, fui speditto, nel ospedale dacampo, piu vici[ni]no, N 240. In Cudesto ospedale, dopo aver pasatto Cuindici Giorni, fui speditto in itta glia, Cioè Nel, ospettale, Semenario Chremona. E diversi altri ospettali finalmente fui spedito in questo Ospettale N 10, ove fui Curatto Con maggior Cure, dai Bravi Medici, E dalle Gentilissime signorine specialmente, la Gentilissima signorina Lazzari, Il cuale [parola illeggibile] anche, al soldatto Bordiga Martino Dilasciare, su Codesto libro, due righe insegno di ricordo, Verso dilei, delle cure [amorevoli?], Verso dime, etutti gli altri amalatti, che, posso dire, fortunatti quegli amalatti che, dalei furono Curatti overo asistitti, Ettio lovoglio, Ricordare anche verso della mia Famiglia, everso i miei parenti, specialmente Da me, laricorderò, fino negliultimi Estremi di mia vitta. Mi ricorderò Nelle mie misere preghiere, Intutto e per tutto, Ringraziandola Convero Amore di tutte Notti pasatte per noialtri amalatti e feritti.

Ecco viceversa un esempio di stringatezza, certo dovuto alla modestia delle competenze grafiche e linguistiche: Soldato Antonio Carruccio del 142 Regg.to fantaria 10 comp.a ferito il giorno 22 di ottobre 15 Al Monte Capucio ferito Alla Gamba Destra e alla spalla Destra e ancora al Vianco sinistro o avuto la prima medicazione in tricea e poi sono statto tresferito auno ospedale da campo e poi sono statto tresferito all’ospedale di Palmanova e poi sono statto cambiatto a Firenze all’ospedale N.2 via Margherita e poi sono venutto cui ospedale Americano N. 10 e Lascio tanti Ringraziamenti Al Signorina infermiera Anna Lazzari[.] 153­­­­

In questa e nelle pagine successive  Pagine dell’album di dediche alla crocerossina Anna Lazzari da parte di soldati ricoverati nell’American Hospital di Firenze, classificato come ospedale n. 10 della Croce Rossa, Archivio ligure della scrittura popolare, Genova.

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In qualche caso il testo sembra ripetere fedelmente un vero e proprio modello e addirittura essere vergato dalla stessa mano, forse quella della giovane infermiera che poi fa apporre all’interessato la firma autografa, evidenziata dalla diversa calligrafia. Ciò avviene presumibilmente nel caso in cui i soldati abbiano minore dimestichezza con la pratica della scrittura e si mostrino più intimiditi e riluttanti di fronte al compito. Gli scriventi sono in genere soldati semplici e mostrano di possedere scarse competenze alfabetiche, affaticandosi nel tentativo di dare forma ai propri pensieri e sentimenti. Raramente usano espressioni forbite, tentano di adottare un registro alto (“questo benigno comitato”, “come il mio cuore detta”, “mi pregio tracciarle questi pochi righi”), o perché ne sono effettivamente capaci, evidentemente in possesso di una scolarizzazione e di un apprendistato superiore, o forse perché utilizzano qualche manuale o l’aiuto di qualche commilitone più competente. Particolari difficoltà ortografiche e nella costruzione del periodo presenta il soldato Giovanni Canali, che firma la sua dedica alla Lazzari il 5 agosto del 1916. Egli ricorda di essere “Rimasto ferito in Cima dodici il venti Sei Giugno di Una Palotola di focile Sul zinochio della gamba sinistra”. Poi segnala il suo itinerario sanitario fino a raggiungere l’ospedale fiorentino Numero 10, dove “Miano Operato E Sono Guarito benissimo Alla Mia ferita [...] e Miano Sestio [assistito] Tutte le Signorine della Croce Rossa e Ringraziando Lasignorina in Fermiera della Crocerossa Particola modo della Signorina Lazzero anna che Se imprestato [é sempre stata] Tanto gentile In Verso dime”. Dal canto suo un caporalmaggiore di Opera, in provincia di Milano, ha un esordio che sembra preso di peso da qualche manuale di scrittura o dettato da qualche compagno esperto: “Troppo misera e la mia penna per poter descrivere in questo grazioso diario tutto quello che il mio cuore avrebbe da dire a tutti indistintamente”. Ma subito dopo rivela anche lui le sue difficoltà ortografiche: “Rimasto ferito in tre parti del corpo da palotolle di fucile il giorno 28 giugnio 1916 sull’Al154­­­­

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tipiano di Asciagho [...]”. Infine si rivolge come di consueto alla “Gentilissima Signorina Anna Lazzari” per manifestarle “l’immenza gratitudine la grande riconosienza e l’eterno e grato ricordo per le sue infaticabili cure verso di me durante la mia guarigione”. Non meno irto di asperità è il testo vergato dal soldato calabrese Vincenzo Lenti l’11 agosto del 1916, “ la quale rimase ferito il 9 Giugno alla testa”. Ma ciò non gli impedisce di diffondersi in ridondanti manifestazioni di gratitudine per l’assistenza ricevuta nell’ospedale americano: “otrovato tutti brave infermere e dirittori che miano guarito [...] e sono state molto gentile permè che non le posso mai in fenita mente ringraziare [...] massimamente La Signorina Lazzari si rimostrata tanto gentile e io la ringrazio a lei infenitamente”. Pesanti segni di scarsa dimestichezza con la scrittura si trovano nel testo di un altro soldato, Giovanni Azzolin, il quale, dopo aver descritto il suo ferimento e le prime medicazioni ricevute, racconta così il suo ricovero nell’American Hospital: “epoi Sono Ricoveratto qui Sun questo ospitalle Americano il primo Giorno chefui Ricoverato inquesto ospitalle che della Signorina Anna Lazzeri che lepiù primoroze cure laringrasio infinitamente e Ricordandola Sempre”. Non manca chi con molta umiltà, riconoscendo la povertà dei suoi mezzi linguistici, se ne scusa. Il soldato Bartolo Schiavinato, dopo aver elogiato il personale dell’ospedale, scrive: “Mi dispiace perché il mio studio e tanto misero che non ci ariverò a ringrassiarli tanto quanto si merita, ma di questo dimando scusa. Però fino quanto che arivo [fin dove posso arrivare] lo volio scrivere e incomincio primiaramente dalle Signorine, che con tanto amore mi à servito e curato”. Le sue scuse si estendono all’inadeguatezza del comportamento: “Io contro di loro sono stato troppo sfaciato nel dimandargli dei piaceri ma di questo gli dimando scusa e le ringrassio del’incomodo che gli ò dato, quanto poi mi sento in’obligo dimandargli scusa se io contro di loro non ho tenuto il mio dovere”. 155­­­­

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Un’attitudine umile, di scusa per la povertà dei propri mezzi espressivi, assume anche il caporale Buonafede Alberoni, colpito da una pallottola esplosiva al piede destro il 30 giugno del 1916 e giunto all’ospedale americano l’8 luglio, che in data 4 ottobre 1916 scrive: “Non mi sento abastanse parole da potere ringraziare tutte le signorine a gli ufficiali medici delle sue amorevole cure che anno prestato per me e ringrasio tutta la società Americana dei suoi sacrifici e benevolense che anno per noi di fensori della patria ora Mi sento con tutto il cuore di potere ringrasiare la signorina beatrice anna Lazzari delle sue buone cure che a sempre [parola illeggibile] verso di me”. Al centro dell’album sta la giovane infermiera, destinataria di tutti gli elogi, figura di riferimento attorno a cui si muove l’impianto retorico delle dediche. Giovane, alta, probabilmente bella – se non ci inganniamo nell’identificazione del personaggio che compare con maggior frequenza nelle foto di gruppo – educata e di buone maniere, come vuole la sua appartenenza sociale, attestata dallo stesso possesso dell’elegante album, Anna suscita sentimenti affettuosi nei suoi assistiti, che vedono in lei una madre giovane e insieme una sorella attraente. Probabilmente, anche loro si comportano nei suoi confronti come in genere i soldati verso le infermiere, ossia con un misto di affetto e deferenza, meglio di quanto sappiano fare gli ufficiali: “i soldati sono molto più facili da assistere degli ufficiali – testimonia una di esse, personaggio autorevole nel settore, Sita Camperio Meyer – e, cosa strana, hanno molto più tatto e finezza di sentire. Non vorrebbero mai disturbare e hanno molto più pudore”. Dal punto di vista simbolico, nell’infermiera trova piena incarnazione la figura della madre, che costituisce la forma dominante e la chiave di volta della presenza della donna sullo scenario della guerra. Il più esplicito e chiaro nell’identificare la funzione simbolica materna della venerata infermiera è il soldato piacentino Ercole Sandrolini, che compone la sua dedica il 17 agosto 156­­­­

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del 1916. Dopo aver ingraziato le infermiere dell’ospedale, egli scrive: Ma più di tutte mi sta al cuore la signorina Anna Lazzari la cuale non solo si prestò d’Uttililissima opera D’aiuto alla nostra cara Patria ma bensi attirarsi la massima sempatia degli eroici Soldati feriti per la nobile opera che volontariamente si prestò di vero amore materno verso di noi la quale non la dimenticheremo nemmeno quando ci troveremo di nuovo davanti all intruso ed odiato nemico, ovvero in faccia alla morte quasi certa che in quel momento S’invoca Iddio e così ci spunta sulle labbra il dolce nome (Mamma) ma nel medesimo istante la nostra mente sara volta verso a quella Amabilissima ed umile Dama della Croce rossa con il desiderio di averla di nuovo in nostro aiuto e con le sue cure materne. Di nuovo io la ringrazio come fa un bimbo a Riconoscere le cure materne, e mi dico per sempre il suo Devotissimo Sandrolini Ercole [...].

Nell’immaginario del soldato, l’infermiera prestatrice di cure affettuose incarna pienamente la funzione di madre, al punto che la sua figura viene evocata in previsione di un possibile evento luttuoso, e precisamente nel momento in cui il combattente, regredito alla condizione della dipendenza infantile, di fronte alla morte si rifugia virtualmente nelle braccia della mamma invocandone la protezione. Le due immagini a quel punto magicamente si sovrappongono, e un unico nome le designa, quasi a significare l’unicità del ruolo. Qualcosa di simile si legge nelle parole che un altro soldato inserisce il 4 novembre 1916 nella sua dedica, dove evoca il senso e il gesto materno della cura volta ad alleviare il dolore, incarnato nella preziosa opera della crocerossina: “mi pregia a tracciare queste righe onde esprimere la mia gratitudine per le amorevole cure da lei perodigatime [prodigatemi] durante i momenti triste di dolori lei si avvicinava come una fata benefatrice cercando ogni mezzo possibbile per alleviarci il dolore, come una mamma che cerca di alleviare il dolore di un proprio figliolo mai mi dimenticherò di lei”. 157­­­­

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Un autentico panegirico, nei confronti di una Lazzari vista come donna-angelo, è infine quello tracciato dal soldato Pio Ossicini, del reparto zappatori del 112° fanteria che, uscendo dallo schema consueto, pospone le indicazioni sul ferimento e sui successivi trasferimenti all’elogio per l’infermiera: “Per sottolineare le lodi che la Gentilissima signorina Anna Lazzari si è ben meritata con il suo zelo costante ed infaticabile ci vorrebbe un antico poeta. dal volto pallido dalla costante espresione di accoramento sincero negli occhi che anno luce improvisa di tenerezza. Bella quanto caritatevole, io fortunato dessere stato colmato delle sue gentil caritatevole benevolesse non potro giammai abbandonare il dolce ricordo di cotesto angelo tutta carita bonta e gentilessa”. Come per tutti i nostri protagonisti, anche nel caso delle infermiere volontarie, che generalmente hanno in comune un’estrazione sociale abbastanza elevata e l’appartenenza a famiglie di solido patriottismo, l’esperienza compiuta varia in relazione a diversi fattori, tra i quali le sedi di prestazione del servizio, soprattutto con riferimento alla maggiore o minore vicinanza al fronte. Elisabetta Berti ad esempio, bolognese, nubile, nell’agosto del 1917 svolge la sua missione, di breve durata perché interrotta dalla ritirata di Caporetto e non più ripresa, in un paesino a ridosso del fronte, Caltrano nel Trentino. Nei due mesi trascorsi presso l’ospedale militare tiene un diario pieno di annotazioni vivaci sull’ambiente, sui superiori e il personale, sul paesaggio e in generale sulla guerra. Non si può dire che la sua sia un’esperienza drammatica: l’ospedale ha una funzione di smistamento e non vi sostano se non per brevissimo tempo feriti gravi. I degenti sono soprattutto operai civili delle retrovie ammalati o infortunati, tra cui numerosi ragazzi anche molto giovani (uno di dodici anni), verso i quali si indirizzano le attenzioni materne e la compassione della nostra infermiera. Tuttavia la vicinanza del fronte si fa sentire, l’atmosfera è quella di una movimentazione continua e febbrile, la prossimità della guerra guerreggiata è palpabile, qualche volta si può assistere addirittura a un 158­­­­

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duello aereo, come le succede il 15 settembre del 1917. È forse questo che le suggerisce con una certa frequenza, accanto alle annotazioni sui fatti che accadono e i personaggi che le stanno attorno, pensieri e bilanci sulla guerra in corso. Elisabetta appartiene a una famiglia fortemente impregnata di patriottismo. Suo fratello Nino ha ottenuto l’arruolamento malgrado la precedente riforma per un vizio cardiaco, sul quale gli strapazzi della guerra avranno conseguenze fatali. Il suo sentimento basilare è di adesione profonda alle ragioni del conflitto. La sua attività di volontaria appare gratificante. Eppure più volte esprime lo sgomento per le dimensioni immani dello scontro, per i sacrifici di sofferenza e di sangue che impone. A viverci in mezzo ai bravi soldati si capisce ogni giorno di più che grandissimo sacrificio sia questa grande guerra – scrive in data 5 ottobre –. Chi non dà la vita ha già dato parte del sangue. Se non lo ha dato forse lo darà, e dà in ogni modo i più begli anni della sua fiorente gioventù oppure sacrifica l’affetto fortissimo di padre e di figlio. E lo stento continuo quotidiano, la fatica aumenta perché le forze diminuiscono, l’isolamento forzato – il rancio che anche lui è sempre quello e sempre quello (quando c’è), tutto rende la vita difficile, dura e monotona! E così ben si capisce che in questa lotta inumana tutti patiscono, tutti danno una parte di sè stessi che raramente si potrà recuperare.

L’idea sacrale e sacrificale della guerra fa certo parte del suo corredo ideologico, ma qui affiora il sentimento che il sacrificio stia diventando esorbitante, e il sospetto anche peggiore che esso possa risultare non risarcibile, il che può significare che la conquista di una patria più grande non è compenso sufficiente alla perdita. È come se la fede patriottica vacillasse impercettibilmente al cospetto della guerra grande, assai più grande che nelle previsioni e nelle aspettative e perciò inumana – così la definisce. La guerra stessa appare non più come il frutto di una scelta, ma come un evento che si è imposto da sé, inesorabile e fatale: “Questa gran guerra deve essere stata veramente una 159­­­­

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fase storica – dice subito dopo, quasi faticando a trovare le parole giuste per esprimere la sua intuizione –, contro la quale non si è potuto vincere, come cosa fatale!”. E ciò dipende forse dalle caratteristiche della guerra, di massa e di materiali, così lontana dall’immaginario prebellico della guerra eroica, fatta di slanci ideali. Caratteristiche che la nostra Elisabetta sembra percepire anche dal suo osservatorio relativamente arretrato, e che puntualmente descrive: In strada un continuo passaggio di camion di rifornimento, di automobili, di autoambulanze, di motociclette. In aria per l’atmosfera nuvolosa spesso un rombo di cannone e il colpo dello scoppio delle mine. Aeroplani non se ne vedevano causa il cattivo tempo. Ho pensato fra me: questa gran guerra dopo essere lotta di uomini è lotta veramente di industrie – di meccanica specialmente – è un continuo pulsare di motori, taluni destinati a mantenere la vita perché ne portano i i rifornimenti fisici e difensivi e tali altri destinati soltanto alla distruzione!

Come altri memorialisti, anche Elisabetta Berti indugia perciò, non casualmente, nella descrizione di questo incessante lavorio che la guerra mette in atto, costruendo un ambiente artificiale, meccanico e tecnologico, del tutto speciale, che prende il posto della vita quotidiana coi suoi ritmi e i suoi suoni conosciuti. Questa vita qui in ospedale e in zona di guerra è certamente qualche cosa di molto interessante e di particolare. Questo vedere sempre, sempre soldati e cose militari, continuo movimento di camions, ambulanze, trasporto trattrici, salmerie, rumore di motori aerei e rombi di cannoni, scoppi per tiri di esercitazioni (bombe a mano, mitragliatrici, petardi), lotta incessante di contraerei dei quali si è imparato a conoscere il valore delle varie batterie capisci che ti ha creato una vita speciale che non avresti potuto conoscere se non quassù.

È la nuova guerra, la guerra moderna che ha ormai preso campo anche nell’immaginario della giovane infermiera 160­­­­

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infervorata da sentimenti patriottici e che non appare più commensurabile col modello della guerra patriottica risorgimentale a misura d’uomo, dal quale il suo itinerario ideale ha preso le mosse.

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Caporetto: l’evento e le sue memorie Caporetto è un toponimo scomparso dalla carta geografica ma è contemporaneamente divenuto un nome comune della lingua italiana, di uso corrente e di significato largamente intellegibile. Si tratta di una sperduta località tra le montagne delle Alpi Giulie, oggi in territorio sloveno, attualmente denominata, appunto, non Caporetto ma Kobarid. Un luogo dimenticato, insignificante, che solo qualche appassionato di storia e di cose militari visita, ormai di rado. Contemporaneamente, si tratta di un caso classico di applicazione di quella figura retorica che i linguisti chiamano antonomasia, consistente ad esempio nel trasformare un nome proprio in un nome comune: Caporetto usato come sinonimo, quindi come esempio massimo, di sconfitta, di disfatta, di disastro. Sulla disfatta italiana di Caporetto esiste ormai una quantità smisurata di pagine di storiografia e di memorialistica colta e popolare. Moltissimi autori si sono cimentati in varia chiave sul tema, che ha dunque visto dilatarsi oltre misura i suoi significati, il suo peso simbolico e reale nella storia d’Italia. Se la prima guerra mondiale rimane un caposaldo nella storia e nella memoria collettiva italiana, Caporetto continua a occupare a buon diritto la posizione privilegiata di caposaldo e spartiacque della guerra. E se la guerra grande fu un capitolo centrale nella storia degli italiani anche per la larghezza del coinvolgimento, Caporetto fu un passaggio obbligato nella storia di gran parte dei combattenti e un’indimenticabile esperienza traumatica per la maggior parte dei civili. 162­­­­

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Eppure, si trattò di un evento di breve durata. Cominciato nella notte tra il 24 e il 25 ottobre del 1917, esso ebbe praticamente termine circa due settimane dopo, il 9 novembre, quando la ritirata italiana si arrestò sul Piave, anche se le sue conseguenze consistenti nell’occupazione austro-tedesca del territorio italiano sarebbero durate ancora un anno circa. In quelle due settimane e in quei luoghi – la fascia di territorio che si estende dall’Isonzo al Piave – com’è noto successe di tutto, e le cifre correnti sull’avvenimento bastano a dircelo: 130 chilometri di arretramento di un fronte fino a quel momento rimasto largamente statico, 20.000 chilometri quadrati di occupazione, 11.000 morti, 29.000 feriti, circa 300.000 prigionieri, circa 300.000 sbandati. In complesso, un terzo dell’esercito italiano coinvolto nello sbandamento, il che significa che un combattente su tre ne fece in un modo o nell’altro esperienza. Senza contare i civili: 250.000 persone in fuga nei primi giorni verso il territorio italiano, che diventeranno in tutto 600.000 rifugiati nei mesi successivi. Sommando i due fenomeni, milioni di soldati e “borghesi”, di uomini e donne presi nel vortice di un movimento scomposto di dimensioni bibliche che attraversò i territori orientali senza un ordine e senza una logica che non fosse quella della paura, unita al senso che qualcosa di irreparabile e insieme di inspiegabile era accaduto. Nella monotona sequenza della guerra di lunga durata e nello stillicidio della morte seriale, si era inserito l’imprevisto di una immensa frana che dalle Alpi si era riversata in pianura, trascinando con sé uomini e cose. Ecco perché non esiste in pratica diarista o memorialista che non dedichi qualche pagina, spesso molte pagine, non raramente la parte maggiore della propria memoria, alla vicenda. A questi diari e memorie, a questi racconti della terribile ritirata faremo riferimento in seguito, riprendendo i testi di alcuni protagonisti che abbiamo già conosciuto e citato, aggiungendovene altri. Essi ci raccontano con la precisione documentaria e la forza drammatica che ormai ben conosciamo la vicenda della rotta, ciascuno – come sempre – dal proprio 163­­­­

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punto di vista e secondo il proprio stile narrativo, ma tutti facendo riferimento a fenomeni collettivi ben noti: il disordine dello sbandamento, l’improvviso disgregarsi della catena di comando e dei freni inibitori della disciplina, l’illusione che la guerra fosse finita, ma anche il presentimento che in realtà le sofferenze non fossero affatto terminate, lo scatenamento di istinti di sopravvivenza primordiali alla ricerca di cibo non più assicurato dall’ordinaria gestione dei servizi logistici, semmai garantito dalla violazione di depositi e cantine ormai abbandonate, l’incontro con una popolazione miserabile in movimento. Tutto in questi testi lascia trasparire la stanchezza per una costrizione senza fine che aveva afflitto le truppe fino a quel momento sottoponendole a spaventosi sacrifici e a immani carneficine, ma nulla lascia trapelare che la disfatta potesse anche lontanamente essere stata causata da una qualche forma di ribellione o insubordinazione. L’una e l’altra furono semmai, come ormai ben sappiamo e come questi testi confermano, la conseguenza e non la causa della rotta. Il confronto tra queste scritture popolari di Caporetto con le scritture colte, diaristiche, memorialistiche ed epistolari conferma però, una volta di più, il tema delle due Italie: da un lato quella della borghesia patriottica, capace di una certa fermezza nel porre argine allo sfacelo per senso del dovere e dell’identità nazionale appresi sui banchi di scuola, e contemporaneamente pronta a scaricare un’ondata di sospetti e odio senza precedenti nei confronti del nemico interno, un fantasma che si delinea con forza inedita proprio in quei giorni; dall’altro quella delle classi popolari, soprattutto contadine, che conferma la propria estraneità radicale alle logiche dello Stato-nazione belligerante, che appare testimone e vittima di un disastro nel disastro, unicamente preoccupata della propria sorte, ma in qualche caso capace di vedere e denunciare con povertà di linguaggio e profondità di sentimenti non solo la propria immediata sofferenza, ma la crisi della civiltà che la guerra grande aveva spalancato di fronte e attorno a sé e all’umanità intera. 164­­­­

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Certo è che lo sfondamento, la rotta, la fuga e l’eventuale cattura scatenano una produzione di scrittura del tutto eccezionale, nella pur eccezionale produzione di scrittura generata dalla guerra in generale. E non tutte le testimonianze scritte sono improntate al sentimento della disfatta irreparabile e del “tutti a casa” che – del resto a ragione – la storiografia ha considerato tratto caratteristico della vicenda. Numerosi sono gli ufficiali che, al termine della ritirata, superati i rischi, le fatiche e le peripezie, finalmente raggiunte posizioni sicure e potendosi concedere un po’ di riposo, ne approfittano per stendere memorie dei giorni fatali di cui sono stati protagonisti, tra il 25 di ottobre e il 10-11 novembre. Generalmente sono relazioni di qualche decina di pagine in cui viene riversato lo sconcerto dei primi momenti, la concitazione e la confusione dello sbandamento, l’incertezza, la stanchezza, la disillusione, con descrizioni dettagliate degli spostamenti, degli arretramenti, delle improvvise inversioni di marcia, delle manifestazioni di insubordinazione della truppa che talvolta si estendono agli stessi ufficiali. In alcune di queste memorie gli autori non mancano però di attestare le proprie prove di fermezza e di coraggio, ed è anzi possibile che a spingere alla scrittura memoriale ufficiali e sottufficiali sia proprio la coscienza di aver compiuto il proprio dovere, di aver portato a termine la ritirata senza lasciare allo sbando la truppa, insomma di aver contribuito in qualche modo ad arginare lo sfascio. Tale è il caso del tenente Francesco Mura, che stende un testo manoscritto del genere intitolandolo La ritirata. Memorie ottobre novembre 1917, cui fa seguire, oltre alle proprie generalità, l’indicazione “Bergamo-Ospedale ‘Clementina’”, da intendersi come il luogo dove avviene la stesura, non si sa se in seguito a un ricovero o meno. Il personaggio è uomo colto (nella memoria fa una lunga citazione di un passo di De Amicis dedicato a un esercito in rotta), dà prove di fermezza e di tenacia nel tenere insieme il suo reparto, reagisce agli episodi di insubordinazione, senza nascondere i momenti di smarrimento e di esasperazione, per 165­­­­

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esempio per la fame, arrivando a manifestare invidia per i soldati che non si vergognano di mangiare erba per resistere a un prolungato digiuno. Anche lui come tanti altri memorialisti registra i saccheggi, constata il disfacimento dei reparti, deve ammettere che il suo reggimento, al quale si ricongiunge dopo diverse peripezie, è ridotto a “un misero rimasuglio”, e coglie con acutezza il diffondersi di un clima irrazionale di paura fra i soldati, che è lo sfondo sul quale si sviluppa il ben noto fenomeno delle dicerie, delle leggende e dei miti fioriti nel momento della disfatta: Giunge così la sera e con la sera il buio pesto di una sera piovosa e con il buio la... paura. – Si, non vorrei dirlo, ma vi sono costretto dall’amore della verità, i nostri soldati che non hanno tremato dinanzi alle tremende raffiche d’artiglieria nemica sulla Bainsizza, quei soldati che hanno sfidato infinite volte la morte in una trincea sconvolta dal tiro dell’artiglieria, dalle bombe a mano e che sull’Altipiano di Asiago sono restati 24 ore sotto i reticolati nemici impossibilitati ad avanzare e fatti segno ai colpi dei nemici i quali si divertivano – questa è la parola – a bersagliarli – quei soldati che sono gli stessi di oggi, hanno paura. Le pattuglie che sono incaricate del collegamento col 297° non fanno bene il loro servizio – vengono continuamente a seccarmi con i loro racconti di ombre vedute – di fuochi accesi certamente dal nemico – di voci straniere intese e mi costringono ad accompagnarli per un buon tratto ad ogni loro partenza.

Malgrado tutto il tenente Mura riesce però a fronteggiare la disgregazione, convince i riluttanti, supera le situazioni più critiche, si preoccupa di assicurare di volta in volta la sistemazione della compagnia che gli è affidata e riesce con soddisfazione a portarla, non integra ma neppure completamente decimata, a destinazione: “Sono le 10 del mattino [del 10 novembre] quando passiamo il Piave sul Ponte della Ferrovia della Stazione di Sussegana. – Vediamo con piacere che sul Piave sono già schierate truppe fresche o per lo meno ben equipaggiate e che sulle vicinanze abbondano artiglierie 166­­­­

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italiane ed inglesi. La fiducia torna in noi e quasi contenti dimentichiamo la stanchezza e continuiamo la marcia”. È in sostanza orgoglioso del suo operato e, appena ne avrà il tempo e l’occasione, sentirà il bisogno di lasciarne una traccia scritta. Per alcuni giorni le comunicazioni tra il fronte e il Paese saltano, e nell’interno si vive una sorta di sospensione irreale, attraversata dal timore del peggio, percorsa da vociferazioni, presentimenti nefasti, interrogativi senza risposta. Oltretutto, i soldati sbandati, in pericolo di vita e travolti dal caos, hanno ancor più difficoltà del solito a prendere la penna in mano, benché comprendano che una semplice nota di saluto darebbe respiro ai propri congiunti in angoscia. Tuttavia esistono reperti di una corrispondenza prodotta nei giorni del disastro, anche se non sempre possiamo avere certezza su quando viene recapitata. Il soldato parmense Vittore B. ad esempio, di cui abbiamo esaminato il ricco scambio epistolare con la moglie, scrive in data 30 ottobre, a soli cinque giorni dallo sfondamento, un’accorata lettera alla sposa e ai figli, dalla quale traspare tutta la precarietà e l’incertezza della sua condizione, il caos che lo circonda e l’assoluta impossibilità di fare previsioni sul futuro prossimo. La sua prosa claudicante e convulsa sembra riflettere la concitazione del momento, sfociando in una lunga lamentazione per la cattiva sorte e in profusioni strazianti e prolungate di affetto: Zona di Guerra li 30 ottobre Mie tanto cari indimenticabili Mogli e figli Carissimi Cara Moglie ti scrivo queste due righe per farti sapere lo stato di mia salute io sto bene di salute se altro non mi cappita ne spero che ne sara di voi altri cinque tanto cari cara Moglie ti fo sapere che di qui forse si va via ne anno fatto preparare tutto pronto che va molto male chisa dove anderemo affinire che i tedeschi vengono avanti da tutte le parti non segghe capissa piu niente Cara Moglie tu non prenderti fastidio che se anderemo via per vi aggio ti scrivero qualche cartolina sicuro che anderemo molto male se si va via forse sulli isonso o sul carso chi sa sapia i Dio cosa voi bisogna farsi coraggio che non si puo fare a meno sono col cuore molto in gosiato chi sa se averemo piu grassia rivedersi chi sa 167­­­­

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il destino come sara o tanto cari non posso proprio tra te nermi dal piangere a essere arrivato a questo seccolo che forse non averemo piùgra zia rivedersi o tanto cari tanto bene che vi vogliamo che losa che i Dio speriamo sempre con la iuto di Dio e della Madonna fatti coraggio che se non andero via di cua ti scrivero subbito lostesso non farti del cativo sangue chi sa come siamo distinati dal destino non si ci scappa altro non mi resta che caramente salutarti di vero e sincero cuore unita ai nostri tanto cari banbini vi lasio con la penna e mai col cuore vi lassio con lo scritto ma non con la more tanto cari di nuovo tanti saluti e baci di cuore che partono dal cuore del tuo caro che tanto vi ama e non vi scordo un minuto tanto cari e non vi scordero mai e poi mai per fino che avero vita.

Il “nemico interno” Un altro caso interessante per quanto riguarda la sorte dei servizi postali e il mantenimento di un flusso di informazioni tra fronte e Paese è quello fornito dall’epistolario di Mario Marchi, il quale ci consente di gettare un altro sguardo nel mondo dell’ufficialità di complemento animato da saldi sentimenti patriottici e portatore di una visione della guerra del tutto antitetica rispetto a quella documentata dagli epistolari e dalle memorie contadine. Mario Marchi è un tenente di artiglieria nato nel 1890 che appartiene a una famiglia patriottica lucchese composta, oltre che da lui e dai genitori (la madre Emma e il padre Giuseppe, possidente, sindaco della cittadina di Bagni di Lucca, che però morirà proprio nel 1915), anche la sorella Delia, poco più giovane di lui (è nata nel 1892) e il fratello Cesare, molto più piccolo (è nato nel 1903). Durante il periodo di guerra, Delia è infermiera volontaria negli ospedali lucchesi e Cesare è studente di liceo. Della famiglia è rimasto un corpus documentario di eccezionale ampiezza e ricchezza, imperniato appunto intorno alla figura di Mario. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che il personaggio, pur non essendo caduto in guerra, ebbe tuttavia una morte precoce a poca distanza dalla fine del conflitto, nel 1924, quando era solo trentaquattrenne. La fa168­­­­

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miglia stessa elaborò dunque una sorta di culto della memoria dello scomparso, incentrandola sulla sua recente esperienza di combattente, sulla scorta di quanto si andava facendo in quegli anni di celebrazioni e di elaborazione del lutto, a cominciare da un’accurata conservazione delle corrispondenza da lui intrattenuta con la madre, i fratelli ed altri conoscenti mentre si trovava al fronte. La morte del padre, la presenza di un fratello ancora in età scolare, la posizione professionale e militare fanno inoltre di lui una figura particolarmente autorevole, un autentico capofamiglia e anche questo contribuisce a incentivare il culto dello scomparso. L’epistolario copre in verità un periodo più esteso, per un totale di 1.480 tra lettere e cartoline risalenti agli anni dal 1902 al 1923, di cui però una quota molto elevata (circa 700) risale al periodo di guerra e si riferisce ai rapporti di Mario con la famiglia. Ma il corpus comprende anche altri testi manoscritti prodotti dal Marchi, come un diario contenente appunti tecnici stesi in qualità di ingegnere che si occupò di sistemazioni difensive e un altro di carattere più personale risalente al 1918. Ci limiteremo qui a considerare la sua corrispondenza nel periodo di Caporetto, cominciando col notare che l’interruzione da essa subita durò in effetti circa una settimana, per riprendere subito dopo in maniera relativamente regolare. La madre gli scrive il 26 ottobre quando le notizie della folgorante offensiva austro-tedesca non sono ancora trapelate e men che meno se ne percepisce la portata travolgente e drammatica: “Mario mio carissimo Ho ricevuto la cartolina e anche quella della donnina [si riferisce probabilmente all’illustrazione di un’altra cartolina]. Ti ringrazio. Vorrei averne anche due al giorno tanto sto in pensiero. Sento dai giornali l’offensiva tedesca sul Trentino e ti puoi immaginare se sto male. Non basta la neve a fermare quegli animali. Sento però quanto sono valorosi i nostri soldati e si spera bene”. Patriottismo e apprensione per la sorte del figlio continueranno a connotare insieme la corrispondenza di Emma Marchi. Due giorni dopo, il 28 ottobre, lui scrive a casa ben due cartoline assolutamen169­­­­

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te telegrafiche. In una dice semplicemente di non aver tempo “per scrivere a lungo come vorrebbe”, nell’altra invia un conciso ma forte messaggio di resistenza patriottica: “Coraggio mamma, i soldati d’Italia sono ancora forti e decisi. Coraggio! Sapremo vincere!”. Ma nello stesso giorno la madre gli scrive a sua volta lamentando di non aver ricevuto posta dopo quella datata 22 ottobre ma ricevuta il 26, cui aveva accennato nella lettera precedente. L’apprensione cresce, perché ormai la notizia di Caporetto è esplosa, ancorché vaga e confusa: “Mario carissimo Il 26 abbiamo avuto la tua cartolina del 22 ma ieri siamo state prive di tue notizie e non puoi credere in quale anzia viviamo. Compatirai questa nostra impazienza, ma colle notizie che danno i giornali di questa grande offensiva, si vive troppo in pena. Spero che la posta di stamani mi porti una tua cartolina”. L’attesa non viene esaudita e il 31 ottobre torna a scrivergli, pur avendo saputo dalla lettura dei giornali “che è sospesa la posta per il campo”, ma esprimendo la speranza che la sospensione duri poco. In questa lettera lamenta anche che da “tre giorni” non hanno ricevuto niente – ma è possibile che si tratti di un lapsus, non risultando alcuna cartolina o lettera giunta nel frattempo dal fronte ed essendo dunque l’intervallo dall’ultimo ricevimento già più lungo – e si augura che “fra non molto ci giunga un tuo saluto”. Il 1° novembre Mario spedisce un’altra cartolina, ancor più laconica: “Baci”, e finalmente il 2 novembre la madre gli scrive annunciando di aver ricevuto il giorno prima una cartolina datata 26 e, con la posta della sera, le due datate 28 di cui abbiamo detto. “Noi ci facciamo coraggio – scrive senza entrare nel merito degli avvenimenti che di certo conosce ancora molto sommariamente – e abbiamo fiducia, ma certo è stato un gran dolore”. In sostanza, l’interruzione del contatto è durata meno di una settimana, dal 26 ottobre al 1° novembre, anche se la mancanza di notizie è durata più a lungo dal momento che le cartoline ricevute dalla madre il 26 risalivano al 22. Nel frattempo, si è diffusa la notizia della catastrofe, che è ancora in corso, anzi proprio in quei giorni sta entrando nella fase più caotica di una ritirata che non ha 170­­­­

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ancora trovato la sua linea difensiva e che non si sa come finirà. Il 3 novembre Mario scrive al fratello e alla sorella coi soliti stringati saluti e soprattutto gli incoraggiamenti patriottici che connotano in tutta questa fase la sua corrispondenza. “Sii forte e sereno che qui non si ha paura – scrive a lui –. Vinceremo e siamo pieni di fede. La stessa fede sia in voi”. E a lei: “Coraggio e fede. Vinceremo!”. La necessità di una scrittura frequente per dar segni di vita e il poco tempo a disposizione per farlo distesamente conferiscono in questa fase alle missive dell’ingegner Marchi il carattere pronunciato di veri e propri slogan. Solo più tardi, via via che la situazione comincerà a decantarsi e a trovare un provvisorio assestamento, le sue lettere torneranno ad avere un tono più discorsivo. Ancora più tardi le drammatiche vicende trascorse saranno oggetto di un resoconto più ampio. Ma in tutta questa fase Marchi interpreta fedelmente il suo ruolo di ufficiale ligio al dovere, fermo nei sentimenti patriottici, consapevole della necessità che dal fronte giunga al Paese un messaggio di determinazione contro gli impulsi al disfattismo che la rotta ha reso palpabili. Il 4 novembre la madre gli indirizza un’altra cartolina postale piena di apprensioni e di sentimenti contrastanti: “Abbiamo ricevuto giovedì tue cartoline del 26 28 e 29 e poi più niente. Dio voglia che questo silenzio sia causato dalla sospensione della posta militare perché se no ci sarebbe da star in pensiero. Anche qui stanno tutti male perché non ricevono niente e tra la tristezza per gli avvenimenti e l‘ansia ti puoi immaginare come si sta. Speriamo che anche questa cornata dei tedeschi riesca come quella di Verdun e altre e che i nostri soldati li faccian vedere chi sono”. Siamo ormai all’assestamento della linea difensiva sul Piave e il 10 novembre Mario indirizza ai fratelli e alla madre la solita raffica di stringati quanto solenni inviti alla resistenza e al coraggio. Solo la missiva alla madre contiene qualche parola in più e lascia intravedere il delinearsi del clima di sospetti e recriminazioni che comincia ad attraversare il fronte interno: “Carissima mamma vorrei scriverti a lungo ma non posso. Stai tranquilla e non pensare a me che 171­­­­

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ho coraggio e fede. Ogni voce maligna combattila. Vinceremo sicuramente. Ti bacio tanto tanto. Tuo Mario”. Più ampia ancora, per la prima volta, la lettera successiva, datata 12 novembre dove si legge tra l’altro: “Carissima mamma, Per la prima volta ti scrivo un po’ con calma. Mi trovo ottimamente colla mia batteria dopo un lungo viaggio. Non temere di niente che siamo in molti e sicuri della vittoria [...] Ti mando l’indirizzo esatto e spero di ricevere notizie. Non ho più saputo niente di te ma non sto in pensiero perché capisco che le comunicazioni non sono facili”. Il relativo stabilizzarsi della situazione generale, il superamento del punto alto dell’emergenza favoriscono l’affiorare degli umori più profondi dell’interventismo patriottico, a cui certamente appartiene la famiglia Marchi, di fronte alle dimensioni della catastrofe ormai pienamente delineate. Si profila così il tema del nemico interno, una novità che Caporetto ha fatto emergere in tutta la sua nettezza. La paura, lo sgomento, l’umiliazione sono stati troppo grandi perché non si vada alla ricerca del capro espiatorio. In quest’ottica, il Paese appare più che mai spaccato in due: coloro che amano e servono la patria da un lato, i traditori dall’altro. È un motivo che compare nettamente anche nella corrispondenza del tenente Marchi e dei suoi congiunti. La prima traccia è in una lettera al fratello del 14 novembre: “Carissimo Cesare, sono in posizione colla mia batteria e mi trovo magnificamente. Non stare assolutamente in pensiero per me ed abbi fiducia nella vittoria. Speriamo di vincere ugualmente i nemici interni che hanno tradito noi soldati. In Italia non dovrebbero udirsi che parole di fede. Speriamo che sia così”. Ma di questo stato d’animo si hanno echi anche nella lettera di un amico di famiglia, col quale la corrispondenza è per tutto il periodo abbastanza fitta, e che ci lascia intendere quali siano gli umori degli ambienti nei quali la famiglia Marchi è immersa: “Come mi fanno bene i tuoi scritti! – esclama costui rivolto a Mario che mostra tanta fede patriottica – Rialzano lo spirito affranto per l’indegna vergognosa azione dei vili 172­­­­

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traditori. [...] Come è sublime il vostro spirito bellico, quanto ve ne siamo riconoscenti!” (lettera di Angelo Barsanti, 14 novembre 1917). È questo, evidentemente, il tema del momento, come ribadisce Mario in una lettera del 15 novembre alla sorella: “Carissima Delia, mi trovo ottimamente colla mia batteria e ho fiducia che ricacceremo il nemico. Così potessimo sterminare i nemici interni che ci hanno accoltellato nella schiena!”. Nella prosa di questa famiglia perbene, compatta e sorretta da un nobile sentimento patriottico, cominciano insomma a forgiarsi dal basso le parole d’ordine della guerra civile destinate a fare molta strada. Sono motivi che torneranno anche più avanti quando finalmente Mario potrà rievocare ampiamente la tragica ritirata manifestando i suoi sentimenti a lungo compressi dall’emergenza. Così in particolare in una lunga lettera alla sorella Delia del 27 novembre, in cui si legge tra l’altro: Ho letto con commozione le lodi universalmente attribuite alla mia armata per la ritirata compiuta in così difficili condizioni. Ora che la calma e la serenità è subentrata in me allo strazio indicibile di quelle giornate considero con orgoglio i nostri sforzi di allora. Non posso richiamarmi alle montagne nostre per darti un’idea delle vie per dove i nostri cannoni sono passati. Abbiamo così lasciato posizioni imprendibili ma per correre incontro al nemico [...] Ho trainato insieme cogli uomini i pezzi sui sentieri gelati fra nevi altissime: non ricordo se e quando ho mangiato, se e quando ho dormito. E poi una corsa vertiginosa giù per le valli per arrivare in tempo ad arginare il nemico. E siamo arrivati. Ho visto allora rapidamente ricostituirsi la linea ed affluire i rinforzi. Da un giorno all’altro cresceva il numero dei nostri apparecchi nel cielo. Ho assistito ad un bombardamento formidabile di una grande squadriglia di Caproni. Ora attendo con un po’ di tristezza i miei pezzi che verranno presto però e provvedo intanto a quelle poderose fortificazioni campali che sono la caratteristica di questa guerra. I miei soldati sono bravi e non dubito di loro. Essere qui in questi giorni è cosa da rendere veramente lieti. È questo il solo posto dove dovrebbero essere gli italiani. Ma anche all’interno si deve combattere e da tutti. Combatti con fede ogni voce malvagia ogni notizia tendente a deprimere gli animi. Nelle case e nell’ospe173­­­­

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dale mostrati serena e piena di fiducia. Se la propaganda della nostra guerra fosse stata fatta da tutti forse non si sarebbe avuto il disastro. Fede ora e coraggio per la riscossa. Quando prima un ignorante diceva che era da augurare solo la pace chi lo contraddiceva? Chi gli dimostrava la santità della nostra guerra? E così i tedeschi e i traditori hanno potuto far propaganda da soli. Questo non deve essere più. Afferma che qui sulle linee c’è la più grande fede e che siamo decisi a non lasciare avanzare i barbari di un passo.

Sono brani come questo a farci capire che per la prima volta con Caporetto l’idea del fronte interno assume concretezza e forza emotiva, come linea di combattimento contro un nemico non meno perfido e vile di quello che sta al di là delle linee. Nella ritirata gli ufficiali di complemento, l’élite intellettuale di formazione risorgimentale, la borghesia di sentimenti nazionali e nazionalisti hanno capito in tutti i sensi che il nemico poteva trovarsi dietro le proprie spalle: gli austro-tedeschi penetrati a sorpresa nel fondovalle contro le tattiche di guerra fino a quel momento dominanti, e i disfattisti pronti a dare la pugnalata alla schiena.

Uomini e animali nella rotta Torniamo ora ai nostri memorialisti di estrazione popolare, presi da tutt’altri umori e preoccupazioni che il tradimento dei disfattisti. A cominciare da quel Carlo Verano che abbiamo visto autore di un resoconto drammatico della guerra guerreggiata. Il disastro di Caporetto si insinua nella sua prosa concitata senza soluzione di continuità, semplicemente come l’ennesimo capitolo della sequenza infernale intorno alla quale è intessuta la trama del suo “diario”. A conferma di ciò le ripetute imprecisioni cronologiche: quando ha già gli Austriaci alle calcagna, secondo le sue indicazioni saremmo al 16 ottobre, mentre sappiamo che a quella data la battaglia non è ancora cominciata e lo sfondamento non è ancora avvenuto. E così di seguito sarà per tutto il racconto, verosimile nella trama ma inattendibile nelle indicazioni delle date. 174­­­­

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Siamo alla mattina del 16 ottobre all’alba alle ore 7 e si sente una voce fortissimo dalla destra e sinistra Italiani via Italiani via, ed io dico la verità mi presi il mio tascapane ed il fucile e me ne andiedi ed ecco gli Austriaci dietro a me in mezzo a quelle granate ed in mezzo a quella puzza e fango dove presi la mia via del ritiro. Appena che scendo dalla trincea prendo la pianura su quell’istante vedo solo soldati da una parte e dall’altra andar via e nessun’altro. Io dico la verità fatto quattro o cinque chilometri mi sento venirmi freddo e poi un svenimento e caddi a terra svenuto! Due miei compagni mi presero per le braccia e mi alzarono da terra e mi fecero camminare di peso quasi per portarmi via.

Comincia così, con questo incidente personale, il resoconto della ritirata, che appare subito una tumultuosa fuga senza ordine e senza direttive, dominata dalla confusione e dalla promiscuità più totale: Tutti gridavano eccoli eccoli dietro e noi a fuggire senza nessuno comando. Si vedeva da una parte e dall’altra far scoppiare i cannoni con la gelatina, si vedeva dar fuoco a tutto e noi sempre a fuggire. Sono le ore 9 e sono in una casa che domando un pezzo di polenta per carità e me la diedero. Un po’ di forza la presi ma le forze non sono ancora quelle per camminare all’ungo. Ma si vede che il Signore e la Madonna mi aiuta. Passando per quelle vie si vede donne uomini ragazzi soldati animali carelli carozze automobili tutti nel fuggire.

Lo spettacolo della distruzione e del saccheggio divampa, travolgendo ogni cosa in uno scenario surreale. Vittime innocenti, gli animali colpiscono in modo speciale lo sguardo di Verano come quello di molti altri testimoni e memorialisti, parte fondamentale del paesaggio fosco di Caporetto: Passando da Udine vedo un magazzeno di vestiario che arde fortissimo, svaligiare botteghe poste e banche dove era un disastro terribile. Si vedeva degli animali cacciarci il petrolio o la benzina sopra e poi darci fuoco, e si vedeva tutte quelle bestie come noi strillare là legate con una fune, i baracconi tutti erano in fiamme. Passando da Treviso [qui il ricordo riguardo all’itinerario è fallace, 175­­­­

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non potendo Verano essere già a Treviso senza aver ancora passato il Tagliamento, cosa che riferisce più avanti] sono le due dopo pranzo e più di 20 chilometri lo già fatti e fuori paese vedo ancora dei borghesi in una casa e mi faccio avanti per domandarci se mi davano un pezzo di polenta e me la diedero e vino lo stesso.

La situazione personale precaria rende ancor più penoso il trasferimento, e il nostro cerca affannosamente un modo per rifocillarsi adeguatamente. La sua fuga, come quella di tanti altri, prende la forma della ricerca di cibo, che si dischiude a tratti in improvvisi incontri con l’abbondanza. La ritirata intreccia così, come è stato spesso osservato, toni drammatici e toni carnevaleschi, aspetti di tragedia collettiva e sentori di baccanale. Presi un po’ più di coraggio – prosegue Verano dopo aver consumato la polenta – dopo tanto mai avuto e dalla tanta debolezza che avevo le gambe mai più non mi reggevano, non si vedeva mai una bottega che vendessi un po’ di pane. Ero senza soldi in tasca solo 5 centesimi e come fare? Sempre avanti andiedi sino che trovò una bellissima Villa e picchiai la porta e mi vennero ad aprire e mi dissero cosa volevo, ed io gli chiesi solo per piacere un pezzo di polenta che ho fame, e loro mi fecero entrare in casa e mi misi a tavola con davanti mezzo cappone salame e polenta con vino abbondante. Il Signore mi aiuta si vede. Anche loro volevano andare via e così si fece alla svelta e poi chiudemmo la porta e si salutammo con mille ringraziamenti e buona fortuna.

Ma il viaggio alimentare non finisce qui. Gli strumenti della guerra vengono abbandonati e i segni del banchetto e della festa si moltiplicano. La ritirata nel suo passaggio tumultuoso investe cantine e depositi, portando alla luce provviste nascoste, insperate riserve di cibo destinate alle mense dei ricchi e ai consumi invernali, che qualche volta si offrono come oggetti vaganti ai soldati in fuga: Dico la verità il fucile lo gettai via e mi tenni solo il tascapane, e strada facendo vidi per la strada una grossa forma di formaggio 176­­­­

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ed io che avevo il pugnale in tasca me ne presi un pezzo e me lo gettai nel tascapane, poi strada facendo vidi in una cantina tutto sparso per terra del vino e le botti tutte aperte ed io mintrodussi dentro e ne bevetti parecchi bicchieri e poi me ne andiedi.

Arrivato al Tagliamento Verano si acconcia a passare la notte in una trincea improvvisata al comando di un maggiore. Nel buio notturno non si arresta il rumore di fondo delle masse di soldati e dei profughi in movimento, ma alle due torna ad affacciarsi il tema del cibo, perché il maggiore propone a chi se la sente di andare a prendere un bue per ammazzarlo e mangiarlo. Verano si offre con altri sei e strada facendo trovano un sacco di cioccolato, si mettono a mangiare e se ne riempiono le tasche. Finalmente il bue è trovato, catturato e ucciso col pugnale. A questo punto la scena si fa cruenta: “il maggiore per primo se ne prese un pezzo bello caldo, senza farci la pelle e se lo mangiò. Tanti ne presero ma io non ne presi più perché non ne avevo più voglia”. Fatto giorno, sul Tagliamento gli Austriaci avanzano costringendo gli italiani a passare il fiume. Anche di questo Verano offre il suo racconto convulso e drammatico: Il maggiore ordina fuoco e poi salva [si salvi] chi può e loro dietro a noi. Il ponte del Tagliamento era affollatissimo e come passare? Io mi gettai nell’acqua ma non si può perché l’acqua mi trascina via e la profondità. Cosa feci? presi la strada del fiume ed avanti andiedi alla fine trovai una passerella di legno e passò. Quando fui passato sentii una voce gridare: non passate più che salta il ponte. Il ponte era minato già da tanto tempo ed in quel mentre sentì un colpo solo e vidi tutta quella povera gente andare in aria come gli uccelli e fermarono anche l’acqua dal scorrere. Immaginate voi il terrore di quella povera gente madri con figli in braccio donne vecchie e giovani e giovane tutti alla perdizione. È stata proprio una catastrofe inmaginabile.

La fuga prosegue ininterrotta verso l’interno e verso sud, sempre alla ricerca di cibo, con incontri quasi sempre fortu177­­­­

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nati: ora è un vigneto, ora è un campo di mele, ora un negozio di pollame dove viene accolto e rifocillato con caffè, latte, uova e pane, e gli viene riempito il tascapane con un pezzo di formaggio, altre uova, formaggio, pane e vino. Finché arriva a Modena, dove incontra i carabinieri, anche loro pronti a sfamarlo, che lo aiutano a cercare il reggimento. Così si interrompe l’arretramento del nostro contadino del Ponente ligure, il quale non perde il suo ottimismo, almeno nella ricostruzione che fa delle vicende trascorse, perché il peggio gli è sempre dietro le spalle. Al ricomporsi della compagnia, dopo tanti giorni di vita selvaggia può finalmente fare un po’ di pulizia: “Eravamo sporchi più peggio che le bestie ancora bagnati dall’acqua nel percorso eravamo in colore della terra rossa. Ma ci portarono in un posto vicino proprio a Modena e ci fanno fare il bagno e ci danno da cambiarsi tutto nuovo, pareva di essere in Paradiso a [paragone di] quello sofferto ed avuto”. Pochi giorni dopo ritornerà senza lamentarsi sul fronte del Trentino per affrontare anche l’ultimo anno di guerra.

La disastrosa ritirata Ben scandito e articolato come sempre è il racconto di Caporetto che ci lascia un altro memorialista di eccezione, Ubaldo Baldinotti. Dopo la manifestazione della sorpresa e dell’allarme, il racconto si presenta come la narrazione di un calvario, come un cammino di sofferenza il cui esito appare ben presto scontato, rispecchiato da un paesaggio tetro e fangoso che non promette nulla di buono. Baldinotti avverte chiaramente, da un risveglio notturno improvviso che dà il titolo al capitoletto (capitolo 50, All’arme durante la notte) e dai concitati comandi dei superiori, che qualcosa di nuovo e di molto grave deve essere accaduto. Quando a un tratto fummo svegliati da ripetuti squilli d’allarme sonati a gran forza, ci alzammo sbigottiti non sapendo il perché di 178­­­­

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questo segnale, non capindone il motivo di questa sveglia cosi in piena notte, e si fù presi da un certo sgomento, e domandavamo ma che significa e che cosa è successo gli ufficiali gridavano svelti adunata, prendete il tascapane mettete dentro i viveri di riserva, il pacchetto di medicazione e le cartucce, prendete il fucile lasciate lo zaino in baracca, prendete la mantellina, ma fate presto, prendete la coperta il telo da tenda arrotolateli insieme e metteteveli a tracolla, perché dobbiamo partire subito ma non sappiamo ancora con precisione dove si dovrà andare. La confusione era enorme una cosa impossibile poterla descrivere, ci fù dato il caffè e dopo qualche minuto partimmo, verso una meta sconosciuta, senza poter avere la minima spiegazione su questa nostra partenza così improvvisa in piena notte. In lontananza il cannone tuonava e sulle cime di certe posizioni si distingueva il bagliore, che facevano i razzi da segnalazione, durante la marcia si passò per diversi paesi, e ci accorgemmo che qualcosa di grave doveva essere accaduto, perché da questi paesi dove noi passavamo, non c’era segno di alcuna anima viva, e ci si accorgeva che gli abitanti erano frettolosamente fuggiti, abbandonando in fretta le loro abitazioni, solo trovavamo qualche cane randagio e qualche gatto, ma che al nostro approssimarsi scappavano.

In questo paesaggio spettrale altri indizi si accumulano di una situazione drammatica. Un prete, incontrato dopo un breve riposo nella marcia di spostamento, “ci guardò con occhio compassionevole, e pronunciò in dialetto veneto queste due parole, poer fioi queste parole pronunciate, da un sacerdote a noi fecero immaginare, che qualcosa di molto grave doveva essere accaduto, che coincideva sul perché gli abitanti avevano, così in fretta abbandonato i loro paesi”. È appena trascorso il 26 ottobre e il racconto prosegue con altri, più diretti segni della disfatta in corso, movimenti scomposti di soldati in fuga che egli scorge in fondovalle da una cima sulla quale il reparto si è attestato. Il giorno dopo verso le ore 13 si scorse che in una vallata a noi sottostante, ma più avanti della posizione dove s’era attestati, un gran brulichio di soldati in movimento, e dopo qualche minuto passarono a poca distanza da noi diversi soldati del 32 F.a [32° fanteria] 179­­­­

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che erano riusciti, a scappare dall’accerchiamento del nemico, e fra questi soldati che fuggivano, ce n’erano diversi che non avevano più il fucile, l’avevano gettato via per poter scappare più in fretta, e ci avvertirono dicendoci che il nemico avanzava, con grandi forze e che essi erano gli unici che erano riusciti, a non farsi catturare, ma quasi tutto il reggimento oltre aver subito gravi perdite, in morti e feriti i rimasti erano rimasti accerchiati e catturati dal nemico.

Nel capitoletto successivo, intitolato ormai direttamente La disastrosa ritirata, gli avvenimenti si fanno ancora più tumultuosi. Il ripiegamento, nel quale il reparto di Ubaldo è coinvolto, è ostacolato dalla confusione e dagli ingombri che ormai occupano le strade e intralciano il passaggio, col risultato di rallentare la marcia e di ridurre le distanze tra sé e il nemico incalzante. Il timbro del disastro diventa la trasformazione dell’ordinato, sincronizzato meccanismo della guerra in una specie di discarica caotica in cui le cose si mescolano incongruamente. “C’era un po’ di tutto teli da tenda cassette di cottura, marmitte da campo cassette di munizioni, mantelline coperte basti da muli selle da cavalli, e ogni tanto c’erano anche dei fucili e dei moschetti, insomma camminare su questa mulattiera tutta ingombra, era un martirio da quanto era diventato disagioso questo nostro camminare, e mentre noi faticavamo tanto, il nemico si avvicinava sempre più”. Su questo scenario di sfacelo, la pioggia – autentica protagonista delle memorie di Caporetto – viene a stendere un velo di tetraggine e di abbandono, quasi metafora del dilagare ormai inarrestabile delle truppe nemiche: Principiò a piovere e così aumentò per noi, già pesante disagio fù in quel momento, che apprendemmo non so da quale fonte, che il nemico aveva sfondato il fronte a Caporetto, e con grandi forze calava verso la pianura Veneta. Noi eravamo in una triste e critica situazione, eravamo soli e rimasti in pochi, e isolati da tutto e da tutti, privi di collegamento con le altre truppe, che operavano in quel settore, eravamo in balia del nemico e della natura, che pure essa ci aveva voltate le spalle, e in quel triste momento, ci era di180­­­­

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ventata, anch’essa nemica e dato la grande pioggia che cadeva, e che contro questo nuovo nemico, non avevamo nessuna arma da opporle, per potersi difendere da questo nuovo flagello, e intanto l’acqua continuava a cadere, sempre più scrosciante e in quantità sempre maggiore, e noi eravamo inzuppati da capo a piedi, e le forze ci scemavano sempre più.

La sorte del reparto sembra ormai segnata e le perdite appaiono già notevoli benché il confronto diretto col nemico non ci sia ancora stato. Morti e feriti sono disseminati sul terreno e vengono abbandonati al loro destino, mentre la melma avvinghia i superstiti: Il tenente mi rispose che non bisogna mai disperarsi e aver sempre fiducia e che non succederà niente, tutte belle parole ma anche questa volta quando ripartimmo, molti soldati del mio battaglione, non si poterono rialzare, perché diversi erano morti e molti erano stati feriti, in modo così grave che impediva ad essi di poter camminare, e nonostante la nostra grande angoscia in cuore, riprendemmo il doloroso cammino e lasciandoli sul terreno, che data la pioggia che cadeva ancora con tanta insistenza, e quella già caduta era diventato pieno di un fango melmoso, che le scarpe rimanevano attaccate al terreno, come se sotto i piedi invece di terra, ci fosse stato uno strato di cemento, e il camminare diventava sempre un modo più faticoso, mentre eravamo ridotti in uno stato, che quasi non sapevamo più cosa si doveva fare, e trovare il modo di sortire da questa tremenda situazione.

Non durerà ancora a lungo la ritirata di Ubaldo Baldinotti e del suo reparto. Incalzati dagli austriaci, una loro vedetta viene catturata. Nel tentativo di raggiungere Gemona, devono affrontare un sentiero accanto a una cava di pietra e diversi soldati vi cadono e scompaiono. Finalmente, arrivati nella cittadina friulana, hanno l’amara sorpresa di trovarla già occupata dagli Austriaci, che li catturano: è la dinamica tipica della rotta, con gli austro-tedeschi che penetrano profondamente nel territorio puntando sulla sorpresa e si ritrovano alle spalle degli italiani disorientati. 181­­­­

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Termina qui, con il capitolo 56 (Catturato dal nemico), una fase della narrazione di Ubaldo, e ne comincia un’altra non meno ricca di peripezie, quella della lunga prigionia. A dispetto dell’incresciosa situazione, il narratore esibisce come di consueto i segni della sua buona sorte, forse con qualche concessione al senso comune patriottico: il primo incontro da prigioniero è con un ufficiale austriaco che si mostra eccezionalmente premuroso, confida a bassa voce di essere in realtà triestino e di sperare in una vittoria italiana: “così la mia città ritornerebbe alla madre Patria, come io e tutti i miei concittadini da tanti anni aneliamo questo ritorno, e dettoci queste parole che per noi furono, di un certo sollievo andò via a passo svelto”.

Tra Carnevale e Quaresima Veniamo ora alla memoria di Caporetto lasciataci da un altro personaggio singolare che abbiamo già incontrato, Giovanni Bussi. Quello scritto da Bussi è un racconto speciale della ritirata, perché è un racconto a tesi: la rotta è frutto di un complotto ordito alle spalle del popolo da alcuni generali felloni. Egli è convinto e racconta di aver assistito casualmente a un misterioso incontro nel quale il complotto e la relativa corruzione si sarebbero consumati. Questa sua versione dei fatti e la sua interpretazione sono stati già oggetto di attenzione altrove, e non vogliamo qui ritornarci, se non per ricordare che tale idea del complotto dà espressione compiuta ad un immaginario e ad un sentimento diffuso nelle classi contadine che colgono nell’intera guerra un evento intrinsecamente e forse intenzionalmente antipopolare e guardano con sospetto e incredulità ai suoi diversi episodi, dilatando questa percezione proprio nel caso di Caporetto: evento tragico, improvviso e inspiegabile che si sarebbe abbattuto sui combattenti prolungando ed esasperando i loro sacrifici. Del resto, sappiamo che il mito o i miti e le leggende su Caporetto ebbero un raggio di diffusione molto più ampio di 182­­­­

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quello strettamente popolare, serpeggiando in tutto il Paese in seguito al clima favorito dall’assoluta imprevedibilità dello sfondamento, dalle straordinarie dimensioni della disfatta e dalle sue caratteristiche senza precedenti, dalle contraddittorie versioni ufficiali, dall’interruzione delle notizie, dai silenzi della stampa. Tutto ciò esasperò il ben noto fenomeno secondo il quale in tempi eccezionali e sotto un’eccezionale pressione dei mezzi di informazione, come accade in guerra, la popolazione è portata a credere che tutto sia vero meno quello che viene ufficialmente dichiarato. Resta il fatto che quello di Bussi è, a mia conoscenza, l’unico caso in cui un testimone popolare non si limita ad accusare classi dominanti e gerarchie militari di aver ordito complotti, ma racconta precisamente, con dovizia di dettagli, di aver assistito alla loro consumazione, tanto da dichiararsi poi per nulla stupito degli avvenimenti apparentemente inattesi che ne sarebbero discesi, avvenimenti in cui come tutti gli altri viene coinvolto. A parte questa costruzione per così dire leggendaria che concerne essenzialmente le cause e gli antefatti della disfatta, il suo è un racconto molto accurato, dove spiccano le sue doti di osservatore attento, a cui non sfuggono dettagli interessanti sulle cose e sugli uomini, per esempio sul comportamento dei superiori, generali compresi. Nelle sue linee essenziali il testo conferma la narrazione di molti altri testimoni e memorialisti. Gli avvenimenti dello sfondamento vero e proprio, che egli accoglie con la supponenza di chi la sa lunga, sono preceduti dalla descrizione di un intenso cannoneggiamento, che sembra preparare lo scenario apocalittico di lì a poco destinato ad aprirsi, e che presenta tutte le dimensioni di uno spettacolo magico. È la notte del 24 ottobre: Abbiamo appena consumato il pasto della sera che viene dato l’allarme. Con lo zaino in spalla ci mettiamo in marcia e da quel che posso capire andiamo verso Gorizia. In distanza si sentono dei grandi scoppii, marciamo facendo brevi fermate, siamo circa alla mezzanotte, le detonazioni diventano più frequenti e più forti, per183­­­­

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ché noi marciamo in quelle direzioni, qualche d’uno dice che i Tedeschi devono avere inventato un’arma che fa scoppiare le colline.

Ma ben presto le cose precipitano, e i segni del disastro si fanno evidenti. Agli occhi di Giovanni si presenta la massa informe degli sbandati, senza più distinzioni di corpi né di gradi, che vivono la ritirata come la rottura degli argini di una costrizione a lungo patita e come un’insperata fine della guerra. Verso le ore 10 da quella strada incomincia ad arrivare la prima truppa sbandata, ve ne è di tutte le armi, fanteria, bersaglieri, artiglieria, genio, ecc. Sono tutti misti tra loro, nessuno è armato, qualche d’uno è in maniche di camicia, chi canta, chi zuffola e chi bestemmia, ogni tanto passa qualche cassone tirato da cavalli stracarico di soldati, domandiamo dove vanno, i più rispondono: “Andiamo a casa, la guerra è finita”.

Anche nel suo racconto affiora a più riprese il tema del mangiare e del bere improvvisato, del vino abbondante che sgorga a tratti dalle cantine abbandonate: Il caffè e il rancio non ci viene più distribuito perché i cucinieri che marciano in testa dicono che non possono accendere il fuoco e avere il tempo materiale per farlo, ma il più è che mancano di scorte di vivande e così noi mangiamo cosa troviamo e intacchiamo la scorta di gallette e scatolette anche se non abbiamo il permesso. In compenso però possiamo avere delle razioni di vino perché i borghesi sono fuggiti lasciando le loro abitazioni aperte e nelle cantine il vino.

Anche lui è colpito dallo spettacolo della confusione, del disordine, dei saccheggi, degli involontari aspetti carnevaleschi dello sbandamento, dovuti alla mescolanza di uomini e cose, combattenti e civili, animali e uomini, di cui egli stesso diviene attore. Stamane nell’attraversare un paese mi sono portato avanti, entrai in uno spaccio di Sale e Tabacchi che era aperto, era tutto sot184­­­­

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tosopra, ho trovato delle cartine aperte e chiuse per fare sigarette ma niente tabacco e nemmeno sale. Sono entrato anche in una panetteria e anche lì sembrava ci fosse stato il saccheggio. Le scansie sono vuote, vicino al forno ancora caldo vi erano due sacchi di farina sparsi per terra, si vede che la truppa sbandata ha portato via tutto. Sono salito al primo piano di una casa, nella cucina ho visto una madia con il tavolo inchiodato, con una spallata lo schiodai e dentro ho trovato un’oca spennata e pulita. La presi e dopo avergli legato le gambe l’infilai nella canna del fucile che misi in spalla, aspettai la mia compagnia che arrivasse perché marcia in coda. L’ho portata per circa due chilometri con la speranza di poterla far cuocere, ma non è stato possibile e in più non abbiamo sale, volevo buttarla perché incominciava a pesare ma il Tenente me la fece portare ai cucinieri e venni poi a sapere che l’hanno mangiata degli ufficiali.

La marcia a ritroso prosegue nella confusione più completa. La rotta presenta tutti i tratti del mondo alla rovescia. “Ai bordi delle strade principali vi sono carri agricoli e militari rovesciati, bauli sfondati e masserizie varie, ma niente roba da mangiare”. Passando come un’ondata, il flusso di soldati in avanzata e uomini in ritirata, di truppe sparse e civili in fuga, manda all’aria e offre alla vista ogni genere di oggetti, in una grottesca mescolanza che suscita la curiosità e attira gli appetiti: “vado a rovistare tra quelle casse per vedere se trovo qualche cosa che mi serva e due miei compagni mi vengono dietro. Nel rovistare io ho trovato un paio di forbici lunghe più di venti centimetri, delle siringhe per fare iniezioni e delle gomette [gommette, lacci emostatici] per fermare l’emorragia. Un mio compagno ha aperto una cassa che dentro vi sono dei botticini che sembrano lampadine [si scoprirà che è orina in provette]. In un’altra cassa vi sono dei botticini chiusi con ceralacca nei quali si vede un liquido nero, io dico ‘Tintura di iodio’ [si accorgerà poi che è caffè concentrato e dolcificato]”. Nell’inventario del ritrovamento non mancano neppure delle “ampoline” di brodo concentrato, “ma a me – commenta – non interessa”. 185­­­­

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Giovanni penetra in case abbandonate, fa incontri desolati, come quello con una vecchia rimasta a guardia di una casa dove era di servizio, da cui tutti sono scappati per paura dell’arrivo degli austriaci. Da mangiare non c’è più nulla, perché altri sono passati e hanno portato via tutto. Ma viene autorizzato a rovistare in un baule dove trova camicie da donna. La sua è sporca e strappata, per cui ne prende una e la indossa, tra le risate della vecchia. Nella gran convulsione della ritirata anche la distinzione tra maschile e femminile temporaneamente si sospende, come nel carnevale. In un secondo baule trova altri indumenti da donna come calze, pantaloni, sottovesti. L’occhio del sarto è abituato a distinguere fogge e tessuti. “Da questo prendo un paio di calze da donna fatte a mano con organzino giallo naturale e alla sommità sono finiti con un bordo traforato, li metto nel tascapane e saluto quella donna”. Il carnevale di Caporetto autorizza Giovanni a portare via e chissà, forse a indossare indumenti femminili, procedendo a un vero e proprio travestimento. In realtà la festa del saccheggio non attenua i disagi di un trasferimento forzato senza soste sicure né ripari, in gran parte sotto la pioggia, né oscura la tristezza dello spettacolo generale. Soprattutto non cancella i sentimenti di pietà per la sofferenza dei civili, che anzi Giovanni esprime con forza di fronte al dolore incommensurabile degli esuli in marcia. Su questo il nostro giovane sarto piemontese ci dà una pagina di grande intensità, ribadendo il suo atto di accusa contro chi ha voluto la guerra: Io ho solo 19 anni, non ho istruzione, non ho mai avuto una casa mia, ma nella mia ignoranza comprendo tutto l’atroce dramma di questa gente che causa la guerra e di chi la fa fare, deve abbandonare tutto il suo avere e le proprie case e andarsene esule verso l’ignoto. Partono attaccando i buoi al carro sul quale salgono le donne, i vecchi e i bimbi e nel quale hanno messo qualche cosa da mangiare e un po’ di robe personali, gli uomini marciano a piedi alla guida dei carri, imboccano la strada maestra dove vi sono già altri che vanno con carri e altri svariati mezzi di traspor186­­­­

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to. Marciano per uno o due chilometri, poi non si può più andare avanti, la strada è ingombrata, per proseguire bisogna staccare i carri, farli rotolare nella scarpata. Poi prelevano, da ciò che avevano caricato, le cose più necessarie e se ne fanno un fagottino per uno e seguitano marciare portandosi dietro i buoi e i cavalli, ma poi è giocoforza abbandonare anche il bestiame che se ne va per i campi. Per qualche tempo le famiglie marciano unite ma poi, nella confusione, perdono contatto, il marito perde di vista la moglie, il bimbo la madre, ecc. e così il dramma di questo terribile esodo è al completo.

La ritirata stanca e i soldati sono esasperati. Bussi presenta anche quella del Piave non come l’ultima linea di resistenza che finalmente riesce a fermare l’avanzata nemica, ma come la scelta di chi come lui non ne può più di arretrare in quelle condizioni, e quindi decide di smetterla di andare indietro. Ormai ne abbiamo abbastanza di questa ritirata fatta a marce forzate, i più non possono più camminare, per questo senza farsi notare buttano via tutti i caricatori tenendo solo quello nel fucile e uno per giberna. Anche i nostri ufficiali sono stanchi e depressi. In questo alt hanno fatto una riunione e anche noi abbiamo preso parte e abbiamo deciso che al prossimo fiume che sarebbe il Piave noi si fermeremo e di là non ci muoveremo più per andare oltre, succeda quel che vuole.

Nella disfatta-complotto, dopo l’interminabile ritirata della fame e dell’abbondanza, dei travestimenti e dei saccheggi, arriva il Piave-scelta collettiva dei soldati, rifiuto di arretrare ancora. È l’altra storia di Caporetto raccontata dal memorialista Giovanni Bussi.

Saccheggi, fiumi di vino e desolazione Il tema del saccheggio, dello straripare di generi alimentari e soprattutto del traboccare del vino è uno dei più ricorrenti nella memorialistica della rotta. Frequenti sono le scene in cui cantine e depositi sono improvvisamente scoperchiati e 187­­­­

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travolti dal tumulto della ritirata, conquistati da soldati in preda alla fame e alla sete, ma anche esposti all’ebbrezza della rottura degli argini di una disciplina che li ha compressi per molto tempo, al piacere della razzia, dell’improvviso incontro col regno dell’abbondanza e della gratuità. Episodi di questo tipo si presentano a più riprese nel racconto di Giuseppe Manetti, accompagnati – com’è nel suo stile e nel suo modello narrativo – dalla manifestazione del disgusto per la guerra, dalla riprovazione per lo scatenarsi degli istinti, dalla deprecazione per la miseria umana e dal senso di desolazione per lo spettacolo dello spreco e della perdita dei freni inibitori. Prima di arrivare al ponte Isonzo – annota già dalle prime ore della ritirata, quando si è ormai diffusa la voce dello sfondamento e bagliori infuocati si levano dappertutto, segno delle distruzioni in atto da parte delle truppe italiane per non lasciare materiali utili nelle mani del nemico – principiamo a vedere l’effetto della ritirata si trova una bottega di drogheria già spacciata e dentro ad essa una quantità di soldati indescrivibile, chi sorte di dentro con due tre cinque bottiglie di licuori con zabaione, con vino con scatolette di carne in conserva insomma con un po’ di tutto di che si può trovare in una bottega abbandonata l’ufficiali gridavano e scacciavano i soldati ma invano poi quando non ci fu più niente da prendere un certo Merlo piemontese prese anche le bilance ma però di caminare non ci si ferma perche l’ordine e di andare avanti a qualunque costo in quelli stomachi così vuoti principia a fare effetto quei licuori che il soldato ghiotto per natura ne fa abuso [...].

La rotta sembra così confondersi con una scorribanda di ubriachi che procedono sotto la pioggia incessante, che talvolta si fermano a bivaccare nella promiscuità più totale, accanto ad animali e simili ad essi, illudendosi che in quelle povere orge si preannunci e si celebri la fine della guerra. Tutto ciò suscita il rammarico e il disgusto del nostro testimone: di novo ci fermammo sotto una logg[g]ia dove ci era altri soldati pure bestie li tutti insieme misti che da luni a l’altri ci era poca differenza anche li chi aveva vino, chi carne chi liquori, chi ci offre da 188­­­­

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bere, chi da mangiare, anche questi più di mezzi uibriachi in questi casi come si conoscie bene l’uomo l’uomo in genere non e che unpezzo di fango, capacie di tutto, quando non abbia da temere ne il pudore, ne il codice, e si inlude alle piu meschine speranze il 95 per 100, s’inludono che questa ritirata sia la risoluzione della pacie e basati in questo principio non vedono altro avanti a i suoi occhi anzi inlusi come sono gioiscono l’abbandono di tutti questi miliardi di materiale che si distrugge e si lascia a dietro in mano se no a un nemico come ci dicono ma in mano ad unaltra potenza così verrà la pacie più presto non lo vedono non lo sentono non lo capiscono poveri inlusi, e d’altra parte e anche compratibile [comprensibile?] io credo, uomini che anno consumato una buona parte della sua più bella gioventù sotto una vita come questa, fanno come uno che affoga a tutto si attacca.

A queste prime scene di sfacelo, guardate con occhio accorato da Giuseppe che vede in esse manifestarsi in forma estrema la degenerazione della guerra, altre ne seguiranno in un crescendo impressionante, dove diviene ancor più esplicita la pratica del saccheggio fine a se stesso. A un certo punto si diffonde ad esempio la notizia che nelle vicinanze si trova un magazzino di generi di vestiario, pieno di ogni ben di dio, di cui si può approfittare essendo ormai incustodito. Anche Manetti vi si reca, assiste alle ruberie e non manca di servirsi anche lui, sapendo che comunque il magazzino è destinato a essere presto incendiato. A colpirlo è soprattutto la quantità smisurata della merce: arrivati li a questo magazzino ci era un via vai di soldati chi sortiva con 2 o 3 paia di scarpe chi biancheria chi con vestiario in somma con tutto ciò che si può vestire un soldato, entramo dentro in un reparto scarpe bisognerebbe vedere per credere si tratta di migliaia di paia di scarpe tutte nuove, buttate per terra perché i soldati aprivano le casse per potere scieglierle a suo piacere e quelle che non li piaceva le buttavano per terra con questo sistema per terra ci erano arte [alte] più di un metro tutte infangate e pestate, ne scielgo pure io un paio e il mio compagno poi si passa in un reparto dove ci era biancheria mutande camicie calzini [parola illeggibile] a maglia lì 189­­­­

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si riaddoppia il disastro poi in unaltro ove ci era la roba di panno si triplica il disastro si prende unaltra po’ diroba della più necessaria per cambiarsi che eravamo tutti bagnati afferrando tutto mi viene quasi da piangere! non solo pensando quanto sudorre che costa ma anche pensando a tanti poveri che saranno mezzi inudi e che non si possono vestire visto il prezzo esagierato della stoffa[.]

Ma non è finita. Mentre altri episodi di saccheggio continuano a punteggiare la ritirata, agli occhi attoniti del nostro saggio contadino toscano si presentano, quasi a disegnare un paesaggio di sogno surreale, veri e propri fiumi di vino: “si attraversa il paese [Fauglis] che e il primo paese Italiano qui bisogna vedere il disastro dato che i borghesi non ci sono più li anno fatti tutti partire il vero saccheggio! Ci sono due case in fiamme più avanti ancora, si trova un torrente che in vece che scorrere acqua scorre vino si vede venire da una casa di un contadino ci e un profumo par di essere in una tinaia”. Di lì a poco (siamo alla data del 1° novembre 1917) la scena si ripete, ancora con la sua riprovazione per lo sciupio di ogni cosa: ero tanto addolorato nel vedere tutte queste famiglie costrette ad abbandonare i suoi averi la sua santa dimora e piu vedere cio che va sciupato specie il vino!! in tutte le case dei contadini e sempre pieno di soldati a prender vino vanno con una caretta a prender vino e tiran via il sughero del mezzule ad una botte anche di 30 barili con questo sistema per tutte le strade, fossetti, fossi, in somma per tutto si vede correr vino e per questo io non vado in giro mi fa troppo dispiacere, ma bere bevo anche io perche qui in trincea ne anno portato una damigiana di 50 chili e non la lasciano mai calare[.]

Poco prima aveva registrato l’ennesima incursione in una drogheria, con i soliti esiti di ubriachezza cui si lasciano andare soldati stanchi, esasperati, senza meta e senza motivazione che non sia quella di farla finita con la guerra: vicino a questa loggia cie una bottega di droghiere piena ancora di liquori e di altro genere di drogheria che non li anno potu190­­­­

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ti trasportare ciè però di guardia un carabiniere alla porta ma i soldati passano dalla sinistra e prendon di tutto specie di liquori e cosa succiede principiano a bere ber liquori e senza mangiare potete in maginare ciò che succiede ed io mi misi li per dormire ma come si fa tra l’impressione ricevuta vedere tutte quelle povere famiglie fuggire stanchezza pensavo a quello che poteva avvenire, e osservando e sopportando quelli in coscienti che in cosi tristi momenti si gettano nel vizio e si bevono la testa che in questi casi in vece di averne una ce ne vorrebbe due, sghignazzano gioiscono della ritirata, poveri uomini! quanto siete inferiori di quanto vi giudicavo quando ero a lavorare i miei campi di spirito, dintelligenza, di cuore, di decoro in somma l’uomo non e [è] l’uomo che io credevo e per ben conoscerlo ci vuol questi tempi, ed io riflettendo a tutti e a tutto piangievo.

Conseguenza di una guerra sbagliata, la ritirata dopo Caporetto diviene anche – agli occhi di Giuseppe Manetti – rivelazione di un’umanità non all’altezza della sua dignità. Ma nell’impianto moralistico della sua narrazione dolorosa trova posto, a più riprese, la commiserazione accorata per le schiere di profughi in fuga, di famiglie divise e costrette a lasciare la propria terra, di contadini come lui che vedono distrutto e dissipato il risultato del proprio lavoro. Le scene di desolazione scorrono sotto i suoi occhi affranti, strappandogli una delle non infrequenti maledizioni contro una guerra portatrice non solo di morte ma di miseria e degrado. Così egli osserva una famiglia di contadini che sta per partire: “che tristezza che fa! Ci sono donne vecchi giovanetti bambini come mi fa dispiacere come dimenticherei volentieri queste impressioni, povere famiglie!”. E più avanti, di fronte a una schiera di profughi in marcia: “insieme alla Artiglieria ci sono carri borghesi che anche questi si avviano verso il ponte del Tagliamento carichi di ogni sorta di roba rifacendosi da i bambini fino a li utensili per lavorare la terra e quanti! e in che condizioni! non potrò mai smettere di maledire la guerra è, essa che ci a portato queste conseguenze e che a trascinato nella ruina tutte queste povere famiglie”. 191­­­­

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Fuga senza fine La stessa sequenza, gli stessi temi e scenari che abbiamo visto connotare un po’ tutti i racconti dei nostri protagonisti sulla rotta tornano anche in un altro autore, un fante di Fara Novarese inquadrato col ruolo di infermiere, ma con alcuni tratti particolari che lo distinguono: la notevole lunghezza del racconto, l’accurata scansione giornaliera degli avvenimenti, per caotici che siano, e delle indicazione geografiche dell’itinerario seguito nella sua interminabile fuga, nonché una singolare attitudine a ricercare e a segnalare gli incontri femminili, di cui incredibilmente lascia qualche cenno e qualche ammirato ritratto pur nel contesto di un evento tanto drammatico. Parliamo di Bartolomeo Baccalaro, classe 1894, autore di una copiosa memoria scritta in più taccuini dall’andamento torrentizio, che nel loro insieme denotano una propensione, si direbbe un talento sorprendenti – ma come ormai sappiamo tutt’altro che rari – per la pratica della narrazione scritta delle proprie avventure. I testi lasciati dal nostro sono racchiusi in tre ampi taccuini: due relativi al periodo 1915-primi d’ottobre 1917, che sembrano in realtà, almeno in parte, essere l’uno la riscrittura ampliata e corretta dell’altro, con inserti e aggiunte un po’ disordinate che ne rendono piuttosto difficile la lettura; un terzo più ordinato e uniforme, che copre il periodo finale della sua esperienza bellica, aprendosi con la data del 21 ottobre 1917 e giungendo fino al congedamento avvenuto nel settembre del 1919. Una parte assai cospicua, pari a 49 pagine, è dedicata al periodo che corre tra le prime avvisaglie del disastro segnalate il 25 ottobre e il raggiungimento di una posizione relativamente sicura oltre il Piave, celebrata come la fine sospirata del tormentoso periodo. Nel testo di Baccalaro torna innanzitutto lo spettacolo della grande battaglia, con gli scenari foschi ma insieme – si direbbe – affascinanti che a tratti si disegnano, in un’ambientazione visiva e sonora che ha del fantastico. A sorprenderci in questo caso è la sottolineatura esplicita di questa dimen192­­­­

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sione spettacolare da parte di un soldato preso nel vortice di vicende turbinose e cariche di pericoli. Cominciamo dalla descrizione che egli fa, similmente a quanto avevamo visto nel testo di Bussi, dei bombardamenti che scuotono e incendiano le montagne in concomitanza con l’inizio dell’attacco: il 25 [ottobre] si nota un movimento insolito di truppa e il bombardamento alla linea del fuoco che l’eco porta va il rombo fino a noi andò man mano crescendo d’intensità spaventevole e il monte santo, il Sabotino, il San Michele e tutto l’altipiano carsico sparì alla nostra vista dietro un’immensa nuvola di fumo. Di sera poi la vista era terribile e anche bella all’insieme, le montagne divennero come tanti vulcani, era un grande incendio che arrossava il cielo.

Annotazioni simili marcate dalla parola “spettacolo” torneranno in seguito, una volta iniziato l’arretramento, anche con riferimento al paesaggio umano, per sottolinearne il carattere irreale, onirico e quasi infernale: “lo spettacolo quella sera è tremendo acqua dal cielo e incendio a terra sembra il finimondo. I soldati imprecano e cantano si è tutti incoscienti pare di sognare”. Il secondo aspetto comune ad altri narratori della ritirata è il tremendo caos, la promiscuità, la confusione che domina uomini e cose in un crescendo che sgomenta lui come gli altri, impotenti di fronte al dilagare della frana, nella quale ben presto accanto ai militari sbandati si mescolano i civili in fuga, incalzati da vicino dei nemici. Man mano che si prosegue – annota dopo aver raccontato il passaggio in una Palmanova “che arde in un immenso braciere” – le strade vanno sempre più ingombrandosi di uomini e materiale arriva l’alba lo spettacolo è pietoso, frammisti al garreggio [carriaggio] militare si scorgono masserizzie borghesi che come l’esercito abbandonano tutto per dirigersi al sicuro. Ora sono due colonne di carreggio sulla strada e ogni tanto si è obbligati a fare lunghe soste per incidenti capitati alla lunghissima ed immensa colonna. Già si trovano carrette rovesciate qualche cannone abbandonato e gruppi di soldati mezzi ubriachi che cantano. 193­­­­

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Si sparse la voce – continua poco dopo mentre la fiumana si dirige verso il Tagliamento – di pattuglie austria[che] a poca distanza fu veramente un momento di confusione di delirio i soldati che ancora tenevano le armi li gettarono via i conducenti lasciano le carette noi facciamo altrettanto e via di corsa verso il benedetto Tagliamento che non si arrivava mai [...] Man mano che si avanzava le tracce e i disordini della ritirata aumentavano erano cavalli carrette cannoni rovesciati nei fossati incartamenti di comandi e furerie sparse ovunque.

Il terzo elemento è quello della ricerca affannosa di cibo e altri generi di prima necessità, e del saccheggio più o meno autorizzato di depositi abbandonati, veicoli rovesciati, botteghe e cantine destinate comunque a cadere nelle mani del nemico. Anche qui, tornano descrizioni che abbiamo già segnalato. C’è ad esempio l’arrembaggio a un camion carico di viveri che si è rovesciato, con la razzia e lo scambio successivo degli alimenti più diversi accaparrati in grandi quantità: Si stava per arrivare al Tagliamento che il camion di un vivandiere che proseguiva con noi, in strada [di] campagna si rovesciò i soldati in un batter d’occhio sono soppra e tutto portano via io riuscii per mio conto di rubare una cassetta di toroni che divisi un po agli altri facendomi dare scatole di carna sardelle e marmelata.

Una specie di frenesia predatoria prende i soldati in fuga al cospetto dell’abbondanza che si offre a tratti dei generi più diversi. Il paese è deserto – annota in data 2 novembre parlando di Motta di Livenza – i negozi chiusi i quali vengono man mano svaligiati dalla truppa che sfonda porte e rompe vetrine in cerca di indumenti, per cambiarsi, o di viveri. Anche noi si segue l’esempio col permesso del comando di divisione di portare via tutto più che possibile, privando così del bottino i nemici. Con i soldati si uniscono ben presto qualche borghese [...] Durante la notte i miei amici hanno approffitato per andare svaligiare ovunque cercando il fabbisogno [...]. Solo allora anch’io mi unii coi miei amici e andiedi a 194­­­­

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farmi un po di scorta d’indumenti per cambiarsi e non stetti molto a farmi la provvista in un negozio al centro del paese dove mi presi anche qualche gingillo per ricordo. [...] Dimenticavo di dire che vicino a noi in una casa signorile dove mangiavano i nostri ufficiali ci stava ancora una vecchia serva, rimasta, io credo, con lo scopo di rapina e alla prima visita fatta da noi in cantina, dove si trovò ogni sorta di eccellente vino di Bordò del Reno marsala sciampan e perfino benedettino liquore antichissimo e molto raro fabbricato dai frati, la vecchia piagnucolava protestando ma quando vide che si trattava di abbandonare Motta all’ora ci invitò ella medesima si svaligiò completamente la cantina di bottiglie tenendone per noi alcune casse e altre per il comando di Brigata. Si trovò pure della frutta e si requisì una carozza e un biroccino.

Né mancano atti autenticamente sacrileghi, che il nostro segnala con pudore stante la sua devozione alla Madonna indicata come unico conforto in tanta tragedia: a un certo punto vengono rubate dalla chiesa delle candele per poter illuminare le notti della ritirata. Ma l’elemento che distingue il personaggio di Baccalaro e la sua narrazione da tutti gli altri, sorprendente per la sua incongruità al contesto, è l’attrazione erotica per le ragazze che incontra, senza che mai la desolazione della ritirata spenga in lui questo genere di attenzione. Così, al primo ordine di ripiegamento, non manca di sottolineare le ferite sentimentali che esso apre: “Il ripiegamento del nostro esercito era ormai noto fra i borghesi recando taluni dispiacentissimi (il sesso gentile in generale) che rimpiangevano qualche sogno d’amore che stava per svanire”. “Fu in questo magazzino – annota poi nel corso del primo saccheggio dove i militari fanno rifornimenti di vestiario prima di iniziare la ritirata – che io salutai per l’ultima volta l’amica Eufemia. Mi sorrise spensieratamente e mi disse arrivederci”. In un cascinale dove si è fermato per passare la notte nota “una giovanetta bionda molto graziosa che piangeva al pensiero d’essere fra poco in mano del nemico”. In un altro cascinale dove si è fermato, in vista del Piave, dopo aver ricordato che il capitano aveva ordinato alla truppa di tenersi 195­­­­

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pronti al primo allarme, segnala: “Così fece anche la padrona del cascinale che ordinò a sua figlia, una giovanetta con due occhioni neri bellissimi che non vidi mai pari, di condurre i suoi fratellini più piccoli a dormire al sicuro in una delle tante trincee scavate ovunque nel veneto come strema difesa”. E persino quando è ormai al di là del Piave, dove ritiene finalmente conclusa la spaventosa avventura, ancora una volta il suo interesse va in questa direzione. Siamo a Cendon sul Sile, e il suo racconto prosegue e in certo senso si conclude, così: e qui si cominciò a dimenticare i tristi giorni passati pensando solo di farsela bene. I veneti in generale sono tutti bravissima gente e accoglievano i militari con grande cortesia in casa proppria non risparmiando nessun piacere da parte loro. Io qui andavo soventissimo a mangiare in una famiglia dove cera anche una govinetta (Carlotta) che forse quando si andò via mi avrà rimpianto, conosciendo dalle premure che mi circondava di non essere a lei del tutto indiferente, benche io non ne facessi caso.

La ritirata in bicicletta Il tenente Aldo Neppi Modona, appartenente a un’agiata famiglia ebraica fiorentina, coinvolto anche lui nella ritirata, ne lascia un resoconto dettagliato e piuttosto ampio scritto su un quadernetto con copertina nera (lui lo definisce “tacquino”), a poca distanza dagli avvenimenti (precisamente, come lui stesso indica, dal 22 al 24 aprile del 1918) e sulla base di pochi appunti telegrafici presi al momento, che intitola Memorie della ritirata italiana sulla Piave. Si tratta di ottantotto paginette scritte in un corsivo non troppo fitto, per lo più facilmente leggibile, non certo privo di accenti drammatici ma complessivamente controllato, relativamente ordinato, meno esposto a quella concitazione narrativa e grafica che – complice l’insufficiente dimestichezza col mezzo scritto – dà l’impronta a gran parte delle memorie popolari della rotta. Lo stesso titolo, ovviamente giustificato dalla stesura a posteriori, lascia involontariamente intravedere lo spirito del racconto: come se 196­­­­

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la linea del Piave fosse in certo senso prevista e programmata fin dall’inizio degli avvenimenti e non utilizzata come estremo punto di resistenza contro la dilagante avanzata nemica, dopo i successivi cedimenti segnati dalla confusione e dal panico. Peraltro, come vedremo, il giovane Aldo non manca di segnalare in più occasioni la sua percezione della portata eccezionale degli avvenimenti in corso e in ultima analisi il loro carattere memorabile: ed è questo evidentemente, non certo un dovere di ufficio, che lo spinge a riempire le pagine del suo taccuino, che riprenderà successivamente, a molta distanza dalla vicenda, per brevi articoli commemorativi. Il 25 ottobre Aldo si trova nella cittadella di Palmanova, a sud di Udine, dove si è appena trasferito il suo reparto, il 29° battaglione presidiario. Sul taccuino annota, citando tra virgolette i suoi appunti: “comincia una tremenda offensiva austro ungarica sul nostro fronte” e commenta: “I bollettini di guerra sempre più sintomatici e la caduta del ministero Boselli facevano temere una certa gravità della situazione generale italiana, ma le rassicuranti frasi di Cadorna e del Ministero della Guerra rassicuravano”. Gli avvenimenti vengono percepiti sulle prime confusamente, precipitano all’improvviso, verranno compresi nella loro piena gravità, definita dall’ampiezza del territorio ceduto al nemico, solo assai più tardi. Il 26, sempre citando tra virgolette e ampliando gli appunti, dopo aver riferito di altre voci allarmanti circolate a mensa, scrive: Giungono le prime truppe in ritirata, ma senza portare precise notizie sulla situazione. Alla stazione richiedono corvees numerosissime giorno e notte per sgomberare il più possibile. Giungono ordini perentori ineseguibili come quello pervenuto a un tenente dirigente un importante Deposito Avanzato Materiale Sanitario di preparare tutto in modo da poter sgomberare nella nottata. [...] Non si riesce ad avere una idea chiara della situazione il cannone si fa sempre più insistente e vicino.

Il 27 la situazione si aggrava e il reparto riceve l’ordine della ritirata “per le primissime ore del giorno seguente”, con 197­­­­

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destinazione Ponte di Piave. “Si capisce finalmente – leggiamo nel taccuino – l’enorme gravità della situazione, più che dall’esatto resoconto dei fatti, dall’espressione di ognuno, dall’incredibile andare e venire di motociclisti, porta-ordini, dal passaggio insolito di reparti”. Per la ritirata viene stabilito un preciso itinerario e fissata una tabella di marcia: il percorso sarà compiuto in quattro giorni con tappe di 18 chilometri al giorno nei primi due e di 26 e 24 rispettivamente il terzo e il quarto. Nel frattempo cresce il passaggio di truppe e si diffondono nuove drammatiche voci: l’incendio di Cividale, la minaccia su Udine. Alla stazione l’ingombro è enorme, i treni partono con ritardi favolosi. Molti borghesi chiudono le case e cercano invano di partire coi treni. Tutta la città assume un aspetto fantastico; i Comandi mandano via su camions e carri i documenti e i mobili più importanti [...] A notte forti boati vicinissimi fanno comprendere come si combatta più vicino dei giorni precedenti. Comincia a sera l’interminabile, ininterrotto transito di pedoni, borghesi, militari, trattrici, autocarri, autoambulanze, ecc. che dovrà sempre aumentare fino all’interruzione dei ponti sul Tagliamento. Dai bastioni che cingono Palmanova lo spettacolo che si offerse la sera e la notte è sovrumano. Solo al cinematografo (per es. “Incendio di Roma sotto Nerone”) vidi già alcunché di simile: ma nella realtà mi sembrava di sognare. In fondo, nello sfondo del cielo minaccioso, tra i monti si vedevano strani bagliori rossastri ora brevi ora più lunghi; a volte erano invece fasci luminosi distinti o punti chiari luccicanti: forse segnali nostri, forse nemici. Continuamente poi boati strani, prolungati, rombi profondi e sinistri, bagliori continui come per incendio: certo si distingueva quello poi accertato di Cividale.

A colpire il giovane tenente è dunque la grandiosità terrificante dello spettacolo, che gli suggerisce tra l’altro il paragone col cinematografo, non infrequente nei memorialisti: solo l’artificio della narrazione filmica sembra eguagliare la potenza dell’emozione visiva indotta dal’effetto combinato di bombardamenti, incendi e riflettori nel buio notturno in198­­­­

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torno alla cittadella fortificata. L’avvicinarsi dei boati, il tremare dei muri fanno comprendere “che tutto era perduto” e spiegano la mancata organizzazione di una qualsiasi difesa di Palmanova: Da questo momento un autoeccitamento era in tutti, per cui si faceva e operava come per una forza estranea, ed in preda a un sentimento nuovo di fronte all’impreveduto. Mai come in questo momento sentii l’orribile grandezza della guerra e le sue conseguenze: si capiva che la storia avrebbe un tempo lugubremente ricordato quei giorni che si vivevano, che vivevo; e pensavo ai sentimenti, alle condizioni di chi si trovava ancor più avanti; alle condizioni del paese. Già dal giorno prima non arrivavano più giornali, più posta. Si viveva nell’ignoto.

La notte passa praticamente insonne. Verso le quattro, recatosi al comando, ottiene a fatica una carretta dove caricare le cose proprie e quelle del suo superiore, essendo i mezzi di trasporto già quasi tutti ingombri. Lo scenario si fa drammatico. Passano di carriera dei cavalleggeri, si comincia a notare quello che rimarrà per molti un tratto speciale della ritirata, ripreso dall’iconografia, dagli appunti figurati di soldati-pittori e anche di pittori-soldati: la morte straziante degli animali, vittime inconsapevoli della macelleria generale, quasi un’apocalisse. “Un cavallo morto di fatica nella nottata stramazzò a terra e morì, rimanendo lì in mezzo, triste segnacolo del momento mortale per tutti”. Il 28 la ritirata ha inizio, in uno stato di confusione crescente, in mezzo a nubi di fumo, con la pioggia incipiente, mentre il nostro inforca la sua bicicletta e si fa largo in mezzo alla fiumana che si è ormai formata nel dedalo delle strade, dopo aver tentato invano di riempire un thermos di caffè e dopo essere rientrato al comando per portare un ordine: mi avvento decisamente rasente la fornace ardente il fuoco, tra fuoco e fumo, e trovo la via che conduce alla Porta Aquileja, dove però il transito era completamente ostruito dalla interminabile colonna 199­­­­

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che subito fuori seguiva la sua strada venendo da Gorizia: tra i militari che recalcitravano, le donne che urlavano mezze discinte uscivano piangendo coi ragazzi in collo e in mano, tra i ciclisti e i bersaglieri che si rincorrevano per non restare indietro, uscii da Palmanova e voltandomi ogni tanto indietro rimiravo uno spettacolo che sapeva del meraviglioso, dell’orrido, dell’estremamente doloroso e dicevo tra me: “Guardiamo, imprimiamoci nella mente questo spettacolo, per non dimenticarlo più, per raccontarlo nella vecchiaia come cosa dei tempi antichi”.

Procedendo sotto la pioggia ininterrotta e in mezzo al fango che lo costringe spesso a fermarsi per ripulire il parafango della bicicletta, ricongiuntosi al reparto, il nostro si spinge avanti su ordine dei superiori per tentare di procurarsi cibo per la truppa, ma invano. Invano cercai da mangiare! Tutto chiuso o quasi, tutti fuggivano alla stazione. Trovai finalmente un Caffè semiaperto dove però non vidi dapprima che un grande stanzone strapieno di ufficiali e soldati straiati e buttati per terra, su seggiole e tavolini sonnecchiando o rosicchiando galletta: questo fu il primo aspetto della ritirata sotto l’aspetto più triste: la stanchezza, lo sfinimento che già si manifestava il 28 ottobre e che dette in parte ragione delle rapine e saccheggi di migliaia di persone che andavano incontro a una morte ben triste: di fame e fatica!

Nel retrobottega del bar Neppi Modona incontra i gestori, un vecchio con sua figlia e il genero, che gli danno “un fondo di bottiglia di vermouth e qualche biscotto”, e ascolta il loro dialogo fatto di interrogativi angosciosi su cosa fosse meglio fare, se fuggire o attendere. I giovani discutono, avendo pareri diversi, ma il vecchio non ha dubbi: attenderà i tedeschi, avendo un po’ di farina per polenta e vino da offrire loro finché ce ne fosse stato, senza dover nulla temere. Sono i dilemmi tipici che dividono i ricchi dai poveri, i giovani dai vecchi, nelle incertezze di una decisione da prendere troppo in fretta, in vista di un’occupazione che forse potrà durare 200­­­­

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del tempo. E sono scene come questa, riferite nei dettagli, a rendere il racconto particolarmente pregnante, rivelando squarci di vita vissuta, penetrando con gli occhi di un viaggiatore attento e partecipe che si aggira nel territorio scosso dall’immane ondata della rotta. Più avanti, altri particolari drammatici, come l’evacuazione di feriti e malati: E intanto vedo feriti e malati mandati via dagli ospedali così come si trovavano, con coperte di lana addosso alcuni, altri colla cappa e il berrettino bianco come in sala, tutti inzuppati e mezzi morti. Alcune automobili con ufficiali superiori oltrepassavano la interminabile colonna lenta e lugubre di buoi, muli, trattrici, ambulanze, carri-botte, pezzi grossi inglesi, carrette siciliane, carrozzine e carri trainati in mille modi, ecc. ecc. e la fanteria tra mezzo, sparpagliata, stanca, con pochi Ufficiali: nessun carabiniere per l’ordine, nessun Ufficiale a regolare il difficile transito.

Nel suo protrarsi, nel suo ingrossarsi, la ritirata genera un fiume compatto e denso ma pur sempre mobile, in cui convivono e si spingono vicendevolmente gli esemplari più diversi di oggetti ed esseri umani, sani e malati, mezzi di trasporto a motore e a trazione animale, veicoli civili e militari. Caduto l’ordine della gerarchia, il disordine trova una sua strada, supera gli ingorghi, apre i suoi varchi e procede nel suo cammino rinnovando continuamente la sua forma come un caleidoscopio. Malgrado questo esordio apocalittico, la narrazione del giovane Aldo prosegue ordinata e minuziosa, e l’arretramento del suo reparto, pur tra svariate peripezie, contrattempi, perdite di contatto, difficoltà alimentari e di alloggiamento notturno, procede secondo i piani previsti. La memoria registra puntualmente il passaggio nei paesi e nelle città, sempre segnalando spaventosi ingorghi ma senza mai riferire di uno sbandamento irreparabile: San Giorgio di Nogaro, Palazzuolo, Latisana, S. Giorgio al Tagliamento, Portogruaro, Annone Veneto, Motta di Livenza, Oderzo, Ponte di Piave, Roncade, Marcon, Dolo. A Dolo l’arretramento temporaneamente si 201­­­­

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conclude e si chiude, alla data del 10 novembre, anche la scrittura, che ha preso le mosse dalla data del 25 ottobre. In verità il percorso compiuto da Aldo non è lineare, ma procede per digressioni, avanzamenti e rientri. Egli infatti, munito come si è accennato di una bicicletta, un’Atala piuttosto efficiente, addirittura dotata di un contachilometri, viene spesso incaricato di servizi di ricognizione logistica, precedendo il reparto alla ricerca di generi alimentari e di alloggiamenti per la notte. In questo divagare egli registra incontri, impressioni, aneddoti, incidenti, descrive paesaggi, scene di massa, comportamenti individuali, offre insomma un quadro oltremodo dettagliato delle vicende della rotta, esplorandone dall’interno i flussi e registrandone gli umori cangianti. La bicicletta stessa appare un oggetto di elezione del racconto e un prezioso possesso a cui egli tiene molto, perché gli consente una libertà di movimento altrimenti impensabile, certo maggiore di quella concessa a chi si affida a mezzi pesanti facilmente bloccati dagli intasamenti, e a chi – come molti civili – si accalca invano nelle stazioni; nonché certamente più comodo, specie in pianura e quando il vento e la pioggia non sono troppo forti, di quanto non sia il procedere a piedi per qualche decina di chilometri al giorno. Tant’è che nel racconto della ritirata, della più grande tragedia della guerra italiana, un episodio relativo alla bicicletta di Aldo occupa ben tre delle ottantotto paginette complessive. Vale la pena di riportarle per intero, a partire da quando egli la lascia, a Motta di Livenza, appoggiata fuori da un ufficio telegrafico dove è entrato a fare un telegramma per conto di un superiore: Appoggiai la bicicletta fuori, ma uscendo non la trovai più: in quel momento divenni furente, perché era quella l’unica vera consolazione in quel momento; e poi come fare tutto a piedi? Fui deciso lì per lì ad arrangiarmi come gli altri: e cercai di portarne via una a qualcuno; ma poi (anche perché non ne trovai) desistei, e aspettai invece un camion per salirci su; ma dopo un po’, anche 202­­­­

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pensando di trovarla forse per via, m’incamminai a piedi: guardavo ogni bicicletta, e dopo poco credetti di aver riconosciuto la mia: ma era un’Atala diversa. Allora seguitai a camminare per due o tre Km. oramai esasperato ma rassegnato, quando trovo un soldato dell’ospedale di Portogruaro che mi riconobbe e mi accompagnò per un tratto. Ci fermammo poi in una casetta dove mi offerse del liquore rinforzante che aveva portato con sé, nel quale inzuppai i biscotti avanzati. Dopo ci rincamminammo, quando vedo un carabiniere con in mano un Atala che riconobbi subito per la mia: che gioia in quel momento! Lo fermai e gli intimai di darmi la bicicletta che riconoscevo per mia: aveva infatti il contakilometri, per quanto ci fosse stato asportato la borsetta e gli anelli di gomma; invano il carabiniere cercava di giustificarsi, dicendo averla avuta la sera prima (!) da un borghese che non ci sapeva andare: la presi e ripresi allegro il veloce, ora, cammino per raggiungere il Batt.ne. Che bel viale lungo diritto con due file di grandi alberi!

Non solo. Più avanti si sofferma ancora sulle peripezie ciclistiche: “nonostante il bel sole – scrive avvicinandosi a Portogruaro – le strade erano però assai rovinate ancora, e per di più si sgonfiò la ruota posteriore in modo che durai non poca fatica ad arrivare fino a Fossalta, dove trovai alla fine una specie di bottega di riparazione, dove un ragazzo che attesi per oltre ½ ora mi accomodò alla meglio la camera d’aria”. Come si vede, pur tra molti episodi drammatici e dolorosi, il racconto non manca di annotazioni paesaggistiche, momenti di serenità, pause confortevoli a base di biscotti e liquore, sonni in letti morbidi. Ci sono frammenti lievemente comici a paragone del contesto, come quando il compassato tenente vive a suo modo l’esperienza inebriante di un altro protagonista della ritirata: il vino. “Cercai poi da mangiare – scrive subito dopo l’episodio citato –, ma non c’era niente; bevvi allora un bicchiere di un buon vino bianco, già assaggiato in occasione di una marcia fatta colla truppa tempo prima [...]: ma bevendo così a digiuno, non feci che aumentare l’assenza e la fame e darmi una confusione alla testa [...]”. 203­­­­

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Ciò è vero specialmente man mano che si procede verso l’interno secondo il piano prestabilito, sempre precedendo di poco le fasi più terribili della rotta (salvo in parte nel passaggio del Tagliamento), sempre apprendendo a posteriori, dalla lettura di qualche giornale che si comincia a trovare lungo il percorso, che i fiumi via via attraversati e le località lasciate alle spalle vengono a una a una conquistate dal nemico e quindi che la voragine aperta sul fronte italiano è realmente enorme. “Si cammina tranquillamente, alquanto riposati, con più ordine”, annota il 31 ottobre alla partenza da Annone Veneto. A Oderzo nello stesso giorno trova una città “quasi tranquilla”, con la posta funzionante e le botteghe aperte. A Marcon il 5 novembre pranza a casa di un curato “grasso e rubicondo”, mangiando e bevendo a volontà. Il 6 si spinge in bicicletta fino a Mogliano ed esclama: “che effetto rivedere i trams affollati che regolarmente andavano come sempre, un bel caffè pieno di gente, e botteghe di dolci, e tutto questo come il solito”. Quella vissuta personalmente da Aldo Neppi Modona è insomma tutto sommato una ritirata fortunata, per giunta a lieto fine, col ritrovamento del bagaglio a suo tempo confezionato in fretta e furia e perduto durante il percorso. Ciò non significa che il nostro trascuri i momenti desolanti, gli episodi dolorosi. A Palazzolo osserva con tristezza, lungo la linea ferroviaria, una “catena continua di treni fermi, carichi fino sul [?] cielo e su tutti i predellini: con le persone che in parte spinti dalla fame, in parte temendo di non procedere più oltre, si decidevano via via a proseguire a piedi, con parte dei loro pochi fagotti”. “La villa che abitavo – riferisce quando si trova a Ponte di Piave – era piena di roba buttata lì in fretta dai padroni che erano scappati a Padova: ma da qui per ora solo i ricchi se ne andavano, e non tutti, sicuri sulla sorte loro: ahi, amara, triste disillusione!”. La grandezza del disastro non gli sfugge. “E intanto – scrive il 30 ottobre – pensavo a cosa sarebbe successo in paese; alla famiglia priva di notizie; al disastro; alle cause; alla impossibilità di sapere 204­­­­

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la verità e di leggere i giornali”. A colpirlo è anche lo spettacolo degli sbandati che si muovono in disordine, convinti che tutto sia finito: “Passavano sempre gli sbandati, i quali si dicevano l’un l’altro ‘andiamo a Padova, a Milano addirittura[’], come cosa naturale!”. E la difficoltà di ricomporre la catena di comando. Dopo aver notato carabinieri che cercano di ristabilire l’ordine e di incanalare i dispersi, in data 4 novembre si domanda: “Chi comandava ora l’esercito? Cadorna certo, né alcuno pensava fosse destituito; né si sapeva ove fosse il Comando Supremo, si sentiva dire solo che il Comando della 3° Armata era a Mogliano Veneto”. Ma più avanti, raccontando gli eventi del 7 novembre, scrive: Ordini severi e categorici del Magg Generale Graziani, comand.te la disciplina dello sgombero e delle retrovie, rimise un po’ a posto le cose e diminuì le prepotenze e l’indisciplinatezza che stava prendendo proporzioni allarmanti. Pattuglie nel paese fermavano chi non avesse mostrine o fregio sul berretto, obbligando a segnarlo almeno in una tinta [matita?] indelebile o col lapis copiativo, ordinandosi per parte del predetto Generale l’immediato passaggio per le armi di chi fosse trovato senza fregio.

Nella confusione, nell’incertezza perdurante, nel dilagare dei fenomeni di disgregazione si affacciano come sempre i sospetti, le voci di tradimento, le leggende. Le dinamiche dell’arretramento restano a lungo oscure. La catastrofe inspiegabile reclama comunque qualche interpretazione, fatta necessariamente di misteri e complotti, e le false notizie circolano ampiamente, come abbiamo già notato. Anche Aldo ne riferisce. “Certo il panico era enorme – commenta a proposito del passaggio del Tagliamento – e aumentato dalla fretta degli ufficiali preposti all’ordine del transito ai bivi di Latisana. Si seppe poi che si erano infiltrati Ufficiali nemici travestiti da RR.CC”. E più avanti: “Qui si lesse sui giornali che ci eravamo ritirati sulla Livenza: che colpo! Se non si era resistito sul Tagliamento, era ben difficile resistere ora... e dove? Alla mente di tutti si affacciava l’ipotesi del Po!! Ma 205­­­­

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che orrore inimmaginabile! Ma perché non si era resistito al Tagliamento? Non si riusciva a capire, e si pensava al tradimento, al disfacimento e alla perdita della libertà...”.

Dopo la cattura Mentre il grosso dell’esercito e un’impotente massa di civili vengono coinvolti nell’arretramento verso l’interno del Paese, l’opposta direzione, in condizioni anche peggiori, prendono i catturati che percorrono a ritroso per un tratto la via lungo la quale avevano tentato la fuga, qualche volta riattraversando il teatro della battaglia nel suo stesso cuore, ossia nei dintorni di Caporetto, e si avviano poi verso i campi dell’Austria e della Germania dove sconteranno la penosa prigionia. A testimoniare quest’altro versante della disfatta di Caporetto è tra l’altro un soldato di nome Luigi Colombini, tipografo nato a Milano nel 1884, suonatore di diversi strumenti musicali, dotato di un livello di scolarizzazione sufficiente, avendo compiuto l’intero ciclo della scuola elementare, che ci ha lasciato un rapido ma puntuale resoconto della breve ritirata, cominciata la notte del 28 ottobre e terminata con la cattura avvenuta all’alba del 31, e poi il racconto della fase successiva di trasferimento. Il tutto steso in un taccuino intitolato Diario prigionia e in effetti dedicato, nella sua parte più ampia, all’esperienza della detenzione: un vero e proprio diario, scritto con tutta probabilità nel corso degli avvenimenti, come testimonia la stesura rapida, costituita in genere da poche annotazioni essenziali scandite giorno per giorno, anche se – come spesso accade – qua e là la scrittura stessa si distende o si interrompe e alcune pagine risultano coperte da tracce di conti, annotazioni e appunti di natura strumentale come elenchi di spese e di commilitoni. Ma in questo carattere di autentica scrittura diaristica dei giorni della ritirata, della cattura, del trasporto in Germania, succinta e pur piena di particolari molto precisi sui patimenti subiti, possiamo dire che si tratta di una rarità, almeno nel campo delle scritture 206­­­­

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illetterate. Purtroppo, la scrittura a tratti sbiadita rende la lettura non sempre e non del tutto agevole, ma il taccuino, composto da un centinaio di pagine scritte, resta comunque un documento di straordinario interesse. Il racconto di Luigi Colombini esordisce alla metà di luglio del 1917 con una partenza da casa (forse per una licenza) “per ritornare alla triste vita di guerra” e prosegue, come si è detto, con stringate notizie giornaliere occupando in sei fitte pagine di scrittura continua, intercalata dalle semplici indicazioni di data senza andare a capo, il periodo che va fino al 27 ottobre. Fin qui mancano notizie precise sulla rotta ma affiora qualche presagio della tempesta che sta per scoppiare. Infatti, il giorno 21 annota: “Il nemico in questi giorni ci attacca sul serio”, e subito dopo: “22-23 calma relativa s’avvicina la tempesta 24/10 stanotte il nemico bom[barda] la zona della 2 armata benche piove continuamente”. Finalmente il 27 ottobre segnala: “qui corre voce che il nemico sfondo [sfondò] da Caporetto a Bainsizza. Alle ore 3 una grossa squadriglia nemica ci mitraglia e lancia bombe vicino a noi le nostre batterie battono sempre sul Fait forse il nemico avanza Giornata di grandi ansie. Granate nemiche producono incendi”. A questo punto un titolo al centro della pagina (La Ritirata), l’unico di questo tipo in tutto il testo, segnala la portata straordinaria dell’evento. Si apre la parte saliente del racconto con la descrizione degli avvenimenti della notte tra il 27 e il 28: l’inizio dell’arretramento, il minamento e la distruzione dei ponti, i bagliori degli incendi, la confusione che abbiamo visto colpire tutti i testimoni, raccontati in una prosa sconnessa, avara di punteggiatura, non chiaramente decifrabile, manifestazione di fretta e di concitazione: “In quella parte si vede il disastro della ritirata carri militari trattori cannoni borghesi con bambini su carri di masserizie. Passammo [nome indecifrabile] il Ponte sul Torre e per pozzanghere e strade di campagna dopo 14 ore di cammino tutti bagnati e infangati si arriva a S. Maria alla Lunga [?] senza aver mangiato. Qui più si vede il disastro, soldati che conducono Buoi Maiali chi carichi di roba del sacco 207­­­­

In questa e nelle pagine successive  Pagine del diario di Luigi Colombini, Archivio ligure della scrittura popolare, Genova.

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di Palmanova carri Regg.ti senza direzione più tardi anche a S. Maria fanno sacco cé chi ammazza un bue e fanno cuocere chi è ubbriaco non si capisce più niente”. Dopo un nuovo trasferimento il giorno 29 e una notte passata in una casa, sotto la pioggia torrenziale il drappello di cui fa parte riprende il cammino la mattina del 30 per una “ritirata ormai diventata fuga” sotto l’incalzare del nemico sempre più da vicino. Gli ultimi momenti prima della cattura sono drammatici. Il nostro protagonista si butta con altri in mezzo ai campi attraversando il largho fossato coll’acqua sino alla gola qualche compagno annega, ci inoltrammo per sentieri di campagna di lì scoperti ci buttarono 3 granate facendo due feriti era notte e non era precisato il cammino. Attraversammo un fosso largo 20 metri e andammo a S. Maria e [parola illeggibile] qui ci credevamo salvi molti altri regg.ti carreggi cannoni si portavano verso il Tagliamento. Dopo tanti pericoli credevo di essere sfuggito al nemico. Ma dopo una ½ ora di cammino si sentì l’artiglieria nemica e le mitraglie che ci sbarravano la strada ormai la partita era perduta i nostri capi non sapevano che fare tornai a S. Maria lì trovai l’amico Primo buttammo via le armi e ci coricammo in una stalla in attesa degli avvenimenti.

La mattina dopo, la fuga disperata ha fine: “31/10 una voce chiama fuori Italiani era come mi prevedevo Prigioniero subito ci anno incollonato con parecchie Migliaia di altri che già sfilavano”. A questo punto, senza soluzione di continuità, il racconto prosegue con le vicissitudini della nuova situazione, ancora caratterizzata dal massimo di confusione, sempre sotto la pioggia battente, sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare, ma sotto il controllo sommario dei detentori che avviano le schiere di prigionieri italiani già esausti, intirizziti e affamati, verso ignote destinazioni, dentro un territorio devastato dai combattimenti e dai saccheggi: passammo Pozzuolo dove trovammo le vittime della nostra resistenza trovammo le sue truppe un [parola illeggibile] mi portò via 208­­­­

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la mia cornetta passammo per Campoformio e per la strada tutta ingombra di nostro materiale abbandonato nella fuga arrivammo a Udine qui più grande era il disastro materiale da guerra di tutte le qualità vestiti registri in citta un vero saccheggio fatto da loro e dai nostri. Primo [il suo amico] va in cerca di vino e ne trova, trova delle mele e 1 bottiglia di Strega con noi era anche Arrigho così si potè ingoiare qualcosa. Ci hanno poi portato in un Palazzo dove c’era il Deposito del 2° fanteria qui i soldati stracciati si fornirono in quel magazzino la notte si passa qui.

Il 1° novembre la marcia riprende, sempre accompagnata dall’affannosa ricerca di qualcosa da mangiare. Ognuno si arrangia come può: “1/11 si parte da Udine Primo fa provvista di vino e di scatolette di frutta e di acciughe ma il Pane alimento principale ci comincia a mancare”. Dopo sedici chilometri di cammino in serata si arriva al campo di concentramento di Cividale dove i prigionieri si sdraiano in terra “con un freddo terribile qui comincia la vita di stenti mangiare non ce ne danno Primo esce e porta cavoli un altro due Polli e si mangia Cerioli [evidentemente un altro compagno di sventura] procura insalata barbabietole carne di cavallo che erano morti sulla strada una ½ pelle di maiale si brucia il pelo e si fa [parola illeggibile] con una manciata di farina Arrigho nostro cuciniere fa i [parola illeggibile] col cavallo così in 5 si mangia abbiamo anche il vino”. Ma il peggio deve ancora venire. La marcia prosegue il 3 e il 4 novembre, ripassando da Caporetto. Dappertutto i segni della battaglia, le macabre visioni dei resti umani abbandonati sul terreno: “si parte subito per Tolmino costeggiando il Merzli e il Vodice ove si vede dei morti nostri colla testa mangiata dai corvi fanno pietà”. Il cibo scarseggia, si cuociono erbaggi, un osso per fare un po’ di brodo, si patisce il freddo sempre più rigido. In data 6 novembre annota: “Dopo 2 ore in riga ci danno una 1/2 gavetta di Orzo dopo 24 ore era tempo ma la fame [pensiero troncato] Dopo aver passato 4 ore in un campo di fango alle ore 3½ si parte e sempre coll’illusione di prendere il treno si continua a camminare a notte dopo aver percorso 209­­­­

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30 ch[ilometri] s’arriva in un campo anche qui e tutto bagnato ma data la stanchezza ci sdraiammo ma dormire e impossibile ce nebbia e un gran freddo”. Avanti ancora il 6 e il 7, attraversando la Slovenia, finché si arriva al campo di concentramento di Assling (presso la cittadina austriaca di Lienz). Finalmente un alloggio al coperto, ma si fanno sentire “molti dolori alle gambe e alle ossa”. Il 9 novembre, più o meno nel momento in cui dall’altra parte si è assestata la resistenza italiana sul Piave, Colombini si sveglia coi monti innevati, riceve una mezza pagnotta (“di quelle piccole”) e in serata viene caricato con gli altri in vagoni ferroviari, sessanta per vagone, e parte verso il cuore degli imperi centrali. Qui ha ancora la forza d’animo di fare un po’ di ironia: “La 1 parte della via crucis e finita ora chissa cosa ci attendera. Speriamo che migliori. Il viaggio fatto a piedi da Tolmino a Assling attraverso monti paesi Slavi pittoreschi potrebbe essere stato bello ma dato la stachezza il male dei piedi e la fame non lo gustai certamente. Così in questi 12 giorni si percorse Circa 300 chilometri”. A questo punto la pagina, eccezionalmente, viene interrotta, lasciata parzialmente bianca, come a segnare uno stacco, a marcare la chiusura di una fase, e a fronte se ne apre un’altra senza un riferimento di data, che sembra costruita come un resoconto impersonale, sintetico ma accurato, dei patimenti subiti, specialmente della fame, aperto da una specie di titolo che suona così: Ciò che ha fatto fare la fame ai prigionieri Italiani. La pagina sembrerebbe stesa dopo l’ingresso nel campo di prigionia di Stendal in Sassonia-Annhalt, dove egli arriverà il 16 novembre, come racconta qualche pagina dopo, e dove riprende la sequenza diaristica giornaliera. Infatti, il campo di Stendal viene nominato in questo che potremmo chiamare “rapporto generale sulla fame”, includente almeno in parte, oltre a quello del trasferimento forzato, il periodo della prigionia stanziale. A Cividale mangiarono non bene Ufficiali mangiavano granturco e cavoli crudi noi soldati si mangio di tutto arrisc[h]iando la vita per uscire dal campo in cerca [di] viveri Nel cammino a piedi 210­­­­

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vendevano orologi e oggetti d’oro per ½ pagnotta Mangiavano patate crude e perfino la pelle di barbabietole che buttavano gli altri anno cambiato con camicie coperte mantelline per un pezzo di pane perfino le scarpe che avevano ai Piedi. Partendo dall’ultimo campo di concentramento sulla strada passava un carro di barbabietole per rubarne qualcuna un soldato andò colla gamba sotto il carro e ebbe spezzata la Caviglia a Stendal vi era una buca ove cera delle immondizie e li si orinava ho visto raccogliere delle pelli di patate quasi fradice bollirle e mangiarle cuocere erbe e mangiarle. Ci rubavano indumenti per darle ai Russi e Francesi per un pezzo di Pane. Ci rubavano la razione di Pane nelle tasche. Anche qui si fa commercio e cambi di pane pel tabacco. Più vergognosa e la Camorra che fanno i sottufficiali sul rancio già misero che ci passano i tedeschi e sempre continua e si va in peggio[.]

Sono gli anni, forse i mesi nei quali il linguista austriaco Leo Spitzer, censore a Vienna, compulsando migliaia di lettere scritte in lingua italiana, compila le annotazioni sui tanti modi usati dagli italiani per parlare della fame senza nominarla (allo scopo d’eludere la censura), che pubblicherà nel 1920. La fame afferra i soldati fatti prigionieri e non li abbandonerà più per la durata della loro detenzione. La fame è entrata nell’orizzonte dell’esperienza comune dei combattenti così come il degrado, la contaminazione, il freddo. È una catastrofe civile che la “guerra santa” per la redenzione delle nazioni ha prodotto e che rimarrà nella memoria europea fino a riproporsi moltiplicata nella seconda guerra mondiale, sfociando nell’estremo degli stermini di popoli, progettati come tali. Negli stessi luoghi, con caratteri simili: marce forzate, vagoni che transitano carichi di uomini stremati, convivenza tra vivi e morti, contaminazione tra escrementi e cibo, immondizie ed erbe di campo riciclate come alimenti. Il rapporto sulla fame compreso nel taccuino del soldato milanese Luigi Colombini, che riprenderemo più ampiamente nel capitolo seguente, si inscrive nella letteratura di questi anni terribili, fatali per la sorte del continente.

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L’Europa dei prigionieri Dei 4 milioni circa di soldati italiani che conobbero l’esperienza del fronte per tempi più o meno lunghi, circa 600.000 furono quelli che vennero coinvolti nella vicenda non meno drammatica, spesso più dura e nel complesso caratterizzata da un tasso di mortalità superiore (circa 16%), della prigionia. Di questi 600.000, circa la metà furono catturati durante la disfatta di Caporetto e trascorsero nei campi austro-tedeschi l’ultimo anno di guerra. Si tratta di una massa ingente di persone sulle quali nel dopoguerra fu steso a lungo un velo di silenzio, maltrattate, circondate spesso da sospetti e sottoposte a interrogatori. I loro sacrifici, non trasfigurabili in termini di epopea eroica, vennero per lo più misconosciuti. La stessa storiografia ha tardato molto ad occuparsi di loro. Solo nel tardo Novecento si è manifestata una nuova attenzione per i protagonisti non combattenti del conflitto, dalle donne ai profughi, dalle popolazioni soggette a occupazione agli internati fino, appunto, ai prigionieri: tutte categorie che furono profondamente coinvolte nel conflitto, che ne furono interamente partecipi sia pure in modi diversi dal maneggiare le armi e dal subirne direttamente gli effetti, che furono – in una loro parte significativa – ugualmente trascinate per mezza Europa, conobbero la promiscuità tra nazionalità, spesso sperimentarono di persona le condizioni di degrado in cui la guerra aveva gettato la vita del continente, furono separate per tempi anche assai lunghi dalle proprie terre e dalle proprie comunità, talvolta dai loro familiari. 212­­­­

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Quando si parla dell’Europa in guerra dunque bisogna pensare non solo ai 70 milioni circa di mobilitati ma al numero molto maggiore di uomini e donne non appartenenti alle classi agiate, non in grado in alcun modo di ripararsi dalle sue conseguenze devastanti e ancor meno di trarne profitto, che costituivano la maggioranza dei suoi abitanti. Tra i non combattenti, i prigionieri furono in molti casi coloro che pagarono i prezzi più alti, e i prigionieri italiani a loro volta quelli che subirono, specialmente a partire dal 1917, tra le sofferenze peggiori. Ciò avvenne nel quadro delle carenze alimentari generali che colpirono gli imperi centrali col prolungarsi del conflitto e che si riverberarono sulla popolazione detenuta. Ma a determinarle furono le diffidenze dei governi e delle classi dirigenti italiane nei confronti dell’affidabilità e fedeltà patriottica dei propri combattenti soprattutto di estrazione popolare. Tali diffidenze vennero acuite dalla vicenda della rotta di Caporetto e dalla lettura prevalente che ne fu data, quindi dal sospetto di scarsa combattività, di arrendevolezza se non addirittura di ribellione e di diserzione che gravò sulla maggior parte dei soldati, ciò che suggerì la calcolata rinuncia da parte del governo a tempestivi e coordinati aiuti alimentari ai detenuti. Solo tali aiuti avrebbero potuto salvare la vita di molti, alleviare le condizioni di tutti in una situazione resa drammatica dall’improvviso, contemporaneo afflusso di masse ingenti di catturati nei luoghi di prigionia ormai sulle soglie dell’inverno. In questo senso la vicenda dei circa 600.000 prigionieri italiani degli imperi centrali nella prima guerra mondiale ricorda quella, che tra l’altro si svolse in parte negli stessi luoghi, degli altrettanti internati militari italiani detenuti nei campi tedeschi e polacchi nel corso della seconda guerra mondiale dopo il disfacimento dell’esercito seguito all’8 settembre, la cattura e la nascita della Repubblica sociale: entrambi a lungo dimenticati, guardati con diffidenza al loro ritorno, riconosciuti tardivamente come un tema centrale della storiografia sulle guerre e sulle condizioni e i comportamenti delle popolazioni nel loro contesto. 213­­­­

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Questa specificità italiana non deve far dimenticare altre situazioni drammatiche e una condizione più generale, che costituisce un tratto caratteristico e nuovo dell’esperienza di massa nella prima guerra mondiale. In qualche fase la detenzione stessa fu per alcune categorie di prigionieri anche peggiore di quella degli Italiani. Per esempio, risulta che i prigionieri rumeni in Germania subirono il 30% di decessi. Sui prigionieri austriaci in Italia il quadro delle ricerche non è ancora del tutto completo e i tassi di mortalità rimangono incerti. Cifre ufficiali senza riscontri parlano di 41.000 prigionieri austriaci deceduti in Italia, ma la mancanza di dati analitici sulle cifre complessive della detenzione (presumibilmente 180.000 prigionieri, cui solo nei giorni finali dello sfaldamento imperiale asburgico se ne aggiunsero altri 300.000) e sulle cause di morte impediscono di avere un quadro preciso della situazione. Quel che si conosce abbastanza bene è però il caso dell’Asinara, dove furono internati circa 24.000 prigionieri austriaci che le armate serbe in rotta, traghettate in Italia alla fine del 1915, avevano trascinato con sé nella disastrosa ritirata. Sistemati in accampamenti di fortuna, questi prigionieri dei Serbi passati in mani italiane furono falcidiati da una tremenda epidemia di colera. Per molti, la fine della guerra non segnò un miglioramento della situazione. I prigionieri tedeschi furono trattati, specialmente in Francia, come veri e propri ostaggi allo scopo di costringere il loro Paese alla firma e al rispetto dell’armistizio. A loro volta, i prigionieri russi, nel caos seguito alla rivoluzione e dopo la pace di Brest-Litovsk, rimasero del tutto abbandonati a se stessi e continuarono per molto tempo ad essere impiegati nel lavoro coatto malgrado la firma del trattato. Sorte spesso molto dura toccò ai prigionieri detenuti dai Russi, anche per il numero molto elevato (oltre due milioni), dispersi sull’immenso territorio euro-asiatico, talvolta in condizioni igieniche e sanitarie pessime che favorivano l’esplosione di epidemie. A questo bisogna aggiungere che la considerazione e il trattamento degli ex prigionieri della prima guerra mon214­­­­

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diale furono dovunque, tanto sul piano materiale come su quello simbolico, ben diversi da quelli degli ex combattenti. La prigionia, come e più della guerra guerreggiata, segnò una formidabile mescolanza dei popoli europei. Per esempio nei campi di concentramento austro-tedeschi convissero e impararono a collaborare, a contrattare, a barattare soprattutto prigionieri italiani, francesi, serbi, russi e tutti dovettero sottostare e impararono a conoscere gli austro-tedeschi, le loro mentalità. Milioni di uomini furono costretti all’attraversamento in condizioni di fortuna, talvolta a piedi o su mezzi trainati da animali o su treni e ancora su imbarcazioni fluviali o marittime, del territorio europeo in tutta la sua estensione: uno dei nostri diaristi, Luigi Colombini, dopo la cattura percorre ad esempio il Friuli, la Slovenia, l’Austria, la Germania fino alle regioni del Nord e poi, alla liberazione, attraversa altro territorio tedesco verso ovest, passa in Olanda, si imbarca a Rotterdam, attraversa il canale della Manica, approda in Francia, percorre in treno il tragitto verso l’Italia attraversando Lione. Molti dei prigionieri italiani detenuti nei campi dell’Austria-Ungheria, dopo il crollo e la disgregazione dell’impero, si allontanarono spontaneamente, senza nessuna guida o organizzazione, seguendo itinerari improvvisati e affrontando viaggi di ritorno in condizioni impossibili. Per non parlare degli altri “italiani”, in realtà sudditi asburgici del Trentino, di Trieste e dell’Istria, che, finiti a combattere in Galizia e fatti prigionieri (nel numero di circa 26.000), furono portati in Russia e in Siberia. Un trentino racconta di aver percorso, nei vari spostamenti coatti, tutta la Russia europea, da Kiev a Rostow, da Rostow a Orenburg, da Orenburg ad Alexandria presso il lago Onega, da qui a Syzran sul Volga, da Syzran a Kirsanov, nel governatorato di Tambov. Un altro, arruolato come lavoratore ad Acinsk, nella Siberia centrale, nel luglio del 1915 viene trasportato con altri a Kirsanov, a quasi quattromila chilometri di distanza in direzione ovest, dove vengono concentrati i trentini convinti 215­­­­

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a tornare in Italia come sudditi della nuova patria, dopo che l’Italia è entrata in guerra contro l’Austria. Le peregrinazioni dei prigionieri trentini sull’immenso territorio russo, tra un campo e l’altro, tra una miniera e una fattoria, avanti e indietro per la Siberia, hanno dell’incredibile. Non meno avventurose le peripezie che portano alcune migliaia di essi a intraprendere il viaggio di ritorno, prima percorrendo i circa 1.800 chilometri da Kirsanov, luogo di concentramento degli Italiani, al porto di Archangel’sk sul Mar Bianco, per compiere da lì il periplo della Scandinavia, raggiungere l’Inghilterra e finalmente puntare sulla Francia e l’Italia. Ma il più rocambolesco, o comunque il più lungo di tutti nello spazio e nel tempo, fu il percorso seguito dai contingenti che, dopo lo scoppio della rivoluzione sovietica e dopo il congelamento che rese impraticabile il porto di Archangel’sk, seguirono la linea della Transiberiana fino a Vladivostok, poi furono coinvolti in complicate vicende legate all’intervento alleato contro il nuovo potere dei bolscevichi e alla costituzione in questo ambito di un corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente. Il ritorno in Italia per molti di loro richiederà ancora molto tempo e molta pazienza. La fame costituisce il grande tema che domina la realtà e l’immaginario dei prigionieri nella veglia e nel sonno, che fornisce materia centrale dei loro dialoghi e delle loro scritture, che determina persino le forme della grafia, in particolare per quanto riguarda l’uso delle maiuscole. Attraverso l’esperienza dei prigionieri assai più che di quella dei soldati ci inoltriamo in un’Europa affamata dalla guerra, specialmente laddove manca il sostegno di altre aree agricole del mondo (si pensi all’impero britannico e agli Stati Uniti nei confronti delle potenze dell’Intesa), e ancor più dove, in presenza di sostanziali carenze alimentari, la determinazione dei poteri costituiti è quella di privilegiare l’esercito sulla popolazione civile. È nei campi di prigionia austro-tedeschi, soprattutto per i soldati semplici, che si lambiscono e spesso si superano i confini della sopravvivenza per denutrizione, per fatica e per 216­­­­

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inedia, che saranno lo scenario tipico delle forme di detenzione concentrazionaria durante la seconda guerra mondiale prima di assumere il volto esplicito dello sterminio. L’analogia concerne anche le forme di immatricolazione numerica dei detenuti, le vessazioni gratuite, le marce forzate, l’esposizione alle intemperie, la violenza del linguaggio, gli attentati alla dignità personale, le umiliazioni corporee.

Il diario della fame di Luigi Colombini Abbiamo lasciato il milanese Luigi Colombini al momento in cui, pochi giorni dopo la cattura seguita alla rotta di Caporetto, stila il suo primo rapporto sulla fame, atto di accusa contro le infamie che la crudeltà del nemico e soprattutto l’insensatezza della guerra infliggono agli uomini comuni come lui. E abbiamo già segnalato l’eccezionalità del documento costituito dal suo diario. Occorre insistere su questo punto, esaminandolo in tutta la sua estensione. Senza considerare le poche pagine iniziali e finali del taccuino, bianche ovvero riservate a scritture occasionali o strumentali come conti, elenchi di spese fatte, e a un componimento in versi datato 7 gennaio 1919, vigilia dell’annunciata partenza per il ritorno in patria cui è dedicato, si tratta di 89 pagine interamente scritte, con una cadenza giornaliera rigorosamente ininterrotta, senza una sola eccezione e pressoché senza un’andata a capo. A parte il periodo al fronte tra l’agosto e l’ottobre del 1917, e poi il tempo della rotta e della breve ritirata conclusa con la cattura, di cui abbiamo già detto, non passa uno solo dei 419 giorni che separano la cattura stessa dalla vigilia della partenza dalla Germania per l’Italia, né degli altri 21 che trascorrono tra la partenza dalla Germania e la vigilia effettiva del rientro a casa una volta superato l’interrogatorio già in territorio italiano, che non sia scrupolosamente annotato nel diario con un numero più o meno grande di informazioni a seconda delle circostanze, delle condizioni ambientali, della rilevanza degli accadimenti, presumibilmente anche 217­­­­

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dello stato d’animo e delle condizioni di salute del nostro testimone, non di rado assai precarie: dalle poche righe sconsolate alle narrazioni abbastanza ampie di accadimenti e di giorni clamorosi, come saranno fra l’altro quelli della caduta dell’Impero e della rivoluzione in Germania, riverberatasi coi suoi tumulti e le sue novità all’interno dei campi. Il calvario della sofferenza, fatta di privazioni di ogni genere, vi è distillato in una forma che per la sua accuratezza e completezza potremmo dire da ragioniere, se non fosse venato spesso da accenti di malinconia, di disperazione e di sconforto alquanto toccanti. Il percorso della fame, del degrado corporeo, vi è registrato con una precisione quotidiana stupefacente, comprendente non solo le note, spesso forzatamente ripetitive, sul menù e le razioni di quanto si riesce a rimediare giorno per giorno, ora per ora, o viceversa di quanto viene a mancare al desiderio e al bisogno, ma lo stato più o meno ripugnante della materia data per commestibile, le reazioni del corpo provato da un simile trattamento, le manifestazioni sensoriali dell’astinenza ma anche dell’improvvisa gioia fisica di fronte a qualche insperata rottura della routine alimentare coatta. Seguiamolo dunque nel suo itinerario, a partire dall’inizio del tormentoso viaggio che lo porta oltre il confine italo-austriaco, insieme ad altre centinaia di prigionieri italiani, una volta che le marce forzate hanno finalmente lasciato il campo al vagone ferroviario, come segnalato alla data del 9 novembre. “9/11 notte si sdraia nel vagone ma siamo in troppi si stà male ed è causa di continui litigi tra di noi”, leggiamo sul taccuino come prima annotazione dopo l’interruzione già segnalata. E il giorno dopo: “sempre nel vagone si attraversa monti e Paesi coperti di Neve. Continua a nevicare il treno e [è] più il tempo che si ferma nelle stazioni che quello che va Ce [c’è] un gran Puzzo causa che sono costretti a fare i suoi bisogni nel vagone Il treno sale a grande altura e trova molta neve alle 5 ci danno una fettina di Pane e Carne e una tazza di Brodo alla notte alle 10 ci danno una fetta di Pane e salame e una tazza di Caffè. Si dorme molto male accavallati, sempre dolori alle gambe”. 218­­­­

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L’11 novembre il convoglio passa la frontiera tra l’Austria e la Germania, il 13 “si arriva ad un gran campo di concentramento”. L’alimentazione precaria comincia a far sentire i suoi effetti, come segnala il 14 novembre: “causa questo sistema di vita mi sento poco bene e diarrea”. Dopo altri trasferimenti a piedi e in vagone ferroviario finalmente il 16 novembre arriva alla stazione di Stendal e al relativo campo, a un’ora di cammino dalla città, dove viene immatricolato col numero 5136-4 e assegnato a una baracca. Qui trascorrerà la prima parte del terribile inverno fino al 22 gennaio del 1918. Nel campo, stando a quanto ci dice più avanti incidentalmente, ci sono in tutto circa quattromila prigionieri. Alle 5 del pomeriggio dello stesso 16 novembre “ci danno una fetta di Pane, alle 6 un mestolo di Brodo di Rape alle 6½ un mestolo di Caffe acquato alle 7 Appello e a dormire sempre in riga”. Comincia così la vita del detenuto destinata a protrarsi per oltre un anno. Si delinea un regime di alimentazione giornaliera caratterizzato da brodaglie di varia natura, minestre annacquate di barbabietole (o bucce di barbabietole) e di cavoli, un alimento anch’esso acquoso probabilmente a base di mais che il nostro chiama polentina, una sottile fetta di pane. Lo spettro della fame comincia a farsi concreto. Luigi ha la forza di fare dell’ironia per tutta l’acqua calda ingerita: “Sveglia alle 5 – scrive il 19 novembre – Appello e acqua calda, così ci tengono per macchine a vapore che vanno a base d’acqua calda”. Ma aggiunge: “se continua così non so come fare la vita dato che mi sento già molto debole tutti i momenti in riga alle 8½ ci fanno fare dei movimenti in cortile alle 10½ Puntura Alle 11 brodo di rape. La puntura fa molto male, alle [...] 5½ Minestra di foglie di barbabietole”. Il giorno dopo il suo commento è lapidario: “causa questi Pranzi non si va più nemmeno di corpo si piscia solo ma la debolezza e tanta”. Le conseguenze di denutrizione, freddo e fatiche inutili come le cosiddette istruzioni giornaliere si fanno subito sentire: “alle 9 istruzione – annota il 23 novembre – alle 11 brodo di Rape alle 3 istruzione causa la debolezza qualche compagno cadde svenuto”. 219­­­­

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La situazione si aggrava in conseguenza della disciplina feroce. Il 30 novembre un prigioniero che tenta la fuga viene ucciso con una fucilata, dopodiché fioccano punizioni e ulteriori restrizioni a titolo intimidatorio. Il giorno dopo non viene dato quello che Luigi chiama spesso “specie di caffè” e il rancio si assottiglia ancora. Solo ora, in prigionia, l’espressione “barbaro nemico” sembra acquistare consistenza, comincia ad avere un senso preciso. Il 2 dicembre, domenica, scrive: “oggi sveglia alle 6. Niente Caffè i Barbari si fanno conoscere anche la sbroda delle 11 non ce la danno intendono di farci morire di fame, qui e una vera desolazione più di 4000 persone debbono così tanto soffrire”; e prorompe in un’esclamazione che, sia pur dettata dall’esasperazione del momento, dice molto sul rapporto tra esperienza della trincea ed esperienza dei campi di prigionia: “a [ah] come era meglio la Trincea malgrado i suoi pericoli. Giornata triste pensando ai miei cari Fuori ce una bufera di vento e neve qui in baracca fa freddo ho i piedi che non li posso scaldare”. Il freddo in effetti morde. I casi di congelamento sono numerosi. “Qui ci sono molti gelementi di piedi 15 oggi sono andati all’Ospedale”, registra il 4 dicembre. Le restrizioni punitive durano per tutta la prima metà di dicembre, sottoponendo i detenuti a una prova estrema. La morsa del freddo è spietata: “Il freddo e terribile e nevicato io sono ½ assiderato mi manca la forza per scrivere” dice il 3 dicembre, senza in realtà interrompere le annotazioni giornaliere. E il 6: “I sottufficiali anno iniziato il regno del terrore per un nonnulla levano Il pane migliore alimento benché cattivo”. Per poco e cattivo che sia, il pane ha almeno una consistenza solida, serve a colmare sia pure per poco il senso del vuoto che invece lasciano le “solite sbrode”. Per questo diventa un luogo fisso dell’immaginario, un sogno ricorrente. “Dato il desiderio del Pane di notte lo sogno sempre” scrive il 10 dicembre; “aspettare che venga domani per avere quel tozzo di pane Nero che lo sogno anche la notte” ripeterà più avanti (5 luglio 1918). “Il vitto sempre peggio oggi a ½ giorno 220­­­­

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solo acqua calda non so come fare sta vita non mi sento la forza” (12 gennaio). La fame e il freddo sono un dolore fisico che può diventare acuto. Il 18 dicembre: “Queste maladette istruzioni sulla sabbia mi fanno gelare i piedi mi saliva i brividi al cuore avrei pianto dal dolore. Il Medico ci fa sfilare e ci guarda il petto siamo tutti scheletriti”. Arriva così il primo Natale in cattività, che alle sofferenze del corpo mescola quelle della nostalgia: Natale sveglia alle 5 e sbroda bianca alle ore 6½ si va a Messa in una baracca alle 11 sbroda con sapore di Salmone. Nella mattina nevica più tardi fa sole giornata di bel tempo Alle 4 fetta di Pane le razioni le fanno i Tedeschi e sono più piccole. Alle 5½ Polentina dolciastra alle 6½ al momento che nella vita famigliare si va a tavola vado sul pagliericcio. Così tra i ricordi di tutta la mia vita passata in questo tanto festeggiato giorno questo fu il più triste che passai tra la fame colla speranza che questi miserabili ci avessero dato almeno una fetta di pane in più tanto per farci conoscere che giorno era. Quanto e triste la vita lontano dalla famiglia senza notizie. Speriamo in giorni migliori [.]

Gran parte di gennaio del 1918 trascorre invece senza segni di miglioramento. La disciplina è sempre pesante. Un suo compagno che viene trovato nella baracca dei Russi viene picchiato dalle guardie (16 gennaio). Un gruppo di Francesi per punizione viene fatto “girare per 1 ora col sacco di 20 chili di sabbia sulle spalle” (21 gennaio). Il vitto non migliora, al contrario: “Qui coi pasti che danno non si và più avanti” (15 gennaio). Qualche scambio di piccoli aiuti frutta miserabili integrazioni alimentari: un suo compagno di baracca dà una mano a dei prigionieri romeni a fare trasloco e “porta pezzetti di pane secco” (12 gennaio). Si attivano baratti secondo l’impellenza dei bisogni per fronteggiare l’emergenza. Il 21 segnala ad esempio di aver scambiato le “fascie” per “3 galettine e un pezzetto di cioccolata”. L’8 febbraio scambia il suo accendisigaro per due razioni di pane. Il 22 gennaio, dopo 67 giorni di prigionia nel campo di Stendal, avviene il primo 221­­­­

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trasferimento, che lo porterà a Königsbrück in Sassonia, dove rimarrà fino ad aprile. Nella nuova sede la situazione non migliora. Il 24 gennaio scrive: Sveglia alle 5 e bevanda che qui chiamano Tè Alle 6 fuori per l’appello a quelli che hanno ritirato le scarpe devono uscire scalzi il bello è che piove qui si e costretti a star in piedi tutto il giorno. La disciplina e severissima ci sono 600 Francesi e molti Russi noi nella 6a baracca siamo in 474. Ci sono baracche dei Serbi ma tutti sono meglio alloggiati di noi Alle 11 Rancio rape un po’ fitte. La fetta di Pane e piu piccola che a Stendal.

Da questo punto in poi, più ancora che nelle pagine precedenti, il diario di Luigi Colombini offre una rappresentazione cadenzata e inesorabile della morte che stringe dappresso i prigionieri italiani. Ogni giorno continua come sempre a segnalare in dettaglio le infime razioni di cibo appena commestibile che passano i detentori. Ogni giorno ripete la parola “fame” e – come si è detto – la parola “Pane”, generalmente con l’iniziale maiuscola, autentico mito di un corpo deprivato. Ogni giorno osserva gli altri prigionieri, specialmente i Francesi, che ricevono pacchi e si nutrono in maniera se non sufficiente almeno passabile. Ogni giorno nota che gli italiani muoiono con uno stillicidio inarrestabile di fatica e di freddo, ma soprattutto di fame e di stenti. È una legge, una selezione senza scampo. Nell’inferno tedesco essere Italiani, stando alle sue parole, sembrerebbe addirittura peggio che essere Russi: essere condannati a morte, dover affrontare prima o poi questo destino, a meno che qualcosa non cambi nel frattempo. “Nell’Ospedale tutti i giorni un compagno se ne va all’altro mondo” annota mestamente il 2 febbraio. “Qui quasi tutti i giorni qualcuno se ne va all’altro mondo causa esaurimento” ribadisce domenica 17. Il 24 fa il conto: “Questa settimana sono Morti 15 Italiani di esaurimento e di fame”. La morte non è un avvenimento clamoroso, ma spesso è co222­­­­

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me uno spegnimento, che sorprende gli uomini nel pagliericcio dove si sono accomodati senza forze, magari nel sonno. A Luigi viene in mente un paragone desolato con il mondo animale: la morte quieta delle galline colpite da quello che lui chiama “il male”, accovacciate nel nido: “quelli che sono andati al lavoro così esauriti muoiono nel pagliericcio senza accorgersi, come le galline colte dal male” (26 febbraio). Anche i suoi amici se ne vanno: “Stanotte e morto il compagno Colombi Amedeo” (9 marzo). Lo stillicidio continuerà anche nel successivo trasferimento, quando verrà internato nel non lontano campo di Kamenz. “Stamattina uno e morto sul pagliericcio è l’effetto di questi pranzi” annota l’8 luglio. “Altro morto la mortalità è qualcosa di impressionante se continua questi [ranci?] chi non ha pacchi se ne va, anch’io temo che se dura questa vita sarà difficile che riveda i miei cari” (11 luglio). Se la morte in trincea era spesso un’evenienza repentina e priva di conforti, questa morte in prigionia prevede i suoi rituali di commiato. La partecipazione ai funerali diventerà un’abitudine quotidiana: “dopo il Rancio di Rape e Orzo vado al funerale qui almeno per i morti hanno rispetto” riferisce il 15 luglio a proposito delle consuetudini vigenti a Kamenz. E solo due giorni dopo: “Dopo il ½ giorno vado al funerale”. “Si và al cimitero – è una delle ultime annotazioni che segnerà sul taccuino prima del ritorno, il 2 gennaio 1919 – a portare l’ultimo saluto ai 52 compagni che causa la fame e le brutalità Tedesche non vedranno mai più i suoi cari”. Specialmente per i detenuti nei campi austro-tedeschi il problema centrale era quello delle integrazioni caloriche che giungevano (o non giungevano) ai prigionieri attraverso forme di aiuto di carattere pubblico o in subordine privato e familiare, sotto l’impulso dei rispettivi governi e per il tramite dei Paesi neutrali o della Croce Rossa Internazionale. Abbiamo anche accennato ai motivi che spinsero il governo italiano a rifiutare di prestare e organizzare tempestivamente gli aiuti e ad assumersi la responsabilità di supplire alle carenze crescenti di risorse alimentari nell’impero asburgico e in quello 223­­­­

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guglielmino. Tutti i ritardi, le interruzioni, le carenze nel ricevimento dei sospirati pacchi contenenti viveri segnalati da Colombini confermano punto per punto le dinamiche della situazione innescata da questo atteggiamento. Dalle pagine del taccuino risulta inoltre la percezione netta da parte dei prigionieri della disparità di trattamento rispetto ai loro colleghi, specialmente i Francesi. Finché si trova a Stendal Colombini non riceve nessun pacco, benché intorno alla terza decade del mese di gennaio si siano diffuse voci in tal senso. L’assenza di aiuti prosegue per lui nel primo periodo della permanenza a Königsbrück, mentre dal 6 febbraio alcuni dei suoi compagni ne ricevono: “A molti compagni – scrive in questa data – sono arrivati pacchi dalle sue famiglie chi 2 e persino 4 ma la mia non ha pensato di spedirne qualcuno senza aspettare la Croce Rossa sono proprio sfortunato così devo comperare qualche pezzo [di pane?] e pagarlo come fosse Pollo e tutto per la fame e per sostentarmi un po’ ormai sono a metà esaurito”. Alla mancanza di aiuti si supplisce come si è già visto con baratti o con acquisti in denaro resi possibili dalla vendita di oggetti personali (lui ad esempio ha venduto la penna stilografica il 2 gennaio per 5 marchi) o, più avanti, dalla paga ricevuta per il lavoro. “Anche oggi – scrive il 16 febbraio – sono arrivati i pacchi ma per me niente, presto sarò sprovvisto di soldi così farò anch’io la triste fine [...]”. Di queste carenze è portato ingenuamente a incolpare la famiglia, ignorando le difficoltà, il disordine, gli ingorghi che invii non promossi e non coordinati a livello governativo comportano. “Come tutti i Mercoledì – registra il 20 febbraio – ai Francesi arrivano i sacchi di gallette ne sono arrivati anche ai Russi e ai Serbi a noi Italiani all’infuori dei fortunati che hanno i Pacchi gli altri hanno [parola illeggibile] di fame e di freddo. Oggi e arrivata molta Posta e cartoline della Croce Rossa che annunciava la spedizione [di] Pane, ma per me niente”. E invoca il nome della moglie: “Angelina Angelina ti sei dimenticata di me, quanto mi rattrista al solo pensarci”. Solo il 14 marzo, finalmente an224­­­­

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nota: “Apprendo la bella notizia che sono arrivati i Pacchi, ne ho 3 di Pane e 1 di generi alimentari”. L’autocommiserazione per la condizione degli Italiani rispetto a prigionieri di diverse nazionalità non manca di affiorare anche riguardo ad altri temi, dando luogo a descrizioni suggestive dell’atmosfera del campo. Domenica 27 gennaio annota: “S’accorge che e festa i Serbi nella sua baracca ballano e cantano accompagnati da Violini. I Francesi vanno alla partita di Fot Bal e noi poveri Italiano ancora poco abituati alla vita di prigionia si passeggia su e giù di questa specie di villaggio delle baracche di legno come tanti cani randagi tra il va e vieni di questa moltitudine di soldati di tutte le Nazionalità troppo preoccupati tra la fame ed il pensiero delle sue famiglie”. L’esperienza della prigionia e delle restrizioni alimentari esalta la dimensione della corporeità. Quando finalmente i pacchi sospirati sono nelle sue mani (4 chili di pane, 4 chili e 250 grammi tra riso, farina, castagne, burro, 20 dadi da brodo), egli si butta sul cibo con avidità, consuma molto pane, si convince che fin che ce n’è è meglio mangiare. Il 16 marzo si fa una specie di risotto e commenta: “se me lo davano in Italia chissà dove lo buttavo, qui ho fatto Natale”. Il 17 usa questa espressione: “al Pane ci dò d’attorno e meglio che mangi già che posso”. E il 18: “mi mangio nella mattinata un buon bastone [filone] di Pane se guardassi la volontà ne mangerei un pacco Parecchi che sono arrivati i Pacchi hanno fatto indigestione”. È un’esperienza che toccherà anche a lui. Il 23, dopo essersi cucinato risotto e polenta, si rammarica di non riuscire a contenersi: “peccato che non sò regolarmi e mi mangio uno e l’altro, almeno qualche volta provo a riempirmi la pancia”. Lo spettacolo delle privazioni attorno a lui lo conferma nella sua condotta: “ieri sono arrivati dei compagni dal lavoro, fanno pieta sono scheletriti, ho ragione di continuare a mangiare intanto che ne ho” (24 marzo). Ma via via il contenuto dei pacchi si esaurisce: prima il pane, poi la farina, poi il riso, e si torna al regime delle sbrode, dell’acqua calda con bucce di rape, alle patatine marce, ai 225­­­­

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pezzi di aringhe puzzolenti. Infatti al 1° aprile torna la debolezza e non gli reggono le gambe. Ma il giorno dopo per fortuna riceve altri pacchi, due di pane e due di pasta e scatolette, e si commuove per Angelina che ha pensato a lui. Questa altalena si prolunga per settimane e mesi, mentre è ormai stato trasferito a Kamenz, dove ha cominciato a lavorare al carico e trasporto di vagoncini di terra all’esterno del campo. Il 3 maggio annota: “Stassera mi soddisfo la Pancia, faccio Riso e Polenta, ora sto bene”. Il 7 sottolinea: “Sul lavoro non si parla altro che di Pacchi e del mangiare e del Rancio sempre a base di Rape”. Il 18, dopo aver ricevuto la visita di un cappellano militare, ammette: “mangio un po’ troppo di patate ed ho un po d’imbarazzo vale per quando soffro la fame”. Il giorno dopo si sente male: “causa l’imbarazzo che avevo stanotte sto male e rigetto tutto ma come si fa si ha sempre fame e si mangia anche quando non si dovrebbe”. Il 20 il malessere prosegue: “Stamattina mangio il Riso avanzato ieri ma era meglio se non mangiavo tutt’oggi con forte Diarrea”. Il 12 giugno torna a parlare del proprio corpo, delle sue pulsioni incontrollabili: “la pancia e piena ma la bocca ne vorrebbe ancora”. D’altra parte i prigionieri non sono i soli a patire la fame. Anche tra i detentori ci sono segni di privazioni: per accaparrarsi della “farinata” avanzata, il 21 maggio si fa a cazzotti e partecipano anche alcune guardie. Più avanti, in autunno, noterà: “i Tedeschi fumano di tutto, Fiori e foglie anche di Noce” (8 ottobre). Le risse sono all’ordine del giorno soprattutto tra i detenuti: “Ieri sera – scrive il 22 settembre – per un barattolo fu fatto lite e di mezzo andò Gasparini che perdette un dente e il labbro tagliato”. A Kamenz la disciplina è sempre severa, il lavoro molto duro, il regime alimentare di base non si modifica se non in peggio stanti le condizioni sempre più critiche della Germania, l’odio verso i detentori cresce. “La giornata e cominciata male – scrive il 19 giugno – stamattina una guardia più che schifosa non ci dava un momento di respiro si doveva lavorare come bestie ed essere maltrattati più si va avanti e più 226­­­­

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si sente di odiare questa brutta razza per andare alla latrina dovetti fare 4 volte il saluto per fortuna che dopo ½ giorno si cambio”. L’arrivo dell’estate non migliora sostanzialmente le condizioni climatiche. A giugno e a luglio continua a fare freddo e molti si ammalano. Il 2 luglio annota: “Tutti ammalati. Fa freddo si va al lavoro col cappotto. Mi fa male le ossa o [ho] la tosse e febbre una specie di Influenza anche i soldati tedeschi ce ne [n’è] molti ammalati [...] Marco visita ho la febbre a 38-7”. Il giorno dopo continua ad avere la febbre e sviene durante la visita. Il 4 viene preso dallo sconforto e dal risentimento per la famiglia che non provvede a sufficienza ai suoi bisogni: Giornata nebbiosa come in Dicembre verso sera Temporale per compire l’opera ho anche la Diarrea e niente da mangiare così la debolezza fa strada. Rancio Rape acide. Pensando a questa maledetta fame Piango come fanno i bambini la causa e [è] dei comitati ma anche un po’ della mia famiglia che sopra 5 Pacchi alimentari 2 erano di circa 5 chili ma gli altri 3 di circa 2 chili e chissa cosa gli pare d’aver fatto per mè era meglio che non mandavano niente così da un po’ l’avevo finita questa miserabile vita di patimenti. Un anno fa ero in viaggio per la licenza ed ora mi devo augurare di morire[.]

Lo stato di esasperazione cresce. Come e più che per i soldati al fronte, anche per i prigionieri la guerra sta diventando troppo lunga. Sempre più spesso gli sfuggono imprecazioni. “Stamattina vado al lavoro – annota il 6 luglio –, o [ho] tutte le ossa rotte e le spalle che mi fan male e devo maneggiare il Badile. Dopo questi giorni d’esaurimento ci voleva qualcosa di sostanza mentre questi ranci della fame non mi sento di star ritto. Pazienza ma anche di questa non ne ho più maledetto il mondo e il giorno che sono nato”. E il giorno seguente riflette sul proprio degrado morale: “Stanotte non ebbi pace ho Tossito continuamente, sono diventato tanto cattivo, bestemmio come un Turco”. Qualche volta è preso dall’inedia: “Il dopo pranzo lo passo con la testa sul tavolo cercando d’addormentarmi per ingannare i pensieri e la fame” (14 luglio). 227­­­­

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A partire da agosto alcuni indizi cominciano a segnalare il cedimento del sistema concentrazionario come riflesso di difficoltà crescenti nel fronte degli imperi centrali. Si moltiplicano i tentativi di fuga, che in qualche caso riescono. Si rincorrono le voci di armistizio. Il 7 ottobre Luigi scrive: “Corre la voce che la Germania accetta la Pace alle condizioni di Vilson [Wilson], fosse vero”. Il 13: “Si va a Messa e si parla di Fride [Friede = pace] come cosa già fatta. Se fosse vero, ma speria[mo]”. Il 4 novembre arrivano imprecisi gli echi della vittoria italiana: “Dicono che gl’Italiani sono a Trieste e Fiume fosse vero”. Ma l’auspicio di vittoria non attenua il giudizio sarcastico sul governo che troppo tardi ha dato via libera a qualche spedizione di aiuti: “Dopo 1 Anno dicono che il nostro illustre governo ha pensato col 15 novembre a spedire il Pane a tutti noi poveri disgraziati, vedremo se questa sara un fatto ho una storia delle solite tanto per illuderci”. L’atmosfera si fa di giorno in giorno più carica di attese e il diario di Colombini, puntuale come sempre, lo registra. Anche i tedeschi non ne possono più: “Ce [c’è] una grande speranza di Pace pare una cosa vera a me pare un Sogno al pensare di rivedere la mia cara famigliola I Tedeschi stessi nutrono grandi speranze ormai ne sono stanchi” (7 novembre). A questo punto gli eventi si compiono e il ritmo della narrazione cambia. Parole nuove, nuovi atteggiamenti circolano nel campo di prigionia, mescolando in forma inattesa i destini di detentori e detenuti sotto il vento della rivoluzione che attraversa il cuore della Germania e dell’intera Europa. Passano ancora giorni di attesa, altalene di speranza e delusione per una liberazione che non può essere immediata, scatti di nervosismo, festeggiamenti inediti per Natale e capodanno. Persino una seduta spiritica (segnalata nel diario il 27 dicembre) per conoscere in anticipo da qualche trapassato il fatidico giorno della partenza, che verrà effettivamente l’8 gennaio del 1919. Ma di quest’ultima fase dell’esperienza di Colombini, ossia degli ultimi giorni di prigionia nel campo di 228­­­­

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Kamenz dopo la sconfitta tedesca, e del ritorno in patria, ci occuperemo nel prossimo capitolo.

Scrivere per sopravvivere Di fronte alla narrazione di Colombini, la nostra curiosità è sulle prime attratta soprattutto dal contenuto, dalla descrizione minuziosa e ricca di dettagli del suo percorso di prigioniero. Ma, di fronte a questo tipo di scritture, si pone una domanda per nulla scontata, forse meno di quanto non lo sia l’analogo quesito rispetto ai taccuini dei combattenti e ancor più ovviamente alle loro lettere. Perché un uomo nelle sue condizioni, sottoposto a una sequenza di disagi proibitivi che concernono la vita materiale, durante gli spostamenti come durante i prolungati soggiorni in luoghi inospitali, alle prese con problemi quotidiani di sopravvivenza, dedica alla scrittura un impegno così scrupoloso e assiduo? Da dove nasce questo bisogno di prendere ogni giorno in mano la penna e di trasformare il vissuto in traccia scritta e in narrazione? Tocchiamo qui uno degli aspetti essenziali della scrittura autobiografica come attività largamente praticata in diverse situazioni, anche da parte di una popolazione che ha da poco e di poco superato i confini dell’analfabetismo e comunque dedita per lo più a professioni non intellettuali, soprattutto nella temperie di vicende drammatiche e sconvolgenti come le grandi guerre del Novecento e gli altrettanto grandi fenomeni di movimentazione coatta delle popolazioni sia per inquadrarle nei conflitti, sia per internarle in territori lontani dai rispettivi luoghi di origine, sia per condurle e tenerle nei luoghi della reclusione. Si tratta infatti di un fenomeno che le ricerche nelle pieghe di una memoria privata, affiorata da qualche decennio sulle soglie della memoria pubblica, hanno ormai testimoniato come diffuso e capillare, come corrispondente più a una regola che a un’eccezione. Mi riferisco in particolare, per l’affinità col tema che stiamo trattando, alla memorialistica della prigionia e soprattutto dell’inter229­­­­

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namento militare nel corso della seconda guerra mondiale, campo nel quale alla tradizionale memorialistica edita si è ormai affiancata una fitta serie di ritrovamenti di documenti inediti dovuti a persone comuni, simili a quello che abbiamo esaminato, anche se raramente dotati della stessa ampiezza. Si tratta per lo più di agendine, di piccoli taccuini, adatti per le loro dimensioni a essere facilmente nascosti e conservati, portati con sé in lunghe peregrinazioni, talvolta di rudimentali plichi composti con mezzi di fortuna. Come è stato notato anche a proposito delle scritture di internati militari italiani in Germania dopo il 1943, alla carenza di supporti cartacei idonei si ovvia con mille espedienti e surrogati. Quando non si ha la fortuna di possedere un vero e proprio quadernetto, si fa ricorso a fogli sparsi variamente recuperati, carte di sigarette, persino pezzi di carta ricavati da sacchi contenenti materiale vario. Tutto ciò suggerisce che la scrittura, la tenuta di una traccia di ciò che si sta vivendo, costituisce una sorta di bisogno primario, di un imperativo cui è difficile sfuggire. Un intento memorialistico sta certamente alla base di questa operazione che nei campi di prigionia può essere difficoltosa, faticosa, specie se si aggiunge ad altre fatiche fisiche spesso pesanti, addirittura pericolosa, ove esistano interdizioni alla pratica della scrittura al di fuori della corrispondenza, misurata nel numero e negli spazi, e controllata nei contenuti, e punizioni anche gravi per chi le viola. Tenere memoria di giorni speciali che mai si sarebbe pensato di dover vivere, per gli altri e soprattutto per sé, è certo uno degli scopi di questa scrittura, che non di rado esordisce con pagine di pura utilità pratica come la registrazione di conti. Ma per capire il perché di tanta tenacia, di tanta insistenza nel tracciare segni ora estesi ora laconici, occorre fare appello a un ordine di ragioni parzialmente diverso, se vogliamo anche più elementare. Sembra quasi che la scrittura diaristica, l’annotazione ordinata degli accadimenti quotidiani, sia essa stessa un modo di resistere, ossia di sopravvivere ai processi di spersonalizzazione e ai fenomeni di degrado che si accom230­­­­

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pagnano alla detenzione e in certo modo ne costituiscono l’essenza. Scrivere è un modo per fronteggiare lo spaesamento, il degrado corporale, la dipendenza in mano altrui, l’impotenza, l’inedia. Come nel caso della scrittura carceraria in senso stretto, tenere diario significa reagire in qualche modo all’espropriazione lenta, inesorabile del tempo e della vita determinata dalla passività e dalla perdita dell’autodeterminazione. Fissare giorno per giorno le proprie sofferenze sulla carta significa evitare di perdersi e sperare di prolungare in qualche modo la propria esistenza. Finché si scrive, vuol dire che la vita è proseguita di un giorno, e non si vede perché al giorno appena annotato non ne possa seguire un altro e poi un altro ancora fino alla salvezza. Sono, queste, considerazioni che sembrano particolarmente calzanti a proposito di un altro taccuino, assai più breve e assai più improvvisato di quello di Colombini, segnato, e perciò interrotto, dalla sorte infausta del suo autore, Pietro Lorigiola, ma salvato fortunosamente, come tanti frammenti personali della tremenda catastrofe collettiva europea. Pietro Lorigiola, detto Pierin, è un soldato del 97º fanteria, Brigata Genova, nato a Bassano nel 1890 ma residente a Padova, pizzicagnolo, con qualche anno di scuola elementare. La mattina del 24 ottobre del 1917 il suo reparto, che si trova nella zona montuosa tra Plezzo e Tolmino sul confine orientale, nel costone basso del monte Vršič, subisce l’attacco dei reparti austriaci che sfondano il fronte italiano verso Caporetto: siamo all’inizio della ritirata italiana. Dopo una breve resistenza, il reparto, investito dalle artiglierie austriache, si sbanda e alle 12.30 Pietro viene catturato. Da questo episodio prende avvio la Memoria della mia prigionia che egli ha probabilmente cominciato a stendere dopo qualche giorno, una volta giunto a destinazione nei campi di detenzione, diversi, sempre più a Nord e sempre più al freddo, da Mauthausen fino a Leopoli e Ternopol in Galizia. In realtà il testo è una vera e propria memoria solo nella prima parte, quando riepiloga le vicende della cattura e il penoso 231­­­­

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viaggio verso l’Austria, ma diventa poi tecnicamente un diario, ossia annotazione di quanto gli accade di giorno in giorno in prigionia. Il supporto non fa parte come tale del corredo di povere cose che il prigioniero riesce a portare con sé, ma viene costruito con le sue mani. La scrittura occupa infatti 17 foglietti quadrettati della dimensione di cm 6,5 x 8,5, più o meno quelle di un’immaginetta devozionale, ricavati dalla suddivisione in 8 parti di fogli più grandi e poi raccolti in un piccolo libretto facile da nascondere. Sul retro, per 13 dei 17 foglietti, si trova quella che sembra una lettera, dove ripete più volte le stesse lamentazioni, recriminazioni, espressioni di sconforto e speranza, rivolgendosi a una certa Maria, evidentemente la donna amata: più che altro sembra trattarsi di una confessione, di uno sfogo espresso nella forma di un dialogo virtuale con la sua interlocutrice, la destinataria dei suoi sentimenti più intimi. Non sappiamo come l’oggetto si sia salvato dalla dispersione e come sia giunto in mano dei discendenti del fante, ma è probabile che esso sia stato restituito ai familiari dopo la sua morte in detenzione. Come sempre nella materialità del supporto e nelle caratteristiche della scrittura traspare la condizione dello scrivente. La scrittura di Pietro è piena di difformità morfologiche e sintattiche dall’italiano standard, stentata e trasandata, ma è come se nella trasandatezza, nelle imperfezioni della scrittura (la mancanza di punteggiatura adeguata, di accenti e di apostrofi, la suddivisione imprecisa delle parole), più che la scarsa dimestichezza col mezzo, si manifestasse l’estrema indigenza dell’autore, il suo essere ridotto ai limiti della sopportazione, la sua progressiva perdita di forze fisiche dovuta alla fame e al freddo. Scrivere è sempre una fatica per una persona appena letterata, ma per un prigioniero che patisce ogni genere di privazioni è una sfida, una forma estrema e disperata di resistenza. La memoria è in realtà uno scarno resoconto degli alimenti, scarsissimi, ricevuti mano a mano che si dipanano i giorni e si toccano nuove località: Marburg (6 novembre), Brück (7 232­­­­

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novembre), Mauthausen (8 novembre), Leopoli (31 dicembre), Ternopol (12 gennaio). Il filo conduttore, si direbbe il motivo stesso dello scrivere è quello: prender nota del menù, sempre miserabile. 1 novembre 1/3 di pane 2 caffè di ghiande e farina gialla sulaqua bulita 2 [novembre] niente pane suguli crudi e due caffè 3 [novembre] 1/4 pane un caffè e sugoli 4 [novembre] 1/3 pane minestra di orzo carote e barbabietole matina caffè e sera nulla 5 [novembre] 1/3 pane e caffè di ghiande alle 12 carotte galetta e bietole e pattate a sera ½ pane per il giorno 6 e partenza alle 9.20 di notte arivati a marburg ore 6 sera del 6 un goccio di caffè e fatto vedere i pomi cotti 7 [novembre] ore 2 notte minestra orzo e verze 20 grammi di pane 20 di salame [...] 10 [novembre] acqua dolce pane niente alle 12 sugoli ma molto pocchi alla sera acqua di crauti 11 acqua dolce 1/4 pane un po’ di Batazin crudo e salato alla sera beverone di verze intere senza sale.

Come nel caso di Colombini, siamo dunque di fronte a un taccuino giornaliero della fame, della sofferenza per il freddo e le fatiche, sebbene più stringato e frettoloso. A Mauthausen Lorigiola e gli altri prigionieri vengono privati della mantellina e dei denari che ancora hanno in tasca. Il 9 subiscono la disinfestazione e il taglio dei capelli. Più avanti saranno avviati ai lavori forzati, con spostamenti giornalieri per raggiungere il luogo di lavoro. Figurati – scrive in uno degli ultimi passi della lettera virtuale a Maria – che tutti i giorni devo recarmi col pico e badille e fare circa 10 chilometri di strada per andare al lavoro in una strada ferata e cui [qui] si deve lavorare fino alle 2 del dopo pranzo con 200 grammi di pane e un poco dacua calda che si prende alla matina alle 6 prima di partire poi al ritorno abiamo un po di brodo di cavallo con dentro unpo di verdura e 200 grammi di pane e fino alla mattina apresto non si mangia altro cuesto e tutto il mio sostentamento puoi imaginarti cuante volte io temo e penso che dovro morire in Inaustria anzi che ritornare a casa ma fino che ce ben poco ma unpo di fiato ce anche unpo di speranza di ritornare[.] 233­­­­

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Malgrado tutto, le parole sembrano fare resistenza alle privazioni e alla morte incombente. Il 1 dicembre scrive: “sempre solitti pasti e fame sempre attorno la debolezza non mireggo più in piedi ma però sento la salute sempre ottima”. Persino nei due ultimi foglietti, che scandiscono la fine, la manifestazione esplicita di una sofferenza suprema si conclude con un flebile cenno di autoincoraggiamento a tirare avanti. Ma è l’ultimo: 3 febrai[o] ora abiamo passato anche il duro mese di gennaio ora cominciamo il mese di febraio col freddo grande lostesso ma speriamo che faccia labuona stagione non puoi imaginare quanto sofra in questi giorni dove devo passa[re] 5 ore al giorno sempre fermo sul lavoro con un fredo da siberia con lescarpe tutte rotte dove cinentra [?] tutto il fango sui piedi [cancellatura] molto malle coperti tutto sporco e pieno di pidocchi il cibo è sempre il medesimo sempre acua calda cio 2 caffè di orzo uno alla matina e l’altro alla sera e alle 3 unpo di brodo di cavollo con pochissima verdura dentro e 1/2 pagnota cio 500 grammi di pane al giorno e questo e lunico sostentamento della giornata duncue la debolezza e grande non o forsa di levare neanche un chilo percio temo sempre che col male nutrimento deba soconbere con cualche [...?] malattia ma fino ad ora sto sempre bene altro che le gambe non mirege [mi reggono] piu in piedi dalla grande debolezza, basta speriamo senpre bene e tiriamo senpre avanti.

Qui la scrittura si interrompe. Un anonimo biglietto, forse ricevuto dai parenti insieme al manoscritto della memoria, annuncia che egli è morto nell’ospedale da campo W 185 il 1° marzo del 1918.

Prigionieri in campagna Furono molti coloro che, rimasti senza aiuti sufficienti e sommersi dal freddo e dalla fame, subirono la stessa sorte di Lorigiola: inghiottiti dalla morte di massa spesso senza lasciare alcuna traccia. Per un certo numero di altri la sorte fu invece 234­­­­

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migliore: furono quelli assegnati al lavoro nelle campagne, presso fattorie dove faticavano ma avevano generalmente vitto a sufficienza ed erano sotto il controllo non di personale armato, spesso incattivito dalla convivenza in condizioni estreme, incline alla ferocia e persino al sadismo, ma alle dipendenze di padroni singoli di cui condividevano la vita famigliare. È il caso di un protagonista che ormai conosciamo bene, Ubaldo Baldinotti, e che abbiamo lasciato al momento della cattura. Accompagniamolo ora nella sua esperienza di prigionia. In verità anche per lui la prima parte della vicenda, quella del trasferimento verso i luoghi di detenzione, è penosa. Baldinotti restituisce con grande forza il sentimento e lo spettacolo delle lunghe colonne che si incamminano verso il confine e poi si inoltrano in territorio austriaco sotto il controllo dei vincitori. I soldati italiani sono laceri, affamati, spaesati, ignari di quanto sia realmente accaduto, incerti su quanto li aspetta. Subito dopo la cattura subiscono un interrogatorio, ma nulla sanno rispondere di quanto gli viene chiesto: volevano sapere da noi se si sapeva quanta truppa Italiana, c’era dislocata in quella zona e da dove provenivamo, a queste domande noi potevamo darle poche risposte; perché nulla sapevamo erano già tre giorni che prima di essere stati catturati prigionieri, che non sapevamo niente, e non sapevamo niente di quello che era successo, e di ciò che stava succedendo, e che stava per accadere, ci rammentavamo solo che erano già passati tre giorni dalla notte terribile passata, che si era stati catturati prigionieri [...].

A Cividale vengono ammassati in un campo di concentramento già servito agli Italiani per smistare prigionieri austriaci ma ormai distrutto e quindi passano la notte all’aperto: “Pioveva e noi eravamo costretti a star fuori, perché le baracche erano tutte sfasciate essendo state incendiate, e ci servivamo dei rottami del legno per riscaldarsi un poco, la prima notte che passammo a Cividale fu per noi un gran disastro”. Il giorno dopo si incamminano per una Lunga marcia a piedi (è il titolo 235­­­­

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del capitolo 59) e il nostro descrive bene il carattere informe di queste meste colonne di prigionieri dove si confondono, sparpagliati come foglie al vento, migliaia di uomini senza più distinzioni di grado né di funzioni né di provenienza: Partimmo da Cividale di mattina assai presto, era appena giorno chiaro ci incolonnarono in file di quattro soldati, delle diverse armi senza distinzione di grado, c’erano marescialli Sergenti maggiori Sergenti, e tanti Caporali, e Caporal maggiori, e una immensa quantità di soldati la confusione era al colmo, chi era di Fanteria altri del Genio c’erano bersaglieri, c’erano Alpimi artiglieri di montagna e campagna pesante, c’erano per fino soldati della sanità, e qualcuno della Croce Rossa e della sussistenza, e questa colonna era composta da soldati, di tutte le regioni di cui è composta l’Italia, dalle Alpi al meridione alla Sicilia e la Sardegna, e li sentivamo parlare tutti i diversi dialetti, che si parlano nelle nostre regioni. Questa lunga ma triste colonna che viaggiava, con grande sconforto e sconvolto da tristi pensieri, e presa da tanta stanchezza e da tanta fame, perché dal momento che fummo catturati non ci avevano dato mai niente da mangiare, io credo che in quella massa di miseri resti umani, che viaggiavamo senza sapere dove si sarebbe andati, eravamo diventati come tanti ramoscelli e tante foglie, che sarebbe stato sufficiente che fosse tirato, un po’ di vento per buttarci a terra.

Dopo due o tre giorni di marcia, nei pressi di Tolmino i prigionieri ricevono piccole gallette di forma quadrata, troppo poche per sfamarsi, e una gavetta di brodo, “ma che di brodo aveva solo il nome”. Nelle condizioni eccezionali del trasferimento, la fame comincia subito a mordere. Passando in campagna, di quando in quando si rimedia qualche foglia di cavolo “e qualche volta strappavamo qualche ciuffo d’erba fradicia, che tenendola in bocca un po’ di tempo, ci serviva per dissetarci e altre volte si era costretti in mancanza d’altro, masticare le foglie di quelle piante che nascono nei fossi, e che da noi viene chiamata col nome di froscione, che ha un sapore di un amaro sgradevole ma in mancanza d’altro ci serviva quel tanto, per non farci cadere a terra sfiniti”. Non resta 236­­­­

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che tendere la mano ai civili incontrati lungo il cammino, specialmente alle donne, che, dapprima, in territorio italiano, rispondono con qualche mela o qualche patata cotta e parole di pietà. Ma quando ci si inoltra in territorio croato e austriaco, l’atteggiamento della popolazione cambia. Staccatisi dalla colonna che non procede a ranghi compatti, lui e un compagno bussano a una porta ma vengono accolti a improperi da un uomo che parla “in tedesco” e spara in aria tre colpi di pistola. Ma l’esperienza di essere ormai in territorio ostile si avverte compiutamente a Klagenfurt, in Carinzia, dove Ubaldo giunge con la colonna la notte dell’8 novembre, dopo circa dieci giorni dalla cattura. Qui i prigionieri attraversano la città accolti da atteggiamenti di scherno. Il narratore è colpito soprattutto dall’attitudine aggressiva, sarcastica delle donne, che smentisce la sua immagine angelicata della femminilità: Si giunse che era già notte nella città di Klagenfurt, ci fecero attraversare quasi tutta la città, e mentre noi passavamo per le vie di questa città, tutti laceri e sudici ridotti allo stremo delle forze che essere umano può aver, la forza di sopportare, la gente ci guardava non con occhio compassionevole, dato lo stato a cui si era ridotti, ma gioiva ridendo con gran soddisfazione, e ci schernivano con inumani gesti ma soddisfatti, al passaggio di tanti disgraziati. Non eravamo più essere umani viventi, ma eravamo ridotti a dei relitti umani, come se fossimo i relitti di una nave squassata, in mezzo a un mare in piena tempesta. E specialmente le donne, mentre noi camminavamo tutti intontiti, e con appena il fiato per respirare, battevano le mani dimostrando così la sua grande contentezza, e facevano rivolte verso noi dei gesti sconci, e ci mostravano la lingua, e noi a vedere le donne fare quei brutti gesti, non si scorgeva più in quelli esseri femminili, la creatura che tante volte, abbiamo cercato per poter provare un momento di oblio e di serenità.

Evidentemente l’agitarsi di queste donne indemoniate lo sconvolge, tanto che insiste: Ma stante i loro gesti che esse facevano contro noi, in quel momento non rappresentavano più, come si suol spesso dire l’angelo 237­­­­

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consolatore del genere umano; ma, ai nostri poveri occhi già troppo stanchi, anche se fra esse e fra tante ce n’erano che avevano un bel volto angelico, ma stante i loro inumani gesti che facevano, si erano trasformate ai nostri occhi, in orribili mostri, e il volto di ognuna di esse, era per noi la figura di tante iene affamate, che si buttavano con famelica ferocia, sui cadaveri che trovavano sul suo cammino.

È per lui la tappa fino a quel momento “più scabrosa e dolorosa”, a dispetto delle grandi sofferenze già affrontate, perché la gogna subita provoca tristezza e avvilimento, al punto da suggerirgli retoricamente un confronto con la sorte dei compagni caduti: “pensavamo che forse erano stati più fortunati di noi i tanti compagni morti sul campo di battaglia, almeno ad essi era stato risparmiato, di vedere fino a qual punto arriva la crudeltà, della razza umana”. Nell’economia morale di Baldinotti l’esperienza dell’odio sprigionato dai civili contro esseri umani miserabili ed inermi costituisce la misura del degrado provocato, o forse semplicemente rivelato, dalla guerra. Quello che non riesce ad accettare, è la mortificazione di essere divenuto oggetto di uno spettacolo che muove al riso sguaiato, di un’autentica gogna: “Ci fecero passare dalla stazione della ferrovia, e li ci distribuirono un piccolo filoncino di pane, e un piccolissimo salamino, e dopo circa mezz’ora ci fecero attraversare benché fosse notte, la città in senso opposto a quello di quando si era arrivati, e in mezzo a tanta gente che gioiva al nostro passaggio, e rideva a vedere tanti disgraziati, e forse più che se fosse stata in teatro ad assistere un’allegra commedia”. Dopo 12 giorni di trasferimento a piedi e due in ferrovia, Baldinotti giunge al campo di Buchheim in Baviera, un grande campo pieno di prigionieri di diverse nazionalità: oltre ad altri Italiani ci sono Francesi, Inglesi, Serbi e soprattutto Russi. Fa molto freddo, ma le baracche sono riscaldate. Il vitto distribuito è come al solito ai livelli minimi: una mezza gavetta d’orzo e due pagnottine di pane da suddividersi in un gruppo di 13 prigionieri. La suddivisione del pane è un rituale meticoloso che scatena aggressività: 238­­­­

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tutti i giorni erano litigi durante la distribuzione del pezzetto di pane che ci toccava, perché i tedeschi ce le consegnavano intere, e dovevamo pensarci noi a fare le parti. Avevamo costruito delle piccole bilancine per poter pesare il pezzetto di pane, e quando su la bilancina costruita con un pezzo di cartone legato con dei fili di spago, e quando il pezzetto non bilanciava regolarmente, erano baldorie e qualche volta volavano dei pugni, perché c’era sempre qualcuno, che guardava di potersi arrangiare, perché data la piccolezza della razione che ci passavano, che se uno poteva averne cinque o sei grammi in più era già qualcosa.

Per sua fortuna a Buchheim Ubaldo rimane poco. Ben consigliato da un sergente amico, alla domanda sul suo mestiere risponde prontamente definendosi contadino, benché altri siano stati i suoi lavori. Così, il 3 gennaio del 1918 parte per il campo di smistamento di Lagerlechfeld, dove gli attaccano alla giacca un numero di matricola (30668), e di qui lui e altri tre vengono destinati al lavoro in un paesetto, Biburg, a circa 25 chilometri da Monaco, presso una famiglia dove già lavora un prigioniero russo. La situazione si presenta subito nettamente migliore rispetto a quella dei campi. Si tratta di una famiglia numerosa, composta da otto persone, più i prigionieri e una ragazza di una ventina d’anni estranea al nucleo: “e quando si mangiava, e mangiavamo tutti alla stessa tavola, eravamo in tutti undici tra adulti e ragazzi”. Tra gli altri – Ubaldo non tralascia mai i dettagli che lo colpiscono – un ragazzo con un piede deforme (“che da noi viene chiamato piede bovino”), il quale cammina a fatica. Il trattamento è buono, si mangia cinque volte al giorno “ed era vitto buono ed abbondante”. Egli conduce una vita normale, intrattiene relazioni sociali, conosce una signorina insegnante d’italiano con la quale può conversare, conosce anche il parroco del paese, anche lui discreto conoscitore della lingua italiana, frequenta la chiesa, va regolarmente alla messa accompagnando la moglie del padrone di casa, la quale vuole che lui la chiami familiarmente “col nome di mutter che in tedesco signif[ic]a mamma”. “Insomma, benché fosse prigioniero io non avevo di che lagnarmi”. 239­­­­

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Unico motivo di disagio, la mancanza assoluta di notizie dalla famiglia, che dura molti mesi e che si interromperà solo alla metà di giugno, dopo quasi otto mesi di detenzione. La narrazione di Ubaldo prosegue ricca di annotazioni serene, molto lontane dal tormento dei prigionieri detenuti nei campi che abbiamo visto consegnato alle loro scritture coeve. L’ambiente bavarese impregnato di cattolicesimo favorisce una fraternizzazione inaspettata con lui, fervente cattolico, e con gli altri tre prigionieri italiani assegnati alla stessa famiglia. Particolarmente gustose le scene relative alla celebrazione della Pasqua. Nei giorni che la precedono Ubaldo ottiene di recarsi nella vicina cattedrale di Fürstenfeldbruck accompagnato dal soldato che lo ha in custodia, dove viene ricevuto dal canonico che lo confessa e gli impartisce la comunione: il soldato ci fece entrare nel Duomo, che era una chiesa assai grande, e con diverse grosse colonne di pietra, e addobbata discretamente, dopo aver ascoltata la messa ci chiamarono, e si andò dove c’era il canonico che ci attendeva, era un vecchio sacerdote alto e robusto, ed egli subito ci domandò in modo assai cortese, se la confessione volevamo farla al confessionale, oppure a faccia in sagrestia, io anche a nome de miei compagni, le risposi che credevo che non fosse necessario andare al confessionale, allora egli ci disse venite uno alla volta. Gli altri erano un po’ tibutanti [titubanti] ed io le dissi lasciate fare per primo vò io, e dopo andate voialtri [...].

Il colloquio tra il prigioniero di Scandicci e il vecchio canonico bavarese che conosce molto bene e ama l’Italia, nel cuore di un’Europa dilaniata dal conflitto, dove si consumano violenze di ogni tipo e milioni di uomini muoiono sui campi di battaglia o patiscono tra i reticolati, grazie alla narrazione sapiente – anche se poco a suo agio con l’intreccio tra discorso indiretto e diretto – di Ubaldo Baldinotti acquista un sapore fiabesco, quasi surreale: Mi fece sedere su una panca e cominciò a domandarmi quanto tempo ero stato al fronte, ed io le dissi che c’ero stato dalla meta 240­­­­

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del mese di Luglio del 1915 fino al 29 ottobre 1917, giorno che fui fatto prigioniero a Gemona del Friuli, mi domandò se qualche volta in certi pericoli e brutti momenti che io avevo passato, mi fosse scappata qualche inprecazione, a questa domanda io dovetti rispondergli, che qualche volta in momenti un po’ critici era si scappata qualche imprecazione, Male ma molto male avete fatto, perché non bisogna mai dubitare circa la bontà di Dio, perché egli non ci abbandona mai, e in qualun[que] situazione che ci troviamo egli vigila, e ci protegge sempre e ovunque [...]; perché se pur come prigioniero, siete a lavorare in una famiglia ed io sò, che vi trattano bene, e quando andate a mangiare mangiate alla stessa tavola, e mangiate lo stesso cibo che mangiano i famigliari, e che mangia il Sig. Freideil, dormite in una cameretta ben pulita e ben riscaldata, e chissà come sarebbe contenta la vostra cara mamma, se potesse vedere come state e come vi trattano [...].

Al rito della confessione segue quello della comunione, in un’atmosfera di commozione e di compiacimento per la fede dimostrata dagli italiani, circondati da una festosa accoglienza dalla comunità, e poi un rinfresco a base di caffè, latte e pane imburrato, alla presenza di ufficiali tedeschi, dove vengono pronunciati altri discorsi sia da parte del canonico, sia da parte di un anziano ufficiale, tutti singolarmente improntati all’esaltazione della fede comune, unico ancoraggio in un mondo segnato dalla violenza della guerra, e al sentimento della fratellanza. Non meno festoso il pranzo di Pasqua nella casa del signor Freideil, con un numero di commensali cresciuto, mazzi di fiori, vassoi pieni di uova (“ma non erano uova sode bianche come si usa da noi, ma erano tutte colorate da svariati colori, e ce n’erano qualcuna anche tutte brizzolate”). La sola angoscia, non attenuata ma anzi acuita dall’atmosfera gioiosa fino a renderla insopportabile, è l’assenza di notizie da casa, che come si è visto non arriveranno se non dopo altri mesi. Lo stesso clima tutt’altro che bellicoso, al contrario improntato a ripetuti auspici di pace, viene registrato dal nostro in più occasioni, come durante la festa e la processione del Corpus Domini, “tutta fatta in preghiere e invocazioni, perché presto 241­­­­

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fosse finita la guerra”. Anche perché – e sono questi i primi accenni al tema nelle memorie di Ubaldo – la Germania comincia a patire le conseguenze del blocco e registra carenze non solo nel campo alimentare: “Principiava a scarseggiare i generi di prima necessità, sia il pane e altri generi, la carne era un genere introvabile, anche come zucchero non ce n’era un gran che, mancavano molti generi di abbigliamento, sia come vestiario, sia per uomo che per donna, e quanto alla biancheria che erano tutti articoli tesserati, che per trovare da comperare dei fazzoletti, e altri articoli intimi era una cosa rarissima, poterne acquistarne uno”. A questo punto, la collocazione presso una famiglia rurale non basta più da sola ad assicurare un tenore di vita così elevato come abbiamo visto. Ubaldo ha la fortuna di ricevere qualche pacco da casa (il primo in agosto) contenente tonno e sardine sott’olio, fichi secchi, pesche sciroppate, sigarette, che egli divide in piccola parte con i compagni di prigionia e nella parte maggiore consegna alla padrona di casa perché le metta a disposizione della comunità. Ma c’è chi è meno fortunato e diventa insofferente. Di qui il primo tentativo di fuga, consumato da un compagno che egli tenta di dissuadere ma poi accompagna a notte fonda per accomiatarsi da lui. E questo gli costa un trasferimento destinato a risultare doloroso perché segna il distacco da una condizione positiva ormai stabile che dura da oltre dieci mesi. In realtà non si allontana che pochi chilometri, e prende sede in una bella fattoria con molti animali (mucche, buoi e cavalli) ma il nuovo padrone è prepotente e pretende da lui prestazioni troppo pesanti, con fare minaccioso. A raccontarci il conflitto che si apre è ancora una volta una prosa vivace, spigliata, piena di colpi di scena, che supera in maniera spavalda il doppio ostacolo del discorso diretto e della lingua tedesca. Il proprietario dove lavoravo non si poteva dire che fosse cattivo, ma aveva dei modi un po’ burberi nel comandare, e pretendeva che io la trinciatura del foraggio, la facesse alla svelta, e faceva 242­­­­

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certi gesti e parlando in tedesco, diceva sempre snel snel se nò io slogan, e mi mostrava i suoi grossi pugni, che tradotto in Italiano significava trincia alla svelta, se nò io ti dò dei pugni. Io a quel brutale sistema non potevo adattarmi, perché dove ero stato prima mi avevano sempre trattato, con modi gentili e con garbo, sopportai qualche giorno, ma una mattina che ormai ero giunto al massimo della sopportazione, a tale inumano trattamento, persi la pazienza feci un salto verso la parete, staccai da questa una falce nuova di quelle che servivano per tagliare l’erba e con questa fregandogliela sul collo dalla parte delle costola, le dissi in tedesco queste parole, se tu slogan io con questa a te Cap Snaider, che significava se tu mi dai un pugno, io con questa ti taglio il capo. Siccome i tedeschi quando a uno vedono che ha in mano, anche piccolo temperino si impressionano, e specialmente a un Italiano, sanno che per maneggiare il coltello siamo maestri. Appena io pronunciai queste parole, il suo viso diventò bianco e principiò a dire lansan lansan che voleva dire piano fai piano, dopo questo incidente mi misi a rapporto.

Assistito dall’intraprendenza e dalla fortuna Ubaldo, dopo aver segnalato che il suo vero mestiere è quello del calzolaio, ottiene di essere trasferito a servizio di un vecchio calzolaio di Monaco che ha chiuso i suoi negozi in città a causa della guerra e vive ora in campagna, dove prosegue il suo lavoro. Gustosa come sempre è la narrazione dell’incontro nel quale tra l’altro egli è sottoposto a una prova per verificare se ha detto la verità sulle sue competenze: andai da questo calzolaio, il quale mi domandò subito tu shuster, che voleva dire tu calzolaio, e per vedere se io avevo detta la verità, mi porse un grembiale mi mostrò un gomitolo di spago, e mi ordinò di fare uno spago, a sei capi o come si dice in Italia di sei fili, presi lo spago ci feci le due regolari punte ingegnandomi di farlo il meglio possibile, lo impeciai bene bene e dopo ci attaccai le due setole, egli lo prese in mano lo guardò, e quindi tirò le setole per vedere se si staccavano, ma queste le avevo attaccate assai bene e rimasero fermamente e fortemente attaccate, allora egli disse gout che voleva dire va bene dicendo che era contento e mi prendeva a lavorare. 243­­­­

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Non possiamo dilungarci oltre in questa narrazione, né seguire in dettaglio le straordinarie pagine in cui Ubaldo mette a confronto il modo tedesco e quello italiano di fare le scarpe, segnalando la superiorità di quest’ultimo e il gradimento di due signore tedesche acquirenti del suo principale, per altrettante paia di scarpe da lui confezionate, “che oltre a essere più leggere risultavano più eleganti di quelle tedesche”. In realtà, la situazione attorno a lui, in una Germania sempre più provata, comincia a farsi critica. Siamo nell’autunno del 1918, e i Tedeschi danno segni di sfiducia, dismettono l’abituale baldanza, appaiono disorientati, affamati, presi dallo sconforto. Per giunta, esplode l’epidemia di febbre Spagnola, e i morti non si contano. Lo stesso Ubaldo si ammala, ma riesce a guarire. In questo clima, la mattina del 5 novembre si apprende dell’armistizio firmato dall’Austria con l’Italia e finalmente, il 12 novembre, arriva la notizia tanto attesa che la guerra è finita. Ubaldo lo registra nel capitolo 87 delle sue memorie: Era la mattina del 12 novembre 1918 ed io benché avesse fatto un discreto miglioramento, avevo ancora qualche po’ di febbre molto bassa, ma avevo poche forze ed ero a letto, quando sentii che nella strada c’erano molte persone che parlavano forte, ma in tono piuttosto allegro, e da una certa distanza mi giunse negli orecchi, un suono di una allegra marcia suonata da una musica e questo festoso suono ogni minuto che passava, aumentava e si avvicinava sempre più. E pensai in quel momento, a me mi sembra che questi tedeschi siano diventati tutti matti, perché sapevo che nei locali dove c’erano o pianoforti o grammofoni, questi erano stati piombati dalla polizia, e guai se uno si fosse azzardato a far funzionare questi strumenti, avrebbe passato dei seri guai. La confusione nella strada aumentava, e il suono della musica ora si distingueva bene perché era assai vicino. A un tratto che quasi mi fece un po’ di paura, vedo spalancarsi l’uscio della cameretta, e di corsa vedo entrare sei o sette tedeschi, e fra questi c’erano anche due donne, che avvicinatosi al letto mi costrinsero a alzarmi, e con fare gioioso e molto allegro, mi informarono dicendomi che la guerra era finita, mi offrirono da bere in uno dei grossi boccali 244­­­­

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che avevano, che loro chiamavano fas, dicendo ora la guerra non cè più siamo tutti camerati, e che i soldati non dovranno più stare in trincea; e data la loro insistenza, io mi alzai e alla svelta mi vestii, mi unii a loro e scesi nella strada e presi parte alla festosa dimostrazione.

A Vienna Anche quando la situazione non è quella relativamente favorevole che abbiamo visto presentarsi nel caso di Ubaldo Baldinotti, non sempre la scrittura dei prigionieri ha l’andamento drammatico di quelle di Colombini e Lorigiola. Le condizioni della detenzione sono in realtà molto diverse secondo i tempi della cattura e i luoghi di internamento e lo stesso vale per le condizioni della scrittura. Pur attraversando momenti assai duri e assistendo a spettacoli degradanti, qualcuno tra i nostri diaristi e memorialisti ha gli strumenti e l’agio di una scrittura meno convulsa, più mediata. Qualcun altro è spinto dalla sua inclinazione a un registro che non è di lamentazione o disperazione, ma assume di volta in volta il tono dell’invettiva, il timbro grottesco e sarcastico. Uno speciale interesse in questo senso presenta il Ricordo della mia prigionia steso dall’imperiese Mario Cassini. Ad attirare la nostra attenzione in questo caso è innanzitutto il supporto. Si tratta di un quaderno a righe di circa cm 20 x 17, con il dorso rilegato in nero e la copertina di colore azzurro, al centro della quale si trova una specie di etichetta bianca, incorniciata di rosso, destinata all’intestazione, recante il nome della cartoleria viennese dove è possibile che l’autore abbia comperato l’oggetto durante la detenzione: “C. Pick, Wien, IL/1, Taborstrasse 10”. È in questo spazio che Cassini scrive il titolo appena citato, facendolo seguire da una datazione: “Vienna 1916-17”, mentre un’annotazione presente nella prima pagina a sinistra dell’interno riporta due diverse date, 1915 e 1918, e di fatto il quaderno si spinge con le sue annotazioni al 1918 e oltre. 245­­­­

In questa e nelle pagine successive  Pagine del diario di prigionia di Mario Cassini, con appunti posteriori alla detenzione ed esercizi di calligrafia, Archivio ligure della scrittura popolare, Genova.

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In quello che può essere considerato il frontespizio, ossia nella prima pagina interna a destra, la formulazione del titolo cambia. Al centro della pagina, in grande e in una grafica con pretese decorative, troviamo scritto: “Pout-Pourì della mia Prigionia”. La scritta è preceduta e seguita dalla frase – quasi una traduzione – “Umpo di tutto della mia prigionia”, scritta in carattere corsivo più piccolo. Più in basso ancora si trova l’indicazione abbreviata “Vienna Bei Breitenlee Leopoldan” che fa riferimento a due delle località nelle quali Cassini fu detenuto, entrambe comprese nell’area viennese (per la verità non sono riuscito a trovare nella toponomastica austriaca una località denominata “Leopoldan”, semmai una denominata “Leopoldstadt”, distretto viennese nel quale tra l’altro si trova la Taborstrasse della cartoleria). Le caratteristiche del supporto come quelle dell’intestazione lasciano intravedere non una scrittura dettata dall’emergenza e dall’urgenza di condizioni estreme ma un vero e proprio progetto compositivo e forse la ricerca di un’occasione di distrazione, di evasione almeno col pensiero dalla quotidianità coatta. Si intuisce che a un certo punto della sua prigionia Cassini ha deciso di mettere per iscritto l’esperienza vissuta e ancora in corso, si è procurato a tale scopo un quaderno, ha compilato una copertina e un frontespizio e ha poi cominciato a stendere il suo testo. L’esordio offre qualche indizio sulla data di tali operazioni, indica con chiarezza e con una certa solennità i propositi coltivati, ossia la motivazione della scrittura, il suo intento memorialistico e testimoniale: Sto compiendo il 14° mese di questa mia vita collegiale, dopo aver passato tanti guai nelle lunghe giornate del scorso estate e nelle più lunghe ancora del rigido inverno, mai hò pensato di radunare una serie di questi indimenticabili momenti, solo adesso hò deciso di ricordare una collezione di episodi i quali presi dal vero dove assistetti di mia presenza e dove toccai di mia pelle. Questo disgraziato foglio il quale ci [parola illeggibile] queste righe di dolore, mi rincresce [dispiace] che sia carta straccio vorrei che fosse carta pecora che non avesse tanto a lacerarsi. 246­­­­

Prigionieri

Naturalmente quando un giorno sarò nel mio ridente paese non vorrò più ricordarmi di questa angoscie che stò ora passando, ed i miei figli potranno leggere con giudizio la mia vita, così potranno odiare maledire e vendicare quanto soffre suo padre [.] Del poco e debole cervello che mi è rimasto per le peripezie passate (cioe: fame, freddo, pidocchi, calciate di fucile, e bastonate) ricordo ciò che nessun scrittore nessun chiaravalle a mai usato [osato] a descrivere, hà mai pensato a ciò che avrebbe potuto passare un italiano prigioniero in’Austria. Voi hò legitori: non state a dar del matto a chi scrisse queste righe, piuttosto pensate che le parole che dice un prigioniero sono alquanto [altrettanto] preziose di quelle che stà dicendo un padre quando muore assistito dai suoi figli. La storia d’Italia ricorda le cinque giornate di Milano, io ricordo le otto giornate di Trento dove là provai la disperata fame.

Poiché sappiamo, come scrive lui stesso in un’altra pagina, che la sua cattura avvenne in Trentino il 16 maggio del 1916 durante la cosiddetta Strafexpedition, l’accenno al compimento del quattordicesimo mese di vita in cattività suggerisce che il momento nel quale Cassini comincia a scrivere cade intorno al luglio del 1917. Ciò è confermato da un’altra circostanza, ossia dal cambiamento sostanziale della tipologia testuale proprio in coincidenza con l’estate di quell’anno. Fino a quel momento la natura dominante del testo è di tipo memorialistico: consiste nella sistemazione della sua esperienza pregressa, disposta in un ordine che intreccia il criterio cronologico con quello tematico. Il testo è diviso in capitoletti che seguono il corso degli avvenimenti evidenziando spesso un episodio o un tema (per esempio Il palo terribile, Natale ed i panettoni, La visita medica), altre volte un luogo (Sigmundesberg, che sta per Sigmundsherberg). Ma nel luglio del 1917, pur senza un mutamento evidente di articolazione e di ritmo narrativo, senza abbandonare la suddivisione in capitoli, il testo assume abbastanza chiaramente un carattere diaristico, caratterizzato dal tempo presente anche se non cadenzato in annotazioni effettivamente giornaliere: intrecciati 247­­­­

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a quelli tematici, alcuni capitoli usano come titolo date in successione (22 luglio 1917, Otto Settembre, Nove Settembre) e numerosi si fanno i rinvii espliciti all’attualità come “Siamo al 20 agosto”, oppure “Oggi 2 settembre”. L’esordio non lascia dubbi sui propositi dell’impegno a cui si accinge e sullo stato d’animo con cui l’affronta. Le esperienze appena trascorse sono state per lui molto dure, superiori a ogni immaginazione e al limite dell’incredibile: nessuno scrittore o cantastorie potrebbe inventarne di tanto estreme, mentre lui le ha vissute sulla propria pelle. Per questo preferirà dimenticarle o meglio rimuoverle una volta tornato a casa. Nondimeno egli desidera che ne rimanga traccia a monito dei posteri, a cominciare dai figli, perché possano conoscere la sua tragica vicenda, risarcendolo in qualche modo delle sue sofferenze. La trasposizione della memoria nella scrittura viene insomma invocata come un modo per liberarsene conservandola, conferendole una durata, quasi scolpendola e rendendola indelebile. Egli vorrebbe perciò che le pagine del quaderno non fossero di carta povera e deperibile, ma di più tenace cartapecora o pergamena, così da resistere al tempo. Infatti, a suo dire, esse appartengono in qualche modo alla guerra grande e quindi alla grande storia: le sue “otto giornate di Trento” (quelle in cui ha patito la fame subito dopo la cattura) sono, nella sua storia personale, come le cinque giornate di Milano nella storia nazionale. Tutto questo ci fa capire quale sia il piglio narrativo dell’autore, ben deciso a colpire il lettore attirando la sua attenzione sui momenti più significativi, più drammatici o grotteschi dell’esperienza appena lasciata alle spalle, e poi di quella che si dipana via via nel suo vissuto di prigioniero. L’articolazione del testo in capitoli risponde forse a questo intento didascalico. In questa impresa Cassini, pur rivelando i limiti del suo percorso di scolarizzazione (che probabilmente non ha superato la terza elementare) e discostandosi dunque, per molti aspetti, dagli standard dell’italiano scritto, dispiega doti di grande efficacia comunicativa, facendo spesso ricorso 248­­­­

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a similitudini, a un linguaggio immaginoso, talvolta sentenzioso, talvolta pietoso, non di rado estremamente crudo. Prima di darne qualche esempio, dobbiamo ricordare brevemente chi è il nostro protagonista e delinearne il percorso. Nato a Isolabona, un piccolo comune in provincia di Imperia, nel 1885, morto nel 1963, padre di quattro figli, appartenente a una famiglia di agricoltori e artigiani (il nonno era falegname e costruttore di mobili intarsiati, arte che anche Mario ha appreso), fisicamente robusto, suonatore, si arruola volontario entrando a far parte della fanfara di una divisione di fanteria e viene destinato al fronte del Trentino. Ma la sua esperienza bellica dura pochi mesi. Catturato come si è detto nel maggio del 1916, rinchiuso in recinti improvvisati di filo spinato, viene poi caricato su un treno e condotto a Sigmund­ sherberg, uno dei campi di prigionia austriaci più grandi, più noti e logisticamente più importanti, originariamente costruito per accogliere i prigionieri russi, ma dal 1916 destinato agli Italiani. Di qui viene trasferito in una località che egli chiama “Vienna-Leopoldan”, e successivamente in un’altra località, situata a otto chilometri di distanza, che denomina, correttamente, “Breitenlee-Vienna”, dove trascorrerà il resto della sua lunga cattività. Qui, nell’autunno del 1917 vede arrivare un contingente di Italiani catturati nello sfondamento di Caporetto, affronta un altro inverno reso più duro dall’ingorgo del centro di smistamento della posta e dei pacchi, situato appunto a Sigmundsherberg, fino alla conclusione della guerra e al ritorno a casa. Di quest’ultima parte della sua esperienza, però, nulla sappiamo dalle sue pagine, perché il resoconto degli avvenimenti si interrompe improvvisamente, senza una spiegazione, in una data imprecisata del 1918 (l’ultima esplicitamente indicata è il 22 aprile di quell’anno). Evidentemente a un certo punto Mario Cassini ha perso interesse alla registrazione della sua esperienza o forse è stato distratto e impegnato da altre occupazioni. La parte finale del quaderno, usata a pagine rovesciate, è occupata da altre scritture occasionali che non sappiamo quando siano state 249­­­­

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compilate: poesie, esercizi di calligrafia, elenchi di proverbi, conti e operazioni aritmetiche, passatempi come il conteggio dei minuti di durata della guerra fino a quel momento, un dizionario italiano-tedesco (che comincia da “Io ho = Ich habe” e prosegue per circa 10 pagine), appunti di incerta origine sulle condizioni presenti in istituti per poveri, in uno scenario che sembra quello dell’Austria postbellica. Una scritta “Mussolini Benito capo del governo” e una data “Isolabona 21 dicembre 1924” fanno pensare che il quaderno abbia continuato a essere preso in mano dal nostro protagonista, ogni tanto, anche dopo il ritorno, fino appunto alla metà degli anni Venti, prima di finire in un cassetto. La narrazione di Cassini comincia dalla cattura e subito egli mette in evidenza le sue doti di osservatore impietoso, capace di offrire descrizioni forti e aspre, di trasmettere un senso pieno della corporeità, ricorrendo a similitudini spesso tratte dal mondo animale: “Si trovavamo là circa 25 mila prigionieri – scrive nell’esordio subito dopo la parte già citata – fatti in quattro hò cinque giorni, gniente c’era di preparato solo grandi gabbie di filo di ferro spinoso dove in ognuna di esse stavamo 500. Il rancio una volta al giorno. All’avvicinarsi di questo somigliavamo iene in un serraglio quando vedono in mano al domatore un pezzo di carnaccia di vecchio asino che dopo se la divorano rabbiosamente”. Di giorno, sotto il sole di maggio, i prigionieri restano sdraiati al suolo “come tante lucertole”, ma la notte passata all’addiaccio è rigida: “Alla mattina si trovavamo a gruppi come tante nidiate di topi coperti di brina stretti stretti senza essersi mai conosciuti. Chi aveva la mantella per coprirsi e chi era vestito in tela figuratevi con quella pancia vuota come si dormiva bene. Il 6° e il 7° giorno avevamo già il mento aquto ed il naso affilato per il combattere questi tre nemici cioè: caldo, freddo e fame”. Non è che l’inizio traumatico di un’odissea che durerà oltre due anni e durante la quale ne patirà e ne vedrà di ogni tipo. Condotto a Sigmundsherberg e poi nelle successive destinazioni, egli descrive spettacoli di miseria e degradazione. Il tema 250­­­­

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dominante è, come sempre, la fame, che dà luogo a scene grottesche e pietose, a condizioni ripugnanti, a forme di abbrutimento difficili da credere. A colpirlo è subito l’attesa docile e insieme spasmodica del pane, nelle modeste distribuzioni giornaliere: “Quando la corvè si vedeva da lontano – dice parlando di Sigmundsherberg – che portava questo pane si radunavamo tutti sulla porta della baracca come ragazzini dicendo arriva il pane come se in’alto mare avessimo veduto un bastimento che dovesse portare un genitore”. Altre volte usa immagini diverse, ugualmente ironiche, per segnalare questo atteggiamento di attesa paziente, rassegnata: “Per prendere questa mezza pagnotta – segnala quando è ormai a Leopoldstadt, riferendosi all’acquisto di pane a uno spaccio – bisognava mettersi in riga per uno senza fare confusione, certi stavano lì un paio d’ore perché qualche ora prima dell’apertura il fante era già pronto con il denaro contato come se avesse dovuto prendere il biglietto per l’Italia”. Malgrado questo, alcuni rimangono senza razione, e per loro il tascapane diventa “tascafame”. Subito dopo la conquista della pagnotta, avviene il rito della suddivisione, che abbiamo già visto segnalato da altri memorialisti e che nel caso di Sigmundsherberg è fatta in due parti. Vengono messi in atto speciali accorgimenti, per evitare la minima disparità: “Dopo la distribuzione uno tagliava l’altro sceglieva chi tagliava faceva le parti uguali, perché se da una parte era più grossa a questo non ci rimaneva di certo”. Più avanti la situazione peggiorerà, e le pagnotte distribuite cominceranno a essere suddivise in parti sempre più numerose e sempre più piccole, com’è ben noto da tutta la letteratura sulla prigionia. Anche Cassini ce ne offre qualche saggio. Nel luglio del 1917 scrive: “Per miglior sollievo ancora ieri sera [...] sono usciti con un’altra improvvisata, invece dividersi una pagnotta in quattro come al solito ce ne diedero due, ma in undici uomini, cioè neanche un quinto di pane a testa”. E più avanti ancora, nel terribile autunno inverno del 1917-1918, racconta così la sua lotta per la sopravvivenza: “Credetemi che m’ero fatto brutto: la giubba m’era venuta 251­­­­

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assai comoda ed anche il beretto, non c’era mezzo di potersi sfamare; ed ogni tanto invece del quarto di pane avevamo il quinto ed abbiamo anche avuto parecchie volte l’ottavo, cioè a dividersi una pagnotta di Kg. 1400 [1,400] in otto che sarebbero 175 grammi di pane a testa”. Accanto alle razioni distribuite, in qualche periodo soccorrono i pacchi ricevuti da casa, gli acquisti allo spaccio, gli scambi. Torme di uomini imploranti si aggirano nei campi alla ricerca di una tra le soluzioni possibili ai morsi della fame. A Breitenlee, dove la situazione è peggiore che a Leopoldstadt, descrive così il ritorno dal lavoro e l’accalcarsi attorno alle cucine: Tornando poi alla sera dopo il lavoro in quel paludoso accampamento non solo con tutta sete, ma anche con un po’ di fame si corre alla cucina per prendere il rancio, si domanda: che si mangia stasera? Un fante di un’altra baracca che da qualche momento era lì in’attesa di prendere quel magro cibo tremante dal freddo, scarpe rotte testa influpata [avviluppata] di stracci (e come questo erano moltissimi) ci risponde rape! malinconicamente senza più ripeterlo, e difatti si passa l’un dietro l’altro prendendo un mescolo d’acqua con dentro quattro ho cinque fette di rapa bollita senza sale. Sulla porta della cucina ci stavano diversi prigionieri i quali [...] stavano tutto il tempo della distribuzione del rancio ossia più d’un’ora. dalla fame erano dimagriti e deperiti e con voce debole pietosa e languente esclamavano: chi lo vende! chi lo vende! offrendo trenta quaranta centesimi. Quelli erano quadri pietosi, chi non ha visto non può credere; dicevo fra me: Morir non si morirà, ma patimenti in quantità. Dopo avevamo a dividere una pagnotta di un Kg. e mezzo di pane in quattro soldati. Questo pane ancora adesso non possiamo sapere se sia ne di farina di fave ne di ceci ne torso di grano turco soltanto che era nero e non aveva nessun gusto. Malgrado questo, la pagnotta non era ancora divisa che per le baracche giravano già i compratori. chi vende il quarto! Chi vende il quarto!; certe volte lo trovavano, ma certe volte non avevano nessuna risposta e questi s’allontanavano e la sua voce in quelle tuguriose baracche si perdeva come quella di un malato abbandonato. chi vende il quarto! 252­­­­

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La quantità scarsa e la qualità scadente dei viveri circolanti bene o male nei diversi periodi della reclusione sono argomento ricorrente nelle pagine del nostro falegname imperiese. Le rape sono spesso marce, i cavoli puzzolenti e così le aringhe e la carne di cavallo che qualche volta entra nel vitto. “Due volte alla settimana alla mattina prima del pane davano ad ognuno un’aringa – siamo a Sigmundsherberg –, subito se la divoravamo testa e coda senza badare se odorasse ne se puzzasse e senza accorgersi se fosse ne maschio ne femmina”. Del baccalà, cotto senza sale e senza grasso, dice che “è come a mangiar del legno, oltre a questo qualche volta e guasto, vermi ecc.”. Più cattivi erano i cavoli in conserva – annota parlando di Leopoldstadt – dove ne abbiamo mangiato per qualche mese di seguito senza mangiare altro. Avevano un certo puzzo come quando si sventra una bestia, tante volte anche con la fame non li mangiavo, qualche volta fra le altre la fame mi costrinse e mi piegavo, però tenendo la gavetta a braccio teso per non odorarli senò non l’avrei potuto mangiare, molti si sforzarono, ma il suo ventricolo si ribellò e subito buttarono fuori.

Impossibile poi trangugiare il trifoglio macinato, come capita a Breitenlee: Alla sera poi? Fieno! Cioè trifoglio macinato. Posso accertarvi o miei carissimi che da poi che fanno questo spezatino cioè da qualche quindicina di giorni, nessun dei quattromila fanti ha ancora sporcato la gavetta. V’assicuro che tanto ne fanno tanto ne buttano via. Gli austriaci hanno una forte spazzola, ma questo non lo mangiano, e neanche lo mangia i suoi maiali che tengono nella stalla hai quali ce l’hanno provato, s’avvicinarono a questo, ed appena odorato ci voltarono il didietro.

La fame assoluta genera comportamenti compulsivi sconsiderati, che possono condurre alla morte. Così accade nel periodo della prima detenzione a Sigmundsherberg: 253­­­­

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Chi mangiava erba e chi mangiava ciò che trovava. Anch’io gli occhi mi guidarono nella mondizia che gettavano i cucinieri a ricercar residui e guscie di patata per sfamarmi, ma un po’ di buon senso mi disse che questo non mi avrebbe salvato e le buttai. Però sett’otto non seppero fermarsi di mangiare patate crude e erba morirono; i dottori ci fecero l’utomia [l’autopsia?] e non ci trovarono altro che quel crudo vegetale e costatarono il caso per via di questo, il suo corpo indebolito e deperito non potè digerire e poveretti finirono i suoi giorni.

Altre volte sono gli eccessi di cibo, quando se ne offre all’improvviso l’occasione insperata, a mettere a rischio la salute e la stessa vita, come aveva già segnalato Colombini. È quanto capita al nostro Cassini quando, con un gruppo di compagni, riesce a conquistarsi un chilo di riso pagandolo 25 corone, lo cucina e ne mangia in abbondanza: “La razione era abbondante, quasi una gavetta, se fossi stato in buone condizioni non sarebbe stato troppo, ma con lo stomaco deperito come avevo questo mi fece male e stetti male per una settimana”. Ma a qualcuno va anche peggio: sono i prigionieri arrivati a Breitenlee dopo Caporetto, di cui diremo, in preda a una fame disperata, che appena ricevono i primi pacchi da casa dopo quattro mesi di semidigiuno, si riempiono di pane fino a morirne. Il resoconto di Cassini qui diventa agghiacciante: Essendo questi così vuoti e affamati non seppero regolarsi a mangiare questo pane, lo vollero mangiar tutto per levarsi una buona volta la fame, ma questo pane fu la morte di diversi. Appena mangiato ci prese la sete, si misero a bere acqua e dentro questo pane si gonfiò e ci venne la pancia come ad una donna, furono portati all’infermeria, ma non ci fu nessun rimedio, subito messi in barella per portarli all’ospedale, ma strada facendo morirono.

Un altro caso dagli esiti letali è quello riferito poco più avanti con dettagli orribili. Alcuni prigionieri tentano di sfamarsi con un preparato somministrato ai cavalli, a base di torsoli di granturco, paglia e canne, pressato e trasformato 254­­­­

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in tavolette, che secondo Cassini venivano chiamate “pane di Simmering”, dal nome di una località vicina a Vienna dove i prigionieri si recavano a lavorare e dove questo alimento viene rubato: “Portando dunque in baracca di questo non so ché qualche d’uno ne mangiò come se fosse stato pane buono, ma tutto al contrario, è come se avessero mangiato del cemento, questo dentro si asciugò e non poté più andare ne avanti ne indietro. Furono portati all’infermeria, e per il didietro il dottore con dei rampini di ferro provò ad estrarre qualche cosa, ma tutto fu inutile, e dopo aver lottato per qualche giorno con atroci dolori questi morirono”. Benché a tratti ironiche o sarcastiche, le pagine del nostro memorialista sono dominate da un senso inesauribile di degrado. Partecipe della miseria comune, grazie forse alla fortuna di ricevere abbastanza regolarmente pacchi da casa (tranne in certi periodi), Mario né è insieme testimone implacabile, che raramente cede all’autocommiserazione, più spesso manifesta denuncia morale, desolazione e ripugnanza. A Sigmundsherberg nota che alcuni prigionieri pur di non rinunciare al miserabile rancio, usano le scarpe al posto delle gavette, non avendone ancora ricevute in dotazione. A colpirlo è poi lo stato pietoso dei Serbi incontrati a Leopoldstadt, di cui gli Italiani come lui prendono il posto, logorati e inebetiti da una prigionia già lunga: “Che spettacolo! Noi eravamo prigionieri da un mese, e loro erano da un anno, avevano scarpe rotte, soccoli [zoccoli] fatti da loro i piedi fasciati con stracci, giubbe e pantaloni rapezzati con sacchi, con coperte, barbe lunghe sporchi all’eccesso; questi ormai ci avean già fatto il callo si erano già rassegnati a quella vita da cani e tranquilli e sorridenti passavano salutandoci. Italiani; italiani”. La situazione igienica e sanitaria è messa in evidenza e aggravata dagli avvicendamenti di migliaia di uomini delle diverse nazionalità. Prendendo posto nelle baracche e nei giacigli che i Serbi hanno appena lasciato liberi, i nuovi arrivati avvertono un tanfo insopportabile: “Entriamo in queste baracche somigliò di entrare in un canile; un tanfo che affogava, io dissi 255­­­­

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subito: Che puzza di Serbi! Questa parola rimase a tutti nella mente e per un po’ di tempo che si entrava in baracca ognun diceva: che puzza di serbi! Riprendiamo i suoi letti cioè i suoi lordi pagliericci che da un anno quella poca paglia la stavano lacerando, quelle cenciose coperte che forse anche quelle avranno fatto le battaglie del 49”. Sono come stalle, dentro le quali i nuovi prigionieri vengono sospinti in malo modo: “insomma era come ad aver messo un asino in una stalla, che dopo averci dato un calcio in culo ci chiudono la porta dicendoci: state lì somari”. Alle crudeltà, al cinismo e alle bassezze dei carcerieri Mario Cassini dedica numerosi passi. Quando possono estorcono ai prigionieri, in cambio di poco pane, gli oggetti preziosi che qualcuno di loro è riuscito a conservare. “Il fante per un pezzo di pane offriva fascie, portafogli, mantelle [...] rasoi anelli orologi e catene d’oro, e questi approfittavano, oggetti del valore di venti trenta lire per mezza pagnotta” (capitolo Il monte di pietà). A Breitenlee se i prigionieri si fanno trovare in baracca mezz’ora dopo la sveglia, le sentinelle fanno irruzione “come quando entra una volpe in un pollaio, battevano senza pietà, non riconoscevano ne scalzi ne malati ne altro. Raus. raus”. Le ispezioni sono frequenti, ed eseguite con modi aggressivi. Frequenti anche le punizioni, tra cui non manca il famigerato palo, di cui Cassini dà una descrizione accurata, con una rappresentazione della crudeltà austriaca degna dell’iconografia relativa all’uccisione di Cesare Battisti che egli quasi certamente non conosceva. La disciplina era all’estremo. Qualunque piccola mancanza d’un soldato che un caporale avesse fatto rapporto questo veniva messo al palo, uno che avesse preso un oggetto da un compagno, ho fatto questione fra di loro, o risposto ad un caporale lostesso al palo. A questi soldati ci legavano le mani di dietro, e per mezzo di una corda legata alle braccia facendola poi passare in un anello fisso nel palo all’altezza di tre metri li sospendevano da toccare appena appena della punta dei piedi per terra. La condanna era di due ore, e giornalmente ce n’erano diversi, poveretti facevano pietà 256­­­­

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soffrivano assai e per loro quelle due ore erano assai lunghe. Andavo sovente a curiosare, e qualche d’uno c’era sempre, facevano la figura d’un impiccato. Questi erano quadri pietosi, chi non ha visto non può immaginare. Gli austriaci gioivano al vedere sovente qualche italiano a quelle torture a quelle atrocità passeggiavano davanti con il suo sigaro alla bocca con una superbia come domatori di belve feroci (capitolo Il palo terribile).

Detto ciò, egli non manca di riconoscere – a tratti con un certo compiacimento – che anche la situazione degli Austriaci è tutt’altro che rosea e che peggiora col tempo. Ciò vale sia per i militari guardiani dei campi sia per la popolazione civile. Capitando in qualche occasione per servizio nel centro di Vienna, nota le code di donne e ragazzi ai negozi di alimentari, disciplinate da guardie armate di bastone, e la mancanza di certe merci: “ne uova ne polli ne pesci, gniente di buono solo un’infinità di rape e cavoli”, di cui peraltro ammira la varietà. A questo tema dedica un intero capitoletto, intitolandolo Gli Austriaci e la loro cinghia, che comincia così: Mi rallegro che non solo noi fummo colpiti da questa orribile sventura, ma anche borghesi e soldati austriaci si vedono spesse volte dar sguardi a bocca aperta nell’immenso vuoto del cielo senza vedere ciò che vogliono guardare, e guardare ciò che non possono vedere. Quest’inverno a Vienna morivano di fame, ed ora più che mai continuano, malgrado rape e cavoli non riescono a sfamarsi. Le macellerie sono discretamente guarnite, ma la carne costa quindici corone al chilo e la povera gente si accontenta di guardarla, ogni altra cosa si compera con la marca quando c’è e quando non c’è fanno passare un [parola illeggibile] Noi tiriamo la cinghia, loro ne tirano due, oltre a quella dei pantaloni tirano anche quella della giberna che è più larga e più spessa e con due cinghie stanno dritti. Sul lavoro durante la nostra sorveglianza le sentinelle si fanno cuocere dell’erba e per rancio hanno cavoli in conserva [...].

Detenuti e detentori sembrano così accumunati da una sorte simile se non identica, e questi ultimi arrivano a guar257­­­­

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dare con invidia i primi quando ricevono dei pacchi da casa. In questi casi si vedono soldati austriaci aggirarsi tra i fortunati prigionieri a cercare di comprare qualcosa, ma spesso ottengono dei rifiuti. La miseria che la guerra ha portato nel cuore dell’Europa appiattisce verso il basso le condizioni e rende partecipe la gran massa della popolazione di esperienze analoghe, anche se i gradi della sofferenza e del degrado restano diversi. Certo nei campi ad ammalarsi e a morire sono generalmente i detenuti. Gli ospedali – pochi, con pochi medici e pochi mezzi – non offrono un reale presidio. La visita per essere esentati dal lavoro a causa di infermità richiede lunghissime attese, e spesso i malanni non vengono riconosciuti. “Quest’inverno – racconta il nostro – un prigioniero era di piantone. Durante il giorno si sentiva poco bene alla sera andò alla visita medica, questo non avendo febbre non fu riconosciuto e se n’andò in baracca. La mattina seguente il poveretto giaceva disteso sul suo pagliericcio involto nella sua coperta addormentato nel sogno eterno”. Ma non mancano casi tra i carcerieri: “una notte mentre gli austriaci andarono a dar il cambio alle sentinelle in una garitta ne trovarono pure una addormentata nel più profondo dell’eternità. Era morto dal freddo e dalla fame”. Anche per loro la disciplina è spesso spietata: “Una sentinella si rifiutò di montar di guardia, perché oltre il freddo aveva fame, ci fu dato 16 giorni di carcere duro, cioe un giorno mangiava e l’altro gnente, e il giorno che non mangiava nulla lo mettevano ai ferri” (capitolo La visita medica). Il gelo miete vittime nei terribili inverni. “Durante il lavoro spesse volte qualche d’uno cadeva duro come un bastone dal freddo” segnala Cassini a proposito dell’inverno 1916, quando la temperatura a Breitenlee raggiunge i 26 gradi sotto lo zero. L’inesauribile vena testimoniale dello scrivente ci trasmette una quantità di informazioni di prima mano, non tutte improntate alla desolazione. Nei campi ci sono anche momenti di svago, come la letteratura storiografica e la memorialistica edita ci hanno segnalato. Ad esempio si formano bande musi258­­­­

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cali, un tema al quale il nostro è particolarmente sensibile date le sue attitudini. Eccolo dunque riferire nei dettagli, sempre a proposito di Breitenlee: “Al centro di questo accampamento v’è un chiosco dove ogni domenica la nostra musica ci svolge il suo programma. Questa musica è composta da 25 musicanti fra i quali le prime parti posso assicurare che sono artisti, cioè Cornetta Trombone Violino Flauto, il maestro è siciliano ed è molto capace. Eseguiscono anche pezzi ossia Trovatore, Fedora, Tosca ecc.”. Il problema è però la lunghezza del tempo che trascorre, per una guerra che non sembra avere fine. Lo nota, con un tono sarcastico, Cassini, osservando che – a differenza di altri generi – la produzione delle zucche come quella dei proiettili appare ininterrotta. Dopo aver lamentato la quantità di zucche che vengono somministrate ai prigionieri, scrive in data 2 agosto 1917: “Ma che siamo! Maiali? Non sanno più che cosa farci mangiare? Dicono che quest’anno la guerra deve finire, ma come fa a finire? Fin tanto che abbiamo ferro da far proiettili la guerra non finisce, perché il vegetale non ci manca”. Il sentimento della durata estenuante dell’esperienza concentrazionaria si manifesta a volte in termini molto efficaci. Gli inverni si succedono alle estati. La prigionia cessa di essere un episodio per diventare una condizione che appare permanente. Nei campi qualcuno muore, tutti invecchiano: “Sacchresce la miseria moltiplicano i malanni, fra la moltitudine qualche d’uno fa caput a chi s’arruga il viso a chi fa i capelli bianchi, i giornali danno poco sollievo si parla di grandi combattimenti e nello stesso tempo di preparazione invernale. Se penso all’inverno tremo già fin d’adesso”. A differenza di altri diaristi presi da momenti di disperazione, questo autore riconosce tuttavia che essere prigioniero è sempre meglio che essere in trincea: “peggio sarebbe se fossimo in trincea”. Al memoriale di Cassini dobbiamo infine uno dei ritratti più drammatici dei “vinti di Caporetto”, i quali giungono nel campo dove lui è ormai un veterano nel novembre del 1917. Di questo tema parla solo nell’aprile del 1918, quando 259­­­­

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riprende a scrivere dopo una lunga interruzione invernale, alla quale forse non è estranea proprio l’emergenza segnata dal flusso straordinario di prigionieri italiani dopo la disfatta. Non casualmente l’argomento entra nel racconto a proposito dell’eccezionale mortalità dell’inverno appena trascorso: Quest’inverno per i prigionieri di Breitenlee fu una vera strage; non tanto per noi anziani, ma più per quei fatti prigionieri nel mese d’Ottobre u.s. è una cosa indescrivibile. Dovete sapere che nel Novembre dietro alla disfatta d’Ottobre sul fronte Italiano, cessò per noi i pacchi e stettimo a riceverli sino il 2 Febbraio cioè quattro mesi senza pacchi, non perché stettero quattro mesi senza spedire, ma fù questo gran ritardo per la nuova censura che passano a Sigmunserb [Sigmundsherberg], dove si trovò accumulato più d’un milione di pacchi, e per distribuire questi per ogni piccolo accampamento che da Sigmundserb dipendono e che sono il N. di [...] ci andò del tempo. In questo frattempo anche le rape furono [...] benché non fossero troppo buone, fu per tutti una gran lotta dove giudicai per noi la fine.

Ma è qualche pagina più avanti che si concentra sulla condizione miserevole dei nuovi arrivati riepilogandone il cammino, quello che abbiamo visto altre volte illustrato da alcuni tra i diretti protagonisti della vicenda. La descrizione è tanto più significativa in quanto è compiuta da uno che è anche lui prigioniero, che condivide la stessa congiuntura particolarmente difficile benché abbia avuto il tempo di elaborare strategie di sopravvivenza, essendo oltretutto stato catturato alla vigilia dell’estate. Ciò conferma che tutti gli elementi negativi della cattura e della detenzione vengono esasperati dal carattere massivo della disfatta di Caporetto: Parlando dei prigionieri fatti in Ottobre è una cosa indescrivibile. Appena fatti prigioniere stettero quattro ho cinque giorni senza mangiare, dormire sotto le nubi. Arrivarono qui a Breitenlee 500 nel mese di Novembre. Non s’avevano più fatto rader barba e neanche lavato la faccia non avevano che pelle e ossa e pidocchi, 260­­­­

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erano come ombre pallidi come l’erba, non potevano reggersi in piedi e cadevano a bocconi erano a dirittura cadaveri ambulanti. Ebbero di buono che l’inverno non fù rigido come l’anno scorso senò non n’avrebbe campato nessuno, però malgrado il dolce inverno rimasero lo stesso decimati. Questi avrebbero avuto bisogno di un po di cura, ho almeno un rancio un po’ sostanzioso, ma anche per loro furono rape.

Poi si sofferma sulle loro attitudini fameliche, sulla loro regressione animale, e anche in questo caso colpisce che le annotazioni vengano da uno che ha già da tempo ben conosciuto la vita dei campi di prigionia con tutte le sue durezze. È come se i reduci di Caporetto portassero su di sé un sovrappiù di degradazione, e andassero ad occupare la scala più bassa nella gerarchia della deprivazione: Ogni giorno marcavano visita da 20 a 30 tutti per debolezza, il dottore ci ordinava pacchi dall’Italia e con questo erano medicati ecc. In quel frattempo al giorno oltre le rape avevamo un’aringa, e spesse volte una in due. uscendo [noi] dalla cucina con quel pesce in mano questi nuovi ci davano l’assalto, e ci prendevano l’aringa dalle mani, del resto ce l’avessimo [gliel’avremmo] data lo stesso. Qualche d’uno di noi aveva sempre qualche po di pasta o riso da cucinare, sapete questi nuovi che cucinavano? Teste d’aringhe e buccie di patata, tutta roba che raccoglievano nella mondizia. Per la sua debolezza e fame, il freddo da dosso non se lo poterono levare, e per stare sempre vicini al fuoco avevano tutti il cappotto bruciacchiato strappati sporchi all’eccesso, non si curavano neanche di soffiarsi il naso non erano più uomini, non appartenevano più al consorzio umano erano addirittura bestie.

Osservatore attento, Cassini coglie nella composizione e nella fisionomia di queste truppe anche gli effetti di un reclutamento residuale affrettato, non più selettivo, che si è affermato col prolungarsi del conflitto e si è accentuato proprio nel terribile 1917. Sono le “energie umane di scarto”, rese indispensabili dal consumo di uomini che la guerra grande ha determinato: 261­­­­

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Una buona parte di questi erano di 3a categoria, riformati e fatti abili dopo diverse chiamate, certi non meritavano neanche il vestito che avevano in dosso. Ve n’erano molti usciti d’in galera con 15 o 20 anni di carcere, v’assicuro che questi erano buoni a tutto. Si diedero a rubare, ogni momento sfondavano la baracca 23 per prendere le rape. Quando i qucinieri portavano la spesa questi li assalivano, non se li potevano distaccare era un vero cinematografo. Ebbero persin il coraggio di andare a rubare barili intieri d’aringhe nel magazzino che si trova fra le baracche degli austriaci. Ad entrare nelle sue baracche si sente puzza d’aringa come a mettere la testa in un barile, ed al pari ne puzzano loro perché ne hanno sempre le tasche impiastrate.

Reti epistolari, reti assistenziali Fin qui abbiamo esaminato taccuini e quaderni più o meno strutturati contenenti diari e memorie di prigionia, appartenuti a protagonisti che ebbero la fortuna di tornare e di portare con sé le loro scritture, o di cui tornarono solo queste ultime. Di numerosi prigionieri, tornati e non tornati, ci rimangono altri testi, quelli epistolari, a cui pressoché tutti dovettero far ricorso per comunicare coi parenti che avevano perso le loro tracce dal momento della cattura. Sono le lettere che passarono nelle mani attente e curiose di Spitzer, si dispersero a stralci nelle pagine a stampa del suo testo dedicato alle Lettere di prigionieri di guerra italiani, qualche volta finirono nelle maglie della censura italiana – e quindi negli archivi pubblici in originale o in trascrizioni parziali – perché contenevano manifestazioni di risentimento antipatriottico, espressioni di aspirazione alla salvezza senza preoccupazioni per la vittoria, lamentele contro il governo, sentimenti di estraneità nei confronti di un conflitto senza gloria che li aveva gettati in una condizione miserabile e inspiegabile, forse senza ritorno. O le altre che giunsero, sia pure con ritardi talvolta enormi, alle rispettive case. Ed è lì, negli archivi privati – oltreché sui banchi dei rigattieri o nei negozi dei filatelici frequentati da collezionisti –, che si vanno da tempo recuperando, come il resto degli epistolari di guerra dei soldati. 262­­­­

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A differenza delle scritture diaristiche e memorialistiche, stese nella presunzione di poterne preservare la riservatezza e quindi con una certa libertà, quelle epistolari sono scritture altamente disciplinate, generalmente costrette nei limiti di uno spazio grafico predefinito in ogni sua parte, non solo quella destinata al mittente e al destinatario, ma anche quella riservata al testo, scandito da un numero limitato di righe (quindici, numerate), con l’intimazione anch’essa stampata a non scrivere in interlinea. Per giunta, sono esposte al controllo di due censure, in partenza e in arrivo, cosa che gli scriventi generalmente non ignorano. Si tratta quindi di scritture ridotte al minimo essenziale, tendenzialmente stereotipate, molto affidate a formule. Nondimeno anche nel caso della corrispondenza di prigionia non mancano le eccezioni, i testi non conformi sfuggiti alla censura, le lettere in carta libera, così come si notano sfumature o vere e proprie diversità di toni che lasciano intravedere situazioni diverse. Si va dalle disperate, telegrafiche invocazioni di chi, preso dai morsi della fame, chiede da casa qualche aiuto alimentare, alle espressioni più rassicuranti di chi ritiene di essere uscito dal meccanismo infernale della trincea ed esprime perciò la speranza, se non proprio la certezza, di rivedere prima o poi i suoi cari. A quest’ultima categoria appartiene un panettiere ligure, Giobatta Moltedo, inquadrato nel 276o fanteria, 896a compagnia mitragliatrici, di cui si è conservato un ordinato plico di cartoline, sia quelle da lui indirizzate alla moglie sia quelle di quest’ultima indirizzate a lui, quasi tutte riconoscibili a prima vista per le insegne della Croce Rossa Internazionale con l’intestazione “Corrispondence des Prisonniers de Guerre” e altre intestazioni in lingua italiana e tedesca, il timbro triangolare della “Zensur Abteilung Wien” e quello rettangolare della censura italiana. Le cartoline di questo piccolo epistolario bilaterale coprono il periodo dal 5 novembre del 1917 al 29 settembre del 1918. Il nostro panettiere è anche lui una vittima dello sfondamento di Caporetto e come in altri casi la sua corrispondenza comincia pochi giorni dopo questo avve263­­­­

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nimento con una cartolina che annuncia l’avvenuta cattura. Il testo è breve, contenuto quasi interamente nelle quindici righe numerate previste, ma col finale debordante nella parte destinata all’indirizzo: Adorata Ida, chissa quanti pianti! Pur io ho sofferto non potendoti dare mie nuove. Ebbene! Fui preso prigioniero la mattina del 24 giunsi [in] codeste località il giorno 1. Di già comincio ad abituarmi a codesta vita. Dormo in Caserma al giorno si lavora il vitto è discreto. Spero godrai ottima salute assieme a tutti. Penso sempre al caro Angioletto che ormai son sicuro di rivedere. Mi occorre urgentemente L. 50 – calze mutande maglia di lana asciugatoio Pacchi di Pane. Si[i] dunque contenta di sapermi al sicuro e colla speranza di potersi presto riabbracciare. Ti bacio tuo Titta. Baciami Bambina (cartolina del 5 novembre 1917).

L’economia degli spazi e quindi delle parole non impedisce di intravedere nelle poche righe della cartolina la sostanziale convinzione che il nuovo stato di prigioniero aumenti le probabilità di ritornare a riabbracciare i suoi: a dircelo sono quell’“ormai”, riferito appunto alla certezza acquisita di rivedere la bambina e l’esortazione alla moglie di essere contenta per il fatto di saperlo “al sicuro”. Lo stesso sentimento trapela dalla cartolina di poco successiva (7 novembre) dove tuttavia si insinua un certo allarme per le difficoltà alimentari e cresce la pressione per l’invio di denari e di pacchi. Non casualmente, in questa sono presenti tracce di cancellazione da censura. I contatti tuttavia non si ristabiliscono tanto facilmente, al contrario. L’11 novembre egli scrive una terza cartolina nella quale si augura che la moglie abbia ricevuto le altre due e abbia già “spedito pacchi e soldi”, i quali serviranno – e qui si sente forse la pressione della censura che incombe e che gli suggerisce un evidente eufemismo – “per completare il buon stare”. Segue una quarta, questa volta dopo un lungo intervallo, dovuto al fatto che i detentori gli hanno fatto mancare le cartoline predisposte, supporto obbligato della corrispon264­­­­

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denza. La data apposta da lui è il 14 dicembre, mentre un timbro reca quella del 17 dicembre. La mancanza di una indicazione chiara e leggibile sull’indirizzo del mittente ci impedisce, qui come nelle missive seguenti, di capire esattamente quali siano il suo itinerario e i successivi luoghi di detenzione, ma da questa cartolina apprendiamo che gli spostamenti sono ancora frequenti: “Qua sto molto meglio di prima – scrive infatti –. Probabilmente a giorni cambierò indirizzo e questo mi dispiace perché difficilmente potrò avere tue [notizie]”. Nel frattempo non ha ancora avuto nessun riscontro da Ida: “Di già credevo poter avere tue ma invece nulla, soltanto la posta tua mi manca per farmi felice”. Anche in questo caso il messaggio sembra edulcorato, perché sappiamo che da lei attende non solo posta ma pacchi e non solo per la felicità ma per il nutrimento, e qualche indumento necessario. In ogni missiva, inoltre, non manca un accenno affettuoso alla bambina alla quale è evidentemente molto affezionato, che nomina sempre come “Angioletto”. Un’altra cartolina parte con la data del 20 dicembre, in cui si dice “giunto sotto il nuovo Comando”, rinnova le rassicurazioni e le manifestazioni di affetto ma fa capire di non avere ancora ricevuto riscontri a quelle mandate in precedenza. Lo stesso vale per la successiva che parte molto tempo dopo, il 5 febbraio, preceduta dall’invio di un telegramma, ma ancora in assenza di notizie da parte della moglie, cui rivolge domande per ora senza risposta: “ Dimmi cara che fai? E la bambina ti fa ancora dispetti. E Martino? Ansioso attendo tue”. La corrispondenza è fatalmente laconica, ripetitiva. Il nostro dichiara ripetutamente “io sto benissimo”. Se non fosse per le fonti diaristiche e memorialistiche da cui abbiamo abbondantemente attinto e per quanto la storiografia ha ormai chiarito, da queste quindici righe che si ripetono ogni tanto molto simili fra loro non potremmo immaginare la situazione drammatica che i prigionieri italiani stanno generalmente vivendo in quel momento. Quale sia la sua esattamente non lo sappiamo. Ancora il 18 febbraio afferma di godere 265­­­­

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“ottima salute” anche se ammette che la situazione “potrebbe migliorare col giungere dei pacchi”. L’unico cruccio apparente è la mancanza di notizie dalla moglie, malgrado l’invio del telegramma, mentre alcuni suoi amici hanno cominciato a ricevere posta. Finalmente, ai primi di marzo qualcosa sembra cambiare. Si tratta di una cartolina della moglie, la prima in ordine cronologico conservata nel plico, datata 27 febbraio, con un timbro che potrebbe essere di arrivo recante la data dell’1 marzo e un indirizzo dal quale non risulta facilmente decifrabile la località della detenzione (“Kuk. Kgf. Station Vienne”), mentre risulta invece chiara quella della compagnia di lavoro alla quale Giobatta appartiene (“Arb. Comp. N. 616”). La cosa sorprendente è che fino a quel momento anche lei è rimasta priva di sue notizie, anche se deve aver ricevuto almeno il telegramma e con quello l’indirizzo: “Sempre priva di tue ma voglio sperare nel tuo buon stare come posso assicurarti di tutti noi [...] Sabato ti spedii un pacco spero pure ti saranno giunti tutti li altri”. Poi gli dà qualche dettaglio sulla crescita della bambina: “La bambina sta bene e già comincia a salirmi il gradino della bottega ed andarsene da Marinin”. Ma in realtà i due flussi di corrispondenza per ora non arrivano a destinazione e quindi il dialogo epistolare non si attiva. Ancora il 10 marzo Giobatta continua a ripetere “che ancora non ho potuto avere tue” e si dice non certo di fermarsi a lungo nel luogo dove ora si trova. Il 13 marzo è il fratello a scrivergli ma anche in questo caso non abbiamo riscontri sulla ricezione. L’esasperante dialogo tra sordi prosegue ancora a lungo e riusciamo facilmente a indovinare l’angoscia di entrambi gli interlocutori, ciascuno dei quali manda ripetutamente messaggi senza riceverne, tranne rarissime eccezioni. “Amata Ida – scrive Giobatta in data 18 marzo – Nonostante le tante volte che scrissi ancora son privo di tue”. E il 24 dello stesso mese, indirizzando al padre Lorenzo: “Son certo che da tempo saprai che mi trovo prigioniero. Si[i] dunque contento che il tuo Titta sta bene e si trova bene”. Nella stessa data, si ripete 266­­­­

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la comunicazione negativa alla moglie. Un primo riscontro è attestato finalmente il 4 maggio, data di una cartolina indirizzata da Ida al marito, dove leggiamo: “Ricevo ora tua cartolina in data 24-3 dove sempre mi assicuri del tuo buon stare così posso assicurare di tutti noi Mi dispiace tanto che tu non ai ancora ricevuto mie e non sò come fare [...] spero che questa sia più fortunata e ti giungerà per tranquilizare. Credi che sovente scrivo [...]”. Altre lettere di Ida dello stesso tenore si succedono in maggio. Né lui né lei desistono dal tentare di raggiungere l’interlocutore ma la posta sembra inghiottita in un pozzo senza fondo. Anche lui le scrive il 5 luglio ripetendo: “È strano ma non riusciamo a metterci in corrispondenza. Io sono in possesso soltanto di una tua cartolina del 27-2-18”. Il 7 agosto denuncia ancora di essere “da qualche tempo [...] privo di tue”, la rassicura ripetendole “di non pensare male di me, perché mi trovo bene”, ma subito dopo le raccomanda: “Spediscimi dei pacchi contenenti, pasta, o riso lardo, e salsa”. La storia di questi contatti mancati, di queste notizie così frammentarie, si interrompe per ragioni non chiare il 29 settembre 1918, troppo presto per pensare alla fine naturale della prigionia che si verificherà ovviamente ai primi di novembre col crollo dell’impalcatura imperiale asburgica e l’abbandono alla spicciolata dei campi da parte dei detenuti. In quella data, Giobatta scrive alla moglie l’ultima delle lettere conservate. Il tono è come sempre forzatamente laconico, uniforme, privo di ogni accento drammatico. Non mancano nuove richieste di generi alimentari, anche queste espresse senza apparente concitazione: “Spediscimi dei pacchi di riso e condimenti per fare dei minestroni e non pensare a me che sto bene”. Non abbiamo notizie certe sulla conclusione della vicenda. Come le tante affidate alla corrispondenza, questa storia restituisce le voci del distacco forzoso e doloroso tra le persone in un’Europa carica di sofferenze, attraversata da incroci di uomini e donne in movimento sospinti dal vento travolgente e apparentemente inarrestabile della guerra. A 267­­­­

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testimoniarlo ulteriormente, la presenza nel carteggio della lettera di un amico di Giobatta, anch’essa indirizzata a Ida, su carta intestata “Feldpostkarte”, con diversi timbri di censura ma senza le insegne della Croce Rossa, datata 8 settembre e proveniente da Hammelburg in Baviera, dove il caporale ha trovato una collocazione nel lavoro in campagna, come Ubaldo Baldinotti: “Pregiatissima Signora, Conoscendo il suo indirizzo, le invio questa mia, chiedendole notizie del suo Sig. marito Giobatta ed ecco il motivo: essendo sempre stati assieme a Bea-Brescia, al fronte ed indi fatti prigionieri assieme l’ottobre scorso, dopo vari giorni di cammino si dividemmo, e più non vidi il caro Moltedo, che sempre da buoni amici si facemmo compagnia. Io lavoro da contadini. Sperando di ricevere una sua gradita risposta, scusi del disturbo, e gradisca una stretta di mano unita a saluti suo obb. Molteni Luigi”. Un caso di grande interesse per dimensioni, tempi e temi della corrispondenza di prigionia è quello relativo a un giovane alpino di Finalborgo (oggi in provincia di Savona), Emanuele Calosso, classe 1894. Il suo è infatti un carteggio notevolmente ampio, comprendente in totale 270 missive di cui una parte considerevole, soprattutto considerato il contesto e le circostanze, riguarda il periodo della prigionia a Sigmundsherberg, cominciato nel giugno del 1917 e terminato nel novembre del 1918. La prima cartolina inviata in stato di prigionia da Emanuele, nella quale dà notizia dell’avvenuta cattura, è datata 28 giugno 1917, l’ultima 8 ottobre 1918, ma la successiva a questa, datata novembre 1918 senza indicazione di giorno, è spedita quando lui si trova già in Italia: è assai probabile dunque che non abbia più scritto nella fase concitata di fine della guerra con la firma degli armistizi e l’apertura dei campi, e che sia stato liberato nella seconda metà di novembre. In totale si tratta di circa 17 mesi di prigionia, durante i quali egli spedisce alla madre (la sua principale interlocutrice, essendo egli orfano di padre) 55 cartoline. Altre due ne spedisce al fratello più piccolo, mentre altre quattro sono quelle spedite sempre alla madre mentre già si trova in 268­­­­

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Italia ma non è ancora tornato a casa, essendo trattenuto nel campo di raccolta per prigionieri di Poggio Rusco in provincia di Mantova. In totale sono 61 missive, che per i circa 17 mesi di detenzione fanno una media tra 3 e 4 cartoline al mese: in altri termini quasi non passò settimana senza che Emanuele spedisse posta a casa, sfruttando senza eccezioni la possibilità che gli era offerta dal regolamento, appunto quella di una cartolina settimanale. Questa limitazione dà ragione anche del fatto che, a parte il fratello e il parroco (destinatari di tre cartoline in tutto), nessun altro destinatario compaia tra le spedizioni dalla prigionia. La madre diventa il suo referente principale, la sua ancora di salvezza, la destinataria di tutte le sue vitali richieste, l’interlocutrice di un dialogo potenzialmente serrato – considerando i ritmi dell’invio della corrispondenza da una parte e dall’altra –, nei fatti al contrario differito e sfasato, perché i ritmi di transito delle missive sono lentissimi, e quindi possono passare uno, due e anche quattro o cinque mesi prima che una lettera spedita arrivi a destinazione. La frequenza degli invii di cartoline da parte di Emanuele dipende come al solito in via del tutto preminente dalla necessità di sollecitare l’invio di generi di prima necessità. Il secondo motivo, non altrettanto vitale ma ugualmente insistito, segno di quanto sia forte e profondo, è il bisogno psicologico di ricevere a sua volta notizie da casa e dalla comunità per evitare una perdita di contatto con l’ambiente familiare e lo spaesamento conseguente alla lunga permanenza in un ambiente estraneo e ostile. Rispetto al primo punto, va detto che la corrispondenza di Emanuele coincide in pratica con un catalogo molto esteso, continuamente ripetuto e ogni tanto aggiornato, di ciò di cui ha bisogno, catalogo nel compilare il quale egli si mostra singolarmente puntiglioso, dettagliato, si direbbe addirittura pretenzioso ed esigente. Egli chiede via via in successione pane, tabacco con “foglietti per sigarette” (precisando successivamente “tabacco di taglio fino trinciato forte”), pasta, 269­­­­

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riso o pane biscottato e gallette, mutande usate e qualche “cravatta bianca con dei spilli da chiudersi” (intende come vedremo delle sciarpe), pacchetti “per fare l’acqua di viscì”, formaggio, “dadi maggi per fare il brodo”, burro in scatola, filo aghi e bottoni, uno specchietto e un pettine, un asciugatoio (“sciugatoio”), sapone per lavare i panni e qualche “saponetta per la faccia”, una berretta “che sia di forma grande perché sai benissimo la forma della mia testa”, carta da lettere con busta e matita, “una maglia, calze di lana, guanti, una cravatta ovvero sciarpa di lana” perché “il posto ove mi trovo è molto freddo”, “un luchetto di quei piccoli con la sua chiave per poter chiudere la cassetta dove tengo la mia roba”, “un poco di manesia [magnesia] per purgarmi di tanto in tanto, mica perché mi senta male ma perché è bene che di tanto in tanto mi purghi”, il condimento per cucinare pasta e riso (ci tornerà più volte), e soprattutto il “pesto di basilico”, condimento prediletto del ligure, su cui insiste almeno cinque o sei volte, arrivando a suggerire il ritmo degli invii: “E del pesto perché non lo metti ogni due o tre pacchi come ti ho scritto” (cartolina dell’8 ottobre 1918). Benché ovviamente non si abbiano riscontri puntuali di tutti gli invii e gli arrivi, a quanto pare gran parte delle sue richieste vengono prima o poi esaudite, pesto compreso. Sui ritmi di ricezione naturalmente non mancano le disfunzioni e di conseguenza le lamentele. A lungo i pacchi della Croce Rossa tardano (riceve il primo il 4 gennaio 1918, spedito il 17 dicembre 1917), quelli da casa li riceve ogni quindici giorni benché la madre li invii settimanalmente. Ma numerose sono anche, in alcuni periodi, le segnalazioni soddisfatte di ricezioni abbastanza regolari. Tutto lascia intendere che l’impegno messo dalla madre nelle spedizioni, la rete di solidarietà attivata tra parenti e amici, gli abbonamenti plurimi all’assistenza della Croce Rossa concorrano ad assicurare al prigioniero un flusso relativamente costante che lo tiene lontano dalle conseguenze più drammatiche della fame e gli assicura nel complesso un tenore di vita sopportabile. Tutta la comunità 270­­­­

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dei parenti, degli amici e dei paesani sembra coinvolta nel prestare aiuto. Tra le informazioni che ci vengono trasmesse dalla corrispondenza ci sono ad esempio il ricorso a una conoscente, certa signora Celesia, perché fornisca un abbonamento supplementare all’assistenza della Croce Rossa (“8 chili di pane biscottato al mese”), e l’aiuto di uno zio per l’abbonamento alla Croce Rossa di Bologna. Del resto è lo stesso Emanuele a raccomandare in qualche occasione alla madre la comunicazione puntuale e l’aggiornamento costante della sua situazione e del suo indirizzo ai conoscenti: “Ti raccomando di farlo sapere ai parenti tutti che sono prigioniero ai quali ci manderai il mio indirizzo come anche al Pansin ed ai conoscenti” (lettera del 23 luglio 1917). Ma a tirare le fila di questa rete di solidarietà è la madre Santina Riolfo, di cui seguiamo nei dettagli l’intervento grazie alla conservazione di un buon numero di cartoline indirizzate al figlio (ben 38 a partire dall’agosto 1917), sempre accurate, sempre puntuali. La vicenda in questo senso contiene una conferma della tesi secondo cui, nella totale assenza di aiuti dello Stato, per la sopravvivenza dei prigionieri fu decisiva l’assistenza familiare, in termini di disponibilità economiche, capacità organizzative, dotazioni culturali (la capacità di attingere le informazioni giuste, le conoscenze utili, la capacità di usare la scrittura abbastanza correttamente). Calosso è un giovane alpino vivace e tenace che non viene inghiottito dalla fame, dall’inedia e dal degrado, dal freddo e dalle fatiche dei campi, che tende e probabilmente riesce a curare la propria persona, a custodire le proprie cose, a riportare a casa un vasto epistolario: e tutto questo proprio in virtù delle risorse mobilitate dalla madre nell’ambiente di provenienza. È facile capire che condizioni e garanzie simili non fossero frequenti ed è da questo che deriva con tutta evidenza l’alta mortalità dei prigionieri italiani degli imperi centrali abbandonati a se stessi dallo Stato. L’aspetto all’apparenza più critico del rapporto tra il prigioniero e la madre è, come si accennava, quello della mo271­­­­

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vimentazione della posta nei due sensi, che registra ritardi incredibili di cui il nostro continuamente si lamenta e di cui anche lei si rammarica. Entrambi dichiarano di scrivere una cartolina a settimana, secondo le regole stabilite, ma entrambi ricevono le missive spesso dopo molti mesi, e questi ritardi si aggravano naturalmente nel periodo successivo alla rotta di Caporetto. Per esempio la madre riceve il 24 febbraio 1918 una lettera che Emanuele le ha spedito il 17 ottobre. Lui le scrive il 24 aprile 1918 di non ricevere posta da 73 giorni e il 18 giugno del 1918 dopo cinque mesi di silenzio postale riceve insieme due cartoline rispettivamente di gennaio e aprile. Il 26 dicembre del 1917 la madre gli scrive: “Ricevei la tua cartolina ma che vuoi son tanto in ritardo causa della convulsione che vi è nelle poste che ricevo le tue cartoline dopo 2 o 3 mesi, eppure son certa che tu mi scrivi tutte le settimane come scrivo io”. Tutto questo rende più dura l’esperienza, anche perché eventi luttuosi l’attraversano, come la morte di un amico che si trova nello stesso campo di concentramento, come apprendiamo dalla sua lettera del 2 luglio 1917 nella quale prega la madre di chiedere al parroco “che con precauzione dia la triste notizia ai suoi”. Comunque, alla fine Emanuele riesce a scamparla e non mancano le tracce epistolari del rientro. “Sono in Italia e spero presto di rivedervi” scrive in una cartolina non più prestampata con le insegne della detenzione, ma illustrata, nel novembre del 1918. E in quella successiva, anch’essa illustrata, dell’Hotel Leon d’Oro di Poggio Rusco, in data 20 novembre ribadisce: “Sono arrivato in Italia finalmente e godo buona salute. Presto ci rivedremo”. L’attesa si prolunga per un po’, e con essa la sofferenza del distacco, anche se prevale la gioia del ritorno. Nell’ultima lettera della raccolta, in data 5 dicembre, scrive alla madre sempre dal campo di raccolta e si dice frastornato: “Ho ricevuto la tua cartolina che mi fece molto piacere perché era già diverso tempo che non avevo tue nuove come pure una cartolina firmata da Giovanna che io non so se sia la prigionia oppure la contentezza del rimpatrio 272­­­­

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ma non posso rammentarmi chi sia”. Poi esprime la speranza di poter rivedere la madre verso la metà del mese, stando a quanto dicono gli ufficiali: “in tutti i casi adesso non ho più paura di niente perché se non è un giorno è l’altro che verrò. Finalmente è terminata la terribile ansia di soffrir la fame e la vita solitaria del paese del reticolato”. Anche quando la prigionia è di lunga durata, la fortuna e il caso possono assicurare la sopravvivenza, come capita a Davide Massa, un contadino dell’entroterra genovese catturato il 3 giugno del 1916 e rimasto in cattività fino alla fine della guerra, passato indenne attraverso l’ultimo inverno fatale a molti. Il suo epistolario, non molto fitto e quasi certamente incompleto, non ci permette di seguire con altrettanti dettagli il suo percorso di prigioniero come nel caso di Emanuele Calosso. Il suo italiano stentato, pieno di incertezze nella separazione delle parole e di dialettalismi non sempre chiaramente decifrabili, fa della lettura talvolta un’impresa avventurosa. Tuttavia le missive che invia a casa, indirizzate spesso al padre ma avendo per interlocutrice principale la sorella Enrichetta, ci forniscono le informazioni sufficienti per comprendere la sua situazione. Innanzitutto, anche lui come molti altri passa inizialmente da Sigmundsherberg, dove riceve il numero di matricola e da cui continuerà a passare la sua posta. Successivamente viene spostato in Ungheria, più precisamente a Budapest, da dove manda la maggior parte delle cartoline e delle lettere conservate (a differenza che in altri casi troviamo nella corrispondenza numerose lettere su carta libera oltre alla solita sequenza di cartoline su carta prestampata). La prima cartolina con intestazioni prestampate in ungherese è datata 15 ottobre 1916, ma nella successiva, datata 9 novembre, è lui stesso a fornirci l’informazione abbastanza precisa: “sono giá tremesi che sono atravagiare [a lavorare] in nongeria [in Ungheria] in conicontadini e cistago [ci sto] cozi bene e sono anche ben viso [visto]”. Non sarà sempre quello il suo lavoro: da una lettera datata 7 gennaio 1917 e da una cartolina di poco successiva (28 gennaio) apprendiamo che lavora “in 273­­­­

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un stabilimento che fanno vagoni” (“in una fabrica da treni [dove] fanno vagoni macchine”). Ma nell’aprile successivo è passato in “una Frabbica [fabbrica] e in un magazino di farina” (lettera del 22 aprile 1917 alla sorella). Il suo problema non sembra mai essere quello alimentare. In un paio di lettere rispettivamente del 24 luglio e dell’1 agosto 1916 chiede in effetti l’invio di pacchi con “gallette e tabacco” e “del pane e tabacco, che mi fa bisogno”. Ma in una lettera datata – forse per una svista – 10 settembre 1915 (in realtà supponibilmente 1916, dal momento che reca le intestazioni prestampate in ungherese) già ringrazia i genitori del pacco ricevuto, dicendo che gli ha fatto molto piacere specialmente per “quelli sigari che ciera [c’erano]”, segno dunque che non è la fame in quel momento la sua massima preoccupazione. La stessa cosa ribadisce il 15 ottobre 1916 sempre scrivendo ai genitori: “vi dico che oricevuto gia 3 pacchi e mi fece piacere simalmente [?] il taba[n]co”. Le notizie riguardo alla ricezione dei pacchi proseguono generalmente buone, anche se ammette qualche disguido: “Cara Sorella – scrive in una lettera piuttosto lunga (tre facciate) datata 4 febbraio 1917 – telogiamandato adire diverse volte che oricevuto il pane della croce rossa mabene quandericevero il pane della croce rossa telo manderò adire manon chredere chesiricevono tutti ipacchi che manda la croce rossa e anche da caza non liricevo nemeno io e i miei compagni che qual che duno lo perdiamo”. La sorella si occupa evidentemente della sua assistenza e Davide le domanda nella stessa lettera quale sia la spesa affrontata per questo: “quando mi scrivi mandime in po [mandami un po’] a dire quanto spendi almese della bonamento [dell’abbonamento] della croce rossa”. In una lettera del 18 marzo, riferendosi all’informazione datale dalla sorella secondo cui “non si trova piu galletta da mandarmi” la invita a non preoccuparsi: “e [è] lo stesso mentre che sei abunata alla [Alla] crocerosa è lostesso”. La lettera del 4 aprile 1917 conferma notizie rassicuranti sui pacchi, anche dal punto di vista del274­­­­

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le condizioni all’arrivo. Nel carteggio sono presenti inoltre (come in quello di Calosso) diverse cartoline prestampate di ricevuta dei pacchi viveri da lui regolarmente compilate, indirizzate ai comitati di soccorso della Croce Rossa di varie città come Torino, Genova, Bologna, che evidentemente a loro volta inoltravano la ricevuta alla famiglia da cui dipendeva il pagamento: infatti il formulario prestampato comprende la voce “Notizie da darsi alla famiglia e indirizzo” accanto a quelle riguardanti la data della ricezione e le condizioni del pacco ricevuto. Per giunta a un certo punto della sua esperienza ungherese, quando si riducono gli afflussi di pacchi sia da casa sia dalla Croce Rossa, gli capita la fortuna di essere assegnato come si è visto a un magazzino di farina e questo gli assicura tutto il pane necessario. Nella lettera dell’8 giugno 1917 ai genitori leggiamo: sono già tre mesi che nonri cevo più posta e pacchi dacaza sono già diversi giorni che nonne ricevo nonso seavete cesa to di mandare pacchi dacaza o sepure anderanno perduti: e anche dalla crocerossa digenova che mi manda galetta nonne ricevo pacchi nonmi trovo[parola illeggibile] perche io sono a lavorare in un magasino di farina e pane nonme namanca [non me ne manca] perme nonnmivoletepiù mandare pane nonmi fa niente io mi basta mentre che mi spedite qualche pacco dacasa con loriso che io con lo riso prendo il pane e vi pre go di non mi mandare più farina di polenta [...].

Quel che si capisce dalle sue parole è che non ha urgenza assoluta di alimenti, e che si limita a suggerire delle preferenze in vista della ripresa degli arrivi. È quanto riscontriamo anche altrove, quando suggerisce di mettere nei pacchi “qualche chillo dirizo [di riso] che qui alposto dovemi trovo ciabbiamo la comodita di polella [di poterlo?] qucinare” (22 aprile 1917). Insomma, le notizie che fornisce a casa sembrano nel complesso positive, al di là dell’implicito intento di rassicurare i parenti che certo caratterizza lui come gli altri scriventi. Per esempio in una lettera del 7 gennaio 1917 indirizzata alla so275­­­­

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rella si premura di precisare che la sua condizione non è quella di un recluso: “ma non ti chre de remi ga [non ti credere mica] che siamo qui proprio sciavi [schiavi] a quello punto alla domenica poti amo [possiamo] uscire unpoco li vicino dove dormi amo”. E in un’altra di cui non si riesce a decifrare bene la datazione (ma sembra di capire che si tratti della fine dell’anno 1917, inizio 1918), racconta: “Cari genitori Tanto vi dico che lefeste di natale me lo pasate cozi bene e aleghre abiamo mangiato evevuto [e bevuto] come si gnori”. Ma anche per Davide Massa la prigionia non è certo un’esperienza gradevole, come lascia capire in un’altra missiva, datata 5 maggio 1918, quando apprende che anche un nipote è stato fatto prigioniero e se ne dispiace “Perche socome Sista” e aggiunge: “evipre go che quan do mischrivete mi man date l’in drisso dovesi tro va che sesepotesse vorei unpo vedello [che se si potesse vorrei un po’ vederlo]”. L’unico, grande disagio che anche Massa manifesta e ribadisce in continuazione è quello relativo alla mancanza e ai ritardi della posta, ossia alla mancanza di notizie da casa. Di questo si lamenta fin dall’inizio della prigionia, nelle cartoline inviate il 24 luglio e il 1° agosto del 1916. Riceve la prima “desiderata lettera che mi fece tanto piacere” solo il 9 novembre, quando già si trova a Budapest. Torna a lamentarsi della mancanza di posta nella lettera del 22 aprile 1917, la stessa nella quale rassicura sulla regolarità della ricezione dei pacchi, e il 21 maggio, quando la protesta si fa vibrata: “Cara Madre io mi quro [curo] sempre di schrivere maio non posso mai ricevere una carto lina e ne meno una lettera dacaza non so sesarete morti si o no”. E il 28 maggio si premura di compilare accuratamente il nuovo indirizzo di Budapest “perche non posso mai ricevere notizie dacaza”, continuando peraltro a lamentare il silenzio postale anche in giugno, quando si domanda se siano i parenti negligenti o se la posta vada perduta: “non so se mi scriverete osepure nonpiùschriverete osepure anderanno perdute” (cartolina del 10 giugno 1917). Come ribadisce anche nella lettera già citata, probabilmente 276­­­­

Prigionieri

risalente al gennaio 1918: “Mi dispiace tanto che non possa sapere notisie dacasa nonso come pensare senon schrivete osepure se anderano perdute”. Non abbiamo notizie che ci permettano di ricostruire la conclusione della vicenda, apparentemente meno drammatica rispetto ad altre qui raccontate, di Davide Massa. Sappiamo solo, da una lettera conservata nel carteggio ma attribuibile ad una conoscente, che un evento luttuoso colpisce la famiglia, forse dovuto all’epidemia di Spagnola. Una donna di nome Livia in data 12 settembre 1918 scrive a Enrichetta, sorella e corrispondente di Davide, per esprimerle le proprie condoglianze per la “recente sciagura” che l’ha colpita, la perdita della figlia Flavia, “il caro angelo perduto”, per cercare di consolarla con argomenti religiosi, e per darle consigli al fine di riscuotere un’assicurazione: “Ella si procaccia il certificato medico dichiarante che la bimba era di sana costituzione e che fu colpita dal crudo morbo”. Come abbiamo già più volte constatato, lo snodo dell’inverno successivo alla rotta, tra il 1917 e il 1918, è cruciale per la sopravvivenza, fatale per molti. Gli afflussi in massa nei campi, l’interruzione della corrispondenza, l’arresto negli arrivi dei pacchi creano un vuoto che più d’uno non riesce a superare. Lo confermano puntualmente le cadenze, le sequenze, i topoi della corrispondenza in quella fase. Si tratta spesso di lasciti pietosi venuti alla luce attraverso ricerche capillari, costituiti da poche lettere piene di speranza ma anche di urgenze ripetute, che si spengono nel giro di pochi mesi e si concludono con un certificato di morte per polmonite o per edema, ossia per freddo o per fame. Questo accade anche a chi viene catturato prima della rotta, nell’estate che la precede, ma entra poi nel buco nero delle sue conseguenze. È quel che capita ad esempio a un soldato dell’entroterra appenninico ligure nell’area savonese, la cui sorte è ben diversa da quella di altri personaggi citati. Di lui conserviamo poche missive e conosciamo poche cose, quante bastano per 277­­­­

La guerra grande

ricostruirne il mesto percorso verso la morte. Abbiamo tra l’altro un suo ritratto fotografico in tenuta militare con tanto di mantellina e stellette e lo sguardo cupo perso nel vuoto. Si tratta di Luigi Bunino, nato nel 1896, contadino, affezionatissimo ai genitori, devotissimo alla Madonna Maria Ausiliatrice cui affida la propria salvezza con autentico trasporto, come capiamo da alcune lettere che precedono la cattura. “Dunque continuate a pregare la nostra Ausiliatrice – scrive il 18 agosto 1917, sentendosi avvicinare sempre più al cuore dello scontro – affinché mi protegga sempre, mi tenga lontano da qualunque disgrazia e mi ridoni presto a Voi sano e salvo come ora: Confidiamo nella sua bontà e misericordia ed abbiamo fede in essa!... Sarà quella che mi segue nelle ore di pericolo e che mi aiuterà in tutti i miei bisogni”. In virtù di questa protezione assicura: “vedrete che tutto andrà bene e alla vendemmia ci vedremo”. Nella seconda metà di agosto viene catturato, come apprendiamo da una lettera datata 28 agosto 1917, preceduta dall’avvertenza “Questo è tanto per tranquilizzarvi”, dove annuncia di trovarsi “dal giorno 22 in Austria prigioniero” ma non ancora “a destinazione”, ossia nel campo dove dovrà scontare la prigionia e perciò senza un indirizzo presso il quale raggiungerlo. La lettera successiva che abbiamo (ma si capisce dal testo che ne ha spedite altre nel frattempo, andate evidentemente perdute) è datata 18 settembre, è ancora priva dei segni tipici della corrispondenza di prigionia, come la rigida delimitazione degli spazi grafici, ma reca vistosi segni di censura. Malgrado assicuri come di regola la perfetta salute e non manifesti espliciti segni di disagio, presenta la classica sequenza di perentorie richieste di ogni genere: “Come già vi dissi di spedirmi roba: biancheria per cambiarmi, mandate pure filo e aghi che sempre occorrono, un coltello che ne sono senza, un po’ di quattrini per comperare almeno un po’ di frutta, qualche pezzo di lardo o qualche cosa con un po’ di sale e sopra tutto ti raccomando cara mamma di prepararmi del pane fatto a posta e spedirne sovente”. Il pane, ormai lo 278­­­­

Prigionieri

sappiamo, costituisce la grande ossessione dei prigionieri, la sua mancanza il loro grande incubo. Il 10 novembre torna a scrivere, questa volta in cartolina predisposta, che reca l’abituale intimazione a mantenersi entro le quindici righe numerate. Esprime la speranza che gli abbiano spedito pacchi, ma evidentemente non ne ha ancora ricevuti. Lo stesso ribadisce in una successiva cartolina del 20 gennaio 1918, ma avendo raggiunto la sede della sua detenzione (“questo concentramento”) e quindi un indirizzo forse stabile, la sua speranza di ricevere presto posta e pacchi si riaccende. Le richieste si rinnovano e si fanno più pressanti, drammatiche: “vi raccomando di spedire pane più che potete, anche [tramite] la croce rossa e di fare l’indirizzo ben chiaro [...] Spedite biancheria, soldi, roba da cucinare, farina, pastina e riso, sale e pepè. Tabacco e Toscani”. Purtroppo, la litania dei desiderata continua a replicarsi senza successo, e sappiamo bene che questa è la condizione di quasi tutti in quella fase. Così nella lettera del 27 gennaio, dove reclama ancora “il pane che vi pregai di spedire voi e la croce rossa, biancheria per cambiarmi, tabacco e sapone. Spedite un gilè, asciugatoi, fazzoletti, calze camicia, maglia e mutande, ma sopra tutto sempre pane, farina e fate l’ind. [indirizzo] ben chiaro specialmente quella riga rossa”. Anche quella dell’indirizzo da compilare in maniera chiara e completa è un’ossessione tipica dei prigionieri: sanno, o almeno sperano, che anche da questo dipenda l’arrivo della posta e dei pacchi. Avvertono che il distacco fisico, geografico e postale da chi li può salvare si è fatto più grande e temono che possa divenire incolmabile. Un corretto indirizzo può salvare la vita. Il 3 febbraio, l’ultima delle lettere che sono arrivate fino a noi. È in tutto e per tutto una replica delle precedenti, compresa la rassicurazione sulla “perfetta salute” e l’auspicio, l’incoraggiamento rivolto formalmente agli altri, ma in buona sostanza a se stesso: “State allegri e contenti che appena riceverò i pacchi io starò benissimo e presto speriamo 279­­­­

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di riabbracciarci”. Non sarà così. Il 28 febbraio Luigi muore di polmonite all’ospedale di piazzaforte di Melijne a Herger Novi in Montenegro, come attesta una comunicazione in lingua tedesca giunta alle autorità italiane e trasmessa dal Ministero della Guerra al sindaco del comune di residenza in data 29 gennaio 1921.

La via di casa

Ufficialmente conclusa, per quanto riguarda l’Italia, con l’armistizio del 4 novembre 1918, che dà luogo alle prime manifestazioni di giubilo e alle prime celebrazioni della vittoria da parte della popolazione civile, specialmente nelle aree urbane o nelle vicinanze del fronte, la guerra in realtà per chi vi ha preso direttamente parte finisce solo nei mesi seguenti, al principio del 1919 e oltre. Il ritorno dei reduci, capitolo notoriamente assai complesso della vicenda, non solo di quella italiana, si dispiega lungo un arco di tempo abbastanza lungo. Il congedamento avviene lentamente. Il ritorno a casa è un evento sospirato, che i diaristi e i memorialisti descrivono come autenticamente liberatorio, e col quale solitamente concludono i loro testi autobiografici, non di rado cambiando grafia, ossia scrivendo a lettere più grandi frasi di congedo e di sollievo ovvero formule di certificazione di quanto contenuto nelle pagine precedenti, prima di suggellare il tutto con la firma. Così è la chiusa che leggiamo nella memoria del savonese Agostino Gagliardo, di cui diremo più avanti, che nell’ultima delle 79 pagine dedicate all’esperienza compiuta e appena conclusa, alle 19.30 del 26 agosto 1919, scrive a grandi lettere, occupando ben otto righe: “fine della Vitta pasata dal 1915 al 1919 Soldato 1° Alpini Battaglione Valla Roscia e della 203 Compagnia Scritta dalle mie Proprie mani firmato Gagliardo Agostino”. Qualcosa di simile avviene nel caso dei prigionieri: la liberazione dai campi di detenzione è il preludio di trasferimenti piuttosto lunghi e complessi, che per i più fortunati durano qualche settimana ma talvolta si prolungano per 281­­­­

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mesi e sono seguiti da periodi di ulteriore detenzione in campi di raccolta dove devono subire interrogatori prima di poter prendere la via di casa. La guerra grande non si conclude dunque nel 1918, ma nel 1919 e addirittura nel 1920. Per non parlare di quegli italiani di categoria speciale, ossia di nuova acquisizione nazionale, che sono i trentini e in generale gli “irredenti” del confine orientale: una parte di loro – come abbiamo visto – venne catturata dai Russi e farà ritorno solo dopo anni e attraverso una sorta di giro del mondo che li porterà e li tratterrà per un certo tempo nel lontano Oriente. La guerra, poi, non sarà mai veramente finita anche per tutti coloro che ne recano tracce permanenti sul proprio corpo: mutilati e invalidi (quasi 452.000 secondo le cifre ufficiali calcolate in base all’erogazione delle relative pensioni), in primo luogo i ciechi (quasi 2.000 quelli bilaterali), circondati dalla retorica eroica ma costretti a cercare faticosamente nei meandri della burocrazia i risarcimenti e i trattamenti previdenziali rivendicati. Ce lo raccontano le vicende dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra e quelle del Ministero per l’Assistenza militare e le pensioni di guerra, istituito nel 1917, trasformato in sottosegretariato nel 1919 e liquidato dopo l’approvazione della legge sulle pensioni del 1923: tutti temi che hanno cominciato da qualche tempo ad essere oggetto di ricerche puntuali che includono le vicende di alcuni comitati locali e le testimonianze soggettive degli interessati, ossia le lettere di richiesta e di supplica da essi scritte, nel caso dei ciechi per interposta persona. Noi non seguiremo qui, salvo in un caso appena tratteggiato in conclusione, questo lungo percorso dell’esperienza postuma vissuta dai protagonisti, anch’essa tale da giustificare l’appellativo di “grande” attribuito alla guerra e la dilatazione nel tempo del suo significato oltre i confini dell’armistizio e del trattato di pace. Ci limiteremo a ricostruire, attraverso incursioni narrative, il loro rientro a casa dopo la fine del conflitto, la smobilitazione dell’esercito e dei campi 282­­­­

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di prigionia, attingendo a materiali e personaggi in gran parte già presentati e seguiti nelle loro precedenti peripezie.

L’attesa Abbiamo lasciato Luigi Colombini nei primi giorni del novembre 1918 quando, sotto la pressione degli avvenimenti che incalzano, l’atmosfera del campo dove è detenuto (Kamenz) si fa febbrile e viene investita da una novità. L’8 novembre la notizia della pace non è ancora definitiva, ma circola con insistenza: “I Tedeschi dimostrano la sua contentezza figurarsi la nostra dicono che cè 6 settimane di Armistizio fosse vero che per Natale la mia Angelina abbia la gioia di saper la Pace poveretta dopo tanta attesa che possa venire il caro giorno di riabb[r]acciarsi”. Ancora un giorno di incertezza, poi la notizia esplode e se ne vedono i segni. Sono segni di rivolta, di cambiamento radicale. Un senso di liberazione ma anche un vento di rivoluzione soffiano ormai sulla Germania sconfitta e stremata. Il 10 novembre annota: Domenica di grandi avvenimenti in Germania, stanotte i soldati si sono levati i bottoni militari e le controspalline e i Gradi dicono che non sono più soldati del KAISER ma bensi della Repubblica. Tutte le chiacchere di questi giorni avevano un fondamento. Nel tempo del Rancio una commissione di ufficiali Tedeschi ci spiega che la flotta Tedesca s’incontro con quella Inglese ed hanno deciso l’Armistizio ed il Disarmo e hanno detto se eravamo contenti e con noi hanno gridato Urra. Tutti i soldati non portano piu la baionetta La guardia alla caserma non portano più l’Elmetto del Infame chiodo, col fucile rovesciato in spalla come andasse a Caccia. Passa un Automobile con Ufficiali alzano il berretto e ci salutano da buoni amici. Vorrei essere in Italia a guardare nel buco della mia casa per vedere la mia Angelina cosa farà ora che sapra la desiderata Pace tanto vicina.

Nei giorni seguenti registra altri segnali del nuovo clima: la sveglia più tardi e così l’avviamento al lavoro, l’inizio della smobilitazione dei militari tedeschi tra i 35 e i 45 anni, le voci di 283­­­­

La guerra grande

un aumento di paga: “I ragazzi per la strada ci dicono sempre Fride [Friede] ma noi ufficialmente non ce la danno sti Cornuti questa soddisfazione di dirci che la Pace e fatta. Ce stato detto che tra 14 giorni ce ne andiamo da questa maledetta Germania pare un sogno rivedere la mia casa le mie bambine la mia Angelina, mi pare impossibile che abbia questa consolazione dopo tanti patimenti sofferti” (26 novembre). La grande storia e il pensiero della nicchia domestica continuano a intrecciarsi nella sua prosa, ora meno angosciosa. Nel campo si respira una nuova aria di libertà. Il 30 novembre Luigi si reca con un compagno nella cittadina di Kamenz, per comperare un accendisigari, e registra: “dopo 13 mesi provo camminare come un libero cittadino senza guardia col fucile carico come se accompagnasse un brigante mi pare gia un altro mondo avere questa mezzora di libertà”. Formalmente il loro status di prigionieri non cambia e l’atteggiamento dei tedeschi appare contraddittorio. I segnali della fratellanza si intrecciano col tentativo di ripristinare la disciplina. Attori diversi si muovono sulla scena e parole nuove di insubordinazione, inediti comportamenti, si fanno strada, come un vero e proprio sciopero dei detenuti per aumenti di paga. La parola “sciopero” segna l’esordio delle annotazioni del 2 dicembre: Sciopero. Stamattina non si va al lavoro perché stare esposti a tutte le intemperie per 4 PF allora e cosa da matti ci hanno fatto la minaccia di lasciarci senza mangiare e di piazzare la mitragliatrice ma noi siamo stati duri, ci hanno promesso 2 Mk al giorno ma fu solo una promessa. Vedremo come andrà ma a tutti i modi non si vuol più lavorare, vogliamo andare a casa nostra. Stassera vien qui la commissione cosidetta Republicana anche loro ci consigliano di andare al Fugplaz [il posto dove lavorano] anche a far niente ma noi sempre duri non vogliamo sapere si reclama anche della Camorra che ci fa il Sergente e il cantiniere. Un soldato della commisioni prende la nostra parte e ci difende in tutto a dato titoli perfino al Bammaister perche ha detto che se non si lavora non ci da [dà] da mangiare, la trattato questo membro della commissione da mascalzone col dire che facciamo bene a non lavorare disse poi io sono Republicano e questi prigionieri sono miei fratelli. Chi la dura la vince[.] 284­­­­

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Sul fronte tedesco si sono dunque aperti conflitti politici e sociali che lasciano spazio all’iniziativa rivendicativa dei prigionieri. La tensione cresce. Anche il 3 dicembre il diario di Colombini si apre con una parola d’ordine di lotta, scritta per giunta in un tedesco approssimativo: non si lavora! Nich[t] Arbeit. Anche oggi le solite minacce dell’Ufficiale Nisch [Nicht] Arbeit Nich[t] Essen [niente lavoro, niente mangiare] gli abbiamo detto che scappiamo tutti a Konigsbruck rispose che farà piazzare le Machins ma gli abbiamo risposto Scansagal, vuol punire noi capi squadra se non vanno al lavoro ma anche noi duri faccia quello che vuole. Stassera viene una nuova commissione e colle buone c’invita di andare al lavoro ci pagheranno le 3 settimane arretrate e ci daranno sempre 2 Mk al giorno ma tutto e inutile anche colle minacce non ottengono niente da noi, quì ce sotto qualche gherminella per insistere così tanto pel lavoro se fosse vero che pel 14 Dicembre si va via non farebbero tanta insistenza ma e sicuro che ci vogliono infinocchiare a tardare il nostro ritorno in Italia[.]

Il contenzioso si prolunga nei giorni successivi, producendo momenti di tensione. Il 4 dicembre scrive: Nich[t] Arbeit Le Nostre Guardie hanno tutte le giberne, hanno paura di qualche nostra sommossa, seguita poi dagli altri Prigionieri che sono 3 Milioni e chissà come andrebbe a finire siamo ancora soldati e la peggio forse toccherebbe a loro ho paura che se non ci mandano a casa presto succede qualcosa di poco bello. Fu formata la nostra Commissione io ne faccio parte. Viene ancora 2 ufficiali e 1 della commissione per vedere di convincerci, sempre colla minaccia niente da mangiare ma noi sempre duri col dire non lavoriamo più e che vogliamo andare a Konigsbruck a discutere col Commando di là [...].

Mentre la rivolta prosegue, l’attesa cresce, si fa spasmodica e il nostro prigioniero comincia a temere che le speranze di partire presto siano vane, che la storia si allunghi. Corrono voci che presto arrivi una commissione alleata per il rimpatrio, si parla di iniziative diplomatiche internazionali, di 285­­­­

La guerra grande

partenze dei primi contingenti di prigionieri da alcune città tedesche. Nel frattempo Colombini entra in contatto con la corrente di frenesie postbelliche, col bisogno di divertimento e di svago che serpeggia nella popolazione dopo anni di sofferenze e privazioni. Domenica 15 dicembre dopo tanti mesi di clausura va in una birreria con altri compagni “a divertirmi con Chitarra e Mandolino”, poi in un “ballo pubblico un bel locale ma gente di basso ceto che balla faccio 1 suonata, Applausi una signora ballando mi mette in mano 2 Mk li rifiuto ma se ne [n’è] fuggita si torna a casa a ½ notte”. Il 16 passeggiando nel paese incontra soldati tedeschi reduci dal fronte che cantano ma con poco brio e commenta: “s’accorge che non sono vincitori”. Finché arriva Natale, un altro Natale in terra straniera che rinfocola le nostalgie. Poi un Capodanno di festa, perché il 30 c’è un annuncio ufficiale di partenza imminente, tra gli applausi e le grida di entusiasmo. “Stassera si balla fino a tardi” – scrive alla data del 31 dicembre. Poi racconta che un ufficiale francese discute con un ufficiale tedesco sulle lamentele dei prigionieri e quando il tedesco se ne va scoppia un grido di “W la Frans, W l’Italì!”. Arrivano ai prigionieri molti generi alimentari, compresa carne, compreso un “regalo del Papa”, così si festeggia Capodanno: I Tedeschi spalancano gli occhi a vedere tanta grazia di Dio mentre per causa sua mangiano le rape e ce le fanno mangiare a noi ma poche anche di quelle [...] Alle 9 comincia la festa da ballo non sembra vero d’aver così tanto patito a vedere quest’allegria l’uomo tutto dimentica basta una buona notizia per scordare il tragico passato. A ½ notte una mascherata dell’anno che muore e il bel 19 che nasce e poi tutti si mangia Caffè e Latte, si spegne i lumi ed io suono la Serenata Lombarda. Si va a letto alle 2 Così finì il triste 1918 tutti lavorano a preparare le cassette [per la partenza imminente].

La puntuale scrittura di Colombini, che non si è mai interrotta nel tempo lungo della fame e dell’inedia, continua a scandire ora quello dell’ultimo atto: la partenza e il ritorno. Neppure in questo momento viene meno l’elencazione dei ci286­­­­

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bi, il menu giornaliero che si riesce a rimediare, segno di come questi siano stati e restino il nodo dell’esperienza vissuta. La partenza da Kamenz, “da questa casa ove i dolori raggiunsero il colmo che un uomo puo sopportare, i più deboli furono schiavizzati”, avviene per lui il 4 gennaio, su un carro trainato da cavalli dove ha caricato delle casse con i propri bagagli, insieme con altri quattro compagni. Ma è solo l’8 gennaio che, dopo alcuni trasferimenti, sale su un carro ferroviario, un vero e proprio carro bestiame diretto verso l’Olanda. “Siamo in 1620 – dice – e 570 sono partiti questi sono i rimasti di 3700 arrivati qua”. A questo punto il diario presenta un’altra delle rare intitolazioni che ne scandiscono il percorso: Il ritorno in Patria e annota: “8 gennaio mercoledì data indimenticabile: Alle ore 12 il carro bestiame si mette in marcia. Alle ore 1½ si passa la bella Dresden bagnata dalle acque dell’Elba che risplende in questa bella giornata, la popolazione ci saluta. Si ha notizia che si va in Olanda a prendere il bastimento, ci vuole anche questa per provarle tutte”. Il treno prosegue per Lipsia, che lui chiama “la grande madre delle arti grafiche”. Il cibo è sempre immangiabile, la notte passa col treno fermo a Lipsia sempre sul carro bestiame: trascorrono 18 ore di attesa e pare che la destinazione non sia l’Olanda ma la Svizzera. Si arriva a Halle, poi a Halberstadt, a Hildesheim, dove gli ex prigionieri scendono dal vagone e fanno un po’ di fuoco “come gli zingari” per farsi un caffè, a Osnabrück. Poi si passa la frontiera olandese, si monta su un treno, si arriva a Oldenzaal. In Olanda c’è una sosta, alla sera consuma una zuppa con patate e fagioli poi concerto e danze alla serba, all’italiana e all’olandese. Il 14 sveglia, otto chilometri a piedi e si va a Enschede, poi si parte in treno, terza classe, si passano altre città olandesi di cui non è facile capire il nome, con popolazione festante, grandi canali, ponti, si arriva alla bella Rotterdam che “pare Venezia”, si prende un battello a vapore e si passa all’altra sponda dove ci sono borghesi che prendono in ospitalità piccoli gruppi di prigionieri e li nutrono: “noi ultimi 16 ci prende un signore ci porta a casa sua e si mangia 1 piatto di minestra 4 fette di pane 287­­­­

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con burro e salame 1 con formaggio 1 con marmellata e 4 scodelline di Caffè e Latte. I governi alleati la fanno da signori”. Qui dorme dopo tanto tempo in un letto normale. Ma il calvario di Colombini non è finito, la sua peregrinazione per l’Europa continua. Il 16 si imbarca su un vapore inglese, “una carcassa” dove si dorme “come le bestie”, che il 17 lascia il porto di Rotterdam. Molti soffrono il mal di mare e comunque il cibo è scarso. La notte passa all’ancoraggio in alto mare e il 18 si riparte, si vede la costa inglese, con mare tranquillo e tempo magnifico. Il 19 la nave arriva nel porto di Cherbourg, da dove si intraprende un cammino a piedi: “per 2 ore si cammina nel fango colle scarpe senza suola s’arriva in un accampamento e piove continuamente e siamo in 15 sotto ad una tenda, i signori Francesi ci trattano da bestie, come ci trattavano i Tedeschi”. A questo punto si incontrano dei prigionieri tedeschi e sono loro che “fanno compassione”. Le contrade d’Europa sono un rimescolio di combattenti e civili in movimento, gente di ogni provenienza: “Dopo un giorno si parte da Counleville ove eravamo attendati e si va alla stazione. Vi sono truppe di tutte le Razze Neri Rossi Bianchi [...]”. Dopo un’altra notte passata sul treno fermo, alle 6 del 22 gennaio si riparte, si viaggia il 23 e il 24 ancora tra i disagi, con lunghe notti senza riposo, finché finalmente viene oltrepassato il confine italiano. È il 26 gennaio: “Alle ore 8 si esce dal Tunnel a Bardonecchia, finalmente sono arrivato in Italia fuori di Torino ci si ferma 3 ore delle Signore danno le cartoline. Danno 2 Gallette e una Scatoletta”. Il 27 “ci fermiamo a Spezia A Sarzana si smonta dal treno e ci portano in 250 in un cinematografo”. Il 28 interrogatorio. Il 29 l’ultima annotazione: “Stassera parto, mi pare un sogno, domani sono a casa mia presso i miei cari che non lasciero più”. L’avventura di Luigi Colombini finisce qui e con questa la sua scrittura, anche se nelle pagine successive compaiono un’ingenua poesiola intitolata Il rimpatrio dei prigionieri, datata 7 gennaio, e alcune note di conti, elenchi di compagni e altro ancora, tutto scritto evidentemente in momenti diversi, fuori dalla sequenza diaristica. 288­­­­

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Rientri avventurosi Un altro rientro avventuroso dalla Germania è quello di Ubaldo Baldinotti, che abbiamo visto la mattina dell’11 novembre coinvolto nelle manifestazioni di giubilo e di fraternizzazione per la conclusione dell’armistizio e la fine della guerra. La concitazione, l’esultanza e la promiscuità dei popoli sono al massimo, quasi una negazione dei confini di contrapposizione e di odio che hanno messo gli uni contro gli altri per quattro anni. E se l’agosto del 1914 aveva visto salire in Germania e in mezza Europa la febbre dell’eccitazione bellica, ora un’altra febbre, quella della pacificazione, si propaga nel corpo delle nazioni e segnala il cambiamento. La febbre vera, la Spagnola che ha colto Ubaldo alla vigilia dell’armistizio, sparisce per incanto ed egli si trova preso nel vortice dei festeggiamenti, nel via vai che collega il campo al paese, che mescola soldati e civili, tra i suoni delle campane e le bevute di birra: La strada era ricoperta di neve, ce n’era oltre un metro la temperatura era molto rigida, ma tutte le persone in quel momento non pativano il freddo, perché erano talmente accalorati, dal grande entusiasmo dalla grande gioia che provavano, le finestre erano tutte imbandierate, e insieme ai Tedeschi c’erano molti prigionieri Russi, che partecipavano a questa dimostrazione, e tutti insieme si gioiva perché la guerra era finita. Io non so spiegarne il perché, solo che a me sparì anche quella poca febbre, che ancora mi era rimasta, e che ancora avevo in quel momento, preso come ero anch’io nella grande gioia, e il male sparì come se una fata con un tocco della sua bacchetta fatata l’avesse fatto sparire. Forse sarà stato che io in quel gioioso momento, tutta la [...] mia persona era invasa da una grande contentezza, e il mio malanno sparì completamente, e insieme ai Russi e ai Tedeschi si bevve parecchi bicchieri di Birra e tutti parlavamo di questo lieto avvenimento. Tutti insieme raggiungemmo il centro del paese, dove le persone affluivano continuamente, le campane della chiesa suonavano a distesa, e la gente commentava tutta contenta, perché ormai la guerra era finita. 289­­­­

Pagina della memoria e ritratto fotografico di Ubaldo Baldinotti, Archivio diaristico nazionale, Pieve Santo Stefano (AR).

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Le sue impressioni raccontano di un Paese in preda alla confusione e all’ebbrezza per l’esplosione della pace, ma stremato sia nel suo esercito sia nella popolazione civile. Più oltre Ubaldo segnala l’obbligo di rientrare nel campo con l’arrivo – da tutte le località dove si erano recati per lavorare – di prigionieri delle più diverse nazionalità: Italiani, Russi, Francesi, Inglesi, Serbi e anche qualche Americano. Il campo è sotto il controllo della Croce Rossa, il vitto è buono, a passarsela peggio sono i soldati tedeschi di guardia, “tutti vecchi e mal ridotti, dalla fame e dalle sofferenze che avevano provato, durante la lunga guerra, e si raccomandavano a noi prigionieri” per avere qualcosa da mangiare. Le parti si invertono. Durante le uscite serali consentite, a colpirlo sono soprattutto le condizioni dei civili: “Quando si camminava per le strade, spesso incontravamo dei bambini, che ci chiedevano se avessimo da darle, o un po’ di pagnotta o qualche galletta, perché ci dicevano che avevano molta fame; perché non solo i soldati, ma anche la popolazione civile, era ridotta in uno stato che a noi, ci faceva provare compassione. E quando la mattina si veniva via dal campo, ci mettevamo sempre qualcosa nelle tasche, per poterlo dare a qualche bambino”. La fame dei civili, la denutrizione e le conseguenti malformazioni dei bambini tedeschi cominciano a venire alla luce nel Paese che ha perso la guerra senza ancora capire perché. Finalmente il 20 dicembre c’è la partenza in un convoglio per l’Italia e attraversando il territorio tedesco si rinnovano le impressioni di desolazione: “dappertutto non si scorgeva altro che gente sgomenta, e desolata a causa della tremenda sciagura che li aveva colpiti a causa della guerra”. Il 22 il convoglio di cui fa parte Ubaldo entra in Svizzera, dove reparti della Croce Rossa accolgono gli ex prigionieri con cibi e generi di conforto. La città di Costanza appare tutta imbandierata, la popolazione tributa accoglienze festose alle schiere di reduci, chiede oggetti ricordo, fazzoletti con la firma, reliquie del tremendo flagello abbattutosi sul continente e ora finalmente placato. A Domodossola 290­­­­

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si passa la frontiera ma l’ingresso in Italia riserva sorprese negative. I treni non sono più come quelli sui quali hanno attraversato la Svizzera, ma carri bestiame “dove c’è scritto cavalli otto e uomini quaranta”. Per ogni carro c’è un soldato di guardia, per lo più un ragazzo giovanissimo, con fucile e baionetta in canna, come se i passeggeri fossero nemici o “reclusi trasferiti da un penitenziario a un’altra casa di pena”. Alla vigilia di Natale il treno transita da Milano: “Ma haime le amarezze non erano per noi ancora finite”, perché sia la popolazione sia il personale in servizio alla stazione accolgono i prigionieri rimpatriati con diffidenza, quasi con disprezzo, come se si trattasse di appestati. Superata Bologna, si arriva in terra toscana, il nostro memorialista sente aria di casa ed è pronto a buttarsi giù dal treno se dovesse passare dalle sue parti. Così avviene quando il treno entra a Firenze e, malgrado l’incontro con una pattuglia di carabinieri, la meta ormai è vicina. Lui e altri prendono un tram, dove a fare i biglietti c’è una donna (come sappiamo nel tempo di guerra le donne hanno sostituito gli uomini in alcune funzioni, come i trasporti e la nettezza urbana), e sono protagonisti di una scena curiosa: la bigliettaia chiede che paghino il biglietto, si intestardisce, minaccia di suonare la trombetta di allarme, finché un passeggero, nell’udire che si tratta di reduci ex prigionieri, paga lui. Mentre aspetta un altro tram che lo conduca a casa, Ubaldo inserisce un curioso autoritratto che è quasi un riassunto della sua fortunosa vicenda, del suo percorso tra guerra e prigionia, della sua esperienza internazionale. È il modo in cui è vestito ad attestare tutto questo, a fare di lui un esemplare del rimescolamento di uomini e cose, linguaggi e divise, che la guerra ha prodotto: ero vestito in una maniera, che non era ne vestito borghese, ne una montura militare, avevo un paio di gambaletti tedeschi, un cappottino di color giallastro da soldato Italiano, avevo un berrettino di stoffa fatto a foggia sportiva, la giacca che mi ero fatto confezionare da un sarto quando ero a Biburg, e questa l’avevo ricavata da un 291­­­­

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cappotto, che un prigioniero Francese mi aveva regalato. Avevo una cassetta di legno e quella era la mia valigia.

L’ingombrante cassetta di legno gli impedisce di salire sul tram e così decide di proseguire a piedi, percorrendo le vie ben note che nomina una ad una, approssimandosi sempre più alla sua abitazione. Ed è a questo punto che descrive con molta precisione un curioso fenomeno psicologico: il desiderio di arrivare gli fa sembrare incolmabile la distanza che lo separa da casa. Attraversato l’Arno sul Ponte Sospeso, e fatti pochi passi iniziai il cammino nella Via Bronzino, che a quell’epoca era un mare di fango, camminavo svelto e quando giunsi all’altezza di via Monticelli, svoltai a sinistra, per poi iniziare il cammino in Via Pisana. Da Monticelli appena entrato sulla via Pisana, che da dove abitavano i miei genitori, nella stessa via dovevo percorrere, una distanza inferiore a due chilometri. Appena fui giunto su questa strada, mi accadde un caso strano, e non ne capii il perché, ne che cosa mi stava succedendo, mi sembrava che la strada non finisse mai, e anzi a me mi sembrava che invece di andare avanti, ch’io tornasse indietro, da quanto grande era in me il desiderio di far presto, per giungere a casa, e nella mia mente un po’ stanca pensavo, ma che li troverò vivi? Avranno avuta la forza di sopportare a tanto strazio, specie la mia povera mamma che due anni prima, l’avevo lasciata in non floride condizioni di salute? E con questi presentimenti che mi rimuginavano nella mia mente il cammino non finiva mai, e mi sembrava che più mi avvicinavo, le forze mi diminuissero, e dentro la mia anima, mi sembrava sentire una voce, e che dicesse coraggio ormai fatti animo, ancora un piccolo sforzo, non perderti di coraggio altrimenti non avrai forza sufficiente, per compier il piccolo tratto di strada che ancora hai da compiere.

Il tumulto dei sentimenti nell’approssimarsi al luogo domestico e all’incontro coi genitori dopo il prolungato distacco e l’esperienza del grande trauma sono resi con una straordinaria capacità di introspezione, in una pagina che da sola ci racconta la dimensione di discontinuità introdotta dalla guerra nella vita dei singoli. Possiamo lasciare a questo punto il 292­­­­

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racconto di Ubaldo Baldinotti, che tuttavia non si interrompe ancora, perché la sua vita di soldato non è finita, come capita a tanti altri. Descritte in ogni dettaglio le emozioni dell’incontro, che arrivano a produrre in lui uno svenimento, le gioie della prima serata in famiglia, la visita alla casa di un amico, la grande letizia e l’abbondanza di cibi nel giorno di Natale, che inevitabilmente richiamano le privazioni di quello precedente, la speranza di un ritorno alla normalità, poco dopo la metà del gennaio 1919 apprende che tutti i prigionieri non passati attraverso i campi di concentramento a loro riservati e i relativi interrogatori devono presentarsi immediatamente al più vicino deposito di un reggimento, pena l’accusa di diserzione. Riprende così la divisa, si presenta nella caserma fiorentina da cui era partito nel luglio del 1915, si sottopone all’interrogatorio di rito, viene poi trasferito a Prato e a Pistoia, dov’è trattenuto in funzioni di ordine pubblico per i moti sociali che nell’estate del 1919 coinvolgono anche questa città. Solo il 15 agosto viene inviato a casa in congedo illimitato, e anche lui può dire la parola fine. Siamo al capitolo 112 della sua memoria, a quattro anni compiuti dalla sua partenza.

Peregrinazioni Un po’ diversa è la situazione dei prigionieri detenuti in Austria, specialmente quelli che ai primi di novembre si trovano nelle vicinanze del territorio italiano. Per qualcuno la fine della guerra arriva prima della firma dell’armistizio, quando l’esercito imperiale asburgico comincia a disgregarsi e a perdere il controllo sia delle proprie truppe sia dei prigionieri ancora nelle sue mani. A raccontarcelo è l’alpino Agostino Gagliardo, che abbiamo citato all’inizio di questo capitolo. Dopo numerosi tentativi di fuga, sempre falliti, Agostino viene assegnato con compiti di attendente a diversi ufficiali austriaci, e con uno di questi si trova, il 1° novembre 1918, nelle vicinanze di Toblach quando improvvisamente si rende conto che la situazione è cambiata. La forza austro-ungarica 293­­­­

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si dissolve, i comandanti nemici si dileguano e tra gli Italiani esplodono l’euforia e la confusione: alla mattina del 1° Novembre alle ore 6 sono partito per andare a prendere il Caffe per il Tenente e non cio piu trovato nesuno il Tenente nella sua Barracha non cera piu e allora io sono andato a vedere se ci sono le guardie Austriache e io non oh piu trovato nessuno e allora sono uscito dalla barracha e mi sono messo a griddare fuori raghasi [“fuori ragazzi!”] che gli Austriaci sono scappati questa notte e allora sono uscitti tutti fuori chi rideva e chi cantava e chi piangeva non si cappiva piuniente tutti si andava per la strada ognuno per suo conto mentre venire nella nostra bella Italia e ceravamo Italiani e Russi e Serbi e Monte Negrini tutti si veniva nella nostra cara Patria tutti scalsi pieni di fame e mezzi nudi in somma incondisioni che si faceva piettà e poi abbiamo preso la strada da Tobbaco [Toblach] siamo venuti a Cortina d’ampezzo e a Pieve di Cadore dove li abbiamo trovato i nostri Compagni Italiani che avansavano e andavano avanti e noi appena li abbiamo vedduti li abbiamo Braciati e Baciati e ci abbiamo detto andate pure che non ce piu nesuno sono scappati tutti e allora siamo andati al Comando dei nostri Comandanti Italiani e li [lì] cianno indrappellati [ci hanno riuniti in plotoni] e ci anno portati fino a Treviso sempre a piedi[.]

L’improvvisa conquista della libertà e il ritorno sul territorio nazionale non significano la fine del ciclo bellico. Comincia qui un’altra serie di ininterrotte peripezie che si concluderanno solo nell’agosto dell’anno successivo. La narrazione a distanza di tempo, distesa e apparentemente distaccata, di Gagliardo contrasta con la natura di queste vicende fatte di ulteriori continui spostamenti, disagi, altra fame, confusione e rapporti complicati con la burocrazia militare, il tutto affrontato apparentemente con infinita capacità di sopportazione prima di raggiungere finalmente, dopo il congedo, casa propria e mettere felicemente la parola fine alla sua vicenda militare cominciata nel febbraio del 1915. A queste peripezie sono dedicate le ultime pagine (dalla 68 alla 79) della sua memoria. Apprendiamo così che, prima della partenza da Pieve di Cadore, gli vengono affidati alcuni prigionieri austriaci sui 294­­­­

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quali esercita, istigato dai superiori, un qualche spirito vendicativo costringendoli con le minacce e le “legnate” a eseguire la pulizia del paese nel quale si trovano: “o lavorate o sedunque [in caso contrario] fatte la fine che avete fatto fare ai nostri Compagni che sono rimasti là [sono morti in prigionia] e noi si parlava tedesco da farsi cappire”. Successivamente compie un viaggio a ritroso verso l’interno, a piedi, toccando Mestre, Treviso, Belluno, Padova, Ponte di Brenta, Mantova, Piacenza. Qui lui e alcuni suoi compagni si presentano al comando dei carabinieri anche per avere assistenza e denunciano la loro condizione di prigionieri rimpatriati. Rifocillati, vengono condotti al campo di concentramento di Gossolengo, dove Gagliardo soggiorna in condizioni pessime, senza una tenda, senza coperte e con poco da mangiare. Da Gossolengo egli intraprende, non si capisce se eludendo la sorveglianza, il viaggio verso Genova, attraversa la Val Trebbia, incontra fortunosamente un commilitone che lo ospita, entra in città e prende un tram in direzione Ponente, per andare verso le parti di casa sua. Ma è in condizioni pietose, per la stanchezza, le privazioni, la mancanza di tutto. Desta compassione nella bigliettaia del tram, che si prende a cuore la sua sorte. Vale la pena di riportare ampiamente il racconto, che rimarca come la guerra, pur devastando il tessuto sociale e civile, non abbia spento i sentimenti di solidarietà, e come sulla figura del prigioniero malandato si addensi la curiosità della gente di città, come su di un fenomeno spettacolare, reperto vivente del cataclisma appena placatosi. Il paesaggio sociale del dopoguerra pullula di sbandati, di smemorati, di gente miserabile che vaga per le strade: appena sie fermato il Tram questa brava giovane mia portato con lei in un albergo a Voltri [una località costiera alla periferia di Genova] e lei mia detto di dirci cosa voglio da mangiare ma io non ci chiedevo mai niente allora lei mia fatto portare di tutto quello che ci avevano di pronto e io mangiavo sempre dalla gran fame che avevo sofferto e nel mentre che io mangiavo ci sono ve295­­­­

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nuti tanta gente avedermi che io avevo una vergogna ma pero mi facevo coraggio ma ero in brutte condisioni e ro sensa pantaloni e sensa Camnicia sensa Giuba e sensa scarpe e per scarpe ci avevo dei pessi di sacho che mi servivano per marciare e per choprirmi a vevo solo che il Pastrano insomma che facevo pietta e per andare via da questo Albergo tutto il Paese avevo apresso per vedermi io passavo in una via e loro mi passavano avanti e io non sappevo comme fare a venire via inffine che afforse [a forza] di andare sono rimasto solo [...].

Il viaggio a piedi verso casa prosegue e in effetti risulta che egli trascorre nel suo paese sei giorni (dal 6 al 12 dicembre) di cui stranamente non dice nulla, salvo poi presentarsi al Distretto di Savona dove era stato arruolato il 20 febbraio del 1915 e da dove viene rimandato al campo di concentramento per prigionieri di Gossolengo. Qui, dopo aver usufruito di 20 giorni di licenza, il 4 gennaio si ripresenta al suo battaglione a Pieve di Teco, dove viene nuovamente inquadrato. Il suo servizio non è finito. Viene mandato a Oneglia dove svolge attività di guardianaggio al reclusorio, di controllo al porto, e lavori di riparazioni stradali. Passano ancora dei mesi prima che arrivi finalmente il congedo, che chiude definitivamente la sua esperienza militare. Il 25 agosto parte da Pieve di Teco, la sera del 26 è a casa, a Ellera. La memoria, come se le emozioni fossero ancor fresche, si chiude con le parole liberatorie scritte a grandi caratteri, che abbiamo citato all’inizio del capitolo: un sospiro di sollievo per essere scampato alla guerra grande, ma anche una punta di orgoglio per aver attraversato indenne tante avventure. Due pagine aggiunte successivamente, a molti anni di distanza, col testo di un ricorso presentato al Ministero del Tesoro relativo alla sua pensione di guerra, ci dicono però che il suo corpo, non meno della sua mente, ha conservato a lungo la memoria dell’evento. Il testo parla di un’invalidità non riconosciuta e rivendica il “diritto di esame del braccio sinistro che per la presenza di una scheggia da arma da fuoco le [gli] aveva procurato in questi ultimi anni dolore e difficoltà di articolazione”. 296­­­­

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Inno alla gioia Carlo Verano vive gli ultimi mesi di guerra nella zona del Piave e precisamente in prossimità del Montello, dove fin dal settembre del 1918 segnala le prime avvisaglie del cedimento austriaco. Un assalto notturno a cui partecipa il 14 settembre esita nella cattura di alcuni prigionieri che segnalano lo spostamento altrove delle forze austriache. Ogni giorno nuovi combattenti si arrendono. Il 4 ottobre, dando il cambio al 265° fanteria, riceve notizie rassicuranti: “state contenti che abbiamo visto che tanto la truppa come le munizioni gli portano via e loro se ne vanno. E noi a queste parole si facemmo un gaudio di contentezza e così anche gli Ufficiali. Verità anche noi vedemmo di giorno che loro col suo zaino sulle spalle se ne vanno piano piano e vuol dire che qualche cosa c’è di nuovo”. I segni della battaglia in corso sono ancora forti, ma si sente dire che gli Italiani “avansano dal Piave e dal Monte Grappa e loro così sono obbligati a ritirarsi”. Trascorrono giorni e ore di incertezza fino alla fine di ottobre, senza il coinvolgimento del suo reparto in veri e propri scontri. “I giorni passano e tutto in silenzio anzi alla notte escono le pattuglie nostre a guardare e pare che dicono che non c’è più nulla tutti sono andati via”. Finché si arriva alla vigilia dell’armistizio: “Alla mattina del 3 novembre all’alba si parte avanti carichi di bombe a mano e pugnale e fucile. Andiamo all’assalto e non troviamo più nessuno anzi ci buttano ancora il gas lacrimogeno che io lo presi sulla lingua che mi feci dei pezzetti taglienti che non potei più mangiare nulla per parecchi giorni”. Lo scenario tutto intorno è quanto mai desolato: Verano vede un alpino riverso a terra con pugnali piantati nello stomaco, incontra due vecchi che si cuociono pezzi di cavallo e cavoli dentro le marmitte, incrocia soldati austro-ungarici che si arrendono sventolando un fazzoletto bianco, raggiunge col suo drappello la cima del Monte Fiore il mattino del 4 novembre. Trovammo a metà monte ancora un po’ di resistenza ma gli prendemmo tutti prigionieri che erano 7 uomini. Poi c’è quel fa297­­­­

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moso cannone che spara continuo ancora adesso e lo circondiamo e tutti 6 gli prendiamo prigionieri con cui [tra cui] un Ufficiale. Il colonnello lo interroga e gli dice perché lei a fatto fuoco sino adesso che c’è l’armistizio? Chi vi a dato ordine? Io rispose, ebbene il colonnello anche lui tira fuori la rivoltella e lo ammazzò. Andiamo ancora avanti siamo quasi sulla cima del Monte e trovammo tanti cannoni abbandonati prigionieri di ogni sorta.

Sono le ultime scene cruente prima che le armi tacciano. Carlo Verano è digiuno dalla sera precedente ma più forte della fame è il sentimento di euforia per la fine della guerra: “dico la verità si era contenti tutti allegri e si camminava volentieri perché ormai tutto è finito e la vita nostra è salva [...] Viene incontro di noi prigionieri Italiani Austriaci di ogni sorta e ci dicono che se andate avanti trovate un colpo [corpo] d’Armata in marcia che si possono prendere tutti prigionieri”. La confusione è massima e Carlo non manca di segnalare particolari curiosi che attirano la sua attenzione. Raggiunta una Rovereto devastata dal conflitto, quasi rasa al suolo, “vicino alla Chiesa vediamo tutto per terra ma una cosa sola in piedi che era la Madonna del Rosario e noi tutti ci facemmo il presentat’arm come i Comandanti per i primi. E giuro che questo è proprio stato un miracolo, perché tutto il paese in macerie e lei sola in piedi?”. Come abbiamo già notato in altre testimonianze, la fine della guerra porta alla luce le devastazioni, le miserie, le sofferenze patite dalla popolazione di confine, dai prigionieri. I percorsi si incrociano e si mescolano. Alle ora 4 siamo alle porte di Trento vediamo tutte quelle donne e ragazzi tutti impazziti dalla fame tante donne ci baciavano in volto e pi[an]gevano. Vediamo quei poveri vecchi abbandonati e raccontando le sue tristi avventure passate sotto il dominio Austriaco. Si vedeva tutto saccheggiato, tutte quelle povere giovine devastate dalla sua bella gioventù insomma era un terrore i[nim]maginabile.

A questo punto Verano riceve l’ordine di unirsi al reparto automobilisti e di recarsi a Mantova. Transita da Vicenza, 298­­­­

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prende il treno per Mantova dove pernotta, e l’indomani (7 novembre) si reca al posto assegnato. Qui cominciano per lui le lezioni di scuola guida, per un periodo di 32 giorni al termine del quale supera l’esame e viene inviato al comando di Trieste, dove viene messo a disposizione di un ufficiale. La vita diventa piacevole, e, come spesso gli accade, Verano prorompe in un inno di ringraziamento a Dio per la sorte benigna, dove fa sfoggio di una sintassi stravagante e di un’aggettivazione ridondante e insolita, modellata dall’emozione: Pregando il Signore sempre a lui accolto e doveroso ho avuto la sua benigna grazia da me tanto desiderata dopo tanto tempo in soffrimento e pene, dalle tribulazioni [sofferenze] avute che pur percosse e passate in orribile disagi tristi e sconsolanti, almeno ora goderò la grazia ricevuta di aver un po’ di allegria e contentezza che mai non si è avuta. Sì, o Signore vi domando perdono se in questo tempo passato di sacrificio e di sofferenza vi ho offeso, datemi pace e forza ancora di onorarvi e lodarvi non solo a me ma a tutti i miei cari che anche loro hanno sofferto per me come pianti e lacrime versate su quelle vostre piaghe per concepire il mio salvamento da ogni pericolo accaduto e sia per voi fatto per me tutti quei dispiaceri e disagi che avrò commesso, e con il vostro Santo nome come della Beatissima madre Maria sia intercessione, per noi ora e sempre nell’avvenire della nostra vita. Posso chiamarmi contento non solo ma essere in Paradiso con voi a quello da me trapassato.

Le sue pagine sono un inno alla gioia. Non è ancora il congedo, ma tutte le circostanze gli si fanno favorevoli. Il 19 gennaio, ad esempio, gli viene concessa una licenza di dieci giorni, e il ritorno a casa sia pure provvisorio è un tripudio di felicità. Mi pargono [paiono] giorni di lieta affettuosità e di bene vedondomi [vedendomi] così più allegro più robusto che prima il mio peso era chilogrammi 76 ed ora in due mesi sono 81 e come cresciuto 5 chili. Anche i miei cari sono contenti a vedermi così bene e come loro il suo piacere è un godimento i[ni]immaginabile e di pace 299­­­­

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eterna. Passo questi giorni e poi me ne parto al mio posto contento ed allegro perché sapevo che andavo bene e ci stavo volentieri.

I mesi corrono e la vita a Trieste si mantiene ricca di piacevolezze anche se cresce l’impazienza per il congedo, che finalmente arriva il 9 settembre. Anche Verano, come altri, vede in questo evento un nuovo spartiacque, la fine di una triste parentesi, anche se non mancano i toni elegiaci del distacco e quasi del rimpianto. Ecco come racconta il momento del congedo: In quel mentre era le ore 4 e scendeva l’acqua a catinelle ma non tremai di camminare feci il mio cammino per un quarto d’ora ed arrivò alla stazione bagnato ma l’allegria mi consolava. Anzi prima di partire diedi il saluto al mio Comandante che mi baciò e pianse dove mi diedi i miei auguri di buona permanenza e che non lo dimentichi mai e me ne andiedi. Sì dico la verità ero contento di andare in congedo ma aver avuto quella così brava persona che trovai così affettuosa ed rispettosa verso di me in qualunque sia cosa che il rincrescimento ed il dispiacere aver nel cuore quella consolazione che mai non ebbi per tutta la mia vita. Orbene il treno passa e sono pronto a scenderci sopra con rallegrandomi nel mio ringraziamento avuto ricorderò tutto il mio passato e con questo accenno ai miei compagni rilasciati il mio ricordo del mio congedamento.

Qui la memoria abbandona il suo impianto narrativo e assume il tono parodistico di un elogio funebre della classe 1894, la sua, passata a miglior vita, e di un resoconto del relativo funerale. Quasi si trattasse del testo di una lapide, una firma suggella quest’ultima pagina di una delle due redazioni della memoria: “Soldato Carlo Verano di Vittorio Classe 1894 Qui pose”. Diversa è la stesura dell’altra redazione, anticipata nel primo capitolo, dove manca il testo parodistico ma gli elementi fondamentali sono gli stessi: i due chilometri che lo separano dalla stazione percorsi con indifferenza sotto la pioggia battente, l’arrivo il 14 settembre alle 19.30, il percorso di nove chilometri ancora da compiere per essere a casa, 300­­­­

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la gioia della fine e il consueto ringraziamento: “feci tutta la mia strada a piedi sino a casa che sono nove chilometri, ma la strada non la vedevo nemmeno dalla contentezza e la mia vita ora riposa un poco da quella vita così triste e penosa com’era la morte sopra ogni momento ma dico la verità e pregherò sempre alla Madonna Santissima dove lei mi ha aiutato e protetto dalle mie sofferenze e pericoli avuti. Ringrazio sempre di cuore. Soldato Verano”.

Postumi Più dolorosi e talvolta infausti furono i percorsi di coloro che recavano sul proprio corpo segni indelebili della guerra. Per seguire le loro storie a partire dalle loro testimonianze, come abbiamo fatto fin qui per gli altri protagonisti, occorre cercare nelle carte dei comitati di assistenza per mutilati e invalidi, come qualche studioso ha cominciato a fare. Tra i menomati per conseguenze della guerra, i ciechi non furono la categoria più numerosa ma certo una di quelle con più alto significato simbolico ed emotivo. La propaganda aveva cominciato a fare uso della loro immagine specialmente a partire dal 1917, per esasperare i richiami alla resistenza. La retorica patriottica e poi nazionalistica e fascista se ne impadronirà, elevandoli a simulacri viventi del grande sacrificio per la nazione. Le burocrazie statali e parastatali si avvicenderanno nel tentativo di combinare rieducazione, risarcimenti e assistenza con i limiti delle finanze pubbliche. Giovanni Danella, nato a Menduno (Udine) il 28 ottobre 1895, soldato del 15° reggimento fanteria, viene ferito da una pallottola di fucile il 25 luglio 1915, a guerra appena iniziata, durante un’avanzata sulle colline di Sagrado nell’altipiano carsico. All’epoca del richiamo alle armi era dovuto rientrare in Italia dalla Germania, dove da tre anni lavorava come mosaicista. Divenuto cieco bilaterale, fu ospite della casa di rieducazione per mutilati di Firenze in tre diversi periodi: dal 1915 al 1917, nella prima metà del 1919 e poi ancora tra il 1919 e 301­­­­

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il 1920. Qui fu addestrato alla produzione di granate, panieri, scope e sedie in saggina e vetrice, alla scrittura col sistema Braille, e seguì corsi di pianoforte e organo. Di lui ci sono rimaste alcune lettere, di cui è firmatario ma non ovviamente autore materiale. Non sappiamo chi lo sostituisse in questo compito, probabilmente persone diverse nel tempo, dotate di diseguali competenze linguistiche, conosciute nel proprio ambiente. Le lettere recano traccia della sua penosa esperienza, della sua vita divenuta povera e dipendente a causa della menomazione, tutta intessuta di piccole cose concernenti le sue attività e la sua sorte pensionistica. Sono in genere indirizzate alle personalità direttive del comitato e improntate allo spirito della deferenza. Inizialmente Danella si rivolge a Gino Bartolomeo Gioli, cieco civile, fondatore del comitato fiorentino e direttore della casa di rieducazione fino al luglio del 1917, quando viene sostituito dal tenente Aurelio Nicolodi, trentino, cieco anch’egli, personaggio destinato col tempo ad essere circondato da un’aura mitica e ad assumere un peso crescente nel settore. In una lettera inviata a Gioli dal suo paese natale il 13 gennaio 1916, Danella descrive la gioia di un temporaneo rientro a casa circondato dall’attenzione dei parenti: “puol solo che immaginarsi la gioia dei miei genitori e della mia sorellina nel vedermi così bene e pure contento, e subito lì è venuto tutti i miei parenti e amici a trovarmi, e venuta pure la mia Meneghina infati sono molto contento a esere venutto un pochi di giorni qui”. Evidentemente il calore dell’ambiente domestico lo conforta. Aggiunge infatti: “ogni sera dopo il lavoro della giornata vengono qui tutti i miei parenti a pasare un paio di ore in casa mia che pasano presto, il giorno mi è un pocho più lungo a Firenze mi pasa più presto perche lo occupato nel lavoro”. In un’altra lettera allo stesso destinatario, sempre da Meduno, datata 1° settembre 1917, si sofferma sulle rate di pagamento di un armonium e sul ricevimento della saggina per le scope e descrive così la sua vita quotidiana: ”Io qui me la paso abbastanza discretamente sono molto occupato continuo sempre a studiare musica la302­­­­

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voro piu non mi manca anche tropo o fatto la raccolta vetrici, siccome qui vicino scorì il torente Meduna e ai margini del detto torente o raccolto le vetrici”. Un’altra lettera inviata a Gioli a guerra appena finita, il 29 novembre 1918, lascia intendere che la sua condizione è precipitata, anche per le spoliazioni subite dopo Caporetto in seguito all’invasione. Chiede perciò di essere riammesso nell’istituto fiorentino: Caro e buon Commendatore egregio – scrive per suo conto una mano più sicura, esibendo un lessico più forbito e attingendo ampiamente alla retorica patriottica –, vorrei pregarla supplichevolmente se fosse possibile ritornare ad essere ammesso all’Istituto; che ne è gran bisogno per continuare gli studi per prima, poi perché mi mancano i mezzi anche per poter vivere, a cagione della completa spogliazione che tutti noi abbiamo subito da quel esacrando nemico, che grazie a Dio e al valore delle nostre armi ci siamo finalmente liberati. Quante vessazioni, prepotenze privazioni, stenti e fame abbiamo patito! Dio solo è testimone a tutti gli atti barbari ed alle nefandezze da questo commesse. Prima d’ora si credevano esagerazioni alla lettura di quello che fece nel Belgio, ma ora ci siamo persuasi che queste erano realtà.

La lettera si trasforma qui in un’implorazione: “Perciò mi prenda di nuovo a cuore distinto Sig. Comm. Che tanto la prego e mi aiuti a non disperare a 23 anni ed a non dovermi chiudere in una tomba e privarmi di quel filo di speranza che mi lascia l’avvenire. Perennemente grato le sarò sempre in unione alla mia famiglia per tutto quello che ella fece e farà per me”. Altre lettere sono indirizzate a Nicolodi, e attestano il mesto tentativo di mantenere la vita nei binari della normalità. In quella spedita da Meduno il 20 aprile 1921, dopo aver annunciato l’arrivo di un telaio che “va benissimo” e dichiarato di attendere anche i relativi materiali come lana e spaghi, annuncia: “Deve sapere Signor Tenente, come lo saprà, che ora o preso moglie, e che bisogna metterci al lavoro, e fare giudizio, ora o raggiunto lo scopo, o trovatto 303­­­­

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una sposa, e così mila passo da Principe, spero in Autuno di venire a fare un giretto a Firenze”. In un’altra, datata 16 gennaio 1922, lamenta la scarsa attenzione del governo per quelli come lui: “Per quanto alla pensione, secondo il mio pensare mi pare che il governo, dia poco soddisfazione del congresso dei ciechi di Roma tenuto il 5.6. del Lulio scorso. Era presente il ministro gasparotto, sua Maestà il Rè, i rapresentanti del senato e tante altre personalità dovevano ensistere, quando fù deliberato la quota asegnata, dunque se io fossi statto presente avrei detto di dare subito corso alle deliberazione del congresso e non aspetare doppo tanti mesi, e poi fare quella miserabile reduzione”. In una terza, del 3 aprile dello stesso anno, accenna alla mancanza di denaro e alla speranza di ottenere una privativa, ossia una rivendita di tabacchi e lamenta l’incertezza delle norme, le complicazioni burocratiche, la disinformazione: “Dunque mi farà sapere se sono aperti i concorsi delle privative, ce né sarebbe una a Spiliimbergo, che potrei concorere. In questi paesi non si sa mai nulla! Ricevo circolare di questa direzione, con un molte di cose, aumenti di pensione, la preferenza delle privative ai ciechi di guerra, e tante altre cose, passano mesi e anni, e poi non sisà nulla di più di così”. Purtroppo per lui, a dispetto della retorica che imperversava anche grazie all’onda montante del fascismo, l’amministrazione pubblica è troppo lenta per arrivare in tempo a risolvere i suoi problemi. A firmare la lettera successiva, datata Meduno 15 settembre 1924 e indirizzata sempre a Nicolodi, è la moglie di Giovanni che ne annuncia l’avvenuta morte: Stimatissimo Signor Tenente, il mio amato marito Giovannino la morte, la rapito, in seguito alla ferita riportandoli, e producendoli un tumore al cervello, i dotori gli anno fatto la acesione del cadavere, e atestano che la sua morte e causa la ferita, se farà bisogno i certificati di 5 dotori, io sarò pronta a mandarli. Io sono rimasta con due teneri bambini, e con la sua vecchia mamma, in critiche condizioni, senza pensione, avrei da ricevere la pensione del ultimo mese sarebbe 29 giorni la 304­­­­

La via di casa

prego di indicarmi le pratiche che devo fare. E se io potrò avere una pensione dal governo, e se lei potrà aiutarmi, e fare qualche pratica presso il governo, lo prego Signor Tenente di avermi aggevole in queste pratiche ringraziandola anticipatamente, Giovannino sempre lo nominava, che è sempre stato gentile di aiutarlo in tutto, e di quello che potrà spero farà, per mé e i suoi cari orfani. Devotissima Danella Irene

La guerra grande è finita, è nata la nuova Italia. Dall’esperienza compiuta, le classi subalterne hanno dovuto imparare se non altro l’importanza cruciale della burocrazia, della certificazione amministrativa della vita e della morte. Sta lì a dimostrarlo l’accenno all’autopsia, al nesso tra il ferimento e la malattia, alla morte per causa di servizio, che apre la lettera. I certificati sono decisivi. Ciò che non è nuovo, che semmai diverrà sempre più importante, è il bisogno di servirsi dei notabili, come il tenente Nicolodi, per accedere alle provvidenze statali. Nel nuovo Stato postbellico, presto dominato dal fascismo, il principio ottocentesco della deferenza, dell’ossequio gerarchico ai potenti, rimarrà al centro della vita sociale.

Fonti e bibliografia

Scritture di guerra

La ricerca storica sulle scritture di guerra della gente comune si è da molto tempo giovata di una contiguità di interessi con gli studiosi di paleografia, storia della cultura scritta e linguistica. Ne sono testimonianza lavori come quello ormai classico di Attilio Bartoli Langeli, La scrittura dell’italiano, Il Mulino, Bologna 2000, e quello recentissimo di Enrico Testa, L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Einaudi, Torino 2013. Entrambi valorizzano il contributo dato dagli storici al reperimento e allo studio dei materiali di scrittura di gente comune (o “scritture dei semicolti”, come li definisce Testa), prodotti specialmente nel contesto delle esperienze migratorie e di quelle belliche (comprese quelle di prigionia), con particolare riferimento all’esplosione della produzione di scrittura nella prima guerra mondiale. Il migliore studio d’assieme sulla corrispondenza popolare della prima guerra mondiale in Italia, nella sua genesi e nei suoi molteplici usi, resta quello di Fabio Caffarena, Lettere dalla grande guerra. Scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia. Il caso italiano, Unicopli, Milano 2005. Sulla regolarità dei servizi postali e sulla relativa brevità dei tempi di percorrenza delle missive (2-3 giorni dal fronte all’interno e 1-2 giorni nel senso inverso) accurati riscontri e conferme si trovano in Claudio Costantini, Un contabile alla guerra. Dall’epistolario del sergente di artiglieria Ottone Costantini (1915-1918), Paravia, Torino 1996, pp. 38-40. L’epistolario di Americo Orlando, conservato in copia presso l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare (ALSP), comprende 80 lettere e 7 cartoline, in grande maggioranza missive scritte da lui alla madre, anche se non mancano altri destinatari (parenti e amici), come non mancano missive indirizzate a lui e provenienti, oltre 307­­­­

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che dalla madre, da diversi interlocutori. Le lettere alla madre sono sempre scritte in un italiano difficoltoso e ricco di contaminazioni con la lingua del paese di adozione, mentre con altri interlocutori, compresa la sorella Almerinda, nata dopo di lui in Brasile, Americo usa il portoghese. Il caso di Americo è presentato in Americo Orlando, Mia cara mamma. Lettere dal fronte, a cura e con Introduzione di Mirian Silva Rossi, Comune di Guardiagrele, Pescara 2007, con una nota di Mario Palmerio, Le tre Madri. Un’ipotesi di lettura. Il volume pubblica gran parte della corrispondenza, ma in una versione tradotta dal portoghese in italiano e, quando la lingua usata è l’italiano, normalizzata, con l’eliminazione delle influenze portoghesi nonché delle incongruenze ortografiche e sintattiche più vistose. Nelle poche citazioni mi sono invece attenuto al testo originale. Sulla questione del rimpatrio dei migranti italiani all’estero, con particolare riferimento alle Americhe, si veda Emilio Franzina, Volontari dell’altra sponda. Emigranti ed emigrati in America alla guerra (1914-1918), in Volontari italiani nella Grande Guerra, a cura di Fabrizio Rasera e Camillo Zadra, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto (TN) 2008. Riguardo agli italiani che ritornarono dal Brasile per rispondere alla chiamata, Franzina desume da una fonte d’epoca la cifra di 8.951 (con 280 caduti), assai modesta rispetto alle centinaia di migliaia di Italiani residenti in quel Paese. L’autore richiama inoltre le cifre ufficiali secondo cui sul totale dei migranti italiani all’estero che avevano mantenuto la cittadinanza ed erano in età di servizio o di leva, pari a 1.200.000, i rimpatriati per rispondere alla chiamata furono poco meno di 304.000. Gli Italiani residenti all’estero, ovviamente favoriti e comunque incoraggiati dal distacco avvenuto, fecero registrare in tal modo il più alto tasso di renitenza rispetto all’insieme dei richiamati. L’autobiografia di Vincenzo Rabito è pubblicata col titolo Terra matta, Einaudi, Torino 2007 (le citazioni nell’ordine alle pp. 47-48, 55 e, a termine capitolo, 102). Nel testo pubblicato – solo una scelta delle 1.027 pagine che costituiscono l’originale – la parte dedicata alla Grande Guerra è circa un quarto del totale (oltre 100 pagine a stampa su 411). L’epistolario di Giovanni Panattaro è conservato in ALSP: si tratta di lettere e cartoline indirizzate al padre (la madre è morta), qualche volta al padre insieme alle sorelle ancora in casa (in tutto 131 missive), alla sorella sposata Giuseppina e al cognato Vincenzo (27), all’altra sorella Maria (6), agli zii (20) e alle nipotine 308­­­­

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(1). A queste si aggiunge un piccolo nucleo di 6 tra lettere e cartoline inviate a Panattaro da zii, nipotine, colleghi militari, amici, che portano il totale delle missive comprese nell’epistolario a circa 190. La testimonianza scritta del pronipote, Giuseppe (Pino) Ferraris, un caro amico che ricordo con grande stima, ha accompagnato la donazione degli originali all’ALSP ed è compresa nel relativo fascicolo. La lettera di Maria Zanfabbro è pubblicata, con le altre recuperate nell’archivio transilvano di Cluj, in Ştefan Damian, Lettere dai tempi di guerra, Editrice IDC Press, Cluj-Napoca 2005, p. 49. La corrispondenza di Demetrio D. (detto Luigi o Luigin) con la moglie Agnese è conservata in ALSP. Le lettere citate sono del 31 marzo, dell’11 e del 27 aprile, del 26 agosto 1917. Anche le lettere di Carlotta a Giacomo Rettagliata sono conservate in ALSP, così come l’epistolario di Amedeo Andolcetti. Quello di Francesco Ferrari, compreso in un fondo dell’Archivio di Stato di Brescia, è stato studiato e integralmente pubblicato da Federico Croci, Scrivere per non morire. L’epistolario del soldato bresciano Francesco Ferrari, Marietti, Genova 1992, dal quale riprendo diverse annotazioni. La memoria di Giovanni Pistone, conservata in copia presso l’ALSP, è stata rintracciata, interamente trascritta e commentata nella sua tesi di laurea (Scrittura popolare della Grande Guerra: la memoria inedita di Giovanni Pistone, Università degli Studi di Genova, a.a. 1988-1989) da Gino Bogliolo, cui si deve anche la raccolta della testimonianza orale dell’autore comprendente i cenni citati (mantenendo la trascrizione di Bogliolo) a proposito del suo ruolo di scrivano per conto dei commilitoni (una soltanto delle citazioni sul tema è tratta direttamente dalla memoria). Esistono due redazioni della memoria, una datata 1973 e l’altra 1981. Dallo studio di Bogliolo riprendo alcuni elementi interpretativi, inclusa la citazione di Halbwachs (tratta da Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1987, p. 88). Alla figura di Pistone ho dedicato un ampio ritratto nel mio La Grande Guerra degli italiani, RCS, Milano 1998 (ora in edizione BUR, 2014). A parte l’esordio, le citazioni presenti nell’ultima parte del capitolo sono riprese dalle pp. 30 e 58 della seconda redazione. Sulla corrispondenza dei fanti con i parroci, lo studio più circostanziato e l’esempio più interessante è quello fornito da Carlo Stiaccini, Trincee di carta. Lettere di soldati della prima guerra mondiale al parroco di Fara Novarese, Interlinea, Novara 2005 a 309­­­­

Fonti e bibliografia

cui mi sono riferito ampiamente nel testo. Ho tratto la citazione sul ruolo dei parroci dall’introduzione di Mario Perotti, p. 11, e le citazioni delle lettere dei soldati dal saggio di Stiaccini alle pp. 25, 28, 29, 34, 40. Dello stesso Stiaccini si veda anche L’anima religiosa della guerra, Aracne, Roma 2009. Per il caso dei cappellani militari cfr. Girolama Borella, Daniela Borgato, Roberto Marcato, Lettere a don Giovanni Rossi cappellano militare della Grande Guerra, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto 2004. Sulle lettere alle autorità e ai notabili locali si veda Federica Oppioli, La “contrattazione” del combattente. Lettere di soldati savignanesi dal fronte della Grande guerra (1915-1918), Editrice La Mandragora, Imola 2005. La citazione di Calamandrei è ripresa da Piero Calamandrei, Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924), Laterza, RomaBari 2006, p. 286. Quella del soldato sardo Efisio Melis da Ines Loi, Dai bressaglieri alla fantaria. Lettere dei soldati sardi nella Grande Guerra, Ilisso Edizioni, Nuoro 1998, p. 99. L’articolo della “Rivista mensile del Touring Club Italiano”, febbraio 1916, La posta al campo, a firma Julius, con ampia documentazione fotografica, è alle pp. 79-87 (le citazioni alla p. 84). Sulle lettere dei soldati ricoverati nei manicomi si veda Maria Vittoria Adami, L’esercito di San Giacomo. Soldati e ufficiali ricoverati nel manicomio veronese (1915-1920), Il Poligrafo, Padova 2007 e Annacarla Valeriano, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931), Donzelli, Roma 2014. Sulle lettere anonime ai monarchi Renato Monteleone, Lettere al re 1914-1918, Editori Riuniti, Roma 1973. Sui taccuini e quaderni di guerra nell’area trentina, rinvio agli studi pionieristici del gruppo di “Materiali di lavoro”, in particolare a Camillo Zadra, Quaderni di guerra. Diari e memorie autobiografiche di soldati trentini nella Grande Guerra, in “Materiali di lavoro”, n. 1-2-3, 1985, e a Gianluigi Fait, Diego Leoni, Fabrizio Rasera, Camillo Zadra, La scrittura popolare della guerra. Diari di combattenti trentini, in La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, a cura di Diego Leoni e Camillo Zadra, Il Mulino, Bologna 1986. Il “diario” di Bussi, conservato in copia nell’ALSP, è stato studiato in una chiave antropologica da Piercarlo Grimaldi, che ne ha curato l’edizione mettendo a confronto le tre redazioni disponibili e raccogliendo la testimonianza orale dell’autore: si veda Giovanni Bussi, Forse nessuno leggerà queste parole. Diario della 310­­­­

Fonti e bibliografia

grande guerra, a cura di Piercarlo Grimaldi, Meltemi, Roma 2002 (le citazioni dal saggio introduttivo sono alle pp. 12, 13 e 16). Il diario di Marenco, conservato in copia fotografica presso l’ALSP, è stato oggetto di trascrizione completa nella tesi di laurea di Sabrina Rapetti, Lettere e diari della prima guerra mondiale. Testimonianze contadine della Valbormida, Università degli Studi di Genova, a.a. 1989-1990. Per Manetti si veda Giuseppe Manetti, Maledetta guerra. Diario di un contadino al fronte (10 febbraio 1917 – 5 luglio 1918), a cura di Cristina Chierchini, prefazione di Antonio Gibelli, Pagnini, Firenze 2008 (le citazioni, alle pp. 19 e 21-22, sono state controllate sul manoscritto). Il testo di Carlo Verano è conservato in copia presso l’ALSP in due versioni diverse (di cui l’una appare come la trascrizione con qualche variante dell’altra). La citazione è ripresa dalla prima stesura, p. 92. Fin dal ritrovamento dei manoscritti ero rimasto colpito dal contrasto tra la tragicità degli avvenimenti narrati e lo stile dimesso dell’esposizione, e gli avevo dedicato diverse citazioni in L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991, ultima ed. 2007. I quaderni di Francesco Olivero sono esaminati da Carlo Stiaccini, Il tempo, la guerra, la scrittura nel diario di un giovane benedettino (1915-1916), in Storie di gente comune nell’Archivio Ligure della Scrittura Popolare, a cura di Piero Conti, Giuliana Franchini, Antonio Gibelli, Università degli Studi di Genova-Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea, Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme (AL) 2002, da cui traggo le citazioni (pp. 134 e 136), riprese nell’ordine dal quaderno III, p. 33 e dal quaderno IV, p. 21. Combattenti

Al tema del carattere smisurato, inimmaginabile e perciò impensabile – fino a cose fatte – della prima guerra mondiale ho dedicato alcune pagine nel mio L’officina della guerra cit. Ma si veda ora, per il tema della natura inedita della violenza di guerra, Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002. Cifre generali esaurienti sulle dimensioni del conflitto con riferimento al numero dei mobilitati, dei prigionieri, dei feriti sono riassunte in una tabella compresa nel saggio di Jay Winter comparso 311­­­­

Fonti e bibliografia

nel secondo volume dell’enciclopedia La prima guerra mondiale, a cura di Stéphane Audoin-Rouzeau e Jean-Jacques Becker, edizione italiana a cura di Antonio Gibelli, Einaudi, Torino 2007, p. 449. Le citazioni dall’autobiografia di Rabito sono alle pp. 46, 53-55, 112113, 18, 19. La citazione di Thomas Mann è tratta da La montagna incantata, vol. I, Dall’Oglio, Milano 1930, p. 249. L’epistolario di Demetrio D. (Luigi o Luigin), già segnalato nel capitolo precedente, comprende circa 120 tra lettere e cartoline postali militari, di cui 31 del 1915, 70 del 1916, 33 del 1917, 17 nel 1918, più altre del 1919, 1936 e 1938, non datate o in frammento. In maggioranza si tratta di lettere o cartoline di Demetrio ad Agnese (62 per il periodo dal 1915 al 1918) o di Agnese a Demetrio (32 nello stesso periodo), ma ve ne sono anche, abbastanza numerose in particolare per il 1915, indirizzate da un prete a Demetrio e qualcuna di altri personaggi. La prima missiva è una lettera del marito da Savona il 2 giugno 1915, l’ultima del periodo di guerra ancora una lettera di Demetrio datata Sestri Ponente, 20 luglio 1918. L’epistolario di Vittore B. è conservato in copia presso l’ALSP, ed è stato oggetto della tesi di laurea di Francesco Salvi (Una famiglia nella Grande Guerra. L’epistolario del soldato Vittore B[...] e della moglie Maria, Università degli Studi di Genova, a.a. 20062007). Comprende in totale 359 documenti, ossia missive indirizzate da Vittore alla moglie (203) e da questa a lui (156): la prima è quella di Vittore del 30 luglio 1916, l’ultima quella di lei del 25 dicembre 1918. Dell’epistolario di Giovanni Panattaro abbiamo dato conto. Le citazioni di Manetti (Maledetta guerra, cit.) sono nell’ordine alle pp. 12, 46, 38-39, 37, ancora 46, 69, 35, 33-34, 46-47, e sono state controllate sul manoscritto. La memoria di Ubaldo Baldinotti è conservata presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (AR), dove è stata selezionata tra i testi finalisti in concorso per il Premio Pieve nell’edizione del 2012. Le citazioni, nell’ordine, alle pp. 130, 105, 33-34, 55-56, 100, 101, 121-122, 119-120, numerate nell’originale. Sette quaderni di Giuseppe Capacci sono stati pubblicati col titolo Diario di guerra di un contadino toscano, a cura di Dante Priore, Cultura Editrice, Firenze 1982. Un altro quaderno, comprendente gli avvenimenti tra il 23 marzo 1916 e il maggio dello stesso anno, è andato perduto. Secondo il curatore, gli ultimi cinque quaderni 312­­­­

Fonti e bibliografia

“personalmente numerati in ordine progressivo da Capacci, formano come un unico blocco di cui è possibile fissare con sicurezza il periodo della composizione, che risale ai primi mesi del 1918”. Degli altri due si può solo dire che sono stati scritti probabilmente in epoca anteriore e comunque a distanza di tempo dagli avvenimenti narrati (p. 113). Per la verità la trascrizione ha operato qualche intervento sul testo originale, normalizzandolo su alcuni elementi ortografici e di punteggiatura. Recentemente è comparsa una seconda edizione del testo, più curata, con un nuovo titolo: Diario di un contadino alla “Grande Guerra”, Inprogress, Firenze 2014, dalla quale ho ripreso le citazioni, nell’ordine, alle pp. 36, 77, 44, 85, 33, 98, 98-99, 109, 62, 54, 77, 79-80, 92. Nel tratteggiare l’esperienza di guerra di Capacci ho ripreso pressoché integralmente la parte che gli avevo dedicato nel saggio Per una storia dell’esperienza di guerra dei contadini, in “Movimento operaio e socialista”, a. IX (1986), n. 1, pp. 16-18, ora riproposta in appendice alla seconda edizione. Il rinvio a Fussell si riferisce a Paul Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, ultima edizione italiana Il Mulino, Bologna 2000. Per il riferimento a Musil, rimando al mio L’officina della guerra cit., p. 6. Le citazioni di Carlo Verano sono tratte dalla seconda stesura della memoria, pp. 49-50, 51, 54, 115-116, 118-120, 63-64 (la numerazione non è nell’originale). Le citazioni di Pistone sono tratte dalla seconda stesura della memoria, nell’ordine alle pp. 18-20, 21, 24, 27, 12 e 33 (numerazione presente nell’originale). Donne

La storia delle donne nel contesto della prima guerra mondiale non ha registrato di recente in Italia apporti particolarmente cospicui di natura complessiva. Sul piano della storia di genere, i pochi contributi risalgono ormai a molto tempo fa e si riferiscono per lo più a una prospettiva che abbraccia entrambe le guerre mondiali (come la raccolta di saggi curata da Anna Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 2002). In tema di lavoro femminile in tempo di guerra, inteso come lavoro extra-domestico, esterno alle aziende familiari contadine o del piccolo commercio, quindi essenzialmente nel settore industriale e della pubblica amministrazione, il saggio più ampio e rigoroso rimane quello di Bar313­­­­

Fonti e bibliografia

bara Curli, Italiane al lavoro 1915-1920, Marsilio, Venezia 1998. Vi sono poi studi di varia consistenza sui lavori di confezionamento di indumenti militari, sulle infermiere e le crocerossine, sul madrinaggio di guerra, ma manca un’opera che affronti complessivamente la vita delle donne nei suoi diversi risvolti durante la guerra e il loro rapporto con la mobilitazione bellica. Pagine utili sul rapporto tra madri e figli combattenti si trovano in Marina D’Amelia, La mamma, Il Mulino, Bologna 2005, al cap. V, Madri e Grande guerra. Per quanto riguarda le scritture femminili di guerra si veda Quinto Antonelli, “Io sono di continuo in pensieri...”. Donne che scrivono nella Grande Guerra, in Scritture di donne. Uno sguardo europeo, a cura di Anna Juso, Protagon, Arezzo 1999. Per il tema delle madrine di guerra Augusta Molinari, La buona signora e i poveri soldati. Lettere a una madrina di guerra (1915-1918), Scriptorium/Paravia, Torino 1998. Della stessa autrice Donne e ruoli sessuali nell’epistolografia popolare della grande guerra, in “Dolce dono graditissimo”. La lettera privata dal Settecento al Novecento, a cura di Maria Luisa Betri e Daniela Maldini, Franco Angeli, Milano 2000, che esamina un epistolario tra due coniugi di estrazione contadina conservato presso l’ALSP, e, più recentemente, Una patria per le donne. La mobilitazione femminile nella Grande Guerra, Il Mulino, Bologna 2014. Sul tema del patriottismo e del nazionalismo femminile si veda Laura Guidi, Il nazionalismo declinato al femminile 1914-1918, in Ead. (a cura di), Vivere la guerra. Percorsi biografici e ruoli di genere, Clio Press, Napoli 2007. L’epistolario Andolcetti-Gorrone, in cui è conservata la corrispondenza tra Gemma e Amedeo Andolcetti, parte di un più ampio archivio di famiglia, è conservato in ALSP. All’ALSP appartengono anche quelli di Efisia Vassallo e Cesarina Giamella, esaminati nella tesi di laurea di Giancarlo Mangini, Donne e Grande Guerra nei documenti degli Archivi di scrittura popolare, università degli Studi di Genova, a.a. 2010-2011. Il riferimento alle donne trentine e la relativa citazione sono tratti da Quinto Antonelli, “Io sono di continuo in pensieri...” cit., pp. 109 e sgg. Dell’epistolario di Giovanni Panattaro, della corrispondenza tra Agnese e il marito Demetrio D. e di quella tra Vittore B. e Maria abbiamo dato conto in precedenza. Sul tema del discorso amoroso attraverso la corrispondenza epistolare si veda Rosalba Dondeynaz, Selma e Guerrino: un epistolario amoroso (1914-1920), Marietti, Genova 1992. L’epistolario della famiglia Mazzoni si trova in ALSP. 314­­­­

Fonti e bibliografia

Le lettere inviate dal fronte dall’artigliere Ottone Costantini sono in parte notevole pubblicate in Claudio Costantini, Un contabile alla guerra, cit. Dall’introduzione del curatore apprendiamo che dell’epistolario fanno parte anche 78 lettere di Sandra, non riportate nel libro se non in misura modestissima, in nota e per frammenti. A suo tempo Claudio Costantini mi aveva cortesemente dato in visione alcuni originali di queste lettere (che ho citato in La Grande Guerra degli italiani cit., p. 306) e ne aveva depositato, assieme ai materiali preparatori del libro, una trascrizione parziale (13 lettere integrali e frammenti) presso l’ALSP. Nella mia ricostruzione del rapporto fra i due ho attinto, per le lettere di lei, a tale trascrizione certamente scrupolosa e accurata, mentre per quelle di lui mi sono avvalso dell’edizione a stampa. Le informazioni sull’American Hospital di Firenze sono tratte dal Final Report of the Liquidation Commitee of the American Hospital, Tipografia A. Meozzi, Firenze 1919. L’album di dediche di Anna Lazzari è conservato presso l’ALSP. Comprende in totale circa 70 dediche di soldati e graduati, oltre a fotografie e a qualche testo di altra natura, come l’invito rivolto alla Lazzari a presenziare a una cerimonia, un paio di cartoline postali e un componimento in versi di intonazione ironica. Nell’album manca una numerazione delle pagine e le dediche non sempre sono datate, sicché non ho indicato nessun riferimento alle citazioni. Grazie alla cortesia di Laura Massajoli, nipote di Anna Lazzari, che ha donato l’album all’ALSP, ho anche potuto consultare il quaderno autobiografico della crocerossina, scritto nel dicembre 1974, a ottant’anni compiuti, in una grafia molto chiara e ordinata, con qualche inserto dattiloscritto. Nel quaderno si descrivono in maniera briosa l’atmosfera fervida dell’American Hospital e le difficoltà linguistiche del personale americano. A mia conoscenza l’unico caso segnalato, oltre a questo, di album di dediche di un’infermiera della Grande Guerra è quello di Evangelina Neri di cui si parla in Pierangela Diadori, Duccio Fanetti, Dediche di militari della Grande Guerra nell’album di ricordi di un’infermiera volontaria di Siena: un’analisi linguistica e culturale, in “Italica”, vol. 90, n. 1, 2013 (ringrazio Fabio Caffarena per avermelo segnalato). Il caso di Elisabetta Berti è illustrato in Francesco Berti Arnoaldi, Gli anni di guerra visti da una crocerossina, che pubblica per intero il breve diario di guerra della parente, in Caltrano nella Grande Guerra. Documenti e testimonianze, Comune di Caltrano 1999, pp. 19-40 (le citazioni alle 315­­­­

Fonti e bibliografia

pp. 31, 32, 35). Sulla storia delle infermiere volontarie si veda Stefania Bartoloni, Italiane alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918, Marsilio, Venezia 2003, da cui traggo la citazione di Sita Camperio Meyer (p. 172). Fuggiaschi

Su Caporetto mi limito a citare, tra i lavori meno lontani nel tempo, l’opera di Nicola Labanca, Caporetto. Storia di una disfatta, Giunti, Firenze 1997. Elementi importanti per l’esodo dei civili si trovano nel più recente Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2006. La memoria del tenente Mura è stata recentemente depositata in trascrizione presso l’ALSP da Alessandro Lombardo, che ringrazio per avermela segnalata. Dell’epistolario di Vittore B. abbiamo già dato conto. Il fondo intestato a Mario Marchi, conservato in copia presso l’ALSP, è stato oggetto dell’accurata tesi di laurea di Irene Grandi, “Piccola famiglia per una grande Patria”. Memorie e lettere di un ufficiale e della sua famiglia negli anni della Grande Guerra, Università di Pisa, a.a. 2005-2006, che contiene tra l’altro una schedatura completa dell’epistolario e dalla quale ho tratto le notizie sulla famiglia. Le citazioni di Carlo Verano sono tratte dalla seconda stesura, alle pp. 85-89 (numerazione non originale). Le citazioni di Ubaldo Baldinotti sono alle pp. 129-130, 132, 135-136, 138-139, 139-140, 142-143, 150-151. Per il testo di Bussi rinvio all’edizione già citata a cura di P. Grimaldi del 2002: le citazioni, nell’ordine, sono alle pp. 112, 114, 116, 116, 117, 120-121, 117-118, 118-119, 124. Sulla lettura di Caporetto in chiave di complotto e sulla testimonianza di Bussi che ne sarebbe stato testimone diretto avevo in verità richiamato l’attenzione, con una citazione molto ampia al testo e un rinvio alle false notizie di guerra, già nel mio La Grande Guerra degli italiani cit., pp. 251-254. Le citazioni di Manetti, tratte dall’edizione citata, nell’ordine alle pp. 60-61, 61-62, 62-63, 70-71, 67, 68, sono state controllate sull’originale. Il quaderno di Bartolomeo Baccalaro da cui ho tratto le citazioni, come gli altri due dello stesso autore, qui non utilizzati, è 316­­­­

Fonti e bibliografia

conservato in copia presso l’ALSP. La mancanza di una numerazione originale delle pagine e un certo disordine nei quaderni mi impedisce di indicare il luogo delle citazioni. Il taccuino di Aldo Neppi Modona è compreso in un cospicuo fondo di carte relative all’esperienza di guerra dell’autore, prevalentenente di natura epistolare, conservato in ALSP, a cui è stato donato dalla figlia, Lionella Neppi Modona Viterbo. Il fondo è stato esaminato nella sua tesi di laurea da Fabio Poggiolini, Gli ebrei italiani nella prima guerra mondiale: il caso di Aldo Neppi Modona, Università degli Studi di Genova, a.a. 2008-2009, che ha interamente trascritto il taccuino. Le pagine dell’originale non sono numerate e le citazioni sono riscontrabili in base alla data. Il diario di Luigi Colombini (conservato in copia presso l’ALSP) è stato accuratamente esaminato e interamente trascritto nella sua tesi di laurea da un pronipote dell’autore, Enrico Brusaioli (Carlo Luigi Colombini. Diario di prigionia 1917-1919, Università degli Studi di Genova, a.a. 2004-2005) che offre una descrizione molto precisa del supporto: “un taccuino di formato 16 x 10 cm” che “presenta una copertina rigida non originale di colore nero (14 x 9,30 cm) priva di alcuna intestazione” e “consta di 106 pagine non numerate”. Il mezzo scrittorio “è generalmente costituito da una matita copiativa”, non sempre la stessa, salvo quattro pagine vergate con una penna a sfera di colore blu. Brusaioli racconta inoltre le circostanze fortunose del ritrovamento del documento, avvenuto nel 1976 da parte di una nipote di Colombini nel corso dello sgombero di un appartamento fiorentino seguito alla morte dell’ultima proprietaria. Quanto alle circostanze di produzione e alla forma testuale, Brusaioli fa l’ipotesi che la scrittura sia stata intrapresa una volta che Colombini fu arrivato al primo importante campo di detenzione: quindi nella sua prima parte si tratterebbe di una memoria-diario, ossia di una memoria scritta nella forma tipica della scansione giornaliera degli avvenimenti ma a qualche distanza da essi, e solo successivamente diverrebbe un diario in senso non solo formale ma sostanziale. L’ipotesi è plausibile, anche per l’indizio costituito dal fatto che gli avvenimenti successivi al 27 ottobre sono preceduti dal titolo La Ritirata a centro pagina, che apparentemente non si concilia con una stesura continua. Altri elementi, come l’assoluta uniformità della scrittura fatta di appunti abbastanza stringati e la precisione dei dettagli, potrebbero far pro317­­­­

Fonti e bibliografia

pendere per l’ipotesi che il diario sia tale fin dall’inizio, ossia fin dal rientro in trincea nell’agosto del 1917, e prosegua come tale, con una sorta di breve interruzione-bilancio intervenuti al momento dell’insediamento nel campo di Stendal. Brusaioli traccia un vivace ritratto del personaggio anche grazie alle testimonianze di figlie e nipoti e fornisce una quantità di informazioni utili sulla vita familiare di Colombini, sposatosi nel 1907 con Angelina Tansini da cui ha due figlie, e trasferitosi con la famiglia a Firenze con l’ingresso in qualità di socio in una importante ditta di fotoincisioni di quella città. Lo descrive come un uomo versatile, amante della musica, “letterato” in ragione della sua curiosità e dei suoi interessi che lo portano ad acquistare regolarmente quotidiani e riviste, anche se la sua formazione scolastica non è andata oltre il compimento del ciclo elementare. Di conseguenza l’italiano scritto del suo diario appare caratterizzato da una sintassi sostanzialmente corretta ma anche da ricorrenti difformità ortografiche, come l’uso arbitrario delle maiuscole e altre. La scrittura risente evidentemente delle condizioni ambientali sfavorevoli, e forse anche per questo risulta piuttosto trascurata nella punteggiatura e nell’uso dei segni diacritici e non è sempre facilmente leggibile, anche se il taccuino è conservato nel complesso piuttosto bene. Per la mia lettura ho utilizzato la copia digitale dell’originale conservata in ALSP. Il libro di Spitzer a cui si fa riferimento nel testo è Leo Spitzer, Die Umschreibungen des Begriffes “Hunger” im Italienischen. Stilistich-Onomasiologische Studie auf Grund von Unveroeffentlischtem Zensurmaterial, Druck Von Karras, Kroeber & Nietschmann, Halle a.S. 1920, di cui si attende presto la prima traduzione italiana. Grazie alla stessa esperienza di censore Spitzer pubblicò un altro libro, Italienische Kriegsgefangenenbriefe, Hanstein Verlag, Bonn 1921, tradotto in italiano solo nel 1976 (Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918, Boringhieri, Torino), che al tema della fame dedicava un capitolo. Anche di questo è prossima una nuova edizione. Prigionieri

Sul tema della prigionia nella prima guerra mondiale esiste ormai una letteratura abbastanza ampia. Un’utile sintesi in argomento si 318­­­­

Fonti e bibliografia

trova alla voce Prigionieri, dovuta a Uta Hinz, in La prima guerra mondiale, a cura di Stéphane Audoin-Rouzeau e Jean-Jacques Becker, cit., vol. I. Hinz rinvia tra gli altri al volume che ha dato il via agli studi sui temi dei non combattenti: Annette Becker, Oubliés de la Grande Guerre. Humanitaire et culture de guerre, 1914-1918. Populations occupés, déportes civil, prisonniers de guerre, Noesis, Paris 1998. Cenni utili al tema della prigionia anche nella voce di Bruno Cabanes, La smobilitazione e il ritorno degli uomini, sempre in La prima guerra mondiale cit., vol. II. Sui prigionieri di guerra austriaci in Italia lo studio più ampio è quello Alessandro Tortato, La prigionia di guerra in Italia 1915-1918, Mursia, Milano 2004, che tuttavia non giunge a conclusioni complessive certe sull’argomento. Anche in Italia tra le novità più recenti, una delle poche, relative alla storiografia della prima guerra mondiale va segnalata l’attenzione al coinvolgimento dei civili, a cui per certi aspetti possono essere assimilati i prigionieri, nelle violenze di guerra. Sul tema si veda in particolare La violenza contro la popolazione civile nella Grande Guerra. Deportati, profughi, internati, a cura di Bruna Bianchi, Unicopli, Milano 2006. Il miglior lavoro sui prigionieri italiani per ricchezza di fonti e di informazioni resta quello di Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000 (prima ed. 1992), che ha permesso di definire un quadro compiuto della drammatica situazione dei 600.000 prigionieri italiani e delle sue cause. Il volume pubblica anche una raccolta di lettere di prigionieri o di loro parenti, integrali o a stralci, reperite negli archivi pubblici italiani, dove si trovano per effetto dei controlli di censura e delle relative procedure giudiziarie. La genesi della raccolta ne determina anche il carattere prevalente e quindi i limiti. In buona parte delle lettere o dei frammenti risalenti al periodo dal 1915 al 1917 il tema dominante è non casualmente la diserzione: ora orgogliosamente rivendicata o almeno giustificata come unica scelta possibile di fronte ai meccanismi di una guerra insensata e alla prospettiva di una morte sicura, ora respinta come accusa ingiusta e causa di una reputazione infamante che rischia di pesare sull’interessato e sulla sua famiglia, addirittura sconsigliando il ritorno in Italia a guerra conclusa. Numerose lettere, quelle il cui scopo è respingere l’accusa, sono perciò dedicate a stendere un resoconto quanto mai ampio e dettagliato della cattura, allo scopo di allonta319­­­­

Fonti e bibliografia

nare da sé il sospetto. Nelle lettere del 1918, successive alle vicende di Caporetto, sono invece numerosissimi i riferimenti alla fame e le implorazioni per l’invio di pacchi viveri, segno che a quel punto la situazione era divenuta drammatica, come le nostre fonti ci hanno ampiamente illustrato. Alcune delle lettere, evidentemente allo scopo di far pressione sui parenti della cui sollecitudine gli scriventi non si fidano, contengono informazioni iperboliche (un prigioniero, non si sa sulla base di quali fonti, parla di 75.000 morti di fame sui 300.000 catturati: Giovanna Procacci, op. cit, p. 492, lettera da Mauthausen a Montalbano Elicona, Messina, 10 febbraio 1918). In un gran numero di lettere si notano espressioni di vera e propria disperazione. Qualcuna riferisce particolari raccapriccianti, simili a quelli annotati dai nostri testimoni, come l’autopsia eseguita su un prigioniero morto, nello stomaco del quale vengono trovate 34 teste di aringhe (p. 498, lettera del 3 luglio 1918). Per un confronto con le scritture autobiografiche relative a esperienze di reclusione nella seconda guerra mondiale si veda Scritture recluse. Testimonianze di confinati, deportati, internati, “Quaderni di Storia e memoria”, supplemento al n. 1/2013 di “Storia e memoria”. Pagine penetranti sulle scritture di prigionia, con riferimento ai trentini detenuti nei campi russi, si devono a Quinto Antonelli, I dimenticati della Grande Guerra. La memoria dei combattenti trentini 1914-1920, Il Margine, Trento 2008, che a proposito delle agendine tenute dai prigionieri scrive tra l’altro: “L’accanimento, la costanza, la diligenza con cui le agendine vengono tenute rimandano al valore della misurazione del tempo, al senso di sicurezza che il ritorno dei giorni comunica, alla volontà di metter ordine in una esistenza in cui si ha difficoltà a riconoscersi” (p. 165). Dal testo di Antonelli riprendo le notizie sulle peregrinazioni dei prigionieri trentini. Sul tema dei prigionieri italiani in Russia si veda Marina Rossi, I prigionieri dello zar. Soldati italiani dell’esercito austroungarico nei lager della Russia (1914-1918), Mursia, Milano 1997. Accanto al diario di Luigi Colombini, di cui abbiamo già dato conto, vale la pena di segnalare qui un altro “diario” di guerra e di prigionia che, dopo la cattura del protagonista, ripercorre esattamente nello spazio e nel tempo le tappe di quello di Colombini: evidentemente il suo autore fece parte dello stesso, vasto e informe contingente di prigionieri cui appartenne Colombini e ne condivise fino a un certo punto la sorte. Si tratta del testo, frutto di diverse riscritture, di Annibale Calderale, un impiegato statale nato a Mo320­­­­

Fonti e bibliografia

nopoli in Puglia nel 1894, pubblicato parzialmente in “Qualestoria”, a. XIV (1986), n. 1/2, a cura di Lucio Fabi e Donato Fiume (Dal diario di guerra e di prigionia di Annibale Calderale) e poi integralmente nel volume Documenti di La gente e la guerra, a cura di Lucio Fabi, Il Campo, Udine 1990. Calderale viene catturato il 31 ottobre come Colombini, come lui viene trasferito il 1° novembre a Cividale, arriva un paio di giorni prima ad Ausling (il 6 novembre anziché l’8, ma la discrepanza può dipendere dalla minore precisione di Calderale), tra l’8 e il 9 viene caricato come Colombini su un vagone ferroviario e il 16 novembre arriva anche lui a Stendal dove, a differenza dell’altro, passerà il resto della sua prigionia. I due condivideranno nelle direttrici principali e nei tempi anche il viaggio di ritorno: passando attraverso l’Olanda (sono entrambi a Rotterdam il 13-14 gennaio 1919) e imbarcandosi da qui su un vapore inglese che li conduce a Cherbourg, da dove prendono la via verso l’Italia. Nel testo di Calderale ci sono annotazioni spesso coincidenti con quelle di Colombini, per esempio le lamentele per il carattere essenzialmente liquido del rancio somministrato dai detentori: “Si riempie una fila di catinelle e si sta sempre ad ingoiare dell’acqua calda che gonfia la pancia e la fa sporgere come se fossimo persone anziane, ma che non da alcuna sostanza” (La gente e la guerra cit., p. 170, annotazione riferita al febbraio 1918). Da notare anche la condivisione dell’opinione secondo cui la trincea era preferibile alla prigionia, annotata nel marzo del 1918: “Se si domandasse ad un prigioniero se preferirebbe tornare al fronte a combattere a rischiare la vita, anziché soffrire tutti i patimenti della prigionia, la scelta non sarebbe dubbia: nessuno sarebbe per lo status quo; si diceva spesso tra noi che anziché cadere prigionieri, un’altra volta ci saremmo fatti ammazzare” (Ibidem). I documenti riguardanti Pietro Lorigiola sono stati raccolti, insieme ad altre testimonianze di guerra, e pubblicati in copia, trascritti in italiano corrente e commentati da Gian Antonio Mazzocchin in un volumetto dal titolo Diari e lettere della grande guerra, stampato in proprio dall’autore presso la tipografia Zaramella, Selvazzano (PD) 2009. Con una scelta accorta Mazzocchin mette a disposizione dei lettori la copia fotografica del diario e della lettera, consentendo di prendere visione della materialità del supporto e della scrittura, con tutto ciò che essa comunica sullo scrivente, in particolare sulla sua condizione al momento della stesura. Le citazioni di Baldinotti si riferiscono alle pp. 151-152, 153, 155321­­­­

Fonti e bibliografia

156, 100, 161-162, 162-163, 163-164, 165-166, 170-171, 175, 176, 178, 182-183, 183-184, 192, 201-202, 212-213, 214, 216, 222-224. La memoria-diario di Mario Cassini è conservata in copia presso l’ALSP. La riproduzione informatica del quaderno è stata affidata all’ALSP da Paolo Veziano, autore del ritrovamento del testo, che ne ha fatto oggetto di un saggio dal titolo “Morir non si morirà”. Diario della prigionia di Mario Cassini (1916-1918), comparso sulla rivista “Intemelion”, n. 16 (2010). Nell’originale le pagine non sono numerate. Ho adottato una numerazione convenzionale cominciando a contare come pagina 1 la prima a destra, che è in realtà costituita dal frontespizio: le citazioni sono nell’ordine alle pp. 2-3, 3, 5, 6, 18, 6, 38, 76, 23-25, 6-7, 39, 17, 39, 7-8, 77, 81, 83, 13-14, 9, 22, 10-11, 19, 27-28, 33-34, 26, 65, 63-64, 71, 75, 78-79, 79-80, 80. Per il riferimento a Spitzer rinvio al capitolo precedente. L’epistolario di Giobatta Moltedo e quello di Luigi Bunino si trovano in copia nell’ALSP mentre quello di Davide Massa vi è conservato in originale. Un caso simile a quello di Bunino, concluso tragicamente con la morte del prigioniero, è quello di un soldato ventenne di Alessandria, Alfredo Vaccari, che ho ricostruito attraverso il suo esiguo epistolario nel mio La Grande Guerra degli italiani 19151918 cit., p. 130. Per quanto riguarda l’epistolario di Emanuele Calosso mi sono ampiamente riferito allo studio molto accurato che gli ha dedicato Fabio Caffarena col titolo Le “terre matte” e il “caro paese”. Epistolario dell’alpino Emanuele Calosso (1915-1918), Comune di Finale Ligure, Finale Ligure 2001, avvalendomi della sua puntuale trascrizione dei testi, ora integralmente riprodotti e consultabili in copia elettronica presso l’ALSP. La via di casa

Sui temi, qui sfiorati attraverso alcune storie individuali, dei congedamenti dei reduci e del ritorno dei prigionieri, profondamente intrecciati con quelli delle tensioni sociali nell’Italia del dopoguerra e dell’avvento del fascismo, basterà rinviare all’opera di Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 1974. Più recenti le ricerche sul tema dei mutilati e degli invalidi, a proposito dei quali si veda ora Barbara Bracco, La Patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande guerra, Giunti, Firenze 2012, da cui traggo la cifra del loro totale (p. 54). In argomento desidero 322­­­­

Fonti e bibliografia

anche segnalare la tesi di dottorato di Ugo Pavan Dalla Torre, Le origini dell’Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra (1917-1923), Università degli Studi di Torino, aa.aa. 2009-2011, che mi è stata inviata in lettura dall’autore. Del diario di Luigi Colombini abbiamo già ampiamente informato il lettore. Le citazioni di Ubaldo Baldinotti si trovano alle pp. 224-225, 227, 230, 234-235, 236, 244, 245-246 del manoscritto. Sulle condizioni dei civili in relazione alle carenze alimentari e, in particolare, sulle sofferenze della popolazione degli imperi centrali il testo di riferimento in lingua italiana è il già citato Bruna Bianchi, La violenza contro la popolazione civile nella Grande Guerra, che cita fonti mediche d’epoca con dati impressionanti sui casi di malnutrizione, di morte per inedia, di malformazioni dei bambini. Per esempio, risulta che in una grande città come Berlino 2/3 della popolazione scese durante la guerra al di sotto del livello di sopravvivenza mentre a Vienna, su 200.000 bambini esaminati nel 1920 nei centri sanitari del Comune, solo il 3,3% non presentava segni di denutrizione (Bruna Bianchi, op. cit., pp. 51-52). La memoria di Agostino Gagliardo è conservata in copia elettronica presso l’ALSP, di cui mi sono servito per le citazioni. Si tratta di un quaderno di scuola con l’insegna della “Cartiera Fossano”, che esordisce nella prima pagina a destra sotto la data 20 febbraio 1915 con la partenza da Savona per il servizio militare e si conclude, come si è visto, col rientro a casa più di quattro anni dopo. La scrittura è molto ordinata, quasi del tutto priva di cancellature, evidentemente vergata con tutta tranquillità in tempi decisamente posteriori agli eventi. Il testo presenta pochissime interruzioni scandite da titoletti tematici, tra cui quella che segna la cattura di Gagliardo lasciando in bianco pagina 50 e proseguendo a p. 51 sotto il titolo “1-1-1918 Priggioniero”. Il quaderno consta di 79 pagine scritte numerate, cui si aggiungono le due pagine non numerate datate 28 marzo 1968 contenenti il testo del ricorso al Ministero del Tesoro a proposito del riconoscimento della sua invalidità per cause di guerra. La datazione di questo documento potrebbe far pensare che quello, o quelli immediatamente precedenti, siano gli anni di stesura dell’intera memoria, la cui data di composizione non è nota. Ma non è che un’ipotesi. La memoria, che comprende una lunga parte dedicata alla vita di trincea, ai combattimenti e alla prigionia, è stata parzialmente trascritta nel volume di Mario Spa323­­­­

Fonti e bibliografia

da, Un alpino. Un battaglione. Alpi Giulie-Altopiano di Asiago-Ortigara-Monte Grappa, Itinera Progetti, Bassano del Grappa 2010, che opportunamente confronta il racconto del testimone con altre fonti come i diari ufficiali dei battaglioni di cui l’alpino fece parte e alcuni verbali di interrogatorio di prigionieri consultati presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME), Roma. La scrittura di Gagliardo vi è però completamente normalizzata, con l’eliminazione totale delle difformità ortografiche, sintattiche, lessicali, relative all’uso della punteggiatura e dei segni diacritici, il che naturalmente agevola la lettura ma fa perdere tutte le informazioni concernenti gli usi linguistici e le competenze alfabetiche dell’autore, i riflessi dell’oralità dialettale presenti nella sua prosa. Le citazioni alle pp. 67-68, 75-76 dell’originale. Le citazioni dalla memoria di Verano sono tratte dalla seconda stesura alle pp. 131, 133, 133-134, 135, 136, 137, 142, 143, 146147, 148 (numerazione non presente nell’originale), salvo l’ultima, che è tratta dalla prima stesura alla p. 92. La vicenda del soldato Giovanni Danella è stata ricostruita grazie alla segnalazione e alla collaborazione di Fabiano Quagliaroli, che sta conducendo ricerche per la sua tesi di dottorato presso l’Università degli Studi di Genova sulla storia dei mutilati e invalidi tra le due guerre. Le lettere citate sono conservate nell’Archivio storico del Comune di Firenze, fondo del Comitato fiorentino per l’assistenza ai ciechi di guerra, busta CG178. A Quagliaroli devo anche l’indicazione sul numero dei ciechi bilaterali (per la precisione 1940), tratta da una pubblicazione dell’ONIG (Opera nazionale per gli invalidi di guerra) risalente al 1919. Tale numero si ridusse nei computi successivi per effetto dei decessi, come quello relativo al nostro caso, e della distinzione tra combattenti e non combattenti introdotta nella legge sulle pensioni di guerra del 1923.

Indice dei nomi

Adami, Maria Vittoria, 310. Alberoni, Buonafede, 156. Andenna, Sandra, 142-143, 145-146, 148, 315. Andolcetti, Amedeo, 15, 25, 105, 108, 309, 314. Andolcetti, Licia, 105, 107-108. Andolcetti, Luciano, 105, 108. Angelo, figlio di Demetrio D., 128. Angiolina, figlia di Demetrio D., 54, 128. Antonelli, Quinto, 314, 320. Antonio, figlio di Vittore B., 60, 131. Audoin-Rouzeau, Stéphane, 311-312, 319. Azzolin, Giovanni, 155.

Borella, Girolama, 310. Borgato, Daniela, 310. Boselli, Paolo, 197. Bracco, Barbara, 322. Bravo, Anna, 313. Brusaioli, Enrico, 317-318. Bunino, Luigi, 278, 322. Bussi, Giovanni, detto Gasan, 28-30, 182-184, 186-187, 193, 310, 316. Cabanes, Bruno, 319. Cadorna, Luigi, 197, 205. Caffarena, Fabio, 307, 315, 322. Calamandrei, Piero, 23, 310. Calderale, Annibale, 320-321. Calosso, Emanuele, 268-269, 271-273, 275, 322. Camperio Meyer, Sita, 156, 316. Canali, Giovanni, 154. Capacci, Giuseppe, 89-94, 312-313. Carruccio, Antonio, 153. Cassini, Mario, 245-251, 254-256, 258259, 261, 322. Celesia, conoscente di Emanuele Calosso, 271. Céline, Louis-Ferdinand, 46. Ceschin, Daniele, 316. Chierchini, Cristina, 311. Coletta, Cesare, 149-150, 152. Colombi, Amedeo, 223. Colombini, Angelina, 224, 226, 283284. Colombini, Luigi, 206-207, 210-211, 215, 217, 219, 222-224, 228-229, 231, 233, 245, 254, 283-286, 288, 317-318, 320-321, 323. Conti, Piero, 311. Costantini, Claudio, 143, 307, 315.

Baccalaro, Bartolomeo, 192, 195, 316. Baldinotti, Ubaldo, xii, 82-84, 87-89, 178, 180-182, 235, 237-240, 242245, 268, 289-291, 293, 312, 316, 321, 323. Barbusse, Henri, 46. Barsanti, Angelo, 173. Bartoli Langeli, Attilio, 307. Bartoloni, Stefania, 316. Battisti, Cesare, 256. Becker, Annette, 311, 319. Becker, Jean-Jacques, 312, 319. Berti, Elisabetta, 158-160, 315. Berti, Nino, 159. Berti Arnoaldi, Francesco, 315. Betri, Maria Luisa, 314. Bianchi, Bruna, 319, 323. Bogliolo, Gino, 309. Bonino, amico di Giovanni Panattaro, 73. Bordiga, Martino, 153.

325

Indice dei nomi Giamella, Cesarina, 112, 115, 314. Gibelli, Antonio, 311-312. Gilardino, datore di lavoro di Giovanni Bussi, 28. Gioli, Gino Bartolomeo, 302-303. Giovanna, 272. Giuseppina, figlia di Demetrio D., 120-121, 127-128. Gorrone, Gemma, 25, 105-106, 108, 314. Grandi, Irene, 316. Graziani, Rodolfo, 205. Grimaldi, Piercarlo, 310-311, 316. Grosz, George, 96. Guidi, Laura, 314.

Costantini, Ottone, 142-143, 148, 315. Croci, Federico, 309. Curli, Barbara, 313-314. D’Amelia, Marina, 314. Damian, Ștefan, 309. Danella, Giovanni, 301-302, 304-305, 324. Danella, Irene, 305. De Amicis, Edmondo, 165. Demetrio D., detto Luigi o Luigin, x, 11, 49-51, 53-56, 58, 78, 115-123, 127-128, 309, 312, 314. Diadori, Pierangela, 315. Dix, Otto, 96. Dondeynaz, Rosalba, 314.

Halbwachs, Maurice, 37, 309. Hinz, Uta, 319.

Edoardo, figlio di Vittore B., 60. Egidio, cognato di Vittore B., 129. Emilio, prete, 62. Enrico, figlio di Vittore B., 60. Eufemia, amica di Bartolomeo Baccalaro, 195. Eugenio, 110.

Ida, moglie di Giobatta Moltedo, 264, 266-268. Jünger, Ernst, 46, 97. Juso, Anna, 314.

Fabi, Lucio, 321. Fait, Gianluigi, 310. Fanetti, Duccio, 315. Ferrari, Francesco, 15-17, 19, 30, 309. Ferrari, Giacomo, 19. Ferrari, Marta, 19. Ferraris, Giuseppe (Pino), 309. Fiume, Donato, 321. Flavia, figlia di Enrichetta Massa, 277. Franchini, Giuliana, 311. Franzina, Emilio, 308. Freideil, 241. Freud, Sigmund, 46. Fussell, Paul, 92, 313.

Labanca, Nicola, 316. Lazzari, Anna, xi, 150-158, 315. Leoni, Diego, 310. Livia, 277. Loi, Ines, 310. Lombardo, Alessandro, 316. Lorigiola, Pietro, detto Pierin, 231234, 245, 321. Luigi o Luigin, vedi Demetrio D. Maldini, Daniela, 314. Manetti, Cesira, 34, 76. Manetti, Giuseppe, detto Beppe, xii, 33, 35, 76-77, 79-81, 188-189, 191, 311-312, 316. Mangini, Giancarlo, 314. Mann, Thomas, 47, 312. Marcato, Roberto, 310. Marchi, famiglia, 172. Marchi, Cesare, 168, 172. Marchi, Delia, 168, 173. Marchi, Emma, 168-169. Marchi, Giuseppe, 168. Marchi, Mario, 168-173, 316.

Gagliardo, Agostino, 281, 293-295, 323-324. Gasparini, compagno di prigionia di Luigi Colombini, 226. Gastaldi, Agnese, x, 49, 52-53, 55, 115121, 124-128, 309, 312, 314. Gastaldi, Giobatta, 115, 117. Genta, Carlo, 112. Giacomo, marito di Marta Ferrari, 19.

326

Indice dei nomi Panattaro, Maria, 308. Pavan Dalla Torre, Ugo, 323. Perotti, Mario, 310. Piero, conoscente di Vittore B., 61. Pio, prete, conoscente di Demetrio D., 138. Pistone, Giovanni, xi, 17-18, 35-38, 100-102, 309, 313. Poggiolini, Fabio, 317. Priore, Dante, 312. Procacci, Giovanna, 319-320.

Marenco, Luigi, 30-31, 33, 311. Margherita, figlia di Vittore B., 60, 131, 135. Maria, amica di Pietro Lorigiola, 232233. Maria B., x, 60-62, 129, 132, 135-136, 314. Massa, Davide, 273-274, 276-277, 322. Massa, Enrichetta, 273, 277. Massajoli, Laura, 315. Mazzocchin, Gian Antonio, 321. Mazzoni, famiglia, 314. Mazzoni, Augusto, 137, 140-141. Mazzoni, Enrico, 137. Mazzoni, Francesca, 137-138, 141-142. Mazzoni, Gino, 137-141. Mazzoni, Giuseppe, 137. Mazzoni, Lina, 137, 141. Mazzoni, Olga, 137, 141. Melis, Efisio, 23, 310. Molinari, Augusta, 314. Moltedo, Giobatta, 263, 266-268, 322. Moltedo, Lorenzo, 266. Molteni, Luigi, 268. Monteleone, Renato, 310. Mura, Francesco, 165-166, 316. Musil, Robert, 93, 313. Mussolini, Benito, 250.

Quagliaroli, Fabiano, 324. Rabito, Vincenzo, xii, 7, 43-44, 46-49, 308, 312. Rapetti, Sabrina, 311. Rasera, Fabrizio, 308, 310. Remarque, Erich Maria, 46, 74. Rettagliata, Carlotta, 13, 309. Rettagliata, Giacomo, 13, 309. Riolfo, Santina, 271. Rosina, figlia di Demetrio D., 127-128. Rossi, Marina, 320. Sabbatucci, Giovanni, 322. Sandrolini, Ercole, 156-157. Schiavinato, Bartolo, 155. Scioli, Eleonora, 4. Silva Rossi, Mirian, 308. Spada, Mario, 323-324. Spitzer, Leo, 211, 262, 318, 322. Stiaccini, Carlo, 309-311.

Neppi Modona, Aldo, 196-197, 200, 202, 204-205, 317. Neppi Modona Viterbo, Lionella, 317. Neri, Evangelina, 315. Nicolodi, Aurelio, 302-305. Ninchi, Gualtiero, 140.

Tansini, Angelina, 318. Testa, Enrico, 307. Tonio, 23. Tortato, Alessandro, 319. Tutino, Saverio, xii.

Odone, Mario, 110. Olivero, Francesco, 14, 41-42, 311. Oppioli, Federica, 310. Orlando, Almerinda, 308. Orlando, Americo, 4-5, 307-308. Orlando, Francesco, 4. Ossicini, Pio, 158.

Vaccari, Alfredo, 322. Valeriano, Annacarla, 310. Valerio, sergente, 88. Vassallo, Benedetto, 109-110. Vassallo, Efisia, 108, 110, 314. Vassallo, Enrico, 109. Vassallo, Ernesto, 109-110. Vassallo, Giovanni, 109-110. Verano, Carlo, xi, 38-41, 94, 97, 99-

Palmerio, Mario, 308. Panattaro, Giovanni, x, 8, 19, 66-71, 73-74, 76, 111-112, 308, 312, 314. Panattaro, Giuseppina, 111, 308.

327

Indice dei nomi 100, 174-177, 297-301, 311, 313, 316. Veziano, Paolo, 322. Vincenzo, marito di Giuseppina Panattaro, 111, 308. Virgilio, 110. Vittore B., x, 59-61, 63-66, 129-130, 132-136, 167, 312, 314, 316.

Vittorina, figlia di Vittore B., 60, 131. Wilson, Thomas Woodrow, 228. Winter, Jay, 311. Zadra, Camillo, 308, 310. Zanfabbro, Maria, 10, 309. Zweig, Stefan, 46.