Senso comune 9788885140738, 8885140734


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Italian Pages 120 [132] Year 2005

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Senso comune
 9788885140738, 8885140734

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lïberüibri

Pubblicato anonimo nel gennaio 1776, Common Sense fu distribuito per le stra­ de di Filadelfia ottenendo un successo im­ mediato e folgorante. Solo in quell’anno se ne vendettero 100.000 copie. Il pamphlet ebbe un’influenza enorme sul­ l’opinione pubblica delle tredici colonie, inducendo molti americani ancora incerti sulla realizzabilità e opportunità di una se­ cessione dall’Inghilterra ad abbracciare con entusiasmo la causa dell’Indipendenza. A giudizio dei più grandi protagonisti del­ la Rivoluzione americana, e degli storici, nessun altro scritto ha mai avuto un’effica­ cia così decisiva per la storia di quel Paese.

1

I

Oche del Campidoglio 57

Titolo originale Common Sense

Traduzione di Carla Maggiori

© 2005 Liberilibri di AMA srl - Macerata ISBN 88-85140-73-4

Thomas Paine

Senso comune

Prefazione di Pietro D i Muccio de Quattro

Nota dell’editore Questo libello dal titolo rassicurante e dimesso, opera non di un dòtto o di un filosofo, ma di un modesto ex bustaio, ex daziere, poi negoziante fallito di corsetti per signora, facendo da detonatore alla Rivoluzione americana ha provocato conseguenze profonde e durature per la storia politica dell’umanità. Esempio fra i più scintillanti della tradizione pamphlettistica an­ glosassone, Common Sense è anche un’incontestabile conferma della celebre osservazione di Voltaire: «Il libro è il vero padrone del mondo.»

Indice

XI

Prefazione di Pietro D i Muccio de Quattro

Senso comune 3

Introduzione

3

Dell’origine e del fine del governo in generale, con brevi osservazioni sulla costituzione inglese

15

Della monarchia e della successione ereditaria

29

Considerazioni sullo stato attuale della questione americana

53

Delle attuali possibilità dell’America, con alcune riflessioni miscellanee

69

Appendice

Prefazione

I Il 1776 è un anno più che fondamentale, essenziale, nella storia umana, sia delle idee che degli avvenimenti. Adam Smith pubblica la Ricchezza delle N azioni. Thomas Jefferson redige la Dichiarazione d ’indipendenza. Tredici colonie nordamericane adottano il testo jeffersoniano come atto di nascita degli Stati Uniti d’America: un’economia, una filosofia, una politica che hanno cam­ biato il mondo, gettando le basi di uno sviluppo epocale dell’umanità, nel quale siamo tuttora, oltre due secoli dopo, interamente immersi. Lo stesso anno Thomas Paine pubblica l’edizione de­ finitiva di Senso comune, un pamphlet (così definito cor­ rettamente dall’autore) importante per l’America e per l’Autore. Richard Newbury ha scritto che «se l’America ha fatto Tom Paine, Tom Paine può affermare di aver fatto gli Stati U niti».1 Però esagera. Il callido Richard è inglese come Tom. Da britannico, forse, non ha ancora digerito il tè di Boston. Oltre Manica pensano, non a torto, che il XI

distacco delle colonie fu più un parto con il forcipe della guerra che una ribellione matricida, tutto considerato. Sebbene non si possa dire che gli Stati Uniti debbano la loro nascita a Paine, specialmente da Senso comune risulta che egli presagì tutta la potenza esplosiva non solo conti­ nentale, ma planetaria dell’esperimento che andava com­ piendosi sul suolo nordamericano. Profeticamente egli scrive nella prefazione: «La causa dell’America è in grande misura la causa dell’umanità intera. Si sono verificate, e si verificheranno, molte circo­ stanze, non a carattere locale ma dalla portata universale, che interessano i principi cari a tutti gli amici del genere umano, e il cui esito non può lasciare indifferenti i loro cuori.» L’America, gli Stati Uniti d’America, sono depo­ sitari dei «diritti naturali dell’umanità intera». Questi diritti, secondo Paine, il Regno Unito tentava di elimina­ re scendendo in guerra contro gli indipendentisti e met­ tendo a ferro e fuoco i territori ribelli alla Corona inglese. E più avanti, dopo aver gridato, più per polemica che per convincimento, che «l’Europa, e non l’Inghilterra, è la madrepatria dell’America», delinea la missione d’acco­ glienza dei nascenti Stati Uniti, ricordando che «il Nuovo mondo ha dato asilo ai perseguitati difensori della liber­ tà civile e religiosa provenienti da ogni parte d’Europa. Si sono rifugiati qui per sottrarsi non già al tenero abbrac­ cio di una madre, ma alla crudeltà di un mostro, ciò è tal­ mente vero per quanto concerne l’Inghilterra, che la stessa tirannide che ha spinto i primi emigranti a lasciare la pa­ tria continua a perseguitare i loro discendenti». Le parole di Paine risuonano nell’epigrafe bronzea alla base della Statua della libertà: The New Colossus, la strug­ gente poesia che Emma Lazarus compose nel 1883.

X II

Not like the brazen giant o f Greek fame, With conquering limbs astride from land to land; Here at our sea-washed, sunset gates shall stand A mighty woman with a torch, whose flame Is the imprisoned lightning, and her name Mother o f Exiles. From her beacon-hand Glows world-wide welcome; her mild eyes command The air-bridged harbor that twin cities frame. «Keep ancient lands, your storied pomp!» cries she With silent lips. «Give me your tired, your poor, Your huddled masses yearning to breathe free, The wretched refuse o f your teeming shore. Send these, the homeless, tempest-tost to me, I lift my lamp beside the golden door!»

Non come il bronzeo gigante di fama greca, con le gambe da conquistatore divaricate da terra a terra; qui alle nostre porte del tramonto lambite dal mare si ergerà una donna possente con una torcia la cui fiamma è il fulmine imprigionato, ed il suo nome Madre degli Esiliati. Dalla sua lampeggiante mano brilla il benvenuto al mondo intero; i suoi teneri occhi dominano il porto unito da un aereo ponte che incornicia città gemelle. «Tienti le antiche terre, la tua storica pompa!» grida con labbra silenti. «Dammi le tue povere, esauste masse accalcate che anelano a respirare liberamente, i miseri rifiuti della tua brulicante sponda. Mandami questi, i reietti, sballottati dalla tempesta, io alzo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro!»

X III

Le parole di Paine, dunque, preannunciano quasi l’im­ ponente afflusso d ’immigrati, milioni e milioni in fuga dalla miseria e dall’oppressione, che hanno trovato dietro la “porta d’oro” libertà e prosperità, realizzando le loro aspettative e il sogno del Grande Paese ospitale. Più oltre, con accenti epici, Paine scrive: «Su tutta la superficie del pianeta si dà la caccia alla libertà. L’Asia e l’Africa l’hanno bandita da lungo tempo, l’Europa la considera una straniera, e l’Inghilterra le ha intimato la disdetta. Accogliete dunque la fuggitiva e preparate in tempo un rifugio per il genere umano.» Tale è stata la nazione americana dalla nascita; prima ancora, dai Padri Pellegrini. Soprattutto, il bastione contro il nazismo e il comuniSmo, le più terrificanti belve che per decenni hanno invano braccato la libertà. N on solo. Paine emette una profezia anche sulla ric­ chezza degli Stati Uniti: «L’America ancora ignora cosa sia l’opulenza; e anche se i progressi compiuti non hanno uguali nella storia delle altre nazioni, è soltanto un mo­ desto inizio se paragonato al livello che potrebbe rag­ giungere se avesse nelle proprie mani, come dovrebbe avere, il potere di legiferare.» Paine delinea cosi, quasi antivede, i principali specialis­ simi caratteri dei futuri Stati Uniti, quella loro irripetibi­ le qualità che sarà definita «eccezionalismo americano». Gli Stati Uniti faro e baluardo della libertà; custodi e af­ fidatari dei diritti naturali del genere umano; terra delle opportunità per i derelitti d’ogni dove. La certezza che l’America avesse questa duplice mis­ sione, di alimentare perennemente in patria il fuoco del­ la libertà e di diffonderlo dappertutto nel mondo, non apparteneva solo a Paine. Anche il suo celebre amico-nemico Edmund Burke XIV

(come ricorda Lord Acton in The History o f Freedom), paladino pure lui dell’indipendenza, manifestò identiche idee esprimendole con parole simili quasi alla lettera: «Soltanto una convulsione che scuoterà la terra fino al suo centro riuscirà a restituire agli europei quella libertà per la quale essi furono tanto celebrati. Il mondo occi­ dentale è stato la patria della libertà finché un altro, più occidentale, venne scoperto, e sarà probabilmente il suo rifugio quando essa verrà scacciata da ogni altra parte. È una fortuna che in tempi bui l’America rimarrà ancora rifugio per l’umanità.» E Thomas Jefferson, in fin di vita, scrivendo il 24 giu­ gno 1826 l’ultima sua lettera a ridosso del cinquantena­ rio dell’Independence D ay per scusarsi con gli abitanti di Washington di non poter partecipare ai festeggiamenti, ricordò innanzitutto che dopo mezzo secolo i cittadini americani continuavano ad approvare la coraggiosa e combattuta scelta di quella schiera di valorosi tra la sot­ tomissione e la spada. Indi difese nuovamente la causa della libertà con queste eloquenti parole, che sono al tem­ po stesso un bilancio storico, un programma politico, una previsione personale: «Possa essere per il mondo, confido che così sarà (per alcune parti prima, per altre dopo, ma alla fine per tutte), la prova evidente di uomini che si sollevano per far saltare le catene con le quali igno­ ranza bigotta e superstizione li avevano convinti a impri­ gionarsi, e per far proprie le benedizioni e la sicurezza del governarsi da soli. Il sistema adottato ripristina l’eser­ cizio senza vincoli della ragione e della libertà d’opinione. Tutti gli occhi sono spalancati o vanno aprendosi ai diritti dell’uomo. La generale diffusione della luce della scien­ za ha già dischiuso a ogni sguardo la palpabile verità che né le masse umane sono nate con la sella sul groppone xv

né pochi privilegiati con stivali e speroni hanno ricevuto da Dio il diritto di cavalcarle. Queste sono ragioni di speranza per altri. Per noi, possa l’anniversario di questo giorno ravvivare sempre i nostri ricordi di tali diritti e un’intatta devozione ad essi.» Bisogna ricordare che la libertà americana non è una pianta autoctona, bensì una pianta speciale. Una nuova es­ senza innestata sull’antico albero della libertà britannica, trapiantato nelle colonie d’oltreoceano. È certamente vero, come tante volte è stato sottolineato allora e dopo da menti eccelse, e come afferma esplicitamente la Dicinit­ razione d ’indipendenza, che la secessione delle colonie fu una ribellione alla Corona inglese, non un’abiura del­ la libertà inglese, e che, anzi, per difendere questa libertà loro negata «da una lunga serie di abusi e malversazioni», da «ripetuti torti e usurpazioni», i sudditi americani istitui­ rono una nuova forma di governo che garantisse i tradi­ zionali diritti costituzionali goduti in Inghilterra dall’an­ tichità e tutti gli «inalienabili diritti» per se stessi evidenti come verità matematiche. Tra l’altro, questo è un formi­ dabile punto di contatto, nonostante tutto, tra Paine e Burke, che condividevano la convinzione, molto O ld Whig, circa l’esistenza del patrimonio consuetudinario di libertà che la Rivoluzione del 1688, ristabilendo l’antico ordine infranto, aveva ripristinato. Tuttavia, l’innesto fu eccezionale e crebbe così perché repubblicano, democratico, egualitario. La Costituzione americana del 1787 sostituì ab imis l’ordinamento del Regno inglese. Ma il Bill o f Rights del 1791 è una precisa­ zione evolutiva della Magna Charta e dei suoi sviluppi. Quella americana fu una rivoluzione politica, non giuri­ dica. Strappò la legittimità a governare, non il diritto dei governati. L’Indipendenza costò molto sangue, ma la XVI

Costituzione nacque da un processo di scrittura e ratifica totalmente incruento e «anche con poche eccezioni al de­ coro e alla cortesia», come ha scritto Richard G. Stevens nell’introduzione del suo libriccino sulla Costituzione degli Stati Uniti.2 La pura verità è che la Rivoluzione ame­ ricana non fu una rivoluzione tout court rivoluzionaria, alla francese o, peggio, alla bolscevica. Piuttosto, una rivoluzione restauratrice ovvero una restaurazione rivo­ luzionaria. Il Senso comune appare intriso di siffatta con­ cezione, solo apparentemente contraddittoria, dell’Indi­ pendenza statunitense. E si potrebbe azzardare che un aspetto dell’eccezionalismo americano affondi qui le sue radici. La Rivoluzione americana è un Giano bifronte: una faccia, la Rivoluzione inglese del 1688; l’altra, la Re­ pubblica degli Stati Uniti; un vólto vecchio e uno nuovo; l’uno barbuto, l’altro imberbe. Anche in un altro fondamentale significato il pamphlet di Paine non è un libello inneggiante a una qualche rivo­ luzione proletaria o “ gauchista” . N on solo e non tanto perché Paine è a tutti gli effetti un campione dell’indivi­ dualismo borghese, che è qualificato dall’endiadi proprietàsicurezza. Bensì, soprattutto, perché «Paine, in realtà», come ha scritto Nicola Matteucci in Organizzazione del potere e libertà, «ci ha dato il grande principio del costi­ tuzionalism o.»3 E costituzionalismo vuol dire libertà e liberalismo, perché dove vige una costituzione degna del nome, là i poteri sono limitati per definizione. Costitu­ zionalismo equivale a “ governo limitato”, la più concisa e precisa formula indicante la libertà dei liberali. Di più, come recita l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separa­ zione dei poteri stabilita, non ha affatto una Costituzione.» XV II

Di lì a poco, ne I diritti dell’uomo (1791), Paine scri­ verà in modo ancora più drastico che, senza una costitu­ zione, il governo è a tutti gli effetti un potere senza diritto, dunque mero potere effettuale. Forza bruta. Incidentalmente bisogna sottolineare che hanno avuto corso e, sebbene ovviamente adesso meno accreditate, ancora continuano a circolare pseudoteorie che avallano un preteso costituzionalismo nazista, comunista, fascista oppure un impossibile costituzionalismo rivoluzionario. Sostenere che siano associabili i sistemi totalitari anche solo alla veneranda parola, neanche al concetto di costitu­ zionalismo, è di per sé inqualificabile e dimostra l’abisso d’ignoranza in cui precipitano, purtroppo, addirittura intellettuali di prim’ordine, altrimenti dotati, ma privi, quanto a questo, del lume dell’intelligenza.

II Arturo Carlo Jemolo notava che un aspetto del buon sen­ so è il senso delle proporzioni. Il Senso comune di Thomas Paine ha piuttosto a che fare con la razionalità variamente intesa. O, meglio, intesa come qualcosa di più stringente della ragionevolezza. «Il momento presente è il momento ideale» per unire il continente sotto uno stesso governo, proclama Paine dopo aver analizzato a fil di logica tutte le prove a favore dell’Indipendenza. Egli infatti intende presentare «soltanto puri e semplici fatti, argomenti evi­ denti e buon senso comune» e basarsi «sui principi della natura e del senso comune». Gli «argomenti evidenti» di Paine fanno sùbito venire in mente le «verità per se stesse evidenti» di Jefferson. E non solo per queste assonanze verbali e concettuali è stato pure detto che c’è la mano di Paine nella Dichiarazione di Jefferson. In un conflitto nel

X V III

quale erano «di fatto coinvolti anche i posteri che, in mi­ sura maggiore o minore, saranno toccati dagli avvenimen­ ti odierni sino alla fine dei tempi», Paine fa appello a un senso comune che non è semplice buon senso, né nelle intenzioni né nei risultati. Ciò di cui parla, la causa che patrocina, la meta che anela raggiungere, «non riguarda una città, una contea, una provincia o un regno, ma un con­ tinente che rappresenta l’ottava parte almeno del mondo abitabile». Egli in realtà ricorre a un efficace artificio re­ torico. È come se dicesse alle persone da convincere: «L’In­ dipendenza è ineluttabile. Ci vuole poco a persuadersene. Basta il normale buon senso delle persone.» Il titolo sem­ bra banalizzare volutamente il contenuto. Quasi un under­ statement. Invece egli non sottovaluta affatto l’enormità del problema, che tuttavia sa d’aver risolto con la forza argomentativa, una vera e propria dimostrazione geome­ trica, del pamphlet. N on l’orgoglio, non un partito, non il risentimento dovevano spingere ad abbracciare la sepa­ razione e l’indipendenza, ma il vero interesse nazionale dell’America: «Vi è qualcosa di veramente assurdo nel­ l’idea che un continente venga eternamente governato da un’isola. N on esiste un solo caso in cui la natura abbia fatto il satellite più grande del suo pianeta; e poiché l’In­ ghilterra e l’America contravvengono, l’una rispetto al­ l’altra, all’ordine generale che vige in natura, è evidente che appartengono a sistemi diversi: l’Inghilterra all’Europa e l’America a se stessa.» Il valore duraturo di Senso comune sta quasi tutto nel primo capitolo, che tratta «dell’origine e del fine del go­ verno in generale, con brevi osservazioni sulla costitu­ zione inglese». Il secondo capitolo, sulla monarchia e sulla successione ereditaria, è un’applicazione specifica delle idee esposte nel primo. Come perorazione antimonarchica X IX

ha poca rilevanza pratica, se teniamo presenti la diffusione e l’importanza dell’istituto monarchico attuale. Mentre riveste interesse dal punto di vista della teoria generale re­ pubblicana e del repubblicanesimo specifico dello scrittore. Il punto di attacco di Senso comune deve considerarsi a pieno titolo un cardine del liberalismo classico e del costituzionalismo, sebbene Thomas Paine venga di con­ sueto ascritto in complesso al radicalismo se non addirit­ tura ad una sòrta di laburismo ante litteram. Secondo Paine, dunque, «il governo non è che un ma­ le necessario nella sua forma migliore, mentre in quella peggiore è un male intollerabile». Considerato nella sua forma migliore il governo è reso necessario «dall’incapa­ cità delle virtù morali di governare il mondo». Tale es­ sendo l’origine e la natura del governo, quali ne sono il vero scopo e il vero obiettivo? «Il fine e lo scopo del go­ verno», afferma Paine, «sono la libertà e la sicurezza.» Pertanto «ne consegue irrefutabilmente che la forma di governo da preferirsi a tutte le altre è quella che sembra la più idonea a garantirci tale sicurezza con la minore spesa e i maggiori vantaggi». Francamente è impossibile considerare questi capisaldi del pensiero painiano anche soltanto un millimetro fuo­ riuscenti dall’alveo consolidato del liberalismo Whig, anzi: Old Whig. Altro che radicalismo! È quasi un prodromo delle moderne teorie sullo “ Stato minimo” quell’accenno alla “ minore spesa” e ai “ maggiori vantaggi” . La forza del governo e la felicità dei governati non di­ pendono dalla monarchia, ma da un corpo legislativo di rappresentanti elettivi «che si comporteranno nello stes­ so modo in cui si comporterebbe l’intera comunità se fosse presente». Ma Paine non coltiva alcuna illusione circa «un potere che il popolo teme di delegare e sul quale

xx

deve esercitare un continuo controllo». Solo le elezioni gli appaiono il rimedio appropriato «per evitare che gli eletti possano mai crearsi un interesse distinto da quello dei loro elettori». Per Thomas Paine, quindi, la ratio delle elezioni consiste nel frequente avvicendamento che determina la tendenziale consonanza di interessi tra elettori ed eletti. Ogni governo, anche il buon governo, è comunque un male, sebbene il male minore, da sopportare, quando il governo agisce come istituzione a fin di bene. Ma il go­ verno può anche non essere il male minore. In tal caso è un male intollerabile. E si verifica «quando soffriamo o sopportiamo ad opera di un governo quelle stesse sven­ ture [o sventure peggiori] che ci aspetteremmo di patire in un paese privo di governo». Ma «dal momento che soltanto il cielo è impenetrabile al vizio», il governo sop­ perisce «all’insufficienza delle virtù morali». Sembra chiaro che Paine ha della natura umana una concezione che mal s’accorda con il volontarismo ottimi­ stico dei veri radicali, dei giacobini, dei rivoluzionari, dei costruttivisti, per usare l’espressione cara ai giganti libe­ rali del XX secolo, ch’è superfluo indicare per nome tanto sono celebri. A Paine il governo non appare alla stregua di una meravigliosa leva palingenetica che sollevi inva­ riabilmente la terra in paradiso. Il potere è sempre nelle mani di persone in carne ed ossa. Seppure per avventura riuscissimo, una volta tanto, a trovare dei virtuosi a cui affidarlo, ciò non garantirebbe per il futuro perché «quan­ do facciamo progetti per le generazioni future, dovremmo ricordare che la virtù non è un tratto ereditario». Tale pessimistica diffidenza ontologica verso l’uomo investito di potere, dettata dalla prudenza e corroborata dall’esperienza, accomuna Paine a grandi pensatori tutt’altro che radicali. XXI

Per esempio, Machiavelli nei Discorsi afferma: «È ne­ cessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei.»4 E David Hume nel saggio sull’Indipendenza del Par­ lamento-. «Gli scrittori politici hanno stabilito come prin­ cipio che nell’escogitare qualsiasi sistema di governo e nel fissare i diversi controlli e comandi della costituzione, ogni uomo dovrebbe essere presunto alla stregua di un delinquente che, in tutte le sue azioni, non ha nessun altro scopo all’infuori del suo tornaconto personale. Facendo leva sul suo egoismo noi dobbiamo governarlo e, per mezzo di tale passione, farlo cooperare al pubblico bene, nonostante la sua insaziabile avidità ed ambizione. Senza questo, sostengono i suddetti pensatori, noi ci vanterem­ mo invano dei vantaggi di qualsiasi costituzione e finirem­ mo con il concludere che non abbiamo nessuna sicurezza per le nostre libertà e proprietà all’infuori della buona volontà dei nostri governanti. Vale a dire nessuna garanzia in assoluto.»5 Anche Leopardi nei Pensieri dichiara: «Dico che il mon­ do è una lega di birbanti contro gli uomini da bene e di vili contro i generosi.»6 E James Madison, il vero padre della Costituzione USA, nel Federalista: «È possibile una riflessione sulla natura umana, cioè che tali congegni dovrebbero essere necessari per controllare gli abusi del governo. Ma cos’è il governo stesso? Qual è la più grande di tutte le riflessioni sull’uma­ na natura? Se le persone fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario. Se fossero gli angeli a governare gli es­ seri umani, sul governo non sarebbero necessari né con­ trolli interni né esterni. Nel disegnare un governo formato da uomini che amministrano altri uomini, la grande diffi­ coltà consiste in questo: tu devi, innanzitutto, mettere in X X II

grado il governo di controllare i governati; e, in secondo luogo, obbligarlo a controllare se stesso. Una dipendenza dal popolo è, senza dubbio, il controllo essenziale sul go­ verno; ma l’esperienza ha insegnato al genere umano che sono indispensabili ulteriori precauzioni.»7 Inoltre Stevens scrive: «Forse la straordinaria corda vi­ brante della Costituzione è che nessuno è adatto a gover­ nare, né un re o i giudici o i preti o gli onesti apparenti o i sedicenti gruppi per l’interesse pubblico, né chiunque al­ tro. Siamo tutti esseri umani, con le passioni e i difetti co­ muni ad ogni uomo. Dobbiamo governarci da soli e dob­ biamo farlo a dispetto di tali passioni e difetti. In un modo o nell’altro. Ogni costituzione non può fare altro che aiu­ tarci ad essere migliori il possibile. Questo è lo scopo della Costituzione degli Stati Uniti. E il suo relativo successo poggia sulla nostra venerazione e sulla nostra stretta osser­ vanza. Essa è tutto ciò che si frappone tra noi e la crudeltà e la follia di cui noi stessi, proprio tutti, siamo capaci.»8 A tacere che, per il Sant’Agostino del De civitate Dei, «Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna la­ tro cima? Latrocinia sunt regna et piratarum infestatio.»'1 Da queste premesse Paine fa scaturire la Costituzione. Egli ne scolpisce originalmente la concezione prettamente liberale. Riferendosi all’auspicata “ Carta Continentale” o “ Carta delle colonie unite”, egli scrive: «La carta assicu­ rerà la libertà e il diritto di proprietà a tutti gli individui e soprattutto la facoltà di praticare liberamente la religione secondo i dettami della propria coscienza.» Ma l’elabora­ zione fondamentale della Costituzione quale atto scritto, antecedente e superiore ai legislatori e ai governanti, quin­ di come limite a tutti i poteri individuali e collettivi della società, e dunque come strumento per mantenere il go­ verno “ nella sua forma migliore” entro la soglia di sop­ X X III

portabilità del male minore, Thomas Paine la compie ne I diritti dell’uomo, autodefinito “ breve trattato” nella sua presentazione al presidente Washington, ma in realtà ar­ ringa difensiva della Rivoluzione francese contro l’impla­ cabile requisitoria formulata da Burke nelle Riflessioni. Paine precisa innanzitutto cosa debba intendersi per costituzione. È sorprendente constatare che la sua defini­ zione di Carta costituzionale è tuttora da manuale: «La co­ stituzione è un corpo di prescrizioni a cui è possibile ri­ correre e che possono essere citate articolo per articolo; essa contiene i principi sui quali dovrà basarsi il governo, il modo in cui sarà organizzato, i poteri che avrà, il sistema elettorale, la durata dei parlamenti, o comunque li si vo­ glia chiamare; i poteri dell’esecutivo; e, infine, tutto ciò che riguarda l’organizzazione complessiva di un governo civile, e i principi in base ai quali dovrà agire ed esserne vincolato.»10 Il rapporto tra potere costituente e poteri costituiti è perfettamente chiaro e delineato. Il governo è “ governato” dalla Costituzione. Così il governo “ sorge” dal popolo e non è posto al di sopra del popolo. Ed infine la massima che fonda il moderno costituzio­ nalismo: «Una costituzione è una cosa antecedente a un governo, e un governo è solo la creatura di una costitu­ zione. La costituzione di una nazione non è l’atto del suo governo, ma del popolo che istituisce un governo.»11 Tale massima fu poi ribadita e precisata così: «G li uo­ mini intendono cose distinte e separate quando parlano di costituzioni e di governi, è evidente; se no, perché ven­ gono usati questi termini distinti e separati? Una costi­ tuzione non è l’atto di un governo, ma di un popolo che istituisce un governo; e governo senza costituzione equi­ vale a potere senza diritto.»12 XX IV

Se è vero che la parola “ limite” è essenziale in ogni vocabolario del liberalismo classico, si deve riconoscere a Paine l’enorme merito storico di aver introdotto nel lin­ guaggio liberale la più stringente accezione di quel ter­ mine, precisando in modo inequivocabile il concetto di costituzione scritta e rigida. Fixed constitution e limited constitution erano le espressioni d’uso corrente in America. Il principio della limitazione dei poteri costituzional­ mente stabilito appare lo sviluppo compiuto dell’antica idea liberale secondo cui la libertà illimitata spalanca le porte al dispotismo assoluto. Charles Mcllwain, nel suo esemplare Costituzionalismo antico e moderno, ha pro­ nunciato su Thomas Paine un giudizio che può conside­ rarsi definitivo: «Qualsiasi cosa se ne voglia pensare dal punto di vista teoretico, la nozione di Paine, che la sola vera costituzione è quella fatta con la coscienza di fare una costituzione e che il governo di una nazione è sol­ tanto una creatura di tale costituzione, è forse più stret­ tamente conforme di ogni altra all’attuale sviluppo del costituzionalismo dall’inizio del secolo XIX. Che questa costruzione fosse ispirata in prima istanza da filosofi dot­ trinari della politica, come sembra largamente vero per la Francia, o da una esperienza politica in atto, come la sto­ ria dimostra per le colonie nordamericane dell’Inghil­ terra, è certamente indiscutibile che molti sviluppi costi­ tuzionali successivi hanno seguito le stesse linee. La norma generale di tutti i paesi “ costituzionali” è stata di creare costituzioni scritte, di definire e limitare il governo.»13

xxv

Ili La biografia dimostra che Paine, nato il 29 gennaio 1737 in Inghilterra, fu un intellettuale militante o impegnato, di quelli poco versati nella vita pratica ma sempre pronti a sposare cause altrui e lanciarsi in nuove avventure. Espatriò in America in condizioni personali e familiari precarie. Però in tasca aveva, nientemeno, una commendatizia di Benjamin Franklin. Intrattenne rapporti con il fior fiore della gente che contava di qua e di là dell’Atlantico. Auto­ didatta, diresse giornali, scrisse articoli, pubblicò libri ven­ duti - all’epoca! - a centinaia di migliaia: Senso comune pare che abbia toccato l’impressionante tiratura di mezzo milione di copie, un autentico best seller; I diritti dell’uomo venne diffuso in circa duecentomila volumi. Fu a tutti gli effetti e si autodefinì l’uomo delle due rivoluzioni. Influen­ zò e plasmò l’opinione pubblica con un ascolto da moder­ ni tempi massmediologici, incredibile per l’epoca delle car­ rozze tra Settecento e Ottocento. D a autentico opinion maker e comunicatore, egli dette la spinta finale alla seces­ sione delle colonie. Partecipò come volontario alla Guerra d’indipendenza americana e ne ricavò riconoscimenti mo­ rali e materiali. Ma inciampò in un incidente diplomatico e dovette tornarsene in Inghilterra, dove la pubblicazione de I diritti dell’uomo gli procurò un’accusa di tradimento che lo costrinse a riparare in Francia. N ell’imperversare della Rivoluzione francese fu eletto deputato della Con­ venzione. Durante il Terrore venne imprigionato per le sue posizioni antigiacobine e per essersi opposto al regicidio. Per caso non finì alla ghigliottina. In carcere scrisse L ’età della ragione contro le superstizioni e le inframmettenze politiche di tutte le religioni. Rispettoso della libertà di fede, che considerava un diritto naturale universale del­ l’uomo, fu ingiustamente definito da Theodore Roosevelt XXVI

«sporco piccolo ateo». In Senso comune aveva infatti af­ fermato al riguardo: «È estremamente pericoloso per la società fare della religione una parte in causa nel dibattito politico.» Tornato in America, vi morì nel 1809 quando la sua popolarità era ormai tramontata. Thomas Paine condusse dunque un’esistenza movi­ mentata, garibaldina, insonne. Benché abbia partecipato a due rivoluzioni, e che rivoluzioni, egli non fu affatto un rivoluzionario alla stregua di quelli del XX secolo, né per mentalità né per condotta. N on può essere definito sem­ plicemente e soltanto radicale o repubblicano o egualita­ rio o liberal o democratico o riformatore. Ognuna di que­ ste etichette gli si addice; nessuna ne fa il vero ritratto. Al fondo egli fu un Whig. N on Old Whig. Forse una sòrta di New Whig alquanto particolare e abbastanza visionario. Ma sempre un Whig. Molti fraintendimenti circa la sua collocazione ideologica sono derivati dalla sua posizione relativa, per esempio rispetto a Burke e alla Rivoluzione francese. Ma nella prospettiva storica e politica la sua po­ sizione assoluta è indubitabilmente situata entro i precisi confini della teoria e della pratica del liberalismo. N on a caso, e sia detto di sfuggita, nel recensire il recente libro di Harvey J. Kaye, Thomas Paine and thè Promise o f Am­ erica, Joseph J. Ellis ha scritto: «Stranamente, comunque, negli ultimi trent’anni i principali sostenitori di Paine so­ no apparsi nell’ala conservatrice del Partito repubblicano, facendo di Paine, come di Jefferson, il proverbiale uomo per tutte le stagioni. Benché singolare, la persuasione di Goldwater, Reagan, Gingrich ha una plausibile rivendi­ cazione sulla parte libertaria dell’eredità di Paine, il quale sospettava profondamente di tutte le forme di potere con­ solidato e considerava il governo come “ loro” piuttosto che “noi”.»14

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Il “ girondino” Paine subisce la galera del giacobino Robespierre. Si oppone all’uccisione del Re. Per sottrarre alla ghigliottina Luigi XVI rischia la testa scampando for­ tunosamente all’esecuzione. Lui, l’ardente antimonar­ chico, l’appassionato antiaristocratico, l’acceso repubbli­ cano, mette a repentaglio la vita per salvarla al monarca assoluto di Francia. Pietro D i Muccio de Quattro

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1 Vedi II Foglio del 18 marzo 2005. 2 R.G. Stevens, The Declaration of Independence and the Consti­ tution of the United States of America, Georgetown University Press, Washington 1984, p. V. 3 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà: Storia del costi­ tuzionalismo moderno, UTET, Torino 1976, p. 128. 4 N. Machiavelli, Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I, 3. 5 D. Hume, Essays, I, 6. 6 G. Leopardi, Pensieri, I. 7 A. Hamilton, J. Jay, J. Madison (Publius), The Federalist Papers, n. 51. 8 R. G. Stevens, op. cit., pp. VIII-IX. 9 Sant’Agostino, De civitate Dei contra paganos libri X X I I , IV, 4. 10 M. Foot and I. Kramnick (eds.), Thomas Paine Reader, Penguin Books, London 1987, p. 220. 11 Ibidem. 12 Ibidem, p. 285. 13 C. H. Mcllwain, Costituzionalismo antico e moderno, a cura di V. de Caprariis, Neri Pozza Editore, Venezia 1956, p. 23. 14 Vedi The New York Times del 31 luglio 2005.

Ringraziamenti Ringrazio la dottoressa Serena Sileoni, per la preziosa collaborazione e il dottor Guido Di Muccio, per il trattamento del testo.

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Senso comune

Introduzione

Forse le considerazioni esposte nelle pagine che seguono non sono ancora abbastanza alla moda per conquistare il consenso generale; la lunga abitudine a non ritenere che una cosa sia sbagliata le conferisce l’apparenza superfi­ ciale di cosa giusta, e suscita in un primo momento una levata di scudi in difesa della consuetudine. Ma il tumulto ben presto si placa. Il tempo fa più proseliti della ragione. Un protratto e violento abuso del potere di solito forni­ sce l’occasione per metterne in discussione la legittimità (anche in merito a questioni a cui sino ad allora nessuno avrebbe pensato, se l’esasperazione non avesse spinto le vittime a indagare a fondo). Dal momento che il re d’In­ ghilterra si è arrogato il diritto di appoggiare quello che sostiene essere il diritto del parlamento; e dal momento che la brava gente di questo nostro paese è dolorosamente oppressa dalla combinazione di questi due poteri, ad essa spetta l’innegabile privilegio di fare chiarezza nelle pre­ tese dell’uno e dell’altro, e di respingere allo stesso modo l’usurpazione che entrambi incarnano. Nelle pagine che seguono l’Autore ha accuratamente evi­ tato qualunque riferimento personale ai suoi compatrioti. 3

Non vi si trovano perciò né elogi né biasimo nei confronti di alcuno. L’uomo saggio e quello meritevole non hanno bisogno di essere incensati in un pamphlet; e quanti nu­ trono opinioni sconsiderate od ostili le abbandoneranno da soli, a meno che non ci si impegni troppo per far cam­ biare loro idea. La causa dell’America è in grande misura la causa del­ l’umanità intera. Si sono verificate, e si verificheranno, molte circostanze, non a carattere locale ma dalla portata universale, che interessano i principi cari a tutti gli amici del genere umano, e il cui esito non può lasciare indiffe­ renti i loro cuori. Devastare un paese mettendolo a ferro e fuoco, dichiarare guerra ai diritti naturali dell’umanità intera, eliminare i difensori di questi diritti dalla faccia della terra sono avvenimenti che riguardano ogni uomo che la natura abbia dotato di sensibilità; e a questa ca­ tegoria, senza curarsi delle critiche faziose, appartiene l’Autore P. S. La pubblicazione di questa nuova edizione è stata ritardata allo scopo di prendere in considerazione (dandosi il caso) ogni eventuale tentativo di ricusare la tesi dell’indipendenza. Poiché sino a questo momento non è apparsa nessuna risposta, si può presu­ mere che non ne appariranno in futuro, essendo già ampiamente trascorso il tempo necessario alla presentazione pubblica di un do­ cumento del genere. È irrilevante per il lettore conoscere l’identità dell’Autore del presente pamphlet, dal momento che l’oggetto proposto alla sua attenzione è la tesi in se ste ssa e non l ’u o m o . Tuttavia può essere opportuno precisare che egli non ha legami con nessun partito politico e non subisce alcuna influenza, né pubblica né privata, che non sia quella della ragione e del senso morale. Filadelfia, 14 febbraio 1776

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Dell’origine e del fine del governo in generale, con brevi osservazioni sulla costituzione inglese

Alcuni scrittori hanno fatto una tale confusione tra so­ cietà e governo da lasciare poca o punta distinzione tra i due, che invece non soltanto sono diversi tra loro, ma hanno origini diverse. La società è la conseguenza dei no­ stri bisogni, e il governo della nostra malvagità; la prima promuove la nostra felicità in maniera positiva, unendo insieme i nostri affetti, il secondo lo fa in modo negativo, tenendo a freno i nostri vizi. L’una incoraggia i rapporti, l’altro crea distinzioni. La prima protegge, il secondo punisce. La società, qualunque ne sia la forma, rappresenta una benedizione, laddove il governo non è che un male ne­ cessario nella sua forma migliore, mentre in quella peg­ giore è un male intollerabile. Infatti, quando soffriamo o sopportiamo ad opera di un governo quelle stesse sven­ ture che ci aspetteremmo di patire in un paese privo di go­ verno, la nostra disgrazia è acuita dalla considerazione che siamo noi stessi a fornire gli strumenti della nostra sof­ ferenza. Il governo costituisce, proprio come gli abiti, il simbolo della perduta innocenza; i palazzi dei re sono stati eretti sulle rovine delle dimore del paradiso terrestre.

Difatti, se gli impulsi della coscienza fossero chiari e coe­ renti, e venissero osservati in modo inflessibile, l’uomo non avrebbe bisogno di altro legislatore; ma non essendo questo il caso, egli si vede costretto a rinunciare a una par­ te di quanto gli appartiene per fornire gli strumenti ne­ cessari a proteggere il resto. A questo lo induce quella stessa prudenza che in ogni altra circostanza gli suggeri­ sce di scegliere, tra due mali, il minore. Ragion per cui, essendo la sicurezza il vero scopo e il vero obiettivo del governo, ne consegue irrefutabilmente che la forma di governo da preferirsi a tutte le altre è quella che sembra la più idonea a garantirci tale sicurezza con la minore spe­ sa e i maggiori vantaggi. Per farci un’idea chiara ed obiettiva dello scopo e dei fini del governo, immaginiamo che un ristretto numero di persone si insedi in un angolo remoto del pianeta e senza collegamenti con il resto del mondo, così da rappresen­ tare il primo nucleo abitativo di un paese, o del mondo intero. In questo stato di libertà naturale, il loro primo pensiero sarà la società. Mille motivi diversi le spingeranno in questa direzione: la forza di un singolo uomo è talmen­ te sproporzionata ai suoi bisogni, e il suo spirito è tanto poco adatto alla solitudine perpetua, che egli ben presto si vedrà costretto a cercare l’assistenza e l’aiuto di un altro essere umano, che a sua volta si trova nella stessa condi­ zione. Quattro o cinque uomini insieme sarebbero in gra­ do di costruire un’abitazione nel bel mezzo di una landa desolata, ma un uomo solo potrebbe faticare tutta la vita senza ottenere alcun risultato: anche se si procurasse il le­ gname che gli serve, non sarebbe in grado di trasportarlo, né di sollevarlo dopo averlo trasportato; nel frattempo, la fame lo distoglierebbe dal lavoro, e ogni diversa necessità lo spingerebbe in una diversa direzione. La malattia o

qualsiasi altra sfortunata circostanza significherebbero morte certa, perché anche se non fossero di per sé mor­ tali, ognuna di esse gli renderebbe impossibile vivere, e lo ridurrebbe in uno stato tale da poterlo definire, se non morto, perlomeno distrutto. Per questo motivo la necessità, alla stregua di una forza gravitazionale, riunirebbe ben presto i nostri emigranti appena sbarcati in una società, dove i reciproci vantaggi sostituirebbero, rendendoli superflui, gli obblighi della legge e del governo fintanto che essi rimanessero perfet­ tamente corretti l’uno nei confronti dell’altro. Ma dal momento che soltanto il cielo è impenetrabile al vizio, ac­ cadrà inevitabilmente che, superate mano a mano quelle prime difficoltà legate all’emigrazione che li avevano por­ tati a fare causa comune, questi uomini cominceranno a provare meno attaccamento al proprio dovere e verso i propri simili; e questa loro trascuratezza farà emergere la necessità di stabilire una qualche forma di governo che sopperisca all’insufficienza delle virtù morali. Un albero adatto si presterà a fungere da parlamento, e sotto i suoi rami l’intera colonia potrà riunirsi per delibe­ rare su questioni di pubblico interesse. È più che proba­ bile che le loro prime leggi verranno chiamate semplicemente regole, e che l’unica sanzione per farle rispettare sarà la pubblica disistima. In virtù del diritto naturale, in questo primo parlamento ogni uomo avrà un suo seggio. Mano a mano che la colonia cresce, tuttavia, aumen­ teranno in ugual misura i problemi d’interesse generale; e la distanza che potrà separare alcuni membri della so­ cietà dagli altri renderà troppo scomodo il riunirsi tutti ad ogni occasione come avveniva all’inizio, quando il lo­ ro numero era esiguo, le loro abitazioni vicine, e le que­ stioni di pubblico interesse poche e di scarsa importanza.

Diventerà allora chiaro quanto sia conveniente accettare che la parte legislativa venga affidata a un numero limi­ tato di individui scelti all’interno della comunità, che si suppone condividano gli stessi interessi di coloro che li hanno designati e che si comporteranno nello stesso mo­ do in cui si comporterebbe l’intera comunità se fosse pre­ sente. Se la colonia continua a ingrandirsi, sarà necessario aumentare il numero dei suoi rappresentanti; e per fare in modo che vengano tutelati gli interessi di ogni categoria della comunità, la soluzione migliore sarà quella di di­ viderla opportunamente in settori, ognuno dei quali in­ vierà un adeguato numero di rappresentanti. Per evitare che gli eletti possano mai crearsi un interesse distinto da quello dei loro elettori, la prudenza suggerirà di indire le elezioni con molta frequenza; difatti, se grazie a questo meccanismo la persona che è stata eletta tornerà a mesco­ larsi alla massa degli elettori nel giro di pochi mesi, la sua fedeltà nei confronti della collettività verrà garantita dalla sua prudente preoccupazione di non scavarsi la fossa con le proprie mani. E dato che questo frequente avvicenda­ mento instaurerà un interesse comune tra tutti i settori della comunità, essi si sosterranno gli uni con gli altri in modo reciproco e naturale; da questo (e non dal vano ti­ tolo di re) dipendono la forza del governo e la felicità dei governati. Tali sono, dunque, l’origine e la fonte del governo, os­ sia di quello strumento che è reso necessario dall’incapa­ cità delle virtù morali di governare il mondo; e tali sono anche il fine e lo scopo del governo, cioè la libertà e la sicurezza. Per quanto i nostri occhi possano essere ab­ bagliati dallo spettacolo che ci circonda, o le nostre orec­ chie ingannate dal fracasso; per quanto il pregiudizio possa distoreere la nostra volontà, o l’interesse ottundere

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il nostro intendimento, la semplice voce della natura e della ragione ci dirà che ciò è vero. La mia idea della forma di governo è tratta da un prin­ cipio di natura che nessun artificio può rovesciare, ossia che quanto più una cosa è semplice, tanto meno è soggetta a guastarsi, e tanto più facilmente la si ripara una volta che sia guasta. Con questa massima in mente mi propongo di esporre alcune osservazioni a proposito della tanto de­ cantata costituzione inglese. Che essa fosse eccellente per i tempi oscuri e abietti in cui fu redatta è fuori discussione. Quando il mondo era infestato dalla tirannia, anche il minimo passo nella direzione opposta rappresentava una conquista enorme. Ma è facile dimostrare che essa è im­ perfetta, suscettibile di travisamenti, e incapace di dar vita a ciò che sembra promettere. I governi assoluti (che sono l’obbrobrio della natura umana) hanno il vantaggio di essere semplici; se il popolo soffre, sa da dove ha origine la sua sofferenza e ne conosce ugualmente il rimedio, senza lasciarsi confondere dalla va­ rietà delle cause e delle cure. Ma la costituzione inglese è di una complessità tale che la nazione potrebbe soffrire an­ ni interi senza riuscire a scoprire in quale sua parte si na­ sconde l’errore; alcuni diranno in un punto, altri in un altro, e ogni luminare politico prescriverà una medicina diversa. So che è difficile liberarsi di pregiudizi locali o conso­ lidati, ma se ci diamo la briga di esaminare le singole parti che compongono la costituzione inglese, vediamo che si tratta dei miseri resti di due antiche tirannidi, mescolati ad alcuni nuovi elementi repubblicani. Primo. I resti della tirannide monarchica nella persona del sovrano. Secondo. I resti della tirannide aristocratica nelle per­ sone dei Pari del Regno.

Terzo. I nuovi elementi repubblicani nelle persone dei rappresentanti della Camera dei Comuni, dalla virtù dei quali dipende la libertà delPlnghilterra. I primi due non dipendono dal popolo, perché sono ereditari; quindi dal punto di vista costituzionale non contribuiscono in alcun modo alla libertà dello Stato. Sostenere che la costituzione inglese è un’unione di questi tre poteri che si controllano reciprocamente è ridi­ colo: o le parole hanno perso il loro significato, o si tratta di flagranti contraddizioni. Affermare che i Comuni esercitano azione di controllo sul sovrano presuppone due cose. Primo. Che il sovrano non è degno di fiducia se non viene sorvegliato o, in altre parole, che la bramosia di po­ tere assoluto è il male naturale della monarchia. Secondo. Che la Camera dei Comuni, designata a questo scopo, è o più saggia o più degna di fiducia della Corona. Tuttavia, questa stessa costituzione che dà ai Comuni il potere di controllare il re rifiutandogli i finanziamenti, dà poi a quest’ultimo il potere di controllare i Comuni per­ mettendogli di respingere le altre leggi da loro proposte; ecco che di nuovo si presuppone che il re sia più saggio di coloro che si supponeva fossero più saggi di lui. Una vera assurdità! Vi è qualcosa di davvero ridicolo nella natura della mo­ narchia; comincia con l’escludere un individuo dai mezzi di informazione, eppure lo autorizza a intervenire nei casi in cui è richiesta la massima capacità di giudizio. Lo status di sovrano isola il re dal resto del mondo, mentre la sua funzione richiederebbe che lo conoscesse a fondo; e il fatto che in lui le diverse componenti si contrappongono e si distruggono a vicenda in maniera innaturale costituisce una prova dell’assurdità e dell’inutilità del personaggio.

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Alcuni scrittori hanno spiegato la costituzione inglese nel modo seguente: il re, affermano costoro, è una cosa, e il popolo un’altra; la Camera dei Pari è a favore del re, quel­ la dei Comuni a favore del popolo. Ma queste distinzioni sono caratteristiche di una Camera divisa contro se stessa; e anche se le formulazioni sono molto abili, una volta ana­ lizzate si rivelano futili e ambigue. Come sempre succede, persino la più gradevole costruzione verbale di cui i voca­ boli di una lingua siano capaci, se applicata per descrivere qualcosa che non può esistere o è troppo incomprensibile per rientrare in una descrizione, sarà composta soltanto di suoni vuoti, che se anche possono risultare piacevoli all’o­ recchio non riescono a informare la mente. Difatti, la spie­ gazione proposta presuppone una domanda preliminare: come ha fatto il re a ottenere un potere che il popolo teme di delegare e sul quale deve esercitare un continuo controllo? Un simile potere non può essere il dono di un popolo sag­ gio, né può derivare da Dio un potere che ha bisogno di es­ sere controllato; e tuttavia le norme previste dalla costituzio­ ne presuppongono proprio l’esistenza di un potere simile. Ma quelle norme non sono adeguate al compito; i mez­ zi non possono o non vogliono conseguire il fine, e l’in­ tera questione è un felo de se, un suicidio; infatti, se è vero che il peso maggiore trascina sempre con sé quello minore, e che tutte le ruote di un ingranaggio vengono messe in movimento da una soltanto, resta unicamente da sapere quale dei poteri previsti nella costituzione abbia maggior peso, perché sarà quello a governare. E anche se gli altri, o una parte di essi, possono intralciarlo o, come si suol dire, frenare la rapidità del suo movimento, se tuttavia non riescono a fermarlo i loro sforzi resteranno vani; alla fine la forza motrice principale prevarrà, e il tempo sopperirà alla sua mancanza di velocità.

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Che la Corona abbia questo ruolo predominante nella costituzione inglese non c’è bisogno di specificarlo, e che tutta la sua influenza derivi semplicemente dal fatto che di­ spensa le cariche e le pensioni è di per sé evidente; quindi, anche se siamo stati abbastanza saggi da chiudere, e a doppia mandata, la porta in faccia alla monarchia assoluta, nello stesso tempo siamo stati tanto sciocchi da darne la chiave alla Corona. Il pregiudizio degli inglesi in favore del loro governo, formato dal re, dalla Camera dei Lord e da quella dei C o ­ muni, deriva altrettanto, se non di più, dall’orgoglio na­ zionale che dalla ragione. Gli individui godono indub­ biamente di maggiore sicurezza in Inghilterra che non in certi altri paesi; ma la volontà del re è legge tanto in Gran Bretagna che in Francia; con la differenza che, invece di provenire direttamente dalla sua persona, viene trasmessa al popolo sotto la forma ancor più solenne di un atto del parlamento. La sòrte di Carlo I, infatti, ha semplicemente reso i sovrani più scaltri - non più giusti. Quindi, mettendo da parte ogni orgoglio nazionale e ogni pregiudizio a favore delle forme o delle usanze, la verità pura e semplice è che si deve interamente alla co­ stituzione del popolo, e non alla costituzione del governo, se la monarchia è meno vessatoria in Inghilterra che in Turchia. A questo punto si rende quanto mai necessaria una disamina degli errori costituzionali presenti nella forma di governo inglese; difatti, come non ci troviamo mai nella condizione adatta a rendere giustizia agli altri se conti­ nuiamo a subire l’influenza di un preconcetto dominante, così non siamo neppure in grado di renderla a noi stessi sinché ci facciamo impastoiare da un pregiudizio osti­ nato. E proprio come un uomo legato a una prostituta

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non è adatto a scegliere o a giudicare una moglie, così ogni prevenzione in favore di una forma di governo cor­ rotta ci renderà incapaci di distinguerne una buona.

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Della monarchia e della successione ereditaria

Dal momento che nell’ordine della creazione gli uomini sono in origine tutti uguali, questa uguaglianza può esse­ re stata distrutta soltanto da qualche circostanza succes­ siva. Le distinzioni tra ricchi e poveri si possono in gran parte spiegare senza che si debba fare ricorso ai termini rudi e sgradevoli di oppressione e di avarizia. L’oppres­ sione è spesso la conseguenza della ricchezza, ma raramen­ te o mai lo strumento per ottenerla; e anche se l’avarizia impedisce all’uomo di ritrovarsi in gravi ristrettezze, di solito lo rende troppo timoroso per diventare ricco. Ma esiste un’altra e più importante distinzione, che non trova alcuna ragion d’essere, né di tipo naturale né di tipo religioso, ed è la distinzione degli uomini tra re e sudditi. Il maschile e il femminile sono distinzioni della natura, il bene e il male lo sono del cielo; ma vale la pena chiedersi come abbia potuto venire al mondo una razza di uomini tanto elevata al di sopra degli altri e caratterizzata da se­ gni distintivi particolari quasi fosse una specie a parte, e domandarsi come possano dipendere da essa la felicità o la sventura del genere umano. 15

Secondo la cronologia delle Scritture, nelle prime età del mondo non esistevano re, e di conseguenza non si verificavano guerre; è l’orgoglio dei re a gettare l’umanità nella confusione. Senza sovrano, l’Olanda ha goduto in quest’ultimo secolo di una pace che tutte le altre monar­ chie europee non hanno conosciuto. L’antichità conferma la stessa osservazione, perché dalla serena vita rurale dei primi patriarchi emana un sentore di felicità che svanisce non appena si passa alla storia dei re d’Israele. Il governo da parte di un re è stato introdotto per la pri­ ma volta nel mondo dai pagani, dai quali i figli d’Israele copiarono l’usanza. Si tratta dell’invenzione più efficace che il diavolo abbia mai messo in opera per promuovere l’idolatria. I pagani tributavano ai loro re scomparsi ono­ ri divini, e il mondo cristiano ha apportato un’ulteriore miglioria, facendo la stessa cosa coi sovrani viventi. Che sacrilegio attribuire il titolo di sacra maestà a un verme, che nel bel mezzo del suo splendore va già disfacendosi in polvere! N on solo l’esaltare un uomo tanto al di sopra del resto dei suoi simili non è giustificabile sulla base degli uguali diritti di natura, ma non può neppure essere difeso ap­ pellandosi all’autorità delle Scritture, perché la volontà dell’Onnipotente - così come ne diedero testimonianza Gedeone e il profeta Samuele - disapprova espressamente il governo dei re. I regimi monarchici hanno abilmente sorvolato su tutti i passaggi contro la monarchia conte­ nuti nelle Scritture, ma indubbiamente essi meritano l’at­ tenzione dei paesi che debbono ancora darsi un governo. “ Dare a Cesare quel che è di Cesare” è la dottrina biblica adottata dalle corti, ma non costituisce un avallo del go­ verno monarchico, visto che a quel tempo gli ebrei non avevano un re ed erano vassalli dei Romani. 16

Secondo il resoconto della creazione tramandatoci da Mosè, trascorsero circa tremila anni prima che gli ebrei, in séguito a uno scontento generale, sentissero l’esigenza di un re. Sino ad allora la forma di governo da loro adot­ tata (tranne nei casi straordinari in cui interveniva l’O n­ nipotente) era una sòrta di repubblica amministrata da un giudice e dagli anziani delle varie tribù. N on avevano nessun re, e attribuire quel titolo a un essere che non fos­ se il Dio degli eserciti era giudicato peccaminoso. E se ci mettessimo seriamente a riflettere sugli omaggi idolatri che vengono tributati alla persona del re, non fa meravi­ glia che l’Onnipotente, sempre geloso dei propri onori, disapprovi una forma di governo che usurpa con tanta em­ pietà le prerogative del cielo. Nelle Scritture, la monarchia è annoverata come uno dei peccati degli ebrei, per il quale essi meritano un parti­ colare anatema. Vale la pena ricordare la storia di quegli avvenimenti. Poiché i figli d’Israele erano oppressi dai Madianiti, Gedeone marciò contro costoro alla testa di un piccolo esercito, e la vittoria, ottenuta grazie all’intervento divino, fu a suo favore. Gli ebrei, esaltati dal successo che attri­ buivano alla capacità militare di Gedeone, gli proposero di diventare re dicendo: «Domina sopra di noi tu, il figliuolo tuo e il figlio del figliuol tuo.»1 Ci troviamo di fronte alla tentazione per eccellenza: non soltanto un regno, ma un regno ereditario. Tuttavia Gedeone, che era un’anima pia, rispose: «Io non dominerò sopra di voi, né dominerà sopra di voi il mio figliuolo: ma dominerà sopra di voi il Signore.» Le sue parole non avrebbero potuto essere più esplicite: Gedeone non soltanto declina l’onore, ma nega agli ebrei il diritto di conferirglielo; invece di adularli con ringraziamenti ipocriti li accusa, nello stile deciso proprio 17

di un profeta, di disaffezione nei confronti del loro vero sovrano, il Re del Cielo. Circa centotrenta anni dopo, gli ebrei commisero lo stesso errore. La forte inclinazione che provavano nei con­ fronti delle pratiche idolatre dei pagani è un fenomeno veramente inesplicabile, ma le cose stanno così: prenden­ do a pretesto la cattiva condotta dei due figli di Samuele, che rivestivano cariche pubbliche, gli ebrei si recarono da Samuele vociferando senza troppe cerimonie e gli dissero: «Tu sei ormai vecchio e i tuoi figli non seguono i tuoi esempi; perciò costituisci sopra di noi un re che ci giudi­ chi, come l’hanno tutte le nazioni.» Qui non possiamo fare a meno di osservare che le loro ragioni erano errate, perché desideravano essere quanto più possibile simili al­ le altre nazioni, cioè ai pagani, mentre la loro vera gloria stava proprio nel fatto di essere quanto più possibile di­ versi da loro. «A Samuele spiacque questo loro dire: “Dac­ ci un re che ci giudichi”; e pregò il Signore, il quale gli disse: “ Ascolta la voce del popolo in tutto quello che ti dicono, poiché non te hanno rigettato, ma me, affinché io non regni su di loro. Come han sempre agito, dal giorno che li trassi dall’Egitto fino ad oggi, abbandonando me per servire gli dèi stranieri, così fanno anche con te. Ora dunque ascolta la loro voce, soltanto protesta e preannun­ zia loro i diritti del re che regnerà su di essi.” » In altre pa­ role non era il modo di regnare di un re in particolare, ma quello di tutti i re della terra, che Israele era tanto ansioso di imitare. E malgrado la grande distanza in termini di tempo e la differenza delle usanze, questo atteggiamento è ancora in voga. «Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo, che aveva chiesto un re, e soggiunse: “ Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vo­ stri figli e li porrà sui suoi carri, e ne farà dei cavalieri e

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dei battistrada alle sue quadrighe” » - questa descrizione rispecchia il modo in cui ancora oggi si vogliono impres­ sionare gli altri - « “ e li costituirà suoi tribuni e centurioni e aratori dei suoi campi e mietitori delle sue biade e fab­ bricatori delle sue armi e dei suoi carri. Anche le vostre fi­ glie se le prenderà per confezionare unguenti, per accende­ re il fuoco e fare il pane.” » Questo ben descrive le spese e il lusso, oltre all’oppressione esercitata dai re. « “ Prenderà i vostri campi, le vigne e i migliori oliveti per darli ai suoi servi. Si prenderà pure la decima sulle vostre biade e sui prodotti delle vostre vigne, per darle ai suoi eunuchi e ai suoi servi.”» Da questo vediamo che la subornazione, la corruzione e il favoritismo sono i vizi immutabili dei re. « “ Prenderà anche i vostri servi e le serve e il fiore della vo­ stra gioventù e i vostri asini per valersene nei suoi lavori. Vi decimerà anche il gregge e voi sarete i suoi servi. Allora alzerete le vostre grida contro il re che vi sarete eletto; ma in quel dì il Signore non vi esaudirà, perché voi avete chie­ sto per voi un re.”» Così si spiega la continuità della mo­ narchia; e neppure la personalità di quei pochi sovrani buoni che sono esistiti sino ad oggi può rendere sacro il titolo, o cancellarne le origini peccaminose; le alte lodi rese a David non si riferiscono alla sua funzione ufficiale di re, ma soltanto al suo essere un uomo vicino al cuore del Signore. «Il popolo non volle dare ascolto alle parole di Samuele, anzi dissero:“ N o, no: noi avremo un re su di noi e saremo anche noi come tutti i popoli: il nostro re ci giudicherà, ci andrà innanzi e combatterà per noi le nostre battaglie.” »2 Samuele continuò a ragionare con loro, ma invano; fece loro notare quanto erano ingrati, ma non ser­ vì a nulla; e vedendo che erano totalmente in preda alla loro follia, gridò: « “ Io invocherò il Signore ed egli man­ derà tuoni e pioggia” » - il che costituiva una punizione, 19

perché si era nel periodo della mietitura -, «“ e cosi saprete e vedrete quanto grande sia il male commesso da voi di­ nanzi a Dio chiedendo un re sopra di voi.” Samuele alzò il suo grido al Signore, e il Signore mandò in quel giorno tuoni e pioggia; onde il popolo temette assai e il Signore e Samuele; e tutto il popolo disse a Samuele: “ Prega il Si­ gnore Iddio tuo per i servi tuoi che non moriamo, poiché a tutti gli altri nostri peccati abbiamo aggiunto anche quel­ lo di chiedere per noi un re.” »3Questi brani delle Scritture sono espliciti e categorici. N on ammettono un’interpre­ tazione equivoca. Che l’Onnipotente abbia qui manife­ stato la sua protesta contro il governo monarchico è un dato di fatto, oppure le Scritture sono false. Esistono del resto buone ragioni per ritenere che, nei paesi papisti, a sottrarre le Scritture alla curiosità del popolo si siano im­ pegnati tanto i re come il clero. Infatti, la monarchia in ogni sua forma non è altro che il papismo del governo. Al male della monarchia abbiamo aggiunto quello del­ la successione ereditaria; e mentre la prima rappresenta un modo per avvilire e degradare noi stessi, la seconda, che viene rivendicata come un diritto, è un insulto e una soperchieria nei confronti dei posteri. Difatti, essendo tutti gli uomini originariamente uguali, nessuno può avere per na­ scita il diritto di stabilire che la sua famiglia godrà per sempre di una situazione di privilegio rispetto a tutte le altre. Anche supponendo che un uomo possa meritare una quantità ragionevole di onori da parte dei contempo­ ranei, i suoi discendenti potrebbero però essere del tutto indegni di ereditarli. Una delle prove naturali più solide dell’insensatezza del diritto ereditario dei re è che la natura lo disapprova, altrimenti non lo esporrebbe tanto spesso al ridicolo dando all’umanità un “asino travestito da leone”.4 In secondo luogo, come all’inizio nessun uomo poteva

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godere di altri onori pubblici che non fossero quelli che gli erano stati concessi, così coloro che li avevano tribu­ tati non avevano il potere di disporre di un diritto che ap­ partiene ai posteri; anche se avevano facoltà di dire: «Sce­ gliamo te come nostro capo», non potevano aggiungere, senza commettere una palese ingiustizia nei confronti della loro prole, «che i tuoi figli e i figli dei tuoi figli re­ gnino per sempre sui nostri». Difatti, un patto insensato, ingiusto e innaturale come questo avrebbe (forse) rischia­ to, in una prossima successione, di mettere questi ultimi nelle mani di un furfante, o di uno sciocco. La maggior parte degli uomini saggi, nel fondo di se stessi, ha sempre considerato con disprezzo il diritto ereditario; eppure si tratta di uno di quei mali che, una volta radicati, non si estirpano facilmente; molti vi si sottomettono per paura, altri per superstizione, mentre i più potenti partecipano con il re al saccheggio di tutti gli altri. Tutto ciò supponendo che la stirpe dei sovrani che attualmente regnano nel mondo abbia un’origine onore­ vole. Invece è più che probabile che, se potessimo solle­ vare il velo oscuro che ammanta l’antichità e risalire al momento del loro primo apparire, scopriremmo che il ca­ postipite non era niente di meglio del peggior ribaldo di qualche banda scatenata, le cui maniere brutali o la cui astuzia eccezionale gli avevano valso il titolo di capo dei saccheggiatori; e che, aumentando il suo potere e ampli­ ando il raggio delle sue depredazioni, aveva intimidito uomini miti e senza difesa costringendoli a comprare la propria sicurezza pagando frequenti tributi. Ma i suoi elettori non si sognavano certo di conferire un diritto ereditario ai suoi discendenti, poiché il precludersi per sempre questa facoltà era incompatibile con i principi di libertà e di assenza di limitazioni secondo i quali dichia­ 21

ravano di vivere. Quindi la successione ereditaria, ai pri­ mordi della monarchia, non poteva configurarsi come un diritto ma soltanto come un avvenimento fortuito o com­ plementare. Ma poiché a quei tempi si redigevano solo pochissimi documenti e la tradizione orale veniva infar­ cita di fole, era molto facile, in capo a qualche genera­ zione, inventare una leggenda alla Maometto, zeppa di superstizioni e opportunamente datata, per far digerire al popolino la questione del diritto ereditario. Forse i disor­ dini che incombevano o sembravano incombere al mo­ mento della morte di un capo e della scelta del suo suc­ cessore (visto che tra furfanti le elezioni non potevano svolgersi troppo ordinatamente), da principio indussero molti a schierarsi in favore delle rivendicazioni ereditarie; avvenne quindi, come si è sempre verificato da allora in poi, che ciò che all’inizio era tollerato per convenienza, venisse successivamente reclamato come un diritto. Dai tempi della conquista ad oggi, l’Inghilterra ha avuto qualche buon monarca, ma ha sofferto sotto un numero assai maggiore di cattivi sovrani; eppure nessun uomo in possesso delle sue facoltà potrà affermare che la discen­ denza da Guglielmo il Conquistatore, che essi reclamano, sia da ritenersi molto onorevole: discendere da un bastar­ do francese che sbarcò alla testa di un manipolo di bandi­ ti armati e si proclamò re d’Inghilterra senza il consenso della popolazione è, tanto per parlare chiaro, un’origine quanto mai spregevole e furfantesca, che certo non ha in sé niente di divino. Comunque, non serve a nulla perdere tanto tempo a denunciare l’insensatezza del diritto eredi­ tario; se esistono persone così sprovvedute da crederci, che venerino pure promiscuamente l’asino e il leone, e buon pro gli faccia. Io non imiterò il loro umiliarsi, e non disturberò la loro devozione.

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Mi piacerebbe tuttavia chiedere loro in quale modo pen­ sano che abbiano avuto origine i monarchi. La domanda ammette solo tre risposte: l’estrazione a sòrte, l’elezione o l’usurpazione. Se il primo re fosse stato scelto tirando a sòrte, questo avrebbe stabilito un precedente per il suc­ cessore, escludendo la successione ereditaria. Saul divenne re in questo modo, e la sua successione non fu ereditaria, né dalla sua investitura traspare in alcun modo l’intenzione che dovesse mai diventarlo. Se il primo re di un paese fosse diventato tale a séguito di elezione, ciò avrebbe del pari costituito un precedente per il successore. Infatti, so­ stenere che il diritto di tutte le generazioni future è stato abolito per il fatto che i primi elettori hanno scelto non soltanto un re, ma una famiglia che regnerà per sempre, è un’affermazione che non ha equivalenti né nelle Scritture né altrove, a parte la dottrina del peccato originale, la qua­ le suppone che il libero arbitrio di tutti gli uomini sia andato perduto con Adamo. Da un simile paragone, visto che non se ne possono ammettere altri, la successione ere­ ditaria non può trarre alcuna gloria. Infatti, se con Adamo hanno peccato tutti gli uomini, e se attraverso i primi elettori tutti hanno fatto atto di sottomissione, nel primo caso l’intero genere umano è caduto in mano a Satana, e nel secondo in mano alla monarchia; se con l’uno abbiamo perduto l’innocenza, con l’altro abbiamo perso l’autorità; e infine se entrambi ci impediscono di riacquistare la con­ dizione e il privilegio preesistenti, ne consegue irrefutabil­ mente che il peccato originale e la successione ereditaria sono omologhi. Che accostamento disonorevole! Che pa­ rentela vergognosa! Tuttavia, neppure il sofista più abile riuscirebbe a trovare un paragone più calzante. Per quanto riguarda l’usurpazione, nessuno sarà tanto audace da parlare in sua difesa; ed è impossibile negare 23

che Guglielmo il Conquistatore sia stato un usurpatore. La verità pura e semplice è che le origini storiche della mo­ narchia inglese non reggono a un esame approfondito. Ma non è tanto l’assurdità della successione ereditaria quanto la sua implicita perversità a interessare il genere umano. Se avesse dato origine a una razza di uomini pro­ bi e saggi, avrebbe il sigillo dell’autorità divina; ma dal momento che apre la porta agli sciocchi, ai malvagi e agli incompetenti, reca in sé l’essenza stessa dell’oppressione. Gli uomini che considerano se stessi nati per regnare e gli altri per obbedire, ben presto diventano arroganti. Sepa­ rata dal resto del genere umano, la loro mente è sùbito avvelenata dalla presunzione; il mondo in cui si muovono differisce in maniera tanto rilevante dal mondo esterno, che hanno poche occasioni di conoscerne i veri interessi, e una volta giunti al governo sono spesso i più ignoranti e i meno qualificati a governare di tutti gli uomini che vivono nei loro domini. Un altro dei mali legati alla successione ereditaria è che al trono può salire anche un minore; e durante quel pe­ riodo la reggenza, che agisce sotto la copertura dell’auto­ rità regale, non manca né di opportunità né di tentazioni per tradire la fiducia di cui gode. La stessa sventura si abbatte sulla nazione quando un sovrano, logorato dalla vecchiaia e dall’infermità, entra nell’ultimo stadio della decadenza umana. In entrambi i casi, la collettività diven­ ta preda di qualunque furfante capace di sfruttare con successo le follie della vecchiaia o dell’infanzia. La giustificazione più plausibile che sia mai stata avan­ zata a sostegno della successione ereditaria è che essa pre­ serva una nazione dalle guerre civili. Se fosse vero, la cosa avrebbe il suo peso; invece si tratta della più sfrontata menzogna che sia mai stata propinata al genere umano. 24

Tutta la storia delPlnghilterra la smentisce. A partire dalla conquista, trenta re e due minorenni hanno regnato in quel paese tormentato, e durante questo periodo si sono verifi­ cate (inclusa la Rivoluzione) non meno di otto guerre civi­ li e diciannove rivolte. Se ne deduce che, invece di promuo­ vere la pace, questo sistema nuoce al suo mantenimento, e distrugge le fondamenta stesse su cui sembra poggiare. Le lotte per la monarchia e per la successione tra la ca­ sa di York e quella di Lancaster hanno immerso per molti anni l’Inghilterra in un lago di sangue. Enrico ed Edoardo combatterono dodici battaglie campali, per non parlare delle scaramucce e degli assedi. Enrico fu per due volte prigioniero di Edoardo, il quale a sua volta fu imprigio­ nato dal primo. Le sòrti della guerra e gli umori di una nazione sono così incerti, quando l’oggetto del conten­ dere è costituito da affari personali, che Enrico fu por­ tato in trionfo dalla prigione alla reggia, mentre Edoardo fu costretto a fuggire dalla reggia per rifugiarsi in terra straniera. Ma visto che i cambiamenti di umore così im­ provvisi sono raramente duraturi, Enrico fu a sua volta scacciato dal trono, ed Edoardo venne richiamato a suc­ cedergli - mentre il parlamento si schierava sempre dalla parte del più forte. Il conflitto iniziò sotto il regno di Enrico VI, ed ebbe veramente fine soltanto sotto il regno di Enrico VII, du­ rante il quale le due famiglie si fusero. Stiamo parlando di un periodo di sessantasette anni, ossia dal 1422 al 1489.5 In breve, la monarchia e la successione hanno insan­ guinato e ridotto in cenere il mondo intero, e non questo o quel regno soltanto. Si tratta di una forma di governo contro cui testimonia la parola di Dio, e che è sempre sug­ gellata dal sangue. Se ci chiediamo quali siano le occupazioni di un re,

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scopriamo che in alcuni paesi egli non ne ha nessuna; e che dopo aver trascorso tutta la vita in futili occupazioni, senza alcun piacere per se stesso né alcun vantaggio per la nazione, si ritira dalla scena e lascia i suoi successori a percorrere lo stesso ozioso cammino. Nelle monarchie as­ solute, tutto il peso degli affari civili e militari grava sulle spalle del re; nella loro richiesta di un sovrano, i figli di Israele chiedevano qualcuno che li giudicasse, marciasse davanti a loro e combattesse le loro guerre. Ma nei paesi in cui il re non è né giudice né generale, come nel caso dell’Inghilterra, chiunque volesse sapere quali sono le sue occupazioni resterebbe assai perplesso. Più un governo si avvicina alla forma repubblicana, tanto minore è l’attività di un re. È piuttosto difficile tro­ vare una definizione che si attagli al governo dell’Inghil­ terra. Sir William Meredith lo chiama repubblica; ma allo stato attuale delle cose non è degno di questo nome, per­ ché l’influenza corrotta della Corona, che dispone a suo piacimento di tutte le cariche, ha inglobato il potere e cor­ roso la virtù della Camera dei Comuni (la componente repubblicana della costituzione) in maniera così efficace che il governo inglese è quasi altrettanto monarchico di quello francese o di quello spagnolo. Gli uomini si entu­ siasmano per dei nomi senza capirne il significato. Difat­ ti gli inglesi si vantano della componente repubblicana e non di quella monarchica della loro costituzione, ossia della libertà di eleggere i rappresentanti della Camera dei Comuni tra i cittadini. Ed è facile vedere che quando le virtù repubblicane vengono meno, ne consegue la schia­ vitù. Se la costituzione inglese è malata, lo si deve al fatto che la monarchia ha avvelenato la repubblica, e la Corona ha messo le mani sui Comuni. In Inghilterra, un re ha poco altro da fare oltre a guer­ 26

reggiare e a distribuire cariche; le due cose, in parole po­ vere, equivalgono a impoverire la nazione e a seminare zizzania. Davvero un buon affare per un uomo che si vede assegnare, per far questo, un appannaggio di ottocentomila sterline l’anno, e che, per giunta, viene idola­ trato! Per la società e agli occhi di Dio ha maggior valore un solo uomo onesto di tutti i furfanti incoronati che sono mai esistiti.

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C o n sid erazio n i sullo stato attuale della questione americana

Nelle pagine che seguono presento soltanto puri e sem­ plici fatti, argomenti evidenti e buon senso comune; l’unica condizione preliminare che impongo al lettore è che si sbarazzi dei pregiudizi e delle prevenzioni, e accetti che la sua ragione e i suoi sentimenti parlino da loro stessi; mi aspetto che indossi, o meglio non metta da parte, la sua vera essenza di uomo, e allarghi generosamente le pro­ prie vedute al di là del momento attuale. Sull’argomento del conflitto tra Inghilterra e America sono stati scritti interi volumi. Uomini di ogni ceto so­ ciale hanno detto la loro nella controversia, per motivi diversi e con gli obiettivi più vari; ma non ne è sortito alcun effetto, e il tempo dei dibattiti è finito. Come ulti­ ma risorsa, sono le armi a decidere della contesa; il re ha scelto di farvi ricorso, e il continente ha accettato la sfida. A proposito del defunto Pelham (ministro competente, anche se non scevro da difetti)6 si è detto che, quando venne attaccato alla Camera dei Comuni perché i suoi provvedimenti avevano solo carattere temporaneo, abbia risposto: «Dureranno quanto me.» Se un pensiero altret­ tanto funesto e codardo si impossessasse delle colonie nel conflitto attuale, il nome degli antenati verrebbe ricordato con odio dalle generazioni future.

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Il sole non ha mai brillato su una causa più degna. Essa non riguarda una città, una contea, una provincia o un regno, ma un continente che rappresenta l’ottava parte almeno del mondo abitabile. N on è questione che duri un giorno, un anno o un secolo; in questo conflitto sono di fatto coinvolti anche i posteri che, in misura maggiore o minore, saranno toccati dagli avvenimenti odierni sino al­ la fine dei tempi. Questo è il momento di gettare il seme dell’unione, della fede e dell’onore del continente. Oggi la minima frattura sarà come un nome inciso con la punta di uno spillo sulla tenera corteccia di una giovane quercia; la ferita crescerà insieme all’albero, e i posteri leggeranno il nome a caratteri cubitali. Il passaggio dalla discussione alle armi segna l’avvio di una nuova era in campo politico, e la nascita di un nuo­ vo modo di pensare. Tutti i progetti, tutte le proposte e quant’altro precedeva il diciannove aprile, ossia l’inizio delle ostilità, sono come gli almanacchi dello scorso anno: andavano bene allora, ma oggi sono superati e inutili. Tutti i suggerimenti avanzati dai sostenitori di entrambe le parti convergevano verso uno stesso punto, cioè l’unione con la Gran Bretagna; l’unica differenza era il metodo con cui ottenerla: gli uni proponevano di fare ricorso alla forza, gli altri all’amicizia. Ma quel che si è verificato sino ad oggi è che i primi hanno fallito, e i secondi hanno ri­ nunciato alla loro influenza. Dal momento che è stato detto molto sui vantaggi del­ la riconciliazione, la quale, al pari di un sogno gradevole, è svanita lasciandoci come eravamo prima, è solamente giusto che noi si esamini l’altro versante della controver­ sia, considerando alcuni dei molti danni materiali che que­ ste colonie subiscono e sempre subiranno per il fatto di essere legate alla Gran Bretagna e di dipendere da essa.

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Si tratterà di esaminare questo legame e questa dipenden­ za basandoci sui principi della natura e del senso comune, e di vedere su cosa possiamo fare affidamento se vi sarà una separazione, e che cosa dobbiamo aspettarci se verrà mantenuta la dipendenza. H o udito alcuni affermare che, avendo l’America pro­ sperato durante il passato regime di unione con la Gran Bretagna, la perpetuazione di questo legame è necessaria alla sua futura felicità, e sarà sempre seguita dagli stessi effetti. N on esiste niente di più ingannevole di questo argomento. Tanto varrebbe affermare che siccome un bambino è cresciuto col latte, non dovrà mai mangiare carne; o che i primi vént’anni della nostra vita debbono costituire un precedente per i successivi vénti. Ma la stes­ sa argomentazione iniziale va oltre la verità perché, lo dico chiaro e tondo, l’America avrebbe prosperato altret­ tanto, e probabilmente molto di più, se nessuna potenza europea si fosse intromessa nei suoi affari. Il paese è di­ ventato ricco grazie al commercio di generi di prima ne­ cessità, che avranno sempre un mercato sino a quando l’Europa conserverà l’abitudine di mangiare. Ma la Gran Bretagna ci ha protetto, dicono alcuni. Che ci abbia monopolizzato completamente corrisponde al vero, e che abbia difeso il continente a spese nostre oltre che a spese sue è risaputo. Ma avrebbe difeso anche la Turchia per lo stesso motivo, ossia per estendere com­ mercio e potere. Purtroppo, per lungo tempo ci siamo lasciati fuorviare da antichi pregiudizi, e abbiamo compiuto sacrifici one­ rosi sull’altare della superstizione. Ci siamo inorgogliti della protezione della Gran Bretagna senza considerare che a spingerla era l’interesse e non l’affetto; che non ci proteggeva dai nostri nemici per il nostro vantaggio, ma

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per il suo vantaggio dai suoi nemici, cioè da coloro che non avevano nessun motivo di dissapore nei nostri con­ fronti e che a causa di questo rimarranno per sempre no­ stri nemici. La Gran Bretagna rinunci alle sue pretese sul continente! Il continente si sbarazzi della sua dipendenza! Allora noi saremmo in pace con la Francia e la Spagna quand’anche esse fossero in guerra con la Gran Bretagna. Le tribolazioni nell’ultima guerra degli Hannover dovreb­ bero metterci in guardia contro simili legami. Di recente, in parlamento è stato asserito che le colo­ nie non hanno rapporti le une con le altre se non attra­ verso la madrepatria; ossia che la Pennsylvania e il Jersey, e così tutte le altre, sono colonie sorelle solo per il tramite dell’Inghilterra. Si tratta di un modo davvero molto con­ torto di definire la natura dei nostri rapporti, ma è il mo­ do più diretto e sicuramente il più esatto per spiegare la natura delle nostre inimicizie, se così posso dire. La Fran­ cia e la Spagna non sono mai state e forse non saranno mai nostre nemiche perché siamo americani, ma perché siamo sudditi della Gran Bretagna. Ma la Gran Bretagna è la nostra madrepatria, dicono al­ cuni. Allora tanto più è vergognoso il suo comportamento. Neppure le bestie divorano i loro piccoli, e i selvaggi non muovono guerra alle loro famiglie; quindi questa afferma­ zione, se corrispondesse a verità, andrebbe a suo biasimo. Ma non è vera, o lo è solo in parte. Il titolo di madre o madrepatria è stato astutamente adottato dal re e dai suoi parassiti nell’intento vile e papista di conquistarsi così un’influenza indebita facendo leva sulla credula debolez­ za delle nostre menti. L’Europa, e non l’Inghilterra, è la madrepatria dell’America. Il Nuovo mondo ha dato asilo ai perseguitati difensori della libertà civile e religiosa pro­ venienti da ogni parte d’Europa. Si sono rifugiati qui per

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sottrarsi non già al tenero abbraccio di una madre, ma alla crudeltà di un mostro; ciò è talmente vero per quanto concerne l’Inghilterra, che la stessa tirannide che ha spinto i primi emigranti a lasciare la patria continua a persegui­ tare i loro discendenti. In questa immensa parte del globo, dimentichiamo gli angusti confini dell’Inghilterra e le trecentosessanta mi­ glia che rappresentano la sua estensione, e apriamoci a un’amicizia su scala più vasta; proclamiamo la nostra fra­ tellanza con ogni cristiano d’Europa ed esultiamo per la generosità di questo sentimento. Fa piacere osservare i progressi regolari coi quali supe­ riamo la forza dei pregiudizi locali mano a mano che si allarga la nostra conoscenza del mondo. Un uomo nato in una qualsiasi città dell’Inghilterra divisa in quartieri stringerà naturalmente rapporti soprattutto con un abi­ tante dello stesso quartiere (perché in molti casi condivi­ dono gli stessi interessi), e lo chiamerà vicino; se lo in­ contrerà a qualche miglio di distanza da casa, supererà il ristretto concetto di quartiere e lo saluterà chiamandolo concittadino. Se poi viaggiando uscirà dai confini della sua contea e lo incontrerà in un’altra, dimenticherà le an­ guste suddivisioni di quartiere e di città, e lo chiamerà compatriota, (a livello di contea, si intende); ma se nel corso dei loro viaggi all’estero queste persone dovessero incontrarsi in Francia o in qualche altra parte d’Europa, si chiamerebbero reciprocamente inglesi, superando il ri­ stretto confine campanilistico. In forza di un ragionamento analogo, tutti gli europei che si incontrano in America, o in qualunque altra parte del globo, sono dei compatrioti. Infatti l’Inghilterra, l’Olanda, la Germania o la Svezia, se paragonate al mondo intero, rappresentano, su una scala più ampia, le stesse suddivisioni che hanno, su una scala

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minore, i quartieri, le città e le contee: sono distinzioni troppo limitate per una mente continentale. In questa provincia, gli abitanti di origine inglese non rappresentano neppure un terzo della popolazione. Per questo motivo non approvo che l’appellativo di madrepatria venga attri­ buito alla sola Inghilterra, in quanto lo trovo falso, egoi­ stico, ristretto e poco generoso. Ma anche ammettendo che fossimo tutti di origine in­ glese, che cosa cambierebbe? Nulla. La Gran Bretagna, che ora ci si oppone come nemica dichiarata, annulla con ciò stesso ogni altro appellativo e ogni altro titolo; e affer­ mare che la riconciliazione è nostro dovere è veramente farsesco. Il primo re d’Inghilterra della dinastia attual­ mente regnante (Guglielmo il Conquistatore) era fran­ cese, e metà dei Pari del regno sono originari di quello stesso paese; quindi, per lo stesso ragionamento, l’Inghil­ terra dovrebbe essere governata dalla Francia. Molto si è detto a proposito della forza congiunta della Gran Bretagna e delle colonie, che insieme potrebbero sfi­ dare il mondo. Ma si tratta di una semplice supposizione: le sòrti della guerra sono incerte, e le espressioni utilizzate sono prive di significato; questo continente non accettereb­ be mai di vedersi prosciugare dei suoi abitanti per appog­ giare gli eserciti inglesi in Asia, in Africa o in Europa. Inoltre, perché mai dovremmo sfidare il mondo? Il no­ stro obiettivo è il commercio che, se portato avanti con accortezza, ci garantirà la pace e l’amicizia di tutta l’Eu­ ropa; perché è nell’interesse dell’Europa intera che l’Ame­ rica sia un porto franco. Gli scambi commerciali costitui­ ranno sempre una protezione per questo paese, e il fatto di non possedere né oro né argento lo tutelerà dagli invasori. Sfido il più fervente sostenitore della riconciliazione a citare un solo vantaggio che potrebbe derivare a questo 34

continente dal suo legame con la Gran Bretagna. Ripeto la sfida: non ne deriverebbe nessun vantaggio. Il nostro granturco può ottenere il prezzo che vale su qualunque mercato europeo, e quanto ai prodotti che importiamo, dovremmo comunque pagarli, in qualunque paese inten­ dessimo acquistarli. Invece i danni e gli svantaggi che ci derivano da questo legame sono innumerevoli; e il nostro dovere verso l’uma­ nità intera, oltre che verso noi stessi, ci impone di ripudia­ re questa alleanza. Infatti, ogni sottomissione o dipenden­ za dalla Gran Bretagna tende a coinvolgere direttamente questo continente nelle guerre e nelle contese europee; semina la discordia tra noi e nazioni che altrimenti cerche­ rebbero la nostra amicizia, e nei confronti delle quali non proviamo inimicizia né avanziamo pretese. L’Europa è il nostro mercato commerciale, e quindi non dovremmo stringere rapporti preferenziali con nessuno dei paesi che la compongono. Il vero interesse dell’America è quello di tenersi alla larga dai conflitti europei, cosa che non le riu­ scirà sino a quando la sua dipendenza dalla Gran Breta­ gna farà di lei un semplice accessorio sulla bilancia della politica inglese. L’Europa è troppo fittamente popolata di monarchie per conoscere lunghi periodi di pace, e ogni volta che scop­ pia una guerra tra l’Inghilterra e una qualsiasi potenza straniera il commercio americano va alla malora a causa dei suoi legami con la Gran Bretagna. La prossima guerra potrebbe avere un esito diverso dall’ultima, e se così fos­ se gli odierni fautori della riconciliazione invocheranno la separazione, perché in quel caso la neutralità costitui­ rebbe una scorta più sicura di qualsiasi nave da guerra. Tutto ciò che è giusto o naturale parla in favore di una se­ parazione. Il sangue delle vittime, la voce piena di lacrime

della natura gridano: È tempo di separarsi. Persino la di­ stanza che l’Onnipotente ha interposto tra l’Inghilterra e l’America rappresenta una inconfutabile prova naturale del fatto che l’autorità esercitata dalla prima sulla seconda non è mai stata nei disegni del Cielo. Anche l’epoca in cui questo continente è stato scoperto corrobora il mio argo­ mento, e il modo in cui è stato popolato lo avvalora ul­ teriormente. La scoperta dell’America ha preceduto la Riforma, come se l’Onnipotente avesse voluto, nella sua bontà, preparare un rifugio per i perseguitati degli anni a venire, quando in patria non avrebbero trovato né amici­ zia né sicurezza. L’autorità esercitata dalla Gran Bretagna sul continente è una forma di governo che presto o tardi deve finire; ma nessuna persona seria può trarre sincero piacere dal guar­ dare al futuro con l’intima e dolorosa convinzione che la cosiddetta “ attuale costituzione” sia soltanto provvisoria. Come genitori, non possiamo rallegrarci sapendo che que­ sto governo non è abbastanza duraturo da consentirci di lasciare qualcosa in eredità ai nostri discendenti. E seguen­ do un ragionamento logico, visto che stiamo gravando di debiti la prossima generazione, sta a noi agire al suo po­ sto se non vogliamo comportarci nei suoi confronti in modo gretto e meschino. Per scoprire chiaramente qual è il nostro dovere, dovremmo prendere per mano i nostri figli e lasciarci trasportare un po’ più avanti nel tempo; dall’alto di questo punto di osservazione scopriremmo una prospettiva che al momento alcuni timori e alcuni pregiudizi nascondono alla nostra vista. Anche se cerco accuratamente di evitare di recare offese gratuite, sono tuttavia incline a ritenere che tutti coloro che abbracciano la tesi della riconciliazione possono rientrare nella seguente classificazione: uomini interessati di cui non

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c’è da fidarsi; uomini deboli che non sanno vedere; uomini prevenuti che non vogliono vedere; più un certo numero di persone moderate che hanno della realtà europea una opinione migliore di quella che merita. Se quest’ultima categoria prendesse una decisione sconsiderata, procure­ rebbe più sventure a questo continente di tutte le altre tre messe insieme. Molte persone hanno la fortuna di vivere lontano dal­ lo scenario delle presenti sciagure; il male non è giunto abbastanza vicino alle loro porte perché esse avvertano la precarietà generale che minaccia tutte le proprietà ameri­ cane. Ma cerchiamo per un attimo di farci trasportare dall’immaginazione a Boston; quel luogo di sventura ci insegnerà a essere saggi e ci costringerà a ripudiare per sempre un’autorità nella quale non possiamo riporre al­ cuna fiducia. Gli abitanti di quella sfortunata città, che soltanto pochi mesi fa vivevano in pace e nel benessere, oggi non hanno altra scelta se non quella di restare lì e mo­ rire di fame, o andarsene a chiedere l’elemosina altrove. Minacciati dalle armi da fuoco dei loro amici se rimango­ no in città, e depredati dai soldati se l’abbandonano, nel­ l’attuale situazione sono dei prigionieri senza speranza di riscatto; e se venisse lanciato un attacco generale in loro soccorso, si troverebbero esposti alla furia di entrambi gli eserciti. Gli uomini dal temperamento passivo prendono alla leg­ gera le offese che ci infligge la Gran Bretagna, e sperando ancora che tutto volga al meglio si affannano ad esclamare: «Suvvia, suvvia, saremo di nuovo amici malgrado tutto.» Ma considerate le passioni e i sentimenti dell’umanità, ap­ plicate alla tesi della riconciliazione la pietra di paragone della natura, e poi ditemi se potete ancora amare, onorare e servire fedelmente una potenza che ha messo a ferro e

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fuoco il vostro paese. Se non potete farlo, allora state so­ lo ingannando voi stessi, e con le vostre esitazioni fate in modo che sui posteri si abbatta la rovina. I vostri futuri legami con una Gran Bretagna che non potete né amare né onorare saranno forzati e innaturali, ed essendo nati con la sola prospettiva dell’attuale convenienza, tra breve ricadranno in uno stato ancor più miserevole del prece­ dente. Ma se persistete nel voler ignorare questi affronti, allora io vi chiedo: la vostra casa è stata data alle fiamme? La vostra proprietà è stata distrutta sotto i vostri occhi? Vostra moglie e i vostri figli sono stati privati di un letto su cui dormire, o del pane con cui nutrirsi? Avete per­ duto un genitore o un figlio per mano degli aggressori, e siete voi stessi nient’altro che sventurati e miseri soprav­ vissuti? Se non lo siete non potete giudicare coloro che lo sono. Ma se lo siete e riuscite ancora a scambiare una stretta di mano con gli assassini, allora non siete degni dell’appellativo di marito, padre, amico o amante; e qua­ lunque sia il posto che occupate o il titolo che detenete, avete il cuore di un codardo e lo spirito di un parassita. Qui non si tratta di infiammare gli animi o di esagerare le cose, ma di valutarle sulla base di quei sentimenti e que­ gli affetti che la natura giustifica e senza i quali non sarem­ mo capaci di assolvere i doveri sociali dell’esistenza, o di assaporarne le gioie. La mia intenzione non è quella di esibire l’orrore allo scopo di incitare alla vendetta, ma quella di risvegliare noi tutti da un sonno disonorevole e funesto, in modo da perseguire con determinazione un obiettivo ben definito. N on è tra i poteri della Gran Bre­ tagna e dell’Europa quello di conquistare l’America, se quest’ultima non collabora alla propria disfatta con Vinde­ cisione e il timore. Questo inverno varrà un intero secolo se sarà impiegato in modo corretto; ma se lo perdiamo o 38

lo sprechiamo, l’intero continente subirà le conseguenze di tale sciagura; e se un uomo, chiunque egli sia o dovun­ que si trovi, permette che per causa sua venga sacrificata una stagione tanto utile e preziosa, merita ogni punizione immaginabile. Ripugna alla ragione, all’ordine universale delle cose, e a tutti gli esempi tratti dai secoli scorsi supporre che que­ sto continente possa rimanere ancora a lungo soggetto a una potenza esterna. Neppure il più ottimista tra gli ingle­ si lo penserebbe. N on esiste saggezza umana, per quanto grande sia, che possa oggi elaborare un progetto diverso dalla separazione, che possa promettere al continente an­ che un solo anno di sicurezza. La riconciliazione è oggi un sogno ingannevole. La natura ha rinnegato questo le­ game, e nessun artificio può prenderne il posto. Perché, come dice saggiamente Milton, «non può esistere vera riconciliazione laddove le ferite di un odio mortale sono tanto profonde». Tutti i metodi non violenti impiegati per ottenere la pace si sono rivelati inefficaci. Le nostre suppliche sono state respinte sdegnosamente, e sono servite soltanto a convincerci che nulla lusinga la vanità o rafforza l’ostina­ zione dei re più delle ripetute petizioni; e nulla ha contri­ buito più di questa pratica a trasformare i monarchi eu­ ropei in sovrani assoluti: lo testimoniano la Danimarca e la Svezia. Quindi, visto che dobbiamo ricorrere alla vio­ lenza, decidiamoci, per amor di Dio, a una separazione definitiva, e non lasciamo alla prossima generazione il compito di tagliare delle gole, nascondendoci dietro pa­ role abusate e prive di senso come madre e figlia. Sostenere che non ci proveranno di nuovo è assurdo e utopistico; lo pensammo quando venne abrogato lo Stamp Act, ma un anno o due sono bastati ad aprirci gli occhi;7 39

potremmo altrettanto correttamente supporre che le na­ zioni che sono state sconfitte una volta rinunceranno per sempre a riaprire le ostilità. Per quanto si riferisce al governo, la Gran Bretagna non ha il potere di amministrare la giustizia in America: la co­ sa diventerebbe ben presto troppo gravosa e complicata per essere gestita con un accettabile grado di convenienza da una potenza tanto lontana da noi e che tanto poco sa di noi; perché quelli che non ci possono conquistare non possono neppure governarci. Dover continuamente per­ correre tre o quattromila miglia per consegnare un espo­ sto o una petizione, aspettare quattro o cinque mesi per ottenere una risposta che, una volta ottenuta, richiede al­ tri cinque o sei mesi per diventare operativa, nel giro di pochi anni verrà considerato assurdo e puerile. Vi è stato un tempo in cui ciò era opportuno, ma ora è venuto il momento di farla finita. È appropriato per una monarchia prendersi cura delle piccole isole che non sono in grado di difendersi da sole; ma vi è qualcosa di veramente assurdo nell’idea che un continente venga eternamente governato da un’isola. Non esiste un solo caso in cui la natura abbia fatto il satellite più grande del suo pianeta; e poiché l’Inghilterra e l’Ame­ rica contravvengono, l’una rispetto all’altra, all’ordine generale che vige in natura, è evidente che appartengono a sistemi diversi: l’Inghilterra all’Europa, e l’America a se stessa. N on sono motivi di orgoglio, di schieramento politico o di risentimento quelli che mi spingono ad abbracciare la tesi della separazione e dell’indipendenza. Sono chiara­ mente, fermamente e consapevolmente convinto che essa costituisca il vero interesse del nostro continente; che qualunque altra soluzione tranne quella sia soltanto un rat­ 40

toppo che non può recare una duratura felicità, ed equi­ valga ad armare il braccio dei nostri figli e a ritirarci pro­ prio nel momento in cui, con un piccolo sforzo in più, con un piccolo passo avanti, avremmo fatto di questo con­ tinente l’orgoglio del mondo. Dal momento che la Gran Bretagna non ha manifesta­ to la benché minima inclinazione ad accettare un com­ promesso, possiamo essere sicuri che il continente non otterrà condizioni accettabili, né comunque tali da com­ pensare il tributo di sangue e di ricchezze che abbiamo già versato. L’oggetto del contendere dovrebbe essere sempre giu­ stamente proporzionato al prezzo pagato. La destituzione di North,8 o di tutta la sua cricca detestabile, non vale i milioni che abbiamo speso. U n’interruzione temporanea degli scambi commerciali ha comportato inconvenienti tali da compensare in maniera adeguata l’abrogazione di tutte le leggi da noi contestate, se l’avessimo ottenuta. Ma se l’intero continente deve prendere le armi, se ogni uomo deve diventare un soldato, non vale realmente la pena di batterci, se è soltanto contro un ministro sprege­ vole. Caro, carissimo è il prezzo che paghiamo per l’abro­ gazione di queste leggi, se è solo per questo che combat­ tiamo; perché, a ben valutare, è pura follia pagare per una legge lo stesso prezzo pagato a Bunker H ill1’ per la terra. Ho sempre sostenuto che l’indipendenza di questo conti­ nente fosse un avvenimento ineluttabile, e in effetti, con­ siderati i rapidi progressi compiuti dal continente verso la maturità, questo evento non dovrebbe essere lontano. Quindi, allo scoppio delle ostilità, non valeva la pena met­ tersi a discutere su una questione che il tempo avrebbe risolto a nostro favore, a meno che non intendessimo an­ dare sino in fondo; altrimenti sarebbe come sperperare 41

una proprietà per pagare le spese di un processo vólto a sanare gli sconfinamenti di un fittavolo il cui contratto sta per scadere. Nessuno desiderava la riconciliazione pili ardentemente di me, prima del fatidico diciannove aprile 1775,10ma nel momento in cui vennero resi noti gli avve­ nimenti di quel giorno, ho rinnegato per sempre l’infles­ sibile e astioso faraone d’Inghilterra; e disprezzo l’indivi­ duo spregevole che attribuendosi il falso titolo di “padre del popolo” accoglie imperturbabile la notizia del massa­ cro e dorme tranquillo col peso di quel sangue sulla pro­ pria coscienza. Ma ammettendo che oggi le cose si fossero risolte, qua­ le ne sarebbe la conseguenza? La mia risposta è: la rovina del continente. E questo per diverse ragioni. Primo. Se i poteri del governo rimarranno nelle mani del re, egli avrà diritto di veto sull’intera legislazione di questo continente. E dal momento che si è dimostrato un nemico tanto implacabile della libertà, e ha manifestato una tale bramosia di potere arbitrario, ci si può chiedere se sia ben qualificato per dire a queste colonie: «N on avrete altre leggi se non quelle che piacciono a me.» Ma esiste in America un solo individuo tanto ignorante da non sapere che, stando alla cosiddetta “attuale costituzione”, questo continente non può emanare nessuna legge che non abbia ricevuto l’assenso del sovrano? Ed esiste un uomo tanto sciocco da non vedere che (considerando quanto è avve­ nuto) il re non autorizzerà qui altre leggi che non siano quelle che servono al suo proposito? La mancanza di leg­ gi in America può renderci schiavi con la stessa efficacia di una nostra sottomissione alle leggi confezionate su misura per noi in Inghilterra. Una volta sistemate le cose (è così che dicono), come può esservi qualche dubbio che tutto il potere della Corona non verrà esercitato per man­

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tenere questo continente nello stato di maggiore degrada­ zione e umiliazione possibile? Invece di progredire arre­ treremo, oppure non faremo che litigare continuamente, o presentare ridicole petizioni. D ato che siamo già più forti di quanto il re vorrebbe che fossimo, non cercherà d’ora in avanti di ridimensionarci? Consideriamo un punto soltanto: un potere che è geloso della nostra prosperità è un potere adatto a governarci? Chiunque risponda No a questa domanda è a favore dell’indipendenza, perché in­ dipendenza significa soltanto che o saremo noi a emanare le nostre leggi, o sarà il re, il peggior nemico che questo continente abbia o possa mai avere, a dirci: «N on vi sa­ ranno altre leggi se non quelle che piacciono a me.» Eppure, direte voi, il re ha diritto di veto in Inghil­ terra, e quel popolo non può legiferare senza il suo con­ senso. Se parliamo di diritto e di buon ordinamento, è assolutamente ridicolo che un giovane di ventun anni possa dire (come è spesso avvenuto) a diversi milioni di persone, più vecchie e più sagge di lui: «Proibisco che questo o quel decreto diventi legge.» Ma qui in questo contesto rinuncio a commenti del genere, anche se non smetterò mai di sottolinearne l’assurdità; e mi limito a rispondere che, visto che l’Inghilterra è la residenza del re e l’America no, la questione è molto diversa. Il veto reale nel nostro paese è dieci volte più pericoloso e funesto che non in Inghilterra, perché lì il re difficilmente si oppor­ rebbe a un disegno di legge che prevedesse di rendere quel paese quanto più inespugnabile possibile, mentre non permetterebbe mai che un provvedimento analogo venisse approvato in America. L’America è soltanto un elemento secondario nel siste­ ma politico inglese. L’Inghilterra tiene da conto il bene di questo paese solo nella misura in cui conviene ai suoi scopi.

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Quindi i suoi interessi la spingono a ostacolare la crescita dei nostri in tutti i casi in cui non li favoriscono o interfe­ riscono in qualche modo con essi. Ci ritroveremmo pro­ prio in una bella situazione, domani, sotto un governo di seconda mano come questo, considerando quanto è già successo! Gli uomini non si trasformano da nemici in amici semplicemente cambiando nome. E per dimostrare che allo stato attuale delle cose la riconciliazione è una tesi pericolosa, dichiaro che in questo momento sarebbe molto accorto da parte del re abrogare le leggi in questione allo scopo di riprendere in mano il governo delle province; e ciò al fine di ottenere con l’astuzia e l’inganno, nei tem­ pi lunghi, quello che non può ottenere con la forza e la violenza nel breve termine. La riconciliazione e la rovina sono strettamente imparentate. Secondo. Anche nel migliore dei casi, quel che possiamo sperare di ottenere non sarà niente di più di un espediente provvisorio o di una sòrta di governo che funga da tutore, che durerebbe soltanto sino al giorno in cui le colonie non raggiungessero la maggiore età; ma nel frattempo lo stato generale delle cose assumerebbe un aspetto incerto e poco promettente. Gli emigranti facoltosi si rifiutereb­ bero di venire in un paese il cui governo è appeso a un filo, e che oscilla ogni giorno sull’orlo della sommossa e del disordine; e molti degli abitanti attuali approfittereb­ bero di questo lasso di tempo per liquidare i loro beni e lasciare il continente. Ma l’argomento più convincente di tutti è che nulla, se non l’indipendenza, ossia un regime politico prettamente continentale, può mantenere la pace nel nostro continente e può preservarlo intatto dalle guerre civili. Temo gli ef­ fetti di una riconciliazione con la Gran Bretagna in questo momento, perché è più che probabile che scatenerebbe 44

una rivolta senza che si possa prevedere dove, le cui con­ seguenze sarebbero forse ben più funeste di tutte le mal­ vagità della Gran Bretagna. La barbarie britannica ha già rovinato migliaia di per­ sone (e altre migliaia seguiranno probabilmente la stessa sòrte). I sentimenti che queste persone provano sono di­ versi da quelli che proviamo noi, che non abbiamo patito nessuna sofferenza. Tutto quello che ora ad esse rimane è la libertà; tutto quello di cui godevano prima è stato sacri­ ficato alla sua causa, e non avendo più niente da perdere, disprezzano la sottomissione. Inoltre, l’atteggiamento del­ le colonie in generale nei confronti di un governo inglese sarebbe simile a quello di un giovane prossimo ormai al­ l’età adulta, ossia esse se ne curerebbero molto poco. Un governo che non sa mantenere la pace non è un governo, e in questo caso gli versiamo il nostro denaro per niente. Allora vi chiedo: che cosa potrebbe fare la Gran Bretagna, il cui potere esisterebbe soltanto sulla carta, se dovesse scoppiare una guerra civile il giorno successivo a quello della riconciliazione? Ho sentito dire da alcune persone, molte delle quali secondo me parlano senza riflettere, che temevano l’indipendenza per paura che provocasse una guerra civile. Accade spesso che le prime cose che ci ven­ gono in mente non siano quelle giuste, e questo è uno di quei casi: vi è dieci volte più da temere da un legame rab­ berciato che non dall’indipendenza. Faccio mia la condi­ zione di chi soffre e affermo a gran voce che se fossi stato scacciato dalla mia casa, se la mia proprietà fosse stata distrutta e le mie finanze rovinate, come uomo consape­ vole delle offese subite non potrei mai apprezzare la tesi della riconciliazione, o considerarmi ad essa vincolato. Le colonie hanno manifestato nei confronti del governo continentale una disposizione per l’ordine e l’obbedienza 45

tale da rassicurare e soddisfare, su questo punto, qualun­ que persona ragionevole. Nessuno può giustificare i pro­ pri timori se non con motivazioni francamente ridicole e infantili, come ad esempio sostenendo che una colonia cercherà di affermare la propria superiorità su di un’altra. Dove non esistono distinzioni non vi può essere supe­ riorità; l’uguaglianza perfetta non lascia adito alla tenta­ zione. Le repubbliche europee sono tutte (e potremmo anche aggiungere sempre) in pace. L’Olanda e la Svizzera non combattono guerre, né sul loro territorio né all’estero. I regimi monarchici, invece, non conoscono lunghi pe­ riodi di tranquillità; in patria, la Corona costituisce di per se stessa una tentazione per i delinquenti ardimentosi; e quelle componenti d’orgoglio e d’insolenza che si accom­ pagnano sempre all’autorità regale lievitano sino a pro­ vocare fratture con le potenze straniere, laddove un go­ verno repubblicano, basato su principi più naturali, in casi analoghi negozierebbe la riparazione del torto. L’unico vero motivo di preoccupazione, a proposito dell’indipendenza, è che non esiste ancora nessun pro­ getto al riguardo. Gli uomini non sanno come muoversi. È per questo motivo che avanzo i seguenti suggerimenti, pur dichiarando con modestia che ritengo essi possano rappresentare un eventuale mezzo per dar luogo a qual­ cosa di meglio. Se si potessero riunire insieme gli sparsi pensieri degli esseri umani, essi fornirebbero spesso una materia prima che uomini saggi e competenti potrebbero migliorare trasformandola in qualcosa di utile. Che le assemblee abbiano mandato di un anno, con a capo soltanto un presidente. Che la rappresentanza sia più equa e tratti esclusivamente affari interni sotto l’autorità di un Congresso continentale. Che ogni colonia venga suddivisa, a seconda della co­ 46

modità, in sei, otto, dieci distretti, e che ogni distretto in­ vii un numero appropriato di delegati al Congresso, in modo che ogni colonia vi disponga di almeno trenta rap­ presentanti. Il numero complessivo sarà di almeno trecentonovanta delegati. Ogni Congresso si riunirà e sceglierà un presidente secondo la seguente procedura: quando i delegati sono riuniti, verrà scelta a sòrte una colonia tra le tredici presenti, dopo di che l’insieme del Congresso sceglierà (a scrutinio segreto) un presidente tra i delegati della provincia in questione. N el Congresso successivo verrà sorteggiata un colonia tra le dodici rimaste, esclu­ dendo quella da cui è stato scelto il presidente nel Con­ gresso precedente; e così via, sino a quando tutte e tredici le colonie non avranno rispettato il loro turno. E per fare in modo che nessuna proposta possa diventare legge se non è abbastanza giusta, la maggioranza al Congresso non dovrà essere inferiore a tre quinti. Chi fosse capace di fo­ mentare la discordia in un governo formato così equamen­ te, sarebbe degno di unirsi a Lucifero nella sua rivolta. Ma poiché è questione delicata stabilire chi debba porre in atto per la prima volta tale disegno, e secondo quali mo­ dalità, e poiché sembra logico e coerente che esso debba emanare da un organismo situato a metà strada tra i gover­ nanti e i governati, ossia tra il Congresso e il popolo, sug­ gerisco che si tenga una conferenza continentale secon­ do la procedura e gli intenti di séguito specificati. Venga eletto un comitato composto da ventisei mem­ bri del Congresso, ossia due per ogni colonia più due membri per ciascuna assemblea locale o convenzione pro­ vinciale, e cinque rappresentanti del popolo in generale, che verranno scelti nella capitale di ciascuna provincia a nome e per conto dell’intera provincia da tutti gli elet­ tori abilitati che riterranno opportuno convenire a quello 47

scopo da ogni parte della provincia stessa. Oppure, se lo si riterrà più conveniente, i suddetti rappresentanti po­ tranno essere scelti in due o tre delle sue aree più popo­ lose. In questa conferenza, costituita secondo la suddetta modalità, confluiranno i due grandi principi della cosa pubblica, cioè la conoscenza e il potere. I membri del Con­ gresso, delle assemblee o delle convenzioni, diventati esperti delle questioni di interesse nazionale, saranno con­ siglieri competenti e utili, e l’insieme, che ha ricevuto il potere dal popolo, avrà un’autorità veramente legittima. Una volta riunitisi i membri della conferenza, il loro compito consisterà nello stilare una carta continentale, o Carta delle colonie unite (corrispondente alla cosiddetta Magna Charta dell’Inghilterra), che stabilirà il numero e la modalità di designazione dei membri del Congresso e dell’Assemblea, la data delle sessioni e le linee di demar­ cazione dei loro compiti e delle loro competenze (sempre rammentando che la nostra forza è a livello continentale e non provinciale). La Carta assicurerà la libertà e il diritto alla proprietà a tutti gli individui, e soprattutto la facoltà di praticare liberamente la religione secondo i dettami della propria coscienza; conterrà inoltre tutte le altre disposi­ zioni che una Carta deve necessariamente contemplare. Sùbito dopo, la suddetta conferenza si scioglierà, e gli organismi che verranno scelti in conformità alla suddetta Carta saranno i legislatori e i governanti di questo paese per il presente; e che Dio conservi la loro pace e la loro felicità. Amen. A quel gruppo di uomini che dovesse essere scelto a questo scopo o per uno scopo analogo, propongo la se­ guente citazione tratta da quel sagace osservatore dei go­ verni che è Dragonetti: «L’abilità di un politico consiste nello stabilire qual è la caratteristica più saliente, la vera 48

essenza della felicità e della libertà. Meriterebbero eterna gratitudine gli uomini che scoprissero una forma di gover­ no che permettesse, al minor costo per la nazione, la più grande quantità possibile di felicità individuale.»" Ma, chiedono alcuni, dov’è il re d’America? Ve lo dico sùbito, amici, regna nell’alto dei cieli e non infierisce con­ tro l’umanità come il bestiale sovrano della Gran Bretagna. Tuttavia, per non essere giudicati manchevoli, fosse pure soltanto a livello degli onori terreni, che venga stabilito solennemente un giorno per la proclamazione della Carta; che essa venga presentata come fondata sulla legge divina, sulla parola di Dio; e che su di essa venga apposta una co­ rona per far sapere al mondo che noi approviamo a tal punto la monarchia che in America la legge è il re. Come nei governi assoluti il re incarna la legge, così nei paesi liberi la legge deve essere la sovrana, escludendo ogni altro monarca. Ma per evitare che in séguito se ne possa fare un uso scorretto, suggerisco che la corona venga distrut­ ta al termine della cerimonia e i suoi frammenti dispersi tra la popolazione, alla quale appartiene di diritto. Avere un governo nostro è per noi un diritto naturale. Basta riflettere seriamente sulla precarietà delle vicende umane, per convincersi che è infinitamente più saggio e più sicuro elaborare la nostra costituzione in maniera se­ rena e ponderata, sinché è in nostro potere farlo, invece di affidare un’impresa tanto importante al tempo e al caso. Se tralasciamo di agire adesso, rischiamo che si affacci sulla scena un Masaniello12 che, approfittando dello scon­ tento popolare, potrebbe radunare sotto di sé i disperati e gli insoddisfatti i quali, assumendo gli attributi del potere, sarebbero capaci di spazzare via le libertà del con­ tinente come un diluvio. Se il governo dell’America do­ vesse tornare nelle mani della Gran Bretagna, l’incerta 49

situazione che ne deriverebbe costituirebbe una tenta­ zione tale da spingere un avventuriero pronto a tutto a ri­ schiare la sòrte. In questo caso, di quale aiuto sarebbe la Gran Bretagna? Prima ancora che le giungesse notizia dell’accaduto, lo sciagurato evento potrebbe essersi già concluso, e noi potremmo già soffrire, come un tempo gli sventurati Britanni, sotto l’oppressione del conquistatore. Voi che vi opponete all’indipendenza immediata, voi non sapete quel che fate: lasciando vacante il seggio del go­ verno, aprite la porta a una tirannide senza fine. Esistono migliaia, decine di migliaia di uomini che riterrebbero motivo di gloria scacciare dal continente quel potere bar­ baro e diabolico che ha istigato gli indiani e i negri a di­ struggerci - crudeltà doppiamente colpevole, perché ha sottoposto noi alla brutalità e ha tradito costoro. Parlare di amicizia con individui di cui la ragione ci impedisce di fidarci e che il nostro cuore sanguinante per mille ferite ci ordina di detestare è sciocco e insensato. Ogni giorno che passa consuma sempre più i pochi resti di consanguineità che ci legavano a loro; e può esservi ragione di sperare che con lo scomparire di questi legami l’affetto tra noi si rafforzi, o che ci intenderemo meglio quando i motivi di conflitto saranno dieci volte più nu­ merosi e più gravi di quanto non siano mai stati? Voi che ci parlate di armonia e di riconciliazione, potete restituirci il tempo che è trascorso? Potete restituire alla prostituzione l’innocenza perduta? E allora non potete neppure riconciliare la Gran Bretagna e l’America. L’ulti­ mo filo si è spezzato, il popolo inglese presenta dei mani­ festi contro di noi. Esistono offese che la natura non può perdonare, non sarebbe più lei se lo facesse. Come un innamorato non può perdonare lo stupratore della sua amata, così il continente non può perdonare i misfatti della

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Gran Bretagna. L’Onnipotente ha inculcato in noi questi sentimenti inestinguibili per fini buoni e saggi. Sono loro a custodire la sua immagine nei nostri cuori. E ci distin­ guono dal branco dei comuni animali. Il contratto sociale si dissolverebbe e la giustizia verrebbe estirpata dalla fac­ cia della terra, ovvero esisterebbe solo occasionalmente, se noi fossimo insensibili all’appello dell’affetto. Il ladro e l’assassino spesso sfuggirebbero al castigo, se le offese che ci vengono recate non ci spingessero a fare giustizia. O voi che amate il genere umano! Voi che osate oppor­ vi non soltanto alla tirannide, ma al tiranno, fatevi avanti! Ogni angolo del vecchio mondo è infestato dall’oppres­ sione. Su tutta la superficie del pianeta si dà la caccia alla libertà. L’Asia e l’Africa l’hanno bandita da lungo tempo, l’Europa la considera una straniera, e l’Inghilterra le ha intimato la disdetta. Accogliete dunque la fuggitiva, e pre­ parate in tempo un rifugio per il genere umano.

D elle attuali possibilità dell’A m erica, con alcune riflessioni m iscellanee

N on ho mai incontrato nessuno, né in Inghilterra né in America, che non si dicesse convinto che la separazione tra questi due paesi era soltanto questione di tempo. Ma non abbiamo mai dato prova di minor giudizio di quan­ do abbiamo cercato di descrivere quella che definiamo la maturità o l’adeguatezza del continente all’indipendenza. Dal momento che tutti concordano su tale prospettiva, e le opinioni divergono soltanto riguardo al momento del suo verificarsi, per eliminare ogni errore prendiamo in esame tutti gli aspetti della questione e cerchiamo, se possibile, di individuare quale sarebbe il momento giusto. Ma non dobbiamo cercare lontano, la nostra indagine termina sùbito, perché il momento giusto è arrivato. Tutto concorre, tutto coincide felicemente per dimostrare che è così. Il nostro grande potere non risiede nel numero, ma nell’unità; tuttavia oggi siamo già abbastanza numerosi da respingere tutte le forze del mondo. Al momento il continente dispone di un contingente di uomini armati e disciplinati più vasto di quello di qualsiasi altra potenza sotto il cielo; e ha di recente conseguito un livello di forza

tale che, quantunque nessuna colonia sia in grado di difen­ dersi da sola, se unite, possono raggiungere l’obiettivo; qualcosa di più o qualcosa di meno dell’unione potrebbe avere conseguenze disastrose. I nostri effettivi terrestri sono già sufficienti, ma nel settore navale non possiamo ignorare il fatto che la Gran Bretagna non permetterà mai la costruzione di una nave da guerra americana finché il continente rimarrà nelle sue mani. Quindi tra cent’anni non ci ritroveremmo più avanti in questo settore di quan­ to siamo oggi; anzi, a dire il vero, lo saremmo di meno, perché nel nostro paese il legname da costruzione sta di­ minuendo ogni giorno che passa, e quello che rimarrà sarà troppo lontano e di difficile reperimento. Se il continente fosse densamente abitato, le sofferenze che patisce nelle attuali circostanze sarebbero intollera­ bili. Se avessimo più città portuali, ne avremmo di più da difendere e da perdere. L’attuale numero di abitanti è così felicemente proporzionato ai nostri bisogni che nessuno può restare inattivo. La riduzione dei commerci va a in­ grossare i ranghi dell’esercito, e le necessità di un esercito danno vita a nuovi commerci. N on abbiamo debiti; e quelli che dovessimo eventual­ mente contrarre servirebbero come glorioso memento del­ la nostra virtù. Se solo riuscissimo a consegnare ai posteri una forma di governo stabile e una costituzione indipen­ dente, qualsiasi prezzo avremo pagato sarà stato modesto. Ma spendere dei milioni all’unico scopo di far abrogare pochi decreti ignobili o per scacciare l’attuale ministero è un prezzo troppo alto, e significa comportarsi verso i nostri discendenti con indicibile crudeltà: lasceremmo loro l’onere di fare il grosso del lavoro e li graveremmo di un debito dal quale non trarrebbero nessun vantaggio. Un simile pensiero non è degno di un uomo d’onore, e 54

contraddistingue alla perfezione un cuore meschino e un politicante di bassa lega. Il debito che potremmo contrarre non deve spaventarci, se soltanto il compito venisse assolto. Nessuna nazione dovrebbe essere priva di debiti. Un debito nazionale equi­ vale a un’obbligazione nazionale, e se non comporta in­ teressi non deve essere motivo di preoccupazione. La Gran Bretagna è gravata da un debito superiore a centoquaranta milioni di sterline, per il quale paga oltre quat­ tro milioni di sterline di interessi. A compensazione di tale debito possiede un’ottima flotta. L’America non ha debiti e non ha flotta, eppure la ventesima parte del de­ bito nazionale inglese basterebbe a dotarla di una forza navale altrettanto numerosa. Attualmente la flotta inglese non vale piti di tre milioni e mezzo di sterline. Le prime due edizioni di questo pamphlet sono state pubblicate senza i seguenti calcoli. Vengono riportati ades­ so a riprova della fondatezza della suddetta valutazione. Si veda N aval History di Entick, «Introduzione», p. 56. A seconda del tipo di nave, il costo necessario per la sua costruzione, per l’equipaggiamento di alberi, pennoni, vele e sartiame, compresi i viveri per nostromo e carpen­ tieri sufficienti per otto mesi, secondo i calcoli di Burchett, ministro della Marina, ammonta a: 100 cannoni 90 80 70 60 50 40 30 20

35.553 sterline 29.886 23.638 17.785 14.197 10.606 7.558 5.846 3.710

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Da queste cifre è facile calcolare il valore, o più esatta­ mente il costo dell’intera flotta britannica che, nel 1757, al momento della sua massima gloria, consisteva delle se­ guenti navi e cannoni. Navi 6 12 12 43 35 40 45 58 85

Cannoni C osto unitario 35.553 sterline 100 29.886 90 23.638 80 17.785 70 14.197 60 50 10.606 7.558 40 20 3.710 scialuppe, galeotte, bombardiere e brulotti, 2.000 ciascuno a

C osto complessivo 213.318 sterline 358.632 283.656 764.755 496.895 425.240 340.110 215.180

Costo Resto per acquisto cannoni

3.266.786 233.214

Totale

3.500.000

170.000

Nessun paese al mondo gode di una posizione miglio­ re deH’America, né ha altrettanta capacità di armare una flotta sul proprio territorio. Da noi il catrame, il legname da costruzione, il ferro e il cordame sono prodotti natu­ rali. N on dobbiamo procurarci niente all’estero. Gli olan­ desi invece, che traggono larghi profitti noleggiando le loro navi da guerra agli spagnoli e ai portoghesi, sono co­ stretti a importare la maggior parte del materiale di cui hanno bisogno. Dovremmo considerare la costruzione di una flotta come una voce del commercio, dal momento



che è una produzione tipica di questo paese. È il modo migliore di investire denaro. U na volta ultimata, una flotta da guerra vale più di quanto è costata. E nella po­ litica nazionale rappresenta un felice punto d’incontro tra commercio e difesa. Cominciamo a costruire; se non avremo bisogno di quelle navi potremo sempre venderle, sostituendo così la nostra carta moneta con oro e argento sonanti. Quanto agli uomini per equipaggiare la flotta, di solito si incorre in valutazioni sbagliate; non è necessario che un quarto di essi siano marinai. Il terribile corsaro Captain Death, che ha avuto la meglio nei più duri scontri che qualsiasi nave abbia subito nell’ultima guerra, aveva a bordo meno di vénti marinai, benché gli uomini dell’equi­ paggio fossero più di duecento. Pochi marinai competen­ ti e attivi saranno in grado di istruire in breve tempo un numero sufficiente di civili in gamba perché eseguano i normali compiti a bordo di una nave. Quindi non p o ­ tremo mai essere più pronti per dare inizio alla nostra at­ tività marittima di quanto lo siamo in questo momento, quando il nostro legname è ancora disponibile, le zone di pesca bloccate, e i nostri marinai e carpentieri navali si ri­ trovano senza lavoro. Quarant’anni fa sono state costruite nel New England delle navi da guerra da settanta, ottanta cannoni; perché non fare la stessa cosa adesso? La costru­ zione di navi è il grande vanto dell’America, che in que­ sto settore sarà col tempo all’avanguardia sul resto del mondo. I grandi imperi dell’Est sono soprattutto conti­ nentali, e quindi esclusi dalla possibilità di rivaleggiare con lei. In Africa regna ancora la barbarie; e nessuna po­ tenza europea dispone di pari estensione costiera, o di al­ trettanta abbondanza di materie prime sul proprio territo­ rio. Dove la natura ha concesso la prima, non ha concesso

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la seconda; solo in America ha liberalmente elargito en­ trambe. Il vasto impero russo è quasi privo di sbocchi sul mare; quindi le sue sconfinate foreste, il catrame, il ferro, il cordame, per quel paese sono soltanto articoli di scambio. Parlando di sicurezza, possiamo permetterci di restare privi di una flotta? N on siamo più il piccolo popolo che eravamo sessanta anni fa; a quel tempo avremmo potuto affidare i nostri beni alle strade, o meglio ai campi, e dor­ mire tranquilli senza serrature o catenacci a porte e finestre. Oggi le cose sono cambiate, e i nostri sistemi di difesa deb­ bono migliorare con l’aumentare delle nostre proprietà. Dodici mesi fa, un qualsiasi pirata avrebbe potuto risalire il Delaware e imporre tributi alla città di Filadelfia per qualunque somma avesse voluto, e la stessa cosa sarebbe potuta accadere ovunque. Anzi, un qualsiasi tizio audace a bordo di un brigantino armato con quattordici, sedici cannoni, avrebbe potuto depredare il continente intero, portandosi via mezzo milione dei nostri soldi. Queste cir­ costanze meritano la nostra attenzione, e ribadiscono la necessità di una difesa navale. Alcuni forse sosterranno che, una volta riappacificati con la Gran Bretagna, ci penserà lei a proteggerci. Come possono essere tanto sciocchi da pensare che essa man­ terrà a quello scopo una flotta intera nei nostri porti? Il senso comune ci insegna che la potenza che ha cercato di assoggettarci è fra tutte la meno qualificata a difenderci. Si può effettuare una conquista indossando la maschera dell’amicizia; e dopo una lunga e coraggiosa resistenza, noi potremmo finire vittime di un inganno e ritrovarci schiavi. E se le sue navi non fossero ormeggiate nei nostri porti, vi chiedo, come farebbe l’Inghilterra a proteggerci? Una flotta che stazionasse a tre o quattromila miglia di distanza può servire a poco, e nel caso di un’emergenza

improvvisa non serve affatto. Di conseguenza, se in futuro dobbiamo difenderci, perché non farlo da soli? Perché ricorrere a qualcun altro? L’elenco delle navi da guerra inglesi è lungo e impres­ sionante, ma meno di un decimo di esse è pronto ad en­ trare in servizio; molte non esistono neppure più, anche se i nomi continuano pomposamente a fare parte dell’elen­ co sino a quando della nave non rimanga sia pure una sola tavola del fasciame; e tra quelle che sono in grado di pren­ dere servizio, meno di una quinta parte può essere desti­ nata nello stesso momento a una sola missione. Le Indie orientali e occidentali, il Mediterraneo, l’Africa e le altre parti del mondo sulle quali la Gran Bretagna avanza le sue pretese richiedono un grosso impegno da parte della sua marina. Un miscuglio di pregiudizi e di disattenzione ha fatto nascere in noi un falso convincimento a proposi­ to della marina inglese, e ne abbiamo parlato come se dovessimo affrontarla nella sua totalità in una volta sola. Per questo motivo abbiamo supposto di doverne avere anche noi una di pari dimensioni, e visto che la cosa non era immediatamente praticabile, ci siamo lasciati convin­ cere da un gruppo di Tories travestiti a non cominciare neppure. Niente può essere più lontano dalla verità; in­ fatti, se l’America possedesse anche soltanto una vente­ sima parte della forza navale inglese, la surclasserebbe e non di poco. Dal momento che non disponiamo di, né avanziamo pretese su, possedim enti stranieri, tutta la nostra flotta al completo verrebbe impiegata sulle nostre coste dove, nel lungo termine, avremmo un vantaggio doppio nei confronti di coloro che prima di poterci at­ taccare dovrebbero percorrere tre o quattromila miglia per arrivare fin qui, e sarebbero costretti a percorrere la stessa distanza per ogni raddobbo o per reclutare rinforzi. 59

E anche se la Gran Bretagna, grazie alla sua flotta, esercita un controllo sul nostro commercio con l’Europa, noi ne esercitiamo uno altrettanto pressante sul suo commercio con le Indie occidentali che, trovandosi nei pressi del con­ tinente, sono interamente alla mercé di quest’ultimo. Se non ritenessimo necessario mantenere una flotta permanente, potremmo escogitare qualche sistema per provvedere a una potenza navale anche in tempo di pace. Se si dessero dei contributi ai mercanti per costruire e im­ piegare al loro servizio navi equipaggiate con vénti, trenta, quaranta, cinquanta cannoni (il contributo sarebbe pro­ porzionato alla perdita di spazio utile per lo stivaggio), cinquanta o sessanta di tali navi, più alcune navi vedetta in servizio permanente, costituirebbero una flotta suffi­ ciente. In questo modo non dovremmo accollarci il far­ dello di cui si lamentano a gran voce in Inghilterra, ossia quello di dover lasciare la flotta a marcire alla fonda in tempo di pace. Unire le forze del commercio e della dife­ sa è una buona politica, perché quando la nostra potenza e le nostre ricchezze fanno l’una il gioco dell’altra, non dobbiamo temere nessun nemico esterno. Disponiamo in abbondanza di quasi tutti i materiali ne­ cessari alla difesa. La canapa cresce fin troppo rigogliosa, quindi non rischiamo di restare a corto di sartiame. Il no­ stro ferro è di qualità superiore a quella degli altri paesi. Le nostre armi leggere valgono quanto quelle del resto del mondo. Possiamo fondere cannoni a piacimento. Produ­ ciamo ogni giorno salnitro e polvere da sparo. Le nostre conoscenze aumentano di ora in ora. La determinazione fa parte del nostro carattere, e il coraggio non ci è mai ve­ nuto meno. Allora, che cosa ci manca? Perché esitiamo? Dalla Gran Bretagna non possiamo aspettarci altro che ro­ vina. Se le consentissimo di governare ancora l’America,

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non varrebbe più la pena di vivere su questo continente. Sorgerebbero continue gelosie, scoppierebbero continue insurrezioni; e chi si farebbe avanti per reprimerle? Chi accetterebbe di rischiare la propria vita per costringere i propri compatrioti a obbedire a una potenza straniera? La contesa tra la Pennsylvania e il Connecticut in merito ad alcuni territori che non sono stati ancora assegnati pro­ va quanta poca utilità abbia il governo inglese, e dimostra appieno che soltanto un’autorità continentale può diri­ mere le questioni che riguardano il continente. Un altro dei motivi per cui il momento attuale è da pre­ ferirsi a tutti gli altri è che quanto meno numerosi siamo, tanto maggiore è l’estensione dei territori disabitati; que­ sti, invece di essere elargiti prodigalmente dal re ai suoi immeritevoli dignitari, possono venir adoperati in futuro non soltanto per estinguere l’attuale debito, ma anche per garantire un continuo apporto di fondi al governo. Nessuna nazione sotto il cielo usufruisce di un vantaggio come questo. Il periodo dell’infanzia delle colonie, come viene chia­ mato, è un argomento che, lungi dall’essere sfavorevole, va invece a favore dell’indipendenza. Siamo abbastanza nu­ merosi, e se lo fossimo di più potremmo non essere altret­ tanto uniti. Vale la pena osservare che quanto più una nazione è popolosa, tanto meno ingenti sono le sue forze armate. Se parliamo di numeri, nell’antichità i militari erano molto più numerosi di quanto non siano nei tempi moderni, e il motivo è evidente: dato che il commercio è in funzione del numero degli abitanti, gli uomini finisco­ no per farsene assorbire troppo per occuparsi d’altro. Il commercio indebolisce sia lo spirito patriottico che quel­ lo della difesa militare. Come la storia ci dimostra ampia­ mente, le conquiste più audaci sono sempre state ottenute 61

durante la minore età di una nazione. Con l’incremento del commercio, l’Inghilterra ha perso la sua forza d’animo. La città di Londra, malgrado l’elevato numero dei suoi abitanti, sopporta continue offese con la pazienza di un codardo. Più gli uomini hanno da perdere, meno sono disposti a correre rischi. I ricchi di solito sono schiavi della paura, e si sottomettono al potere della corte con l’ipocrisia tremebonda di un cortigiano. Tanto nelle nazioni come negli individui, è durante la giovinezza che si getta il seme delle buone abitudini. Di qui a mezzo secolo potrebbe rivelarsi difficile, se non impossibile, unire il continente sotto uno stesso governo. La grande varietà di interessi, dovuta all’aumento del commercio e della popolazione, creerebbe confusione. Le colonie lotterebbero tra loro; ognuna, credendo di es­ sere autosufficiente, respingerebbe probabilmente l’aiuto delle altre; e mentre gli orgogliosi e gli sciocchi si vante­ rebbero di differenze insignificanti, i saggi rimpiangereb­ bero che l’unione non fosse diventata da tempo una realtà. Quindi, il momento presente è il momento ideale per in­ staurarla. L’intimità che ha origine durante l’infanzia e l’amicizia che nasce nella sventura sono tra tutte le più durature e inalterabili. La nostra attuale unione presenta entrambe queste caratteristiche: siamo giovani, abbiamo conosciuto la sventura; ma la nostra concordia ha saputo resistere alle avversità e ha dato vita a un’era memorabile di cui i posteri potranno andare fieri. Il momento presente è anche quel momento particolare che si verifica una sola volta nella vita di una nazione, vale a dire quello in cui può darsi il proprio governo. Molti po­ poli si sono lasciati sfuggire l’occasione, e sono stati co­ stretti ad accettare le leggi imposte dai loro conquistatori invece di legiferare per proprio conto. Hanno avuto per

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prima cosa un re, e solo successivamente una forma di go­ verno, mentre le norme o la Carta di un qualsiasi gover­ no dovrebbero venire per prime, e gli uomini incaricati di metterle in pratica dovrebbero essere designati succes­ sivamente. Ma impariamo ad essere saggi dagli errori delle altre nazioni, e afferriamo l’opportunità che ci si presenta per fondare il nostro governo iniziando dalla parte giusta! Quando Guglielmo il Conquistatore sottomise l’In­ ghilterra, impose al popolo le leggi a fil di spada. Sino a quando non concorderemo sul fatto che il seggio del go­ verno americano deve essere occupato in modo legittimo e autorevole, corriamo il rischio che se ne impadronisca qualche fortunata canaglia, che potrebbe infliggerci lo stes­ so trattamento; e dove finiranno allora la nostra libertà e le nostre proprietà? Quanto alla religione, ritengo che un governo non deb­ ba sottrarsi al dovere di proteggere tutti coloro che pro­ fessano secondo coscienza, e con ciò penso si esaurisca il suo compito al riguardo. Che gli uomini mettano da parte quella grettezza d’animo, quell’egoismo morale dai quali i meschini di ogni confessione sono tanto restii a separarsi, e saranno immediatamente liberi da ogni timore sull’ar­ gomento. Il sospetto è il compagno delle anime grette, e il veleno di ogni società giusta. Quanto a me, sono in co­ scienza del tutto convinto che è per volere dell’Onni­ potente se tra noi esistono opinioni religiose diverse; ciò allarga il raggio della nostra bontà di cristiani. Se tutti quanti la pensassimo allo stesso modo, le nostre inclina­ zioni religiose non avrebbero occasione di essere messe alla prova. Partendo da questo principio liberale, ritengo che le diverse confessioni che ci distinguono siano para­ gonabili ai figli di una stessa famiglia, i quali differiscono tra loro soltanto per i nomi di battesimo. 63

A pagina 48 ho abbozzato alcune riflessioni in merito all’opportunità di una Carta continentale (non ho la pre­ sunzione di presentare dei programmi, ma soltanto dei suggerimenti), e qui mi prendo la libertà di tornare sul­ l’argomento facendo osservare che una Carta deve essere intesa come un vincolo solenne, sottoscritta dalla nazio­ ne nella sua totalità per far valere i diritti di ognuna delle parti che la compongono, sia che si tratti della religione, della libertà personale o della proprietà. Patti chiari e con­ ti onesti fanno i buoni amici. In una pagina precedente ho ugualmente ricordato la necessità di una rappresentanza vasta ed equa; e non esi­ ste questione politica che meriti maggiore attenzione da parte nostra. Un numero di elettori esiguo è altrettanto pericoloso di un numero ristretto di rappresentanti. Se quest’ultimo non soltanto è limitato, ma è per giunta ripartito in modo disuguale, il pericolo è maggiore. Vi citerò il seguente esempio: quando la petizione degli Associatorsu venne presentata davanti alla House of Assembly della Pennsylvania, erano presenti soltanto ventotto membri. Tutti gli otto rappresentanti della contea di Bucks votarono contro, e se i sette rappresentanti del­ la contea di Chester avessero fatto lo stesso, l’intera pro­ vincia sarebbe stata governata da due contee soltanto - e questo è un pericolo al quale è sempre esposta. Allo stesso modo, anche l’inqualificabile abuso di potere commesso da questa stessa assemblea durante l’ultima sessione, al fine di esercitare un’autorità indebita sui delegati di quel­ la provincia, dovrebbe mettere in guardia l’intera popo­ lazione sul modo di demandare il proprio potere. A uso e consumo dei delegati era stato elaborato un pacchetto di istruzioni che, in quanto a buon senso e opportunità, avrebbe screditato uno scolaretto; dopo essere stato ap64

provato al di fuori del parlamento da una minoranza - una minoranza esigua -, è stato presentato alla Camera ed è stato ratificato a nome dell’intera colonia. Mentre, se l’in­ tera colonia fosse stata a conoscenza della cattiva volontà con cui quell’assemblea aveva affrontato alcune misure pubbliche indispensabili, non avrebbe esitato un attimo a giudicare quegli uomini indegni del loro mandato. La necessità del momento fa apparire opportune molte misure che, se venissero perpetuate, si trasformerebbero in oppressione. N on bisogna confondere l’opportunità con il diritto. Quando le calamità abbattutesi sull’America resero necessaria una consultazione, non si trovò metodo più rapido, o in quel momento più adeguato, di quello di nominare a tale scopo i membri delle diverse Camere assembleari; e la saggezza con cui hanno operato ha salvato il continente dal disastro. Ma dal momento che è assai pro­ babile che non ci ritroveremo mai privi di un congresso, quanti hanno a cuore una società ben ordinata debbono ammettere che il sistema adottato per scegliere i membri di quelPorganismo merita attenta considerazione. Sotto­ pongo la seguente domanda a tutti coloro che studiano il genere umano: la rappresentanza e la elezione non costi­ tuiscono un potere troppo grande per essere detenuto da un unico gruppo di uomini? Quando facciamo progetti per le generazioni future, dovremmo ricordare che la virtù non è tratto ereditario. È dai nostri nemici che spesso ci giungono massime ec­ cellenti, e non è raro che i loro errori ci sorprendano tanto da indurci a ragionare. Se Cornwall (uno dei Lord del Tesoro)14 ha trattato con disprezzo la petizione presentata dall’Assemblea di New York, il motivo era, secondo lui, perché quella Camera era composta soltanto da ventisei membri, il cui numero insignificante, a suo parere, non

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poteva convenientemente rappresentare l’intero paese. Lo ringraziamo per la sua involontaria sincerità.15 Per concludere, sia che ad alcuni la cosa possa sembra­ re strana, sia che provino riluttanza a condividere questa opinione, poco importa; ma si possono elencare molte ragioni valide ed efficaci per dimostrare che nulla può risolvere i nostri problemi con altrettanta celerità di una dichiarazione di indipendenza esplicita e decisa. Eccone alcune. Primo. È usanza che quando due nazioni si fanno guer­ ra tra loro, altre potenze non direttamente coinvolte nel conflitto si offrano come mediatrici e promuovano dei preliminari di pace. Ma sino a quando l’America si defi­ nirà suddita della Gran Bretagna, nessuna potenza, per quanto ben disposta, potrà offrire la propria mediazione. Quindi, allo stato attuale delle cose, i nostri conflitti pos­ sono trascinarsi in eterno. Secondo. N on è ragionevole supporre che la Francia o la Spagna ci daranno mai la minima assistenza, se inten­ diamo servircene soltanto per com porre il dissidio e rafforzare i legami tra Gran Bretagna e America; infatti questi Stati ne subirebbero le conseguenze. Terzo. Sino a quando ci proclameremo sudditi della Gran Bretagna, non potremo fare a meno di apparire dei ribelli agli occhi delle altre nazioni. Sarebbe un preceden­ te piuttosto pericoloso per la tranquillità di quei paesi, se individui che si definiscono sudditi prendessero le armi. N oi siamo in grado di risolvere all’istante il paradosso; ma per conciliare resistenza e sudditanza è necessaria una formulazione di gran lunga troppo raffinata per essere compresa da tutti. Quarto. Se pubblicassimo e inviassimo alle corti stra­ niere un manifesto nel quale fossero elencate tutte le sof­ 66

ferenze che abbiamo patito e i metodi pacifici cui siamo ricorsi invano per ottenere riparazione; e se nel contem­ po dichiarassimo che, non potendo vivere in modo sicuro o sereno sotto l’autorità crudele della corte inglese siamo stati costretti a rescindere tutti i legami con quel paese; e se congiuntamente dessimo assicurazioni a tutte le corti circa il nostro atteggiamento pacifico nei loro confronti e il nostro desiderio di allacciare con loro rapporti commer­ ciali: un documento del genere avrebbe maggiori riper­ cussioni positive per questo continente di quante ne avreb­ be una nave carica di petizioni dirette alla Gran Bretagna. Se continuiamo a proporci come sudditi della Gran Bretagna, non verremo ricevuti né ascoltati dalle altre na­ zioni. Le consuetudini di tutte le corti sono contro di noi, e lo saranno sino a quando, avendo proclamato la no­ stra indipendenza, non ci allineeremo con tutti gli altri popoli. Questo modo di procedere potrà sembrare strano e laborioso all’inizio; ma come tutti gli altri passi che ab­ biamo già compiuto, in breve tempo diventerà familiare e gradevole. E sino al momento in cui verrà proclamata l’indipendenza, il continente si sentirà come un uomo che continua a rimandare un giorno dopo l’altro un dovere spiacevole pur sapendo che deve essere compiuto; odia doverlo fare, vorrebbe fosse già concluso, ed è continuamente ossessionato dal pensiero della sua inevitabilità.

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Appendice

Dopo la pubblicazione della prima edizione di questo opu­ scolo, anzi lo stesso giorno in cui apparve, in questa città è stato reso noto il discorso del re. Se uno spirito profeti­ co avesse presieduto alla nascita di questi miei fogli, non avrebbe potuto scegliere una congiuntura più favorevole, o un momento più necessario. L’impostazione sanguina­ ria del discorso dimostra la necessità di adottare la tesi propugnata in queste pagine. Gli uomini leggono per ven­ dicarsi. E il discorso, invece di seminare il terrore, ha pre­ parato la strada agli ardimentosi principi dell’indipendenza. La cortesia, e persino il silenzio, da qualsiasi motivo siano dettati, tendono a produrre effetti nocivi quando avallano, sia pure in minimo grado, azioni vili e malvagie. Se questa massima viene accettata, ne consegue natural­ mente che il discorso del re, esempio di furfanteria bella e buona, ha meritato, e tuttora merita, di essere esecrato da tutti, sia dal Congresso sia dal popolo. Tuttavia, dal momento che la tranquillità interna di una nazione dipende in grande misura dalla moderatezza di quello che potrem­ mo opportunamente definire il modo di vivere nazionale, è spesso meglio passare alcune cose sotto sprezzante silen­ zio anziché fare ricorso a nuove forme di ostilità che ri­ 69

schierebbero di introdurre una sia pur minima innovazio­ ne in quella guardiana della nostra serenità e della nostra sicurezza. E forse è soprattutto grazie a questa prudente discrezione che il discorso del re non è stato sinora reso pubblico. Il discorso, se così possiamo chiamarlo, non è altro che una tirata calunniosa, cinica e deliberata contro la verità, il bene comune e l’esistenza del genere umano: un metodo formale e pomposo per offrire sacrifici umani all’orgoglio dei tiranni. Ma questo massacro generale del­ l’umanità è uno dei privilegi, e la conseguenza certa, dei re; perché come la natura non li riconosce, così loro non riconoscono lei, e anche se sono stati creati da noi, essi non conoscono noi: sono diventati le divinità dei loro creatori. Il discorso ha un solo pregio, ossia non è stato fatto per ingannare, né mai noi potremmo farci ingannare da esso, anche se volessimo. La brutalità e la tirannia vi appaiono evidenti. Non ci lascia alternativa. E ogni riga convince, sin dal momento della sua lettura, che l’uomo che caccia tra i boschi in cerca di preda e l’indiano nudo e ingenuo sono meno selvaggi del re di Gran Bretagna. Sir John Dalrymple, padre putativo di uno scritto ge­ suitico e piagnucoloso ingannevolmente intitolato The Address of thè people o f England to thè inhabitants o f Am­ erica, ritenendo, forse in base a una presuntuosa supposi­ zione, che gli abitanti di questo paese potessero essere in­ timoriti dalla descrizione di un monarca e dello sfarzo che lo circonda, ha rivelato (anche se con poca perspicacia da parte sua) il vero carattere dell’attuale sovrano. «M a», di­ ce lo scrittore, «se siete inclini a fare i vostri complimenti a un governo del quale non ci lamentiamo» (intendendo quello del marchese di Rockingham al momento dell’a­ brogazione dello Stamp Act), «è molto ingiusto da parte vostra non fare la stessa cosa nei confronti di quel prin­

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cipe che con un semplice cenno del capo ha permesso a quel ministero di fare non importa cosa». Questo è il col­ mo dello spirito Tory. È un esempio di idolatria a viso scoperto. E chiunque possa ascoltare con calma questa dottrina e digerirla ha perso il suo diritto alla razionalità diventando un apostata del genere umano, e dovrebbe essere considerato come uno che, non soddisfatto di aver rinunciato alla giusta dignità di uomo, è sprofondato a un livello più basso di quello degli animali e striscia abietta­ mente per il mondo come un verme. Comunque, oggi importa poco cosa fa o dice il re d’In­ ghilterra; ha malvagiamente infranto ogni obbligo morale o umano; ha calpestato la natura e la coscienza sotto i suoi piedi, e con un atteggiamento connaturato di costante insolenza e crudeltà si è attirato un odio universale. Oggi è interesse dell’America badare a se stessa. Dispone già di una famiglia giovane e numerosa, e il suo compito è so­ prattutto quello di occuparsene, invece di lasciarsi spoglia­ re dei suoi possedimenti per appoggiare una potenza che è diventata un insulto al genere umano e alla cristianità. Voi che avete il compito di vegliare sulla morale della na­ zione, a qualunque setta o confessione apparteniate, e voi che siete più direttamente i guardiani della pubblica li­ bertà, se volete mantenere la vostra terra natale inconta­ minata dalla corruzione europea, non potete non aspirare, nel segreto della vostra anima, a una separazione. Ma la­ sciando l’aspetto morale alla riflessione individuale, limi­ terò le mie osservazioni ai punti seguenti. Primo: che è interesse dell’America essere separata dal­ la Gran Bretagna. Secondo: qual è il piano più facile da attuare, la ricon­ ciliazione o ¡’ indipendenza? Seguiranno alcune annota­ zioni aggiuntive. 71

A sostegno del primo punto potrei, se lo ritenessi op­ portuno, presentare il pensiero di alcuni tra gli uomini più capaci e di maggior esperienza del continente, le cui opinioni a questo riguardo non sono ancora di dominio pubblico. Si tratta in realtà di una considerazione lapalis­ siana, perché nessuna nazione che si trovi in uno stato di dipendenza da un paese straniero, limitata nei suoi com­ merci e ostacolata e intralciata nei suoi poteri legislativi, potrà mai raggiungere un elevato grado di prosperità ma­ teriale. L’America ancora ignora cosa sia l’opulenza; e an­ che se i progressi compiuti non hanno uguali nella storia delle altre nazioni, è soltanto un modesto inizio se para­ gonato al livello che potrebbe raggiungere se avesse nelle proprie mani, come dovrebbe avere, il potere di legiferare. L’Inghilterra sta attualmente concupendo con arroganza quello che non le sarebbe di nessuna utilità, se lo conse­ guisse; mentre il continente esita a impegnarsi in qualcosa che, ove se lo lasciasse scappare, lo porterebbe alla rovina definitiva. È commerciando con l’America, e non sotto­ mettendola, che l’Inghilterra trarrà i suoi benefici; e que­ sto commercio in gran parte continuerebbe, se i due paesi fossero indipendenti l’uno dall’altro come lo sono la Fran­ cia e la Spagna; perché per molti prodotti nessuna delle due dispone di un mercato migliore. Ma è l’indipendenza di questo paese dalla Gran Bretagna, o da qualunque altra nazione, che costituisce oggi il principale, l’unico obiettivo per cui vale la pena battersi; e, come avviene per tutte le verità scoperte per necessità, diventa più evidente e impe­ rioso ogni giorno che passa. Innanzitutto, perché ci si arriverà comunque, un gior­ no o l’altro. In secondo luogo, perché più a lungo si rimanda la cosa, più difficile sarà ottenerla.

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Mi sono spesso divertito, sia in pubblico che in privato, a prendere nota in silenzio degli errori speciosi commessi da quanti parlano senza riflettere. Il più diffuso tra tutti quelli che ho sentito sembra essere il seguente, ossia che se questa scissione avvenisse tra quaranta o cinquanta anni, invece di adesso, il continente sarebbe maggiormente in grado di scrollarsi di dosso il giogo della dipendenza. A questo rispondo che la capacità militare che in questo momento ci deriva dall’esperienza acquisita durante l’ulti­ ma guerra, tra quaranta o cinquanta anni non esisterebbe più. A quell’epoca il continente non avrebbe più un solo generale o, addirittura, neppure un ufficiale; e noi, o co­ loro che verrebbero dopo di noi, sarebbero tanto poco esperti di questioni militari quanto lo erano una volta gli Indiani. E questa semplice constatazione, se valutata at­ tentamente, prova in modo inconfutabile che il momento attuale è da preferirsi a qualunque altro. Le cose stano così: al termine della scorsa guerra noi avevamo l’espe­ rienza, ma ci mancavano gli uomini; tra quaranta o cin­ quanta anni avremo gli uomini ma ci mancherà l’espe­ rienza; quindi il momento giusto deve trovarsi tra questi due estremi, nel punto in cui ci sia rimasta una buona dose di esperienza e si sia verificato un adeguato incremento del numero di uomini; il momento giusto è adesso. Il lettore perdonerà la digressione, che non attiene stret­ tamente all’argomento che mi ero prefisso, e al quale ri­ tornerò affermando quanto segue. Se si rabberciasse la frattura con la Gran Bretagna, e quel paese dovesse conservare il potere sovrano di go­ vernare l’America (cosa che, date le attuali circostanze, significherebbe una rinuncia totale da parte nostra) ci priveremmo dei mezzi necessari per ripianare i debiti che abbiamo contratto o che potremmo contrarre. Il valore

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delle regioni dell’entroterra, delle quali alcune province sono state surrettiziamente spogliate dall’iniqua estensio­ ne dei confini del Canada, stimato anche soltanto a cinque sterline ogni cento acri, ammonta a oltre venticinque mi­ lioni in moneta della Pennsylvania; e il valore del canone fondiario quotato sulla base di un penny per acro, è di due milioni l’anno. Il debito pubblico può essere ripianato vendendo quel­ le terre, senza farlo ricadere su nessuno, e l’importo del re­ lativo canone fondiario diminuirebbe progressivamente e alla lunga finirebbe per coprire interamente il budget an­ nuo del governo. N on importa quanto tempo ci vorrà a estinguere il debito, purché i proventi ricavati dalla ven­ dita di quelle terre vengano utilizzati per ammortizzarlo; l’esecuzione di questo compito verrebbe affidata al Con­ gresso, che fungerebbe provvisoriamente da fiduciario a nome del continente. Passo ora al secondo punto, ossia alla questione di sa­ pere qual è il progetto più facile da mettere in pratica, se la riconciliazione o I’ indipendenza, facendo al riguardo alcune osservazioni incidentali. N on è facile controbattere gli argomenti di chi si ispira ai criteri della natura, ed è per questo motivo che io ri­ spondo in linea generale: visto che /’indipendenza è una prosp ettiva semplice e lineare che è insita in ciascuno di noi, m entre la ricon ciliazion e è u n a question e estrem amente confusa e complicata, nella quale p u ò interferire una corte in fid a e capricciosa, la risposta non am m ette dubbi.

La situazione attuale dell’America è veramente allar­ mante agli occhi di chiunque sia capace di riflettere: un paese senza struttura legale, senza governo, senza altro tipo di potere se non quello garantito per graziosa con­ cessione, tenuto insieme da un incredibile miscuglio di

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sentimenti, che sono comunque soggetti a mutare e che tutti i nostri nemici segreti sono impegnati a distruggere. La nostra presente condizione è quella di una legislazione senza legge, di una saggezza senza progetto, di una co­ stituzione senza nome; e, cosa veramente strana e sor­ prendente, di un’indipendenza perfetta che fa di tutto per mantenere lo stato di dipendenza. Il caso non ha prece­ denti, e chi può dire quale ne sarà l’esito? Data l’attuale incertezza della situazione, nessuna proprietà è al sicuro. Lo spirito della moltitudine è lasciato al caso: e non ve­ dendo davanti a sé alcun obiettivo definito, essa segue quelli che le vengono presentati dal capriccio, o da qual­ che nuova opinione. N on esiste crimine; non esiste tradi­ mento; quindi ognuno ritiene di essere libero di agire come meglio crede. I Tories non avrebbero osato tenere un’assemblea tanto offensiva, se avessero saputo che in séguito a questa azione la loro vita sarebbe stata confi­ scata dalle leggi dello Stato. S’impone una distinzione tra i soldati inglesi catturati sul campo di battaglia e gli abi­ tanti d’America presi con le armi in pugno: i primi sono prigionieri, i secondi traditori; i primi perdono la libertà, i secondi la vita. Malgrado il nostro discernimento, esiste un evidente punto debole nel nostro modo di procedere che incorag­ gia le divisioni. Vi è un margine di gioco troppo grande all’interno del continente, e se non si prendono provve­ dimenti in tempo sarà troppo tardi per fare alcunché: ci ritroveremo in una situazione in cui non saranno più pra­ ticabili né la riconciliazione né I’ indipendenza. Il re e i suoi indegni accoliti sono dediti al vecchio gioco di divi­ dere il continente, e non mancano fra noi i tipografi che si affannano a diffondere falsità speciose. La lettera arti­ ficiosa e ipocrita apparsa qualche mese fa su due giornali 75

di New York, e su altri due fogli, costituisce la prova che alcuni uomini mancano di giudizio o di onestà. E facile bendarsi gli occhi e parlare di riconciliazione; ma mi chiedo se queste persone valutino seriamente la difficoltà del compito e i pericoli che potrebbero derivare da una spaccatura del continente su questo punto. Mi chie­ do se prendono in considerazione le varie classi sociali, la cui situazione e le cui condizioni economiche debbono anch’esse essere valutate, oltre alle loro. Si mettono forse al posto di chi soffre e ha già perduto tutto, o del soldato che ha lasciato tutto per difendere il proprio paese? Se la loro sconsiderata moderatezza si applicasse soltanto alla loro situazione personale senza tener conto di quelle al­ trui, quanto è avvenuto li convincerebbe che “ stanno fa­ cendo i conti senza Toste”. Mettiamoci, dicono alcuni, nella stessa situazione in cui ci trovammo nel Sessantatré; ma io rispondo che oggi soddisfare questa richiesta esula dai poteri della Gran Bretagna, che del resto si guarderà dal proporre una cosa del genere. Ma anche ammettendo che possa essere accet­ tata e persino accordata, vi rivolgo una domanda ragio­ nevole: con quali mezzi si potrebbe costringere una corte corrotta e sleale come quella inglese a mantenere fede agli impegni presi? Un altro parlamento, o persino quello at­ tuale, potrebbe successivamente abrogare l’obbligo preso con il pretesto che è stato ottenuto con la violenza, o con­ cesso incautamente; e in questo caso, che rimedio potrem­ mo trovare? È impossibile trascinare una nazione in tri­ bunale; gli avvocati delle teste coronate sono i cannoni, e a decidere la questione non è la spada della giustizia, ma quella della guerra. Per ricalcare le orme del Sessantatré non è sufficiente che le leggi soltanto tornino ad essere com’erano: occorre che vi tornino anche le nostre con­ 76

dizioni materiali, che le nostre città bruciate e distrutte siano riparate o ricostruite, che le nostre perdite siano risarcite, che il debito pubblico (contratto per difenderci) venga ripianato; altrimenti ci troveremmo in una situa­ zione mille volte più difficile di quella in cui ci trovava­ mo in queirinvidiabile periodo. Se una simile richiesta fosse stata accettata un anno fa, avrebbe conquistato il cuore e l’anima del continente - ma ora è troppo tardi, “ Il dado è tratto”. Del resto, ricorrere alle armi soltanto per far rispettare l’abrogazione di una legge relativa a questioni pecuniarie sembra altrettanto imperdonabile per la legge divina e al­ trettanto ripugnante per i sentimenti umani di quanto lo sia prendere le armi per farla rispettare. In entrambi i casi, l’obiettivo non giustifica i mezzi, perché la vita umana è troppo preziosa per essere gettata via per simili scioc­ chezze. Sono la violenza che è stata commessa e che vie­ ne minacciata contro le nostre persone, la distruzione della nostra proprietà da parte di uomini armati, la messa a ferro e fuoco del nostro paese che autorizzano, in co­ scienza, il ricorso alle armi. E nel momento in cui un simi­ le tipo di difesa è diventato necessario, ogni sottomissione alla Gran Bretagna avrebbe dovuto cessare e l’indipen­ denza deH’America avrebbe dovuto apparirci come inau­ gurata e proclamata dal primo colpo di moschetto sparato contro di lei. Questa linea di condotta è una linea di coe­ renza, non stabilita dal capriccio né amplificata dall’am­ bizione, ma risultato di una catena di avvenimenti di cui le colonie non sono state responsabili. Concluderò queste mie osservazioni con i seguenti suggerimenti tempestivi e intesi a fin di bene. Dovremmo riflettere sul fatto che esistono tre modi diversi di ottene­ re in futuro l’indipendenza, e che uno di questi tre sug­

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gellerà, un giorno o l’altro, il destino delPAmerica: attra­ verso la voce del popolo che si esprime nella legalità del Congresso; attraverso il ricorso alle armi; attraverso la sedizione. Potrebbe non verificarsi sempre che i nostri soldati siano dotati di spirito civico, o che la folla sia com­ posta da una moltitudine di uomini ragionevoli; la virtù, come ho già osservato, non è ereditaria né dura in eterno. Se l’indipendenza dovesse essere frutto del primo dei mo­ di elencati, ci si spalancherebbero davanti tutte le oppor­ tunità, e tutto ci incoraggerebbe a dare vita alla costitu­ zione più nobile e più pura che sia mai esistita sulla faccia della terra. Saremmo in grado di ricominciare la storia del mondo. Una situazione simile a quella attuale non si è più verificata dal tempo di Noè. La nascita di un Nuovo mondo è a portata di mano, e pochi mesi sarebbero suffi­ cienti a far sì che una razza di uomini, forse altrettanto numerosa di tutta l’Europa messa insieme, riceva la sua parte di libertà. Considerazione affascinante! E da que­ sto punto di vista quanto appaiono ridicoli e insignificanti i meschini e spregevoli cavilli di un pugno di individui deboli o interessati, se dall’altra parte la posta in gioco è un mondo! Se dovessimo ignorare l’attuale propizio e allettante momento, e l’indipendenza venisse successivamente otte­ nuta con altri mezzi, dovremmo farci personalmente ca­ rico delle conseguenze, o imputarle a coloro le cui anime meschine e piene di pregiudizi si oppongono sistematicamente al progetto, senza neppure informarsi o riflettere. Esistono delle motivazioni a favore dell’indipendenza sulle quali gli individui dovrebbero ragionare in privato, invece di esserne informati in pubblico. In questo mo­ mento non dovremmo più discutere sull’eventualità del­ l’indipendenza, ma dovremmo preoccuparci di realizzarla

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su basi solide, certe e onorevoli, e anzi rammaricarci per­ ché non si è ancora iniziato a farlo. Ogni giorno che passa ci convince della sua necessità. Persino i Tories (se tra noi ce n’è ancora qualcuno) dovrebbero essere tra tutti i più solleciti a promuoverla; perché come la designazione dei comitati li ha protetti in un primo momento dalla rabbia popolare, così una forma di governo saggio e ben conso­ lidato sarà l’unico mezzo certo per garantire loro una si­ curezza continua. Perciò, se non sono abbastanza corag­ giosi da essere Whigs, dovrebbero almeno essere tanto prudenti da desiderare l’indipendenza. In breve, l’indipendenza è l’unico vincolo capace di mantenere la nostra coesione. Allora vedremo il nostro obiettivo e non ci cureremo più, in piena legalità, delle manovre di un nemico tanto intrigante quanto crudele. Così ci troveremo anche noi nella posizione giusta per trattare con la Gran Bretagna; perché vi è motivo di rite­ nere che l’orgoglio di quella corte sarà meno ferito se in­ tavolerà trattative di pace con gli Stati americani anziché negoziare i termini di un accordo con quelli che definisce “ sudditi ribelli” . È il nostro indugiare che incoraggia le sue speranze di conquista, sono soltanto le nostre esita­ zioni che contribuiscono a prolungare la guerra. Dal mo­ mento che abbiamo interrotto, senza alcuna conseguenza positiva, i nostri scambi commerciali nella speranza di ottenere una riparazione alle offese subite, ora proviamo a mettere in atto la soluzione alternativa mettendovi ripa­ ro da soli, in modo indipendente, e quindi dichiarandoci pronti alla ripresa dei commerci. L’Inghilterra mercantile e di buon senso è dalla nostra parte; perché una pace ac­ compagnata dal commercio è da preferirsi a una guerra senza di esso. E se questa offerta non venisse accettata, la potremmo proporre ad altre corti. 79

A questo punto abbandono l’argomento. Poiché sino a questo momento nessuno si è ancora fatto avanti per confutare la tesi avanzata nelle prime edizioni di questo pamphlet, ciò conferma tacitamente o che la tesi è irre­ futabile, o che i suoi sostenitori sono troppo numerosi perché ad essi ci si possa opporre. Perciò, invece di scru­ tarci l’un l’altro con curiosità piena di sospetto o di timo­ re, ognuno di noi tenda la mano calorosa dell’amicizia al proprio vicino, uniti per tracciare una linea che, come un’amnistia, seppellirà nel dimenticatoio ogni precedente dissenso. Scompaiano per sempre le definizioni di Whig e di Tory; che tra noi possano esistere soltanto quelle di buon cittadino, amico franco e risoluto, coraggioso pala­ dino dei diritti dell’umanità e degli stati liberi e indi­ pendenti D’AMERICA.

Ai rappresentanti della Religiosa Società degli Amici chia­ mati quacqueri, o a quanti di essi sono coinvolti nella re­ cente pubblicazione di un documento dal titolo: A ntica testim on ian za e principi della gente ch iam ata quacqueri, rin n ovati a l riguardo del re e del governo, e concernente i disordini che attualm ente dilagano in queste e in altre p arti d ’A m erica, rivolta alla popolazion e in generale.

L’Autore è uno dei pochi individui che non hanno mai screditato la religione, né mettendo in ridicolo una con­ fessione né cavillando su di essa. Secondo la religione, ogni individuo è responsabile davanti a Dio e non davan­ ti agli uomini. Quindi questa risposta è diretta a voi non in quanto setta religiosa, ma come confessione politica, che si immischia in questioni in cui la serenità che i vo­

se

stri principi vi insegnano a professare vi raccomanderebbe di non intromettervi. Dal momento che, senza avere la debita autorità per farlo, avete parlato a nome di tutti i quacqueri, l’Autore di queste righe, per mettersi al vostro stesso livello, si ve­ de costretto a parlare in nome di tutti coloro che appro­ vano gli scritti e i principi contro i quali è diretta la vo­ stra testimonianza. H a scelto questa singolare posizione in modo che voi possiate scorgere in lui quella presun­ zione che non riuscite a vedere in voi stessi, poiché non avete, né l’Autore né voi, alcun diritto o titolo per defi­ nirvi Rappresentanza politica. Quando gli uomini si allontanano dalla retta via, non stupisce che inciampino e cadano. E risulta evidente dal modo in cui avete articolato la vostra testimonianza che la politica (visto che siete un’organizzazione religiosa) non è un cammino adatto a voi. Infatti, malgrado il vo­ stro scritto possa sembrarvi confacente, esso è cionono­ stante un miscuglio di cose buone e cose cattive messe insieme poco saggiamente, e le conclusioni cui giunge sono innaturali e ingiuste. Vi diamo credito per le prime due pagine (consideran­ do che in tutto non sono neppure quattro) e ci aspettiamo 10 stesso atteggiamento civile da parte vostra, perché l’a­ more e il desiderio di pace non sono prerogativa dei quacqueri, ma aspirazione naturale, oltre che religiosa, di tutte le confessioni. A questo proposito, in quanto indi­ vidui che lottano per darsi una costituzione indipenden­ te, superiamo tutti gli altri in fatto di speranza, finalità e obiettivi. Il nostro progetto è una pace perpetua. Siamo stanchi di lottare contro la Gran Bretagna e troviamo che 11 solo modo per mettere fine al contendere è una sepa­ razione definitiva. C i comportiamo in modo coerente, 81

perché, allo scopo di veder nascere una pace duratura e che non abbia fine, sopportiamo tutte le sventure e i far­ delli del presente. Stiamo cercando, e continueremo fer­ mamente a cercare, di rescindere e sciogliere un legame che ha già coperto di sangue la nostra terra, e che sino a quando continuerà ad esistere, sia pure nominalmente, provocherà fatalmente altre sventure in entrambi i paesi. N on ci battiamo per vendicarci né per conquistare, non per orgoglio né per passione; non insultiamo il mon­ do con le nostre flotte e i nostri eserciti, né devastiamo il pianeta per saccheggiarlo. Ma veniamo attaccati sotto l’om­ bra delle nostre viti; viene commessa violenza contro di noi nelle nostre stesse case, sulla nostra terra. Consideria­ mo i nostri nemici alla stregua di briganti e scassinatori, e poiché non troviamo strumenti di difesa nel codice civile, siamo costretti a punirli secondo il codice militare, ricor­ rendo alla spada esattamente come voi, prima d’ora, siete ricorsi al capestro. Forse noi proviamo, per gli uomini che hanno sofferto e sono stati rovinati e insultati in ogni parte del continente, un impeto di tenerezza che non si è ancora aperto la strada in alcuni dei vostri cuori. Ma ac­ certatevi di non stare sbagliando la causa e il terreno della vostra testimonianza. N on chiamate religione la freddez­ za d’animo; e non mettete il bigotto al posto del cristiano. O voi, ministri poco obiettivi dei principi che voi stes­ si riconoscete: se indossare le armi è peccato, maggior­ mente lo sarà il muovere guerra per primi, considerata la differenza che esiste tra attacco deliberato e difesa inevi­ tabile. Quindi, se predicate veramente secondo coscienza e non volete fare della vostra religione un chiodo fisso po­ litico, convincete di questo il mondo, applicando la vo­ stra dottrina ai nostri nemici, perché anche loro hanno imbracciato le armi. Dateci una prova della vostra since­ 82

rità notificando il vostro pensiero a St. James, al coman­ dante in capo di Boston, agli ammiragli e ai capitani che, alla stregua dei pirati, stanno saccheggiando le nostre coste; nonché a tutti gli assassini miscredenti che agiscono arrogandosi un’autorità che fanno derivare da colui che professate di servire. Se voi aveste l’onestà di Barclay16 in­ citereste il vostro re a pentirsi, ricordereste a quel mise­ rabile i suoi peccati e lo mettereste in guardia contro la perdizione eterna. N on sprechereste le vostre invettive di parte solamente contro gli ingiuriati e gli offesi, ma da ministri leali gridereste a gran voce senza risparmiare nessuno. N on dite di essere perseguitati, e non cercate di attribuire a noi la paternità del biasimo che vi state tiran­ do addosso; perché noi rendiamo testimonianza davanti all’umanità che non ce la prendiamo con voi perché siete quacqueri, ma perché pretendete di esserlo e non lo siete. Ahimè! Dal singolare orientamento di una parte della vostra testimonianza e da altri tratti del vostro compor­ tamento sembrerebbe che tutti i peccati si riducano a uno solo, quello di imbracciare le armi, ma soltanto se a farlo è il popolo. A noi sembra che avete confuso l’appartenen­ za a un partito con la coscienza, poiché il tenore generale del vostro operato manca di uniformità. E ci riesce trop­ po difficile dare credito a molti dei vostri pretesi scrupoli, perché vediamo che sono professati da quegli stessi uo­ mini che, nel momento stesso in cui si scagliano contro la mammona di questo pianeta, le corrono comunque die­ tro con un’andatura stabile come il tempo e un appetito avido come la morte. La citazione che avete tratto dai «Proverbi» nella terza pagina della vostra testimonianza, ossia che «quando le vie di un uomo piacciono al Signore, egli fa in modo che anche i suoi nemici siano in pace con lui», è stata una

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scelta poco appropriata da parte vostra, poiché prova che le vie del sovrano (che siete tanto desiderosi di appoggiare) non piacciono al Signore, altrimenti nel suo regno vi sa­ rebbe pace. Passo ora all’ultima parte della vostra testimonianza, della quale tutto quanto avete scritto prima rappresenta soltanto un’introduzione, ossia: «È sempre stato nostro convincimento e principio, sin da quando siamo stati chiamati a professare la luce di Cri­ sto Gesù che si è manifestata nelle nostre coscienze sino al giorno presente, ritenere che l’ascesa e la caduta di so­ vrani e di governi siano una prerogativa di Dio, e avven­ gano per cause che sono meglio note a lui. E che non è compito nostro averci a che fare in alcun modo; né lo è quello di affaccendarci al di sopra della nostra posizione, e ancor meno di congiurare e tramare per la rovina o il rovesciamento di uno di loro. Spetta invece a noi pregare per il re, per la sicurezza del nostro paese e per il bene di tutti gli uomini. Che ci sia concesso di vivere una vita pa­ cifica e tranquilla, con bontà e onestà, sotto il governo che a Dio è piaciuto concederci.» Se questi sono veramente i vostri principi, perché non vi ci attenete? Perché non lasciate che quella che chiamate opera di Dio venga fatta da lui soltanto? Questi principi vi insegnano ad attendere con pazienza e umiltà il verifi­ carsi di ogni avvenimento che riguardi la vita pubblica, e ad accettare quelPawenimento come espressione della vo­ lontà divina nei vostri confronti. Quindi, che motivo avete di offrire la vostra testimonianza politica, se credete vera­ mente in quello che contiene? Il fatto di averla pubblicata prova che o voi non credete in quello che professate, o non possedete virtù sufficiente per mettere in pratica quel­ lo in cui credete.

I principi della vostra setta hanno la chiara tendenza a trasformare l’uomo in un suddito calmo e inoffensivo di qualsiasi governo gli venga imposto. E se l’innalzare o il rovesciare re e governi è una prerogativa caratteristica di Dio, certamente egli non vorrà esserne privato da noi. Quindi, questo stesso principio vi porta ad approvare co­ me operato divino qualsiasi cosa sia mai accaduta o possa mai accadere ai re. Oliver Cromwell vi ringrazia. Allora Carlo non è morto per mano di un uomo; e se il suo attuale orgoglioso emulo dovesse fare la stessa prematura fine, quanti hanno redatto e pubblicato la testimonianza sa­ ranno costretti ad applaudire l’avvenimento, in base alla dottrina che in essa viene professata. I monarchi non vengono tolti di mezzo da un miracolo, e i cambiamenti di governo non si verificano con strumenti che non siano quelli ordinari e umani; e sono proprio quelli che noi stia­ mo usando. Anche la diaspora degli ebrei, che era stata prevista dal nostro Salvatore, è avvenuta con le armi. Quindi, se vi rifiutate di intervenire da una parte non do­ vreste immischiarvi nell’altra, bensì aspettare in silenzio che la questione si risolva. E a meno che non possiate pro­ durre l’autorità divina come prova del fatto che l’Onni­ potente, che ha creato e collocato questo nuovo mondo alla massima distanza possibile, sia ad est che ad ovest, da quello vecchio, ciononostante disapprova che esso sia indipendente dalla corte corrotta e dissoluta d’Inghilterra, a meno che, ripeto, non possiate dimostrare una cosa del genere, come potete giustificare, sulla base dei vostri prin­ cipi, il fatto che incitate il popolo «a unirsi con fermezza per respingere tutti gli scritti e i provvedimenti che costi­ tuiscono la prova di un desiderio e di un disegno di spez­ zare il felice legame con il regno di Gran Bretagna di cui abbiamo goduto sino a questo momento, e la nostra giu­ 85

sta e necessaria subordinazione al sovrano e a coloro che detengono legalmente l’autorità sotto di lui»? Quale con­ traddizione! Quegli uomini che, nel paragrafo precedente, hanno quietamente e passivamente rassegnato nelle mani di Dio la facoltà di designare re e governi, di mutarli e di disporne, ora rinnegano i loro principi e si fanno avanti per prendere parte alla cosa. E possibile che la conclu­ sione che abbiamo appena citato derivi in qualche modo dalle teorie che abbiamo esposto? L’incongruenza è trop­ po eclatante per passare inosservata, l’assurdità è troppo enorme per non suscitare il riso. Ciò può essere soltanto opera di individui il cui intelletto è stato offuscato dallo spirito meschino e bizzoso di uno schieramento politico ridotto alla disperazione; perciò voi non dovete essere considerati portavoce della totalità dei quacqueri, ma sol­ tanto di una sua parte esigua e dissenziente. Termina qui la disamina della vostra testimonianza (che non invito nessuno ad aborrire, come avete fatto voi con la mia, ma soltanto a leggere e a giudicare obiettivamente). Aggiungo soltanto la seguente osservazione: le parole “l’ascesa e la caduta di re” significano indubbiamente fa­ re re chi non lo è ancora, e togliere le prerogative regali a chi lo è già. E allora cosa c’entra con la situazione attuale? N oi non vogliamo né l’ascesa né la caduta, non vogliamo né fare né disfare; soltanto non vogliamo avere niente a che vedere con loro. Quindi la vostra testimonianza, da qualunque parte la si esamini, non fa onore alla vostra ca­ pacità di giudizio; e per molte ragioni sarebbe stato meglio lasciarla perdere e non pubblicarla. In primo luogo, perché porta a sminuire e biasimare qualunque religione, e perché è estremamente pericoloso per la società fare della religione una parte in causa nel dibattito politico. 86

Secondo poi, perché mette in piazza un gruppo di uo­ mini molti dei quali disapprovano la pubblicazione di testimonianze politiche, che li fanno apparire coinvolti nelle stesse, se non addirittura loro sostenitori. Infine, perché corre il rischio di sciupare quell’armo­ nia e quell’amicizia all’interno del continente che voi stessi, con le vostre recenti e liberali donazioni, avete contribuito a creare, e la cui preservazione è di estrema importanza per tutti noi. Ed ora senza ira e senza rancore vi saluto, desiderando sinceramente che come uomini e come cristiani possiate sempre e ininterrottamente godere di ogni diritto civile e religioso; e che siate a vostra volta il mezzo per garantire agli altri lo stesso diritto. Ma mi auguro che l’esempio che avete sconsideratamente dato, di mescolare la religione alla politica, venga sconfessato e biasimato da tutti gli abitanti ì/’america. finis

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Giudici, 8. 22,23 [N.d.T.]. Samuele, 1. 8, 3 e ss. [N.d.T.]. Samuele, 1. 12, 17 e ss. [N.d.T.]. II leone fa parte dello stemma nazionale della Gran Bretagna [N.d.T.]. Trattasi del conflitto noto come “Guerra delle due rose” [N.d.T.]. Thomas Pelham-Holles, duca di Newcastle (1693-1768), rappre­ sentante della tradizionale politica Whig, fu segretario di Stato e ministro del Tesoro inglese [N.d.T.]. Legge approvata dal parlamento inglese il 22 marzo 1765, che im­ pose alle colonie americane una tassa di bollo su ogni documento a stampa. Giudicata dai coloni come un attacco contro le loro li­ bertà, fu revocata l’anno seguente, ma insieme con la revoca il parlamento inglese approvò il Declaratory Act, che ribadiva la supremazia assoluta sulle colonie [N.d.T.]. Frederick North, duca di Guilford (1732-1792), nominato primo ministro grazie all’appoggio personale del re e al sostegno dei Tories. La sua opposizione alle richieste delle colonie americane fu tra le cause che ne provocarono la ribellione [N.d.T.]. Battaglia avvenuta nella primavera del 1775 fra le truppe inglesi e quelle di Washington [N.d.T.]. Massacro di Lexington. Dragonetti, Delle virtù e de’ Premi. Tommaso Aniello, altrimenti noto come Masaniello, un pesciven­ dolo napoletano che su pubblica piazza infiammò gli animi dei suoi concittadini contro gli oppressori spagnoli che allora gover­ navano la città, li incitò alla rivolta e nello spazio di un giorno diventò re. Gli Associators erano i membri delle unità volontarie istituite dopo gli scontri di Lexington. Essi domandarono alla camera assemblea­ re della Pennsylvania l’imposizione di una tassa su coloro che ri­ fiutavano di aderire alle Associations [N.d.T.]. Charles Cornwall (1735-1789), ministro del Tesoro sotto il gover­ no North [N.d.T.]. Chi desiderasse comprendere appieno quanta importanza abbia per uno Stato una rappresentanza vasta ed equa, dovrebbe leggere le disquisizioni politiche di Burgh. «Tu hai provato la prosperità e l’avversità; tu sai cosa significa es­ sere bandito dalla propria patria, essere destituito invece di gover­ nare e sedere sul trono; tu che quando sei stato oppresso hai avuto modo di sapere quanto sia odioso a Dio e agli uomini l’oppressore; se dopo tutti questi avvertimenti e ammonimenti non ti rivolgi al Signore con tutto il cuore ma dimentichi chi si è ricordato di te

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nel momento del bisogno e dedichi tutto te stesso a seguire la cu­ pidigia e la vanità, la tua condanna sarà certamente grande. Contro questa insidia, e contro la tentazione di coloro che potrebbero suggerirti o ti suggeriscono il male e ti incitano a perpetrarlo, il rimedio migliore e più comune sarà per te quello di dedicarti alla luce di Cristo che brilla nella tua coscienza, che non può e non vuole adularti e non ti permette di sentirti a tuo agio con i tuoi peccati.» Address to Charles II, Barclay.

Notizia La presente traduzione, condotta sulla base del testo Paine. Collected writings, a cura di Eric Foner, The Library of America, 1995, non ha mantenuto integralmente le scelte grafiche del testo originale: al fine di alleggerire la lettura e adeguare il pamphlet agli attuali canoni stilistici si è ritenuto preferibile ridurre l’uso del corsivo e del maiuscoletto, lar­ gamente adottati dall’Autore, mantenendoli soltanto nei passi più significativi. La traduzione delle citazioni bibliche contenute nel testo è quella recata da La Sacra Bibbia, (trad. it. G. Castoldi), Salani Editore, Firenze 1958. Carla Maggiori

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2005 presso la Litografica Com Società Cooperativa Capodarco di Fermo

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C a m p id o g l io

Anthony Collins, Discorso sul libero pensiero Pietro Di Muccio, Orazione per la Repubblica Bertrand de Jouvenel, L ’etica della redistribuzione Hilaire Belloc, Lo Stato servile Edmund Burke, Difesa della società naturale Daniel Defoe, Inno alla Gogna D os Passos, Zirkle, Weaver, Morley, Schoeck, Friedman, Hayek, Ekirch jr., Saggi sull’individualità F. Bastiat, G. de Molinari, Contro lo statalismo Daniel Soulez Larivière, Il circo mediatico-giudiziario Alexander Pope, Saggio sull’Uomo Voltaire, Facezie Walter Block, Difendere l ’indifendibile Bruno Leoni, La libertà e la legge Albert Jay N ock, Il nostro Nemico, lo Stato Jeremy Bentham, Difesa dell’usura Murray N . Rothbard, L ’etica della libertà Pascal Salin, L a tirannia fiscale Cari Menger, Sul metodo delle scienze sociali David Friedman, L ’ingranaggio della libertà Michael Novak, Questo emisfero di libertà Roberto Racinaro, L a giustizia virtuosa Murray N . Rothbard, Per una nuova libertà J. Trenchard, T. Gordon, Cato’s Letters Thomas Carlyle, Cartismo Michael Novak, Verso una teologia dell’impresa A. Garapon, D. Salas, La Repubblica penale Angeletti, Cavalla, di Robilant, Ricossa, Contro lo Stato massimo Lysander Spooner, I vizi non sono crimini Victor Hugo, Claude Gueux Alejandro A. Chafuen, Cristiani per la libertà Ludwig von Mises, Politica economica Ayn Rand, L a virtù dell’egoismo Angeletti, Cavalla, Frigo, Lanza, Longo, Taradash, Giudici e Inquisitori Ken Schoolland, Le avventure di Jonathan Gullible

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Karlheinz Deschner, Opus Diaboli Michael Novak, Spezzare le catene della povertà Dugald Stewart, Resoconto della vita e delle opere di Adam Smith Carlo Lottieri, Il pensiero libertario contemporaneo Benjamin Constant, L a libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni Denis Diderot, Questa non è una novella; Madame de la Cartière; Supplemento al Viaggio di Bougainville Giancarlo Bagarotto, Tenera è la legge Anatole France, Crainquebille Otto Kirchheimer, Giustizia politica Platone, Minosse o della legge Francesco Cossiga, Discorso sulla giustizia Giancristiano Desiderio, Le uova e la frittata Teodoro Klitsche de la Grange, Apologia della cattiveria Ayn Rand, Antifona Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria Antonio Martino, Semplicemente liberale Novello Papafava, Proprietari di sé e della natura Mark Twain, Lettere dalla Terra Bernard Mandeville, Sociabilità Fabio M. Nicosia, Beatipossidentes Bruno Leoni, Il diritto come pretesa Besançon, Mathieu, Minogue, Pellicani, Salin, Nolte, Revel, Islam e Occidente Thomas Paine, Senso comune

Giancristiano Desiderio, Il Bugiardo Metafisico Helmut Schoeck, L ’invidia e la società Margaret Cheney, Tesla Paul Driessen, Eco-imperialismo Francisco Pérez de Antón, Il gatto nella sacrestia Hans-Hermann Hoppe, Democrazia, il dio che ha fallito

in p re p a ra z io n e

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C ir c o

Frank Wedekind, Il Cantante di camera Prosper Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento Carlo Ferrucci, D i libertà l ’am ore; La carrozza di Giacomo Giancarlo Bagarotto, Camera di consiglio Giancarlo Bagarotto, Toghe e topi Giancarlo Bagarotto, Il processo è servito Giancarlo Bagarotto, Non solo gogna Ayn Rand, La notte del 16 gennaio Massimo Bontempelli, Minnie la candida N

a r r a t iv a

Gertrude Stein, Teneri Bottoni Flenry James, I Giornali Henry James, Rose-Agathe e altre Herman Melville, Lettere a Hawthorne Maksim G or’kij, L a città del Diavolo Giallo Giancarlo Liuti, L a scelta Marco Alloni, Lettere sull’ambizione Paul Scarron, Novelle tragicomiche

A ltrov e

1 Marco Buratti, E poi Martina lavava l ’anitra miope * Joris-Karl Huysmans, Schizzo biografico su don Bosco * Jean Lèonor Gallois de Grimarest, Vita del Signor de Molière

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Thomas Paine (1737-1809), figlio di un artigiano inglese quacquero, fa apprendi­ stato di bustaio nella bottega paterna. A se­ dici anni se ne va di casa per imbarcarsi su una nave da carico. Viene presto ricondot­ to a terra dal padre. Dopo deludenti espe­ rienze di bottegaio, esattore di accise su birra e tabacco, avvocato della causa dei dazieri, senza un soldo, senza lavoro, ma equipaggiato di una sufficiente cultura guadagnata con la tenacia dell’autodidatta, nel 1774 emigra a Filadelfia. Grazie al gran­ de successo ottenuto da Common Sense, diviene popolarissimo tra i coloni ameri­ cani di ogni ceto. Partecipa alla Guerra di Indipendenza co­ me aiutante di campo del generale Greene. Propugna l’emancipazione degli schiavi. Tornato in Inghilterra nel 1787, nel suo I diritti dell’uomo (1791-1792) difende la Rivoluzione francese contro le serrate cri­ tiche di Burke. Mentre è già riparato ol­ tremanica, una corte inglese lo condanna come sedizioso. Diviene cittadino france­ se ed è eletto deputato alla Convenzione. Imprigionato durante il Terrore anche per essersi opposto all’esecuzione di Luigi XVI, scrive L’età della ragione, in cui attacca la religione e i testi sacri. Tornato in Ame­ rica, subisce un ostile isolamento dovuto alla sua fama di sovversivo, miscredente e per di più beone. Gli stessi quacqueri gli negheranno la sepoltura nel loro cimitero.

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