Krzysztof Kieslowski 8880330616, 9788880330615

Krzysztof Kieslowski (Varsavia, 1941 -1996). Tra gli ultimi e più grandi autori del cinema europeo, formatosi sul finire

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Italian Pages 168 [125] Year 1996

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Krzysztof Kieslowski
 8880330616, 9788880330615

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Serafino Murri, (Roma, 1966), critico cinematografico, scrittore e regista. Autore di monografie per Il Castoro Cinema (Pasolini, Kieslowski, Scorsese) e di opere collettive per Treccani come L’Enciclopedia del Cinema e Il lessico della contemporaneità, collabora con RaiSat CinemaWorld dal 1999. Consulente di La Biennale di Venezia in qualità di selezionatore per la Mostra del Cinema nel 2002-2003, critico cinematografico di XL di «Repubblica», saggista e docente universitario. Dialoghista e adattatore cinematografico di film stranieri dal 1994 (tra gli autori adattati, Oshima, Loach, Gitai, Scorsese, Bodrov, Payami, Im-Kwon Taek, Imamura, Kiarostami, Stone, Tikwer, Rohmer, Chabrol). Nel 2004 esordisce alla regia cinematografica con Movimenti, a cui seguono opere narrative (tra cui l’episodio Angelo Azzurro Reloaded del film collettivo ŒFeisbum, 2009) e documentari (The Music Hall of Rome, 2007, Scandalo in sala. Il conflitto tra Potere e Cinema in Italia, con Alexandra Rosati, 2014). Tra le sue opere letterarie: il poema Invisibile a me stesso (2002), e il racconto Navarro Waltz, in La qualità dell’aria. Nuovi scrittori italiani (2004). Per agevolare la lettura del testo sono stati eliminati i segni diacritici dai nomi polacchi. Ad esempio: Kieślowski è diventato Kieslowski, Lódz è scritto Lodz. Il Castoro Cinema n. 175 © 2002 viale Abruzzi [email protected] www.castoro-on-line.it

Editrice

Il 72,

Castoro 20131

srl Milano

In copertina: Film rosso eISBN 978 88-8033-867-3 prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. ebook by ePubMATIC.com

sul

diritto

d’autore.

Serafino Murri

Krzysztof Kieslowski

KRZYSZTOF KIESLOWSKI

 

Indice Il profumo dell’aria. Conversazione con Krzysztof Kieslowski Krzysztof Kieslowski, il caso e la necessità La vita in una goccia d’acqua: Kieslowski a Lodz e il documentario sociale Gli anni della sperimentazione: tra drammarturgia e realtà Da Il personale a La cicatrice: anatomia del Potere Verso la vita: l’ultimo ciclo documentaristico con la WFD Da Il cineamatore a Senza fine: la grande stagione del “dubbio dialettico” Il cineamatore (Amator): lo sguardo e la verità (1979) Corpo a corpo tra volontà e destino: Il caso (1981) La Storia e lo “straniamento impossibile”: da Una breve giornata di lavoro (1981) all’incontro con Krzysztof Piesiewicz Amore e morte nella Polonia di Jaruzelski: Senza fine (1984) Decalogo: dieci film sull’indecifrabilità della vita (1989) Decalogo, 1: l’ignoto che appare Decalogo, 2: il mistero della vita Decalogo, 3: breve film sulla solitudine Decalogo, 4: la natura ambigua dell’amore Breve film sull’uccidere - Decalogo, 5: delitto e castigo di una vittima esemplare Breve film sull’amore - Decalogo, 6: l’amore “impuro” Decalogo, 7: l’impotenza ad amare Decalogo, 8: l’“inferno dell’etica” Decalogo, 9: quello che c’è e quello che manca Decalogo, 10: la droga del possesso Da Cannes a Parigi: La doppia vita di Veronica (1991) Tre colori: Blu, Bianco, Rosso. La Rivoluzione Borghese, l’indifferenza e l’amore (1992-94) Film Blu: la morte, la memoria e la libertà Film Bianco: l’impotenza, l’uguaglianza e la vendetta Film Rosso: ascoltare la vita Filmografia Nota bibliografica

Prefazione

L’intervista ormai si è conclusa. Siamo appena tornati ai nostri silenzi, mentre Krzysztof Kieslowski mi guarda: si direbbe piuttosto soddisfatto di aver mantenuto intatta la sua perenne insoddisfazione. Gli occhi celesti, leggermente glaciali, mi fissano da dietro il fumo dell’immancabile, ennesima sigaretta: sembra cercare di capire se c’è ancora dell’altro. Ha risposto con lucidità a tutte le mie domande, con il disincanto di chi ha già riflettuto a lungo su quanto gli viene chiesto. Del resto, come recita il titolo di un’intervista rilasciata da Kieslowski a Tadeusz Sobolewski, uscita su «Film» qualche giorno dopo la nostra conversazione, tutte le domande finiscono per essere sempre le stesse domande. Ma le risposte non sono mai le stesse: come la vita, le risposte crescono, si moltiplicano, cambiano fino a contraddirsi. Kieslowski spesso ha risposto alle mie domande ponendosi ancora altre domande. Non soddisfatto finché non gli sembrava di aver trovato l’espressione giusta, è tornato sulle questioni, pensando a lungo tra una frase e l’altra, molte volte rimettendo in discussione le sue stesse risposte. Ripensare oggi al poco tempo condiviso con Kieslowski fa male. La morte, che si era fatta precedere la scorsa estate da un primo infarto, ha cancellato all’improvviso la presenza di un

uomo dall’intelligenza schiva, lontano anni luce dai cerimoniali della società dello spettacolo. L’annuncio del suo ritiro dall’attività registica a molti è sembrato un coup de théâtre: un personaggio pubblico che dice di “essere stanco” non è credibile, il discorso non quadra, il sospetto che ci sia qualcosa dietro diventa immediatamente certezza. Così, alcuni lo volevano già al lavoro ad una nuova Trilogia sulla Divina Commedia dantesca, altri lo immaginavano, da artista consacrato, sparire dalla scena per qualche tempo in attesa di alzare il proprio prezzo. Kieslowski, invece, aveva avvertito che la vita gli stava sfuggendo di mano. Niente di preordinato: consapevolezza, presentimento, paura, forse, e chissà cos’altro ancora. La sua esistenza, negli ultimi mesi passati nella sua casa di Varsavia prima dell’operazione che l’avrebbe stroncato, è stata fin troppo simile a quella dell’ultimo suo grande personaggio, il giudice di Film Rosso. Un tentativo solitario, incerto, forse tardivo di fermarsi ad aspettare per poter riafferrare la propria vita. Ora mi sembra che quel lungo silenzio in cui Kieslowski, rispondendomi, si fermava a riflettere sulle sue parole, debba durare per sempre. Come se la morte lo avesse colto durante la sua ultima esitazione, l’ultimo tentativo di ascoltarsi per cercare di comprendere, di venire a capo di quel mistero della vita che è stato al centro di tutta la sua opera. Se Kieslowski dichiarava il pessimismo della sua ragione, lo faceva senza perdere quella “speranza che comunicare sia possibile” che nasce dal dialogo costante con le proprie domande, dal filo ininterrotto con le proprie emozioni. In un certo senso, il suo è un cinema senza messaggio, perché tende a precedere il messaggio per esprimere le emozioni ancora inarticolate, e avvicinarsi così a vedere chiaro in quell’intreccio di caso e necessità che è il mondo. Quello dei suoi film è un mondo senza certezze, a cui viene sottratto il punto di vista super partes che accomuna lo sguardo del narratore a quello di Dio. Ma è proprio quest’assenza di certezze a rendere l’atto di vivere grande, meraviglioso. La vita per Kieslowski era già un miracolo inspiegabile, che non ha bisogno dello sguardo di un Dio per manifestarsi. Basta lo sguardo appassionato di un uomo che non smette di farsi domande, per farla emergere in tutta la sua forza. Roma, 13 marzo 1996.

  Lei ha spesso affermato che il suo essere diventato un cineasta è stato un caso, che lei avrebbe voluto fare il regista teatrale. Come nasceva, allora, il suo interesse per il teatro? Sempre per caso. Ma nel momento in cui il caso si è compiuto, in cui lei è diventato un cineasta, il caso è diventato necessità, la necessità di raccontare delle storie, di comunicare… Io più che di necessità parlerei di una speranza, della speranza che comunicare sia possibile. Come pessimista, io non ho molte speranze, ma di tanto in tanto questa speranza affiora nella mia vita. Per quanto riguarda il caso, poi, c’è da dire che da un lato il caso è veramente un caso, dall’altro non lo è affatto. Il caso è qualcosa che bisogna meritare, che bisogna guadagnare con un duro lavoro. Il caso, nella vita, è qualcosa che bisogna saper captare per poterne trarre profitto, bisogna saperne creare le premesse per farlo uscire dal suo stato di potenzialità. È una regola generale, che governa tutte le scelte della nostra vita, quindi anche la mia di occuparmi di cinema. Ciò che sembra costituire il trait-d’union tra i suoi film documentari e quelli di finzione, è la ricerca di una rappresentabilità della vita, un tentativo di “intuizione” del caso, di come vengano a determinarsi gli eventi nella vita di singoli uomini. Da cosa nasce l’esigenza di narrare, di raccontare una storia, sia pure quella del caso? Nasce da un complesso di cose piuttosto articolato. È qualcosa che, per me, è legato soprattutto al profumo dell’aria. Non si tratta dell’astratto bisogno di narrare una storia. È il bisogno di narrare una storia per trovare qualcuno che abbia il bisogno di ascoltarla. Per questo bisogna saper sentire il profumo dell’aria. Per fare del cinema, io devo essere spinto dalla speranza che ci sia qualcuno che fra due o tre anni abbia voglia di ascoltare la mia storia, perché tali sono i tempi produttivi di un film. Quindi non devo pensare solo al profumo dell’aria ora, ma devo immaginare quale profumo avrà tra tre anni. E parlo del profumo perché ciò che deve essere comunicato, per comunicare, si regge su qualcosa di molto delicato, che come l’aria avvolge le persone in un certo periodo storico, ed è un mezzo di comunicazione invisibile. Questo profumo può essere avvertito oppure no, ma è pur sempre ciò che ci consente di comunicare, ed è ciò che ci spinge ad ascoltare e a raccontare delle storie. In questo senso è vero che tra i miei documentari e il film di fiction esiste una continuità, ed è proprio il raccontare una storia, il non fermarsi a descrivere uno stato di cose. Ma per poter capire come sarà il profumo dell’aria tra tre anni, una prospettiva pessimista non basta, ci vuole anche una grossa dose di fiducia e di positività… Bisogna essere soprattutto molto aperti, permeabili, saper analizzare la situazione esistente e trarne in qualche modo le conclusioni per il futuro. Devo confessarle che molto spesso si tratta di una riflessione negativa piuttosto che positiva, in grado di prevedere ciò che la gente non vorrà ascoltare, oppure quale tono non va usato perché la gente lo rifiuterà. In qualche modo bisogna riuscire ad eliminare tutto quello che non potrà essere accettato. È il lavoro del “togliere”, come sosteneva Michelangelo, quello che pertiene all’arte. Ogni storia è di per sé come un blocco di pietra inerte, dal quale occorre togliere tutto ciò che non serve: questo significa soprattutto arrivare a comprendere, vivendo il proprio tempo, il tono che dovrà essere usato. Raccontando una storia, cos’è che vuol comunicare? Le ripeto, se voglio poter comunicare (ed è ciò che voglio) per me è comunque soprattutto una questione di tono, per così dire, del tono di voce con cui dovrà essere narrata la mia storia. La qualità con cui sarà narrata la storia è estremamente importante, perché credo che ogni

artista, così come ogni uomo, in fondo, racconti sempre la stessa storia. Si parla sempre dell’amore, o dell’odio, o della morte; di cose del genere tutti ne parliamo sempre con passione, ma è il tono con cui si narra il vero nocciolo della questione. Io credo che l’uomo abbia sempre avuto bisogno di storie: questo per comprendere meglio se stesso e gli altri, per avvicinarsi al mistero che è la vita, che è lo stare nel mondo. Riproporre i casi della vita è un modo per cercare di comprenderli. Ed è da questa volontà di comprendere che nasce la mia esigenza di raccontare delle storie. È per questo, dunque, che tanto i suoi documentari che i film di finzione hanno spesso la forma di una ricerca, di un’indagine? Sì. Credo di aver girato film in forma di indagine o di domanda perché sono io a volere delle risposte, a voler discutere, a voler parlare. Parlare con la gente per me è fondamentale, in genere io faccio di tutto per scambiare opinioni anche con le persone che non conosco. Questo è il modo più diretto per capire come le persone si allontanano dal proprio tempo, quali sono i nuovi profumi capaci di poter rompere davvero il silenzio. Prendiamo la generazione degli attuali ventenni, una generazione per me estremamente interessante. Per esempio, io ritengo che il Papa usi un tono che non arriva, che non parla assolutamente a questa generazione. Indipendentemente dal fatto che abbia ragione o meno, per comunicare usa un linguaggio inaccettabile per una persona di vent’anni, il linguaggio dei divieti e delle imposizioni. L’autorità, in genere, usa sempre lo stesso linguaggio, lo impone, e gli altri sono costretti a parlarlo. Anche in questo caso, come vede, il comunicare è una questione di tono. Ma esistono alcuni argomenti sui quali lei torna spesso: ad esempio, l’amore… E se ne stupisce? Se faccio film sull’amore (nel senso più lato del termine), è perché non esiste per me una cosa più importante. L’amore, se lo si intende come ciò che spinge verso qualcosa, governa completamente il senso della nostra vita. E del resto, tutti i libri e tutti i film parlano d’amore. O dell’assenza d’amore, che è l’altra faccia dell’amore. Tutto qui. Torniamo al rapporto tra documentario e fiction. Abbiamo parlato dei punti in comune tra i due moduli espressivi. Quali sono, invece, per lei, le maggiori differenze? Innanzitutto, il loro differente livello di verità. Paradossalmente, rispetto al proposito di raccontare una storia è molto più vera, e dunque realistica, la finzione, perché obbliga ad un completo dominio della materia narrata, e non nasconde il fatto che sia il regista a raccontare una storia, a immedesimarsi in un punto di vista. Ogni uomo, quando è osservato, presenta sempre un lato chiaro e uno oscuro: il primo è quello sociale, il secondo è il complesso delle sue sensazioni, dei suoi stati d’animo, dei suoi pensieri. Nel documentario occorre far emergere il lato oscuro attraverso quello chiaro, e il rischio è di fermarsi all’ovvietà, di restare sulla superficie delle cose. E inoltre, è pur sempre il punto di vista del documentarista ad essere imposto su quello di coloro che vengono descritti. Nel film di fiction, invece, posso tentare di narrare direttamente il lato oscuro, quel mistero che ogni uomo porta dentro di sé e che deriva dal suo rapporto unico nei confronti della vita. Voglio dire, ciò che sembrerebbe più artificioso in un film di finzione, e cioè la narrazione attraverso i cosiddetti plot-point, i punti in cui si effettua uno scarto significativo della storia, è per me quanto di più simile ci sia all’andamento di una vita. La costruzione drammaturgica non è una copia della vita, ma ne rispetta le regole fondamentali. E in questo è più vera della presunta verità dell’esperienza diretta documentaristica, e più che mai della cosiddetta “camera nascosta”, che ruba ciò che non è significativo a vedersi, ciò che non è espressivo. I suoi film, sia quelli documentari che quelli di fiction, trattano molto spesso contenuti sociali. Qual è il suo rapporto con l’ideologia, con un punto di vista politico sul mondo? Io non sono un politico, e la mia ambizione non è di organizzare la vita alla gente, questo

non mi interessa assolutamente. Il mio principio è stato sempre quello di evitare di imporre, per quanto è possibile, il mio punto di vista. Lei ha detto giustamente che mi occupo di narrare delle storie, più precisamente di raccontare delle storie attraverso il cinema. Io le ho detto che mi interessa raccontarle per avere un contatto, e soprattutto con i giovani. E sa perché? Perché oggi il 76% del pubblico cinematografico è composto da persone giovani. Evidentemente, allora, se ragiono così mi contraddico, e il mio modo di pensare è molto simile a quello dei politici. Così come un politico cerca il suo potenziale elettorato facendo attenzione alle fasce di età più attive, così io cerco il mio pubblico. Con la differenza che io cerco il mio pubblico per dargli materialmente molto poco, e gli chiedo solo di starmi ad ascoltare. I politici cercano i loro elettori prima perché li votino, e poi, una volta eletti, per organizzargli la vita, per dirgli cosa è buono e cosa è cattivo, per concedere certe cose e vietargliene delle altre. Invece, io cerco il pubblico semplicemente per avere un contatto, per poter porre delle domande. Qui c’è, rispetto al politico, una differenza fondamentale: laddove il cercare un elettorato presenta in sé una grossa componente cinica e di calcolo, perché si istituisce uno scambio per accrescere il proprio potere personale, la ricerca del pubblico è per me del tutto priva di questo aspetto. Perché si tratta sempre, comunque, di una mia storia, che io voglio raccontare, e per far questo io devo istituire un rapporto con i miei spettatori: senza questo rapporto il mio lavoro non ha alcun senso. Però questo rapporto è pur sempre un rapporto a distanza, che implica un contatto virtuale, più che reale: come dire, di queste persone con cui instaura un contatto attraverso i film, lei non può sentire, materialmente, il profumo… Sì, è vero, il mio mestiere, mentre lavoro, non può svolgersi tra il pubblico. Eppure, per essere fatto, deve presupporre un pubblico, non può fare a meno di un pubblico. Il film senza un pubblico è qualcosa di morto, qualcosa che resta rinchiuso in una scatola, e nulla più. La volontà di non condizionare la vita dei suoi spettatori è davvero così assoluta oppure l’approfondimento degli eventi di cui si costituisce l’esistenza è anche un modo per indicare l’esigenza di credere in qualcosa? Personalmente, come regista, se è questo che vuole intendere, non sono assolutamente favorevole ad alcun tipo di ideologia come messaggio. Credo che la gente debba saper prendere posizione nei confronti del mondo, che la cosa più sbagliata sia l’indifferenza. Ma questa posizione non deve essere suggerita dall’alto, altrimenti non ha alcun senso. E il rischio del condizionamento, quando si ha un pubblico così grande come quello cinematografico, è sempre alto. Il mio interesse come cineasta non è rivolto nei confronti di una teoria generale della miglior vita, ma nei confronti degli individui reali. E gli individui reali posseggono già una loro visione del mondo, non hanno bisogno che io gliene suggerisca una. Insomma, il mio pessimismo non mi consente di credere che con il mio lavoro io possa svegliare le coscienze altrui. Questa mia tendenza deriva probabilmente dal fatto che non ritengo che il mio punto di vista sia migliore di quello degli altri, ragion per cui cerco di mantenere sempre aperto lo spazio del dubbio su ogni affermazione che può sembrare perentoria, avvicinando alla mia posizione altre posizioni egualmente plausibili. Ma mi rendo conto che anche questo finisce per essere un punto di vista personale ben determinato. Sono passati più di venticinque anni dai suoi primi documentari, appena terminata la scuola superiore di cinematografia di Lodz. Circa venti dai suoi primi film “di finzione”. La notorietà vera e propria, però, nel suo caso è arrivata molto più tardi. Che rapporto ha, ora, con il suo più o meno recente successo internazionale? Non vorrei usare la parola successo, io non amo questa parola. Comunemente con la parola successo si implicano i soldi che esso procura, una certa posizione sociale, e nulla più. In

questo senso, il discorso sul successo è un discorso triste e privo di interesse. È il discorso di come si soccombe alle leggi economiche che irreggimentano la vita della gente. Ma è un discorso assolutamente poco interessante, perché quando si tratta solo del denaro, si ha l’impressione che non si tratti più di niente. La parola successo, deve riguardare anche e soprattutto il rapporto che si ha con se stessi, come ci si sente, il perché si cerca di raggiungere certi obbiettivi: dunque va usata in un altro senso. Per me il successo è qualcosa a cui si mira, qualcosa che si vuole raggiungere. Una volta compiuta un’esperienza, sorge subito il dubbio: «Hai ottenuto davvero quello che volevi?». In questo senso, allora, io il successo non l’ho raggiunto affatto. Per me, infatti, successo significa soprattutto tranquillità. Io non ho raggiunto la pace rispetto alle mie intenzioni, e so che non la raggiungerò mai: per questo io non sono e non potrò mai essere un uomo di successo. Se è per questo, è stato lei stesso a dimostrare, nel suo film Spokoj (La tranquillità), che la tranquillità personale non può essere raggiunta, che la pace come obbiettivo è una cosa del tutto utopistica. Sì, ma non ha molta importanza il fatto che sia impossibile. Il raggiungimento della pace, di per sé, non è un fatto interessante. L’unica cosa interessante è la strada che si percorre con questo intento, è la volontà di raggiungere, il raggiungimento dell’obbiettivo è del tutto ininfluente. È come se io volessi comprare un orologio, sogno un orologio che non ho, e prima di averlo cerco di immaginarlo, di immaginare come sarà fatto, come starà al mio polso, cosa ne diranno gli altri vedendolo… Ma quando riesco a comprare l’orologio, quasi subito inizio ad usarlo per guardare che ore sono, e a tutto il resto, che per me era tutto, che era il vero motivo per cui desideravo l’orologio, non ci penso più. Dunque, cos’era che volevo? Era più importante la mia volontà di volere di quello stesso orologio. Lavorare stanca, recita il titolo di una raccolta di poesie di Cesare Pavese. Lei, ultimamente, ha dichiarato di essere stanco del lavoro sul set, stanco di fare film, di voler smettere. Ma di cosa è stanco, del mondo che descrive e delle sue contraddizioni, del suo orologio, cioè del cinema, o si tratta di una stanchezza materiale, di fatica? Ma io non sono così stanco, no, non mi sembra che il punto sia questo. È vero che si tratta di un lavoro complicato, di un lavoro che richiede molta fatica, pieno di stress, ma il vero lavoro è nel non cadere nelle trappole che noi stessi ci tendiamo. Qui si tratta di un altro problema. C’è un’ enorme differenza per me tra fare un film e vivere. La mia professione non mi stanca, ma non mi concede la possibilità di una vita normale. Il problema maggiore, quando si gira un film, è che si è costretti a vivere con la mente immersa in un ordine di idee artificiale, in un mondo che non è reale. Anche se si tratta di un mondo creato da me stesso, è comunque un mondo inventato, in cui non esistono i problemi veri, e dove la risoluzione dei problemi veri è funzionale a una migliore realizzazione di quel mondo fittizio che mi sono creato; la finzione, insomma, diviene il motore propulsore per le azioni che si compieranno nella vita reale. E se a questa finzione si dedicano diciotto ore di una giornata, vuol dire che la persona reale cessa di avere una vita propria. È questa la ragione per cui, sollecitato a parlare del futuro, ho fatto certe affermazioni. Affermazioni, tutto qui. E comunque, per me non si tratta di stanchezza, ma della consapevolezza di trovarmi troppo spesso in un luogo che non è quello più giusto per me. È come se ora sentissi il bisogno di ritornare alla vita reale, alla gente reale, ai problemi reali che restano da risolvere, che nella mia vita sono rimasti del tutto sospesi. Nell’arco degli ultimi sette-otto anni ho girato diciassette film. Il che vuol dire che io per sette-otto anni sono vissuto per risolvere i problemi di un mondo fittizio, e ho tralasciato tutto il resto. Ma i problemi reali si creano comunque, perché sono una conseguenza della vita, una vita che io sento di aver abbandonato.

Lei si riferisce anche alla sua vita in Polonia? Oh, no. Io la Polonia non l’ho mai abbandonata, anche se per lavorare, ultimamente, ho trascorso lunghi periodi all’estero. Ho sempre vissuto in Polonia, e continuo a viverci, e non ho nessuna tentazione di vivere altrove. Parliamo dei problemi di questo mondo fittizio che ha assorbito gran parte degli ultimi anni della sua vita. Come costruisce un personaggio, e che rapporti istituisce tra il personaggio da lei creato e l’attore che deve interpretarlo? In primo luogo, con la sceneggiatura, io creo un personaggio inserendolo in una serie di circostanze che ne determinano la necessità di operare delle scelte, di manifestare il proprio carattere. A quel punto cerco di lasciarlo vivere di vita propria, di svilupparne gli aspetti caratteriali in modo da farne emergere il mondo interiore, che è l’unica cosa che mi interessa raccontare. È allora che ha inizio una fase piuttosto laboriosa, quella della ricerca degli attori adatti. Un buon casting è fondamentale. E per casting intendo l’intera troupe, tutti i miei collaboratori, gli assistenti, i tecnici. Tutto ciò è essenziale per trovare il clima giusto in cui lavorare. La mia mira è quella di trovare degli attori la cui personalità confini il più possibile con quella del personaggio che ho creato. Per quanto mi è possibile, cerco di risolvere il problema ancora prima dell’inizio delle riprese. Il lavoro vero e proprio per me consiste nel condurre l’attore verso il personaggio, nel metterlo in grado di estrinsecare i tratti della sua personalità comuni al personaggio. E una volta scelto l’attore, quanta libertà gli lascia nei confronti del personaggio scritto? Gli dò quanta più libertà possibile. Gli lascio anzi una libertà assoluta di vivere il suo personaggio, di appropriarsi delle sue abitudini, dei suoi atteggiamenti, e di contaminarlo con il suo mondo interiore, piuttosto che di imitarlo con le proprie virtù tecniche. Ma tutto questo solo fino al momento di girare. Al momento delle riprese tutto dev’essere definito, stabilito una volta per tutte, chiaro. L’attore può proporre tutte le modifiche che vuole alla sceneggiatura e ai dialoghi finché stiamo cercando insieme il personaggio, ma dopo no. Durante la ripresa voglio che sia rispettato il mio modo di avere sintetizzato questa comune esperienza di ricerca. Lei preordina molto il suo piano di ripresa? Abbastanza, anche se ho bisogno di effettuare più riprese differenti della stessa scena, per avere più possibilità in fase di montaggio. Per me il montaggio fa corpo con le riprese, non è un momento successivo. È la fase terminale delle riprese, alla quale partecipo il più possibile. È per questo che monto il materiale girato la sera, oppure durante il sabato o la domenica, contemporaneamente alla lavorazione del film: per verificare subito tutte le varianti consentite dal materiale girato, e procedere a partire da quella scelta. A volte, dopo il montaggio, mi capita di girare di nuovo scene che mi erano sembrate buone, ma che viste nella loro posizione effettiva nel film, cessano di esserlo. Quindi, diciamo che limita al massimo la cosiddetta fase post-produttiva. A questo proposito, qual è il suo rapporto con la tecnica filmica, e quale rapporto ha con le nuove tecnologie, che stanno modificando sensibilmente il lavoro di post-produzione di un film? Con le nuove tecnologie io non ho alcun rapporto, e non intendo averne. Le nuove tecnologie sono adatte per le esigenze delle nuove generazioni, probabilmente non per quelle della mia, di certo non per me. Tutto ciò di cui ho bisogno per fare un film è una macchina da presa da 35 mm. e una pellicola sufficientemente sensibile. È una questione tattile. Mi piace poter toccare la pellicola, guardarla in controluce, sentirne la consistenza. La digitalizzazione è un altro mondo, un mondo che non mi interessa. Il nastro magnetico, come qualsiasi altra tecnologia, è un mezzo, e in quanto tale, per me, non ha nessuna importanza particolare. Le nuove tecnologie sono più utili, dal mio punto di vista, per l’elaborazione del suono.

E cosa pensa del cosiddetto cinema interattivo? Interattivo? Il film è stato sempre un mezzo interattivo, tutta l’arte è interattiva. Senza interazione, a che serve un film? Un’altra questione è invece tutto quel complesso di attrazioni per cui, soprattutto in America, si usa un criterio statistico, quello dei pulsanti spinti dagli spettatori, per scegliere il finale di un film. Mi chiedo che senso ha il lavoro di un regista se per lui il finale può variare a seconda dei gusti. È come mettere il film alla stregua di un hamburger, dell’hamburger preferito dal pubblico. È un mondo che non mi interessa, così come la manipolazione dell’immagine in post-produzione. Beninteso, io non sono contrario all’uso delle nuove tecnologie da parte di altri registi, ma personalmente non intendo avvalermi dell’apporto della manipolazione dell’immagine digitale. A proposito di altri registi, com’è Kieslowski spettatore cinematografico? A quali registi si sente più vicino, da quali si è sentito più ispirato, più emotivamente toccato? Io sono un pessimo spettatore cinematografico. Non vado mai al cinema, per scelta. Preferisco la lettura, mi piace molto leggere, farmi impressionare dalla forma della scrittura che ritengo la più completa, la più raffinata ed universale, di gran lunga superiore alla forma espressiva che io ho adottato, quella cinematografica. La macchina da presa è un mezzo assolutamente più rozzo della parola scritta, perché penetra poco a fondo nell’interiorità, e si ciba fondamentalmente di ciò che si vede. Ma a me interessa più quello che non si vede. E nella descrizione di ciò che non si vede, la letteratura è infinitamente più sofisticata. I libri, insomma, mi piacciono molto di più dei film. Certo, posso dirle che il film La strada di Fellini è per me uno dei film più importanti che siano mai stati fatti, ma in genere preferisco un buon libro. Del resto, non mi piace dire quali film mi sono piaciuti di più, perché il criterio comparativo mi sa sempre troppo di gara sportiva, di giudizio su chi è il più atleticamente prestante, e questa non è la mia prospettiva di spettatore. C’è un film che non è riuscito mai a realizzare? Sì. Volevo fare un film su qualcuno che ritorna dall’altro mondo, dal mondo della morte. Sul primo uomo che decide di tornare nel mondo dei vivi dopo essere morto. Ma per quanto mi sia sforzato, e ci ho pensato per un anno, non sono riuscito a trovare un motivo sufficientemente convincente per cui questa persona avrebbe dovuto tornare. Del resto, se Romeo non è tornato per Giulietta, non vedo quale altro motivo maggiore dell’amore potrebbe spingere qualcuno a tornare dall’aldilà. Che giudizio ha dei suoi film? È soddisfatto di quello che ha fatto? No, non sono particolarmente soddisfatto. Credo di aver raccontato delle storie, non solo perché questo era il mestiere che mi ero scelto, ma anche per un bisogno irrefrenabile di analizzare la mia vita: da questa analisi è nata l’analisi dei miei personaggi, reali o fittizi che fossero. Credo che non ci sia altro. Per quanto riguarda i miei film, infine, devo dire in tutta sincerità una cosa: nella mia vita credo di aver ricevuto più di quanto mi aspettassi di ricevere. E più di quanto in realtà io valga. (Intervista raccolta a Perugia il 27 aprile 1995, traduzione simultanea di Marzenna Smolenska Mussi)

L’infanzia di Krzysztof Kieslowski, nato a Varsavia il 27 giugno 1941, nel pieno imperversare della guerra, trascorre al seguito dei frequenti spostamenti dei genitori: il padre, ingegnere civile, è affetto da una grave forma di tubercolosi che gli rende quasi impossibile il lavoro, e per questo è costretto a trasferirsi da un sanatorio all’altro del Paese. Sua madre, impiegata, non guadagna abbastanza per mantenere Krzysztof e sua sorella minore, così i due bambini trascorrono spesso lunghi periodi nei cosiddetti preventoria, sanatori gratuiti per bambini a rischio di contagio di tubercolosi, una sorta di colonie permanenti per i bambini delle famiglie meno abbienti, dislocati in piccoli paesini tra le montagne, poco lontano dai sanatori, al di fuori di qualsiasi dimensione cittadina e dei problemi reali della nuova Polonia, dello stato socialista appena nato dalle ceneri del Terzo Reich. È in uno di questi paesini, Sokolowsko, in Bassa Slesia, che nei primi anni Cinquanta Kieslowski, poco meno che adolescente e senza i soldi per l’ingresso, assieme ad un gruppo di amici comincia a “spiare” gli spettacoli del cinema itinerante dai tetti della locale Casa della Cultura, più interessato alla scalata del tetto che non a quel poco che riesce a vedere dello schermo. Gli studi proseguono bene, ma senza grandi entusiasmi: finito il primo ciclo, Kieslowski decide di imparare un mestiere, e prova a frequentare la scuola professionale per pompieri, da dove scappa dopo

pochi mesi, seriamente intenzionato a tornare a studiare. È per un motivo di opportunità economica che i genitori lo iscrivono alla Scuola Superiore per le Tecniche Teatrali di Varsavia: lo zio, preside dell’istituto, è in grado di assicurargli insegnamento e alloggio senza dover pagare la retta. Poco tempo dopo suo padre muore di tubercolosi, a quarantasette anni, dopo quasi venti anni di malattia. Kieslowski in quel momento ha sedici anni. Nella Scuola per le Tecniche Teatrali di Varsavia, dove si diploma in pittura scenografica, ben presto nasce in lui un grande amore per il teatro. Un teatro, quello della Polonia a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, straordinariamente pieno di fermenti, in cui Tadeusz Kantor è già un saldo punto di riferimento; in cui Jerzy Grotowski, attraverso il lavoro laboratoriale del suo gruppo prima ad Opole e poi a Wroclaw dà vita ad una straordinaria stagione d’avanguardia; un teatro in cui, attraverso l’opera dei nuovi registi, cominciano a diffondersi, malgrado la Cortina di Ferro, anche le novità dell’avanguardia occidentale: Ionesco, Beckett, Pinter. Affascinato da questo ambiente, in cui opera con sede stabile e finanziamenti governativi una moltitudine di giovani gruppi di ricerca, Kieslowski decide, una volta lasciata la scuola, di diventare regista teatrale, e di frequentare nel frattempo in qualsiasi modo l’ambiente, anche a costo di lavorare come addetto al guardaroba e aiuto-costumista (di questa esperienza recherà tracce autobiografiche il suo film Il personale del 1975). Secondo la legislazione tuttora vigente in Polonia, per accedere ai corsi superiori di regia teatrale è necessario avere prima conseguito un diploma di laurea. È per questo motivo che la scelta dell’aspirante regista Kieslowski ricade allora sull’istituto più vicino, tematicamente, alla pratica della regia teatrale: la celebre Scuola Superiore di Cinema di Lodz. Ancora una volta, tiene a sottolineare Kieslowski, un puro intervento del caso. Kieslowski sostiene gli esami di ammissione alla Scuola di Cinema di Lodz, la scuola di cinematografia più importante della Polonia, notoriamente molto selettiva, con esiti negativi. Allora si impiega per un anno al Dipartimento della Cultura di Zolibòrz, un sobborgo di Varsavia, e scrive poesie a tempo pieno. L’anno successivo, dopo aver tentato invano per la seconda volta l’ammissione alla Scuola di Lodz, decide di diventare insegnante di Storia dell’Arte e frequenta la scuola di disegno dell’Università di Varsavia, in primo luogo per avere buoni motivi per effettuare il rinvio del servizio militare. Anche la scuola di disegno si rivela ben presto come un inutile ripiego. Così, dopo un anno, Kieslowski decide di abbandonarla. Giunge il momento della precettazione, e Kieslowski, dopo aver chiesto invano una destinazione “pacifica” nell’esercito, dimagrisce di più di venti chili e si presenta di fronte alla Commissione di Leva, disposto a tutto pur di non sottostare alla disciplina militare, sragionando ad arte: come risultato, viene riformato perché trovato affetto da una “schizofrenia duplex” che gli causerebbe una gravissima forma di totale abulia. Qualche giorno dopo, Kieslowski sostiene per la terza volta l’esame di ammissione alla Scuola di Cinema di Lodz. Con la consueta ironia, così ricorda quei giorni il regista: «Una volta, durante un esame precedente, avevo portato [agli esaminatori, n.d.r.] un cortometraggio che avevo girato in 8 mm. Terribile. Assolutamente terribile. Una schifezza presuntuosa. Se qualcuno mi avesse portato qualcosa di simile non l’avrei mai accettata. Quella volta, naturalmente, non mi presero. Scrissi quindi un racconto. Fu forse allora che mi accettarono. Non mi ricordo. (…) Ero un ragazzo piuttosto ingenuo, o forse è meglio dire un uomo, dal momento che avevo più di vent’anni. Ero piuttosto ingenuo e poco brillante. (…) Ricordo che mi chiesero: “Quali sono i mezzi di comunicazione di massa?”. E io risposi, “Il tram, l’autobus, il filobus, l’aeroplano”. Aggiunsi l’aeroplano dopo averci riflettuto. Ero assolutamente convinto che fosse la risposta giusta, ma loro probabilmente hanno pensarono che la domanda fosse così sciocca che avevo risposto in modo sarcastico e non in modo serio, perché questo non sarebbe stato degno di me: rispondere seriamente, dicendo la radio e la televisione, non

sarebbe stato alla mia altezza, così avevo risposto in modo provocatorio. Probabilmente è questo il motivo per cui fui ammesso. Ma io pensavo veramente che il filobus fosse un mezzo di comunicazione di massa.» (Danusia Stok (ed.), Kieslowski racconta Kieslowski, Editrice Il Castoro, Milano, 1998). La vita in una goccia d’acqua: Kieslowski a Lodz e il documentario sociale

Quando nel 1965 Kieslowski entra alla celebre Scuola di Lodz (dove si erano diplomati Wajda e Polanski), trova un ambiente particolarmente ricco di stimoli intellettuali e fermenti artistici: tra gli allievi delle classi superiori alla sua ci sono Jerzy Skolimowski e Krzysztof Zanussi, mentre tra le personalità più carismatiche del corpo insegnante c’è il trentacinquenne Kazimierz Karabasz, uno dei maggiori interpreti di quel singolare genere “documentaristicosociale” nato nella Polonia degli anni Sessanta come esigenza critica nei confronti della monoliticità delle immagini ufficiali del regime. Quasi subito entrato a far parte del gruppo di studenti engagé guidato da Karabasz, da cui erediterà la passione per la forma documentaria, Kieslowski gira a Lodz come allievo regista tre brevi esercitazioni in bianco e nero, in cui appaiono già compiuti alcuni dei tratti fondamentali della sua poetica a venire: Tramwaj (Il tram, 1966), Urzad (L’ufficio, 1966), e Koncert Zyczen (Il concerto dei desideri, 1967). Il tram (fot. 1), il primo cortometraggio “a soggetto” scritto da Kieslowski, si snoda in un’unica, breve situazione: una sorta di piccolo poema visivo in poco più di cinque minuti di ripresa. La scomposizione della realtà nella sua essenza seriale è al centro della seconda prova, L’ufficio (fot. 2), in cui Kieslowski svela già la sua capacità di cogliere gli elementi surreali e grotteschi della mentalità burocratica. Il terzo – ultimo saggio non professionale – è un film di finzione di 17 minuti: Il concerto dei desideri, appunto.

FOT. 1

FOT. 2

Un autobus pieno di ragazzi scalmanati si ferma su un prato accanto ad un lago. I ragazzi cominciano a giocare a calcio, a ridere, a bere. All’improvviso la palla viene calciata lontano, dietro un cespuglio. Uno dei ragazzi corre a recuperarla, e scopre che dietro al cespuglio c’è una giovane coppia. Il ragazzo del pallone resta incantato a guardare la ragazza, e viene distolto solo dal suono del clacson dell’autobus: è giunta l’ora di tornare a casa. Il ragazzo sale sull’autobus, l’autobus parte. La coppia, nel frattempo, raduna le sue cose e si avvia verso casa su una motocicletta. La ragazza siede sulla parte posteriore del sedile. A un tratto, superato

l’autobus, i bagagli le cadono di mano. L’autista si ferma e li raccoglie. Quando i fidanzati tornano indietro per recuperare il bagaglio, l’uomo non vuole renderglielo, a meno che la ragazza non allieti la compagnia della sua presenza. La ragazza ha un attimo di esitazione simile a quello del giovane del pallone, ma alla fine decide di rinunciare al bagaglio e tornare dal suo ragazzo. I ragazzi dell’autobus guardano desolati la coppia allontanarsi in motocicletta.

Nell’esile trama di questo cortometraggio (fot. 3) la realtà è trattata in maniera allusiva: tutto il suo senso si condensa infatti nell’attimo infinito dell’esitazione, nell’impaccio della scelta obbligata. La descrizione dei sentimenti e dei rapporti psicologici tra i personaggi, benché stilizzata, è già perfettamente compenetrata al meccanismo strutturale del film, alle sue ricorrenze analogiche. L’attenzione registica è rivolta allo sviluppo dei processi interiori piuttosto che alla vicenda; quest’attenzione, seppure espressa ancora molto ingenuamente, rivela l’insofferenza di Kieslowski per il procedimento diegetico del racconto, pretesto per l’espressione d’altro. È proprio l’idea di un’insufficienza del racconto come procedimento induttivo di un senso morale della storia a spingere il ventiseienne Kieslowski in una direzione opposta a quella della “finzione”, fino a giungere alla decisione, maturata nel terzo anno di corso, di dedicarsi interamente all’attività documentaristica. Il procedimento deduttivo del documentario, il suo operare un ravvicinamento micrologico alla vita reale attingendo da essa la “drammaticità”, sembra offrire a Kieslowski quella compenetrazione di oggettività delle immagini e soggettività della visione che costituisce il punto di partenza della sua ricerca personale. Piuttosto che insufflare una tesi nella realtà rendendola “oggettiva” (procedimento tipico della cultura propagandistica contro cui il giovane Kieslowski scaglia i propri strali), Kieslowski sembra al contrario voler sottrarre alla realtà la sua presunta oggettività per dimostrarne la sua «assenza di conclusione, il suo contemporaneo ordine e caos» (Dramaturgia rzeczywistosci, estratto del saggio di diploma di Kieslowski a Lodz, pubblicato in Film na swiecie, n. 388-389, 1992, tr. it. in «Panta cinema», n. 13, agosto 1994). Nel documentario Kieslowski si sforza insomma di individuare un raccordo tra la realtà fattuale e l’espressione per immagini del modo individuale di pensarla, le quali confluiscono in una comune indefinibilità, in direzione contraria di quell’univocità che assimila la “finzione” alla propaganda. L’utopia è quella di mostrare gli eventi nell’unica prospettiva vera perché parziale, quella “irrimediabile singolarità” che Sartre ha definito «universale singolare».

FOT. 3

Kieslowski si affaccia al cinema, alla fine degli anni Sessanta, quando la segreteria del Partito Unitario dei Lavoratori Polacchi è tenuta da Wladislaw Gomulka. Gomulka era stato eletto nel 1956, dopo il Ventesimo Congresso del PCUS, sulla scia del rinovvamento krusceviano. Dunque, la tendenza della sua politica culturale è sempre stata quella del cosiddetto “disgelo”. Alle scuole di formazione e ai gruppi di produzione cinematografica viene infatti garantita dal Partito una discreta autonomia gestionale, ma soprattutto, in assenza di istanze produttive commerciali, agli autori è data anche una certa libertà nella scelta dei soggetti dei film. È stato grazie a tale anomalia produttiva che ha potuto svilupparsi, sulla scia

delle opere di Karabasz, quel genere documentaristico a cui anche Kieslowski fa riferimento: si tratta per lo più di cortometraggi a soggetto sociale e di attualità, proiettati nei cinema di prima visione abbinati a lungometraggi di finzione. Lo Stato assolve attraverso la WFD (Witwornia Filmow Dokumentalnych, Casa Produttrice del Film Documentario) le spese produttive, e ne effettua conseguentemente anche la “supervisione” ideologica attraverso l’Ufficio di Censura. Ciò nonostante, come tiene a sottolineare Kieslowski, la maggior parte di queste opere è estremamente critica nei confronti del modello di vita socialista, ed era volta a mettere in luce le contraddizioni in cui si aggirava la vita degli uomini comuni, del proletariato urbano innanzitutto, rendendo visibile l’abisso quotidiano tra i principi dello Stato e la loro attuazione pratica. «Quello della censura era un periodo straordinario sotto certi aspetti,» – ha affermato Kieslowski in un recente seminario in Italia – «perché ci forzava a trasmettere la nostra inquietudine ideologica in modo non schematico. La censura non ha un’anima: la censura è un ufficio statale che segue un regolamento conosciuto da tutti. Più la censura si fa forte e più si diventa bravi ad aggirarla: il problema non sono gli ostacoli, è la capacità di superarli. Per noi era molto più interessante lavorare con la censura che senza, anzi, proprio nella censura era riposto il senso più profondo del nostro lavoro. E poi esiste un altro tipo di censura, che non ha regole scritte, una censura che ha solo regole implicite e ricattatorie: quella produttiva privata, per esempio quella americana. A quella censura non si sfugge, non esiste alcun modo per evitarla». L’ufficio di censura poteva agire preventivamente sul soggetto di un documentario meno di quanto potesse sulla sceneggiatura “di finzione”. Si apriva così una prospettiva simbolica, che Kieslowski ha definito «riprendere la vita in una goccia d’acqua»: un evento minimale, una “goccia d’acqua”, contiene in sé nella stessa proporzione gli elementi di cui è composto il mare. Dunque, non è una piccola parte del mare, ma un “mare in piccolo”. Così la vita della gente comune tratteggia la condizione umana di un’intera società. Nel 1968, ancora studente, Kieslowski realizza a Lodz per la televisione polacca il suo primo documentario professionale: Zdjecie (La fotografia), in 16 mm, bianco e nero. L’idea nasce da una fotografia (fot. 4) del 1945 che un giorno Karabasz aveva mostrato a Kieslowski. Due bambini uno di quattro l’altro di sei anni, vestiti di stracci, armati di fucile, con dei berretti dell’esercito polacco in testa sorridevano timidamente verso l’obbiettivo dal cortile di una casa di via Brzeska, nel quartiere Praga di Varsavia appena liberato dai sovietici, mentre nel resto della città erano ancora in corso i combattimenti. In poco più di mezz’ora di film, Kieslowski si mette davanti alla macchina da presa sulle tracce dei due bambini di un tempo: torna sul posto, intervista i passanti, finché non trova alcune persone che li riconoscono. Saputi i nomi, il regista va all’anagrafe, dove riesce a fatica ad averne l’indirizzo. Giunto a casa loro, Kieslowski riesce a filmare con straordinaria compiutezza dapprima la commozione dei due uomini al momento del riconoscimento della fotografia; poi, il loro imbarazzo di fronte all’avvertita presenza della macchina da presa.

FOT. 4

Nel frattempo, una rivoluzione culturale alla rovescia, culminata nella purga degli intellettuali ebrei dai ruoli di responsabilità nel paese, pilotata dal ministro della difesa e capo dei servizi segreti, il generale Moczar, stravolse in Polonia il senso del ’68, che si era aperto con le dimostrazioni studentesche in appoggio ad una sorta di primavera polacca guidata da alcuni dei maggiori intellettuali dell’epoca. Anche la scuola di cinematografia di Lodz fu investita da questo processo, e molti dei suoi insegnanti furono costretti ad abbandonare l’incarico perché ebrei. Per sbarazzarsi delle conseguenti proteste studentesche (a cui partecipò anche Kieslowski), gli uomini di Moczar strumentalizzarono a Lodz le frange più estremistiche del movimento, e appoggiarono una nuova ondata di insegnanti e di allievi, tipici fautori dell’“immaginazione al potere”, e convinti sostenitori del cosiddetto cinema sperimentale. Racconta ironicamente Kieslowski: «(…) facevano dei fori sulla pellicola o sistemavano la macchina da presa per ore in un angolo, filmando casualmente quello che passava, o graffiavano i fotogrammi del film e così via. Le autorità totalitarie sostengono sempre i movimenti di questo tipo, se questo può distruggerne un altro » (Kieslowski racconta Kieslowski, cit.). Ad essere messa completamente in discussione, in maniera più o meno cosciente, non era soltanto la “vecchia” forma cinematografica, ma anche quei valori sociali e contenutistici di cui si faceva portatrice, in nome di una velleitaria purezza artistica. Una piccola controrivoluzione culturale impregnata di una ricerca formale dal sapore protoavanguardistico, in grado di attrarre con la retorica giovanilista le energie più anarcoidi degli studenti e di veicolarle verso l’intransigenza: quella stessa intransigenza che gli uomini del generale Moczar avevano esercitato nei confronti della protesta degli intellettuali sotto forma di antisionismo, nella cui rete cadde allora gran parte dell’opinione pubblica. I gruppi autonomi di produzione cinematografica, che avevano consentito l’esordio della maggior parte dei nuovi registi, furono resi inoperanti dal Partito, che strinse anche il controllo sugli enti di produzione governativa. Nonostante questo, la generazione dei “documentaristi” a cui apparteneva Kieslowski aveva ormai già cominciato a lavorare “nell’ufficialità” con la WFD. In questo periodo Kieslowski sta frequentando il suo ultimo anno di corso, e vive a Lodz con la moglie Marysia, che ha appena sposato, in un monolocale all’attico generalmente usato come lavanderia di un palazzo, diviso a metà con il collega Andrzej Titkow. Tra le difficoltà economiche, il regista scrive il soggetto del suo saggio di diploma, in cui ha come assistente didattico Karabasz: il risultato è un documentario in bianco e nero di diciassette minuti (fot. 5, 6), prodotto dalla WFD, dal titolo Dalla città di Lodz (Z miasta Lodzi).

FOT. 5

FOT. 6

Mutatis mutandis, il film si presenta come una sorta di À propos de Nice di Vigo che ha come oggetto il proletariato polacco. Laddove nelle immagini di Vigo veniva messa a nudo con sarcasmo la spensierata staticità dell’alta borghesia sul litorale più in voga dell’epoca, sintetizzata nelle immagini feroci del Carnevale, nelle immagini di Kieslowski il povero fervore della vita dei cittadini di Lodz diviene oggetto di una divertita, innamorata empatia, sintetizzata dalla squinternata orchestrina da balera: non c’è compassione, né tristezza in questa povertà sempre in bilico sul baratro dello squallore, semmai c’è una divertita partecipazione a questo rumore per nulla, una forma di istintiva solidarietà del regista per la spontaneità delle opinioni delle operaie della fabbrica, e l’amore per la poesia della vita al di là delle condizioni sociali, come dimostrano le bellissime immagini con focale lunga dei bambini che giocano, supplendo la mancanza reale con la fantasia. Nel 1969 Kieslowski, appena diplomato, gira in forma anonima per una cooperativa cinematografica di Varsavia alcuni spot commerciali di cui non si ha più traccia, uno su una cooperativa di orologiai di Lublino, l’altro su una conceria di pelli. Nel 1970 arriva finalmente l’assunzione alla WFD con la qualifica di “assistente alla regia”: qualifica di comodo, attraverso la quale registi professionisti venivano assunti con un trattamento economico inferiore a quello sindacale. A Varsavia operavano tre case di produzione cinematografica: la televisione, la WFD e la Czolowka, specializzata in documentari e in film di argomento militare. Prima di cominciare a lavorare per la WFD, Kieslowski realizza per la Czolowka un documentario in bianco e nero in sedici millimetri, dal titolo Bylem zolnierzem (Io ero un soldato). Senza intenti celebrativi, il film raccoglie in una sorta di contrappunto visivo i ricordi, le impressioni, le nostalgie, i desideri e i sogni di due ex-combattenti dell’esercito polacco che hanno perso entrambi la vista durante la Seconda Guerra Mondiale. Nonostante l’argomento, l’impressione che se ne ricava è tutt’altro che pietistica. Il documentario successivo (fot. 7), girato nel 1969, pronto nel 1970 e proiettato per la prima volta solo l’anno successivo, è Fabrika (La fabbrica), il primo cortometraggio di Kieslowski prodotto dalla WFD.

FOT. 7

A ritardare la diffusione del film, l’argomento eminentemente politico: in un montaggio alternato piuttosto serrato si intrecciano le immagini di una giornata di lavoro degli operai della

fabbrica metalmeccanica Ursus di Varsavia a quelle di una convulsa riunione del consiglio direttivo della stessa, in cui è all’ordine del giorno la discussione sul deficit dell’azienda e sulla conseguente impossibilità di “ridistribuire le quote”: in altri termini, di pagare gli operai. Il motivo principale della crisi è l’obsolescenza delle apparecchiature, la cui sostituzione è rallentata dagli ostacoli burocratici (licenze, delibere, riunioni dei vari consigli, ecc.). L’atto d’accusa è chiaro e forte, anche se mai pronunciato esplicitamente. Potrebbe sembrare strano, ma uno dei tratti distintivi dei documentari del primo Kieslowski è l’aver puntato la sua attenzione principalmente sul proletariato industriale, soggetto molto poco diffuso a quei tempi a causa dell’immediato controllo operato dall’Ufficio di Censura sull’argomento. D’altra parte, la nuova classe emergente non corrispondeva già più alla vecchia idea del proletariato. Il nuovo soggetto sociale (anche cinematografico) della vita socialista, era molto più complesso e indefinibile, semmai vicino a quello che nel “blocco capitalista” è definibile come intelligencija borghese, tanto nelle ambizioni che nello stile di vita. Cercare la verità della vita (moto propulsore della poetica del Kieslowski documentarista) prendendo in esame l’antico, ormai retorico “soggetto collettivo”, significava per Kieslowski lavorare per riportarlo entro i termini di una non negata dimensione di classe, ma di una classe consapevolmente composta da singoli uomini, con le loro differenti esigenze e sensibilità, prima di tutto inalienabilmente se stessi. In un certo senso, questo significava essere distanti tanto dalle certezze del Partito, quanto da quelle dell’opposizione che in quegli anni si andava formando, e che riproponeva un modello complessivo della società ricalcato su quello occidentale alternativo a quello del Partito Unico. È da questa prospettiva politica isolata e problematica che Kieslowski realizza, insieme a Tomasz Zygadlo, Wojciech Wisniewski e altri, il film con cui avranno inizio le sue traversie con la “committenza” governativa (fot. 8, 9): Robotnicy ’71: nic o nas bez nas (Operai ’71: nulla su di noi senza di noi). Il lungo documentario (quasi 50 minuti) in bianco e nero, girato durante gli scioperi divampati nei cantieri Lenin di Danzica nel dicembre del 1970 in occasione dell’entrata in vigore del nuovo regime fiscale adottato da Gomulka, è forse il film più esplicitamente politico mai girato da Kieslowski. L’idea di fondo del capitolo Le teste anticipa di qualche anno l’idea di Gadajace Glowy (Le teste parlanti), mentre il contrappunto tra le convulse riunioni dei consigli di fabbrica e le silenziose immagini delle mani nel capitolo Le mani riprende lo schema di Fabrika, ponendo in contrasto la complicatezza dei problemi di autodeterminazione democratica degli operai e la muta e immutabile testimonianza del loro lavoro, la loro vera identità, la traccia della fatica sulle loro mani. Le ambizioni di rinnovamento delle “teste” operaie, concrete e decise, lontane dai rassicuranti slogan del Partito, fecero squillare in fretta il campanello d’allarme della Censura. In sede di montaggio, il film fu mutilato dai tagli. Ma un episodio ancora più grave modificò sensibilmente l’atteggiamento di Kieslowski nei confronti della sua “ricerca della verità”. Durante il montaggio, la polizia si appropriò dei rulli relativi ai disordini di Danzica del 1970, per poi restituirli il giorno successivo. Kieslowski fu trasformato suo malgrado in delatore, e la polizia ebbe modo di esaminare alla moviola anche le immagini non destinate alla pubblicazione, estremamente compromettenti per alcuni degli operai intervistati. Alla fine, Robotnicy ’71 fu tolto dalla circolazione, e mostrato semiclandestinamente nel 1972 in circuiti di distribuzione alternativa. Solo qualche anno più tardi la televisione lo manderà in onda, senza specificare il nome dei registi, con il titolo modificato in I padroni (Gospodarze).

FOT. 8

FOT. 9

Nel 1972 Kieslowski gira due “film su commissione”, prodotti a scopo (se così si può dire) pubblicitario dalla WFD e dalle miniere di rame di Lubin: si tratta di due cortometraggi su un identico tema, la vita dei minatori. Il primo (fot. 10), Miedzy Wroclawiem a Zielona Gora (Tra Wroclaw e Zielona Gora), descrive brevi scorci della vita di un giovane operaio della miniera, narrati in prima persona attraverso la lettura di una lettera; il secondo (fot. 11), Podstawy BHP w kopalni miedzi (Le norme di sicurezza e di igiene nella miniera di rame), è un excursus sulla vita dei lavoratori della miniera. Si tratta dei primi film girati interamente a colori da Kieslowski. Sempre nel 1972, Kieslowski recupera la sua ironia surreale nella scrittura di un piccolo gioiello (poco più di dieci minuti) in bianco e nero, una straniata sinfonia sulla serialità sociale della morte e della vita (fot. 12) che ha per titolo Refren (Ritornello). L’immediata riduzione in numeri d’ordine, collocazioni topologiche e altre simili classificazioni burocratiche dei defunti, di fronte al dramma interiore vissuto dai parenti, è orchestrata da Kieslowski come un piccolo concerto all’interno di un’agenzia (statale) di pompe funebri, i cui monocordi impiegati sono gli unici volti di persona, abbrutiti nel meccanismo della ripetizione come laidi metronomi, che ci è consentito vedere per tutta la durata del film. L’anonimia degli avventori, di cui avvertiamo solo le voci che ricostruiscono con evidente emozione le generalità dei loro congiunti, si intreccia con quella della folla di passanti che passano davanti alle finestre: tutti potenziali utenti dei “servizi” dell’agenzia. Un’immagine statica, poi, chiude a ritroso la “ciclicità” del film. Nel nido del reparto di ostetricia di un ospedale, sulle gambe dei neonati vengono applicate delle fascette su cui è scritto il numero dell’atto di nascita: con l’assegnazione di un numero la vita viene sottratta all’entropia prenatale e resa inconfutabilmente dato sociale. Come quello della morte, anche il fenomeno della nascita è ridotto alla normalità di un atto amministrativo. Identificate dal loro numeretto, queste vite cariche di futuro sono pronte per diventare altre note senza nome del paradossale ritornello di questa sonatina burocratica dell’esistenza.

FOT. 10

FOT. 11

FOT. 12

Gli anni della sperimentazione: tra drammaturgia e realtà

L’inizio degli anni Settanta per Kieslowski è da una parte un periodo di ricerca di un’autonomia produttiva, dall’altra il momento di massima esplorazione del terreno teorico ritagliato dalle proprie idee sperimentali sulla “drammaturgia della realtà”. Dopo il fallimento del progetto di fondare una società di produzione indipendente assieme ai documentaristi Jurga e Wojciechowski, nel 1972 il regista entra a far parte del gruppo di produzione indipendente Tor (Binario), diretto da Krzysztof Zanussi. L’evento segna una svolta nel suo percorso artistico, poiché sarà attraverso il gruppo Tor che Kieslowski avrà modo di mettere a fuoco gradualmente l’altra faccia della sua programmatica “drammaturgia della realtà”: quella rivolta al rinnovamento della narrazione, alla sperimentazione di nuovi moduli espressivi nei film di finzione. Se fino a Refren aveva focalizzato la sua attenzione sul proletariato, mettendo in scena una sorta di affresco di un’epoca, dopo gli interventi della censura e della polizia su Robotnicy ’71 Kieslowski impone un capovolgimento di prospettiva alla sua prassi cinematografica. Il compito primario del regista diventa ora quello di recuperare all’uomo sociale senza più volto descritto in Refren quanto di più intangibilmente personale gli resta: i suoi sentimenti, le sue emozioni. Kieslowski passa così dall’affresco al ritratto, avvicina lo sguardo della macchina da presa alla vita degli uomini mettendoli in condizione di parlare di sé, spingendosi con loro alla

ricerca della verità personale. Ma i cambiamenti non si fermano al solo livello contenutistico. Con uno scarto ancora maggiore sul piano formale, Kieslowski tenta di rompere le barriere tra documento e finzione sperimentando la forma del drama-documentary, in cui alcuni degli elementi di una storia vera sono sotto il diretto controllo del regista. La ragione di questa scelta è duplice. Da una parte, un’istanza etica: il fatto di prevedere gli eventi come se si trattasse di un film di finzione investe di maggiore responsabilità il regista e deresponsabilizza i singoli protagonisti, ponendoli su un piano in cui divengono semplici attori della propria vita. Dall’altra, un’istanza estetica: la chiave di accesso di Kieslowski al film di finzione sperimentale è la ricostruzione dell’interiorità dei personaggi attraverso la costellazione di eventi “esteriori” su cui si basa il drama-documentary. L’obbiettivo è una forma narrativa dialettica, mai riducibile all’univocità di un dramma a tesi. È nel 1973 che Kieslowski impone una prima svolta in questa direzione alla sua produzione, realizzando a pochi mesi di distanza il suo primo drama-documentary, Murarz (Il muratore), a colori, e il suo primo cortometraggio professionale di finzione prodotto dalla televisione polacca, Przejscie podziemne (Il sottopassaggio pedonale). La parabola della disillusione attraverso il ricordo è il tema di Il muratore, storia di Jozes Malesa, muratore di 45 anni di Varsavia, ex-attivista del partito che ha scelto di rinunciare alla carriera per ritirarsi a vita privata dopo gli avvenimenti conseguenti l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Il periodo della guerra e della resistenza, le speranze e le illusioni adolescenziali condivise con la donna che diventerà sua moglie, che pian piano lasciano posto alle certezze e agli slogan del Partito, sono ripercorse dalla pacata voce fuori campo di Jozes, mentre assistiamo in tempo reale a scene di vita quotidiana in famiglia. Successivamente, i ricordi politici sono associati alle immagini di un lungo inseguimento ravvicinato dell’uomo, che attraversa a piedi e in tram la città per recarsi ai festeggiamenti del primo maggio. Jozes lamenta la graduale contaminazione dell’idea comunista con una mentalità di potere ricalcata sul modello occidentale, a cui facevano da pendant la moda hooligan dei giovani ribelli, e la diffusione della Coca-Cola, odiato simbolo dell’onnipotenza del capitale. L’utopia che cade a pezzi sotto i colpi delle piccole (in)certezze quotidiane è raccontata sulle immagini venate di sottile surrealtà di un vecchio militante del Partito che cammina per la strada con un’enorme rosa di carta gialla tra le mani, epifania improvvisa, correlativo oggettivo che fissa la sensazione di fragilità a cui le parole fuori campo alludono. Finalmente, mentre lo vediamo raggiungere i suoi compagni alle celebrazioni, Jozes parla del crollo della sua utopia politica: trasformato da attivista del Partito in uno scartabellante impiegato di una sezione periferica, ha improvvisamente deciso di tornare indietro, di rifugiarsi in se stesso, nel mondo degli affetti, nel suo antico lavoro. Sfilano nel silenzio, viste a volo d’uccello dai tetti di Varsavia, case e strade che Jozes conosce bene, avendone partecipato alla costruzione: nel suo lavoro di muratore, nei colori dei cantieri, nell’odore della calce e in quei mattoni che con le sue mani ha posto tra gli altri mattoni nelle mura degli efidici, che ora quasi gli sembra di riconoscere passandoci accanto, quest’uomo ha rovesciato tutto il senso della sua utopia: costruire per gli altri, per quelli che verranno, qualcosa di concreto, migliorare la vita con gesti anonimi e senza retorica.

Esordire come regista di un film di fiction all’inizio degli anni Settanta in Polonia non doveva essere impresa da poco. Un ufficio del Ministero delle Arti era preposto al compito specifico di valutare, a partire dal curriculum dell’aspirante, se questo fosse sufficientemente qualificato per assumersi in pieno le responsabilità del caso, prima fra tutte quella di rientrare nei costi previsti dal progetto da presentare al Ministero del Tesoro. Scritto insieme allo sceneggiatore e drammaturgo Ireneusz Iredynski a partire da un soggetto di Kieslowski, Przejscie Podziemne è un film interamente costruito sull’unità di luogo e di tempo: la sua esile, lampeggiante vicenda si svolge infatti nell’arco di una sola notte, in un grande sottopassaggio di nuova costruzione del centro di Varsavia. Girato in bianco e nero, per lo più con una piccola cinepresa a spalla (che utilizzava rulli senza sonoro da quattro minuti ciascuno), il film risente talvolta del gusto impressionistico del documentarista, del suo amore per l’osservazione di fenomeni improvvisi e fugaci che fanno da contorno alla storia narrata (scene di vita nel sottopassaggio, il traffico automobilistico che scorre e segna il trascorrere del tempo). Con una forma narrativa spezzata, – che ricorda la contemporanea sperimentazione della nouvelle vague e soprattutto di Godard, ma anche, nel gelo dei rapporti umani, il primissimo, autoprodotto

Fassbinder – Kieslowski inserisce nel suo film molte scene improvvisate, che rivelano la labilità della situazione. Le scene recitate sono dirette in modo da lasciare all’attore moltissimo spazio interpretativo (al limite della pura improvvisazione, per intenderci, del Cassavetes di Faces) nei confronti della (volutamente) esigua traccia dello script. In un periodo di “New Deal” polacco e di valori pratici positivi e consumistici sviluppato dal governo delle riforme del premier Gierek, in quest’atmosfera di artificioso benessere e di immotivato mito del successo, la perplessità di fronte all’assenza di certezze fondanti propria di Kieslowski era una voce stonata: uno sguardo sperduto e interrogativo alla ricerca di un senso da trovare altrove, nelle esperienze più estreme, più forti e basilari della vita, in quelle condizioni che, da sole, sono in grado di gettare la luce del senso sul vuoto determinato dall’effimero della Storia. È nell’ambito di questa linea di ricerca, strettamente legata alla propria esperienza del mondo, che possono essere collocati i due documentari successivi, realizzati nel 1974: Przeswietlenie (La radiografia) e Pierwsza milosc (Il primo amore). La radiografia (fot. 13) è una sorta di tributo di Kieslowski alla figura di suo padre: girato nel sanatorio in cui l’uomo è morto di tubercolosi, il film è una breve, quasi sussurrata indagine, che, come sembra ricordare il titolo, vuole penetrare al di là dell’aspetto esteriore dei corpi, verso ciò che, metaforicamente, si è sviluppato dentro ai malati assieme alla malattia. Un tentativo postumo di comprensione, un dialogo impossibile, per interposta persona, con la ormai lontana e impronunciabile sofferenza paterna. Tutto il film è costruito sull’accostamento dei due mali invisibili che si sviluppano nel corpo di questi uomini, sul senso di attaccamento alla vita di coloro che vedono allontanarsi sempre di più la possibilità di un’esistenza normale, e che vivono la dissociazione tra la coscienza adulta di essere minati dal cambiamento irreversibile della malattia e l’infantile, illogica speranza che tutto possa passare. Kieslowski, con La radiografia, cerca di filmare la visibilità della morte, il suo essere vissuta in quell’interregno abissale in cui vaga la coscienza di chi è costretto ad accettare l’idea, repellente alla ragione, del proprio ritorno al nulla.

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All’esperienza segnante e fondamentale della morte nello stesso anno Kieslowski affianca quella, altrettanto straordinaria, della nascita. L’esserci improvviso della vita, il suo silenzioso crescere e modificare con la promessa della propria presenza tutto ciò che vive attorno, è il nucleo tematico di Il primo amore, film girato in 16 millimetri per la Tv polacca, forse l’opera in cui Kieslowski ha spinto di più la forma del drama-documentary verso il suo limite estremo, dove la realtà immediata, colta sul nascere, e la realtà condizionata dall’intervento registico cessano di avere un confine certo. L’idea di Kieslowski è che la verità sia qualcosa di più di quello che accade, di ciò che si può dedurre da un’osservazione, per quanto attenta, degli eventi nel tempo. In Il primo amore non è la moltitudine di episodi minimali, inevitabilmente condizionati dalla costante presenza della troupe (peraltro resa manifesta dalla visibilità in campo dei microfoni e dall’assenza di stacchi di montaggio interni alle scene), a fornire la materia della “verità” del film. Eliminando la finta immediatezza da candid camera che ha

sempre detestato, Kieslowski organizza per circa un anno le riprese di tutte quelle situazioni che comunque i due protagonisti avrebbero affrontato nel loro stato di necessità: si insinua con pazienza tra gli eventi, per cogliere di sorpresa, in una frastagliata serie di appunti visivi, l’emozionante pienezza delle loro reazioni, e giungere ad un montaggio di tutti i momenti della vita interiore che emergono oltre la superficie dei fatti. L’idea su cui si fonda il film è semplice: riprendere giorno per giorno la vita di Romek e Jadzia, due adolescenti di Varsavia, còlti di sorpresa da una gravidanza che decidono di portare avanti ad ogni costo. In 30 minuti, Kieslowski disegna la sintesi di un anno della loro vita, sei mesi di gravidanza in mezzo a innumerevoli traversìe economiche, l’avversione della società benpensante, l’inutile affanno del ragazzo per procurarsi un lavoro e farsi assegnare una casa dall’ente statale per le case popolari, fino al filmato del matrimonio e della nascita in ospedale della figlia Ewa, frutto di questo Primo amore. Il filo conduttore è la progressiva modificazione dell’intimità affettiva tra Romek e Jadzia, l’intreccio di legami sottili che affiorano tra una parola e l’altra, tra uno sguardo e l’altro, che fanno tutt’uno con l’imminenza di quella vita ancora sconosciuta che Jadzia porta in sé. La condizione dei due ragazzi, per il regista, è già talmente forte e immediatamente drammatica da riuscire da sola a sostenere tutto il senso del film: «(…) è l’idea della pasta che lievita. Se si mette l’impasto in un forno, cresce da solo anche se non ce ne curiamo più. In questo caso pensai alla pancia di una donna incinta che guardiamo crescere» (Kieslowski racconta Kieslowski, cit.). A fronte dell’inaspettato successo televisivo di Il primo amore, Kieslowski ha tentato di oltrepassare le Colonne d’Ercole del limite cronologico delle riprese di un film: impresa audace, immaginabile forse solo in un sistema di finanziamenti pubblici a fondo perduto come quello polacco. Il regista è riuscito infatti a farsi approvare dalla Tv Polacca un progetto di riprese a tempo indeterminato, che avrebbe dovuto coronare l’antica ambizione di filmare la vita nel suo sviluppo naturale. Il nome del progetto, ricalcato su quello della figlia di Romek e Jadzia era Ewa-Ewunia (letteralmente, Eva-Evuccia). Si trattava di riprendere la vita della bambina dal momento della sua nascita a quello in cui avrebbe avuto a sua volta il primo figlio: un grande, esaltante gioco con il caso, con l’ignoto, con il futuro, con l’incondizionabilità della vita. Ma, dopo le prime riprese, il regista scopre che la realtà gli avrebbe a poco a poco falsificato il progetto. Nei quattro anni di riprese, infatti, Romek e Jadzia avevano cominciato a comportarsi come interpreti del film della loro vita, di cui Kieslowski diventava involontariamente regista, secondo lo standard dell’ottimismo di facciata contro cui l’indagine dell’autore era rivolta. Il delicato punto di passaggio rappresentato da Il primo amore e dal fallimento del progetto Ewa-Ewunia è il primo passo di Kieslowski verso il cinema di finzione. È tempo di passare definitivamente al cinema di finzione. Dall’osservazione diretta della realtà, egli passerà ora infatti al metodo di laboratorio, lo stesso utilizzato dai fisici nucleari: ricreare in una struttura costruita per lo scopo le condizioni ideali per cui le particelle della vita possano mostrare la loro processualità, che, al di là della loro consistenza transitoria, è l’unica verità dell’esistenza. Da Il personale a La cicatrice: anatomia del Potere

Personnel (Il personale), girato in 16 millimetri per la Tv polacca nel 1975 (fot. 14), nasce sulla carta come passo successivo di quel cammino obbligato verso il lungometraggio a cui erano sottoposti i registi considerati principianti, cammino intrapreso da Kieslowski con Il sottopassaggio. Ma durante la lavorazione il mediometraggio previsto assume dimensioni sempre maggiori, fino a divenire un grande esperimento sui confini della narrabilità che oltrepassa i limiti del film televisivo, ma che ancora non sa né vuole essere canonicamente un film di finzione. Kieslowski non è ancora convinto che la strada maestra sia quella della narrazione, e nutre nei confronti dell’opera di fantasia una sorta di sacra diffidenza che lo

accompagnerà per tutto il corso della sua storia registica. Il personale prende spunto dalla rivisitazione di un dato autobiografico: la figura del giovane protagonista (fot. 15), il sarto teatrale Romek (interpretato dall’allora studente di regia, poi affermato regista Juliusz Machulski), somiglia a quella del giovane neodiplomato scenotecnico Kieslowski, addetto al guardaroba del Teatro Contemporaneo (Teatr Wspòlczesny) di Varsavia, che pur di stare a stretto contatto con il mondo che sogna essere il suo, a contatto con gli attori che ama, è felice di «passargli i pantaloni, lavargli i calzini, e cose di questo genere» (Kieslowski racconta Kieslowski, cit.). Stilisticamente, con Personnel ci troviamo di fronte ad un’opera sospesa tra la forza delle immagini del Kieslowski successivo, e quell’immediatezza della registrazione del gossip a tema e di tutte le forme immediate e anti-attoriali di espressione utilizzate dal regista per la direzione dei suoi drama-documentaries. Ma il passo avanti rispetto alla “prima prova” registica de Il sottopassaggio è immediatamente evidente: non è più la astrattezza del mondo a essere messa a fuoco, ma un microcosmo perfettamente compiuto in sé, con le sue leggi, le sue gerarchie, la sua falsità e la sua genuinità, che diventa l’enorme, frammentato protagonista del film, esploso in mille tracce dal sapore di still-life rimessi all’improvviso in movimento. E per di più, vi è una sterzata anche nell’ambito della direzione degli attori: in Il personale Kieslowski recupera la tecnica di stimolazione e di attesa degli eventi con cui si era già cimentato in Il primo amore.

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Il giovane sarto Romek Januchta (Juliusz Machulski) entra a far parte del “personale” tecnico del Teatro dell’Opera di Wroclaw, con tutto l’entusiasmo fornitogli dalla sua età. Romek si guarda, con ammirazione ed emozione, in un enorme specchio, poco prima prima di entrare nel mondo dei suoi sogni. Ma la realtà del teatro in cui si imbatte si dimostra, fin dall’inizio, classista e prosaica: un custode lo gela appena entrato, impedendogli l’accesso dall’ingresso degli artisti (anche se Romek si sente, a tutti gli effetti, un artista), e indirizzandolo alla squallida scala di servizio riservata al personale tecnico, stante quel “tecnico” a significare qualcosa di spregiativo, come un peccato originale che esclude dalla grande cerimonia dell’arte che si svolge all’apice della scala negata. Ma la realtà di sacerdoti del rito, di artisti consacrati, non tarda a svelarsi, in una miriade di piccoli episodi visti o narrati dietro le quinte, in una scalcinata chiesetta di provincia, in cui si officia nevroticamente un rito sempre più statico e vuoto, di fronte ad una mesta, semivuota platea di affezionati, indotti a presenziare più dalla pietà che da una fede nel rito. Del resto, le lamentele sul trattamento economico degli stessi artisti, la loro assurda, costituzionale condizione di precarietà, del dover ricominciare ogni volta

tutto daccapo, confrontandosi con i provini, le attese, il giudizio del pubblico (fot. 16), li pone in una situazione di delirio di grandezza momentaneo, altalenante con uno spleen da decadenza che surclassa nello scacco anche la condizione di para-artisticità dei tecnici. Agli occhi di Romek, i veri protagonisti del conflitto permanente tra artisti e tecnici, sono due “grandi vecchi” dell’una e dell’altra stirpe: da una parte, l’attore Andrzej, incarnazione della recitata superiorità della casta degli “artisti”, dall’altra il vecchio sarto Sowa, unico ad arrogarsi il diritto di dire che «l’imperatore è nudo», che il teatro vagheggiato da quelli come Andrzej non è che un mediocre sfoggio di megalomanie da strapazzo, in cui predominano antagonismi ridicoli, individualistici, antiartistici. La “purezza” dell’impegno del ragazzo viene rotta all’improvviso dal direttore del teatro, il quale, ammiccando alla sua ambizione di entrare a far parte “come membro attivo” del personale, gli chiede di sottoscrivere una lettera delatoria, in cui deve accusare di prevaricazione e abuso di potere proprio il suo maestro spirituale, il vecchio sarto Sowa, colpevole di istigare all’insubordinazione il personale del teatro. Il film si chiude sul momento di esitazione, sul dubbio di Romek se accusare Sowa o scagionarlo: anche se la lealtà di Romek lascia presagire il rifiuto di firmare la lettera, tutto si ferma di fronte alla scelta, al bivio tra il fare parte di coloro che si integrano a scapito di tutto, o di chi paga di suo le prese di posizione nei confronti della cecità del potere.

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Per la prima volta nel suo cinema, con Il personale Kieslowski ribalta la visuale della macchina da presa verso se stesso e i suoi ricordi, ma lo fa rifiutandosi di ricostruirli a propria immagine e somiglianza in un set. Al contrario, egli vivifica i ricordi attualizzandoli, calando il suo passato personale (come già aveva fatto nel rapporto con il padre in La radiografia) all’interno di una realtà documentabile, viva e presente come quella dell’Opera di Wroclaw. E anche in questo caso, come nei documentari, il discorso dall’alto dell’autore è tagliato fuori dall’orizzonte del film, per lasciare spazio alle contraddizioni di cui è fatta la realtà, e di cui l’esitazione finale di Romek è riflesso. L’irresolubilità del reale trova la sua concretizzazione in un importantissimo topos stilistico di Kieslowski, qui usato per la prima volta: il finale sospeso. Ciò che differenzia la realtà dalla finzione, infatti, è il conchiudersi in se stessa di quest’ultima, è lo scioglimento, l’annoso problema drammaturgico del finale, che rende la finzione sempre inattuale, passata, e perciò stesso narrabile. È qui che il regista sperimenta la specificità della sua opera filmica. Nella storia di Il personale viene messo a fuoco, attraverso la metafora del teatro come specchio della vita, il conflitto tra la resa alla realtà e la necessità di un’Utopia. Ma qual è l’Utopia che muove Romek? Quella delle illusioni di Andrzej, o la libertà morale, l’obbiettività di Sowa? Il Teatro è di per sé un mondo in cui la finzione si fa verità. Ma estremizzando l’Utopia, il teatro diventa il luogo simbolico in cui la propria realtà si muta in finzione, interpretazione permanente di un ruolo fantasma, vuotato di ogni verità. È contro questa resa a se stessi che la semplicità di Sowa, nella sua insanabile insoddisfazione, si scaglia. Perché il Teatro con la “T” maiuscola, come ogni istituzione, è anche una piramide in cui vigono crudeli gerarchie che non possono essere messe in discussione senza rischiare l’espulsione dal ghetto dorato per insubordinazione. Ma per quanto ingiusto, il Teatro è anche questo, ed è con questo che bisogna confrontarsi per cambiare. Il gioco della stimolazione della realtà prosegue anche in uno dei più lucidi dramadocumentaries kieslowskiani (fot. 17), realizzato sempre nel 1975 in bianco e nero, Zyciorys

(Curriculum vitae). Il film è nato per iniziativa del nucleo più riformista del Partito Unificato Operaio Polacco, che affidando ad un regista politico “esterno” il compito di realizzare un documentario sulla vita “interna” del partito, si proponeva di fornire un’immagine non celebrativa del lavoro quotidiano degli attivisti. Non potendo filmare una riunione del Politburo, Kieslowki si risolve nel filmare una riunione di una di quelle cellule locali denominate Commissioni di Controllo del Partito, a cui veniva delegato il compito di esaminare l’operato dei singoli membri per poi trarne delle conclusioni che potevano andare dall’encomio al rimprovero all’espulsione. Ma piuttosto che ritrarre persone ottuse e facilmente attaccabili, Kieslowski ha scelto una delle commissioni più aperte e liberali, quella del quartiere Sròdmiescie di Varsavia. L’idea di partenza era di far esaminare un uomo inviso al partito dalla Commissione, per mostrare l’assurdità del suo giudizio. Per non distruggere pubblicamente l’immagine di un uomo, Kieslowski ha realizzato insieme al suo assistente Krzysztof Wierzbicki il curriculum vitae di un fantomatico Antoni Gralak (fot. 18), ricostruendone ad arte tutta la documentazione, dalle delazioni dei compagni di partito ai certificati personali, dalle note di encomio sul lavoro ad alcune “compromettenti” carte autografe, per poi sottoporle all’esame della commissione di Sròdmiescie nella convinzione che «una commissione non esamina la storia di una vita, ma le carte» (Intervista a Malgorzata Furdal, in Kieslowski, cit.).

FOT. 17

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Le immagini della disamina di Gralak, girate in sole sei ore di riprese in un bianco e nero dai toni contrastatissimi, vengono alternate con un montaggio serrato al duro silenzio dell’attesa di questi nell’anticamera: mentre i membri della commissione scorrono le accuse di sciopero non autorizzato e diserzione dal lavoro, Gralak fuma, guarda fuori dalla finestra, tace. Poi, l’ingresso. La luce delle lampade basse e la stanza in penombra emanano il sentore dell’interrogatorio. Gralak ricostruisce la propria vita, parla della durezza del lavoro in miniera, della dispensa ottenuta per problemi di claustrofobia nelle gallerie. Qui sorgono i primi dubbi sulla sua sincerità. L’essersi sposato in chiesa, le accuse di sedizione per scioperi in fabbrica non autorizzati, l’accusa degli stessi lavoratori, il sospetto di attività contraria agli interessi del partito. E in più, il profondo pessimismo con cui Gralak dichiara di non aver chiesto nessuna

riabilitazione perché non nutre alcuna speranza di essere aiutato. Gralak ammettte di aver commesso i suoi errori consapevolmente, di aver privilegiato l’amicizia, l’amore, i rapporti personali. Ma contraccusa dicendo che la dirigenza della sua fabbrica specula sul lavoro nero, semina un clima di terrore e delazione, e rende impossibile la vita a chi non è d’accordo. La seduta si toglie sulla tautologia del segretario che accusa di demagogia Gralak: «Voi dite che c’è voglia di cambiamento, me che nessuno ha il coraggio di parlare. Ma se nessuno parla, come fate a sapere che vogliono cambiare?». Gralak attende il verdetto, il silenzio è sovrastato dalla musica angosciosa di tamburo. Poi si compie un viaggio verso l’infanzia dell’imputato, attraverso le fotografie che ritraggono l’attore-ingegnere in tutti i momenti della sua vita, fino alla nascita. Il verdetto, naturalmente, non sarà mai pronunciato. Questo film ebbe l’effetto di dividere il Partito. Per chi non ne apprezzava la sincerità, Curriculm vitae divenne in qualche modo il “compagno Gralak” da mettere sotto accusa per incapacità politica, un film-slogan sulla necessità di un cambiamento senza alcuna proposta fattiva. E costoro avevano ragione. Kieslowski continua a rifiutarsi di prendere una posizione netta, che bruci le contraddizioni trasformandole in certezze a buon mercato. Nessuna obbiettività presunta presiede alla realizzazione dei tre film girati da Kieslowski nel 1976, a partire dal film di finzione il cui protagonista, strappato all’imperturbabilità della Commissione di Controllo, è di nuovo il compagno Antek Gralak (stavolta interpretato da uno straordinario Jerzy Stuhr, mentre in Curriculum vitae era impersonato da un ingegnere idraulico che aveva vissuto l’inchiesta della commissione): il mediometraggio (fot. 19), girato in 16 millimetri per la televisione polacca, ha l’emblematico titolo di Spokoj (La tranquillità). Il film, il cui protagonista aveva scontato una pena per sciopero non autorizzato, incappò in un procedimento di censura: venne giudicato indecoroso il far assurgere a ruolo di protagonista del film un ex-carcerato, per di più sfruttato dal datore di lavoro per il suo passato ricattabile, relegando a ruolo di crudele antagonista la normalità. Avendo Kieslowski rifiutato di apporre tutti i ritocchi “consigliati” dal Partito al montaggio finale, il film fu congelato per quattro anni, e proiettato per la prima volta solo nel 1980. Costruito a pennello sul volto attoriale di Jerzy Stuhr, co-autore dei dialoghi, La tranquillità (fot. 20) è lo specchio di un’epoca fragile e ipocrita, in cui l’egoismo carrieristico è valore positivo, incentivato dalle istituzioni per compensare i buchi causati dal “collettivismo” governativo. Con La tranquillità Kieslowski riprende il filo della storia di Gralak di Curriculum vitae, immaginandone un seguito ideale nel caso in cui la condanna sociale, rimasta sospesa nel drama-documentary, si fosse abbattuta sull’“operaio individualista”, diventando una realtà di isolamento da cui ricominciare, alla ricerca di una nuova identità.

FOT. 19

FOT. 20

Antek Gralak (Jerzy Stuhr) è un operaio appena uscito di prigione, dove ha scontato una condanna di tre anni per rissa. La sua famiglia e la sua compagna lo hanno abbandonato al suo destino, così egli ha deciso di lasciare la natìa Cracovia per andare a lavorare in Slesia, in un cantiere edile. La strenua voglia di normalità di Antek sembra dapprima compiere indisturbata il suo corso: egli incontra una donna, che ben presto resta incinta di lui, la sposa e va ad abitare con lei nella casa dei genitori. Ma il clima del cantiere edile si fa sempre più rovente. Qualcuno fa mercato nero dei materiali da costruzione destinati al cantiere, i quali non arrivano quasi più a destinazione. Di conseguenza, gli operai entrano in agitazione per mancanza di lavoro e per paura di essere accusati come responsabili del misfatto. Per quanto Antek sia amico del capo dell’organizzazione operaia, Metek Socha, egli rifiuta con orrore di accettare l’idea (per quanto giusta) della violenza d’attacco per difendersi, memore innanzitutto della sua esperienza di reclusione. Ma nonostante le richieste della base, il direttore del cantiere, coinvolto nel mercato nero, si rifiuta di ordinare un’inchiesta sull’accaduto. Il direttore decide allora di affidare al fidato compagno Gralak il compito di recuperare di nascosto in altri cantieri i materiali oggetto del mercato nero, comperandoli per lo più con il fondo associativo degli operai. Gli operai, indignati, entrano in sciopero, ma le autorità, preventivamente avvertite dal direttore, riescono a contenere la protesta. Ciononostante, il direttore cade nel panico, non vuole rischiare di essere scoperto, e così progetta davanti ad Antek il licenziamento degli attivisti operai più irriducibili. A questo punto anche il pacifico Gralak non riesce più a fare buon viso a cattivo gioco. Seppure lealista nei confronti del direttore del cantiere e fautore ad oltranza della distensione, Antek lo attacca apertamente, sputandogli in faccia la verità, e in un solo gesto compromette di nuovo le sue relazioni con il Potere, inimicandoselo. Sul fronte opposto, avendo rifiutato di schierarsi nello sciopero, la “spia del padrone”, il “crumiro” Gralak comincia ad essere apertamente odiato dai suoi compagni operai. Questi, nella scena finale del film, sfogano la loro rabbia aggredendolo, mentre lui rifiuta di difendersi e si lascia picchiare invocando un’impossibile, utopistica “calma”, (Spokoj, per l’appunto) mentre perde sangue dalla bocca e dal viso. Come all’inizio del suo percorso, Antek resta ancora una volta, fatalmente, solo.

Il ritorno al documentario nel senso più puro del termine avviene con le riprese di un’opera di grande poesia (fot. 21), che trasgredisce l’intento didascalico di documentazione dei fatti per mettere a fuoco l’umanità dei sentimenti: Spitzal (L’ospedale). Una sequenza impressionante di interventi di Pronto Soccorso del servizio di Chirurgia Ortopedica, scanditi come un ciclo nell’arco di trentuno ore (la durata di un turno di lavoro), è osservata dalla prospettiva dei medici, i quali, armati del proprio disincanto, devono combattere, più che contro il dolore dei pazienti, contro l’assoluta mancanza di mezzi tecnici, la carenza delle condizioni igieniche e la fatica. Kieslowski porta sullo schermo la solidarietà e il tutt’altro che idealistico lavoro di squadra di un gruppo di medici osservato costantemente durante i tre mesi di preparazione del film. Come in Refren, i pazienti restano fuori dall’orizzonte del visibile, riflettendo il necessario “straniamento emotivo” dei medici di fronte alla serialità dei casi clinici. Per contro qui emerge a tutto tondo la grande umanità interna all’équipe medica, il suo sforzo nel cercare un equilibrio psicologico basandosi sulla saldezza dei nervi, sull’imperturbabilità, e su un’imparzialità che abolisce ogni differenza di classe a favore dell’urgenza obbiettiva del caso. Così, in questo gruppo di amici-medici, si discute disinvoltamente su quale parte del corpo utilizzare per togliere la pelle necessaria ad un’operazione, e si parla di dolore, malattia e morte considerandoli termini usuali e quotidiani; oppure ci si lava le mani dal sangue delle operazioni come se si trattasse di sporco qualsiasi. In poco più di venti minuti, con L’ospedale Kieslowski riesce a cogliere anche il sentimento di strana tenerezza dei medici nei confronti della

sofferenza sempre uguale e sempre diversa che si presenta loro ogni giorno, come se questa fosse un oggetto d’amore senza volto. Non c’è alcuna tristezza nell’abitudine, né squallore nell’assuefazione, ma una sottile forma di autoironia nei confronti della ufficialità provvidenziale del proprio ruolo di medici, che stride totalmente con la mancanza di mezzi. Kieslowski, a proposito del film, è solito citare un episodio paradossale, per sottolineare l’imprevedibile conformità tra soggetto del documentario e materiale filmato. Il 1976 segna per Kieslowski l’esordio “ufficiale” nel lungometraggio destinato al circuito cinematografico, con la realizzazione del film Blizna (La cicatrice), tratto da un soggetto del giornalista Romuald Karas, anche coautore dei dialoghi, e prodotto dalla casa di produzione Tor (fot. 22). In esso Kieslowski paga l’ultimo tributo alla forma ibrida tra documento e finzione, ampliando il materiale di reportage di Karas, e indirizzandolo verso una forma drammatica più compiuta, in cui la recitazione degli attori assume un peso determinante nell’economia del testo filmico. Dello sperimentalismo dei primi film di finzione rimane soprattutto l’uso metacinematografico dei mezzi di comunicazione di massa, della televisione innanzitutto, in cui viene messo a nudo il meccanismo di creazione della verità artata del consenso, argomento fondamentale del film. Il titolo del film, che si riferisce metaforicamente alla cicatrice inferta dall’industria chimica alla terra, ma anche alla cicatrice inferta dalla disgrazia finale all’animo del protagonista, avrebbe dovuto essere Nasz czlowiek (Il nostro uomo), per riflettere l’ambizione del protagonista di non scontentare nessuno e di non essere considerato di parte in un mondo che già di per sé è di parte. Il Direttore Bednarz dunque non è molto diverso dall’operaio Antek Gralak de La tranquillità: entrambi perseguono una “distensione” impossibile nei fatti. Che Bednarz sia realmente “uno dei nostri”, non un “uomo del destino” ma un tranquillo assertore dell’ideologia del consenso, lo dimostra la scelta di Kieslowski di farne interpretare il ruolo ad un famoso caratterista polacco, Franciszeck Pieczka, volto noto e sdrammatizzante che ne umanizza la figura, e che porta con sé un retaggio simile a quello utilizzato da Pier Paolo Pasolini quando, per il film Porcile, ha scelto di far interpretare il ruolo del diabolico excriminale nazista Herdhitze a Ugo Tognazzi.

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FOT. 22

Dopo estenuanti discussioni sull’ubicazione di un colosso dell’industria chimica, il Partito decide di

incaricare l’onesto Bednarz (Franciszek Pieczka) della sua costruzione, che dovrà avere luogo a breve scadenza in una zona boschiva nei dintorni della cittadina di provincia in cui Bednarz vive, e dove è conosciuto insieme alla moglie per il suo passato di attivista politico. Bednarz accetta con ingenua soddisfazione quella che concepisce come una “missione di progresso”, un progetto di ampio respiro in grado di portare lavoro e ricchezza agli abitanti del posto. Seguendo la sua indole pacifica, e per “fare le cose per bene”, Bednarz incarica un gruppo di sociologi di fare dei rilevamenti statistici sul gradimento del progetto di costruzione della fabbrica da parte della gente del posto, mentre nel frattempo si adopera con tutte le forze sul piano politico perché il progetto vada in porto. Ma la popolazione locale è avversa a ciò che si profila come uno sconvolgimento totale del paesaggio e dell’economia della comunità, e nutre diffidenza nei confronti dei frequenti tentativi di captatio benevolentiae portati avanti da quello che ormai tutti chiamano il “Direttore”. La vita di Bednarz gradualmente si trasforma, passano gli anni, vengono iniziati i lavori di costruzione della fabbrica, e il Direttore, da vero uomo di potere, si muove sempre più spesso con le automobili ufficiali, sorvola con soddisfazione malcelata in elicottero il cantiere della fabbrica, ed è sempre più condizionato dai rapporti di forza vigenti nella logica “imprenditoriale” di Stato. I comportamenti di Bednarz divengono sempre più stereotipati, come quando, sotto gli occhi ironici della figlia, si cimenta in una sorta di casereccio bagno di folla, andando ad incontrare il popolo durante una festa popolare, per ascoltarne le ragioni. La fabbrica, dopo anni di sforzi, viene inaugurata, ma la sua costruzione è avvenuta in maniera errata; e per questo, naturalmente, a pagare in prima persona sarà il solo Bednarz, il quale viene defenestrato dallo stesso potere che, contando sulla sua malleabilità iniziale, lo aveva eletto a suo rappresentante. Bednarz, ormai disilluso, decide di dimettersi e tornare “a vita privata”.

Il personaggio del Direttore Bednarz appare attanagliato dallo stesso tipo di grottesca solitudine che muove i comportamenti “ufficiali” del protagonista di Der letzte Mann (L’ultimo uomo) di Murnau. La meritata condanna ad essere sempre all’altezza della sua condizione di prestigio, rende Bednarz (fot. 23) un uomo piccolo, strumento di una mentalità di dominio diffusa di cui non comprende che gli atteggiamenti esteriori. Perfino la bontà di cui si ammanta sembra tanto più recitata quanto più è sincera.

FOT. 23

Nella sua ingenua fede nel progresso Bednarz si rivolge a dei sociologi per condurre un’indagine statistica sul gradimento popolare del progetto della fabbrica. Il tema parallelo de La cicatrice, attraverso questa vicenda laterale, diventa quello della ricerca della verità, una verità mediata e condizionata dal modello di lettura: quella su cui è costruita ad arte una presunta oggettività statistica del reale. In essa si riflette l’atto di violenza operato da ogni potere, nel suo necessario omologare, raggruppare, calcolare in termini astratti la realtà della vita. Di fronte alla riduzione della vita a campione statistico, poco importa che la dittatura sottesa dai “compilatori” sia quella burocratica del Partito Unico o quella della democrazia plebiscitaria: la riduzione del singolo a portatore di un’opinione condizionata identifica l’esistenza al suo “valore di scambio”, criterio unico di lettura della realtà. Kieslowski critica il processo di reificazione per cui Bednarz si trova nella stessa condizione di un Kapò, vittima dello stesso ordine di cui si fa portatore. Ma la sua critica resta comunque su un piano etico. In una società che priva i singoli della facoltà di scelta, esistere diventa un mutuo esercizio di prevaricazione. Tutt’altro discorso è invece quello sulla classe dei funzionari di partito, incarnata da Jerzy Stuhr nel personaggio dell’assistente di Bednarz (fot. 24). L’appetito di

quest’ultimo per il potere ne fa un uomo detestabile, portatore di quel servilismo che ingoia amaro nell’attesa di esercitare la sua vendetta sociale. In questo personaggio si incarna quel potere burocratico che fa della subalternità una forza di ricatto, e che nel declinare le responsabilità personali sopravvive ad ogni tempesta. Al di là della comune appartenenza al Partito, Bednarz e il suo assistente sono i due estremi del diametro della “malattia politica”: la buona fede (che comunque non cambia il mondo e non redime), e la cattiva fede (che grazie al compromesso consente la salvezza personale).

FOT. 24

Verso la vita: l’ultimo ciclo documentaristico con la WFD

Realizzato in bianco e nero nel 1977 per conto della WFD, Nien Wien, (Non so), è stato proiettato per la prima volta solo nel 1981. L’intreccio tra il realismo della narrazione e la spezzatura poetica della forma, fornisce una ritmicità interna all’opera che lo rende uno dei documentari più crudi e impegnati realizzati da Kieslowski sull’inesplicabilità dei comportamenti e dei codici della società “socialista reale”. Il film è incorniciato da due didascalie. In apertura, quella che recita che «I fatti raccontati nel documentario sono molto meno gravi della realtà». Parte la moviola, la pellicola scorre, per colonna sonora c’è il celebre tango della Cumparsita. Si narra la triste vicenda di un ingegnere che, nominato direttore di una manifattura di guanti, si oppone alla corruzione e al disfattismo dilaganti (fot. 25). Ma finisce lui – per false denunce e delazioni – sotto inchiesta. Cacciato, si deve rifugiare in provincia. La seconda didascalia dice: «Indipendentemente dalla frammentarietà e dalla soggettività del racconto, quest’uomo e la sua condizione esistono oggettivamente. Moltiplicate potrebbero essere un fenomeno sociale». La didascalia finale brucia la prerogativa della teoria della goccia d’acqua in una esplicatività brechtiana (accentuata dalla frattura godardiana del montaggio e dall’uso “censorio” del suono della macchina da scrivere sui nomi fatti dall’ingegnere), in cui si annulla ogni dubbio sulla prospettiva dell’autore, sul suo tentativo di mettere in corto circuito i nervi consunti di una società che si autofagocita, che tradisce se stessa. Nella stessa prospettiva di Non so sembra muoversi anche il documentario forse più celebre e apprezzato di Kieslowski, il cortometraggio realizzato nel 1977 (fot. 26) per la WFD dal titolo Z punktu widzenia nocnego portiera (Dal punto di vista di un portiere di notte). Il tono fortemente drammatico di Non so si muta qui in quell’ironia empatica già presente in altri capolavori documentaristici come L’ospedale. Nato da oltre trenta ore di registrazioni sonore effettuate da Kieslowski con il protagonista, il guardiano notturno Marian Osuch, il film narra per immagini alcuni scorci di vita di un uomo fermamente convinto del fatto che «i regolamenti sono più importanti degli uomini», e che l’umanità abbia bisogno di punizioni esemplari perché sia possibile riportare la moralità in un mondo ormai sprovvisto di ogni senso della dignità. Tecnicamente Dal punto di vista di un portiere di notte si avvale in maniera poetica di un’intuizione del direttore della fotografia Witold Stok, nell’uso della vecchia pellicola prodotta in Germania dell’Est Orwo, una pellicola molto sensibile, che stravolgeva

alterandola la naturalezza dei colori delle immagini, tutti talmente carichi da poter riflettere simbolicamente la visione alterata del mondo espressa dal protagonista. Le immagini illustrative del portiere intento nel suo paranoico lavoro di vigilante (fot. 27), che funzionano contrappuntisticamente rispetto al sonoro pre-registrato, si alternano alle riprese col sonoro in presa diretta nelle quali vediamo il portiere durante la sua vita privata, nella sua contraddittoria dimensione quotidiana. Ciò che risulta più evidente è lo sforzo del regista di non mortificare Marian Osuch come persona, ma di mettere in ridicolo unicamente l’aspetto grottesco della sua ideologia. Per questo, mentre è ripreso in servizio, Marian è visto come una vittima delle sue paranoie fascistoidi, ed è reso detestabile dallo spettatore più per la meschinità delle parole esterne alle immagini, delle pure idee, che per l’aggressività reale dei suoi comportamenti filmati; nella dimensione quotidiana, invece, dove si trova ad avere a che fare con la vita in concreto, di Marian viene mostrato con simpatia lo scollamento tra le sue idee e la goffaggine dei tentativi della loro messa in atto.

FOT. 25

FOT. 26

FOT. 27

A chiusura, Kieslowski pone una sequenza dal valore straordinario, in cui l’indefinibilità del personaggio è fissata attraverso un’omissione, e viene fatta parlare attraverso il silenzio. Una maestra mostra alla scolaresca Marian, e chiede per tre volte ai bambini: «Chi è questo signore vestito in modo così elegante?». Attraverso la tecnica del finale sospeso, il film si chiude all’improvviso, nell’attimo di esitazione dei bambini che non sanno cosa rispondere alla

domanda, mentre sul volto sorridente di Marian parte la musica romantica che fa da stridente Leitmotiv dell’ironico film. In questo modo, ogni spettatore è costretto a fornirsi immediatamente una risposta sul ruolo del guardiano professionista. L’entità sociale di Marian Osuch non ha alcuna importanza, ciò che resta è il groviglio grottesco delle sue idee, che Kieslowski sottopone ad una consunzione graduale, in crescendo, come se il portiere venisse a poco a poco spogliato dell’abito del guardiano fino a far restare soltanto, nella sua infantile ingenuità quell’uomo spaurito e goffo, incapace di realizzare anche la più elementare delle terribili idee che professa per difendersi dalla vita. Kieslowski, seguendo la linea di permanenza delle dramatis personae attraverso la sua opera, non abbandonerà qui Marian, ma gli farà interpretare ancora una volta il ruolo di se stesso anche nel suo primo film di finzione “canonico”: Il cineamatore. La durezza della vita come processo inane di crescita e di declino nello scorrere inevitabile del tempo e delle generazioni, è al centro del documentario in bianco e nero realizzato da Kieslowski per la WFD l’anno successivo, nel 1978 (fot. 28): Siedem kobiet w roznym wieku (Sette donne di età diversa). In esso, con il gusto del polittico, della ricorsività e delle associazioni connesse a tale forma, su cui saranno strutturati tanto il Decalogo che la Trilogia, viene disegnata la parabola caduca delle speranze, della realizzazione, e dell’oblio di cui è costituita l’esistenza umana attraverso una breve “storia delle età”, che ha come nucleo tematico e metaforico la danza. Le sette donne che danzano hanno tutte la stessa fisionomia bruna e longilinea, tanto che allo sguardo veloce imposto dalla brevità del film, potrebbero sembrare la stessa persona colta in tutte le fasi della sua esistenza: eppure, nelle stesse immagini, esse coesistono, si sdoppiano, esistono al di là dei giorni di cui sono le protagoniste. La forma sequenziale-ciclica della costruzione narrativa, con il ritorno finale al tema di inizio, fa di Sette donne di età diversa una sorta di fuga visiva in cui il tema principale (la danza come analogon della vita) è costantemente ripreso e arricchito in ognuno dei giorni-movimenti nel cammino obbligato della settimana. In questo modo, la vita come successione rettilinea è resa anche simultanea, sincronia e diacronia si intrecciano nel flusso delle età, accomunate da una solitudine ontologica, dal dover contare sempre e solo sulle proprie forze, per poter sopravvivere.

FOT. 28

Sempre sotto il segno della serialità della vita, ma stavolta in una sinfonia impazzita di brevi frammenti di esistenza, è costruito il documentario (fot. 29), realizzato nel 1979, Gadajace glowy (Le teste parlanti), il cui titolo allude all’idea tutta cinematografico-televisiva del primo piano in cui sono ripresi questi uomini di tutte le età, diversissimi fra loro, omologati, con un procedimento provocatoriamente simile a quello giornalistico, dal dover rispondere a tre domande talmente generali da sortire ogni tipo di risposta possibile: a) Quando sei nato?; b) Cosa fai nella vita?; c) Cosa desideri dalla vita? Naturalmente, nel testo filmico vediamo solo le risposte, l’enorme varietà delle risposte sul proprio stare al mondo nella differenza dei destini e delle età degli intervistati. Frutto di un grande lavoro preparatorio (che lo distanzia

immediatamente dalle procedure del cinéma-verité), di 400 mini-interviste ognuna delle quali fatta il giorno precedente alle riprese, Le teste parlanti mette in scena la vita a ritroso, scandita dall’anno di nascita dell’intervistato, che digrada dal 1979 al 1900. È un documentario inenarrabile, legato alle singole esistenze come è, ma in questo calendario alla rovescia che procede verso il punto in cui la nascita si perde nella vecchiaia non vi è alcun buon senso dell’evidenza, né tesi sociologiche da dimostrare: ritornando al suo gusto per l’affresco della vita, Kieslowski tributa allo stare al mondo un senso che si trova in se stesso, e sembra dire che è la vita il fine della vita.

FOT. 29

L’ultimo lavoro firmato da Kieslowski per la WFD è datato 1980 (fot. 30), e porta il titolo di Dworzec (La stazione). Nato da dieci notti di riprese effettuate con più macchine fisse nella stazione di Varsavia, La stazione è un film sullo scorrere del tempo e delle situazioni che non lasciano traccia, sui tempi morti della vita. Sulle persone che attendono il treno, sugli inservienti che puliscono i pavimenti, sui ritardatari che si affrettano, aleggia dall’alto dei monitor la televisione, con i suoi telegiornali, i suoi telefilm, che fa da paradossale basso continuo alla vita, e dà una sensazione di alienazione simile a quella di chi, ormai del tutto dipendente dalla retorica del villaggio globale, ha in casa la televisione sempre accesa in sottofondo per “non perdere il contatto con il mondo”.

FOT. 30

Nonostante il monitoraggio costante, infatti, l’unico “evento” accaduto in quei giorni nella stazione era sfuggito allo sguardo delle macchine da presa. C’è un episodio centrale del film, in cui gli utenti della stazione si muovono con impaccio davanti ai nuovi depositi automatici di bagagli, e stentano a capirne il meccanismo. Il film esita sulla situazione segnata da un umorismo involontario alla Tati, ma non riesce a cogliere l’assurdità della vita, che sfugge alle maglie del visibile. Infatti, qualche giorno dopo le riprese, la polizia ha sequestrato tutto il materiale girato per prenderne visione. Era accaduto che una ragazza, uccisa la madre, la avesse fatta a pezzi e ne avesse lasciato i resti proprio in uno degli sportelli del deposito bagagli. Solo per caso il gesto della follia omicida non era stato filmato. Da Il cineamatore a Senza fine: la grande stagione del “dubbio dialettico”

La fine degli anni Settanta coincide, in Polonia, con la fine dell’utopia collettiva del cambiamento sociale, superata nei fatti dalla necessità di una scelta immediata tra due blocchi politici contrapposti. La situazione di progressiva fatiscenza del sistema economico del socialismo reale, stava infatti portando alla rapida e sotterranea ufficializzazione dell’eterogeneo “anti-partito” di Solidarnosc. Questo, con una struttura sindacale operante in modo capillare a livello nazionale (la cui organizzazione aveva assorbito in pratica il vecchio Comitato di Difesa Operaia, il KOR) beneficiava soprattutto dell’appoggio aperto dell’altra grande aggregazione “non ufficiale”, quella della Chiesa e del potere religioso. In un certo senso, con l’elaborazione intellettuale di un programma di massimalizzazione dei suoi obbiettivi politici, la nuova organizzazione nazionale rischiava di perdere ogni legame con la proposta di un modello alternativo di società che non fosse legato, prima di ogni altra cosa, all’idea del crollo del “nemico”: Solidarnosc stava entrando in una prospettiva rivoluzionaria, e abbandonava il terreno della mediazione politica. La pressione internazionale esercitata dalla retorica nazionalista del Papa polacco eletto nel 1978, il volgere degli eventi a sfavore della Nomenklatura che di lì a poco avrebbe imposto lo stato di guerra, l’insofferenza crescente della popolazione nei confronti dei sacrifici richiesti dalla fallimentare gestione della cosa pubblica, stavano creando i presupposti di un conflitto ideologico. Sul fronte dell’impegno intellettuale, la mole di energie messe in gioco dalla critica della società socialista negli anni Settanta, alla cui espressione anche Kieslowski, come cineasta, aveva contribuito, si andava cristallizzando in un progetto di sostegno del dissenso, in un’organizzazione che esigeva una certa ortodossia dalle sue differenti componenti, e non ammetteva più di tanto dissonanze o eresie. A questa irreggimentazione dell’impegno politico e intellettuale corrispondeva un crollo dell’attenzione per fenomeni artistici liminari come il cinema sociale della corrente della “inquietudine morale”: un cinema troppo centrato sulla prospettiva dell’individuo per rispondere all’esigenza incalzante di una epicizzazione della strategia dell’opposizione. La critica sociale operata dal cinema di Zanussi, Wajda, Falk, della Holland e di Kieslowski, veniva superata nei fatti dalla lotta politica portata avanti da Solidarnosc, mentre parallelamente la Censura di stato inaspriva il blocco nei confronti degli autori “impegnati” in odore di dissenso. Man mano che la realtà del fenomeno Solidarnosc si faceva tangibile, l’Utopia di un superamento “umano” della società degli apparati della Repubblica Popolare si traduceva in una forma concreta di potere antagonista, con la sua editoria e la sua cinematografia alternative a quelle ufficiali. In questo clima di ricerca di nuove certezze politiche, che aveva come pendant la psicosi del tradimento in entrambi le parti in lotta, Kieslowski, con la sua diffidenza per le forme di cristallizzazione dei movimenti di idee, continua ad avocarsi il diritto di esprimere un dubbio dialettico sulla libertà dell’individuo nelle maglie di tale massimalizzazione dello scontro politico. È l’uomo solo di fronte al “salto nel buio” implicito in questa scelta, il protagonista dei tre film con cui Kieslowski supera il difficile guado degli anni Settanta: Il cineamatore, Il caso, e Senza fine. Il cineamatore (Amator): lo sguardo e la verità (1979)

Con Amator (Il cineamatore) del 1979 (fot. 31), lo stile secco e scarno del cinema di Kieslowski raggiunge il punto di non ritorno della sua maturità espressiva, attraverso l’uso di quelle che egli stesso definisce immagini metafisiche. Le immagini metafisiche, concepite come superamento delle immagini simboliche di stampo letterario, hanno la funzione di far trascendere l’immediatezza del visibile nell’espressione del senso di un’esperienza. In tali immagni, l’incursione della verità del soggetto all’interno dell’atto oggettivo del vedere riesce a concretizzare quel senso di irriducibilità della vita alla sua narrazione esteriore che il regista aveva a lungo cercato nella sua prassi documentaristica. «Non si tratta solo di un simbolo, ma di qualcos’altro, di una realtà che non si può capire, che non si può sistemare in un ordine logico, ma che costituisce comunque un’esperienza esaltante (…) sono segni (…) che esistono

nella vita di ogni giorno, ed io cerco di filmarli» (Kieslowski, cit., corsivi d.a.). Con Il cineamatore, dunque, lo scarto dall’ordine logico, il momento di rivelazione metarazionale della realtà, diviene elemento costituivo della narrazione. Assorbendo lo spirito della documentazione, la narrazione tende a definire il punto di vista del personaggio dall’interno della sua esperienza, in una prospettiva più complessa di quella dei precedenti film di finzione; una prospettiva né soggettiva né narrativa, ma più precisamente fenomenologica.

FOT. 31

Il cineamatore, film straordinario sull’apprendimento della visione più che sull’apprendistato cinematografico, lontano dalle alchimie metacinematografiche di un Wenders, riesce a quadrare il cerchio della ricerca tra drammaturgia e realtà legando in un’osmosi strutturale il tema trattato e la forma scelta per trattarlo: filmare la realtà che non si può capire è infatti al tempo stesso la forma e l’oggetto del racconto di questo nitido ritratto dell’interazione tra la vita di chi filma e il suo filmare la vita (fot. 32). La cinepresa è protagonista di questo film tanto quanto l’uomo che attraverso di lei riscopre il mondo, il suo ronzìo incostante fuori campo si fa segno della presenza dell’operatore, tangibilità di uno sguardo indagatore che per la prima volta comprende di non essere neutrale, di poter condizionare ciò che vede costringendolo all’univocità di un solo punto di vista.

FOT. 32

Il cineamatore riassume in sé tutte le precedenti esperienze di Kieslowski, fondendole in un tessuto narrativo che fa dell’essenzialità il suo punto di forza: il drama-documentary entra in gioco nel film con l’uso di persone che interpretano se stesse in contesti reali: l’amico documentarista Andrzej Jurga e il cineasta Krzysztof Zanussi (fot. 33) vengono coinvolti come personaggi noti, stereotipi dell’immaginario collettivo, e rendono per converso unico personaggio “vero” della vicenda Filip, proprio perché diverso da se stesso, irreale, inventato, e per questo, imprevedibile come la vita. Il gioco tra verità e falsità, tra straniamento e immedesimazione, attraversa tutto il film, e lo rende irriducibile a una tesi definita: Il cineamatore non disegna parabole e percorsi emblematici, ma la vita che cambia all’interno di questi percorsi. Lo spirito del gioco quasi-matematico con cui Kieslowski si accosta, in maniera del tutto laica, alla metafisica dello sguardo, è quello dell’ironia. Questi personaggi

persi nei meandri della vita sono portatori di una coesistenza irrisolta di comicità e tragicità, nella quale Kieslowski riflette l’esigenza di uno sguardo disincantato sulla realtà.

FOT. 33

Un falchetto divora una gallina dopo averla atterrata. Irka Mosz (Malgorzata Zabrowska) è nel letto di casa, in preda alle prime doglie da parto. Suo marito Filip Mosz (Jerzy Stuhr), economo di un’azienda statale nella cittadina di Witowice scende in strada con Irka in braccio, e la porta all’ospedale. È una femmina. Filip piange come un bambino la sua commozione, e, appena tornato a casa, fa progetti con gli amici su come modificare gli spazi angusti dell’appartamento per adattarlo alla neonata. Poi decide di comprare una cinepresa per riprendere tutte le fasi della vita di sua figlia. Così Filip, trepidante, comincia a riprendere la piccola dal vetro del reparto neonatale dell’ospedale. Poi, all’improvviso, arriva la svolta del destino. Il direttore della fabbrica, saputo che Filip ha una cinepresa, gli chiede di filmare l’imminente festa di giubileo della fabbrica. La direzione della ditta, per incoraggiarlo, gli regala anche un cavalletto per la cinepresa. Filip accetta, emozionato: da quel momento comincia a identificarsi nella figura del “cineamatore”. Filmata la festa, Filip torna a casa. Lo specchio dell’ingresso è rotto. È stata Irka, in preda ad una crisi da abbandono. Dopo una difficile riconciliazione, Irka e Filip fanno l’amore. Filip comincia a montare i suoi brevi film in casa. Nel frattempo, la madre dell’amico Piotr, che Filip aveva ripreso nel suo primo filmino “in esterni”, è colpita da un’ictus. Non essendoci alcun’ambulanza disponibile, il medico obbliga Piotr a portare sua madre in ospedale con il carro funebre. Filip proietta le immagini della festa davanti alla direzione della fabbrica. Il direttore gli impone di tagliare alcune scene considerate inutili e formalistiche. Filip comincia a studiare libri sul cinema, e escogita di girare un documentario dalla finestra di casa, filmando tutto ciò che vede. Irka di notte ha un incubo, che la fa svegliare di soprassalto. Lo racconta a Filip: è l’incubo del falchetto che divora la gallina. Un’altra svolta del destino è alle porte: Anna, una donna che fa parte della potente Associazione dei Cineamatori, recatasi alla fabbrica, prende il film realizzato da Filip per un “Festival di cinema amatoriale delle ditte industriali”. In segreto, Filip riesce ad accordarsi con la donna per reintegrare i tagli impostigli dalla direzione. La giuria del Festival assegna a Filip il terzo premio. Ma la partecipazione al concorso permette a Filip di conoscere Andrzej Jurga, che (come del resto faceva nella vita all’epoca) è una specie di talent scout, e fa da tramite tra i cineamatori e la Televisione di Stato. Tra Filip e Anna (che dice di essere soprannominata, equivocamente, la “cine-amatrice”) nasce una relazione ambigua, sempre sull’orlo della passione. Irka subisce la distanza che si viene a creare tra lei e Filip nella solitudine, e accoglie ogni nuovo successo del marito come un limite ulteriore al loro rapporto. Entrato pienamente nel suo ruolo di cineasta, Filip decide di girare un film «sulla vita», e chiama un suo giovane amico, Witek, a fargli da “assistente”. Ma il rapproto con Irka è ai ferri corti, Irka si sente abbandonata insieme alla bambina per colpa della mania cinematografica del marito. La madre di Piotr è morta, ma Piotr rifiuta di andare al funerale. Si è chiuso in casa sconsolato, sconvolto. Piotr chiede a Filip di mostrargli il filmino girato su di lui, in cui, in lontananza, compariva anche sua madre, ancora viva e sorridente. Lo guardano insieme, e Piotr si commuove di fronte al fatto di poter rivedere ancora sua madre “viva”. Filip, commosso, regala il film a Piotr. Filip è al cinema, e sta vedendo Barwy ochronne (Colori mimetici) di Krzysztof Zanussi. Alla fine del film, Filip avvicina il regista presente in sala, e lo invita a presenziare ad un dibattito nell’improvvisato cineclub che ha messo su con i fondi della fabbrica a Witowice. Nel frattempo Filip ha cominciato a girare un nuovo film in fabbrica, che ha come protagonista un operaio storpio, e dedica ad esso la maggior parte delle sue energie. Intanto il direttore della fabbrica, venuto a conoscenza del film sull’operaio handicappato, ferma Filip durante una delle sue riprese e lo accusa di strumentalizzare l’operaio per il successo personale. Arriva la sera del dibattito con Zanussi, e Filip, entusiasta, invita Irka a presenziare con lui nel cineclub: ma ne nasce una lite astiosa, perché la bambina non può essere lasciata da sola. Nel cineclub, Filip riesce a mostrare a Zanussi, davanti al direttore della fabbrica, il film che sta girando sull’operaio storpio. Zanussi, ammirato, lo incoraggia a proseguire, sostenendo che il suo film ne valorizza la figura. Il direttore, furibondo, si scaglia contro Filip perché, come al solito, non tiene conto della sua volontà.

Filip va alla televisione per incontrare Jurga. Qui gli viene proposta la realizzazione di un film in 16 millimetri sulla propria città. Jurga, molto soddisfatto del suo lavoro con Filip, compra per la Tv anche il film sull’operaio storpio. Quando torna a casa, Filip trova Irka sulla porta, che ha deciso di abbandonarlo portando con sé la bambina. Dopo aver tentato invano di trattenerla, mentre Irka sta uscendo per sempre dalla casa e dalla sua vita, Filip la “inquadra” con quattro dita, come fosse il fotogramma di un film. Arriva il grande “giorno della prima”, in cui la Tv trasmette il documentario di Filip sull’operaio storpio, dal titolo Il lavoratore. I suoi colleghi, l’operaio e la moglie dell’operaio guardano insieme, a casa di Filip, la trasmissione. Tutti sono commossi, emozionati. Pian piano, tutti gli oggetti del film di denuncia di Filip, dall’architetto comunale che ha mantenuto le barriere architettoniche ai responsabili della fabbrica, vengono messe sotto accusa dalle autorità. Il direttore invita Filip a casa, e da solo a solo gli spiega l’avventatezza della sua condotta. Filip riesce fortunosamente a rimpossessarsi della nuova pellicola già spedita alla televisione. Poi, davanti a un Witek infuriato e costernato, distrugge il documentario appena girato sul fatiscente mattonificio della città, aprendo la scatola del negativo e facendolo rotolare sull’asfalto. Rimasto solo in casa e desolato, Filip carica la cinepresa come fosse una pistola, e dopo aver mirato all’esterno, fuori della finestra, se la punta addosso, e comincia a riprendersi, narrando la storia del film, che è anche la sua storia personale, a partire dal giorno del parto, in cui ha deciso di comprare la cinepresa da 5 zloty che ha cambiato la sua vita. Sul rumore della cinepresa accesa, partono i titoli di coda.

Il cineamatore è una sorta di viaggio sentimentale di Kieslowski nel proprio cinema, in cui il regista recupera pezzi della propria memoria personale di documentarista, come la festa della fabbrica così simile a quella della Città di Lodz, o le immagini del parto di Irka che ricordano le situazioni nell’ospedale di Il primo amore. D’altra parte, lo stimolo da cui Filip muove per occuparsi di cinema è di riprendere tutte le fasi della vita della bambina appena nata, in maniera simile a quella tentata da Kieslowski nel progetto (da poco interrotto) di Ewa-Ewunia. Parallelamente, il film offre anche uno spaccato sulla politica culturale della Polonia di Gierek, in cui, secondo la stessa retorica “popolare” che foraggiava le pubblicazioni autobiografiche come quella da cui era nato Dal punto di vista di un portiere notturno, ogni attività amatoriale, anche in ambito cinematografico, era diventata una sorta di istituzione, sovvenzionata e incentivata dallo Stato nel suo tentativo demagogico di rendere disponibili a tutti i mezzi di produzione della cultura. In tal modo l’esperienza del “cinema amatoriale”, che aveva avuto in Polonia una tradizione sperimentale analoga a quella del New American Cinema, veniva atrofizzata dalla sussunzione a genere dilettantesco e alla portata di tutti, controllato nei suoi esiti innocui dall’apparato statale. A questo proposito, non è un caso che il film che Filip va a vedere sia proprio Colori mimetici di Krzysztof Zanussi (fot. 34), il maggiore cineasta emerso dal movimento “amatoriale” degli anni Sessanta: il film è infatti un’analisi impietosa del clima intimidatorio dell’apparato, del ricatto costante operato sugli intellettuali dal sistema di sovvenzioni largite dal Ministero della Cultura. Tra i motivi che condurranno Filip Mosz a compiere il suo suicidio intellettuale, peserà come un macigno la consapevolezza del potere assunto dalla sua cinepresa, il condizionamento che essa può operare sugli uomini, ricevendone in cambio un condizionamento altrettanto grande. Ciò contro cui Kieslowski alza il tiro è di nuovo il meccanismo cieco del potere, che sopravanza la volontà e le intenzioni degli uomini che lo praticano.

FOT. 34

Oltre a Zanussi, un’altro cineasta congeniale ai gusti di Kieslowski è citato in Il cineamatore: si tratta di un altro ex-documentarista e autore televisivo, il britannico Ken Loach. Tra le pagine di un libro sul cinema che Filip sta studiando vediamo all’improvviso scorrere la fotografia del bellissimo Kes, un film che Kieslowski sostiene essere tra i suoi preferiti. L’immagine-metafora dell’astore di Il cineamatore, così enigmatica, diventa cristallina in riferimento al film di Loach, il cui titolo non è che l’abbreviazione di “Kestrel”, che vuol dire appunto “astore”: in esso è narrata la storia di un’amicizia tra un ragazzo e il suo falchetto, nel torvo ambiente provinciale dello Yorkshire, in una famiglia dilaniata dalle inimicizie interne generate dal vuoto sociale. Allo stesso modo, la giovane famiglia Mosz, è dilaniata dall’improvvisa, onnivora vocazione cinematografica di Filip. La vocazione che Filip scopre timidamente dentro di sé finisce per trasformare del tutto la sua visione del mondo, per prendere interamente il posto del mondo. Come il fotografo protagonista di Blow-up di Antonioni, Filip Mosz non riesce più a scrollarsi di dosso l’ossessione della visione filtrata dal meccanismo, che rende la sua vita qualcosa di permeato dalla sensazione di vivere il proprio film personale: quello di Filip è un viaggio verso la “drammaturgia della realtà”, verso la scoperta del contenuto drammatico e drammatizzabile di ogni vita. In questo senso, il bellissimo finale, l’uccisione rituale della propria vita tramite la ripresa cinematografica, non è che la conseguenza logica della coscienza della frattura interiore tra soggetto e mondo, tra punto di vista e immagine, che Filip ha raggiunto. Come il fotografo di Blow-up impara a vedere ciò che non vede, raccogliendo l’inesistente pallina lanciata dai mimi che giocano a tennis, Filip impara a sue spese che la vita è una drammaturgia il cui copione è scritto da chi la osserva, e per questo sfuggirà sempre allo sguardo dell’oggettività che la cinepresa, illusoriamente, promette. Allora, l’illusione di immortalità regalata dalla sopravvivenza delle immagini cinematografiche alla morte degli uomini, diventa il vero meccanismo di disvelamento dell’illusività delle immagini. Piotr potrà sì rivedere ancora la madre morta nel filmino casualmente girato da Filip, ma con gli occhi di Filip, con il suo punto di vista, e la vedrà compiere meccanicamente sempre gli stessi gesti, cosa che contrasta totalmente con quella libertà e imprevedibilità di cui è fatta la vita. È precisamente questa libertà la realtà che non si può capire, l’oggetto eterno ed illusorio della “drammaturgia della vita” kieslowskiana, che Filip insegue fin da principio nelle sue immagini “poetiche” (i piccioni che si alzano all’improvviso, le foglie portate dal vento), ma che riesce a sfiorare solo nel momento in cui la sua vita personale gli sfugge dalle mani e si trasforma, come la vita di Romek e Jadzia davanti alla troupe di Ewa-Ewunia, in qualcosa di condizionato dalla presenza della macchina da presa. Filip diventa, allo stesso tempo, l’occhio che guarda è ciò che è guardato, il soggetto e l’oggetto della visione in un cerchio perfetto che ricongiunge il punto di vista al mondo. Dal punto di vista narrativo, Il cineamatore è continuamente attraversato da anticipazioni analogiche del destino dei personaggi. Filip che corre senza maschera antigas in un’esercitazione anti-bellica in cui tutti i suoi colleghi della fabbrica indossano la maschera, ad esempio, anticipa l’imminente distinguersi di Filip dalla gente comune, il suo ingresso nella élite degli “eroi dello spirito”; ma che Filip non porti la maschera apre uno squarcio sul fatto che egli, guardando in faccia la società, sia al contempo più consapevole e più scoperto degli altri di fronte alla “verità”. La stessa cosa vale, su un altro piano, per il discorso sulla morte nel cinema, legato alla figura della madre di Piotr. La commozione di Piotr davanti al filmino è tanto commovente quanto risibile nella sua ingenuità. Il viaggio accidentale verso l’ospedale della madre di Piotr nel carro funebre è un’immagine che affianca l’anticipazione della morte della donna al sentimento di assurdità risibile della tragedia, e ne acuisce la dimensione inelevabilmente umana. Il cineamatore si apre con un’immagine epigrammatica, quella

dell’astore che divora la gallina, che solo più tardi scopriremo avere un appiglio alla diegesi in quanto frutto di un incubo narrato a Filip da Irka, la moglie del protagonista. Quest’immagine, oltre a creare un correlativo oggettivo dell’umore fondamentale del film, l’incombenza del caso sulla vita di Filip e Irka, contemporaneamente ne riassume in sé la sintesi dell’intera storia. L’immagine del divoramento anticipa in maniera oggettuale l’atto costantemente compiuto dalla cinepresa di Filip sulla vita, quell’assimilazione nell’occhio dell’immagine che ne implica l’uccisione nella riproducibilità tecnica. Alla pienezza estetica di Il cineamatore contribuisce anche la caratterizzazione di Jerzy Stuhr, che incarna in maniera magistrale la coesistenza di sentimenti contrastanti nell’animo del protagonista. L’estrema vulnerabilità del personaggio (resa ironicamente visibile, ad esempio, dal singhiozzo nervoso che prende a Filip ogni qual volta è emozionato), ne mette in luce tutta l’infantile capacità di restare impressionato dal mondo, quella consapevole debolezza che è anche il primo presupposto di uno sguardo artistico non superficiale sulla vita. A dieci anni dall’esordio come cineasta, Il cineamatore segna il primo successo di pubblico e di critica di Krzysztof Kieslowski. Al film, in scorno all’ironia antifestivaliera che lo attraversa, saranno assegnati molti dei più importanti riconoscimenti cinematografici dell’Est europeo, e innanzitutto il primo premio al Festival di Mosca del 1979. Corpo a corpo tra volontà e destino: Il caso (1981)

Con Przypadek (Il caso o Destino cieco), Kieslowski prosegue la sua ricerca formale cercando di sfatare il più radicato dei limiti della durata filmica: il legame delle immagini con la continuità temporale al presente, legame che assimila il cinema alla visione ininterrotta da un solo punto di vista. Così, sconfinando in una dimensione narrativa impersonale e mediata, il regista mette in scena una vicenda che si affaccia al tempo condizionale mostrando successivamente le differenti strade che la stessa persona può prendere in un punto preciso dell’itinerario della sua vita. La storia delle scelte del giovane Witek (fot. 35), ragazzo onesto e volenteroso, nonostante la perentorietà del titolo del film, in ognuna delle tre alternative fornite dal regista, non ha però mai nulla di casuale. Ogni sviluppo della vita è infatti perfettamente radicato nel carattere del personaggio, segnato da una serie di esperienze storiche e familiari traumatiche destinate a lasciare in lui un segno indelebile: è sempre lo stesso Witek, paradossalmente, a compiere le scelte opposte di entrare a far parte del Partito, oppure di diventare militante dell’opposizione cattolica, o ancora di scegliere l’atteggiamento super partes del professionista dedito unicamente al lavoro e alla famiglia. Dunque, vi è un più sottile livello di sfatamento a cui Kieslowski lavora con Il caso, ed è quello della liceità della “causa”, del posto che le idee astratte debbano occupare nell’ambito delle scelte concrete della vita. L’oggetto polemico del regista sembra essere proprio la straordinaria forza di volontà che anima la vita del protagonista, il suo essere sempre sufficientemente determinato a votare la sua vita ad una causa, ad identificare lo scopo della sua esistenza con qualcosa di assoluto, che sia esso l’idea politica, l’idea di Dio o la vita familiare.

FOT. 35

Il film è diviso in una sorta di prologo e tre episodi: Prologo: L’urlo disperato di Witek (Boguslaw Linda) di fronte alla morte invade lo schermo fino ad oscurarlo. Poi, le immagini ci portano in un ospedale di Poznàn. Qui, fra le vittime degli scontri tra manifestanti e polizia del 1956, la madre di Witek perde la vita mettendo alla luce due gemelli. Solo Witek, dei due bambini, si salverà. Una gamba di una donna si accascia, viene coperta da un telo: è morta. Poi, una sequenza di ricordi infantili, dalla partenza del migliore amico nel 1968, durante le purghe antiebraiche, per la Danimarca; a momenti di intimità casalinga con il padre; poi Witek che spia, ansioso, il collegio dei docenti della sua classe. Dall’adolescenza del primo amore, una ragazza dai capelli corti di nome Czuszka, si finisce con le immagini della facoltà di medicina, dove Witek assiste ad un’autopsia. Witek studente è da suo padre, che gli presenta la sua nuova compagna, e gli dice che non ha mai amato il suo essere il “primo della classe”, e di essere stato fiero di lui solo dopo che aveva picchiato un insegnante e preso brutti voti. Poi Witek scopre il padre e la sua compagna fare goffamente l’amore in salone. Witek è con la sua ragazza. Mentre stanno per fare l’amore, si ferma e va a telefonare in preda al panico: sta chiamando suo padre. Indeciso se parlare o meno, prende la parola e si sente rivolgere dal padre, che sta per essere portato in ospedale, uno strano monito: «non c’è niente che tu devi». Durante la notte, Witek è sorpreso da una guardia a piangere nella metropolitana: suo padre è morto. Witek parla con il preside della facoltà e gli dice di aver perso la vocazione, anche perché suo padre, che era il massimo sostenitore dei suoi studi in Medicina, è morto “avendo cambiato idea”. Alla stazione di Lodz, Witek, in ritardo, si affretta per prendere l’espresso per Varsavia. Durante la corsa, si scontra con una vecchia signora facendole cadere tutti gli spicci che ha in mano. Una delle monete viene raccolta da un barbone che la usa per pagarsi una birra. Primo episodio: Nel frattempo Witek ha fatto il biglietto, e corre sulla banchina per prendere il treno. Riesce a scansare per un pelo il barbone con la birra, e ad inseguire il treno in corsa. Alla fine di uno sforzo disperato, afferra un sostegno e sale. Durante il viaggio conosce un vecchio signore dai capelli bianchi, Werner (Tadeusz Lomnicki), suo vicino di posto (fot. 36). Witek approfitta di una fermata intermedia del treno per invitare un tossicodipendente, maltrattato dagli infermieri della comunità di recupero, a scappare dalle porte rimaste aperte, offrendosi di dargli le sue scarpe. Il tossicodipendente non lo ascolta neppure e torna al suo posto.

FOT. 36

Witek è in casa del vecchio Werner, che beve vodka e gli racconta la sua vita di vecchio militante del partito, accusato ingiustamente dagli stalinisti nel ’49, arrestato e costretto sotto tortura a confessare di aver fatto “ciò che non aveva fatto” e di aver pensato “ciò che non aveva pensato”. La sua sorte era stata condivisa da altri due membri del Partito suoi amici, Krystyna e Adam. Werner era innamorato di Krystyna, ma Adam, uscito di prigione prima di lui, l’aveva sposata, ed era riuscito a reintegrarsi nel partito. Dopo la riabilitazione, Werner non aveva più voluto ricoprire cariche ufficiali, e aveva cominciato a lavorare tenendo contatti “con l’estero” per conto del Partito. Poi Werner prega Witek di comporre un numero telefonico, facendosi passare Krystyna. Tra i due anziani vi è lo stesso rapporto di tenerezza di tanti anni prima, che tengono nascosto ad Adam. Il giorno dopo, Werner presenta Witek a Adam (Zbigniew Zapasiewicz), scrittore e membro notabile del Partito, per il quale il vecchio deve fare una conferenza per la formazione dei quadri. Durante la conferenza, un Werner fiero, quasi trasformato rispetto al vecchio solo e infreddolito della notte prima, parla della necessità etica dell’ideologia. Mentre è al parco con Werner, Witek rincontra Czuszka, il primo amore. Czuszka ha le mani sporche di nero (fot. 37): un segno della sua attività di tipografa clandestina. Witek accompagna Werner, in partenza per un lungo periodo all’estero, all’aeroporto. Intanto, ha ricominciato a frequentare Czuszka. Dopo aver fatto l’amore, Czuszka apprende con angoscia che Witek sta per iscriversi al Partito.

FOT. 37

Witek è diventato attivista del Partito, ma essendo un nuovo entrato, viene subito inviato “sul campo” in una situazione molto difficile da risolvere: «calmare ad ogni costo» la rivolta di un gruppo di tossicomani di una comunità ospedaliera, tra i cui capi c’è il ragazzo che Witek aveva incontrato sul treno. I giovani, minacciando di dare fuoco al presidio medico, lo hanno occupato e hanno rinchiuso i nuovi medici nelle gabbie di contenzione. Tra le richieste c’è quella di ripristinare il vecchio personale medico, che introduceva illecitamente la droga nell’ospedale. Il clima è teso, ma Witek riesce ad ottenere la fiducia dei ragazzi, che lo ammettono ad un’assemblea. Ma proprio nel momento in cui tutto sembra tranquillo, Witek trova le chiavi della gabbia e fa fuggire i medici, restando lui da solo come ostaggio. Riuscirà a spuntarla, a riportare la situazione alla calma. Witek è a letto con Czuszka. Su richiesta di Witek, Czuszka sta raccontando tutte le storie d’amore avute prima di lui, dal momento in cui, adolescenti, si sono lasciati, fino al loro nuovo incontro. Mentre ascolta, Witek soffre terribilmente, ma prega la sua compagna di andare avanti perché necessario alla loro conoscenza, e dunque alla loro unione. Witek è con Czuszka nei pressi di un molo, dove alcuni amici hanno importato pubblicazioni clandestine. Presso il molo Witek incontra Adam, intento a pulire la sua barca. L’incontro non è casuale. Evidentemente, Adam è lì proprio per controllare la situazione. Witek e Czuszka sono di nuovo a letto insieme. Stavolta è Witek a parlare di sé, della sua infanzia, del fratello gemello morto assieme alla madre il giorno del parto. Le immagini dell’ospedale nel ’56 scorrono di nuovo sullo schermo. Witek viene prescelto per far parte della delegazione del partito in un congresso in Francia. Werner è tornato, è passato un anno dalla sua partenza, tutto sembra essere cambiato. Werner mostra con soddisfazione i beni “sovrastrutturali” comprati in Occidente, una sveglia-agenda elettronica, e un piccolo giocattolo a molla che scende le scale. Mentre passeggia con Czuszka, Witek viene fermato dalla polizia segreta: è riconosciuto con soddisfazione dal poliziotto, mentre Czuszka viene portata via. Witek, all’improvviso, capisce di essere stato usato come esca, va da Adam e lo picchia, prima di essere buttato fuori dai tirapiedi del politico. Disperato, torna a casa di Werner, riprende le sue cose e, dopo aver urlato la sua rabbia per essere stato ingannato, afferra la valigia e un enorme mappamondo, e se ne va. Fuori del carcere, Witek aspetta Czuszka. La vede uscire, fa per inseguirla, ma Czuszka riesce a fuggire prendendo un autobus. Allora Witek la raggiunge in una scuola, e riesce a strapparle un colloquio. Il colloquio in realtà è un monologo astioso e amaro della ragazza, che parla con il volto tumefatto dalle percosse della pietà e dello schifo che Witek gli ispira, accusandolo di averla prima venduta e poi salvata dalla galera. Le accuse di Czuszka sono così forti che Witek resta senza parole, e se ne va via piangendo. Witek è all’aeroporto. Alla fine, ha deciso di andare in Francia con la delegazione del Partito. Qui incontra l’ex-capo dei tossicodipendenti in rivolta, ormai membro del Partito, che lo ringrazia per averlo tirato fuori dalla droga. All’improvviso, il capo-delegazione torna con i passaporti dicendo che non si partirà: in tutto il paese sono scoppiati degli scioperi, la loro presenza è più utile in patria. L’episodio si interrompe con il gesto rabbioso di Witek che fa per scagliare in terra il suo mappamondo. Secondo episodio: Witek è alla Stazione di Lodz, sta per partire per Varsavia. Si scontra con la vecchia donna, il barbone raccoglie la moneta e prende una birra. Stavolta, però, lo scontro con il barbone è inevitabile, e Witek perde dei secondi preziosi di rincorsa verso il treno. Sulla banchina, si scontra con il capostazione che fa per fermarlo. Ne nasce una colluttazione (fot. 38) che si conclude con l’arresto di Witek, condannato a 30 giorni di “lavoro non remunerato”. Nel parco in cui sta scavando un’enorme aiuola a forma di aquila polacca, Witek conosce Marek (Jacek Borkowski), anche lui condannato al lavoro coatto per aver organizzato una riunione dell’“Università volante”, l’assemblea degli studenti con lettura di libri clandestini. I due trovano sottoterra una specie di messaggio in bottiglia di membri del partito che nel ’57 scrivono che se la passano bene alla faccia del popolo. Witek e Marek solidarizzano. Marek gli presenta un sacerdote paraplegico (Adam Ferency) che lo introduce nel movimento clandestino, assegnandogli la missione di consegnare dei soldi ad una vecchia militante. Giunto sul posto, Witek trova la donna sconvolta, vittima di un’aggressione intimidatoria da parte del Partito. Parlando con lei, Witek è colpito dalla sua fede in Dio e nella vita, e dalla fiducia con cui prosegue il suo “soccorso clandestino” ai lavoratori. Uno degli aggressori della

donna insegue Witek fino a casa, e ne annota le generalità. Witek abita accanto a una vecchia zia (Irena Burska), la quale comincia ben presto a preoccuparsi per le riunioni clandestine organizzate dal nipote. È in una di queste riunioni che Witek rincontra il suo amico d’infanzia Daniel, partito per la Danimarca per sfuggire alle purghe antiebraiche. Nell’occasione, ri-conosce anche la sorella di questi, Wera (Marzena Trybala), più grande di sei anni, rimasta allora in Polonia perché innamorata di un uomo. I due fratelli si sono rivisti da poco, in occasione dei funerali della loro madre. Tra Witek e Wera nasce una relazione.

FOT. 38

Witek decide di farsi battezzare. Poi prega Dio in una chiesa (fot. 39), chiedendogli solo di “essere sempre con lui” perché da solo “non può”. Nel frattempo ha incominciato a lavorare in una tipografia clandestina ed è stato accolto a pieno titolo nel “movimento”. Con altri membri di una organizzazione della gioventù cattolica, Witek viene prescelto per partire per una riunione internazionale a Parigi. Ma in questura, perché gli sia rilasciato il passaporto, gli viene proposto di dare i nomi dei “contatti esteri” dell’organizzazione. Wera è tornata a Lodz, e Witek si “isola” dal mondo per passare quanto più tempo con lei. È proprio durante un momento di tenerezza che Witek rinuncia ad aprire la porta a Marek, che lo sta cercando con insistenza. Quando torna nella tipografia, la trova smantellata dalla polizia. Marek è infuriato, e avanza il sospetto che l’assenza di Witek durante il raid della polizia non sia casuale. Tornato dal sacerdote, Witek si sente dire di esercitare il perdono cristiano su quanti lo accusano di tradimento, e di pregare. Witek è indignato, decide di non andare a Parigi, e in questo modo evita anche la grana del ricatto con la questura. Intanto Wera si è resa introvabile. A casa, Witek trova un suo messaggio in cui la ragazza dice di averlo aspettato invano per quattro ore. Poi, a casa della zia, ascolta, su Radio Europa Libera la notizia dell’ondata di scioperi di protesta che stanno attraversando il Paese.

FOT. 39

Terzo episodio: Alla stazione di Lodz, lo scontro con il barbone è così pieno che Witek non riesce neppure ad avvicinarsi al treno. Tornando indietro deluso, Witek incontra Olga (Monika Gozdzik), la ragazza della facoltà di medicina con cui ha avuto una relazione (fot. 40). Attraverso di lei, Witek riconsidera l’idea dell’Università, parla con il preside (Zbigniew Hubner) e gli dice di voler riprendere gli studi.

FOT. 40

Witek e Olga si sposano. Il giorno stesso, Olga gli dice di essere incinta di tre mesi. Poi, il giorno della laurea, il preside gli propone di restare all’Università per specializzarsi con lui. È passato del tempo, la bambina di Witek ha già un anno, e Witek, ormai medico condotto, va a curare in campagna una vecchia moribonda. Qui assiste alla strana esercitazione dei due figli della donna, i quali si cimentano da oltre dieci anni in un’esercizio acrobatico con le palline, come dei giocolieri (fot. 41), per la pura soddisfazione di sapere che nessuno al mondo in questo è bravo come loro. In facoltà, alcuni membri del Partito gli propongono un posto di assistente, ma Witek rifiuta. Ma allo stesso tempo, Witek rifiuta anche la richiesta di firme inoltrata da alcuni studenti per protestare contro l’arresto di alcuni membri della “Università volante”, tra cui il figlio del Preside. Witek è irremovibile: rifiuta ogni questione politica. Da solo a casa, pensieroso, Witek prova l’esercizio da giocoliere con tre mele, ma fallisce, e ne mangia una. Una sera arriva la telefonata del Preside, che vuole incontrare Witek alla stazione. Qui, il Preside lo prega di prendere il suo posto in alcune conferenze, visto che ora, a causa dei problemi con la giustizia del figlio, cercheranno di metterlo da parte. Witek accetta, a condizione di non doversi schierare. Dovrà andare in Libia per una conferenza. Ma all’ultimo momento sposta la data di partenza al giorno successivo, perché quel giorno è il compleanno di Olga. Olga ha un presentimento, chiede a Witek, di non partire. Ma Witek ha deciso, e si imbarca sull’aereo per la Libia via Parigi. Poco dopo il decollo, l’aereo esplode.

FOT. 41

Il finale, un bellissimo piano-sequenza dell’aeroplano che scompare dietro l’orizzonte instabile e rovente della pista di decollo, per poi ricomparire già in volo ed esplodere (fot. 42), rimanda all’immagine d’inizio, all’urlo impotente di Witek di fronte alla brutale incursione della morte nel proprio destino. Così, retrospettivamente, si illumina un’esistenza segnata dal gioco tra l’ostinata volontà di vita del protagonista (unico a sopravvivere anche al parto traumatico della madre), e il sottrarsi della vita al suo controllo etico e razionale. Kieslowski mette in luce con Il caso l’eteronomia di un personaggio che commette l’errore di assegnare sempre un significato esplicito alla propria vita: senza avere il coraggio, come i due ragazzi di campagna, di dedicarsi a qualcosa che bisogna saper fare concretamente e implicitamente, senza uno scopo, a cui la sola volontà di essere non può arrivare. L’esercizio con le tre palle (bella e semplice immagine metafisica in cui si rispecchia il gioco delle tre vite di Witek), è incomprensibile agli occhi del giovane medico poiché è qualcosa che ha senso solo per se stessi, in un mondo in cui tutti sono costretti ad accettare il proprio essere per altro, l’essere sempre visibili, giudicabili, identificabili. E infatti Witek, ogni volta, è giudicato, messo in discussione, avversato per l’esplicitezza delle sue intenzioni, sempre irremovibilmente chiare.

Così, nonostante i suoi mezzi intellettuali siano forti, Witek resta un uomo ingenuo, travolto dalla marea informe degli eventi in cui cerca di raccappezzarsi, perché ha una fretta cieca di raggiungere una stabilità impossibile. Il desiderio «più vecchio di Marx e più giovane di Marx» di dare al mondo un ordine più giusto di cui parla il vecchio Werner nella sua conferenza, tipico della generazione di Kieslowski, va ad infrangersi per Witek nell’irreggimentazione, mentre l’esistenza privata, divorata dalla fretta del “dover essere”, diviene l’inconsapevole causa efficiente della negatività del caso. La “svolta del destino” nella stazione, dove lo scontro con il barbone alcolista è in grado di determinare, indirettamente, la vita di Witek, dimostra come ogni scelta sia in balia di eventi insignificanti e casuali (l’incontro con il vecchio militante comunista, lo scontro con la polizia, l’incontro con la studentessa di medicina), a cui viene attribuito a posteriori un senso che di per sé non avrebbero. Ma c’è un altro fattore che muove la ferrea volontà del protagonista, ed è quello della ricerca dell’amore: la presenza di una donna ha un ruolo determinante nel colmare il vuoto affettivo in cui sembra essersi temprato il suo carattere. Le compagne di Witek rompono la graniticità delle sue scelte, e hanno il potere di sfatare e mettere in contraddizione la monoliticità del suo comportamento. L’incursione dell’amore nella vita di Witek è un’esperienza di autorivelazione, che lo pone a confronto con quell’elemento aleatorio contro il quale egli lotta con tutte le sue forze, e lo muove nei meandri della propria emotività senza più difese, mettendo a nudo la fragilità del suo carattere e la disperazione nascosta dietro le sue scelte, che ne inficia la libertà reale. Witek, nonostante le sue intenzioni, dimostra che il caso non è solo quello degli eventi esteriori del mondo, con cui si può interagire, ma anche quello dei sommovimenti interiori, di quelle inesprimibili regole date dall’unicità del nostro rapporto con la vita, che è ciò che si definisce destino.

FOT. 42

La vita di Witek resta sempre la stessa, estranea all’equilibrio che pervade ognuno degli ambienti in conflitto. Chi in ogni contesto sembra essere in più, prestato casualmente, è proprio Witek: la semplice pedina di un ordine illusorio che promette riscatti in cambio di fede. La perplessità di Kieslowski si incunea proprio nell’impossibilità di un’autonomia reale del singolo, nel combattimento sempre in atto tra la necessità utopistica di stare dentro per cambiare le cose (come sostiene l’intellettuale di partito Adam), e la volontà concreta di determinare la propria vita senza essere obbligati dalle circostanze, l’atteggiamento del “terzo” Witek. È questo, per Kieslowski, il punto etico della questione politica: il libero arbitrio del singolo, precondizione di ogni vita degna di essere definita tale. L’essere considerati, per usare un’espressione di Adorno, esseri perfettamente sostituibili, è il punto focale dell’attacco che Kieslowski rivolge con Il caso alla “ragion politica” come forma sofisticata di giustificazione della violenza sociale latente nei meccanismi del potere. Kieslowski, come il Witek del primo episodio, pretende dunque di “stare dentro le cose”, ma arrogandosi l’autonomia del proprio pensiero, anche a costo di essere frainteso da un referente che, evidentemente, non ha. Le ideologie contrapposte, ne Il caso, vengono messe sullo stesso piano perché subordinate

alla libertà negata di Witek: e questa petizione di principio individualista, all’epoca, non poteva essere accettata. Per l’opposizione come per l’intelligencija filogovernativa, un film come questo diventava inaccettabile proprio per la sua distanza quasi-documentaristica dal narrato, per la sua nonidentificabilità immediata, per lo straniamento con cui il regista trattava la materia politica, dando un giudizio etico radicale su di essa, e trascurando la casistica dei contenuti ideologici su cui si basava la retorica di gruppo. Per queste ragioni di fondo, prima ancora che per la presunta “legittimazione della scelta dell’opposizione”, il destino de Il caso sarà quello di restare negli scaffali dell’Ufficio di Censura per quasi tutta la durata della legge marziale, fino alla fine del 1987, anno in cui uscirà nelle sale polacche, per poi essere proiettato l’anno successivo in Francia, assieme a Breve film sull’uccidere. La Storia e lo “straniamento impossibile”: da Una breve giornata di lavoro (1981) all’incontro con Krzysztof Piesiewicz

Nel clima incandescente del 1981, Kieslowski dà vita ad un progetto televisivo assieme all’amica scrittrice Hanna Krall, rielaborando un lavoro giornalistico di quest’ultima dal titolo La vista dalla finestra del primo piano. Il tema della “finestra aperta”, dello sguardo dalla sicurezza dell’interno verso l’insicurezza dell’esterno (fot. 43), viene ripreso metaforicamente in questo film politico particolarmente criticato dallo stesso Kieslowski, che lo accusa di velleità e di «realismo socialista à rébours» (Kieslowski racconta Kieslowski, cit.). Krotki dzien pracy (Una breve giornata di lavoro) è forse l’attacco più didascalico portato da Kieslowski contro il regime comunista, la ricostruzione di avvenimenti recentissimi della storia polacca, ripercorsa con uno stile da dossier giornalistico (fot. 44). Ciò che risulta fastidioso agli occhi del regista oggi è la schematicità dello schierarsi a favore della gente, i termini semplificanti e un po’ patetici dell’atto d’accusa sottinteso dal film, del tutto distanti dalla dialetticità del discorso etico già intrapreso sulla vita politica. Il film, difficile da reperire, è stato mostrato in televisione solo dopo la fine della legge marziale, e non è stato mai distribuito (anche per volontà dell’autore) nei cinema, nonostante sia stato girato in 35 millimetri.

FOT. 43

FOT. 44

L’idea di fondo di Una breve giornata di lavoro era di mostrare la figura del segretario di

partito di Radom a tutto tondo, e di mettere in luce i rapporti di forza tra la presunta sicurezza del palazzo, il Comitato centrale e la folla disperata e irrefrenabile. Kieslowski aveva pensato di affidare la parte del segretario a Filipski, un attore e regista di teatro polacco celebre per la sua arroganza, antisemita convinto e di convinzioni autoritarie, oltreché straordinario istrione. Ma il progetto rimase solo sulla carta, a causa delle evidenti idiosincrasie personali tra Filipski e Kieslowski. Quel che è venuto fuori, dopo il montaggio del lungo materiale girato, è una sorta di impossibilità morale dell’autodifesa del segretario, che mette in rilievo solo l’evidente ingovernabilità della situazione, e il gioco delle parti tra gli uomini coinvolti in questo stralcio di storia recente, ancora calda, ancora impossibile da straniare. Il film fu montato in fretta e furia negli studi della WFD, per essere completato prima che gli eventi politici rendessero impossibile il proseguimento del lavoro. Dopo l’entrata in vigore della legge marziale Kieslowski, già alle prese con la censura, attraversò quasi un anno di inattività, nel quale si trovò costretto a prendere in considerazione, del tutto controvoglia, l’ipotesi di tornare a lavorare come documentarista per lo Stato per poter sopravvivere. A questo scopo, nel 1982, scrisse una serie di sceneggiature per cortometraggi, ancora una volta immancabilmente di argomento politico. La prima idea presa in considerazione aveva l’ironico titolo di Il pittore (Malarz), ed era un cortometraggio sulla storia di una giovane recluta dell’esercito a cui veniva affidato l’incarico di cancellare o rendere illeggibili con la vernice le scritte e i graffiti sui muri di Varsavia rivolte contro il Partito e contro il Comitato di Salvezza Nazionale presieduto da Jaruzelski, oppure, nella migliore delle ipotesi, la più esilarante, modificarne le lettere per cambiarle di segno, trasformandole in scritte di sostegno al governo. Un progetto di più ampio respiro, sempre legato alla contingenza politica, era quello di riprendere stralci di processi per insubordinazione alla legge marziale, che si susseguivano a ritmi frenetici ogni giorno, con condanne assolutamente sproporzionate rispetto all’entità dei reati, che andavano dalla scritta illegale al possesso di stampa clandestina, dall’adunata sediziosa alla resistenza a pubblico ufficiale. Inaspettatamente, questo secondo progetto fu approvato dal Ministero della Cultura, e Kieslowski si rivolse ad Hanna Krall perché gli presentasse qualche uomo di legge per discutere dei termini in cui realizzarlo. L’amica giornalista gli presentò un giovane avvocato di Varsavia, che aveva una lunga esperienza nel campo della difesa di organizzazioni sindacali e politiche clandestine come il KOR e la Confederazione per l’Indipendenza Polacca: si trattava di Krzysztof Piesiewicz. Piesiewicz accettò che alcuni dei suoi clienti fossero ripresi durante i processi, e diede una mano a Kieslowski nell’impostazione dello scenario. Quando la lavorazione del film ebbe inizio, in tutte le Corti in cui si girava, i giudici, condizionati dalla presenza della troupe, modificavano l’andamento del processo, e diminuivano le pene inflitte fino a renderle del tutto simili a quelle precedenti alla legge marziale, quando non giungevano addirittura ad assolvere l’imputato. Per più di un mese e mezzo, Kieslowski cominciò e interruppe le riprese di decine di processi statici, viziati, dalle pene risibili: tutto questo vanificava la tesi di partenza del film, l’assurdità del regime giudiziario durante la legge marziale, e, soprattutto, rendeva irrealizzabile l’idea di mettere a confronto i differenti gruppi di persone coinvolti nei processi, dalla corte agli accusati, dal collegio di accusa a quello di difesa. Di fronte alla “testimonianza” della macchina da presa i processi si autoriformavano, e il film rischiava di diventare, contrariamente ai suoi propositi, un’apologia umanizzante della legge marziale e dei suoi uomini. Ancora una volta, dunque, come al Filip Mosz di Il cineamatore, la realtà sfuggiva dalle mani di Kieslowski per adeguarsi all’immagine. Fu così che Kieslowski abbandonò l’idea del documentario, ma non rinunciò allo spirito di fondo su cui era costruito, la volontà di dimostrazione della sconfitta che, con la legge marziale, si era abbattuta su un’intera generazione, quella di cui Kieslowski faceva parte, su tutte le parti in

causa, nessuna esclusa. A partire da questo primo fallimento, Kieslowski e Piesiewicz decisero di mantenere intatto il progetto sulla “Polonia offesa”, e di realizzare insieme la loro prima sceneggiatura: in questo modo è nato Senza fine. Amore e morte nella Polonia di Jaruzelski: Senza fine (1984)

«Probabilmente sono sempre più interessato da ciò che è dentro di me, nella mia testa, nella mia pancia. Oriento la mia direzione verso ciò che non è chiaro, il mistero, il dubbio, la premonizione. L’esteriorità non esiste.» (Hubert Niogret (ed.), Entretien avec Krzysztof Kieslowski, in «Positif», n. 332, ottobre 1988). Questa dichiarazione di Kieslowski all’indomani dell’uscita europea di Senza fine (Bez Konca) e del successo di Breve film sull’uccidere a Cannes, rende perfettamente l’idea della consapevole rivoluzione estetica imposta dal regista ai propri film: ciò che è senza parole, le emozioni che guidano il percorso del singolo nella storia, diviene senza più alibi il punto focale delle “indagini metafisiche” sul sentimento del mondo dei suoi personaggi. Senza fine si dipana a partire dal trauma dell’assedio, dalla tragedia di uno “stato di guerra” che ha costretto un’intera nazione ad abbassare la testa di fronte ad un senso cieco e generalizzato di sconfitta: una Polonia ridotta a fantasma di se stessa, mortificata e offesa, quella governata dal generale Wojciech Jaruzelski. L’idea primitiva di un film sui processi politici discussa con Piesiewicz, a due anni di distanza, cambia di forma e di baricentro: le aule dei tribunali, i luoghi di aggregazione silenziosa degli oppositori del regime, la drammatica inanità di una vita a libertà vigilata, tutto resta sullo sfondo delle sconvolte emozioni dei protagonisti della storia, le cui vite sono state spezzate dagli eventi politici. Ad impersonare il senso di morte interiore che aleggia su tutto il film, Kieslowski pone la figura dell’avvocato Antoni Zyro (fot. 45), interpretato da Jerzy Radziwilowicz, volto paradigmatico del cinema di opposizione polacco, interprete di L’uomo di marmo e L’uomo di ferro, portatore per associazione visiva di quei valori di rettitudine morale e intransigenza nei confronti del potere che Andrzej Wajda aveva epicizzato nei suoi film più paradigmaticamente politici. Kieslowski fa morire questo personaggio all’inizio del film, che coincide con l’inizio dello stato d’assedio, e lo fa restare a margine del mondo dei “vivi”, testimone silenzioso di qualcosa che sta lentamente scomparendo: la volontà di lottare per poter alzare la testa. La sua permanenza non è quella di un fantasma o di un’anima dolente da teatro Nô, ma la presenza concreta di una figura carismatica, che continua a costituire, oltre la morte, un punto di riferimento ideale di cui la scomparsa non fa che accrescere la vividezza. Zyro continua ad essere senza più esistere: la sua esistenza è stata uccisa, in senso letterale e metaforico, dallo stato d’assedio, eppure egli continua ancora a giudicare con ciò che è stato, e a condizionare i pensieri e le gesta dei due protagonisti paralleli del film, la sua giovane vedova e l’operaio processato per sciopero di cui era avvocato difensore. Attraverso l’assenza del personaggio, vengono dunque fatti risalire alla stessa radice, lo stato di mortificazione, tanto la mancanza d’amore che quella del coraggio intellettuale, che per Kieslowski rappresentano la vera essenza di una condizione politica e sociale assurda, la cui responsabilità va addebitata alla collettività nel suo complesso, e non solo alla sua parte dominante. In questo squallore morale, che si riflette nell’inquietudine e nel vuoto delle relazioni di Ursula, la vedova di Zyro, solo la scoperta di essere ancora vulnerabili e la rinuncia alla sopravvivenza ad ogni costo sembrano poter recuperare all’esistenza quel senso di dignità che lo stato d’assedio sottrae.

FOT. 45

Senza fine è in primo luogo una storia d’amore, che parte dalla smentita dell’idea di Witek, il giovane protagonista di Il caso, che si possa decidere ciò che si vuole essere, che ci si possa autodeterminare moralmente: la politica viene mostrata nel film come un’astrazione fatta sulla base concreta dei rapporti umani, non lo sposalizio di un ideale teorico, ma una conseguenza delle scelte affettive di cui è fatta la vita, e dunque, piena di contraddizioni. Da una parte, ad esempio, è vero che solo dove resta la memoria può esserci coscienza delle proprie azioni. Ma la memoria è un’arma a doppio taglio, e nei momenti di stanchezza può inglobare il presente fino a svuotarlo di senso. È quasi l’alba. Presso un cimitero, durante una veglia funebre, una mano accarezza la testa di un bambino. A giorno fatto, un uomo si aggira in una casa. È Antoni Zyro (Jerzy Radziwilowicz), un avvocato morto d’infarto da quattro giorni. Con aria serena, Antoni racconta la sua morte, e la sensazione di enorme silenzio, come se tutto venisse visto dall’alto, degli ultimi momenti della sua vita, i pensieri banali, l’assenza di ogni sensazione. Poi descrive Ursula (Grazyna Szapolowska), sua moglie (fot. 46), e Jacek, suo figlio, mentre li guarda svegliarsi e fare colazione. Ursula avverte per telefono Tomek (Marek Kondrat), il miglior amico di Antoni, che suo marito è morto. La moglie di un cliente di Antoni, Joanna (Maria Pakulnis), tormenta Ursula per telefono, chiedendole un appuntamento. Ursula accompagna Jacek a scuola, e quando torna a casa trova la donna che la aspetta per le scale. Vuole vedere il dossier di suo marito, l’operaio Dariusz (Artur Barcis), che sta per essere processato per sciopero non autorizzato (fot. 47). Dopo qualche esitazione, Ursula le mostra il fascicolo, ma la donna non trova ciò che cercava. Joanna si rivolge poi ad un vecchio avvocato, l’avvocato Labrador (Aleksander Bardini), il maestro di Antoni, perché difen-da lui la causa politica di suo marito. Labrador, dopo qualche esitazione, accetta.

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FOT. 47

Ursula è a casa, sfoglia il codice penale, e vi trova dentro dei dollari e vecchie foto-tessera del marito. Poi, in una busta indirizzata ad Antoni, trova delle foto che la ritraggono nuda, a cui è stato asportato il volto. Ursula parla con Tomek delle foto, e scopre che Antoni era a conoscenza del fatto che sua moglie da giovane aveva posato nuda per denaro, ma aveva fatto finta di non sapere. Ursula sfoglia l’elenco degli avvocati. Vicino al nome dell’avvocato Labrador c’è un punto interrogativo rosso. Ursula se la prende con Jacek, il quale nega di essere stato lui. Mentre è diretta a casa di Joanna, dove si tiene una riunione di simpatizzanti di Solidarnosc per scrivere una lettera di protesta contro le autorità, Ursula assiste allo strano fenomeno della sua automobile che si arresta, muta, per qualche istante. Poco dopo, in un silenzio agghiacciante, Ursula assiste ad un incidente mortale: lo scontro di due ragazzi contro un pullman. In casa di Joanna, Ursula incontra una donna che conosceva Antoni quand’era studente, che le parla di lui. In prigione, l’avvocato Labrador cerca di convincere Dariusz a dargli un appiglio per non essere condannato, di fargli smussare la sua radicalità (fot. 48). Ma al contrario, Dariusz insieme agli altri prigionieri politici ha deciso di iniziare lo sciopero della fame. Tornata a casa, Ursula trova una vecchia foto di Antoni con la donna della festa. Ne chiede a Tomek la spiegazione. Tomek si dichiara, e dice che lui e Antoni hanno sempre amato la stessa donna, prima quella della foto, poi Ursula.

FOT. 48

Ursula decide di andare a letto con un giovane studente americano incontrato per caso (Daniel Webb), ma durante il rapporto sta malissimo, e piange, mentre Antoni la guarda immobile. Ursula ha sporcato la schiena del giovane amante di nero, e cerca di spiegargli che spesso le cose che lei tocca diventano nere, ma alla fine ci rinuncia. Ursula mette di nascosto dei dollari in casa di Joanna. Joanna le confessa la sua lacerazione familiare, spiegandole che suo padre è dalla parte opposta, è un sostenitore del regime. Ursula va da uno psicoterapeuta (Tadeusz Bradecki) per farsi ipnotizzare e cercare di togliersi dalla mente il marito. Ma l’effetto dell’ipnosi è il contrario: Ursula vede Antoni, e le sembra di riuscire a comunicarci. Tornata a casa, si masturba piangendo e invocando il nome di Antoni (fot. 49). Jacek la sente, entra nella stanza, e le confessa di aver sentito gli stessi lamenti una notte, quando ha spiato i suoi genitori nudi fare l’amore. Ursula spiega a Jacek che lui è nato dall’amore che c’era fra lei e Antoni.

FOT. 49

Mentre Dariusz prosegue da irriducibile il suo corpo a corpo con le autorità, i suoi amici cominciano a dissociarsi. Labrador cerca di approfittarne, e gli dice di far finta di dissociarsi per poter uscire e continuare a lottare per la sua causa. Il giovane assistente di Labrador (Michal Bajor) è piuttosto irritato da questo discorso opportunistico, ma Labrador gli spiega che il loro lavoro consiste nel fare assolvere gli imputati ad ogni costo. Poi escogita un’altra tecnica di persuasione. Fa dire a Dariusz dal suo assistente, provocatoriamente, di urlare tutta la verità da dietro le sbarre, di dichiarare il suo odio per il sistema e le ragioni della sua parte. Tomek ha deciso di partire per sempre dalla Polonia, è troppo amareggiato per restare. Ursula cerca di dirgli che ha visto di nuovo Antoni, ma non ci riesce. Poi torna dal terapeuta, che sta ipnotizzando delle persone per togliergli lo stimolo della fame e farle dimagrire. Ursula vorrebbe ripetere l’esperimento, ma il terapeuta si

rifiuta dicendole che non deve prenderlo per un medium tra lei e Antoni. In tribunale si attende la sentenza per Dariusz. Il giudice, inaspettatamente, lo condanna a diciotto mesi con una sospensione della pena per due anni. Tutti i suoi compagni vanno via straniti dall’evento sospetto. In aula c’è anche Antoni. Labrador sente di avere perso, nonostante la “vittoria” della sua difesa. Labrador legge a Ursula e Joanna dei versi sulla libertà interiore. Ursula è sola in casa (fot. 50). Taglia i fili del telefono. Gira le manopole di tutti i fornelli della macchina da cucina, lasciando aperto il gas. Poi si chiude la bocca con un cerotto e avvicina la testa al forno. Pian piano comincia a perdere i sensi. Antoni la chiama, Ursula va ad abbracciarlo. I due escono insieme di casa, nell’aria che si imbruna, verso sera.

FOT. 50

Il primo film scritto da Kieslowski con Piesiewicz è un’opera amara, permeata fin dalle prime immagini da un’atmosfera lugubre che si riflette nella grave monotematicità della colonna sonora di Zbigniew Preisner, anche lui per la prima volta collaboratore del regista. Eppure la morte, in questo film, non viene mai trattata alla lettera: essa diventa piuttosto l’espressione concreta di ciò che è senza fine, del fermarsi del tempo nell’eternità affettiva della memoria. In un senso generale, dunque, la morte è l’atto di estrema dissociazione, di estrema protesta che si oppone alla triste scelta di “dimenticare per sopravvivere”, alla stagnazione morale cui tutti sono costretti dalla minaccia immanente dello stato d’assedio. Ma la morte è anche, nella vita di Ursula, un legame positivo, il motore e il senso d’un amore parossistico, che supera d’un balzo tutte le motivazioni materiali dell’esistenza: è solo questo mondo a negare la possibilità reale dell’amore, ma nell’eternità concreta dei sentimenti tutto è diverso, la morte smette di essere assenza, e assume la valenza di un ricongiungimento definitivo alla persona amata da parte di chi ha scoperto, per negazione, la necessità di un amore perduto che questa vita le ha impedito di comprendere per tempo. Non a caso il film avrebbe dovuto chiamarsi Szczesliwy koniec, ovvero “Lieto fine”, riferendosi all’immateriale raggiungimento dell’ossessiva idea d’amore della protagonista femminile, nell’ambiguità dell’atto di negazione di sé come unico modo per negare realtà alla crudeltà della vita. Il primo finale girato del film mostrava Antoni e Ursula che camminavano in una sopraelevata cittadina molto trafficata, finché la strada non spariva, mentre le automobili continuavano a passare: ma tutta la realtà statica non esisteva più, e i due amanti si trovavano a camminare nel vuoto. La scena è stata poi sostituita da Kieslowski con un’altra dal gusto più vicino alla surrealtà come era stata definita da Breton, al “superamento della realtà tramite se stessa”: bisognava giungere ad ottenere la stessa sensazione emotiva, esprimendo tramite il concreto una realtà mentale. Inquadrando la scena del loro allontanarsi nel riflesso sempre più tenue del vetro smerigliato dell’anta di un armadio, Kieslowski è riuscito a dare il senso della crescente irrealtà di ciò che è “dopo la vita” senza ricorrere ad alcun miracolo tecnico. Senza fine, nel suo andamento narrativo spiraliforme, è interamente costellato di immagini ambigue, di premonizioni e di interrelazioni che ruotano intorno all’assenza di Antoni Zyro. Dall’arresto dell’automobile di Ursula come analogo dell’irruzione della morte nell’incidente stradale, all’infrangersi improvviso dell’orologio che il defunto avvocato Zyro aveva regalato al suo collega Labrador, si giunge poi ad una vera e propria “sinfonia del nero”: dal cane nero che segue Ursula per tutto il film, e

che sa riconoscere il fantasma di Antoni, al nero di cui Ursula sporca con le sue mani tutto ciò che tocca, al nero del fondo del forno che sparge il gas con cui Ursula troverà la morte, per giungere al nero della notte in cui si svolgono le veglie funebri. La solitudine di Zyro corrisponde in maniera perfetta alla solitudine di Ursula e Dariusz, la sua morte alla loro mortificazione, all’essere lasciati soli con la propria memoria e con la propria visione del mondo. Ma mentre il dramma della solitudine di Ursula si consuma nell’ambito dell’esistenza privata, quello dell’operaio Dariusz si corrode nel dubbio pubblico dello scollamento tra scelta etica e scelta pragmatica, tra giusto agire e coerenza politica. Egli si trova stretto nella morsa irresolubile di tre visioni del mondo, che corrispondono alle tre linee difensive degli avvocati che si avvicendano alla sua difesa. La prima è quella, utopistica, dell’avvocato Zyro, l’uomo libero e indipendente, onesto e coerente con i propri principi libertari, secondo il quale Dariusz avrebbe dovuto decidere autonomamente la sua linea di difesa. La seconda è quella del vecchio avvocato Labrador, presso cui Zyro era stato praticante, che esprime il conformismo del buon senso, la necessità di continuare a vivere attraverso il compromesso, perché la morale dev’essere sottomessa alla prassi, e la prassi vuole solo uomini vivi e liberi di agire. La terza linea, espressa dal giovane assistente di Labrador, è provocatoria, quasi cinica nel suo consigliare all’operaio di sfruttare il processo per creare un caso, per attrarre l’attenzione internazionale sulla disumanità del regime. È la posizione più sensazionalista e ideologica, quella più vicina alle frange più estreme dell’opposizione, che dimentica i singoli uomini trasformandoli tutti in potenziali eroi su cui scrivere la storia della rivoluzione. A giudicare dalle reazioni indignate delle istituzioni, Senza fine sembra aver toccato nel vivo il problema del confronto politico: la Chiesa, per motivi morali, ha trovato riprovevole un film in cui per una madre il sesso supera in importanza il problema delle responsabilità morali nei confronti del figlio minorenne, e in cui il suicidio viene visto come mezzo disperato per raggiungere una felicità impossibile. L’opposizione ha duramente attaccato Kieslowski perché ha mostrato tutte le sue divisioni interne mostrando un serio scetticismo nei confronti dell’idea di “vittoria finale”, ed è giunta ad accusare Kieslowski (soprattutto per quanto concerne la vicenda di Dariusz) di aver lavorato su commissione delle autorità, delle quali il film eseguirebbe una sorta di apologia. Da parte sua, il Partito non ha esitato ad attaccare violentemente Senza fine dalle colonne dell’organo ufficiale, «Tribuna Ludu», additandolo come chiaro esempio di sabotaggio anti-socialista e vademecum per le tecniche dell’opposizione, basando il suo giudizio critico soprattutto sulle numerose stroncature del film da parte della critica sovietica. Il sostanziale scetticismo di Kieslowski nei confronti dell’agire politico, e l’uso del paradosso per esprimere un disagio non codificato restano seri handicap per la sopravvivenza artistica in un paese diviso da una “guerra fredda” al suo interno. Ma è proprio su questo atteggiamento di fondo che cresce il sodalizio con Krzysztof Piesiewicz, avvocato dei processi politici più importanti degli anni ’80, incluso quello dell’assassinio di padre Popieluszko, eppure come lui convinto assertore dell’autonomia dell’arte, della sua libertà analitica incondizionata. Senza fine segna in questo senso lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo Kieslowski: come il regista dirà in un’intervista, da questo momento in poi incomincia a «piazzare la macchina da presa altrove», a cancellare dal suo orizzonte poetico il legame diretto con la “questione politica”, dedicandosi all’“astratto” universale della condizione umana, e lasciando per sempre il “concreto” politico della Polonia alle proprie spalle. Decalogo: dieci film sull’indecifrabilità della vita (1989)

Mentre è ancora in corso la lavorazione di Senza fine, Kieslowski ha già in mente il nuovo progetto cinematografico che intende realizzare insieme a Piesiewicz: si tratta di un film sull’illogica genesi di un omicidio, un film violento, estremo, che culmina con la condanna a morte del giovane assassino. Discutendo quest’idea di partenza, Piesiewicz, attratto dalla

contraddizione in termini dell’“uccisione dell’omicida” da parte della Legge (con la quale si era scontrato concretamente anche nella pratica di avvocato difensore), propone al regista di elaborare un’idea che lo ossessiona da molto tempo: quella di realizzare un film sul Decalogo, sui dieci precetti morali dell’Antico Testamento sul cui sfondo si basa anche gran parte della giurisprudenza, sottoponendoli ad una sorta di verifica nel mondo contemporaneo. Kieslowski, che in quel periodo sta sostituendo Krzysztof Zanussi alla guida produttiva del Gruppo TOR, sviluppa in un primo tempo la proposta di Piesiewicz in un progetto di scrittura di dieci film di un’ora per la televisione, ognuno ispirato ad un comandamento, da affidare a registi esordienti, tenendo per sé solo la realizzazione del quinto, non uccidere, nel quale poter riprendere l’idea originaria del film sull’omicidio. Ma durante i diciotto mesi di scrittura delle sceneggiature, quello che era nato come un progetto sperimentale comincia gradualmente a prendere corpo come gioco estetico entusiasmante, dagli sviluppi imprevedibili, una macchina a orologeria in grado di far esplodere, una ad una, tutte le più laceranti contraddizioni dell’uomo posto di fronte agli enigmi della propria coscienza. Le dieci sceneggiature, presentate alla Televisione Polacca nel 1986, restano bloccate nei suoi uffici per un anno (siamo ancora durante il regime militare) prima che giunga l’approvazione definitiva del progetto da parte delle autorità. È durante questo periodo di attesa che Kieslowski, ormai innamorato del Decalogo, matura la decisione di girare da solo tutta la serie dei dieci episodi previsti, affidandone ognuno ad un diverso direttore della fotografia (cosa non banale, data l’estrema importanza della fotografia nell’economia espressiva dell’opera). Ma il finanziamento stanziato dalla Televisione di Stato è troppo esiguo per consentire la realizzazione di un’opera così complessa. È per questo motivo che il regista è costretto a rivolgersi ancora una volta al Ministero della Cultura, chiedendo un finanziamento per la realizzazione di due film a basso costo tratti dalle sceneggiature del Decalogo e destinati al circuito cinematografico: così nascono Breve film sull’uccidere (Krotki film o zabijaniu, 1988), versione lunga del quinto comandamento, e Krotki film o milosci, (Breve film sull’amore, 1988), versione lunga del sesto comandamento («Non commettere atti impuri»), tradotto in italiano con il titolo di Non desiderare la donna d’altri. A partire da quel momento, le riprese dei dodici film hanno luogo contemporaneamente in un arco di tempo di sedici mesi, tra il 1987 e il 1988, con la sola pausa necessaria per portare a termine il montaggio dei due lungometraggi cinematografici, che saranno proiettati nelle sale polacche tra la fine del 1988 e l’inizio del 1989, mentre Kieslowski sta ultimando l’edizione definitiva dei dieci episodi televisivi. Cinque anni di lavoro, dal 1984 al 1989, per portare a compimento un progetto colossale, una vera scommessa per l’apparato produttivo statale polacco, con una tenacia soprendente in un autore che all’inizio dell’itinerario si trova con un film, Il caso, bloccato da anni negli uffici della Censura, e la cui ultima opera, Senza fine, è stata boicottata tanto dalle autorità governative che dall’opposizione del suo Paese. Krzysztof Piesiewicz racconta che l’idea del Decalogo gli sia stata ispirata dalla visione nel Museo Nazionale di Varsavia di un dipinto polacco del XIV secolo, raffigurante le Tavole della Legge: una grande tavola lignea divisa in dieci parti, in ognuna delle quali una breve scena di vita quotidiana aveva il compito di illustrare uno dei comandamenti. Il dato più sorprendente di quell’opera era la libertà espressiva dell’artista, il suo fornire il ritratto della propria epoca riuscendo a fondere la primarietà dei precetti religiosi con la normalità degli eventi rappresentati, descrivendo la crisi dell’uomo di fronte alla Legge in maniera assolutamente lontana dall’enfasi del rapporto tra uomo e Dio. Lo schema del Decalogo, per molti aspetti, riflette quello del polittico trecentesco descritto da Piesiewicz. Un grande condominio periferico di recente costruzione, piuttosto anonimo, situato nel quartiere Stowki di Varsavia, fa da cornice a dieci storie di vita quotidiana, ognuna contrassegnata dal numero del comandamento corrispondente: ma il rapporto con il precetto biblico spesso è solo tangenziale,

allusivo, riposto tra le pieghe della coscienza individuale dei personaggi piuttosto che nella dinamica esplicita degli eventi. I comandamenti vengono così svuotati da Kieslowski proprio di quella che parrebbe essere la loro caratteristica essenziale: l’ineluttabilità divina. Ricondotti alla loro dimensione umana, essi entrano in gioco nella dinamica dei dieci quadri del film per contrasto con l’indecifrabilità dell’esistenza, con la caotica unicità del destino individuale, mettendo in luce il baratro che divide l’assolutezza delle leggi morali dalla continua eccezione reclamata dalla vita: «Non credo che i comandamenti siano la legge fondamentale della religione ebraico-cristiana. Per me sono solo dieci frasi, ben scritte, che cercano di regolare i rapporti fra la gente. E sono interessanti perché nessuna ideologia le ha mai messe in discussione. Quel che mi affascina, dei comandamenti, è che tutti siamo d’accordo sul fatto che sono giusti, ma al tempo stesso li violiamo, tutti i giorni. Mi interessano perché consentono di indagare sulla doppiezza dell’uomo» (Krzysztof Kieslowski in La mia Bibbia senza certezze, intervista a Krzysztof Kieslowski e Krzysztof Piesiewicz, di Alberto Crespi, in «L’Unità», 19 settembre 1989). Lo sguardo sulla vita, la sua impossibilità di cogliere fino in fondo il mistero che si cela dietro ad ogni evento, anche quello in apparenza più banale, è, secondo un’omologia strutturale cara al regista, sia la forma che l’oggetto delle dieci storie del Decalogo. Al centro di tutto è infatti il conflitto «tra la volontà di capire il mondo e l’impossibilità di capirlo». Da una parte questo conflitto coinvolge l’osservazione dall’esterno, quella che accomuna il regista e lo spettatore messi di fronte al silenzio degli eventi della vita, al loro essere in balia del caso. Dall’altra vi è l’indecifrabilità dei comportamenti umani, che scartano dalla razionalità che in essi si potrebbe supporre per seguire la spinta delle emozioni. Sullo sfondo razionale della morale, le emozioni spesso conducono lontano dalla consequenzialità logica, cosicché i personaggi agiscono in direzioni imperscrutabili, le cui motivazioni restano oscure agli occhi del mondo (e dunque, agli occhi “esteriori” del film). Kieslowski entra ed esce dalle due prospettive: l’uomo che non decifra il mondo, il mondo che non decifra l’uomo. In questo senso, assume un’importanza straordinaria nell’economia dell’intero Decalogo il personaggio senza nome interpretato da Artur Barcis, che di volta in volta, sotto diverse spoglie, si trova ad essere silenzioso e casuale testimone delle crisi laceranti dei personaggi e della paradossalità degli eventi. Egli è l’umore stesso del film, il suo sguardo è l’incarnazione del mondo, dell’altro, del prossimo che si sfiora senza fermarsi, e che pure avrebbe potuto cambiare la nostra vita. Il suo è uno sguardo a volte d’incomprensione, a volte d’indifferenza, a volte di compassione, ma senza una sola parola: uno sguardo dalla superficie esterna e visibile degli eventi, presente ma distante, un mondo a portata di mano con cui è impossibile comunicare. La sua presenza nei momenti di svolta del destino dei personaggi, benché numinosa nella sua inspiegabilità, è lontana da una manifestazione terrena del divino. Egli è semmai quello spinoziano “frammento di Dio” che è in ognuno di noi, quello sguardo nostro testimone a cui – non importa a chi appartiene – nei momenti cruciali della nostra vita non possiamo sottrarci. La società, i cui paradossi erano al centro dell’opera kieslowskiana fino a Senza fine, pure se invisibile nei suoi aspetti immediatamente politici, nel Decalogo è tutt’altro che scomparsa. Essa si è trasfusa nella prospettiva del personaggio, che percorre da solo le strade dell’«inferno dell’etica» (come recita il titolo del seminario della vecchia professoressa di Decalogo, 8), dove, come l’apostolo Pietro, finisce per tradire ciò che si propone di non tradire, pur sapendo che rischia di tradirlo. È con se stesso, con il mandato della società che l’uomo, in quanto essere razionale e morale, esegue inconsapevolmente, che il protagonista-tipo del Decalogo va a scontrarsi con violenza. L’uomo diviene così “doppio” suo malgrado, scisso tra le perentorie ragioni della sua morale e l’indeterminabilità dei suoi affetti, nel cui ambito non esiste giustizia. Kieslowski solleva il dubbio su cosa sia davvero morale per un uomo, se adottare la

logica dello sguardo “esterno” del mondo, e scegliere così di sacrificarsi tradendo ciò che sente per seguire ciò che ritiene “giusto”, o al contrario tradire le sue istanze etiche per restare fedele solo a se stesso, e agire seguendo ciò che sente, a costo di essere “ingiusto”. Questa doppiezza è fatale, nessuno sforzo di volontà può risolverla. Kieslowski e Piesiewicz, comunque, non si limitano a porre il problema morale, ma sembrano suggerire una sua diversa visione nel superamento di quella pretesa teleologica che porta a individuare una finalità in ogni cosa: pretesa che è alla base tanto della razionalità umana quanto dell’umano bisogno di Dio. Se il criterio della morale è legato all’individuazione di una finalità in ogni azione, allora tutti gli uomini sono ingiusti ed egoisti, poiché si allontanano costantemente dall’opportunità del buon senso per seguire quelle emozioni basilari su cui i dieci comandamenti si propongono di esercitare un controllo, di cui vogliono essere una guida razionale. La finalità esige la risposta alla domanda perché, ma questa domanda, il più delle volte, non ha alcuna risposta. Ed è cercando una risposta al perché di quanto accade, rivelando il bisogno di una certezza che il mondo non sia in preda al caos e all’irrazionalità, che nasce l’esigenza di un Dio giudice e motore delle cose. Ma la finalità è una trappola. Nulla dimostra che in quanto accade esista una finalità, né che ce ne sia bisogno per poter comprendere la vita. Come ha dichiarato Kieslowski, «in generale il “messaggio” dei dieci film, se esiste, è di cercare Dio in altre cose che vadano oltre Dio» (La mia Bibbia senza certezze, intervista di Alberto Crespi, cit.). Dunque, non c’è alcuna risposta alla domanda sulla vita, poiché l’errore consiste nella domanda stessa. La domanda può essere però superata, si può andare oltre l’esigenza della comprensione razionale senza dover razionalizzare questa istanza di fede in un ente supremo che, in quanto supremo, non si può comprendere: l’«oltre Dio» di cui Kieslowski parla è tra le cose, è riuscire a individuare la finalità della vita nella vita stessa, senza cercarla in qualcosa di ulteriore. Vivere la vita significa riuscire a coglierne il senso anche nell’incertezza, rinunciando a risolvere le sue contraddizioni, e lasciandosi guidare dalle emozioni e dai sentimenti che soli sono in grado di dare senso agli eventi, altrimenti muti. Kieslowski e Piesiewicz rifiutano di ridurre l’inesprimibilità della vita agli schemi di un teorema etico chiuso, ad una ragione universale che non ammette eccezioni, sia essa quella della scienza o quella della religione. Come Piesiewicz nella sua attività forense, gli autori del film sembrano prendere le difese degli uomini che trasgrediscono se stessi, piuttosto che additarne le colpe. Il loro sguardo è solidale con la sofferenza che consegue alle scelte sbagliate, senza però giungere mai ad elevare la sofferenza a discriminante della profondità dell’uomo. La vita non può che essere compresa, accettata e amata per quello che è, anche se il caso e la morale non cessano mai di riscriverne i parametri di giudizio. Ma il caso, causa efficiente di ogni cambiamento, è davvero tale solo per un’ottica soggettiva ed esteriore, quella dell’osservatore (e non è un caso che in tutti gli episodi vi siano scambi di sguardi, prospettive incrociate, punti di vista differenti a confronto, facendo assumere all’atto parziale del vedere un’importanza capitale). Nel Decalogo assistiamo, con un costrutto graduale di suspense vicino alla sintassi filmica di Hitchcock, allo sviluppo parallelo di circostanze apparentemente senza alcun legame, al loro concorrere distintamente fino a confluire in un evento che non ha alcuna spiegazione al di fuori di questa confluenza. Quella descritta da Kieslowski e Piesiewicz è una realtà interamente relazionale, tutta fondata sui rapporti interpersonali, in cui ogni individuo è del tutto esposto al prossimo, allo sguardo e all’azione di colui che, forse non casualmente, incontra sul suo cammino. La metafisica del Decalogo, allora, non è propriamente tale se non nella metafattualità degli eventi, i quali sono solo l’ultimo anello di una catena infinita di concause di cui è impossibile risalire all’origine. È in questa impossibilità che prende forma quella sensazione di inspiegabilità che definiamo caso. La realtà, molto spesso, rompe il tessuto

illusorio della sua neutralità logica, inviando segni eloquenti e indecifrabili, spie della sua complessità e del suo mutamento incessante che, a tutta prima, è impossibile leggere. Eppure, la “realtà” non esiste. O meglio, la realtà non è nulla al di fuori dello sguardo che, osservandola, la crea. Nessuno potrebbe distinguere una farfalla da una foglia, se non ne avesse mai vista una prima. Ogni uomo acquisisce il linguaggio con cui decifra la realtà tramite la propria limitata esperienza, e l’esperienza non cessa mai di riscrivere daccapo quel linguaggio. Ma tale riscrittura ha sempre origine dal crollo traumatico del linguaggio precedente, e di tutte le certezze, razionali e sentimentali, che ad esso erano legate. Nelle dieci storie del Decalogo i personaggi vengono osservati proprio nell’istante in cui, di fronte ad eventi straordinari eppure così comuni come l’amore, la morte, l’odio, la malattia, il sesso, il tradimento, l’inganno, la paura, subiscono una catastrofe del loro equilibrio interiore, e sono costretti a rimettere in discussione le loro scelte, le loro precedenti certezze, e a costruire nuovi criteri di lettura di una realtà che per loro ha cessato di essere leggibile: questo si riflette anche nell’andamento degli episodi, i quali, come spiega Piesiewicz «sono costruiti su una tensione che monta pian piano, oltrepassa un dato limite, e poi si acquieta» (Krzysztof Piesiewicz in La mia Bibbia senza certezze, intervista di Alberto Crespi, cit.). Ma anche lo stato di quiete è un’illusione. È la vita stessa a negare la quiete. Nell’universo del Decalogo dunque tutto è instabile, tutto è a misura di quel costante cambiamento in cui è riposto il senso più remoto della vita stessa. Sebbene il tono drammatico dell’opera sia preponderante, e le storie siano tutte condotte all’estremo, fin quasi al limite del paradosso, non manca però l’ironia, quella capacità di ridimensionare la tragedia del mondo che è forse l’unico modo per superarla. Alludendo ad un ipotetico, fin troppo umano «Giudizio Universale», Kieslowski e Piesiewicz avevano in un primo tempo immaginato per la serie televisiva un finale apocalittico: la terrificante, catartica esplosione, per una fuga di gas, del condominio dove abitano i protagonisti noti e quelli ignoti delle dieci “storie di vita quotidiana” (curiosa la reminescenza del finale del Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder). Ma poi hanno rinunciato all’idea, lasciando sospeso nell’indefinitezza della vita il finale: la vita è già di per sé una deflagrazione, una deflagrazione lenta, ed un’altra esplosione come quella dell’aereo nel finale di Il caso non sarebbe stata che un caso particolare del costante perdersi della vita nel tempo, nei percorsi indecisi e lenti del transitorio «inferno dell’etica», dove nulla è mai certo né definitivo. Il Decalogo è strutturato come una sorta di umana commedia, che parte dall’impeto tragico dei primi episodi fino a giungere all’ironia nera degli ultimi. Ciò che ne deriva è uno straordinario ritratto della vita, e dei sentimenti su cui essa è costruita, unico movente reale che spinge l’uomo a compiere le sue scelte, e a peccare, a sbagliare, a ricredersi. Senza rimpianti, né tristezza: vivendo. Decalogo, 1: l’ignoto che appare

Io sono il signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me, recita il primo dei comandamenti. Ed è proprio l’aspetto univoco e totalizzante del credere in qualcosa ad essere messo in scacco nel bellissimo episodio che apre il Decalogo. Il contrasto apparentemente insanabile tra fede e ragione, rivisto alla luce dell’assolutezza di entrambe le strade, rivela l’equivalenza dei due termini in un atteggiamento che tende a tacitare l’incessante riaffiorare del mistero nell’esistenza, a compensare l’imprevedibilità della vita individuando in tutto ciò che accade una “spiegazione” (che sia quella delle cause efficienti o della volontà di Dio). Il circolo vizioso delle spiegazioni, però, si spezza di fronte al silenzio della morte. La morte è un fenomeno che esula dal dominio delle certezze, e segna il limite di ciò che si può esprimere a parole, siano esse le parole della scienza o quelle della fede. Non a caso, il protagonista del film è un glottologo, affascinato dal mistero del senso che si racchiude in ogni lingua, da quelle caratteristiche comuni dell’espressione umana dietro le quali si nasconde uno “spirito” che va

ben al di là dei significati di ciò che viene espresso in una determinata lingua. Piuttosto scettico sulla significatività di parole come “Dio” e “anima”, Krzysztof (il cui nome richiama, emblematicamente, quelli di Piesiewicz e di Kieslowski), condivide invece con suo figlio Pawel, un bambino di una decina d’anni, la passione per il computer, strumento dalla logica binaria, che «in apparenza sa solo distinguere l’uno dallo zero», ma che sulla base di questa certezza è capace, attraverso una sequenza di scelte elementari, di determinare esattamente i risultati di ragionamenti complessissimi, anche al di fuori della portata dell’intelligenza umana. A lezione, Krzysztof si dice certo che il computer «seleziona, e quindi opera un atto d’arbitrio, forse un atto di volontà», insinuando il sospetto che anche l’intelligenza elettronica possa avere una sua “coscienza”. Ma è davvero l’intelligenza a muovere la volontà, o non è solo un tentativo piuttosto rozzo di spiegarla? Nella curiosità onnivora del piccolo Pawel, al culto dell’intelligenza instillato dal padre si affiancano le idee di fede della sorella del padre, la zia Irena, portatrice di quella istintiva religiosità dei sentimenti che identifica il bene e l’amore con Dio, ma che di fronte al male e alla morte perde la capacità di spiegare, e ripiega sul conforto nell’accettazione del dolore. Nella netta differenza delle loro convinzioni spirituali, Irena e Krzysztof hanno però un atteggiamento speculare nei confronti della vita. Per paradosso, infatti, Krzysztof perderà suo figlio per “un atto di fede”: fede nella statistica e nella matematica, nel calcolo “esatto” dello spessore del ghiaccio di quel laghetto pattinando sul quale, inspiegabilmente, il piccolo Pawel troverà la morte. Così, nel suo dolore cieco e nella rabbia dell’impotenza, l’idolatra della ragione Krzysztof sarà ricondotto all’improvviso sulle soglie di quel “sostrato metafisico” della lingua di cui è in cerca da sempre, messo di fronte a quell’impronunciabile verità della morte che, nella sua brutalità, mortifica ogni tentativo di lenire la coscienza e di fugare il dubbio cercando risposta alla domanda «perché?». Krzysztof (Henryk Baranowski), giovane insegnante di linguistica all’università, vive da solo (sua moglie è emigrata) insieme a suo figlio Pawel (Wojciech Klata), un bambino di una decina d’anni (fot. 51). Pawel ha un’intelligenza spiccata e viva, con la quale, sotto la guida di Krzysztof, riesce anche a risolvere al computer problemi fisici e matematici complessi, come se fosse un gioco. Il computer nella vita di Pawel e Krzysztof ha un posto importantissimo: ognuno dei due ha il suo computer personale, e a quello di Krzysztof sono collegati elettronicamente tutti i comandi automatici della casa, dalle serrature della porta ai rubinetti dell’acqua, alle luci. Tra padre e figlio c’è un rapporto di complicità e di confidenza piuttosto divertito. Una mattina, di ritorno a casa dopo essere andato a comprare il latte, Pawel vede in terra un cane lupo morto assiderato (fot. 52), accanto ad uno strano personaggio (Artur Barcis) che siede davanti al fuoco vicino al laghetto ghiacciato. Tornato a casa sconvolto e affranto, Pawel chiede a Krzysztof spiegazioni su cos’è la morte, dapprima in maniera felpata, poi, di fronte alle blande spiegazioni di Krzisztof, sempre più apertamente, chiedendosi “a che cosa serve” sapere la matematica se poi si muore. Poi ne conclude che il cane che ha visto morto era sempre triste, e che forse ora “sta meglio”. Nella scuola di Pawel arriva una troupe televisiva per girare un reportage sulla “Campagna del latte nelle scuole”. Nessun bambino è molto convinto della bontà di quel latte distribuito gratuitamente dallo stato, e Pawel, invece di ascoltare, gioca con la sua amica preferita. Alla fine delle lezioni, va a prenderlo la zia Irena (Maja Komorowska), alla quale, tutto fiero, Pawel mostra i prodigi del suo computer: Irena, dal canto suo, gliene mostra i limiti, facendogli chiedere al computer se sa “cosa sogna la mamma”, naturalmente senza risposta (fot. 53). Poi i due pranzano a casa di Irena, dove la donna spiega al nipote che Dio è nel “volersi bene”. Da una parte, assistiamo ai prodigi di Pawel nella logica (aiuta Krzysztof a vincere una partita a scacchi con una Gran maestra), dall’altra allo sviluppo dei suoi interessi spirituali (si iscrive, su consiglio di Irena, al catechismo). Mentre Pawel è in casa con Krzysztof, il computer, misteriosamente, si accende da solo, presentando l’asettica scritta «I am ready», come in un gesto di sfida. Durante una lezione all’università, Krzysztof parla dello “spirito della lingua” e della capacità di elaborazione linguistica dei computer. Dopo aver calcolato al computer con il padre lo spessore del ghiaccio che ricopre il laghetto formato dal torrente che scorre dietro casa, Pawel si fa dare in anticipo il regalo di Natale, dei pattini da ghiaccio che ha già intravisto sotto il letto. Krzysztof, a tarda sera, esce a controllare di persona la tenuta del ghiaccio. Presso una chiesa in costruzione, s’imbatte in alcuni fedeli che fanno una veglia con ceri accesi. Tornato a casa, Krzysztof si fa promettere da Pawel di restare sempre a una certa distanza dalla foce del torrente. L’indomani, mentre Pawel è a scuola, la boccetta d’inchiostro che è sulla scrivania di Krzysztof all’improvviso si rompe da sé, e inonda di nero tutta la carta bianca (fot. 54). Poi bussa alla porta la piccola amica di Pawel, che chiede di lui. Fuori, intanto, si avvertono le prime sirene dei pompieri e della polizia. Tutti i genitori del palazzo corrono a vedere cosa è successo. Anche Krzysztof scende, ma cerca di mantenere la calma, di

ragionare. Un bambino dice che si è rotto il ghiaccio del laghetto. Krzysztof torna a casa, cerca Pawel, ma Pawel non c’è. Va a cercarlo in giro, con un walkie-talkie. Ma Pawel non risponde. Krzysztof raggiunge la folla di persone che attornia il punto dove il ghiaccio si è rotto. Poi corre ad inseguire un piccolo amico di Pawel, al quale, contro il volere dei genitori, riesce a strappare che Pawel era andato a pattinare sul laghetto. Krzysztof comincia a presentire il peggio, si siede per le scale e piange in silenzio. Poi torna al laghetto. È notte ormai. Lì lo raggiunge Irena. Alla luce delle fotoelettriche, i pompieri tirano fuori dall’acqua il corpo di un bambino. La folla si inginocchia. Solo Krzysztof resta in piedi (fot. 55). Tornato a casa, mentre piange, Krzystof assiste di nuovo all’accensione non richiesta del computer con la sua scritta «I am ready». Krzysztof, con rabbia, si reca nella chiesa in costruzione, si avvicina all’altare precario su cui è stato appoggiato un ritratto della Madonna nera di Czestochowa, e lo spinge fino a farlo cadere. La cera che cola sul ritratto sembra una lacrima sul volto della Madonna. Krzysztof piange, e si strofina la faccia con il ghiaccio. Nella vetrina di un negozio di elettrodomestici, Irena guarda, piangendo, le immagini del servizio sulla “Campagna del latte” nelle scuole, in cui si vede Pawel che corre, spensierato.

FOT. 51

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FOT. 53

FOT. 54

FOT. 55

Decalogo, 1 si apre con un’immagine epigrammatica, l’inquadratura dell’acqua che affiora dal ghiaccio sciolto del laghetto. A questo punto ha luogo una vera e propria ouverture, una breve sinfonia visiva che mostra in un adagio tutti i temi e le ricorrenze dell’intera serie. Una lunga inquadratura dell’uomo del destino Artur Barcis (incarnazione dello spirito del Decalogo) seduto accanto al fuoco, si conclude con uno “sguardo in macchina” silenzioso, serio, incredulo (fot. 56). Poi, con un’anticipazione che racchiuderà le immagini dell’episodio in una sorta di ciclicità del già stato, viene mostrata l’immagine finale, Irena che piange davanti alla vetrina in cui un televisore mostra al ralenti il “passaggio” di corsa di Pawel. Le immagini tornano allo sguardo in macchina di Barcis: e con un esempio straordinario di quell’ambiguità del reale che anima il Decalogo, il suo volto si trasforma, l’uomo prende a piangere, ma forse solo per il fumo del fuoco che gli è andato negli occhi. Seguendo il volo di un piccione, lo sguardo della macchina da presa lambisce le finestre del grande palazzo del quartiere Stowki, dietro cui si celano quegli appartamenti che saranno il teatro del dramma. Finalmente il piccione si posa su una finestra: quella su cui Pawel, che è rimasto a guardare dietro i vetri, ha lasciato delle molliche di pane. Così ha inizio uno dei film più drammatici del polittico, la cui fotografia (curata da Wieslaw Zdort) traduce nell’ostentato nitore dell’immagine d’interni come di esterni quella ricorrenza di elementi figurativi bianchi (il ghiaccio, il latte, la luce del sole e quella delle fotoelettriche) che se da un lato è contigua all’idea di un’unica luce (la ragione o la fede come unico criterio) entro la quale si muovono i personaggi nella loro vita, dall’altra preannuncia la “morte bianca”, innocente, di Pawel (del resto, il bianco era il colore del lutto nell’antica Grecia).

FOT. 56

Il film è costruito su due anticipazioni e un epilogo. La prima anticipazione, simile a una visione da giovane Siddharta, è quella di Pawel che incontra il cane “sempre triste” morto di quella morte che lo attende in agguato di lì a pochi giorni, l’assideramento. Alla luce dell’epilogo, l’insistenza di Pawel presso Krzysztof per farsi spiegare il perché di quella morte assume il valore di un tragico presagio. In secondo luogo abbiamo forse una delle immagini più belle e celebri del Decalogo, l’improvvisa apparizione (dopo il passaggio di un aereo) di una macchia nera d’inchiostro che invade poco a poco il bianco della carta su cui sta scrivendo Krzysztof (con qualche reminescenza del Paradzanov di Sayat Nova), proprio nel momento in cui si suppone che il ghiaccio del laghetto si sia rotto. L’epilogo, invece, che sintetizza nell’atto di rivolta di Krzysztof contro l’immagine di quella divinità incomprensibile il conflitto tra l’uomo e l’“ignoto che appare” (per usare un’espressione di Hoffmanstahl), si pone sotto lo stesso segno dell’ambiguità iniziale. Come le lacrime da fumo di Barcis accanto al fuoco, le lacrime disegnate dalla cera sul volto rigido della Madonna nera ancora una volta mettono l’accento sul silenzio degli eventi, sulla loro indecidibilità. Cos’è, allora, la cosiddetta manifestazione del divino, se non la precisa volontà dell’uomo di forzare in una determinata direzione la lettura di alcuni eventi inspiegabili? Eppure, il computo delle coincidenze da cui ha origine il “caso”, benché possibile, rimane per lo più nascosto, fuori dalla portata degli uomini. Kieslowski e Piesiewicz avevano pensato in un primo tempo di fornire la soluzione dell’enigma, di addebitare all’acqua calda scaricata nel torrente dalla centrale idroelettrica della zona la causa del disastro. Ma anche di fronte alla verità umana, per Krzysztof non sarebbe cambiato nulla, di certo il suo senso d’impotenza di fronte al caso non sarebbe stato lenito. Ragione e fede non sono dunque due termini in antitesi, la loro differenza non è negli atteggiamenti esteriori che dividono il laico Krzysztof dalla confessionale Irena. La fede nella ragione dell’uno e la ragionevolezza della fede dell’altra sono aspetti complementari dell’unica, umana esigenza di dominare la vita, di porre un argine all’incerto, all’incomprensibile che la mente non può accettare. Nella sua ingenua intelligenza, è proprio il piccolo Pawel a manifestare, di fronte alla morte del cane che il padre non sa come spiegargli, l’insofferenza per le false certezze fornite dalla ragione: «Perché questo? Che m’importa di quanti minuti ci mette la signorina Piggy a raggiungere Kermit, a che cosa serve?». La luce bianca che inonda le immagini è rotta di tanto in tanto solo dal verde dello schermo del computer, dall’irruzione di quella “intelligenza senz’anima” che è uno specchio perfetto dell’inanità della ragione umana, della sua falsa onnipotenza, qualità transitivamente attribuita anche a Dio. Il gioco degli spazi geometrici, come il frazionamento dell’immagine di Krzysztof all’università attraverso il carrello del proiettore di diapositive da dietro al quale lo guarda Pawel; il fitto uso dei richiami analogici (il tè caldo che “rompe” il latte freddo, la bottiglia d’acqua, lasciata da Pawel fuori della finestra, divelta dal ghiaccio); addirittura, una sorta di costante presagio onirico della tragedia che si manifesta nell’incongrua presenza dell’uomo del fuoco in riva al laghetto o nella veglia dei fedeli presso la chiesa in costruzione (che ricorda la

“foresta umana” di Prigione di Bergman); o ancora, l’inspiegabile sfida lanciata a Krzysztof dal computer che si accende da sé (sintetizzata in quell’«I am ready» scritto sullo schermo): tutto concorre, insieme alla straordinaria recitazione degli attori, ad esprimere l’incontrovertibilità degli eventi, il loro marciare verso un esito il cui senso è fatale e inattingibile. Nella scena delle immagini televisive (allusione metafilmica al medium del Decalogo?) che fa da cornice al film, in cui Pawel corre a perdifiato fino ad invadere lo schermo e scomparire, sembra infine concretizzarsi quella debole persistenza del ricordo con cui Krzysztof, in modo laicamente consolatorio, spiegava a Pawel cosa resta della vita dopo la morte, in quel “dopo” che non ha alcun senso per il pensiero. Il messaggio del film è controverso come la vita, e lascia aperto uno spiraglio sul reciproco limitarsi di ragione e religione, sul loro esprimere attraverso “lingue” differenti (per dirla nell’ottica del protagonista del film) l’unica precarietà dell’esistenza, di fronte a cui le parole non possono nulla. Decalogo, 2: il mistero della vita

La vita è un intervallo tra due indecifrabili nulla, il nulla del prima e il nulla del dopo. Nel secondo episodio del Decalogo, ispirato al comandamento Non nominare il nome di Dio invano sono messe a confronto due vite liminari a quel nulla, una che ha appena superato lo stadio del prima, un’altra che è sulla soglia del dopo. Una donna sposata ad un uomo malato di cancro è rimasta incinta di un altro uomo. La sopravvivenza del marito preclude la nascita del bambino: se il marito non dovesse morire, la donna, che non ha mai avuto figli, sarebbe costretta (dalla sua morale) ad abortire. Dunque, queste due vite apparentemente così distanti sono legate ad un unico filo: ma non c’è nessuno che possa manovrare questo filo, nessuno in grado di stabilire quale delle due vite abbia più diritto ad essere. La lotta inconsapevole tra due vite incompatibili si combatte così nella coscienza della musicista Dorota sotto forma di dubbio angoscioso, come una scommessa cieca con il destino. Per conoscere la verità sulla sorte del marito, allora, Dorota si rivolge al vecchio primario del reparto di Oncologia che lo ha in cura, spiegandogli il suo dilemma. Ma l’uomo si rifiuta di fornirle certezze che lui non ha, di fare le veci di Dio pronunciando un verdetto sulla vita di un uomo ancora vivo. In questo modo Dorota è lasciata da sola con la sua coscienza, con la responsabilità di decidere della vita e della morte del bambino: la sua è una “bestemmia” nel senso etimologico del termine, un insulto alla sacralità della vita, al suo autodeterminarsi secondo processi estranei alla volontà e alla comprensione dell’uomo. Per dare una possibilità ad entrambe le vite di sopravvivere, il primario sarà costretto da Dorota a giurare il falso, e dunque, a suo modo, dovrà “bestemmiare” anche lui, tradendo la sua vocazione alla verità. Ma il mistero della vita, ciò che sta dietro la guarigione improvvisa del marito di Dorota o alla sua gravidanza insperata, rimane comunque intatto. Dorota (Krystyna Janda), una donna dal carattere forte e determinato, è una violinista della filarmonica cittadina (fot. 57). È sposata con Andrzej (Olgierd Lukaszewicz), da poco ammalatosi di cancro. Nel suo stesso stabile abita il primario che ha in cura il marito (Aleksander Bardini), un uomo anziano (fot. 58) ingrigito dalle amarezze della vita (ha perduto moglie e figli in un bombardamento). Dorota, che sembrava non potere avere figli, è rimasta incinta di Janek (Jerzy Fedorowicz), un pianista amico di Andrzej che le è stato molto vicino nella disgrazia occorsa al marito. Dorota cerca di contattare il vecchio medico, che vive da solo in un modesto appartamento, per conoscere il vero stato di salute di Andrzej. Dopo essersi negato scostantemente alle domade di Dorota (che tra l’altro, un paio d’anni prima aveva investito e ucciso accidentalmente il cane di lui), il primario accorda alla donna un appuntamento in ospedale. Dorota va trovare Andrzej, che finge di dormire per nascondere il dolore e l’imbarazzo. Poi raggiunge il primario nella stanza, dove l’uomo la disillude sulla possibilità di prevedere il decorso della malattia (fot. 59). Intanto Andrzej, nella sua stanza, ha un’esperienza visiva a metà tra il sogno e l’allucinazione: vede scorrere dal soffitto delle gocce d’acqua che bagnano il suo letto. All’uscita dal turno ospedaliero, il primario trova Dorota ad aspettarlo in automobile. La donna si offre di dargli un passaggio, ma il medico dice di preferire il tornare a piedi. Dorota lo segue a passo d’uomo fino al palazzo, poi lo perde di vista. Quando torna a cercarlo nel suo appartamento, lo trova più disponibile al dialogo: allora trova il coraggio per spiegargli il suo dilemma: gli parla del bambino che aspetta, gli chiede giudizi certi su Andrzej in nome della vita del bambino. Ma il medico rifiuta decisamente di

rassicurarla: nulla, allo stato delle cose, è definitivo. Tornata a casa, Dorota trova Janek ad aspettarla davanti alla porta. L’uomo è in partenza per l’India, ed è venuto a salutarla: ha portato con sé l’attrezzatura da montagna di Andrzej, che era rimasta nei locali del club alpino di cui entrambi gli uomini fanno parte. Dorota si infuria, e getta lo zaino fuori della porta, dicendo che suo marito non è ancora morto. Nei giorni successivi, Janek cerca invano Dorota, la quale filtra le telefonate con la segreteria telefonica, senza rispondere. Dopo una visita accurata, il ginecologo dice a Dorota che ha una gravidanza perfetta: ma la donna, per tutta risposta, prende appuntamento con lui per abortire due giorni dopo. Poi va ad incontrare un giovane intermediario di Janek in un caffè, il quale le porta un regalo da parte del pianista, e la preghiera di rendersi reperibile. Nel frattempo, in ospedale, il primario scopre con grande sorpresa un netto regresso della malattia di Andrzej, che lascia prevedere un suo rapido recupero. Dorota va di nuovo a parlare con il chirurgo, lo ricatta moralmente: gli dice che sta per abortire a causa della sua reticenza sul futuro di Andrzej. Il chirurgo, contrariamente a quanto ha appena scoperto, le dice, mentendo sotto giuramento, che ormai il marito è in fin di vita. È passato del tempo. Andrzej è migliorato, è ormai in piedi nella stanza del primario, e lo ringrazia per averlo salvato: gli dice che ha saputo che presto avrà un bambino.

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Il corpo a corpo di Dorota con le due vite che, escludendosi, le reclamano la sopravvivenza, si risolve passando al di sopra della sua volontà e del suo senso morale: la vita del bambino con l’atto demiurgico della menzogna del primario, la vita di Andrzej trovando in se stessa e nella forza del proprio dolore quel guizzo per uscire fuori dal limbo fra morte e vita in cui il mondo circostante si sgretola, e diventa sgradevole «come se mi si volesse aiutare a non avere rimpianti». Le allucinazioni visive, le impressioni che si susseguono nella mente stremata di Andrzej ruotano tutte attorno al tema del gocciare dell’acqua, della lenta perdita che scandisce

il tempo della vita. Il soffitto bianco della stanza sembra un costato ferito dalle screpolature della vernice da cui cola un sangue incolore, già vuotato della vita. Dorota vive chiusa nell’autismo dei suoi contraddittori moti affettivi, e tratta la vita come oggetto di decisione (costringendo chi le è accanto, da Janek al primario, a fare altrettanto): scena emblematica di questo suo atteggiamento, quella in cui, guardando il primario che si allontana dal palazzo per andare al lavoro, la donna stacca una ad una tutte le foglie di una pianta rigogliosa che ha sul davanzale della finestra, arrivando a piegarne con stizza anche il fusto. Ma in un’immagine che anticipa impalpabilmente il finale del film, il fusto piegato, alle spalle della donna, si risolleva da solo, sopravvivendo. Altrettanto forte è l’immagine metafisica in cui viene descritta l’uscita di Andrzej dal tunnel dell’inessenza (da notare la similitudine con Pirandello di Ciascuno a suo modo): la straordinaria lotta per la vita di una vespa invischiata in un bicchiere di sciroppo di fragole lasciato accanto al letto di Andrzej, il suo faticoso arrancare sul cucchiaio per raggiungere il bordo, e dunque la salvezza (fot. 60). La concretezza di quest’immagine che si svolge accanto ad Andrzej, ma fuori di lui, evidenzia anche il senso miracoloso e inspiegabilmente semplice della regressione materiale della malattia, sottraendo ulteriormente l’andamento della vita dal dominio della volontà personale. Quello di Andrzej è un mondo a parte, fatto di verità inesprimibile, di dolore senza parole, laddove il duello di Dorota e il primario sulla sorte del bambino prescinde dalla verità, e si muove in un ambito morale e ricattatorio dove ogni parola può mutare il corso degli eventi. Tra il vecchio medico e la donna la comunicazione è sempre iperbolica, sono due mondi che si lambiscono a forza: uno, quello del primario, tutto chiuso nel ricordo monomaniacale degli affetti perduti, l’altro nevroticamente compresso nella sospensione degli affetti presenti. Dorota è in attesa di un evento irreversibile, di una catastrofe che risolva la duplicità della sua vita: come nella scena in cui spinge sulla soglia del tavolo il bicchiere pieno di tè, fino a farlo cadere e infrangere in mille pezzi, restando a guardarlo (scena opposta a quella della vespa nel bicchiere). Ma nonostante le premesse, non accadrà nulla di letale. Il gioco con la vita e con la morte di piante e animali è costante, e attraversa tutto l’episodio: dal canarino del primario alle piante di Dorota, dal cane del primario investito e ucciso da Dorota (in qualche modo anticipazione tematica di Film rosso), per giungere alla misteriosa lepre caduta da un balcone di cui il portiere, all’inizio del film, non riesce a risalire al proprietario. La fotografia di Edward Klosinski (il marito di Krystyna Janda, l’attrice protagonista) è molto chiara, la luce è diffusa a volte al limite della sovraesposizione, così come la vita, nel film, è sovraesposta all’indecifrabilità del caso. Le conversazioni a due che scandiscono il film sono giocate su una ritmica di primi piani in controcampo. Spesso le immagini sono attraversate da lunghissimi silenzi, in cui gli scambi di sguardi suppliscono le parole: come nei momenti in cui la vita di Andrzej riprende quota, a cui assiste, nelle vesti di un infermiere, l’“uomo del destino” Barcis. La musica di Zbigniew Preisner, che in ogni episodio riprende il tema fondamentale del Decalogo elaborandolo in variazioni suonate da diversi strumenti, esprime appieno, con gli accordi del pianoforte che si perdono nel riverbero, il senso prodigioso della vita (tanto quella di Andrzej che del nascituro) che prosegue il suo corso. Nel finale, la debilitata figura di Andrzej che irrorata di luce bussa alla porta del primario per ringraziarlo sembra quasi un fantasma dell’immaginazione di Dorota, che in montaggio parallelo suona il violino con la Filarmonica, con il volto per la prima volta sorridente. Contro ogni buon senso, la realtà alla fine assume l’aspetto statisticamente più improbabile. A testimonianza del fatto che ogni vita, nella sua unicità, è un’infrazione alla presunta coerenza dell’universo.

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Decalogo, 3: breve film sulla solitudine

La festa è sinonimo di comunione, di condivisione di un evento sacro, che attraverso il tempo si ripropone identico a sé nella consumazione cerimoniale del rituale. Il terzo episodio del Decalogo, ispirato al comandamento Ricordati di santificare le feste, prende luogo nell’arco di una notte, la notte di festa per eccellenza, quella del Natale. E subito il contrasto si fa stridente tra lo stare insieme, più o meno sincero, della maggioranza, e l’angoscia di chi è da solo, che in una simile notte tormenta come un ago la coscienza. La storia disperata di Ewa, una donna dal passato sentimentale caotico, ambiguo, indecifrabile, si snoda sul filo che divide la coscienza dall’incoscienza, il gioco con la morte dalla volontà di sopravvivere ad ogni costo ai propri fantasmi. Il suo è un peccato in piena regola, consapevole, compiaciuto: Ewa infrange la sacralità della festa che celebra la “sacra famiglia”, per rivivere in una notte la sensazione di poter mettere in crisi la fragile serenità familiare del suo vecchio amante Janusz, costringendolo con una bugia ad abbandonare moglie e figli per seguirla, non importa dove, sulle tracce di Edward, l’uomo per cui Ewa ha lasciato Janusz tre anni prima, che lei dice essere scomparso all’improvviso. Nelle parole di Ewa è impossibile distinguere la bugia dalla verità, la metafora dalla lettera: nella sua disperazione tutto è vero, presente, sincero, espressione dell’unica necessità di sentirsi viva. Edward è davvero scomparso, ma non nel giorno della Vigilia. Tre anni prima, dopo aver scoperto Janusz ed Ewa a letto insieme in seguito ad una telefonata anonima, l’uomo è tornato da sua moglie a Cracovia. Ma la realtà speculare dei suoi due uomini, per Ewa è inaccettabile. Così è costretta a rendere i suoi desideri realtà per fugare le paure, e a giocare una singolare roulette russa con la sua capacità di irretire ancora, di essere ancora una volta al centro dell’attenzione di Janusz, anche contro la sua volontà, con ogni mezzo. Coinvolgendolo in un’assurda comunione, una sorta di rituale laico di riattualizzazione del tempo passato, nella speranza che non sia del tutto perduto. È la vigilia di Natale. Il tassista Janusz (Daniel Olbrychski) torna a casa vestito da Babbo Natale, e porta i regali a sua moglie e ai suoi bambini. Poi va alla messa di mezzanotte con tutta la famiglia. Lì il suo sguardo incrocia quello di Ewa (Maria Pakulnis), una sua vecchia amante. Ewa è appena stata a trovare la sua vecchia zia arteriosclerotica, unica sua parente, in un ospizio. Rientrato a casa, Janusz sente suonare il citofono. È Ewa. Janusz scende con una scusa a vedere cosa succede, poi torna dalla moglie, e dice che hanno rubato il suo taxi, che va a cercarlo. Scende in strada, e accompagna Ewa alla ricerca di Edward, l’uomo per cui era stato abbandonato da lei tre anni prima (fot. 61). Ma la ricerca è solo una scusa. Ben presto Janusz si accorge che Ewa sta mentendo, ma come in un gioco di resistenza, continua ad eseguire i suoi ordini nell’estenuante, vana ricerca dell’uomo. Ewa accusa spesso Janusz di essere stato lui stesso a fare la telefonata anonima in base alla quale Edward, tre anni prima, li ha scoperti insieme. Ma Janusz respinge con sempre maggiore convinzione quest’accusa. I due cercano Edward dappertutto: in strada, negli ospedali, all’obitorio, rischiando più volte l’incidente per eccesso di velocità, finché Ewa non porta Janusz a casa sua, per “vedere se Edward è tornato”. Ewa lascia Janusz ad attendere in strada, e telefona di nascosto al pronto soccorso fornendo una falsa segnalazione di Edward. Nel frattempo arriva Janusz. Osservando il rasoio arrugginito nel bagno, Janusz ha subito la conferma che Edward manca nella casa da molto tempo. Ma decide di proseguire il gioco, e dopo aver mangiato insieme l’ostia natalizia e essersi scambiati gli auguri, tra i due ritorna, improvvisa, la tenerezza. Proprio mentre si stanno per baciare, sopraggiungono dei bambini mascherati a cantare un’incerta nenia

natalizia, e l’incantesimo sentimentale che sembrava raggiunto si rompe. Janusz telefona al pronto soccorso per avere notizie di Edward, e gli viene fornita la falsa segnalazione fatta da Ewa. I due vanno a cercarlo in un terrificante “centro di disintossicazione”, dove i poveri ubriachi raccolti in strada vengono maltrattati da una specie di aguzzino calvo con cui Janusz finisce per litigare violentemente (fot. 62). Di nuovo in strada, dopo aver fatto sbandare l’automobile di Janusz fino a prendere in pieno un albero di Natale, Ewa riesce a convincerlo ad accompagnarla alla stazione, dove dice che Edward si reca spesso, senza però partire mai. Naturalmente, l’unica impiegata presente alla stazione non l’ha visto. Ewa mostra la foto di Edward a Janusz: l’uomo è ritratto con la moglie e i figli, a Cracovia, dove è tornato a vivere poco dopo averli scoperti insieme. Ewa confessa di aver mentito, di aver voluto giocare con se stessa: si era proposta di passare la notte con Janusz, con qualunque mezzo, ed è finalmente riuscita nel suo intento. L’uomo e la donna si dividono che è ormai mattina già fatta. Janusz torna a casa, dove la moglie, che ha telefonato alla polizia, ha già capito tutto. Con timore, chiede a Janusz se con Ewa ricomincerà tutto daccapo. Janusz cerca di rassicurarla, promettendole che non sarà così.

FOT. 61

FOT. 62

L’inafferrabile realtà dei sentimenti scorre in Decalogo, 3 attraverso una serie di solitudini parallele, rigagnoli che si sfiorano costantemente senza compenetrarsi, neppure nella chiesa dove si svolge la messa di mezzanotte, in cui ognuno dialoga da solo, nel silenzio, con la sua idea di Dio. L’unica solitudine senza dolore sembra essere quella incosciente della vecchia zia di Ewa, chiusa autisticamente in quel passato da cui ancora osserva la nipote come studentessa delle scuole elementari. Del resto, solitudine e nostalgia del passato sono uniti da un legame indissolubile, generandosi a vicenda. Anche Ewa, in modo speculare a sua zia, rivive ossessivamente il suo passato amoroso, giungendo fino a cercarne i resti nel presente. Il rapporto tra Janusz e sua moglie, d’altro canto, è un rapporto difensivo, reso imbarazzante proprio da quel passato che Ewa rappresenta, ed è come chiuso in un compromesso tra due solitudini solidali ma distanti, sospese nell’indeterminatezza del taciuto, nel ricordo dell’antica amarezza e nel dubbio sul presente ormai insanabile. Nel mosaico delle apparizioni emblematiche di questo valzer delle solitudini, il Leitmotiv è rappresentato dall’ubriaco che trascina un abete natalizio continuando a ripetere con voce piagnucolante «Dov’è la mia casa, dov’è?», la cui storia, che si conclude nelle gabbie dell’orribile “Centro di disintossicazione”, scorre parallela all’impossibile ricerca di Edward. Janusz, travestito da Babbo Natale, incontra sul portone del suo palazzo Krzysztof di Decalogo, 1, il glottologo esperto di informatica che

ha da poco perduto il figlio nella sciagura del laghetto ghiacciato. Ma è troppo preso dalla felicità forzata della festa per intuire lo stato d’animo di quell’uomo, e lo saluta distrattamente, parlando con la voce alterata e cavernosa, come si fa con i bambini. Tutta la vita di Janusz con la sua famiglia sembra poggiare dunque su questo suo ruolo di “portatore di felicità”: ma il fatto che egli si rechi a casa travestito getta fin dall’inizio una luce ambigua sulla sincerità dei suoi sentimenti. Il presente, man mano che la storia procede a ritmi serratissimi, mostra infatti sempre più numerose le cicatrici ancora non rimarginate di un passato spezzato all’improvviso, ancora irrisolto, che Janusz ha dovuto rimuovere per poterlo superare. Nella ricerca inutile in cui Janusz si fa coinvolgere consapevolmente da Ewa, i due vecchi amanti sprofondano nell’ambiguità di una finzione in cui confliggono, riaffiorando a poco a poco, le loro verità contrapposte, le loro differenti versioni del passato comune: ma nessuno può risolvere il mistero della fine di un amore, né dire chi sia davvero stato a fare quella telefonata anonima con cui tutto è franato in un istante. Tutto in Ewa è irrisolto e doppio, i suoi sentimenti collidono tra loro, i suoi discorsi si contraddicono apertamente smentendosi a vicenda, la crudeltà si alterna alla dolcezza, l’aggressività alla debolezza. Gli unici momenti di verità del rapporto con Janusz sono riposti nel silenzio degli sguardi, nell’attimo d’intesa che prelude le parole, e che porta a mettere in comune il sentimento di insufficienza del mondo. Janusz accetta la folle sfida di Ewa di vivere per una notte in un alibi, in uno spazio senza tempo in cui sfidare la piatta logica della vita, fino all’autolesionismo, che mostra in filigrana il disprezzo di sé, di ciò che si è. È proprio nel momento in cui Janusz cade in questa trappola che appare l’uomo del destino, Artur Barcis, nelle vesti di un guidatore del tram nella galleria che il tassista prende di proposito contromano a tutta velocità per spaventare Ewa. Il senso di morte aleggia ovunque nel film, dalle immagini strazianti dell’obitorio, al silenzio delle strade innevate e deserte in cui si consuma il dramma della solitudine. Luministicamente, nella fotografia di Piotr Sobocinski domina la penombra, che nasce dal contrasto tra il nero della notte e le luci riflesse dal bianco della neve. Il gioco delle immagini riflesse è poi quasi ossessivo: la realtà osservata attraverso i vetri, una realtà mediata nell’immagine sdoppiata del presente, materializza l’ambiguità delle situazioni in cui non c’è più differenza tra l’invenzione e il reale, tra la verità e il desiderio. Curiosamente, Kieslowski sembra percorrere, con i suoi personaggi, un viaggio irreale nei luoghi (reali e immaginari), ormai deserti, dei suoi documentari più famosi: dall’ospedale alla stazione, fino alla ricostruzione del passato nella fotografia di Edward che Ewa mostra nel finale. Le scene della stazione di Varsavia sono venate da un’ironica surrealtà, dal ronzio delle telecamere che girano a vuoto inseguendo i movimenti di Janusz, all’arrivo in skateboard dell’unica impiegata di turno alla vigilia. È in questo momento di caduta della tensione che Ewa confessa il suo gioco, una sfida scaramantica alla realtà che ogni bambino conosce molto bene: «Conosci quel gioco: se sbuca da dietro l’angolo un uomo avrai fortuna, se sbuca una donna no…». Se Ewa non fosse riuscita a passare tutta la notte con Janusz, si sarebbe uccisa. Ma solo allo spettatore è dato vedere la terribile contropartita, quella pillola bianca con cui, in caso di fallimento, Ewa l’avrebbe fatta finita. A Janusz resterà il dubbio sul perché di quella notte, la verità parziale del tempo trascorso a vuoto insieme a Ewa. A Ewa il dubbio che sia stato davvero Janusz a telefonare a Edward. Alla moglie di Janusz il dubbio che il legame tra Ewa e suo marito non ricominci daccapo. Ma quale sia la verità non importa. La verità è solo una sensazione. Decalogo, 4: la natura ambigua dell’amore

In quante forme possa essere sublimato ciò che si definisce amore, e cosa separa l’affetto tra due esseri umani dall’attrazione erotica, sono alcuni dei dubbi irresolubili che si celano dietro al comandamento che sfiora uno dei tabù più radicati della storia umana, quello dell’incesto: onora il padre e la madre. Anka ha vent’anni, e vive da sempre sola con Michal, suo padre,

avendo perduto la madre cinque giorni dopo essere nata. Per lei la promiscuità con quest’uomo è stata fin da bambina la più normale espressione dell’affetto familiare, e tutti i turbamenti generati dalla diversità sessuale sono sempre stati assimilati e ricondotti all’esclusività di un protettivo rapporto a due con la giovane figura paterna. Nella vita di Anka, inoltre, un altro grande solco è segnato dal rapporto con il teatro: allieva del terzo anno dell’Accademia d’Arte Drammatica (fot. 63), Anka ogni giorno si confronta con quella soglia invisibile che separa l’essere dall’apparire, il ruolo dal sentimento. Dunque, Anka sa bene che nessuna relazione umana è assoluta, che nessuna relazione può prescindere dal gioco delle parti, dai rapporti di forza generati dal ruolo che i singoli ricoprono nella relazione.

FOT. 63

La possessività e la gelosia sono due componenti essenziali di ogni rapporto affettivo. Ma in un rapporto adulto sono anche le componenti più ambigue, quelle il cui sfondo etico è meno decifrabile, più torbido e più confuso che in ogni altra. L’amore del resto è un sentimento instabile, la cui forma è in realtà un unico, incessante mutamento. Anka (Adrianna Biedrzynska), ventenne studentessa dell’Accademia d’Arte Drammatica, vive insieme a suo padre Michal (Janus Gajos), un architetto poco più che quarantenne (fot. 64). Anka è appena sveglia, e guarda la lettera, nascosta male in un cassetto, su cui, con la grafìa paterna, troneggia un «aprire dopo la mia morte». È il Lunedì di Pasqua: dopo essersi fatti reciprocamente gli scherzi rituali (una specie di Pesce d’Aprile), Anka e Michal vanno all’aeroporto, dove Michal deve imbarcarsi per un viaggio all’estero. Tornata a casa, Anka torna a guardare la lettera del padre. Dopo una visita dall’oculista, in cui ha la conferma di vedere sfuocato, Anka torna a casa. E di nuovo, ha la tentazione di aprire la lettera: la guarda in controluce, la palpa. Il giorno dopo, va a trovarla Jarek, il suo ragazzo, un compagno dell’Accademia. Ma Anka è irritata e distratta, pensa al padre e alla lettera. Così, si reca in una zona boschiva sulla Vistola (fot. 65), e apre la lettera con le forbici. Nella lettera c’è un’altra lettera, con su scritto: «per mia figlia Anka». Anka esita, rimette la seconda lettera dentro la prima. In Accademia, Anka deve recitare una scena d’amore con il suo ragazzo Jarek, ma sembra pensare ad altro. Nella cantina della sua casa, apre una vecchia borsa, dove trova una fotografia della madre con un gruppo di uomini, e della carta da lettera. Mentre Anka è in casa intenta a riprodurre la scrittura su una nuova busta, arriva Adam, vecchio amico e collega di Michal, per prendere dei progetti. Anka gli chiede notizie di sua madre. È proprio Adam a suggerirle che se la madre avesse avuto qualcosa da dirle, le avrebbe scritto una lettera. Anka ha capito che la seconda lettera, quella nascosta nella busta del padre, le è stata scritta dalla madre. Così, il giorno dopo, va a prendere Michal piena di rabbia, e gli recita il contenuto della lettera, in cui si dice che Michal non è suo padre. Michal ne resta indignato, e la schiaffeggia. Anka va dalla madre di Jarek e le dice che vuole sposarlo. Poi torna a casa, e si ritrova in ascensore con Michal. I due si riappacificano con un abbraccio, salgono in casa. La loro è diventata una relazione tra adulti, una sorta di resa dei conti del loro amore ventennale. Anka, dopo aver cercato invano di ingelosirlo dicendogli che sposerà Jarek, confessa a Michal di essere sempre stata innamorata di lui. Mentre Michal sta per parlare, sopraggiunge Adam, e rompe l’in cantesimo. Anka, indignata, si chiude in camera. Michal legge la lettera di sua moglie. Poi i due riprendono a parlare, e Michal confessa di aver propiziato il ritrovamento della lettera perché ne sospettava il contenuto. Per tutta la vita avrebbe voluto dargliela, ma non ce l’aveva fatta. Michal ritorna in sé, e in un sommo sforzo di distacco, rifiutando l’idea di non essere il padre, invoca Anka a vivere la sua vita. Ma Anka si denuda pudicamente i seni, e lo invita a toccarla. Michal la copre con un maglione, e la abbraccia paternamente. Anche lui, come lei, ha sempre voluto una cosa impossibile: «Ti amo, e sei mia figlia», le dice, rinunciando per sempre a questa idea irrealizzabile. La mattina seguente, Anka non trova Michal in casa. Lo raggiunge in strada, dov’è appena sceso chiamandolo a viva voce «Papà»: qui gli confessa di essere stata lei a scrivere la lettera imitando la calligrafia della madre, e che quella vera non l’ha mai aperta.

Insieme, Michal e Anka bruciano la lettera vera. Poi Anka, fuori campo, ne legge i frammenti ormai insignificanti.

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Decalogo, 4 è una costruzione narrativa ad incastri dallo sviluppo perfetto, che ruota attorno ad un dubbio immaginario, dietro cui si cela l’utopico desiderio di entrambi i protagonisti di essere liberi di scegliere il modo in cui potersi amare. La figura materna, in quanto assenza, è fatta oggetto di una identificazione integrale da parte di Anka, che ne è anche in qualche modo la prosecuzione della vita. Così, per paradosso, onorare il padre e la madre potrebbe tradursi per la ragazza nel tradirne il legame di sangue, e ricongiungere le due figure attraverso la propria. Il rapporto tra Anka e Michal, fin dalla morte della madre, è sempre stato totalizzante, tale da impedire ad entrambi una vita affettiva autonoma, e questo ha acuito la visceralità del loro amore. Ma il destino degli uomini è indifferente a quale sia la verità dei fatti: seppure Michal non fosse il vero padre di Anka, egli ha vissuto coscientemente questo ruolo per vent’anni, e se vivere equivale ad essere, Michal è stato il padre di Anka, ed è stato questo il suo modo di amarla. Tutto assume così i connotati di una lacerazione interiore che anticipa e supera il problema religioso, astrattamente morale, dell’incesto. Non c’è modo di sanare la natura ambigua dell’amore, e la certezza del bisogno di un rapporto esclusivo con la persona amata non significa ancora attrazione: tra i corpi di Michal e Anka non c’è malizia, ma solo una reciproca, infinita tenerezza. Sciogliere il dubbio sulla paternità di Michal, aprire quella lettera in cui forse si sarebbe chiarita ogni cosa, avrebbe voluto dire sfatare l’amore, ridurne il meraviglioso stato di potenzialità di cui si è nutrito per venti anni allo squallore di una verità biologica in ogni caso incerta. L’amore tra un padre e una figlia e quello tra un uomo e una donna non si negano necessariamente: anzi, a livello inconscio, tra di essi non c’è alcuna differenza. Michal esprime appieno la forza di questa contraddizione con quel «ti amo e sei mia figlia» con cui suggella l’impos sibilità del loro amore carnale. Il dilemma di Anka sembra essere dunque più profondo, legato al suo bisogno di razionalizzare, alla volontà di fare luce, di capire «le intenzioni e i sottotesti» della propria vita, a cui guarda come ad una drammaturgia che è possibile interpretare (nel doppio significato di capire e di farsene interprete). Ma anche in questo episodio, l’unica certezza è l’incerto: e

suona come ironia della sorte che i poeti che Anka ha recitato per l’esame d’ammissione all’Accademia siano T.S. Eliot e Zbigniew Herbert, due maestri nella descrizione del dubbio, di quell’«incerta chiarezza» (è un’espressione di Herbert) di cui è fatta la vita. L’“uomo del destino” Barcis, nelle vesti di un canoista che porta il rombo bianco della sua canoa sulle spalle, appare proprio nei momenti in cui Anka tentenna sull’opportunità di aprire la lettera, violando l’integrità del dubbio sulla sua vita: quando è da sola, sulla Vistola, e quando confessa al padre di aver inventato il contenuto della lettera. La fotografia di Krzysztof Pakulski sottolinea perfettamente questo bisogno di “fare luce”, con l’uso costante di lampade, veneziane, zone di luce e d’ombra mosse a piacimento da Anka per cercare di vedere “in controluce” la verità, tanto quella materiale del contenuto della lettera, quanto quella sentimentale del suo amore per Michal. Testimone freddo e impacciato di questa folgorante rivelazione d’amore, nell’ascensore che riporta Anka e Michal a casa, è il chirurgo di Decalogo, 2, colui che nella sua fede e nella sua solitudine ha imparato a confrontarsi con l’incerto. A padre e figlia non resta, per tacitarsi, che dare la colpa alla natura, che li ha voluti rinchiudere in due ruoli così incompenetrabili, allo stesso modo in cui Michal dà la colpa alla corrente d’aria, agli spifferi che entrano a forza dall’esterno al chiuso della casa, per quella porta il cui vetro lui, rabbioso d’impotenza di fronte all’evidenza di un amore impossibile, ha rotto con un calcio. Alla fine, sulle note romantiche e nostalgiche di Preisner, Anka e Michal bruciano, assieme alla lettera, la letteralità del loro amore, si sbarazzano di una verità di fatto di cui non sanno cosa fare. Se la morale cattolica considera peccati non solo le opere ma anche i pensieri e le omissioni, allora Michal e Anka hanno consumato comunque il loro amore, da sempre, senza bisogno di quella verità. Breve film sull’uccidere – Decalogo, 5: delitto e castigo di una vittima esemplare

Krotki film o zabijanju (Breve film sull’uccidere), versione lunga del quinto episodio del Decalogo, fortemente osteggiato dall’opinione pubblica e dalla critica polacca, con l’assegnazione del premio speciale della giuria al Festival di Cannes del 1988 ha consentito a Krzysztof Kieslowski, a 47 anni, di svincolarsi una volta per tutte dalla stagnazione sociale della Polonia, e di imporsi al pubblico internazionale come uno dei più lucidi autori del cinema contemporaneo. Che il cinema polacco con la sua monomania nazionale sia diventato per lui troppo angusto sembra alluderlo la scena in cui il giovane protagonista entra in un cinema, e chiede alla cassiera intenta a strapparsi i capelli bianchi dalla testa com’è il film che stanno proiettando: «parla d’amore, ma è una noia», si sente rispondere con vaga indolenza. La sobrietà della scrittura, lo sguardo fermo sull’uomo come prodotto di un mondo senza pietà, la capacità di mostrare l’insensatezza del delitto da qualunque parte esso sia compiuto, affilano Breve film sull’uccidere come una lama che viviseziona il giudizio di chi sta a guardare, mettendolo di fronte all’inspiegabilità del male, alla sua genesi illogica, casuale, dissociandolo dalla finalità e dunque dal concetto di colpa, e al tempo stesso mostrandolo come qualcosa di connaturato alla vita sociale, come meccanismo che affonda le radici nel cuore stesso dei rapporti umani. Jacek, che diventa assassino per un cieco e indistinto senso di rabbia, come un freddo Caino metropolitano ha sulle sue spalle tutto il male del mondo, ma senza essere alimentato dall’invidia del progenitore fratricida: è un giovane di ventun’anni che uccide un laido tassista di mezza età senza sapere il perché, forse solo per smettere di camminare a piedi e fare un giro con la sua automobile. La sua freddezza allucinata, che solo per brevi attimi vacilla di fronte al pensiero dell’irreversibilità dell’atto compiuto, in una delle scene di delitto in tempo reale più lunghe della storia del cinema (quasi sette minuti e mezzo), pare abbia provocato diversi svenimenti tra il pubblico francese la sera della prima. Come di fronte allo specchio della propria aggressività, uno spettatore non può restare indifferente al dramma di due vite sconosciute che si spezzano a vicenda, per caso, nella più totale disperazione. Niente a

che vedere dunque con le mode successive, con gli anni ’90 delle Iene di Tarantino e gli Assassini nati di Stone, con la violenza compiaciuta e rinfacciata come una colpa dell’assuefazione all’immagine ad un disprezzato pubblico onnivoro. La nudità e il silenzio, come nella consumazione di un rito tribale antico come l’uomo, accerchiano le immagini di Breve film sull’uccidere dal cromatismo volutamente distorto da filtri sporchi di verde, di seppia e di nero, e mostrano al mondo la sua bruttezza assoluta, senza alibi, senza retorica, nella prospettiva di chi non ha nulla da perdere. La penosa resistenza del tassista alla morte dimostra, con crudezza, che dare la morte è difficile, sporco, laborioso. In un mondo che rimuove il male, la “matematica” legale vuole che l’assassino sia reso esemplarmente vittima a sua volta, eseguendo quella forma di vendetta che Piotr, l’avvocato di Jacek (forse ispirato, come Piesiewicz, dalla lettura di Il capro espiatorio di René Girard), nel giorno del suo esame da procuratore, identifica con il concetto di “pena”. Nel momento in cui il delitto diventa fatto sociale, il circolo vizioso delle vittime non ha più fine: ogni vittima ne reclama un’altra, e il male individuale prolifera nella reazione a catena, nella legge del taglione, nell’idiozia della vendetta. Kieslowski con il suo Breve film lancia una sfida al rassicurante senso di estraneità con cui l’uomo chiude gli occhi davanti al male, sfatando l’illusione comune di essere estranei all’abiezione del delitto. È la società tutta, che si erge a supplente di Dio in terra e che sopprime l’omicida impiccandolo in un orribile scantinato senza finestre, a costituire un meccanismo crudele e «rivoltante» (come urlerà Piotr alla fine, piangendo d’impotenza). Un mostro che cura il suo corpo amputandolo, e che pure agisce in nostro nome e per nostra tutela: non meno agghiacciante, nella contraddittorietà delle sue leggi, dell’assassinio compiuto da Jacek. Di prima mattina, un uomo (Jan Tesarz) esce dal portone del suo palazzo e prende a lavare la sua automobile (fot. 66): un taxi che sta per entrare in servizio. Jacek (Miroslaw Baka), un giovane solitario con una borsa a tracolla, gironzola per la città, senza sapere bene cosa fare: si ferma davanti alle vetrine, parla con i pittori itineranti, entra in un cinema e chiede alla cassiera com’è il film. Piotr (Krzysztof Globisz), finito il praticantato, sta per sostenere l’esame di stato per la nomina a Procuratore legale (fot. 67). Il tassista è un uomo antipatico e scostante, piuttosto viscido, che stravede per Beatka, la provocante giovinetta che lavora nel banco di patate fritte, fino ad invitarla, ambiguamente, a “fare un giro” sul suo taxi. Jacek sembra assorto nei suoi pensieri, sembra volersi “fare gli affari suoi”. Ma il mondo interagisce a forza con la sua sordità: vede davanti a sé il pestaggio di un giovane, poi una vecchia un po’ tocca lo scaccia perché a suo avviso “spaventa i piccioni”. Allora Jacek per reazione li spaventa davvero, facendolo apposta. Mentre Piotr disserta sulla «vendicatività della pena come istituto», il tassista parte verso il centro lasciando a piedi i due coniugi (i protagonisti di Decalogo, 2) che attendevano al freddo che l’uomo finisse di lavare il veicolo per salire. Poi si ferma, e dà metà della sua colazione ad un cane randagio, prima di ritirare un premio vinto al lotto. Dopo aver gettato una pietra dal cavalcavia sulle automobili in corsa, Jacek dà una vecchia foto della sorellina morta ad un laboratorio fotografico per farla ingrandire; poi, una volta uscito, incontra un gruppo di tifosi che inneggia alla propria squadra di calcio. Intanto Piotr ha concluso l’esame, e corre felice nel traffico cittadino con il suo ciclomotore, fiero di essere diventato avvocato. Jacek, in un bagno pubblico, spinge un avventore fischiettante e vestito di bianco fino a farlo cadere nella melma. Il tassista spaventa perfidamente con il clacson una coppia di barboncini al guinzaglio, facendoli fuggire. Jacek rifiuta con violenza di farsi leggere il futuro da una zingara. Poi entra in un bar: lo stesso bar in cui Piotr sta festeggiando il superamento dell’esame con sua moglie, che si diverte a leggergli la mano. Jacek tira la panna del caffè sulla vetrina del bar, facendo divertire due bambine che giocano di fuori. Intanto il tassista continua, contro la sua etica professionale, a selezionare la clientela, ed evita di fermarsi davanti ad un uomo ubriaco o a delle vecchie signore. Ma non riesce ad evitare che Jacek, battendo sul tempo con l’inganno due uomini distinti, salga nell’automobile. Dopo essersi fatto condurre in una strada sterrata, Jacek tira fuori una corda preparata nel bar, e comincia a strangolare il tassista (fot. 68). Una volta trascinato l’uomo fuori dell’automobile, Jacek si accorge che è ancora vivo, e lo finisce con una pietra presa nel fiume (fot. 69). Dopo aver compiuto il delitto, Jacek ha paura, oscilla tra calma e accessi di rabbia. Poi va da Beatka, la ragazza del chiosco di patate fritte adocchiata dal tassista che ormai è già sera, e la invita a fare un giro in automobile. Ma la ragazza, salita sulla macchina che teme essere rubata, riconosce la macabra testa a ventosa applicata sul parabrezza del taxi.

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Con un’enorme ellissi cronologica, ci troviamo un anno dopo, alla pronuncia del verdetto di morte da parte del tribunale di Varsavia. Sul banco della difesa ritroviamo Piotr (fot. 70), il giovane avvocato che un anno prima, proprio nel giorno in cui veniva commesso il delitto era nello stesso bar in cui Jacek premeditava il suo intento omicida. I parenti del ragazzo sono affranti, Piotr non ha neppure la forza di parlargli. Sua moglie è incinta, deve partorire da un momento all’altro. Proprio nel giorno dell’esecuzione di Jacek, nasce il figlio di Piotr. Piotr, su richiesta di Jacek, va ad ascoltare le sue ultime volontà cercando di prolungare quanto più possibile gli ultimi minuti della sua vita, ascoltando la triste storia della sua famiglia. Ma l’illusione è breve. Un drappello di secondini preleva Jacek a forza e lo porta nella stanza in cui, impaziente, il boia ha controllato e oliato il capestro e attende ora il suo arrivo. Dopo l’ultima, rituale sigaretta offerta a Jacek dal boia, Piotr assisterà impotente all’esecuzione del ragazzo che si divincola, per poi andare a piangere la sua rabbia in un

prato.

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È l’oscenità della miseria umana in cui prende corpo la vicenda a rendere davvero atroce l’ineluttabile sviluppo di Breve film sull’uccidere. Che tutto quanto vedremo è nell’ordine “naturale” dell’andamento del mondo, che la colpa e l’innocenza, come sostiene il futuro avvocato Piotr nella sua prolusione, siano indistinguibili tra loro e impregnate l’una dell’altra, lo testimonia l’inquietante immagine epigrammatica che apre il film, in cui, dopo aver mostrato il corpo senza vita di un topo in un rigagnolo, la macchina da presa si alza verso le urla e le risa dei bambini che fuggono, scoprendo un gatto nero impiccato ad un palo. La società degli “innocenti” ha appena giustiziato l’istintivo uccisore del topo. La mimesi del delitto sociale è già compiuta prima che tutto abbia luogo, come in una tragedia greca, nell’arco di un unico giorno. Nel silenzio irreale in cui Jacek consuma il suo delitto, il mondo sembra indifferente, privo di vita: come il treno merci che passa fischiando mentre il ragazzo colpisce il volto del tassista. Il mondo è macchiato, colpevole, orribile: i mascherini usati da Slawomir Idziak per distorcere il reale, con la loro patina verdastra che impiastra l’occhio della macchina da presa e rende le immagini verdi come la fascia parasole del taxi della vittima, unificano la visuale delle due “vite parallele” e senza scopo su cui si abbatterà il terrore della morte. La fotografia è semplicemente assurda, i colori del reale arrancano a forza dalle distorsioni cromatiche, come in una sorta di sonno della ragione che volge in incubo il giorno più lungo. Su tutto governa la simultaneità degli eventi, il sovrapporsi graduale dei tre destini con un montaggio alternato e un incastro di premonizioni e coincidenze degno solo del maggiore Hitchcock, ma senza alcuna concessione al “trionfo del bene” tipico del grande maestro. Ai silenzi di Jacek, che gira a piedi una città incolore (impressionante l’analogia con il Raskolnikov di Delitto e castigo), si alternano le parole di Piotr, gli astratti discorsi di principio che, come i colori nitidi dell’aula entro cui si svolgono, non corrispondono in nulla allo squallore reale dell’imminente delitto con cui gli toccherà di confrontarsi. La maschera scura e aggressiva di Jacek, si alterna poi alla strafottenza del tassista, omuncolo antipatico e volgare che si diverte, come e più di Jacek, a molestare il mondo. Ma in entrambi i personaggi le crudeltà lasciano spazio a momenti di improvvisa tenerezza: il tassista si toglie il pane di bocca per darlo a un cane randagio, Jacek gioca con le bambine dalla vetrina del bar, e le guarda, nell’unico sorriso di tutto il film, come sollevato dalla loro presenza. Le due vittime del caso condividono anche una superficiale scontrosità nei confronti del prossimo, come se non volessero essere deviati dal loro allucinato cammino fatale. Entrambi sono a disagio nella gioia come nel dolore, ma non per scelta: per incapacità di esprimersi, come ironicamente ricorda la scena in cui due inglesi chiedono informazioni stradali ad uno spaesato Jacek, che parla solo la sua lingua. Ma le loro realtà sono radicalmente differenti: il tassista è un semplice fanfarone frustrato, che lascia a casa una moglie che non aspetta altro di poter tradire; Jacek invece è un ragazzo di campagna chiuso e taciturno, scaltro ma anche indifeso, fuggito dal suo paese perché ossessionato dal pensiero della sorellina morta accidentalmente sotto le ruote di un

trattore guidato da un suo amico, con il quale era andato poco prima ad ubriacarsi. Il suo rapporto con quella morte irreale ha modificato la sua percezione del mondo: Jacek non riesce a rassegnarsi alla scomparsa della sorella, la vede in ogni bambina che incontra, e giunge persino a chiedere alla fotografa a cui ha affidato l’ingrandimento della foto della comunione di Mariöa, con un’ingenuità commovente, se è vero che «da una foto si può capire se una persona è viva o morta». Dunque il futuro assassino ha un chiodo fisso nella coscienza, il rimorso di essere corresponsabile della morte della persona da lui più amata, che ne amareggia l’esistenza, rendendogliela indegna di essere vissuta. È per contrasto a tanta sperduta amarezza che si definisce la fiera figura di Piotr, promettente avvocato “libertario”, che sembra destinato ad una vita piena di soddisfazioni professionali. Ma il destino lo attende in agguato presentandogli il conto con una sconfitta sonora, che, come sostiene il giudice che condanna Jacek, «lo renderà più vecchio». La sua sensibilità, che nella professione forense è più un limite che un pregio, non gli darà più pace. La sua sconfitta non si consuma nelle aule grige del tribunale dove si celebra la condanna a morte dell’omicida: Kieslowski lascia sapientemente tutte le inutili circonvoluzioni della legge fuori delle immagini, mettendo a nudo, ancora una volta, solo i sentimenti individuali nella loro estremistica essenzialità. Piotr si tormenta nel pensiero di essere stato insieme a Jacek nel bar dove, un anno prima, si è deciso il suo destino, e di non aver potuto comunicare con lui allora, quando tutto ancora era possibile, per evitare sul nascere una tragedia ancor più insopportabile perché inutile. Il giovane avvocato, futuro padre, è mosso da un’infinita pietà per quel ventenne a cui sta per essere sottratta la vita in nome della “giustizia”: si sente colpevole insieme a lui, sente che la sua morte lo riguarda, che lo infanga a tal punto che il suo sguardo sul mondo, dal momento della condanna, diviene sporco e distorto come quello del ragazzo. A onta di tutto, è un gesto istintivo a redimere Piotr agli occhi di Jacek, a far aprire il guscio del dolore accumulato negli anni dal ragazzo. Mentre la scorta lo accompagna con i ferri ai polsi nel cortile, verso il cellulare che lo porterà al braccio della morte, Piotr non riesce a staccargli lo sguardo di dosso, è inquieto, vorrebbe fare qualcosa per interrompere il corso degli eventi: così gli sfugge un grido, chiama ad alta voce Jacek dalla finestra, lo fa voltare verso di sé, e lo saluta in silenzio. È nella condivisione di questo silenzio, in questo istante di commozione che spezza il gelo degli eventi, che ha davvero inizio il dialogo tra il condannato e il suo difensore: ma a cose fatte, quando più nulla può giovare. Quando tutto è soglia dell’irreversibile, sono solo gli sguardi a parlare: e nel film, due duelli tra sguardi preludono all’appuntamento inesorabile con la morte: il primo è quello tra Jacek e Artur Barcis nelle vesti di un operaio che con un regolo geometrico blocca la strada davanti al taxi dove sta per consumarsi il delitto, e scuote il capo come per impedirgli di andare avanti sulla strada della propria morte. Il secondo duello è tra lo sguardo impietoso e sicuro dell’esecutore sociale, del boia che ha appena impiccato Jacek, e quello astioso e sconvolto di Piotr, costretto alla fine a reclinare il capo di fronte al verdetto del medico. Non ci sono parole di fronte alla vendetta sociale, a quella legge del taglione per cui Jacek sarà ucciso nello stesso modo in cui ha ucciso il tassista, con lo strangolamento: su tutto troneggia la vuota isteria con cui il boia e il suo assistente ritardato si scambiano gridando le macabre istruzioni tecniche dell’impiccagione mentre la eseguono artigianalmente. Il realismo dei particolari delle scene di violenza è tale da rendere la morte insopportabile, da avvicinarla al suo limite organico, quasi identificandola con la dispersione di liquidi che essa comporta: il sangue del tassista che sgorga dalla coperta con cui Jacek gli ha coperto il volto, il liquido intestinale di Jacek che, una volta morto, scola nella bacinella di plastica preparata dal boia (fot. 71, 72, 73). Nel prato in cui Piotr piange la fine solitaria di Jacek, in una vastità che contrasta con l’asfittica stanzetta del boia, si spegne all’improvviso una luce. La vita e la dignità umana sono umiliate e offese, non resta che la

disperazione: e anche quella sarà dimenticata.

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Breve film sull’amore – Decalogo, 6: l’amore “impuro”

Il primo film distribuito in Italia del semisconosciuto Krzysztof Kieslowski, nell’autunno del 1989, è Non desiderare la donna d’altri: titolo ammiccante, ottimo per la platea nazionalpopolare, ma piuttosto improprio, che stravolge l’originaria sobrietà del Breve film sull’amore (Krotki film o milosci), con cui l’autore aveva intitolato la sua versione cinematografica di Decalogo, 6 (Non commettere atti impuri). La puntualizzazione è d’obbligo, dal momento che al centro di questo film straordinario non c’è il desiderio, ma il contrasto apparente tra la purezza e l’impurità dell’amore, tra l’inna moramento e la fisicità, tra l’idealizzazione degli affetti e la concretezza della sessualità. Un ragazzo ruba un cannocchiale per spiare dalla finestra della sua stanza una “donna facile”, fino a tentare il suicidio di fronte al cinismo con cui la donna mortifica le sue profferte. Dov’è, in tutto questo, l’amore? La versione televisiva di Decalogo, 5 si differenziava da Breve film sull’uccidere per la sintesi estrema delle premesse e della risoluzione del delitto, mentre all’avvocato veniva affidato di conseguenza un ruolo maggiormente didascalico rispetto al messaggio, che restava comunque invariato. Tra Decalogo, 6 e Non desiderare la donna d’altri ciò che sembra differire, in un montaggio che, mutando notevolmente il senso, svela la straordinaria capacità di ragionare per immagini di

Kieslowski, è l’atteggiamento del regista rispetto alla possibilità dell’amore tra il giovane impiegato delle poste e la sua avvenente vicina. Nella maggiore sintesi dell’episodio televisivo, quello di Tomek appare come un itinerario di maturazione che si conclude con lo sfatamento dell’illusione dell’amore, con il ridimensionamento della propria passione entro i limiti del rapporto umano: «Ho smesso di guardarla», confessa Tomek con i polsi fasciati a Magda, attraverso il vetro dello sportello. Una guarigione, dunque, da quello stato di assurda, goffa vulnerabilità permanente procurata a chi ama dal suo sentimento totalizzante. Nella versione cinematografica il finale mostra invece l’effetto che l’amore cieco dell’indifeso Tomek produce sulla cinicità di Magda, convertita in extremis all’immaterialità dell’amore come condivisione della vita, come solidarietà e non solo come mezzo di difesa dalla solitudine attraverso il godimento reciproco. Le due diverse conclusioni sono comunque i due aspetti dialettici del rapporto tra Magda e Tomek: l’amore è un processo di scambio, dal quale si esce sempre trasformati, condotti in una dimensione reale che, con la caduta delle illusioni individuali (l’illusione “romantica” di Tomek, quella “antiromantica” di Magda), dà finalmente inizio ad un rapporto di accettazione e compenetrazione reciproca. In Non desiderare la donna d’altri la visuale è moltiplicata, costantemente frammentata attraverso l’atto “impuro” dello spiare, concretizzazione della dimensione idealizzante dell’innamoramento, in cui la persona amata è fatta “oggetto” di un sentimento ancora incontaminato, che nella distanza preserva la sua presunta purezza. La spirale del voyeurismo è ininterrotta, e risale dall’atto di Tomek a quello dell’anziana padrona di casa che ne controlla i movimenti fino a giungere allo spettatore, voyeur per definizione, che si nutre dell’idealità dell’immagine. Gli atti impuri a cui Magda sembra concedersi senza troppi scrupoli sono tali solo se osservati dall’esterno, con uno sguardo moralista che Kieslowski rigetta attraverso l’uso dell’ironia. La vera profanazione, infatti, non è quella dei corpi: filmare un coito non è di certo filmare l’amore. La profanazione è quella dei sentimenti, è carpire un’esistenza nelle sue manifestazioni più segrete: lo dimostra il fatto che Magda si senta davvero lesa dallo sguardo di Tomek solo nel momento in cui il ragazzo rivela di «averla vista piangere». Quando Magda guarderà per la prima volta la sua finestra dal cannocchiale di Tomek, si “rivedrà” piangere accanto al latte versato sul tavolo della cucina, comprendendo quanto amore sia necessario per riuscire a sostenere lo sguardo sull’interiorità di un altro, e non solo sulla sua intimità. Allo stesso modo Kieslowski tratta i suoi personaggi, se ne “innamora” fino a seguirne le più piccole evoluzioni a distanza ravvicinata, dimostrando come nell’atto di guardare si rifletta, ancora prima dell’oggetto, il soggetto della visione, con la sua verità, con tutti i suoi limiti e i suoi dubbi. Tomek (Olaf Lubaszenko), ha diciannove anni. Un’infanzia in orfanotrofio alle spalle, il giovane lavora all’Ufficio Postale e vive “momentaneamente” in casa del suo migliore amico Marcin, partito per la Siria come volontario nei Caschi Blu. Marcin gli ha lasciato in eredità, oltre alla vecchia madre (Stefania Iwinska) e alla sua stanza, l’abitudine di spiare con un binocolo l’avvenente vicina di casa Magda (Grazyna Szapolowska), donna che i due, nelle loro lettere, definiscono in codice cifrato B.F.L.D.S, ovvero, Bella Fica La Dà Spesso. Tomek penetra di notte in una scuola, e ruba un potente cannocchiale per spiare ancora più da vicino Magda, la quale è solita circondarsi di molteplici “amicizie” maschili, che riceve generalmente di sera. Spiare Magda è diventata per Tomek l’attività fondamentale della sua vita, alla quale subordina tutto, il lavoro, il sonno, i suoi pasti. Una sveglia lo avvisa del rientro della donna dal lavoro, e Tomek “si mette al lavoro”. Ma di fronte alla concretizzazione sessuale, il ragazzo abbassa il cannocchiale, soffre troppo per guardare (fot. 74). Per incontrare Magda, Tomek le spedisce un falso avviso di pagamento per riscuotere il quale la donna è costretta a recarsi nel suo ufficio postale. La sua gelosia nei confronti di Magda si fa morbosa: giunge fino a chiamare il pronto intervento della società del gas a nome di Magda, per interromperne un approccio amoroso. La madre di Marcin ha scoperto l’insana passione di Tomek, e cerca di metterlo, a suo modo, sull’avviso. Ma Tomek moltiplica le occasioni di incontro con la donna: si sveglia alle cinque del mattino per effettuare la consegna del latte, e il primo giorno di lavoro bussa alla porta di Magda con una scusa, per poterla vedere da vicino. La sera, mentre la spia, Tomek resta colpito dalla sofferenza di Magda, che torna a casa dopo una lite con un uomo e piange, disperata, in cucina (fot. 75). Per condividerne il dolore, si ferisce con una forbice. L’indomani Tomek mette un secondo avviso di pagamento nella cassetta delle lettere di Magda. Magda si reca di nuovo

alla Posta per riscuotere, ma naturalmente, non esistendo alcun mandato, la donna è tacciata di voler truffare l’Ufficio. Tomek, di fronte alla mortificazione di Magda, la insegue in strada, e le confessa di spiarla da più di un anno. La sera Magda, dopo aver “recitato” il ruolo della donna spiata, rivela al suo concubino di essere sotto gli occhi di un guardone. Imbestialito, l’uomo sfida Tomek a scendere, tacciandolo di vigliaccheria. Tomek scende, e l’uomo lo picchia, diffidandolo dal riprovarci. L’indomani mattina è Magda a fermare Tomek mentre porta il latte, per chiedergli il perché del suo comportamento. Tomek dice di essere innamorato di lei, poi fugge dalla vergogna. Tornato indietro, la invita a prendere un gelato al bar: Magda accetta. Nel bar Tomek confessa di aver sottratto dall’ufficio tutte le lettere d’amore indirizzate a Magda. Poi va finalmente a casa della donna. Magda esce dal bagno dopo aver fatto la doccia, con i capelli ancora bagnati, e comincia a provocarlo, avvicinandoglisi sempre di più (fot. 76). Tomek, che non ha mai fatto l’amore, al solo sfiorarla ha un’eiaculazione. Magda, raggelante, gli dice: «Ecco, è tutto qui l’amore». Tomek fugge a casa, e mentre Magda, pentitasi del suo cinismo, gli fa segno dalla finestra di richiamarla, il ragazzo si taglia le vene nel bagno. Quando Magda va a casa della madre di Marcin per restituirgli l’impermeabile, Tomek non c’è già più, è in ospedale. La madre di Marcin non la informa dell’accaduto, dice solo che Tomek (di cui solo ora Magda scopre il nome) non c’è. Il giorno dopo la donna lo aspetta in ansia, ma a portare il latte è la madre di Marcin. Magda prende a cercare Tomek disperatamente, e solo per caso viene a sapere che si è tagliato le vene per amore. Quella stessa notte, riceve una telefonata muta, come quelle che le faceva Tomek quando la spiava. Allora, in uno sforzo gigantesco, goffamente dichiara il suo amore. Ma all’altro capo non c’è nessuno: qualcuno non riusciva a prendere la linea. La situazione si è capovolta. Ora è Magda a spiare la finestra di Tomek con un canocchiale (fot. 77), ogni sera, in attesa del suo ritorno. Quando ne intravede la sagoma oltre le tende, Magda si precipita a casa della madre di Marcin, per cercare di vederlo. La vecchia donna glielo mostra mentre dorme, nel suo letto, con i polsi fasciati: ma non le consente di toccarlo. Magda, nel silenzio, guarda la sua finestra dal cannocchiale di Tomek: commossa, vede se stessa “con gli occhi di Tomek”, mentre piange seduta al tavolo della cucina. A consolarla giunge, come in un sogno d’amore, il “suo” Tomek.

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La costanza dell’atto di guardare l’interno da un altro interno, avvolge questo breve film sull’amore in un unico movimento, quello della crescente tensione psicologica tra i due protagonisti, accomunati da un’identica paura delle conseguenze dell’amore che li spinge a difendersi in direzioni opposte: Tomek idealizzandolo come purezza degli affetti, Magda negandolo con la sua riduzione a complemento della sessualità. Tomek osserva Magda muoversi nella cornice delle finestre della sua casa come nello schermo di un film muto, come un’immagine mentale materializzata in cui identificarsi, che si erge per contrasto con la superficialità immateriale dei balletti televisivi delle aspiranti Miss Polonia che la madre di Marcin gli propone con mirata insistenza per distrarlo dalla donna. Tomek, guardando Magda, ne vive la vita sulla sua pelle, e realizza nel silenzio della sua stanza la simbiosi ideale con l’immagine amata. Ma poi è costretto a superare quest’armonia apparente dall’emergere improvviso del lato oscuro dell’amore: la gelosia. Egli non può sopportare l’idea che qualcuno gli sottragga le emozioni della donna, che possa farla piangere, ridere o urlare senza che lui possa farci nulla: deve intervenire, svelarsi, sottoporsi alla terribile prova del concreto, e, a costo di rovinare tutto, confessare il suo “furto di vita”. Nel momento in cui smette di essere immagine ideale, l’oggetto dell’amore si volgarizza, reagisce all’inaspettata simbiosi svelandosi in tutto il suo squallore: l’attentato che Magda, disorientata, mette in atto nei confronti dei sentimenti candidi di Tomek con crudeltà, non è che l’ultimo, estremo tentativo di mantenere intatto il doloroso equilibrio della sua freddezza. Magda è insicura, superstiziosa al punto da “purificare” con un piccolo pendolo ogni oggetto con cui entra in contatto. L’andamento della sua vita sembra sintetizzarsi nel solitario di carte che ha sempre pronto sul tavolo: una relazione costante con il caso, con la quale identifica la sua libertà. Ma la sua vita è irrisolta, incompleta come l’enorme quadro che sta dipingendo nel salone, e che interrompe e riprende senza sapere come proseguire. Tomek è l’unico, nella sua ingenuità, a spezzare il circolo del suo autismo esistenziale, a farle capire che si è sempre esposti al prossimo, e che si può fare del bene o del male senza neppure esserne consapevoli. Nel momento in cui sente di «avergli fatto del male», Magda si pente, ancor prima di venire a conoscenza del tentato suicidio di quel giovane sconosciuto che sostiene di amarla. L’amore è appunto in questa uscita dalla solitudine, nel sentire le conseguenze delle proprie azioni sulla vita altrui. Magda è sola, sola come la madre di Marcin che fa di tutto perché Tomek si disintossichi dalla passione che rischia di allontanarlo dalla sua casa. Il finale resta sospeso nella presa d’atto di Magda, nel suo con-prendere Tomek, nel portarlo dentro di lei: costretta dalla lontananza a “spiare” da casa sua la finestra del ragazzo, finisce per emularne l’amore disperato. La visuale è capovolta: Magda è vista “dall’interno”, possiamo udirne il respiro, le parole, intuire le sue paure e le sue speranze, identificandoci con lei come facevamo con Tomek all’inizio del film. La corteccia si è rotta, l’interiorità della donna è messa a nudo. Ora guardiamo dal suo interno. Nella commozione finale di Magda, non c’è redenzione morale: la donna ha semplicemente imparato a “guardare”

dentro se stessa, ad ammettere i propri sentimenti, senza nascondere la sua vulnerabilità dietro l’indurimento. Nulla lascia presagire che tra lei e Tomek nascerà una relazione, ma non importa: l’amore ha già compiuto il suo corso, Magda e Tomek si sono amati nel momento in cui hanno donato all’altro un pezzo del loro essere, lasciandosi una traccia indelebile nelle loro solitudini. Il lungometraggio cinematografico si apre con un’immagine epigrammatica, che funziona da “cornice circolare” del film: un particolare delle mani dai polsi fasciati di Tomek, nel buio della sua stanza, che stanno per essere accarezzate da esili mani femminili, quelle di Magda, quando le mani della vecchia padrona di casa ne impediscono il compimento del gesto. Questa “sospensione” iniziale, ripetuta identica alla fine del film, sintetizza il tracciato del loro asintotico amore, l’impossibilità del suo compimento. Del resto quando i due si guardano c’è quasi sempre qualcosa di materiale a dividerli: i vetri delle finestre, quelli dello sportello postale, le lenti di binocoli e cannocchali, filtri dell’immediatezza, separazioni che si dissolvono, per poco, solo nell’unico giorno passato insieme. Il film è quasi sempre immerso nel freddo blu dell’“esterno-notte”, che colora di sé anche l’interno buio della stanza di Tomek. Incorniciata da aperture quadrangolari e invasa da cavalletti, mobili e altri oggetti che ne frammentano costantemente la continuità, la casa di Magda, per contrasto, è sempre immersa in una tonalità rossastra, calda e inquietante al tempo stesso. Nella fotografia di Witold Adamek, ogni luogo è connotato da un colore preciso; inoltre, la geometricità degli spazi, la predominanza di silenzi e rumori sulle parole e la ricorsività degli eventi creano aspettative “ritmiche” nella vicenda, scandendola in una tensione costante, in cui ogni minimo scarto diventa notevole e si carica di senso. Artur Barcis compare per i viottoli del condominio nelle vesti di un giovane straniero che porta con sé due valige, nei momenti di akmè emotiva di Tomek: nel momento di massima illusione, mentre corre gioioso con il carrello del latte subito dopo aver preso il suo primo (e unico) appuntamento con Magda, e nel momento della massima disillusione, quando il giovane, fuggito da casa della donna, corre a casa a tagliarsi le vene. Lo sguardo dello “straniero” su quel ragazzo che non ha tempo per fermarsi, sempre in preda com’è alle sue emozioni, è compassionevole, quasi materno. Tra gli incontri incindentali di Tomek, c’è anche il cardiologo Roman, protagonista dell’altro film sull’“amore negato” del ciclo, Decalogo, 9, il quale, bicicletta alla mano, va al suo allenamento mattutino, mentre Tomek con il carrello del latte raggiunge il palazzo di Magda: entrambi con quei mezzi di locomozione che diventano i veicoli sonori del loro dramma d’amore. Grazyna Szapolowska, già protagonista di Senza fine, e il giovane Olaf Lubaszenko, figlio del celebre attore Edward, costruiscono magistralmente l’intreccio degli sguardi, il mutare dell’incomunicabilità in empatia, l’incerto affiorare dei sentimenti. La musica di Zbigniew Preisner, in cui predomina un tema per chitarra, è discreta e quasi “silenziosa”, come i timidi gesti di Tomek di fronte a Magda. E pensare che la stanza di Magda, nel film così vicina allo sguardo del ragazzo, è stata ricostruita in un prefabbricato a trenta chilometri da Varsavia, ripreso da Kieslowski e Adamek da una torre costruita a 70 metri di distanza con teleobbiettivi da 300 e 500 millimetri. Breve film sull’amore sintetizza in maniera perfetta lo sguardo paradossale, ossimorico di Kieslowski sui sentimenti umani, su ciò che al contempo è bello e brutto, rassicurante e imbarazzante, dell’esistenza. Decalogo, 7: l’impotenza ad amare

«Si può rubare quello che è nostro?», si chiede ad un certo punto la giovane madre che ha “rapito” la sua bambina portandola via di casa, sottraendola alla patria potestà di una nonna egoista e possessiva, sua madre, che ha già rovinato la sua vita. Questo interrogativo trova una verifica nel comprendere cos’è che di un essere umano si può davvero considerare “nostro”: è solo da questo che dipende la presunta liceità di quell’appropriazione disperata, che Kieslowski

sceglie per illustrare il comandamento Non rubare. Majka ha ventidue anni. Quando ne aveva sedici, dalla relazione sentimentale con il suo giovane insegnante Wojtek, ha avuto una figlia, Ania. Sua madre Ewa, preside dell’istituto in cui insegnava Wojtek, ha falsificato le carte di nascita e si è attribuita la maternità della bambina, riuscendo ad evitare un probabile scandalo, e ricattando Wojtek di denunciarlo per corruzione di minori in caso di dissenso. Ewa è una donna dura, inasprita dalla precoce impossibilità di avere figli causatale dal parto traumatico di Majka. L’ascriversi la maternità della piccola Ania è stata dunque per lei una forma più o meno consapevole di riscatto dalla sua sterilità. L’immaturità di Majka a sedici anni, l’ha portata ad accettare l’assurdità della pretesa di Ewa per paura di vivere, di non essere all’altezza della maternità. Ma la paura di vivere di Majka, in un evidente circolo vizioso, deriva a sua volta dal rapporto con la madre, che ha sempre preteso da lei al punto da inibirla e renderla incapace di prendere da sola le sue decisioni. Ora Majka ha deciso di riscattarsi, riprendendosi ciò che è suo, e di “fargliela pagare”. Al centro della violenta contesa c’è Ania, una bambina di sei anni dall’apparenza spensierata, ma tormentata nella notte da incubi che la fanno gridare, e che una volta sveglia non riesce più a spiegare. La bambina considera Ewa la sua vera madre, ed è difficile convincerla che la realtà sia un’altra. Majka trova di fronte al suo progetto di fuggire in Canada con Ania un ostacolo più grande di quelli legali e burocratici: il mondo affettivo di sua figlia, strutturato fin dalla nascita su alcune certezze che ora lei rischia di distruggere. L’urlo di Ania (Katarzyna Piwowarczyk), in preda agli incubi, squarcia il silenzio della notte. Una ragazza, Majka (Maja Barelkowska), dopo aver restituito il libretto universitario, si reca all’ufficio passaporti, dove ha appena ottenuto un visto di espatrio per il Canada. Le viene detto però che per portare con sé la bambina occorre l’autorizzazione della madre. A casa, di notte, Ania ha altri incubi. Majka cerca di tranquillizzarla, ma non ci riesce, e Ewa (Anna Polony), sua madre, la tratta come un’incapace, prima di prendere in braccio la piccola per calmarla. Il padre di Majka, Stefan (Wladyslaw Kowalski), cerca di consolare Majka da una crisi di pianto. Di giorno, Majka si introduce con uno stratagemma nel teatro dove è in corso una recita per bambini, e approfittando di un momento di confusione, riesce a portare via con sé Ania, con la scusa di «fare uno scherzo alla mamma». Mentre Ewa torna a casa affranta, Majka porta Ania con il treno a casa del suo vero padre (fot. 78), Wojtek (Boguslaw Linda). Ex insegnante di liceo di Majka, anche in seguito alla relazione da cui è nata la bambina, Wojtek è stato costretto a lasciare il lavoro: ora sopravvive cucendo a mano orsetti di stoffa che fa vendere a Varsavia da un amico. Majka cerca solidarietà da Wojtek, il quale sulle prime è risentito, e le rinfaccia di aver acconsentito all’imbroglio di Ewa di attribuirsi la maternità della piccola. Poi però Wojtek si intenerisce di fronte ad Ania, e mentre Majka va a telefonare a sua madre, legge alla bambina che dorme un racconto che ha scritto sulla storia di Ewa e Majka. La telefonata è inutile: entrambe le donne sono convinte di essere nel giusto, non c’è dialogo, solo astiosa incomunicabilità. Tornata a casa di Wojtek, Majka cerca invano di farsi chiamare “mamma” da Ania, e non riuscendoci cade in una crisi di pianto.

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Stefan telefona da Wojtek per sapere se ha notizie di Majka, ma Wojtek nega di averne. Poi, di notte, Ania ha di nuovo gli incubi: i genitori si svegliano, e Majka riesce a tranquillizzarla. Wojtek cerca di convincere Majka a tornare a casa con Ania, perché secondo lui non c’è altro modo di risolvere la questione che affrontarla in maniera diretta. Ma mentre l’uomo va a chiamare l’amico che fa le consegne degli orsetti con il furgone per far accompagnare madre e figlia a Varsavia, Majka sveglia Ania e fugge (fot. 79). Dopo una telefonata drammatica in cui Majka pretende da sua madre l’autorizzazione per l’espatrio di Ania, anche Wojtek chiama Ewa, e le spiega l’accaduto. I due concordano una strategia comune per le strade da percorrere con le automobili alla ricerca di Majka e della bambina, le quali, in più di un’occasione, riescono ad

evitare per un pelo di essere intercettate da Wojtek. Majka riesce fortunosamente a raggiungere la stazione. Vuole prendere un treno quale che sia, ma è domenica, e deve attendere almeno due ore per il primo treno. Disperata, si rivolge all’impiegata della stazione (fot. 80), la quale le offre qualcosa di caldo e sistema lei e la bambina a dormire nella sua guardiola fino all’arrivo del treno. Ma prima del treno arriva Ewa. Nonostante l’impiegata neghi di aver visto la ragazza e la bambina, Ania si sveglia alla voce di quella che ritiene la sua mamma, e si fa vedere. Per Majka ogni speranza è crollata. Mentre Ewa riabbraccia Ania, Majka prende il primo treno di passaggio, fuggendo forse per sempre dalla sua famiglia. Mentre il treno si allontana, Ewa sussurra a mezza voce « Majka, figlia mia»: ma ormai è troppo tardi.

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Quella di Majka non è una battaglia, ma una fuga disperata: fuga dai legami affettivi, fuga da un passato inaccettabile e macabro, da ciò che non avrebbe mai voluto vedere (come ad esempio Ewa che “allattava” Ania con il seno senile privo di latte), ma che le ha condizionato indelebilmente la vita. La nevrosi di Ewa, quella di ridurre a oggetto di dominio personale i suoi affetti è ciò che Majka si trova ad eseguire a sua volta nei confronti di Ania con il “rapimento”. Anche nel rapporto con i propri compagni le due donne sono speculari: la pretesa comune è di decidere tutto da sole, di non ammettere discussioni sulla propria volontà. Il vero furto di cui Majka paga le conseguenze, dunque, ha avuto inizio ben prima che Ewa intestasse a sé con l’imbroglio la maternità di Ania: Ewa ha derubato Majka del suo “essere se stessa”, l’ha soffocata e ridotta ad una marionetta della sua volontà fin dalla nascita. Ma il danno provocato da questo furto è incolmabile. Il tentativo di emancipazione di Majka è patetico e votato al fallimento, perché basato solo sulla forza della disperazione. La sua volontà è cieca come quella di Ewa, è una sete di vendetta che ha come unico obbiettivo la mortificazione della figura materna. Majka è dunque teoricamente nel giusto, quando dice che portando Ania con sé vuole riprendersi ciò che è “suo”: ma negli affetti non c’è proprietà né giustizia, e se la piccola Ania ha imparato ad amare Ewa come una madre, la responsabilità ricade sulla debolezza di Majka, come le rimprovera amaramente Wojtek. Majka non può farsi amare da sua figlia costringendola a prendere atto della verità biologica: la verità affettiva è un processo di sedimentazione lenta, impossibile da risolvere con un atto giudiziario. Sarà Ania a decidere gli esiti di questo conflitto di cui è un semplice pretesto, facendo in modo di farsi scoprire da Ewa nella guardiola della stazione: per la bambina, in quella giornata strana, non è cambiato

nulla, e il gioco della fuga che da principio poteva divertirla, è diventato solo una fonte di stanchezza. Se Majka è speculare a Ewa nelle sue nevrosi, Ania è speculare a Majka nel rifiuto della madre, fin quasi a giungere alla crudeltà. Il circolo affettivo si chiude, l’impotenza ad amare pervade questo rapporto femminile a tre in cui ogni elemento riproduce ed elide ogni altro. Decalogo, 7 è un episodio attraversato da una vena visiva surreale, che si intreccia con lo sguardo ludico della piccola Ania sul mondo, di cui si fanno segno gli enormi pupazzi della recita teatrale, o la casa di Wojtek invasa da montagne di orsetti di pezza. La fotografia di Dariusz Kuc, nei suoi netti contrasti tra la gelida luce azzurra e l’ombra nerissima, elabora una catacresi visiva del carattere di Majka, che passa da un estremo all’altro, dalla remissività totale alla rivolta, e come dice Wojtek (interpretato dall’eccezionale protagonista di Il caso, Boguslaw Linda), «conosce solo il bianco o il nero». La trama, del resto, è sorretta dalla costante tensione generata dall’assenza di mediazione tra Ewa e Majka. La musica di Zbigniew Preisner è insistente, e sottolinea con una sorta di ciclica gravità (di matrice mussorgskiana) l’immanenza del dramma senza uscita delle tre donne. Artur Barcis non compare nell’episodio, ma senza motivazioni di tipo tematico: semplicemente, le riprese dell’“uomo del destino” non avevano soddisfatto Kieslowski, che le ha eliminate in sala di montaggio. I setti, le divisioni, le barriere di cui è costellato il film contribuiscono a determinare il senso di inarrivabilità di Majka al suo obbiettivo, e il gelo affettivo tra i personaggi della vicenda: le sbarre dell’asilo in cui gioca Ania diventano, viste dalla prospettiva di Ania, come quelle di una prigione per Majka; la porta del treno che si chiude sullo sguardo di Majka che se ne va per sempre segna la distanza incolmabile aperta con la sua famiglia; il gabbiotto della stazione in cui Ewa scorge Ania, mette in luce l’impossibilità di separare la bambina dalla madre “affettiva”. Il finale del film è sospeso più che mai nell’ambiguità. Tutte e tre le donne vivono una condizione di reciproca, innocente crudeltà. Allora, darwinianamente, nella dura legge della verità biologica (e psicologica), è fatale che vinca la più forte. Decalogo, 8: l’“inferno dell’etica”

Anche la coscienza più cristallina ha una zona d’ombra, un pezzo della propria storia personale sul quale occorre sospendere il giudizio per sopravvivere. L’ironia della sorte spesso fa dipendere da eventi del genere tutto il senso della vita a venire. Così, la vita dell’anziana professoressa di filosofia morale Zofia è segnata dal dubbio di avere anteposto la ragione politica alla pietà umana, di aver dovuto scegliere, tra due mali, quello minore, sbagliando. All’improvviso il passato rimosso si ripresenta in carne ed ossa ai suoi occhi. Elzbieta, la bambina ebrea che Zofia, nel 1943, da partigiana aveva sacrificato alla causa dell’Armja Krajowa (Armata Rossa) mandandola a morte sicura, e che per paradosso è stata la traduttrice americana di tutte le sue opere, prende coraggio, e decide di affrontare i propri fantasmi rivisitando i luoghi del suo trauma infantile. Il ripercorrimento del passato per Zofia e Elzbieta sarà catartico: entrambe ridisegneranno la propria topologia affettiva, riuscendo a comprendere il senso di quanto è successo loro quarantacinque anni prima. Ma la menzogna, quella falsa testimonianza a cui allude il comandamento, resta comunque intatta. Zofia infatti mentì alla bambina e al suo tutore sostenendo che lei e suo marito si rifiutavano all’ultimo momento di figurare come padrino e madrina di battesimo nel falso certificato necessario alla piccola ebrea, perché la loro religione non gli consentiva di compiere falsa testimonianza. Così dicendo, mentivano, coprendo in realtà il sospetto (poi rivelatosi infondato) che l’ospite presso cui avrebbe in seguito alloggiato la bambina fosse controllato dalla Gestapo, che avrebbe potuto così risalire a loro e all’organizzazione partigiana: ma questa era una verità così crudele da essere impronunciabile. Zofia si era rifugiata nei precetti divini per coprire l’opportunismo dei fatti. Il dubbio e il senso di colpa si erano insinuati nel tempo proprio in quella “differenza”

religiosa, che rendeva la scelta di lasciare la bambina a se stessa un modo di legittimare lo stereotipo razzista hitleriano per cui con gli ebrei è sempre meglio non compromettersi. Zofia (Maria Koscialkowska), anziana insegnante di Filosofia Morale, si reca all’università per tenere una lezione del suo seminario «L’inferno dell’etica», nel quale sottopone all’analisi degli studenti storie di vita quotidiana in cui è molto difficile dare un giudizio razionale sulla scelta moralmente più giusta da compiere. Qui il preside le presenta Elzbieta (Teresa Marczewska), sua traduttrice americana, che chiede di partecipare come uditrice al seminario (fot. 81). Una ragazza sottopone all’attenzione della professoressa la storia di Decalogo 2 (fot. 82), che Zofia conosce già, abitando nello stesso palazzo dei protagonisti. Zofia commenta la storia concludendo che «il bambino vive, ed è questo l’importante». Allora Elzbieta si fa coraggio, e racconta la sua storia personale, faccia a faccia con Zofia. Man mano che il racconto prosegue, Zofia si rende conto che Elzbieta è la piccola ebrea che, per paura di essere scoperta come partigiana, aveva mandato a morire nel coprifuoco, nel ’43, e che fortunosamente era scampata ai nazisti. Alla fine della lezione Zofia è commossa, sospesa tra il senso di colpa e la gioia per la notizia che la piccola ebrea di allora sia ancora viva. Zofia invita Elzbieta a cena, per parlare con più serenità del passato comune. Ma prima di raggiungere la casa in cui abita ora (quella del grande condominio di Stowki), Zofia si reca alla sua vecchia casa, nel luogo in cui quarantacinque anni prima ha incontrato Elzbieta. Elzbieta scende dall’automobile, e si addentra nell’atrio del palazzo, un vecchio, squallido palazzo del centro storico ancora intatto di Varsavia. Ma una volta dentro, non ha il coraggio di andare oltre, e resta nella penombra ad aspettare. Dopo qualche minuto, Zofia va a cercarla, e la oltrepassa senza vederla. Dopo averla cercata affanosamente, esce impaurita dal palazzo, e la ritrova seduta nell’automobile, ad attenderla. Elzbieta e Zofia cenano insieme, e pian piano riescono a trovare un punto d’incontro, confessandosi le sensazioni di quell’epoca (fot. 83). Elzbieta si fa promettere da Zofia di accompagnarla dalla gente da cui sarebbe dovuta andare a vivere nel ’43, poi accetta l’invito dell’anziana donna di passare la notte in casa sua. L’indomani Elzbieta va a trovare il vecchio sarto (Tadeusz Lomnicki) da cui avrebbe dovuto vivere (fot. 84), se Zofia glielo avesse consentito. Ma il sarto è troppo amareggiato, e nonostante sia passato così tanto tempo, non ha il coraggio di parlare di quello che è successo, dell’accusa di alto tradimento che, a causa di Zofia, ha dovuto subire dal Partito, né del modo in cui ne è scampato. Il sarto guarda di nascosto dalla sua vetrina le due donne “superstiti”, Zofia ed Elzbieta, come si guardano due fantasmi del proprio passato.

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Il personaggio di Zofia ricorda a tratti il vecchio professore interpretato da Sjöstrom ne Il posto delle fragole di Ingmar Bergman. Anche la sua è una resa dei conti con la vita, con un passato sepolto nella memoria come un’antica ferita mai rimarginata, una sorta di viaggio a ritroso nel senso irrisolto della propria esistenza. Il suo peccato è quello di avere avuto la presunzione di decidere il destino di una bambina, rischiando di dare quella sentenza di morte o di vita che il chirurgo di Decalogo, 2, chiamato in causa dal racconto della studentessa, rifiutava di dare alla moglie del malato di cancro. Ma la storia dell’intolleranza non ha sempre picchi così manifesti come nel periodo nazista. Essa si ripercuote nella vita di ogni giorno, come dimostra la scena in cui uno studente entrato in aula in ritardo e in stato di ubriachezza è prima scacciato da un uditore di colore e poi messo alla porta dalla stessa Zofia, che è lì per insegnare agli studenti «come arrivare da soli al bene». La volontà di espiazione della donna è dunque solo intellettuale, ancora una volta molto distante dalla messa in pratica dei valori in cui crede. Ora Zofia non è più cattolica, e, come sostiene davanti alla cattolica ex-ebrea Elzbieta, si è «lasciata Dio alle spalle». Ma la sua presunzione di giudicare, di emettere sentenze, seppure sublimata nel suo “illuministico” mestiere di filosofa, è rimasta intatta. Ci sono disposizioni interiori che non cambiano mai, come il quadro appeso storto del salone che tanto Elzbieta quanto Zofia cercano di raddrizzare invano. Come dice il contorsionista che Zofia incontra nel parco mentre fa jogging di prima mattina, di fronte a cui l’anziana donna, in un estremo sforzo di volontà, si cimenta in una goffa flessione per emularne le movenze, a un certo punto della vita «è troppo tardi, non si impara più». Zofia continua a giudicare il mondo perché è uscita indenne dalla tragedia della guerra, mentre coloro che vi sono scampati, Elzbieta e il vecchio sarto che ha rischiato il patibolo per alto tradimento a causa dei sospetti del suo gruppo partigiano, soffrono terribilmente a rivedere «i testimoni della propria umiliazione». Decalogo, 8 è forse l’episodio che sintetizza di più lo spirito dell’intero progetto: il disvelamento dell’esistenza di contraddizioni morali che esulano dalla buona volontà dei singoli. In un gioco di specchi, la scena che si svolge nel vecchio palazzo in cui avvenne il primo incontro tra le due donne sintetizza in pochi minuti tutta la vita di Zofia: dalla perdita di

Elzbieta, all’angosciosa mancanza, al suo ritrovamento improvviso. Mentre Zofia è nel palazzo, e bussa porta a porta per cercare Elzbieta, la sua pena immedesimativa si scontra con la prosa della vita: invece di trovare la donna, Zofia s’imbatte nel seccatissimo cliente di una prostituta che prende a insultarla e a dileggiarla anche in lontananza, finché non la sente uscire dal palazzo. Quasi tutte le scene hanno un andamento simile, che mette in contrasto la saggezza e il senso di giustizia di Zofia con la sua difficoltà pratica di fronte all’ambiguità della vita. Al termine di un lungo carrello che lo scopre in un posto che solo un istante prima era vuoto, l’“uomo del destino” Barcis appare nelle vesti di un silenzioso studente del seminario di filosofia morale, proprio nel momento in cui Elzbieta parla di quel Dio che è servito da alibi a Zofia per giustificare la sua paura di essere arrestata. La bella fotografia di Andrzej Jarosiewicz concretizza, con un uso costante delle penombre come immersioni delle figure umane in zone oscure che ne falsano o ne nascondono i lineamenti, la discesa delle due protagoniste nei meandri della loro interiorità. Alla domanda di Elzbieta «perché alcuni possono solo salvare gli altri, ed altri solo essere salvati», cioè in base a che cosa è deciso il ruolo nella vita, non c’è alcuna risposta. O forse, l’unica risposta possibile è in quel doloroso, ostinato silenzio del vecchio sarto, con cui si conclude il film. Decalogo, 9: quello che c’è e quello che manca

Se Decalogo, 8 sintetizza il progetto etico dell’intera serie, Decalogo, 9 ne è il coronamento formale, l’episodio in cui l’equilibrio tra gli elementi indiziari, l’allusività delle analogie tematiche e l’uso simbolico della forma filmica raggiunge una pienezza che anticipa tutta l’opera a venire, da Veronica alla Trilogia. Sul versante tematico, la maggior parte delle storie sviluppate nei film futuri è già racchiusa in germe in questo episodio spesso sfuggito all’attenzione della critica. La cantante lirica cardiopatica da cui avrà origine La doppia vita di Veronica, il tentato suicidio, la scoperta del tradimento e dell’assenza di amore di Film blu, l’impotenza sessuale di Film bianco, l’intercettazione telefonica di Film rosso, appaiono nell’episodio ispirato al comandamento Non desiderare la donna d’altri in un gioco ad incastri privo di esitazioni, freddo e preciso come un teorema, eppure assolutamente empatico al dramma dei due protagonisti. L’amore tra Roman e Anna è dilaniato dalla certezza di non poter più fare l’amore: Roman è diventato impotente. La coppia non ha figli, potrebbero lasciarsi (come suggerisce il laido sessuologo di Roman), ma fanno un tentativo disperato di aggrapparsi al sentimento che li unisce. L’altra parte dell’amore, però, quella che Anna vorebbe sminuire definendola «un po’ di ginnastica a letto una volta alla settimana», resta avvolta nell’ambiguità e nel senso di colpa, riducendosi gradualmente per Roman a dubbio angoscioso sul “diritto” del suo amore, e per Anna a lacerante frizione tra sentimento e istinto. Qual è il sentimento che li lega a dispetto di tutto? Da dove hanno origine, contro la propria volontà razionale, la gelosia di Roman e il senso di colpa di Anna? Per comprenderlo, i due dovranno trovarsi di fronte a ciò che nel loro rapporto non hanno mai provato, il senso dell’irreversibile. Anna (Ewa Blaszczyk) si sveglia di scatto, nella notte (fot. 85). Chiama Roman, lo cerca intorno a sé, ma non c’è nessuno. Roman (Piotr Machalica) è a Cracovia, dove, dopo aver tenuto una serie di conferenze come cardiologo a Zagabria, è passato da un suo collega sessuologo che gli ha dato la notizia di essere diventato impotente, di non poter più andare a letto con una donna. Sulla via del ritorno, Roman è sconvolto, esce di strada con l’automobile, piange (fot. 86). Torna a casa che è già notte, sotto la pioggia battente, ed esita sul portone, restando a bagnarsi presso la luce dei lampioni, guardando la finestra di casa sua. Anna va a prenderlo, lo fa entrare in casa, cerca di asciugarlo. Mentre lo accarezza, Roman le ferma la mano. A tavola, Roman vuole ad ogni costo parlare di ciò che ha saputo. Ma Anna accetta di parlare solo a letto con lui, dove si sente davvero sicura. Anna dapprima rifiuta di crederci, poi si convince, ma vuole conservare intatto l’amore: «Quella è biologia: è in fondo al cuore che si trova l’amore, non in mezzo alle gambe», dice a Roman per rassicurarlo. Roman cerca di convincerla a lasciarlo, oppure ad essere sincera con lui in tutto. Anna lo rassicura dicendogli che non ha amanti. L’indomani mattina, mentre va al lavoro, Roman scorge un giovane biondo (Jan Jankowski) il quale, vedendolo accendere l’automobile, cambia strada. All’università Roman aiuta

un professore a fare benzina da sé con un imbuto. Poi parla con una ragazza con una bellissima voce, cardiopatica, incerta tra l’operarsi (come vorrebbe la madre) e intraprendere la carriera lirica altrimenti preclusa, o seguire il suo istinto, la sua paura, e restare così accontentandosi di quello che già ha. A casa, Roman riceve una telefonata per Anna, ma il ragazzo non si qualifica. Più tardi, Anna stessa riceve, con imbarazzo, la stessa telefonata. Così, Roman applica una piccola spia alla sua linea telefonica, con cui può ascoltare le telefonate sia dall’ospedale che da casa. Durante una manovra in auto, Roman frena di scatto, facendo aprire all’improvviso lo sportello del cruscotto. Qui trova il quaderno di fisica di un giovane studente, scoprendone il nome: Mariusz. Dapprima si risolve a buttarlo in un cassonetto, poi decide di riprenderlo, ma è già macchiato dall’immondizia scaricata lì da una donna. Roman rimette il quaderno sporco, nel cruscotto. Tornato a casa, trova nella borsa di Anna, senza svegliarla, il numero dello studente. Poi prende la bicicletta, e dopo un po’ di allenamento, ha un gesto che svela la sua disperazione: entra con la bicicletta nel fiume, ma il fiume è basso, e non accade nulla. Anna lavora come impiegata all’aeroporto. Un giorno che Roman la accompagna al lavoro, Anna lo prega di andare a casa della madre, in partenza, perché ha dimenticato di prenderle alcune cose che voleva portare con sé. Roman fa una copia delle chiavi dell’appartamento, e in casa della madre ritrova il quaderno di fisica sporco. Tra la posta, poi, Roman trova una cartolina mandata ad Anna da Mariusz. Roman si reca all’appuntamento tra Anna e lo studente, e resta fuori della porta ad ascoltare i due a letto. Mentre fanno l’amore, Anna piange. Poi li guarda uscire, uno per volta. Si accorge che Anna è affranta. Roman è in bagno, seduto in silenzio. Non riesce a dormire. Anna gli si avvicina per accarezzarlo, ma lui la scaccia con violenza. Poi si scusa, sostendo che tutto dipende da un’operazione andata male. Anna telefona a Mariusz, per concordare un incontro. Roman è nell’altra stanza ad ascoltare. Il giorno dell’appuntamento, Roman si nasconde nell’armadio della casa della madre di Anna, e spia la scena tra lei e il suo amante. Anna, senza accorgersi della presenza di Roman, lascia Mariusz, dicendogli che non dovranno vedersi più. Prima di andare via, mentre spegne le luci, Anna scopre Roman nell’armadio. Dopo essersi infuriata, averlo trattato crudelmente, Anna si pente, ma risuona il campanello della porta. È ancora Mariusz, che Anna manda via senza rispondere alle sue infantili dichiarazioni d’amore. Quando torna all’armadio, Roman è sparito. È in bagno, appoggiato al lavandino, come impietrito. Piangendo, Anna riesce a farsi perdonare, promettendo di essere sincera, e di cambiare tutto, di volersi anche informare per adottare una bambina. Roman propone ad Anna di partire per qualche giorno, per stare separati. Compra degli sci ad Anna, che parte per la montagna da sola. In ospedale, la ragazza cardiopatica sta bene, l’operazione è riuscita. Ora, grazie a lui, non le rimane che cantare. Mentre è a casa, Roman riceve una telefonata muta. Poi, mentre sta per andare al lavoro, vede Mariusz che sta montando gli sci sul portabagagli dell’automobile. Allora telefona a casa di Mariusz, dove gli viene data la conferma che è andato nella stessa località di Anna. Quando la donna vede il ragazzo che la raggiunge vicino agli ski-lift, va via con una scusa, e cerca Roman prima in ospedale, poi a casa. Roman, pur sentendo gli squilli, non risponde, e lascia una lettera ad Anna accanto al telefono. Poi, mentre Anna torna a casa con il primo pullman, preoccupata di non averlo trovato, Roman prende la bicicletta e si getta giù da una strada interrotta. Anna torna a casa, trova la lettera, crolla e incomincia a piangere. Ma Roman è sopravvissuto alla caduta, e la chiama dal lettino dell’ospedale, dove è ricoverato, per tranquillizzarla.

FOT. 85

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La perfezione formale di Decalogo, 9, nella nettezza del dubbio sotteso dalla sua storia, è data soprattutto dallo straordinario lavoro sulla fotografia fatto da Kieslowski insieme a Piotr Sobocinski (che aveva già realizzato Decalogo, 3). I giochi di luce e la geometricità degli spazi entro cui prende corpo il dramma assumono nel film una funzione linguistica, e si fanno portatori del senso emotivo delle scene realizzando appieno l’intento antididascalico del regista. La metafisicità delle manifestazioni del reale, in una fitta tela di coincidenze, ricorsi, anticipazioni, trova la sua rispondenza visiva nel modo in cui la luce e l’inquadratura assemblano, disgregano, definiscono e confondono gli oggetti della visione individuale. Il passaggio dal registro di soggettiva a quello dei riflessi su vetro, dall’oggettività alla “finta soggettiva” finale dell’ospedale, non è mai semplice arricchimento estetico, ma pensiero oggettivato, espressione di moti interiori senza ricorrere all’illustrazione. A Roman, ad esempio, viene spesso associata una soggettiva “a fessura”: la limitata visuale del suo “spiare” il mondo da cui si sente escluso, quello delle sue speranze e delle sue paure, ricorre tanto nella scena in cui guarda dall’armadio l’incontro di Anna con il suo giovane amante, quanto in quella dove guarda dalla finestra una bambina che gioca con una bambola, duplice allusione alla figlia che spera di adottare e ad Anna stessa che “gioca” con l’idea della figlia. Nelle suggestive immagini di Roman e Anna a letto (nel luogo dello “scandalo”, dunque), colme di primi piani su cui la luce si adagia come una sottile striscia di bianco da dipinto del Tintoretto, delineandone l’analogia delle forme nel buio, il gioco dei fuochi disvela le espressioni del volto che i due reciprocamente si negano, nel contenere il dubbio che entra in contrasto con le loro parole di speranza. L’uso della sfuocatura segna nei due protagonisti il limite della capacità di vedere l’altro: Roman fermo in mezzo all’acquazzone guarda dal vetro dell’automobile la finestra di Anna colare, quasi dissolversi nel buio; Anna, dalle ante appannate della finestra, guarda Roman dall’alto perdere corpo mentre si allontana di mattina presto. Il gioco degli sdoppiamenti, poi, assurge a principio dell’ambiguità degli affetti attraverso specchi e riflessi che costantemente circondano la realtà, riflettendola a loro piacimento. Emblematica, in questo senso, la prima scena in cui Roman rivede Anna dopo aver avuto la prova del suo tradimento. Lo specchio sdoppia nel quadro l’immagine della donna in una immagine reale, che guarda altrove dall’uomo che noi vediamo solo riflesso nello specchio, mentre la sua immagine riflessa, di spalle, si rivolge al marito. Un’analogia sottile ma prepotentemente esplicita alla doppiezza della donna, come nel Kammerspiel di Bergman (autore al quale, per tematiche e tecnica, Kieslowski del Decalogo si avvicina costantemente). Molto spesso il quadro si divide in due parti, una in primo piano al buio, e l’altra illuminata sullo sfondo, come quando Roman spia Anna dalle scale di casa della madre: due illuminazioni, per due diverse condizioni interiori. Il montaggio parallelo, infine, intreccia i destini dei due protagonisti, legati in un unico sistema di contraccolpi emotivi. L’“uomo del destino” Artur Barcis sembra qui l’incarnazione dello spirito di Roman: quando questi è disperato e accarezza l’idea del suicidio, egli appare in sella a una bicicletta con un piccolo carrello legato dietro (il fardello

dell’impotenza, dell’amore reso impossibile), e il suo guardare senza intervenire è ambiguo e sovrumano al tempo stesso. La musica di Preisner prende per la prima volta le sembianze oscure di un musicista olandese del XVIII secolo, Van Den Budenmayer, fantomatico compositore “ingiustamente sconosciuto ai più”. La ragazza che Roman opera, rendendo possibile la strada della sua vita artistica, canta infatti dei Lieder di questo musicista negletto, che tornerà anche ne La doppia vita di Veronica. Decalogo, 9 si interroga su cosa sia davvero più importante nell’amore, se, come sostiene Anna, «quello che c’è già» oppure «quello che manca». Roman si trova scisso tra lo scacco dell’esclusione (di cui si fa immagine-tipo il suo guardare di nascosto Anna), da cui deriva la sua gelosia, e quell’amore puro, quel volere bene in nome del quale vorrebbe costringersi ad accettare che Anna possa avere altri uomini. Il problema è che tra i due c’è un grande affetto, ma non c’è alcun fatto irreversibile a materializzare “ciò che c’è già”: da questa intuizione nasce l’idea di Anna di adottare una bambina per stabilizzare il rapporto. Ma sono l’assenza e la mancanza i sentimenti che muovono con più forza la logica affettiva dei personaggi. Il loro amore è paradossalmente rinforzato, non indebolito da questa mancanza reciproca. Roman lo sa, e perdona i tradimenti di Anna, ma di fronte al sospetto torna a cercare l’irreversibile attraverso la propria morte, divisione definitiva, assenza assoluta, eliminazione di ogni doppiezza. L’irreversibile sfugge però di nuovo dalle sue mani incerte. Roman sopravvive alla rovinosa caduta con la bicicletta, e la sua prima preoccupazione in ospedale sarà quella di telefonare ad Anna per tranquillizzarla, perché non è successo niente. È lui stesso a rompere, con la sua irresolutezza, il senso dell’irreversibile. Decalogo, 10: la droga del possesso

Collezionare è un’attività inutile, tipicamente infantile, basata sul puro piacere del possesso. Un’attività innocua entro i limiti del gioco, che può trasformarsi in mania ossessiva nell’età adulta al punto da rappresentare l’unico scopo di una vita. In ognuno di noi si nasconde il bambino che gode nel possedere. Tale possesso esclusivo è un istinto primario di riappropriazione autistica e definitiva del mondo, che trascende convinzioni ideologiche e modelli culturali. Come nel caso di Jerzy e Artur, due fratelli agli antipodi in tutto, uniti solo dalla comune convinzione che il padre appena defunto, uno dei maggiori collezionisti di francobolli di tutta la Polonia, abbia rovinato la vita della famiglia per uno sfizio incomprensibile. Jerzy è un padre di famiglia anonimo, grigio, un po’ frustrato, Artur è il cantante di un gruppo punk-rock, velleitariamente trasgressore, che spende tutto ciò che guadagna in sprezzo del possesso. I due si ritrovano dopo anni nella squallida bicocca paterna, piena di armadi di ferro in cui giacciono, custodite gelosamente, collezioni di francobolli miliardarie. La loro vita potrebbe essere risolta: vendere le collezioni significherebbe diventare ricchi. Del resto, le occasioni non mancano: come uccelli rapaci, tutti i maggiori collezionisti polacchi prendono a contattarli per accaparrarsi quello straordinario patrimonio. Ma all’improvviso entra in circolo la sfiducia nei confronti del mondo, il meccanismo paranoico che identifica in ogni concorrente un avversario pronto ad eliminarti. Artur e Jerzy non si fidano delle valutazioni degli altri filatelici, cominciano a proteggere la loro ingombrante eredità da ogni possibile intrusione, circondano il piccolo appartamento di inferriate, allarmi, porte, lucchetti, comprano persino un alano per fargli fare la guardia. Non paghi della loro emulazione paterna, tentano il colpaccio: completare una rarissima serie austriaca dell’Ottocento, lasciata incompleta dal padre. Ma la contropartita è durissima: Jerzy deve offrire un rene ad una ragazza gravemente ammalata per entrare in possesso del tanto bramato francobollo. Jerzy (Jerzy Stuhr), un uomo di una quarantina d’anni, sposato con prole, va a trovare durante un concerto suo fratello Artur (Zbigniew Zamachowski), cantante di una rock-band. I due si recano insieme al funerale di

loro padre, celebre collezionista di francobolli, dopodiché fanno un sopralluogo a casa del padre (fot. 87). La casa è minuscola e lurida, le finestre sono inchiodate, l’arredamento inesistente: solo un grande acquario con dei pesci morti, una branda squallida, e armadi di ferro pieni di collezioni di francobolli e medaglie-premio di concorsi filatelici. I due non hanno idea di quanto valgano i francobolli. Cominciano a sospettarne l’entità solo quando un creditore zoppo di loro padre, in cambio dei soldi, chiede il permesso di prendere “qualche esemplare”. Jerzy porta a suo figlio una collezione di tre Zeppelin tedeschi degli anni Trenta, che il figlio, ingenuamente, baratta per una montagna di francobolli senza alcun valore (fot. 88). L’indomani i due fratelli vengono a sapere dal presidente dell’associazione filatelica nazionale che sono entrati in possesso di un patrimonio enorme. Jerzy, infuriato, aggredisce il teppistello che ha fatto a cambio con i tre Zeppelin del figlio, e si fa dare l’indirizzo del ricettatore. Ma il ricettatore nega le circostanze, e gli mostra una falsa ricevuta con cui si dichiara che i francobolli gli sono stati regolarmente venduti da uno straniero. Jerzy va a trovare Artur nel backstage durante un concerto: i due decidono di non vendere finché non hanno “l’acqua alla gola”. Artur decide di restare a vivere nella bicocca paterna, per sorvegliare i francobolli. Mentre i due fratelli sfogliano le collezioni, vengono a conoscenza di una rarissima serie incompleta in loro possesso, del cui francobollo mancante leggono solo indicazioni cifrate e appunti scritti a mano dal padre, incomprensibili. I due fanno blindare l’appartamento. L’indomani Artur, registrando di nascosto la sua conversazione con il ricettatore, lo costringe a farsi restituire gli Zeppelin frodati a suo nipote. Poi compra un alano per difendere la collezione, e cambia la serratura della porta. Il ricettatore li ricontatta, e gli propone di procurargli il “Mercurio rosa”, il francobollo mancante alla collezione paterna, in cambio di un rene, che serve per un trapianto a sua figlia, gravemente ammalata. L’unico a poterlo donare è Jerzy, per compatibilità sanguigna. Mentre Jerzy, incoscientemente, accetta il baratto, Artur molla il suo gruppo in partenza per una tournée per restare a guardia della collezione. Mentre Artur è in ospedale, attendendo gli esiti dell’operazione di Jerzy, dei ladri entrano in casa e rubano l’intera collezione. Cominciano le indagini della polizia. I due fratelli sono disperati, ognuno è tornato alla sua vita. Entrambi incontrano separatamente il commisario incaricato dell’indagine esprimendo sospetti sul proprio fratello come connivente del furto. Entrambi assisteranno allo strano incontro del ricettatore con il creditore zoppo del padre, che portano al guinzaglio un alano simile a quello comprato da Artur, con il teppistello che ha truffato il figlio di Jerzy. Poi entrambi comprano alla posta le ultime serie di francobolli stampate dallo stato. Artur e Jerzy si ritrovano inaspettatamente in casa del padre, dove si confessano reciprocamente di aver detto alla polizia di sospettare l’uno dell’altro. I due ridono insieme di quello che è accaduto, disperatamente.

FOT. 87

FOT. 88

L’episodio più ironico del Decalogo si gioca per lo più in ambienti chiusi, squallidi, vuoti, che riflettono, assieme alla fotografia ostentatamente grigia di Jacek Blawut, la chiusura maniacale dell’ordine di idee dei collezionisti, basato sul presupposto di far acquisire valore ad un oggetto rendendolo irreperibile. I vetri sono opachi, le luci còlte in controluce, il buio della

“tana” paterna predomina su ogni cosa. La recitazione di Jerzy Stuhr e di Zbigniew Zamachowski (che ritroveremo, ormai uomo maturo, come protagonista dell’altro grande film “ironico” di Kieslowski, Film bianco) è una recitazione minimale, fatta di sguardi d’intesa e di gesti sottili da perfetto Kammerspiel, con i quali spesso viene sottratto all’assurdo della situazione l’imbarazzo della parola. La musica, articolata in molteplici pattern percussivi (fra tutti domina il rullo di timpani nei momenti più drammaticamente risibili), è quanto di meno enfatico possa essere associato ad un’immagine, puro ritmo di scansione della vicenda. I rapporti umani sono ridotti all’osso, appena abbozzati: la famiglia di Jerzy da un lato, e il gruppo dei “City Death” in cui canta Artur dall’altro, sono delle variabili che restano sullo sfondo della nuova vita da filatelici. Anche la morte è trattata in maniera irriverente, e piuttosto che essere fonte d’angoscia, è, nel caso del padre, motivo di liberazione dall’angoscia di una vita “con le finestre inchiodate”. In un procedimento analogico dal senso inverso a quello della vespa nel bicchiere di Decalogo, 2, la morte del vecchio collezionista è significata, durante il film, dall’immagine dell’acquario ormai quasi asciutto, sul fondo del quale giacciono i pesci morti di fame e di asfissia (anche la vita del vecchio era esageratamente frugale e xenofobicamente chiusa). L’inganno sembra essere il modello dei rapporti interpersonali: il gioco al ribasso, la ricettazione, la truffa sono titoli di merito laddove ciò che conta è il puro possesso. I due fratelli agiscono come due bambini che custodiscono gelosamente un giocattolo dimenticando i problemi personali, il loro regresso è una fuga dallo squallore del reale in un mondo fittizio, inesistente: «E se davvero tutto il resto non esistesse?», chiede Artur a Jerzy nel momento della loro massima empatia. Il film mostra il loro progressivo incarognirsi nell’apprendere i trucchi di un ambiente losco e meschino, sintomo di una società in cui ogni colpo basso è possibile. L’ironia della sorte presiede la sequenza che mette in parallelo, attraverso il montaggio alternato, la sala operatoria in cui Jerzy si fa estrarre il rene con cui “compra” il Mercurio rosa, e l’“operazione” scientifica del furto della collezione compiuta da ladri professionisti nell’appartamento paterno. Il rosso del sangue sui tamponi dell’operazione si alterna a quello delle sbarre rese incandescenti dalla fiamma ossidrica, il lavoro del bisturi a quello del grimaldello. Nel momento in cui Artur porta Jerzy nella casa saccheggiata, tutto si fa chiaro, la luce che entra dalle finestre spalancate con rabbia mette ancora più in risalto la pochezza delle cose per cui Jerzy ha svenduto se stesso. Il grosso alano comperato da Artur per proteggere la casa è rimasto tranquillamente in bagno, dove lo hanno rinchiuso i ladri. D’altra parte, Jerzy aveva disinnescato l’allarme, ossessionato dal suo continuo scattare. Sulla base di questi sospetti, i fratelli giungono a diffamarsi alle spalle di fronte alla polizia, per poi accorgersi che anche gli altri filatelici portano al guinzaglio un cane come il loro. La loro impotenza nel constatarlo è totale: nel mondo del possesso che assimila e livella, nessuno ha segni particolari, e ogni colpevole, dunque, passa inosservato. Se «la proprietà è un furto», nel mondo dei possessori professionisti ogni uomo è un ladro potenziale. Il film si chiude nella scia di un tragicomico rimpianto: Jerzy e Artur, inguaribilmente segnati, comprano entrambi dall’impiegato delle poste Tomek di Decalogo, 6 le ultime serie di francobolli emesse dallo Stato, nella speranza di poter ricominciare un giorno la collezione. Come Decalogo, 1 introduceva la serie con l’adagio di un’ouverture visiva, Decalogo, 10 conduce fuori dell’«Inferno dell’etica» con un crescendo da opera buffa rossiniana, e si conclude, come il poema Gli uomini vuoti di T.S. Eliot, non «con un’esplosione» (la fuga di gas immaginata in un primo tempo dagli autori), ma «con un piagnisteo», con il ritorno alla prosaica banalità del reale, in cui di tutto il male del mondo non resta altro che (per usare un’espressione di Sobolewski) la «solidarietà dei peccatori». Da Cannes a Parigi: La doppia vita di Veronica (1991)

Il primo passo verso l’Europa Kieslowski lo compie nel 1988, contemporaneamente

all’uscita polacca di Breve film sull’uccidere, quando a otto anni di distanza dal suo ultimo documentario La stazione, partecipa ad un film collettivo prodotto in Olanda sulla forma della città, dal titolo City Life. Il cortometraggio di Kieslowski, Siedem dni w tygodniu (Sette giorni della settimana), illustra la vita di Varsavia mettendo in scena sei differenti tipi sociali, uno per giorno (riprendendo così il pattern ciclico di Sette donne di età diversa): dal Lunedì dell’operaio, al Martedì del giornalista, dal Mercoledì di un’operaia, al Giovedì di un medico del Pronto Soccorso che per arrotondare lavora come guida presso l’organizzazione turistica dell’Orbis, al Venerdì di un tossicodipendente che suona in un gruppo rock e ha problemi con la giustizia, al Sabato di una donna anziana che va a fare la spesa per la famiglia. La descrittività quasi-documentaria dei primi sei “capitoli” del film giunge infine ad uno scioglimento inatteso, che lo avvicina allo spirito di comunanza e simmetricità che anima i “quadri” del Decalogo. La Domenica i sei personaggi intravisti come individui nella loro vita personale si incontrano a colazione intorno allo stesso tavolo: in tutta la loro diversità, sono i componenti di un’unica famiglia. A parte la breve sortita olandese, l’affermazione internazionale di Kieslowski fa tutt’uno con l’“adozione” del regista da parte della Francia, primo paese a celebrare la statura di un autore rimasto per vent’anni confinato nell’ombra del suo paese, un autore profondamente polacco, legato alla sua terra da un viscerale rapporto di amore e odio, eppure così classicamente europeo. La storia francese di Kieslowski, il suo “maggio parigino” di cui il Premio speciale della giuria a Cannes del 1988 per Breve film sull’uccidere è al contempo punto d’arrivo e punto di partenza, ha inizio grazie al fiuto del giovane produttore Leonardo De La Fuente, funzionario di produzione della Cannon France, il quale, avendo intuito la statura artistica del semisconosciuto regista polacco («…uno dei più grandi cineasti del mondo. Al pari di Bergman, secondo me.» (Pierre Murat, Krzysztof Kieslowski vu par Leonardo de La Fuente, in «Télérama», La passion Kieslowski, numero speciale, Parigi, France Inter, settembre 1993), ha comprato in blocco i diritti per Il cineamatore, Il caso e Senza fine, insieme al film-shock di Cannes (uscito in Francia con il titolo di Tu ne tueras point) per la cifra di cinquantamila dollari, meno di cento milioni di lire. Nell’ottobre dello stesso anno la Cannon distribuisce a Parigi contemporaneamente tutti e quattro gli ultimi film di Kieslowski. La risposta del pubblico e della critica francese è entusiastica, resa ancora più acuta dall’impressione di aver “scoperto”, da un giorno all’altro, un autore autentico e geniale. L’anno successivo Kieslowski viene invitato a far parte della giuria del Festival di Cannes, presieduta da Wim Wenders, dove ha modo di amare profondamente il vincitore della Palma d’oro, il film del ventinovenne esordiente scandinavoamericano Steven Soderbergh Sesso, bugie e videotape. Qui Kieslowski incontra di nuovo De La Fuente, con il quale stringe un accordo informale per un film da realizzare insieme entro l’anno successivo. Contemporaneamente, il regista ha già preso contatto con Marin Karmitz, il più engagé dei produttori francesi, ex cineasta militante (autore dei famosi-famigerati Camarades, 1969, e Coup pour coup, 1972 – Compagni e Colpo per colpo), poi produttore di Resnais, di Malle, di Godard, della Varda, e importatore attento del cinema dell’est europeo (ad esempio di Pavel Longuine di Taxi Blues). Alla MK2 di Karmitz Kieslowski propone di realizzare, appena terminato il film con De La Fuente, il nuovo progetto che ha in cantiere con Piesiewicz: una “Trilogia” sui princìpi della Rivoluzione Francese, libertà, uguaglianza e fratellanza, un ciclo di tre lungometraggi, ognuno da associare a un colore della bandiera di Francia: Blu, Bianco e Rosso. Nel 1990 De La Fuente fonda una casa di produzione indipendente, la Sidéral, appositamente per realizzare, insieme alla Tor di Varsavia (e alla norvegese Norski Film), il nuovo film di Kieslowski, che, dopo il titolo provvisorio La ragazza del coro (Chorzystka, che secondo Kieslowski, «suonava irrimediabilmente cattolicopolacco»), ha ormai assunto il definitivo La double vie de Véronique (La doppia vita di

Veronica). Evolutosi da una prima idea in cui si narrava la vita di un uomo dopo la morte, La doppia vita di Veronica si sviluppa poco a poco attorno alla figura della cantante lirica cardiopatica rimasta appena abbozzata in Decalogo, 9. Man mano che lo script prende velocemente forma tra le mani di Kieslowski e Piesiewicz come work in progress, viene a definirsi l’idea delle vite parallele, di due donne che vivono in due parti diverse del mondo beneficiando inconsapevolmente l’una dell’altra. Comincia la ricerca degli attori. Si pensa a Andie Mc Dowell e, per il personaggio del marionettista a Nanni Moretti. Ma cadono entrambe le ipotesi. Alla fine la scelta cade sulla ventiquattrenne ginevrina Irène Jacob, ai suoi esordi come protagonista: l’ennesima sfida di Kieslowski alla rigidezza delle norme dell’apparato produttivo europeo, immediatamente raccolta da Leonardo De La Fuente. L’idea per il mestiere del protagonista maschile, il marionettista Alexandre, viene invece a Kieslowski e Piesiewicz dal ricordo di una trasmissione televisiva di Jim Henson, creatore del celebre Muppet Show, in cui venivano intervistati gli ultimi marionettisti che costruivano da sé i personaggi dei propri spettacoli. Tra questi, lo straordinario Bruce Schwartz, che Kieslowski contatta, scoprendo con costernazione che ha abbandonato la professione per motivi di mancato sostentamento economico. Sarà Schwartz con le sue marionette a prestare le mani all’attore prescelto per Veronica dopo la defezione di Moretti, il francese Philip Volter, visto nel film belga Il maestro di musica di Gérard Corbiau. Ultimato il cast, Kieslowski dà inizio alle riprese che si svolgono tra Lodz, Cracovia, Clermont-Ferrand e Parigi con una troupe franco-polacca e un budget di circa 5 miliardi di lire. Con La doppia vita di Veronica Kieslowski rompe il sostrato della realtà individuale, l’identità, insinuandovi il tema del doppio. Fuori dalla retorica letteraria del sosia e dello specchio, La doppia vita di Veronica parla di un’unica vita come fosse una luce rifratta in due raggi che cadono in due paesi diversi, illuminando nella medesima maniera ciò che incontrano. Come nella storia scritta dall’animatore di marionette Alexandre, essi sono però due raggi asincroni, di cui uno tocca terra poco prima dell’altro, condizionando il fragile movimento della sfera di vetro che li unisce e li divide. Weronika a Lodz e Véronique a Clermont-Ferrand vivono la stessa vita nella stessa sembianza. Ma il loro incontro accidentale a Cracovia provoca un corto circuito in Weronika, l’unica a rendersi conto della concretezza del suo doppio. La sua corsa verso l’affermazione artistica è fatale, il suo cuore è troppo debole per resistere alla realizzazione di ciò che desidera. Quando Weronika muore, qualcosa nella vita di Véronique comincia a cambiare: essa sente di dover prendere un’altra direzione, di dover comprendere qual è il motivo dell’improvvisa solitudine che la divora, e che sembra allontanarla da tutto. In un lungo itinerario che si concluderà nel ricongiungimento con quella “se stessa” sconosciuta, Véronique prenderà a decifrare i segni lasciati dal passaggio di Weronika, come a volerne raccogliere e incanalare l’energia dispersa dalla morte. Il raggio di Weronica e quello di Véronique si ricongiungono man mano che i segni concreti dell’altra si fanno più tangibili. Ma nella solitudine non si può colmare il vuoto dell’assenza. Solo un atto demiurgico, la presenza di qualcuno che forzi le tappe della coscienza dall’opacità alla chiarezza, può condurre Véronique a riappropriarsi dell’altra parte di se stessa: a compierlo è Alexandre, scrittore e fabbricante di marionette, il quale muove con le sue stesse mani i personaggi di una storia che a Véronique sembra appartenere da sempre: la sua. Non c’è metafora né letteralità: solo l’amore per qualcuno può portare ad affrontare l’altra parte di sé, ciò che di proprio vive in una distanza incolmabile dalla consapevolezza. A Lodz, in Polonia, la piccola Weronika ascolta la mamma spiegarle cosa sono le stelle. A ClermontFerrand, in Francia, la piccola Véronique, identica nelle sembianze a Weronika, ascolta la mamma parlarle delle prime foglie di primavera. È passato del tempo. Weronika (Irène Jacob) canta in un coro femminile, comincia a piovere, e mentre le altre ragazze si disperdono, lei resta a cantare da sola sotto la pioggia. Poi la

ragazza raggiunge Antek, il fidanzato, con il quale fa per la prima volta l’amore. La notte prima di partire per andare a trovare una zia a Cracovia, Weronika va da suo padre e le narra della strana sensazione di «non essere sola al mondo». Il giorno successivo è dalla zia. Da qui va a trovare una sua ex-compagna di studi, con cui si è diplomata in pianoforte, e assiste alle prove di un coro maschile; cantando in disparte il motivo del coro, Weronika viene notata dalla maestra del coro, che le accorda un’audizione. Nella piazza del mercato di Cracovia, Weronika intravede (fot. 89) una turista francese salire su un pullman frettolosamente durante una manifestazione di protesta. La ragazza, che le somiglia come si somigliano due gocce d’acqua, sembra non vederla. Ma Weronika entra nel campo della fotografia che la ragazza francese sta scattando. Giunge il giorno dell’audizione. Ad ascoltarla di nascosto c’è anche il direttore d’orchestra (Aleksandr Bardini), subito entusiasta della «strana voce» della ragazza. Uscita dal provino, Weronika ha una crisi cardiaca, e deve sedere su una panchina per non svenire. La sua vita è sempre più concentrata sulla carriera musicale, Antek si sente trascurato. Weronika ha vinto il provino. Ma nel tanto atteso giorno della prima, mentre canta, ha una crisi cardiaca e muore (fot. 90). A Parigi, la turista francese, il cui nome è Véronique (Irène Jacob), sta facendo l’amore. All’improvviso si sente triste, e vuole essere lasciata sola con se stessa (fot. 91). Il giorno successivo va dal suo maestro di musica e gli annuncia di voler rinunciare alla sua carriera, mandandolo su tutte le furie. Véronique, insegnante di musica in una scuola elementare, assiste ad uno spettacolo del marionettista Alexandre Fabbri (Philip Volter): la storia di una ballerina che muore e rinasce farfalla. Intravisto l’uomo attaverso uno specchio, se ne innamora. Dopo una crisi cardiaca, Véronique va a farsi visitare in ospedale. Mentre è ferma in automobile presso un semaforo, rivede Alexandre nel suo pullman. La notte Véronique riceve la telefonata di Alexandre che le fa ascoltare la musica che Weronika stava cantando quando è morta. Véronique è sempre più distaccata dalla sua vita, e confessa al padre di essere innamorata di una persona che non conosce. Ad un tè con delle colleghe, si offre per prestare una falsa testimonianza per incastrare l’exmarito della collega Catherine in un processo di divorzio: dirà di esserne stata l’amante.

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FOT. 90

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Véronique riceve per posta un laccio nero: quello della cartellina di Weronika, rotta durante l’audizione. Dapprima lo getta nell’immondizia, ma poi, in seguito a strane sensazioni, scende a recuperarlo: lo lava, lo asciuga, lo confronta con la linea del suo elettrocardiogramma. Attraverso la collega Catherine risale al nome del marionettista, del quale, scrittore di libri per bambini, va a comperare l’opera omnia. Véronique continua a raccogliere segnali inviatigli da Alexandre per posta. In ultimo, una cassetta di rumori registrati in vari luoghi: per strada, in una stazione, in un bar. Ascoltandola, e guardando il timbro di spedizione, pian piano Véronique risale al bar in cui Alexandre la sta aspettando da due giorni. Alexandre le spiega di aver fatto un esperimento, di aver voluto vedere se una donna poteva rispondere all’appello di uno sconosciuto. Véronique, offesa, fugge via, e va a dormire in albergo. Qui ritrova Alexandre. Dopo essersi spiegati, i due esternano il loro amore. Tra le cose di Véronique, Alexandre ritrova i provini delle foto di Cracovia. Così Véronique giunge alla certezzza dell’esistenza di Weronika. Véronique incomincia a piangere, poi fa l’amore con Alexandre. Andrà a vivere con lui. Nel laboratorio di Alexandre, Véronique vede due marionette di sé stessa, con le quali Alexandre ha intenzione di raccontare una nuova storia, quella della «doppia vita» di una ragazza. Véronique, in automobile, si reca nel bosco nei dintorni di Lodz, dov’era la casa di Weronika. Il padre di Weronika avverte la sua presenza.

La vita di Weronika e quella di Véronique si compiono in un unico percorso, ma in mondi differenti e lontani, divisi perfino nella lingua. Entrambe sono segnate da una solitudine sostanziale, derivata dall’assenza materna fin dall’infanzia. Le due ragazze avvertono irrazionalmente nel mondo la presenza di «qualcuno» a cui corrispondono. Ad unirle, acuendone la ricettività, è in primo luogo la passione per la musica, che in Weronika (colei che “invia” i segnali dalla sua anima), si traduce in quell’estatico mettersi in sintonia con altre vite che è il cantare in un coro. Ma proprio nel momento in cui Weronika diventa solista, coronando il suo sogno, viene ad infrangersi la vaghezza del suo sentire, e il suo «non essere sola al mondo» si fa concreto: vedendo la “turista” Véronique a Cracovia, Weronika vive per un istante la sensazione che la sua anima sia condivisa, e la sua vita convissuta da un’altra se stessa. Che Weronika non sia morta definitivamente lo si intuisce fin da subito (fot. 92), tanto nella soggettiva della bara su cui viene gettata la terra, come se la ragazza o qualcun altro potessero essere ancora lì a guardare, quanto il fatto che l’anima di Weronika, il suo soffio vitale che abbiamo visto allontanarsi dalla sala del concerto in volo d’uccello sul pubblico, continua a persistere, e a manifestarsi attraverso una serie di segnali che Véronique prima istintivamente poi sempre più coscientemente, comincia a raccogliere. Weronika, in questo senso, continua a vivere come ha sempre fatto, anticipando e guidando le scelte di Véronique con la propria esperienza. La persistenza di Weronika nella vita di Véronique è significata da Kieslowski con la riproposizione di tracce mnestiche della sua esperienza personale attraverso diverse soggettive ottiche: per esempio, la visione attraverso la sfera (fot. 93), che ci riporta all’abitudine di Weronika di guardare il mondo nella piccola sfera di gomma trasparente che porta sempre con sé; o ancora, l’inclinazione della macchina da presa a 45°, che rimanda alle visuali di Weronika quando, in seguito alle sue crisi cardiache, vede il mondo in obliquo inclinando la testa. A questi segni vanno ad aggiungersi le tracce materiali del suo passato: nella sfera del tattile, il laccio della cartellina rotta da Weronika durante l’audizione; in quella dell’uditivo, la musica per coro e voce solista di Van Den Budenmayer-Preisner registrata sulla musicassetta. Ma i segni materiali hanno bisogno di un tramite per giungere fino a lei: e lo trovano nel demiurgo Alexandre, il quale svolge un ruolo fondamentale come portatore della numinosa inesplicabilità della vita. Il dato fondamentale della narrazione sembra essere l’indifferenza degli eventi a qualsiasi parvenza di oggettività: tutto si svolge nell’ambito della “comunicazione interiore”, fin dal momento della morte di Weronika, di cui Véronique raccoglie il testimone con quel gesto istintivo e quasi rituale di accendere all’improvviso una lampada, e tenerla in mano quasi di nascosto mentre è intenta a fare l’amore.

FOT. 92

FOT. 93

Il senso della vicenda è riprodotto in forma di fiaba per bambini nella storia della ballerina morta che rinasce farfalla (fot. 94), animata meravigliosamente dalle mani di Bruce Schwartz. L’allusione alla capacità dei bambini di supplire il reale con l’immaginazione (di cui si fa incarnazione lo stesso personaggio di Alexandre), è qualcosa di sostanziale, di connaturato alla costruzione dell’intero film, la cui vicenda non è qualcosa che si può capire razionalmente, ma solo comprendere e “sentire”: il suo “realismo” è unicamente nella bellezza immediatamente accessibile dell’utopia sottesa dalla storia, di quel desiderio di tornare a nascere se stessi in qualcun’altro in quell’inferno-paradiso laico che è il mondo. Non è un caso che le parole del coro di Van Den Budenmayer, cantando le quali Weronika muore, siano quelle dell’esordio del secondo canto del Paradiso dantesco: «O voi, che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / retro al mio legno che cantando varca, // tornate a riveder li vostri liti: / non vi mettete in pelago; ché forse,/ perdendo me, rimarreste smarriti. // L’acqua ch’io prendo giammai non si corse; / Minerva spira, e conducemi Apollo / e nove Muse mi dimostran l’Orse». Sono le parole che Dante rivolge al suo lettore prima di intraprendere il viaggio nel Paradiso, consigliandogli di non tenere dietro al contenuto del poema con la ragione, che ne resterà inevitabilmente sconfitta, ma di seguirlo solo “sentendo” la poesia pura che lo ha mosso. L’intento metafisico di Kieslowski, in genere nascosto tra le righe del testo filmico, mai come in questo caso si fa esplicito: ha ragione il regista a dire che La doppia vita di Veronica è davvero un film «sulle emozioni, fatto di sole emozioni».

FOT. 94

Quello che Véronique compie è un ritorno a se stessa, alle proprie radici, a ciò di cui consiste la vita al di là dell’oggettività del qui-ora. In questo senso è enormemente significativa la scena in cui la ragazza, davanti ad Alexandre che le chiede di raccontargli «tutto» della sua vita, si limita a vuotare la sua borsa degli oggetti che contiene, lasciando all’uomo il compito di decifrare ciò che lei è concretamente. Quando Alexandre le mostra la fotografia da lei scattata a Weronika nella piazza del mercato di Cracovia, Véronique dapprima nega di essere lei, poi, riconosciuto il suo doppio/metà, dice che quello indossato nella foto «non è il mio cappotto»: l’involucro esteriore era diverso, ma Weronika era pur sempre lei stessa. Si tratta del momento cruciale in cui la dualità di Véronique emerge alla sua coscienza: la ragazza messa di fronte a quella inesprimibile certezza che Weronika aveva vissuto per un attimo nel vederla andare via sul pullman, ha una crisi di pianto irrefrenabile. Poi, nell’incerto del suo sentire, in quel momento di estasi in cui la gioia del riconoscimento si mischia al dolore della perdita, il singhiozzo del pianto si trasforma nell’ansimare dell’amore, verso quel violento orgasmo a cui, non visto, la conduce Alexandre. Questa scena, girata magistralmente e sorprendentemente interpretata da Irène Jacob, resta uno dei momenti di più pura poesia di tutto il cinema di Kieslowski, assieme a quella della «pioggia di pulviscolo» dorato dal sole e virato in verde, provocato dalla palla trasparente fatta rimbalzare sul soffitto da Weronika subito dopo l’audizione, nell’attimo che ne precede l’incontro con il suo doppio/metà. Su tutto, programmaticamente, predomina il senso di una necessaria verità dell’irreale, di un’utopia. Utopia che Kieslowski non si stanca di perseguire neppure sul piano puramente formale: il regista avrebbe voluto infatti realizzare diverse decine di “versioni numerate” del film, leggermente differenti l’una dall’altra, una per ogni sala cinematografica in cui sarebbe uscito, in modo da rendere alla pellicola quella “unicità” che solo uno spettacolo teatrale in genere ha. Naturalmente, per motivi produttivi e di tempi di distribuzione, questa proposta di “rottura dei limiti formali” del film non ha trovato sbocco. Unico mutamento concesso (e auspicato) dalla produzione, il finale differente nella pellicola destinata al mercato americano. Quando Véronique “torna” nella casa di Weronika e accarezza l’albero delle sue “radici” polacche, nella versione europea intravediamo appena il padre sussultare, come se avesse avvertito la sua presenza. Nella versione americana, invece, l’in definitezza viene riportata alla lettera: Véronique entra ad abbracciare quell’uomo, prendendo concretamente il posto di Weronika. Ma la storia del film, come la vita di Weronika, non ha fine. Con un movimento finale spiraliforme che richiama Il cineamatore, viene narrata da Alexandre, fuori campo, la storia delle due bambine nate nello stesso giorno e da sempre legate dalla condivisione di ogni tappa della vita. Tutto finisce dove ha avuto inizio. Il procedere è sempre un ritorno. Tre colori: Blu, Bianco, Rosso. La Rivoluzione Borghese, l’indifferenza e l’amore (1992-94)

I personaggi di Kieslowski, da Il sottopassaggio a Senza fine, pativano la loro ontologica solitudine senza poter uscire dalla monade in cui li costringeva la trappola della società, con le sue false illusioni, il suo potere senza volto e senza identità. Ma attraverso la condizione comune dei condòmini del Decalogo, e ancora di più con la duplicità di Veronica, Kieslowski sembra essere giunto ad affermare che nell’esistenza la speranza di «non essere soli al mondo» è una prospettiva praticabile, anche senza alimentare nessuna “promessa di felicità”: la solidarietà è un bene a portata di mano dell’uomo, senza dover «usare la parola Dio». Come nell’Ethica spinoziana, Dio nel mondo di Kieslowski è nell’infinità delle varie finitezze, nella necessità di quella totalità di eventi contingenti da cui deriva il senso inesplicabile della “condizione umana” individuale, utilitaristicamente racchiusa entro i limiti della sua razionalità. Nella Francia del 1789, la Rivoluzione Borghese ha eliminato i privilegi residui del

potere assoluto di Chiesa e Nobiltà e ha dato inizio ad un modello di società “razionale”, nello spirito di quel contratto sociale in cui libertà, uguaglianza e fratellanza per la prima volta nella storia diventavano diritti inalienabili e mezzi per garantire lo sviluppo autonomo della persona. A più di due secoli di distanza, Kieslowski si propone di analizzare quale sia il senso dei tre princìpi “laici” dell’89 in quell’interiorità ormai pietrificata che è l’identità sociale da essi proclamata e garantita. Così nasce il progetto dei Tre colori. Libertà, uguaglianza e fratellanza sono categorie razionali che regolano i rapporti di convivenza nella società: ma nell’esperienza concreta divengono assiomi privi di significato, contraddetti dall’insorgere delle emozioni, dai continui scarti dalla Ragione in cui la vita individuale, che è un processo di interazione con il mondo, prende luogo e forma. Nella Trilogia, ciò che consente agli uomini di far fronte al conflitto razionale tra individuo e mondo, è l’unica forza irrefrenabile e oscura che può fare a meno della corazza dell’individualità: quell’amore in cui affonda le sue radici anche il mistero della riproduzione della vita. L’amore a cui si riferisce Kieslowski, però, non è l’innamoramento, ma qualcosa di molto più semplice e basilare: è il contrario dell’indifferenza, la capacità di farsi toccare dal mondo. Se nel consueto sollevare domande senza fornire risposte Kieslowski con la Trilogia supera le strettoie esistenziali del pessimismo, lo fa con la dimostrazione della necessità che l’uomo si assuma la responsabilità di agire, e rompa così il circolo vizioso dell’indifferenza. Come Van Den Budenmayer aveva musicato il Paradiso dantesco per La doppia vita di Veronica, Patrice De Corsy, il compositore prematuramente scomparso di Film Blu, ha lasciato incompiuto un Concerto per l’unificazione dell’Europa. la cui cantata ha le parole del tredicesimo versetto della Lettera di San Paolo ai Corinti (uno dei pochi testi biblici in cui non si nomina Dio), nel cui testo greco si dice che l’unica virtù umana che sopravviverà al tempo è quell’agàpe tradotto nella tradizione cattolica come carità, ma il cui senso più autentico è amore. Certo, nell’ansietà del futuro da cui sono attanagliati i protagonisti della Trilogia, l’amore non tacita né rasserena: l’amore è anche sofferenza, incomprensione, sacrificio. Ma è innanzitutto un moto spontaneo verso l’altro, una forza solidale che indirizza la vita al di là degli obbiettivi contingenti che di volta in volta costituiscono il suo senso transitorio. Contro la retorica della multimedialità e il solipsismo del villaggio della comunicazione globale, Kieslowski pone al centro della sua Trilogia la difficoltà dei personaggi nel mantenere anche il più semplice contatto umano, il loro sforzo per uscire dalle maglie del modello individualista della vita, dalla feticizzazione obbligatoria dei beni di consumo, ormai trasformati in bisogni materiali. La tecnologia, specchietto per le allodole di un progresso cieco e fittizio, diventa nei Tre colori il campanello d’allarme per la denuncia dell’alienazione individuale: in Film Blu all’origine della tragedia della protagonista Julie c’è il funesto viaggio in automobile con la sua famiglia, ma ancora più estrema è l’immagine della televisione come droga consapevolmente usata dall’abulica madre per isolarsi definitivamente dal mondo in uno stato di pre-morte; in Film Bianco il denaro come valore assoluto e come unica fonte di salvezza, e le tecniche di speculazione selvaggia del “neocapitalismo” dei paesi dell’Est (con l’uso della tecnologia d’avanguardia a fare da grottesco status symbol della nuova “classe dirigente”), sono alla base prima dello scacco, poi della vendetta del protagonista Karol; in Film Rosso, infine, il giudice in pensione amareggiato dalla vita, vive trincerato nella sua casa ad ascoltare di nascosto le conversazioni telefoniche dei suoi vicini rinunciando ai rapporti umani diretti, mentre la protagonista Valentine “vende” la sua immagine alla pubblicità come modella. Tutti questi elementi disegnano il profilo di un mondo che è una sorta di “pacifico inferno”, in cui la forza dell’indifferenza e la rinuncia alla memoria e all’azione sono i mezzi anestetici perché l’uomo possa proseguire quanto più a lungo possibile una vita senza più domande. Sarà forse per questo che, con ironia, Kieslowski associa ad ognuno dei tre film una forma animale che sintetizza il differente stato di solitudine

dei tre protagonisti: in Film Blu Julie trova in casa sua dei topi, che come lei saranno chiusi nella trappola della casa della sua “nuova vita” illusoria; in Film Bianco i sentimenti “francesi” di Karol sono significati dal volo di un piccione solitario, mentre la Polonia è associata all’immagine dello stormo di piccioni, del “ritorno” di Karol tra i suoi “simili”; in Film Rosso, infine, sarà la cagna raminga e solitaria investita da Valentine il tramite per cui la ragazza conoscerà l’uomo che cambierà il corso della sua vita. La vita nella società nata dai tre princìpi rivoluzionari della Ragione Borghese trova una sintesi nell’immagine anodina del tribunale, che ricorre in tutti i film del ciclo. Qui la giustizia da valore morale diventa questione burocratica, seriale, straniata: un quadro perfetto di quel mondo indifferente alle sorti dell’individuo che solo la fratellanza, termine ultimo della Trilogia, può riuscire a superare. Film Blu: la morte, la memoria e la libertà

Parigi, che è stata il teatro della Rivoluzione, è testimone cinica e invadente della tragedia personale di Julie, la cui vita è azzerata in un istante dall’incidente di automobile in cui trovano la morte suo marito e sua figlia. Quest’impatto improvviso contro un albero ai margini della strada, per Julie diventa l’inizio di un’altra esistenza: insieme alla famiglia muoiono anche tutte le sue certezze. Di fronte alla realtà improvvisa della morte, Julie cerca con violenza di cancellare il suo passato, di recidere in sé ogni legame affettivo, per punirsi di essere rimasta in vita, ma non ha la forza (o la debolezza) di uccidersi. La libertà a cui ambisce Julie diventa così una libertà illusoria, poiché nella vita è possibile liberarsi da tutto, fuorché da se stessi. Film Blu descrive il tentativo della donna di uccidere le sue emozioni: ma quello che nasce come disegno disperato di negazione di sé, si trasforma in un lento riapprendere la vita, nel cedere dolorosamente alla verità della perdita abituandosi ad essa, e alla fine, superandola in un angoscioso senso di pietà di sé e del mondo. La triste liberazione di Julie dalla gabbia del suo amore spezzato, in cui si sprigiona suo malgrado il senso brutale della sopravvivenza, nasce dall’impossibilità di coltivare l’indifferenza e la solitudine nel tempio del proprio dolore lasciato intatto: del resto anche il dolore è una condizione comune, ed è vano pensare di poterlo usare come àncora di salvezza dalla bruttura del mondo. Julie possiede il denaro sufficiente per vivere senza fare più nulla, e non c’è nessuno che possa contraddire le sue isteriche decisioni di fare piazza pulita: ma il vivere come fuggiasca da un passato irrisolto non fa che renderla ancora più vulnerabile dalle coincidenze, le premonizioni e i segni di persistenza del passato che la sua sensibilità scossa scorge disseminati ovunque: dimenticare è un lavorìo lento, involontario, impossibile da decidere, sottoposto solo allo stillicidio del tempo. Guardando le foto teletrasmesse in un “coccodrillo” dedicato alla morte di suo marito, Julie apprende all’improvviso di non aver potuto uccidere il suo passato perché in realtà le era sconosciuto. Patrice, il marito, aveva infatti un’amante che ora aspetta da lui un bambino, e dunque, il compito di essere l’ultimo legame vivente del compositore con il mondo non è affidato a lei, ma all’altra donna e al bambino che nascerà. Solo accettando questa verità ancora più atroce della morte, Julie può riconciliarsi con se stessa, azzerare il suo rancore con il destino, e riprendere a vivere liberandosi del suo passato nel donarlo interamente, assieme ai suoi beni materiali, all’altra donna. Apre la scena un rumore costante su una linea nera che si evolve. È la ruota di un’automobile (fot. 95) su cui viaggia Julie (Juliette Binoche) con suo marito Patrice, celebre compositore, e la piccola figlia Anna. Durante una sosta, si nota una perdita d’olio dagli ingranaggi. Appena superato un giovane autostoppista, la macchina sbanda nella nebbia e va a finire contro un albero (fot. 96). Julie si risveglia in ospedale, dove un medico le comunica il decesso di tutti i membri della sua famiglia. Dopo aver tentato invano di ingoiare un flacone di pillole, Julie accetta con rammarico l’idea di tornare a vivere nella solitudine. Tornata a casa, la donna decide di mettere in vendita l’enorme villa di campagna in cui viveva, e di andare a vivere in un appartamento in affitto in città. Dopo aver gettato lo spartito dell’incompiuto Concerto per l’unificazione dell’Europa di Patrice, nella vecchia casa ormai rimasta vuota, Julie convoca con estrema razionalità Olivier (Benoit Regent), un giovane compositore amico di suo marito che “l’ha sempre amata”, e ci fa freddamente

l’amore. Poi, portando con sé in una scatola solo un lampadario a collane di gocce blu, va ad abitare al centro di Parigi. Antoine (Yann Tregouet), il giovane testimone dell’incidente, riesce a raggiungere telefonicamente Julie dal suo medico curante, e a prendere un appuntamento con lei. In un bar, il ragazzo cerca di restituire a Julie la catenina con crocefisso che la donna ha perso nel luogo dell’incidente, ma Julie, alla fine dell’incomunicante conversazione in cui rifiuta di ascoltare la “testimonianza” del proprio passato, regala la catenina ad Antoine. Julie diventa involontariamente amica della prostituta Lucille (Charlotte Very), vicina di casa che le è riconoscente perché, rifiutando di firmare una petizione condominiale per l’allontanamento coatto della donna, le ha consentito di restare a vivere nel palazzo. Un giorno, in un bar vicino al suo nuovo appartamento, Julie si trova davanti Olivier, che sostiene di averla cercata tutto il tempo: ma il tentativo di riavvicinamento dell’uomo fallisce. Tornata a casa, Julie trova che nello sgabuzzino delle scope ha nidificato un topo con i suoi cuccioli. Non avendo il coraggio di uccidere gli animali, Julie chiude la porta dello stanzino e tenta invano di conviverci. L’indomani Julie va a trovare sua madre (Emmanuelle Riva) in una casa di riposo per anziani, dove la donna si abbrutisce guardando in continuazione la televisione e distraendosi dal mondo. È così distratta che spesso scambia la figlia Julie (forse con un po’ di malizia) per sua sorella Marie France. Intanto Olivier riceve per posta lo spartito dell’incompiuto Concerto di Patrice: la Commissione Europea gli ha proposto di portarlo a compimento in sua vece. Tornata a casa, Julie si fa “prestare” il gatto da un vicino, per far uccidere i topi: ma una volta chiuso il gatto in casa, non ha più il coraggio di rimetterci piede. Lucille si offre di “fare pulizia” per lei. Mentre Julie dorme, le giunge una telefonata di Lucille dal locale di Pigalle dove la donna si esibisce in alcuni porno-show: è terrorizzata, le chiede di raggiungerla. Lucille ha visto suo padre tra il pubbico del locale, ma mentre Julie si reca sul posto, l’uomo torna a casa, e Lucille, imbarazzata, le spiega le ragioni del “falso allarme”. Mentre attende nel camerino di Lucille, Julie vede in televisione un’intervista a Olivier dove apprende che l’uomo sta portando a termine il Concerto di suo marito: durante la trasmissione vengono mostrate delle foto del compositore scomparso, alcune delle quali lo ritraggono in compagnia di una donna che Julie non conosce. Julie si reca da Olivier, e si fa raccontare della donna delle fotografie. La donna si chiama Sandrine (Florence Pernel), è un avvocato, ed è stata per anni l’amante “ufficiale” di Patrice. Julie va al Palazzo di Giustizia, e individuata Sandrine, comincia a seguire i suoi movimenti, fino a riuscire ad incontrarla nel bagno di un bar. Qui Sandrine confessa a Julie che è rimasta incinta di Patrice, anche se lui non l’ha mai saputo. Poi, dopo aver visto al collo di Sandrine una catenina identica alla sua (chiaramente, un regalo di Patrice), Julie si rende conto che suo marito amava quella donna, e se ne va disperata. Qualcosa è cambiato nella vita di Julie. La donna pian piano comincia a lavorare, parallelamente ad Olivier, al Concerto incompiuto di Patrice. Disdetto l’ordine di vendere la sua casa, ormai vuota e in preda all’incuria, Julie decide di donarla a Sandrine, perché la donna vada ad abitarci con il figlio, che si chiamerà Patrice. Poi Julie chiama Olivier, e constatato che l’uomo la ama ancora, va a casa sua, dov’è custodito il materasso su cui i due hanno fatto l’amore la prima e unica volta, e sembra cedere all’ostinato sentimento dell’uomo, anche se con dolore. Dopo aver fatto di nuovo l’amore con Olivier, Julie ripensa alla sua vita: e piange, finché il suo pianto non si muta in un sorriso.

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Il primo film con un budget “occidentale” girato da Kieslowski mostra con evidenza la grande perizia tecnica dell’autore tanto nelle riprese che in quel fluidissimo “ragionare per immagini” che è il suo uso del montaggio. Gran parte del “messaggio” del film è affidato ad eventi in cui l’evidenza della situazione supplisce ogni referenzialità dialogica. Il film è costruito come un teorema per indizi, e la concatenazione degli eventi viaggia ormai su più linee di lettura parallele, perfezionando il meccanismo di ambiguità dell’immagine. Il film è costellato di piccoli gioielli tecnici che portano all’estremo la soggettivizzazione del dramma di Julie: ad esempio, l’inquadratura del medico che parla dal nero della pupilla della donna (fot. 97), o ancora di più l’uso frequente della dissolvenza su nero, che nel linguaggio filmico significa “passaggio di tempo”, per indicare al contrario quei momenti in cui il tempo, nella coscienza di Julie, passa dal registro diegetico a quello durativo, “fermandosi” di fronte all’intensità delle emozioni. Il tema visivo del blu, sottolineato dall’insistenza cromatica della fotografia di Slawomir Idziak (lo stesso direttore della fotografia di Breve film sull’uccidere e Veronica), attraversa tutti gli oggetti e gli ambienti in cui si muove Julie, dalla “lampada a gocce” ai riflessi dell’acqua nella piscina in cui la donna spesso si ritira dal mondo come in un ambiente extraterreno. L’uso invadente dell’immagine tecnologica e riproduttiva, dalla fotografia alla televisione miniaturizzata, dalla fotocopia all’immagine ecografica della vita pre-natale (fot. 98), sottolinea efficacemente la costante «caduta dell’aura» (per usare un termine di Walter Benjamin) a cui l’immane tragedia di Julie è sottoposta dal villaggio globale, che la reifica nelle sue semplici coordinate esteriori. Come Marie, la vecchia cameriera di Julie, lo spettatore è portato a «piangere perché Julie non piange»: la donna è raggelata, e seguendo inconsapevolmente lo standard dell’esteriorità del mondo in cui vive, cerca spesso di provare dolore interiore facendosi del male, come nella splendida scena in cui graffia la sua mano sulle asperità del muro della villa per cercare di piangere (fot. 99). Seguendo questa linea maestra, riusciamo a percorrere l’itinerario verso la liberazione delle emozioni di Julie, in cui il pianto finale assume una valenza catartica. Anche la musica in Film Blu, da “oggetto” della storia, subisce un processo di interiorizzazione: la sua reviviscenza mnemonica diventa infatti per Julie l’unico legame vivo con la presenza di Patrice che nessuno può sottrarle. D’altra parte, la memoria della sua vita prima del matrimonio, di cui Julie chiede ragguaglio alla madre arteriosclerotica, le viene negata di fronte alle immagini dell’assurdo televisivo (fot. 100), in cui si vedono al ralenti degli anziani gettarsi nel vuoto per decine di metri con un piede legato ad una corda: la sensazionalità è divenuta normalità, la madre di Julie è indifferente ai drammi del mondo (e a quello di sua figlia) perché si ciba costantemente dei suoi surrogati.

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L’identità di Julie sembra del tutto distrutta, dal momento in cui è addirittura sua madre che a tratti non la riconosce più, e la chiama Marie-France. Il disvelamento dello squallore della vita da cui la protagonista del film ricomincerà a salire la china delle emozioni, si compie attraverso i mezzi di comunicazione di massa, produttori di falsa oggettività per antonomasia: e non è un caso che la prima volta in cui Julie rivede la televisione questo avvenga in una sala del bordello-”Porno-live-show” in cui lavora Lucille. Per il tramite della segretaria di Patrice che ha salvato lo spartito del “Concerto” fotocopiandolo, e di Olivier che lo diffonde in televisione, Julie si vedrà derubata all’improvviso del suo passato affettivo: di questo processo di spossessamento si fa coronamento la coscienza di Sandrine e del figlio che sta per nascerle.

Il gesto di abdicazione con cui Julie regala la casa del suo amore con Patrice a Sandrine e a suo figlio, è in realtà l’unico modo per sdebitarsi dell’amore che la lega a quell’uomo, accettando la verità di ciò che resta delle sue opere: non è un caso che tale rinuncia avvenga nello stesso momento in cui Julie accetta l’idea del compimento del “Concerto” da parte di Olivier, e si impegna per aiutarlo. Ma anche Julie, come sua madre, alla fine cederà al surrogato della vita, a quel surrogato di Patrice che è Olivier, in un gesto contraddittorio di infedeltà e di devozione nei confronti del marito, di cui gli effetti restano imperscrutabili. Il cast di attori con cui si cimenta Kieslowski, e in primo luogo Juliette Binoche (vincitrice a Venezia della “Coppa Volpi” per l’interpretazione), contribuisce a “francesizzare” una storia dal gusto fin troppo esplicitamente “europeo”: il film, Leone d’Oro nel 1993 alla 50a Mostra del Cinema di Venezia, sancisce il definitivo successo internazionale del suo autore, il quale, con la sua spiazzante arguzia, annuncia che dopo l’uscita di Film Rosso, di cui ha già terminato le riprese, «probabilmente smetterà di fare film». La musica solenne di De Corsy-Van Den BudenmayerPreisner, a cui è affidato il complesso compito di veicolare il messaggio “europeista” e “paolino” del film, che fa da pars costruens alla secca critica del cinismo dello show-business messa in atto da Kieslowski, gioca un ruolo di ulteriore “organicizzazione” espressiva, e fa corpo con il ritmo delle immagini fino a diventare una sorta di regia della colonna sonora: come nelle sequenze della discussione sulla strumentazione da usare nel Concerto, in cui possiamo vedere sullo spartito e contemporaneamente ascoltare le variazioni della musica mentre Julie e Olivier ne parlano. Film Bianco: l’impotenza, l’uguaglianza e la vendetta

Per un attimo Julie, inseguendo la “rivale” Sandrine nei corridoi del Tribunale in Film Blu, veniva fermata all’entrata di un’aula in cui si celebrava un processo. Un uomo parlava disperatamente in polacco con la corte, e, tradotto in francese dal suo legale, invocava “uguaglianza”. Film Bianco narra la vita di quell’uomo, il polacco Karol Karol, parrucchiere (nome e qualifica quantomai clowneschi), accusato dalla bellissima moglie francese Dominique di una strana sorta di impotenza psicologica: da quando l’ha sposata, non è riuscito più a farci l’amore. La paradossalità di quest’istanza di divorzio, in cui si parlano due lingue differenti, vela in qualche modo il conflitto tra due mondi, l’Est e l’Ovest del dopo-muro, che dopo tanta retorica trionfale sull’unificazione dei popoli si ritrovano nell’imbarazzo di dover costruire un matrimonio impossibile, di cui l’Est non può essere all’altezza se non “imitando” l’opulenza dell’Ovest. Dopo l’inno solenne all’unificazione europea sotto l’egida dell’amore di Film Blu con Film Bianco Kieslowski torna alla brutalità del suo realismo metafisico, e gira per la maggior parte del tempo a Varsavia un capolavoro ironico in spirito bulgakoviano, in cui compaiono decine di volti già intravisti nel Decalogo. Tra questi, i due “fratelli” interpreti del decimo espisodio (Non desiderare la roba d’altri), a cui anche il tema del possesso materiale rimanda: Zbigniew Zamachowski e Jerzy Stuhr. La piccola odissea del parrucchiere Karol, che come un Ulisse clandestino torna in patria per dimenticare il suo “amore impossibile”, è un viaggio nello spietato cinismo del capitalismo selvaggio di una società frustrata e infantile, che sta ereditando dall’Occidente solo l’opportunistica logica del Potere. L’amore che in Film Blu era àncora di salvezza dal vuoto esistenziale, qui si trasforma nella ricerca personale di un’uguaglianza che non c’è, ottenibile solo con la forza e con il raggiro. A testimoniare che il raggiungimento del “sogno occidentale” dell’Est porta solo al “vuoto” dell’Ovest, c’è il personaggio di Mikolaj, campione di Bridge (anche lui dunque, come Karol, perfettamente integrato nella cultura dell’effimero parigina), il quale, stanco di vivere, vuole tornare in Polonia per cercare qualcuno disposto ad ucciderlo sotto lauto compenso. È una sorta di spleen di fine secolo, insomma, ad avvolgere queste patetiche figure di esuli, che sopravviveranno all’umiliazione subìta dall’Occidente solo tramite la vendetta, con l’affermazione economica

raggiunta secondo il modello americano del self-made man. Il bianco, in effetti è il colore del nulla: della luce accecante in cui ogni perspicuità scompare. Karol e Mikolaj passano dall’impotenza degli affetti all’onnipotenza del denaro (secondo il loro Leitmotiv: «oggi si può comprare di tutto») con l’innocenza e la crudeltà di due bambini che giocano con la vita, usando il camuffamento, la bugia e il sotterfugio come mezzi di salvezza dalla crudezza del mondo. È solo il loro intatto infantilismo a salvarli dalla cosificazione di cui si fa emblema il viaggio di Karol nella stiva dell’aereo: i due, insieme, riescono ancora a divertirsi. Anche in Film Bianco, però, la catarsi è bloccata, e l’atroce vendetta messa in atto da Karol nei confronti della moglie Dominique rende impossibile il compimento del suo movente: riappropriarsi dell’amore della donna, che solo i suoi soldi sembrerebbero poter comprare. Karol deve “darsi per morto”, annullarsi per raggiungere quell’”uguaglianza” che rivendicava nei Tribunali francesi: e solo “da morto”, dunque rinunciando alla sua identità, può riuscire di nuovo a soddisfare, come nessun’altro al mondo, il bisogno di appagamento sessuale di Dominique. Karol Karol (Zbigniew Zamachowski), un parrucchiere polacco, è sposato con Dominique (Julie Delpy), con la quale ha aperto un salone di acconciature a Parigi. Ma il loro matrimonio non è mai stato consumato: Karol, infatti, dal giorno che ha sposato Dominique, non è più riuscito a fare l’amore con lei, perché preso da una forma psicologica di impotenza. Dominique vince la causa di divorzio intentata all’uomo, e lo abbandona per la strada, solo con la sua valigia piena di diplomi professionali. Karol scopre con rammarico che Dominique è riuscita anche a privarlo dell’uso del conto bancario comune. Offesa dall’ultimo, mancato tentativo di Karol di soddisfarla sessualmente, Dominique dà fuoco al salone per potergli addossare la colpa, denunciarlo, e costringerlo ad allontanarsi da lei per sempre. Ma l’uomo non ha neppure più il passaporto, non sa dove andare, e sopravvive nella fermata del metrò sotto la casa di Dominique suonando tristi canzonette polacche con un pettine ricoperto di carta velina (fot. 101). È proprio nel metrò che Karol incontra Mikolaj (Janusz Gajos), anche lui esule polacco, un campione internazionale di bridge che sta per tornare in Polonia. Mikolaj offre a Karol uno strano lavoro (fot. 102): uccidere un compatriota su commissione dell’uomo stesso, ormai stanco di vivere, e si offre di riportarlo con sé in Polonia per eseguirlo. Karol dapprima rifiuta l’offerta, poi, una volta scoperto che Dominique lo tradisce, accetta di partire. Mikolaj farà espatriare Karol per via aerea, nascondendolo nella sua enorme valigia. Ma appena giunge all’aeroporto di Varsavia, la valigia viene rubata da una banda di ladri, i quali, scopertone il contenuto, malmenano Karol per vendicarsi della beffa. Karol va a vivere a casa di suo fratello Jurek (Jerzy Stuhr), anche lui parrucchiere. Della Francia gli è rimasto solo un bianco busto di donna che ha rubato prima della rocambolesca fuga nella valigia e una moneta da due franchi. Oltre ad aiutare Jurek nel salone di acconciature, Karol riesce a farsi assumere come scagnozzo in un giro di riciclaggio di denaro e attività imprenditoriali selvagge. Dopo essere venuto a conoscenza di un grosso affare, Karol brucia sul tempo i suoi datori di lavoro e compra a prezzi stracciati da un contadino dei terreni su cui dovranno nascere dei grandi magazzini, per poi rivenderli all’organizzazione a dieci volte il loro prezzo, rischiando la vita nell’operazione. Poi Karol va in cerca di Mikolaj, e lo trova in un circolo di Bridge, dove gli chiede del lavoro di “sucidio per procura” di cui avevano parlato in Francia. Mikolaj confessa a Karol che il committente è lui. Karol, costretto per contratto ad eseguire l’omicidio, spara contro Mikolaj un colpo a salve: ma la paura fa passare all’uomo la voglia di morire. Alla fine Karol accetta “in prestito” il compenso pattuito da Mikolaj per il “lavoretto”. È passato del tempo. Karol è diventato un imprenditore, ora va in giro in una Volvo rosso bordeaux con autista personale. Un giorno riesce a convincere Mikolaj ad entrare in società con lui, e gli affari vanno a gonfie vele. Karol dovrebbe essere un uomo realizzato, ma non riesce a togliersi dalla testa Dominique. Così escogita un piano diabolico per costringerla a “tornare” da lui: le intesta tutti i suoi ingenti beni, e si finge morto facendo celebrare il suo funerale con tanto di seppellimento di cadavere comprato di contrabbando. Poi si fa trovare nella stanza d’albergo dove alloggia Dominique, e finalmente riesce di nuovo a farci l’amore. Ma la mattina seguente scompare senza lasciare tracce. La polizia polacca trova sospetta la posizione di Dominique, erede universale della fortuna di Karol, che risulta morto di morte violenta. Dominique aggrava la situazione affermando che il marito non è morto, quando tutti possono giurare il contrario. Sarà arrestata. Karol finalmente si è vendicato, ma è costretto a vivere di nuovo nascosto, come quando era in Francia, senza neppure il passaporto, anagraficamente morto. Corrompendo un secondino, Karol spia con un binocolo dal cortile della prigione Dominique, con la quale si scambia dei messaggi d’amore: un amore che sembra impossibile da compiersi, sul quale non può fare altro che piangere.

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Come Film Blu si apriva con l’immagine epigrammatica del dettaglio della ruota d’automobile (che ricorda l’inizio dell’amato Sesso, bugie e videotape), Film Bianco si apre con l’anticipazione o flashforward della valigia di Mikolaj (fot. 103), simbolo del rocambolesco ritorno di Karol in patria. Il flashforward è la tecnica narrativa scelta da Kieslowski per articolare una storia tutta protesa verso il futuro, alimentata dall’unico, monomaniaco obbiettivo del suo protagonista: il ritorno a sé della moglie. Karol si libera del busto di donna (fot. 104) e della moneta da due franchi, oggetti transizionali del suo amore per Dominique, solo quando è certo di aver assicurato la donna alla “prigione” polacca del suo amore, in cui può contemplarla, come in un doloroso contrappasso, solo a distanza. La chiara e nettissima fotografia di Edward Klosinski, che si snoda attraverso la persistenza del bianco nei nebbiosi e ghiacciati paesaggi polacchi, riflette lo sviluppo orizzontale della vicenda, la cristallinità degli affetti e delle situazioni, la semplicità degli stratagemmi usati da Karol per trasformarsi in breve tempo da suonatore di pettine nel metrò di Parigi a facoltoso uomo d’affari di Varsavia. Anche la musica è estremamente lineare ed essenzializzata, e si muove attorno al motivetto nostalgico della canzone degli anni ’30 Ostatnia niedziela (La scorsa Domenica), che sarà motivo di incontro e riconoscimento dei due polacchi Karol e Mikolaj a Parigi. Il tono surreale e farsesco della narrazione “oggettiva” delle peripezie di Karol (l’unica soggettiva del film, spesso reiterata, e immersa nel bianco della sovraesposizione, è quella del ricordo ossessivo del giorno del matrimonio con Dominique, fot. 105), simile al gusto dolceamaro del tema musicale, stempera la crudeltà del dramma tutt’altro che risibile del protagonista. Anche quello di Karol, infatti, come per Julie di Film Blu, è un lento ritorno alla vita dopo una morte interiore: anche lui, come Mikolaj dopo il colpo a salve che gli ha dato per un istante la sensazione inutile del nulla, sente che il suo posto è ancora l’odiata Polonia da cui è partito anni addietro perché insufficiente a soddisfare le sue ambizioni. Il «tutto è possibile» pronunciato da Mikolaj mentre scivola ubriaco insieme a Karol sulla bianca Vistola ghiacciata, riassume in sé l’incosciente euforia con cui un popolo orgoglioso e messo in ginocchio dalla crisi economica, si getta a capofitto con la sua retorica cattolicheggiante in un altro modello di vita come fosse una semplice avventura tra ragazzi. Per la gran parte del film sembra davvero

che il denaro abbia un potere d’acquisto illimitato. Tra i generi commerciabili troviamo la morte, l’amore, il silenzio altrui, la reputazione: l’intera società con i suoi valori convenzionali è ridotta ad un enorme mercato di cui la finzione e l’apparenza sono i meccanismi portanti. Ma la storia dell’utopistica uguaglianza a cui allude il titolo del film è racchiusa, con un ironico parallelismo tra virilità e potere, anche nella surreale battaglia d’amore tra l’”animale ferito” Dominique e l’“umiliato e offeso” Karol. Le posizioni dei due amanti, come in Non desiderare la donna d’altri, alla fine si scambiano specularmente: l’uguaglianza si risolve in una “parità” perversa, nell’identità della spietatezza dei due personaggi, che si dimostrano “anime gemelle” nella loro disperata affermazione di sé e del proprio orgoglio personale. Dominique finirà accusata ingiustamente di omicidio come straniera in terra ostile, trovandosi così nella stessa condizione in cui aveva ridotto Karol in Francia. In entrambi i casi, la “giustizia” sociale invocata dai più deboli si riduce al ruolo di avvallatrice dell’ineguaglianza, a indolente escutrice dei diritti dei “più uguali”, di coloro che si trovano in condizione di vantaggio economico e dunque parlano l’unica lingua universalmente ammessa da ogni struttura sociale: quella del Potere. Il film, premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 1994, vola dunque sulle ali di un’apparente leggerezza che lascia intravedere in filigrana la decisa denuncia politica di Kieslowski, filtrata attraverso una sorta di straniamento stralunato e paradossale, in cui le interpretazioni di Zbigniew Zamachowski (attore tipo della nuova generazione della Scuola di Lodz), e di Julie Delpy (già interprete di film engagé quali Detective di Godard e La Passion Beatrice di Tavernier) disegnano in maniera perfetta il contrasto tra i due “mondi” estranei e inconciliabili come le loro due lingue differenti. Anche Film Bianco, come Film Blu, si chiude con una sospensione, con il pianto del protagonista di fronte all’irraggiungibilità dell’amore per cui ha sacrificato l’esistenza. Libertà e uguaglianza sembrano profilarsi in tal modo come due concetti estremamente contraddittori nell’esistenza individuale, resi perversamente inattuabili proprio da quelle strutture sociali che li erigono a princìpi morali. Ma a soli tre mesi di distanza da Film Bianco, appena in tempo per la presentazione al Festival di Cannes del 1994, è già pronto Film Rosso, il film dell’amore possibile, culmine “positivo” dell’intera Trilogia, girato da Kieslowski nella Ginevra che ha dato i natali a Rousseau, massimo ispiratore dei tre princìpi dell’89. È la smentita dialettica della crudeltà a cui è appena approdato Film Bianco.

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Film Rosso: ascoltare la vita

Film Rosso è un film paragonabile solo all’apologo metafilmico di Il cineamatore. Con il suo ultimo film Kieslowski giunge infatti al cuore dell’esigenza espressiva, al senso di quell’osservazione della vita da cui nasce la scelta di raccontare delle storie. Il dedurre da piccoli indizi intere esistenze e viverle dal loro esterno, che è quanto fa giorno dopo giorno il vecchio giudice chiuso ad ascoltare le conversazioni telefoniche che intercetta nella sua casa fuori città invasa dai libri, non rimanda infatti solo alla figura onnisciente di un «Dio dell’Antico Testamento che s’incarna, s’intenerisce, e scopre l’ansia della morte e la verità dell’amore» (Alain Masson, Trois couleurs: Rouge. La naïveté du manipulateur, «Positif», n. 403, settembre 1994), ma anche a quella del regista, a colui che costantemente controlla la “vita propria” dei suoi personaggi senza mai intervenire, limitandosi ad osservare ed assecondare le oscure geometrie del caso e del destino. La smaliziata osservazione del mondo da parte del giudice è però un vicolo cieco, qualcosa che rischierebbe di esaurirsi nel cinico rifugio di una consapevolezza indolente, se non fosse toccata dall’ingenuità e dall’incapacità di vedere il male della giovane modella capitata “per caso” sul suo statico cammino. Film Rosso è la narrazione della confluenza di due mondi opposti, quello di un eremita tecnologico e quello di una “immagine pubblica”, che hanno sviluppato modi profondamente diversi di rapportarsi al dolore esistenziale. L’umbratilità dell’uomo e la solarità della ragazza sono però i due volti di una stessa tensione nei confronti del mondo, di un’identica capacità di ascoltare la vita che la “società dell’immagine” ha quasi del tutto cancellato. L’atto di ascoltare, riflesso meccanicamente in quello della conversazione telefonica, è fondamentale nella dinamica del film, e muove in direzione opposta all’assuefazione subita dalla vista, un senso abusato al punto da non essere più in grado di riuscire a distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato. È emblematico che l’unico personaggio della Trilogia ad “accorgersi” della vecchia in difficoltà davanti alla campana dei rifiuti del vetro sia proprio la giovane modella Valentine, che aiuterà la donna a portare a compimento il suo proposito elementare. Il superamento dell’autismo esistenziale, dell’individualismo come difesa dal dolore, insito nel semplice gesto solidale di Valentine, è la chiave di lettura di un film che rompe le maglie della “trappola

sociale”, per indagare su cosa siano e come nascono i rapporti umani, e quanto essi siano alla portata della volontà degli individui. Un uomo a Londra compone un numero telefonico: seguiamo l’impulso attraverso i cavi attraversare la Manica (fot. 106), e giungere via terra fino a Ginevra. Ma il centralino segnala occupato. Poi la telefonata ha più successo, e Valentine (Irène Jacob), giovane modella di Ginevra, risponde al telefono al suo ragazzo Michel, che si trova a Londra per motivi di lavoro (fot. 107). Il ragazzo è ossessionato dall’idea che Valentine abbia un altro. Qualche palazzo più in là di Valentine vive Auguste, un giovane laureato in giurisprudenza che si sta preparando per sostenere l’esame di Stato come giudice, il quale ha una relazione con una ragazza che per vivere lavora ad un “Servizio Meteo Personalizzato” telefonico. La loro storia “senza parole” sfiora spesso quella di Valentine, senza mai toccarla. Valentine posa per alcune foto pubblicitarie, poi va di corsa ad una sfilata, e alla sera è stremata. Mentre sta tornando a casa in automobile, la ragazza, distrattasi per un guasto improvviso all’autoradio, investe un cane. È un pastore tedesco femmina, Rita, che Valentine soccorre e riporta al suo proprietario, un vecchio giudice che vive da solo in una grande casa poco fuori Ginevra (JeanLouis Trintignant), e che sembra nutrire un distacco rancoroso dal mondo. L’uomo la tratta bruscamente, e Valentine, mortificata, decide di portare per conto suo la cagna dal veterinario. Quando le viene detto che la bestia è incinta, Valentine decide di tenerla con sé. Ma Michel, dall’Inghilterra, sembra geloso anche di quella compagnia sconosciuta: è irritato, vuole che Valentine se ne sbarazzi. Da una foto in prima pagina in un servizio sulla tossicodipendenza, scopriamo che Valentine ha un fratello che fa uso di eroina, ed una madre che vive da sola a Calais, e che la sua situazione familiare è per lei fonte d’angoscia. Durante una passeggiata nel parco senza guinzaglio, Rita scappa in strada, e torna dal suo padrone, dal vecchio giudice. Seguendola, Valentine lo incontra di nuovo. In casa del giudice, la ragazza scopre che l’uomo passa la maggior parte del suo tempo ad intercettare e ascoltare le conversazioni telefoniche dei suoi vicini. Presa da un’impeto d’ira, Valentine va in casa dell’uomo di cui il giudice sta ascoltando la conversazione, intenzionata a raccontare tutto: ma una volta lì, vista la sua situazione familiare, desiste. Tornata a casa del giudice per scongiurarlo di smettere la sua attività perversa, Valentine comincia per caso ad osservare insieme a lui, fuori della finestra (fot. 108), i movimenti di uno spacciatore di eroina con un radiotelefono. Istintivamente, Valentine telefona allo spacciatore e lo insulta. Così il giudice riesce a indovinare il problema familiare di Valentine, la tossicodipendenza del fratelllo. Intanto la gigantografia della ragazza, diventata testimonial di un chewinggum, troneggia in un angolo della città. Il giudice scrive ai vicini delle lettere anonime in cui si autodenuncia per le intercettazioni telefoniche. Proprio nel giorno in cui il giudice è citato in giudizio per le intercettazioni, il giovane Auguste sostiene positivamente l’esame di Stato, e diventa giudice. Valentine apprende per caso dal giornale del processo a carico del giudice, e si reca dall’uomo per assicurargli che non è stata lei a denunciarlo. Il giudice le confessa di essersi autodenunciato per far sì che lei tornasse a trovarlo. Tra i due nasce un’amicizia piena di tenerezza. Alla fine della serata, Valentine spiega al giudice che per qualche tempo non potranno vedersi, perché sta partendo per l’Inghilterra, e non sa quanto starà via. Il giudice le consiglia di prendere il traghetto, piuttosto che l’aereo. Intanto vediamo Auguste raggiungere di nascosto la casa della sua ragazza dopo averla cercata invano al telefono, arrampicarsi sul cornicione e scoprire con costernazione che la ragazza lo tradisce con un altro uomo. Il giorno seguente, Auguste continua a seguire la ragazza nei suoi movimenti con l’amante, e alla fine, esausto, bussa dai vetri di un ristorante per farsi notare da lei, e poi fuggire via per sempre. Valentine invita il giudice ad una sua sfilata, e alla fine della serata scopre con sorpresa che l’uomo è andato a vederla. I due restano nel teatro vuoto a parlare. Il giudice racconta a Valentine la storia della sua vita, che Valentine ha già intuito: scopriamo così che la storia del giudice è identica a quella del giovane giudice Auguste, anche se accaduta trentacinque anni prima. Alla fine della serata, i due si salutano amorevolmente, entrambi felici della grande empatia che c’è fra loro: sembrerebbero due innamorati separati solo dall’enorme, insormontabile differenza d’età. Valentine parte per l’Inghilterra con il traghetto. Auguste, per caso, si trova sulla stessa imbarcazione per seguire follemente la sua ragazza che è in gita in yacht con l’amante sulla Manica. Ma il traghetto naufraga nella tempesta, e il numero delle vittime della sciagura è altissimo. Il giudice guarda in televisione con apprensione le notizie dalla Manica, e scopre con sollievo che Valentine si è salvata (fot. 109): insieme a lei, con tutti i protagonisti degli altri episodi della Trilogia, c’è anche Auguste. Le loro vite, per la prima volta, si incrociano. Il giudice sorride felice. Qualcosa si è compiuto.

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Solo verso la fine del film sappiamo con certezza che, come il tema spiraliforme del bolero scritto da Preisner per Film Rosso, la vita di Auguste è una ripetizione al presente della vita del giudice: la loro identica esperienza in tempi e luoghi differenti rimanda alla duplicità della Doppia vita di Veronica, e innesca un discorso filmico che si apre allusivamente al condizionale così come Il caso vi si apriva letteralmente. Se alla vita passata del giudice è irrimediabilmente mancata Valentine per poter essere vissuta, questo non vale per quella sua vita presente che è l’esperienza del giovane Auguste. È l’intuizione del giudice che sconsiglia l’aereo a Valentine indirizzandola sul “traghetto del naufragio”, in bilico tra l’onniscienza e il

caso, a consentire l’incontro che sarà la realizzazione al presente dell’amore mancato nel passato. In questo modo risaliamo al tempo condizionale, e possiamo leggere nel sorriso del giudice che guarda le immagini televisive del naufragio il compimento di un ciclo, quello dell’amore tra lui e Valentine, come se il gudice e Auguste fossero la stessa persona. Caso e volontà si intrecciano per tutto il corso del film, a partire dal salvataggio del cane ferito da cui ha inizio il rapporto tra Valentine e il giudice: è solo l’impulso di Valentine ad agire, il suo aver salvato il cane, a consentire l’incontro con quello che, probabilmente, è l’impossibile “uomo della sua vita”. Il linguaggio che unisce il giudice e Valentine, a onta dello sviluppo esponenziale delle telecomunicazioni, è quello delle azioni concrete: il giudice potrebbe telefonare a Valentine per riavvicinarla a sé, ma per richiamarla si autodenuncia, mostrando in concreto la “rivoluzione” sentimentale che la ragazza ha innescato nella freddezza della sua vita. Il loro rapporto è disseminato di segnali provvidenziali: la tecnologia, dagli allarmi delle automobili al suono distante degli elicotteri, dalle lampadine che si fulminano a vista all’enorme poster pubblicitario di Valentine, tutto si piega alle evoluzioni del loro rapporto, e si fa segno della fatalità del loro amore. Al contrario, l’amore paranoico e “telefonico” con Michel, che è in realtà una disperata ricerca d’amore, è sottoposto al dominio del caso, all’ora delle telefonate, all’umore del momento, persino alla scaramanzia del “fortunato al gioco, sfortunato in amore” per cui Valentine sonda la solidità del suo rapporto con un tiro alla slotmachine del bar sotto casa. La “salvezza” finale dei superstiti del traghetto naufragato, benché suoni un po’ tronfiamente biblica, è un messaggio esplicito, un monito morale che allude all’unica possibilità che l’uomo ha di sopravvivere a se stesso, l’amore. La musica di Presiner, con un tema romantico in maggiore (invece che, come di solito, in minore), sembra voler assecondare la positività, tutt’altro che ingenua, che emana dal film. Il bolero a cui si è accennato tematizza infatti il ripercorrimento dell’esperienza del giudice da parte di Auguste, ma anche i momenti in cui il sentimento tra Valentine e il giudice è più evidente. La straordinaria fluidità delle immagini, nell’uso del piano sequenza come “montaggio in immagine”, è dovuta anche alla costosa Technocrane, una gru manovrata da sei persone che ha consentito, ad esempio, di inquadrare senza stacchi il movimento di Auguste dall’interno della casa fino in strada e viceversa, il cui uso è stato alla base di un particolarissimo flashbacksequenziale con cui è stato reso il senso dell’attualizzazione del passato. Quando il giudice racconta a Valentine del momento di commozione da cui è nata la sua volontà di autodenunciarsi, ad esempio, il movimento di macchina è talmente ampio da riuscire a raggiungere senza stacchi l’altra parte della casa in cui è seduto il giudice, intento a scrivere la lettera. Sempre sul piano tecnico, la fotografia di Piotr Sobocinski evidenzia il “calore” del rosso, unificando le tonalità della stanza di Valentine e della casa del giudice, e rende esattamente percepibile il filo analogico che lega gli oggetti rossi nella rete delle consonanze e dei richiami. L’interpretazione di Jean-Louis Trintignant e Irène Jacob è straordinariamente limpida, emozionante per sottrazione, in perfetto equilibrio con l’idea impalpabilmente delicata dell’unico film di Kieslowski in cui l’amore riesce a realizzare la libertà e l’uguaglianza che una società fuori controllo di sé non può assicurare. I dubbi espressi dal giudice sulla vanità di poter decidere quale sia o non sia la verità sembrano all’improvviso riflettere quelli di Kieslowski, il quale, dopo dieci anni di incessante lavoro dal Decalogo a Film Rosso, afferma a sorpresa: «(…) Non ho più voglia di lavorare come regista. – dice Kieslowski dopo Film Rosso – Spero di non farlo più. Nell’ambito del cinema, credo che potrei essere un montatore, ma non m’interessa tagliare le scene girate da un altro. Quindi non farò il montatore. Forse potrei scrivere una sceneggiatura, se un giorno qualcuno me lo chiederà. Ciò che farò di certo, sarà organizzare degli incontri con i miei colleghi giovani, sia in Polonia che all’estero» (La fraternité existe dès que l’on est prêt à écouter l’autre, intervista a cura di Vincent Amiel e

Michel Ciment, «Positif», n. 403, settembre 1994). La dichiarata intenzione di smettere di girare per dedicarsi a se stesso, accolta con malizioso scetticismo dalla critica, assume una tonalità inquietante nell’agosto del 1995, quando Kieslowski è colpito da un violento infarto, che lo costringe ad una vita ritirata, casalinga, simile a quella del giudice. Chiuso forzatamente in una solitudine fatale, Kieslowski non ha fatto in tempo a muovere neppure i primi passi sul cammino della propria aspirazione al silenzio. Il 13 marzo del 1996, a soli 54 anni, per un infarto seguito ad una seconda operazione in cui gli era stato applicato un by-pass, Kieslowski è scomparso all’improvviso nella sua Varsavia, confondendo il silenzio da lui cercato a quello inappellabile della morte. Il circolo in cui si intrecciano il caso, il destino e la volontà, a cui aveva rivolto così tante volte il suo sguardo freddo e partecipe, si è chiuso per sempre, lasciandosi alle spalle un grande vuoto. Ma anche un’opera cinematografica straordinariamente piena di emozioni e di amore per la vita.

1966 | Tramwaj | t.l. Il tram Regia e sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n) Zdislaw Kaczamrek; assistente didattica: Wanda Jakubowska; interpreti: Jerzy Braszka (il ragazzo), Maria Janec (la ragazza); produzione: Scuola Superiore di Cinema di Lodz; durata: 5’ 45’’. 1966 | Urzad | t.l. L’ufficio Regia e sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Lechoslaw Trzesowski; produzione: Scuola Superiore di Cinema di Lodz; durata: 6’. 1967 | Koncert zyczen | t.l. Il concerto dei desideri Regia e sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Lechoslaw Trzesowski; montaggio: Janina Grosìcka; produzione: Scuola Superiore di Cinema di Lodz; formato: 35 mm., b/n; durata: 17’. 1968 | Zdjecie | t.l. La fotografia Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (16 mm., b/n): Marek Jozwiak; montaggio: Niusia Ciucka; produzione: PolTel (Televisione Polacca); durata: 32’. 1969 | Z miasta Lodzi | Dalla città di Lodz Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Janusz Kreczmarski, Piotr Kwiatkowski,

Stanislaw Niedbalski; montaggio: Elzbieta Kurkowska, Lidia Zonn; suono: Krystyna Pohorecka; direttori di produzione: Stanislaw Abrantowicz, Andrzej Cylwik; assistente didattico: Kazimierz Karabasz; produzione: WFD (Casa di produzione del Film Documentario), Warsaw; durata: 17’ 21’’ (476 m.). 1970 | Bylem zolnierzem | t.l. Sono stato un soldato Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Riszard Zgòrecki; fotografia (35 mm., b/n): Stanislaw Niedbalski; produzione: Casa di produzione “Czolòwka”; durata: 16’ (480 m.). 1970 | Fabryka | t.l. La fabbrica Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Stanislaw Niedbalski, Jacek Tworek; montaggio: Maria Leszczynska; suono: Malgorzata Jaworska; direttore di produzione: Halina Kawecka; produzione: WFD; durata: 17’ 14’’ (472 m.). 1971 | Przed rajdem | t.l. Prima del Rally Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Piotr Kwiatkowski; montaggio: Lidia Zonn; suono: Malgorzata Jaworska; direttore di produzione: Waldemar Kowalski; produzione: WFD; durata: 15’ 9’’ (411 m.). 1972 | Refren | Ritornello Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Witold Stok; montaggio: Maryla Czolnik; suono: Malgorzata Jaworska, Michal Zarnecki; direttore di produzione: Waldemar Kowalski; produzione: WFD; durata: 10’ 19’’ (282 m.). 1972 | Miedzy wroclawiem a Zielona Gora | t.l. Tra Wroclaw e Zielona Gora Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Jacek Petricki; montaggio: Lidia Zonn; suono: Andrzej Bohdanowicz; direttore di produzione: Jerzy Herman; produzione: WFD su commissione della miniera di rame di Lublin; durata: 10’ 35’’ (289 m.). 1972 | Podstawy bhp w kopalni miedzi | t.l. Le norme di igiene e sicurezza nella miniera di rame Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Jacek Petricki; montaggio: Lidia Zonn; suono: Andrzej Bohdanowicz; direttore di produzione: Jerzy Herman; produzione: WFD su commissione della miniera di rame di Lublin; durata: 20’ 52’’ (571 m.). 1972 | Robotnicy ’71: nic o nas bez nas | t.l. Operai ’71: niente su di noi senza di noi Realizzazione: Krzysztof Kieslowski, Tomasz Zygadlo, Woijciech Wisniewski, Pawel Kedzierski, Tadeusz Walendowski; fotografia (16 mm., b/n): Witold Stok, Stanislaw Mroziuk, Jacek Petricki; suono: Jacek Szymanski, Alina Hojnacka; montaggio: Lidia Zonn, Maryla Czolnyk, Joanna Dorozynska, Daniela Cieplinska; direttori di produzione: Miroslaw Podolski, Wojciech Szczesny, Tomasz Golebiewski; produzione: WFD; durata: 46’ 39’’ (514 m.). 1973 | Murarz | t.l. Il muratore Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Witold Stok; montaggio: Lidia Zonn; suono: Malgorzata Jaworska; direttore di produzione: Tomasz Golebiewski; produzione: WFD; durata: 17’ 39’’; prima proiezione: 1981. 1973 | Przejscie podziemne | t.l. Il sottopassaggio pedonale Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Ireneusz Iredynski, Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Slawomir Idziak; suono: Malgorzata Jaworska; interpreti: Teresa Budisz-Krizanowska, Andrzej Seweryn, Anna Jaraczowna, Zygmunt Maciejewski, Jan Orsza-Lukaszewicz, Janusz Skalski; produzione: Televisione Polacca (Poltel); durata: 30’. 1974 | Przeswietlenie | t.l. La radiografia Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Jacek Petricki; montaggio: Lidia Zonn; suono: Michal Zarnecki; direttore di produzione: Jerzy Tomaszewicz; produzione: WFD; durata: 16’ 53’’ (357 m.). 1974 | Pierwsza milosc | t.l. Il primo amore Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (16 mm., colore): Jacek Petrycki; montaggio: Lidia Zonn; suono: Malgorzata Jaworska, Michal Zarnecki; produzione: Televisione Polacca (Poltel); durata: 30’.

1975 | Zyciorys | t.l. Curriculum vitae Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Janusz Fastyn, Krzysztof Kieslowski, da un soggetto di Maiciej Malicki; fotografia (35 mm., b/n): Jacek Petrycki, Tadeusz Rusinek; montaggio: Lidia Zonn; suono: Spas Christow; direttore di produzione: Marek Szopinski; produzione: WFD; durata: 45’ 10’’ (1235 m.). 1975 | Personnel | t.l. Il personale Regia: Krzysztof Kieslowski; assistente alla regia: Tadeusz Walendowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski; fotografia (16 mm., colore): Witold Stok; operatore: Ryszard Jaworski; scenografia: Tadeusz Kozarewicz; costumi: Izabella Konarzewska; montaggio: Lidia Zonn; interpreti: Juliusz Machulski (Romek), Irena Lorentowicz, Wlodzimierz Borunski, Michal Tarkowski, Tomasz Lengren, Andrzej Siedlecki, Tomasz Zygadlo, Janusz Skalski; direttore di produzione: Zbgniew Stanek; produzione: Televisione polacca (Poltel) in collaborazione con Zespol Filmowy “TOR”; durata: 72’. 1976 | Spitzal | L’ospedale Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Jacek Petricki, Malgorzata Moszczenska; montaggio: Lidia Zonn; suono: Michal Zarnecki; direttore di produzione: Ryszard Wresinski; produzione: WFD; durata: 21’ 04’ (577 m.). 1976 | Blizna | t.l. La cicatrice Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, da un soggetto di Romuald Karas; dialoghi: Romuald Karas, Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Slawomir Idziak; musica: Stanislaw Radwan; suono: Michal Zarnecki; scenografia: Andrzej Plocki; montaggio: Krystina Gornicka; interpreti: Franciszeck Pieczka (il direttore Bednarz), Mariusz Dmochowski, Jerzy Stuhr (l’assistente di Bednarz), Jan Skotnicki (direttore dei trasporti), Stanislaw Igar (ministro), Stanislaw Michalski (impiegato del Ministero), Michal Tarkowski (redattore della Tv), Halina Winiarska (moglie di Bednarz), Joanna Orzechowska (figlia di Bednarz), Agnieszka Holland, Malgorzata Lesniewska, Asia Lamtiugina, Riszard Baciarelli, J. Byrniaska, F. Barfuss, B. Eimont, H. Hunko; direttore di produzione: Zbigniew Stanek; produzione: Zespol Filmowy “TOR”; durata: 104’. 1976 | Klaps | t.l. Ciak Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Slawomir Idziak; suono: Michal Zarnecki; produzione: Zespol Filmowy “TOR”; durata: 6’ (64 m.). 1976 | Spokoj | t.l. La tranquillità Regia: Krzysztof Kieslowski; assistente alla regia: Krzysztof Wierbicki; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, dalla novella di Lech Borski; dialoghi: Jerzy Stuhr, Krzysztof Kieslowski; fotografia (16 mm., colore): Jacek Petrycki; montaggio: Maryla Szymanska; operatore: Zbigniew Wichalz; scenografia: Rafal Waltenberger; suono: Wieslaw Jurgala; musica: Piotr Figiel; interpreti: Jerzy Stuhr (Antek Gralak), Izabella Olszewska, Jerzy Trela, Michal Szulkiewicz, Danuta Ruksza, Jerzy Fedorowicz, Elzbieta Karkoszka; direttore di produzione: Zbigniew Romantowski; produzione: Televisione Polacca (Poltel); durata: 44’; prima proiezione: 1980. 1977 | Z punktu widzenia nocnego portiera | t.l. Dal punto di vista di un portiere notturno Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Witold Stok; montaggio: Lidia Zonn; musica: Wojciech Kilar; suono: Wieslawa Dembinska, Michal Zarnecki; direttore di produzione: Wojciech Kapczynski; produzione: WFD; durata: 16’ 52’’ (463 m.). 1977 | Nie wiem | t.l. Non lo so Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Jacek Petrycki; montaggio: Lidia Zonn; suono: Michal Zarnecki; direttori di produzione: Ryszard Wrzesìnski, Wojciech Kapczynski; produzione: WFD; durata: 46’ 27’’ (1271 m..); prima proiezione: 1981. 1978 | Siedem kobiet w roznym wieku | Sette donne d’età diversa Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Witold Stok; montaggio: Alina Sieminska, Lidia Zonn; suono: Michal Zarnecki; produzione: WFD; durata: 16’ (457 m.). 1979 | Amator | t.l. Il cineamatore Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura e dialoghi: Krzysztof Kieslowski, Jerzy Stuhr; fotografia (35

mm., colore): Jacek Petricki; musica: Krzysztof Knittel; suono: Michal Zarnecki; montaggio: Halina Nawrocka; scenografia: Rafal Waltenberger; interpreti: Jerzy Stuhr (Filip Mosz), Malgorzata Zabrowska (Irka Mosz), Ewa Pokas (Anna Wlodarczyk, la “cineamatrice”), Stefan Czyzewski (il direttore), Jerzy Nowak (Osuch), Tadeusz Bradecki (Witek), Marek Litewka (Piotrek Krawczyk), Boguslaw Sobczuk (redattore della televisione), Krzysztof Zanussi (se stesso), Andrzej Jurga (se stesso); produzione: Zespol Filmowy TOR; direttore di produzione: Wielislawa Piotrowska; durata: 112’. 1980 | Dworzec | La stazione Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., b/n): Witold Stok; montaggio: Lidia Zonn; suono: Michal Zarnecki; direttore di produzione: Lech Grabinski; produzione: WFD; durata: 13’ 23’’ (366 m.). 1980 | Gadajace glowy | Le teste parlanti Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35mm., b/n): Jacek Petricki, Piotr Kwiatkowski; montaggio: Alina Sieminska; suono: Michal Zarnecki; direttore di produzione: Lech Grabinski; produzione: WFD; durata: 15’ 32’’ (426 m.). 1981 | Przypadek | Il caso o Destino cieco Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Krzysztof Pakulski; musica: Wojciech Kilar; suono: Michal Zarnecki; scenografia: Rafal Walterberger; montaggio: Elzbieta Kurkowska; interpreti: Primo episodio: Boguslaw Linda (Witek), Tadeusz Lomnicki (Werner), Boguslawa Pawelec (Czuszka), Ziìbigniew Zapasiewicz (Adam); Secondo episodio: Boguslaw Linda (Witek), Jacek Borkowski (Marek), Adam Ferency (il sacerdote), Jacek Sas-Uchrynowski (Daniel), Marzena Trybala (Wera); Terzo episodio: Boguslaw Linda (Witek), Irena Burska (la zia), Monika Gozdzik (Olga), Zbigniew Hubner (il preside); produzione: Zespol Filmowy TOR; direttore di produzione: Jacek Szeligowski; durata: 122’. 1981 | Krotki dzien pracy | t.l. Una breve giornata di lavoro Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski e Hanna Krall, dal reportage di Hanna Krall Widok za okna na pierwszym pietrze (La vista dalla finestra del primo piano); fotografia (35 mm., colore): Krzysztof Pakulski; suono: Michal Zarnecki; musica: Jan Kanty Pawluskiewicz; montaggio: Elzbieta Kurkowska; interprete: Waclaw Ulewicz (il primo segretario del comitato voivodale); direttore di produzione: Jacek Szeligowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 79’ 22’’. 1984 | Bez konca |t.l. Senza fine Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Jacek Petricki; musica: Zbigniew Preisner; suono: Michal Zarnecki; scenografia: Allan Starski; montaggio: Krystyna Rutkowska; interpreti: Grazyna Szapolowska (Ursula Zyro), Maria Pakulnis (Joanna), Aleksander Bardini (avvocato Labrador), Jerzy Radziwilowicz (avvocato Antoni Zyro), Artur Barcis (Dariusz), Michal Bajor (assistente di Labrador), Marek Kondrat (Tomek), Tadeusz Bradecki (psicoterapista), Daniel Webb (l’americano), Krzysztof Krzeminski, Marzena Trybala, Adam Ferency, Jerzy Kamas, Jan Tesarz; direttore di produzione: Riszard Chutkowski; produzione: Zespol Filmowy TOR; durata: 107’. 1988 | Siedem dni w tygodniu | t.l. Sette giorni della settimana Regia: Krzysztof Kieslowski; fotografia (35 mm., colore): Jacek Petricki; suono: Michal Zarnecki; musica: Fryderyk Chopin; montaggio: Dorota Warduskiewicz; direttore di produzione: Jacek Petricki; produzione: City Life, Rotterdam; durata: 18’. 1988 | Krotki film o zabijaniu | t.l. Breve film sull’uccidere Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Slawomir Idziak; musica: Zbigniew Preisner; operatore: Jerzy Rudzinski; suono: Malgorzata Jaworska; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Miroslaw Baka (Jacek), Krzysztof Globisz (Piotr), Jan Tesarz (il tassista), Zbigniew Zapasiewicz (capo della commissione), Barbara Dziekan-Vajda (la cassiera), Aleksander Bednarz (il boia), Jerzy Zass (direttore del carcere), Zdzislaw Tobiasz (il giudice), Artur Barcis (il giovane operaio), Krystyna Janda (Dorota), Olgierd Lukaszewicz (Andrzej); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Zespol Filmowy TOR e Televisione Polacca (per la versione televisiva, episodio 5 del Decalogo); durata: 85’.

1988 | Krotki film o milosci | Non desiderare la donna d’altri Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Witold Adamek; musica: Zbigniew Preisner; suono: Nikodem Wolk-Laniewski; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Grazyna Szapolowska (Magda), Olaf Lubaszenko (Tomek), Stefania Iwinska (la padrona), Artur Barcis (il giovane), Stanislaw Gawlik (il portalettere), Piotr Machalica (Roman), Rafal Imbro (l’uomo con la barba), Jan Piechocinski (l’uomo biondo), Malgorzataa Rozniatowska (la direttrice dell’ufficio postale), M. Chojnacka, T. Gradowski, K. Koperski, J. Michalewska, E. Ziolkowska; direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Zespol Filmowy TOR; durata: 87’. 1989 | Dekalog, jeden | Decalogo, 1 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Wieslaw Zdort; musica: Zbigniew Preisner; suono: Malgorzata Jaworska; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Henrik Baranowski (Krzysztof), Wojciech Klata (Pawel), Maja Komorowska (Irena), Artur Barcis (l’uomo con la giacca di montone), Maria Gladkowska (la ragazza), Ewa Kania (Ewa Jezierska), Aleksandra Kisielewska (la donna), Aleksandra Majsiuk (Ola), Magda Sroga-Mikolajczyk (la giornalista), Anna Smal-Romanska (la donna sul lago), Maciej Slawinski (il direttore), Piotr Wyrzykowski (ragazzo sul lago), Bozena Wrobel (l’insegnante); direttore di produzione: Ryszard Chutowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 53’. 1989 | Dekalog, dwa | Decalogo, 2 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Edward Klosinski; musica: Zbigniew Preisner; suono: Malgorzata Jaworska; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Krystyna Janda (Dorota), Aleksander Bardini (il primario), Olgierd Lukaszewicz (Andrzej), Artur Barcis (il giovane), Stanisalw Gawlik (il postino), Krzysztof Kumor (ginecologo), Macej Szary (il guardiano), Krystyna Bigelmajer (la segretaria), Karol Dillenius (malato), Ewa Ekwinska (la signora Basia), Jerzy Fedorowicz (Janek), Piotr Siejka (medico), Aleksander Trabczynski; direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 57’. 1989 | Dekalog, trzy | Decalogo, 3 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Piotr Sobocinski; musica: Zbigniew Preisner; suono: Nikodem Wolk-Laniewski; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Daniel Olbrychski (Janusz), Maria Pakulnis (Ewa), Joanna Szczepkowska (moglie di Janusz), Artur Barcis (conducente del tram), Krystyna Drochocka (la zia), Krzysztof Kumor (medico), Dorota Stalinska (la donna), Zygmunt Fok (l’uomo anziano), Jacek Kalucki (il poliziotto), Barbara Kolodziejska (direttrice), Maria Krawczykk (la suocera di Janusz), Jerzy Zygmunt Nowak (il medico), Piotr Rzymyszkiewicz (ragazzo), Wlodzimierz Rzeczycki (prete), Wlodzimierz Musial (l’uomo); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 56’. 1989 | Dekalog, cztery | Decalogo, 4 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Krzysztof Pakulski; musica: Zbigniew Preisner; suono: Malgorzata Jaworska; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Adrianna Biedrzinska (Anka), Janusz Gajos (Michal), Artur Barcis (il giovane), Adam Hanuszkiewicz (il professore), Jan Tesarz (il tassista), Andrzej Blumenfeld (amico di Michal), Tomasz Kozlowicz (Jarek), Elzbieta Kilarska (madre di Jarek), Helena Norowicz (la dottoressa); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 55’. 1989 | Dekalog, piec | Decalogo, 5 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Slawomir Idziak; musica: Zbigniew Preisner; operatore: Jerzy Rudzinski; suono: Malgorzata Jaworska; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Miroslaw Baka (Jacek), Krzysztof Globisz (Piotr), Jan Tesarz (il tassista), Zbigniew Zapasiewicz (capo della commissione), Barbara Dziekan-Vajda (la cassiera), Aleksander Bednarz (il boia), Jerzy Zass (direttore del carcere), Zdzislaw Tobiasz (il giudice), Artur Barcis (il giovane operaio), Krystyna Janda (Dorota), Olgierd Lukaszewicz (Andrzej); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Zespol Filmowy TOR e Televisione

Polacca; durata: 57’. 1989 | Dekalog, szesc | Decalogo, 6 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Witold Adamek; musica: Zbigniew Preisner; suono: Nikodem Wolk-Laniewski; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Grazyna Szapolowska (Magda), Olaf Lubaszenko (Tomek), Stefania Iwinska (la padrona), Artur Barcis (il giovane), Stanislaw Gawlik (il portalettere), Piotr Machalica (Roman), Rafal Imbro (l’uomo con la barba), Jan Piechocinski (l’uomo biondo), Malgorzataa Rozniatowska (la direttrice dell’ufficio postale), M. Chojnacka, T. Gradowski, K. Koperski, J. Michalewska, E. Ziolkowska; direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Zespol Filmowy TOR, Televisione Polacca; durata: 58’. 1989 | Dekalog, siedem | Decalogo, 7 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Dariusz Kuc; musica: Zbigniew Preisner; suono: Nikodem Wolk-Laniewski; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Anna Polony (Ewa), Maja Barelkowska (Majka), Wladislaw Kowalski (Stefan), Boguslaw Linda (Wojtek), Bozena Dykiel (la bigliettaia), Katarzyna Piwowarczyk (Ania), Stefania Blonska (guardarobiera), Dariusz Jablonski (ragazzo), Jan Mayzel (Grzegorz), Miroslawa Maludzinska (segretaria), Ewa Radziwilowiska (bigliettaia); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 55’. 1989 | Dekalog, osiem | Decalogo, 8 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Andrzej Jarosewicz; musica: Zbigniew Preisner; suono: Wieslawa Dembinska; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Maria Koscialkowska (Zofia), Teresa Marczewska (Elzbieta), Artur Barcis (giovane studente), Ewa Skibinska (la ragazza), Jacek Strzemzalski (guardiano), Hanna Szczerkorwksa (giovane donna), Anna Zagorska (ragazza); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 55’. 1989 | Dekalog, dziewiec | Decalogo, 9 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Piotr Sobocinski; musica: Zbigniew Preisner; suono: Nikodem Wolk-Laniewski; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Ewa Blaszczyk (Hanka), Piotr Machalica (Roman), Artur Barcis (giovane in bicicletta), Jan Jankowski (Mariusz), Jolanka Pieteck-Gorecka (Ola), Katarzyna Piwowarczyk (Ania), Jerzy Trela (Mikolaj), Renata Berger (un’amica), Janusz Cywinski (primario), Joanna Cichon (un’amica), Slawomir Kwaitkowski (il padrone dell’officina), Dariusz Prychoda (Janusz); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 58’. 1989 | Dekalog, dziesiec | Decalogo, 10 Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Jacek Blawut; musica: Zbigniew Preisner; suono: Nioked Wolk-Laniewski; montaggio: Ewa Smal; scenografia: Halina Dobrowolska; interpreti: Jerzy Stuhr (Jerzy), Zbigniew Zamachowski (Artur), Henryk Bista (padrone del negozio), Olaf Lubaszenko (Tomek), Maciej Stuhr (Piotrek), Jerzy Turek (esperto), Anna Gornostaj (infermiera), Henryk Majcherek (presidente), Elzbieta Panas (moglie di Jerzy), Dariusz Kozakiewicz (ragazzo), Grzegorz Warchol (Bromski), Cezary Harisimowicz (il colonnello); direttore di produzione: Ryszard Chutkowski; produzione: Televisione Polacca; durata: 57’. 1991 | La double vie de Véronique; Podwòjne zycie Weronicki | La doppia vita di Veronica Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Slawomir Idziak; musica: Zbigniew Preisner; montaggio: Jacques Witta; scenografia: Patrice Mercier; interpreti: Irene Jacob (Weronika/Véronique), Aleksander Bardini (direttore d’orchestra), Wladislaw Kowalski (padre di Weronika), Halina Gryglaszewska (zia di Weronika), Kalina Jedrusik (donna variopinta), Jerzy Gudejko (Antek), Jan Sterninski (l’avvocato), Philippe Volter (Alexandre), Sandrine Dumas (Catherine), Louis Ducreux (professore), Claude Duneton (padre di Véronique), Lorraine Evanoff (Claude), Guillaume de Tonquedec (Serge), Gilles-Gaston Dreyfuss (Jean-Pierre), Alain Frerot, Youssef Hamid, Thierry De Carbonnières, Chantal Neuwirth, Nausicaa Ramponi, Boguslawa Schubert, Jacques Potin, Nicole Pinaud, Beata Malczewska, Barbara Szalapa, Lucyna Zabawa, Bernadetta Kus, Philippe Campos, Dominika

Szady, Jacek Wojciki, Wanda Kriszewska, Pauline Monier; produttore: Leonardo De La Fuente; produttore esecutivo: Bernard-P. Guireman; produzione: Sidéral Productins/Zespol Filmowy TOR/Le Studio Canal Plus/Norski Film (Francia/Polonia/Norvegia); durata: 98’. 1992-93 | Trois couleurs: bleu | Tre colori: film blu Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Slawomir Idziak; musica: Zbigniew Preisner; suono: Jean-Claude Laureux; mixage: William Flageollet; montaggio: Jacques Witta; scenografia: Claude Lenoir; interpreti: Juliette Binoche (Julie), Benoît Regent (Olivier), Hélène Vincent (la giornalista), Florence Pernel (Sandrine), Charlotte Very (Lucille), Philippe Volter (agente immobiliare), Claude Duneton (Patrice), Emmanuelle Riva (la madre), Florence Vignon (segretaria), Jacek Ostaszewski (il flautista), Yann Tregouet (Antoine), Isabelle Sadoyan, Daniel Martin, Catherine Therouenne, Alain Olivier, Pierre Forget, Philippe Manesse, Idit Cebula, Jacques Disses, Yves Penay, Arno Chevrier, Stanislas Nordey, Michel Lisowski, Philippe Morier-Genoud, Julie Delpy, Zbigniew Zamachowski, Alain Decaux; produttore: Marin Karmitz; produttore esecutivo: Yvon Crenn; produzione: MK2 SA/CED Productions/France 3 Cinéma/CAB Productions/C.E.D. Productions/Canal Plus/Zespol Filmowy TOR; durata: 99’. Premi: Leone d’Oro alla Mostra di Venezia del 1993 (Coppa Volpi a Juliette Binoche; premio per la migliore fotografia a Slawomir Idziak). 1993 | Trois couleurs: blanc | Tre colori: film bianco Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Edward Klosinski; musica: Zbigniew Preisner; suono: Jean-Claude Laureux; mixage: William Flageollet; montaggio: Ursula Lesiak; scenografia: Claude Lenoir, Halina Dobrowolska; interpreti: Zbigniew Zamachowski (Karol), Julie Delpy (Dominique), Janusz Gajos (Mikolaj), Jerzy Stuhr (Jurek), Jerzy Nowak (il vecchio contadino), Aleksandr Bardini (il notaio), Cezary Pazura (l’uomo del cambio), Grzegorz Warchol (un gagà), Cezary Harasimowicz (l’ispettore), Jerzy Trela (Bronek), Michel Lisowski (interprete), Philippe Morier Genoud (giudice), Piotr Machalica (uomo alto), Francis Coffinet (impiegato di banca), Barbara Dziekan (cassiera), Yannick Evely (impiegato metrò), Marzena Trybala (impiegata), Jacques Disses (avvocato Dominique), Teresa Budzisz-Krzyzanowska (signora Jadwiga), Juliette Bicnoche, Florence Pernel; produttore: Marin Karmitz; produttore esecutivo: Yvon Crenn; produzione: MK2 SA/CED Productions/Zespol Filmowy TOR/France 3 Cinéma/CAB Productions/Canal Plus; durata: 91’. Premi: Orso d’Oro al Festival di Berlino 1994. 1994 | Trois couleurs: rouge | Tre colori: film rosso Regia: Krzysztof Kieslowski; sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia (35 mm., colore): Piotr Sobocinski; musica: Zbigniew Preisner; suono: Jean-Claude Laureux; mixage: William Flageollet; montaggio: Jacques Witta; scenografia: Claude Lenoir; costumi: Corinne Jorry; interpreti: Irene Jacob (Valentine), Jean-Louis Trintignant (il giudice), Jean-Pierre Lorit (Auguste), Frédérique Feder (Karin), Samuel Lebihan (il fotografo), Marion Stalens (veterinario), Teco Celio (barista), Bernard Escalon (venditore di dischi), Jean Schlegel (vicino di casa), Elzbieta Jasinska (la donna), Paul Vermeulen (amico di Karin), Jean-Marie Daunas (guardiano del teatro), Roland Carey (narcotrafficante), Juliette Binoche, Benoît Regent, Julie Delpy, Zbigniew Zamachowski; produttore: Marin Karmitz; produttore esecutivo: Yvon Crenn; produzione: MK2 SA/CED Productions/France 3 Cinéma/CAB Productions/Zespol Filomowy TOR/Canal plus/Télévision Suisse Romande; durata: 96’.

Escluderemo i moltissimi contributi in lingua polacca pubblicati negli anni Settanta e Ottanta su Kieslowski, sui quali esiste una documentazione molto dettagliata nel Libro-Catalogo sulla retrospettiva su Krzysztof Kieslowski curato da Roberto Turigliatto e Malgorzata Furdal per il Museo Nazionale del Cinema di Torino nel 1989 dal titolo Kieslowski. Per il resto, il criterio adottato è stato quello di fornire una panoramica essenziale su alcuni dei maggiori apporti critici pubblicati in Europa (si escludono, quando non siano notevoli, singole recensioni e articoli su quotidiani). SCRITTI CINEMATOGRAFICI DI KIESLOWSKI

In polacco: Krzysztof Kieslowski, Dramaturgia rzeczywistosci, Estratto dal saggio di diploma di Kieslowski conseguito presso la Scuola Superiore Statale di Cinema di Lodz nel 1968, Corso di Regia (relatore prof. Jerzy Bossak), pubblicato in Film na swiecie, n. 388/389, 1992 Krzysztof Kieslowski, Spokoj (La tranquillità), in «Dialog», n. 4, 1977. Krzysztof Kieslowski, Amator (Il cineamatore), in «Dialog», n. 4, 1978. Krzysztof Kieslowski, Przypadek (Il caso), in «Dialog», n. 5, 1981.

Krzysztof Kieslowski e Hanna Krall, Widok z okna na pietrze (La finestra dalla vista del primo piano, poi Una breve giornata di lavoro); in «Dialog», n. 7, 1981. In italiano: Krzysztof Kieslowski e Krzysztof Piesiewicz, Decalogo, Einaudi, Torino, 1991. Krzysztof Kieslowski e Krzysztof Piesiewicz, Tre colori: Blu, Bianco, Rosso, Bompiani, Milano, 1994. Krzysztof Kieslowski, Drammaturgia della realtà, in «Pantacinema», n.13/V, Milano, agosto 1994, pp. 285-288. ARTICOLI SU LIBRI NON MONOGRAFICI

Felix Bucher, Krzysztof Kieslowski, in P. Cowie (ed.), International Film Guide, 1981, Tantivy press, London, 1981. Floriana Jannucci, Silvana Silvestri, Intervista a Krzysztof Kieslowski in Cecoslovacchia/Polonia/Ungheria. Immagini di una cinematografia, Roma, De Luca Editore, 1985. Maria Marszalek e Wanda Wertenstein (ed.), Interviste sugli anni ’80: Krzysztof Kieslowski, in Esteuropa ’80, vol.2: Opacità e trasparenze, Venezia, Marsilio Editore, 1987. Maria Marszalek, Di me, di te, di tutti. Colloquio con Krzysztof Kieslowski in: Giacomo Gambetti (ed.), Settimana del cinema polacco, Roma, Ente dello Spettacolo, 1988. Miroslaw Przylipiak, Bez Konca, in Giacomo Gambetti (ed.), Settimana del Cinema polacco, cit. Tadeusz Sobolewski, Przypadek-post-scriptum, in Giacomo Gambetti (ed.), Settimana del Cinema polacco, cit. Marcel Martin, Krzysztof Kieslowski: un cinéma sans anhestésie, in Catalogo del XVI Festival International du Film de La Rochelle, 1988. Malgorzata Furdal, Roberto Turigliatto (ed.), Dalla scuola polacca al nuovo cinema (19561970), Milano, Ubulibri, 1988. Bozena Janicka (ed.), Intervista a Krzysztof Kieslowski, in Nuovo Cinema 2: Autori europei, Quaderno informativo della 25esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 1989. Malgorzata Furdal, Roberto Turigliatto, Il Decalogo tra caso e destino. Storia di un’idea, di una sceneggiatura e di un film, postfazione a Krzysztof Kieslowski e Krzysztof Piesiewicz, Decalogo, cit. INTERVISTE

Ginette Gervais, Entretien avec Krzysztof Kieslowski, in «Jeune Cinéma», n. 123, dicembre 1979-gennaio 1980. Jacques Demeure, Entretien avec Krzysztof Kieslowski, in «Positif», n. 227, febbraio 1980. P. Cohen, Krzysztof Kieslowski Amator, in «Skoop», marzo-aprile 1980. Gustaw Moszcz, No heroics, please, in «Sight & Sound», primavera 1981. «Man kann alle Dinge im Leben Wiederholen». Ein Gespräch mit Krzysztof Kieslowski, in «Filmfaust», n. 33, aprile-maggio 1983. C. Goldenboog e S. Megala, Kieslowski: «Ik ben een verbitterde onde man», in «Skoop», febbraio 1986. Alain Bergala, Propos: Krzysztof Kieslowski, Slawomir Idziak, in «Cahiers du Cinéma», n. 409, giugno 1988. Ange-Dominique Bouzet e Edouard Waintrop, Il est de plus en plus difficile de trouver de raisons d’espérer, in Libération, 26 ottobre 1988. Marie Noëlle Tanchant, Pas de polka pour l’assassin! Les “coups de poing” du nouveau cinéma polonais, in «Le Figaro», 26 ottobre 1988. Hubert Niogret, Entretien avec Krzysztof Kieslowski sur “Tu ne tueras point”, in «Positif», n.

332, ottobre 1988. Max Tessier, Donner un sens à la vie. Propos de Krzysztof Kieslowski, in «La Revue du Cinéma», n. 443, novembre 1988. Paolo D’Agostini, Basta con la politica, racconto solo storie, in «La Repubblica», 17-18 settembre 1989. Alberto Crespi, La mia bibbia senza certezze, in «L’Unità», 19 settembre 1989 (intervista con Kieslowski e Piesiewicz). Alberto Artese, Bruno Fornara, Leonardo Gandini, Intervista a Krzysztof Kieslowski, in «Cineforum», n. 288, ottobre 1989. Michel Ciment e Hubert Niogret, Le Décalogue: entretien avec Krzysztof Kieslowski, in «Positif», n. 346, dicembre 1989. Michel Ciment e Hubert Niogret, De Weronika à Véronique, in «Positif», n. 364, giugno 1991. Henri Libiot, Krzysztof Kieslowski, un fatalista ottimista, in «Première», settembre 1993. Michel Simon e Hubert Niogret, Entretien avec Krzysztof Kieslowski, in «Positif», n. 391, settembre 1993. Vincent Amiel e Michel Simon, Entretien avec Krzysztof Kieslowski, in «Positif», n. 403, settembre 1994. Marina Fabbri, Una Trilogia per sperare. A colloquio con Krzysztof Kieslowski e Krzysztof Piesiewicz, in K. Kieslowski e K. Piesiewicz, Tre colori: Blu, Bianco, Rosso, cit). Daniele Dottorini, Conversazione con Krzysztof Kieslowski, in «Filmcritica», n. 457, settembre 1995. ARTICOLI

A. Marinowicz, Personnel (The staff), in «Variety», 21 aprile 1976. Paulo Antonio Paranagua, Le technocrate e le cinéaste, in «Positif», n. 227, febbraio 1980. Jacques Demeure, Kieslowski, Zanussi et “Le Profane”, in «Positif», n. 225, dicembre 1979. Ginette Gervais, Percée du realisme dans le cinéma polonais, in «Jeune cinéma», n. 123, dicembre 1979-gennaio 1980. Derek Elley, Camera buff, in «Films and filming», febbraio 1982. Hubert Niogret, Bez Konca (Sans fin), in «Positif», n. 293-294, luglio-agosto 1985. Hubert Niogret, Przrypadek (le fait du hasard), in «Positif», n. 317-318, luglio-agosto 1987. Andrés Tournés, Le hasard, in «Jeune Cinéma», n. 182, luglio-agosto 1987. Bruno Fornara, Il tempo dei morti, in «Cineforum», n. 266, agosto 1987. Ginette Delmas, Où est le cinéma polonais?, in «Jeune Cinéma», n. 184, novembre-dicembre 1987. Joël Magny, Rat créve dans le ruisseau, in «Cahiers du Cinéma», n. 409, giugno 1988. Michel Ciment, Krotki film o zabijaniu, in «Positif», n. 329-330, luglio-agosto 1988. Jean-Luc Douin, L’amateur, in «Télérama», ottobre 1988. Vincent Amiel, Images du monde et de l’enfer, in «Positif», n. 332, ottobre 1988. Thierry Jousse, Krzysztof Kieslowski. Eloge d’un vivisecteur, in «Cahiers du Cinéma», n. 413, novembre 1988. Max Tessier, Krzysztof Kieslowski, un cinéma au delà du pessimisme, in «La Revue du Cinéma», n. 443, novembre 1988. Frédéric Strauss, Le nom du crime, in «Cahiers du Cinéma», n. 413, novembre 1988. Frédéric Strauss, Le meurtre au travail, in «Cahiers du Cinéma», n. 413, novembre 1988. Raphaël Bassan, Tu ne tueras point: «No future» à l’Est, in «La Revue du Cinéma», n. 443, novembre 1988. Jerzy Plazewski, Kieslowski o i sentieri dell’interiorizzazione, in «Cinecritica», n. 13, aprilegiugno 1989.

Peter Cargin, Love and Death: Krzysztof Kieslowski, in «Film» (GB), vol. 3, n. 25, maggiogiugno 1989. Eric Derobert, Le fantôme de Solidarnosc, in «Positif», n. 334, dicembre 1988. Jean Gili, Un pays si sombre et si triste (Sur “L’Amateur”), in «Positif», n. 334, dicembre 1988. Alain Masson, Nécessité et variations (Sur “Le Hasard”), in «Positif», n. 334, dicembre 1988. Paul Coates, Anathomy of a Murder, in «Sight & Sound», inverno 1988-89. Bruno Fornara, Film Blu. Libertà, in «Cineforum», n. 327, ottobre 1993. Claudio Trionfera, Film Blu, in «Rivista del cinematografo», n. 11, novembre 1993. Vincent Ostia, Film Bleu, in «Cahiers du Cinéma», n. 471, Paris, 1993. Thierry Jousse, Blanc, in «Cahiers du Cinéma», n. 476, Paris, 1994. Angelo Signorelli, Tre Colori. Film Bianco, in «Cineforum», n. 322, marzo 1994. Alessandro Cappabianca, Visioni, in «Filmcritica», n. 443, marzo 1994 Antonio Medici, Film Bianco, Film Rosso, in «Cinema Nuovo», n. 349, maggio-giugno 1994. Angelo Signorelli, Tre colori: Film Rosso, in «Cineforum», n. 335, giugno 1994. Bruno Fornara, Il Dio dei naufraghi, in «Cineforum», n. 335, giugno 1994. Edoardo Bruno, Il gran teatro dell’allegoria, in «Filmcritica», n. 446-447, giugno-luglio 1994. Alain Masson, Trois Couleurs: Rouge. La naïvete du manipulateur, in «Positif», n. 403, settembre 1994. Paolo Marrocco, Elettrocinema: da Wess Carven a Krzysztof Kieslowski, in «Filmcritica», n. 449, ottobre 1994. NUMERI MONOGRAFICI DI RIVISTE

«Cineforum», n. 293, Bergamo, dicembre 1990 «Garage», n. 3, Krzysztof Kieslowski, Scriptorium edizioni, Torino, febbraio 1995. «Télérama hors-série», La passion Kieslowski, France Inter, Paris, settembre 1993. «Filmcritica», n. 437-438, settembre-ottobre 1993. «Etudes cinématographiques», n. 203-210, Paris, 1994. MONOGRAFIE

Roberto Turigliatto e Malgorzata Furdal (ed.), Kieslowski, Torino, Museo Nazionale del Cinema, 1989. Emanuela Imparato, Il Decalogo di Krzysztof Kieslowski, Roma, Edizioni AIACE, 1990. Gina Lagorio (ed.), Il Decalogo di Kieslowski-Ricreazione narrativa, Alessandria, Edizioni Piemme, 1991. Mario Sesti (ed.), Krzysztof Kieslowski, Roma, Dino Audino Editore, 1993. Danusia Stok (ed.), Kieslowski on Kieslowski, London, Faber and Faber, 1993, tr. it. Kieslowski racconta Kieslowski, Editrice Il Castoro, Milano, 1998. Lucio D’Auria, Fabio Francione (ed.), Tre colori, Comune di Lodi, 1994. Vincent Amiel, Kieslowski, Paris, Rivages / Cinéma, 1995. C. Simonigh, Krzysztof Kieslowski. Tre colori - film blu, Lindau, Torino.

Ringraziamenti

Tra tutti coloro che mi hanno aiutato a realizzare questo saggio, è stato fondamentale l’apporto di Ettore Rocca, “specchio” della mia scrittura. Ringrazio poi, per i preziosi consigli ricevuti, Roberto Turigliatto e Giovanni Spagnoletti, Marzenna Smolenska Mussi per la simpatia con cui mi ha assistito prima, durante e dopo l’intervista, e a vario titolo l’Istituto Polacco di Cultura, Anka Dziwetzki, Bruno di Marino, Hossein Taheri, Fabio Nuzzo e Alessandra Virgilii a Roma; Rosalba Proietti e il carissimo amico Leonardo Clausi a Perugia, e Marco Cicala a Parigi. Infine, ringrazio Eleonora De Angelis (con cui ho discusso alcune delle idee portanti del libro), e naturalmente Krzysztof Kieslowski, a cui va la mia gratitudine per la sua non formale disponibilità e per l’attenzione e la pazienza prestate alla mia intervista. Le immagini di questo libro sono state rese possibili grazie alla gentile collaborazione di Marina Fabbri ed Ermanno De Biagi.