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Italian Pages 175 [167] Year 2013
JAMES HILLMAN Il cammino del “fare anima”
e dell’ecologia profonda SELENE CALLONI WILLIAMS Prefazione di Paolo Crimaldi
Copyright JAMES HILLMAN Il cammino del “fare anima” e dell’ecologia profonda di SELENE CALLONI WILLIAMS Prefazione di Paolo Crimaldi
ISBN 978-88-272-2369-7 Prima edizione digitale 2013 © Copyright 2013 by Edizioni Mediterranee Via Flaminia, 109 - 00196 Roma www.edizionimediterranee.net Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma
Prefazione L’entusiasmo e la leggerezza – da non leggersi assolutamente come superficialità – da cui si viene avvolti nella lettura dei libri di Selene Calloni è dote rara, soprattutto per coloro che parlano delle umane passioni. Questo libro ha una sua Anima, forse l’Autrice, allieva del gran riformatore della psicologia contemporanea, James Hillman, direbbe è un fare anima, ossia un portare il lettore a porsi domande, a contattare il proprio daimon creativo, ma soprattutto, proprio perché è un passaggio continuo dal teorico al personale, è un libro che permette di scegliere un percorso esistenziale, o almeno d’individuarlo e comunque di chiedersi il perché, l’importanza di taluni accadimenti che marcano il proprio destino. Probabilmente la mia chiave di lettura non è necessariamente quella che l’Autrice pensava di trasmettere, o forse è solo una delle tante possibili, come del resto accade nella lettura di un qualsiasi saggio che ha una vera Anima, ovvero che nasce dall’esigenza profonda di chi lo scrive di voler comunicare il proprio mondo, fatto d’intuizioni, idee, esperienze e anche sogni, proprio quei sogni che sono poi alla base dell’elaborazione di altre teorie e portano avanti la ricerca nelle sue sfaccettature più diverse. Del resto, e in questo credo di essere in perfetta sintonia con Selene, non esiste la scienza, ma le scienze, ovvero la molteplicità dell’approccio a un problema, a una conoscenza, uscendo così da logiche accademiche che molto spesso allontanano da un sapere vero e autentico, vicino alla persona e alle sue problematiche. Personalmente ancora mi chiedo l’utilità del pensiero kantiano in relazione alle umane sofferenze. Indubbiamente ha razionalmente reso possibile un certo tipo di ricerca, mettendo in risalto i limiti della conoscenza che si arresta dinanzi all’impossibilità d’individuare la cosa in sé, il fulcro dell’oggetto fonte di osservazione e studio, ma fatico ancora a capire come tutto ciò aiuti a far stare bene, o comunque a vivere in maggiore armonia con il tutto, ammesso naturalmente che il fine della filosofia sia quello di trovare gli strumenti che permettono all’uomo di vivere in armonia con il mondo che lo circonda. Mentre se penso all’ampiezza del pensiero dei tanti disconosciuti e poco studiati filosofi rinascimentali, o alla grandezza, ancora del tutto inesplorata, del pensiero di Bento Spinoza, capisco come spesso un certo tipo di conoscenze, soprattutto se legate a idee scomode ed eretiche in termini di consapevolezza, ma soprattutto sovversive circa un ordine precostituito, e
tutto sommato rassicurante, possono creare fastidio e mettere in pericolo quell’eterno ritorno degli eguali di nietzschiana memoria, che però impedisce al singolo individuo di individuarsi, di trovare liberamente la propria strada e giungere a una profonda consapevolezza di se stesso. Ecco, in termini psicologici il libro di Selene, e credo più in generale il suo pensiero, ha questo merito, ossia la capacità di rendere libero il pensiero, di mirarsi in più specchi, di vedere da più angolazioni lo stesso problema e di trovare poi la propria strada, il proprio reale modo di essere e di esistere. Sono certo che la lettura di questo libro aiuterà il lettore a comprendere attraverso l’Immaginale che è possibile trovare sempre una strada, scoprendo opportunità e risorse anche dinanzi a eventi della propria vita apparentemente difficili, se non addirittura tragici, che possono diventare vere e proprie miniere d’oro, specie se si ha la volontà di pensare che dietro l’angolo c’è sempre qualcosa di importante da scoprire. Credo sia proprio questo il messaggio più profondo, esoterico, che questo nuovo libro di Selene vuole far passare, un vero e proprio invito a scoprire il potere vivificante dell’Immaginale. PAOLO CRIMALDI
Premessa Questo non vuole essere un libro di teorie. Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in pratica, scriveva James Hillman. Questo libro vuole essere l’esposizione di un’esperienza del “fare anima” e dell’ecologia profonda, e si prefigge di stimolare le esperienze del lettore in tal senso. Veramente più che “libro” dovei definire questo scritto “diario”, esso infatti procede per libera associazione di immagini e, nel tentativo di raggiungere il proprio intento – che è “fare anima” – questo diario vuole dedicarsi alla descrizione di due immagini, due cammini, due mondi che sono distinti ma non separati tra loro. La prima immagine, pubblica, è quella di James Hillman. La seconda è nascosta da migliaia di anni, riprodotta in statue e dipinti gelosamente custoditi nel sancta sanctorum di alcuni templi e nelle teche di certi musei nei paesi delle regioni himalayane e anche in Mongolia e assai più semplicemente raffigurata alle porte dei villaggi delle tribù tibeto-birmane degli Akha che abitano le foreste della Birmania, del Laos, della Tailandia, ma decisamente presente nell’immaginale di ogni essere umano, come chiave di un segreto eterno e universale. Il metodo con il quale procederò sarà quello degli appunti, cioè un nonmetodo. E, infatti, ciò che segue è la trascrizione, un po’ rivista in modo da renderla più leggibile e comprensibile, di appunti che ho scritto per lo più seduta sulle rive del canale che attraversa la città di Edimburgo o immediatamente dopo aver corso di primo mattino, sempre lungo il canale, dal quartiere di Polwarth verso le carceri, seguendo un percorso che conduce dalle case alla brughiera, e mi porta dal mondo civile al mondo outsider. Ho iniziato a scrivere con l’intenzione di rivolgermi a una donna del futuro, forse la figlia di mia figlia o la figlia della figlia di mia figlia... Un diario, dopotutto, è una confessione che non può rivolgersi a chiunque, ha bisogno di un primo destinatario privilegiato. Ho sempre avuto presente, fin dall’infanzia, l’immagine di una donna che vivrà in un mondo di un tempo futuro ed è a lei che mi sono rivolta nell’annotare i miei appunti al ritorno dalle mie corse lungo il canale di Edimburgo. Quand’ero bambina, e anche da ragazza, ero considerata “strana”, non tanto e non solo perché avevo un alter ego, ma soprattutto perché sostenevo che il personaggio immaginario con il quale giocavo e
conversavo era una “bambina del futuro”. Quella bambina è cresciuta con me e durante la stesura di questo diario mi sono accorta che lei è tutto ciò che di me deve ancora essere, è il tempo che percepisco davanti a me, è il cammino. Considero questo diario un esercizio di ecologia profonda poiché esso, come detto, non vuole presentare teorie ma sensazioni, immagini, miti e racconti che, in un modo o nell’altro, sono stati ispirati dal contatto con la natura. Ma l’ultimo racconto, quello che raccoglie e riassume tutte le esperienze precedenti, lo lascio direttamente al maestro. Il volume, infatti, si chiude con un meraviglioso scritto di James Hillman dal titolo “La buona terra: immaginale o letterale?”. Si tratta della traduzione dall’inglese di una conferenza che Hillman tenne a Campione d’Italia nel 2003, nell’ambito di un convegno internazionale dal titolo Corpo Spirituale e Terra Celeste. Gli atti del convegno furono pubblicati dall’Associazione Holos International di cui ero presidente e fatti circolare unicamente nei canali dell’Associazione stessa. È dunque la prima volta che questo scritto di James Hillman viene divulgato al grande pubblico. Personalmente lo ritengo un testo di grande importanza per l’emergenza ecologica che oggigiorno siamo chiamati a fronteggiare. Esso, infatti, ci spiega che Ecologia è molto più che semplice attenzione alla distruzione della vita sulla terra e all’urgenza di azioni in merito1.
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James Hillman, “La buona terra: immaginale o letterale?”, in Quaderni di Mantra 1, 2003, Edizioni Holos International, Melide, Svizzera.
1. Fare anima Perdita e scoperta Cara Eva, oggi sono arrivata sul canale prima del solito. Le luci della cattedrale di Palworth sono ancora accese e persino le lampade interrate lungo il sentiero che costeggia il canale effondono ancora la loro luce blu e rossa nel primissimo chiarore del mattino. Non c’è nessuno. Solo una pazza potrebbe venire a correre a quest’ora nel gelo. Sì, perché è tutto ghiacciato intorno a me: l’erba, la terra e l’acqua del canale. Ma io mi sento a mio agio, dopotutto al liceo mi chiamavano “la strana”, quindi ci sto bene nei panni di chi fa cose estreme. Corro sempre nella direzione che porta fuori dalla città, perciò i primi chilometri sono i più duri. Lo sforzo fisico diventa più piacevole mano a mano che le case lasciano posto agli alberi. All’inizio tengo un’andatura lenta, per scaldarmi. Ma oggi è proprio difficile. L’aria è così fredda che mi dà una sensazione di bruciore all’interno del naso e i piedi a volte scivolano sul giaccio. Insisto. Uno dei ricordi più lucidi che ho della mia infanzia è lo sguardo di mia madre piantato a pochi centimetri dal mio viso che mi inonda di un sentimento indescrivibile, mentre la sua voce mi dice: “Tu non ti arrendi mai!”. Questa mattina, nel freddo pungente, applico ciò che ho imparato sulla meditazione negli anni trascorsi nell’eremo theravada della foresta dello Sri Lanka, dove ho vissuto in compagnia del maestro, il venerabile Gatha Thera, e del monaco Gotatuwe Sumanaloka Thero. “Se non c’è problema non c’è meditazione”, mi diceva Ghata Thera. La difficoltà è il carburante stesso del processo meditativo, bisogna entrarci. Così rendo più intenso e veloce il respiro consegnando il mio naso, la mia gola e i miei polmoni al mio demone, le mie paure, accettando il freddo. Intensifico un po’ la corsa, apro la bocca e “bevo” l’aria che è tanto fredda da essere bruciante, poi la soffio fuori contraendo l’addome con tutta la forza che mi è possibile, una volta, due... a poco a poco divento il mio demone, il gelo, e poi sono il fuoco. Chiudo la bocca e sorrido, sono arrivata alla soglia oltre la quale non faccio più fatica, non ho più pensieri che agitano la mente. Non solo non ho più freddo ma, come si dice in gergo sportivo, ho “rotto il fiato”. Adesso correre nel gelo è piacevole. Corro nel primo chiarore del mattino, il mio respiro lascia una scia densa
nel freddo, mi sento leggera e solida. Una coppia di cigni è immobile nel ghiaccio, mi fermo a osservarli. Il calore dei loro corpi impedisce all’acqua di gelare, ma solo per un raggio di pochi centimetri, dopo di che la superficie del canale è tutta solida. Il loro collo è eretto, non stanno dormendo, eppure sono perfettamente immobili, come statue di vetro nel ghiaccio. Riprendo la mia corsa per non raffreddarmi, non dovrei fermarmi, specialmente quando fa così freddo. Tra breve passerò sul ponte che corre di fianco alla ferrovia e poi sarò fuori dalla città. La vegetazione diventa più incolta, cespugli e rovi intrecciano i loro rami spogli e imbiancati dalla brina. La statua dei due taglialegna è al suo posto sulla mia destra al limitare della brughiera, come ogni mattina. Amo i due grandi boscaioli di legno per metà ricoperti da un bianco fungo parassita, ogni mattina mi attendono, intenti nel loro gesto eterno di brandire la scure. Ma, proprio mentre guardo negli occhi uno dei due, mi prende una fitta al polpaccio, la gamba s’irrigidisce, diviene dura come marmo. Zoppicando mi trascino verso un masso grigio e mi ci siedo. La gamba è tesa davanti a me, dolorante. Cosa vuole dire questa “cosa” che non mi è mai accaduta prima? Ora, io non credo al corpo come oggetto o macchina, per me il corpo è simbolo, è l’immagine dell’anima. Afferro il mio polpaccio dolorante con entrambe le mani protendendomi in avanti verso l’acqua ghiacciata del canale e, prima che io possa interrogare la mia anima, lei mi ha già risposto. Vedo il riflesso di un vecchio nel ghiaccio. Riconosco nel volto del vecchio dei tratti famigliari, molto amati. Mi giro di scatto per vedere la fonte del riflesso ma non vedo che i due taglialegna. Mi sollevo, la gamba ancora rigida, zoppicando mi avvicino ai rovi, forse c’era qualcuno che se n’è andato, ma non è possibile, così in fretta, guardo nei campi oltre i rovi: non c’è anima viva. D’un tratto comprendo il mio errore. Mi siedo di nuovo sul masso grigio scrutando il ghiaccio, ma l’immagine non appare più. Che stupida sono stata! La sorgente di quell’immagine è nella dimensione dell’assenza, appartiene al regno dell’invisibile e io, voltandomi con la pretesa di coglierla con i miei occhi umani, ne ho fatto svanire il solo aspetto che i miei sensi possono percepire: il riflesso. Che grande inganno questa pretesa di vedere, toccare, provare. Sono figlia del mondo dell’evidenza. Ho promesso di lasciare la casa paterna e di avventurarmi nell’ignoto, ma ogni volta la
programmazione inconscia che ho ricevuto nella mia infanzia, se non la domino, mi sopraffà. Il dolore al polpaccio è cessato, mi alzo sconsolata, la prossima volta, se ci sarà una prossima volta, non lascerò che i condizionamenti automatici prendano il sopravvento così facilmente. Non riesco più a correre, sono pensierosa, cammino continuando a tenere lo sguardo fisso sul ghiaccio che ricopre il canale. Lui, quel vecchio di cui ho visto il riflesso, ha dedicato la sua vita a contemplare la dimensione dell’occulto, il mondo infero, il regno dell’anima. Era uno psicopompo, un conoscitore del post mortem e un traghettatore di anime. Era un poeta dell’anima, innamorato della vacuità che contraddistingue il mondo oltre la Grande Soglia. Per il poeta la vacuità non è il vuoto del nulla, ma la dimensione della nostalgia e dei ricordi dove nascono le emozioni. La vacuità non è il niente per quel vecchio che ho visto, ma è il mondo degli dei e dei demoni che lui ha cantato in vita, ecco perché il suo riflesso nel ghiaccio non è una mia follia o una mia allucinazione: lui c’era. Meglio dovrei dire: lui c’è. Lui è presente nel ghiaccio del canale che riflette i miei ricordi ed è invisibile alla percezione ordinaria. Per stare in sua compagnia devo vincere la mente che mi riporta all’ordinarietà delle cose, devo superare l’inerzia della pesante coscienza del mondo secolare e uscire dall’inganno del tempo. Mi sto raffreddando e capisco che non potrò stare seduta a lungo in riva al canale con vestiti così leggeri senza correre. Il primo impulso è quello di tornare a casa, ma per fortuna gli dei hanno deciso di avere la meglio sul buon senso, oggi. Grazie anche al fatto che il crampo al polpaccio è passato, riprendo a correre cercando disperatamente quello spazio magico che è tra la morte e la vita, quel gelido fiume Lete dove ho visto il riflesso del vecchio. Chiedo aiuto a Mercurio che ogni sera mi trasporta nel sonno: conducimi al di là, nella notte, nella mancanza, nel silenzio! Come ho imparato nell’eremo della foresta dai monaci theravada, inizio a immaginare il mio corpo come uno scheletro in movimento: contemplo le mie ossa e visualizzo i simboli della morte. I monaci theravada che vivono negli eremitaggi della foresta hanno una tradizione della morte molto ricca. A volte praticano la meditazione sul cadavere. Quando una famiglia di devoti regala loro il cadavere di un
defunto, essi lo adagiano sulla terra nel folto della foresta e vi si siedono intorno. Per molti e molti giorni meditano contemplando il cadavere e da ciò traggono potenti insegnamenti sulla morte e sulla vita. Osservando il cadavere in decomposizione, mi aveva detto Ghata Thera, si vedono comparire dei simboli. La nascita, secondo gli insegnamenti del Buddhismo esoterico, è data dall’aggregarsi degli elementi primari e la morte è data dal disgregarsi di terra, acqua, fuoco e aria, che tornano ciascuno alla propria origine. Dal perturbarsi di ciascun elemento si formano dei simboli evidenti nel cadavere in decomposizione. La conoscenza, la visualizzazione e la meditazione su questi simboli consente al monaco di entrare nella morte in vita, di scendere nel mondo infero per poi fare ritorno al mondo secolare. Cara Eva, non ti descrivo questi simboli ora. Ma se avrai la pazienza di leggere questo diario fino alla fine, li troverai e mi piace pensare che tu possa considerarli come mia eredità. Sempre correndo, visualizzo i simboli uno dopo l’altro indirizzando agli elementi, terra, acqua, fuoco, aria, le preghiere come mi sono state insegnate, e lentamente compare dentro di me il “vento del transito”. Questo vento accompagna sempre il morente nella primissima fase del suo passaggio dalla morte alla successiva rinascita. Il vento del transito compare ancor prima che il cuore si fermi e prima dell’apparizione della Luce Chiara. La semplice visualizzazione dei simboli della morte trasmessi dai monaci theravada eremiti è in grado di scatenare questo vento che colui che medita sui simboli percepisce sia internamente che esternamente a sé. Quando sento il vento soffiare abbastanza forte mi fermo e di nuovo mi siedo sulla sponda del canale ghiacciato. Fisso lo sguardo sulla lastra di ghiaccio immobile e, senza più opporre alcuna resistenza, mi affido al mio vento interno. L’ombra e la luce, la notte e il giorno, la mancanza e la presenza: la mia coscienza è agitata in modo sempre più forte, mi rivolgo ancora a Mercurio, ma potrebbe essere il mio daimon o il maestro archetipico... il vento mescola e confonde: ti prego non permettere che io cada di nuovo nella fossa della paura, aiutami a restare immobile ora. Il vento cessa all’improvviso e io neppure me ne accorgo, se non quando vedo di nuovo nel ghiaccio l’immagine del vecchio. Sono di nuovo al di là della Grande Soglia. Sorrido al riflesso del vecchio. Poi il sudore e il freddo mi fanno pizzicare la fronte, alzo una mano verso il viso e il vento ricomincia: il fastidio e il sollievo, il disturbo e il rimedio, la causa e l’effetto,
il bene e il male, la morte e la vita. Tutto torna a separarsi nuovamente e perdo l’immagine del vecchio. Per oggi basta, mi dico, torno a casa correndo. Se sono stata capace di richiamare il riflesso del vecchio una volta, potrò farlo ancora. Ho molta energia nel corpo, corro veloce. Il mio compleanno
Cara Eva, anche stamattina sono andata sul canale a correre, molto presto, come sempre. Quando arriva il freddo in questa città del nord fa sul serio. Il canale è tutto ghiacciato e le papere trovano rifugio sotto i ponti. Stamattina corro con le cuffie e la musica. Da dietro la nuvola formata dal mio fiato vedo due uomini chini sul canale, mi avvicino e scopro che stanno prelevando dell’acqua con dei contenitori di plastica. Hanno un martelletto, spaccano il ghiaccio e prelevano dell’acqua: che cosa strana! Uno di loro mi sorride, anch’io sorrido ma non mi fermo. In questa città del nord la gente è molto discreta, a volte troppo. Mi adeguo al clima generale e vinco la mia curiosità che mi avrebbe fatto chiedere qualcosa ai due. Ma è anche il freddo che mi spinge a proseguire. Passa un ciclista col volto coperto da un passamontagna, a momenti non mi vede e mi travolge, forse non si aspettava un’altra presenza lungo il canale a quest’ora, e nemmeno io. Accelero la velocità della corsa e incomincio a scaldarmi dentro. Mi piace la sensazione del calore interno quando fuori è molto freddo. Percepisco insieme la superficie fredda del mio corpo e il fuoco dentro che sta per divampare; mi sento come uno di quei muffin al cioccolato con il cuore caldo, morbido e cremoso. Tra un po’ leverò la giacca, e poi il cappello e i guanti... Devo prima arrivare a quella che per me è la soglia che divide la città dalla campagna: la statua dei due boscaioli di legno che se ne sta nascosta tra i cespugli. Per quanto giganteschi siano i due, se non te li aspetti, rischi di non vederli, tanto si mimetizzano tra i tronchi e i rami degli alberi. Nel frattempo i primi raggi del sole attraversano le nuvole e colpiscono la brina sui rami degli alberi e il ghiaccio sulla terra creando un’evaporazione tanto strana, come scintillio di lucciole nella nebbia. All’improvviso mi sembra di udire un tonfo lontano, forse i due taglialegna sono usciti dalla loro immobilità e hanno finalmente sferrato il
colpo con la scure che l’artista ha scolpito nelle loro mani, mi dico. Tolgo le cuffie dalle orecchie continuando a correre. Dopo pochi minuti un altro colpo ma, senza musica, questa volta capisco che viene dal canale e non dalla boscaglia: i raggi del sole raggiungono il ghiaccio che ricopre l’acqua e lo fanno spezzare. Ho imparato che nulla accade per caso, ho appreso a sentire nei rumori della natura la voce degli dei e ad avere rispetto dell’invisibile. Dal canale che sta sotto il canale, dal mondo sotto il mondo, mi stanno chiamando. Ecco, sono pronta! Chi sono io? Potrei essere semplicemente una persona innamorata. L’innamoramento è percezione della mancanza, sensazione struggente della lontananza e dell’inafferrabilità dell’oggetto amato, l’innamoramento è fuoco che arde nella mancanza, la quale non è assenza ma invisibilità. Quando possiedi ciò che brami l’innamoramento cessa. Amare l’immanifesto è il segreto che mi è stato rivelato dai monaci theravada della giungla, la chiave segreta dell’arte del piacere che non dipende da alcun oggetto esterno, la spada magica che vince l’ego e l’anello del potere che apre le porte dei mondi invisibili. I tonfi proseguono a cadenza quasi regolare, devo raggiungere la soglia tra la città e il bosco il più in fretta possibile: ancora circa mezzo chilometro. Sono allenata, corro veloce. Impatto, quasi mi scontro con un poliziotto in divisa alto due metri, armato. È giovane, molto gentilmente mi dice che non posso proseguire, mi chiede dove sono diretta. Poiché non rispondo mi offre una serie di possibilità: “Per Holyrood devi lasciare il canale, prendere queste scale”, indica alla mia destra i gradini che portano al livello della strada carrozzabile, “e proseguire nella direzione verso la quale stai andando ora, per Murrayfield devi prendere le stesse scale e poi andare sempre diritto...”. “Perché non posso proseguire lungo il canale?”, chiedo. “L’area è sotto sorveglianza”, mi dice, il che sarebbe bastato, forse, a uno scozzese, ma non certo a me che, da buona italiana, non simpatizzo per le regole. “Cosa intende dire?”, gli chiedo. E così vengo a sapere che oltre la boscaglia, dove io ho le mie felici esperienze di corsa e di immersione nella natura, c’è un carcere. Torno indietro. Non appena sono fuori dalla portata dello sguardo del poliziotto mi siedo sulla riva del canale e osservo il ghiaccio che continua a rompersi e a chiamare. I primi ciclisti del mattino mi sfrecciano alle spalle. Oggi non succederà nulla se non raggiungo la boscaglia perché ciò che deve
accadere non può accadere qui, dove c’è gente che va e che viene, ma deve accadere in un posto immerso nella natura e solitario. Mi piacerebbe che accadesse oggi perché è il giorno del mio compleanno e vorrei un regalo dagli dei. Mi viene alla mente che l’attraversamento della Grande Soglia comporta sempre l’incontro con i Guardiani della Soglia, Scilla e Cariddi, il bene e il male e tutti gli opposti. Sono ormai convinta che il tratto di canale che fiancheggia la brughiera e conduce fuori città sia il luogo ideale per fare accadere l’incontro con lo spirito del vecchio, per me quel posto rappresenta la “terra di mezzo”, definita dagli yogin tantrici la “medesimezza”, è la mitica Shambhala. La medesimezza è l’acquietarsi del vento degli opposti, il non avere paura, il non voltarsi indietro, la forza di restare, di guardare, di vedere, di accogliere l’esperienza che deve accadere. Sì, il tratto di canale che fiancheggia la boscaglia e che sta fra la città e la prigione, fra la civiltà e gli outsider, rappresenta per me la medesimezza. Decido di eludere il divieto passando per la brughiera. Torno dal poliziotto e, sorridendogli, prendo le scale che portano al livello della strada carrozzabile poi, poco più in là, dove mi sembra che i cespugli siano più radi, attraverso la boscaglia per scendere di nuovo al canale. Forse, mi dico, stanno cercando un fuggitivo e magari, vedendo muoversi i rami, sparano. La mia mente sa bene che sarebbe più saggio non fare quello che sto facendo. Come lo spiegherò ai poliziotti, se mi fermeranno? Come mi giustificherò? Quante domande fa la mente alle quali essa non ha risposta! Ma devo ritrovare il riflesso del volto del vecchio. La prima volta mi sono fatta vincere dallo spavento, la seconda dalla distrazione, adesso la discriminazione tra bene e male... No, questa volta chiudo l’ingresso, senza opporre resistenza chiudo l’ingresso e non permetto al dubbio di entrare, rimango vigile, attenta, non mi distraggo, non mi spavento e non mi giudico. Pensare a te, creatura del futuro, mi dà forza fin da quando ero piccola. Tu sei come il sigillo della missione della mia anima che conferisce a ogni esperienza un carattere nobile e vittorioso. Devo spostare ancora un paio di rami, abbassare la testa per infilarmi sotto un grande ramo basso e finalmente sono sul canale. C’è ancora più silenzio del solito. Le persone che a quest’ora passano di qui generalmente sono pochissime, ma oggi non ci saranno neppure queste, non ci sarà nessuno, perché il poliziotto vieta a tutti il passaggio. A meno che non accada
il finimondo, un sparatoria, una caccia all’uomo o chissà cos’altro, le condizioni sono propizie: non succede nulla, ma potrebbe accadere di tutto, perché sono tra la città e il carcere, tra il mondo secolare e il mondo dei reietti, tra il bene e il male, sono a Shambhala. Mi siedo su un gradino di sasso e fisso il ghiaccio. “Se non c’è problema non c’è meditazione”, mi diceva Ghata Thera, e oggi mi pare che il problema intorno a me sia grosso, devo riuscire a trasvalutare la paura di dover affrontare un accadimento improvviso, magari violento. In questa situazione ho molte possibilità e sono grata al canale come non lo sono mai stata. In questo momento non può non riaccadere: e infatti l’immagine del vecchio ricompare, mi sembra più vicina del solito, molto vicina. Vinco l’impulso di girarmi. Non devo dubitare e vincere i riflessi condizionati dall’abitudine, che mi farebbero voltare per vedere se il volto riflesso nel ghiaccio corrisponde a qualcuno che sta realmente alle mie spalle. Ma cosa è reale? Questa volta devo assolutamente credere e fidarmi dell’invisibilità, allora sarà la mia anima e non il mio Io a stabilire cosa è reale. Mi pare che il volto mi sorrida e nel suo sorriso ci leggo un messaggio: hai visto che ce l’abbiamo fatta? Qualche tempo prima che si ammalasse mi aveva scritto una dedica su La vana fuga dagli dei, un suo libro di grande successo: Quod non potest, non esse. Ecco cosa ci legava: la mancanza, la lontananza, l’invisibile! Ogni tanto qualche tonfo di cui non mi è impossibile rintracciare il punto d’origine preciso mi segnala che il campo di memoria su cui le immagini si formano – nel mio caso il ghiaccio che ricopre il canale – è impermanente: le immagini accadono e si trasformano continuamente in altre immagini. Così il riflesso di James Hillman in breve muta in altre immagini che da esso prendono forza, eppure davanti ai miei occhi rimane unicamente il volto di lui come origine di tutti i ricordi che incominciano liberamente a fluire. Il riflesso di James Hillman e l’immaginale
Di fronte al riflesso del volto del vecchio mi vengono pensieri sul valore delle immagini, pensieri sull’immaginale e sul luogo dove mi trovo. Ho, infatti, la netta sensazione che dentro e fuori di me siano due dimensioni distinte ma non separate, proprio come i bei ricordi che possiedo del padre della psicologia archetipica e il volto che vedo nel ghiaccio: come gli uni fossero l’immagine speculare dell’altro.
Ognuno di noi esiste non come oggetto materiale ma come immagine. Siamo immagini complesse date dalla vocazione della nostra anima che ha preceduto la nostra nascita e da tutti i sogni, le missioni e le voci dei nostri avi. Siamo immagini, non immaginazioni, ma immagini potenti che sono echi di immagini originarie o primordiali che appartengono al tempo delle origini e si sono prodotte in un luogo leggendario: l’Olimpo, il monte Meru, il monte Popa, la dimora degli dei. Potremmo dire che le nostre vite sono il ricordo, l’eco di quelle immagini primordiali. Tali immagini dell’origine possono essere definite eidola, ovvero, idoli. Noi possiamo solo fare nel tempo ciò che gli Dei fanno nell’eternità1. L’immaginale è la dimora degli dei. L’immaginale è una dimensione che non ha collocazione né di tempo né di spazio, se prendi la rosa dei venti come punto di riferimento puoi dire che l’immaginale è il punto al centro delle quattro direzioni dello spazio. L’immaginale è la soglia liminale che sta tra conscio e inconscio, tra morte e vita, tra sogno e veglia, tra un respiro e l’altro, tra un pensiero e il pensiero successivo e tra tutti gli opposti. L’immaginale è la Pura Terra della medesimezza, è Shambhala ed è il tratto di canale sul quale io mi trovo, il confine tra il bene e il male, tra la civiltà e l’outsider, tra la luce e l’ombra. È ciò che sta tra me e te, Eva. Perciò bisogna essere capaci di non essere né l’Io né il non Io, né il soggetto né l’oggetto. Più io mi avvicino alla medesimezza e più sento che tu sei già compiuta dentro di me, sebbene tu non sia ancora nata. Noi donne dobbiamo trovare l’humus giusto per crescere e questo è l’assenza e l’invisibilità. Io sono la ghianda e tu sei la terra, insieme siamo la quercia.
L’axis mundi La grande difficoltà dell’uomo contemporaneo di trovare l’immaginale sta nel fatto che egli ha mosso l’asse del mondo. L’axis mundi è la linea che collega ciò che sta al di qua con ciò che sta al di là dell’immaginale. Originariamente questa linea era orizzontale, poi, con il progressivo prevalere dei modelli immaginativi che governano il nostro pensiero e il nostro agire, e che sono del tutto patriarcali2, prima ancora della
nascita della polis, questa linea ha preso a spostarsi ed è divenuta verticale. Termini come ombra e luce, morte e vita, che nascono su di uno stesso piano e si connotano, dunque, come due facce della medesima realtà, sono divenute l’una qualcosa che sta sotto e l’altra qualcosa che sta sopra, in ultima analisi sono diventati termini antagonisti. Allora la vita ha iniziato a temere la morte e la morte ha preso a inseguire la vita per divorarla, il bene ha incominciato a temere il male e si sono generati i peccati e le sofferenze che tormentano l’umanità: l’uomo, naturalmente sano, ha incominciato a conoscere la malattia e la privazione. Cara Eva, tu porti il nome della donna che ha commesso il peccato dell’origine. Il mito, infatti, attribuisce l’inizio della grande caduta alla prima creatura femminile. È Pandora che apre il vaso dove Prometeo aveva rinchiuso tutti i mali dell’umanità e li fa uscire, è Eva che coglie per prima la mela proibita. La divisione degli opposti comporta, ovviamente, anche la divisione tra maschile e femminile ed è gioco forza che uno dei due scivoli al di sotto e l’altro rimanga al di sopra. Come ogni forza nell’universo si esercita grazie alla presenza di una resistenza, così gli opposti si animano e si rinforzano vicendevolmente. Il fatto di aver cambiato la disposizione dell’asse del mondo e di aver messo sottosopra termini che si trovavano sullo stesso piano ha comportato il seppellimento della metà dell’universo, quella dell’anima selvaggia, dell’eterno femmineo, dell’Io istintuale. Ponendo l’asse del mondo in posizione verticale noi non solo dividiamo due aspetti della medesima immagine, ma anche li separiamo e, alla fine, ne rifiutiamo completamente uno dei due. Questo rifiuto, o rimozione, ci rende difficile il recupero dell’immagine originaria. Per ritrovare il centro, dobbiamo prima recuperare gli opposti. Ma l’individuo ha sepolto l’ombra che lo nutre e gli dà forza fino a perderne il contatto, ha smarrito la propria anima che è ciò che sta al di sotto, il mondo infero, la casa di Ade. Da allora, per ritrovare l’anima, è necessario un viaggio iniziatico che conduce sotto la terra, al di là della Grande Soglia, nell’Ade, nei sogni, nella notte, nell’oscurità, nel femminile.
L’androgino
Un corvo dal becco giallo atterra proprio sulla fronte del vecchio e prende a fissarmi dal suo occhio destro, cerco di battere le mani ma non troppo forte, voglio farlo fuggire via ma non voglio attirare l’attenzione di poliziotti o di chissà chi. Il corvo fa solo un paio di passetti lungo il naso del vecchio e si ferma sulle sue labbra. Cara Eva, se tu fossi qui rideresti a crepapelle nel vedere il corvo che passeggia sul volto del saggio. È uno spettacolo buffo, irriverente. Hillman mi ha insegnato a guardare, dietro le forme apparenti, la presenza degli dei che indossano le maschere dell’individualità: quel corvo, quel ghiaccio, quella persona che ho incontrato per la strada ieri sera, mio marito, il mio cane... Gli dei si travestono per farci visita e parlarci. Allora mi viene da voler comunicare con quel corvo appoggiato alle labbra del maestro. E come si può parlare con un corvo se non cercando di fare il vuoto mentale, di sparire, svanire nel ritmo pulsante della natura? Così cerco di spazzare via tutti i miei pensieri e poi do retta alla prima voce che mi si presenta da dentro. “Chi è dio per te?”, chiede la voce al corvo. E sulle prime mi sembra una questione folle, che non c’entra nulla, ma ho fiducia e mi metto in attesa. La mia mente riprende a pensare dopo lo shock della domanda inattesa e pare su di un altro piano. Il mio sguardo è fermo nell’occhio del corvo. Fissare lo sguardo su un punto senza mettere a fuoco le immagini, guardando oltre ciò che si vede è una pratica che mi è famigliare. I pensieri portano altre immagini, altri ricordi, altre idee: non possiamo pensare che per immagini, ricordi, idee, perciò ogni volta dovremmo avere l’accortezza di chiederci da dove vengono le nostre immagini, i nostri ricordi, le nostre idee. C’è un’idea in particolare, però, che ostacola fin dall’inizio l’esame delle idee: la convinzione che siamo noi a crearle nella nostra testa, come fosse il cervello umano a secernerle3. Secondo Hillman le immagini sono eidola, ovvero idoli, forze divine e demoniache che creano e distruggono. L’idea che immagini, idee, ricordi ci appartengano è il grande inganno su cui si fonda il senso dell’individualismo monistico, va superata. Se non si può vincere questa idea a livello macroscopico di civiltà, si può però superarla a livello individuale, per esempio fissando lo sguardo nell’occhio di un corvo. Ci provo e le risposte arrivano una dietro l’altra, leggere, come la brezza fredda che c’è nell’aria questa mattina, invisibili, come l’anima. Mi portano la risposta alla domanda che ho posto al corvo.
La prima idea mi dice che la divinità di natura è bene rappresentata nel tantrismo con il simbolo del maytuna: l’unione erotica di Shiva e della sua sposa Parvati e nel Buddhismo esoterico dal Vajrapani in unione con la sua compagna, divinità assisa in postura meditativa che tiene la propria compagna in grembo sopra di sé, mostrando l’accoppiamento erotico come simbolo dell’unione di tutti gli opposti. E subito un’altra idea si chiede: cosa siamo noi se non il riflesso di quell’immagine di unione? L’eco di quel suono originario? E un’altra idea ancora mi dice che il viaggio iniziatico che porta dentro la terra, nella morte e nel sogno è il percorso che conduce all’origine delle immagini. Ecco che progressivamente, ma inesorabilmente, l’immagine di James Hillman riflessa nel ghiaccio lascia il posto davanti ai miei occhi a un’altra visione: l’immagine che ho colto nel sancta sanctorum dei templi più antichi del Bhutan e del Ladakh e la voce di un tulku, la reincarnazione di un antico yogi tantrico dell’Himalaya, che ho conosciuto in Bhutan e che mi ha indicato la meditazione sull’immagine dell’unione di padre e madre come la chiave segreta del cammino che ci riporta a casa. Forse esiste un’immagine originaria che può consentire a ciò che è sepolto di riaffiorare, un’immagine che può condurci nel viaggio iniziatico nel mondo sotto il mondo e produrre il risveglio e la resurrezione dell’anima selvaggia. Ed ecco che, tra idee e immagini, arriva un ricordo: la psicologia del profondo, secondo James Hillman, è stata un cammino di “resurrezione dei morti”, ma questo cammino ha un seguito. La psicologia del profondo ha rappresentato, nella nostra cultura moderna, il movimento che le ha restituito il senso del mondo infero. Dai suoi inizi con Freud, la psicologia del profondo è stata un “movimento” animato da una missione. Parte di tale missione è stata la resurrezione dei morti, il richiamare in vita tante cose che erano dimenticate e sepolte dentro ciascuno di noi. Ma non è andata abbastanza a fondo. Ha creduto che il percorso finisse con il recupero dell’Es istintuale dalla rimozione personale o culturale. Ha scoperchiato il sepolcro, immaginando che ne uscisse un corpo mummificato. Ma l’Es, inteso come il mondo infero, non è il corpo istintuale: è la psiche ctonia. Il morto e sepolto in ciascuno di noi è
innanzitutto l’indifferenza della cultura nei confronti della Morte. Solo adesso Ade incomincia a riapparire, nelle nuove angosciose preoccupazioni circa i limiti dello sviluppo, la crisi energetica, l’inquinamento ambientale, l’invecchiamento e la morte4. Frammenti di idee mi attraversano veloci; gli dei danzano la loro danza eterna che lascia l’esistenza immutata, giacché il solo fine della danza delle idee è danzare. La Morte – quella che Hillman scrive con la M maiuscola – è ciò che mi unisce a te, Eva. La Morte ci unisce a ciò che non c’è ancora poiché è l’impalpabile terra che si estende tra il presente e il futuro. Chi è amico della Morte vede nel futuro. La resurrezione della Morte
Il corvo vola via all’improvviso lasciandomi una sorta di missione. La resurrezione della Morte. Quest’opera spirituale si evidenzia oggigiorno come indispensabile se si osserva l’emergenza ecologica di fronte alla quale siamo posti. La terra, cioè l’immagine di se stessa che la terra da dentro di noi produce, è malata, invecchiata. Questa malattia può essere letta come la grande benedizione, l’atto di estremo amore con il quale la divinità di natura, l’androgino, ci richiama a sé. Per salvare la terra dobbiamo entrare dentro la terra, compiere il viaggio iniziatico verso la Morte, morire in vita e poi rinascere liberi. Ancora una volta la difficoltà si profila come enorme possibilità, sta a ciascuno di noi dire di sì al richiamo e partire per il grande viaggio. Questo viaggio, però, non può essere solo di matrice intellettuale, bensì deve coinvolgere anche il corpo. La dimensione rituale del viaggio deve accompagnare quella mitologica in un’unione inscindibile. A tal fine l’antica psicologia orientale e in particolar modo la psicologia tantrica hanno molto da dire alla psicologia accademica occidentale, la quale ha prediletto la dimensione mentale dell’esperienza psicologica rispetto a quella rituale e mitologica. Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in pratica
[...]. Noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana5. È negli abissi della terra e quindi del nostro corpo, cioè nelle profondità della natura, nel ventre della Madre, che il mistero della nostra esistenza è nascosto, come un seme, o, come direbbe Hillman, come una ghianda, la quale contiene in sé il progetto dell’intera quercia. La ghianda è il simbolo dell’immagine originaria che contiene tutte le altre, essa è la vocazione che sta al centro della nostra vita, il senso profondo della nostra missione, la ragione per la quale siamo stati chiamati nel mondo, il motivo per cui siamo stati concepiti, nel ventre della Madre e poi in quello di nostra madre. Per ritrovare la ghianda dobbiamo vincere il corso del tempo, scendere nella Morte per risalire a quel tempo mitologico che ha preceduto il nostro concepimento. Ma come fare ciò fino a che la Morte rimane da noi lontana anni luce, sepolta da infiniti strati di paure e reticenze culturali, resa invisibile dai veli dei condizionamenti culturali? L’immagine del Vajrapani nell’unione erotica con la propria compagna, che è apparsa nel ghiaccio immediatamente dopo il volto di James Hillman, svanisce non appena il corvo vola via. Mi fermo ancora qualche minuto a fissare il ghiaccio, ma incomincio a sentirmi a disagio, mi guardo continuamente intorno; temo che un poliziotto possa arrivare all’improvviso. Non mi sento più “protetta dagli dei”, non sono più dotata di invisibilità. È l’ora di tornare a casa. Il grande viaggio va fatto con il corpo, proprio come lo fanno le tigri e le grandi tartarughe marine. Il punto è comprendere che il corpo è un simbolo e ciò è difficile nella nostra cultura che non conserva immagini convincenti di ciò. Ma nella letteratura tantrica vi sono visioni meravigliose del corposimbolo. Sentiamo, per esempio, una maestra tantrica detta la Danzatrice del Cielo (757-817): Questo corpo è un’apparizione magica, è il riflesso della luna sull’acqua, è un’ombra senza carne né ossa, un miraggio che muta momento per
momento, un sogno che la mente proietta, un’eco, un fantasma senza entità. Questo corpo è una nuvola che cambia forma continuamente, un arcobaleno bello e vivido, ma senza sostanza, un lampo che rapidamente appare e svanisce. Questo corpo è una bolla che si forma e scoppia all’improvviso, è un riflesso in uno specchio che si manifesta vividamente ma è privo di sostanzialità6. Per l’Io – quel grande letteralista, il positivista, il realista7 – è difficile accettare che il corpo e la morte sono simboli, immagini. Nella tradizione tantrica della Danzatrice del Cielo il corpo è un veicolo di pura apparizione e Milarepa, prima di lasciare il proprio per transitare nell’Ade, dona ai suoi discepoli un insegnamento fondamentale: camminate sempre sul fermo suolo della non-oggettività delle cose8.
Libere associazioni
Cara Eva, questa mattina non posso andare a correre, ho troppe cose da fare oggi per permettermi una mattinata lungo il canale. Tuttavia voglio riordinare i miei appunti e fare il punto della situazione. Ti ho già detto che in questo mio “diario” non mi preoccupo tanto di seguire un filo logico, ma “mi lascio procedere” per associazioni di immagini, o meglio di immagini riflesse, allo scopo di evidenziare un esercizio del “fare anima”. Mi sento, però, giunta a questo punto, di dover fare delle premesse fondamentali affinché tu possa continuare a seguirmi nelle mie meditazioni sul ghiaccio. Considero queste premesse come dei semi che mi sento di dover consegnare al calore delle tue mani affinché queste li custodiscano ed essi possano germogliare. Innanzitutto devo spiegarti il concetto di anima visto dalla prospettiva hillmaniana e lo faccio direttamente con le parole del maestro. L’ombra è la materia stessa dell’anima, l’oscurità interiore che da sotto ci attira fuori dalla vita e ci mantiene inesorabilmente in contatto con il mondo infero9. La perdita è effettivamente un segno caratteristico delle esperienze del
mondo infero, dal lutto al sogno, con quel peculiare senso di incompletezza, come se ci si aspettasse sempre qualcosa che ancora non abbiamo ricevuto, un pezzetto che è andato perduto. Una vita vissuta in stretta connessione con la psiche presenta davvero un senso continuo di perdita. Sarebbe grandioso credere che questo sia l’incessante sacrificio richiesto dall’anima, ma a viverlo non sembra tanto sublime. [...] Socrate, che riteneva la cura dell’anima il suo compito più importante, ripeteva di continuo di non sapere nulla, in realtà. L’anima comporta sempre un senso di infermità. [...] Questo fenomeno rimanda, ancora una volta, al mondo infero e alla sua dimensione assente10. Ade è la causa finale, lo scopo, il telos di ciascuna anima e di ciascun processo animico. Dove mi porta il mio destino, il mio processo di individuazione? Se abbiamo l’onestà di affrontare queste domande, la risposta non ci può sfuggire: il processo di individuazione ci porta alla morte. Questa meta inconoscibile è l’unico evento assolutamente certo della condizione umana. Ade è l’invisibile e tuttavia è assolutamente presente. La vocazione ad Ade implica che tutti gli aspetti del procedere dell’anima vanno letti alla luce della fine11. L’anima, in quanto ombra, in quanto dimensione occulta e invisibile è esperibile attraverso la sensazione di mancanza, nostalgia, tristezza, infermità. L’anima è morte, ovvero è la più pura espressione del sacro, del sacrum facere, della capacità dell’essere umano di darsi, di fare sacrificio di sé. Fare anima è dunque compiere il viaggio iniziatico della morte in vita, è la discesa nell’Ade. Fare anima, nel linguaggio della psicologia immaginale, significa sviluppare la capacità di “vedere” che persone, cose, luoghi ed eventi che quotidianamente percepiamo sono un sogno all’interno di un sogno e non hanno alcuna sostanza reale, sono ombre, miraggi; come l’immagine della luna riflessa nell’acqua, sono visioni vivide e lucide, ma prive di sostanza. Il senso dell’oggettività delle cose e del materialismo sono inganni che, al momento del risveglio dal sogno, svaniscono come fumo nel vento.
Fare anima significa prendere ogni persona, oggetto, evento con cui veniamo a contatto e riportarlo alla sua reale natura di immagine ricordando a noi stessi che stiamo sognando e che ciò che percepiamo è una immagine prodotta dal nostro stesso sogno. Fare anima significa, dunque, prendere la realtà pezzo per pezzo e ricondurla all’anima, ai regni di Ade, alla dimora delle ombre, alle profondità dell’eterno femmineo, ai reami dell’Io istintuale. Fare anima vuole dire altresì saper evocare le ombre che abitano oltre la Grande Soglia e portarle in una zona ove ci sia possibile comunicare con esse: gli avi, gli archetipi, le immagini che popolano le profondità della nostra psiche, le ombre invisibili che determinano il nostro pensare e il nostro agire. Fare anima, in buona sostanza, significa fare in modo che tutto ciò che è al di qua e tutto ciò che è al di là della Grande Soglia si incontri in un confine che non ha collocazione né di tempo né di spazio. Questo confine è la Terra di Mezzo, la Grande Medesimezza e può essere simboleggiato dall’androgino. L’androgino è il simbolo dell’unione di morte e vita e di tutti gli opposti, esso è l’emblema della vittoria dell’amore sulla paura e dell’incontro con il sacro, il sacrum facere, la capacità di darsi. Fare anima significa affrontare il viaggio verso la Grande Soglia – che è la terra dell’immaginale. Chi accompagna questo viaggio partendo al di qua della Grande Soglia può essere lo psicologo del profondo, il consulente del fare anima, che ha una funzione sciamanica da psicopompo, traghettatore di anime, conoscitore del post mortem. Chi accompagna il viaggio partendo dall’altra parte della Grande Soglia è il daimon. Ed ecco il secondo seme che mi sento di doverti consegnare, cara Eva: il concetto di daimon, che è fondamentale nel pensiero di James Hillman. È grazie al tuo daimon che io ti percepisco.
Il daimon Questa definizione prende avvio dal modo stesso in cui Hillman presenta Il codice dell’anima.
Questo libro intraprende una strada nuova a partire da un’idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nota, la Repubblica. In breve, l’idea è la seguente. Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia nel venire al mondo dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino. Secondo Plotino (205-270 d.C.), il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamene dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato. E Platone racconta quel mito affinché non dimentichiamo; infatti, come spiega nelle ultimissime righe, salvando il mito potremo salvare noi stessi e prosperare. Il mito, insomma, svolge una funzione psicologica di redenzione, e una psicologia derivata dal mito può ispirare una vita fondata su di esso. Il mito porta anche a mosse pratiche. La più pratica consiste nel vedere la nostra biografia avendo presenti le idee implicite nel mito, e cioè le idee di vocazione, di anima, di daimon, di destino, di necessità, che esploreremo nelle pagine seguenti. Poi, suggerisce il mito, dobbiamo prestare particolare attenzione all’infanzia, per cogliere i primi segni del daimon all’opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada. Le altre conseguenze pratiche vengono da sé: a) riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell’esistenza umana; b) allineare la nostra vita su di essa; c) trovare il buon senso di capire che gli accidenti della vita, compresi il mal di cuore e i contraccolpi naturali che la carne porta con sé, fanno parte del disegno dell’immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo. Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona. Si è cercato per secoli il termine più appropriato per indicare questo tipo di “vocazione”, o chiamata. I latini parlavano del nostro genius, i greci del
nostro daimon e i cristiani dell’angelo custode12. Dire che il daimon precede il manifestarsi del corpo e della vita non significa semplicemente dire che viene prima in senso temporale, ma piuttosto che ne è il motore animico. Il daimon è il fine dell’esistenza del corpo e della vita ed è contenuto nel corpo e nella vita. In un certo sento io mi sento in contatto con il tuo daimon, cara Eva; è per la tua vocazione a esistere, infatti, che tu sei con me, anche se non sei ancora nata.
Dal daimon agli avi Come ti ho già accennato all’inizio di questo mio taccuino d’appunti, Eva, il mio “diario” vuole suggerire un’esperienza del fare anima che si snoda in un percorso duplice. Questo cammino prosegue per immagini che mi azzarderei a definire speculari: da un lato il riflesso di James Hillman, dall’altro l’immagine che ho definito divinità di natura, androgino e ancora Vajrapani nell’unione erotica con la sua compagna. Questa duplicità di immagini ispiratrici comporta, come ti ho anticipato, di seguire due cammini paralleli, due mondi, quello cosiddetto orientale e quello cosiddetto occidentale, che sono distinti ma non separati tra loro. Si tratta certo di un modo di procedere azzardato, considerando il bisogno espresso dagli junghiani e da Hillman stesso di rimanere entro i confini del pensiero occidentale, tuttavia io credo molto nel sincretismo che vivo come un evento estensibile dalle religioni alle psicologie, che sono, come Hillman stesso le definì in molte occasioni, le moderne religioni salvifiche. Insomma, il cammino parallelo tra due immagini che sto portando avanti mi costringe a procedere con un piede a Oriente e uno a Occidente e voglio vedere ciò come stimolo alla “depersonalizzazione”. Io sono una persona impersonale, una metafora che attua una varietà di personificazioni, mimesi di quelle immagini del cuore che sono il mio destino; e quest’anima di cui io sono la proiezione ha profondità archetipiche remote da me, inumane e impersonali13. A questo punto non credo più di stupire nessuno se azzardo il paragone del daimon di Hillman con l’essere psichico del filosofo indiano Sri
Aurobindo, padre del purna yoga, lo yoga integrale. Secondo la definizione di Aurobindo, l’essere psichico è il Maestro dello Yoga e della vita, proprio perché porta impresso il ricordo della missione dell’anima. Esso ci parla attraverso il centro del petto (anahata-chakra): è qui che noi possiamo aprirci a lui. Affidare la nostra vita all’essere psichico, al daimon, è la via pratica per sottrarci al condizionamento dell’Io sociale e per vivere una vita dedicata all’autentica missione della nostra anima, piuttosto che all’inseguimento di falsi obiettivi dovuti a una programmazione inconscia. E così, di immagine in immagine, arriviamo a comprendere che per ascoltare la voce del daimon è indispensabile essere liberi ovvero deprogrammarci. Gli avi, messaggeri dell’invisibile
Le fonti del condizionamento inconscio sono di origine famigliare, esse sono infatti la famiglia e la società, che è la famiglia della famiglia. La visione di Hillman ci porta a considerare i nostri avi e a cercare delle vie per riportare in vita qualcosa che la nostra cultura pare avere quasi del tutto dimenticato: i culti degli avi. La psicologia immaginale conduce quasi naturalmente, oserei dire, alla psicologia transgenerazionale. Divenire consapevoli dei condizionamenti che – per il fatto di essere nati in una certa famiglia e in una data cultura – influenzano i nostri obiettivi, i nostri desideri, il nostro comportamento significa anche poter sentire oltre questi stessi condizionamenti e percepire il daimon. Le idee che possediamo senza sapere di averle possiedono noi14. Da dove ci provengono le nostre idee che non sappiamo di possedere? Dall’educazione che abbiamo ricevuto, ma più ancora esse sono la conseguenza di atti d’amore. In virtù dell’amore che ci lega alla famiglia d’origine e – nel caso questa sia presente – alla famiglia adottiva, noi ne assumiamo le idee fondamentali e ci facciamo carico di “compiti ereditari”. Fin dal momento del nostro concepimento noi riceviamo dai nostri avi un “progetto di vita”. In questo progetto di vita si esprimono compiti di compensazione del destino familiare, cioè compiti di risarcimento nei confronti degli avi. I nostri avi, dunque, sono dentro di noi, sono aspetti della nostra psiche, dialogare con gli avi è interrogare le profondità psichiche, è fare anima.
I nostri avi, in quanto rappresentanti dell’invisibile, ci mostrano ciò che è nascosto, segreto, profondo. Gli avi ci parlano del nostro progetto di vita, della nostra missione nel mondo. In quanto immagini psichiche, ci svelano il mito che stiamo mettendo sulla scena della vita vivendo. Avendo la nostra cultura perduto il contatto con Ade e con il suo mondo infero, è la psicologia del profondo il luogo in cui troviamo oggi il mistero iniziatico, il lungo viaggio di apprendistato psichico, il culto degli antenati, l’incontro con demoni e ombre, i patimenti dell’inferno15. Ecco cosa sento ora: tu, dal futuro, hai scelto di dialogare con me, che sono tua ava. È la tua necessità di parlare con me che mi porta a scrivere questo diario. Il Padre
Questa notte ho fatto sogni importanti e questa mattina mi sono risvegliata con la sensazione che sia stata la dea Pigrizia a impedirmi di raggiungere il canale ieri, più che le molte cose da fare. Infatti, ho poi finito per passare l’intera mattinata a scrivere, il che vuol dire che non avevo poi così tanti impegni. Stamani sembra ancora più freddo dei giorni scorsi. Mi metto anche il cappellino di lana e i guanti. Per fortuna non c’è traccia di poliziotti. Attraverso lo stretto ponte che fiancheggia il ponte della ferrovia e sono nella brughiera in poco tempo. Corro visualizzando il mio scheletro in movimento, come ho appreso negli eremi della foresta dei monaci theravada, fino a che raggiungo quello che ormai ho chiamato il “punto magico” del canale. Qui il ghiaccio è più spesso perché sull’altra sponda del canale rispetto a quella dove io mi trovo ci sono alberi alti e fitti che limitano il passaggio dei raggi del sole. Stamani fa così freddo che non si odono tonfi nel ghiaccio e nemmeno un uccello nell’aria: tutto è perfettamente congelato. Ho la sensazione che il tempo si sia arrestato, che anzi stia procedendo a ritroso per impedire alla primavera di arrivare, per conservare il ghiaccio e consentirmi di stare con il vecchio più a lungo. L’immagine del volto del vecchio mi appare ancora più vivida e “solida”, quasi essa dipendesse proprio dalla consistenza del ghiaccio e dal freddo. Mi siedo, asciugandomi due gocce di sudore dalla fronte. Poiché il volto
del vecchio è più “denso”, io voglio essere più inconsistente e farmi attraversare dalle idee, voglio essere come una canna di bambù, vuota all’interno. Lasciando totalmente liberi i pensieri di fronte al ghiaccio, senza afferrarne né respingerne alcuno, mi accorgo che il riflesso del vecchio inaspettatamente si depersonalizza, portandomi l’immagine di mio padre e poi del “Padre”, dell’“Avo” e del “Vecchio”. La visione del riflesso del volto di Hillman che mi ha condotta alla Morte, all’ombra, a ciò che manca, che è venuto meno, ora, quasi necessariamente, mi porta le immagini dei miei antenati. Gli avi sono territori di espressione dell’anima, proprio come i sogni, l’infanzia e il daimon che ci accompagna in vita. Non abitano forse anch’essi la casa di Ade, l’universo dell’invisibile? L’immagine dei miei avi mi conduce a quella delle tribù animistiche che ho visitato in Birmania, in particolare la tribù tibeto-birmana degli Acca che fonda tutta la propria tradizione sul culto degli avi. Hillman ci ha lasciato in eredità una visione politeista. Questa visione politeista vuole ripristinare un’idea dell’anima tutt’ora diffusa presso i popoli cosiddetti primitivi (chiamati anche pretecnologici, animistici o del quarto mondo, e così via. Ma si potrebbe anche dire che sono scampati alle dottrine dell’anima, della persona e dell’Io legate alla psicologia monistica della cultura degli invasori)16. Così, partendo dall’immagine che ora vedo nel ghiaccio del canale e dal lascito di Hillman, giungo quasi inevitabilmente alla visione molteplice dell’anima. Per Hillman, proprio come per le tribù animistiche, noi non abbiamo una sola anima. Il numero uno, del resto, è un concetto astratto che non esiste in natura. Ecco che il riflesso nel ghiaccio cambia ancora e il volto di mio padre lascia il posto al viso dipinto di uno sciamano buriate conosciuto in Mongolia, in un luogo veramente sperduto, nella steppa, al confine con la Russia, chiamato Dadal. Lo sciamano buriate mi ha passato una visione di anima straordinariamente semplice. La nostra anima sarebbe, secondo questa immagine, tripartita. Ciascuno di noi avrebbe un’anima madre, un’anima padre e un’anima della reincarnazione. L’anima madre è la volontà stessa degli elementi di cui siamo composti, terra, acqua, fuoco e aria. L’anima padre è la nostra memoria: la memoria di
tutti i nostri avi e delle nostre precedenti incarnazioni. L’anima della reincarnazione è il principio animico che, separandosi e riunificandosi all’anima madre e all’anima padre, transita di vita in vita e di morte in morte. Un tonfo fortissimo proviene dal ghiaccio che si rompe e mi scuote. È assolutamente inatteso questa mattina. Che illusione che il tempo potesse fermarsi! Il ghiaccio si scioglierà presto e non potrà più riflettere le immagini che animano la mia psiche. Io sono il prodotto della tensione esistente tra il mio bisogno di trattenere qualcosa del passato che se ne vuole andare e la mia volontà di proiettarmi nel futuro. Ma ecco un altro rumore sordo e improvviso perché assai ravvicinato al primo, mi colpisce al cuore e mi induce a vedere ancora il riflesso del Vajrapani nell’unione erotica con la propria compagna. Mi rifugio in questa immagine sacra, come essa potesse proteggermi da me stessa. Il Beato Tremendo e la Resurrezione della Morte
I tonfi nel ghiaccio continuano ritmici. Qua e là si formano delle crepe sulla superficie ghiacciata del canale, ma non nell’area dove l’immagine del Vajrapani in unione con la propria compagna appare, la contemplo ancora. Mi parla dell’amore sacro, che è morte, perché è il darsi incondizionato, mi parla del fuoco del Tapas che è il fuoco della passione, del desiderio, l’aspirazione, il Dumo, la concupiscenza della divinità verso la propria creatura e viceversa. L’immagine dell’androgino si colora di rosso, forse a causa dei primi raggi del sole del mattino, e la rivedo come l’ho vista nei sancta sanctorum dei tempi in Bhutan: terrifica. Mi porta molte sensazioni sul Beato Tremendo. La conoscenza dell’anima è la conoscenza del Beato Tremendo. L’androgino, in quanto divinità naturale, è una raffigurazione del Beato Tremendo. La conoscenza del Tremendo è il titolo di un tantra, il Vijnanabairava. I tantra sono libri rivelati e più genericamente strumenti (tan) per la libertà (tra). In un inno vedico17 si narra che Prajapati, il creatore primordiale, abbia manifestato la creazione dalle sue stesse membra, non essendovi all’origine altro essere al di fuori di lui. La forza creativa del dio fu il suo tapas, il calore
ascetico18. Così il creatore smembrò il proprio corpo per dare origine alle creature; il prezzo di una vera creazione è la morte. Come il celebre teologo Raimon Panikkar riporta nel suo Mito, fede ed ermeneutica, citando il Rg Veda, al termine della creazione il dio si sentì morente e le creature, anziché dargli conforto e gioia, fuggirono da lui. Le acque udirono il grido del dio morente e gli riportarono indietro il torso, mentre gli dei gli restituirono le membra. Le creature, fuggendo dal creatore per paura di essere da lui riassorbite, si smarrirono e caddero nella confusione. Volendo salvarle il dio chiese a esse di tornare a lui promettendo che le avrebbe divorate per salvarle19. Il dio creatore è morto per dar vita alle creature: fino a quando la creatura non farà ritorno al Padre sarà destinata a percepire incessantemente la natura come la grande eco del grido del dio morente. La natura è per l’individuo in fuga il ruggito stesso della divinità morente. Questo ruggito è a un tempo fuori e dentro l’uomo che lo percepisce e percependolo lo fugge e fuggendolo lo provoca. Il risveglio di un uomo passa per la consapevolezza che egli è quel terribile rombo del tuono che percepisce, egli è la violenza distruttiva del terremoto, allo stesso modo in cui è la calma estatica delle nuvole che spaziano serene nel cielo, la generosità della pioggia che nutre la terra, la bellezza impermanente di un fiore, la ferocia di una tigre... La realizzazione dell’individuo umano è nell’universalizzarsi del suo sentire. Divorare significa salvare: per abbandonarsi a ciò l’uomo deve innanzitutto riportare dio dentro di sé, comprendere che egli è il corpo stesso del dio morente e che solo salvando il dio, cioè compiendo il sacro, ovvero il proprio sacrificio, egli potrà salvare se stesso. La salvezza della divinità naturale mi appare come quella Resurrezione della Morte che Hillman auspica per l’umanità. Il morto e sepolto in ciascuno di noi è anzitutto l’indifferenza della cultura nei confronti della Morte. Solo adesso Ade incomincia a riapparire, nelle nuove angosciose preoccupazioni circa i limiti dello sviluppo, la crisi energetica, l’inquinamento ambientale, l’invecchiamento e la morte20. Dunque non resurrezione dei morti, ma Resurrezione della Morte è la
missione della psicologia di Hillman. Ti ho già detto, Eva, che la Morte è il ponte che mi unisce a te. Resuscitare la Morte per me significa anche vedere tutto ciò che ho davanti, il mio cammino. Il sincretismo
I Tantra, i Veda e James Hillman, che salti acrobatici direbbe qualcuno che ha familiarità con i concetti ma non con le immagini e con il metodo della libera associazione. E siccome, persino qui dove sono, seduta sul canale, mi sento soffiare questo pensiero sul collo, eccomi che mi affretto a estrarre dalla tasca della tuta il mio telefono e a scrivere, seppur con fatica, per via del fatto che le dita sono un po’ congelate e che il supporto è molto piccolo. La divinità di natura non è metafisica. Questa caratteristica fondamentale è raffigurata straordinariamente nell’immagine che ora vedo riflessa nel ghiaccio: il Vajrapani nell’unione erotica con la propria compagna. Il padre e la madre uniti nell’unione erotica rappresentano l’inscindibilità di natura e spirito, di corpo e anima. La divinità storica è metafisica, cioè è al di là della fisicità, separata dalla natura. L’unione del principio maschile e femminile – che simboleggiano tutti gli opposti – è eterna in natura. La madre e il padre sono inscindibilmente uniti nel maytuna, l’unione erotica, e in virtù di ciò essi sono uno, poiché incessantemente muoiono uno nel corpo dell’altra, si danno uno all’altra, e pur tuttavia permangono distinti: il padre assolutamente maschio e la madre assolutamente femmina per godere del piacere della propria unione. Si dice che sono distinti ma non separati. E così sono tutti gli opposti: la morte e la vita, per esempio. Hillman ha scelto, e lo ha più volte ribadito, di rimanere entro i confini della psiche occidentale, delle radici culturali, geografiche e storiche che essa ha nella nostra tradizione21. Questa di rispettare limiti ben precisi come dichiarazione di fede22 è una necessità che è sempre stata molto sentita nella corrente del pensiero Junghiano in cui la psicologia immaginale pone i propri ascendenti. Io mi sento figlia dell’Oriente allo stesso modo in cui mi sento figlia dell’Occidente. Malgrado sia nata in Italia, la mia formazione nel campo psicologico e la mia sperimentazione in ambito spirituale sono avvenute
prima in Oriente presso gli eremi della foresta dei monaci theravada e presso il mio maestro Michael Williams, discepolo di Sri Aurobindo, cultore dello yoga integrale e delle tradizioni sciamaniche. Ti ho già detto che io credo nel sincretismo come strumento importante per sciogliere la pesantezza dell’idea della metafisica divina che grava pesantemente sulla nostra immagine di terra e di natura. Eva, tu devi sapere del mio amore per il sincretismo e per l’ecologia profonda, perché esso è una radice dell’albero che noi siamo. Ecologia profonda
Un’ecologia del profondo deve passare dal ricongiungimento degli amanti divini, dal superamento della frattura fra morte e vita. La divinità metafisica è garante della scala di valori di bene e di male sulla quale si basa una società. Questa scala di valori, difesa da un principio metafisico, si rivela non naturale, anzi, essa ha come obiettivo lo sfruttamento della natura e si estrinseca nello svilimento del femmineo. Alla base della creazione di questo meccanismo perverso vi è la volontà di potere. L’Io vuole il potere: il potere sulla natura e sugli altri uomini. L’uscita dallo “stato di natura”, la creazione del senso del materialismo e dell’oggettività delle cose – che dà l’idea che la natura possa essere misurabile, prevedibile, in una parola governabile – è conseguente al fatto che l’uomo vuole il potere. L’immagine di una divinità metafisica è la conseguenza della volontà di potere su cui si fonda la nostra cultura: un solo dio, un solo capo, una sola verità, una sola vita ecc. La riunificazione degli amanti divini è un processo che deve accadere innanzitutto nel nostro corpo. Quando noi preghiamo “Sia fatta la tua volontà”, ci rivolgiamo a un dio astratto, trascendente, che vive a grandi distanze dalla terra, se davvero “vive”. Quando i popoli animisti politeisti, pagani, pregano “Sia fatta la tua volontà”, si rivolgono alla pioggia e al fiume, alle piante e agli insetti, ai poteri e alla volontà della terra stessa. [...] La Terra è uno spiritus rector, un maestro che insegna alla mano e alla mente a non muoversi con troppa velocità, all’occhio a scorgere differenze tangibili, al corpo a star seduto fermo e pesante, a sondare, a misurare, a riflettere23.
Il sole è diventato più caldo e i tonfi proseguono a un ritmo più serrato, ora il canale non è più immobile, il ghiaccio che si spezza produce la sensazione di un movimento a scatti. L’immagine del Vajrapani unito alla sua compagna lascia di nuovo il posto al volto del vecchio. Un gruppo di gabbiani mi si avvicina camminando sulle lastre di ghiaccio, visti contro sole sembrano un esercito di ultracorpi dotati del potere di camminare sulle acque. La natura è imprevedibile. Decisamente Hillman aveva ragione: la sola cosa certa è la morte24, ciò verso cui tutti stiamo camminando. Un tonfo ravvicinato mi fa sobbalzare, una crepa si forma nel volto del vecchio e, come se ciò mi svegliasse da un sogno, perdo il mio contatto con l’aldilà e vengo ributtata al di qua della Grande Soglia. Sono molto infreddolita, la gamba destra è addormentata, la sfrego con le mani, le dita delle mani mi dolgono tanto, sono intirizzite dal freddo, devo assolutamente rientrare, mi dico, e invece rimango. Adesso che non vedo davanti a me più altro che il ghiaccio, i tonfi sordi che provengono dal canale mi richiamono dentro l’acqua, sotto l’acqua. Mi viene in mente Nietzsche e sorrido. Mai in vita mia sono strisciato davanti ai potenti, e, se mai ho mentito, l’ho fatto per amore. Perciò sono felice del mio letto d’inverno. Un letto da poco mi scalda meglio di uno ricco, perché io sono geloso della mia povertà. E d’inverno essa mi è più fedele che mai. Ogni giornata la comincio con una cattiveria, irridendo all’inverno con un bagno freddo25. Così mi tuffo nel canale come facevo da piccola nei miei sogni. Ed essere dentro l’acqua mi riporta il ricordo del sogno ricorrente che avevo da bambina. Presagio
Nell’infanzia e nell’adolescenza ero visitata da un sogno ricorrente. Voglio raccontarti il mio sogno, Eva. La cosa che più mi incuriosisce oggi di mia madre e di mia nonna sono proprio i loro sogni. Quante volte mi sono chiesta cosa sognassero le mie antenate, perché io ero dentro quei sogni, essi mi hanno plasmata, proprio come le mani dello scultore modellano la creta. Nel mio sogno mi immergevo in un fiume e scendevo nell’acqua fino a
raggiungere un nuovo mondo. Viaggiavo a bordo di una canoa in questo mondo molto strano in cui tutte le vie erano fatte d’acqua. Con me, sulla canoa, c’erano altre persone, bambini, ragazzi e adulti. Eravamo impegnati in una missione, viaggiavamo sulla nostra canoa spinti da uno scopo preciso. All’inizio del sogno in me e negli altri naviganti vi era sempre una sensazione di gioia meravigliosa, poi venivamo ostacolati da altre canoe che si mettevano di traverso sull’acqua per impedirci l’avanzata, allora ingaggiavamo delle battaglie e le nostre risa si trasformavano in urla di forza. Alcune delle persone che stavano sulla mia canoa all’improvviso tradivano la missione passando alle canoe degli avversarsi, altri cadevano in acqua e si perdevano. Rimanevamo sempre in pochi, ma riuscivamo a passare. Ai bordi delle vie d’acqua vi erano ogni tanto delle capanne, a volte accostavamo la canoa a una di esse per entrarvi. All’interno qualcuno ci offriva strani oggetti, tamburi, teschi, spade, cristalli, ossa, mappe, poi ci incoraggiava spronandoci a rimetterci subito in viaggio poiché chi voleva fermarci ci stava inseguendo. A volte i nostri inseguitori riuscivano a precederci per poi tenderci un’imboscata aspettandoci dietro alla soglia di una capanna. Per questo la scelta della capanna nella quale fermarci era importante. La decisione spettava a me, come mi competeva anche la scelta della direzione verso la quale navigare. Io non avevo elementi per decidere, semplicemente cercavo di ascoltare il mio cuore. A volte, specialmente quando la via d’acqua si biforcava, un canarino giallo mi compariva d’innanzi e mi guidava. Lui volava in una direzione e io lo seguivo. Alla fine di varie battaglie, rocambolesche fughe in zone paludose piene di cespugli nei quali nascondersi e, a tratti, sereni tragitti in acque limpide e lucenti, rimanevamo in pochi, molto pochi, sulla canoa, ma sapevamo di aver vinto e la gioia tornava in noi ancora più intesa che all’inizio del sogno. Solo quando ebbi vent’anni, a Colombo, in Sri Lanka, presso l’Oriental Yoga Academy, la scuola di Yoga Sciamanico che lui stesso aveva fondato, Michael Williams, il mio maestro, mi rivelò che quel sogno era il richiamo del mio spirito psicopompo alla sua missione. Lo psicopompo è uno sciamano. Se non tutti gli sciamani sono psicopompi, di certo tutti gli psicopompi sono degli sciamani. La psicopompia è l’arte dell’accompagnamento delle anime che sono in transito tra la vita e la morte e tra la morte e la successiva rinascita. Lo psicopompo è
colui che sa vedere simultaneamente nella vita e nella morte, conosce i mondi del transito tra le due dimensioni, vi può entrare e uscire a proprio piacimento a beneficio di sé, delle persone che gli si rivolgono e di tutte le creature senzienti. Per descrivere la figura dello sciamano, utilizzerò, invece, le parole del mio maestro: Il piacere che si sprigiona dalla contemplazione della bellezza è un’energia taumaturgica, capace di guarire l’uomo da tutti i mali e di elevare l’animo verso l’illuminazione. Il Piacere è figlio della Bellezza e la Bellezza è figlia dell’agire artistico. Coloro che conoscono il metodo di Piacere e Bellezza, antico quanto il mondo, sono detti sciamani (Michael Williams). Dentro il canale, i miei maestri
L’immagine di Michael mi compare nell’acqua, non è statica e continuamente si deforma, un uccellino si tuffa verso il basso e intinge il becco nell’acqua, in una crepa del ghiaccio, forse per bere, e subito risale in volo lasciando nell’acqua onde concentriche che si allargano e allargano... Michael è stato il mio primo maestro e, come il primo amore, è rimasto insuperabile nel mio cuore. L’ho conosciuto che avevo solo diciannove anni nello Sri Lanka, dove mi ero recata per lavoro. Michael mi ha insegnato lo yoga sciamanico come è trasmesso nel lignaggio al quale lui appartiene, una famiglia di origini tibeto-birmane, e mi ha spinta a leggere l’opera di Sri Aurobindo, il padre dello yoga integrale. Mi ha portata nei villaggi sperduti nella giungla a conoscere sciamani e guaritori portentosi, poi, un bel giorno, mi ha accompagnata nell’eremo della foresta del venerabile Ghata Thera dicendomi che avrei dovuto apprendere a meditare; ci sono rimasta sei anni. Dopo che Michael ha lasciato il corpo e io sono tornata in Europa, un po’ confusa sul da farsi, nell’attesa che mi si chiarissero le idee mi sono laureata in psicologia e alla fine ho conosciuto in Svizzera James Hillman, che veniva spesso ad Ascona, dove un tempo la comunità culturale Eranos, di cui lui faceva parte, era molto attiva. Il pensiero di Hillman è servito come collante delle mie esperienze precedenti: il tantrismo, lo yoga integrale, lo sciamanismo, il Buddhismo e, ovviamente, la psicologia. La lettura
dell’opera di Hillman per me è stata come la composizione di un puzzle. Infine Raimon Panikkar mi ha aperto una porta ulteriore permettendomi di vedere nel sincretismo la chiave della mia esperienza. Ho conosciuto Panikkar grazie alla mia passione per Aurobindo e alla mediazione di Karan Singh, politico indiano, grande studioso dell’opera di Aurobindo, o forse ho conosciuto Karan Singh grazie a Panikkar? Ora non ricordo, che importa? Sono nel canale che scorre sotto al canale, nel mondo sotto al mondo, non c’è più il tempo e Michael, Ghata Thera, James Hillman, Raimon Panikkar, Karan Singh e Sri Aurobindo sono tutti qui con me, forse c’è anche Abhinavagupta e ci sono Tilopa, Naropa e Milarepa, indubbiamente c’è la Danzatrice del Cielo e forse anche Ma gcig è presente, ci sono i Buddha del passato, del presente e del futuro e soprattutto c’è la Madre. E qui Hillman mi ferma: “Madre sì, ma non la Tellas dei romani”. Infine la Danzatrice del Cielo recita una delle sue formule magiche: Anche se in realtà siamo fondamentalmente inseparabili, Non riconoscendomi mi considerate come un’entità esterna. Ma quando mi riconoscerete, L’unica mente nuda sorgerà dall’interno, E la Consapevolezza Assoluta pervaderà l’universo. Il piacere della purezza originaria è racchiuso come un lago; I pesci dagli occhi dorati dell’acuta percezione si moltiplicano. Continuate il perfezionamento dell’esperienza visionaria e del piacere E sulle ali della perfetta creatività raggiungerete l’altra sponda, Correndo e saltando nei prati delle apparizioni visionarie26. Tutto si sospende, scendo ancora più in profondità dove la luce del sole non arriva. Come continuare a esistere qui, nel freddo e nel buio se non affidandosi completamente, dandosi? C’è sempre una soglia oltre la quale lo sguardo ordinario non può più continuare a vedere e la mente non può seguitare a pensare. Un’ecologia profonda deve credere nella possibilità di essere guidati, e deve saper percorrere il tempo in senso inverso per recuperare le immagini dell’uomo che precedette la storia. A volte tornare indietro è un segno di forza e di capacità di immersione profonda.
La meditazione degli eremi theravada
Noi abbiamo quattro occhi, mi aveva spiegato il venerabile Ghata Thera, iniziandomi al vasto cammino del Dhammapada, due occhi guardano il mondo al di fuori del corpo e due guardano dentro al corpo, questi ultimi sono comunemente ciechi giacché l’uomo ne ha perduto l’utilizzo, ecco perché normalmente le persone non vedono nel buio. Così si scambia l’oscurità come una condizione di terribile angoscia e non si sa vedere che l’oscurità è luce. Così si pensa che l’ombra non abbia sostanza e non si hanno occhi per vedere la sostanza del vuoto. La meditazione è il processo che apre gli occhi che guardano dentro e sanno vedere nel buio. Ho fatto molte meditazioni nell’eremo di Ghata Thera. Tu, Eva, devi saperlo perché questo è il tessuto di cui sei fatta. Meditavo guardando dentro il mio corpo, osservando il mio scheletro e le mie viscere; questo è ciò che si chiama contemplazione degli oggetti corporei e comporta la contemplazione del corpo, la consapevolezza del respiro, la consapevolezza delle posizioni del corpo, la consapevolezza delle azioni del corpo, la consapevolezza delle parti del corpo. Questa meditazione conduce alla consapevolezza degli elementi. In effetti, nella visione buddhista, come abbiamo già avuto modo di dire, la nascita è data dall’aggregarsi degli elementi primari e la morte è data dal disgregarsi degli elementi primari che tornano ciascuno alla propria origine. Il corpo, dunque, è un’aggregazione impermanente di terra, acqua, fuoco e aria. Danzando fra loro gli elementi creano tutte le ombre e le luci che caratterizzano la nostra esistenza, mi diceva Ghata Thera. Da queste ombre e luci si generano le immagini che noi abitiamo. Il viaggio nel corpo che si compie con la meditazione buddhista è il viaggio negli elementi, lo stesso che ti porta a sprofondare nella terra, nell’acqua e poi ancora più giù fino a trovare il fuoco e l’aria che è ciò che il fuoco consuma. Perciò la meditazione è, in ultima analisi, lo sprofondamento nella Grande Madre e la conoscenza della Madre. Al centro di questo viaggio, come al centro del pianeta, noi troviamo di nuovo il simbolo degli amanti divini, rappresentato dal fuoco, principio maschile, e dall’aria, principio femminile. Se il fuoco brucia l’aria, l’aria contenuta nel magma è in grado di provocarne l’eruzione. Che cosa è questo se non un eterno maytuna? (La parola sanscrita maytuna indica la copulazione rituale che nel tantrismo è considerata il simbolo dell’unione di tutti gli opposti).
Lo sprofondamento nel corpo della Madre non è la conoscenza di un puro principio femminile, ma è l’immersione nel Beato Tremendo, in quell’amore che è morte e in quella Morte che è Amore. Eros è fratello della morte e non già il principio che dalla morte ci può salvare [...]. Dunque esiste un amore che muove verso il basso, e non soltanto un Eros che protende le braccia verso l’orizzonte altrui [...]. Eros è fratello di Ade27. C’è una danza nella morte. Ade e Dioniso sono lo stesso dio28. Riemergo dal canale. Un grosso cane nero corre verso di me, mi immobilizzo, il cane mi annusa, poi la voce del suo padrone lo chiama da lontano e lui se ne va repentinamente. Difficile pensare che sia un’immagine. Anche che amore e morte possano essere metafore è difficile da capire: qualcosa deve pur esserci di reale, dice l’Io, quel grande letteralista, il positivista, il realista29. Mi guardo intorno e ritrovo la strada in questo mondo che si fa notare per l’ignoranza che ha della morte30. La strettoia
Voglio concentrarmi sull’immagine della strettoia di fronte alla quale vengo messa ogni volta che vado a correre, non è lì per caso, niente è “lì per caso”. Vedi, Eva, Hillman mi ha insegnato a vedere dietro le persone che incontriamo, al di là degli oggetti con i quali veniamo in contatto, oltre gli eventi che ci accadono ogni giorno, gli eidola, gli dei e i demoni, gli archetipi, le immagini come forme originarie delle nostre esperienze. Tra la parte del canale che scorre attraverso la città e quella che si snoda nella brughiera vi è un ponte alto e stretto che fiancheggia un altro ponte, quello su cui corre la ferrovia. Su questo ponte il canale si restringe e anche il marciapiede si fa talmente stretto che due biciclette o un pedone e una bicicletta non possono passare insieme. Il ponte stretto mi porta alla mente il sottile passaggio attraverso il quale nasciamo. La nascita e la morte non sono mai condizioni definitive. Nel corso della nostra vita abbiamo bisogno di passare quella strettoia frequentemente,
di immergerci ripetutamente nel Tremendo e poi di fare ritorno. Quante volte durante la nostra vita passiamo la strettoia che ci riporta al di là della Grande Soglia! Quante volte ciascuno di noi nasce e muore passando dalla chiarezza alla confusione, dalla luce al buio, dalla serenità alla tristezza, dalla veglia al sonno! Non possiamo stare separati dalla nostra anima troppo a lungo ma, se non sappiamo riconoscere nell’intrico oscuro della boscaglia la presenza dell’anima, rischiamo di perderci nella notte. Attribuire un significato negativo alla confusione, al buio, alla tristezza, a tutto ciò che è oltre la Grande Soglia e, nello stesso tempo, avere necessità di immergerci frequentemente nell’aldilà ha proprio il sapore di una condanna, ma si tratta di un’autocondanna, poiché il giudizio che distingue e separa non è di altri se non nostro. Ogni cambiamento nel corso della nostra vita è una metafora della morte e rinascita, è un passaggio dalla strettoia. E ogni morte e ogni nascita è, a sua volta, una metafora dell’amore. Tutto è immagine, riflesso, eco di un amore originario. Darsi a quell’amore è la missione della nostra anima. La ragione per la quale questa missione, che è gioia, è diventata sofferenza sta nell’ignoranza che il nostro mondo ha sviluppato riguardo alla Morte. Agli sciamani urbani, agli psicopompi del profondo è affidato oggi il compito di celebrare i riti di passaggio e il culto degli avi che la società ha cancellato dalle proprie occupazioni. Fare Anima è compiere un rito di passaggio, attraversare la strettoia, immergersi nel Tremendo e poi fare ritorno affinché l’individuo apprenda, mediante il viaggio iniziatico, a morire. Lascio parlare nella mia mente i poeti, Goethe: Finché non saprai come morire e poi rinascere, rimarrai un viaggiatore infelice su questa terra oscura. E Leopardi: Chi ha il coraggio di ridere è il padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire. La psicologia degli outsider
Ed eccomi nuovamente a correre dalla chiesa di Palworth al ponte. Lascio la città e mi avvicino alla strettoia che mi separa dalla boscaglia. All’inizio del ponte dei mazzi di fiori appoggiati ai rami degli alberi attraggono la mia attenzione. Al primo momento la mia mente nota la presenza di questi fiori
come una totale stranezza e rimane nello stupore. Poi, mentre corro sul ponte stretto, continuando a vedere qua e là mazzi di fiori, realizzo che qualcuno deve essere morto in quella zona. “Ecco perché”, mi dico, “c’era quella ispezione della polizia sul canale l’altro giorno!”. Mi riprometto di cercare la notizia non appena tornerò a casa. Intanto, continuando a correre, raggiungo la statua dei due taglialegna e mi ritrovo all’altezza della brughiera. Girandomi verso il canale vedo una corona di fiori sul ghiaccio, probabilmente portata dal vento. Si trova proprio nel punto dove ho visto il volto del vecchio la prima volta. Mi fermo, mi siedo, la osservo e accarezzo la morte come la dolce compagna della vita, ne sento tutta l’animalità e la naturalezza. È una parte di me, la parte sostanziale, l’anima della vita. La corona mi ricorda la forma circolare del mandala. Nello yoga tantrico e sciamanico a cui Michael mi ha iniziata è conosciuta una meravigliosa pratica visionaria chiamata contemplazione del Mandala Interno o Mandala Visionario o anche Mandala Segreto. Si tratta di visualizzare un grande cerchio nello spazio vuoto che si estende senza fine davanti agli occhi chiusi. Poi in questo cerchio si fanno ruotare prima impressioni di luoghi conosciuti in vita, compresi i luoghi natali, poi volti di persone note, compresi i volti del padre e della madre, e infine tutti i ricordi degli atti sessuali vissuti fino all’immagine dell’atto sessuale con il quale siamo venuti al mondo. Avendo in questo modo ricompreso la realtà nel Mandala Visionario, essa viene poi riassorbita all’interno del corpo a mezzo di una particolare pratica di respirazione e attraverso la recitazione di un mantra. Con questa pratica riportiamo alla terra, all’acqua, al fuoco e all’aria, che sono i principi del nostro corpo, le immagini che abbiamo vissuto, che viviamo e che vivremo. Questo processo mi ricorda da vicino il procedimento del “ritiro delle proiezioni” utilizzato nella psicologia del profondo che consiste nel portare all’interno di me le immagini che ho vissuto durante la mia giornata o nei miei sogni cercando i tratti che hanno in comune con me e i sentimenti che evocano (lei è troppo passiva, lui velenoso, l’altro un ascoltatore perfetto) io li accolgo in me. Vedo me stesso rispecchiato in loro e loro rispecchiati in me, rifletto sulle ombre che abbiamo in comune (James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 127). Comunemente luoghi, persone e atti vengono presi unicamente come oggetti materiali, esterni a noi, indipendenti dal potere della nostra anima di
immaginarli. Mettere luoghi, persone e atti nel Mandala Segreto significa ricomprenderli nell’anima e ri-assorbirli a mezzo del respiro dentro al corpo, significa liberarli dalla pesantezza dell’oggettività che li rende indipendenti dalla volontà immaginativa della nostra anima e ce li fa subire come eventi materiali della cui reazione siamo vittime. Riassorbire la realtà nel Mandala Visionario è scioglierne la pesantezza materiale per renderla anima, in ultima analisi è fare anima. Subire la pesantezza dell’oggettività delle cose significa soffrire, ammalarsi e morire di quella morte prodotta dalla nostra cultura come opposto e negazione della vita. Fare anima, dunque, ha inevitabilmente un effetto curativo, salutare e vivificante. Tuttavia fare anima non è fare terapia. Le terapie ufficiali partono dalla prospettiva dell’Io, ovvero dalla visione dell’oggettività delle cose e puntano all’Io e cioè alla buona e ordinata strutturazione della realtà oggettiva. Fare anima significa prendere la realtà oggettiva – pezzo per pezzo, oggetto per oggetto – e ricondurla allo stato di pura immagine, di apparizione animica. La terapia ufficiale si muove nell’artificio del materialismo, il fare anima lo smantella. Fare anima è stare dalla parte dei sogni, delle ombre, degli avi, delle malattie, intese come richiamo d’amore dell’anima, e della morte, che è amore. Fare anima è stare dalla parte del daimon, il lato invisibile delle cose, l’altra parte della Grande Soglia. Fare anima è stare con le immagini dell’anima, con gli eidola, gli dei, e da lì, da quella prospettiva, guardare all’Io e ai suoi bisogni. Fare anima è stare nel sacro, nella capacità di darsi e nel piacere, nel fuoco, nel Tapas, nel calore psichico, nella beatitudine di cui questo darsi è fonte. Ma se fare anima non c’entra con fare terapia, non c’entra neppure con fare religione. Le religioni monoteiste sostengono un’idea metafisica della divinità, cioè la sensazione di una divinità che non è più parte della natura ma la sovrasta. La metafisica divina è uno dei più potenti sostegni del materialismo poiché conduce sempre e solo verso l’alto, verso un ipotetico cielo astratto e separato dalla natura. Fare anima porta nelle profondità della terra a contatto con gli elementi, terra, acqua, fuoco, aria, e dunque porta alle immagini, agli eidola, all’anima. Sprofondando nella terra, poiché essa ha la forma circolare del mandala, si riemerge ritrovando il cielo: questo è il viaggio del fare anima che differisce dal viaggio delle religioni monoteistiche in quanto queste
ultime puntano direttamente al cielo lasciando le profondità della terra al male, al peccato, all’inferno e alla punizione eterna. Fare anima è un’attività delle profondità: è psicologia del profondo ed è ecologia del profondo, non c’entra con la terapia ufficiale né con la religione sociale. Perciò è un’attività universale, un viaggio che chiunque può intraprendere indipendentemente dal suo retroterra culturale, religioso, etnico e geografico. Fare anima è prendere gli oggetti, le persone, gli eventi e riportarli alla loro natura di ombre, di immagini, cioè alla loro natura psichica e animica, liberarli dal giogo del tempo, risvegliarli dall’ipnotismo dell’Io. Tale è la missione dell’anima. Fare anima è l’attività che sconfigge il tempo e la morte come essa è intesa nella cultura – cioè nel culto, nella credenza dominante – a beneficio della morte come dimora dell’anima, regno dell’invisibile, del sogno, degli avi, dell’Io istintuale, della selvatichezza. La morte come dimora di Ade e Dioniso, come scrigno della conoscenza rivelata, come estasi, trance sciamanica, come eterno femmineo e come vera, grande aspirazione dell’anima. Fare anima è l’avventura dell’outsider, colui che non ha obblighi nei confronti del mondo non ha legami di dipendenza dalle istituzioni e non deve nulla, se non qualche ubriacatura notturna, alla cultura dominante. Le istituzioni sono la fine dell’outsider, dove inizia l’istituzione il fare anima cessa. Per questo le culture che incorporano gli outsider possono beneficiare del loro contributo. Le culture che alienano gli outsider reprimendoli perdono i contributi più visionari e innovativi. L’attività del fare anima non può essere istituzionalizzata, pena la perdita del suo reale potere. Bisogna piuttosto che le istituzioni, che le accademie, le psicologie e le religioni ufficiali imparino a convivere con gli outsider e a rispettare il fare anima quale attività evolutiva di cui la psiche si nutre e della quale l’umanità non può fare a meno. Fare anima è un’attività creativa che ha a che fare con l’arte, soprattutto con la poesia. Un’opera di poesis (creazione di immagini con le parole), come Hillman ci fa notare31, al pari del sogno crea e dissolve immagini. Fare anima ha a che vedere molto da vicino con l’attività degli antichi cantastorie, i bardi erranti, che erano poeti. A mezzo del potere della parola poetica, il cantastorie, come il coniglio bianco della favola di Alice, conduce nel mondo infero delle ombre, nelle profondità dell’anima, nel regno
sotterraneo di Ade, nel meraviglioso castello di Dioniso. Fare anima ha molto a che vedere con la psicopompia, l’arte sciamanica di accompagnamento nel post mortem. Durante i cosiddetti rituali di caccia all’anima, lo sciamano psicopompo conduce chi gli si affida nel mondo sotterraneo alla ricerca dell’anima perduta. Chi fa anima produce esperienze visionarie dell’infero e vi traghetta chi gli si affida, proprio come uno sciamano o un Virgilio dantesco, recuperando una sapienza della morte antica e perduta nella nostra cultura, tant’è che quello di Dante, che è stato l’ultimo mondo infero immaginato nella nostra cultura, risale addirittura a prima del Rinascimento32. Fare anima copre una grande e grave dimenticanza culturale ed è un’attività con la quale la psicologia, la religione ufficiale e le istituzioni devono imparare a convivere serenamente senza sentirsi minacciate. L’immagine del vecchio compare nuovamente nel punto esatto dove l’avevo vista la prima volta e adesso è circondata dalla forma tondeggiante della corona di fiori. Respiro profondamente cercando a ogni ispiro di riassorbire nel mio corpo tutto ciò che vedo in quella corona adagiata sul ghiaccio: il vecchio, le mie ombre, il mondo sotto il mondo e il ghiaccio stesso. Così facendo l’immagine del volto del vecchio scompare, come un sogno, insieme alle ombre prodotte dai miei pensieri. Rimango ancora qualche istante immobile a fissare la corona sul ghiaccio, poi mi rialzo e riprendo a correre. Mi scopro capace di una forza nuova, una forza fisica e psichica insieme: ancora una volta ho tratto nutrimento dal mondo infero. Corro pensando alla persona che, forse, è morta proprio lì, nella mia brughiera, sotto gli occhi dei due taglialegna: che cosa strana, folle, mi dico. Poi, contraddicendo i miei pensieri di poc’anzi, mi riprometto di non indagare sull’accaduto. Non voglio sapere cosa è successo, quando e perché. Voglio tenere nella mia brughiera l’immagine della morte, non di quella morte, la sensazione del viaggio e non di quel viaggio. Arianna e il Minotauro
Oggi il vento porta l’aria del mare fino in città. Questa mattina non c’è odore di canale ma di mare. Anche i ricordi sono eidola, immagini, spiriti che abitano l’etere. La memoria è interna al nostro corpo tanto quanto è esterna a
esso. Inizio a correre lentamente gustandomi il paesaggio del primo mattino. L’odore del mare mi porta il ricordo di un insegnamento sciamanico che Michael mi ha dato in riva all’oceano nell’isola di Sri Lanka. Si tratta di una pratica visionaria che ha il fine di stabilire un contatto intimo con gli elementi a mezzo dei ricordi. “Ricorda l’odore della terra, ricorda l’odore del mare portato dal vento, ricorda la percezione del calore del fuoco, ricorda il vento di una cima di montagna che soffia sul tuo viso...”. La voce di Michael continua a sussurrare alle mie orecchie mentre io sono a occhi socchiusi e fissi verso l’orizzonte e mi conduce lontano dal mio Io, fino a farmi essere null’altro che la danza degli elementi, niente altro che ombre e luci, dipinti, immagini, simboli. Poi, mentre le mie gambe iniziano a prendere un ritmo di corsa più veloce, il ricordo di me seduta in riva all’oceano con Michael viene sostituito dall’immagine di una fotografia di me bambina. Ho forse nove o dieci anni e sto correndo giù per una discesa, ho una maglietta a righe e dei pantaloncini corti. La mamma mi aveva portata in vacanza in montagna per nutrimi di aria fresca e di cibo genuino, era convinta che fossi troppo magra. Infatti, in quella foto ero magrissima e correvo veloce. Stavo partecipando a una gara di corsa organizzata dall’azienda turistica della città dove ci trovavamo. Impossibile ricordare ora quale città fosse, ma ricordo perfettamente di avere vinto. Fin da allora correre era la mia passione. Il ricordo piacevole inizia a rotolare nell’etere e trascina con sé altre immagini, voci, echi lontani, le ombre si stanno muovendo tutto intorno a me, le mie gambe accelerano ancora di più la velocità della mia corsa, altre immagini arrivano, hanno una loro precisa volontà, un disegno. Ricordo la tristezza e la rabbia che erano sempre con me all’età che avevo in quella foto. Che ne è stato della mia rabbia? Era la rabbia, forse, che bruciava dentro di me tutto ciò che ingurgitavo e mi rendeva così magra e diafana. Mi fermo di colpo e guardo il ghiaccio come per chiedere aiuto al vecchio. Lo sento, è presente, anche se in questo istante non lo vedo. I ricordi continuano a rotolarmi addosso come pianeti fuori orbita. Ricordo James Hillman che sale sulla mia auto all’aeroporto di Malpensa: ero andata a prenderlo al suo arrivo dagli Stati Uniti. Il giorno precedente aveva partecipato al funerale di un suo caro amico, il regista Elia Kazan. Dopo i saluti, trascorsi solo pochi minuti da che è salito nella mia auto, mi dice che Elia riteneva la rabbia una forma dell’amore, “E certo”, aggiunge, “la rabbia è amore!”. James Hillman aveva lo stesso potere di Michael, il potere di
creare e dissolvere immagini con le parole, parlandoti ti portava un’esperienza. Le esperienze sono eidola, vivono sull’Olimpo, il monte Meru, il monte Popa, la mitica dimora degli dei, da dove la parola evocativa li richiama. La rabbia è il ruggito dell’anima selvaggia che proviene dal mondo infero. Un raggio di sole mi colpisce in viso. Il ghiaccio oggi è più sottile, la primavera sta arrivando, tra breve l’acqua riprenderà a scorrere nel canale. Forse non potrò più vedere il volto del vecchio. Corro veloce, attraverso il ponte dove il canale si restringe e in breve raggiungo i due taglialegna e la soglia tra la città e la brughiera. Ho un’intuizione folgorante: questo luogo è così speciale per me perché io sono nata in un luogo simile, nella Brianza, vicino alla brughiera e nella brughiera ho passato la mia infanzia giocando con il mio cane e i miei gatti. I luoghi dove i ricordi possono essere più densi sono i luoghi migliori per parlare con gli dei. Mi precipito nel punto privilegiato per le mie chiacchierate con Hillman e mi siedo sul solito masso. Fisso il ghiaccio e la sua immagine appare gradatamente, divenendo sempre più vivida. Mentre lo guardo mi viene in mente la storia della mia rabbia, o, come lui l’aveva definita, “la storia di Arianna”, perché la rabbia delle bambine e delle ragazze è la rabbia di chi ha perduto il proprio Io istintuale ed è stato separato dalla propria anima selvaggia, imprigionata nelle labirintiche profondità del corpo. Abbraccio le mie gambe e mi rannicchio su me stessa per cercare di non disperdere il calore del mio corpo. Ma l’attimo dopo riprendo a correre spinta da un pensiero forte, così potente che potrei sciogliere il ghiaccio, se lo guardassi, e allora non potrei più incontrare James Hillman perché lui appartiene al ghiaccio interno della psiche, il ghiaccio che brucia eternamente nelle profondità infere dell’anima. Questo pensiero mi dice: io sono una donna e lui era un uomo e questo deve fare una differenza nel nostro modo di fare anima. La donna è sacerdotessa. La sua vicinanza alla dimensione del rito stacca l’attenzione dal mentale e la porta nel corpo e nel gesto, non nell’azione concreta che sostiene l’oggettività delle cose, ma il gesto rituale che accompagna le immagini e dà vita alle ombre. Non molto distante da me in una insenatura del terreno una coppia di germani sta, forse, litigando. Non li avevo notati perché erano in ombra e si confondevano con la terra e i sassi che li circondavano. Ma adesso è impossibile non vederli, sbattono forte le ali; lei becca lui ripetutamente, poi lui la insegue e lei scappa. Nel tentativo di fuggire lei scivola sul ghiaccio,
poi dispiega le ali e prende il volo, lui pare arreso, torna nell’insenatura del terreno. Ma, poco dopo, lei plana sul ghiaccio e lo raggiunge. Si accovacciano vicini e si fanno immobili, forse si addormentano. Quante volte ho visto il mito di Arianna con Hillman! In particolare durante una cena a Campione d’Italia, la sera prima di un convegno, mentre lui mi convinceva a mangiare carne di cinghiale. Arianna era sorella del Minotauro, essere fratello e sorella nel mito significa essere due facce della stessa medaglia. Il Minotauro è l’anima selvaggia, l’eterno femmineo, l’Io istintuale che, separato, rifiutato, imprigionato, diviene aberrante. La leggenda di Arianna e del Minotauro contiene vari archetipi fondamentali per la nostra cultura. Il padre di Arianna, il re di Creta, Minosse, chiede al dio Poseidone un toro bianco come segno del fatto che gli dei gradivano la sua opera. Poseidone concede il toro al re, ma chiede che l’animale gli venga restituito tramite un sacrificio rituale. Minosse, vedendo il toro così bello e possente, rifiuta però di ubbidire alla consegna del dio e decide di fare del toro bianco un bue delle proprie mandrie. Il tentativo di addomesticamento della selvatichezza e la perdita della dimensione rituale sono un potente archetipo contenuto nel mito, uno degli archetipi, ovvero una forma delle esperienze umane, su cui si fonda la nostra civiltà. Minosse è l’immagine del rifiuto della legge naturale, l’archetipo dominante nella nostra cultura che vuole il potere sulla natura. Poseidone decide di punire il re. Egli fa sì che Pasifae, moglie di Minosse, si innamori perdutamente del toro bianco. Pasifae allora chiede a Dedalo, l’architetto di corte, di costruire una giovenca di legno nella quale lei si rinchiude per accoppiarsi con il toro. Nasce così il Minotauro, creatura mostruosa dalla faccia di toro e dal corpo umano. Il Minotauro rappresenta l’anima selvaggia in quanto espressione diretta del desiderio istintuale incontrollabile dalla ragione. Il re ordinerà a Dedalo di costruire un labirinto nel quale il Minotauro verrà imprigionato. Il secondo archetipo che prende vita nelle profondità inconsce della nostra cultura riguarda il tentativo di imprigionamento dell’anima selvaggia sfuggita al controllo della ragione. Ma l’anima selvaggia rinchiusa, gli istinti repressi divengono sempre più aberranti. Il Minotauro chiede il periodico sacrificio di 7 fanciulli e 7 fanciulle che egli divora. Il rituale tremendo pare proprio l’eco deformato del rituale originario che Minosse ha rifiutato di compiere. La civiltà si pone così sulla via della violenza fine a se stessa.
Teseo, l’ateniese che si reca a Creta per uccidere il Minotauro e porre fine ai sacrifici umani, è un falso eroe. Se egli fosse stato il vero eroe, infatti, avrebbe convinto Minosse a compiere il sacrificio rituale del toro bianco per placare gli dei. Egli, invece, presentandosi con ciò come il prototipo dell’eroe moderno, decide di uccidere il Minotauro. Arianna, figlia di Pasifae e sorella del Minotauro, rappresenta la donna separata dal proprio Io istintuale che si innamora dell’uomo sbagliato. Arianna, innamoratasi di Teso, lo aiuta nell’impresa a mezzo del famoso filo rosso con il quale Teseo, una volta ucciso il mostro, potrà ritrovare la strada per uscire dal labirinto. Teseo si serve della donna per uccidere lo stesso eterno femmineo, l’Io istintuale, l’anima selvaggia. Teseo, il quale diverrà un grande leader politico, impersona un altro archetipo che dà forma alle esperienze del nostro mondo, è il prototipo dell’uomo di potere nella nostra cultura. Nella nostra civiltà potere e sapere non sono mai uniti: chi ha il potere non ha il sapere e viceversa. Teseo è l’uomo di potere che non sa vedere nelle profondità della psiche e pretende di imporre il proprio controllo all’anima. Dopo aver compiuto la propria missione, avendo pugnalato alle spalle il Minotauro ed essendo uscito dal labirinto, Teseo fa ritorno ad Atene portando con sé Arianna. Ma sull’isola di Nasso, dove le navi di Teseo si erano fermate per la notte, l’uomo abbandona Arianna mentre lei sta dormendo. Quando la donna si sveglia trovandosi sola nella notte, abbandonata su di un’isola selvaggia dove non vi è altra presenza umana, fronteggia non solo il tradimento del proprio uomo, ma anche la propria morte. Arianna piange tutte le proprie lacrime. È questo un momento molto sacro in cui il mito mostra un altro archetipo fondamentale della nostra esperienza: ogni donna deve passare attraverso un processo di morte e rinascita per poter ritrovare la propria anima. Al culmine del pianto, della disperazione, della notte, si presenta ad Arianna Dioniso, la divinità di natura per eccellenza, il dio che si svela nelle profondità di Ade giacché – come Hillman fa spesso notare nel suo Il sogno e il mondo infero – egli è Ade nella sua concentrazione ctonia. Dioniso fa di Arianna la propria sposa e le fa dono di un diadema d’oro creato da Efesto che, alla morte di Arianna, lanciato in cielo, andrà a formare la costellazione della Corona Boreale. Teseo è il prototipo dell’eroe dei nostri tempi. Nel suo nome vi è la radice della parola thesmos, il termine greco che sta per istituzione. Egli è l’artefice del sinecismo (synoikismos, abitare insieme) cioè dell’unificazione politica
dell’ Attica sotto la guida di Atene. Teseo è dunque il re fondatore della città e unificatore delle genti. Le vittorie che egli riporta a seguito delle sue imprese simboleggiano altrettante vittorie su avversari che rappresentano antiche religioni e culture più matricentriche rispetto a quelle della greca Atene. Per punire Teseo, Poseidone manda un forte vento che strappa le vele bianche che l’ateniese aveva montato alla sua nave in segno di vittoria. Teseo deve, dunque, montare le vele nere. Il padre Egeo, che lo vede arrivare da lontano, vedendo issate le vele nere, interpreta che il figlio è morto e si getta nel mare che prenderà il suo nome: Mar Egeo. Teseo torna ad Atene e diviene re prendendo il posto del padre Egeo. Realizza il sinecismo, riunificando in una sola città gli abitanti fino ad allora disseminati nelle campagne e creando uno stato di cui Atene sarà a capo. Egli istaura un governo democratico al cui modello si richiamerà l’Atene classica. Teseo è a tutti gli effetti la rappresentazione di un archetipo fondamentale che fa da base al pensiero e alla società moderna. Mi viene da sorridere mentre penso a quanto Teseo rappresenti molti politici moderni. Le difficoltà di Teseo con le donne e con gli affetti non avranno mai fine. Sua moglie, Fedra, s’innamorerà di Ippolito, figlio che Teseo aveva avuto con Ippolita. Ippolito respingerà Fedra la quale si ucciderà impiccandosi, ma prima manderà un messaggio a Teseo in cui dichiarerà di essersi uccisa perché Ippolito ha tentato di stuprarla. Teseo le crederà e rivolgerà contro il figlio una maledizione che si avvererà. Così un mostro marino terrorizzerà i cavalli del carro di Ippolito che verrà travolto e ucciso. Secondo un’altra versione del mito, Fedra dirà a Teseo di essere stata stuprata da Ippolito. Teseo, infuriato, ucciderà il figlio con le proprie mani e Fedra si ucciderà poco dopo, vinta dal rimorso. Teseo è l’uomo di potere che non possiede la visione profonda della psiche e, in quanto tale, egli incarna perfettamente il dramma della nostra cultura in virtù del quale sapere e potere non si trovano mai uniti. È vero che nella cultura a volte vi è un certo sapere del potere, ma si tratta di un sapere tecnico, finalizzato al potere, è un sapere applicativo e non cognitivo. Dall’altra parte chi persegue la conoscenza non comanda: il suo impegno intellettivo è rivolto allo sviluppo della visione e alla ricerca, alla comprensione. Il germano femmina improvvisamente si alza in volo come se qualcosa l’avesse spaventata nel suo sonno, sembra in fuga da qualcosa. Il germano
maschio la guarda per un po’ volare a filo del ghiaccio in direzione della brughiera, poi si butta al suo inseguimento. Li perdo di vista quando ancora sento lei starnazzare. I miti sono tutti uniti gli uni agli altri al punto che non puoi pensare a un mito senza che il ricordo di un altro affiori immediatamente. Arianna mi porta alla mente la vicenda che lega Prometeo e Zeus in un antagonismo eterno, archetipi immaginali del sapere il primo e del potere il secondo. Il mito è la trama della nostra cultura. Conoscendolo e solo conoscendolo possiamo deprogrammare, cambiare il racconto e risvegliarci dal sogno, a volte all’improvviso, come è successo al germano, e volare. Zeus e Prometeo
Cara Eva, mi viene da pensare quanto sia importante per noi donne la consapevolezza degli archetipi descritti nel mito di Arianna. Adesso sono a casa e sto cerando tra i miei libri un testo di Giulio Maria Chiodi che riporta una straordinaria interpretazione del mito di Prometeo con la quale l’autore descrive molto chiaramente la questione dell’inconciliabilità di potere e sapere nella nostra cultura. Giulio Maria Chiodi è un grande studioso dell’immaginale, era presente con me e Hillman alla cena di quella sera, a base di carne di cinghiale. Giulio è un personaggio straordinario, uno di quegli uomini che, come si dice, bisognerebbe inventare se non esistessero. Ha i capelli bianchi, indossa sempre un papillon e parla con voce dolce, discreta, incarna l’archetipo dello studioso. Credo di aver messo i suoi libri vicino a quelli di Raimon Panikkar, nello scaffale del corridoio. Prometeo è il titano che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e viene per questo punito da Zeus, il quale ordina che Prometeo sia incatenato sulla rupe più alta del Caucaso, dove un’aquila gli divorerà in eterno il fegato che gli ricrescerà di notte. Tremila anni dopo la condanna, Eracle ucciderà l’aquila e libererà Prometeo. Ecco, ho trovato il volume di Giulio Maria Chiodi Propedeutica alla simbolica politica33 e l’ho tutto sottolineato e riempito di note. Giulio descrive il mito di Prometeo da p. 55 a p. 57. La vicenda raccontata dal mito, il rifiuto di Prometeo di piegarsi alla volontà di Zeus, evoca paradigmaticamente una questione che noi
definiremmo di principio: l’indipendenza del sapere dal potere. Chi ha il potere non ha il sapere e chi ha il sapere non ha il potere. Per questo motivo potere e sapere non si trovano mai concordi. Il potere (Zeus), quindi, incatena il sapere (Prometeo), impedendogli di agire indipendentemente, ma il sapere (Prometeo) non avrà alcun cedimento nel mantenere la propria indipendenza. Il potere (Zeus) infligge al sapere (Prometeo) un dolore perpetuo, insopprimibile, la ferita lacerante provocata dal rapace, la quale continua a sanguinare senza mai rimarginare. È il simbolo della sofferenza che il sapere porta sempre dentro di sé come prezzo della sua indipendenza e insieme della sua impotenza. Il potere, da parte sua, vive roso dal sospetto e dalla perenne paura di esser tradito, se non addirittura completamente esautorato. Il rapporto Zeus-Prometeo ci offre il paradigma simbolico di quanto tuttora si verifica ancora negli ordinamenti collettivi. L’inconciliabilità tra potere e sapere, come messa in risalto del paradigma mitico greco ora citato, è frutto di una concezione non sacrale degli ordinamenti. In un ordinamento sacrale, che è mitico-rivelativo, il potere e il sapere sono tra loro conciliati, fin dall’inizio, perché non ci sono nemmeno le premesse di un loro contrasto. Quella sera a Campione d’Italia ho compreso il significato rituale del mangiar carne, poi sono tornata alla mia alimentazione abituale, che esclude la carne e i prodotti di derivazione animale, a parte il pesce. Depongo il libro e guardo fuori dalla grande finestra in stile vittoriano del mio appartamento. Da qui ho una vista aperta sulle Pentland, le colline che delimitano a sud-ovest la città di Edimburgo. Sta piovendo e c’è il sole, in casa fa freddo, dovrei alzare il termostato dei termosifoni. Sono seduta sul tappeto, un raggio di luce che entra attraverso i vetri mi scalda i piedi. 1
James Hillman, La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano, 1991, p. 98.
2
James Hillman, Il Potere, Rizzoli, Milano, 2002, p. 275.
3
James Hillman, Il Potere, cit., p. 35.
4
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, Adelphi, Milano, 2003, p. 87, 88.
5
James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, p. 21.
6
Keith Dowman, La Danzatrice del Cielo, la vita segreta e i canti di Yeshe Tsogyel, Ubaldini, Roma, 1985. 7
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 84.
8
Vita di Milarepa, a cura di Jacques Bacot, Adelphi, Milano, 1991.
9
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 75.
10
Ivi, p. 71.
11
Ivi, p. 44, 45.
12
James Hillman, Il codice dell’anima, cit., p. 22, 23, 24.
13
James Hillman, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano, 1983, p.108.
14
James Hillman, Il Potere, cit., p. 29.
15
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 85.
16
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 131.
17
Rg Veda, X, Atarva Veda, XI, Taittiriya Brahmana, III.
18
Si veda in proposito Wendy Doniger, Siva, l’asceta erotico, Adelphi, Milano, 1997, p. 65.
19
Si veda in proposito Raimon Panikkar, Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano, 2000.
20
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 88.
21
Ivi, p. 16.
22
Ibidem.
23
James Hillman, “La buona terra: immaginale o letterale?”, in Quaderni di Mantra 1, 2003,
Edizioni Holos International, Melide, Svizzera. 24
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 16.
25
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1976, p. 203.
26
Keith Dowman, La Danzatrice del Cielo, cit., p. 150.
27
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 48.
28
Ivi, p. 62.
29
Ivi, p. 84.
30
Ivi, p. 85.
31
Ivi, p. 156.
32
Ivi, p. 85.
33
Giulio Maria Chiodi, Propedeutica alla simbolica politica, Franco Angeli, Milano, 2006.
2. Il viaggio nella morte La luna e la progenie della notte
Le previsioni del tempo dicono che avremo ancora una settimana di freddo intenso e poi le temperature si alzeranno. Il ghiaccio che ricopre il canale si scioglierà, i boccioli delle primule spunteranno tra l’erba e io perderò l’immagine di ghiaccio del maestro, perderò un legame con lui, poiché esiste un nesso antichissimo tra la dimensione della freddezza e l’anima1. Ma all’intensificarsi della sua assenza e della sua invisibilità lo sentirò ancora più presente di prima. L’anima si nutre di vuoti, di perdite e scoperte, di lontananze e di invisibilità. “Hai una missione”, mi disse in auto James Hillman un giorno in cui lo stavo accompagnando all’aeroporto di Malpensa. “Che cosa?”, chiesi io, presa di sorpresa. “Hai una missione, si legge persino nel tuo nome”, mi spiegò lui in tono paziente. Selene è l’antico nome della luna, l’astro che ciclicamente ci racconta l’invisibilità e l’assenza, nascondendosi e rivelandosi, come se ogni volta morisse e rinascesse. La luna è la notte, l’eterno femmineo, il mondo infero, è l’istinto e molto più giù è il ghiaccio che sta nelle profondità dell’oltretomba, è il sogno, la dimora degli avi, la psiche che muove le acque, la magia dell’anima. Nel mito Selene, innamorata di Endimione, lo sprofonda in un sonno eterno per poterlo andare a trovare ogni notte. La luna utilizza la progenie della notte, il sonno, il freddo, i sogni, il buio, i morti, l’immobilità, il silenzio, per creare. Selene Calloni è il nome che mi hanno dato, Williams è il nome che mi sono data lungo il percorso di esperienze nell’ambito dello yoga sciamanico a cui mi ha iniziato il maestro Michael Williams. Durante il rito della Chakra Puja, a Guahati, in Assam, mi fu detto che la conoscenza del maestro era in me e io potevo prendere, se lo volevo, il suo nome, essendo ormai trascorsi più di dodici anni da che il maestro aveva lasciato il corpo. Ho dovuto attendere ancora qualche anno prima di avere il coraggio di usare questo nome, tanto lo ritengo simbolicamente importante. Williams è per me il nome dell’assenza, di colui che non c’è, della lontananza, dell’amore che non può più sciuparsi, svilirsi, diminuire, poiché è salvaguardato nel ghiaccio dalla morte dentro il quale, tutt’altro che finito o
inerme, l’amore ancora cresce, come un fuoco sacro che arde nel buio ed è alimentato dal vuoto. L’anima è assenza poiché è amore e l’amore è morte poiché è darsi. L’anima è il fuoco del Tapas e del Dumo che arde tra i due amanti. Nel processo del fare anima, la psicopompia, la conoscenza della morte assume un ruolo centrale. Prima che il ghiaccio si sciolga e le primule sboccino nell’erba ho altre favole da raccontarti, cara donna del futuro, al cospetto dell’immagine del vecchio, che è il mio focolare nel ghiaccio. Così torno sul canale, ma questa volta non di primo mattino, quando si vede il fumo uscire dalla bocca e gli animaletti del canale prendono a muoversi, anche se un po’ intontiti dal freddo. Torno sul canale a un’ora tarda della sera, quando la passeggiata è deserta. Il paesaggio è straordinario: le lucette interrate lungo il percorso che costeggia il canale si perdono nel buio, il ghiaccio appare come un manto nero, vellutato. In lontananza, dalla strada che è sopraelevata rispetto al canale, a tratti arrivano i fasci di luce proiettati dai fari delle auto, ma passano ben al di sopra del canale e non lo toccano, illuminano l’aria mettendo in evidenza uno strato di nebbia argentata. Il dislivello tra la strada e il canale mi fa pensare ai vari livelli con i quali Hillman descrive l’immagine della terra. Quando si parla di “terra” le distinzioni da fare sono addirittura tre. La prima distinzione è tra la pianura verde, orizzontale di Demetra, con tutte le sue attività preposte alla crescita, e Gea, che è la terra al di sotto di Demetra. Questo secondo livello, Gea, può essere immaginato come il terreno fisico e psichico di un individuo o di una collettività, il loro “posto sulla terra”, con i relativi diritti naturali, riti e leggi [...]. Poi, al di sotto di questi due livelli, abbiamo il terzo, chthon, il profondo mondo dei morti. Demetra-Gea-Cton rimanda a una terra non fisica, o terre pure, che è al di sotto o al di là della terra su cui posiamo i piedi e forse, anche, viene prima2. Così socchiudo gli occhi nella notte, come mi ha insegnato Ghata Thera nella giungla: guarda attraverso gli occhi socchiusi, senza mettere a fuoco le immagini, come volessi vedere oltre tutto ciò che vedi e medita camminando con la sensazione di allontanarti da tutte le interpretazioni e i valori comuni del mondo.
Procedo lungo il canale come camminassi nella dimensione ctonia della terra, nel mondo infero, nel regno dei morti che sento contemporaneo alla vita, ricco e creativo. Le tre dimensioni della terra sono dentro l’una nell’altra e il fatto che una prevalga sull’altra ai nostri occhi è solo questione della prospettiva dalla quale scegliamo di vedere. Dopo aver attraversato lo stretto budello del ponte, mi sembra di distinguere delle ombre familiari. Non vedo più i cespugli e gli alberi, ma un’ombra femminile che si muove sinuosamente; mi ricorda Arianna, oppure sei tu, Eva? Ci sono le ombre dei miei avi al posto della brughiera e c’è il vecchio seduto dietro a un grande tavolo. Sono nel mondo infero, è questa la faccia nascosta della luna e della natura. Passo una serata magnifica e mentre mi volto per tornare a casa, la luna quasi piena fa mostra di sé all’improvviso. Il mondo infero si anima nella luce fredda dell’astro della notte. Vedo un’ombra danzare e mi pare vestita come una regina, di colpo mi sembra mia madre, che amava molto danzare, ma so che in questo mondo l’Io è assente, non ci sono persone, solo immagini senza una storia personale, archetipi eterni. Mi volto e per guardare meglio l’ombra apro gli occhi completamente, allora l’ombra svanisce. Rido e ritorno a socchiudere gli occhi, come mi ha insegnato il maestro. Sì, sì, era mia madre, non ho più dubbi. Guidami, Eva, nella notte, adesso sono pronta ad affidarmi completamente. La Madre
Questa mattina, lungo il canale, la luce del mattino non è ancora arrivata del tutto, la bella cattedrale di Polwarth ha le luci ancora accese. C’è un vento fortissimo e caldo che arriva dal mare. A causa del vento, molte scuole hanno chiuso a mezzogiorno e molti uffici hanno chiuso, ma io non lo so ancora. L’allarme è già circolato in tutta la città: “Extreme Weather”, ma io non so ancora nulla. Questo può succedere quando ti svegli prima di tutti gli altri! Il vento è così forte che non riesco a procedere, come vi fosse un muro da spingere di fronte a me e quasi non riesco a respirare. Il marciapiede lungo il canale è deserto, dei pochi corridori che solitamente incrocio al mattino nemmeno l’ombra. Mi dico: “Torna a casa!”. Ma non voglio venire meno alla
mia abitudine mattutina e voglio correre lungo il percorso e nella direzione nella quale corro tutte le mattine, che importa se è controvento! Poi vedo che il vento ha raccolto tutta la plastica e la sporcizia, che il giorno prima galleggiava sul canale, in una piccola ansa e l’acqua del canale corre veloce, trasportata dal vento, anche dove, a causa della sporcizia, il giorno prima vi era una parziale ostruzione. Allora capisco che, come ha aiutato il canale, il vento può aiutare anche me e, stravolgendo le mie abitudini, mi volto e corro nella direzione opposta, verso il centro città. Il vento mi spinge: VOLO! La mia mente mi dice: “Sì, ma dovrai anche tornare indietro”, però è così bello volare nel vento che non posso darle retta, per fortuna! Sì, per fortuna, perché il vento cambia direzione proprio nel momento in cui devo ritornare e continuo a volare. Adesso le luci della cattedrale di Polwarth sono spente, il sole illumina gli alberi e le gocce d’acqua risplendono sui rami. “È questo il mondo che voglio!”, mi dico. “Voglio un mondo in cui la natura possa trionfare!”. Ma quale natura? Non la natura intesa come oggetto materiale, la Tellas dei romani, non la natura intesa come principio monistico, non la natura come Grande Madre, ma la Grande Madre come immagine complessa, come frattale dell’anima, come amore. Sarebbe ormai ora di rientrare, ma oggi volevo raggiungere la boscaglia e non l’ho fatto, ho corso in direzione opposta. Mi soffermo un po’ a pensare guardando il riflesso della cattedrale nell’acqua, mi soffio il naso e poi, visto che la direzione del vento è ancora a mio favore, decido di proseguire verso la brughiera. Sul marciapiede lungo il canale continua a non esserci presenza umana, anche se si è ormai fatta l’ora in cui la gente esce di casa per andare a scuola e al lavoro, in compenso ci sono molti rami divelti e sacchetti di plastica e altri oggetti che le raffiche del vento sollevano a tratti, improvvisamente. Qualcosa mi dice che è pericoloso proseguire, ma qualcos’altro non dà retta. La sensazione del vento che a momenti mi spinge è troppo bella per lasciare spazio alla prudenza. Schivo una fronda che si piega e, nell’abbassare la testa, scorgo un gabbiano nell’erba mezzo coperto da un ramo. Forse non se la sente di volare in quel vento, forse è ferito. Mi avvicino, lui tenta di fare qualche passo indietro ma barcolla, poi chiude gli occhi, come arreso. Capisco le sue condizioni. Come vivono la morte gli animali? Mi chiedo, rendendomi immediatamente conto dell’assurdità della mia domanda. L’uomo umanizza la natura e umanizzare, fin tanto che l’individuo è
preso dal malefico incantesimo del materialismo, significa riportare tutto all’individualità. Senza accorgermene ho di nuovo raggiunto la brughiera. Mi siedo vicino al ghiaccio mentre il vento fischia forte nelle mie orecchie. Il riflesso del vecchio compare quasi subito. Non ci sono né germani, né folaghe, né cigni oggi, staranno da qualche parte al riparo dal vento. Al cospetto del volto del vecchio mi viene alla mente il ricordo di un ragazzo che ho recentemente conosciuto nel parco del Golestan, nel nord dell’Iran. John è un iraniano, cresciuto ed educato in California. All’età di quarantatré anni ha deciso di tornare in Iran e di recarsi nel parco del Golestan per dare il via a un’impresa di ecoturismo. Ha edificato un piccolo albergo rispettando lo stile naturale delle case dei villaggi che circondano il parco nazionale. Ha costruito utilizzando materiali naturali e la riuscita è straordinaria. Attraverso la sua impresa vuole portare denaro nell’area e sensibilizzare i locali sull’importanza di salvaguardare la foresta e gli animali che la popolano. Le persone che incominciano a guadagnare grazie al turismo, secondo lui, dovrebbero abbandonare l’idea di tagliare alberi o di uccidere animali selvaggi potenzialmente pericolosi per il loro bestiame. Quando ho conosciuto John presso il suo agriturismo l’ho ammirato molto. È una persona straordinariamente attiva che crede molto in ciò che fa. Tiene anche corsi di pittura ai bambini dei villaggi per sensibilizzarli sull’emergenza ecologica. Il suo grande sogno è salvare i 21 leopardi che a oggi ancora popolano la foresta del Golestan. Sono stata benissimo nei giorni in cui ero ospite nel suo ecoturismo e lui mi ha accompagnata in straordinarie escursioni nella foresta, pur tuttavia percepivo in me una tristezza, come una melanconia nascosta che non mi lasciava mai. D’un tratto sento che l’immagine del vecchio sta richiamando in me i ricordi del Golestan proprio perché vuole parlarmi di quella melanconia, c’è qualcosa di abissalmente importante in quel sentimento, devo ascoltare... Per prima cosa il vecchio mi richiama potentemente al bisogno di depersonalizzare, la necessità di vedere oltre i 21 leopardi del Golestan e di cogliere l’immagine del leopardo che sta transitando dal nostro mondo al mondo sotterraneo. È un pezzo significativamente importante dell’anima selvaggia del mondo che sta sprofondando nella dimensione ctonia della terra. Potremo mai riuscire a salvare i 21 leopardi del parco del Golestan, nel nord dell’Iran, o quelli di qualsiasi altro parco nel mondo, se non riusciamo a trattenere l’immagine del leopardo, ovvero il Leopardo archetipico? La mia
melanconia nell’ecoturismo di John era già la risposta a questa domanda. L’impresa è nobile ma ardua se non avviene in cooperazione con l’“anima del mondo”. Sentire l’anima del mondo ed esprimersi in armonia con essa è ciò a cui possiamo dare il nome di “ecologia profonda”. Contemplando l’immagine del vecchio, trovo la forza di stare con tutti gli altri leopardi, quelli che non ci sono più, i grandi assenti, i morti che abitano la casa di Ade. Separandomi dal senso dell’Io e dalla sua presunzione di essere l’artefice di ogni accadimento, chiedo ai leopardi perché hanno scelto la dimora di Ade e provo a vedere le cose con gli occhi di chi è al di là della Grande Soglia, nel mondo infero. Non c’è risposta, ma solo un richiamo tremendo e fortissimo; lo stesso che proviene dal ghiaccio che ho di fronte. La Madre ci sta chiamando all’esperienza ctonia, che è l’esperienza dell’amore. Cara Eva, dammi la mano, saltiamo nel ghiaccio, sprofondiamo giù, sotto, sempre più sotto. I leopardi ci stanno chiamando all’anima selvaggia, alla dimensione perduta, al sacro. Seguiamoli! Seguiamo i leopardi che non ci sono più, quelli che hanno abbandonato questo mondo, essi sono le nostre guide, gli psicopompi, i traghettatori che ci riportano all’anima. Ritroviamo l’anima e allora ritorneremo con un ruggito incontenibile e con la forza di dissolvere l’inganno del materialismo che si stende sopra la terra come velo dell’inganno, del sonno, dell’ipnosi che trascina le coscienze. L’Io non può salvare i leopardi, l’Io li ha condannati. Dobbiamo innanzitutto ritrovare l’anima. Continuamente schiere di animali lasciano questo mondo, intere specie scompaiono, seguiamoli, proprio come Alice ha seguito il coniglio bianco. Dove vanno e perché vanno? Non c’è un altrove, altrove è qua, Cton e Demetra e Gea sono dentro l’una nell’altra. Queste schiere di animali transitano dal mondo dell’oggettività materiale a quello dell’invisibilità, delle ombre, dell’anima. Ma non è questo un potente richiamo ad abbandonare il senso dell’oggettività delle cose, a lasciar andare la cieca credenza nel materialismo, a risvegliarci dall’ipnotismo della personalizzazione, dal culto dell’Io? Dobbiamo compiere il viaggio: ecco il messaggio, lucido, vivido, chiaro, evidente, potente. Dobbiamo cambiare il paradigma del reale. Una grande rivoluzione ci attende, essa non ha nulla a che vedere con le rivoluzioni sociali alle quali siamo abituati, è piuttosto un’avventura della coscienza, la quale, lasciate, per amore dei più deboli, degli animali e della natura morente, le rassicuranti sponde del mondo materiale, accetta di
sprofondare nella dimensione infera, alla ricerca dell’anima che il mondo ha perduto. Si tratta di una potente terapia della cultura, una terapia sciamanica, una “caccia all’anima”, come direbbero gli sciamani guaritori.
Non vedo altro che amore
Questa mattina procedo velocemente verso il canale perché il pensiero che il ghiaccio potrebbe essersi sciolto e lui potrebbe non esserci più è forte nella mia mente. Scendo le scale che dal livello della strada conducono alla passeggiata lungo il canale molto velocemente e poiché i gradini sono ricoperti da un sottile strato di ghiaccio scivolo e cado. Per fortuna riesco ad atterrare abbastanza bene, picchio però una spalla, la destra, contro una sporgenza della ringhiera provando un dolore così forte che mi toglie il respiro per qualche secondo. Mi riprendo e con il braccio sinistro scuoto dai vestiti i frammenti di ghiaccio che ho raccolto scivolando sui gradini. La spalla destra mi fa un po’ male ma, tutto sommato, poteva andarmi peggio. Accendo l’iPod e inizio a correre. Freddy Mercury canta la sua Too much love may kill you, “Troppo amore può ucciderti”. Freddy Mercury è il nome d’arte di Farrokh Bulsara, e non è un nome qualsiasi. Freddy era veramente pervaso dalla presenza di Mercurio, il dio della fama e della poesia, il messaggero di Ade. Mi chiedo se la musica di Freddy Mercury arriverà fino a te, donna del futuro, ma so perfettamente che tu sei già qui con me e io sarò con te nel tempo che verrà, perciò sorrido per la mia domanda. Attraverso la strettoia sopra al ponte della ferrovia e raggiungo i due boscaioli sulle note di vecchie canzoni dei Queen. Mi sembra di andare molto veloce questa mattina e di non fare alcuna fatica, guardando il castello in lontananza alla mia destra e il susseguirsi del paesaggio, mi sembra di essere a bordo di un veicolo in movimento, un’automobile silenziosa e invisibile. Ma presto capisco che la sensazione di non fare fatica è dovuta al dolore alla spalla che sta crescendo e sta assorbendo le mie percezioni senza lasciare più spazio ad altre. Mi siedo sulla sponda del canale tenendo il braccio destro con la mano sinistra. Il dolore, infatti, non solo è cresciuto ma si è esteso prendendo anche
il braccio. Incomincio a preoccuparmi un po’ per ciò che potrebbe essere successo alla mia spalla. Osservando molte crepe nel ghiaccio, assai più numerose del solito, continuo a pensare che tra breve il ghiaccio si scioglierà e che lui non verrà più. Allungo il braccio sinistro stringendo il destro dolorante al corpo, mi protendo in avanti e accarezzo il ghiaccio con la punta delle dita. Lui appare immediatamente e mi ritrovo con i polpastrelli sulla sua guancia. Ritiro la mano per paura che un oggetto così denso, pesante, materiale come la mia mano possa sciupare il riflesso di lui che è invisibile, assente, lontano. L’attimo seguente il ghiaccio si spacca proprio nel punto in cui erano le mie dita; una frattura multipla che si irradia in molte fessure concentriche. La sua guancia appare scavata, corrosa, come mangiata. Mi viene il pensiero della decomposizione del corpo dopo la morte. Allora capisco che lui sta indicandomi le mie paure. Applicando gli insegnamenti che ho ricevuto, soffio dolcemente e profondamente attraverso la bocca spingendo il mio espiro dentro le crepe nel ghiaccio: un altro respiro e poi un altro e un altro ancora. Voglio entrare in quella frattura e incontrare Ade, voglio percorrere il sentiero attraverso il quale le paure giungono a me: la paura dei fattori di decomposizione del corpo, la paura di perdere il riflesso di James Hillman, la paura di essermi danneggiata irreversibilmente una spalla, la paura che la mia mano toccando l’invisibile possa sciuparlo... In modo del tutto imprevedibile le mie paure iniziano a presentarsi come sirene che mi richiamano nelle profondità dell’anima. Le paure mie e persino quelle non mie mi guidano, come nocchieri, nella notte. La paura di mia madre che io fossi troppo magra e troppo “nervosa”, la paura di mio fratello di volare, persino la paura del mio cane di camminare sui ponti e quella del mio gatto di avvicinare estranei. Improvvisamente realizzo che le paure sono voci dell’anima, non vanno fuggite, ma bisogna seguirne il richiamo. Allora prendo non solo a evocarle ma anche a ingigantirle ed esse, come fantasmi generosi, come ombre che consentono alla luce di risplendere, mi parlano dell’amore che lega ogni immagine all’altra, ogni respiro all’altro, ogni cosa al proprio opposto. L’immagine del Vajrapani nell’unione erotica con la propria compagna, che è sempre nel mio cuore, si illumina nel buio che regna sotto al ghiaccio, mentre continuo a entrare nelle crepe attraverso i miei lunghi espiri e mediante la forza delle paure che mi conducono. È una danza e posso sentirne la musica. Spengo l’iPod per udire meglio i suoni che provengono dal mondo sotto al mondo. Dove arriverò? Non c’è altro che amore quaggiù, mi sembra che dicano le ombre che
incontro lungo il cammino. “Sì”, fa loro eco la voce del riflesso del vecchio, “presto il ghiaccio si scioglierà, io me ne andrò e ciò accadrà unicamente per amore: ciò che ama svanisce”. Hillman, il ghiaccio, il corpo umano, tutto quello che ha in sé l’amore è ombra, immagine, sogno, vacuità. Quando qualcosa si fa oggetto materiale perde la capacità di amare: gli oggetti concreti sono ombre solidificate a causa della perdita dell’anima. A volte anche gli esseri umani possono perdere la loro anima. In diverse tradizioni sciamaniche del mondo la perdita dell’anima è la ragione per la quale gli individui cadono nel baratro del dolore o della malattia psichica. Quando una persona sofferente si rivolge allo sciamano psicopompo, quest’ultimo compie per essa un rituale cosiddetto di “caccia all’anima” durante il quale egli si reca nel mondo sotto il mondo per riprendere l’anima fuggiasca. “Non c’è che amore là sotto, vero?” chiedo alle acque buie e gelide del canale che mi donano un ricordo. Mi torna alla mente il modo con il quale Hillman mi aveva parlato dei cancelli di Ade quando gli avevo chiesto perché dimentichiamo i sogni. Era evidente che Hillman parlava di qualcosa che amava moltissimo. Secondo lui il sonno ci porta direttamente nella casa di Ade dove si fa anima. I personaggi, i luoghi, gli oggetti che sogniamo, grazie al fatto che li sogniamo, perdono spessore materiale, pesantezza oggettiva per divenire sempre più intensamente ombre ogni volta che li sogniamo, per ritornare sempre più fortemente alla loro natura originaria, che è quella di immagini, archetipi, eidola, dei. L’illusione del materialismo ci pesa addosso ogni giorno tenendoci sotto pressione nelle ore di veglia. Di giorno, i nostri sensi ipnotizzati percepiscono una realtà oggettiva e concreta, il nostro Io è la centralina di questa ipnosi. Ma quando ci addormentiamo l’Io si spegne, il condizionamento cessa, Ade apre i cancelli e ci accoglie nel suo mondo immaginale. Questo il grande regalo che Ade ci fa ogni notte permettendoci di riposare e ristorarci dalle fatiche conseguenti al dover portare sulle spalle il mondo materiale. Ogni notte Ade scioglie per noi il malefico incantesimo dell’Io, ma perché poi, facendoci dimenticare, sembra ritirare i propri doni, chiudendo i cancelli e impedendo che i sogni passino dal sonno alla veglia? Secondo James Hillman questo avviene ancora per amore. Ade non vuole che il nostro Io si impossessi del potere magico dei sogni e lo utilizzi ai fini dei propri obiettivi egoici, asservendo il potere dei sogni agli scopi del mondo materiale. Ade ci vuole liberi. Questo non significa che non dobbiamo ricordare i sogni, né prestare attenzione al materiale onirico che sfugge dai cancelli e ci si ripropone al
risveglio. Dobbiamo semmai avere fiducia in Ade, il che significa fidarsi dell’invisibile e delle ombre. Più comprendiamo l’inganno dell’Io, più svuotiamo la realtà materiale del contenuto di verità e importanza che le abbiamo attribuito, e più possiamo fidarci di Ade. Tanto più ci apriamo ad Ade quanto più possiamo ricordare, e non solo i sogni. Tutti i ricordi, infatti, appartengono ad Ade. Nel Buddhismo theravada, i cui insegnamenti hanno costituito una grande porzione della mia formazione, si fa assai spesso riferimento all’immagine delle vite passate. L’Io, il “grande positivista”, dinnanzi al tema delle vite passate si pone sempre la solita domanda: ci credo o non ci credo? Ma quello delle vite passate non è un concetto nel quale dobbiamo o non dobbiamo credere. Le vite passate sono una possibilità dell’immaginale, un’occasione per fare anima, per scendere nel mondo infero dell’invisibile, nella casa di Ade, nella dimensione dell’invisibile. Chi pratica la meditazione è generalmente più propenso a ricordare poiché la meditazione spegne l’Io e risveglia dall’ipnotismo dell’oggettività. La meditazione, come il Buddha Sakyamuni l’ha insegnata, ci porta nella casa di Ade, come ogni rito sacro. Chi medita entra in contatto con una dimensione dell’immaginale dove risiedono immagini non identificabili con le conoscenze accumulate nella vita presente, immagini che paiono proprio reminiscenze di vite passate. Ora, queste reminiscenze parlano dell’anima della persona che le vede, e svelano importanti aspetti della sua vocazione, della sua missione, del significato profondo delle sue esperienze, spesso addirittura aiutano a risvegliare le energie per adempiere a quella missione. Perché rigettarle? L’Io, questo erculeo sostenitore del mondo materiale, per poter utilizzare un’immagine ha bisogno di credere che tale immagine sia appartenuta al mondo concreto o vi possa appartenere in futuro o possa almeno avere con esso un qualche legame, come egli crede che abbiano i sogni. Le immagini delle vite passate, a cui possiamo avere accesso grazie al fatto che pratichiamo una disciplina meditativa o un percorso di psicologia del profondo, non solo non hanno un legame con il mondo materiale ma, nella misura in cui ci aiutano a fare anima, lo smantellano. L’immaginale, in qualsiasi forma si presenti, suscita il mio interesse. L’importante è avere sempre ben presente la differenza tra immaginazione e immaginale, sembra dirmi il riflesso del vecchio mentre ritorno in superficie cessando di respirare profondamente e mi accorgo che un pezzo della sua
guancia si è staccato dal viso, in corrispondenza della frattura nel ghiaccio. Immaginare è un’attività dell’Io che si proietta nel tempo e nello spazio. L’immaginale è il mondo dell’anima, la casa di Ade, la psiche nelle proprie lucide apparizioni, vivide, eppure prive di sostanza: immaginali, appunto. La psiche immaginale è l’anima. Essa non è né la psiche conscia né quella inconscia, ma è la soglia liminale tra il conscio e l’inconscio. Essa non è né vita né morte, come comunemente le conosciamo, ma è la morte resuscitata e riunificata alla vita. Le danza delle immagini
Un’improvvisa ondata di vento caldo che proviene dal mare m’investe non appena apro la finestra. Il vento mi dice che il ghiaccio è sciolto e il riflesso del vecchio se ne è andato. Mi vesto lentamente, sono un po’ assonnata e mi chiedo come sarà il canale senza il ghiaccio. Edimburgo è un luogo climaticamente incredibile, il tempo è così mutevole che si dice: se il tempo che fa non ti piace, aspetta venti minuti e cambierà. Esco di casa sotto un cielo sereno, in un vento caldo e prima ancora di aver raggiunto il canale mi ritrovo sotto la pioggia. Tiro il cappuccio della felpa sulla testa e indosso i guanti (per fortuna li ho dimenticati nella tasca dei pantaloni!). Non faccio in tempo a scendere tutti i gradini che portano al canale che vedo chiaramente che non c’è più ghiaccio sull’acqua. Un cane mi si avvicina, mi pare lo stesso cane nero che avevo incontrato nella brughiera quel giorno in cui il poliziotto non mi aveva fatta passare. Mi annusa, io incomincio a correre e il cane mi segue. Mi guardo in giro ma non c’è anima viva, nessuno chiama il cane nero e lui continua a correre a pochi centimetri da me. Decido di prendere l’avvenimento con positività e mi dico che, forse, gli sono simpatica, che magari è stato abbandonato ed è in cerca di qualcuno che si prenda cura di lui. Se mi seguirà per tutto il mio tragitto di corsa e poi fino a casa lo adotterò, mi dico. Sotto la poggia vedo a fatica, devo tenere gli occhi bassi. Una famiglia di germani mi taglia la strada all’improvviso, si tuffano nell’acqua del canale starnazzando. Ora che il ghiaccio si è sciolto il canale si riempirà di animaletti. Corro più lentamente del solito. C’è qualcosa in me che non vorrebbe neppure farmi procedere, questa parte di me ha paura del
cambiamento, non vuole arrivare all’altezza della brughiera per prendere atto del fatto che il riflesso del vecchio si è sciolto insieme al ghiaccio. Cerco di distrarmi dalla mia mente e metto tutta l’attenzione nelle mie gambe. Sono abituata al Chankamana, la meditazione camminata, e questo mi facilita molto. Il movimento delle gambe assorbe tutta la mia attenzione e la mente si svuota in pochi istanti. In breve vedo il mio scheletro; prima quello delle caviglie, poi tutte le ossa dei piedi, poi l’osso pubico, il bacino e di seguito verso l’alto, la colonna vertebrale, vertebra per vertebra, il cranio. Sono uno scheletro che corre e cos’è questo scheletro, mi chiedo: terra, acqua, fuoco, aria, mi dico: è tutto ciò che esiste. Un ciclista mi sorride da sotto il cappuccio della sua giacca impermeabile. Chissà che cosa ha visto, mi chiedo? Il cane nero non desiste, ha schivato la bicicletta per un soffio ed è di nuovo incollato alle mie gambe. Ecco il ponte stretto e, poco più sotto, un po’ spostato verso destra, il ponte della ferrovia sul quale corre un treno proprio in questo istante. Sono treni silenziosi quelli che passano di qui, nella pioggia mi sembra un’ombra, un fantasma che galleggia nell’aria. L’attimo dopo che il treno è passato il tempo cambia ancora. Smette repentinamente di piovere e il vento caldo riprende a soffiare. Mi tolgo il cappuccio, mi sfilo i guanti e mi fermo un momento per asciugare gli occhiali con il fazzoletto. Mi accorgo che i rami di un vecchio albero creano sopra di me l’immagine di un grande ombrello, mi sento protetta, anzi di più: abbracciata. Mi rimetto gli occhiali e riprendo a correre guardando dritto davanti a me all’altezza dei miei occhi, a circa sei metri di distanza, tenendo lo sguardo fisso, gli occhi socchiusi, e vedendo oltre ciò che gli occhi guardano, come Ghata Thera mi ha insegnato a fare durante il Chankamana. Ho la percezione di molte immagini bellissime che si uniscono e si separano, si interpenetrano e si dividono: gli alberi, i cespugli, il canale, l’erba, i primi fiori, una coppia di cigni e una di germani, un piccione, due gabbiani... Arrivo al punto dove il ghiaccio mi rimandava l’immagine del vecchio. L’acqua è piena di fili d’erba, rametti portati dal vento caldo e di minuscole onde. Non riesco a sentire la mancanza del vecchio, c’è il cane nero al mio fianco, si è fermato e si è seduto a dieci centimetri da me, mi viene da ridere. C’è qualcosa dentro di me che sembra delusa dal fatto che non vi sia dispiacere o stizza nella mia mente: è certo quel calcolatore dell’Io che subisce uno smacco.
Mi concedo il permesso di accarezzare il cane, anche se so che, così facendo, rischio di firmare la sua adozione. Poi mi guardo intorno, tra i rami degli alberi agitati dal vento, tra le nuvole che corrono veloci nel cielo, tra i gabbiani che volano e i cigni che nuotano non vedo che Bellezza ovunque. La Bellezza è la legge delle immagini. Tutto quello che vedo è immagine, il senso dell’oggetto si è perso, svanito, come lavato via dalla pioggia. La natura è una danza di immagini ispirata dalla Bellezza, immagini che appaiono e scompaiono continuamente e si ripetono all’infinito come frattali, non c’è più alcun oggetto concreto, solo tante immagini di un quadro nel quale ci sono anch’io e il cane nero. Non esiste un fuori dal quadro perché ogni punto del quadro, come un frattale, si ripete all’infinito. Non c’è una mano che dipinge, l’immagine si genera da sé per il bisogno della propria bellezza di esprimersi. Le immagini sono eidola, dei. Fisso le sottili increspature della superficie dell’acqua e i ricordi mi riportano in una meravigliosa grotta della Croazia dove ero stata circa due anni prima. Un uomo molto anziano sta all’entrata della grotta per accompagnarvi i visitatori, si chiama Lovro. La grotta si estende all’interno di una montagna che sorge a picco sul mare: è un luogo stupendo. All’interno della grotta stalattiti e stalagmiti disegnano molteplici forme. Lovro con pazienza mostra a tutti le forme più eclatanti: ecco, vedi, ti dice, illuminando con la sua torcia un antro prima invisibile, là puoi vedere la Madonna con il bambino e laggiù addirittura vedi tutto il presepe: la stella cometa, il bue e l’asinello, la mangiatoia... lo vedi, lo vedi? Devi andare in quella grotta, Eva, se ancora ci sarà ai tuoi giorni, ma spero proprio di sì. Dobbiamo riportare le immagini dentro la grotta, mi dico, restituirle alla Madre. Il nostro Io è un ladro di immagini, si è appropriato di cose che appartengono solo a se stesse. Questo appropriamento, questo ratto ci ha fatto precipitare nel materialismo. Le immagini sono diventate oggetti concreti e tutto si è fatto così pesante, faticoso, difficile. Le immagini provano piacere nello svanire, poiché la Bellezza è impermanenza. Non c’è Bellezza nella fissità, dove non c’è possibilità di darsi. Ma l’Io che ha sottratto le immagini alla grotta e si è illuso che siano sue soffre quando le immagini si dissolvono. L’Io ha costruito una storia delle immagini, mentre non esiste proprio nessuna storia perché il tempo è l’illusione che l’Io ha creato per contenere le immagini. Il tempo è la prigione delle immagini.
Mi viene alla mente un altro ricordo che mi porta in un’altra parte del mondo, a Pagan in Myanmar. Nella suggestiva piana di Pagan, tra le rovine di centinaia di stupa, vi è la prigione dei Nat. I Nat sono i Signori della Natura, dei dell’animismo birmano. I Nat sono stati imprigionati dall’imperatore Anawrata (1014-1077), che ha deciso di fare del Buddhismo la religione ufficiale del proprio impero. Abbiamo messo in prigione gli dei ed essi, come Jung e Hillman ebbero a sottolineare in molti modi, sono diventati malattie e sofferenze. Mai come ora mi sembra di comprendere Hillman e la sua potente intuizione che più volte egli ripete nei suoi testi secondo la quale le immagini provano piacere a svanire. Quando le immagini si dissolvono, l’inganno dell’Io che crede che le immagini gli appartengano ne produce tutta la sofferenza. Bisogna insegnare all’Io a divenire immaginale. L’Io immaginale si costruisce assoggettando l’Io ordinario al sogno, dissolvendolo nel sogno, mostrando come tutto quello che esso fa, prova e dice rifletta il suo essere situato nell’immagine, mostrando cioè che questo Io è totalmente immaginale3. Siamo immagini, non storie. Il concetto di storia personale ci situa nel tempo, dentro la prigione, la visione dell’immagine, legata a una storia universale o mito, ci libera. Ogni nostro attimo è unico ed eterno, è un punto in un frattale che si ripete all’infinito. Le storie personali hanno un inizio e una fine, l’immagine, proprio come il punto infinitamente piccolo del frattale, e come il mito, è eterna per la sua capacità di svanire nel tutto. Così comprendo chiaramente che il riflesso del vecchio non è finito con lo sciogliersi del ghiaccio, ma è divenuto parte di un’immagine più vasta e se adesso guardo molto attentamente dentro ai rami, ai fili d’erba, al vento o all’acqua la ritrovo. Ciò che appartiene ad Ade è ovunque. Esperienze ed esercizi
Ormai è primavera inoltrata. Il cane nero vive con me ed è cresciuto. L’ho chiamato Lovro. È un giovane meticcio pieno di vitalità. Cerco di andare a correre insieme a lui sul canale ogni mattina perché ci fa bene, ma, ancora più che la corsa, a me fa bene l’esercizio di contemplazione che mi sono assegnata. Ogni mattina, correndo, contemplo la
natura vivendola come immagini danzanti, ripulendola della sensazione del materialismo. Il grande imbroglio che vado svelando è quello della separazione tra morte e vita. Così, osservando un cigno che scivola elegante sull’acqua, se lo vedo “vivo”, non posso evitare di tornare all’inganno del materialismo, ma se lo vedo “vivente” e “morente” contemporaneamente, allora riesco chiaramente a percepirlo come immagine. Il morto non esiste e anche il vivo è un inganno, il vivente e il morente sono i due aspetti che danzano fra loro interpenetrandosi, come lo yin e lo yang: l’uno, il vivente, in transito dalla nascita alla morte e l’altro, il morente, in transito dalla morte alla successiva rinascita. L’oggetto materiale presuppone una sua storia nel tempo: è stato creato in un determinato momento e in un determinato altro istante cesserà di esistere. L’immagine non ha storia, non presuppone un creatore al di fuori di sé, né una fine. Le immagini sono eidola, dei e dee, ci dice giustamente Hillman. L’immagine svanisce, si fa invisibile perché contiene l’invisibilità dentro di sé e poi appare poiché contiene la visibilità dentro di sé. Questo apparire e sparire ha infinite intensità di luce e di ombra, così un’immagine, sebbene eterna, non appare mai uguale a se stessa. Un giorno, forse, vedrò questo cigno morto, mi dico, eppure il cigno che vedo ora non avrà cessato di esistere. Grazie all’ombra che egli porta in sé, questo cigno esiste eternamente nella casa di Ade. Esercitarsi a vedere tutto vivo e morto contemporaneamente, esercitarsi a vedere ogni cosa come immagine di un sogno e creare un Io immaginale: questa è l’esperienza fondamentale ed eccezionale della psicologia immaginale che Hillman ci ha affidato. Al fine di creare un Io immaginale, io ripeto un insegnamento buddhista che Ghata Thera mi ha affidato molti anni or sono e che oggi, alla luce della psicologia di James Hillman, acquista ancora più valore: “Io sono l’eterna non nata, mai creata, mai reale, mai irreale”. Con una parte della mia mente ripeto questa frase incessantemente per tutto il tempo in cui corro nella natura, la chiamo il mantra della vacuità. Passare del tempo nella natura, vedere tutto come immagine priva di storia, simultaneamente viva e morta, come l’immagine di un sogno, e ripetere il mantra della vacuità è diventata la mia pratica quotidiana. Può essere ritenuta un esercizio quotidiano del metodo immaginale che può lavorare sul modello del reale liberandolo dai vincoli culturali, cambiando l’umore, dando forse anche più gioia nell’addormentarsi e permettendo di
sentire gli avi più vicini. Si tratta di praticare l’affinità con Ade per arricchire la vita. Ade, infatti, è Plutone, Πλυτων, il ricco. Il metodo che Hillman ci ha indicato è un sistema che cambia il paradigma del reale. Se molte persone lo praticassero ogni giorno, presto il modello della realtà che sostiene il mondo potrebbe cambiare radicalmente. Vittime del materialismo, eleggiamo al governo esperti di economia, siamo convinti che l’economia sia una questione vitale e lo è, fintanto che il mondo si regge sul paradigma dell’oggettività delle cose, sul modello simbolico patricentrico, dominato dal logos. Ma questa economia, come tutte le cose “concrete”, ha una storia: un inizio e una fine. Cosa ne sarà di noi se, incapaci di cambiare modello del reale, rimarremo inchiodati al paradigma materialistico quando questo si inabisserà? Il rischio di ciò lo stiamo già vivendo ai nostri giorni. Non basta cambiare sistemi economici o leader politici, bisogna trasformare il modello stesso su cui si fonda il senso del reale, spostare l’attenzione dalla materia all’invisibile, dall’economia all’anima. Dobbiamo liberarci della pesantezza dell’oggetto, lasciare che gli eidola, gli dei, le immagini, escano dalla prigione del tempo nella quale l’Io meccanicistico li ha rinchiusi, crearci un Io immaginale e con gli occhi di questo rivedere il nostro mondo. Se tutto ciò ci appare utopistico è perché siamo prigionieri dell’oggettività delle cose, ma le cose sono sogni e per vederle come tali basta pronunciare un “sì, lo voglio” profondo e impeccabile proprio al centro del corpo, senza paure né discriminazioni. Ancora una volta devo uscire dalla nostra cultura cosiddetta occidentale per trovare esperienze esemplificative. Nella nostra società la felicità è un traguardo che è lasciato al singolo individuo e a riguardo si è soliti tenere un atteggiamento fatalista. In altre culture, invece, la felicità è qualcosa che si può insegnare e si può apprendere, essa viene perseguita come un obiettivo collettivo. Il re Jigme Singye Wangchuck, divenuto re del Bhutan nel 1972, proclamò, poco dopo la propria incoronazione, la “Felicità Interna Lorda” o GNH, dalle iniziali dei termini inglesi “Gross National Happiness”, quale filosofia guida del processo di sviluppo dello stato del Bhutan. In un discorso del 21 Giugno 2005 del primo ministro bhutanese Jigmi Y. Thinley si legge: La GNH riconosce che la felicità può essere realizzata come un traguardo sociale, essa non può venire conseguita come obiettivo personale, come fosse
una merce, parimenti non può essere perseguita come uno scopo della competizione individuale. La felicità non può venire distribuita agli individui come una merce o un servizio. Tuttavia essa è troppo importante perché venga lasciata al puro sforzo e alla ricerca individuale, senza un impegno collettivo o di governo. [...] Nelle società comuni, a mezzo dell’apprendimento culturale, dell’educazione, dell’insegnamento psicologico, molti sforzi vengono profusi per far sì che le persone cerchino la libertà partendo da una attitudine che nega loro la felicità. Portare alla luce ciò che assilla l’uomo, scoprire ciò che inganna la sua vera natura e rivelare il suo Sé interiore è un compito assai più elevato che domare la natura e conquistare il mondo esterno. La capacità della visione immaginale è un’acquisizione importante ai fini della realizzazione della sensazione di pienezza e felicità. Lo sviluppo della visione immaginale non può essere lasciato unicamente al singolo, bisogna che le comunità se ne facciano carico e che, a tal fine, esse siano guidate da leader ispirati. L’era degli uomini calcolatori è finita: la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria stanno muovendo verso il mondo infero, che è la loro stessa abissale profondità, stanno dirigendosi verso l’anima. La vecchiaia e la malattia del pianeta sono un richiamo forte al mondo infero, perché l’infermità e la vecchiaia, come i sogni e gli avi, sono le voci dell’anima che chiama dalle profondità dell’Ade. Cuore
Oggi sto correndo più veloce del solito. Sono sbocciati anche i tulipani e le pansè, i colori della natura lungo il canale sono divenuti molto vari. Meraviglia! Sono nati dei cigni. Eccoli, batuffoli grigi, che nuotano cercando di tener dietro alla mamma. Ci sono immagini che possiamo vedere e altre che non possiamo vedere con gli occhi che guardano fuori, mi direbbe Ghata Thera. E in mezzo a tanta bellezza, correndo, mi chiedo che cosa osservano ora i miei occhi che guardano dentro. Vedo il mio cuore che pompa sangue e cerco di entrarvi. Vedo i movimenti dei ventricoli e il sangue che viene risucchiato all’interno e spinto all’esterno. C’è anche un piccolo ritorno, uno sbuffo, so che c’è da molti anni, ma vederlo è un’altra cosa! Nella contemplazione degli oggetti corporei insegnatami da Ghata Thera mi sono allenata a vedere il mio corpo dall’interno, dal basso verso l’alto e
dall’alto verso il basso. Ho passato giorni e notti intere seduta nei pressi della vasca dei fiori di loto, vicino all’albero della bodhi che Ghata Thera aveva piantato quando aveva deciso di fare di quella radura nella foresta delle montagne al centro dello Sri Lanka il suo tempio. In compagnia di Gotatuwe Sumanaloka Thero praticavo la meditazione che Ghata Thera ci aveva insegnato: nell’impeccabile immobilità della postura, portare l’attenzione nel corpo e osservarlo all’interno dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto: radici dei capelli, cranio, cervello e giù fino alle piccole ossa delle dita dei piedi e poi su, dal piede al cervello passando con attenzione per ogni osso, per ogni organo. Questa meditazione apre gli occhi che guardano dentro, mi diceva Ghata Thera, da lì il passo verso l’unione con gli elementi è breve. Essere nel corpo, in quanto aggregazione e disgregazione continua degli elementi primari, è il significato della contemplazione degli oggetti corporei nella tradizione dei monaci eremiti theravada. L’obiettivo di questa meditazione è l’accesso alla rivelazione che proviene, come onde danzanti nel vuoto, dalla terra, dall’acqua, dal fuoco e dall’aria. La meditazione, dopo averla praticata per degli anni, diviene uno stato permanente, un modo d’essere che non ti abbandona mai. Il movimento del sangue nel mio cuore, con quel ritorno che soffia un po’ di sangue nel sangue, mi dà un’immagine di fiamme danzanti, di fuoco e di onda e spruzzi di flutti, poi percepisco l’aria che il fuoco consuma e la terra che l’acqua trasporta. È il cuore che sostiene la mia corsa, in sintonia con il ritmo del respiro e in ciò ci sono tutti gli elementi: l’aria nei polmoni e il fuoco nel cuore sono le due forze che permettono la corsa. In quanto forze esse presuppongono delle resistenze: terra e acqua sono rispettivamente la resistenza dell’aria e quella del fuoco. Ogni cosa ha la propria apoteosi e il proprio antidoto, e l’apoteosi e l’antidoto sono momenti distinti ma non separati, come i battiti del cuore e le pause tra i battiti. Ogni cosa vive e muore incessantemente, tanto che vita e morte sono simultanee. E così sono pure io: viva e morta insieme. Ma il mio Io ordinario, con i suoi occhi che vedono fuori, sa guardare unicamente alla parte cosiddetta viva. Vi è un’altra me stessa che corre nei regni di Ade, la posso vedere se entro all’interno del corpo, se apro gli occhi che guardano dentro, se riporto il mio essere fisico agli elementi che lo compongono e lo decompongono incessantemente. L’Io immaginale vede l’immagine del corpo nella sua complessità e
coglie dentro i battiti del cuore le pause tra un battito e l’altro come il ritmo della vita e quello della sua ombra. Non c’è un “altrove”, “altrove” è qui, è adesso. Entro con tutta la mia attenzione nelle pause di silenzio, di assenza, tra un battito e l’altro, mentre le mie gambe si muovono ancora più veloci. Ho bisogno che il mio cuore pompi con tutta la sua forza, desidero che faccia rumore, che urli, affinché il silenzio cresca e io vi possa entrare. È un passaggio verso l’immaginale, come il pozzo di Alice che porta al paese delle meraviglie. Le nuvole stanno giocando con il sole, metà del mondo che vedo è illuminato e brillante, l’altra metà è in ombra, succede spesso in Scozia. Sto correndo verso il lato buio del mondo, ma da dietro le nuvole un chiarore rosso vivo mi segnala che lì c’è pura potenza, la forza della pioggia, del temporale, dell’uragano. Di ogni immagine siamo noi che scegliamo il significato: possiamo vedere il buio o la potenza, l’ombra o l’alone rosso del sole che la incorona. I nostri sensi – vedere, sentire, odorare, toccare, gustare – sono operazioni mentali che esercitiamo a mezzo di un filtro inconscio. Sulla base di questo filtro percettivo scegliamo tra un’infinità di stimoli quale considerare. È così che giudichiamo le immagini che abitiamo e che ci abitano. Questa mattina persino la luna si mostra, insieme al bagliore rossastro del sole. Non capita spesso di vedere la luna di giorno e quando succede quasi mai è luna piena. Ne vedo solo i contorni e, a destra del disco, uno spicchio sottilissimo. L’astro è visibile nella sua invisibilità, come Ecate, la luna nuova. La dea tripartita, a me piace chiamarla così. Ecate è rappresentata come tre donne in una: la ragazzina, la madre, la vecchia è androgina e psicopompa. La Ecate Chiaramonti, una scultura romana della triplice Ecate successiva a un originale ellenistico, oggi conservata al museo Chiaramonti nella Città del Vaticano, esprime magnificamente la contemporaneità dei tre mondi. Ecate è psicopompa, cioè viaggiatrice dei tre mondi. Ecate mi porta l’immagine di Tripura Sundari, la Bellezza delle Tre Città (sundari = bellezza, tri = tre, pura = città), una divinità del tantrismo indù. Le tre città della dea Tripura possono essere lette come i tre mondi dello sciamano: il mondo sotterraneo, il mondo di mezzo e il mondo del cielo. Sri Aurobindo, un filosofo indiano, teorico, come Nietzsche, del mito del superuomo, aveva accusato la psicanalisi e in genere la psicologia occidentale
di aver dimenticato la dimensione del cielo, poiché esse si riferivano unicamente all’inconscio, agli impulsi sessuali sotterranei, a ciò che sta sotto il livello della coscienza. Hillman, con la sua psicologia immaginale, sprofondando ancora di più verso Ade, ritrova la via verso il cielo, non un cielo metafisico, che si impone laddove la dimensione infera venga perduta, ma un cielo immaginale, non un cielo che ci sovrasta, ma che ci interpenetra e che abita la casa di Ade, poiché questa è la casa dell’anima. Tutte le immagini abitano Ade, è lì che noi siamo, nella casa di Ade, dove tutto si consuma e tutto si rigenera, dove le immagini si mostrano e si dissolvono. Ade è Zeus, afferma Hillman, cogliendo in Ade il dio degli dei, e in effetti Ade e Zeus sono fratelli, entrambi figli di Crono. Essere fratelli nel mito equivale a essere due facce della stessa medaglia. Ade è Dioniso, il dio dell’estasi, afferma ancora Hillman, esprimendo con ciò il piacere che le immagini provano nello svanire. Svanire è risvegliarsi, aprire gli occhi e realizzare che siamo nella casa di Ade, che siamo anima, non oggetti. Svanire nell’estasi, nella trance sciamanica, nel samadhi della meditazione, nel sonno, nella morte è come aprire gli occhi e vedere dove si è. Sto correndo sullo stretto budello del ponte, le nuvole nere all’orizzonte sono diventate ancora più scure e contemporaneamente si è alzato il vento. Forse, al di là del ponte, nella brughiera incontrerò la pioggia, ma non è detto. In Scozia il vento è così rapido che le condizioni climatiche ti sorprendono sempre. Adesso le nuvole si sono espanse e hanno inghiottito l’immagine della luna, che è svanita. Poiché la strettoia sulla quale mi trovo mi richiama inevitabilmente il canale dal quale nasciamo, penso alla mia nascita come un momento nella circolarità del tempo, un punto in un’immagine olografica, che è contenuto nel tutto e che tutto contiene. È così che mi sento nella casa di Ade: abito le immagini di Ade e le contengo, esse sono dentro e fuori di me, come io fossi Ade e in Ade allo stesso tempo. Ma come è successo che ci siamo separati da quella totalità? Quando abbiamo dimenticato ciò che veniva prima della nostra nascita e abbiamo perduto la sensazione della circolarità del tempo? Quando abbiamo incominciato a fissare gli occhi sul volto di nostra madre, come su un puntino di un frattale, dimenticando la nostra vera Madre, perdendo di vista la totalità dell’immagine? Quando abbiamo iniziato a percepire il corpo come un muro solido che ci divide dall’esterno? Forse non c’è un quando, ma certamente da
allora abbiamo preso ad abitare un mondo fatto di oggetti materiali e di leggi e di poteri innaturali. Siamo caduti nella dimensione della pesantezza e della fatica, siamo in esilio dal regno dell’anima, dalla casa di Ade e siamo asserviti a una volontà di potere che presuppone il senso del possesso e del materialismo. Ho raggiunto la brughiera. Entrambe le cose cui avevo pensato si sono verificate nello stesso istante: sta piovendo eppure il vento ha permesso al sole di far capolino da dietro le nuvole, piove e splende il sole simultaneamente. Le gocce d’acqua brillano, sono avvolta in uno scintillio di lucciole. Questo mondo, il regno dell’anima, è meraviglioso! Da lontano il famoso castello di Edimburgo, arroccato in cima alla roccia vulcanica, mi appare come una macchia buia nello splendore della natura, una specie di metastasi che il tempo va asportando contro la volontà degli uomini. Una sola cosa è certa di tutto ciò che lo riguarda: esso verrà sgretolato dal tempo. Questo mondo non appartiene ai re e alle regine, non appartiene alle banche e alle istituzioni, questo mondo appartiene all’anima. Questo mondo è tuo, donna del futuro, ed è mio. Vedi, se adesso io chiudo gli occhi, il castello ha già finito di esistere, mentre tu sei sempre qui con me. Questo mondo è di chi sa morire, di chi sa abitare nel buio, nella casa di Ade, nel regno delle ombre. Chi sa morire non viene sgretolato dal tempo. Ecate, ancora una volta la triplice essenza della terra
Poiché l’ho evocata, lasciami ora parlare di Ecate, la viaggiatrice dei mondi. È lei che ci unisce, cara Eva, donna del futuro, al di là del tempo, lei è l’oscura. Ecate merita la nostra attenzione perché è ciò che sta tra il me e il te e ne annulla la separazione, come spazio dell’unione, come danza cosmica, come rivelazione. Nell’inno omerico a Demetra, Ecate è definita il battistrada di Persefone, in quanto è colei che accompagna le anime dal mondo ordinario al mondo sotterraneo e viceversa. È Ecate che annuncia a Demetra il rapimento della figlia Persefone da parte di Ade. Intorno a questo evento, il rapimento di Persefone, prendevano vita i misteri eleusini, tra i più importanti insegnamenti esoterici del mondo Greco. Persefone è figlia di Demetra e di Zeus. Il padre la promette in sposa al
fratello Ade il quale, mentre lei si trova in un campo intenta a cogliere fiori, viene a prendersela e la porta con sé sul suo carro d’oro. Persefone, sgomenta per l’evento inatteso, grida aiuto ma nessuno, a eccezione della madre Demetra, di Ecate ed Elio, il dio del sole, la sente. Demetra si precipita in volo furibonda sul mondo alla ricerca della propria figlia e, non trovandola, entra in un grande sconforto. Per nove giorni interroga gli dei per sapere dove sia finita la figlia, ma nessuno osa dirle la verità. Finché Ecate si reca da lei e la conduce con sé da Elio, il quale svela a Demetra il ratto di Persefone da parte di Ade (Ecate è qui nella sua funzione di viaggiatrice dei mondi e di accompagnatrice di anime). Il dio del sole incita Demetra a mettere da parte il suo dolore e la sua rabbia poiché Ade non è certo un compagno indegno per Persefone. Ma Demetra non si dà pace, volendo rivedere la figlia. Così la dea si rifugia presso la città di Eleusi, dove appare agli uomini nelle sembianze di una vecchia. Qui a Eleusi Demetra si siede vicino al Pozzo delle Vergini e accetta l’invito che gli viene rivolto dalle figlie del re Celeo di essere nutrice di Demofonte, figlio di Metanira e dello stesso Celeo. Ma non appena arrivò al palazzo di Celeo [...] Demetra, apportatrice di messi dai magnifici doni, non volle sedersi sul trono risplendente, e stette in silenzio, con gli occhi chiusi, finché le operose figlie di Celeo ebbero disposto per lei un solido sgabello, gettandovi sopra una candida pelle. Là ella sedeva e si copriva il viso con un velo che teneva tirato con le mani. E per lungo tempo tacita e piena di tristezza se ne stava immobile sul seggio, né ad alcuno rivolgeva parola o gesto4. La dea non allatta Demofonte, ma massaggia il suo corpo con l’ambrosia e durante la notte lo nasconde nella vampa del fuoco come un tizzone. Il bambino assomiglia sempre di più a un dio. Ma una notte Metanira scopre il bimbo nel fuoco e si spaventa, lamentandosi. Così Demetra interrompe il processo di trasformazione dell’umano in divino. O stolti esseri umani, incapaci di prevedere
il destino della gioia o del dolore che incombe! In verità, per la tua incoscienza anche tu hai gravemente errato. Infatti – e mi sia testimone l’inesorabile acqua dello Stige, su cui giurano gli dei – io avrei reso tuo figlio immortale e immune dalla vecchiaia e gli avrei concesso un privilegio imperituro: ma ora non potrà più sfuggire al destino di morte. Egli avrà tuttavia un privilegio eterno, poiché è salito sulle mie ginocchia, e ha dormito fra le mie braccia: in suo onore, ogni volta che l’anno avrà compiuto il suo ciclo attraverso le stagioni, i figli degli Eleusini per sempre eseguiranno un combattimento fra loro, una mischia violenta. Io sono l’augusta Demetra, colei che più di ogni altro agli immortali e ai mortali offre gioia e conforto. Orbene: per me ai piedi della rocca e del suo muro possente, un grande tempio tutto il popolo innalzi e in esso un’ara, più in alto di Callicoro, sopra un contrafforte del colle; io stessa vi insegnerò il rito, affinché in futuro celebrandolo secondo l’ordine divino possiate placare il mio animo5. È così che Demetra insegna agli uomini i misteri. Tuttavia, ancora addolorata per il fatto di non poter rivedere la figlia, la dea decide di non far più crescere fiori né frutti sulla terra, condannando in questo modo la stirpe umana alla morte per fame. Zeus, mosso a pietà per gli uomini, chiede allora a suo figlio Hermes di raggiungere Ade e di convincerlo ad acconsentire a un incontro tra Persefone e Demetra. Il dio del mondo infero, preoccupato di non essere uno sposo indegno e spinto da amore per Persefone, che vuole regina, la prega allora di raggiungere la madre per rassicurarla. Così Hermes può condurre Persefone fuori dall’Ade sul carro d’oro e Demetra, alla fine, può riabbracciarla. Prima di lasciare Persefone, Ade, però, le aveva fatto mangiare un chicco di melograno legandola con ciò per sempre a sé. Per via di ciò, come Rea annuncia a Demetra nell’inno omerico, Persefone ridiscenderà ogni anno nell’Ade e starà con il suo sposo che la renderà regina dell’Ade per quattro mesi all’anno mentre per il resto del tempo Persefone potrà stare con la madre.
Demetra fa dunque ritorno all’Olimpo ma, prima di mettersi in cammino [Demetra] svelò ai re amministratori della giustizia – a Trittolemo, a Diocle incitatore di cavalli, al forte Eumolpo, a Celeo signore di eserciti – il precetto del rito sacro; e rivelò i misteri solenni a Trittolemo, a Polisseno, e anche a Diocle, venerabili. In nessun modo è lecito profanare, giudicare o rivelare tali misteri solenni, perché la profonda devozione per le dee spinge a tacere. Felice tra gli uomini che vivono sulla terra è colui che è stato iniziato al rito. Ma il non iniziato, colui che non ha ricevuto gli insegnamenti, non avrà questo destino, nemmeno dopo la morte, oltre l’orizzonte oscuro6. I misteri eleusini erano certamente legati all’agricoltura. I quattro mesi in cui Persefone è nell’Ade rappresentano il periodo in cui il seme è trattenuto sotto la terra, dove si prepara a creare. Ma probabilmente i misteri eleusini facevano anche riferimento a ciò che nutriva la vita umana non solo dal punto di vista alimentare; erano insegnamenti spirituali. Oggi, in verità, non si sa nulla di quegli insegnamenti la cui principale caratterista era il segreto, ma se ci distacchiamo dal senso del materialismo e vediamo l’agricoltura stessa come immagine dell’anima, comprendiamo che l’anima conosce un ciclo tripartito. [Zeus] ha confermato che tua figlia per la terza parte dell’anno che compie il suo ciclo rimarrà laggiù nella tenebra densa; per due terzi con te e con gli altri immortali7. Per un terzo del proprio ciclo – l’inverno – l’anima ha necessità di stare nel mondo sotterraneo. Il seme della creazione che essa porta in sé (il chicco di melograno) ha bisogno della tenebra densa per maturare, ma questa tenebra densa non possiamo di certo associarla a quell’idea che la nostra cultura ha prodotto della morte, bensì ci appare come un amorevole ventre
materno: è la matrice da cui nascono le immagini. Le immagini che abitiamo provengono dall’ombra, l’ombra non le distrugge, al contrario le nutre e quando esse si rendono invisibili in verità si caricano di potenza. Questo potrebbe spiegare perché i nostri antenati – come sostiene la psicologia transgenerazionale – ci influenzano in modo potente fino a 250 generazioni precedenti. Tanto più un seme è piantato profondamente ma è ancora vitale nella terra, tanto più un antenato è lontano nel tempo ma ancora vitale nella memoria inconscia del clan familiare, quanto più esso acquista energia. Ecco, Eva, vedi? Ti avevo preannunciato che Ecate è la dea che ti unisce a me, in quanto tua antenata. Alla psicologia immaginale, come Hillman ricorda, sono affidati i culti degli avi, che la nostra civiltà ha perduto. Dialogare con gli antenati è un’attività molto importante. Poiché gli avi appartengono alla dimensione dell’invisibile, dell’anima, è indispensabile uno strumento di mediazione. Nelle tradizioni tribali questo è il tamburo. La mia esperienza presso le tribù animistiche del Myanmar, in particolare la tribù degli Eng e quella degli Akha, mi ha ripetutamente posto dinnanzi a un evento inequivocabile: quando lo sciamano suona il tamburo morti e vivi si riuniscono insieme nel cuore più sacro del villaggio. Dalle mie esperienze presso le società animistiche del Myanmar, io ho riportato le Carte dei Nat che sono lo strumento che uso in modo privilegiato per parlare con gli antenati8. Mi piace pensare che questo mezzo ti arrivi attraversando il tempo e che tu un giorno, giocando con le mie carte, possa parlare con me, quando i mondi saranno sottosopra e io sarò nell’Ade e tu con Demetra, sulla Terra. Il metodo della metafora
È arrivata un’ondata di gelo improvvisa a interrompere il cammino della primavera. Il canale questa mattina è tutto un controsenso. Ci sono già i primi fiori sui rami degli alberi ma il ghiaccio, seppur sottilissimo e a tratti interrotto, è tornato sulla superficie dell’acqua. Forse vedrò ancora il riflesso del vecchio! Eppure corro stancamente come se una parte di me non fosse desiderosa di arrivare oltre il budello del ponte della ferrovia, nel punto dove solitamente il riflesso si manifesta, come se questa parte di me sapesse che lui
non c’è più. Mi osservo. Allora mi accorgo che sto cercando di trattenere qualcosa che non deve essere trattenuto. Quando arrivo all’altezza della brughiera vedo che proprio dove il volto del vecchio era solito apparire c’è un enorme buco nel ghiaccio e dei germani stanno nuotando allegramente. Fermo la mia corsa e scoppio in una risata. Un ciclista che mi ha appena superata si volta a guardarmi, la sua bici barcolla pericolosamente. Ho riso e anche pianto di gioia su questo canale molte volte. Mi viene in mente che per molti anni ho vissuto in Oriente al fianco di uno yogin straordinario, Michael Williams, invocando gli elementi affinché mi dessero la capacità del surrender, come Michael – prendendo a prestito un’espressione cara a Sri Aurobindo – definiva la capacità di darsi. Surrender è la resa incondizionata al sacro, il rendere sacrificio di sé, il darsi senza condizioni. Questo ghiaccio che si rompe e si scioglie mi dà oggi qualcosa di più, aggiunge qualcosa alla mia pratica di offerta e lo fa per via naturale, con l’esempio. Ade è ovunque, ovvero noi siamo nella casa di Ade, che altro possiamo fare se non dire di sì ad Ade? Questo “sì” è una gioia profonda, la libertà, il piacere immoto, è la fine degli attaccamenti che provocano ignoranza e sofferenza. Afferro un rametto sottile e lo getto nell’acqua del canale; è un altro attaccamento – upadana, direbbe Ghata Thera – che se ne va: il mio attaccamento all’immagine del vecchio. Così io sono un po’ meno io, mentre lui, il vecchio, è ancora un po’ più dentro di me e nelle cose che vedo, ovunque. Siamo l’uno e il tutto insieme. Hillman lo chiamerebbe processo di “ritiro delle proiezioni”. Mi viene in mente che anche il mito di Demetra parla del riassorbimento attraverso la metafora del fuoco. Demetra era una figura molto cara a Hillman e così, dedicando i mei passi saltellanti a lui, riprendo a correre nella brughiera lasciando che il fuoco in cui Demetra adagia Demofonte ogni notte guidi i miei pensieri. Sai, Eva, Hillman mi ha insegnato a dare assonanza alle cose. Il concetto di metafora è centrale nella psicologia immaginale. Persino la morte – e l’abbiamo visto – per Hillman è metafora. La metafora è lo strumento privilegiato dai poeti, dai riti e dagli dei. La metafora è lo strumento del processo di ritiro delle proiezioni che si applica nella psicologia del profondo e nello yoga tantrico e sciamanico, come abbiamo visto a proposito della pratica visionaria chiamata
contemplazione del Mandala Interno o Mandala Visionario. La metafora ci permette di passare da qualcosa di personale a qualcos’altro di sempre meno personalizzato, cioè ci consente di riportare la “cosa” dalla sua presunta realtà soggettiva-storica-personale alla realtà mitica-universale, dal mondo degli oggetti materiali, a quello delle ombre. In tal modo la metafora ci aiuta a liberarci dalla pressione dell’Io sociale, dalla gabbia dell’individualità che a volte è così stretta da causare sofferenze. Il processo di ritiro delle proiezioni è dunque un percorso di guarigione che non rinforza l’Io, all’opposto lo dissolve, che non sconfigge i mali, all’opposto li trasvaluta. Continuo a correre e, sentendo un po’ la fatica, vado con la mente alla paura della regina Metanira e al suo lamentarsi nel momento in cui vede il figlio prediletto nel fuoco. Questo mi ricorda la paura delle creature in fuga dalla divinità che vuole divorarle per salvarle. Prajapati, descritto nel Rg Veda, di cui ti ho parlato. In entrambi i miti la divinità vuole salvarci dalla morte, renderci immortali, ma per poter fare ciò deve dissolvere qualcosa di noi, qualcosa di assolutamente fittizio, eppure estremamente condizionante, deve purificarci mettendoci nella vampa del fuoco o ingerendoci e digerendoci. La vampa del fuoco e la digestione sono metafore di una fiamma che trasforma. La morte dalla quale la divinità vuole salvarci è l’idea della morte che il nostro Io coltiva e porta avanti con la massima convinzione, la credenza che ci ipnotizza e secondo la quale la morte sarebbe una realtà distinta e separata dalla vita, una fine, una cattura negli inferi dalla quale non vi è più ritorno. Per risvegliarci da questa ipnosi la divinità deve “bruciare” il nostro Io sociale in quanto esso è la centralina stessa del processo ipnotico di cui siamo vittime e aiutarci a sviluppare un Io immaginale (il massaggio del piccolo Demofonte con l’ambrosia) capace di comprendere la morte e la vita come due realtà distinte ma non separate, come due amanti inscindibilmente uniti nel piacere del maytuna che incessantemente si danno l’uno all’altra nell’estasi dell’amore. Ogni notte Demetra pone il piccolo Demofonte nella vampa del fuoco come un tizzone. Il procedimento per metafora mi spinge a chiedermi: cosa mi succede ogni notte? Sogno
Sto ancora correndo e sono sempre nella brughiera, due elementi significativi del mio “fare anima”, la corsa e la brughiera, sono entrambi presenti. Cerco di schivare all’ultimo momento un ramo carico di fiori, non l’avevo visto, guardavo la superficie del canale alla mia sinistra. Il ramo mi colpisce in testa ma non mi fa alcun male perché indosso un cappello spesso e robusto. Il cappellino si riempie di petali di fiori che cadono uno a uno, poco a poco passando davanti al mio viso. Mi sembra persino di sentire il profumo dei fiori e mi sento tanto amata dagli dei. Ecco cosa mi succede ogni notte: entro nell’amore, nella casa di Ade. Pazientemente il sogno disfa, durante ogni notte, ciò che l’Io costruisce di giorno. Gli dei quando ci fanno visita nei sogni indossano le maschere di persone conosciute o di sconosciuti, magari solo incrociati per la strada la sera precedente. Per comprendere ciò che queste apparizioni oniriche vogliono dire dobbiamo chiederci che cosa rappresentano per noi le figure che abbiamo visto: quella persona che mi è apparsa in sogno cosa rappresenta? È una persona che mi ha fatto arrabbiare nella mia vita quotidiana? Allora, è la Rabbia e quell’altra non è la persona di cui sono segretamente innamorato? Allora rappresenta la Passione. E quell’altra ancora non mi fa forse paura? Dunque rappresenta la Paura. Rabbia, Passione, Paura sono gli dei, archetipi profondi e universali che esistono al di là della mia esperienza individuale. Il sogno è un alleato dell’anima, esso serve per dissolvere l’Io e ricordarci che stiamo abitando la casa di Ade. Il sogno ci porta dal piano individuale-storico al piano miticouniversale. Il modo migliore per interpretare il sogno è, secondo Hillman, quello di assecondare il suo processo applicando la tecnica del ritiro delle proiezioni, la stessa che nella tradizione del Bardo Tosgrol, il libro tibetano dei morti, gli yogin tantrici insegnano ai morenti. Nella morte, ci insegna lo yoga sciamanico, la coscienza, non più trattenuta dai muri del corpo, si srotola e tutto ciò che tu sei stato in tutte le tue vite precedenti ti si palesa dinnanzi. Di fronte a tutto ciò che vedi e sperimenti – siano esse apparizioni dolci o terrifiche e malvagie – devi ripetere, come un mantra, la frase “ecco ciò che io sono, ecco ciò che io sono” riassorbendo in te ogni realtà.
Siamo tutti un po’ Demetra e un po’ Persefone
Cara Eva, ecco perché non ti ho mai sognata, tu non hai bisogno di essere ricondotta alla dimensione dell’ombra e dell’invisibile, sei già là e, nello stesso tempo, sei già me, dentro di me, parte inscindibile della mia anima. Proseguo nella mia corsa e, per la legge della somiglianza, il metodo del fare anima di Hillman continua a richiamarmi gli insegnamenti della giungla dei monaci theravada e quelli tantrici e sciamanici di Michael. Sto dissolvendo il mio Hillman nella totalità degli insegnamenti che ho ricevuto? In tal caso, ho preso esempio dal ghiaccio. Mentre torno a casa, sempre di corsa, sto ancora elaborando il mito di Demetra. Ormai non sento più la fatica, ho “rotto il fiato”, come si dice nel gergo della corsa. Come potrei non dedicare un pensiero a quella magnifica figura di Demetra descritta nell’inno omerico che è seduta immobile sul solido sgabello ricoperto di pelle, procuratole dalle figlie del re? La dea rimane in silenzio con il velo tirato sul viso. Ghata Thera mi ha lasciato uno dei pochi, preziosi oggetti che possedeva. La stuoia di pelle grezza sulla quale si sedeva in meditazione. Questa stuoia si è trasmessa da maestro a discepolo per molti anni. È uno degli oggetti che mi sono più cari. Nei miei viaggi ho avuto modo di vedere come gli sciamani della Siberia e della Mongolia sciamanizzino con il volto coperto da una fitta rete di fili neri che scendono da un caratteristico copricapo, che è parte fondamentale del loro costume sciamanico. Il processo di sciamanizzazione avviene al buio poiché lo sciamano vede nell’ombra, egli è capace di vedere l’invisibile, sa guardare nella morte, dentro l’anima. Ghata Thera ha trascorso molto tempo a insegnarmi l’importanza dell’immobilità della postura nella meditazione. L’immobilità prolungata conduce al cosiddetto asana samadhi, che è prerogativa indispensabile al raggiungimento di chitta samadhi. La parola samadhi indica uno stato di profondo rapimento interiore (letteralmente significa “mettere insieme” e indica l’unione del meditante con l’oggetto della meditazione). La parola asana significa “postura”. L’asana samadhi è uno stato di estasi che si raggiunge per mezzo dell’immobilità prolungata in una postura meditativa. L’immobilità prolungata, infatti, fa sì che il corpo smarrisca il senso dei propri confini, provocando una sorta di assopimento dell’Io corporeo. Questa condizione è un preliminare fondamentale all’ottenimento del samadhi
propriamente detto che è il chitta samadhi, ovvero il samadhi della coscienza. È attraverso l’immobilità prolungata nella postura meditativa che il monaco buddhista apprende a riconoscere e a superare gli attaccamenti che lo legano al proprio Io. L’immobilità infatti richiama tutta una serie di fastidi e di dolori che il monaco è tenuto ad amplificare con la propria mente per entrarci dentro sempre più profondamente fino a che, proprio come il pozzo di Alice, essi si aprono su un mondo nuovo e inaspettato, il mondo delle forze che si sprigionano dalla trasvalutazione dei mali, dei disturbi, dei disagi. In questo senso Ghata Thera mi diceva “se non c’è problema, non c’è meditazione”. Il disagio è il pozzo che conduce alla meditazione. Entrandoci dentro si scopre che il fastidio che avvertiamo nel corpo non è che un modo attraverso cui il nostro Io conferma a se stesso la propria esistenza: il disagio corporeo che sorge nell’immobilità è sempre la metafora di un attaccamento del nostro Io alla propria idea illusoria di esistere. Se accettiamo il disagio fino in fondo, se entriamo nel pozzo, alla fine l’attaccamento si scioglie e il disagio si trasforma in pura forza, in gioia, in visione. Poi la Demetra omerica è silente, perché è nel silenzio che vengono comunicati i significati più importanti e, se mai ci fosse bisogno di una conferma a ciò, queste mie conversazioni sul ghiaccio me lo hanno dimostrato. Demetra entra nel suo stato che io definirei meditativo in seguito al dolore per la perdita della figlia e anche questo ci dice qualcosa: l’anima ci chiama a sé, nella dimora di Ade a mezzo di segnali che colpiscono forte il nostro Io e i suoi attaccamenti. La Demetra omerica assisa sopra a uno sgabello coperto con una pelle, immobile, silente con il velo tirato davanti al viso è un’immagine meravigliosa che da sé esprime il percorso del riscatto e del risveglio. Non appena intuisco questo, mi fermo, quasi di scatto. Sono di nuovo vicina al punto dove il riflesso del vecchio appariva, e considero ciò una magia. Mi siedo sopra un manto di fiori a contemplare l’acqua, chiudo gli occhi e mi faccio immobile. Il mio cuore fa tanto rumore e il mio respiro è ancora affannoso. Mi calo nelle pause di silenzio tra un battito e l’altro. Ecco, sono a casa! Siamo tutti un po’ Demetra e un po’ Persefone poiché tutti aneliamo al ritorno a casa. Demetra è la dea che ci insegna il metodo del ritorno e Persefone è colei che ritorna. Demetra è la dea che ci indica la via verso l’Io immaginale e
Persefone, al pari di Hermes, Ecate, Orfeo, come tutte le divinità messaggere dell’Ade, come ogni dea o dio ctonio, è la metafora dell’anima. Non è difficile, in realtà è la cosa più semplice del mondo, ecco perché la ragione fatica così tanto a raggiungerlo, è lì e lì, ovunque guardiamo nella natura, i ritmi e le pause con cui la natura crea ce lo ricordano in ogni istante. Ma la nostra lontananza dalla natura, dai ritmi dell’agricoltura naturale ci rendono tutto così difficilmente ricordabile. Allora dobbiamo sapere che ogni albero che tagliamo è come un sassolino bianco che leviamo dal sentiero che ci può ricondurre a casa. Senza più alberi, senza più sassolini, il sentiero è smarrito per sempre. L’ecologia del profondo non è solo un nome che diamo a un sentimento del nostro cuore, è un’urgenza della nostra anima. L’ecologia del profondo ci riporta a un sentire animistico che lo storico delle religioni Mircea Eliade collocava in un illo tempore, uno spazio temporale antichissimo eppure presente e futuro. Esercizi per la visione sottile
È primavera e dell’inverno non c’è più traccia. Sull’acqua del canale lo scintillio del sole, sui rami degli alberi i fiori bianchi, rosa e rossi: la primavera non arriva, esplode. Basta assentarti dalla natura per qualche giorno per trovare tutto cambiato. Sono tre giorni che non vengo a correre sul canale, solo tre giorni, eppure mi pare di essere in un altro mondo. Sono sbocciati i mughetti e anche l’odore nell’aria è cambiato. Ci sono diverse persone sul canale, forse per via della bella giornata. Una bimbetta che deve avere appreso a camminare da poco si stacca dalla sua mamma e corre verso Lovro, il quale la lecca sul viso prima di passare attraverso un gruppetto di piccioni intenti a becchettare e farli volare via. Lovro è un cane birbone, l’ho soprannominato bandito. Non lo tengo al guinzaglio. Una delle cose che apprezzo di più del canale di Edimburgo è che qui la gente non tiene i cani al guinzaglio. Oggi festeggio i trent’anni dall’inizio del mio percorso nello yoga sciamanico. Sì perché esattamente trent’anni fa come oggi – il ventitré marzo – incontravo Michael Williams a Colombo. In tutti questi anni ho viaggiato molto dentro e fuori di me, ho meditato molto e soprattutto ho praticato ogni giorno gli esercizi spirituali del mattino e della sera. Si tratta di pratiche straordinarie, semplici e potenti, dirette a
dissolvere il senso dell’oggettività delle cose, la sensazione del materialismo che ipnotizza il nostro Io. Oggi, dopo l’insegnamento di James Hillman, potrei dire che sono esercizi volti a sviluppare la visione immaginale. Sulla scorta di queste pratiche, osservo i corpi in movimento veloce e non appena questi si sono allontanati dal mio campo visivo io continuo a fissare lo spazio nel punto dove li avevo visti per la prima volta, come essi fossero ancora presenti. Chi pratica regolarmente gli esercizi spirituali del mattino e della sera dello yoga sciamanico può ottenere molto fissando con questo metodo oggetti in movimento: gente che cammina, animali che corrono, rami d’albero che ondeggiano al vento. Nel giro di pochi istanti, infatti, è possibile vedere i corpi solidi circondati da vibrazioni, il che dimostra che la materia non è materia, ma energia vibrante nella quale i singoli oggetti sconfinano l’uno nell’altro e non sono separati dallo spazio che li circonda. Osservo in questo modo il volo di un gabbiano alla mia sinistra, la corsa di Lovro dinnanzi a me, una foglia portata dal vento alla mia destra... in breve la mia visione cambia. Guardando con la coda degli occhi la luminescenza prodotta dal riverbero del sole sull’acqua del canale alla mia destra, vi vedo comparire il volto del vecchio come in uno scintillio di lucciole. Continuo a correre, so che l’immagine, questa volta, dipende dal movimento: essa mi segue, mi accompagna entrando dall’angolo esterno dell’occhio sinistro. Non devo voltarmi verso di essa, altrimenti potrebbe sparire, come è sparita Euridice davanti agli occhi di Orfeo. La dimensione dell’anima, e tutto ciò che vi appartiene, è la casa dell’invisibile: devo accettare di vedere e non vedere, udire e non udire, percepire e non percepire, immaginare e non immaginare, allora il vecchio è con me, sempre. Tutto dipende da quello in cui abbiamo fiducia, credere nell’invisibile è essere con l’invisibile. A volte penso che non vi sia che una sola grande malattia nel nostro mondo: il non credere all’anima. Riflesso di luce
L’anima s’incarna con delle precise risoluzioni, noi veniamo al mondo per necessità di una vocazione, un proponimento, un’intenzione. Quando entriamo nella matrice, nell’utero, tuttavia, dimentichiamo. Quest’oblio lascia un vuoto creativo. Fin dalla prima infanzia la cultura
penetra nel vuoto e, con il passare degli anni, finisce per riempirlo. Per ritrovare le risoluzioni dell’anima dobbiamo allora ripulirci degli obiettivi che il nostro Io ha prodotto sotto effetto della cultura, cioè del culto, di quell’insieme di credenze che governano il mondo. Nasciamo per essere maghi, folletti, ondine, visionari dotati di passione, amanti dell’anima e suoi fedeli paladini, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, siamo miti, leggende straboccanti di magia, ma un solo incantesimo ci tiene prigionieri dentro gli spazi ristretti del senso dell’oggettività delle cose, la gabbia del materialismo. E non usciamo di lì perché abbiamo paura. Ci è fatto credere che là fuori c’è il buio. Quel buio è la chiara luce dell’anima, ma non possiamo saperlo finché non usciamo. Ci viene detto che non potremo mai più fare ritorno, ci perderemo e così quando usciamo, il più delle volte lo facciamo per disperazione. Quando la prigionia ci ha sfinito, ha fatto ammalare il nostro corpo, ha travolto la nostra mente, ha incrinato il nostro cuore, quando non abbiamo più nulla da perdere all’interno del mondo, allora usciamo fuori e scopriamo che possiamo avere tutto. Ritroviamo la voce dell’anima che non ha mai smesso di proferire le proprie risoluzioni e comprendiamo perché siamo nati: per amare, per celebrare. Il fatto è che la cultura dominante ci fa credere in falsi obiettivi, ci mostra la ricchezza materiale e il potere sociale come fossero traguardi da raggiungere a tutti i costi, ci fa vivere una sessualità che dipende unicamente dalla presenza di un elemento esterno a noi e ne fa un punto d’arrivo, una conquista per tutti. Ma questi non sono affatto gli obiettivi dell’anima. E così l’anima infaticabilmente ci richiama, giorno per giorno, a sé togliendoci da sotto i piedi e da dentro le mani gli appigli “concreti” che ci legano al mondo del materialismo. L’Io soffre assai di queste perdite. Ma, proprio quando abbiamo perso tutto, improvvisamente le pareti che ci dividono dall’anima crollano, e scopriamo di poter avere tutto. Là fuori ci attendono molte cose straordinarie, tra queste, gli yogin sciamanici annoverano il “piacere immoto”, il piacere che non dipende da alcun oggetto esterno. Il trionfo dell’anima, la luce chiara, il piacere immoto sono tre obiettivi dello yoga sciamanico e della psicologia immaginale. Quella luce chiara che mi segue a filo dell’acqua e che mi rappresenta il volto del vecchio che ormai non ha più identità umana è il maestro, è, in illo tempore, un archetipo. Se mi voltassi per guardarlo dritto negli occhi, il volto sparirebbe, perché la luce non può essere posseduta. La cultura di questo mondo è il culto del possesso, il culto della ricchezza e del potere sociale. Il
vero potere, quello delle ossa, quello dello scheletro, quello dell’anima selvaggia è una minaccia costante per il potere sociale che non ha una legittimazione naturale. Il potere naturale si fonda sul sapere e questo non è un sapere tecnico, funzionale al potere sociale, ma un sapere profondo che nasce da un equilibrio maschile e femminile, dall’utilizzo del logos, da un lato, e dalla possibilità di relazione con l’invisibile che, alla fine, appare sempre come rivelazione. Pandora
La medesimezza tra il modello simbolico patricentrico, incentrato sul pensiero razionale, e il matricentrismo, fondato sulla rivelazione e l’istinto, dovrebbe essere la vocazione del “fare anima”: uno stato d’equilibrio consapevole di sé e del fatto che non c’è nulla, in verità, che possa divenire o cambiare. Il dramma del nostro mondo è che il sapere non ha accesso al potere, a meno che non sia un sapere tecnico, funzionale al potere stesso. Questo dramma, come abbiamo visto, è narrato in quello che per i greci era il mito stesso della creazione dell’umanità: il mito di Prometeo e di Pandora. Prometeo, infatti, è l’eroe che possiede il sapere, ma non il potere, il quale è appannaggio di Zeus. In questo stato di fatto, la donna, Pandora, arriva al mondo come una sorta di punizione per l’umanità, colei che apre il vaso dove Prometeo aveva rinchiuso tutti i mali che affliggevano l’umanità e li fa di nuovo uscire fuori. Altra punizione per l’umanità è la Sophia degli gnostici, la quale, creando senza la controparte maschile, dà vita al funesto demiurgo, il dio veterotestamentario che dagli gnostici è associato a Satana, il principio del materialismo. Nella produzione del mondo materiale a opera del demiurgo, però, Sophia riuscì a instillare la propria scintilla divina (pneuma) nella materia, rovinando i piani del demiurgo. Sophia infuse la propria scintilla nella creazione per consentire a quest’ultima di fare ritorno alla sua reale natura. Sophia risiede in tutti noi sotto forma di Scintilla Divina e Cristo fu inviato sulla terra per accendere la scintilla divina che è nell’uomo. Riaccendendo la scintilla divina
che è in lui l’uomo si risveglia dagli inganni del demiurgo e del mondo materiale, e accede alla verità. Cristo giunse sulla terra proprio al fine di risvegliare negli uomini la loro divinità, cioè la Sophia che è in loro. Pandora, la donna, sarebbe all’origine della diffusione della sofferenza che accompagna l’umanità attuale. Ma questa sofferenza, in verità, altro non è che la scintilla di luce che Sophia infonde nella creazione affinché essa possa tornare alla verità. In questi miti è detto tutto: la dimensione femminile, la notte, l’invisibile, l’anima diviene dolore per l’umanità, ma questo dolore, in verità, non è che la traccia indispensabile al ritrovamento della medesimezza originaria. Il dolore è un richiamo. È questo che s’impara meditando. Quando Ghatha Thera, nell’eremitaggio della foresta, mi portava su di una pietra levigata nel fitto degli alberi e mi diceva siedi qui e rimani immobile fino al mio ritorno, mi invitava a contemplare tutto il mio disagio. L’immobilità prolungata del corpo nella postura meditativa produce disturbi ovunque nel fisico e nella mente, fastidi pungenti si scatenano nel corpo e l’ambiente circostante si trasforma in un calderone di potenziali pericoli, ogni rumore, ogni fruscio viene tradotto dalla mente come il principio della fine: un serpente che striscia nell’erba, uno scorpione che cade da un albero. Il meditante che permane nell’immobilità a occhi chiusi deve mettere in pratica gli insegnamenti, i quali conducono sempre e solo in una direzione: entrare nel dolore, nel disturbo, nella paura. Andando all’interno del disagio esso si ingigantisce, si acutizza. Il segreto è l’intento con il quale si penetra nel dolore: il proponimento del meditante è darsi, è incontrare il sacro, è rendere sacrificio di sé, offrirsi e svanire, sparire, dissolvere il proprio Io nella totalità o vacuità, nella chiara luce. All’improvviso, allora, il disagio si trasvaluta: il dolore al ginocchio diviene calore che pervade tutto il corpo, diviene forza, la paura diviene una vibrazione totale che porta all’amore e alla comunione con l’immagine che incuteva terrore, al punto che vorresti che il cobra delle fantasie di morte, prodotte l’attimo prima dalla tua mente, attraversasse le tue ginocchia per poterlo accarezzare. La risoluzione dell’anima è darsi. Entrando in sintonia con questa intenzione, il meditante scioglie i propri attaccamenti. Il Buddhismo insegna che esistono 1500 attaccamenti, 500 della mente, 500 dell’emotività e 500 del corpo. Di vita in vita, di morte in morte, sapersi dare è la via per sciogliere questi attaccamenti e giungere alla liberazione finale.
Il dolore è il ruggito della Grande Madre che ci chiama a sé, il grido dell’anima: “Venite a me, vi divorerò per salvarvi”. L’anima è Ade, dice Hillman, i sogni sono i suoi messaggeri, i mali, i disagi, i disturbi, le infermità, tutto ciò che Pandora ha fatto uscire dal vaso non sono che il suo richiamo. Il metodo segreto, dicono i grandi yogin sciamanici, Tilopa, Naropa, Milarepa e Ma gcig, consiste nel non avere né speranze né timori. La speranza è la sola cosa che rimane intrappolata nel vaso di Prometeo, dopo che viene richiuso. Come darsi totalmente fino a che l’Io nutre una speranza? Entrare nella notte, nell’anima, nella casa di Ade, compiere il viaggio iniziatico è lasciare andare ogni speranza. Solo avendo dissolto ogni timore si può entrare nella casa di Ade e solo al cadere di ogni speranza è possibile vedere ciò che è, così com’è. Zeus ha creato Pandora per fare dispetto a Prometeo, il quale amava gli esseri umani. Pandora, la prima donna sulla terra, dovrebbe essere una punizione e, invece, sarà il mezzo del grande riscatto di Prometeo e dell’umanità. Attraverso Pandora gli uomini, infatti, possono ritornare all’universo ctonio. Il mito è ciclico, non solo racconta ciò che è successo all’origine, in illo tempore, ma anche lascia sempre aperta la via del ritorno all’origine. Il punto, semmai, è come viene letto il mito. Cara Eva, tu che abiti l’invisibile, il mondo sotto il mondo, m’insegni a leggere il mito dal basso all’alto, in senso ribaltato rispetto alla lettura comune che se ne fa quassù, nel mondo secolare. A noi Pandora non appare affatto come l’apportatrice di guai. È lei che, nel tempo in cui il sapere veniva separato dal potere, spargeva nel mondo un richiamo: i nostri mali, i nostri disagi, i nostri peccati sono, in verità, le eco di un’esistenza beatifica e, facendo un’esperienza libera e incondizionata dei nostri mali, dei nostri peccati, dei nostri disagi, noi possiamo ritrovare la luce chiara dell’anima e la beatitudine del piacere immoto. Sulla via di questa esperienza dobbiamo lasciare andare la speranza – che è l’altra faccia della paura – poiché sperare significa non poter mai cogliere il qui e ora e mai essere ciò che siamo. I mistici poeti e maestri dello yoga tantrico e sciamanico, il grande Naropa e la stupenda Ma gcig, ci hanno poeticamente sussurrato molte volte che il metodo segreto consiste nel non avere né speranze né timori9.
Lasciamo la speranza nel vaso
Eccomi sul ponte che fiancheggia la ferrovia. Due uomini stanno camminando in direzione opposta alla mia, uno ha la manica della giacca penzolante, come fosse vuota, forse gli manca un braccio. Quando io sono a meno di un metro da loro, i due uomini si fermano, uno si volta premendo la schiena contro la ringhiera del ponte e l’altro si avvicina al lato opposto dello stretto marciapiede, verso il canale, poi, sollevando l’unico braccio, mi dice: “Keep going!”, “Continua a correre!”. Mi sorridono. Io passo in mezzo a loro, “Thank you!” sospiro, tra uno sbuffo e l’altro. Sai, Eva, Hillman mi ha insegnato a vedere, non solo i sogni, ma anche le persone che incontriamo di giorno come eidola, come dei che indossano maschere per presentarsi a noi sotto infiniti aspetti. Perciò prendo l’immagine dei due uomini come un segno che devo continuare a lasciar uscire dal vaso tutto ciò che deve uscire. Mi viene alla mente la risoluzione dello yogin così come si legge nel Sistema della Grande Perfezione. Il Sistema della Grande Perfezione è un insieme di testi occulti che mostra il primigenio animismo dei tibetani di fede Bön, prima dell’arrivo del Buddhismo nelle regioni himalayane. Questi libri sono anche considerati i testi che descrivono le pratiche del grande yogin Milarepa. In particolare i versi che ricordo fanno parte di quella parte che illustra il Rito del Chöd, il quale è definito il metodo dello sradicare il basso sé. Oh! la mente non-illuminata, che considera le apparenze come fossero reali, Possa essa essere da me completamente sottomessa in virtù di pratiche spirituali; E pertanto allo scopo di conoscere e comprendere una volta per tutte la vera natura del Reale, Io faccio risoluzione di liberare me stesso da ogni speranza e da ogni timore10. Il mio cuore gioisce dei versi che la mente ricorda, ma la mente stessa si sconcerta: non è accettabile questa commistione di miti e di visioni. “Che c’entra Prometeo con Milarepa?”, si chiede il pensiero che vuole ordinare le cose. Ma gli dei mi hanno già risposto: “Keep going!”.
È primavera
Ormai la primavera ha conquistato il canale, il che non vuol dire che non possano esserci ancora giornate un po’ fredde, siamo a Edimburgo! Infatti oggi esco con la felpa di cotone legata in vita e il cappellino. C’è foschia sul canale e questo crea un’atmosfera surreale. Non c’è ghiaccio e non c’è luminescenza a filo dell’acqua, solo nebbia grigia a banchi. Corro piacevolmente perché non fa caldo e non fa freddo, non c’è vento e non piove. A volte perdo di vista Lovro nella nebbia, ma lui non si allontana mai molto da me, appena si accorge di non potermi più vedere mi cerca immediatamente. L’anima ha fatto il suo corso, o meglio, il fare anima ha prodotto i suoi risultati: il riflesso del maestro si è dissolto completamente e mi sembra che ora sia paragonabile alla nebbia: è ovunque e trasporta ogni cosa in una dimensione irreale e onirica, è tutta la vita, è il mezzo per raggiungere Ade. Per la prima volta corro nel silenzio della mente e ho una sensazione di totale smarrimento: non so più se sono sveglia o se sto dormendo. Ricordo di essermi alzata questa mattina dal letto, di essermi vestita, di aver raggiunto il canale, ma non so se anche questo facesse parte del sogno. Decido di abbandonarmi al mio smarrimento e realizzo che questo è esattamente ciò che da sempre vado cercando. Il metodo è vivere la quotidianità come fosse un sogno, diceva Hillman. E io non posso non ricordare che Ghata Thera e i grandi mistici tibetani dicevano la stessa cosa. Torno a casa felice dopo la mia corsa. Una doccia, un tè e poi mi butto a scrivere qualche appunto pensando a te, Eva, come sempre. Ma oggi non ho voglia di stare in casa, decido di tornare sul canale con il mio portatile. Prendo anche del pane secco per i cigni, i germani, le folaghe, i gabbiani, i piccioni, gli uccellini e tutti gli insetti che popolano il canale. Lovro litigherà con loro per divorare tutto. Ha sempre fame e mangia sempre. Come Pollicino sbriciolo il pane lungo il percorso, ma ho la certezza che, voltandomi, non ne troverò più nemmeno una briciola. Arrivo fino al ponte stretto e lo attraverso. Raggiungo la brughiera e mi siedo sullo stesso sasso da dove, durante l’inverno, parlavo con il riflesso di James Hillman. La nebbia si è dissolta e un timido sole si affaccia da dietro le nuvole. Voglio suggellare le mie corse sul canale, le mie passeggiate nel mondo dell’invisibile, raccontandoti delle storie. Hillman e il suo riflesso mi hanno lasciato un
retaggio: mi hanno spinta a riconoscere nei miti e nelle favole l’origine e il segreto delle cose. Ma essere cantastorie è un compito davvero non facile, ci vuole un’iniziazione, e, forse, io l’ho avuta, bisogna essere morti e rinati e, forse, a me è successo, da ultimo bisogna, forse, essere donna, e solo questo io e te siamo per certo; dunque, se voglio continuare, devo rischiare.
1
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, cit., p. 212.
2
Ivi, p. 51, 52.
3
Ivi, p. 129.
4
Omero, Inno a Demetra.
5
Ibidem.
6
Ibidem.
7
Ibidem.
8
Selene Calloni Williams, Le carte dei Nat, Edizioni Mediterranee, Roma, 2011.
9
Si veda in proposito Ma gcig, Canti spirituali, Adelphi, Milano, 1995 e Garma C.C. Chang, Insegnamenti di yoga tibetano, Ubaldini, Roma, 1981. 10
W.Y. Evans-Wentz, Lo yoga tibetano e le dottrine segrete, Ubaldini, Roma, 1973, p. 310.
3. Fare anima al femminile: la cantastorie Hillman, come del resto Jung, Neumann e altri autori a lui assimilabili per scuola di pensiero e professione di fede, ci hanno parlato della necessità di una terapia della cultura.
Cara Eva, ti confesso che l’esasperazione del modello simbolico patricentrico – associato al logos, il pensiero ordinatore – e la sepoltura del paradigma simbolico matricentrico – animato dalla rivelazione, sostenuto dall’istinto – mi appaiono come una grande follia della quale siamo tutti vittime e per la quale tutti, in misura più o meno sentita, ci sentiamo smarriti. L’anima selvaggia è sepolta, la coscienza dorme un sonno ipnotico. Dobbiamo avere il coraggio di morire e rinascere. Morire in vita per discendere nel mondo sotterraneo e riprenderci l’anima, per poi rinascere a nuova vita. La donna è fortemente chiamata a questa iniziazione poiché è la creatura più vicina al grembo della terra e all’istinto. Cosa può condurre una donna nel mondo sotterraneo, se non una favola? Un canto ammaliatore che induca la donna ipnotizzata a muoversi, come una sonnambula, e a camminare verso la Grande Soglia. Una favola che sappia infondere il coraggio necessario per non fuggire, per attraversare e fronteggiare le grandi prove che si presentano prima del ritrovamento dell’anima selvaggia, il più grande dei tesori, la spada magica, l’anello del potere, l’elisir dell’immortalità. Un canto che sappia anche ricondurla, dopo il ritrovamento sacro, al mondo ordinario, passando attraverso una purificazione indispensabile. Nessuno può discendere nel mondo sotterraneo e poi tornare tra i vivi senza essere stato purificato. Le donne hanno bisogno di favole. Ma non favole qualsiasi, non quelle favole alle quali è stato strappato il cuore, ma le potenti favole che vivono nell’istinto, i racconti che di primo mattino gli gnomi sussurrano intorno al letto delle ragazzine poco prima del loro risveglio, i canti che si apprendono dalle salamandre, dagli elfi, dalle ondine e soprattutto dalle streghe. Vi è stato un tempo in cui le favole di potere vivevano tra la gente alla luce del sole e tutti ne potevano beneficiare. In quel tempo, quando una donna era incinta, si raccontavano favole al nascituro perché potesse divenire un grande uomo. Le favole di potere accompagnavano l’esistenza di ogni individuo dal momento del suo concepimento al suo trapasso e anche oltre. Le favole non conoscono separazione tra morte e vita. Così, quando lo sciamano, capo villaggio, suonava il suo tamburo per radunare la tribù ed
evocare gli avi, morti e vivi si ritrovavano insieme ad ascoltare favole. La forza di ogni clan, di ogni tribù, di ogni gruppo e di ogni singolo uomo dipendeva dalla potenza delle storie che udiva. Certe storie ci pongono di fronte a vari archetipi che sono le matrici della nostra esperienza umana, ci parlano dell’origine delle cose, di quando un comportamento o un evento è venuto in essere per la prima volta, in illo tempore; dunque, ci consentono di avere potere sugli eventi, sui comportamenti e sulle cose. Così in riva al canale – e non potrei farlo in altro luogo – mi metto a scrivere per te delle storie che ho raccolto in giro per il mondo. Storie che hanno segnato il mio percorso e che oggi mi fanno sentire vicina a James Hillman più di qualsiasi altra conoscenza. Ho raccolto queste storie in tre luoghi diversi dell’Asia: in Birmania, in Tibet e in Bhutan, a testimonianza di un percorso – quello nello yoga sciamanico a cui io sono legata – che affonda le proprie origini nella tradizione animistica di una antica etnia tibeto-birmana. In primavera le panchine che fiancheggiano il canale sono il luogo migliore dove scrivere. Mi sono portata anche il pranzo perché so che non riuscirò a tornare a casa tanto presto. Eccoti, cara donna del futuro, le mie storie.
Thonban Hla
Nella città di Pagan, in Myanmar, ho raccolto la meravigliosa storia di Thonban Hla. Si tratta del quinto dei trentasette Nat venerati dal popolo birmano come divinità di natura. I Nat sono figure straordinarie, si pensa che un tempo fossero realmente esistiti. Popolano la foresta che si estende tutt’intorno alla città di Pagan e risiedono sul Monte Popa, una montagna di origine vulcanica non molto distante dagli antichi templi di Pagan. I birmani costruiscono per i Nat delle piccole casette sui rami degli alberi o nelle fenditure dei tronchi, si tratta di luoghi di culto nei quali periodicamente depositano offerte: cibo, acqua, profumi... Il nome Thonban Hla significa “colei che è tre volte bella”. Thonban Hla era una giovane ragazza con una straordinaria dote per il canto e la danza. La bellezza di Thonban Hla era tale da mutare tre volte al giorno, in sintonia con
le variazioni della luce. Mettendo a frutto i propri talenti, la ragazza si esibiva cantando e danzando nelle piazze e all’entrata dei templi, ricevendo in cambio le offerte del pubblico che si radunava sempre numeroso. Specialmente durante i giorni di festa Thonban Hla faceva incassi strepitosi perché le famiglie si riunivano nei templi, portandosi le vivande per bivaccare e passare la giornata tra preghiere, giochi di società e attività sociali di vario tipo. Di giorno in giorno la ragazza diventava più bella e più brava tanto che la sua fama si estendeva al di fuori dei confini del regno. Parallelamente alla sua bellezza crescevano i suoi guadagni. La famiglia della ragazza si abituò presto a quelle entrate procurate dalla più giovane di tutti loro. Il padre smise di lavorare e i fratelli, che non avevano ancora trovato un’occupazione stabile, smisero di cercarla e si diedero unicamente ad accompagnare Thonban Hla alle sue esibizioni e a incassare i soldi a spettacolo finito. Incapace di gestire se stesso nell’ozio, il padre beveva molto insieme agli amici. Quando rientrava a casa ubriaco molto spesso picchiava Thonban Hla senza ragione. Così cresceva, nella ragazza, una grande rabbia verso il padre e verso la madre che non la difendeva. La fama della bellezza di Thonban Hla giunse fino al regno dei Mon, dove il figlio del re incominciò a fantasticare sulla bellissima cantante fino a che, giunto in età in cui doveva prender moglie, decise che non avrebbe sposato nessun altra al di fuori di lei. Diede dunque ordine al generale del regno, suo fedele amico, di andarla a prendere e di portarla a palazzo. Immediatamente la corte gli si rivoltò contro: Thonban Hla, infatti, non era di etnia Mon. Ma la rivolta in verità era manovrata dalle dame di corte, ciascuna delle quali sperava di divenire la moglie del principe o aveva una figlia che sperava di far maritare con lui. Le donne sobillavano i propri padri, i fratelli e i mariti contro la decisione del figlio del re. Il principe era così ossessionato dai propri sogni sulla bellissima cantante che decise di mettere la corte di fronte al fatto compiuto di modo che nessuno avesse né il tempo, né l’occasione di intralciare i suoi piani. Ordinò al generale di sposarlo con Thonban Hla per procura non appena il generale l’avesse trovata e poi di condurla a palazzo. Ma, prima che la ragazza arrivasse presso il suo sposo, le cortigiane convinsero il re che Thonban Hla aveva sì un bel viso, ma aveva anche un corpo enorme e deforme. Cosicché il re decise di non riceverla a corte, ma le fece costruire una casetta al di fuori delle mura del castello nella quale la confinò.
In un’altra versione della leggenda Thonban Hla sarebbe fuggita di casa per via dei maltrattamenti subiti dal padre e avrebbe raggiunto il regno dei Mon grazie a un ciondolo magico che le permetteva di spostarsi velocemente senza essere vista. L’amuleto le era stato regalato da un mago molto potente che lei aveva incontrato nel suo peregrinare e che si era innamorato di lei. La leggenda vuole che il mago, separandosi da Thonban Hla e dal proprio amuleto, morì. Giunta nel regno dei Mon ed entrata nel palazzo reale grazie all’amuleto che la rendeva invisibile, Thonban Hla decise di rivelarsi al principe e di farlo innamorare di sé per divenire regina. L’invidia delle cortigiane lavorò instancabilmente per screditare la bella regina agli occhi del re. Mormoravano che fosse una indemoniata, perché solo una donna che aveva venduto l’anima al diavolo poteva essere tanto bella. Ribelle, perché sempre fondamentalmente arrabbiata con il padre e la madre, Thonban Hla non riuscì a restare entro le regole del matrimonio. Ebbe come amante il generale del regno dei Mon, prezioso amico di suo marito. Quando Thonban Hla rimase incinta, l’invidia delle cortigiane raggiunse le stelle e tanto fecero e tanto dissero queste donne che convinsero il re a sorvegliare la propria sposa. Così il re venne a sapere che Thonban Hla aveva un amante e che questo amante era il generale che egli credeva fedele amico. Le cortigiane convinsero anche il re di non accettare il figlio che Thonban Hla portava in grembo, poiché il re non poteva essere certo che fosse suo, malgrado Thonban Hla avesse giurato che lo fosse. In un’altra versione, le cortigiane invidiose convinsero il re che Thonban Hla era un’indemoniata, poiché solo un’indemoniata poteva mutare bellezza tre volte al giorno in sintonia con le variazioni della luce. Thonban Hla venne scacciata dal regno, allora seppe com’era lunga la strada e com’era denso, duro, pesante il mondo senza l’amuleto che le aveva regalato il mago. Privata di tutti i suoi averi, allontanata dalla reggia dai soldati del re, vagò sola, disperata, randagia per i boschi finché, non avendo provviste né aiuti da nessuno, fu quasi sul punto di morire. Un brigante in fuga dalle guardie del re la salvò portandola con sé sul suo cavallo fino a un lontano villaggio. Quando Thonban Hla si riprese, camminando per le vie del paese dov’era giunta, si accorse di essere tornata nel proprio villaggio natale. Ritrovò la casa della sua infanzia che era ancora abitata da uno dei suoi fratelli. Il padre
e la madre erano morti e gli altri fratelli avevano lasciato il paese. Il fratello la portò sulla tomba dei genitori e Thonban Hla poté piangerli, dopodiché si sentì libera di ricominciare a vivere e di amare il fratello che aveva ritrovato e che era tutto ciò che le rimaneva della sua famiglia. Thonban Hla prese a vivere nella casa della sua infanzia insieme al fratello ed ebbe una splendida bambina. Per guadagnare da vivere per sé e per la figlia, iniziò un’attività di tessitrice. In poco tempo l’attività crebbe e la bella Thonban Hla si trovò nuovamente a guadagnare molti soldi. Assunse delle tessitrici e ingrandì il laboratorio. Usando il ricavato del proprio lavoro costruì una pagoda che chiamò Lin ma Kyi, che significa “Odio il marito”. La fama della bellezza delle sue tele iniziò a viaggiare al di fuori dei confini del paese, poi oltre i limiti del regno e, di regno in regno, viaggiò fino ad arrivare alle orecchie della corte del re suo marito. Poiché l’invidia della bellezza non s’era spenta, le cortigiane corsero a riferire al re che la sua sposa aveva costruito una pagoda come monumento del grande disprezzo che nutriva per lui. Poi mandarono i loro padri, i loro fratelli, i loro mariti dal re al fine di convincerlo che un simile affronto non poteva rimanere senza vendetta. Così, un giorno, il re e il generale – che erano rimasti uniti fra loro, legati dall’idea che lei fosse morta per il fatto di essere stata abbandonata nei boschi – decisero di mandare dei sicari a cercarla e ucciderla per la seconda volta. C’è una tremenda solidarietà nel peccato, la quale porta a commettere crimini sempre più gravi. Ma ora, per avere Thonban Hla, i due avrebbero dovuto prenderla. A turno gli uomini del paese scortavano Thonban Hla e la figlia. Le proteggevano giorno e notte, come fossero il loro tesoro. Il re e il generale inviarono per ben tre volte dei sicari che furono puntualmente fermati da chi vegliava sulla vita di Thonban Hla. Un maledetto giorno, un sicario riuscì a ferire Thonban Hla, procurandole una brutta ferita alla schiena che il fratello di lei curò amorevolmente. Lei si aspettava che il re e il generale decidessero di dotare un sicario dell’amuleto magico, per consentirgli di muoversi più veloce del vento. Ma non lo fecero mai, temendo di poter perdere l’amuleto. A tal punto arrivò la follia omicida dei due che, alla fine, decisero di muovere guerra all’etnia straniera che proteggeva Thonban Hla. A mezzo dell’esercito più forte del continente, il generale fece assalire un villaggio di contadini assolutamente impreparato alla guerra.
Molto prima dell’avvento dei soldati, Thonban Hla e la figlia furono avvisate da un gruppo di nomadi che l’armata dei Mon stava muovendo verso il loro villaggio. Per non causare problemi al fratello e al villaggio, Thonban Hla decise di andarsene. Mentre il fratello e gli uomini del villaggio stavano organizzando la resistenza, la ragazza fuggì nella notte, portando con sé la figlia e l’occorrente per il viaggio. Lasciò al fratello un piccolo pezzo di seta su cui aveva scritto queste parole: Non voglio che qualcuno venga ucciso a causa mia. Se è destino che io muoia, qualunque sacrificio sarebbe vano. Se è destino che io viva, comunque mi salverò. Il mio amore ti sarà sempre accanto. Ho a sufficienza conosciuto questo mondo per sapere che l’amore va oltre la morte. I soldati Mon, non trovando Thonban Hla, incendiarono le case del villaggio. Uccisero il fratello e torturano altri per cercare di estorcere informazioni circa la direzione presa da Thonban Hla per la fuga. Quello che ottennero furono solo false notizie che li depistarono. Ma nelle settimane successive, l’esercito reale esplorò il territorio circostante il villaggio dove abitava Thonban Hla in tutte le direzioni. I soldati del re distrussero altri cinque villaggi e tre accampamenti nomadi poiché sospettati di dare asilo alla fuggiasca. Il generale – che dava ordini all’esercito dalla reggia, a mezzo di veloci corrieri a cavallo – non avendo trovato Thonban Hla dopo un mese di atroci ricerche, ritirò le truppe sgomento. Si presentò al re a testa bassa per dirgli che Thonban Hla era ancora viva. I due conclusero che, se era riuscita a sfuggire al loro esercito, doveva proprio avere dei malefici e tremendi poteri. L’immagine dell’indemoniata che la corte aveva affibbiato a Thonban Hla divenne per il re e il generale un’ossessione che tormentò le loro notti fino alla fine dei loro giorni. Anche perché, avendo perso le tracce della ragazza in via definitiva, vissero per sempre con la sensazione che potesse comparire accanto a loro all’improvviso. Questa idea crebbe a tal punto da impedire loro di prendere sonno. Il re, il quale era già molto debole, fu a tal punto tormentato dalle sue paure ossessive, che perse il senno e venne destituito dal Consiglio. Il generale, che prese il controllo del regno ad interim dopo la deposizione del re, fu fatto assassinare dalla seconda moglie del re, la quale voleva il trono. Nella foresta, Thonban Hla e la piccola figlia erano aiutate dagli spiriti e
perciò trovavano sempre cibo e rifugio per la notte. Ma la ferita alla schiena di Thonban Hla si era infettata e giorno dopo giorno peggiorava. Finché, vinta dalla febbre dovuta all’infezione della ferita, Thonban Hla prese a camminare barcollando. Le gambe non la reggevano più ed era come se una fiamma le bruciasse il dorso. L’attimo prima di cadere, si adagiò mollemente sul fianco, proteggendo la bambina tra le sue braccia. Piegò le ginocchia e si rannicchiò, così da creare una culla per la sua piccina. Shin-nemi avrebbe compiuto due anni l’indomani. Dormiva e, probabilmente a causa del calore febbrile che emanava il corpo della madre, aveva un leggero rossore sul viso. Thonban Hla guardava incessantemente la sua bambina. Solo per una attimo alzò gli occhi dal volto della figlia e, in quell’istante, vide un uomo su di un cavallo bianco. Forse era davvero presente. Forse era finalmente l’uomo che l’avrebbe amata di quell’amore che lei era andata cercando per tutta la vita. Forse era il frutto del delirio causato dalla febbre alta. Forse l’eco di una visione. Thonban Hla lo guardò brevemente, poi tornò a fissare gli occhi sul volto di Shin-nemi. Thonban Hla guardava ancora la sua bambina con un’espressione dolce sul viso, il cavaliere non pensò che la donna fosse morta. Le si rivolse gentilmente, ma poiché lei non dava cenno di aver percepito la sua presenza, lui si chinò su di lei e capì. Non osò chiudere i suoi occhi, perché guardavano quelli della bambina con tanto amore. Non sapeva che fare. La scena di quella bellissima donna morta e della sua bambina era talmente profonda e impenetrabile che la sua mente restava vuota, non produceva immagini, non interpretava e il flusso dei suoi pensieri era sospeso. Thonban Hla era di nuovo lì, accanto a lui, e aveva ripreso a guardarlo. Essendosi spogliata del suo abito di carne e ossa, Thonban Hla aveva raggiunto il regno degli spiriti sulla cima del monte sacro... ma, in un attimo, ne era di nuovo discesa, a causa dell’amore che la legava a Shin-nemi. In quegli istanti tutti i passaggi della realtà erano aperti per Thonban Hla, la quale avrebbe dovuto decidere con immediatezza attraverso quale porta incamminarsi, altrimenti il vento del destino avrebbe scelto per lei. Tuttavia, anche chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dal vento era una delle
possibilità che le venivano date in quei momenti. L’uomo che era al suo fianco era venuto per ricordarle chi fosse e aiutarla a fare una scelta consapevole. In verità non era neppure un uomo. Si chiamava Maung Tin Te ed era il fratello maggiore di Thonban Hla nel mondo degli spiriti. Egli alzò lo sguardo per osservare in viso lo spirito di Thonban Hla che stava in piedi accanto al corpo esanime, prima sua dimora. Sono tuo fratello, Signore del fuoco, Maung Tin Te. Sono venuto per indicarti le porte, le disse. Maung Tin Te si alzò in piedi e, girando su se stesso, additò a turno le quattro direzioni dello spazio. Poi continuò a parlare dolcemente: Là è l’ovest, compiendo un solo passo in quella direzione ti troverai sul monte Popa, il mondo degli spiriti. Là è l’est, muovendoti verso est ritornerai nel tuo corpo umano e potrai riportarlo alla vita. Là è il sud, dove devi andare se vuoi rimanere, quale spirito, nel mondo umano, al fine di proteggere, a mezzo dei tuoi poteri, chi ti è caro, o vendicare la tua morte. Infine quello è il nord, la direzione nella quale devi muoverti se desideri abbandonarti al vento del destino e lasciarti trasportare, addormentata, nel transito dalla morte a una nuova rinascita. Non perder tempo, sorella, decidi ora, o sarai trascinata in una o nell’altra direzione tuo malgrado, perdendo quella facoltà di avere potere sugli eventi che possiedi in questo istante luminoso. Ricorda gli insegnamenti che hai ricevuto, lascia andare ogni attaccamento a persone, cose e luoghi che hai conosciuto. L’arte segreta dell’operare una scelta è nel non provare né attrazione né repulsione per alcuna delle possibili direzioni. L’arte segreta del morire è nell’assumersi la piena responsabilità per tutto ciò che accade, nel non avere alcun timore, nel non aggrapparsi ad alcuna aspettativa. Non respingere né anelare, rimani nello stato naturale. Lascia che le tue sensazioni fluiscano spontaneamente, come le nuvole passano nel cielo e l’acqua scorre nei fiumi. Allora, senza affermare né negare alcuna possibilità, lasciandoti riposare nel silenzio dell’immobilità originaria, ti troverai nella direzione prescelta e, senza compiere sforzi, ti incamminerai sul sentiero. Prendendo le distanze dal mondo umano e dal mondo degli dei allo stesso modo, non fare sforzi per essere qualcosa o qualcuno. La suprema condotta è assenza di sforzo, la meta è raggiunta senza alcun cammino da percorrere. Rimani nel silenzio dell’immobilità della tua origine. Ti voglio molto bene, Thonban Hla.
Thonban Hla rimase immobile a contemplare il proprio cadavere, che ancora stringeva la figlia addormentata tra le braccia. Fluivano in lei pena e dolore per quel che vedeva, interrotti a tratti da vampate di rabbia bruciante. Ma tutto lasciava scorrere, senza farsi muovere da alcuna forza, mantenendo la mente in uno stato di perfetta quiescenza. Vedeva con chiarezza – nella luce – che le emozioni erano schiere di dèmoni e geni, i quali accorrevano da ogni passaggio aperto per contendersi il suo cadavere. E così si espresse Thonban Hla: Venite dèmoni, geni e voi tutti che godete del miracoloso potere di attraversare le porte dei mondi in qualsivoglia direzione desideriate, partecipate al banchetto, offro il mio corpo come dono con gioia, senza il minimo attaccamento. Io sono stata la fonte di tutto ciò che ho sperimentato in vita. Gli eventi che mi sono accaduti sono stati sogni e io ero la sognatrice dei sogni. Ho la chiara comprensione del fenomeno quale illusione. A cosa serve la barca a chi ha già attraverso il fiume? Maung Tin Te vide la piccola Shin-nemi aprire gli occhi e guardare il viso della madre. Poi, notando che gli occhi di Shin-nemi restavano fissi negli occhi di Thonban Hla, come gli occhi di Thonban Hla erano fissi in quelli di Shinnemi, Maung Tin Te sorrise, comprendendo la scelta di Thonban Hla. Se ne era andata la dea, portando con sé per mano la sua cara bambina sulla cima del monte sacro, dimora dei grandi spiriti. Maung Tin Te diede sepoltura ai corpi, recitando le preghiere. Ma non raggiunse la sorella nel regno degli spiriti, se non prima di aver sistemato ciò che ancora nel mondo umano era turbato, squilibrato. Maung Tin Te, il Signore del fuoco, ordinò all’amuleto magico, che tristemente penzolava dal collo di un re confuso e impotente, di liberarsi dalla catena che lo teneva e di consegnarsi al vento, affinché lo trasportasse sulla cima del monte sacro, ai piedi di Thonban Hla. La dea lo raccolse con la mano sinistra e, senza esitare, lo lanciò dalla cima del monte. Il talismano attraversò le nuvole, infine raggiunse la terra a pochi centimetri da dove un fuorilegge stava camminando. Il bandito dovette fermare il suo piede a mezz’aria per evitare di calpestarlo. Lo raccolse. Su un lato vi vide inciso un simbolo esoterico, sull’altro vi lesse una parola blu: Grazie, e una firma a caratteri d’oro: Thonban Hla. Da allora la dea e la bambina, dall’alto del monte Popa, proteggono e guidano gli outsider, coloro che hanno un sogno nel cuore e non si arrendono
mai; gli artisti, i folli, i mistici che respirano all’unisono con la terra non temono la morte, ma amano la vita al punto che non possono rinchiudersi in una quotidianità arida di veri ideali e vogliono vivere per più alti valori, coloro che pulsano di vita, non zombi privi di sangue, ma uomini e donne che hanno straordinari momenti di rivelazione, ispirazione e lucidità penetrante. Gli outsider sono tutti coloro che non stanno dentro ai ruoli e ai comportamenti prestabiliti. Possono essere artisti, persone spirituali, scrittori, avventurieri, sciamani sociali, visionari e veggenti, abituati a mettere alla prova i limiti: sfidano i valori culturali comuni alla ricerca della Verità. Quando creano, gli outsider perdono la propria identità nella loro opera. Essi sono individui impegnati in una intensa auto esplorazione. Nati in un mondo senza prospettive, dove gli altri semplicemente si fanno trasportare dalla corrente, essi creano il proprio sistema di regole e le vivono, malgrado ciò che sta loro intorno. In una società dove l’uomo medio è un conformista che accetta le miserie e i disastri con lo stoicismo di una mucca che vede un treno sfrecciare ad alta velocità al di là del passaggio a livello che delimita il proprio campo, gli outsider combattono senza arrendersi. Le culture che incorporano gli outsider possono beneficiare del loro contributo. Le culture che alienano gli outsider reprimendoli perdono i contributi più visionari, innovativi e rischiano di finire in una situazione malsana. L’outsider non solo deve farsi accettare, ma deve riuscire ad avere successo, perché solo in questo modo egli può aiutare la società e la razza umana a evolvere. La sua mente ha lo stesso potere delle sue mani, non quello di afferrare il mondo, ma quello di cambiarlo. Trovare l’outsider dentro se stessi e risvegliarne l’incredibile potenziale è fondamentale per tutti coloro i quali condividono la sensazione che vi sia bisogno di una rinascita della religione di natura, una religione della libertà, e di una capacità di ecologia profonda su questo pianeta. Si narra anche che Maung Tin Te abbia inciso nella terra che ricopriva il corpo di sua sorella e della bambina il medesimo pensiero che Thonban Hla aveva lasciato al fratello umano: L’amore va oltre la morte. Si racconta anche che, in quello stesso luogo, crebbe un albero da cui ancora oggi stilla una resina magica, capace di guarire all’istante qualsiasi ferita.
La Vecchia Signora
Dentro ciascuna di noi, vi è una parte della nostra psiche che nella rabbia, nel dolore, nella morte si accresce e si trasforma in modi sempre più eccelsi e divini. Dobbiamo essere capaci di attraversare la vita guardando simultaneamente le due parti di noi: quella mondana e quella selvaggia. Solo la nostra parte mondana è peritura perché si è costruita sulla base di un’immagine del tempo lineare, ma la nostra anima selvaggia partecipa di un tempo circolare in cui la nostra fine è il nostro inizio e il nostro inizio è la nostra fine. Il tempo è circolare per l’anima. La leggenda di Thonban Hla ci insegna che la morte non può che innalzare la nostra anima e la morte ci accade continuamente come conseguenza del fatto che siamo vivi. In ogni istante possiamo chiudere gli occhi e pensare di morire ma, in quello stesso istante, appena siamo nel buio, dobbiamo decidere quale direzione prendere nella nostra prossima rinascita. Perciò la morte in vita è foriera di rinnovamento. Thonban Hla ci insegna che la scelta va presa nella morte, non nella vita. Chi è capace di vedere simultaneamente nella morte e nella vita, chi sa stare con la propria parte mondana e selvaggia a un tempo, comprende che per decidere deve calarsi nella morte, là dove non vi sono scale di valori socialmente imposte, condizionamenti di massa, ipnosi sociali, al di là del bene e del male. Quando chiudo gli occhi, esprimendo in questo semplice gesto la volontà di abbandonare il mondo secolare per immergermi nel mondo infero, posso persino toccarti, Eva, prenderti per mano. Assai spesso, in questi momenti, mi vengono alla mente i versi del mistico poeta Rumi, ricordato come il più grande dei sufi. Amanti, amanti è tempo di abbandonare il mondo: il tamburo che chiama al viaggio paradisiaco risuona nelle mie orecchie. Il cammelliere si è ridestato, prepara la carovana e ci chiede di salutarlo: “O viaggiatori, perché dormite ancora?”. Tutto intorno a noi si odono i suoni della partenza e le campane dei cammelli; in ogni istante un’anima e uno spirito partono per Nessunluogo1. La sciamana birmana che mi consegnò la seconda versione della storia di
Thonban Hla mi insegnò che la morte può guarire ogni male della vita. Stando con lei per un apprendistato davvero magico io ho imparato a chiudere gli occhi molto spesso esprimendo con questo semplice gesto l’intenzione di calarmi nel mondo sotterraneo, morendo al mondo ordinario. Quando sono nel mezzo di un qualsiasi problema, mi disse la sciamana birmana, io chiudo gli occhi con questa intenzione. Ogni ansia, ogni angoscia cessa, in breve vedo con chiarezza di essere al centro di una sorta di rosa dei venti che mi rappresenta le quatto direzioni cardinali. Dapprima le quattro punte della rosa dei venti si muovono disordinatamente, poi, piano piano si acquietano, puntando ciascuna in una direzione precisa. Io rimango a occhi chiusi fino a che gli aghi non sono fermi, allora so che le mie ansie e le mie angosce sono cessate e la mia mente è calma, quindi lascio che quattro possibili soluzioni al mio problema emergano nei quattro punti cardinali segnati dalla rosa dei venti e alla fine decido in quale direzione muovermi. È bene che la donna comprenda la propria natura lunare, notturna e che non abbia paura della morte. Al contrario, deve scoprire la morte come maestra. Non è sempre vero che vivere è meglio che morire, questo è un tabù del modello simbolico patricentrico. Dipende da cosa si intende per vita e da cosa si intende per morte. La morte in vita è l’incontro con Ade che porta saggezza e rinnovamento. Nelle favole e nelle leggende la morte è quasi sempre rinnovamento, mai sconfitta finale, è una tappa che eleva e trasporta il racconto su di un altro piano, più spirituale. Se puoi chiudere gli occhi, entrare nel mondo sotterraneo, nella morte, cioè immergerti nel tuo problema, in tutti i tuoi problemi presenti, passati, futuri, nei tuoi errori, nelle tue perdite, mancanze, difficoltà, malattie, peccati, disagi e disturbi, vedendo tutto dall’altra parte, dalla prospettiva di Ade, allora puoi trarre da ogni apparente male una straordinaria energia. Una donna può fare questo. In mezzo a qualsiasi bufera, in qualsiasi uragano, dobbiamo ricordarci di essere donne e di avere lo straordinario potere di chiudere gli occhi. La donna è l’outsider di questo mondo, poiché si tratta di un mondo costruito su di un modello simbolico patricentrico che ha portato all’esasperazione i propri valori. Pur tuttavia, proprio in questo mondo la donna può trovare tante presenze maschili che le sono amiche: il mago che le regala il talismano per essere invisibile, il bandito che le salva la vita, il fratello umano, il fratello divino.
La saggezza femminile sta nel sottrarsi allo sfruttamento perpetuato da presenze maschili deboli e arroganti, assetate di potere: il padre, il re, il generale... e unirsi a quelle presenze maschili che sanno esaltare la bellezza della femminilità. Il maschile e il femminile sono universi distinti ma non separati, come l’immagine del Vajrapani nell’unione erotica con la propria compagna ci ricorda. La sciamana birmana che mi raccontò di Thonban Hla m’insegnò il Rito della Non-Esistenza. Si tratta di un rituale che io insegno a tutti coloro i quali – uomini e donne indistintamente – vogliono imparare a risolvere i momenti di crisi entrando nel mondo sotterraneo e vedendo ogni cosa da un’altra prospettiva. Grazie al rituale della Non Esistenza si riesce a vedere il mondo da molto lontano, lo si comprende allora nella sua totalità come una creatura piccola e fragile. Si vede la propria vita nella completezza del suo tempo circolare, vita/morte/vita, e ci si unisce alla comunità degli esseri spirituali (i Nat del monte Popa) che continuamente muoiono per rinascere a una vita sempre più nobile e intensa. A mezzo della pratica del rito della Non Esistenza io ti conosco, Eva, perché posso venire nella tua dimensione, quella appunto di coloro che non esistono ancora, eppure non sono assenti, ma solo invisibili. La leggenda di Thonban Hla insegna alle donne lo straordinario potere della transvalutazione. Nella storia, infatti, il fuorilegge è l’eroe positivo, mentre il padre, il re, il generale sono personaggi negativi. Tutti questi personaggi sono archetipi, aspetti fondamentali della psiche. Noi donne dobbiamo imparare a conoscere tutti gli aspetti della nostra psiche, anche quelli che la società patricentrica teme, e dunque mette al bando, e ritrovarli dentro di noi riprendendo a condurre una vita in armonia con la natura selvaggia. Questa operazione viene fatta guardandosi alle spalle e considerando quelli che riteniamo essere stati i nostri principali errori. Per ogni sbaglio possiamo individuare un aspetto della nostra personalità, un nostro modo d’agire che siamo abituate a ritenere sbagliato. Ebbene la transvalutazione si compie ribaltando il significato degli episodi della nostra vita, sentendo che dentro i nostri errori e le nostre cosiddette sfortune c’è la nostra più pura potenza. Ritroviamo gli aspetti della nostra psiche che abbiamo tacciato di inadeguatezza e riscopriamoli come elementi fondanti e irrinunciabili di noi stesse! Anziché darci tanto da fare per voler sempre
cambiare noi stesse, incominciamo ad amarci fino in fondo per ciò che siamo! Se degli aspetti di noi non sono risultati vincenti fino a oggi nel mondo non è perché sono sbagliati, ma è perché noi non li abbiamo amati abbastanza, non abbiamo dato loro sufficiente fiducia. Ma la trasvalutazione più grande e potente a cui la leggenda di Thonban Hla ci invita è quella che sostituisce la mamma con la Madre. Vi è una versione della storia poco conosciuta in cui si narra un particolare che non viene raccontato nelle versioni più popolari, si tratta del momento in cui Thonban Hla piange sulla tomba dei genitori morti. Dopo aver vissuto il lutto, la ragazza rinasce a nuova vita e può fare cose che prima non era in grado di fare, come amare il fratello e vivere in armonia con lui. Ogni donna deve attraversare una fase della propria esistenza in cui lascia il proprio legame con il simbolo della mamma umana per immergersi nella propria natura selvaggia e contattare la propria madre cosmica. La sciamana di Pagan che narra agli avventori la leggenda di Thonban Hla li accompagna anche in un rito di passaggio in cui essi possono fare questo grande trapasso simbolico. Lo fa incantandoli, ipnotizzandoli, con parole poetiche che sono dette “formule psichiche della creazione immaginale” o “formule magiche”. Io, che dopo tanto cercare ho trovato me stessa, danzo ora nel cielo insieme agli uccelli dalle ali d’orate della pura creatività e non mi appoggio più su nulla, non ne ho bisogno, mi sostengono i venti della creatività che mi trasportano dovunque io voglia andare. Perciò comprendo la non appartenenza al grembo di mia madre che amo ancora di più adesso, perché adesso io so lasciare andare l’attaccamento che ho nutrito verso di lei. Sono libera e respiro tutta l’aria svuotando il cielo a ogni inspiro e riempiendolo di nuovo a ogni espiro, tanto che ora esisto e ora non esisto, ora sono il tutto e ora sono il nulla. Mi è madre la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria, mi è madre la luna che mi accompagna nella notte e il canto dei miei avi che mi giunge da dentro il cuore, come un tamburo che batte. La sciamana di Pagan mi ha insegnato che esistono due morti: la morte nell’oblio e la morte nella quale si può agire in modo da non dimenticare. Ci sono persone che basano tutta la loro esistenza sul potere sociale che riescono ad acquisire. Queste persone finiscono per dimenticare che esiste un potere naturale, un potere delle ossa, dello scheletro ben più vasto del potere
mondano. Agendo durante la vita in totale dimenticanza del potere naturale, si può pensare che queste persone finiscano per non poterlo più trovare nel momento in cui ne avrebbero massimamente bisogno, il momento del transito dalla vita alla morte e dalla morte alla successiva rinascita. In questo modo si può ritenere che esse muoiano dimenticando e che rinascano dimenticando. Gli iniziati, coloro che in vita hanno ricevuto insegnamenti spirituali particolari, vivono coltivando il loro potere naturale. Si può pensare che la morte dischiuda per essi tutta la potenza contenuta nelle ossa ed essi possano agire in modo da non dimenticarlo e ugualmente possano rinascere, sancendo così, di fatto, una sorta di immortalità della loro consapevolezza che è in grado di ricordare oltre la morte e oltre la nascita, ricordare ciò che conta veramente, ricordare ciò che si è. La prima di tutte le iniziazioni riguarda la capacità di morire in vita e di guarire la vita attraverso la saggezza di Ade. Perciò la prima di tutte le iniziazioni consiste nell’apprendere a chiudere gli occhi con l’intenzione di morire al mondo, di sprofondare nel ventre di Ade dove si muove la rosa dei venti. Se farai ciò ogni volta che ti sentirai affranta, Eva, vivrai una vita in cui le difficoltà, anziché abbatterti, ti permetteranno di accrescere il tuo potere naturale e agirai, nella tua ruota vita/morte/vita, in modo da non dimenticarlo. Ogni volta che chiuderai gli occhi il tuo Io istintuale sarà con te, annuserà l’aria e ti mostrerà la direzione. Non dimenticare di chiudere gli occhi prima di ogni decisione importante e così fai ogni mattina, perché ogni giornata della tua vita è un evento importante, e così fai ogni sera, perché ogni sonno e ogni sogno della tua vita è un accadimento importante. Possa la tua anima selvaggia metterti sulla via della liberazione finale: questa è la benedizione della sciamana di Pagan. La donna tre volte bella
Thonban Hla significa “tre volte bella”, poiché Thonban Hla esprime la reale natura della donna che è sempre mutevole. Il principio della non contraddizione e la logica che ne consegue sono una trappola per l’Io immaginale. Il modello simbolico patricentrico consente la nascita del pensiero logico e filosofico. Ma la donna rimane legata alla dimensione numinosa assai più dell’uomo. In questa dimensione il numero uno non esiste, se non in relazione alla molteplicità.
La donna non può evitare di essere diversa alla sera da quella che era al mattino e di cambiare umore e pensiero in sintonia con le fasi della luce del sole e della luna. Nel mondo della logica (il mondo del re e del generale) questa mutevolezza è peccato, perché ciò che muta non è prevedibile, non è misurabile, in una parola non è governabile. Le visioni monoteiste, almeno nel modo in cui sono recepite dalle masse, sostengono il pensiero ordinatore: un solo dio, una sola verità, un solo capo. Insomma, se è vero A non può essere simultaneamente vero B. Chiaro che nella Trinità A, B e C sono presenti simultaneamente, ma questo è mistero. La logica è la legge e la non logica è mistero. Mistero significa rinunciare a capire, a possedere, a utilizzare. È come se ci dicessero che c’è un solo dio che però, in verità, sono tre, ma questa verità non è fruibile. Pensa, Eva, a nomi di grandi capi maschi delle religioni monoteiste, e pensa al nome di grandi capi donne, intendo uomini e donne a cui è stato affidato un potere istituzionale, lasciamo in pace i santi, per il momento. Probabilmente donne non ne troverai nemmeno una, non fino ai tempi in cui vivo io. Questo dato così semplice (ma non banale), così evidente per tutti basta da sé a spiegare perché Thonban Hla è morta di una morte che non è fine, ma rinnovamento. Thonban Hla ha lasciato la dimensione mondana e si è rifugiata sul monte Popa, nella dimensione selvaggia. Fino a quando dovrà stare in esilio dipende da ciascuna di noi, perché la vera rivoluzione è su basi individuali. Questa rivoluzione interiore può anche passare attraverso il ritrovamento dell’aspetto più esoterico, profondo, mistico e magico delle religioni sociali. Perché proprio le religioni hanno compiuto la grande opera di racchiudere nel proprio seno, custodire, proteggere e tramandare nella storia i simboli più sacri del modello matricentrico. La grande sfida non è tra un modello e l’altro del reale, ma nella capacità di ritrovare le forze naturali dell’anima da parte della donna, affinché questo mondo possa giungere a un equilibrio sano e propizio per tutti. Una vera ecologia del profondo si realizzerà attraverso la conquista di questo equilibrio o non si realizzerà mai. La donna, in quanto tale, è chiamata a un compito straordinario. Ancora sulla rabbia
Ti ho già parlato della rabbia che per me è un’emozione così umana e importante. La rabbia è la conseguenza della separazione della donna dalla propria anima selvaggia a causa del cosiddetto processo educativo. Spesso le bambine dotate di una potente anima selvaggia sono soggette a violenza fisica e/o psicologica, a meno che non siano nate da genitori illuminati in un mondo spirituale. Un’anima selvaggia è cosa così pura, sensibile e potente che basta una minima violenza per scatenare in essa una rabbia furibonda; come è sufficiente un piccolo tocco per generare nel cristallo puro un suono eccezionale. La rabbia è certamente, in questo caso, una forma d’amore, è una fiamma che brucia e, finché non incontra la consapevolezza capace di placarla, incendia tutto ciò che trova. Questa rabbia fa sì che le bambine crescano ribelli. La ribellione le spinge a bruciare ripetutamente le occasioni che si pongono sulla loro strada e a compiere scelte sbagliate nell’intento di “fargliela vedere” al mondo. Così Thonban Hla, proprio con questo proposito ribelle, sposa il re. Il problema è che fino a quando non sorge un’adeguata consapevolezza dell’anima selvaggia, della rabbia e della ribellione, la ragazza è continuamente spinta a compiere azioni autolesioniste nel tentativo di ribellarsi alla normalità (che per l’anima selvaggia giovane e inconsapevole è sempre mediocrità). Così Thonban Hla ripete l’errore quando diviene l’amante del generale. La sciamana che mi raccontò la sua storia mi disse che Thonban Hla non avrebbe dovuto lasciare che il mago che le aveva regalato il talismano morisse, poiché solo con lui avrebbe potuto essere felice in questo mondo. Il mago era follemente innamorato di lei, ma preferì lasciarla libera, leggendo nelle profondità del suo cuore che lei voleva diventare regina per “fargliela vedere al mondo”. Thonban Hla lascia il mago, che muore, cioè cambia dimensione, si trasforma, per andare verso il proprio destino. Thonban Hla, separata dal proprio Io istintuale, sbaglia sostanzialmente a valutare l’origine del vero potere. Il reale potere, quello che veramente conta nella vita ed è capace di renderti felice, non è il potere sociale, bensì il potere delle ossa, della terra, non l’autorità del re, ma la potenza del mago. Il mago, però, lascia a Thonban Hla un talismano che le serve per viaggiare più veloce del vento e rendersi invisibile ma che, soprattutto, le ricorda chi è. È come se in ogni istante, sia quando è in suo possesso, sia quando non lo è, il talismano ricordasse a Thonban Hla di essere stata
immensamente amata da un potentissimo mago e questo fatto le parlasse della bellezza della sua anima. Sai, Eva, ricordo un’allieva della scuola di counselling presso la quale insegno che era in stato depressivo e si lamentava continuamente delle scelte fatte in gioventù, in particolare di non aver sposato un pretendente giovane, ricco e bello che era innamorato di lei. L’idea dell’occasione perduta era talmente ossessiva in lei da farmi pensare che fosse l’occhio del ciclone depressivo che la investiva. Un giorno mi raccontò che lei e quel ragazzo si erano conosciuti perché frequentavano la stessa scuola di recitazione e avevano messo in piedi uno spettacolo in cui lui faceva la parte di un araldo che annunciava ciò che sarebbe accaduto in scena per renderlo più comprensibile al pubblico e lei faceva la parte della moglie di un boss mafioso che si ribellava e, denunciando il marito, riusciva a salvare molte vite. La mia allieva aveva registrato nella sua memoria il ricordo di quel ragazzo come il simbolo di un’occasione perduta, di uno sbaglio che lei aveva commesso. In verità quel ragazzo era un araldo, qualcuno che le annunciava qualcosa: un messaggio d’amore, un invito ad amarsi. Molte donne hanno nei loro ricordi un fidanzato, un amante, un pretendente che rimpiangono. Forse esse dovrebbero comprendere che questo ricordo è il simbolo dell’amore che le lega al loro sposo sotterraneo e dovrebbero imparare ad amarsi. Queste donne hanno una missione da compiere, missione che è stata loro annunciata da un araldo. Quella della sposa o dello sposo sotterraneo è un’immagine straordinaria presente nelle tradizioni sciamaniche nelle quali spesso lo sciamano è colui che ha contratto un matrimonio con uno spirito capace di dargli la conoscenza necessaria alla sciamanizzazione. Lo sposo/a sotterraneo/a è la divinità che traghetta nell’infero (Mercurio/Ecate). È anche chi abbraccia e conduce nel sonno e nei sogni ogni notte. È il rappresentante del regno delle ombre, ci porta i sogni, le immagini degli avi e del doppio animale, i ricordi, le sensazioni di mancanza, le intuizioni. Lo sposo sotterraneo è Dioniso, sposo di Arianna, è Ade ed è Zeus nelle sue apparizioni che si moltiplicano all’infinito per rappresentare l’anima di ogni cosa, di ogni luogo, l’anima mundi, il lato invisibile delle esperienze umane. La visione sciamanica di “matrimonio mistico” incontra l’immagine di “anima mundi” di Hillman aprendoci al piacere sensuale che possono darci le cose. (Si veda a proposito di James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Garzanti, Milano, 1993).
Se queste cose che sto scrivendo, qui, sulla panchina in riva al canale di Edimburgo, nel sole tiepido di una felice primavera, giungeranno fino a te e se tu le leggerai quando sarai ancora poco più che bambina, ho la presunzione di immaginare che ti saranno d’aiuto. Dopotutto a cosa servono gli avi se non a parlarci di noi stessi e ad aiutarci a conoscerci? La partenza
La religione della Madre nasce di notte, ben al di sotto delle radici degli alberi. Le favole spesso iniziano con una frase magica: Venite con me, nel mio mondo incantato per sognar. Questa frase è una ri-edizione edulcorata di quella che ogni sciamano cantastorie ha nel cuore quando rivela dei segreti importanti. Questa frase è: Sei pronta a venire con me nella notte, ben al di sotto delle radici degli alberi? Incontrerai la tua anima selvaggia e il potere delle ossa e troverai il grande tesoro che ti attende da sempre, ma devi allontanarti molto dalla tua casa natale e da tutto ciò che ti è noto. Devi addentrarti nella notte, finché troverai un’apertura che conduce verso il basso, una crepa, un buco, un tronco cavo di un albero, senza esitazione alcuna dovrai infilarti lì dentro e lasciarti cadere, come Alice nel vuoto. Nessuno può dire per quanto tempo dovrai cadere, forse per un attimo, un giorno, un mese, un anno... di certo, quando atterrerai sarai nel regno di Persefone e lei curerà tutte le tue ferite e ti condurrà per mano al raggiungimento del tuo tesoro, il tuo Graal, la tua spada magica. Cara Eva, sai che leggere il racconto del nagpa e della rogyapa che sto per scriverti equivale a partire da casa, avventurarsi nella notte ed entrare nell’apertura misteriosa? Nessuno può dire quanto tempo dopo aver letto questo racconto tu incontrerai la tua potenza e, insieme a lei, raggiungerai il tuo tesoro, ma di certo, infallibilmente, ciò accadrà. Può un racconto essere tanto potente? Sì, certo! Noi siamo fatte della sostanza delle favole, abitiamo immagini, respiriamo emozioni, siamo vento che pensa e fuoco che ama. I racconti determinano la direzione che prendiamo, il comportamento che abbiamo e il nostro destino. Ipnotizzate dai racconti comuni possiamo accettare, per un po’ e in una certa misura, di condividere un mondo che si fonda sullo sfruttamento della natura e, se le acchiappa, mette in gabbia le anime selvagge. Con grande coraggio dobbiamo almeno una volta nella vita fermarci ad ascoltare la voce della strega che abita le profondità della notte e della terra, la vecchia rogyapa che
si accompagna al mago, il nagpa. La rogyapa e il nagpa, la strega e il mago, sono i due personaggi da cui tutte le storie edulcorate e civilizzate ci insegnano a stare lontano. Ebbene, la rogypa e il nagpa sono i due aspetti della nostra psiche selvaggia più potenti. In verità quello che l’educazione ci insegna è temere e fuggire il nostro stesso potere. Per scoprire che la notte non è malvagia e la caduta nel vuoto non è pericolosa, non abbiamo altra possibilità che non sia quella di avventurarci nella notte e lasciarci cadere nel vuoto. Se lo faremo scopriremo che la notte non è poi così scura e il buio non è poi così nero e il vuoto non è poi così vuoto. In verità dobbiamo soltanto liberarci dall’idea che ciò che è luminoso tale invece non sia, ma poiché noi siamo fatte della stessa sostanza dei pensieri e delle idee, non possiamo liberarci da un’idea se non sperimentando il suo contrario. Il nagpa e la rogyapa
In un villaggio del Tibet a oltre 4300 metri di altezza, nella regione di Tingri, ho raccolto uno dei più bei racconti di cui sia mai venuta a conoscenza in tutta la mia vita. In questa felice giornata di primavera sono felice di poter scrivere per te che non esisti ancora, eppure sei presente, questo magnifico racconto. Da diverso tempo ero affascinata dalla figura dei nagpa, si tratta di sciamani psicopompi che viaggiano a cavallo per l’altipiano del Tibet recandosi nei villaggi dove vi è un morto per recitare frasi tratte dal Bardo Tosgrol, il libro tibetano dei morti. In molti si riuniscono per ascoltare la voce del nagpa, poiché il suo racconto sull’arte del morire è, in verità, un insegnamento per i vivi. Da quel che mi è stato raccontato dalle genti del Tibet, sembrerebbe che il nagpa non possa essere chiamato, egli giunge là dove sa che deve arrivare nel momento preciso in cui deve esserci. A oltre 4300 metri in un giorno così ventoso da non riuscire a tenere gli occhi aperti, io, Rashid, la mia guida tibetana, e Tezin, mio fratello spirituale, abbiamo visto un uomo e una donna arrivare su due cavalli bianchi e tutta la gente del villaggio di nomadi, nel quale ci eravamo fermati per la notte,
correre loro incontro precipitandosi fuori dalle abitazioni di fango e sterco. Tezin, che è nato in quella inospitale natura della regione di Tingri e ha vissuto per molti anni come monaco buddhista e come apprendista sciamano, si è immediatamente alzato in piedi alla vista dei cavalli, non ha avuto dubbi nel riconoscere il nagpa e, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi ha detto: “Incredibile, non avrei mai detto che potesse capitarmi in questa vita!”. Io non capivo e non potevo nemmeno tenere gli occhi aperti per via del vento. “Capitarti cosa?”. “Quello è un nagpa!”. “Un nagpa? Come lo sai?”. “È per via del mantello bianco, ne sono certo, il mio maestro mi ha descritto quel mantello moltissime volte”. Rimasi senza parole, cerando di socchiudere le palpebre per poter vedere i cavalli che arrivavano. “Da adesso in poi”, continuò Tezin, “quello che accadrà sarà così importante... un giorno lo scriverai per regalarlo a qualcun altro, così come oggi viene regalato a te; presta la massima attenzione a tutto ciò che sta per accadere!”. Quel giorno ebbi la mia prima iniziazione al Bardo Tosgrol, in seguito, insieme a Tezin, sulla scorta delle indicazioni ricevute dal nagpa quel giorno, fui iniziata al Bardo molte volte da maestri tibetani di corrente Bön, in Tibet, in Ladakh e in Bhutan. Tuttavia, cara Eva, ti confesso che la prima volta è rimasta ineguagliata per bellezza e profondità, forse perché il nagpa che mi ha fatto dono del racconto era una creatura assolutamente al di fuori di ogni istituzione religiosa e sociale, un vero “folle divino”. Ciò che voglio adesso è riportarti il magnifico racconto che mi consegnò il nagpa quel giorno, cercando di riprodurlo nel modo più fedele possibile. Mi rendo conto che, non avendolo registrato, non posso darne la versione originale e che tutte le mie successive iniziazioni al Bardo concorrono ora a influenzare la mia memoria. Ma ciò lo ritengo un bene. L’insegnamento del Bardo Tosgrol è uno spirito vivente che, come tutte le creature dell’universo, non può mai essere uguale a se stesso, ma cambia ogni volta che viene mostrato. Non c’erano morti recenti in quel villaggio di nomadi del Tibet e presto, al cambiare del clima, la tribù che lo abitava sarebbe ripartita per altre mete. Ma il nagpa ebbe a precisare che il suo racconto era un regalo a noi, regalo che noi avremmo dovuto sussurrare all’orecchio di chi avrebbe potuto
intenderlo. E così è stato, e così è: questo racconto è destinato a passare di orecchio in orecchio. Il nagpa ci raccontò la storia dell’ultimo transito della donna che stava con lui, la rogyapa, ovvero la storia della sua ultima morte, quella che aveva preceduto questa incarnazione. Nella sua vita attuale, quando era giovane, la donna era bellissima e aveva sposato un ricco mercante indiano. Aveva vissuto molti anni a Goa, in India, in una splendida villa sull’oceano e aveva avuto quattro figli che ora sono tutti a New York a fare soldi, precisò la donna, ridendo, come avesse detto una barzelletta. Quando i miei figli se ne sono andati, aggiunse la donna in tono più serio, io sono tornata in Tibet e ho intrapreso il mio cammino spirituale che mi ha portato a essere rogyapa. Una rogyapa è una squartatrice di cadaveri. Ancora oggi in Tibet lo sky burial, il “funerale celeste”, è molto diffuso. Esso consiste nel portare il cadavere in un’aerea lontana da ogni abitazione umana, tagliarlo in piccoli pezzi e lasciarlo esposto affinché gli avvoltoi possano cibarsene e portarlo con sé in alto nel cielo. Il cammino spirituale che porta a essere rogyapa è uno dei più segreti e difficili cammini che lo sciamanismo himalayano ha tramandato. Spesso il rogyapa si accompagna al nagpa in un nomadismo che li conduce in un continuo pellegrinaggio sacro a circumambulare montagne, laghi, fiumi sacri. Tra gli sherpa del Tibet circola la leggenda secondo la quale i nagpa e i rogyapa sarebbero i maestri di un antichissimo lignaggio spirituale. I membri di questo lignaggio vivono sparsi nel tempo e nello spazio e hanno perso la memoria della loro appartenenza. Solo i maestri hanno conservato questo ricordo, essi vivono in una valle che la dea Yeshe Tsogyel ha nascosto agli uomini, la mitica Shambhala, e da lì si muovono in lunghissimi pellegrinaggi spargendo per il mondo racconti che hanno il potere di risvegliare la memoria delle genti e di ricordare ai membri dell’antico lignaggio la loro sacra appartenenza. Questo è uno di quei racconti... Il transito
Il nagpa volle che tutti assumessimo la postura meditativa. Fece offerte agli spiriti, bruciando incenso e gettando riso nell’aria, poi ci chiese di chiudere gli occhi.
Restammo in meditazione per diverso tempo, mentre lui ci guidò alla visione della nostra stessa morte e della decomposizione dei nostri corpi, poi venne presso ciascuno di noi per tracciare sul nostro corpo con le sue dita dei simboli, accompagnando i gesti con le seguenti parole. Nella morte gli elementi che hanno composto il tuo corpo tornano ciascuno alla propria origine. Mentre la terra torna alla terra, al centro del tuo torace si forma il disegno di una stella a sei punte, composta dal triangolo con il vertice verso l’alto e il triangolo con il vertice verso il basso sovrapposti. Essa è simbolo della unione di tutti gli opposti. Quando ricevi questo simbolo, o figlia, figlio di nobile famiglia, dovresti dirigere la tua mente lungo questo sentiero: aiutami, oh terra, a superare la discriminazione degli opposti affinché io possa vedere la sostanziale illusorietà di ogni attività discriminante e la fondamentale spazialità di ogni cosa! Mentre l’acqua torna all’acqua, nella tua fronte si genera la forma di una perla di luce, il Tig Le che dolcemente prende a sciogliersi, generando il liquido della redenzione che pervade il corpo. Nel momento in cui ricevi questo simbolo, o figlia, figlio di nobile famiglia, dovresti dirigere la tua mente lungo questo sentiero: aiutami, oh acqua, a liberarmi dal senso del peccato e della colpa! Mentre il fuoco torna al fuoco, nel tuo coccige si forma l’immagine di un serpente verde smeraldo dagli occhi rossi che prende a salire lungo la tua colonna vertebrale. Quando ricevi questo simbolo, o figlia, figlio di nobile famiglia, dovresti dirigere la tua mente lungo questo sentiero: aiutami, oh fuoco, a liberare la mia potenza selvaggia! Mentre l’aria torna all’aria, si crea il simbolo della spada lucente che taglia a metà il corpo. Nel momento in cui ricevi questa immagine, o figlia, figlio di nobile famiglia, dovresti dirigere la tua mente lungo questo sentiero: aiutami, oh aria, a far trionfare la missione della mia anima! Ero estasiata nella mia postura a gambe incrociate ad occhi chiusi, mi sentivo catapultata in Sri Lanka, alla presenza di Gatha Thera, intenta a praticare la meditazione theravada sul cadavere. Conoscevo già quei simboli! È stato impressionante per me, cara Eva, vedere che i simboli della decomposizione che i monaci eremiti dello Sri Lanka utilizzano per le loro meditazioni di morte e rinascita e i simboli che i nagpa tibetani sussurrano
alle orecchie dei morenti sono i medesimi. Indubbiamente vi è una comune radice che soggiace a tutte le tradizioni misteriosofiche; mi sentivo in quella radice come fossi tornata a casa. Quindi il nagpa suonò una tromba fatta di femore umano e subito dopo iniziò il suo racconto. Adhi Sonam Dolkar era morta di vecchiaia, come un lumino che si spegne. Quando seppe che la morte era vicina, chiese al suo amatissimo figlio e alla sua amatissima figlia di aiutarla a sedersi nel letto. Poi volle che i due figli le tenessero ciascuno una mano mentre lei dolcemente chiuse gli occhi e lasciò il corpo. Il maestro nagpa, che stava ai piedi del suo letto, incominciò allora a guidare il transito con la sua dolce voce. Nobile figlia, il momento della morte è giunto per te. In questa estrema esperienza dovresti chiedere il coraggio di agire in modo da non dimenticarlo e di lasciare andare tutto ciò a cui eri affezionata in vita. Il segreto della realtà primaria si sta schiudendo di fronte ai tuoi occhi interiori, osserva con coraggio tutto ciò che sta per accadere. Le persone che in vita non sono state preparate al transito si spaventano e non vogliono assistere a ciò che accade, cadono nella fossa dell’inconsapevolezza e dimenticano chi sono state e la ragione profonda della loro missione nel mondo. Figlia di nobile famiglia, la chiave segreta dell’arte del morire consiste nel non avere paura, così da poter agire in modo da non dimenticarlo. Vedrai ora il tuo corpo dall’alto. È possibile che tu faccia qualche tentativo per cercare di rientrare nel tuo corpo ma, non riuscendovi, dovrai realizzare che la morte è un processo irreversibile. Questa realizzazione è una delle prime esperienze che accompagna il passaggio dalla vita alla morte, di solito essa apre nel cuore nostalgia e malinconia profonda per tutte le cose, i luoghi, le persone che si sono amate in vita. In assenza di attaccamenti la nostalgia è una ardente tenerezza che non si trasforma mai nella disperazione del rimpianto. Non fuggire da questa malinconia, essa è la prima energia propulsiva del tuo viaggio, entra nella tua emozione e, come ti è stato insegnato, lascia che essa faccia vibrare tutto il tuo essere con la sua energia. Le immagini amano svanire; la malinconia è la forza con la quale esse si trasformano in immagini più vaste acquisendo potere. La nascita è data dall’aggregarsi degli elementi e la morte è data dal disgregarsi degli elementi che tornano ciascuno alla propria origine.
Poiché la morte è un lungo e lento processo che accompagna la vita, gli elementi iniziano la loro disgregazione fin dall’attimo che segue la nascita e iniziano la loro aggregazione fin dall’attimo che segue la morte, a testimonianza del fatto che vita e morte sono contenute l’una nell’altra. È possibile che, invecchiando, tu abbia già sentito l’effetto della perturbazione disgregante degli elementi, ma tale effetto sarà ora, nella morte, nove volte superiore. Al perturbarsi dell’elemento terra udirai boati e avvertirai sussulti, come scosse di un forte terremoto. Ti guarderai intorno, mentre le scosse aumenteranno di intensità e frequenza, sarai sul punto di fuggire. Non muoverti! Osserva con calma: intorno a te si aprono i quattro grandi precipizi: il precipizio nero, blu, rosso, verde. Se solo muoverai un passo in una delle quattro direzioni potrai cadere in uno di questi baratri che sono, in realtà, la grande fossa dell’inconsapevolezza, allora perderai coscienza e dimenticherai. Rimanendo immobile, ascolta piuttosto la direzione che ti è indicata dalla tua anima. Dovrai incamminarti in quella direzione, ma solo dopo che tutto si sarà acquietato. La chiave segreta dell’arte del morire consiste nel non agire sulla spinta della paura mentale, ma solo dietro suggerimento dell’anima. Al perturbarsi dell’elemento acqua udirai un fragore simile a quello di centinaia di onde che si infrangono tutte insieme contro gli scogli. Questo rumore, così intenso, ti farà desiderare di fuggire. Ancora una volta, oh nobile figlia, rimani immobile nella tua posizione, ricordando chi sei. Ricorda dunque la potenza selvaggia della tua anima, che neppure cento vite nel mondo hanno potuto domare, che nemmeno cento leggi del mondo hanno potuto rinchiudere, che il dolore ha potenziato, la notte ha nutrito, la terra ha sostenuto, il vento ha cantato e il fuoco ha illuminato. Oh, nobile figlia, ricorda chi sei! Al perturbarsi dell’elemento fuoco udirai il rumore di foreste in fiamme e avrai la sensazione di molti animali che fuggono tutto intorno a te. Oh nobile figlia, lascia che la paura ti attraversi senza prenderti e senza muoverti. Se hai ricevuto insegnamenti in vita sull’arte della trasvalutazione potrai entrare nella paura che odi tutt’intorno a te, raggiungerne il nucleo, dove arde il fuoco della forza, cogliere questa fiamma e portarla nel tuo cuore. Al perturbarsi dell’elemento aria udirai esplosioni di tuoni che ti scuoteranno violentemente. Ancora una volta rimani immobile. Se ti
sembrerà, anche per un solo istante, che la paura sia sul punto di muoverti, ricorri a questa preghiera di emergenza: Maestro, ti prego, non permettermi di dimenticare, non lasciare che io ceda all’inganno della paura e cada nuovamente nella fossa dell’inconsapevolezza. Aiutami a mantenermi vigile e attenta durante il transito, così che io possa giungere alla liberazione finale a beneficio di tutte le creature senzienti il cui numero è infinito come lo spazio. Oh figlia di nobile famiglia, così devi agire, lasciando il tuo corpo senza il minimo sentimento di attaccamento, con il cuore colmo di gratitudine, ma con la consapevolezza che esso è stato un veicolo, e un altro veicolo adesso ti attende per trasportarti in una nuova dimensione nella quale il tuo vecchio corpo di carne e ossa non può penetrare. Guardati! Ora possiedi un cosiddetto corpo di Bardo. Si tratta di un involucro dotato di tutti i sensi che aveva il tuo corpo fisico eppure è un veicolo privo di concretezza, può vedere, udire, toccare, gustare e può spostarsi alla velocità del pensiero. Esso è chiamato “mangiatore di odori”, poiché si nutre della sostanza sottile delle cose. La chiara luce dell’esistenza primaria si sta ora manifestando dinnanzi a te. Si tratta di una luce bianca molto intensa, a tratti abbagliante. Parallelamente potrai vedere le lucette colorate del mondo più rasserenanti. Muoviti senza esitazione verso la luce chiara, la direzione segnata dalla tua anima. Quella luce, infatti, è la tua reale natura, ciò che tu sei. Muovi un passo dopo l’altro con sicurezza e, mantenendo la consapevolezza di ogni tuo passo, dirigi la mente lungo questo sentiero: “Io, che sono l’eterna non nata, mai creata, mai reale, mai irreale, riconosco la mia anima, la mia essenza naturale come splendente vacuità. Non il nulla, ma la chiara luce dell’esistenza primaria. Perciò, senza esitazione, io che sono pura luce nel vuoto mi do alla luce, riconoscendo nell’amore la sostanza unica di tutte le cose”. Ora, oh nobile figlia, se, senza avere paura, hai attraversato la chiara luce e puoi udire ancora la mia voce, significa che sei rimasta vigile nel tuo transito, non hai dimenticato e possiamo continuare a procedere insieme. In verità, noi siamo insieme da sempre e, poiché il tempo è circolare, il nostro principio segue la nostra fine e la nostra fine segue il nostro principio da sempre. Ora ti trovi a fluttuare nello spazio siderale. È una sensazione di grande pace che puoi aver provato in vita negli stati profondi di meditazione.
Ascolta, gli astri ruotando generano un musica celestiale, di cui il tuo corpo di Bardo si nutre. In questa fase del transito avrai la sensazione di suggere miele e di galleggiare nell’acqua calda trasportata da una piacevole brezza primaverile. In questa piacevolissima sensazione di pace dovresti dirigere la tua mente lungo questo sentiero: Io, che sono il puro vuoto splendente, viaggio nei nove universi vuoti senza limitazioni di spazio e di tempo, riconoscendo che tutto ciò che ho sperimentato nella mia precedente vita è stato una proiezione della luce chiara che è la mia anima, una danza di immagini immaginate dal mio nucleo, un’illusione, un sogno, un miraggio bello, vivido, ma privo di sostanza, come il riflesso della luna sull’acqua, come un’eco, come una bolla che si forma e subito scompare, come nuvole mosse dal vento, capaci di disegnare ogni forma, eppure evanescenti come la luce del lampo. Tra breve la tua coscienza, non più trattenuta dai muri del corpo, si srotolerà dinnanzi ai tuoi occhi come un tappeto. Tutto ciò che tu sei stata in tutte le tue vite precedenti ti apparirà. Questa fase del transito è chiamata immersione nel Beato Tremendo. Ricordando tutte le volte in cui, in vita, hai agito inconsapevolmente, ti sembrerà di annegare in un lago in cui galleggiano dei cigni. Non temere, lasciati andare. Scoprirai in breve che l’esperienza non è angosciante né dolorosa, ma colma di pace. Tuttavia è possibile che emergano alcune delle tue paure inconsce, inducendoti ad aprire la bocca per respirare. Se respirerai, trovandoti nell’acqua, avrai sensazioni molto sgradevoli, perciò non dare ascolto alle tue paure, lasciandoti sprofondare nella pace. Tutte le paure che emergeranno ora e che supererai saranno forze positive nella tua prossima esistenza, ma quelle paure che non riuscirai a lasciar andare, le paure che ti spingeranno ad aprire la bocca, te le ritroverai nella tua prossima vita, dove dovrai affrontarle sotto forma di ostacoli e risolverle come problemi dell’esistenza quotidiana. Presta estrema attenzione a ciò che ti sto per dire ora: le paure che non riusciamo ad affrontare nel transito dalla morte alla successiva rinascita le ritroviamo sotto forma di ostacoli materiali nella prossima vita e tutte le paure che non riusciamo ad affrontare nella vita le ritroviamo nel transito dalla morte alla successiva rinascita come ombre e apparizioni tormentose. Se in questa fase del transito ti succederà di avere impressioni spaventose, riconoscile come eventi spiacevoli accaduti in vita, dei quali non
ti sei ancora assunta la piena responsabilità. Potrai avere impressioni di scene violente e crudeli, potrai vedere creature mostruose apparentemente malvagie e demoni e ogni sorta di orrori. Non importa quanto oscure siano le immagini che ti appariranno, di fronte a ciascuna di esse ripeti “ecco ciò che io sono, ecco ciò che io sono” e, affermando ciò, riassumiti la piena responsabilità per tutto ciò che hai sperimentato in vita. Tutti gli animali che hai aiutato in vita ti ricambieranno il favore in questa fase del transito, aiutandoti a non avere paura. Col progredire dell’esperienza avrai la sensazione di affondare in un torrente di montagna dove si abbeverano dei cavalli. Se in vita ti sei dedicata a coltivare la tua anima selvaggia, essa ti consentirà ora di rimanere sotto l’acqua limpida del torrente senza avere paura. Rimarrai allora vigile e attenta e potrai raggiungere il grande oceano del tempo senza perdere coscienza. Oh nobile figlia, se ancora odi la mia voce, profonda come la notte stellata è la tua consapevolezza, ancora non sei precipitata nell’oblio, ancora aspiri alla tua libertà, ancora tieni viva la fiamma dell’amore nei nove cuori dei nove universi che ti appartengono. Tuo è il cammino, tua la vetta e il compimento della missione finale. Nell’oceano del tempo ora ritroverai tutte le donne della tua stirpe: la madre, le nonne, le bisnonne, le trisavole e così via: volti cari, volti noti e sconosciuti. In questa speciale occasione dovresti pensare in questo modo: voi siete immagini della mia anima e, come tali, avete forgiato il mio corpo e le mie attitudini, il ritrovarvi mi è enormemente caro, resto in ascolto dei vostri sussurri. Ora io so di essere vostra madre, per avervi a una a una immaginate e per aver voluto, nel mio sogno, esservi figlia. È giunto il risveglio, è l’ora di riassorbirvi nel mio cuore, adesso la verità è visibile: lasciate che vi riporti all’amore da cui ogni cosa ha avuto inizio. Così pensando, siedi al centro dell’oceano del tempo, come una regina sul suo trono. Una presenza ti si avvicinerà, forse si tratta di tua madre, di sua sorella o della tua bisnonna. Ascolta attentamente ciò che questa presenza ha da dirti, accetta il regalo che ti porge e portalo con te. Tutto ciò che riceverai ora ti sarà di grande aiuto nelle fasi successive del tuo transito. È anche possibile che un’ava molto lontana da te nel tempo ti si avvicini per chiederti chi sei. Rispondile in questo modo: “Io sono colei che ha tante
cicatrici, ciascuna delle quali rende il mio tessuto più forte”. Poi, senza esitazione alcuna, confida alla tua ava il contenuto delle tue cicatrici maggiori. Forse c’è qualcosa che non hai mai confessato a nessuno, un amore perduto, un bambino rifiutato, una violenza subita o arrecata, adesso è il momento di liberarti di questo peso. Ascoltami attentamente: i nostri segreti sono i veri cadaveri che ci trasciniamo appresso nascondendoli agli occhi di tutti e principalmente ai nostri per non soffrire. Ora metti i tuoi cadaveri nelle mani della tua amorevole ava, piangendoli fino in fondo, se necessario, ma liberandoli per sempre dal loro stato di mummificazione che impedisce lo scorrere della linfa vitale nel tuo essere. Quando ti sentirai pronta, pronuncia con decisione il mantra Hig e dall’oceano ti troverai nuovamente a fluttuare nello spazio siderale. Se hai ricevuto insegnamenti in vita sull’arte del trasferimento del principio cosciente, la dislocazione avverrà senza trauma alcuno, altrimenti è possibile che, in questa fase del transito, tu cada addormentata, in tal caso perderai consapevolezza e non potremo più essere in contatto. Ma, un giorno, ci ritroveremo. Ora, se ti trovi a fluttuare tra gli astri e ancora puoi sentire la mia voce, se ancora hai consapevolezza e attenzione, sei decisamente incamminata verso la liberazione finale. Ascolta! Nel dolce suono prodotto dagli astri una musica soave si staglia e diviene sempre più chiara, un ammasso globulare roteante di luce dorata si sta avvicinando a te. Quando ti è dinnanzi, la palla di luce si trasforma in un essere di luce dorato di una bellezza straordinaria. Egli allunga il suo braccio verso di te, lascia che poggi la sua mano sul tuo cuore per trasmetterti un perdono senza limiti. Accogli la calda energia della redenzione nel profondo del tuo cuore e siine ristorata e risvegliata. Oh figlia di nobile famiglia, per quanto potresti viaggiare per tutti i sette universi vuoti, non troveresti mai più nulla in grado di farti paura. Adesso tu conosci la tua natura profondamente, essa è pura, splendente vacuità. Neppure il nulla può nuocere al nulla. Non avendo più colpe alcune, dunque, riunita alla purezza originaria di ogni cosa, non hai più paura alcuna. Trovata la sorgente della purezza originaria di tutte le cose, l’anima è redenta da ogni paura.
Quindi sperimenterai le quattro beatitudini del vuoto primario. Esse sono generate dallo scioglimento del Tig Le, il nettare che gocciola in tutto il corpo dall’occhio posto al centro del cervello. Questo nettare è custodito all’interno del cervello in forma solida, esso viene sciolto grazie al calore prodotto dal fuoco del Dummo che arde nel ventre. Il Dummo è il fuoco della capacità di aspirare alla meta più elevata senza arrendersi mai. Se sei giunta vigile e attenta a questa fase del transito così inoltrata, allora il tuo Dummo è sicuramente attivo e la perla di luce chiamata Tig Le che è custodita nel tuo cervello adesso si sta sciogliendo. Quando il Tig Le gocciolerà nella cavità cranica – la prima terra dei Buddha del presente, passato e futuro – sperimenterai la Beatitudine del vuoto illimitato. Ascoltala attentamente e lascia che il tuo corpo di Bardo se ne nutra, essa è un arricchimento straordinario per tutte le tue vite a venire. Quando il Tig Le gocciolerà nella cavità toracica – la seconda terra dei Buddha del presente, passato e futuro – sperimenterai la Beatitudine della conoscenza innata. Presta a essa la massima attenzione e consentile di espandersi in onde concentriche nel tuo torace. Essa ha una qualità, un suono, un odore molto diverso dalla precedente, è legata alla tua possibilità di sapere, che non ha più le vecchie limitazioni e gli impedimenti di un tempo. Quando il Tig Le gocciolerà nella cavità addominale – la terza terra dei Buddha del presente, passato e futuro – sperimenterai la Beatitudine dell’esperienza visionaria di ogni cosa. Ricevila pienamente, essa inonda il tuo ventre e ti parla del tuo potere di operare qualsiasi cambiamento in conformità con la tua volontà e con il tuo potere visionario. È un’immensa esperienza di potere. Quando il Tig Le gocciolerà nella cavità pelvica – la quarta terra dei Buddha del presente, passato e futuro – sperimenterai la Beatitudine della coscienza illuminata. Risiedono nella pelvi il superamento e la gioia che dissolve ogni ombra, pura gioia non limitata da altro. Nobile figlia, avendo ricevuto le quattro beatitudini del vuoto primario potrai realizzare che la gioia è veicolo supremo della liberazione finale. Allora chiuderai gli occhi e spingendoli verso l’alto, sotto le palpebre chiuse, osserverai il centro del tuo cervello e lascerai che dolcemente il Tig Le ritorni verso l’alto a ricreare la perla di luce al centro della tua cavità cranica. In questo modo si aprirà per te la ruota dei mondi. Non appena ciò
accadrà, poniti al centro, oh regina, e opera la tua scelta. La ruota dei mondi ti indica le quattro direzioni cardinali. Tu potrai scegliere consapevolmente e autonomamente in quale direzione incamminarti; questo stato, che è detto condizione del bodhisattva o liberato, è molto prezioso. Ti impartirò ora gli insegnamenti sull’arte dell’operare una scelta. Per essere libera di scegliere non devi provare né attrazione né repulsione per tutto ciò che vedi e sperimenti. Vedrai immagini di luoghi e scene di genitori che si accoppiano. A nord vedrai genitori spirituali accoppiarsi senza violenza, essi fanno parte di una comunità di esseri spiritualmente evoluti. Se ti incamminerai verso nord ora, rinascerai come maestro spirituale, dotato di alti poteri interiori e la tua vita ne libererà molte. A est vedrai la possibilità di rinascere come anima selvaggia, che dimora sulle cime dei monti e in luoghi naturali, sovrana degli animali e dotata del potere dell’arte e della creatività, cosicché tu possa gioire dell’amore primevo e diffondere Bellezza. A ovest vedrai i magnifici spiriti ispiratori. Se ti muoverai verso ovest ora, rinascerai come spirito guida e proteggerai gli esseri umani a mezzo della tua natura angelica. Infine, a sud, vedrai la chiara luce dell’essenza primaria. Se decidi di procedere verso la luce ora, entrerai nel regno della liberazione finale e non farai mai più ritorno sulla terra, né in un corpo umano, né nelle sembianze di divinità spirituale. Opera dunque la tua scelta, oh nobile figlia, è giunto per noi il tempo di salutarci. Tra breve non potrai più udire la mia voce e dovremo lasciarci. Ma, un giorno, ci ritroveremo. Il nagpa chiuse gli occhi ed entrò in un lungo silenzio. Io lo guardavo e vedevo alle sue spalle la luce del tramonto che infuocava l’orizzonte. All’improvviso scorsi le sagome di due avvoltoi girare in tondo nel cielo a non molta distanza dal villaggio. Era segno che vi era la presenza di un cadavere, forse un uomo morto in un accampamento di nomadi, forse la carogna di un animale nella polvere dell’altopiano... Improvvisamente ebbi la sensazione di essere io stessa quel cadavere. Mi sentii gelida e vidi il mio corpo davanti a me sepolto nell’acqua, avevo le mani incrociate sul petto, i
capelli molto lunghi mi coprivano le spalle e gran parte delle braccia: una visione potente, dirompente che mi colpì al cuore. La visione scomparve con la velocità di un lampo e mi ritrovai calma, non osavo muovermi per non rompere il silenzio e l’immobilità generale, eppure il calore stava tornando nelle mie membra senza che facessi nulla per scaldarmi. In seguito ebbi la sensazione che il nagpa e il suo racconto avessero operato su di me una sorta di incantesimo, consentendomi di toccare la morte per superare la paura. Ancora oggi utilizzo la storia raccontatami dal nagpa nel mio lavoro di counsellor. Quando percepisco nella psiche del mio consultante la presenza di paure inconsce disturbanti, dopo averlo condotto in uno stato di profondo rilassamento e in una condizione di dolce ampliamento della coscienza – una sorta di leggera trance ipnotica – gli narro la favola del nagpa. Il Folle Divino e la Danzatrice del Cielo
Un altro racconto che ti voglio riportare è quello di cui sono venuta a conoscenza grazie a un oracolo tantrico in Bhutan. Il cuore di questo racconto, ebbe a dirmi l’oracolo, è il simbolo presente nelle profondità dell’anima degli esseri umani, come chiave del loro risveglio. Quando la grande dea, Mahakala, lo vorrà, il simbolo riprenderà a vivere nelle menti degli uomini ridestando dal torpore le loro coscienze e riportando sulla terra la bellezza, la gioia e la forza divina degli immortali. La figura dell’oracolo nel Buddhismo tantrico è assai diffusa. Per lo più si tratta di alti lama ai quali è affidata l’arte della divinazione. Gli oracoli più potenti sono coloro i quali, dopo lunghi periodi di ritiro spirituale, riescono a incarnare la forma adirata della divinità di natura, Mahakala, la Grande Madre Nera. L’oracolo che conobbi in Buthan mi chiese di chiamarlo Jetsun, che era il nome del suo maestro e del maestro del suo maestro. Jetsun non solo aveva il dono di incarnare l’oracolo attraverso la rivelazione di Mahakala, ma insegnava anche ai giovani lama che volessero intraprendere il lungo cammino spirituale per divenire oracoli. Era basso di statura e un po’ balbuziente. Le sue mani tremavano un poco quando parlava e un velo opaco copriva i suoi occhi tanto da far sembrare che il suo sguardo fosse puntato molto lontano rispetto al mondo. Mi disse che la vocazione profonda della mia anima era narrare favole.
Lo abbracciai, grata di questa rivelazione. Non mi aveva detto nulla che io non sapessi già, ma il fatto di avermi confermato un’intuizione che mi stava a cuore mi riempì di gioia e di gratitudine. Dopo l’abbraccio il suo tremore aumentò e mi parve quasi che i suoi occhi, già velati, si coprissero di lacrime, ma sul suo viso era comparso il sorriso di un bambino. Allora ti racconto una storia che racconterai, vuoi? Mi chiese, e pareva davvero avere l’entusiasmo di un bambino che invita un’amica a prendere parte a un gioco. Assentii e lui mi portò nel tempio del monastero nel quale ci trovavamo. Camminammo sull’antico pavimento di legno producendo scricchiolii amplificati mille volte dagli alti soffitti e dalle nicchie del tempio, attraversammo zone completamente in ombra, fredde. Pur cercando di restare appiccicata alla sua schiena, perché non vedevo nulla, non potei evitare di sbattere con una mano contro un gong che produsse un suono cupo seguito da un tonfo: avevo fatto cadere a terra il batacchio che era appeso all’estremità superiore del gong. L’oracolo tornò indietro per rimettere l’oggetto al suo posto e, passandomi accanto, sospirò. Lessi in quel sospiro un rimprovero velato. Le nicchie del tempio dovevano essere riempite da statue di demoni protettori dall’aspetto terrifico, le vedevo e non le vedevo per via della penombra, a tratti riconoscevo mani che impugnavano spade o pugnali, collane di teschi, ali di uccelli... Finalmente vidi un raggio di luce nel buio:entrava da una piccola finestrina, la testa glabra dell’oracolo, inondata dal raggio di luce, divenne all’improvviso un corpo assolutamente surreale, sentii un sussulto nel cuore. Lui si fermò, proprio nel raggio di luce. Vieni, mi disse, perché, senza neppure accorgermene, io mi ero fermata. Questa è la bella Yeshe Tsogyel, chiamata da tutti i suoi discepoli la Danzatrice del Cielo, continuò l’oracolo, indicandomi una statua completamente ricoperta da sciarpe di seta bianca che scintillavano nella luce. Era una donna magica vissuta nelle regioni dell’Himalaya molti anni orsono. Grazie alla pratica dello yoga sciamanico, aveva sviluppato una totale comunione con la Madre. Poteva parlare a mezzo del vento con qualsiasi creatura di terra, di acqua, di fuoco e di aria. Da quando la sua coscienza si risvegliò pienamente, lei visse molte vite. In una di queste fu sposa del grande maestro tantrico Padmasambhava. Si
dice che non trascorra mai tempo su questa terra senza che una incarnazione di Yeshe Tsogyel non sia presente a rappresentare la dolcezza della Madre Divina tra gli esseri umani. Questa statua ne ritrae lo sguardo in modo così realistico che viene tenuta coperta e celata perché attraverso gli occhi di questo simulacro l’anima stessa della dea raggiunge il cuore degli uomini. Avvicinati! L’oracolo prese a togliere a una a una le sciarpe di seta che ricoprivano la statua. In effetti lo sguardo della scultura era molto particolare, tanto che per lunghi minuti non riuscii a toglierle gli occhi di dosso, mi fece un effetto straordinario: ebbi come la sensazione di riconoscermi, di rispecchiarmi e di sentirmi a casa. Vi fu un tempo in cui la Danzatrice del Cielo fu moglie del Folle Divino che viveva sulla cima di una collina sacra in Bhutan, mi disse l’oracolo. Drukpa Kunliley, detto il “Folle Divino”, fu un maestro tantrico. Ancora oggi è uno dei santi più venerati in Bhutan. Egli era uno yogin tantrico che, convinto che le istituzioni religiose e profane fossero il grave ostacolo al risveglio dell’uomo, predicava la dissacrazione, a mezzo dell’erotismo e dell’ebbrezza, quale metodo più efficace per il risveglio spirituale. Ma il cuore del metodo tantrico, che molti avrebbero corso il rischio di fraintendere deridendolo, era da conservare segretissimo e da tramandare ai pochi che, a costo di qualsiasi prezzo, sarebbero giunti a richiederlo. A Drukpa Kunliley è attribuita la creazione di uno strano animale che vive nelle regioni del Bhutan: il takin, che pare essere un miscuglio tra una capra e una mucca, e a lui vengono attribuiti i falli volanti che la gente, qui in Bhutn, dipinge sui muri e appende ai tetti delle proprie case. Anche la Danzatrice del Cielo fu una maestra tantrica. Fu maestra del Tantra Madre nel quale la realizzazione della meta è il desiderio come puro piacere2. Gli insegnamenti della yogini ai suoi discepoli sono incoraggiamenti al ritrovamento dello stato naturale, nel quale non vi è repressione e dunque non vi è paura, non vi è oppressione e dunque non vi è deviazione né perversione. Si tratta di uno stato di puro potere naturale, il potere delle ossa, dello scheletro, dell’anima. Ecco un insegnamento della yogini: Mantenete costantemente la conoscenza della purezza originaria di tutte le cose. Unificate l’energia maschile (solare) con quella femminile (lunare).
Sviluppate il metodo di fondere le energie superiori con quelle inferiori, assistendovi reciprocamente maschi e femmine. Praticando ciascuno indistintamente secondo i propri principi, intensificate e migliorate la vostra pratica, ampliando gli orizzonti del piacere3. D’altra parte, la convinzione che lo stesso piacere che cerchiamo nei godimenti terreni sia quello che, mutatis mutandis, informa il principio divino4 è la convinzione alla base non solo dell’esperienza tantrica, ma della tradizione naturale in genere, basti volgere il pensiero anche solo per un attimo alle tradizioni animistiche greche e romane. Il piacere inteso come riflesso nella materia della beatitudine spirituale è dunque lo scopo nobile da contemplare per i mistici e i poeti della tradizione di natura. Ecco altri versi con cui si esprimeva la Danzatrice del Cielo: Raggiungi il lago del puro piacere, dove i pesci dagli occhi dorati dell’acuta percezione si moltiplicano, dove gli uccellini apprendono a volare, e tutto è imperturbabile rilassamento, al di là di ogni limite. (Keith Dowman, La Danzatrice del Cielo, cit.) Un tempo, mi disse l’oracolo, quando gli uomini non si vergognavano della propria nudità, l’unione erotica era una preghiera e una meditazione. In quei tempi vi era tra gli uomini, la madre terra e gli dei un legame fortissimo e consapevole. Nei templi, artisti sublimi disegnavano e scolpivano immagini erotiche affinché, contemplandole, i fedeli potessero entrare in meditazioni profonde e danzatrici sacre animavano con i loro corpi la trance estatica dei meditanti. Nulla è mai stato più naturale e più santo che contemplare ciò che è, così com’è, nella propria nudità. Cosa noi siamo se non desiderio, volontà, aspirazione? Così, nei tempi che precedettero la nostra storia, i maestri insegnavano a contemplare il fuoco della concupiscenza che noi oggi chiamiamo Dummo. L’oracolo, afferrata una delle sciarpe di seta bianca che ricoprivano la statua della Danzatrice del Cielo, si mise con questa ad accarezzare il volto e la testa del simulacro. Pareva volesse ripulirlo dalla polvere, anzi, c’era tanto
amore nei suoi gesti che sembrava stesse compiendo un rito capace di spazzar via la crosta inanimata per fare emergere, come in una sorta di incantesimo, una creatura vivente. Vedi, mi diceva, parlando piano con lunghe pause tra una parola e l’altra, come prendesse le parole da molto lontano, lascia che ti mostri la via del risveglio dalla lunga notte. Il lama riprese a rimuovere le sciarpe di seta bianca che coprivano la statua mettendo in evidenza ora le sue spalle e il suo seno nudo. Vieni, vieni, avvicinati, mi fece, alzando un braccio e deponendolo sopra le mie spalle. Guarda!, mi disse sottovoce, con la voce un po’ tremante, come avesse un po’ di esitazione nel cuore. Allora vidi qualcosa di veramente strano: una piccola statua colorata era incastonata nel cuore cavo della dea. Il lama prese la piccola statua tra le mani, la sollevò nell’aria e poi la rimise al suo posto. Mi pareva l’immagine di un Vajrapani nell’unione erotica con la sua compagna e dissi subito ciò che pensavo di vedere, felice di poter mostrare la mia cultura al lama. Lui sorrise, hai quasi colto la verità, ma una mezza verità non è la verità, mi disse, poi iniziò di nuovo a parlarmi con voce ancora sussurrata e pareva che tutte le statue del tempio si stessero risvegliando per poterlo ascoltare. Questa che vedi nel cuore di Yeshe Tsogyel è l’immagine che narra la vicenda dell’unione di ogni donna con il proprio sposo sotterraneo e di ogni uomo con la propria sposa sotterranea. Questa immagine è quella di Vajradhara – la forma tantrica del Buddha Sakyamuni, il maestro del cosiddetto Tantra Padre – in unione con la propria compagna. Questa immagine dimora nel cuore della Danzatrice del Cielo, maestra del Tantra Madre. Nel tempo delle origini questo simbolo guidava l’immaginario del mondo. Vedi? Esso rappresenta il potere e l’amore uniti. Lui è il potere, lei è l’amore, lei è la via, lui è la consapevolezza della via. La leggenda vuole che la Danzatrice del Cielo abbia racchiuso in questa statua tutte le immagini della concupiscenza umana. L’oracolo prese la piccola statua tra le mani estraendola dal cuore cavo della Danzatrice del Cielo. Usciamo fuori, all’aperto, ti racconterò la storia tra le pietre e gli alberi del giardino, mi disse. Appoggiò la piccola icona sopra un masso grigio, nei pressi di un cespuglio di aghi e volle che mi sedessi accanto alla statua, sulla medesima
roccia. Shambhala
Un giorno, proseguì l’oracolo, i discepoli della grande yogini si riunirono in una valle segreta e meditarono per giorni e notti contemplando la bellezza mostrata loro da erotiche fanciulle danzanti e dalla stessa Yeshe Tsogyel, maestra del Tantra Madre. Il dio del Piacere avvolse allora la valle come nebbia dorata, rendendo quel luogo sempre più invisibile a sguardi umani che non fossero partecipi della medesima Bellezza che animava i cuori dei meditanti. Nelle contemplazioni i corpi dei tantrici si sollevavano nell’aria e si spostavano volando. La dea della Bellezza ha molte facce e molti volti, perciò la valle era allora illuminata da varie tonalità di luce e a tutti i meditanti divennero visibili i segni del giorno e della notte che sono presagio di un lungo viaggio. I cinque segni della notte furono: fumo, miraggio, scintillio di lucciola, luce di lampada, e la luce del vuoto non-nato, e i cinque segni del giorno furono: luce lunare, luce solare, luce del fulmine, luce di arcobaleno e luce del sole e della luna insieme. I segni del giorno e della notte si scambiavano continuamente fra loro e così, contemplando il desiderio profondo della propria anima, i meditanti vi vedevano ora dolcezza, ora violenza, ora pace e ora guerra, ora vita e ora morte, e tutte le forme dei desideri più oscuri e perversi, e tutto il nettare dell’amrita prodotta dal loro stesso bindu chakra che segna la capacità di nutrire con amore le creature dello spazio senza fine. I meditanti contemplavano la volontà della loro anima, la vocazione e il desiderio che di vita in vita e di morte in morte metteva in scena favole, miti, leggende di cui loro erano protagonisti. Nelle loro visioni le danzatrici assumevano il ruolo provocatorio delle ombre e i danzatori quello delle fiamme accese dalle provocazioni e divampanti nel sacro fuoco che tutto consuma e rigenera. Una scintilla di fuoco conobbe una tale potenza che uscì dalla valle inondando il mondo. Mentre i tantrici, ignari di ciò che avevano prodotto, continuavano le loro pratiche estatiche, il mondo inondato da quella luce tutta maschile e così assoluta incominciò a impazzire. La luce viaggiava velocissima per ogni dove alla ricerca dell’ombra, la parte femminile che aveva perduto. Entrava in ogni grotta, in ogni casa, nel tronco di ogni albero
e persino nella pancia dei pesci per trovare l’ombra, sua compagna. Ma i tantrici, proseguendo le proprie pratiche, guidati dalla maestra delle maestre, avevano già reso la loro valle assolutamente invisibile e quella luce, capace di vedere ogni cosa, non era più in grado di vedere se stessa e la propria origine. La gioia e la beatitudine degli immortali si erano eclissate agli occhi del mondo insieme all’unione del dio del Potere e alla dea dell’Amore. Tuttavia la Danzatrice del Cielo, che ha un triplice volto e può vedere in ogni direzione dello spazio, si era accorta della fuga di una scintilla di fuoco. Decise allora di deporre nell’acqua di un limpidissimo fiume della magica valle un po’ d’ombra affinché essa penetrasse attraverso l’acqua nella terra e raggiungesse le profondità degli oceani. L’ombra si depositò nel fondo degli abissi marini e nelle profondità di ogni anima e di ogni cosa, persino nelle profondità stesse del fuoco del Potere che era sfuggito dalla valle incantata. Da allora il Potere vaga per il mondo dibattendo gli umani dall’interno delle loro stesse viscere, sempre cercando l’amante nascosta la quale dimora in lui stesso e nelle profondità delle cose, ma lui, essendo fuoco, non la può percepire: dovunque lui arrivi, infatti, l’ombra svanisce. Questa luce che non può più vedere l’ombra ha plasmato le immagini su cui si fonda l’attuale mondo umano: così ovunque nel mondo vi è l’idea di una divinità metafisica e monistica che vive separata dalla propria compagna, una divinità che esiste in un cielo separato dalla terra. Là dove la divinità metafisica non è presente, vi è comunque l’immagine di un capo spirituale, un Buddha solitario. No, no, diceva l’oracolo, scuotendo la testa e indicando la piccola scultura posta sopra al masso, eccola l’immagina del Buddha originario; essa non è scindibile da quella della propria compagna. Il Buddha e la sua compagna sono due in uno, ma per vederlo bisogna esserci stati... si fermò di scatto e per un istante ebbi la sensazione di udire molti respiri, come se tutti gli alberi della valle e le montagne intorno fossero vive. Stati dove?, chiesi, per interrompere il mio ascolto del silenzio che mi portava suoni così magici da incutermi vera paura. A Shambhala, rispose lui, la valle della Danzatrice del Cielo. Poi lui chiuse gli occhi e aggiunse: Visualizzando l’immagine che vedi nel cuore della dea dentro il proprio cuore, ogni essere umano può trovare Shambhala e riunire gli amanti divini. Capii che mi stava dando un metodo, mi stava indicando un cammino, allora chiusi gli occhi anche io e, accettando
di avere paura, mi misi in ascolto dei respiri che riempivano l’aria. Sono passati parecchi anni da quel giorno in cui in Bhutan incontrai l’oracolo tantrico, da allora molto spesso ho riflettuto sul potere dell’immagine che non solo lui mi ha dato ma che mi ha altresì permesso di fotografare. Ho cercato più di una volta di mettermi in contatto con quel lama in molti modi, ma non sono più riuscita a rintracciarlo, come fosse sparito nel nulla. La chiave dell’immaginale
Cara Eva, eccomi di nuovo a casa. È una mattina piovigginosa, oggi non andrò lungo il canale. Rimango a casa e ti scrivo da qui, tra i simulacri di dei, Nat, spiriti della natura e la collezione di tamburi che ho raccolto nei miei viaggi. Se la realtà è immaginale, come la visione di Hillman ci porta a pensare, allora la chiave che può aprire la porta dei segreti non può che essere nascosta in un’immagine. Per attivare il potere di questa immagine bisogna essere stati a Shambhala, disse l’oracolo, e poiché Shambhala è la valle invisibile, prendo questa affermazione come il segno di una predisposizione a voler visitare la casa di Ade in vita, a voler cercare, nelle parole, al di là delle parole, nelle visioni, al di là di ciò che viene visto. Trovo nel racconto dell’oracolo delle coincidenze d’anima con alcuni straordinari brani di James Hillman e con pazienza frugo tra i miei libri per riportarti, a chiusura di questi miei scritti di favole e immagini che ti dedico, le parole del maestro. Voglio augurarmi che la lettura di queste parole di Hillman e la visione dell’immagine datami dall’oracolo, proprio in quanto proveniente da due mondi così apparentemente lontani fra loro, possano contribuire a favorire in noi il senso di un’ecologia profonda. Il corpo al quale la nostra mente deve sentirsi unita nella visualizzazione simbolica è, infatti, il corpo stesso del pianeta: sono tutti gli alberi, le foreste, i corsi d’acqua, i mari, gli oceani, le stelle, il sole, la luna, tutti gli animali e gli spiriti di natura che conosciamo e che non conosciamo. Il sentimento del fare anima e dell’ecologia profonda, così come Hillman lo ha descritto, è presente nel cuore di ogni cammino spirituale e religioso del pianeta. Nel Buddhismo esoterico nell’immagine del Vajradhara, nella Bibbia, nel Cantico dei Cantici, il testo sacro che trabocca di passione
erotica. Ovunque ci voltiamo, se accettiamo di andare al di là di ciò che i nostri occhi vedono, le nostre orecchie odono e i nostri sensi percepiscono, possiamo cogliere l’unione di Potere e Amore che Hillman descrive. Il maestro, partendo da un’asserzione di Otto Friedrich, secondo la quale l’esistenza dei campi di concentramento [...] ci ha insegnato che il mondo intero è proprio simile a un campo di concentramento [...]. Il mondo non è governato né dalla giustizia né dalla moralità [...]. Il mondo è governato dal potere5, arriva impeccabilmente all’amore. La voce che sale dalle ceneri di Auschwitz (o di Treblinka), che rappresenta il culmine della cultura eurocentrica, dice che il mondo è governato dal potere. Un’affermazione però immediatamente contestata da un’altra voce secondo la quale il mondo è governato dall’amore ed è per questo che restiamo scioccati ogni volta che il potere vuole avere il predominio. Sentiamo, nel nostro cuore, che il mondo non può essere davvero così perverso e violento e che l’amore, che non mostra la sua mano come fa il potere, muove, tuttavia, le cose dall’interno e da dietro, impercettibilmente, invisibilmente. Il potere può fare mostra di sé, imperversare, imprigionare, ma l’amore fa sì che i valori resistano, durino. L’amore conquista tutto6. A presto
Oggi ho raggiunto il canale a un orario insolito. È l’una del pomeriggio di una splendida giornata primaverile, il cielo è terso, il sole è alto nel cielo e mi mostra un paesaggio diverso dal solito. Sono stupita in particolare dalle ombre, soprattutto quelle dei gabbiani, sembrano venirmi incontro all’improvviso e mi inducono a movimenti repentini per scansarle. Spostarsi per evitare l’ombra di un gabbiano: incredibile! A quest’ora lungo il canale c’è molta gente: persone che corrono, come me, nonni che spingono i passeggini e signore che portano a spasso il cane. Un cigno sta becchettandosi le piume sotto le ali che tiene spalancate sull’acqua: è bellissimo! Sul piccolo pontile di legno vicino alle chiatte adibite a bar e ristorante, un ragazzo è seduto in una postura famigliare: ha le gambe incrociate, le mani in grembo rivolte verso l’alto, le estremità dei pollici a contatto, il busto eretto, il mento vicino al torace. Possibile – mi chiedo – che
qualcuno stia meditando sul porticciolo del canale indossando la divisa della scuola? Infatti mi pare che il ragazzo porti la giacca bordò del George Watson’s College, la scuola del quartiere, la stessa che frequentano i miei figli. Ma l’attimo dopo devo subito correggermi, sono un po’ più vicina e noto che il ragazzo indossa proprio la veste dei monaci. Un monaco buddhista sul pontile di Edimburgo è davvero una visione inattesa. Per giunta il ragazzo non ha la testa rasata, ha i capelli, seppure non molto lunghi. Io ho sempre visto i monaci rasati e io stessa quando vivevo nell’eremo della foresta con Ghata Thera e Sumanaloka Thero rasavo i miei capelli. Rallento la mia corsa per osservare meglio. Forse dovrei sedermi su questa panchina, aspettare che finisca di meditare e poi andare da lui per conoscerlo. Invece proseguo, molto lentamente, a tratti persino mi fermo – cosa che cerco di non fare mai quando corro – cammino adagio guardando per terra, vado o non vado da lui? Mi volto a guardarlo, sta sempre meditando, immobile. Non me la sento di disturbarlo, decido che, forse, potrò parlare con lui al ritorno e proseguo la mia corsa. Nel sole del primo pomeriggio vedo cose nuove sullo stesso tratto di strada che percorro ogni mattina. Un agrifoglio lussureggiante, ma come è possibile che non l’abbia mai notato prima? Io adoro l’agrifoglio. Tutto intorno alla pianta ci sono dei cespugli carichi di bacche nere. Fa caldo malgrado il vento, a tratti devo tenere la visiera del cappellino con la mano per non farlo volare via. Lovro si ferma per i suoi bisogni e anche io mi devo fermare per raccoglierli e gettarli nel primo cestino. C’è così tanta luce che gli occhi mi bruciano, ogni tanto li chiudo per venti, trenta secondi, è una cosa un po’ pericolosa da fare mentre si corre ma a me piace molto. Eccomi già al ponte stretto. Un cartello impone ai ciclisti di smontare dalla bicicletta per attraversare il ponte, ma quasi tutti non lo fanno, però il ponte è così stretto che per riuscire a passarci in due, un pedone e un ciclista, il ciclista è costretto a fermarsi e ad appoggiarsi con la sua bicicletta alla ringhiera. Ecco i due taglialegna, in questo tratto ci sono abeti alti e il sole arriva a fatica, l’acqua del canale pare cambiare colore per via dell’ombra e del riflesso delle chiome degli alberi, è verde scuro anziché grigia come altrove. Mi piace molto questo tratto del canale, dove mi appariva il riflesso del vecchio. Adesso l’acqua verde scuro è piena di germani che nuotano a coppie e di folaghe. Raggiungo la fine della brughiera, al limitare dell’area dove sorge il carcere e iniziano i condomini alti, quando ancora vedo quegli edifici
da lontano è per me il momento di fare ritorno. Ripasso davanti ai due boscaioli e vedo il ponte dell’Union Canal che precede di circa mezzo chilometro il ponte stretto sopra cui passo ogni mattina. Il ponte dell’Union Canal, invece, lo attraverso da sotto. Veramente ci sono molti ponti costruiti sopra il canale che portano la scritta “Union Canal” e un numero che cresce progressivamente a mano a mano che ci si allontana dalla città, ma questa volta sul pilastro opposto a quello che porta la scritta Union Canal e il numero, vedo due emme maiuscole incise nella pietra levigata: MM. Non avevo mai visto prima le due emme. È certamente il sole del primo pomeriggio che mi consente la scoperta insolita. La doppia emme maiuscola per me significa molto, perché, nello yoga sciamanico di derivazione tantrica che Michael Wiliams mi ha insegnato, una delle pratiche in assoluto più importanti è la recitazione e la trasmissione del cosiddetto Mantra Madre, che viene scritto in modo abbreviato MM. Dunque scopro che non solo i due taglialegna stanno a segnare la soglia della brughiera, ma anche due pilastri di un ponte, che mi ricordano le gigantesche colonne poste all’entrata di certi siti archeologici egizi. E su uno di questi pilastri si legge una lettera che ripetuta due volte è magica per me... Le sincronicità, direbbe Hillman, sono i segnali degli dei; questo tratto di canale è davvero speciale ai miei occhi. D’improvviso mi sembra che sia stato preparato apposta per le mie esperienze. Non solo la nostra realtà non ha alcuna sostanzialità oggettiva, ma porta impressi, come marchi di un’esistenza illuminata, i nuclei delle nostre esperienze. Nell’etere, il quinto elemento, vi è registrata la memoria di ogni evento e la chiave di ogni divenire. Proprio nell’istante in cui passo sotto il ponte dell’Union Canal un’idea mi colpisce al cuore. Sei tu, Eva, che hai fatto sì che io venissi qui, a correre su questo canale ogni mattina, sei tu che mi hai fatto trovare Lovro e che oggi mi fai scoprire la doppia emme incisa sulla colonna del ponte! E non è follia pensare che quel monaco buddhista assiso sul pontile che ho visto poc’anzi eri tu. Tu sei lo spazio che separa l’istante presente dall’istante successivo, tu sei tutto il vuoto che mi circonda. Sei la mia discendente, colei che verrà. Ciò che sarà non è conseguente a ciò che è, piuttosto ne è la ragione, la causa creativa: il futuro è l’anima del presente. Il futuro è il vuoto e il potere è nel vuoto7. Ecco di nuovo l’agrifoglio e vedo già il pontile, una chiatta è in movimento, due ragazzi vestiti d’azzurro stanno remando a bordo di una
canoa, vengono verso di me, sono perfettamente sincronizzati e veloci. Un terzo ragazzo li segue dalla banchina correndo, passandomi accanto per poco non mi travolge. Ecco il pontile: è vuoto, del monaco buddhista non è rimasta che l’immagine, ma, dopo tutto, l’immagine è ciò che conta.
1
John Baldock, The Essence of Rumi, Arcturus Publishng Limited, London, 2005.
2
Keith Dowman, La Danzatrice del Cielo, cit., p. 38.
3
Ivi, p. 77.
4
Il segreto della Dea Tripura, a cura di A. Pellissero, Ananke, Torino, 1995, p. 35.
5
James Hillman, Il Potere, cit., p. 277.
6
Ibidem.
7
James Hillman, Il Potere, cit., p. 79.
James Hillman
La buona terra: immaginale o letterale? Come promesso, chiudo questo volume lasciando la parola al maestro.
Qui di seguito riporto degli estratti significativi dello scritto che James Hillman realizzò in occasione del convegno di Campione d’Italia del 2003. Fu proprio durante i giorni di quel raduno che Hillman condusse me e tutti gli altri relatori nel rito del cibarci di carne di cinghiale. La cena rituale avvenne la sera prima del suo discorso pubblico, che fu un vero e proprio atto d’amore dedicato alla terra. I brani seguenti sono tratti dagli atti del Convegno “Corpo spirituale terra celeste”, tenutosi nell’aprile del 2003 a Campione d’Italia, sono stati tradotti in italiano da Paola Bertoldi e sono pubblicati per gentile concessione dell’Associazione Holos International, ente organizzatore del convegno. La buona terra: immaginale o letterale?
Col vostro permesso inizierò il mio intervento con un fatto autobiografico. Sono nato sul pianeta Terra in una località in cui non c’è terra. La città di Atlantic City, nello Stato del New Jersey, è stata costruita su un banco di sabbia nell’Oceano Atlantico, un luogo creato dalle onde. È un’isola di sabbia; sotto, ovviamente, lo strato roccioso della costa sostiene le fondamenta dei grandi alberghi della città, ma tutta la terra, il terriccio, l’humus per i giardini, gli alberi, le aiuole e i prati sono stati trasportati sull’isola con dei camion. La seconda cosa che voglio dirvi è che al momento del mio arrivo in questo luogo privo di terra, il mio quadro astrologico non mi ha concesso neanche un pianeta in uno dei segni di terra. Senza terra di sorte e di luogo! Così sono qui oggi, un uomo senza terra, ad affrontare la questione di una terra letterale o immaginale, terra che, dato il mio particolare destino, appartiene per forza alla mia psiche ed è vicina al mio cuore. Quando arrivai in Europa, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, la mia prima, forte, impressione fu il senso di terroir, un senso di appartenenza a dei luoghi specifici, il senso della profondità della terra fisica – granito e marmo, arenaria e calcare, terreni alluvionali con vigneti e frutteti – e l’attaccamento della gente alla propria terra. Le diverse qualità dei vari tipi di terra sembravano rispecchiarsi nei cibi, nei vini, nelle attività, nei sentimenti e nella natura stessa dei diversi popoli. Ero quindi io senza radici, senza terra,
un vagabondo, un viandante, sfuggente come la sabbia nell’acqua, senza terroir? Inoltre, cinquant’anni fa giunsi a Zurigo, dove incontrai Jung, e là tutto parlava di roccia e di terra, di avi sepolti in profonde vallate, di colline con la terra solida e altrettanto solide mucche, di valanghe e di trafori – una nazione profondamente legata alla terra. In questo scenario ebbero inizio la mia ribellione e la mia ricerca di una terra di tipo diverso. Con “ribellione” intendo il mio rifiuto d’essere intrappolato in strutture di pensiero letterali, rigide, o materialiste che cercano i fondamenti, le radici della psiche in qualcosa che va al di là della psiche stessa. Iniziò così la mia ricerca di una base psichica, un terreno psichico, un’ontologia dell’anima in sé, che potesse sostituirsi ai soliti sistemi di pensiero che fondano la psiche nella sociologia, nella genetica, nella fisiologia o filosofia o nella trascendenza metafisica di uno spirito inteso in senso letterale. Aggiungo un altro fattore autobiografico. All’inizio degli anni Cinquanta, in India incontrai per caso un uomo di nome Gopi Krishna, nel quale il serpente della Kundalini si era svegliato, causandogli numerosi disturbi fisici e turbe psichiche uniti a grandi insights. Tornato in Europa, iniziai a interessarmi alla Kundalini e, attingendo alle registrazioni dei seminari di Jung sul Kundalini Yoga, scrissi un trattato psicologico sulle esperienze di Gopi Krishna. Essenziale per il nostro tema è la comprensione dell’immagine dell’elefante che è legato alla Kundalini. L’elefante è l’animale da trasporto rappresentato in due chakra: uno alla base della colonna e del perineo, il muladhara, e l’altro alla base del collo, il centro del linguaggio, il visuddha chakra. L’elefante del muladhara sottintende la terra quale sistema di sostegno, il terreno sul quale si poggia, la base del corpo seduto, la comunità, la famiglia, diciamo le radici nella terra letterale. Il secondo elefante suggerisce un altro tipo di sostegno, la parola, le metafore e le immagini del linguaggio prodotte dal respiro, le espressioni linguistiche. Anch’esso ha la forza di un elefante e può essere considerato un altro tipo di terra, la terra immaginale, la terre pur, come viene chiamata nel Buddhismo, la terre céleste in Studi persiani e islamici di Henry Corbin. Avete avuto la pazienza di ascoltare queste note autobiografiche e credo possiate comprendere il dilemma che contengono: come può l’uomo del banco di sabbia trovare l’appoggio solido della terra se si rifiuta di accettare le consuete radici ontologiche, ognuna delle quali è, in un modo o nell’altro, letterale? La risposta si trova nell’opera di Gaston Bachelard, studioso di
poesia e di chimica, accademico e libero pensatore, membro dei circoli più ristretti degli intellettuali francesi e scienziato riconosciuto. Secondo Bachelard esiste una “poetica” della terra. La terra non è altro che uno dei quattro elementi, solo una delle Quattro possibilità fondamentali della materia. Bachelard offre un’illuminazione: forse esiste una profondità della materia che non dipende dalla terra in senso letterale. Forse è possibile essere profondamente e solidamente radicati e scendere pienamente nella materia senza appoggiarsi alla terra letterale. Bachelard offre l’insight radicale che il mio personale dilemma della mancanza di terra sia il frutto dell’interpretazione troppo letterale del concetto di terra, che la poetica, l’immagine, l’idea di terra sia troppo irrigidita e troppo identificata con l’idea del nostro pianeta fisico. A quel punto ero in grado di capire che la terra, come elemento, aveva certamente le sue ripercussioni ed espressioni nelle forme fisiche, esattamente come l’aria, il fuoco e l’acqua, ma che le idee elementali non sono cose materiali. Per di più Bachelard mi fornì un livello di comprensione ancora più sottile: il fatto che l’idea archetipica di terra diventi letterale e si concretizzi nella sostanza fisica del pianeta è funzione dell’elemento terra. È la terra stessa che produce l’idea di se stessa – il suo carattere solido, palpabile e denso, così denso che non riusciamo a penetrare la “lettera” per scorgere la metafora. Così il mio primo compito psicologico divenne quello di vedere più in là e di “de-letteralizzare” questo primo elemento, la terra, e trasformarlo, come fece Bachelard, in psiche, anziché tentare di trasformare la psiche in qualcosa di terreno, di concreto, di fisico. Rivolgiamo ora la nostra attenzione a tre aree di interesse generale: la Terapia, l’Ambiente e la Violenza, ed esaminiamo i modi in cui le nostre idee di terra generano la confusione e le sofferenze attuali. Terapia
Iniziamo con la terapia. Annullando l’identificazione della terra con la materia e ponendo la materia nell’immaginale – vedendo così la materia come idea archetipica e la terra come immagine archetipica – Bachelard corregge Cartesio, dato che proprio Cartesio confuse la materia con la res extensa e quindi con la terra che costituisce il nostro mondo e i nostri corpi fisici. Sono davvero guai grossi quando il corpo diventa cartesiano. Il corpo
fisico diventa la nostra terra e la nostra base, uno strumento ottuso e passivo sottoposto alla nostra volontà. […] Il contributo terapeutico di Bachelard alla psicosomatica ci invita a vivere il corpo come un punto focale, un centro, d’intimità, non come insieme di ossa e organi, fisiologia e genetica, ma piuttosto come insieme di esperienze, di qualità psichiche, di interiorità. Dentro la terra e la terra dentro, luoghi in cui il corpo si nasconde o è nascosto, momenti di smarrimento, di dannazione, di aggrovigliamento, di rinascita e ristoro. Inoltre, l’immagine della terra lascia spazio al desiderio innato del corpo per il riposo – il freudiano istinto di morte, la tendenza a un equilibrio statico – accordando più valore all’inerzia, alla resistenza, alla fissità affinché il corpo possa seguire l’idea di Alfred Ziegler di stato patologico. Questo psichiatra svizzero, specialista in disturbi psicosomatici, che tenne un discorso presso il circolo Eranos, sul Lago Maggiore, scrisse, in diverse opere, che la vita è intrinsecamente orientata verso la morte. Tutte le forme di vita seguono Hermes chthonios, colui che conduce le anime nella profonda, invisibile, terra delle tenebre, la terra chthon, che è al di sotto della terra Gaia e naturalmente anche al di sotto della più fertile, superficiale e naturalistica terra Demetra. Chthon è l’interiorità più profonda, dove Ade e Persefone ricevono le anime. I messaggi che provengono da Chthon si manifestano a noi sotto forma di sintomi. Ambiente
L’immagine della terra di Bachelard è priva di moralismo. È una vera fenomenologia. La terra sfugge alla condanna cristiana. […] Pur essendo una forza attiva, la terra non è demoniaca come sostiene il Cristianesimo, né necessariamente femminile come nella visione New Age. A esempio nell’antico Egitto, Terra, Geb, è maschile. È l’ostinata forza della terra che istruisce il vasaio e guida il minatore a seguirne i giacimenti. L’immagine della terra è dura, come sanno non solo coloro che tentano di lavorarla con azioni concrete, come creare delle terraglie, lavorare nelle miniere o nei giardini, ma anche chi cerca di andare in profondità, di gettare le fondamenta del pensiero o di scavare per scoprire delle radici
etimologiche. La Terra è uno spiritus rector, un maestro che insegna alla mano e alla mente a non muoversi con troppa velocità, all’occhio a scorgere differenze tangibili, al corpo a star seduto fermo e pesante, a sondare, misurare e riflettere. È molto difficile per noi oggi, dopo Cartesio, che creò i presupposti filosofici per lo sfruttamento dell’ambiente, dichiarandolo morto e privo di anima, di attività propria, davvero difficile per noi immaginare che la terra letterale possa essere animata, dotata di spirito. Popoli di molte altre culture percepiscono la terra sulla quale vivono e dalla quale traggono vita non semplicemente come una madre che nutre e punisce, bensì come parte integrante della loro stessa anima. L’anima interiore e la terra esteriore sono unite per osmosi, cosicché quando si verifica un impetuoso movimento, una migrazione oppure una distruzione radicale della terra mediante l’apertura di miniere, la costruzione di dighe e la deforestazione, tali popoli sentono deteriorarsi la loro stessa anima, la vita li abbandona e muoiono. Tutto ciò non accade soltanto per motivi economici, per il fatto d’essere stati privati dalla loro fonte di sussistenza, degli animali, delle piante, dell’acqua, ma perché il loro mondo spirituale è stato smembrato; hanno perso i loro protettori, la loro ragione per esistere e per servire. Noi, che nella nostra “civilizzazione” siamo in grado di vivere senza dei in una società secolare, arrangiandoci abbastanza bene come anime perse in una condizione priva d’anima, siamo dal loro punto di vista dei morti che camminano, degli zombi, irreali. Solo in questo modo, disgiunti dalla terra, possiamo raggiungere i nostri “successi”, successi che stanno all’interno della follia di un pianeta filosoficamente morto. Quando noi preghiamo “Sia fatta la tua volontà” ci rivolgiamo a un dio astratto, trascendente, che vive a grandi distanze dalla terra, se davvero “vive”. Quando i popoli animisti e politeisti, pagani, pregano “Sia fatta la tua volontà”, si rivolgono alla pioggia e al fiume, alle piante e agli insetti, ai poteri e alla volontà della terra stessa. […] Ecologia è molto più che semplice attenzione alla distruzione della vita sulla terra e all’urgenza di azioni in merito. La Volontà è solo un lato di una risposta premurosa e intelligente. L’attivismo verde, la politica verde, il ripristino del verde sono le energie della terra che esprime se stessa attraverso l’eroismo degli attivisti. Tuttavia, a meno che l’intimità del riposo, l’ascolto
della terra con orecchio poetico e contemplativo non affianchino l’attività, corriamo lo stesso pericolo: l’impetuosità. La terra, letterale o immaginale che sia, ha un tratto in comune: la lentezza. È solidità, profondità e risonanza verso l’interno. La terre céleste è immaginata come un trono di pietre preziose, come un caelum azzurro o come una coltre di luce che dona calma, come l’infinita geografia del cielo con le proprie montagne... Che sia così vasta e solida implica che l’immagine della terra ha la stessa portata e possibilità d’azione psicologica, azione di contemplazione e riflessione, dell’azione fisica nel campo letterale dell’ambientalismo verde. La differenza simbolica tra verde e blu – sebbene impercettibile all’occhio in alcune culture e spesso confusa in certe lingue – è una divisione antica per la mente occidentale, divisione che spazia ad esempio dalle lotte all’interno dell’ortodossia cattolica mediterranea, fino ai conflitti nella teoria pittorica tra impressionisti ed espressionisti, per arrivare alle immagini della poesia con le sue puntellature filosofiche di Wallace Stevens. Violenza e guerra
Arriviamo all’ultimo argomento: violenza e guerra. Non esiste una teoria della guerra che soddisfi tutti. Tuttavia le guerre esistono da quando gli esseri umani popolano la terra. Vi sono state più di quindicimila guerre “ufficialmente” registrate dall’inizio di quella che chiamiamo “storia”: più guerre che anni! Nel contesto del nostro tema, propongo un altro modo di immaginare la fonte della violenza bellica, la tenacia della sua volontà, e il suo feroce “letteralismo” ideologico. Forse è la terra stessa a generare la violenza. Forse la terra non ama gli esseri umani, forse farebbe volentieri a meno di noi e vuole che paghiamo col sangue l’uso offensivo fatto della terra sin dall’inizio dei tempi. Immaginate la terra come forza attiva generatrice della violenza, forza che richiede continui sacrifici, sacrifici di sangue umano. Nonostante attualmente vengono combattute battaglie aspre e crudeli in Cecenia, in Africa occidentale, in parti dell’Indonesia e delle Filippine che non figurano sui telegiornali della sera, in parti delle Ande e nei tropici del Messico, nelle terre aride dell’Afganistan e in Iraq, vorrei prendere un unico luogo del pianeta come esempio della terra che causa violenza: Haeretz, Israele, il paese, la terra d’Israele; Israele come popolo e come luogo.
Prima di addentrarci nell’argomento violenza e terra nell’esempio di Israele, vorrei rammentarvi l’intimo rapporto fra la terra e la violenza della guerra in genere, personificato dal dio greco Ares e dal dio romano Marte. Entrambi erano anche dei dell’agricoltura, e le prime legioni romane, prima dell’integrazione di uomini non italici provenienti da tribù transalpine, erano costituite da contadini. Erano contadini anche i soldati che per secoli combatterono in lungo e in largo in Europa – contadini, gente della terra, guidati e controllati dai nobili proprietari terrieri. Il vomere e la spada fanno parte della stessa immagine, allo stesso modo delle campane e dei cannoni. In nessun luogo i due aspetti di Terra si rivelano con più chiarezza che sul campo di battaglia – gli estremi violenti della Volontà disperata e il Riposo assoluto dei morti. Per millenni il territorio è stato oggetto di guerre. Ancora oggi sono i giacimenti petroliferi dell’Iraq a causare ogni giorno morti in quella regione. Il miglior generale conosce bene la topografia e sapendo tutto del campo di battaglia, ha più possibilità di vincerla. Nel Capitolo 14 del Principe, Machiavelli scrive: “[…] egli dovrebbe sempre praticare la caccia, per conoscere bene la natura dei luoghi, per sapere come sorgono le montagne, come si aprono le vallate, come si estendono le pianure, per comprendere la natura dei fiumi e delle paludi […] attraverso la comprensione e l’esperienza di tali luoghi, comprenderà con facilità qualunque altro luogo che esaminerà per la prima volta […] quel principe che manca di tali capacità manca del primo requisito di un capitano, in quanto [questo esercizio] insegna il modo per trovare il nemico, per scegliere i luoghi per l’accampamento, per guidare l’armata, per preparare gli ordini di battaglia e per porre le città sotto assedio […]”. Dopo il breve excursus sul rapporto di Greci, Romani, Medioevali e Rinascimentali con il territorio e con la violenza, torniamo a Israele. […] Dato che il popolo ebreo venne disperso in molte parti del globo e vagò da luogo a luogo, la terra immaginale della Terra Promessa divenne il suo fondamento. La sua terra si trovava nei libri e nei trattati, nei rituali e nelle abitudini, nella promessa della Bibbia e nella sua brama di tornare dall’esilio, desiderio che tendeva a includere anche quello per la terra fertile d’Egitto, come a identificare in un unico luogo entrambe le terre: Israele nuova terra fertile, nell’immaginale, terra di latte e miele e nel senso letterale colma di meloni e cipolle. Il desiderio di Ha-eretz, immaginale e letterale al tempo stesso, è stato
finora impossibile da realizzare in modo storico e concreto. Lo stesso esilio fu interpretato letteralmente, anziché come la condizione del “viandante” che nutre l’immaginale e fornisce la “casa immaginale” all’anima ebrea e alla diaspora ebrea nei secoli. Il desiderio di Ha-eretz è stato la fantasia che ha fornito sostegno, che paradossalmente ha sostenuto la non-esistenza della terra vera e propria. La sua presenza sotto forma di realtà immaginale è prova del potere di sostegno dell’immaginale. Era sempre un Non-Luogo, un’utopia finché non fu reso letterale nel luogo geografico della Palestina: la parola della Bibbia trasformata in suolo reale. A ogni modo, è stata l’immagine di un’inesistente terra immaginale, la vera terra, che ha sempre sostenuto l’anima ebrea. Quella terra dona la Volontà di combattere ogni ostacolo e di trovare sempre nuovi adattamenti e il Riposo in cui l’anima trova conforto e tranquillità. Conclusione
Forse, per concludere, vi potrà sembrare che io sia stato troppo settoriale nell’affrontare argomenti mondani come la terapia, i problemi ecologici e i conflitti del Medio Oriente. Sono argomenti di grande rilievo dei nostri tempi che non possono essere messi da parte mentre ci occupiamo di questioni universali, di maggiore portata storica o dello spirito. L’anima vive nelle valli, non sulla cima dei monti. Come psicologo mi sento sempre attratto dai turbamenti e dagli intrecci dell’anima. Molti di questi turbamenti sono frutto di idee, non solo di rapporti personali, di sentimenti e condizioni sociali. Idee. Idee inconsce o subconscie. Le idee che abbiamo e che non sappiamo di avere ci possiedono. Ne siamo intrappolati e soffriamo per il fatto di non pensarle con attenzione. Considero, quindi, le poche osservazioni di questo pomeriggio una terapia delle idee, un tentativo di vedere la sofferenza e la violenza che si generano quando un’idea importante come quella della Terra viene interpretata letteralmente come terra specifica, la sofferenza del corpo quando lo immaginiamo come materia e non come metafora, la sofferenza dell’ambiente quando gli neghiamo una Volontà autonoma, uno spirito e un’intenzionalità ctonia. Il mio scopo principale è portarci a smettere di immaginare la terra come una madre buona, passiva, che nutre e conforta, e a riconoscere l’idea della terra come un fenomeno complesso, che richiede uno
sforzo del pensiero e dell’immaginazione. Questo in quanto l’elemento poetico della terra immagina se stesso nelle nostre azioni. È il fattore che ci costringe a concretizzare, a rendere letterale, a porre basi solide, pesanti quanto gli elefanti, sia relative alle ontologie fisiche di muladhara, che a quelle metafisiche di visuddha. Questa terra elementale ci spinge a un terribile furor agendi, che curiosamente e ironicamente conduce proprio alla distruzione della terra fisica del globo, persino nella stessa Terra Santa, come vediamo ogni giorno, e allo sfruttamento del corpo e dell’ambiente. La terra che dobbiamo recuperare per sentirci meno vulnerabili ai nostri pensieri impensati e alle nostre idee inconsce è la terra al di sopra di questa nostra terra, la terre céleste, da cui le radici dell’albero della Kabbalah traggono la loro forza, ma anche la terra che si trova profondamente al di sotto di questa, nelle immaginali tenebre ctonie, nel profondo freddo e nella quiete dove le immagini fluttuano nel silenzio. È per questa ragione – per il recupero delle dimensione immaginale della terra che questa conferenza è di singolare importanza. Per troppo tempo siamo stati Cartesiani, assegnando alla terra niente più che un vuoto, o Newtoniani ed Einsteiniani, considerandola un campo di forze materiali privo di anima, o Romantici, ritenendola una madre il cui seno continua a offrire frutti e fiori e tristi cimiteri per accogliere i morti, o Cristiani che guardano alla terra come luogo e fonte della caduta dalla quale un giorno dobbiamo tutti ascendere a un mondo nuovo e migliore attraverso la conflagrazione di una Rivelazione di Fuoco. Mi sono rivolto a Bachelard per fuggire queste fantasie di Terra, per ridarle la sua dignità e autonomia quale generatrice delle nostre fantasie su di essa. Perché sappiamo solo questo: non siamo altro che eventi di passaggio, posti su, sopra e sotto le sue enormi vastità, e tentiamo di creare immagini che diano alla terra tutto ciò che veramente le spetta. © 2003 JAMES HILLMAN All rights reserved. Tratto da Quaderni di Mantra, e pubblicato per gentile concessione dell’Associazione Holos International
Appendice
James Hillman, la psicologia archetipica, l’approccio immaginale e l’ecopsicologia Psicoanalista, carismatico, docente universitario, filosofo e autore di best seller internazionali, James Hillman è stato selezionato dalla Utne Readers tra le prime 100 persone “che sono in grado di cambiare la vita del loro pubblico”.
Stanton Marlan, psicoanalista, collega e amico di James Hillman, scrive: “La naturalezza e l’umiltà di Hillman furono parte della mia esperienza di lavoro con lui [...]. Io non ho mai percepito che egli volesse avere o volesse coltivare dei discepoli. Al contrario, ho sempre sentito che ciò che era importante per lui nei colleghi era che essi avessero idee proprie e non fossero ‘semplicemente dei seguaci o, peggio, adoranti imitatori’. Infatti, una volta, egli scrisse in una lettera: Voi citate troppo Hillman! Avete bisogno di riconoscere alcuni dei vostri pensieri come vostri”1. E ancora, Marlan, parlando del mentore e dell’amico asserisce: “James Hillman ha uno sguardo capace di vedere l’ombra (dark eye), ma egli è tutt’altro che un uomo introverso e melanconico. Il suo amore per la vita e la bellezza è contagioso. Ha sempre amato unire stimolanti conversazioni intellettuali con buon cibo, battute di spirito e leggerezza”2. Universalmente riconosciuto come il padre della psicologia archetipica, Hillman, è stato più un artista che uno psicologo strictu sensu, un poeta della psicologia che non può non riportare alla mente il ricordo dei grandi maestri orientali della psiche, i maestri tantrici, che furono poeti, da Milarepa a Ma gcig a Sri Aurobindo. Ma Hillman sente un obbligo di fedeltà verso il pensiero occidentale, e riesce a creare una poetica della psiche che si regge sul pensiero greco e s’illumina della forza rinvigorente del Rinascimento. Se i grandi maestri del tantrismo sciamanico hanno insegnato il metodo del ritiro delle proiezioni, con il quale la realtà viene compresa e raffigurata in forme simboliche in un Mandala Visionario, o cerchio delle proiezioni, la psicologia archetipica di Hillman è un’arte di riassorbimento del reale che si muove controcorrente rispetto alla psicologia ufficiale. Il metodo immaginale di Hillman non si preoccupa di rendere coscienti i contenuti inconsci, quanto piuttosto di prendere la cosiddetta realtà cosciente e di ricondurla alla propria origine, che è nel potere immaginativo della psiche. Ciò che Hillman definisce “fare anima” significa spersonalizzare e smaterializzare il reale, riconducendo ogni cosa, persona, luogo, evento alla sua reale natura, che è immagine, e riportando ogni storia personale alla sua
originaria dimensione mitologica, universale. In questo passaggio si compie una terapia delle idee e della cultura. Leggendo Hillman si ha l’impressione che egli tratti la malattia come un rituale che ha lo scopo di ristabilire l’ordine universale, l’ordine primevo, riparando al danno generato dalle idee. Gli dei sono diventati malattie, ci insegna Hillman. Nella cultura del potere, l’uomo rifiuta di riconoscere le forze naturali. Il re di Tebe nelle Baccanti, nega a Dioniso il suo ruolo nell’Olimpo; il re di Creta, Minosse, rifiuta il sacrificio del toro bianco che Poseidone ha richiesto. Dioniso e Poseidone sono le divinità di natura che l’uomo rifiuta di onorare a mezzo del sacrificio rituale. La malattia viene a essere l’eco di quel sacrificio che non è stato compiuto, essa ha lo scopo di ripristinare l’equilibrio fra corpo e mente, fra natura e ragione. Non c’è, in verità, qualcosa da guarire, da cambiare, da migliorare, da analizzare, semmai vi è un rito da celebrare in onore dell’anima. L’anima è, come Persefone, regina dell’infero, il regno dell’invisibilità, degli avi, dei sogni, della mancanza, del daimon, del doppio animale, dell’istinto, dell’ombra. Un infero che è interiorità e profondità, ma che viene frainteso come inferiorità e malignità. Hillman non vuole consegnare il materiale inconscio nelle mani della cosiddetta consapevolezza dell’Io, piuttosto desidera portare l’Individuo a confrontarsi con ciò che egli ha preteso di poter dimenticare. La psicologia archetipica di Hillman è anche definita psicologia politeista. Hillman, infatti, ha proposto come modello della psicologia moderna il politeismo greco. Hillman non fa mai ricorso al concetto di “individuazione” proposto da Jung e, non solo per questo, egli è considerato un eretico da molti junghiani. Il fatto è che James Hillman, come un vero artista, non può che approcciarsi al pensiero del maestro ricreandolo completamente. Ma il grande cuore del pensiero di Hillman è l’amore per l’anima e per la sua magnificente creazione immaginale, che è Bellezza, al punto che la psicologia di Hillman è certamente definibile una ecopsicologia o una psicologia del profondo. L’anima, evidenziandosi nella natura, non muove verso il bene – bene e male, salute e malattia, vero e falso, giusto e sbagliato sono concetti mentali prodotti dalla cultura del potere che ha bisogno di rendere la natura governabile, prevedibile, misurabile – l’anima muove verso il bello, che non è misurabile o classificabile. Perciò Hillman radica la sua psicologia non nella scienza, bensì nell’estetica e nell’immaginazione. Hillman propone le
basi di un’esperienza estetica che è la grande alternativa all’esperienza terapeutica, la quale, se propagandata a oltranza, finisce per divenire la sola via per affrontare mali, disagi e disturbi. La terapia è la via anestetica che tenta di sedare il ruggito degli dei adirati che sono gli stessi organi. L’esperienza estetica esalta il grido degli organidei, fino a poterlo sentire e comprendere con l’immaginazione, ristabilendo, con ciò, l’ordine primevo interrotto dalla disobbedienza alla divinità di natura. Le immagini sono amore. È l’amore, infatti, che dà origine all’epifania creativa delle immagini, le quali, proprio in quanto sono amore, amano svanire. Hillman si spegne il 27 ottobre 2011, a seguito delle complicazioni di un cancro alle ossa. Si trova a Thompson, nella sua casa. Lascia, oltre alla terza moglie, Margot McLean, quattro figli e cinque nipoti. Ha ottantacinque anni. Hillman ha vissuto in prima persona le sue idee, lo dimostra il modo in cui, assai raramente, faceva riferimento a dati autobiografici nei suoi scritti e nelle sue conferenze. Hillman parlava della propria storia come raccontasse ogni volta un mito, una favola destinata ad avere la circolarità di un eterno ritorno. Hillman spersonalizzava se stesso e deletteralizzava le proprie esperienze, come si può vedere nel suo scritto “La buona terra: letterale o immaginale” riportato in questo stesso libro. La dissoluzione di un’immagine è la sua attivazione, poiché le immagini sono potenti nell’ombra. Adesso possiamo cominciare a raccontare… James Hillman nasce ad Atlantic City il 12 aprile 1926. È il terzo dei quattro figli di Madeleine e Julian Hillman. Nasce nel Breakers Hotel, uno degli alberghi del padre. Crescendo nei litorali straripanti di lusso e di gioco, James assorbe non solo i divertimenti e il clima della vita notturna, ma anche l’ipocrisia, la nevrosi, la farsa di un mondo d’incantatori di serpenti, una dimensione oscura che, forse, contribuirà ad attirarlo verso la psicologia del profondo. Come ci spiega Dick Russell, scrittore e amico di James Hillman, attualmente impegnato nella stesura di una biografia in due volumi del maestro, Hillman sente molto le proprie ascendenze ebree ed europee. In effetti, Joseph Krauskopf, suo nonno materno, era un ebreo polacco che emigrò in America, la “terra delle opportunità” a soli quattordici anni. “Da giovane immigrato che neppure parlava l’inglese, Krauskopf è cresciuto al
punto da divenire il rabbino della Riforma più in vista negli Stati Uniti”3. Nella dedica del suo primo libro Emotions (1960) James scrive: “Agli spiriti dei miei nonni, Joel Hillman e Joseph Krauskopf”. Anche il nonno paterno, Joel Hillman, aveva incominciato a “cavarsela da solo” fin da quando era molto giovane. “Nato a Memphis, l’anno dopo la fine della Guerra Civile, venne cresciuto da una famiglia che gestiva un negozio in Okolona, nel Mississippi dopo che suo padre era morto di colera o a causa di una epidemia di febbre gialla e sua madre era scomparsa. [...] Nel 1927, Joel e sua moglie Julian erano diventati i soci americani della compagnia che costruì il George V, lussuoso hotel di Parigi. [...] Ma con l’avvento della grande depressione, gli Hillman caddero in bancarotta e persero le loro quote del George V”4. Nonostante la depressione, l’avventura di Joel come albergatore era proseguita ed era stata ereditata dal figlio, il padre di James. James Hillman dimostra di avere a pieno ereditato l’amore per la Riforma e l’innovazione interiore del nonno materno, unitamente allo stile e al respiro internazionale del nonno paterno. Durante la seconda guerra mondiale, egli serve il Corpo Ospedaliero della Marina degli Stati Uniti come addetto ai ciechi (1944-1946). Nel dopoguerra svolge l’attività di cronista della radio militare (US Forces Network) in Germania. Nel 1950, dopo aver frequentato la Sorbona, si laurea in medicina al Trinity College di Dublino “with First Class Honors”. Quindi effettua viaggi in Africa e dal 1952 al 1953 è in Kashmir dove conosce lo yogin Gopi Krishna. Hillman scrive un commento psicologico all’opera del maestro indiano che fungerà da introduzione al libro di quest’ultimo, Kundalini the Evolutionary Energy in Man, che uscirà in Italia nel 1971 per i tipi delle edizioni Ubaldini, Roma, con il titolo Kundalini: l’energia evolutiva nell’uomo. Nel 1953 James Hillman e la sua prima moglie, Kate Kempe, si stabiliscono a Zurigo, dove egli studia filosofia presso l’Università, conseguendo il dottorato summa cum laude e, nel 1959, il diploma di analista del C.G. Jung Institute presso il quale viene presto nominato Direttore degli Studi, carica che ricopre per dieci anni, fino al 1969. Nel 1960 pubblica a Londra il suo primo lavoro importante: Emotion: A Comprehensive Phenomenology of Theories and Their Meanings for Therapy, seguito da Il Suicidio e l’Anima (1965) e Psicologia e Religione
(1967). Nel 1970, a Zurigo, diviene direttore della Spring Pubblications, una casa editrice che ha lo scopo di diffondere negli Stati Uniti le opere di C.G. Jung in versione inglese. Nel 1966 comincia a partecipare alle attività annuali di Eranos ad Ascona, sul Lago Maggiore, nella Svizzera Italiana, dove egli ama molto soggiornare. Eranos è un circolo culturale già segnato dall’attiva partecipazione di C.G. Jung. Hillman contribuisce alle attività di Eranos con lezioni e conferenze nelle quali sviluppa i nuclei più importanti del proprio pensiero. Le lezioni di Eranos confluiranno nelle sue opere successive. Collabora con Eranos fino al 1989. Egli prende anche la cittadinanza svizzera. Le sue figlie, Carola Hillman e Susanne Hillman, vivono tutt’oggi in Svizzera. James Hillman è statunitense per nascita, ma è europeo per formazione. La sua attività lo vede continuamente impegnato in trasvolate oceaniche in un’instancabile attività di conferenziere tra l’Europa e gli Stati Uniti. Nel 1972, è invitato da William Sloan Coffin come relatore delle prestigiose Terry Lectures, cicli di conferenze che si svolgono presso l’Università di Yale. Da queste lezioni, che vengono molto apprezzate, esce il libro Revisione della Psicologia, nominato per il premio Pulitzer nel 1976. In esso Hillman scrive: “Sto suggerendo sia una base poetica della psiche, sia una psicologia che non parte dalla fisiologia del cervello, né dalla struttura del linguaggio, né dall’organizzazione della società, né dall’analisi del comportamento, ma dai processi di immaginazione”. Dopo oltre trent’anni di Europa, James Hillman torna stabilmente negli Stati Uniti, convinto che l’America abbia più bisogno di lui del vecchio continente. Lasciata l’Europa, egli si trasferisce in Texas, dove porta anche la Spring Pubblications. Nel 1978 diviene decano di facoltà all’Università di Dallas e, insieme a dei colleghi, fonda il Dallas Institute of Humanities and Culture, una organizzazione culturale no profit. Nel 1984 si trasferisce nuovamente, raggiungendo il Connecticut, dove dimorerà fino alla morte. Con la sua seconda moglie, l’analista e scrittrice Patricia Berry, Hillman si stabilisce a Thompson. Sul finire degli anni Ottanta, James Hillman prende parte al Man’s Movement. Con due amici, il poeta Robert Bly e lo scrittore Michael Meade, incomincia a tenere serate di lettura di poemi e poesie, lezioni e conferenze
nelle quali esplora gli archetipi maschili nel mito, nelle favole e nei poemi. Il Man’s Movement nasce come parte del ben più durevole e diffuso movimento femminista, e negli anni Novanta dà origine in tutti gli Stati Uniti a innumerevoli seminari, ritiri, eventi e raduni di uomini che si uniscono al suono tribale di tamburi e inneggiano al loro Io istintuale e ai loro primitivi antenati. Con Bly e Meade assembla un’antologia della poesia popolare (The Rag and Bone Shop of the Heart). Nel 1992 l’Università di Notre Dame, in Indiana, gli dedica un Festival of Archetypal Psychology, che dura 6 giorni, con 500 partecipanti. Sul finire degli anni Novanta egli esplora anche le visioni dell’Ecopsicologia e dell’Ecologia Profonda. In proposito, con la collaborazione dell’artista Margot McLean, la quale diverrà la sua terza moglie, scrive Dream Animals (1997), un saggio, illustrato da Margot, sugli animali che ci vengono a trovare nei sogni (Animali del sogno, Raffaello Cortina, Milano, 1997). In questo libro Hillman ci incoraggia a non analizzare i sogni e a non trasformare gli animali che ci vengono a trovare nei sogni in simboli, perché in questo modo perdiamo l’animale in quanto rappresentante della numinosità dell’inconscio. L’animale va onorato e celebrato, non interpretato e ridotto a un concetto. Le immagini non sono concetti, ma forze che ci si danno per amore, interpretarle significa compiere un sforzo individuale e negare la legge dell’amore. In questo libro Hillman fa ecologia profonda, invitandoci a seguire le immagini oniriche degli animali nell’ombra da cui esse provengono, piuttosto che portarle nella luce dell’analisi mentale. Così facendo potremo forse comprendere nel nostro cuore come fermare la distruzione della vita sul pianeta. Negli Stati Uniti, Hillman insegna a Yale, alla Syracuse University, alla University of Chicago e alla University of Dallas. Ma tiene sempre forti legami con l’Europa dove si reca in una incessante attività di conferenziere. Si dedica anche a una intensa attività culturale, rivolta alle più varie categorie sociali: architetti, educatori, operatori sociali, artisti. Ha particolarmente successo in Italia, dove gli viene conferita la Medaglia del Comune di Firenze e la cittadinanza onoraria di Chiavari. Per oltre dieci anni tiene lezioni e seminari all’Istituto di Psicologia del profondo e studi mitologici del Pacifica Graduate Institute di Santa Barbara, dove, a tutt’oggi, sono raccolti i suoi scritti nei James Hillman Archives.
Il suo libro di maggior successo è stato The Soul’s Code, pubblicato nel 1996, quando l’autore aveva settant’anni (Il codice dell’anima, edizioni Adelphi, Milano, 1997). Nel libro, Hillman legge a ritroso la biografia di personaggi famosi, da Judy Garland a John Lennon e Tina Turner, da Truman Capote a Quentin Tarantino e Woody Allen, da Hannah Arendt a Richard Nixon e Henry Kissinger, da Hitler ai serial killer, evidenziando come la “chiamata nel mondo” di ciascuno, la “missione” o “vocazione” dell’anima che ci ha chiamati alla vita, sia rappresentata nell’infanzia da “segni premonitori” che la dicono lunga sul ruolo e il destino di ognuno. Le idee di Hillman sono state oggetto di diversi libri e vari studi. Michael Vannoy Adams, analista junghiano, ha fatto un importante parallelismo tra le idee di Hillman e quelle del filosofo francese Jacques Derrida. Paul Kugler, altro analista junghiano, ha confrontato le visioni di Hillman con quelle di Jacques Lacan. Ricordiamo anche gli studi di Roberts Avens, David Miller e Edward Casey, David Tacey. Anche in italiano abbiamo diversi studi e interviste: Pina Giacobbe, Psicopatologia come mito. Introduzione a James Hillman, Giuffré, Milano, 1986; James Hillman, Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo, Milano, Rizzoli, 2003; James Hillman, Il piacere di pensare. Conversazione con Silvia Ronchey, Milano, Rizzoli, 2004; Riccardo Mondo e Luigi Turinese (a cura di), Caro Hillman... Venticinque scambi epistolari con James Hillman, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; Marco Ariani e Paolo Pampaloni, Anima mundi per James Hillman. Con una nota di Roberto Calasso, Adelphi, Milano, 2012; Francesco Donfrancesco (a cura di), James Hillman. Verso il sapere dell’anima, Moretti&Vitali, Bergamo, 2012; Daniela Sacco, Al di là delle colonne d’Ercole. Hillman erede infedele di Jung, Moretti&Vitali, Bergamo, 2013; Paolo Mottana, La “controeducazione” di James Hillman, IpocPress, Milano, 2013. 1
Stanton Marlan in Archetypal Psychologies, Reflections in Honor of James Hillman, a cura di Stanton Marlan, Spring Journal Inc., New orleans, 2012, p. 6. 2
3
Ibidem.
Dick Russel, “L’eredità degli antenati”, in Archetypal Psychologies, Reflections in Honor of James Hillman, cit., p. 16.
4
Ivi, p. 25.
La bibliografia James Hillman è stato un autore prolifico. Di seguito cercherò di parlare della sua produzione, citando le voci di colleghi e amici del maestro che hanno voluto dedicare degli scritti alla sua memoria poco dopo la sua scomparsa, si tratta di belle testimonianze cariche di riconoscenza che sono state raccolte nel volume dal titolo Archetypal Psychologies, Reflections in Honor of
James Hillman. Jan Marlan, psicanalista junghiana, chiede a James Hillman in un’intervista se vi sia un libro, tra i molti che ha scritto, che egli predilige. Hillman risponde come segue: “Diversi ‘me’ hanno diverse preferenze. Mentre, per quanto concerne l’essere ricordato attraverso uno scritto o un altro, mi piace pensare che diverse persone con interessi diversi in diverse epoche storiche si rivolgeranno a questo o a questo altro libro, riflettendo diversi stati d’animo e diversi ‘dei’”1. Sempre nel corso della stessa intervista Hillman afferma: “In Italia c’è un vasto consenso verso i miei libri che vengono continuamente ristampati e alcuni di essi sono persino divenuti best seller; là io sono letto sia dagli studenti che dagli intellettuali. Esiste persino un libro dal titolo Caro James che è composto da lettere scritte da 25 italiani, pensatori, analisti, scrittori ecc., i quali pongono domande e anche critiche a cui io rispondo. La cultura italiana poggia sul medesimo stile, la stessa base di pensiero, la medesima estetica e retorica che io tendo ad usare. È un piacere e un onore avere una corrispondenza a un livello così intelligente in Italia”2. “L’approccio di James Hillman, secondo me, ha il vantaggio supplementare di essere accettabile nell’ambiente accademico, il quale è ancora critico nei confronti del pensiero di Jung. Jung rivisitato da Hillman può essere accettato anche dalle menti più critiche”3. Marcus Quintae, psicologo a indirizzo archetipico, che ha notevolmente contribuito a divulgare in Brasile la psicologia di Hillman, vede nello sviluppo del pensiero e nelle opere del maestro quattro grandi periodi: Primo periodo
Dal 1959 al 1969 Hillman lavora come analista e Direttore degli Studi presso il C.G. Jung Institute di Zurigo. Già in questo periodo Hillman mostra un’originalità di pensiero che lo distingue dalla visone classica degli analisti junghiani. Secondo periodo
L’ideazione della psicologia archetipica. In questo periodo Hillman incomincia una critica profonda del pensiero junghiano e fonda il primo consistente movimento post-junghiano, seguendo l’orientamento di Rafael López-Pedraza, considerato un altro grande padre della psicologia archetipica, secondo il quale la regola d’oro della psicologia archetipica è di rimanere in stretta relazione con le immagini. Terzo periodo
È caratterizzato da un’importante svolta nel pensiero di Hillman dovuta principalmente all’introduzione nella sua visione dell’antico concetto di Anima Mundi. In questo periodo Hillman conduce una pesante critica alla psicologia e alla psicoanalisi accusandole di rinforzare l’individualismo e il soggettivismo; una introversione che conduce a dimenticare di essere “cittadini del mondo” e di vivere in stretta relazione con l’anima del mondo. In questo periodo Hillman incomincia a insistere sull’importanza dell’esperienza estetica come grande alternativa all’esperienza terapeutica. Nel 1989 Hillman annuncia pubblicamente di aver deciso di lasciare la professione di analista per dedicarsi esclusivamente all’attività di pensatore, scrittore e conferenziere. Quarto periodo
Questo ė il periodo in cui James Hillman diviene popolare specialmente grazie al best seller Il codice dell’anima. Proprio divenendo popolare Hillman sembra portare a compimento la vocazione mercuriale della sua anima. Come Mercurio, Hillman ė stato messaggero dell’Ade e, come il dio alato, messaggero degli dei, egli non poteva sottrarsi al compito di essere “famoso”. Hillman revisiona Hillman
Ai quattro periodi Marcus Quintae aggiunge la fase in cui Hillman revisiona Hillman; una fase parallela a tutte le precedenti. Quintae riporta diverse citazioni in cui Hillman affronta in modo critico la sua stessa opera. Tra tutte mi colpisce in particolare la frase in cui Hillman parla del proprio monoteismo riferendosi a un se stesso di venticinque anni prima: “Mentre difendevo il politeismo, io stesso agivo da monoteista”4. Hillman è stato sempre perfettamente cosciente della difficoltà di agire al di fuori dei paradigmi comuni. Alla luce di ciò, questo mio libro, che accomoda per qualche pagina James Hillman nella grotta dove meditarono Tilopa, Naropa e Milarepa,
questo mio libro che parla al femminile dell’illustre rappresentante del Man’s Movement, forse può essere accolto semplicemente per ciò che vuole essere: un tentativo di vivere un metodo che è di tutti e di nessuno.
Tra le opere del primo periodo
Emotion: A Comprehensive Phenomenology of Theories and Their Meanings for Therapy, Northwestern University Press, 1961.
Il suicidio e l’anima (Suicide and the Soul, Spring Pubblications, 1964), trad. Aldo Giuliani, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1972. La ricerca interiore: psicologia e religione (Insearch: Psychology and Religion, Spring Pubblications, 1967), Moretti e Vitali, Bergamo, 2010. Puer aeternus (Senex and Puer: An Aspect of the Historical and Psychological Present, 1968), trad. Adriana Bottini, Adelphi, Milano, 1999. Commento psicologico a Krishna Gopi, Kundalini: l’energia evolutiva nell’uomo (Kundalini the Evolutionary Energy in Man, 1970), trad. Paolo Colombo, Ubaldini, Roma, 1971 Tra le opere del secondo periodo
Saggio su Pan (An Essay on Pan, 1972), trad. Aldo Giuliani, Adelphi, Milano, 1977. La vana fuga dagli dei, Eranos Foundation, Ascona, 1974; Adelphi, Milano, 1991. Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), trad. Aldo Giuliani, Adelphi, Milano, 1983. Il sogno e il mondo infero (The Dream and the Underworld,
1979), a cura di Bianca Garufi, trad. Paola Donfrancesco, Ed. di Comunità, Milano, 1984; Il Saggiatore, Milano, 1988, 1996; trad. Adriana Bottini, Adelphi, Milano, 2003. Le storie che curano: Freud, Jung, Adler (Healing Fiction, 1983), trad. Milka Ventura e Paola Donfrancesco, Raffaello Cortina, Milano, 1984. Il mito dell’analisi (The Myth of Analysis, 1972), trad. Aldo Giuliani, Adelphi, Milano, 1979, 1984, 1991, 2012.
Tra le opere del terzo periodo
Anima. Anatomia di una nozione personificata (Anima: an Anatomy of a Personified Notion, 1985), Adelphi, Milano, 1989. L’anima del mondo e il pensiero del cuore (Plotinus, Ficino and Vico as Precursors of Archetypal Psychology; The Thought of the Heart; Anima Mundi), a cura di Francesco Donfrancesco, postfazione di Paulo Barone, Garzanti, Milano, 1993; trad. Adriana Bottini, Adelphi, Milano, 2002. Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio (con Michael Ventura) (We’ve Had a Hundred Years of Psychotherapy 1993), trad. Paola Donfrancesco, Garzanti, Milano, 1993; Raffaello Cortina, Milano, 1998. Tra le opere del quarto periodo
Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino (The Soul’s Code, 1996), trad. Adriana Bottini, Adelphi, Milano, 1997. Animali del sogno (Dream Animals, 1997), Raffaello Cortina,
Milano, 1997. La forza del carattere: la vita che dura (The Force of Character, 1999), trad. Adriana Bottini, Adelphi, Milano, 2000. Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of War, 2004), trad. Adriana Bottini, Adelphi, Milano, 2005. 1
Jan Marlan in Archetypal Psychologies, Reflections in Honor of James Hillman, cit., p. 49.
2
Ivi, p. 50.
3
Ginnette Paris, professoressa di Studi Mitologici presso il Pacific Graduate Institute di Santa Barbara, California, in ivi, p. 70. 4
James Hillman, Twenty-Five Years Later, p. 112.
Immagini
Forse certi popoli hanno ragione nel ritenere che la fotografia “cattura l’anima”. In questa foto di me e di Hillman presa “da un’altra prospettiva”, lui indica verso l’alto, ma “da un’altra prospettiva”.
L’anima mundi si percepisce nella relazione con luoghi e oggetti. Un rapporto meramente materialistico ci preclude il piacere delle immagini. La giacca, la cravatta, gli occhiali, l’ambiente... visti da un’altra prospettiva, sono aspetti dell’anima mundi, a cui ci unisce l’eros creativo. Instaurare una relazione sensuali con gli oggetti e l’ambiente è sorridere.
La Terra è Celeste, da un’altra prospettiva
Camminare per le strade della Svizzera Italiana, dove Hillman amava soggiornare, nei pressi del lago di Lugano, in una bella giornata...
...e, naturalmente, ridere!
Daw Khiw Shwe, la sciamana di Pagan che mi ha raccontato la storia di Thonban Hla e io.
Daw Khiw Shwe e io.
(A destra) Daw Khiw Shwe interpreta Thonban Hla nel rito sciamanico. (A sinistra) Il Vajra Pani nell’Unione con la propria compagna.
Thonban Hla (al centro) nel santuario dei Nat sul monte Popa.
Una bella immagine del nagpa del Tibet.
Tezin e il nagpa.
Una rogyapa tibetana e io.
Il Vajradhara nell’unione con la propria compagna avvolto nel cerchio di fiamme.
Jetsun, l’oracolo tantrico e io.
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Frontespizio Prefazione di Paolo Crimaldi Premessa 1. Fare anima Perdita e scoperta Il mio compleanno Il riflesso di James Hillman e l’immaginale L’axis mundi L’androgino La resurrezione della Morte Libere associazioni Il daimon Dal daimon agli avi Gli avi, messaggeri dell’invisibile Il Padre Il Beato Tremendo e la Resurrezione della Morte Il sincretismo Ecologia profonda Presagio Dentro il canale, i miei maestri La meditazione degli eremi theravada La strettoia La psicologia degli outsider Arianna e il Minotauro Zeus e Prometeo 2. Il viaggio nella morte La luna e la progenie della notte La Madre Non vedo altro che amore Le danza delle immagini Esperienze ed esercizi Cuore Ecate, ancora una volta la triplice essenza della terra Il metodo della metafora Sogno Siamo tutti un po’ Demetra e un po’ Persefone Esercizi per la visione sottile Riflesso di luce Pandora Lasciamo la speranza nel vaso È primavera 3. Fare anima al femminile: la cantastorie Thonban Hla La Vecchia Signora La donna tre volte bella Ancora sulla rabbia La partenza Il nagpa e la rogyapa Il transito Il Folle Divino e la Danzatrice del Cielo Shambhala La chiave dell’immaginale A presto James Hillman La buona terra: immaginale o letterale? La buona terra: immaginale o letterale? Terapia Ambiente Violenza e guerra Conclusione Appendice James Hillman, la psicologia archetipica, l’approccio immaginale e l’ecopsicologia La bibliografia Primo periodo Secondo periodo Terzo periodo Quarto periodo Hillman revisiona Hillman Tra le opere del primo periodo
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Tra le opere del secondo periodo Tra le opere del terzo periodo Tra le opere del quarto periodo Immagini
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