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Italian Pages 1236 Year 1993
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DAL TESTO ALLA STORIA DALLA STORIA AL TESTO Tomo
Primo
G. BALDI
S. GIUSSO
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G. ZACCARIA
DAL TESTO ALLA STORIA DALLA STORIA AL TESTO Letteratura italiana con pagine di scrittori stranieri Analisi dei testi » Critica VOLUME III Tomo
Primo
Dal Neoclassicismo al Verismo
Storia del Teatro e dello Spettacolo a cura di Gigi Livio
Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche, — appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest'opera, l’Editore — che ha provveduto al deposito della stessa — presso l’Ufficio della Proprietà letteraria ai sensi della Legge sul Diritto d'Autore — è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti.
Editor: Gigi Livio Realizzazione dell'Ufficio Tecnico Paravia Progetto grafico: Emilio Delmastro Copertina: Studio Livio, Torino Impaginazione: Carlo Zappa, Argo Tobaldo Fotocomposizione: L.I.V., Cascine Vica (Torino) Stampa: Rotolito Lombarda Pioltello (MI)
In copertina: Un cigno disegnato da Giacomo Leopardi L’opera è stata unitariamente concepita e discussa in ogni suo particolare da tutti gli autori; il presente volume è stato però redatto specificamente da Guido Baldi. Le Proposte di lavoro sono state curate da Silvia Giusso. Le note ai testi dei capitoli relativi a: Leopardi, Romanticismo europeo, scrittori italiani dell’età romantica, Scapigliatura, Carducci, Naturalismo francese, scrittori italiani dell'età del Verismo, scrittori realisti europei, sono dovute a Silvia Sanseverino.
Gli inserti d’Arte figurativa sono stati realizzati da Francesco Landolfi.
Redazione: Rossella Ferrero, Francesco Landolfi
G. B. Paravia & C. S.p.A. 10139 Torino - Corso Trapani, 16 http://www.paravia.it
Proprietà letteraria, artistica e scientifica © 1993, Paravia, Torino
Printed in Italy
Si ritengono contraffatte le copie non firmate o non munite del contrassegno della S.I.A.E. Prima edizione
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Prefazione
Dal testo alla storia, dalla storia al testo è un’antologia e storia della letteratura italiana che, come è indicato fin dal titolo, si ispira a una linea critica e didattica ormai ampiamente accolta, che è quella che vede nel testo l’elemento centrale su cui si basa lo studio della letteratura. È indispensa-
bile infatti che la conoscenza dell’oggetto letterario si fondi su un rapporto diretto con esso, in modo che il discente possa acquisire i metodi della ricerca scientifica, sviluppare le sue capacità di osservazione, di analisi, di confronto su realtà concrete e, non ultima finalità, possa ricavare dalla lettura quel piacere che può stimolarlo ad accostarsi poi autonomamente all’opera intera, a cercare altri libri, a divenire insomma lettore abituale.
Il percorso privilegiato, quindi, da questo libro è quello che va dal testo alla storia; l’opera è però costruita in modo tale da consentire all’insegnante di compiere anche il percorso inverso, dalla storia al testo, appunto come risulta da una rapida analisi degli elementi essenziali che la compongono e dalle loro motivazioni critiche e didattiche. Le analisi dei testi
La scelta dei testi risulta la più ampia possibile, orientata sia su quelli ‘canonici’, sta su altri meno noti. L’antologia è poi arricchita da una scelta di testi di scrittori strameri, almeno di quelli che risultano indispensabili, data la loro statura storico-letteraria, alla comprensione di fenomeni di portata europea, se non mondiale. I testi sono tutti accompagnati da analisi, più o meno ampie a seconda della rilevanza dei testi a cui si riferiscono, con alcune ‘analisi guida’ molto dettagliate per quelli particolarmente significativi. Tali analisi non mirano a imporre una determinata interpretazione, ma solo a fornire esempi di applicazione dei metodi cratici e, attraverso di essi, esempi di letture possibili. Per questo l’analisi è affrontata di regola con vari strumenti metodologici, quelli più recenti e aggiornati, formali e semiotici, storicosociologici, simbolici, ecc. in modo da far vedere come ogni metodo permetta di portare alla luce diversi aspetti di un testo. Là dove il testo offre l’opportunità, e lo stato delle indagini critiche lo consente, sono state anche pro-
poste contrastanti interpretazioni a confronto. Oltre alla trasmissione degli strumenti, l'intento delle analisi è quello di fornire all’allievo dl senso della problematicità dell’oggetto letterario, del fatto che tale oggetto può e deve essere affrontato da angolature diverse, e che la lettura univoca può risultare inadeguata di fronte a una realtà com-
plessa quale è il testo letterario.
Naturalmente, se le interpretazioni di un
testo sono tendenzialmente infinite, ciò non significa che ogni interpretazione sia valida: con la strumentazione messa in atto in quest'opera, l’al-
lievo ha la possibilità di attrezzarsi anche per vagliare la validità e la sostenibilità delle varie affermazioni, e per trovare gli elementi che eventualmente le possano denunciare come inattendibali. Prefazione
.
Purutilizzando î metodi critici più aggiornati, le analisi evitano tutta-
via tecnicismi troppo specialistici, che potrebbero scoraggiare gli allievi, e mirano a tradurre ciò che può risultare difficile nei termini più piani e accessibili, senza peraltro banalizzare il discorso, ma cercando di raggiungere un punto di equilibrio tra rigore scientifico e chiarezza didattica. Per facilitare il lavoro e fornire agli allievi tutti gli elementi indispensabili alla comprensione sono state introdotte delle brevi schede di approfondimento, chiamate “microsaggi”, che, ogni volta se ne presenti la necessità, illustrano concetti, problemi, dati, ed è stato posto al termine di ogni tomo un glossario dei termini tecnici in esso utilizzati, della retorica e
della metrica, della linguistica e della semiotica, della filosofia, della sto-
ria dell’arte.
I “quadri di riferimento”
I testi, ovviamente, non sono oggetti isolati, senza rapporti tra di loro e con la più ampia realtà che li circonda, ma si collocano in una dimensione storica. La storicità sì può cogliere in primo luogo nei testi stessi, si manifesta concretamente nelle scelte tematiche e formali che lo scrittore compie in collegamento (per adesione 0 contrasto) con i problema della sua epoca e con i codici culturali in essa dominanti. E questa la storicità che emerge dalle analisi. Ma se la ‘storia’ è implicita nel modo in cui lo serittore usa una parola 0 uno stilema, nella scelta di un tema particolare, tali
elementi non sarebbero comprensibili se isolati dal contesto in cui nascono. Il luogo dove viene delineato tale contesto, dove viene tracciato il ‘quadro’ în cui i testi si collocano, ed in cui st ricompongono organicamente le linee di tendenza storiche che le analisi hanno individuato, è quello dei “quadri di riferimento”. Ogni momento significativo della periodizzazione storica (l’età cortese e quella comunale, il Rinascimento e il Barocco, l’IMuminismo e l’età romantica...) è accompagnato da un ampio “quadro di riferi-
mento” che fornisce tutti gli strumenti per capire il contesto e tutte le coordinate necessarie per collocare i singoli fenomeni analizzati: vi si esaminano sistematicamente le strutture politiche, sociali ed economiche, le istituzioni
culturali, il ruolo degli intellettuali e il pubblico, la lingua, i generi letterari. Il contesto in cui va collocato il singolo testo è la storia, per così dire, ‘interna’ alla dimensione letteraria, la storia delle forme, dei codici e dei
rapporti intertestuali, ma anche la storia ’esterna’, quella materiale, quella delle mentalità e delle idee, che con la prima ha rapporti dialettici strettissim. La letteratura non è mai ‘pura’, è sempre anche ‘altro’ dalla letteratura, legata com'è alla totalità della vita sociale e intellettuale, pur avendo, d’altro lato, una sua imprescindibile specificità. Pertanto le sintesi proposte nei “quadri di riferimento” esaminano una totalità di cui la letteratura è parte, e a cui è legata da malle fili, più 0 meno visibili, ma dedicano la necessaria attenzione anche allo specifico, al sistema delle forme nella loro sincromicità e nella loro intertestualità. In particolare molto rilievo viene dato ai generi, di cui sono esaminate le caratteristiche formali che li individuano e le manifestazioni concrete in cui si presentano. Tale esame viene poi ripreso, nelle analisi, attraverso una costante attenzione prestata al linguaggio specifico del genere a cui il testo appartiene, la lirica, il romanzo cavalleresco, il romanzo realistico, il romanzo ‘nero’ 0 fantastico, la commedia, la tragedia, il dramma borghese, ecc. Prefazione
7 La storia e l’antologia
Questi “quadri”, insieme ai profili dedicati agli autori (che possono essere brevi schede per è “minori” ma anche ampie monografie per i “maggiori ”) e ai “microsaggi”, vengono a costituire una completa e ben articolata storia letteraria, per così dire, ‘sciolta’ nell’antologia, in modo che ogni quadro, ogni profilo, ogni microsaggio si trovi a contatto diretto con i testi cui st riferisce, proprio per sottolineare la stretta interdipendenza tra l’analisi e la sintesi, l'esame del fatto testuale concreto e la mappa in cui collocarlo. Il rapporto tra la “storia” e le analisi dei testi è quindi di complementarità: nei quadri e nei profili si possono trovare ricomposte quelle linee generali dell’indagine condotta nelle analisi, ed in queste la verifica puntuale, nel concreto, delle linee tracciate nelle parti generali. Il libro si può quindi usare partendo dalle analisi individuali per salire ai quadri generali, o partendo dai quadri, che forniscono le informazioni preliminari, per scendere alle analisi. Il singolo insegnante potrà scegliere il metodo che riterrà più produttivo e confacente alle sue esigenze. L’opera, come non vuole imporre un’'univoca prospettiva metodologica e interpretativa, così non vuole imporre percorsi didattici rigidamente obbligati, che soffochino la libertà del docente e del discente, ma intende proporsi come una struttura aperta, duttile, capace di soddisfare esigenze diverse.
La storia e l’antologia della critica
Indicazioni utili nella direzione della ricerca possono essere trovate anche nella scelta di passi critici che accompagna ogni capitolo (preceduta, per gli autori maggiori, da un’essenziale storia della ricezione e della tradizione interpretativa). La scelta dei passi obbedisce allo stesso principio che informa le analisi dei testi: dare un’idea della pluralità dei metodi di indagine e della varietà delle interpretazioni. Per questo l’opera propone passi che siano esemplificativi delle varie tendenze: la critica idealistica, quella stilistica, quella semiotico-strutturale, quella sociologica, quella simbolica, quella psicoanalitica... Perché la lettura sia più agevole, ogni passo è preceduto da una breve introduzione in cui viene spiegato il metodo seguito dallo studioso e ne sono riassunte le tesi di fondo, ed è corredato di note che spiegano i termini e è concetti più difficili. All’inizio del primo volume è stato collocato un “microsaggio” che delinea un panorama dei metodi principali della critica, in modo da fornire una ‘mappa’ generale di orientamento; parimenti nel primo volume, e nei primi tomi del secondo e del terzo, è presente un “microsaggio” che illustra in particolare 1 concetti fondamentali della narratologia, spesso alla base dell'analisi dei testi, con esempi tratti dagli autori del periodo cui si riferisce ogni “microsaggio”.
Le “proposte di lavoro”
Le “proposte di lavoro” seguono ogna singolo testo (più raramente gruppi di testi tra loro collegati). I quesiti formulati in queste “proposte”, ponendo
dei problemi, mirano a indicare allo studente la strada per impostare personalmente l’indagine, utilizzando i metodi di cui si è impadromnato grazie agli esempi di lettura formiti nelle analisi, senza che con questo venga prePrefazione
Mi
determinato un punto d’arrivo. Tali proposte non nascono “a tavolino” ma dalla pratica didattica concreta, e sono state a lungo e accuratamente sperimentate “dal vivo”. Esse individuano sempre problemi di rilevante portata, ma tutti risolvibili e di difficoltà graduale, tali da non eccedere le possibilità reali degli studenti, in modo da stimolarli alla riflessione senza
scoraggiarli.
Naturalmente questi esercizi vogliono solo essere suggerimenti
e non pretendono di fornire un modulo rigido da trasferire integralmente nella didattica. Ogni insegnante potrà scegliere quelli che gli sembreranno più adatti, trasformarli e svilupparli a seconda delle esigenze della classe che, sì sa, sono sempre diverse.
La storia del teatro,
del cinema e delle arti figurative
In sintonia con i nuovi programmi, l’opera si apre interdisciplinarmente a campi affini alla letteratura. In primo luogo al teatro, inteso come fatto scenico, nella sua dimensione di spettacolo e nei suor codici specifici: per la prima volta in un manuale di letteratura italiana è presente - curata da uno specialista, il prof. Gigi Livio, docente di Storia del teatro all’Università di Torino —- una vera e propria storia dello spettacolo teatrale, articolata in una serie di sezioni dedicate ai momenti più significativi della scena italiana, dai giullari e dal teatro religioso medievale al teatro comico e tragico del ’500, alla Commedia dell’arte, fino al “grande attore-mattatore” ottocentesco e alle avanguardie del ’900. Per il Novecento sarà presente anche una ricostruzione delle linee essenziali della storia del cinema - curata anche
questa da uno specialista, il dott. Dario Tomasi, ricercatore di Storia e
critica del cinema all’Università di Torino. Verranno offerti esempi concreti di lettura di testi scenici e filmici con tre schede corredate da altrettante videocassette. Un’analoga attenzione è dedicata alle arti figurative, con una serie di inserti - curati dalla redazione della Casa Editrice e, in modo particolare, dal dott. Francesco Landolfi —, recanti riproduzioni a colori (efuori testo) di pitture, sculture e opere architettoniche dell’arte europea, corredate da una serre di schede da cui si potranno cogliere le linee essenziali della storia dell’arte, in collegamento con la storia letteraria. L'editore
Prefazione
I
L'età napoleonica
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11
IL QUADRO DI RIFERIMENTO
La SA Strutture politiche, sociali - ed economiche ”
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X
Lo Stato napoleonico
L'ingresso degli eserciti francesi nel 1796 segna in Italia una svolta storica di capitale importanza: crollano i vecchi Stati assoluti, si formano organismi politici nuovi, prima le cosiddette “repubbliche giacobine” (la Cispadana, la Traspadana, la Partenopea), poi strutture statali più vaste, come la Repubblica Cisalpina, che diviene Repubblica Italiana ed infine Regno d’Italia; con l'affermarsi del regime napoleonico, altri organismi secolari, come il Regno di Napoli, passano sotto il dominio dei| congiunti di Napoleone; notevoli estensioni del territorio italiano sono annesse direttamente allo Stato francese (Piemonte, Toscana, Lazio). Queste strutture statali, ispirate al modello francese, hanno caratteri decisamente moderni nella pubblica amministrazione, nell’apparato giudiziario (si estende all’Italia il codice napoleonico), nell’esercito, nella scuola (Napoleone istituisce ginnasi e
licei statali per formare un corpo di funzionari fedeli allo Stato, eliminando il monopolio ecclesiastico sull’istruzione). In tal modo nell’Italia napoleonica sì forma un corpo di funzionari pubblici, di ufficiali, di insegnanti, che è un fenomeno sociale nuovo e rilevante, e contribuisce a dare una fisionomia più moderna ai ceti medi italiani, che, come era inevitabile in un paese estremamente arretrato, erano privi di coscienza sociale, di peso politico e culturale. Questi ceti medi formatisi in età napoleonica avranno poi un ruolo determinante, nei decenni successivi, nelle vicende della rivoluzione nazionale.
L’economia
Il regime napoleonico contribuì anche a svecchiare le strutture economiche dell’ancien régime, proseguendo nell'opera già avviata dalle riforme settecentesche: furono aboliti privilegi e istituti feudali che costituivano un impaccio all’economia, | fu ridato impulso alla libera circolazione della proprietà terriera con vendite di beni ecclesiastici, nonché con la privatizzazione di demani pubblici. Si rafforzò così la bor| ghesia terriera, che costituì la base sociale del nuovo regime. Anche commerci e industrie furono avvantaggiati dalla soppressione di barriere doganali interne per una larga parte dell’Italia settentrionale, dalla creazione di strade, canali, ecc., dal riordino del sistema fiscale e finanziario. Queste spinte modernizzatrici furono però fre-
nate dalla politica imperiale di Napoleone, che considerava gli Stati vassalli come | e
zone di sfruttamento a favore della Francia e subordinava la loro economia alle esi- | genze dello Stato dominante: i territori dell’impero dovevano fornire materie prime | alle industrie francesi e si riducevano a mercati riservati per i manufatti di quelle Î
industrie. Di conseguenza le potenzialità di espansione produttiva e di sviluppo sociale, \ che erano insite nell’abbattimento del sistema feudale, furono ben lontane dal potersi| attuare pienamente. Rimasero un'esigenza che solo l’unificazione italiana poteva soddisfare. Il quadro di riferimento
2. Le ideologie Gli anni 1796-1799 costituiscono il cosiddetto “triennio giacobino”: sono anni di grandi illusioni in un profondo rinnovamento politico, che si colorano di tinte spesso
I democratici
fortemente utopiche. All’interno dello schieramento dei “patrioti”, che appoggiano le innovazioni portate dalle armi della Francia rivoluzionaria, vanno però distinte due tendenze molto diverse: una decisamente democratica, che aspira ad un radicale cambiamento della struttura politica, sociale ed economica, in nome dei princìpi rivoluzionari dell’eguaglianza; l’altra, di orientamento moderato, mira a graduali e rea-
I moderati
Le masse popolari
La delusione storica
del giacobinismo
listiche riforme, che salvaguardino il sacro principio della proprietà privata, all’egemonia dei ceti superiori (proprietari terrieri, borghesia ricca delle attività imprenditoriali e delle professioni) e ad un contenimento delle spinte eversive dei ceti popolari. È questo l’indirizzo che poi prevarrà nel regime napoleonico. Ma nelle due tendenze si prefigura uno schieramento che percorrerà, in forme diverse, tutto il processo risorgimentale. Le idee “patriottiche”, democratiche e moderate, erano però proprie solo dei ceti colti. Le masse popolari, soprattutto quelle delle campagne, rimasero ad esse profondamente estranee, conservandosi fedeli alle tradizioni religiose e politiche del passato. Ne è chiaro esempio il crollo della Repubblica Partenopea nel 1799, a cui diedero il loro apporto decisivo le masse contadine, guidate dal cardinale Ruffo di Calabria e spinte dalla predicazione della Chiesa contro i “giacobini”, presentati come anticristi e attentatori dei valori più sacri. Anche questa frattura fra due Italie, quella dei ceti colti, patriottici e progressisti, e quella proletaria e contadina, estranea ed ostile alle idee innovatrici e al processo nazionale, sarà poi un dato costante della successiva formazione dello Stato unitario. Ma il regime napoleonico, se da un lato trovò consensi in numerosi strati sociali, si alienò poi i sentimenti di molti rappresentanti dei ceti superiori, specie intellettuali. La componente politicamente più avanzata, quella “giacobina”, vide nell’instaurarsi della dittatura napoleonica e nel dominio imperiale francese sull’Italia un tradimento delle istanze di libertà e di democrazia sorte nel momento del primo fervore rivoluzionario. Perciò al “triennio giacobino” subentrò un diffuso senso di delusione e di frustrazione: uno stato d’animo che ebbe importanti riflessi culturali (come vedremo fra poco, esaminando l’esperienza foscoliana).
8. Le istituzioni culturali: pubblicistica, teatro, scuola, editoria Il triennio giacobino
Il giornalismo
Il teatro
L’età napoleonica
Il triennio giacobino vede il sorgere di nuovi istituti culturali, o per lo meno l’estendersi e lo svilupparsi di istituti preesistenti, in modo tale che la loro fisionomia e la loro funzione mutarono profondamente. La necessità di coinvolgere il maggior numero di cittadini nel processo di rinnovamento democratico, di diffondere fra tutti l’adesione alle nuove idee, dà un impulso straordinario alla pubblicistica. L'attività giornalistica aveva già avuto rilievo nel secondo Settecento, attraverso gazzette e fogli letterari e culturali (si ricordino «Il caffè» milanese o «L’osservatore veneto» di Gasparo Gozzi); ma ora i giornali si moltiplicano, sia pur nel breve arco di tempo in cui durano le repubbliche giacobine, ed assumono una forte impronta politica. Ai giornali si affiancano opuscoli, libelli polemici, proclami, manifesti, in cui si dibattono problemi d’attualità, si lanciano appelli al popolo, in un linguaggio infiammato, fortemente influenzato dal frasario rivoluzionario francese. Ma questa azione di propaganda viene svolta anche attraverso il teatro, uno strumento capace di larga diffusione e di forte suggestione sui più diversi strati sociali. Si istituiscono teatri “nazionali” o “patriottici”, mettendo in scena quanto del repertorio del passato può essere
15 utile a sostenere le idee libertarie (come le tragedie antitiranniche di Alfieri), ma anche testi nuovi. Ad esempio Francesco Saverio Salfi (1759-1882), uno dei più Importanti intellettuali giacobini, scrive pantomime (Il general Colli in Roma) e drammi
Il regime napoleonico
patriottici” (La Virginia bresciana, 1797).
Il regime napoleonico, instauratosi dopo il colpo di Stato del 18 brumaio 1799 ela vittoria di Marengo, continua a dare impulso a queste forme di comunicazione
piegandole però a divenire strumenti di creazione del consenso al dominio personale
Il teatro
La scuola
L’editoria
del dittatore. Da espressione di entusiastico fervore democratico esse tendono perciò a diventare forme di propaganda di regime. Anche al teatro viene affidato un ruolo Importante nel favorire il consenso. Ciò significa però la soppressione di ogni libertà di dissenso: nel 1811 le rappresentazioni dell’Aiace del Foscolo, in cui si erano ravvisate allusioni critiche a Napoleone, vengono interrotte d’autorità, e Foscolo viene sollevato dall’incarico di revisore degli spettacoli. Un ruolo di propaganda svolgono anche le feste, le cerimonie pubbliche, le parate militari, organizzate con grande fasto scenografico e spettacolare, al fine di affascinare il grande pubblico. Si è già accennato al ruolo essenziale affidato da Napoleone alla scuola di Stato, ispirata a concezioni laiche, nella formazione del ceto dirigente, dei burocrati e degli ufficiali. Ma anche l'editoria riceve impulso: si pensi alla Società tipografica de’ classici italiani appoggiata dal governo napoleonico col compito di diffondere le edizioni dei classici. In questa età non esiste ancora, però, un vero mercato letterario
in senso moderno, in cui la pubblicazione dei libri sia un'impresa economica su larga scala e l’intellettuale possa vivere del provento delle sue opere. Il libro resta un progori d'élite, per pochi. Per avere un mercato librario occorrerà attendere alcuni
ecenni.
4. Gli intellettuali Un nuovo ruolo intellettuale
nel triennio giacobino
Il regime napoleonico: l’intellettuale
cortigiano
Foscolo: il rifiuto del ruolo cortigiano
|
Nel triennio giacobino si delineò un ruolo sociale nuovo per l’intellettuale, che andava oltre quello del phrilosophe, diffusore dei “lumi” e consigliere dei prìncipi illuminati, quale si era affermato prima della Rivoluzione: l’intellettuale era ora colui che elaborava e diffondeva le ideologie della trasformazione democratica, che aveva il compito di creare il consenso di massa intorno a tali idee. Era un ruolo attivo, immediato: l’intellettuale doveva immergersi nel cuore stesso del processo politico. Per- | ciò fu questo un periodo non solo di grandi illusioni e di grandi speranze, ma anche di intensa partecipazione attiva alla vita politica, e fu vissuto dagli intellettuali con | entusiasmo, quasi in una sorta di ebbrezza, come se l’intellettuale fosse l’artefice primario del processo di rigenerazione del mondo. napoleoSi è detto come questo entusiasmo fu spento dall’assestarsi del regime una fundi lità potenzia le rsi nico. Durante tale periodo non ebbero modo di sviluppa rivoluzio processo nel germe in erano che zione veramente nuova dell’intellettuale fasti dei ore celebrat no, cortigia poeta del ruolo vecchio il nario. Riprese anzi vigore poté passare senza } del potere: ruolo che fu incarnato esemplarmente dal Monti, che tazione delle all’esal VI Pio scosse dall’esaltazione degli splendori del regno di papa l’intelletOppure gio. linguag stesso lo glorie napoleoniche, nelle stesse forme e con nella ne, trazio mminis nell’a nario/ funzio fedele tuale dovette adattarsi al ruolo di nel so consen il erno di mediare scuola, nel giornalismo ufficiale, con il compito subalt
la breve esperienza giacoconfronti dello Stato. Chi aveva vissuto più intensamente questo senso la figura di in are i compiti. E esempl a questi bina non seppe adattars materiale nella buroazione sistem una di Foscolo. Egli fu inquietamente alla ricerca itario, ma non Sl idenprofessore univers crazia, nel giornalismo, nell’esercito, come /(né tanto meno in quella di cantore regime di nario tificò mai nella figura del funzio del « liber'uomo » pronto a mettersi in dei suoi fasti): ebbe sempre l'atteggiamento piegarsi a servire (atteggiamento che disparte e a vivere poveramente pur di non Il quadro di riferimento
14 gli fu ispirato dai suoi due ideali maestri, Parini e Alfieri). Nell’impossibilità di avere un ruolo reale in un contesto che non aveva posto per lui, Foscolo si autodelegò quello del “vate”: si rivolse cioè ai posteri, alle generazioni future, con un messaggio di libertà e di riscatto nazionale, ispirato al ricupero della grande tradizione del passato.
5. Generi e forme letterarie
Il classicismo formale
I generi Arici
La condizione di “rivoluzione bloccata”, propria dell’età napoleonica, si riflette anche in campo letterario. Pur essendo un'età di trasformazioni rapide e profonde, di intensi fermenti culturali, in cui si mescolano idee nuove, spesso in conflitto tra ‘loro, non si assiste ad un radicale rinnovamento dei generi, delle forme, dei linguaggi espressivi. La fisionomia generale del periodo è data da un perdurante classicismo formale, che prosegue una linea ormai secolare della letteratura italiana. Persino i fermenti più vivi di quest’età si collocano dentro queste coordinate; anche là dove nuova e intensamente problematica è la visione del mondo, non si assiste alla sperimentazione di forme nuove: i codici culturali e stilistici a cui si fa riferimento sono quelli del classicismo (sia pur rivissuti con profonda originalità, come verificheremo in Foscolo). Il sistema dei generi letterari non presenta sostanziali modificazioni rispetto al Settecento. Si possono elencare: poesia lirica (odi, sonetti, canzonette: ne vedremo esempi in Monti e in Foscolo), poemi didascalici (si può citare Cesare Arici, 1782-1836, autore di poemetti sulla Coltivazione dei campi, 1805, sul Corallo, 1810, sulla Pasto-
Botta
rizia, 1814, in versi di impeccabile nitore), poemetti epici o descrittivi (ne offre esempi soprattutto la produzione montiana, di argomento mitologico o moderno), sermoni oraziani (ne scrisse anche Manzoni giovane), epistole in versi (se si guarda all’aspetto formale, rientrano in questo genere i Sepoleri di Foscolo, così come la risposta di Ippolito Pindemonte), tragedie (ne scrissero sia Monti sia Foscolo), traduzioni di classici (famose sono quelle dell’Iliade, ad opera di Monti, e dell’Odissea, ad opera di Pindemonte). Nel campo della prosa, il genere classico per eccellenza è la storiografia. Si può ricordare il piemontese Carlo Botta (1766-1837), autore di una Storia dell’indipendenza degli Stati Uniti d'America (1809), di una Storia d’Italia dal 1789 al 1814, di una Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini fino al 1789. Botta scrive in uno stile sostenuto, di classica dignità, che si rifà ai canoni del Purismo (cfr. paragrafo seguente), riproducendo i modelli aurei della prosa trecentesca.
L’Ortis e il romanzo
L’età napoleonica
Una vistosa eccezione sembra essere costituita dall’Ortis del Foscolo (1802), che è un romanzo epistolare (cfr. M2), e come tale non si rifà alla tradizione classica, ma a modelli europei di forte modernità, la Nuova Eloisa di Rousseau (1761), il Werther di Goethe (1774). In effetti Foscolo aveva bisogno di una forma nuova, non codificata, per esprimere tutto il fermento della sua esperienza personale e di un momento storico di grande conflittualità. E tuttavia anche il romanzo foscoliano non si libera dal peso necessitante della tradizione. L’Ortis è lontano dai modi modernamente narrativi del Werther: è pervaso da una continua tensione oratoria ed è scritto in una prosa aulica che rientra pienamente nei canoni del classicismo; non è tanto un romanzo, quanto una lunga orazione, o una lunga lirica. Per cui l’Ortis, pur essendo un’opera di capitale importanza, che rappresenta in profondità un momento di crisi politica e spirituale, pur impostando un problema attualissimo, il conflitto dell’intellettuale con la società, pur accogliendo le tematiche più innovative del Preromanticismo, non inaugura il genere del romanzo moderno in Italia: in esso si trovano le potenzialità, non le strutture formali in atto. Ad inaugurarlo sarà non a caso un romantico, Manzoni, con I promessi sposti.
15 6. La lingua letteraria. Il Purismo Come ilsistema dei generi, anche la lingua letteraria continua la tradizione. Poeti
Il linguaggio letterario
e prosatori si rifanno sempre ai modelli illustri e scrivono in una lingua aulica, lontanissima da ogni possibile uso parlato (che peraltro, in questa Italia pre-unitaria, è limitatissimo, poiché la lingua effettivamente parlata è il dialetto). Il lessico della poesia costituisce veramente una lingua a sé: alma per anima, crini per capelli, lumi per occhi, brando per spada, ecc.; ma anche la sintassi è ampia e complessa, fitta di inversioni, essendo modellata sul periodare latino: basti un solo esempio, tratto
Il Purismo
Puoti
Cesari Giordani
Monti e il problema della lingua
dall ode Al signor di Montgolfier del Monti (cfr. T9): «De’ corpi entro le viscere / tu I acre sguardo avventi», dove si possono notare due costruzioni latine come l’anticipazione del complemento di specificazione («De’ corpi») ed il verbo collocato al fondo della frase. Inoltre il linguaggio è costantemente impreziosito da perifrasi dotte e allusioni mitologiche: sempre dall’ode citata, «vate odrisio» (Orfeo), «della Senna... novello Tifi invitto» (Montgolfier), «di Francia il Dedalo» (Robert), «l’igneo terribil aere / che dentro il suol profondo / pasce i tremuoti, e i cardini / fa vacillar del mondo» (l'idrogeno). Questo linguaggio conferma quanto si osservava riguardo al pubblico e alla circolazione delle opere letterarie: la letteratura è un fatto d’élite, rivolta a pochi, ad una piccola cerchia di persone colte, che condivide con lo scrittore la cultura, i gusti, il linguaggio. Un pubblico di lettori comuni, non letterati, è ancora del tutto embrionale. Questo contesto andrà tenuto presente per comprendere nei suoi termini precisi la battaglia romantica, che inizierà nel 1816. Il tradizionalismo classicistico è ben esemplificato dalla teoria linguistica del Purismo, che si afferma in questa età. La “questione della lingua” (intesa come lingua letteraria) era un dibattito ormai secolare, che risaliva al primo Cinquecento. Il Purismo, come reazione alla libertà linguistica per cui si erano battuti gli illuministi del «Caffè», si rifaceva appunto al Bembo e propugnava l’assoluta “purezza” della lingua, che doveva essere depurata da ogni forestierismo e da ogni neologismo. Il modello doveva essere cercato nella lingua del Trecento, il cui lessico e i cui modi espressivi erano ritenuti perfettamente in grado di rispondere alle esigenze della cultura moderna. I puristi di più rigida osservanza furono il napoletano Basilio Puoti (1782-1847), alla cui scuola studiò Francesco De Sanctis, ed il veronese padre Antonio Cesari (1760-1828), che curò la ristampa del vocabolario della Crusca. Posizioni più moderne e aperte assunse invece il piacentino Pietro Giordani (1774-1848). Il suo purismo non fu rigido come quello del Cesari: il suo ideale fu piuttosto quello di un dignitoso e sobrio classicismo formale, che si rifacesse alla limpidezza dello stile greco. A questo ideale si uniformò nella sua attività di prosatore d’arte, autore di orazioni, panegirici, scritti critici. Il Giordani era di orientamento laico, progressista e patriottico, ed affermò l'esigenza di una letteratura ispirata ad elevati sentimenti morali e all’idea della rinascita nazionale. In nome di questi princìpi patriottici si oppose poi al Romanticismo, che apriva la cultura italiana alle influenze straniere. Per le sue idee subì anche persecuzioni negli anni della Restaurazione. Fu legato da una fervida amicizia intellettuale con Leopardi, di cui seppe intuire subito la genialità; e Leopardi ù guardò a lui come ad una ideale figura paterna. dall'interno sempre pur Monti, anche Alla rigidezza pedantesca del Purismo reagì del gusto classicistico, nella Proposta di alcune correzioni e aggrunte al vocabolario della Crusca (1817-1826), in cui sosteneva l'esigenza di una lingua letteraria nazionale che non si fermasse al Trecento, ma mettesse a frutto gli apporti di tutti i grandi ossequio scrittori, anche moderni come Parini e Alfieri, in nome di un equilibrio fra
alla tradizione e libertà espressiva.
ì
Il quadro di riferimento
16 (7. Neoclassicismo e Preromanticismo Anche se il gusto e le forme espressive continuano una tradizione secolare, nel
Il Neoclassicismo arcadico
classicismo dominante in Italia in quest’età sono pure ravvisabili elementi nuovi: per questo si è soliti designarlo come Neo-classicismo. Già negli ultimi decenni del Settecento le scoperte archeologiche di Pompei e di Ercolano (statue, affreschi, mosaici, pitture vascolari, monili, suppellettili lavorate) avevano sollecitato la curiosità e l'ammirazione per le forme dell’arte classica. Un.
classicismo archeologico si era diffuso all’interno della letteratura tardo-arcadica, nella predilezione per argomenti mitologici, ma anche nel gusto per raffigurazioni linearmente nitide e armoniose, dal forte rilievo visivo, come nei cammei; ad esse si aggiungeva la morbidezza erotica aggraziata e manierata propria del gusto alessandrino degli affreschi e dei mosaici antichi, che trovava rispondenza nella galanteria arcadica.
Le teorie di Winckelmann
Il classicismo
rivoluzionario
Il classicismo imperiale
Il Neoclassicismo foscoliano
Alle scoperte archeologiche si aggiunseroo gli studi di arte classica, che suscitarono un vagheggiamento entusiastico della civiltàe della bellezza antiche. D’importanza fondamentale in tal senso furono le opere dell’archeologo tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), attivo anche in Italia. Egli sosteneva che l’arte greca aveva realizzato l’ideale del bello assoluto ed eterno, al di là di tutte le specificazioni contingenti. Essenza di questa bellezza espressa dall’arte classica era una «nobile # semplicità» ed una «calma grandezza» che nasceva dal dominio delle passioni e dall’armonia interiore. Le teorie di Winckelmann fornirono all’estetica neoclassica i principi fondamentali: l’arte e la letteratura devono mirare al bello ideale, cioè trasfigurare la realtà contingente in forme perfette, in cui non vi sia nulla di eccessivo, . scomposto o grezzo, e in cui il calore delle passioni e dei sentimenti si sublimi in un’ar- . monia pacata di linee, di forme, di suoni. A q questo modo di
rava romanticamente».
L’età napoleonica
guardare all’antico si
aggiunse
poi il classicismo rivoluzionario.
I protagonisti della Rivoluzione francese vedevano in Atene, Sparta, Roma un modello di vita repubblicana libera, virtuosa, sobria e forte, che volevano far rivivere nel presente; per cui s’identificavano negli eroi antichi e, assumendoli attraverso i ritratti ‘ ideali che ne aveva lasciato lo storico greco Plutarco, si atteggiavano e parlavano come essi. Una testimonianza eloquente di questo classicismo giacobino sono i quadri del pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825), Il giuramento degli Orazi (cfr. Arte 7, fig. 3), Il ratto delle Sabine, in cui i personaggi sono atteggiati in pose solenni e maestose e in cui, al tempo stesso, la figura umana sembra assumere la durezza levigata e tornita della statua. È un classicismo austero ed eroico che, pur nella comune matrice di una riesumazione archeologica dell’antico, è lontanissimo dalla grazia leziosa del classicismo arcadico. Questo classicismo rivoluzionario nell’età napoleonica si trasforma in scenografia grandiosa, di parata. Non si celebrano più le virtù repubblicane e libertarie, ma si tende ad assimilare il regime napoleonico alle forme imperiali romane. Questo gusto — si manifestò in egual modo nella pittura e nella scultura ufficiali, come nella letteratura intesa a celebrarei fasti del regime (esemplare la poesia del Monti “napoleonico”), e persino nelle arti decorative e nella moda (lo stile “Impero”). Ma al di là del Neoclassicismo scenografico e celebrativo, vi è nell’età napoleonica un Neoclassicismo dalle motivazioni ben più profonde e nuove, che raccoglie quanto vi è di autentico nella lezione winckelmanniana. È il caso di Foscolo, in particolare nelle Grazie: qui l’anticoè visto come un mòndo di armonia, bellezza, luminosa vitalità e serenità, contrapposto ad un presente inerte, oscuro o peggio imbarbarito; un Eden vagheg: giato nostalgicamente, in cui cercare rifugio dai traumi della storia, un’alternativa al «reo tempo» delle delusioni politiche, del dispotismo e della ferocia disumana della guerra. Alla base di questo vagheggiamento dell’antico vi è dunque una disposizione d’animo schiettamente romantica. Come osserva giustamente il Binni, «la grande poésia delle Grazie, mentre realizzavai principi della poetica neoclassica, li supe- .
17
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E tuttavia per Foscolo l’antico non è un paradiso interamente e definit ivamente perduto, che possa essere oggetto solo di una nostalgia sterile e disperat A. Per lui la grande civiltà italiana ha raccolto l’eredità di quella greca e ne ha continu ato lo spirito e le forme; ed in lui, italiano e greco insieme, «pien del nativo aer sacro », resiste ancora la fiducia di poter far rivivere quelle forme perfette nell’«arcana armoniosa melodia pittrice» dei suoi versi, in modo che la sua poesia agisca con funzione catartica sulla feroce barbarie presente, ristabilendo modi di vita più nobili, sereni e umani. Data questa fiducia, la “nostalgia” di Foscolo è ancora in parte al di qua di quella romantica: non è una fuga in una sola direzione, lontano dal presente, ma un movimento complesso di fuga e ritorno (ma vedremo meglio ciò nella lettura delle Grazie). Negli ultimi decenni del Settecento e nei primi dell’Ottocento si riscontrano nella cultura italiana anche tendenze che esteriormente appaiono opposte a quelle neoclassiche. Se il gusto neoclassico, nella letteratura come nelle arti, è caratterizzato
dalla compostezza e dalla calma, dalla serenità e dal dominio del mondo passionale,
dalla contemplazione di un bello oggettivo, ideale, dall’armonia delle linee e dalla luminosità levigata e nitida delle forme, queste tendenze si manifestano al contrario come esasperazione passionale e soggettiva, concentrazione gelosa sull’iò, amore per è: Il primitivo, il barbarico e l’esotico, per atmosfere malinconiche e lugubri, cupe e tenebrose, dominate dall’idea e dalla presenza ossessiva della morte, e,.infine, come pre-
Modelli stranieri: il romanzo “sentimentale”
dilezione per una natura grandiosa e tempestosa, selvaggia e desolata. Queste tendenze penetrano in Italia già a fine Settecento, essenzialmente per suggestione di opere straniere che hanno larga diffusione in Europa, e che vengono tempestivamente tradotte anche in italiano. Il gusto del sentimentale, quello che i Fran-
cesi chiamano sensiblerie, cioè attenzione alla vita del cuore, predilezione per la
Rousseau
Richardson
N Lo Sturm und Drang
/ Il Werther di Goethe ‘\ e I masnadieri
di Schiller
commozione, per le situazioni affettuose e tenere, per il patetico e per le lacrime, è legato soprattutto alla diffusione delle opere di Jean-Jacques Rousseau (cfr. A2), in particolare del romanzo epistolare Julie, 0 la nuova Eloisa (1761). Ma molta influenza ebbero anche i romanzi epistolari di Samuel Richardson (1689-1761), Pamela (1740-1742) e Clarissa (1748). A questi si aggiunse il vasto successo del romanzo giovanile di Goethe, anch’esso in forma epistolare, I dolori del giovane Werther (1774), noto in Italia già negli anni ’80. Il romanzo goethiano scaturisce però da un altro movimento, che costituisce un preannuncio del futuro Romanticismo, lo Sturm und Drang. Fu un movimento letterario attivo in Germania tra il 1770 e il 1785. Si trattava di un cenacolo di giovani intellettuali inquieti e ribelli, quasi tutti amici del giovane Goethe. Questi è senza dubbio la personalità più significativa del gruppo, anche se in seguito intraprese vie del tutto diverse (cfr. A8). Vicino al gruppo fu anche il giovane Schiller (cfr. A4). Le opere più significative scaturite da quel clima culturale furono appunto il Werther e la prima redazione del Faust di Goethe, I masnadieri (1783) di Schiller. Altri rappresentanti furono Friedrich Maximilian Klinger (1752-1881), autore del dramma Sturm und Drang (Tempesta e impeto, 1776), da cui trasse la sua denominazione il movimento, Michael R. Lenz (1751-1792), autore del drammaI soldati (1776), Heinrich Wagner (1747-1779), autore del dramma L’infanticida (1776), Friedrich Miiller (1749-1825), autore del dramma Situazione della vita del dottor Faust. Come si vede, il genere prediletto dagli Stiirmer era quello drammatico. Il movimento era influenzato dal filosofo Herder che, in polemica col razionalismo e con la letteratura del classicismo francese che ad esso s’ispirava, ritenuta arida e artificiosa, esaltava
il primigenio spirito tedesco, il «genio» del popolo e la poesia popolare. In questa direzione agiva anche l’influsso di Rousseau, che esaltava la natura contro 1 artificiosità della civiltà. Motivo dominante dello Sturm und Drang era la passionalità primitiva e selvaggia, un’ansia di libertà assoluta che infrangesse ogni limite segnato dalle leggi o dalle convenzioni sociali; di qui derivava anche ilculto del-“genio”, delle
Sul piano letterario ne scatugrandi individualità, insofferenti di ogni costrizione.
riva il rifiuto di ogni classicismo, l’insofferenza di ogni regola, ritenuta mortificante, l’idea dell’arte come libera espressione senza freni della genialità individuale. Per questo, in contrapposizione con il classicismo francese che aveva a lungo dominato Il quadro di riferimento
18 il gusto europeo, dagli Stirmer veniva idolatrato Shakespeare, visto come una sorta. di forza della natura che crea istintivamente (a lui guardano Goethe con la tragedia Goetz von Berlichingen e Schiller con I masnadrieri). / L’ossianismo: ©» Macpherson
Fama europea ebbero anche i CantidiOssian:-sitratta.di poemetti in prosa lirica, pubblicati a partire dal 1761 dallo scozzese James Macpherson (1736-1796), come traduzioni dei poemi dell’antico bardo Ossian, del III secolo d.C.; in realtà si trattava di un abile falso che rielaborava motivi di antichi canti popolari, inserendoli in una struttura epica opera del Macpherson stesso. Vi si mescolano l’esaltazione della virtù guerriera e cavalleresca, secondo il mito roussoviano della bontà originaria dell’uomo primitivo, le storie degli amori appassionati e del destino infelice di alcune coppie di amanti, descrizioni di paesaggi cupi, desolati, di atmosfere tempestose, di visioni notturne e spettrali. L’opera incontrò un entusiastico successo, e fu subito tradotta in Italia da Melchiorre Cesarotti nel 17683 (in edizione accresciuta 1771). Ossian fu equiparato ad Omero, un Omero nordico, cupo e tenebroso.
La poesia “cimiteriale”: Young e Gray
Sempre dall'Inghilterra si diffuse la moda della poesia “cimiteriale”. Gli esponenti più noti furono Edward Young (1683-1775), autore di Il lamento, o Pensieri
Pindemonte
notturni (1742-45), una serie di riflessioni in versi sulla morte, e Thomas Gray (1716-1771), autore di una famosa Elegia scritta in un cimitero campestre (1750), in cui si celebra il valore delle esistenze oscure degli umili sepolti in un cimitero di campagna. Anche questo tipo di poesia ebbe diffusione in Italia: ne risentì Ippolito Pindemonte (1753-1828), che aveva avviato la composizione di un poemetto sui Cimiteri, in ottave, quando la lettura dei Sepolcri di Foscolo lo dissuase dal continuare;
Bertola
ed essendo il carme foscoliano diretto in forma di epistola in versi proprio a lui, riprese l’argomento come risposta ai versi dell'amico. Pindemonte fu anche autore di Poesie campestri (1788) e Prose campestri (1795), dove ricorrono momenti di dolce fantasticare dinanzi a paesaggi idillici, e di una traduzione dell’Odissea, tipica espressione di gusto neoclassico. Ai Pensieri notturni di Young si ispirano le Notti clementine (1775) di Aurelio Bertola (1753-1798), scritte per la morte di papa Clemente XIV. Il Bertola, conoscitore della letteraura tedesca, fu mediatore tra cultura nordica e cultura italiana con l’Idea della poesia alemanna (1779), e fu autore di un Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni, dove, tra residui di manierata grazia arcadica, affiora
Preromanticismo e Romanticismo
una nuova sensibilità per la natura, intonata al gusto preromantico. Alla poesia “cimiteriale” si collegano, sia pur nei modi problematici che vedremo, i Sepoleri di Foscolo. — Per tutte queste manifestazioni culturali che abbiamo elencato si suole parlare di Preromanticismo, poiché i loro aspetti salienti si ritroveranno poi, nei primi decenni dell'Ottocento, nella letteratura romantica. Il concetto e il termine sono stati contestati, in quanto impoverirebbero la nozione di Romanticismo, che possiede ben altra ricchezza e complessità; di conseguenza tali manifestazioni sono state viste come fenomeni ancora del tutto interni alla cultura dell'Illuminismo (Petronio). In realtà le tendenze esaminate non tollerano di essere ridotte entro quei confini: esse sono indubbiamente giài sintomi di una visione del mondo e di una sensibilità nuove; germi ancora limitati e provvisori, ma che indicano una direzione di sviluppo e sono destinati a fruttificare in seguito. Esse sono infatti, a fine Settecento, il riflesso delle inquie-
tudini di un’età che avverte come sia ormai prossimo a crollare un ordine secolare, non solo nelle sue strutture politiche, sociali, economiche, ma anche in quelle cultu-
rali. Nella seconda metà del Settecento siamo sulla soglia di due grandi rivoluzioni, che sconvolgeranno dalle radici tutto l'assetto dell’Europa: l’una politica, quella francese, l’altra economica, quella industriale, che dall'Inghilterra si diffonderà per tutta l'Europa nel corso dell’Ottocento. Il Romanticismo sarà appunto il frutto culturale maturo di questi sconvolgimenti rivoluzionari. La nozione di Preromanticismo ha dunque una sua validità storiografica, purché si dia rilievo caratterizzante al prefisso, pre: le tendenze esaminate sono, cioè, indizi, sintomi, che pre-annunciano ciò che matu-
rerà in seguito.
Neoclassicismo e Preromanticismo
L’età napoleonica
Neoclassicismo
e Preromanticismo,
nelle caratteristiche
che li individuano,
appaiono tendenze culturali fra loro antitetiche e a prima vista inconciliabili. Eppure | esse sì trovano compresenti negli stessi anni, entro la personalità di uno stesso scrit-
19 tore, addirittura, a volte, all’interno della stessa opera. Lo si è già verificato, per la generazione di fine Settecento, in Alfieri; lo verificheremo ancora in Monti e soprat. tutto in Foscolo. Si pensi solo al fatto che Foscolo è autore di un romanzo “werthe-
riano”, l’Ortis, caratterizzato da un’esasperata veemenza passionale, dalla concenÈ se trazione sull’io, dalla presenza ossessiva della morte, ma è anche l’autore del Radici comuni di Neoclassicismo e Preromanticismo
capolavoro supremo del Neoclassicismo italiano, Le Grazie. In realtà, Neoclassicismo e Preromanticismo non sono che fenomeni diversi che scaturiscono da una stessa radice, manifestazioni complementari di una stessa crisi di fondo. Una crisi che si presenta in due fasi storiche: in una prima fase, durante gli anni "70-'80 del Settecento, la crisi dell’ancien régime, nonché del riformismo illuministico che era stato l’estremo tentativo di salvarlo, introducendo il nuovo per conservare le strutture dello Stato e della società dell’assolutismo; poi, negli anni napoleonici, quella delle illusioni rivoluzionarie, delle speranze in una rigenerazione totale del mondo. In entrambi questi momenti si riscontrano sul piano culturale contraccolpi omologhi, per cui scrittori dell’età napoleonica seguono percorsi spirituali già seguiti decenni prima da scrittori che avevano attraversato la crisi dell’Illuminismo: delusione, distacco dall’attivo impegno civile, rifiuto della storia, fuga in un altrove diverso dal presente e più autentico (Cerruti). E in entrambi questi momenti si affacciano insieme tendenze classicheggianti e tendenze preromantiche. Entrambe vanno allora viste come la ricerca di un’alternativa all’esistente che delude: per il Neoclassicismo (nelle sue tendenze più autentiche, non in quelle semplicemente retoriche, accademiche e decorative) l'alternativa è l’iperuranio ideale della bellezza e dell’armonia, lontano dagli orrori e dagli scacchi della storia; per il Preromanticismo, sono le profondità dell’io, la natura sentita in termini di comunione con la vita del soggetto, il primitivo come sede di autenticità vitale. Non conta tanto, dunque, la diversa direzione della fuga, quanto il bisogno che ne sta alla base, comune alle due tendenze.
Bibliografia In generale sull’età napoleonica, il Neoclassicismo e il Preromanticismo cfr.:
1963; W. BINNI, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, La Nuova Italia, Firenze e illumiClassicismo TIMPANARO, S. 1964; Palermo Palumbo, mo, neoclassicis Il di), cura (a B. MAIER Giacobini, Silva, nismo nell'Ottocento italiano, Nistri Lischi, Pisa 1965; M. CERRUTI, Neoclassici e 1974; N. MINEO, Catania , Risorgimento e rivoluzione tra politica e Milano 1969; N. Mineo, Letterati da O. Muscetta, diretta italiana, ra Letteratu in ione, Restauraz e ne rivoluzio tra letterati Ideologi e Risorgimento, e, rivoluzion smo, Giacobini , vol. VII, tomo I, Laterza, Roma-Bari 1977; I. TOGNARINI 1978; L. Palermo Palumbo, ca, napoleoni l’età e inismo dell’Ilum L'età Firenze 1977; E. GUAGNINI, o, dell'ottim brama a L’inquiet CANFORA, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1981; M. CERRUTI, itaa letteratur della critico o Dizionari in cismo», Flacco vio, Palermo 1983; F. ULIVI, voce « Neoclassi liana, diretto da V. BRANCA, Utet, Torino 1986, vol. II.
Il quadro di riferimento
M1
Il testo narrativo
Premessa
È necessario premettere che rinunciamo în partenza ad una trattazione minimamente esauriente dei molteplici problemi che la disciplina offre: ci limitiamo ad illustrare in modo sommario quei concetti che ci sono stati utili nell’analisi dei testi. Inoltre l’esiguità dello spazio a disposizione e le esigenze didattiche ci hanno costretto a trattare alcuni aspetti in modo semplificato e approssimativo. Per chi
voglia ampliare e approfondire rimandiamo alle indicazioni bibliografiche fornite al termine.
Letteratura narrativa e letteratura drammatica
Storia e discorso
Una narrazione è individuata da una storta (una sequenza di eventi, legati da rapporti temporali e logici) e da un narratore che la racconti. La presenza di questa voce che racconta è ciò che distingue il genere narrativo da quello drammatico: anche le opere drammatiche presentano una storia (Edipo dopo aver scoperto di aver ucciso il padre e di avere sposato la madre, attirando così la pestilenza sulla sua città, decide di accecarsi; Oreste vendica il padre Agamennone uccidendo la madre Clitennestra e l'amante di lei Egisto), ma non vi è in esse la mediazione di una voce che racconti i fatti: questi si svolgono direttamente in presenza dello spettatore (ritenendo tale anche il lettore, che si rappresenta mentalmente l’azione del dramma). In ogni narrazione si può distinguere quindi la storia raccontata e l’atto del raccontare, il discorso. Detto in altri termini, la storia è il che cosa viene raccontato, il discorso è il come, il mezzo attraverso cui viene comunicato il contenuto del racconto. La storia è un’astrazione, non esiste per sé; esiste solo in quanto un discorso la racconti. Leggendo un’opera narrativa noi abbiamo di fronte, concretamente, un discorso. Solo attraverso di esso noi possiamo attingere alla storia. Isolare la storia allo stato puro, liberandola dalle forme del discorso, è impossibile, come è impossibile, poniamo, isolare la materia in sé dagli oggetti materiali, un tavolo, un libro, una penna. Una storia può essere raccontata da discorsi diversi, addirittura con linguaggi diversi (la narrazione verbale, per immagini cinematografiche, con i fumetti): solo mediante un processo di astrazione si può salire da questi discorsi . concreti alla storia comune che essi raccontano.
1. La storia 1.1. Sintagma e sistema nel testo narrativo AI livello della storia raccontata da un testo è necessario operare una distin-
zione fondamentale. La storia consta di una serie di segmenti in successione lineare L’asse sintagmatico
L’asse paradigmatico
L’età napoleonica
che hanno tra loro rapporti di contiguità (vengono uno dopo l’altro). È questo l’asse sintagmatico del racconto (il termine proviene dal greco syn=insieme, tdss0 = ordino: è la stessa radice del termine sintassî). Ad esempio nei Promessi sposi 1) don Abbondio riceve le minacce dei bravi, 2) racconta il tutto a Perpetua, 3) rifiuta con pretesti di sposare Renzo, 4) Renzo gli strappa la verità, ecc. Ma esiste un altro modo di considerare la storia. Gli elementi costitutivi possono essere visti non solo nella loro successione, per contiguità, ma nei rapporti di similarità o di opposizione che li legano, anche a distanza. Ad esempio: Renzo entra a Milano durante la sommossa e corre gravi pericoli; quasi al termine dell’intreccio, entra a Milano devastata dalla peste e corre di nuovo gravi pericoli: idue momenti narrativi non sono legati da contiguità nella successione lineare, ma da similarità. Ancora: la prima volta Renzo raccoglie da terra i pani provenienti dal saccheggio del forno, compromettendosi così con il disordine; la seconda volta Renzo dona i pani da lui acquistati ad una povera donna segregata in casa coi figli: qui si ha un rapporto di opposizione. Questi rapporti di similarità e opposizione si compongono in un sistema, in cui ognuno degli elementi ha una determinata funzione rispetto agli
altri; si chiamano perciò rapporti di tipo sistematico o paradigmatico (dal greco .
21
Rapporti sistematici a livello di motivi e personaggi
parddeigma= modello). Si riproducono così nel testo narrati vo i due assi del linguaggio. Partiamo da un esempio, una frase qualunque: «Oggi è una bella giornata». Le varie parole (lessemi) che la compongono hanno rapport i di contiguità nella successione lineare, vengono cioè una dopo l’altra. Ma ogni parola, ad esempio « bella », ha rapporti di similarità od opposizione con altri termini che fanno parte del sistema generale della lingua, come «splendida» (similarità) o «brutta» (opposizione). Come sì vede, in questo caso i rapporti non sono in atto, come nella successione sintagmatica, ma solo virtuali. Nel testo narrativo, tali rapporti sistematici si possono dare per diversi tipi di unità, oltre ai segmenti narrativi. Ad esempio, a livello di motivi. Nei Promessi sposi fondamentale è il tema della casa, come ha mostrato Getto. Esso ricorre lungo tutta la vicenda, con richiami per similarità od opposizione tra le varie manifestazioni. La casa del sarto, dove Lucia è accolta dopo la sua liberazione, richiama per
similarità, con la sua intimità raccolta e affettuosa, la casa che Lucia ha dovuto abbandonare al paese; il castello dell’innominato, dove Lucia è prigioniera, è invece una casa negativa, che con la casa del paese ha rapporti di opposizione. Ma tali
rapporti sì possono dare anche tra personaggi. L’innominato si converte e da terribile fuorilegge diviene santo; anche Renzo ha una conversione, rinuncia alle sue. velleità ribelli e si abbandona al volere di Dio (cap. XVII): tra i due personaggi vi sono rapporti sistematici di similarità. Lucia è innocente e pura, Gertrude è colpevole e corrotta: qui si hanno rapporti sistematici di opposizione (riprenderemo il discorso in 1.4 a proposito dei sistemi dei personaggi). Da tutto quanto detto scaturiscono due modi di analizzare un testo narrativo al livello della storia, o secondo la successione sintagmatica delle unità che la compongono, o secondo i rapporti sistematici.
1.2. La successione sintagmatica: intreccio, fabula, modello narrativo All’interno della storia, intesa come successione sintagmatica, si possono distin-
L’intreccio
La fabula
Il modello narrativo
guere tre livelli, salendo a gradi sempre maggiori di astrazione, cioè di lontananza dal concreto configurarsi della storia nel discorso che il lettore ha sotto gli occhi: intreccio, fabula, modello narrativo (Segre). L'intreccio è la successione di eventi e di rapporti tra personaggi nell’ordine temporale e logico in cui essa si presenta nel testo concreto. È il livello più vicino al discorso. La successione può non essere lineare, cioè eventi posteriori possono essere anticipati, o viceversa. La fabula è la ricomposizione della successione temporale lineare (comporta perciò già un processo di maggiore astrazione rispetto al testo come si presenta). Ad esempio all’inizio del Piacere di D'Annunzio l'eroe, Andrea Sperelli, è in attesa d’incontrare nuovamente la donna da lui amata, Elena Muti, che lo aveva lasciato; segue, ‘ in flash-back, il racconto degli eventi anteriori, il primo incontro, le fasi del loro amore, il distacco; poi si torna al punto da cui la narrazione era partita e si prosegue con il nuovo incontro tra Andrea ed Elena. Questa è la successione dell’intreccio, che si può così schematizzare: B, A, C, D... Ricomponendo i fatti nella loro successione cronologica, si dovrebbe avere: il primo incontro di Andrea ed Elena, il loro amore, il distacco, il nuovo incontro (A, B, C, D...). Curiosamente D'Annunzio, nell’approntare un nuovo testo del romanzo per la traduzione francese, ripristinò l’ordine cronologico degli eventi: in questa redazione quindi fabula e intreccio coincidono. Più complesso è il concetto di modello narrativo. Dati due o più testi narrativi, nella loro storia si possono individuare azioni che si corrispondono, a prescindere da chi le compie, dalle sue caratteristiche individuali specifiche, dai suoi attributi. Questo modo di comparare i testi è stato introdotto dallo studioso russo di folklore Vladimir J. Propp per la fiaba di magia, in un testo ormai classico, Morfologia della
fiaba, del 1928 (trad. it. Einaudi, Torino 1966). Tra il centinaio di fiabe russe esa-
minate da Propp, i personaggi e i loro attributi appaiono diversi, un fanciullo, un guerriero, un animale, la figlia del re, ecc., ma le azioni compiute sono le stesse,
ed è possibile esprimerle in formule astratte, ad alto livello di formalizzazione: allon-
tanamento, imposizione di un divieto, infrazione del divieto, ecc. Propp chiama fun Le funzioni di Propp
zioni queste azioni, spogliate delle caratteristiche specifiche che esse hanno nei
Microsaggio
2%
Avalle e l’analisi dell’Ulisse dantesco
singoli testi. Nelle fiabe di magia si succedono nello stesso ordine sintagmatico. È questo il modello narrativo (il termine è stato proposto da Segre; Propp usa il termine composizione). È chiara la differenza tra intreccio e modello narratwo: nell’intreccio fatti e personaggi conservano le loro caratteristiche specifiche e individuali; nel modello narrativo tali caratteristiche scompaiono e restano solo le azioni al livello di massima astrazione. Esempio: Fiaba 1: Il re dà a un suo prode un’aquila. L’aquila lo porta in un altro regno. Fiaba 2: Il nonno dà a Sugenko un cavallo. Il cavallo lo porta in un altro regno. Fiaba 3: Lo stregone dà a Ivan una barchetta. La barchetta lo porta in un altro regno. Come si vede, nell’intreccio abbiamo personaggi diversi: il re, un prode e un’aquila, il nonno, Sugenko e un cavallo, ecc. A livello di modello narrativo questi particolari non contano; conta solo l’azione comune a tutti gli intrecci, l'allontanamento. La stessa operazione si può fare con testi narrativi di altra natura, anche letterari, individuando le funzioni che essi hanno in comune. Occorre però avere un corpus di testi, perché le funzioni si possono individuare solo attraverso la comparazione. Su un testo singolo l’operazione diverrebbe del tutto arbitraria. D'Arco Silvio Avalle ha compiuto un’operazione comparativa del genere per l’episodio dantesco di Ulisse. Paragonandolo ad altri testi medievali, molto diversi a prima vista, quali i romanzi del ciclo arturiano e vari romanzi su Alessandro Magno, in latino o in lingue romanze, ha individuato il ricorrere di quattro funzioni comuni: I. L’eroe decide di partire (allontanamento). II. L’eroe comunica la sua decisione ai compagni con un discorso (allocuzione). III. L’eroe coi compagni attraversa la frontiera di un paese sconosciuto (infrazione). IV. L’eroe e i suoi compagni muoiono in seguito all'impresa (punizione). La successione di queste funzioni costituisce il modello narrativo. Se un testo è diviso al suo interno in tante sequenze narrative, è possibile che all’interno di ciascuna di esse ritorni lo stesso modello. Ad esempio in Pinocchio ogni avventura del protagonista ripropone questa successione di funzioni, come ha osservato Mario Ricciardi: allontanamento-colpa-punizione-espiazione-ritornoricompensa. 1.3. Nuclei e satelliti Tornando al livello dell'intreccio, cioè ad un grado minore di astrazione, che
I nuclei in Rosso Malpelo
consente di affrontare il testo nella sua fisionomia specifica e individuale, si può ancora proporre un'operazione: distinguere imomenti essenziali allo sviluppo della vicenda, senza i quali l'intreccio avrebbe tutt'altro corso (e significato), e momenti “di contorno”, che spiegano, completano, sviluppano, togliendo i quali la logica dell'intreccio non sarebbe sconvolta. I primi sono i nuclei, i secondi i satelliti (la terminologia è quella di Seymour Chatman, che riprende il concetto da Roland Barthes). Ad esempio nella novella verghiana Rosso Malpelo i nuclei possono essere individuati in questi momenti: 1) morte del padre di Malpelo; 2) ritrovamento del suo cadavere; 3) amicizia con Ranocchio; 4) Malpelo espone la sua filosofia dinanzi alla carcassa dell’asino grigio; 5) scomparsa di Malpelo nella galleria della cava. Gli altri momenti del racconto sarebbero satelliti. Ovviamente, nell’individuare nuclei e satel-
Inuclei nei Promessi sposi
L’età napoleonica
liti, c'è un ampio margine di soggettività, che dipende dall’interpretazione che si dà del testo. Nei Promessi sposi i nuclei possono essere: 1) Danneggiamento: don Rodrigo vuole Lucia; 2) Intervento dell’ Aiutante (fra Cristoforo); 3) Tentativo fallito di superare il danneggiamento (matrimonio a sorpresa); 4) Successo illusorio (Lucia in salvo a Monza); 5) Errore dell’eroe (Renzo a Milano); 6 Redenzione parziale; 7) Tradimento di Gertrude; 8) Rapimento di Lucia; 9) Pentimento dell’innominato e salvezza di Lucia; 10) Redenzione definitiva di Renzo (nel lazzaretto); 11) Impedimento transitorio (il voto); 12) Morte eroica dell’Aiutante; 13) Scioglimento: morte di don Rodrigo e matrimonio degli eroi; 14) Trasferimento nel Bergamasco (cfr. anche M13). Questo vale al livello dell'intreccio generale. Ma la stessa operazione può essere fatta all’interno di singole sequenze narrative. Ad esempio, nella sequenza di Renzo nella Milano sollevata, i nuclei potrebbero essere così individuati: 1) Renzo raccoglie i pani; 2) Renzo è attratto dal «vortice» della sommossa; 3) Assiste passivo
23 ei. tene
Se devastazione del forno; 4) Si reca con la folla alla casa del vicario; 5) Apostrofa il vecchio «mal vissuto »; 6) Rischia di essere linciat o e vuole allontanarsi; 7) L’ar-
— Ce pi di a restare; 8) Tiene discorsi in piazza e all’osteria; 9) È arreta o e iugge; 1 pente dalle sue azioni e si abbandona a Dio; 11) V. il confine della Repubblica di Venezia.
TR
1.4. Il sistema dei personaggi
I rapporti funzionali
tra i personaggi
Come sì è visto, in un testo narrativo l’analisi del sistema si può compiere a vari livelli: segmenti narrativi, motivi, personaggi. Quest'ultimo livello è quello che è stato più praticato e che ha dato i risultati più produtti vi. I personaggi di un racconto non hanno significato ciascuno per sé, ma lo assumono in rapporto ad altri personaggi. Cioè ciascuno di essi ha una funzione in un sistema ed è legato agli altri personaggi da rapporti funzionali; tanto che, modificando un elemento, tutto il sistema viene a cambiare. Tali rapporti possono essere, come si è accennato, di similarità e di opposizione. Ad esempio in Senilità di Svevo, dati due personaggi «inetti» alla vita, Emilio e Amalia, e due perfettamente adatti, Balli e Angiolina, i rapporti tra i quattro personaggi sono così ricomponibili in un sistema
Emilio vs Balli Amalia vs Angiolina Tra Emilio e Balli, Amalia e Angiolina, Emilio e Angiolina, Amalia e Balli vi sono rapporti di opposizione; tra Emilio e Amalia, tra Balli e Angiolina, rapporti di similarità. A seconda dei parametri che si assumono, i sistemi ricomponibili sono diversi. Per Senilità, la De Lauretis ha proposto il seguente sistema: DONNA (Angiolina)
F6
F3
VITTIMA (Amalia)
ANTAGONISTA (Balli) F5
F2
EROE (Emilio)
Trasformazioni dei sistemi
Il modello attanziale di Greimas
Dove Fl=desiderio; F2=antagonismo; F8=tradimento; F4= desiderio; F5=sostituzione; F6=assimilazione. I sistemi non sono statici, ma possono subire trasformazioni con lo sviluppo dell’intreccio lungo l’asse sintagmatico. Nei Promessi sposi, ad esempio, tra Renzo e Lucia vi è inizialmente un’opposizione: Renzo è focoso e ribelle, Lucia fiduciosa in Dio e rassegnata; ma alla conclusione, con la redenzione di Renzo, il rapporto diviene
di similarità. Così tra l’innominato e il cardinale Federigo vi è prima opposizione, ma la conversione fa sì che il terribile fuorilegge divenga simile al santo cardinale (cfr. M12). Tutti questi esempi dimostrano come i personaggi assumano significato in relazione agli altri all’interno di un sistema, comunque lo si voglia configurare. Il semiologo Algirdas Greimas ha costruito un modello generale di sistema che dovrebbe essere valido per qualunque testo narrativo. Esso consta di sei ruoli fondamentali: Soggetto, Oggetto, Destinatore, Destinatario, Aiutante, Oppositore. Questi ruoli vengono chiamati attanti. Un simile modello è il prodotto, come si vede,
di un processo di estrema astrazione dalle caratteristiche specifiche dei vari personaggi degli infiniti testi narrativi esistenti o possibili. Il concetto di attante non va confuso con quello di personaggio, o attore. Un certo ruolo può essere ricoperto da diversi attori. Ad esempio nella Coscienza di Zeno di Svevo se il soggetto è Zeno stesso, l'oggetto è rappresentato sia da Ada sia da Augusta, l’oppositore sia dal suocero Malfenti sia dal cognato Guido Speier. Viceversa un attore può ricoprire nello stesso testo ruoli diversi: Malfenti, oltre che oppositore dell’«inetto» Zeno, è anche il destinatore dell’oggetto (concede Augusta in moglie a Zeno); Zeno, in tal caso, Microsaggio
di
24 diviene il destinatario. Ma a questo modello di Greimas sono state rivolte molte critiche per la sua eccessiva astrattezza, che fa perdere di vista il testo concreto e i suoi significati specifici. Un ruolo, in un sistema testuale, non ha senso in astratto, ma assume senso in quel dato testo, entro l’opera complessiva dello scrittore, all’interno di un sistema culturale storicamente configurato.
Il discorso 2.1. La voce «Chi parla?»
La prima domanda che occorre porsi di fronte ad un concreto, specifico discorso narrativo è: «chi parla?», cioè «chi è che racconta? ». Infatti, leggendo un testo narrativo, noi sentiamo (idealmente) una voce che ci racconta dei fatti; e si è visto che è proprio la presenza di questa voce il tratto distintivo del genere narrativo. Occorre dunque in primo luogo identificarla. Ù Il Narratore
Il Narratore non va confuso con l’autore reale
Il Narratore
è una funzione del testo
Il Narratore di Verga
Non bisogna confondere questo Narratore con l’autore reale, in carne ed ossa. Ciò è del tutto evidente quando a raccontare è un personaggio della vicenda: l’Ortis è raccontato da Jacopo, attraverso le sue lettere; Il fu Mattia Pascal è raccontato da Mattia che scrive in un memoriale la sua bizzarra storia; La coscienza di Zeno è raccontato da Zeno che scrive le sue memorie per lo psicanalista; La romana di Moravia è raccontato dalla giovane prostituta Adriana; La luna e il falò di Pavese è raccontato da Anguilla che ritorna ai suoi paesi dopo anni. Ma la stessa situazione si verifica, a ben vedere, anche quando a raccontare è un’anonima voce “fuori campo”, che saremmo istintivamente portati ad identificare con l’autore. Prendiamo il caso dei Promessi spost: chiunque sarebbe pronto ad affermare che è la voce di Manzoni che ci racconta i casi della vicenda. Ma si rifletta su questo: chi racconta mostra di ritenere che il manoscritto secentesco sia una realtà e che Renzo e Lucia siano realmente esistiti; ma noi sappiamo bene, e lo sa bene anche Manzoni, che si tratta di invenzioni. Se il Narratore li ritiene reali, è segno che anch’esso è interno all'universo della finzione. Il Narratore, insomma, è una funzione del testo, una costruzione fittizia, che ha uno statuto del tutto affine a quello dei personaggi. Se ha una fisionomia, un carattere, esso è costruito dallo scrittore esattamente come quello dei personaggi: non è detto infatti che questo carattere del Narratore corrisponda a quello dell’autore reale. Nel caso dei Promessi sposi il sereno, pacato, bonario Narratore non corrisponde certo al Manzoni storico, nevrotico, tormentato, cupo. Ciò non toglie che il Narratore possa essere il portavoce dell’autore reale entro il testo ed esponga le sue idee, le sue valutazioni (come è appunto il caso dei Promessi sposi). Ma in certi casi la distanza del Narratore dall’autore reale è ben più grande. Ad esempio chi racconta Rosso Malpelo, I Malavoglia, La roba, ha una fisionomia lontanissima da quella di Verga, poiché rivela un modo di giudicare che è proprio di un mondo primitivo e incolto. Si veda l’inizio di Rosso Malpelo: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; e aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo»; qui la voce narrante rivela il pregiudizio superstizioso, proprio delle società primitive, che accomuna certi caratteri morali
(la cattiveria) a certi tratti fisici (i capelli rossi); è evidente che un giudizio del genere non può essere dello scrittore. Verga quindi fa narrare i suoi racconti e romanzi da un Narratore cheè ben diverso da lui, e che fa parte del mondo rurale arcaico in cui si svolgono le vicende. Il Narratario
Ma è importante vedere anche a chi, in un testo narrativo, il Narratore racconta la storia. Questo destinatario del discorso sarà anch'esso interno all’universo
della finzione, un ruolo del testo, come lo è il Narratore. All’interno del testo si crea perciò una situazione di comunicazione che riproduce, a livello della fiction,
L’età napoleonica
ZI quella reale che vi è tra lo scrittore e il lettore in carne ed ossa che legge i suoi libri: testo
AUTORE REALE + Il Narratario presente nel testo
Il Narratario
virtuale
-> LETTORE REALE
Il destinatario del discorso del Narratore è chiamato Narratario. Talvolta può
essere una presenza specifica nel testo, con una fisionomia individuale e persino un nome. I Narratori delle novelle del Decameron sono di volta in volta i dieci giovani della brigata che si rivolgono agli altri nove: questi ultimi sono appunto i Narratari. Oppure Jacopo Ortis indirizza le sue lettere all'amico Lorenzo Alderani: que-
sti è il Narratario del racconto. Spesso poi, specie nei romanzi del primo Ottocento, il Narratario è identificabile con il «lettore» a cui si rivolge il Narratore (si ricordino 1« venticinque lettori» di Manzoni). Nei romanzi del secondo Ottocento il Narratario è in genere del tutto virtuale: in Flaubert, in Zola non vi sono più apostrofi al «lettore». Però la fisionomia del Narratario si può egualmente ricostruire, indirettamente, dal tipo di discorso del Narratore. Quando il Narratore, all’inizio dei Malavoglia, dice dei protagonisti: «Tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo», dà per scontato che il destinatario del discorso conosca la consuetudine tipica della società rurale arcaica, per cui i soprannomi sono regolarmente il contrario delle qualità di chi li porta. Ciò ci permette di capire che il Narratario a cui questo Narratore si rivolge fa parte di quello stesso universo culturale (rinunciamo qui ad affrontare i concetti, pur importantissimi, di Autore implicito e Lettore implicito, che sono troppo complessi e richiederebbero ben più ampi spazi per essere trattati in modo esauriente e comprensibile; per questi stessi motivi non vi abbiamo fatto ricorso nelle analisi dei testi). Narratori omodiegetici ed eterodiegetici
Il Narratore omodiegetico
Il Narratore
eterodiegetico
Il Narratore onnisciente e personale
Il Narratore impersonale
Le “voci” narrative si possono distinguere in due grandi categorie. 1) Innanzitutto il Narratore può appartenere al mondo stesso dei personaggi, cioè può essere uno dei personaggi che agiscono nella vicenda: in tal caso si definisce Narratore omodiegetico (dal greco hom6s=comune, identico, e diégesis= narrazione). All’interno di questa categoria si può ancora distinguere il Narratore che è puro testimone, non protagonista (nel Barone rampante di Calvino le imprese di Cosimo Piovasco di Rondò sono raccontate dal fratello; nel Nome della rosa di Eco le vicende di Guglielmo di Baskerville sono raccontate dal giovane monaco Adso), e il protagonista che racconta la sua stessa storia (Il fu Mattia Pascal, La coscienza di Zeno, ecc.); per questa variante si usa la formula Narratore autodiegetico (autés in greco = stesso). 2) La seconda grande categoria è quella dei narratori che sono estranei al mondo dei personaggi, pure voci anonime “fuori campo ”, come si diceva (i narratori di Manzoni, Scott, Balzac, Stendhal, Flaubert, Zola, Verga, Tolstoj, ecc.). Questo tipo di Narratore è detto eterodiegetico (héteros in greco=altro, diverso). Il tipo di Narratore più diffuso nel primo Ottocento è quello eterodiegetico onnidi tutti sciente, che conosce tutto della materia, i pensieri e gli impulsi più segreti , personale e Narrator un E futuri. e passati presenti, nti i personaggi, gli avvenime con comendo interven persona, sua la piano primo in spesso mette che senso nel un Narmenti, spiegazioni, divagazioni, dialoghi col Narratario. È anche di norma ciò che verità: della ile indiscutib fonte è one convenzi ratore attendibile, cioè per subito Flaubert, Con testo. del elementi altri da etto contradd mai è afferma non sempre e Narrator un compare dopo la metà del secolo (Madame Bovary, 1857), (o pochissimo). eterodiegetico, ma impersonale, che non interviene più nel narrato i fatti deforma e, attendibil è non e te onniscien più è non Il Narratore di Verga grado in è non esempio (ad ed è smentito dall’evidenza oggettiva dei fatti stessi Provla quando o; Ranocchi l’amico per e di capire l’amore di Malpelo per il padre al "Ntoni padron di a l'angosci ce attribuis , tempesta la videnza è in mare durante zo, Bastianaz di vita di carico di lupini in pericolo e solo in subordine al pericolo Ciò avviene perché il Narrastravolgendo così i sentimenti autentici del vecchio).
Microsaggio
26
Il Narratore inattendibile
.
.
DI
tore verghiano è come il riflesso del punto di vista di un “coro”, ottuso e malevolo. È un Narratore indubbiamente eterodiegetico (non è un preciso personaggio a narrare), però è vicino allo statuto di un Narratore omodiegetico, perché riproduce la visione dei personaggi: è una soluzione intermedia, insomma. Il Narratore omodiegetico non può essere ovviamente onnisciente, essendo un personaggio, che ha la limitatezza di visione propria di tutti gli esseri umani (è stato detto che invece il Narratore onnisciente è come «il punto di vista di Dio»). Talora non è neppure attendibile. Questo è il caso dell’operaio Albino Saluggia che è il narratore di Memoriale di Volponi: a poco a poco scopriamo che il quadro che egli ci dà della sua fabbrica è solo il prodotto della sua mania di persecuzione, che diviene follia. Un caso limite in tale direzione è The sound and the fury dell'americano William Faulkner (Il frastuono e la furia; il titolo della traduzione italiana corrente, L’urlo e il furore, è gravemente sbagliato): tutta la prima parte è narrata da un pazzo che mescola e deforma i fatti in un delirio inestricabile.
2.2. La prospettiva Focalizzazione sul Narratore e sul personaggio «Chi vede?»
Focalizzazione sul Narratore e sul personaggio
La focalizzazione nel racconto autodiegetico
L’età napoleonica
Oltre che «chi parla?» è indispensabile chiedersi: «chi vede?», o meglio: «di chi è la prospettiva che orienta la narrazione?». Non è detto infatti che tale prospettiva sia necessariamente quella del Narratore: in molti casi, i fatti dell’intreccio sono visti attraverso gli occhi di un personaggio, anche se non è quel personaggio a raccontare, ma la voce narrante resta quella del Narratore. Si veda ad esempio il primo arrivo di Renzo a Milano, durante i tumulti (cap. XI): Renzo, ignaro di ciò che è avvenuto in città, non capisce perché farina e pani siano sparsi a terra, anzi, in un primo momento non riesce neppure a riconoscerli, scambiandoli per neve e ciottoli. Chi parla in questa sequenza è sempre il Narratore, ma chi vede è Renzo: la scena è filtrata attraverso la sua prospettiva di montanaro sprovveduto e stupefatto. Il Narratore riproduce il suo modo di vedere soggettivo e i limiti della sua conoscenza, e non interviene (per il momento) a spiegare ciò che Renzo non capisce: avviene pertanto una temporanea limitazione dell’onniscienza. Questo procedimento è definito focalizzazione interna, in quanto il centro focale da cui sono visti i fatti narrati è collocato nel personaggio. Nella narrazione vi sono dunque due prospettive possibili: quella del Narratore e quella dei personaggi. In genere esse si alternano, ma, a seconda dei tipi di racconto, tende a prevalere l’una o l’altra. Vi può essere dunque un racconto prevalentemente focalizzato sul Narratore, nel quale la prospettiva da cui sono visti i fatti è di norma quella del Narratore (sia pur con momenti di focalizzazione interna ai personaggi): è il caso dei Promessi sposi, ad esempio, o dei romanzi di Balzac. Ma vi può essere un racconto a prevalente focalizzazione sul personaggio, dove i fatti sono di norma presentati attraverso il punto di vista ristretto e soggettivo di uno o più attori della vicenda (sia pur con interventi della prospettiva del Narratore): è il caso di Senilità, in cui quasi tutto passa attraverso il punto di vista di Emilio. La distinzione vale non solo per il racconto eterodiegetico, ma anche per quello autodiegetico, nel quale è il protagonista a raccontare. Ciò può sorprendere, perché si è portati a ritenere che, essendo in quel caso Narratore e personaggio la stessa persona, il racconto sia sempre a focalizzazione interna. Ma il fatto è che, a ben vedere, Narratore e personaggio non sono propriamente la stessa persona: in primo luogo hanno nel testo funzioni diverse, l’uno vive i fatti, l’altro li racconta; in secondo luogo, ed è ciò che più importa, il Narratore racconta di norma a distanza di tempo dai fatti: ciò significa che tra io-Narratore e io-personaggio vi è inevitabilmente una differenza psicologica e di conoscenze; l’io-Narratore, nell’atto di raccontare, ne sa di più dell’io-personaggio, e ciò può portarlo a giudicare in modo diverso, ad avere idee e reazioni emotive diverse. Quindi anche nel caso del racconto autodiegetico esistono due prospettive distinte, e la narrazione può passare attraverso il centro focale più ampio del Narratore o quello più ristretto del personaggio. Un esempio eloquente può essere offerto dalla Divina Commedia, che è
VA A La focalizzazione sul personaggio
nella Divina Commedia
un racconto autodiegetico. C'è il Dante personaggio che compie il suo viaggio e c'è il Dante Narratore che lo racconta. Il racconto avviene quando il viaggio è finito, quindi ilDante che narra ha una conoscenza ben maggiore del Dante che viveva quella esperienza (proprio per questo acquisto di conoscenza il viaggio oltremondano è stato effettuato). Di norma la narrazione della Commedia è condotta dal punto di vista del Dante Narratore; ma talora, in certi punti salienti, il campo visivo si restringe a quello del Dante personaggio. Si vedano gli episodi di Pier delle Vigne (Inferno, XIII) in cui Dante personaggio resta sbalordito dinanzi al ramo spezzato che sanguina e
parla; della comparsa del mostro Gerione (Inferno, XVI), che salendo dall’abisso
appare come una forma indistinta e misteriosa; dell'arrivo al Purgatorio della navi-
cella con le anime, su cui Dante a tutta prima non riesce a distinguere la figura del-
Il-fu Mattia Pascal
La focalizzazione esterna
l'angelo (Purgatorio, II): in tutti questi casi l'ottica adottata è quella del Dante personaggio che non sa e non capisce; solo in un secondo momento il Dante Narratore fornisce.le spiegazioni necessarie, e ciò determina una forte sospensione narrativa. Parimenti, buona parte del Fu Mattia Pascal è focalizzato non sul punto di vista di Mattia che racconta a vicenda finita e sa già tutti gli svolgimenti della vicenda, ma di Mattia che vive gli eventi e non può ancora sapere nulla. Un bell'esempio è l'episodio della vincita al casinò, in cui il lettore vive la vicenda insieme con Mattia personaggio, | senza sapere se vincerà o no (e il Mattia narratore non lo rivela in anticipo). Il racconto focalizzato sul Narratore può presentare una variante ricca di interesse. Sì è visto che il Narratore può essere onnisciente, o può essere inattendibile; ma c’è ancora una forma particolare di conoscenza limitata, quando il Narratore presenta i personaggi solo dall’esterno, come se non avesse accesso alla loro interiorità e fosse solo in grado di registrare le loro parole e di descrivere i loro gesti. Si parla in questo caso di focalizzazione esterna. Si tratta propriamente ancora di una focalizzazione sul Narratore, ma in tal caso egli presenta prerogative molto limitate. Un esempio classico di questo modo di narrare sono i racconti di Hemingway; ma se ne può in certi casi trovare applicazione anche nei Malavoglia: i personaggi del “coro” paesano, Cipolla, Piedipapera, la Zuppidda, ecc., sono sempre e solo presentati dall’esterno: conosciamo le loro parole, le loro azioni, ma non abbiamo mai accesso ai loro pensieri. Questo modo di narrare è abitualmente legato alla narrazione eterodiegetica, ma può presentarsi anche con un narratore autodiegetico: Lo straniero di Camus è narrato dal protagonista stesso, Meursault, ma questi, nella prima parte, si vede come dall’esterno, senza spiegare le motivazioni psicologiche dei suoi atti.
Una tipologia narrativa Usando come coordinate i due assi voce e prospettiva, e riportando su di essi le distinzioni Narratore eterodiegetico/omodiegetico e focalizzazione sul Narratore/sul personaggio, si può costruire la seguente tipologia narrativa: Z$ .2 80| 3 S|
Flaubert, Madame Bovary Svevo, Semilità Kafka, IL castello
S 2 | Joyce, Dedalus & 2 | Moravia, Gli indifferenti
Pirandello, I lfu M attia Pascal i Pavese, Paesi tuor La casa in collina
La luna e èfalò |
Vittorini, Conversazione im
Sicilia
E (Cp) Manzoni, I promessi sposi Scott, Ivanhoe, ecc. Balzac, Illusioni perdute, ecc. PROSPETTIVA Stendhal, Il Rosso e dl Nero La certosa di Parma Narratore sul Gogol’, Le anime morte Focalizzazione
Narratore eterodiegetico
Dante, Commedia
Nievo, Le confessioni di un Italiano Dickens, David Copperfield Morante, L'isola di Arturo Svevo, La coscienza di Zeno
Narratore omodiegetico
VOCE Microsaggio
28 II deco
Discorso indiretto libero e focalizzazione
indiretto libero
Lo strumento principale per ottenere la focalizzazione interna al personaggio, nel racconto eterodiegetico come in quello omodiegetico, è il discorso indiretto libero. Partiamo da tre esempi: 1) Giovanni si ricordò di Mario e pensò: «Devo telefonargli». 2) Giovanni si ricordò di Mario e pensò che doveva telefonargli. 8) Giovanni si ricordo di Mario. Doveva telefonargli. L’esempio 1 propone un discorso diretto: il pensiero del personaggio è riportato testualmente, tra virgolette; l'esempio 2 propone un discorso indiretto: la proposizione che nel discorso diretto era indipendente qui diviene subordinata dichiarativa, retta da un verbo e dalla congiunzione che; l'esempio 3 propone un discorso indiretto libero: è indiretto come 2, ma non vi è nessuna marca grammaticale che segni l’inizio del pensiero del personaggio, né un verbo reggente né una congiunzione; per questo viene chiamato “libero”. Il procedimento è usato frequentemente a partire dalla narrativa del secondo Ottocento, e consente agli scrittori grande scioltezza e duttilità nell’inserire discorsi o pensieri dei personaggi nel fluire della narrazione, senza apparenti soluzioni di continuità. Funziona poi perfettamente per rendere la focalizzazione interna perché a parlare è sempre la voce del narratore, mentre a vedere (in senso lato, che comprende anche la visione interiore, il pensiero) è il personaggio: nell’esempio 3 chi riporta la frase «Doveva telefonargli» è sempre il Narratore che enunciava la frase precedente, «Giovanni si ricordò di Mario»; ma chi pensa di dover telefonare è Giovanni. Da un esempio fittizio ed elementare passiamo ad un esempio d’autore. Nel capitolo IV della parte I del Gesualdo, il protagonista rievoca la sua ascesa sociale con un lungo indiretto libero. Vediamone l’inizio:
Un esempio dal Gesualdo di Verga
Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba!
Sino alla frase: «Gli venivano tanti ricordi piacevoli» il discorso è del Narratore, che descrive lo stato d’animo di Gesualdo. Subito dopo comincia invece il monologo in forma indiretta del personaggio; come si vede, il passaggio è insensibile, non è segnato da un «Gesualdo pensava che ne aveva portate delle pietre...». L’indiretto libero è molto vicino al discorso diretto, ben più dell’indiretto “legato”, tanto che conserva movenze e coloriture del parlato: si vedano qui le esclamazioni di Gesualdo. Più avanti sono riportati persino modi di dire caratteristici, di origine dialettale siciliana: «Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora...». Un metodo empirico ma infallibile per riconoscere un indiretto libero è trasformarlo in forma diretta, passando dalla terza alla prima persona e mutando gli avverbi in dimostrativi di tempo e di luogo. Si provi col passo sopra citato: «Ne ho portate di pietre sulle spalle, prima di fabbricare questo magazzino! e ne ho passati di giorni senza pane, prima di possedere tutta questa roba!». Se è possibile questa trasformazione, si è sicuri di essere in presenza di un discorso del personaggio, espresso in forma indiretta libera.
2.3. Il tempo
Il tempo della storia (TS)
Il tempo del discorso (TD)
L’età napoleonica
Il tempo è una componente essenziale del racconto, visto che questo è una successione cronologica di eventi. Una distinzione fondamentale è quella tra tempo della storia e tempo del discorso. Tempo della storia (d’ora in poi indicato con TS) è il tempo in cui si svolgono i fatti raccontati nella storia. Se nel testo vi sono le necessarie indicazioni, esso si può calcolare in ore, giorni, anni. Ad esempio la vicenda dei Promessi sposi occupa circa due anni, dal novembre 1628 all’agosto 1680 (sino al ritrovamento di Lucia al lazzaretto, escludendo cioè l'epilogo, in cui le indicazioni di tempo sfumano nell’indeterminato); la vicenda dei M alavoglia dura circa 15 anni, dal 1863 al 1878. Il tempo del discorso (TD) è il tempo impiegato dal discorso per raccontare la storia. Esso non è quantificabile esattamente: non può essere misurato dal tempo empirico della lettura, che è soggettivo e variabile,
29 è quindi un tempo fittizio, che va assunto per convenzione. Forse sarebbe più facile
Ordine
Durata
Frequenza
parlare di spazio, lo spazio di righe e pagine occupato dal discorso narrativo. I rapporti tra TS e TD si possono studiare secondo tre determinazioni: ordine, durata, frequenza. Ordine — L'ordine di successione degli eventi nel discorso può non coincidere con quello della storia (della fabula per l’esattezza: cfr. $ 1.2): cioè il discorso nar-
rativo può introdurre prima dei fatti che nella storia vengono dopo, 0 viceversa. Si tratta di anacronte, cioè di rotture della linearità cronologica dei fatti nell’esposizione. Abbiamo già citato l’esempio del Piacere di D'Annunzio; ma un esempio classico può essere l’Eneide: il racconto si apre în medias res con il naufragio di Enea sulle coste dell’Africa, poi l’eroe narra a Didone la caduta di Troia e le proprie peregrinazioni, dopo di che il racconto ritorna al presente con le vicende d'amore di Enea e della regina. Questi inserimenti di avvenimenti del passato si definiscono analessi. Sono tali anche le storie di fra Cristoforo, di Gertrude e dell’innominato nei Promessi sposi. Durata - Elemento importante è la velocità del racconto, che è data dal rapporto TS/TD. Se TS > TD la narrazione è veloce; un lungo periodo di tempo è raccontato in poche pagine, o addirittura in poche righe. Si tratta di una narrazione riassuntiva, o sommario. Esempio: il racconto della vita di Lucia in casa di donna Prassede. Se TD=0 si ha l’ellissi, cioè si omette di raccontare porzioni più o meno ampie di tempo. Un’ellissi è il periodo che intercorre tra la partenza di ’Ntoni in cerca di fortuna e il suo ritorno al paese: le sue vicende non sono raccontate. Se TS=TD si ha la scena, cioè la coincidenza tra ciò che avviene nella storia e il tempo impiegato a raccontarlo. Esempio: il dialogo tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini nel capitolo XIX dei Promessi sposi. SeTS < TD si ha un racconto molto lento, come una scena vista al rallentatore. È un caso raro. Si può citare l'episodio di Senilità in cui Emilio, tornando a casa, scopre Amalia delirante: gli eventi di poche ore occupano due lunghi capitoli. Se TS=0 si ha la pausa: la storia non procede e il Narratore indugia in descrizioni o divagazioni. Esempio: la descrizione del lago di Como nel capitolo I dei Promessi sposi, l’analisi dei motivi della sommossa nel capitolo XII. La velocità può mutare nel corso di un racconto, e il mutamento può assumere molta importanza: nei Malavoglia la narrazione è inizialmente lenta, in modo da rendere il senso della vita immobile del villaggio; quando poi viene in primo piano ’Ntoni, il personaggio dinamico, si fa più veloce e riassuntiva. Frequenza - Si possono indicare quattro tipi di racconto: 1) Raccontare una volta ciò che è avvenuto una volta (racconto singolativo). 1 Esempio: Renzo va da don Abbondio il mattino delle nozze. anafosingolativo (racconto volte n avvenuto è 2) Raccontare n volte ciò che convento nel Lucia e Agnese sposi, Promessi dei XVII capitolo al Esempio: rico). di Monza ricevono da parte di fra Cristoforo un messaggero che porta notizie di Renzo; il giovedì successivo ritorna un messo, con la conferma che Renzo è in salvo; il terzo giovedì, non vedendo il messaggero, Agnese torna al paese a cercare il frate. 3) Raccontare n volte quanto è accaduto una volta (racconto ripetitivo). Avviene spesso nei romanzi epistolari con più corrispondenti, come I legami pericolosi di i, Laclos, in cui lo stesso episodio può essere raccontato più volte dai vari personagg i ogni volta da una prospettiva diversa. — . 4) Raccontare una volta sola quanto è avvenuto n volte (racconto iterativo) giorni «Nei T188): (cfr. Bovary adame M di parte prima della IX capitolo Si veda il una volta di bel tempo, Emma scendeva in giardino»: in questo caso sì racconta | ; sola ciò che è avvenuto più volte. veloordine, infatti voce: della funzione in mente stretta è o narrativ Il tempo narrare se decide che lui è re; cità, frequenza dipendono dalle scelte del Narrato o indugiando in una prima o dopo un certo evento, se raccontarlo sommariamente fatto. un volte più o una tare raccon scena, se
Microsaggio
Bibliografia Per queste schematiche indicazioni ci siamo valsi particolarmente di: AA.VV., L’analisi del racconto, trad. it., Bompiani, Milano 1969 (1966); G. GENETTE, Figure III. Discorso del racconto, trad. it., Einaudi, Torino 1976 (1972); C. SEGRE, Analisi del racconto, logica narrativa e tempo, in Le strutture e il tempo, Einaudi, Torino 1974; S. CHATMAN, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, trad. it., Pratiche, Parma 1981 (1978); G. GENETTE, Nuovo discorso del racconto, trad. it., Einaudi, Torino 1987 (1983). Soprattutto rispetto ai testi di Genette, abbiamo introdotto sostanziali modifiche concettuali: per
questo rimandiamo a G. BALDI, Narratologia della storia e narratologia del discorso, in «Lettere italiane», 1, 1988.
Su questi argomenti sono molto utili anche lavori divulgativi come: A. MARCHESE, L'officina del racconto, Mondadori, Milano 1983; H. GrossER, Narrativa, Principato, Milano 1985; G. PRINCE, Dizionario di narratologia, Sansoni, Firenze 1990.
L’età napoleonica
31
NEOCLASSICISMO E PREROMANTICISMO IN EUROPA: LE PREMESSE SETTECENTESCHE
1. Le premesse teoriche del Neoclassicismo
Al) Johann Joachim Winckelmann Nato a Stendal, in Prussia, nel 1717, morì a Trieste nel 1768. Di umili ori‘igini, seguì studi filosofici e letterari nelle università di Halle e di Jena, ed ‘approfondì iin seguito lo studio della letteratura e dell’arte classica. Nel 1755 pubblicò iPensieri sull ‘imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura. Grazie alla protezione del nunzio apostolico a Dresda, nel 1755 poté recarsi aRoma per studiare diret. tamente quei capolavori dell’arte classica di cui era entusiasta e in cui vedeva realizzato il suo ideale di una bellezza assoluta ed eterna, intesa come «nobile semplicità e calma grandezza», come nitidezza armonica di forme e serena compostezza che supera il tumulto delle passioni. A Roma strinse amicizia con il pittore austriaco Anton Raphaél Mengs, che condivideva il suo amore per l’arte classica e che seguì le sue teorie nella pratica pittorica. Fu al servizio del cardinale Albani, mecenate e collezionista d’arte antica, e poté così studiare le grandi collezioni d’arte romane. Tra 758 visitò Ercolano ePompei, di cui era iniziata da pochi anni la riscopertaarcheologica, ee si si spinse fino a Paestum, dei cui monumenti sottolineò per primo
l’importanza. Nel 1763 pubblicò la Storia dell’arte nell’antichità. Nel 1764 fu nomi-
nato sovrintendente alle antichità di Roma. Di ritorno da un viaggio in Germania e in Austria (dove era stato ricevuto con grandi onori dall’imperatrice Maria Teresa), fu assassinato in una locanda di Trieste, per oscuri motivi. Fu ilmassimo teorico del gusto neoclassico. Le sue teorie e le sue interpretazioni dell’arte classica ebbero vasta risonanza e grande influenza sulla cultura europea tra il Settecento e 1°Ottocento.
Winckelmann
La statua di Apollo: il mondo antico come paradiso perduto Il passo è tratto dalla Storia dell’arte nell’antichità (1763). È una descrizione della statua dell’Apollo del Belvedere, nel Museo Vaticano.
La statua di Apollo! rappresenta il più alto ideale artistico fra tutte le opere dell'antichità sfuggite alla distruzione. L'artista ha creato questa opera assolutamente secondo l'ideale, servendosi della materia solo per quel tanto che gli era necessario a realizzare e rendere visibile il suo proposito?. Questa statua di Apollo supera tutte le altre immagini del dio di tanto, di quanto l’Apollo di Omero? si eleva al di sopra di quello descrittoci dai poeti venuti dopo di lui. Il suo corpo si eleva al di sopra di quello umano e la sua posa rivela la grandezza che lo pervade. Una primavera perenne, come nel beato Elisio‘, riveste di amabile giovinezza la sua matura affascinante virilità e aleggia con grazia delicata sulla superba struttura delle sue membra. Penetra con il tuo spirito nel regno delle bellezze incorporee e cerca di farti creatore di una natura celeste, perché il tuo spirito possa inebriarsi di bellezze superiori alla natura umana: là, o lettore, nulla vi è che sia mortale o schiavo dei bisogni umani. Non una vena, non un nervo, eccitano ed agitano questo corpo, ma uno spirito celestiale che vi si riversa come un fiume tranquillo quasi ricolma tutta la superficie di questa figura. Egli ha inseguito Pitone® contro il quale per primo ha teso l’arco ed ora con il suo passo potente l’ha raggiunto ed ucciso. Dall'alto del suo spirito soddisfatto il suo sguardo va al di là e al di sopra della sua vittoria, verso l’infinito: disprezzo v’è sulle sue labbra e l’ira che egli trattiene tende le sue narici e sale fino alla fronte altera. Ma qui, la pace che vi aleggia beata e quieta non ne viene turbata e il suo sguardo è colmo di dolcezza, come tra le Muse che si protendono per avvolgerlo nel loro abbraccio. In tutte le altre immagini del padre degli dèi” che ci rimangono e che l’arte onora, egli non si accosta a quella grandezza con la quale si svelò alla mente del divino poeta? e che riappare qui nel volto del figlio”, mentre i singoli attributi di bellezza degli altri dèi si fondono qui in armonia come in Pandora. [...] La sua morbida chioma, mossa da uno zeffiro! delicato, come i tralci dell’uva nobile sì attorcigliano delicati e flessibili, gioca attorno a questa testa divina e sembra cosparsa del balsamo degli dèi! e legata sul capo dalle Grazie con amabile eleganza. Al cospetto di questa meravigliosa opera d’arte dimentico ogni altra cosa e mi elevo al di sopra di me stesso per contemplarla come le si conviene. Il mio petto sembra tendersi e sollevarsi di venerazione come quello che vedo tendersi ricolmo dello spirito di vaticinio!, e mi sento come trasportato a Delo e nei sacri boschetti della Licia!‘ in quei luoghi che Apollo rendeva sacri con la sua presenza: ché questa mia immagine sembra ricevere vita e movimento come la bellezza di Pigmalione!, come è mai possibile ritrarla e descriverla? L’arte stessa dovrebbe darmi consiglio e guidarmi la mano per portare a compimento, di qui in poi, i primi tratti che ora ho abbozzato. L’idea che ho dato di questa immagine io la depongo ora ai suoi piedi, come le corone! di coloro che non potevano raggiungere le teste degli dèi che volevano incoronare. J. J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità,
trad. it. di M. L. Pampaloni, Boringhieri, Torino 1961
1. La statua ... Apollo: copia romana di un originale greco in bronzo forse del IV secolo a. C. 2. secondo l’ideale ... proposito: la statua rappresenta il bello ideale; il marmo è solo il supporto materiale che serve a rendere sensibile tale bellezza. 3. Apollo di Omero: l’Apollo irato, di cui Omero parla nel canto I dell'Iliade. 4. Elisio: era la zona degli Inferi pagani in cui stavano i beati. 5. Pitone: mostruoso serpente,» che secondo il mito infestava la Focide, finché
Neoclassicismo
fu ucciso da Apollo presso Delfi. 6. Muse: Apollo era anche il dio della poesia; le Muse costituivano il suo seguito. 7. padre degli dei: Giove. 8. divino poeta: Omero. 9. figlio: Apollo. 10. Pandora: nella mitologia greca la prima donna, inviata come punizione agli uomini, a cui Prometeo aveva donato il
fuoco, sottraendolo a Giove. Tutti gli dei la adornarono delle migliori qualità (donde il suo nome, che significa “ricca di doni”).
e Preromanticismo
in Europa:
11. zeffiro: vento primaverile. 12. balsamo degli dèi: l’ambrosia. . 13. vaticinio: Apollo era anche il dio degli oracoli e delle profezie. 14. Delo ... Licia: l’isola di Delo e la Licia in Asia Minore, luoghi sacri ad Apollo. 15. Pigmalione: mitico re di Cipro. S’innamorò di una statua, da lui stesso scolpita, che raffigurava una donna; invocò allora Afrodite, che infuse la vita nella statua. 16. corone: corone votive date dai Greci in offerta agli dei.
le premesse settecentesche
55) ANALISI DEL TESTO Gli aspetti
dani
Neoclassicismo inckelmann
n
In questo passo si possono individuare alcuni aspetti TA LOZIZN re alcuni aspetti
Wi centralii delle teorieie didi Winckel-
edelsuomodo di porsi di fronte al mondo antico (che sarà poi partecipato dalla cul-
7 La statua greca è una manifestazione sensibile del bello ideale: una bellezza assoluta che è al di là di ogni determinazione materiale. La realtà umana vi è trasfigurata liberata da "DA -suoi limiti contingenti. e è nobiltà e g grandezza , nelle forme e negliÌ atteggiamenti, in — La bellezza Ì Ì ma èÈ anche gra -
- La bellezza ideale non esclude l’intensità delle passioni (la statua raffigura Apollo irato che ha appena ucciso il nemico), ma questa è trascesa in una superiore calma e compostezza.
ss atteggiamento di Winckelmann verso il mondo classico, rappresentato concretamente di fronte a lui dalla statua, è di religiosa adorazione, come dinanzi ad una manifestazione
dell’assoluto, del divino: nella contemplazione l’individuo si sublima al di sopra di se stesso, si sottrae alla contingenza. E un atteggiamento che si potrebbe definire mistico: il rapporto con l'antico diviene una sorta di estasî. Al tempo stesso vi si coglie uno slancio di struggente nostalgia, che induce il contemplante a fuggire dal presente e ad immergersi in quel mondo lontano, sentito come un paradiso perduto. É una disposizione sentimentale che appartiene già, embrionalmente, alla sfera romantica.
PROPOSTA DI LAVORO Munn e Si cerchino i passi del testo a cui corrispondono i vari motivi individuati.
(M2 ,Il romanzo epistolare x
Il romanzo epistolare è una forma narrativa che ha avuto larga diffusione nel Settecento, sopravvivendo ancora per parte dell'Ottocento. Viene definito “epistolare” perché la narrazione delle vicende si compone attraverso la raccolta di una serie di lettere dei protagonisti stessi. Talora vi può anche essere l’intervento esplicativo, o di raccordo narrativo, di colui che, nella finzione narrativa, ha raccolto il carteggio, o del destinatario delle lettere (così ad esempio avviene nella
Tipi di romanzo epistolare
Pluralità di punti di vista e confessione intima
parte finale del Werther e dell’Ortis). delromanzo epistolare: Si possono distinguere due tipi di strutture di lettere di più personaggi. scambio lo attraverso 1. La narrazione si costruisce nella Nuova Eloisa di Richardson, di Clarissa nella e Pamela nella avviene Così Rousseau, nei Legami pericolosi di Laclos.
2. La narrazione risulta dalle lettere del solo protagonista. In questa forma si aree urico presentano il Werther e l’Ortis. Nel primo caso si ha una molteplicità di punti di vista: uno stesso fatto, una stessa persona possono essere descritti più volte da angolature differenti,aseconda
del carattere o della disposizione psicologica di chi scrive la lettera. Nel secondo caso la lettera tende a diventare un diario intimo: il destinatario si riduce ad entità
e iltesto non è che un monologo del protagonista che si del tutto convenzionale,
Le tecniche narrative
l’esauriesplora e parla solo a se stesso. Questa forma pertanto preannuncia già prima in ione, romanzo-confess al strada mento del genere epistolare ed apre la persona. sono: Caratteristiche comuni a tutte le forme del romanzo epistolare narratore anonimo un di voce la è vi Non - I narratori sono i personaggi stessi. 2.1.). $ M1, (cfr. dall’alto e dall'esterno fatti i onnisciente che presenti le loro - La narrazione è praticamente al presente. I personaggi raccontano Microsaggio
pe
"** -
72
34 vicende o descrivono i propri sentimenti nel momento in cui li vivono (o comunque a brevissima distanza, “a caldo”). Il futuro è ancora sconosciuto, del tutto aperto. Da ciò scaturiscono conseguenze importanti. Il lettore vive l’azione nel momento in cui la vive il personaggio: non c’è quel “senno di poi”, quel distacco critico consentito dalla narrazione di eventi passati, già conclusi. Ciò dà maggior immedia-
tezza drammatica e consente di seguire nel suo farsi l’oscillare dello stato d'animo del personaggio, la linea a volte tortuosa dei suoi processi interiori. Inoltre, poiché la lettera si suppone scritta sotto la spinta dell’emozione viva, come registrazione diretta ed immediata dei moti del cuore, ilromanzo epistolare è la forma più adatta per poter esprimere il sentimentalismo, quella forma particolare di sensibilità che
Romanzo epistolare e sentimentalismo
è propria della cultura settecentesca. Si assiste cioè, nel caso di Clarissa, della Nuova
Eloisa, del Werther, ad una perfetta corrispondenza tra la materia e la forma narrativa. Il discorso vale anche per l’Ortis, in termini un po’ differenti: in questo caso la lettera è lo strumento più adatto per esprimere la passionalità veemente del protagonista, amorosa e politica, nel suo stato nascente. Sul romanzo epistolare raccomandiamo uno studio molto intelligente e chiaro: J. Rousset, Una forma letteraria: il romanzo epistolare, in Forma e significato, trad. it., Einaudi, Torino 1976.
2. Archetipi del gusto preromantico. Il romanzo sentimentale
A2.)
Jean-Jacques Rousseau
Di Rousseau si è già trattato nel volume precedente, per cui vengono richiamati qui solo alcuni dati essenziali. Nato a Ginevra nel 1712, fu in contatto coni filosofi illuministi e collaborò alla Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, ma entrò poi in polemica con essi. Dovette subire persecuzioni per le sue idee e fu costretto a rifugiarsiin Inghilterra. Morì nel 1778. Scrisse opere politiche (il Discorso sull’origine dell’inequaglianza fra gli uomini, 1755, il Contratto sociale, 1762), pedagogiche (Emilio 0 dell’educazione, 1762), letterarie (come il romanzo Julie, 0 la nuova Eloisa, 1761), autobiografiche (le Confessioni e le Fantasticherie di un passeggiatore solitario, postumi). Al centro del suo pensiero vi è l’idea che il progresso della civiltà abbia allontanato l’uomo dalla natura, dando origine a tutti i suoi mali; da ciò deriva il culto di tutto ciò che è naturale, originario, spontaneo, che poi influenzerà le correnti romantiche successive. Anche l’insistenza nell’esplorazione dell’io, gli atteggiamenti individualistici e intimistici, il culto della sensibilità e dei sentimenti anticipano aspetti che saranno poi del Romanticismo.
HM Julie, o la nuova Eloisa La Nuova Eloisa è un romanzo epistolare (cfr. M2) cominciato da Rousseau nel 1756 e pubblicato nel 1761. Ebbe uno straordinario successo ed esercitò una vasta influenza in campo europeo. Tema centrale del romanzo è il conflitto tra l’artificiosità delle convenzioni sociali e la spontaneità del cuore e del sentimento; ma vi si concentrano molti altri motivi della riflessione di Rousseau. Il titolo alludeal fatto chele vicende narrate sono simili a quelle del filosofo medievale Abelardo, che aveva intrecciato una relazione con la sua allieva Eloisa, incontrando la dura opposizione del padre della fanciulla. Julie, unica figlia del barone d’Etange, si innamora, riamata, del suo precettore, Saint-Preux, borghese e non ricco. I due gio-
vani obbediscono alla “natura”, alle inclinazioni del sentimento e del desiderio. Il padre però si oppone al matrimonio, per la diversità delle condizioni sociali. I due innamorati si separano. Julie accetta di sposare l'anziano signore di Wolmar, Saint-Preux viaggia a lungo in Francia e nei paesi lontani. Il signor di Wolmar, saggio e distaccato, che conosce i sentimenti dei due giovani, ma confida che il tempo l’abbia ormai subliNeoclassicismo
e Preromanticismo
in Europa:
le premesse settecentesche
SI Cana psc Saint-Preux come precettore dei propri figli. Julie muore per aver salvato uno dei figlioletti Ae n di Ginevra (sulle cui rive si svolge la vicenda). Prima di morire, confessa in una lettera a alnt-i reux di non aver mai cessato di amarlo e lo prega di occuparsi dell'educ azione dei bambini.
L'anima sensibile, la società, la natura Il passo che riportiamo si colloca all’inizio della vicenda. Spaventati alla prima rivelazione del loro amore, i due giovani si sono separati. Ma Saint-Preua si stabilisce sulla sponda opposta del lago, da ; dove può vedere il luogo dove vive Julie.
Come è cambiato il mio stato in pochi giorni! Quante amarezze si mescolano alla dolcezza di avvicinarmi a voi! Quante tristi riflessioni mi assediano! Quante traversie mi fanno temere i miei timori! O Giulia, che fatale dono del cielo è un’anima sensibile! Colui che l’ha ricevuto non deve aspettarsi
che pene e dolori sulla terra. Vile trastullo dell’aria e delle stagioni, il sole o le nebbie, il cielo coperto o sereno regoleranno la sua sorte, e sarà lieto o triste secondo i venti. Vittima dei pregiudizi, troverà in massime assurde un invincibile ostacolo ai giusti voti del suo cuore. Gli uomini lo castigheranno perché ha rette opinioni su ogni cosa, e perché ne giudica secondo verità e non secondo convenzioni. Basterebbe da solo a fare la propria infelicità, abbandonandosi senza discrezione alle divine attrattive dell’onesto e del bello, mentre le pesanti catene della necessità lo legano all’ignobiltà. Cercherà la suprema felicità senza ricordarsi che è un uomo: il cuore e la ragione saranno eternamente in guerra in lui, desideri sterminati gli prepareranno eterne privazioni. Strano e inconcepibile effetto! Da quando mi sono riavvicinato a voi, non volgo in me che pensieri funesti. Forse il soggiorno che abito contribuisce a tanta malinconia; è triste e orribile, ma così è tanto più conforme allo stato dell'anima mia, non potrei abitarne uno più piacevole con altrettanta pazienza. Una fila di sterili rocce cinge il pendio e la mia abitazione, resa anche più tremenda dall’inverno. Ah! Giulia, sento che se dovessi rinunciare a voi non ci sarebbe per me né altro soggiorno né altra stagione. Nei violenti trasporti che mi agitano non riesco a star fermo; corro, m’inerpico con ardore, mi slancio sugli scogli; percorro a grandi passi tutti i dintorni, e dappertutto trovo nelle cose l’orrore che regna dentro di me. Non c’è più traccia di verde, l’erba è gialla e inaridita, gli alberi spogli, i venti boreali accumulano neve e ghiacci, tutta la natura è morta ai miei occhi, come la speranza in fondo al mio cuore. Tra le rocce di questo pendio ho scoperto in un rifugio solitario una breve spianata da dove si scorge tutta la felice città che abitate. Figuratevi con che avidità portai gli occhi su quell’amato soggiorno. Il primo giorno feci mille sforzi per discernere la vostra casa; ma la grande distanza li rese vani, m'accorsi che l’immaginazione mia illudeva gli occhi affaticati. Corsi dal curato a farmi prestare un telescopio col quale vidi o mi parve di vedere la vostra casa, e da allora passo intere giornate in questo asilo contemplando i muri fortunati che racchiudono la sorgente della mia vita. Nonostante la stagione ci vengo già la mattina e non me ne vado che a notte. Con un fuocherello di foglie e di qualche ramo secco e con il moto riesco a proteggermi dal freddo eccessivo. Mi sono così innamorato di questo luogo selvaggio che ci porto persino penna e carta; ora sto scrivendo questa lettera su un macigno
che il gelo ha staccato dalla rupe vicina.
i Agla
é
è
Di Qui, o Giulia, il tuo infelice amante gode gli estremi piaceri che forse potrà gustare al mondo. camera. tua alla qui, attraverso l’aria e i muri, ardisce penetrare segretamente fino
da Giulia o la nuova Eloisa, parte I, lettera XXVI, trad. it. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1964, vol. I
Rousseau
510) ANALISI DEL TESTO
© i
Individuiamo alcuni punti rilevanti del passo: - Saint-Preux afferma che chi ha l’«anima sensibile» non può aspettarsi che pene e dolori sulla terra. Deve scontrarsi con i pregiudizi e le convenzioni sociali, che oppongono ostacoli invincibili ai moti spontanei del suo «cuore», dettati dalla natura; ed è perseguitato dagli altri uomini, perché non segue le convenzioni dominanti. È un perfetto compendio della nozione roussoviana di sensiblerie (sensibilità): l'essenza della superiorità delle anime elette è il «cuore», la capacità di sentire intensamente. Ma c’è anche altro: c’è l’idea che le anime più elevate, capaci di una vita interiore più ricca e profonda, siano di necessità infelici. Avere una sensibilità più acuta è da un lato un privilegio, dall’altro una condanna che rende “diversi”, che isola dalla società e provoca sofferenza. E facile vedere come l’«anima sensibile» per eccellenza sia l’intellettuale, l'artista: e difatti Saint-Preux, che scrive queste parole, è appunto un giovane intellettuale (viene chiamato correntemente «il filosofo»). Vediamo così delinearsi, nella Nuova Eloisa, quel conflitto tra l’intellettuale e la società che sarà poi basilare nella cultura dell’Otto e Novecento, e che vedremo ben presto ripreso e sviluppato nel Werther e nell’Ortis. Nel romanzo roussoviano il conflitto è ancora tra l’intellettuale di nascita borghese ed un mondo aristocratico chiuso nei suoi pregiudizi, e si manifesta come conflitto tra la “naturalità” del sentimento e le convenzioni della società nobiliare che la soffocano. Più avanti nel tempo (già nel Werther) il conflitto sarà tra l’intellettuale e la classe borghese stessa, e sarà un conflitto tra spirito artistico, senso del bello disinteressato, passionalità spontanea da un lato, razionalità calcolatrice ed utilitaristica dall'altro. — Il privilegio spirituale dell’anima sensibile si manifesta nel sentimento d’amore. Ma il raggiungimento dell’oggetto del desiderio è impossibile. In questa esclusione dalla soddisfazione del sentimento si proietta il senso di esclusione dell’intellettuale dalla società, il suo senso di impotenza, l'impossibilità di raggiungere quella collocazione che sente di meritare: la frustrazione sociale si traduce simbolicamente in frustrazione sentimentale. Anche questo motivo tornerà nel Werther e nell’Ortis. — Emerge chiaramente una corrispondenza tra l’io e la natura: il paesaggio diviene la proiezione dello stato d’animo del soggetto. Inoltre l’inquietudine interiore si traduce nel movimento esteriore dell’eroe, che manifesta la sua violenta passionalità aggirandosi febbrile edinstancabile nella natura desolata. É un altro motivo che tornerà nel Werther e nelFOrtis.
La “sensibilità”
Il conflitto intellettualeSocietà
L’amore impossibile
L’io e la natura
PROPOSTE DI LAVORO immuni 1. Rintracciare nel brano riportato le caratteristiche del romanzo epistolare (cfr. M2). 2. Osservare le caratteristiche dello stile: perché vi sono tante proposizioni esclamative? perché l’uso del presente? 3. A quale contesto filosofico rimanda l’espressione «il cuore e la ragione saranno eternamente in guerra in lui»?
4. Verificare se esista una corrispondenza tra lo stato d’animo del personaggio ed il paesaggio.
Neoclassicismo
e Preromanticismo
in Europa:
le premesse settecentesche
30 3. Lo Sturm und Drang
A3. Wolfgang Goethe Nacque nella libera città di Francoforte nel 1749, da famiglia dell’alta borghesia. Compì studi giuridici a Lipsia e Strasburgo, ma si immerse anche in studi esoterici, alchemici e cabalistici e si interessò al panteismo di Giordano Bruno. Negli anni giovanili subì inoltre l’influenza del filosofo Herder, che suscitò in lui l’interesse per Il periodo sturmeriano
A Weimar
Il viaggio in Italia
Il distacco “olimpico”
I romanzi
Il Faust
Shakespeare, Ossian, per l’arte gotica medievale, per la poesia popolare. Fu vicino al movimento dello Sturm und Drang e al suo individualismo titanico. Ne sono esempio la tragedia Goetz von Berlichingen (1771), dedicata ad una figura eccezionale, un condottiero dell’età della riforma, ed il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (1774), che esprime l’impossibilità, per un'anima elevata, d’inserirsi nella mediocrità del mondo borghese. A quest’epoca giovanile, di inquieta ricerca, risale anche la prima stesura del Faust, ancora vicina allo spirito sturmeriano e destinata a subire lunghe e complesse elaborazioni negli anni successivi. Nel 1775, a ventisei anni, fu chiamato nella cittadina di Weimar, capitale di un piccolo ducato, come precettore del giovane duca. Qui Goethe trascorrerà la sua vita, ricoprendo l’incarico di consigliere segreto del duca, e trasformerà la cittadina in una capitale della cultura, ospitandovi grandi personalità come Herder e Schiller, con il quale strinse una fraterna amicizia, cementata anche dalla comunanza di ideali artistici. Il primo periodo weimariano, sino al 1786, vede ancora il persistere della tensione romantica giovanile. Risale a quest'epoca la prima redazione del Measter, romanzo “di formazione” che verrà ripreso in seguito. Nel 1786 si verifica una svolta fondamentale nell'esperienza intellettuale di Goethe: egli compie quel viaggio in Italia che tanto aveva vagheggiato. L'Italia significa per lui la bellezza serena e solare del mondo classico. L'esperienza verrà narrata quarant'anni dopo nel Viaggio in Italia, sulla base di diari e lettere dell’epoca. Il viaggio in Italia segna il passaggio dal titanismo passionale del periodo giovanile ad un ideale di misura intellettuale e sentimentale, “olimpica” e classica. Ne è tipica espressione il dramma Ifigenia in Tauride (1787), in cui domina l’ideale dell’umanesimo, che s’incarna nella missione armonizzatrice e civilizzatrice che è chia| RE i mata a compiere la donna, simbolo della poesia. apprendidi anni Gli goethiani, romanzi i anche collocano In questo periodo si stato di Wilhelm Meister (1797), ripresa e rielaborazione dell’abbozzo giovanile, Le affinità elettive (1809) e Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister (1829). Il Mea ster è il prototipo del romanzo “di formazione” del giovane che, attraverso le sue molteplici esperienze, giunge ad un maturo e consapevole inserimento nella società, ad un equilibrio tra le proprie esigenze individuali e quelle della collettività (cfr. M8). Paragonato coll’infelice e sradicato Werther, Wilhelm Meister dà la misura della svolta l compiuta dalla visione goethiana del mondo. parte del Faust, e prima della definitiva Nel 1808 Goethe pubblica la redazione a a compimento portandol parte, seconda alla lavorare a negli anni successivi continua l autobiografia anche compone periodo questo In morte. dalla mesi nel 1831, a pochi Oltre all’attitalia. TÀ Poesia e verità (1809-14 e poi 1830) e il già ricordato Viaggro in e una Morcolori dei Teoria una vità letteraria, coltiva gli studi scientifici, scrivendo
una forma fologia, in cui espone la teoria che la molteplicità delle forme reali deriva da
N Lr; originaria, attraverso una serie di metamorfosi. tré ottanta di all’età , Weimar a 1832 nel infatti, (morì, a esistenz Nella sua lunga al romanzo, lasciando anni) Goethe sperimentò tuttii generi, dalla lirica alla tragedia
esperienze spiriin ognuno di essi un’impronta incancellabile, ed attraversò tutte le lagrande porse Compre . moderna e cultural tuali di un periodo centrale della storia olimpico esso conservò un tata innovativa del Romanticismo, ma nel confronti di
distacco.
iniziato una fase Egualmente comprese che la Rivoluzione francese avrebbe Goethe
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SE nuova della storia, ma anche verso di essa ebbe un atteggiamento di distacco, a differenza della maggioranza degli scrittori del periodo, che assunsero posizioni appas- — sionatamente favorevoli o contrarie. In questo, pur avendo vissuto la molteplicità di tensioni dello spirito moderno, Goethe si rivela un tipico esponente della società aristocratica del passato.
BM / dolori del giovane Werther Il romanzo, attraverso le lettere indirizzate dal protagonista stesso ad un amico, narra l’amore impossibile e infelice di Werther per Lotte, già promessa ad un altro giovane, Albert. Werther si allontana, trovando impiego al servizio di un ministro in un’altra città. Ma è impossibile per lui adattarsi a quell’ambiente e alle sue convenzioni, e ritorna presso Lotte. Leggendo con lei una sua traduzione da Ossian, capisce che Lotte, che ha ormai sposato Albert, lo ama. Disperato, poco dopo si uccide.
L'artista e il borghese Il passo che segue è una discussione tra Werther e Albert. Werther ha chiesto in prestito all’amico le sue pistole. Albert gli comunica che, per prudenza, le tiene sempre scariche.
Egli! è un uomo così scrupoloso! quando crede di aver detto qualche cosa di precipitato, di generico, di approssimativo, non cessa più di limitare, di modificare, di aggiungere, di levare, finché di tutto quello che ha detto non rimane più nulla. Ed anche durante il nostro discorso non finiva più di chiacchierare: io già non lo stavo più ad ascoltare, stavo dietro ai grilli che avevo per la testa e con un gesto impetuoso d’un tratto mi piantai la bocca della pistola sulla fronte, sopra l’occhio destro. - Ma no! - disse Alberto tirandomi giù la pistola, - che fai? - Se non è carica, — dissi io. - Non importa, perché fai così? — rispose spazientito. - Non riesco a capire come un uomo possa essere così insensato da uccidersi; il solo pensiero mi fa andare in bestia. — Chi sa perché voialtri uomini, - esclamai, - quando parlate di una cosa dovete subito dire: questo è insensato, questo è accorto, questo è bene, questo è male! Che vuol dire? Forse che con ciò avete penetrato gli intimi motivi di un'azione? Potete sviluppare con chiarezza le cause per cui è avvenuta; perché è dovuta avvenire? Se lo aveste fatto, non sareste così pronti a sputare le vostre sentenze. — Mi concederai, - rispose Alberto, - che certe azioni rimangono colpevoli qualunque sia il motivo per cui sono state compiute.
_ Scossi le spalle dandogli ragione. - Eppure, mio caro, — continuai, - anche qui ci sono le eccezioni. E vero, il furto è un delitto; ma l’uomo che ruba per salvare se stesso ed i suoi da un’imminente morte di fame, merita d’essere punito o compatito? Chi osa scagliare la prima pietra contro il marito che in un momento giustificato di ira sacrifica la moglie infedele ed il suo indegno seduttore? Contro la fanciulla che in un’ora piena di ardore si perde nelle irresistibili gioie dell'amore? Persino la nostra legge, i più frigidi pedanti, si commuovono e perdonano.
— Ma questo è un caso tutto diverso, - rispose Alberto, - perché un uomo che si lascia trasportare dalle sue passioni, perde ogni facoltà di giudizio e viene considerato come un ubriaco, come un pazzo. — Oh gente ragionevole! - esclamai sorridendo. - Passione! Ebbrezza! Pazzia! State lì tutti tranquilli, indifferenti, voialtri uomini morali! Biasimate colui che beve, esecrate colui che ha perduto il senno, passate per la vostra strada come lo scriba e ringraziate Iddio come il fariseo che non vi ha fatti simili a costoro. Sono stato ubriaco più di una volta, le mie passioni non sono mai state molto
lontane dalla pazzia, eppure non me ne pento: poiché nel mio piccolo sono riuscito a comprendere che 1. Egli: Alberto. a 2. ringraziate ... costoro: allude alla parabola evangelica (Luca, 18, 9-14).
Neoclassicismo
e Preromanticismo
in Europa:
le premesse settecentesche
39 RS DIne pa compiuto qualche cosa di grande, qualche cosa che varcava a SE pa : sr sono sempre stati diffamati come ubriachi e come pazzi.
n , è una cosa insopportabile sentir gridare dietro a chiunque abbia compiuto un'azione anche solo relativamente ardita, nobile ed inconsueta: quell’uomo è ubriaco, quell’uomo è pazzo! Vergognatevi, gente sobria! Vergognatevi, gente saggia! - Questi sono 1 tuoi soliti grilli, - disse Alberto, — tu esageri sempre, ed almeno qui mi sembra
che tu abbia torto, poiché consideri il suicidio, che è l'argomento di cui si parlava, come una grande
azione: mentre invece non lo si può giudicare niente altro che una debolezza. Senza dubbio è più facile
morire che sopportare coraggiosamente una vita tormentata.
Stavo per Interrompere il discorso; giacché non c’è nulla che mi faccia perdere la calma come vedere venire avanti uno con un luogo comune insignificante, quando io parlo col cuore in mano. Tuttavia mi rimisi subito perché quella frase l’avevo già sentita spesso e spesso m’aveva fatto arrabbiare, e gli ribattei con una certa vivacità:- Tu lo chiami debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dalle apparenze. Un popolo che languisce sotto il giogo insopportabile di un tiranno, merita d’essere chiamato debole se alla fine insorge e infrange le sue catene? Un uomo, che per lo spavento di vedere il fuoco distruggere la sua casa, sente tutte le proprie forze moltiplicarsi e con facilità trasporta pesi che in condizioni normali potrebbe appena sollevare; uno che per il furore d’essere stato offeso combatte contro sei nemici e li vince, può essere chiamato debole? E, mio caro, se un eccesso fisico viene considerato come una forza, perché non lo sarà anche l’eccesso dei sentimenti?* - Alberto mi guardò e disse: — Non te ne avere a male; ma gli esempi che hai citato mi pare che siano completamente fuori posto. — Può essere, — dissi. - Mi è già stato spesso rimproverato che le mie associazioni d’idee raggiungono talvolta il delirio. i . . da I dolori del giovane Werther, traduzione di A. Spaini, Einaudi, Torino 1968
3. forza ... sentimenti: Werther vuole affermare che il sentimento non è sintomo di debolezza, ma di forza e di eroismo. É
un atteggiamento eroico, perché con esso i paragoni, che possono sembrare inconci si ribella ad una condizione di infelicità | grui e che Alberto non capisce. e si conquista la libertà. A questo alludono
ANALISI DEL TESTO L’artista
Si fronteggiano in questo episodio due personaggi antitetici, ciascuno emblematico di
in conflitto
una certa collocazione sociale ed ideologica. Albert è il borghese, l’uomo normale, solido,
con la sua classe
razionale, positivo, anche se limitato; Werther è l’artista, l’uomo eccezionale, il genio, tutto fantasia e cuore, insofferente delle convenzioni sociali, delle idee correnti, delle norme accettate. Al centro dell’episodio è dunque il conflitto dell’artista borghese con la sua stessa classe.
Amore infelice
ed esclusione
La borghesia ha come valore supremo la razionalità, e condanna come pazzia od ebbrezza tutto ciò che esce dalla norma. Nella forza irrazionale del sentimento vede qualcosa di eversivo, di pericoloso per l’assetto morale e sociale vigente. L'artista, al contrario, esalta la forza della passione e vi vede una manifestazione di grandezza d'animo, di nobiltà spirituale, che si oppone al gretto buon senso borghese; e proprio dalla forza del sentimento ritiene che nasca l’arte, la poesia, che quindi gli appare irriducibile al sistema di valori borghesi. Il dramma di Werther scaturisce di qui: pur essendo borghese di nascita, non può identificarsi con la sua classe, perché come artista è portatore di valori antagonistici rispetto ad essa. A questo conflitto, nello sviluppo della vicenda, se ne affiancherà un altro, quello con l'aristocrazia, che per il momento è ancora la classe dominante. Anche la nobiltà, in nome di vecchi pregiudizi di casta, respingerà Werther, proprio in quanto borghese. Pertanto, nell’impossibilità d’inserirsi in alcuna delle classi che occupano la scena sociale, Werther si trova completamente sradicato, escluso dalla società. Il suo amore infelice per Lotte è il modo concreto in cui si manifesta la sua esclusione. Proprio perché è un essere diverso dalla norma, eccezionale, Werther non può amare normalmente, sposarsi, diventare buon
padre di famiglia. Ed il matrimonio, nella cultura borghese di questa età, è il segno per eccelsocietà. lenza dell'avvenuta maturazione del giovane, del suo equilibrato inserimento nella sradiL'esclusione dall'amore felice e dal matrimonio diviene metafora di un più generale camento sociale ed esistenziale.
Goethe
40 Con Werther si affaccia in piena evidenza nella letteratura un tema di sconvolgente novità (già anticipato dalla Nuova Eloisa): la tragedia tutta moderna dell'artista. Una tragedia che è la conseguenza dell'ascesa e dell’affermazione sempre più decisa, già all’interno della società dell’Ancien Régime, della classe borghese, che per la sua stessa natura nega 1 valori artistici del bello disinteressato e tende a ridurre l’arte ad una merce tra le altre sul mercato. Il romanzo di Goethe, nel 1774, centra il problema con mirabile acutezza e preveggenza. Avremo modo di seguirne le manifestazioni e gli sviluppi lungo tutta la letteratura dell’Otto e Novecento. In Italia, questa tematica sarà ripresa ben presto da Foscolo con l’Ortis (a partire dal 1798), e sarà adattata ad un diverso contesto storico e culturale.
T3. PROPOSTE DI LAVORO
La tragedia dell’artista
Munn
1. Dall’osservazione del linguaggio usato dai due personaggi (ad esempio, Werther ricorre abbondantemente alle proposizioni interrogative retoriche, alle esclamazioni; il discorso di Albert è prevalentemente referenziale) ricavare le caratteristiche psicologiche dei due uomini. 2. Werther ed Albert rivelano due diverse concezioni della “pazzia” e della “normalità”: riflettere sul valore attribuito ai due stati dai due personaggi e spiegare per quali motivi è presente tale divergenza. 3. Ricostruire le norme della morale corrente che Werther rifiuta e i principi alternativi a cui si ispira. E
Ina
+ Cfr. La critica, C1
A4. Friedrich Schiller
I masnadieri e la fase
sturmeriana i Il classicismo
Le opere di estetica
Le tragedie
Neoclassicismo
Nato presso Stoccarda nel 1759 da un modesto ufficiale , frequentò l’Accademia militare del Wiùrttemberg, dove studiò giurisprudenza e medicina. Giunse alla fama giovanissimo con un dramma, I masnadieri (1781), che si colloca nel clima culturale
dello Sturm und Drang ed è caratterizzato da un’ansia di libertà senza limiti, dal culto dell’individuo, da tensioni di rivolta totale. Per questo dramma dovette fuggire dalla sua città ed attraversò un periodo inquieto, tormentato anche da difficoltà economiche. Nel 1787 si stabilì a Weimar, la città in cui dominava la grande personalità di Goethe. L'incontro con Goethe fece maturare in lui una svolta verso il classicismo, percorso sempre, però, da tensioni romantiche. L’inno Gli dei della Grecia (iniziato nel 1789), ad esempio, pur esaltando la visione classica della vita, è però colmo di nostalgia per una stagione di pienezza gioiosa ed armoniosa della vita umana, ormai definitivamente perduta. Su influsso della Critica del giudizio di Kant si dedicò anche alla riflessione estetica. Scrisse le Lettere sull’educazione estetica dell’umanità (1795) e Sulla poesia ingenua e sentimentale (1800), in cui propone la distinzione tra la poesia degli antichi, espressione di un rapporto armonico col mondo naturale, e la poesia dei moderni, «sentimentale» perché esprime l’anelito impossibile a quell’armonia. Il concetto, ripreso da Schlegel (cfr. A10), divenne uno dei cardini della visione romantica (in Italia il concetto, mediato attraverso Madame de Staél, fu rielaborato da Leopardi). La fama di Schiller fu però affidata principalmente alle sue opere drammatiche: la trilogia Il campo di Wallenstein (1795-99), Maria Stuarda (1800), La pulzella di Orléans (1800), Guglielmo Tell (1804). Tali drammi furono concepiti da Schiller come espressione di alte idealità, la libertà, la giustizia, il bello e il buono, con intenti educativi ed etico-politici. Morì a Weimar nel 1805. La borghesia tedesca dell'Ottocento vide l’opera di Schiller come veicolo per eccellenza dei propri valori e fece del poeta il “suo” autore, anche a livello scolastico. Oggi, inevitabilmente, la sua fortuna si è alquanto appannata. e Preromanticismo
in Europa:
le premesse settecentesche
41
Sir sn
BH I[masnadieri Il dramma giovanile di Schiller, che nasce dal clima dello Sturm und Drang, presenta alcuni motivi e atteggiamenti che ricompariranno successivamente nella letteratura romantica europea, soprattutto la figura del grande ribelle, il cui fascino eroico deriva dal sovvertimento di tutte le leggi, umane e divine, e dalla scelta del male come mezzo per affermare la propria libertà e grandezza. Si tratta di una tragedia in cinque atti, in prosa, che nella struttura, specie nello sprezzo per le unità classiche, risente dell’ammirazione del giovane poeta per Shakespeare (comune anche al giovane Goethe). Protagonista è Karl Moor, uno studente aristocratico, che conduce vita dissipata e irregolare. Egli esprime al padre il suo pentimento, chiedendo perdono per la sua condotta, ma il perfido fratello Franz carpisce con l’inganno al padre l’autorizzazione a rispondergli e, invece del perdono, manda una lettera dai toni aspri, in cui Karl viene ripudiato e diseredato. L’ingiustizia subita scatena l’impulso di rivolta di Karl contro la società, che già si manifestava nella sua insofferenza per la tirannide e per la mediocrità borghese. Si mette quindi a capo degli studenti suoi compagni, trasformandosi in brigante generoso, con l’intento di riparare soprusi e ingiustizie. Ma ben presto misura la vanità del suo progetto e l’inevitabilità della sconfitta: si rende conto di essere stato folle
a voler migliorare il mondo con delle atrocità. La sua rivolta gli pesa come una maledizione che lo isola dagli uomini e dal creato intero, facendo di lui un reietto. Ma proprio la sconfitta accresce la nobile grandezza della sua figura, che si carica del fascino di Lucifero, il primo grande ribelle, sconfitto nel suo smisurato disegno, ma «maestoso sia pur nella rovina», come si esprime Milton nel Paradiso perduto. Spinto dal bisogno di ritrovare l’innocenza perduta torna al castello paterno, sotto mentite spoglie. Franz nel frattempo ha cercato in ogni modo di vincere la fedeltà di Amalia, la fidanzata di Karl, senza però riuscirvi. Karl scopre in un bosco vicino al castello che il padre, creduto morto per il dolore, è invece tenuto prigioniero da Franz. Il fratello malvagio, terrorizzato dal castigo eterno, sentendo avvicinarsi Karl e i suoi com-
pagni desiderosi di far giustizia, si uccide. Ma anche il vecchio padre muore di dolore vedendo che Karl è divenuto un brigante. Karl, rendendosi conto che non può più riscattarsi e che è indegno di Amalia, la uccide e, per reintegrare l’ordine da lui sovvertito, si costituisce alla giustizia. Il finale pentimento di Karl, piuttosto convenzionale, sembra più che altro una concessione alla censura e al gusto moralistico del pubblico (come ha osservato Ladislao Mittner). Il significato vero della figura dell’eroe va piuttosto cercato nel gesto della ribellione suprema, da cui scaturisce quel fascino che ha fatto del Masnadiere un vero archetipo mitico della cultura dell’Ottocento.
L’archetipo del Grande Ribelle Il passo si colloca agli inizi della tragedia. Vi sì coglie quello stato
d’animo insofferente ed inquieto, da cuì maturerà la rivolta di Karl Moor (Atto I, scena 2°). SCENA SECONDA
Un’osteria ai confini della Sassonia. a una tavola. Karl Moor immerso nella lettura. Spiegelberg beve seduto chini quando leggo nel mio Plutarco! KARL (deponendo dl libro) MI fa schifo questo secolo di scribac | e, le gesta di grandi uomini. ?... Flavio! pe Giusep Leggi beve) e colmo, (gli mette davanti un bicchiere Mei
.
È
rit-
ii spa in nin Parallele, biograVite le per are particol e fie composte per dimostrare analogie differenze fra eroi e grandi personaggi
storici
greci e romani.
2. sine Flavio: Giuseppe Flavio (37 circa - 100 d. C.), storico ebreo liberato da Vespasiano a cui aveva predetto ] impero; divenne protetto dalla famiglia Flavia e ne
assunse il gentilizio. Per capire la battuta
occorre tener presente che Spiegelberg è ebreo.
Schiller
42 KARL La scintilla recata da Prometeo? è spenta; è sostituita con la fiamma del licopodio*, fiamma da palcoscenico, che non è buona ed accendeva una pipa. E tutti costoro saltellano come topi sulla clava di Ercole e si rompono il cervello per capire che cosa ci avesse costui nei testicoli! C’è un abate francese che insegna che Alessandro* era un coniglio; e c’era un professore tisico che, tenendosi sotto il naso una boccetta di sali ammoniacali, svolse un corso sulla forza. Certi poveri diavoli, che svengono quando han fatto un figlio, criticano la tattica di Annibale; ragazzi coll’otite declamano sulla battaglia di Canne, e piagnucolano sulle vittorie di Scipione, se devono esporle... SPIEGELBERG Pianto degno degli alessandrini. KARL Bel premio per ciò che sudaste in battaglia rivivere oggi nel liceo, e che gli studenti sbuffando si tirino dietro la vostra immortalità nella cartella! Bel compenso al sangue versato venir avvolto da un confettiere di Norimberga attorno a un pezzo di pan pepato”, 0, nella miglior ipotesi, venir avvitato sui trampoli da un tragico francese® e fatto muovere coi fili del burattinaio. Ah! ah! ah! SPIEGELBERG Ti prego, leggi Giuseppe Flavio! KARL Puah! puah! questo flaccido secolo di eunuchi, non buono ad altro che a ruminare il passato: a sezionare gli eroi dell’antichità coi suoi glossari e a sconciarli colle sue tragedie. La forza dei suoi lombi si è esaurita e ora ci vuole lievito di birra? per aiutare l’uomo a propagarsi. SPIEGELBERG Il tè, ci vuole, fratello, il tè! KARL Essi sbarrano la via alla sana natura con le più smaccate convenzioni: non hanno il coraggio di vuotare un bicchiere perché devono bere alla salute di qualcuno, leccano il lustrascarpe, perché li rappresenti presso le loro Reali Altezze, e molestano il povero diavolo di cui non hanno paura. Si portano l’un l’altro alle stelle per un pranzo, poi per una coperta che sia stata loro portata via a un’asta pubblica sarebbero capaci di avvelenarsi. Condannano il sadduceo! non abbastanza zelante nel frequentar la chiesa, e davanti all’altare calcolano mentalmente i loro interessi usurai; cadono in ginocchio per poter sfoggiare lo strascico, ma non ritraggono! lo sguardo dal prete per vedere come sia arricciata la sua parrucca; svengono quando vedono svenare un’oca, ma battono le mani quando il loro concorrente se ne va dalla Borsa, fallito... Per quanto io abbia loro stretto la mano supplicando: «Un giorno di dilazione!»! tutto inutile... Cacciatelo in prigione quel cane!... Preghiere, giuramenti, lacrime!... (Pestando il piede a terra) Inferno e maledizione! SPIEGELBERG E così per un paio di migliaia di pidocchiosi ducati... KARL No, non voglio pensarci. Dovrei stringere il mio corpo in un busto e vincolare la mia volontà tra le leggi. La legge ha fatto scadere a incesso di lumaca ciò che sarebbe stato volo di aquila. La legalità non ha mai prodotto un grand’uomo, ma la libertà cova e fa schiudere i colossi e i grandi eventi. I vigliacchi si trincerano nella pancia di un tiranno, fan la corte ai capricci del suo stomaco e sì lasciano sballottare dalle sue flatulenze. Ah, se il genio di Arminio! ardesse ancora tra le ceneri... Immagina un esercito di ragazzi in gamba come me, e la Germania diventerebbe una repubblica in confronto alla quale Sparta e Roma sarebbero conventi di monacelle. (Butta la spada sul tavolo e si alza). da Teatro, traduzione di B. Allason e M. D. Ponti, Einaudi, Torino 1969
3. Prometeo: secondo il mito accolto da Esiodo, Eschilo e Platone, Prometeo, un
Titano figlio di Giapeto e Climene, aveva sottratto il fuoco agli dèi per farne dono agli uomini e favorirli; per questo suo gesto fu condannato a scontare un’atroce pena. Il mito di Prometeo ebbe un grande successo presso i romantici, ispirando il Prometheus, frammento drammatico di Goethe, ed il dramma lirico di Shelley Prometheus unbound (Prometeo liberato). 4. licopodio: pianta dalle cui spighe si ricava una polvere, detta zolfo vegetale. 5. Alessandro: si tratta di Alessandro Magno, il re di Macedonia, passato alla storia per le sue doti di coraggio e lun-
Neoclassicismo
gimiranza politica. 6. degno degli alessandrini: la cultura alessandrina ed i suoi esponenti vengono citati qui come esempio di individui affettati, dal comportamento innaturale ed artificioso. 7. confettiere ... pan pepato: la carta dei libri, in cui sono narrate le imprese degli eroi antichi, è usata dal pasticciere per avvolgere i dolci che vende. 8. trampoli ... francese: gli eroi antichi diventano personaggi del teatro tragico francese, contraddistinto da solennità magniloquente e artificiosa. La letteratura classicistica francese era un bersaglio polemico prediletto dallo Sturm und Drang.
e Preromanticismo
9. lievito di birra: come stimolo all’energia sessuale. 10. sadduceo: seguace del partito politico giudaico e della classe sacerdotale che si opponeva ai farisei. ; 11. ritraggono: distolgono. 12. supplicando ... dilazione: si scaglia contro gli usurai che non gli concedono dilazioni nel pagamento dei debiti. 13. Arminio: capo dell’antica popolazione germanica dei Cherusci, sconfisse le legioni romane nella selva di Teutoburgo; col ridestarsi della coscienza nazionale in Germania, ai primi dell'Ottocento, ebbe larghissimo culto nella poesia.
in Europa: le premesse settecentesche
43 ANALISI DEL TESTO ea
ore
shche caratterizza Karl, come si vede da questo dialogo, è un’ansia di libertà assoluta,
senza limiti, e al tempo stesso un’ansia di grandezza, intesa come infinito potenziamento
di una personalità d’eccezione. Nell’ordine sociale l’eroe individua un limite alla libertà e alla grandezza: perciò ritiene di potersi affermare solo infrangendo l’ordine, calpestando la legge. Il suo sogno superomistico si può realizzare solo nel male. La sua rivolta contro la legge sociale si allarga poi ad una sfida metafisica all’autorità stessa di Dio. La ribellione assume così una fisionomia mitica: sul Masnadiere si sovrappone l’immagine del primo grande ribelle, Lucifero, che si è levato contro l’ordine divino, spinto da uno smisurato orgoglio.
La dimensione
Ed è questa dimensione mitica che eserciterà poi tanto fascino nella letteratura romantica.
mitica
| Ma nella scena sono rappresentate con precisione anche le cause sociali e storiche da cui scaturisce questo impeto di rivolta: l’insofferenza per l’assolutismo e il disprezzo per la grettezza interessata e la passività servile della borghesia nei confronti del potere. Il vagheggiamento del gesto eroico, che sprezza ogni norma e ogni valore costituito, si colora poi di velleità politiche rivoluzionarie, di vaga ispirazione repubblicana. In Karl Moor si esprime perfettamente la rabbia e il ribellismo esasperato dei giovani intellettuali tedeschi alla fine del Settecento. Questo gruppo sociale aveva assorbito dal clima culturale europeo, pervaso dal moto di idee che in Francia costituirà la molla della rivoluzione, l'esigenza di profondi cambiamenti politici e sociali; tale esigenza si scontrava però con la realtà immobile della Germania contemporanea, dominata dall’assolutismo principesco e caratterizzata da una notevole arretratezza sociale, da un’aristocrazia ormai svuotata di ogni funzione, da una borghesia asservita al potere assoluto, immatura per un ruolo dirigente: tutti fattori che escludevano ogni possibilità di azione e di mutamento. La rabbia impotente e la frustrazione dei giovani intellettuali trovavano quindi uno sfogo e una compensazione fantastica in nebulose aspirazioni cosmiche, in sogni di potenza e libertà senza limiti, o nel vagheggiamento di rivolte totali e grandi rifiuti di ogni valore costituito. La pagina dei Masnadieri è un eloquente esempio di come certi atteggiamenti e certi miti propri del Romanticismo abbiano le loro radici nella posizione degli intellettuali in un momento storico in cui i cambiamenti allora in gestazione generavano forti tensioni sociali (cfr. Quadro di riferimento
Le cause storiche della rivolta intellettuale
KI, $2):
PROPOSTE
DI LAVORO
1. Individuare tutti i punti del brano in cui Karl Moor accusa | contemporanei di: a) b) c) d)
debolezza convenzionalismo ipocrisia crudeltà.
2. Quale giudizio sulla legge esprime il personaggio? + Cfr. La critica, C2
a
Schiller
4. La poesia “cimiteriale” inglese A5. Thomas Gray Nacque a Londra nel 1716, da famiglia borghese. Condusse vita appartata e dedita allo studio, a Londra e soprattutto a Cambridge. Fu filologo e studioso dei classici. latini e italiani, ma anche dell’antica poesia celtica e scandinava. A queste letterature si ispirò nelle odi Il bardo (1757) e La discesa di Odino (1761). La sua opera più famosa è l’Elegia scritta in un cimitero campestre (1750). In lui si mescolano l’amore per l’antichità classica e l'interesse romantico per il primitivo, per le remote età barbariche. La mescolanza è caratteristica del gusto della sua età. Morì nel 1771.
Elegia scritta in.un cimitero campestre. Riportiamo la prima parte dell’Elegia, dedicata alle tombe degli. umili nel cimitero di campagna. Nella seconda parte l’autore rappresenta se stesso solitario ed errabondo per la campagna, in preda alle sue inquietudini e alle sue malinconie, e vagheggia la propria sepolè tura, componendo il suo stesso epitaffio. ; L'originale consta di quartine in versi giambici (decasillabi con gli accenti ritmici sulle sedi pari), a rime alternate (ABAB). Nella traduzione sono rese con versi liberi non rimati.
I rintocchi della campana salutano il giorno che muore, l’armento si disperde muggendo per i pascoli, il contadino volge i passi affaticati verso casa, e lascia il mondo alle tenebre e a me. 5
Ora impallidisce la luce fioca del paesaggio, e una quiete solenne regna nell’aria. Si ode solo il ronzio di uno scarabeo che vola intorno e tintinnii! sonnolenti che cullano gli ovili lontani. Dalla torre ammantata d’edera, laggiù,
10
il mesto gufo si lamenta, con la luna,
di coloro che, vagando presso la sua segreta dimora, disturbano il suo antico regno solitario.
15
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1. tintinnii: le campanelle delle pecore rin-
chiuse a sera negli ovili. 2. zolla ... villaggio: sono le tombe del
Gilnitero di campagna.
3. strame: dal tetto di paglia. Neoclassicismo
e Preromanticismo
Sotto quegli olmi dalla ruvida scorza e all’ombra dei tassi dove la zolla si gonfia in tumuli polverosi, steso, ciascuno, per sempre, nella sua angusta cella, dormono i rudi antenati del villaggio?. Mai più li desterà dal loro umile giaciglio il profumo della brezza mattutina, l il cinguettio della rondine dalla capanna di strame?, ilcanto acuto del gallo o il corno echeggiante dei cacciatori.
Non brucerà più per loro la fiamma del focolare, e la massaia non accudirà più alle faccende serali:
né i bimbi correranno ad annunziare balbettando il ritorno del d i
Parriat
; ; [ né più sì arrampich eranno sulle sue ginocchia per
[contendersi il bacio. in Europa:
le premesse settecentesche
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Spesso la messe si arrese alla loro falce spesso il loro aratro infranse le dure zolle: con quanta gaiezza spinsero i buoi aggiogati sui campi! Come si piegarono i tronchi sotto i loro colpi vigorosi!
Non lasciate che l’Ambizione disprezzi la loro umile fatica4 30
le loro gioie semplici” e il loro destino oscuro; né lasciate che la Grandezza® ascolti con sorriso altezzoso
1 brevi e semplici annali” dei poveri.
185
Un'ora inevitabile attende egualmente la gloria del blasone, la pompa del potere, e quanto mai abbiano donato la bellezza e la ricchezza: 1 sentieri della gloria non conducono che alla tomba?8. Né voi, Orgogliosi, imputate a loro la colpa se il Ricordo non eresse alcun trofeo sulla loro tomba,
40 4. umile fatica: nell’originale «utile» (useful). 5. gioie semplici: nell’originale «gioie domestiche» (homely j0ys). 6. Ambizione ... Grandezza: sono personificazioni. Alludono all’atteggiamento altezzoso degli aristocratici verso gli umili. 7. annali: la storia, le vicende. 8. Un’ora ... tomba: tutte le differenze sociali si annullano dinanzi alla morte. È un concetto evidentemente ripreso dalle odi di Orazio, dove torna più volte. 9. trofeo ... lode: nelle chiese, dove sorgevano i monumenti sepolcrali delle famiglie nobili. 10. busto animato: un busto del defunto così somigliante da sembrare vivo. 11. dimora: il corpo. 12. lusinga ... morte?: la lusinga non può blandire la morte, in modo che conceda al defunto di tornare in vita. La morte non sente, ha orecchie deboli e insensibili (fredde). 13. qualche cuore ... vita: nel cimitero campestre giace qualche oscuro contadino che avrebbe invece avuto le doti per divenire grande uomo politico o grande poeta. 14. il Sapere ... tempo: i poveri non ebbero la possibilità di accostarsi alla cultura, in cui è tesaurizzata la tradizione del passato. 15. Le scure ... deserta: è una similitudine implicita: le qualità dei poveri non son potute venire alla luce, come le gemme sepolte al fondo dell'oceano ei fiori che crescono non visti. 16. Il destino ... popolo: il destino ha impedito agli umili contadini di conoscere la gloria dei grandi governanti di popoli. Negli sguardi di ammirazione del popolo il grande vede riflessa la propria storia gloriosa. 17. Non solo ... limitate: la vita oscura ha impedito che brillassero le virtù degli umili, ma li ha anche preservati dalle colpe inevitabili di chi fa la storia.
là dove, attraverso lunghe navate e volte scolpite, l’eco dei canti rende più intense le note di lode?. Possono un’urna istoriata o un busto animato!° richiamare alla sua dimora! il respiro che fugge? Può la voce dell’Onore richiamare in vita la polvere [silenziosa? o la lusinga blandire le deboli, fredde orecchie della [morte?!
45
50
DO
Forse in questo luogo abbandonato giace qualche cuore una volta ardente di fuoco celeste, mani che avrebbero potuto impugnare lo scettro del [comando, o destare l’estasi con la lira vibrante di vita!8. Ma il Sapere non svolse mai ai loro occhi il suo grande volume ricco delle spoglie del tempo". Il freddo della povertà represse il loro nobile ardore e ne gelò in fondo all’anima le vocazioni. Le scure, inesplorate cavità dell'oceano contengono gran quantità di gemme di purissima luce serena: molti fiori nascono per imporporarsi mai visti
e sciupare la loro dolcezza nell’aria deserta”. [ed Il destino impedì loro di comandare l’applauso di docili [senati,
di disprezzare minacce di pene e di tormenti, di spargere l'abbondanza su una terra ridente e di legger la propria storia negli occhi di un popolo’. 65
Non solo fu impedito il rigoglio delle loro virtù ma anche le loro colpe furono limitate; il destino non concesse loro di aprirsi un varco verso il [trono con il sangue, di chiudere le porte della misericordia sul genere umano, Gray
SE
46 di celare a se stessi il rimorso di una taciuta verità,
70
di spegnere i rossori di un ingenuo pudore, di offrire all'altare del Fasto e dell’Orgoglio incenso acceso alla fiamma di Muse venali!8. Lontani dall’ignobile lotta di una folla impazzita,
75
non corruppero mai le loro modeste aspirazioni; lungola valle appartata della vita mantennero il ritmo sommesso del loro cammino.
18. offrire ... venali: divendere lapropria ipotenti. | go poetica per celebrare ispirazione 19. Il loro nome ... popolano: al posto di
3
epigrafi celebrative (fama) o di componi-
menti poetici che piangano il defunto illuvi a race na oso stre a tracciate da mano illetterata, col nome, l’età del defunto e con citazioni della Bibbia, che hanno preparato alla morte il pio contadino. 20. Chi mai ... lacrima: nessuno morendo si rassegna a sprofondare completamente
Tuttavia qualche fragile monumento adorno di rozze rime e di sculture informi, eretto per proteggere anche quelle ossa dalla profanazione, implora dal passante il tributo di un sospiro. 7
;
“at
Il loro nome, i loro anni, sillabati da una musa illetterata, e; dell’elegia fama occupano il c posto della x \ ii sacri testi ai ricorre e la Musa che preparano alla morte l’onesto popolano!?. 85
nella dimenticanza; tutti restano attaccati
alla vita e, per sopravvivere in qualche
modo, si affidano alricordo affettuoso dei vivi, alle loro lacrime. 21. Anche dalla tomba ... fiamme: dalla
Chi mai, in pre da al silenzioso x È a
Obli 0, ‘ql
ha rinunziato al proprio caro trepi o essere,
e ha lasciato i caldi confini ridenti della vita
senza un lungo sguardo di brama e di rimpianto? SR,
‘
:
tomba sembra di udir provenire un grido,
L’anima che se ne va, si affida a qualche petto affettuoso
defunto di continuare a vivere nel ricordo dei suoi. Di questi versi si ricorderà Foscolo nell’Ortis («Geme la Natura perfin nella tomba...»: lettera del 25 maggio) e nei Sepoleri («... il sospiro / che dal tumulo a noi manda Natura»: vv. 49 s).
Anche dalla tomba grida la voce della Natura.
in cui si esprime il desiderio naturale del | 90
e gli occhi che si spengono chiedono qualche pia lacrima?0.
Anche nelle nostre ceneri vivono le loro consuete fiamme”. Traduzione di D. Caminita, in S. Guglielmino, Civiltà letterarie straniere, Zanichelli, Bologna 1976, vol. I
ANALISI DEL TESTO L'inizio dell’Elegia (strofe 1-3) è di tipico gusto preromantico. Elementi caratteristici sono: il morire del giorno, le tenebre che avvolgono le cose, creando un'atmosfera malinconica che predispone alla meditazione sulla morte, il triste lamento del gufo dall'antica torre ammantata di edera, la solitudine della notte. Sulle stesse note è anche impostato il finale, qui non riportato, in cui il poeta evoca la propria figura malinconica e solitaria. La parte centrale del componimento è invece un’esaltazione della vita oscura degli umili. In polemica con la concezione classica ed eroica, che ritiene degno di ricordo solo ciò che è grande ed eccezionale, Gray rivendica il valore di ciò che è umile, semplice, comune. Nei poveri contadini che giacciono nel cimitero campestre c'erano forse potenzialmente le doti di grandi uomini politici, condottieri, poeti. Solo la povertà ha impedito che queste doti venissero alla luce. Questa esaltazione della vita umile ed oscura ha un significato storico importante. Riflette il formarsi di una concezione borghese, nutrita di ispirazione cristiana, che si contrappone alla tradizionale concezione aristocratica e classica, anticipando tendenze che saranno ricorrenti nella successiva letteratura inglese, soprattutto nell’età vittoriana, quando si tenderà ad escludere l’eroico ed a fissare l’attenzione su ciò che è quotidiano e comune.
Neoclassicismo
e Preromanticismo
in Europa: le premesse settecentesche
Il gusto
preromantico
L’esaltazione
degli umili
47 T5. PROPOSTE DI LAVORO ©
genere
elegia
ambiente
cimitero campestre
personaggi
«forti»
ideologia
‘concezione borghese
linguaggio 1. Il confronto è possibile per chi sia in grado di leggere l’elegia nell’originale inglese.
5. L'“ossianismo”
A6. James Macpherson Nato ad Inverness, nelle Highlands scozzesi, nel 1736, maestro di scuola e precettore, nel 1760 pubblicò un volume anonimo, in cui raccolse alcuni frammenti di
I Poemi di Ossian
antichi canti gaelici da lui tradotti, attribuendoli ad un leggendario guerriero e bardo (cantore), Ossian, vissuto nel III secolo dopo Cristo. Il successo di questi canti indusse Macpherson a pubblicare altri volumi negli anni successivi, sino a dare nel 1773 il testo definitivo di ventidue poemi. È oggi assodato che Macpherson utilizzò frammenti di canti della tradizione popolare, dandone libere versioni ed inserendovi passi di sua invenzione. Il successo dei Poemi di Ossian fu immenso in tutta Europa, così come profondo fu il loro influsso sulla letteratura romantica. In Italia furono subito tradotti da Melchiorre Cesarotti nel 1763, esercitando influenza su Alfieri, Foscolo
I temi
e tanti altri poeti. Si tratta di poemetti in prosa lirica, divisi in paragrafi simili a strofe. Narrano storie intricate, dove si mescolano la materia epica e quella sentimentale, le virtù cavalleresche di eroici guerrieri e il destino infelice di varie coppie di amanti. Vi sono paesaggi nordici, cupi e tempestosi, apparizioni di spettri; su tutto aleggia un senso di malinconia desolata. Alla generazione romantica piacquero proprio per il senso di una maestosa semplicità primitiva, per la rievocazione di un suggestivo passato barbarico. Costante fu il paragone con Omero e con la Bibbia.
dai Poemi di Ossian
Daura e Arindal Riportiamo il canto nella traduzione di Melchiorre Cesarotti. Lo stesso Cesarotti così ne riassume l’argomento: «Nel terzo [canto] s'imtroduce Armino, signor di Gorma, a raccontar la morte di Daura e d’Arindallo, suoi figli. Egli aveva promessa Daura ‘in isposa ad Macpherson
48 Armiro, guerriero illustre. Erath, nemico.d’Armaro, travestito venne
sopra un legno a Daura, fingendo d'esser mandato dal suo sposo per condurla al luogo ov’egli stava ad attenderla sopra una rupe cinta dal mare. Condotta Daura colà, e trovandosi tradita, quando già cominciava a insorgere una burrasca, diessi ad alta voce a chiamar soccorso. Arindallo, suo fratello, accorse alle sue grida. Ma giunto nel punto stesso da un’altra parte lo sposo Armiro, e volendo scoccar l’arco contro Erath, colpì inavvedutamente Arindallo. Poscia, salito sul legno per salvar la sua Daura, restò miseramente affogato nella tempesta: e Daura, spettatrice d’una sì atroce tragedia, morì di dolore».
Il Cesarotti traduce la prosa lirica dell'originale in endecasillabi sciolti. La versione fu al tempo molto ammirata e ritenuta persino superiore all'originale. Nei poeti successivi, anche in Foscolo e Leopardi, si coglie l’eco di certe soluzioni stilistiche cesarottiane.
Oh sorgete, soffiate impetuosi, 270
275
280
285. 1. crollate: scuotete. 2. asta: lancia. 8. era ... sguardo: lo sguardo irato del guerriero era cupo e minaccioso come nebbia sulle onde. 4. e negra ... nembo: lo scudo sembrava nera nube nella tempesta. La traduzione di Cesarotti è di regola alquanto libera. Nell’originale si ha qui red cloud, «rossa nube», con effetto molto diverso: evoca qualcosa di sanguigno e sinistro. 5. voto: desiderio (di Armor).
290
Fremette Erasto, ché il fratello ucciso
295
300
dantesca, Purgatorio I, 36; l'originale ha
semplicemente white his lock of age, «bianche le sue chiome per l'età». Più che una traduzione, quella di Cesarotti è una libera amplificazione). 10. ciglio: lo sguardo, l’espressione del volto. 11. figlio della rupe: l’eco.
bello il suo schifo*; la sua chioma antica
gli cadea su le spalle in bianca lista?; avea grave il parlar, placido il ciglio!°. «O più vezzosa tra le donne», ei disse «bella figlia d’ Armin, di qua non lunge sporge rupe nel mar, che sopra il dorso porta arbuscel di rosseggianti frutta. Ivi t'attende Armiro; ed io men venni per condurgli il suo amor sul mare ondoso». Credé Daura, ed andò: chiama, non sente
305.
12. tema: paura.
Neoclassicismo
per la montagna, e tu passeggia, o luna, pel torbid’aere, e fuor tra nube e nube mostra pallido raggio, e rinnovella alla mia mente la memoria amara di quell’amara notte, in cui perdei i figli miei diletti, in cui cadero il possente Arindàl, l’amabil Daura. O Daura, o figlia, eri tu bella, bella come la luna sul colle di Fura, bianca di neve e più che auretta dolce. Forte, Arindallo, era il tuo arco, e l’asta? veloce in campo; era a vapor sull’onda simil l’irato sguardo*, e negra nube parea lo scudo in procelloso nembo*. Sen venne Armiro il bellicoso, e chiese l'amor di Daura, né restò sospeso lungo tempo il suo voto’, e degli amici bella e gioconda rifioria la speme®.
aveagli Armiro”, e meditò vendetta. Cangiò sembianze, e ci comparve innanzi come un figlio dell’onda: era a vedersi
6. speme: speranza. 7.il fratello ... Armiro: Erath odia Armir,
perché questi gli ha ucciso il fratello. 8. schifo: barca. 9. lista: lunga ciocca (è una reminiscenza
venti d’autunno, su la negra vetta; nembi, o nembi, affollatevi, crollate! l’annose querce; tu, torrente, muggi
e Preromanticismo
che il figlio della rupe!!: «Armir, mia vita, amor mio, dove sei? perché mi struggi di tema? il core? O d’Adanarto figlio, in Europa:
le premesse settecentesche
zia aa
49 310
odi, Daura ti chiama». A queste voci, fugginne a terra il traditore Erasto con ghigno amaro. Essa la voce inalza,
315
padre, Arindallo, aleun non m’ode? alcuno non porge aita! all’infelice Daura?» Passò il mar la sua voce; odela il figlio. Scende dal colle frettoloso, e rozzo
chiama il fratello, chiama il padre:
«Armino
in cacciatrici spoglie; appesi al fianco
“320
strepitavano i dardi, in mano ha l’arco, e cinque cani ne seguian la traccia. Trova Erasto sul lido, a lui s'avventa e l’annoda a una quercia; ei fende invano l’aria di strida. Sovra il mar sul legno
balza Arindallo, e vola a Daura. Armiro
giunge in quel punto furibondo, e l’arco
325
330
scocca; fischia lo strale, e nel tuo core, figlio Arindallo, nel tuo cor s’infigge. Tu moristi, infelice, e di tua morte ne fu cagion lo scellerato Erasto. S'arresta a mezzo il remo; ei su lo scoglio cade rovescio, si dibatte, e spira. Qual fu, Daura, il tuo duol!, quando mirasti sparso a’ tuoi piedi del fratello il sangue
per la man dello sposo? Il flutto incalza, 335
spezzasi il legno; Armiro in mar si scaglia per salvar Daura, o per morir; ma un nembo!5 spicca dal monte rovinoso, e sbalza!” sul mar; volvesi Armir, piomba", e non sorge. Sola dal mar su la percossa rupe senza soccorso stava Daura, ed io
340
13. aita: aiuto. 14. cacciatrici spoglie: abito da cacciatore. 15. duol: dolore. 16. nembo: vento tempestoso. 17. sbalza: piomba. 18. volvesi ... piomba: è afferrato da un vortice e si inabissa. 19. querele: lamenti. 20. sol: suole. 21. misero Armino: Armin, il padre di Daura, si rivolge a se stesso. 22. possa: forza. 23. settentrion: il vento del nord. 24. li miro: li vedo. Il padre vede gli spettri di Daura e di Arindal. L'originale è più esplicito: I see the ghosts of my children, «vedo gli spettri dei miei figli». 25. dolce parlando: l’originale ha: They walk in mournful conference together, «camminano in funebre colloquio tra di loro». Cesarotti attenua il carattere lugubre e spettrale della conclusione. 26. leve: lieve.
345
350
355
ne sentia le querele!; alte e frequenti eran sue strida; l’infelice padre non potea darle aita. Io tutta notte stetti sul lido, e la scorgeva a un fioco raggio di luna; tutta notte intesi i suoi lamenti: strepitava il vento, cadea a scrosci la pioggia. In sul mattino infiochì la sua voce, e a poco a poco s’andò spegnendo, come sol” tra l’erbe talor del monte la notturna auretta. Alfin, già vinta da stanchezza e duolo, cadde spirando, e te, misero Armino”, lasciò perduto; ahi, tra le donne è spenta
la mia baldanza e la mia possa” in guerra. Quando il settentrion® l’onde solleva, quando sul monte la tempesta mugge, vado a seder sopra la spiaggia, e guardo
la fatal roccia: spaziar li miro? mezzo nascosti tra le nubi, insieme
360
dolce parlando”. «Una parola, o figli, pietà, figli, pietà!» Passan, né ’1 padre degnan d’un guardo. Sì, Cramòr, son mesto, né leve? è la cagion del mio cordoglio. Macpherson
50 ANALISI DEL TESTO Il passo esemplifica perfettamente il carattere dei poemi ossianici. Notiamo: - Si tratta di una cupa leggenda di amore e di morte, ma vi è anche qualche motivo di I temi ossianici epicità guerriera (il valore di Arindal). - La natura è selvaggia, cupa e tempestosa. - Vi sono apparizioni spettrali che accentuano il carattere patetico della vicenda (anche se, come si è notato, gli aspetti lugubri sono attenuati dalla traduzione di Cesarotti). Il successo dell’operazione di Macpherson testimonia come si diffondesse in Europa il Il culto del
gusto del primitivo, in opposizione al culto della classicità che era stato proprio della tradizione. Ne era un sintomo affine il culto roussoviano per la “Natura”, per tutto ciò che è spontaneo ed originario. Anche Omero veniva letto in questa luce, come esempio di forza e spontaneità primitiva (e vi si associava, nella stessa direzione, la Bibbia). Ossian era ritenuto l’«Omero del Nord». 1 Può essere interessante ricordare che Werther, un eroe romanzesco in'cui si compendiano le più importanti tendenze europee di gusto e di sensibilità alla fine del Settecento, inizialmente, nella cornice serena della natura campestre, legge Omero, ma quando cade in preda dei
primitivo
Werther e Ossian
tormenti del suo amore infelice, si entusiasma per Ossian, e lo sostituisce nelle sue letture al poeta greco. Ed è proprio leggendo l’episodio ossianesco qui riportato che Werther e Lotte, al termine del romanzo, dopo aver pianto lacrime di intensa commozione, si abbandonano al loro trasporto amoroso. La fanciulla ha il presentimento del proposito suicida del giovane: e difatti la sera stessa Werther si uccide.
PROPOSTE DI LAVORO 1. Individuare tutti iparticolariche compongono il quadro naturale. 2. Individuare gli aspetti che richiamano l’idea di una poesia primitiva, barbarica. Analizzare in questa prospettiva sia la storia raccontata, sia il modo di raccontarla.
C È
LADISLAO MITTNER Crisi sociale e crisi cosmica di Werther Il M' ittner ripropone l’interpretazione sociale della crisi di Werther, il destino dell’intellettuale borghese imun mondo aristocratico, ma avverte anche come un’interpretazione sociale non possa essere esaustiva. la crisi sociale dell’eroe e quella cosmico-religiosa si condizionano a vicenda.
L’estatica inattività di Werther è conseguenza e indice di una crisi politico-sociale. C'è in Werther anche un rivoluzionario mancato, un aspirante rivoluzionario. Egli odiai tiranni, si scaglia contro ì pregiudizi dei nobili, condanna l’assurda fossilizzazione burocratica, non sopporta la mortificante ortodossia religiosa. Prima di uccidersi, legge o almeno lascia aperto sul leggio l'Emilia Neoclassicismo
e Preromanticismo
in Europa:
le premesse settecentesche
51 Galotti!, tragedia di una novella Lucrezia che si fa uccidere per non subire la violenza del tiranno. Alla fine del romanzo, proprio nelle ultime due battute tragicamente scarne e cupe, Goethe rafforza a bella posta nel lettore l'impressione che Werther sia veramente un rivoluzionario o almeno una vittima di un ordine sociale antiquato: « Alcuni operai reggevano la sua bara. Nessun sacerdote lo accompagnò».
È sostenitori della tesi che il Werther sia un romanzo sociale, «un destino borghese nello stato assolutistico » (dramma cioè di un borghese troppo consapevole del proprio valore e del valore della borghesia in genere, di fronte alla nobiltà che si andava vuotando di ogni suo valore) hanno un forte argomento a loro favore: Werther parla del suo desiderio e addirittura della sua intenzione di suicidarsi assai prima di aver conosciuto Lotte; il suo suicidio sembra dunque veramente da ascriversi soprattutto al taedium vitae? generato dall’inattività a cui erano condannate le
forze migliori della Germania settecentesca. Tuttavia è evidente che Werther non è un rivoluzionario, ma un isolato asociale; egli soffre a causa delle barriere che inceppano il suo bisogno di libertà, ma si ammira nell’atto che soffre; le barriere sociali costituiscono un comodo pretesto per alimentare il suo vittimismo, e quando parla della distruzione delle barriere che «possono essere sempre infrante», non alla rivoluzione allude, ma al suicidio. Quando decanta il piacere
che prova a conversare con la gente semplice di campagna, si profila subito la figura di una forosetta? o la prospettiva di un ballo rustico; e se lascia precipitosamente la capitale, nelle circostanze che diremo, lo fa per potersi riavvicinare a Lotte. Con ciò naturalmente non vogliamo negare che egli senta dolorosamente ed anche tragicamente la propria situazione di borghese sospeso fra l'aristocrazia ed i contadini. Ma di fronte ad una troppo semplicistica sopravvalutazione dei problemi sociali, vorremmo osservare che nel Werther la crisi cosmico-religiosa e quella sociale si condizionano a vicenda, poiché la mancata conquista cosmica e la mancante, anzi inconcepibile rivoluzione sociale costituiscono un solo circolo. La posizione di Werther è quella degli intellettuali tedeschi nell’attesa febbrile di un rivolgimento sociale che non sarebbero stati essi ad attuare. Preclusa dai governi tirannici ogni possibilità di vera azione politica, gli intellettuali dovevano trovare uno sfogo in sogni, ambiziosi quanto irreali, di conquiste metafisiche o cosmiche; d’altra parte un bisogno, antichissimo nella storia della cultura tedesca, di fantastiche evasioni dalla realtà concorreva, esso medesimo, a creare una concreta situazione sociale di assenteismo e di disinteresse, di cui anche i pochi prìncipi illuminati ed amanti della libertà non potevano non tener conto. L'individuo singolo, isolato nella vita sociale, si rifugiava nel sogno o nella metafisica e trascurava la propria realtà più vicina, la sola realtà che per lui esistesse, la realtà della vita sociale in cui pur doveva vivere; la trascurava o addirittura l’ignorava, perché non aveva né la capacità, né la possibilità di agirvi. da Il «Werther» romanzo antiwertheriano, in La letteratura tedesca del Novecento e altri saggi, Einaudi, Torino 1960, pp. XXVI-XXVII
1. Emilia Galotti: tragedia (1772) di Gotthold Lessing (1729-1781), il più tipico rappresentante dell’Illuminismo tedesco. Nell’antica Roma, Lucrezia, moglie di Collatino,
si fece uccidere per non subire la violenza di re Tarquinio. 2. taedium vitae: noia della vita. 3. forosetta: ragazza di campagna.
LADISLAO
MITTNER La ribellione del Masnadiere
Il critico insiste sullo spirito di ribellione e sullo slancio libertario insito nel dramma schilleriano, che proviene dall’atmosfera dello Sturm und Drang. L ‘atteggiamento moralistico dell autore
verso i delitti dell’eroe è solo una convenzione: la vera sostanza del dramma è l'ammirazione per l’eroe ribelle, per la sua ansia di libertà e grandezza.
Il pathos rivoluzionario della lirica giovanile diventa esplicita polemica nelle prime tragedie a risolutezza e che, inserendosi idealmente nello “Sturm und Drang”, attaccano con accresciut ribellarsi e di di sognano solo non violenza le istituzioni politiche e sociali. Gli eroi di Schiller ardimento loro il politico; e sociale piano reale sul , agire, ma si ribellano ed agiscono veramente migliore la e prima La agire. di capacità loro nella ma volontà, loro rivoluzionario è non più nella ma anche libertaria, foga giovanile la per trionfò (1781), Réiuber! Die giovanili, delle tragedie 1. Die Rauber:
I masnadieri.
La critica
DL per quell’eccezionalissima abilità scenica che, alternando languori e orrori, sfrutta tutte le risorse dell’emozione e della sorpresa. Nell’elenco dei personaggi Karl Moor ed i suoi compagni sono definiti «libertini, poi masnadieri»; questo «poi» contiene il programma rivoluzionarioe l’arditissima novità della tragedia, che sembra condannare il libertinaggio, mentre Schiller in realtà esalta la ribellione. Lo studente stùrmeriano che, simile a Faust, si ribella al morto sapere universitario, diventa con Karl Moor un nobile generoso brigante, [...] come Gòtz?, che da cavaliere ligio all'imperatore è spinto contro la propria volontà a farsi cavaliere predone, onde combattere l’ingiusto ordine sociale. Ma nei Ràuber l’ingiusto ordine sociale è quello della Germania di Schiller, come appare specialmente dalle tragiche vicende di alcuni personaggi secondari. La storia dei personaggi principali [...] è di particolare efficacia, perché moltiplica e potenzia i più tipici motivi stàrmeriani. Il vecchio Moor, conte «reggente» e quindi vero sovrano di una contea che dobbiamo supporre minuscola, ha due figli. Il maggiore è il nobile, ma troppo impetuoso Karl, il minore è il diabolicamente perfido Franz; entrambi amano la cugina Amalia. Falsificando lettere ed ambasciate, Franz ottiene che il fratello maggiore, studente in una città universitaria, sia ripudiato dal padre per la sua supposta vita immorale; non contento di avere ottenuto con ciò il maggiorascato, fa chiudere il vecchio padre infermo in una torre, per farlo lentamente morire. Il motivo dei fratelli nemici è quindi esplicitamente fuso col motivo del parricidio, da cui esso è in fondo quasi sempre indivisibile. Karl dovrà diventare masnadiere per farsi giustizia; quando con i suoi compagni avrà conquistato il castello avito, scoprirà di aver combattuto anche per liberare dalla prigionia il padre creduto morto; scoprirà quindi di essere stato, senza saperlo, campione del principio della legittimità. Ma sarà proprio il padre a condannare il figlio divenuto masnadiere, negandogli la sua benedizione; col che sembra dimostrato ciò che si finge di aver voluto dimostrare, che cioè la ribellione all’ordine sociale è doppiamente delittuosa, perché è anche empia infrazione del dovere etico-religioso dell’ubbidienza filiale. La vera sostanza e la vera morale della tragedia sono diverse. Karl si sarebbe ribellato all’ordine sociale anche se non fosse stato vittima delle infami macchinazioni del fratello; egli si sente infatti troppo pieno di repressa vitalità che le condizioni politico-sociali della sua età non gli permettono di esplicare. Brandisce la spada, anche perché, emulo degli eroi di Plutarco, è assetato di grandezza e sdegna «das tintenklecksende Sàkulum»*, il secolo vile che sa soltanto lordare con le macchie d’inchiostro dei suoi scoliasti le venerande pergamene del passato. L’arcadica alleanza fra giovani e puri amici uniti dal comune entusiasmo religioso e poetico in Schiller si trasforma in una congiura fosca e disperata. Disperata perché nel mondo schilleriano, oltre ai buoni, che per amore di giustizia si stringono intorno al loro capo, vi sono i malvagi, di cui anche i buoni hanno bisogno, dato che il male è inseparabile dall’azione. La novità rivoluzionaria della tragedia consiste nel fatto che la fratria‘ tradizionale dei puri amici diventa una congiura necessariamente impura e con ciò una specie di patto col demonio, che si manifesta nei malvagi, ma che è nascostamente presente anche nell’anima dei buoni. Karl può dominare i malvagi della sua masnada soltanto col terrore; è costretto dalla logica dei fatti a proclamarsi dittatore e ad agire da dittatore - ma lo può fare soltanto perché è dittatore nell’essenza più profonda dell’anima. La stessa logica dei fatti esige che diventi ingiusto per smodato amore di giustizia. Deve permettere che si compiano delitti, sebbene inizialmente lo permetta soltanto per punire i delitti altrui; alla fine dovrà riconoscere che la violenza non genera giustizia, ma violenza e si costituirà spontaneamente ai rappresentanti dell’ordine soprattutto per staccarsi dai suoi compagni malvagi, ai quali è legato da un giuramento indissolubile, per ripudiare cioè il patto di amicizia trasformata in un patto col demonio. [...] La tragedia non è, come spesso si è affermato, una rappresentazione compiuta della Germania dell’età di Schiller (le figure che stanno fuori della ribellione o contro la ribellione sono in complesso stinte, se non false); è invece un’analisi molto lucida e precisa dell’anima rivoluzionaria studiata nelle sue più diverse forme e manifestazioni. Schiller moralista condanna più o meno sinceramente alla sconfitta il suo capo-masnadiere; Schiller drammaturgo osserva, raggruppa e muove i suoi giovani rivoluzionari con la passione, ma anche con lo spirito vigile di chi si sente chiamato ad essere capo rivoluzionario. In tale nascosto rapporto fra il poeta ed i suoi personaggi ribelli si attua, al di sopra di tanti arbitrî strutturali, l’unità del poderoso e faticoso drammone. da Storia della letteratura tedesca. Dal Pietismo al Romanticismo, Einaudi, Torino 1964, pp. 457-460
2A Gotz: Gòtz von Berlichingen è l’eroe dell'omonima tragedia giovanile di Goethe, influenzata dallo spirito dello Sturm und Drang.
Neoclassicismo
e Preromanticismo
in Europa:
3. «das ... Sàkulum»: il secolo di scribacchini. 4. fratria: associazione (anticamente era una sezione delle tribù).
le premesse settecentesche
DI
0 LA —
SCRITTORI ITALIANI DELL’ETÀ NAPOLEONICA
1. Le illusioni del triennio giacobino in Italia. I giornali Necessità di sollevare il popolo Per dare un'idea delle tematiche e del linguaggio della pubblicistica nel triennio giacobino, riportiamo un passo dell’articolo anonimo Necessità di sollevare il popolo (ottobre 1796), dal «Termometro politico della Lombardia», pubblicato a Milano dal giugno 1796 al dicembre 1798, che ebbe ampia diffusione sul territorio italiano e fu orientato în senso indipendentista, unitario e libertario.
Sollevate il popolo, se volete ch’esso proclami la libertà. I tiranni hanno sempre promesso di sollevarlo, ed esso n’è stato sempre deluso. Non vi è legge la più violenta! che non si annunci da loro col proemio di qualche utile pubblico. Ma in realtà, il popolo è stato sempre tradito, di modo che è desso? nel dritto‘ di temere ogni novità, che sotto siffatti proemi gli venga proposta. Voi gli parlate di libertà: voi gli promettete mille vantaggi sotto questo bel titolo. Intanto la famiglia del colono® mangia lo stesso pane muffito sparso delle sue lagrime, e l’abate ed il vescovo scialacqua le rendite de’ poveri, delle quali dovrebbe essere semplice economo®. Gli artigiani ed i piccioli proprietari hanno sofferto il maggior peso della contribuzione, e i ricchi e milionari l’hanno in tutto o in gran parte evitata. Molti travagliono” a servizio del pubblico senza almeno un compenso proporzionato al loro travaglio; e nel tempo stesso si canonizzano* delle persone oziose e sterili, che dovrebbero essere disprezzate, se non punite... A fronte di questo scandaloso contrasto, qual fede presterà
il popolo alle parole lusinghiere di libertà e di eguaglianza? Sollevate il popolo, se volete esser creduti. Dee esser questa la mira del nuovo governo, se non vuole fare aborrire quei titoli sacri, che la filosofia? avea destinati a significare i misteri più rilevanti della natura e della società. Nella ipotesi pericolosa che la miseria del popolo non si diminuisca, anzi
si accresca, chi non fremerà° al solo nome di libertà? chi non sarà tentato almeno di sospettarne e
di abbandonarla? 1. la più violenta: anche assai violenta (francesismo).
2. proemio ... pubblico: colla promessa che sarà di utilità pubblica. 3. desso: esso. 4. dritto: diritto. 5. colono: contadino.
6. rendite ... economo: i beni della Chiesa dovrebbero servire ai poveri ed i prelati dovrebbero solo amministrarli, non sperperarli per il loro godimento. 7. travagliono: lavorano (francesismo, così come subito dopo travaglio). 8. canonizzano: si onorano ufficialmente.
9. titoli sacri ... filosofia: libertà ed eguaglianza, i principi fondamentali della “filosofia” rivoluzionaria. 10. fremerà: in senso negativo, di ripulsa e di orrore. Se la miseria del popolo non diminuisce, si può sospettare che la proclamata libertà sia solo un inganno.
Necessità di sollevare il popolo
du RR IR RA a
UR ee
54. Autorità costituite di Lombardia, deh non vogliate rendere equivoca, se non odiosa, la libertà! A voi non mancano mezzi di farla gustare e presentire al popolo incerto. I patriotti illuminati la conoscono abbastanza, perché l’amino ancora a fronte di! quanti sacrifici ha loro costati il semplice desi-
derio o la rimota speranza di pure ottenerla. Essi sono ancor pronti di sacrificare la vita che loro avanza,
perché possano assicurarne il possesso a’ loro figli, a’ loro amici, a’ loro concittadini. Ma vi priegano solo per il popolo, affinché non avendo lumi bastanti!, possa aver de’ vantaggi forieri dell’annunciata libertà. Perché non pubblicare! i beni di tanti emigrati! che sospirano o preparano un momento di perdervi fra le rovine della patria? Perché non arrestare! quei benefizi che si godono da’ !° vostri concittadini o perfidi o ingrati o indolenti? Dovranno essere dunque ricompensati della loro indolenza 0 perfidia a spese della patria che non servono, o che tradiscono? I tiranni più accorti e più conseguenti non hanno rapito le sostanze di quei patriotti, che sospiravano la libertà del popolo, per destinarle al compenso di quei delatori o carnefici che gli avessero traditi od assassinati? E voi esiterete di rivendicare a vantaggio del popolo le ricchezze, usurpategli da’ suoi ostinati nemici? Con questi mezzi si potrebbe togliere affatto od almeno diminuire le gabelle!” più assurde, il cui peso piomba per ordinario sulla classe più bisognosa del popolo. 11. a fronte di: in confronto a. 12. lumi bastanti: sufficiente cultura per comprendere il principio della libertà. Il popolo per capire la libertà ha bisogno di concreti miglioramenti delle sue condizioni |
di vita. 13. pubblicare: confiscare. 14. emigrati: gli antirivoluzionari (prevalentemente nobili) che sono emigrati all’instaurarsi delle repubbliche giacobine e
cospirano contro di esse. 15. arrestare: sopprimere. 16. si godono da’: sono goduti dai. 17. gabelle: tributi.
ANALISI DEL TESTO L'articolo documenta in modo eloquente il fervore civile e le illusioni del periodo “giacobino” in Italia (che poi andarono incontro a traumatiche delusioni, con l’involuzione dittatoriale e conservatrice del regime napoleonico dopo il colpo di stato del 18 brumaio ed il consolato). L'orientamento è decisamente democratico. La tesi di fondo è che i grandi principi della rivoluzione, libertà ed eguaglianza, restano pure astrazioni, o peggio si trasformano in inganni, se non si traducono in concreti miglioramenti delle condizioni del popolo. Le nuove repubbliche possono vivere solo se riescono a cointeressare alla loro sorte i ceti inferiori. E interessante anche osservare il linguaggio dell’articolo. Mancava in Italia una tradizione ed una pratica di giornalismo politico, per cui, nonostante il pubblico relativamente vasto e differenziato a cui si rivolge, la prosa del passo resta fortemente letteraria, aulica, intrisa di retorica (l’abito letterario è contraddetto tutt’al più dall’uso di francesismi). Ai propositi democratici non corrisponde uno strumento espressivo moderno, di facile e larga penetrazione.
L’orientamento democratico
Il linguaggio
| PROPOSTE DI LAVORO 1. Esaminare il linguaggio del brano riportato (ad esempio cercare termini e costrutti aulici, le figure retoriche).
di Quali ceti costituiscono il «popolo» di cui si parla? (Confrontare con il successivo brano di Cuoco, T12, e verificare se il termine è usato nello stesso significato). 3. Quali sono i nemici contro cui l’articolo si scaglia?
Scrittori italiani dell’età napoleonica
DI 2. La poesia “giacobina” A7. Edoardo Calvo Nato a Torino nel 1773, ed ivi morto nel 1804, Calvo testimonia la partecipazione della borghesia delle professioni al processo rivoluzionario. Giovane medico, aderisce pienamente alle idee “francesi” nella loro forma più radicale. Perciò, in coerenza con 1 suol orientamenti politici, si pone concretamente il problema di una comunicazione reale con i ceti più bassi, che devono essere conquistati alla causa rivoluzionaria mediante un impegno di educazione politica. Ciò non è possibile attraverso la lingua colta e letteraria, ma solo attraverso l’uso del dialetto, la lingua effettivamente usata dai destinatari del messaggio.
Passapòrt d’ij) aristocrat La canzone fu scritta tra il dicembre 1798 e il gennaio 1799, quando
cadeva la monarchia sabauda e si preparava l'annessione del Piemonte alla Francia. E composta da nove quartine di ottonari (rime abab).
5
10
Patriòt republican, còsa feve d’ tanti nòbil? Veule ancor guarneve i mòbil! pi pressios dl vòst tiran?
Patrioti repubblicani, cosa fate di tanti nobili? Volete ancora serbarvi i mobili più preziosi del vostro tiranno?
Veule ancora conservé j assassin ch’ av’ an trucidave, coi ch’av an perseguitave pr podeive sterminé?
Volete ancora conservarvi gli assassini che vi hanno trucidato, quelli che vi hanno perseguitato per potervi sterminare?
Coi istess, ch’ l’ an massacrà tante pòvre creature, con le rove dl viture,
tante povere creature,
galopand pr le contrà??
Coi ch’a piavo vòstre m’asson, 15
vòst sudor, i frut dla tera, ch’av fasìo andé a la guera
pr caprissi e pr’ ambission?
Coi ch’ a guardo i bon paisan com d’ birbe e com d’ canaja; 20
coi ch’ an trato da plebaja coms’i fusso tanti can?
Patriòt a l’è rivà col gran dì, l’ora sicura, 1. mòbil: la nobiltà è metaforicamente assimilata al mobilio che adorna la casa del re.
2. rove ... contrà: è uno spunto polemico
Quelli stessi che hanno massacrato con le ruote delle vetture
galoppando per le contrade? Quelli che pigliavano le vostre messi, i vostri sudori, î frutti della terra, che vi facevano andare alla guerra per capriccio e per ambizione?
Quelli che guardano i buoni contadini come delle birbe e come della canaglia; quelli che ci trattano da plebaglia come se fossimo tanti cani? Patrioti, è arrivato
quel gran giorno, l’ora sicura,
tuo impuro sangue contro la nobiltà derivato dal Parini. Cfr. | /avvolser seco, e del stri-
Il mattino, vv. 1079-1088: «Temi le rote
| che già più volte le tue membra in giro
| corser macchiate, e il suol di lunga
scia, / spettacol miserabile! segnàro».
Calvo
n
a » ® = «
sa
: sa
560 ch’ i dritt dl’ Om e dla Natura a devo esse vendicà!
25
80
pr esse òm, pr assicureve una sòrt indipendent!
Ricordatevi che è momenti sono preziosi per liberarvi; per essere uomini, per assicurarvi una sorte indipendente.
Fin ch’ j avrì col sangh impur? ant ’1regno dl’ uguaglianssa, chité pure la speranssa, podré mai vivre sicur.
Fin che voi avrete quel sangue impuro nel regno dell’uguaglianza, lasciate pure la speranza di poter mai vivere sicuri.
Arcordeve ch’ i moment son pressios per libereve;
Pendie tuit attacà un trav
o tajeje almane la testa: 85
che i diritti dell'Uomo e della Natura devono essere vendicati!
Impiccateli tutti ad una trave o tagliate loro almeno la testa; basta uno, uno solo che resti,
basta un, un sol ch’ a resta, tard o tòst av farà sciavv.
tardi o presto vi farà schiavi. Traduzione di M. Fubini
3. sangh impur: i nobili. L’aristocrazia disprezzava la plebe per il suo sangue
| impuro: Calvo rovescia il disprezzo contro la nobiltà stessa.
|
ANALISI DEL TESTO La canzone ha l’andamento concitato del proclama declamato dinanzi alla folla, o dell’inno di battaglia, come quelli famosi della Rivoluzione francese, la Marsigliese, la Carmagnola, il Ca ira. Non è il poeta borghese e colto in prima persona che si rivolge al popolo: ogni distanza sociale e culturale è annullata, perché l’inno è messo in bocca direttamente ad un ideale popolano, che si esprime nella sua lingua, il dialetto. Una prova inequivocabile di ciò è al v. 19: «coi ch’ an trato da plebaja» («quelli che cè trattano da plebaglia»): il pronome di prima persona plurale indica che chi parla fa parte egli stesso del popolo. In realtà, pur nella forma popolaresca, sono presenti riferimenti ideologici colti: «i dritt dl’ Om e dla Natura», «’l regno dl’uguaglianssa»; l'invito finale a sterminare i nobili, poi, è un’eco diretta delCairarivoluzionario («les aristocrates on les pendra», gli aristocratici li impiccheremo). Viè persino unareminiscenza letteraria: i nobili che correndo all’impazzata con le loro carrozze travolgono la povera gente sono un’eco del Giorno di Parini: e non a caso del Parini più “democratico”, attento al problema sociale. Si ha qui un esempio di letteratura militante, rivoluzionaria, strettamente legata alle Contingenze della lotta politica, agli antipodi quindi rispetto al classicismo arcadico e al neoclassicismo ufficiale e cortigiano. Il confronto con il Monti potrà far misurare tutta la distanza che separa i due mondi culturali. Però non furono queste le forme letterarie che si imposero: fu il classicismo aulico a trionfare e a divenire egemone nell’età napoleonica. La formadell’inno popolare, corale, ritmato e concitato, prevarrà nell’età romantica e risorgimentale.
Chi parla è un ideale Popolano
Riferimenti colti
Una letteratura militante
i 8 PROPOSTA DI LAVORO ® * Riflettere sui motivi che portarono Calvo a scegliere il dialetto per la sua canzone-manifesto. »
Scrittori italiani dell’età napoleonica
3. Il Neoclassicismo cortigiano A8. \Vincenzo Monti \- 2 fT\
I
ve
x
\
. Nato nel 1754 ad Alfonsine di Romagna, studiò in seminario e poi all’università di Ferrara. L'esercizio letterario gli attirò subito la fama e gli valse la protezione di potenti personaggi. Grazie all’appoggio del legato pontificio in Romagna, ottenne una
6
sistemazione a Roma. L'ambiente culturaleromano era impregnato di un neoclassi-
Il periodo romano
cismo conservatore. Monti, subito ricevuto nell’accademia dell'Arcadia, verseggiò in modi arcadici, scrivendo canzonette metastasiane, sonetti, “visioni” ad imitazione del
Varano. Accolse la moda neoclassica nell’ode La prosopopea di Pericle (1779), in cui esaltò le scoperte archeologiche contemporanee e lo splendore del pontificato del papa Pio VI Braschi. Nel 1781 scrisse l’epitalamio La bellezza dell’universo per le nozze di Luigi Braschi, nipote del pontefice: si tratta di un poemetto descrittivo in cui confluiscono suggestioni di vari poeti, il Tasso del Mondo creato e il Milton del Paradiso
La prosopopea di Pericle La bellezza dell’universo
perduto, il Klopstock della Messiade e l’Ovidio delle Metamorfosi, oltre alla Bibbia. Si vede già qui la facilità con cui Monti sa cogliere e amalgamare gli spunti più diversi
in una poesia ricca di colore. Il successo dell’opera gli consentìdi divenire segretario
però anche attento alle di Luigi Braschi e di entrare nelle grazie di Pio VI. Monti fu
mode culturali straniere del momento. Nel 1783, letto il Werther, scrisse gli endecasillabi scioltiAl principe Sigismondo Chigi e i Pensieri d'amore, dove riprese motivi e atteggiamenti del romanzo goethiano, sia pure in forme arcadiche e classicheggianti.
Gli sciolti al Chigi e i Pensieri d’amore
La sua prontezza a cogliere le novità anche cronachistiche è testimoniata dall’ode Al signor di Montgolfier (1784), ispirata ad un esperimento di volo con il pallone aero-
Al signor di Montgolfier
cui si esprime per le conquiste della scienza statico, inun entusiasmo illuministico
e del progresso umano, ma sempre in auliche formeclassicheggianti e mitologiche.
Negli stessi anni sperimentò ancheil teatro tragico, componendo l’Aristodemo (1787)
Le tragedie
e iniziando a lavorare al Caio Gracco (1788-1800). La Bassvilliana
V Il periodo napoleonico î %
Prometeo
-
e
—
tir
Scoppiata la rivoluzione, espresse gli orientamenti ferocemente &ntirivoluzionari) del suo ambiente nella Bassvilliana, un poemetto in cui sono descritti gli orrori rivoluzionari in Francia, in modi che riecheggiano Dante, l’Arcadia lugubre e il Varano, insieme con un certo gusto cupo e orrido di ascendenza preromantica. Ma l’avanzata degli eserciti napoleonici fa comprendere a Monti la necessità di lasciare i vecchi protettori e di cercarne dei nuovi. Nel 1797 fugge da Roma rifugiandosi a Milano. Qui, come era stato cantore del pontificato di Pio VI, diviene cantore della rivoluzione
ed in seguito del cesarismo napoleonico. Del 1797 è il Prometeo, in cui Napoleone
è celebrato come nuovo Prometeo, l’eroe dell’incivilimento. Caduta la repubblica cisal-
pina per l'avanzata degli eserciti austro-russi, si rifugia a Parigi. Tornato in Italia
dopo la vittoria napoleonica di Marengo, riceve la cattedra di eloquenza a Pavia e
L’esaltazione
di Napoleone La traduzione dell’Iliade
danno
MOD
:
“Sg
2.
ostie di SEE
o danno a prezzo anima e brandi all’ire
di tiranni stranieri, o a fera impresa
seguon avido re che :ad innocenti 1 A
‘4
popoli appresta ceppi e lutto a SUol allor concede le Gorgòni a Marte
Pallade®, e sola tien l’asta paterna 5. concede... Pallade: Pallade (soggetto) lascia a Marte le Gorgoni. Le Gorgoni, nella mitologia greca, sono tre dee mo-
struose e terribili, che qui rappresentano la furia devastatrice delle guerre ingiuste, di rapina e di aggressione.
129 6. e sola ... trionfo: tiene solo la lancia di
110:
Giove (simbolo delle guerre giuste) con cui corre dinanzi ai re per difendere la lega-
con che i regi precorre alla difesa
delle leggi e dell’are, e per cui splende
lità elareligione (are) violate, e grazie alla
a’ magnanimi eroi sacro il trionfo®.
quale risplende sacro il trionfo degli eroi magnanimi (che combattono per difendere patria, libertà, giustizia). Foscolo distingue
Poi nell’isola sua fugge Minerva,
dunque guerre ingiuste, quelle aggressive,
e tutte Dee minori, a cui diè Giove
| 115
e guerre giuste, quelle intese a difendere | i valori più sacri.
studio ammaestra?”:
e quivi casti i balli,
quivi son puri i canti, e senza brina 1 fiori e verdi i prati, ed aureo? il giorno
. 7.etutte Dee... ammaestra: ammaestra
ad ogni gentile occupazione tutte le dee
minori (le Ore, le Parche, Iride, Flora, Psiche, le Muse) a cui Giove assegnò il compito di esserle alunne. Pallade è la dea delle arti e dell’intelligenza. 8. aureo: pieno di sole.
d’esserle care alunne, a ogni gentile
sempre, e stellate e limpide le notti. p
ANALISI DEL TESTO Mondo ideale e realtà storica
Poesia e incivilimento
Il passo può servire a confermare le conclusioni tratte dall’analisi di quello precedente. Il vagheggiamento di un mondo mitico e ideale, dove trionfano l’armonia e la bellezza, le arti gentili e isentimenti più misurati e sereni, non appare come evasione consolatoria, abbandono ad un desiderio di oblio e rifugio in un puro sogno, ma conserva un termine di riferimento nella realtà storica. L’isola beata si contrappone polemicamente ai momenti più cupi della storia contemporanea, le stragi del Terrore, l’asservimento a Napoleone di vari paesi europei, la guerra aggressiva contro la Russia, visti come manifestazione ricorrente di una costitutiva ferinità dell’uomo. Il vagheggiamento di un oltremondo ideale suona come fermo giudizio su quella realtà ed esprime l’aspirazione ad un mondo più umano, fondato sulla gentilezza e la pietà (Masiello). E un’aspirazione che non è del tutto utopica. Certo, quel mondo immune dagli orrori della storia è un’alternativa irraggiungibile, ma esso si offre come ideale punto di riferimento per operare nella realtà, al fine di combattere gli istinti feroci e salvaguardare la civiltà. Lo strumento per eccellenza di questo impegno è per Foscolo la poesia, che deve diffondere il culto della bellezza, della gentilezza, della pietà. Egli ha fiducia (come afferma nella Dissertazione di un antico inno alle Grazie) che la poesia sia «sollecita del miglioramento e del perfezionamento della vita sociale», che possa dare, cioè, un contributo essenziale all’incivilimento. Per la presenza di questo impegno civile, il culto foscoliano della bellezza appare dunque molto lontano da quell’estetismo evasivo ed estenuato che apparirà a fine Ottocento, come approdo della crisi del ruolo intellettuale nella società borghese (anche se proprio in questa età le Grazie, lette in chiave estetizzante, saranno rivalutate: cfr. in questa stessa parte, La critica).
PROPOSTE
DI LAVORO
1. Analizzare la sintassi ed il ritmo del verso nei due diversi momenti del passo, quello dedicato alla storia attuale e quello dedicato all’isola beata: quali differenze risaltano? In quale rapporto stanno tali differenze con i diversi motivi trattati? Anche il lessico è diverso: individuare i termini che caratterizzano il primo momento descritto e quelli che caratterizzano il secondo. 2. Individuare tutti i riferimenti alla realtà storica contemporanea a Foscolo presenti nel passo.
3. Riflettere di quali valori sono depositarie «Minerva e tutte Dee minori», tenendo anche presente il passo precedente.
4. Si possono riscontrare delle analogie tra l’isola di Atlantide e quella di Zacinto?
Le Grazie
Il velo delle Grazie
1. Mesci: intreccia. A parlare è Erato, la musa del bel canto, che detta a Flora le
figure del ricamo. 2. odorosa: profumata, in quanto Flora è la dea dei fiori. 3. rosee le fila: i fili sono di colore rosa perché è rappresentata la giovinezza. 4. ardita: la giovinezza balla con sicurezza, fiduciosa nel futuro.
C)percote ... il Tempo: il te
i-
Nel regno di Atlantide, Pallade affida alle dee minori sue alunne il compito di tessere un velo alle Grazie; un velo così trasparente, chiarisce Foscolo nella Dissertazione, «che non pur non asconde, ma neanche adombra le bellissime forme; e a guisa di amuleto invisibile le difende dal fuoco delle passioni divoratrici». Sul velo spicca un ricamo, «fatto di gruppi, che rappresentano la gioventù, l’amor coniugale, l’ospitalità, la pietà,filiale e la tenerezza materna». Le fila dell’ordito sono tratte dai raggi del sole e adattate al telaio dalle Ore; Psiche tesse, Iride dà i colori «e Flora li moltiplica in mille varietà di tinte e figure, di che eseguire dl rigggno, che Erato le detta cantando».
ficato) percuote con frequenti colpi la sua antica cetra (il plettro è propriamente lo
strumento con cui si toccano le corde della cetra; è una sineddoche, la parte per il tutto). Il tempo inesorabile segna il passare delle ore nella vita degli uomini. 6. la danzante ... risale: la collina (clivo) rappresenta la vita che non può essere rivissuta. 7. Le Grazie ... ghirlande: le Grazie fanno sorgere ai piedi della giovinezza fiori con cui essa intreccerà ghirlande per adornarsi. I fiori alludono alle gioie dell’età giovanile. 8. e quando ... fiori: «quando i tuoi biondi capelli diventeranno grigi, e non potrai più chiamarti giovinezza, i fiori continueranno a vivere»: il ricordo delle gioie giovanili conforterà la vecchiaia.
Mesci! ,odorosa? Dea) rosee le fila*;
e nel mezzo del velo ardita‘ balli, 155
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165
enere, la deadell'amore.
P
15. tortorelle: :simboleggiano ii due sposi. 16. mormorando ai baci: tubando mentre si baciano. 17. mirale ... rosignuol: nascosto le guarda un usignolo (simbolo della poesia). 18. imenei: inni nuziali che celebrano l’amore degli sposi. 19. vereconde: pudiche (l’amore coniugale deve essere casto e riservato). 20. madre dei fior: Flora. 21. lauri: l'alloro rappresenta la gloria; qui si addice al guerriero vittorioso. 22. erri ... sogno: sull’altro lato del velo è raffigurato un sogno fatto all’alba (dèll’alba il sogno: il complemento di specificazione è anteposto, alla latina) che vaga recando
Foscolo
vivran que’ fiori8, o Giovinezza, e intorno i l’urna funerea spireranno odore?.__ . FLORA nivee!! le fila; Or mesci, ‘amabil Dea
e ad un lato I
rea sorga
dal lavor di tue dita!; escono errando
9. e intorno ... odore: i fiori, immagini di
vita e di gioia, addolciscono l’immagine funerea della morte. Sono il ricordo che mantiene in vita il defunto nella memoria dei suoi cari (cfr. Sepoleri, vv. 39-40, 124-129). 10. amabil Dea: Erato si rivolge sempre a Flora. LE, nivee: il colore niveo dei fili si addice alla purezza dell’amor coniugale, qui raffigurato nel ricamo. 12. Espero ... dita: ricamato dalle dita di Flora, da un lato del velo si delinea Espero, la stella della sera. 13. fra l’ombre ... raggi: fra le ombre notturne e i raggi della luna. 14) mìrteo: di mirti. Il mirto erasacro a
canti fra] coro delle sue speranze Giovinezza: sto impo", tocchi mpo?; e la danzante antico un plettro i discende un clivo onde nessun risale. Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori, a fiorir sue ghirlande”: e quando il biondo crin t'abbandoni e perderai ’1 tuo nome,
170
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fra l’ombre e i raggi! fuor d’un fa d bosco due tortorelle!* mormorando ai baci mirale occulto un rosignuol!, e ascolta silenzioso, e poi canta imenei!8: fuggono quelle ver vereconde!° al bosco. RA
Mesci, madre dei fior?a iti lefila; Proc: ene Se] e sul contrario lato erri co’ specchi dell’alba il sogno”; e mandi a le pupille sopite del guerrier miseri i volti? de la madre e del padre allor che all’are
recan lagrime e voti; e quei si desta, e i prigionieri suoi guarda e sospira”. 180
Mesci, o Flora gentile, oro” alle fila; e il destro lembo istoriato esulti d’un festante convito”: il\Gènio in volta prime coroni agli esuli le tazze |
rino pe“
( n°) Je
specchi che riflettono nella mente del dormiente vere immagini delle cose. Gli antichi ritenevano veritieri i sogni fatti all’alba. 23. e mandi ... volti: il sogno susciti agli occhi assopiti del guerriero i volti angosciati dei genitori quando si recano a piangere e a pregare sugli altari (per la vita del figlio in guerra). 24. i prigionieri ... sospira: l’immagine dei genitori che temono per la sua vita rende il guerriero vittorioso più pietoso verso i suoi prigionieri, al pensiero che anch'essi
f
o
oa
3
hanno genitori lontani in ansia per loro. 25. oro: simboleggia la ricchezza e la festosità del convito. 26. il destro ... convito: sul lato destro del velo sia raffigurato un esultante, festoso convito. © il Genio . .. tazze: il Genio (la divinità che protegge l’ospitalità) girando fra i convitati (in volta) incoroni per prime le tazze degli esuli (durante i conviti era uso presso i Greci incoronare di fiori le tazze degli ospiti in segno di buon augurio).
151 28. Or libera ... lode: nel banchetto la gioia sì manifesta
liberamente,
il biasimo
è
espresso in modo amabile e scherzoso, la lode è sincera (candida). | 29. A parte ... soglie: la personificazione | del silenzio sta a significare la discrezione che deve regnare nelle conversazioni conviviali, per cui quanto si dice non esce dalla sala. Ciò crea confidenza tra i convitati. 30. cerulee: azzurro chiaro; è un colore mesto, intonato alla scena raffigurata. 31. e pinta ... veglia: il lembo estremo del velo rechi raffigurata una donna che veglia sola nell’ombra e nel silenzio della notte (sulla. culla del figlio). 32. nutre ... lampa: alimenta una lampada. 33. teme ... morte: teme che i vagiti del suo primo bambino siano preannuncio di morte (teme non: è il costrutto latino del verbo temere). 34. errore: il timore della madre è infondato. 35. agl’infanti ... eterno: la madre che teme la morte del figlio non sa che la morte è provvida per i neonati, perché li preserva dai dolori della vita. Qui Foscolo riprende
185.
Or libera è la gioia, ilare il biasmo, e candida è la lode. A parte siede bello il Silenzio arguto in viso e accenna che non volino i detti oltre le soglie??. Mesci cerulee?®, Dea, mesci le fila;
e pinta il lembo estremo abbia una donna che con l’ombre e i silenzi unica veglia”; 190 nutre una lampa* su la culla, e teme non i vagiti del suo primo infante sien presagi di morte; e in quell’errore** non manda a tutto il cielo altro che pianti. “Beata! ancor non sa quanto agl’infanti 195 provido è il sonno eterno”, e que’ vagiti presagi-son-di dolorosa vita”. un tema caro al pessimismo greco, ripetuto più volte dagli antichi poeti lirici e tragici: è meglio per gli uomini non essere mai nati, o appena nati morire al più presto. 36. que’ vagiti ... vita: ivagiti del bambino sono presagi delle sofferenze che dovrà patire in futuro. E una reminiscenza da
Lucrezio, altro poeta dal cupo pessimismo (De rerum natura, V, vv. 226-227: «vagituque locum lugubri complet, ut aequumst | cui tantum in vita restet transire malorum», [il neonato] riempie i luoghi di lugubri vagiti, come è giusto, per chi dovrà patire nella vita tanti mali).
ANALISI DEL TESTO L’armonia
La temperanza di gioia e dolore
I sentimenti
gentili
Il messaggio che Foscolo affida alle simbologie del velo delle Grazie è complesso e contiene in sé la summa dei significati del poema. Il velo rappresenta l’ideale dell'armonia. Essa consiste innanzitutto in quel distacco sereno che mitiga la forza delle passioni troppo brutali e le purifica (il velo, dice Foscolo, deve difendere le Grazie «dal fuoco delle passioni divoratrici»). Ma essa è anche quel superiore equilibrio che sa temperare l’eccessiva gioia e l’eccessivo dolore che si presentano nella vita dell’uomo. «Smodata gaiezza e dolore profondo sono ignoti alle Grazie»: queste ricordano all’uomo che è stato affidato «alle alterne cure del piacere e del dolore» (Dissertazione); ed ancora, nell’inno secondo, il poeta afferma che le armonie della musica ricordano «come il ciel l’uomo concesse / alle gioie e agli affanni [...]/ e come alla virtù guidi il dolore / e il sorriso e il sospiro erri sul labbro / delle Grazie». L’armonia è dunque non solo concetto estetico, ma anche etico. Questa ideale temperanza di gioia e dolore è espressa dall’alternarsi delle varie figurazioni del velo: a zone dove prevalgono temi lieti (le due tortorelle innamorate, il convito festante) succedono zone dove dominano temi cupi e dolorosi (il sogno del guerriero, la madre che veglia il fanciullo malato). Ma questa alternanza si presenta anche all’interno delle scene stesse: alle speranze della giovinezza si mescola la consapevolezza del suo sfiorire; col trionfo del vincitore si fondono sia l’immagine della sconfitta e della schiavitù sia la coscienza del precario limite che divide la vita dalla morte; la festosità del convito è temperata dalla presenza degli esuli; la tenerezza materna evoca l’immagine pessimistica del destino inevitabilmente doloroso che attende l’uomo. Ne emerge un ideale di equilibrata saggezza, che Foscolo attinge soprattutto dalla cultura greca: un saper godere serenamente le gioie della vita, senza dimenticare la sua fugacità e i dolori di cui è intessuta, e l'approdo finale della morte. Proprio questo equilibrio sereno è la negazione di quella passionalità feroce e violenta che è insita nella natura ferina dell’uomo. All’equilibrio che purifica da quegli istinti guida appunto la civiltà. Le raffigurazioni del velo sono anche la celebrazione dei sentimenti gentili e delicati che della civiltà devono essere il fondamento, e offrono la garanzia di una vita più umana: la purezza dell’amore, l'affetto filiale e la pietà per i vinti, l'ospitalità, la fiducia reciproca tra gli uomini, la tenerezza materna. Nella descrizione del velo culmina perciò la tematica centrale del poema. Le Grazie
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L’ideale dell’armonia si riflette nella struttura fonica, ritmica e sintattica del discorso poetico. Si può osservare come campione la prima scena (vv. 153-163): livello fonico: la raffigurazione della giovinezza nel momento più lieto vede un ricorrere costante delle vocali aperte /a/, soprattutto nelle sedi toniche: «ardita balli, / canti fra ’l coro delle sue speranze»; predominano inoltre le consonanti liquide e sonanti («balli», «canti» «speranze», «danzante»): l’effetto è di luminosità gioiosa e di musicalità; livello ritmico: sono versi dal ritmo estremamente sciolto e scorrevole, poiché sono rare le pause e le cesure interne: sei versi su undici ne sono del tutto privi (vv. 154, 155, 158, 159, 161, 163); e, si badi, la scorrevolezza del ritmo non scompare neanche quando vengono introdotte le note meste del declinare della giovinezza e della morte («discende un clivo onde nessun risale»): è il segno stilistico di quella temperanza di gioia e mestizia di cui si diceva. Vi è bensì un forte enjambement («giovinezza» all’inizio del v. 156), ma esso non ha la funzione di spezzare il ritmo, bensì solo di segnare un culmine del movimento lirico-musicale, mettendo in pieno rilievo ritmico-sintattico la parola chiave; lo stesso vale per «la danzante» al termine del v. 157. (Unica eccezione è l’enjambement dei vv. 160-161, «biondo // crin», che sembra sottolineare la separazione del colore biondo della giovinezza da quello dei capelli). Inoltre la successione degli accenti ritmici è quanto mai varia e modulata, contribuendo ad accrescere il senso di armonica musicalità. Suggeriamo solo lo schema dei primi quattro versi: 18-48-72-10? sillaba 3*-62-82-10* sillaba 18-42-82-10? sillaba 3°-62-82-10? sillaba Come si vede, non vi sono due versi consecutivi che presentino lo stesso schema; livello sintattico: sono riconoscibili calibratissime simmetrie: vv. 154-155: si noti la costruzione perfettamente simmetrica, complemento di luogo + verbo al v. 154, verbo + complemento di luogo al v. 155 («nel mezzo del velo»-«balli», «canti»-«fra ’1 coro»); vv. 156-157: il soggetto, «giovinezza», è collocato al termine del periodo e all’inizio di verso; il corrispettivo soggetto del periodo seguente, «la danzante», è all’inizio di periodo e a fine verso; il v. 158 è aperto e chiuso da due verbi di senso opposto («discende», «risale»).
Il livello fonico
Il livello ritmico
Il livello sintattico
26 PROPOSTE DI LAVORO | 1. Tenendo presente le indicazioni fornite nell’analisi del testo, proseguire l’analisi stilistica rispetto al livello fonico, ritmico e sintattico per il resto del passo. Individuare anche le figure retoriche. . Individuare il significato delle alternanze tematiche presenti tra scena e scena e all’interno delle singole scene. . Riflettere sulla funzione attribuita al «velo».
. Confrontare la funzione attribuita alla poesia nei Sepolcri e nelle Grazie. qa CO UN . Dalla
lettura complessiva dei passi riportati da Le Grazie quali osservazioni si possono fare a proposito dell’evasività del poema? (Cfr. C7).
+ Cfr. La critica, C7
Foscolo
153 dalle Notizie intorno a Didimo Chierico
Didimo Chierico, l’anti-Ortis Pubblicando la sua traduzione del Viaggio sentimentale dell’inglese Laurence Sterne, nel 1813, Foscolo l’attribuì ad un personaggio immaginario, Didimo Cmerico, di cui nella Notizia aggiunta alla tradu-
zione tracciò il ritratto. Didimo era il nome di un grammatico delV’età ellenistica; con esso Foscolo sembra alludere ironicamente alla
propria erudizione filologica; «chierico» deriva dal fatto che il personaggio era stato avviato da fanciullo al sacerdozio, senza poi però assumere gli ordini sacri, ed allude forse alla sacralità della figura del
letterato, «sacerdote» della poesia. —
XII. Ora dirò de’ suoi costumi esteriori. Vestiva da prete; non però assunse gli ordini sacri, e si
faceva chiamare Didimo di nome, e chierico di cognome; ma gli rincresceva sentirsi dar dell'abate. Richiestone, mi rispose: La fortuna m’avviò da fanciullo al chiericato; poi la natura mi ha deviato dal sacerdozio!: mi sarebbe rimorso l’andare innanzi, e vergogna il tornarmene addietro: e perché io tanto quanto disprezzo chi muta istituto di vita, mi porto in pace la mia tonsura e questo mio abito nero: così posso o ammogliarmi, o aspirare ad un vescovato. Gli chiesi a quale de’ due partiti? s’appiglierebbe. Rispose: Non ci ho pensato; a chi non ha patria non istà bene l'essere sacerdote, né padre. Fuor dell’uso? de’ preti, compiacevasi della compagnia degli uomini militari. Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se taluno (com’oggi s’usa) professavasi cosmopolita, egli si rizzava‘ senz’altro. S’addomesticava alle prime*; benché con gli uomini cerimoniosi parlasse asciutto; ed a’ ricchi pareva altero: evitava le sette e le confraternite$; e seppi che
rifiutò due patenti” accademiche. Usava* per lo più ne’ crocchi delle donne, però ch’ei le reputava più liberamente dotate dalla natura dicompassionee di pudore; due forze pacifiche le quali, diceva Didimo, 5 giuesle temprano sole tutte le altre forze querriere® del genere umano. [...].
XIII. Dissi che teneva chiuse le sue passioni: € quel poco chene traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale, per cui l’uno si attacca all’altro l’aveva già data a que’ pochi ch’erano giunti innanzi!. Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m’accorsi mai ch'egli avesse fiducia ne’ giorni avvenire o che ne temesse. Chiamavasi
molto obbligato a un Don Iacopo Annoni curato, a cui Didimo aveva altre volte servito da chierico nella parrocchia d’Inverigo!!: e stando fuori di patria, carteggiava! unicamente con esso. Mostravasi gioviale e compassionevole, e benché fosse alloramai intorno a’ trent'anni, aveva aspetto assai giovanile; e forse per queste ragioni Didimo tuttoché!* forestiero, non era guardato dal popolo di mal occhio, e le donne passando gli sorridevano, e le vecchie si soffermavano accanto a una porticciuola a discorrere seco, e molti fantolini, de’ quali egli si compiaceva, gli correvano lietissimi attorno. Ammirava.
assai; ma più con gli occhiali, diceva egli, che coltelescopio!‘: e disprezzava con taciturnità sì sdegnosa da far giusto
e irreconciliabile
il risentimento degli uomini dotti. Aveva per altro il compenso di non
1. La fortuna ... sacerdozio: l’avvio alla carriera ecclesiastica proveniva da spinte esterne, non da vocazione; la sua natura lo aveva poi allontanato dal sacerdozio. 2. due partiti: ammogliarsi o aspirare al vescovato.
8. Fuor dell’uso: contrariamente alle abitudini. 4. si rizzava: si alzava dal tavolo allontanandosi. Indica l’avversione agli atteggiamenti cosmopoliti e l'attaccamento alla patria. 5. S’addomesticava alle prime: era facil-
mente disponibile a far conoscenze. 6. sette ... confraternite: le consorterie chiuse, specie quelle in cui amano riunirsi i letterati. 7. patenti: titoli. 8. Usava: frequentava 9. guerriere: aggressive, violente. ]10. la colla ... innanzi: vale a dire, ha pochi veri amici, di antica data. 11. Don Iacopo Annoni ... Inverigo: sacerdote amico di Foscolo. Inverigo è un paese della Brianza, non lontano da Milano.
12. carteggiava: teneva un rapporto epistolare (carteggio). 13. tuttoché: benché. 14. più con gli occhiali ... telescopio: era più interessato alle cose vicine, comuni, che non a quelle lontane, rare ed eccezionali. 15. da far ... irreconciliabile: da attirarsi a ragione e in modo non conciliabile il risentimento dei letterati. Vi è probabilmente un'eco delle recenti polemiche con l’ambiente letterario milanese, contro cui scrisse l’Hypercalypsis.
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Notizie intorno a Didimo
Chierico
patire d’invidia, la quale in chi ammira e disprezza non trova mai luogo. E' diceva: La rabbia e il disprezzo
sono due gradi estremi dell’ira: le anime deboli arrabbiano; le forti disprezzano: ma trasto e beato chi
non s’adiral!*.
XIV. Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua naturale!”, s'accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana!*. E forse aveva più amore che stima per gli uomini; però non era orgoglioso né umile. Parea verecondo!, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso, perciò parea libero. Quanto all’ingegno, non credo che la natura l’avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma l’aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti; e quel tanto che produceva da sé, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso per avventura?° quell’esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare?! i metodi delle nostre scuole. Inoltre sembravami ch’egli sentisse non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca” si desume quanto meritamente si vergognasse della sua giovanile intolleranza. Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare che di toccare la meta. Queste a ogni modo sono tutte mie congetture. 16. ma tristo ... adira: la massima è molto densa ed oscura. Forse il senso è: chi non si adira è felice, perché non turba la sua serenità, ma anche miserabile, perché non prova sdegno magnanimo contro ciò che è vile e indegno.
17. governare ... naturale: guidare dalla propria indole naturale, abbandonandosi alle passioni spontanee. 18. prudenza mondana: la cautela richiesta dai rapporti sociali. 19. verecondo: misurato.
20. per avventura: forse. 21. censurare: criticare, condannare. 22. operetta greca: Foscolo finge di aver ricevuto da Didimo delle memorie manoscritte in greco.
ANALISI DEL TESTO
.
Con Didimo Chierico Foscolo propone di se stesso una nuova maschera, dopo quella di Jacopo Ortis. Ma diverso è innanzitutto il punto di vista da cui si pone dinanzi ad essa: come ha notato Fubini, con Ortis Foscolo parlava in prima persona, si confessava direttamente; con Didimo invece parla in terza persona, come se si riferisse ad un estraneo: il nuovo personaggio non è più strumento di una confessione immediata, ma di un tentativo di vedersi con distacco, da una prospettiva estraniata. Ciò si confà alla nuova condizione intellettuale di Foscolo. Ortis era un personaggio estremo, che toccava il fondo della passionalità e della
cene
disperazione nichilistica; perciò, come si è visto, la sua morte era come un sacrificio libera-
ni ssaa
torio che consentiva allo scrittore di proseguire per altre vie. A quella passionalità subentra un più lucido distacco, un più sicuro dominio. Per questo Didimo è stato definitonn un anti_—— Ortis (Fubini). A dire il vero, Didimo conserva gli ideali dell'eroe giovanile: l'amor dipatria
sons sex sw
(si allontana sdegnato se qualcuno si proclama cosmopolita e soffre lacondizione di esule chelo esclude dalla normalità della vita), il senso fiero della propria indipendenza e libertà, il disdegno per la viltà e la bassezza d’animo. Ma tende a dominare le passioni; quel poco
———che ne traspare sembra «calore di fiamma lontana». Si vergogna della «giovanile intolleranza» e non si abbandona più alla forza della sua indole naturale, ma si adatta alle esigenze della «prudenza mondana». Non si può dire tuttavia che sia approdato ad un’olimpica saggezza: è «più disingannato che rinsavito», non ha fiducia nell’avvenire, anche se non ne ha paura; si adatta sì alla prudenza mondana, ma «sensa fidarsene». Sente ancora, come Ortis, una «dissonanza nell’armonia delle cose del mondo», ma invece di contrapporsi ad essa con atteggiamento eroicamente agonistico, si limita a tacere. Non ha una meta sicura verso cui indirizzarsi e sì limita a «non deviare» dalla linea che si è assunta. Il distacco, più che da serena saggezza, sembra dunque derivare da disinganno e da scetticismo, da una perdita di slancio e di fiducia operativa. Unico risarcimento a questa disillusione sono le virtù consolatrici della «compassione» e del «pudore», le sole «forze pacifiche» che moderano «tutte le altre forze guerriere del genere umano». Perciò egli stesso pratica studiatamente tali virtù: è «gioviale e compassionevole» e, pur non stimando gli Foscolo
Didimo e Ortis
La «compassione e il pudore»
155 uomini, ha amore per essi e per la loro infelicità; per questo ama frequentare le donne e i bambini, le creature più lontane dalla ferocia aggressiva che è propria del genere umano. In questo culto dei sentimenti miti e gentili, in contrapposizione agli istinti «guerrieri» dell’uomo, si può cogliere una perfetta consonanza con i principi ispiratori delle Grazie, che andavano nascendo proprio nello stesso periodo. Anche lo stile è ben diverso da quello dell’Ortis: non più l’eloquenza appassionata ed Irruente, ma massime concise, allusive, pervase di umorismo.
1. Confrontare lo stile del passo con quello dei passi riportati dell’Ortis: a) nella lunghezza e complessità dei periodi; b) nell’uso di figure retoriche (metafore, personificazioni, ecc.); c) nell’uso di esclamazioni ed interrogative retoriche; d) nell'uso della terza anziché della prima persona.
2. Confrontare il personaggio didimeo con quello ortisiano cogliendone analogie e differenze.
Le condizioni della civiltà Con questa orazione, pronunciata all’Università di Pavia nel giugno del 1809, Foscolo concluse al ciclo di lezioni tenute presso tale università in conseguenza dell’assegnazione della cattedra di eloquenza.
Vedo che l’eterna guerra! degli individui e la disparità delle loro forze produce sempre un’alleanza, per cui l’amore de’ miei, della mia famiglia, della mia città, e tutti, uniscono con me e i bisogni e i
piaceri e le sorti della loro vita contro i desideri insaziabili degli altri mortali?. E per confermare questa alleanza, la voce stessa della natura eccita nelle viscere di molti uomini, che hanno bisogno di unirsi e di amarsi, due forze che compensano tutte le tendenze guerriere ed usurpatrici dell’uomo?: la compassione ed il pudore‘, forze educate dalla società ed alimentate dalla gratitudine e dalla stima reciproca. Che se io guardando l’universo non trovo assoluta giustizia, a torto mi querelo? della natura, perché io non sono creato che abitatore d’un piccolo canto della terra, e considerato come una sola parte del genere umano. E se nel mio paese trovo certezza d’are, di campo, di tetto e di sepoltura”; se nella mia società i sentimenti più dolci dell'umanità trovano esercizio e compenso*, se le forze di questi sentimenti si uniscono contro la crudeltà, l'avidità, l’impudenza, e tutte le guerriere inclinazioni dell’uomo, e fanno che queste non regnino palesemente, ma cospirino 1. eterna guerra: su suggerimento del pensiero di Hobbes, Foscolo vede nella società umana una continua guerra di tutti contro tutti. 2. un’alleanza ... mortali: lo stato di
guerra perpetua spinge gli uomini a cercare alleanze, all’interno della famiglia, della città, e a mettere in comune bisogni e piaceri per difendersi dai desideri degli altri uomini.
3. tendenze ... usurpatrici dell’uomo: la
tendenza degli uomini a lottare fra loro per sopraffarsi a vicenda. 4. compassione ... pudore: sono le virtù predilette da Didimo Chierico (cfr. T27). 5. mi querelo: mi lamento. 6. perché ... umano: la giustizia non si può trovare su scala universale, ma solo nell’ambito più ristretto della propria comunità, in cui gli uomini non sono in lotta fra
loro ma alleati. E questo risponde ad una legge della natura. 7. certezza ... sepoltura: la certezza della religione comune (are), della proprietà (campo), della casa, di essere sepolto nella propria terra. Sono i valori che per Foscolo cementano la società e danno sicurezza all'esistenza individuale. 8. trovano ... compenso: sono esercitati e contraccambiati dagli altri uomini.
Sull’origine e i limiti della giustizia
156
:
tra le tenebre ed i pericoli*; s'io finalmente nella società, e nella terra che mi è assegnata per patria, alimento l’ardore di amare e di essere amato; anche i sudori, i combattimenti e i pericoli che questo asilo, questa alleanza e questo commercio!’ d’amore richieggono, devono divenire per me giusti e cari ed onorati. Io dunque nella guerra del genere umano trovo pace; nell’ingiustizia generale trovo leggi; nelle diversità delle passioni provo più spesso l’ardore delle meno infelici!!; ne’ dolori e ne’ vizi indispensabili della vita, vedo sempre misto un compenso" di virtù e di piaceri. 9. cospirino ... pericoli: il trionfo dei sentimenti più dolci impedisce che le inclinazioni aggressive possano dominare apertamente, e le costringe a complottare
nell’ombra, col pericolo di essere scoperte. 10. commercio: scambio reciproco. 11. passioni ... infelici: in una comunità in cui vi sia un’alleanza tra gli individui, le
passioni non rendono infelice l’uomo, perché non lo mettono in conflitto con gli altri (è quanto avveniva invece a Jacopo Ortis). 12. compenso: compensazione.
ANALISI DEL TESTO Il passo contiene il nucleo centrale della concezione foscoliana della società. Da un lato si ha il pessimismo, di derivazione machiavelliana e hobbesiana, che vede la società come guerra perpetua di tutti contro tutti, ispirata da istinti aggressivi e sopraffattori; dall’altro si ha il vagheggiamento di un ordine più umano, in cui le tendenze «guerriere e usurpatrici» siano vinte da «sentimenti più dolci» che consentano un vivere pacifico. Quest’ordine non è realizzabile tra il genere umano in universale, ma può esistere nell’ambito di più ristrette comunità, all’interno di una patria. Qui la società, fondandosi su un’alleanza tra gli uomini, consente la sicurezza dei beni fondamentali: religione, proprietà, famiglia, sepoltura. La riflessione su ciò che consente alla civiltà di trionfare sulla barbarie è un dato costante nel Foscolo: lo si è constatato nei Sepoleri come nelle Grazie; l’orazione, del 1809, si colloca in posizione mediana tra queste due opere fondamentali ed anticipa alcune soluzioni della seconda.
La guerra di tutti contro tutti
Civiltà e barbarie
PROPOSTE DI LAVORO 1. Riflettere sulle caratteristiche che Foscolo attribuisce alla società e su quali teorie filosofiche si fonda tale visione.
2. Confrontare questa immagine di società con quella rappresentata da Foscolo nelle opere precedenti. In parti-. colare nell’Ortis, nei Sepolcri, nelle Grazie.
Foscolo
137 ida Princìpi di critica poetica
L'armonia Lo scritto è la premessa teorica ad una serie di discorsi sulla letteratura italiana tenuti a Londra nel 1818, da cui poi Foscolo ricavò una serie di articoli, raccolti col titolo di Epoche della lingua italiana. Il passo scelto sì concentra sul concetto di «armonia».
Esiste nel mondo una universale secreta armonia, che l’uomo anela di ritrovare come necessaria
a ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza!; e quanto più trova sì fatta armonia, quanto più la sente e ne gode, tanto più le sue passioni si destano ad esaltarsi e a purificarsi, e quindi la sua ragione
| sì perfeziona. Questa armonia nondimeno di cui l’esistenza è sì evidente, e di cui la necessità è sì fortemente esperimentata più o meno da tutti i mortali, vedesi (come tutte le cose che la natura offre all’uomo) commista a una disarmonia di cose, le quali cozzano e si attraversano?, e spesso si distruggono fra di loro. Però nella musica più che nelle altre arti appare evidentemente che l’immaginazione umana trovò il modo di combinare i suoni, ch’esistono in natura onde produrre melodia ed armonia, sottraen-
done tutti i suoni rincrescevoli* o discorsi. Il potere universale della musica è prova evidente della necessità che noi sentiamo dell’armonia. L’effetto dell’armonia che la musica produce all'anima per gli orecchi‘, per mezzo di suoni uniti con diversi modi e gradi, vien pure egualmente prodotto dalla scultura, dalla pittura, e dalla architettura per la via degli occhi e per mezzo di forme, di tinte e di proporzioni che armonizzano fra di loro. Ma la poesia unisce l’armonia delle note musicali per mezzo della melodia delle parole e della misura del verso; - e l’armonia delle forme, de’ colori e delle proporzioni per mezzo delle immagini e delle descrizioni. Vero è che la specie d’armonia propria a ciascuna delle altre arti è più espressa, e conseguentemente più efficace; tuttavia l'efficacia della poesia è più potente, tanto a cagione della riunione di tutti i generi d’armonia, quanto per la simultaneità e rapidità del loro progresso.
1. ristorare ... esistenza: cfr. All’amica risanata, vv. 10-12: «L’aurea beltate ond’ebbero / ristoro unico a’ mali / le nate a vaneggiar menti mortali».
2. si attraversano: si contrastano. 3. rincrescevoli: sgradevoli. 4. per gli orecchi: attraverso gli orecchi.
ANALISI DEL TESTO Il concetto di armonia
In questo passo si può scorgere un tentativo di definizione teorica del concetto di armonia, che ha tanta parte nell’opera poetica di Foscolo. Armonia è la composizione unitaria e la pacificazione delle infinite tendenze conflittuali che lacerano la vita umana. Non è una pura aspirazione ideale, un iperuranio platonico irraggiungibile: l’armonia esiste nel mondo reale. Il mezzo per eccellenza attraverso cui si manifesta sono le varie arti, la musica, le arti figurative, la poesia. L'armonia che da esse si sprigiona ha effetti essenziali sull’uomo: in primo luogo «ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza», risarcirlo dalle ferite di una realtà aspra e conflittuale; in secondo luogo purificare le sue passioni, togliere quanto c'è in esse di eccessivo, barbaro, violento, e quindi perfezionare la sua ragione. L'armonia
Funzione sociale
non ha dunque solo un valore consolatorio, di evasione, ma anche una funzione sociale: libe-
dell’armonia
rare l’uomo dalle sue «tendenze guerriere e usurpatrici», creare civiltà. E il concetto sviluppato ampiamente nelle Grazie. ata La seconda parte del passo offre un esempio perfetto di poetica neoclassica: ilbello delle arti è identificato con l’armonia e la misura delle proporzioni, delle forme, dei colori, dei suoni, che esclude rigorosamente ogni elemento discorde e sgradevole, ogni dismisura ed eccesso, ogni contrasto e stridore. E un principio che sarà poi negato e rovesciato dalla poe-
Una poetica neoclassica
Princìpi di critica poetica
138
IS
tica romantica, che esalterà invece la dissimmetria, l’intenso chiaroscuro, la violenta espressività passionale, l’indefinitezza suggestiva, l'eccesso, il contrasto, persino il brutto e l’or-
rido. La distanza dalla poetica romantica si coglie soprattutto sul terreno della musica: il Romanticismo esalterà la musica come suprema fra le arti proprio perché più indefinita, suggestiva, capace di evocare mondi fantastici, di dare la sensazione dell’infinito; per Foscolo invece la musica è la realizzazione per eccellenza della costruzione armonica. Inoltre per Foscolo l’arte suprema è la poesia, che può concentrare in sé anche le prerogative delle altre arti, l'armonia musicale (nella melodia delle parole e nella misura del verso) e l'armonia delle forme e dei colori delle arti figurative (nelle immagini fortemente visive, colorite e plastiche). Sono concetti espressi anche nel Proemio delle Grazie («l’arcana armoniosa melodia pittrice»).
‘T29 PROPOSTA DI LAVORO
bb:
e Partendo dalla definizione che Foscolo dà in questo passo dell'armonia («necessaria a ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza»), rintracciare i passi delle opere di Foscolo analizzati in cui compare questo valore, spesso esemplificato in un’arte particolare come la musica (ad esempio, Ortis, 14 maggio 1798) o la scultura (ad esempio, Proemio delle Grazie).
dal Discorso sul testo della Commedia di Dante
Francesca da Rimini Il Discorso fu composto prevalentemente nel 1825 e stampato in parte in quell’anno.
La colpa è purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que’ versi la compassione pare l’unica Musa: Francesca, i tuoi martìri A lagrimar mi fanno tristo e pio. —
[...] CLIV. Non sì tosto la passione incomincia ad assumere l’onnipotenza del fato!, ed opera come
fosse la sola divinità della vita, ogni tinta d’impudicizia, d’infamia e di colpa dileguasi. La umana pietà che nelle sciagure inevitabili è mista a terrore, s’esalta per cuori creati a sentire sì fatalmente e a
patire con forze più che mortali. In quest’unica osservazione il genio de’ Greci trovò quasi tutti gli effetti magici della tragedia?. Dante audacissimo, perché sentivasi potentissimo fra i pittori della Natura, diede qualità eroiche all'amore di Francesca, così che, bench’ella si vegga dannata, pare che si creda col suo misero amante non indegna del tutto di mandare preghiere e lagrime a Dio. Uscendo dalla folla de’ peccatori carnali agitati dalla bufera infernale, Quivi le strida, il compianto e il lamento, Bestemmian quivi la virtù divina, 1. passione ... fato: la passione d’amore domina interamente la vita dei due amanti, onnipotente come il fato. 2. genio ... tragedia: nella Poetica Aristo-
Foscolo
tele afferma che la tragedia suscita nello spettatore pietà e terrore ed ottiene così la catarsi.
159
Francesca, con un’esclamazione affettuosa di religiosa rassegnazione, di che non saprei trovare esem| pio in tutto l’Imnferno, dice al Poeta: Se fosse amico il Re dell’universo, Noi pregheremmo lui per la tua pace, Poi ch’hai pietà del nostro mal perverso.
Di questo non è chi faccia commento; e beati i lettori se ogni qualvolta se, noi critici tuttiquanti ci stessimo in ozio. Non temerò di ridirlo troppo; innanzi di mostrare come l’affaccendarsi a spiare il perché nelle belle arti pre e dannosa. Or qui Francesca non parla, né Paolo si tace, per ciò che
la poesia opera efficace da né illustrerò questo Autore torna prova vanissima semla leggerezza e loquacità si
confanno meglio al costume donnesco; ma sì, - perché nelle donne, più che negli uomini, la passione | d’amore, dov'è profondissima, mostrasi naturalmente più tragica; - perché la compassione risponde | più pronta alle lagrime delle donne; - perché ove Paolo avesse parlato di quell'amore, avrebbe raf| freddato la scena; e, confessandolo, si sarebbe fatto reo d’infamare la sua donna e, scolpandosi, avrebbe
faccia di ipocrita; e lamentandosi, s’acquisterebbe disprezzo. Bensì l’anima nostra è rivolta in un subito al giovine che ode e piange con muta disperazione: Mentre che l’uno spirto questo disse, L'altro piangeva. —Il sublime scoppia da quel silenzio, nel quale sentiamo profondo il rimorso e la compassione di Paolo per lei che tuttavia nella miseria «gli ricordava il tempo felice».
CLV. Taluni scostandosi dalla chiosa teologica*, che il Poeta cadesse tramortito per terrore di avere anche egli peccato sensualmente, domandano, se pietà sì profonda e tanta passione e delicatezza di stile potesse mai derivare se non dalle rimembranze dell’amore suo tenerissimo ed innocente per Beatrice‘? Rispondano a questo le donne. Pur senza reminiscenze di innocenza e di colpa, bastava la memoria del caso?. Avveniva quando il Poeta aveva passati di pochi i vent'anni, e la morte degli amanti divenuta poetica per la commiserazione popolare, gli lasciava affetti pietosi nell’anima sin dall’età più disposta ad accoglierli, ed a serbarli caldissimi. Vero, o no, che si fosse, narravano che Paolo e Francesca «furono sotterrati con molte lacrime nella medesima sepoltura»6; e appunto in quell’anno Dante udiva anche come il conte Ugolino co’ due suoi figliuoli più giovani, e con tre figliuoletti del
suo primogenito, era morto di fame nella torre di Pisa”. Certo d’indi in poi meditò, e forse non indugiò ad abbozzare, e ritoccò poscia le mille volte, e dopo molti anni condusse a perfezione quelle due scene così dissimili, dove né occhio di critico potrà discernere mai tutta l’arte; né fantasia di poeta arrivarla; né anima, per fredda che sia, non sentirla; e dove tutto pare natura schietta, e tutto grandezza ideale. 8. chiosa teologica: interpretazione di | autore di una storia della letteratura | 6. «furono ... sepoltura»: cita dal Comnatura teologica. italiana. mento alla Commedia di Boccaccio. 4. domandano ... Beatrice?: Foscolo si 5. memoria ... caso: il ricordo del fatto 7. conte Ugolino ... Pisa: episodio narrato riferisce all’interpretazione del Ginguené, reale a cui il poeta si ispirava. nel XXXIII canto dell'Inferno.
sti
Discorso sul testo della «Commedia»
di Dante
140 ANALISI DEL TESTO
]
Emergono da questo passo le caratteristiche già schiettamente romantiche della critica
foscoliana. È innanzitutto una critica psicologica: è tesa infatti a ricostruire le radici del dramma nelle psicologie dei protagonisti (si vedano le considerazioni sul silenzio di Paolo e sulle parole di Francesca). Ma ricostruisce anche il senso poetico dell’episodio dall’atteggiamento psicologico dell’autore, dai sentimenti da lui vissuti dinanzi alla notizia del tragico caso dei due amanti, che gli lascia «affetti pietosi nell'anima sin dall’età più disposta ad accoglierli, ed a serbarli caldissimi». Perciò tutta l’interpretazione dell’episodio s’incen-
I caratteri già
romantici della critica foscoliana
tra intorno all’umana compassione di Dante per i personaggi, soprattutto per Francesca. Secondo Foscolo, se Dante, nel suo disegno teologico, condanna Francesca all’inferno, come uomo e come poeta la redime, trasformandola in un’eroina purissima e sublime («ogni tinta d’impudicizia, d’infamia e di colpa dileguasi»). Ciò che la innalza è proprio l’«ardore» della passione, che nella sua forza brucia in sé ogni scoria impura; per questò tutto il racconto di Francesca è pervaso di «verecondia». Anche questa concezione dell'amore come realtà assoluta, superiore a qualsiasi altra considerazione, è tipicamente romantica (per questo oggi tale interpretazione non è più accettata, e si tende a leggere l’episodio secondo le coordinate della cultura e della mentalità che erano proprie dell’epoca storica di Dante).
30. PROPOSTA DI LAVORO Bui ® Riflettere sugli strumenti che utilizza Foscolo per commentare l’episodio dantesco e sui motivi che rendono oggi superata tale analisi.
QUESTIONARIO
Di RIEPILOGO SU FOSCOLO
‘|
1. Verificare in quale modo l’esperienza autobiografica è presente all’interno della produzione foscoliana. N.
Riflettere sui vari generi letterari praticati da Foscolo (romanzo epistolare, sonetti, odi, ecc.) e se ci sia una corrispondenza tra queste scelte formali, i temi trattati e le occasioni di scrittura.
. Individuare gli elementi illuministici, classicisti
e romantici presenti nell'opera di Foscolo.
. Seguire all’interno della produzione di Foscolo l’evoluzione del concetto di “morte” e di “sepolcro”. . Verificare come all’interno delle varie opere Foscolo rappresenti aspetti diversi della natura. Il DO A W . In quasi tutti i testi di Foscolo si parla del ruolo del poeta e della poesia: verificare, testo per testo, come questi temi vengano affrontati e quale poetica ne emerga. 7. Rintracciare nell’Ortis, nelle Odi e nelle Grazie quali valori il poeta attribuisca alla bellezza femminile celebrata attraverso ricercate immagini mitologiche. 8. Materialismo e sensismo settecentesco costituiscono due delle matrici culturali di Foscolo: verificare come
queste concezioni influenzino la produzione dell’autore.
9. Individuare dall'esame delle opere di Foscolo gli autori (sia antichi, sia cronologicamente più vicini) che costituiscono un suo modello sia per quanto riguarda l’espressione letteraria sia la figura d’intellettuale. 10. La concezione della storia in Foscolo. Rousseau.
Foscolo
Riflettere in particolare sull’influenza esercitata da Vico, Hobbes
3
141 La critica I giudizi dei contemporanei dinanzi all’Ortis e ai Sepolcri (le due opere che suscitarono subito maggiore attenzione) riflettono turbamento ed incertezza: i letterati del tempo furono scossi da un’arte che rompeva con ogni tradizionalismo ed ogni compromesso, esasperando certe tendenze già romantiche o, in direzione opposta, compiacendosi di forme “greche”. Esemplare è il giudizio di Melchiorre Cesarotti, secondo cui l’Ortis è «un’opera scritta da un genio in un accesso di febbre maligna, d’una sublimità micidiale e d’una eccellenza venefica». Negli anni del Risorgimento sull’opera foscoliana furono date valutazioni fortemente contrastanti, a seconda dei diversi orientamenti ideologici. I cattolici Antonio Rosmini, Nicolò
Tommaseo) assunsero posizioni duramente polemiche nei confronti del suo materialismo pessimistico e del suo classicismo paganeggiante, a cui veniva contrapposto il romanticismo cristiano rappresentato da Manzoni. Nel campo opposto, laico e democratico, Giuseppe Mazzini, pur respingendo anch'egli le componenti settecentesche e materialistiche del pensiero di Foscolo, ne diede una glorificazione in chiave patriottica, risorgimentale, proponendolo come un mito alla gioventù italiana impegnata nella lotta. Da questo giudizio mazziniano si diffuse e si affermò nelle generazioni risorgimentali un’esaltazione di Foscolo come profeta della patria risorta, come cantore delle glorie nazionali e modello di comportamento civile e patriottico. Per questo, le opere più apprezzate furono l’Ortis e i Sepoleri. Il saggio di Francesco De Sanctis, scritto nel 1871, si innesta sulla linea delle interpretazioni risorgimentali, ma dando ad esse una rigorosa sistemazione critica. De Sanctis vede nell’Ortis l’espressione di una crisi storica: i vecchi modelli culturali sono sconvolti dalla Rivoluzione francese, ma sono sostituiti da altri eccessivamente astratti. Jacopo rappresenta uno «stato morboso», tipicamente giovanile, caratterizzato dall’incapacità di adattarsi alla realtà a causa dell’astrattezza degli ideali. Perciò l’opera si riduce a sfogo drammatico-lirico, fallimento di romanzo e fallimento di lirica. I sonetti e le odi rappresentano il processo di «guarigione», che culmina nei Sepoleri: qui non vi sono più astrazioni, ma un mondo interiore pienamente realizzato e concreto. Dalle interpretazioni risorgimentali De Sanctis riprende questo privilegiamento dei Sepolcri come esempio di poesia civile; mentre le Grazie, da tale angolatura, gli paiono ormai il prodotto di un momento di stanchezza, riducendosi a freddo allegorismo didascalico. Gli anni di fine secolo vedono il trionfo della cultura positivistica, e conseguentemente del «metodo storico» nella critica letteraria, che si preoccupa soprattutto della ricostruzione filologica dei testi, dei dati esterni, delle fonti, degli influssi letterari, della biografia. In questo periodo non si delinea alcuna nuova interpretazione complessiva della poesia foscoliana, ma vengono offerti essenziali contributi di carattere filologico e storico-biografico. Il periodo idealistico, che contrassegna i primi decenni del Novecento, segna invece una ripresa dell’interpretazione critica ed un sensibile mutamento di prospettive. La prima interpretazione che risente del nuovo clima culturale è quella di Eugenio Donadoni (1910), tutta tesa a ricostruire il mondo interiore del poeta e a storicizzarne il dramma intimo tra sentimento e ragione, sullo sfondo di una cultura divisa tra Illuminismo e Romanticismo. La critica idealistica reagì alla preminenza dell’interesse politico e patriottico, impegnandosi in una valutazione puramente “estetica” dell’opera foscoliana, cercando soprattutto, secondo la lezione di Croce, di distinguere la “poesia” da ciò che è “impoetico” (tipico in questa direzione è il saggio di Giuseppe Citanna, 1920). Ma il prodotto veramente esemplare della stagione idealistica è la monografia di Mario Fubini (1928, ma ristampata più volte sino ad anni recenti), che è rimasta un fondamentale punto di riferimento. In contrapposizione ad un’immagine romantica di una personalità poetica viva solo nella sua passionalità, Fubini vede il centro dell’ispirazione foscoliana non nella «passione irruente», ma nella «lirica riflessione», che si attua nella progressiva liberazione dalle passioni e nella conquista di una «contemplazione serenatrice», culminante nel mito delle Grazie. Per questo Fubini coglie l’importanza della componente «didimea» nella personalità di Foscolo, il distacco dalle passioni come momento essenziale della sua opera.
La critica
142 La critica novecentesca recupera e rivaluta le Grazie, che la critica dell'Ottocento aveva in genere poco apprezzato. A ciò contribuisce il particolare clima di gusto e cultura che contrassegna il periodo. Non a caso un avvio al recupero delle Grazie veniva già, ai primi del secolo, dall’estetismo dannunziano. Ma fu soprattutto il gusto della lirica «pura» ad orientare il privilegiamento critico delle Grazie. Esemplare in questo senso è l’interpretazione di Francesco Flora (1940) secondo cui la poesia è in generale «pura forma», «parola»; per lui tutta la ricerca poetica foscoliana è «religione e consolazione della parola»; culmine sono appunto le Grazie, in cui oggetto del canto è il canto stesso; è poesia pura, tesa alla sola degustazione della parola poetica. Ridotta la poesia a pura forma, l'oggetto primario del discorso critico diviene il linguaggio poetico. Così Giuseppe De Robertis (1944) fa confluire tutto il discorso critico in un’accanita analisi di stile. L'esperienza di Foscolo si trasfigura, si annulla nella parola. Il processo culmina per De Robertis nelle Grazte, in cui si realizza l'aspirazione più profonda all’armonia e avviene il distacco dalle passioni e dai dolori vissuti. Nelle Grazie viene vista la poesia più autentica di Foscolo, più vicina alla poesia pura moderna, nel suo linguaggio musicale, allusivo ed evocativo. A queste letture modernizzanti, che potevano condurre a misconoscere l’impegno storico del poeta, trasformandolo in un esteta compiaciuto della parola, reagirono polemicamente, sia pur nell’ambito della critica idealistica, tendenze di ispirazione più storicistica. Luigi Russo (1941) mira a correggere l'eccessivo stacco segnato tra i Sepolcri e le Grazie e il giudizio di superiorità delle seconde. Il critico insiste sulla «politicità» delle Grazie: la creazione di un oltremondo di armonia rappresenta un rifiuto, storicamente motivato, della «rissa fraterna» fra gli uomini e della violenza oppressiva del potere, in nome di una superiore nozione di umanità. Parimenti Cesare Federico Goffis (1942) insiste sulla continuità di interessi politici tra Sepoleri e Grazie, reagendo all’interpretazione esclusivamente musicale della poesia «pura» dei tre inni. In questo dopoguerra si è assistito ad una certa flessione dell’interesse per Foscolo. Gli interessi si sono polarizzati sulle due figure chiave di Manzoni e Leopardi, prese anche come spunto per dibattere problemi attuali. I contributi recenti più fecondi sembrano quelli che hanno utilizzato i più moderni strumenti critici, quelli sociologici in senso lato d’ispirazione marxista, quelli psicanalitici e quelli strutturali e semiotici, spesso combinati tra loro in strategie di lettura su diversi piani. Dagli strumenti sociologici la figura di Foscolo è stata più attentamente storicizzata, attraverso la sua collocazione come intellettuale nella dinamica
di forze sociali e politiche di un periodo di rapide trasformazioni come quello napoleonico. Gli strumenti semiotici hanno consentito una lettura più in profondo del linguaggio poetico nelle sue strutture significative, nei procedimenti retorici e metrici, nel lessico, nella sintassi. La critica psicanalitica ha messo in luce le strutture simboliche che sostengono nel profondo il discorso poetico. Nel campo della critica marxista uno degli interventi più nuovi e stimolanti è stato quello di Vitilio Masiello dedicato alle Grazie (1969), che mette in luce persuasivamente la politicità del poema, nella dialettica tra vagheggiamento di un mondo di armonia e riferimenti all’attualità storica delle guerre napoleoniche. Una monografia molto completa è quella di Niecolò Mineo (1977), che, ad una rigorosa ricostruzione del percorso foscoliano sullo sfondo dei problemi della società e degli intellettuali in età napoleonica, unisce anche acute notazioni psicanalitiche e stilistiche. Un’esemplare lettura semiotica è quella fornita da Marcello Pagnini per il sonetto A Zacinto (1974), che, attraverso la ricostruzione delle strutture formali, risale alle simbologie profonde che esse veicolano. Anche Marco Cerruti (1969 e 19883) fonde interessi storico-sociologici con strumenti di lettura strutturale dei testi. Particolarmente valida, nella lettura di Cerruti, è l’interpretazione del neoclassicismo foscoliano come reazione alla delusione storica patita dall’ideologia giacobina.
Foscolo
143 MARIO FUBINI Fantasia e ragione nei Sepoleri Coerentemente con le premesse idealistico-crociane, il discorso di Fubini è inteso a distinguere nei Sepoleri la «poesia» dalla «non poesia». La non poesia è data, secondo il critico, dal peso delle parti raziocinanti; la poesia scaturisce invece dal libero gioco della « fantasia»: una facoltà dello spirito autonoma dal raziocinio, da cui specificamente nasce la poesta, e che sì nutre del «calore» del sentimento. Il secondo punto affrontato dal discorso è l’unità del compomimento: secondo Fubini esso è «una collana di liriche mirabili», che tendono a stare ciascuna per sé, ma pure sì uniscono in un’unità superiore per la presenza dello spirito contemplatore del poeta, che si esalta in una fantasia sempre più intensa.
La famosa oscurità! dei Sepolcri non nasce tanto, come credette il Foscolo, dall’impeto della fantasia che supera nel suo volo il tardo procedere dell’intelletto, quanto dalla coesistenza nella medesima poesia di due linguaggi, del linguaggio della ragione e di quello della fantasia: né i passi più controversi o per ambiguità di concetto o per troppo rapido trapasso sono quelli in cui la fantasia spazia libera, ma quelli in cui la ragione del lettore, apparentemente sollecitata dal poeta stesso, vuole spiegare le immagini, o quelli in cui la fantasia stessa del poeta tenta di giustificarsi dinanzi alla ragione e tenersi stretta al procedimento discorsivo iniziale. Nessuno vorrà, ad esempio, contestare a un poeta il diritto di spaziare su tempi lontani e di passare dalla contemplazione dell’Alfieri in Santa Croce alla visione di Maratona: ma si potrà dubitare se siano fattura di schietta fantasia quei versi, coi quali il poeta pare giustificare il trapasso fantastico: Ah sì! da quella Religiosa pace un Nume parla: E nutria contro a’ Persi in Maratona... Basterebbe quell’A% sè/ per indicarci che qui la fantasia del poeta è alquanto fredda e fredda appunto perché preoccupata, mi si permetta l’espressione, di far toccare con mano al lettore la ragionevolezza del suo procedimento: forse i celebrati voli pindarici dei Sepoleri sono soltanto effetto di un ibrido connubio di fantasia e di ragione. I colloqui con l’amico? ridestarono nel Foscolo un’immagine ben più capace ad esprimere il suo mondo intimo di quelle che egli vagheggiava in quell’anno di ritrarre in un poema didascalico sull’allevamento dei cavalli: ma se non per un poema affatto didascalico, gli offrirono lo spunto per una poesia ragionatrice, in cui, come nelle Epistole di Ippolito, una trama discorsiva permettesse di tessere gli iridescenti fili del sentimento. Dobbiamo rammaricarcene? Forse così soltanto fu dato al Foscolo di superare il dissidio tra le sue aspirazioni poetiche e le forme tradizionali in cui egli pensava attuarle: in un’epistola molto meglio che in un poema, più o meno larvatamente didascalico, egli poté, mentre per un lato pareva continuare la poesia ragionatrice, descrittiva, didascalica del Settecento, iniziare mirabilmente la poesia del secolo nuovo in versi che non ragionano, non descrivono, non insegnano, ma palpitano di una vita fremente, contemplata da uno spirito appassionato. Chi potrebbe pensare i Sepolcri diversi da quelli che noi abbiamo? Ma pur giustificandone storicamente la forma, dobbiamo ammettere che essa non nasce da una originaria intuizione poetica e riconoscere che l’unità del Carme non ci è data come in altre opere da un motivo centrale, che si svolga attraverso un principio, un mezzo, una fine. La trama discorsiva del carme offre al poeta lo spunto per una collana di liriche mirabili, che tendono ciascuna a stare per sé, e pure si ricongiungono in una unità superiore per la presenza di uno spirito contemplatore che va atteggiando differentemente con la sua fantasia alcuni motivi fondamentali. Ecco l’iniziale elegia, che piange la «morte immortale» o quella che sommessamente canta il risorgere della vita intorno alle tombe, o quell’altra che si indugia a rievocare accorata un poeta da poco scomparso?, che pare ancor vivere fra le cose da lui amate: ma ecco una nuova poesia, che si solleva a celebrare, sotto la specie dell'umanità primitiva od antica, al 1. famosa oscurità: sull’oscurità del carme insistettero a | che furono il germe iniziale dei Sepolcri. lungo i contemporanei. Pietro Giordani lo definì «fumoso 3. poeta ... scomparso: allude ai versi del carme dedicati enigma». a Parini. 2. colloqui ... amico: i colloqui con Ippolito Pindemonte,
La critica
PH — l'umanità eterna, e la canta non più col tono dell’elegia ma dell’inno nella figurazione delle sepol-
mirature greche, ed ecco quella, che, spaziando anche al di là dei sepolcri, celebra in Firenze,
bile per la sua natura e per i suoi uomini, per il suo cielo e le sue tombe, una vita completa: e più vasta ancora quella che, iniziatasi con la rievocazione della leggenda di Maratona, si solleva a rievocare tutte le leggende antiche e a palesarne l’eterna verità. L'unità in cui s1 ricongiungono queste liriche non ci deve far disconoscere le diversità di tono di ognuna di esse e tanto meno farci credere del tutto poetici i trapassi dall’una all’altra, trapassi spesso segnati da sentenze (di solito di un verso e mezzo), che, come chiavi di ferro, congiungono le diverse parti dell’edificio: «Sol chi non lascia eredità d’affetti /Poca gioia ha dell’urna», «A egregie cose il forte animo accendono / L’urne de’ forti, o Pindemonte», « A’ generosi / Giusta di gloria dispensiera è morte». Le sentenze foscoliane non esprimono come quelle di Orazio, così ricche di umana esperienza, o come quelle di Dante, tutte vibranti di una volontà possente, una complessa e di per sé compiuta ispirazione, ma, preparando o concludendo ampi periodi poetici, non ne contengono la nota più intensa e sembrano piuttosto epigrafi nobilmente decorative che grande poesia. E nemmeno, s'intende, dobbiamo cercare la linea di svolgimento del carme, quella che congiunge le diverse liriche, nella trama logica, esposta dal poeta stesso, bensì nella esaltazione sempre più intensa della fantasia del poeta, che dall’iniziale colloquio si solleva a contemplare un campo sempre più vasto e sempre più grandioso. Così si viene a noi rivelando, nei momenti di più raccolta solitudine, una verità sempre più alta, sempre più comprensiva. da Ugo Foscolo, La Nuova Italia, Firenze 1962? (1928), pp. 184-186
C “i
VITILIO MASIELLO Evasione e politicità nelle Grazie Il critico rifiuta le interpretazioni novecentesche, che insistono sulla «liricità pura» delle Grazie, non compromessa da interessi etici e politici. Riconosce bensì una volontà «evasiva», la volontà di rifugiarsi in un ideale oltremondo di bellezza ed armonia; ma proprio questa volontà si oppone ad un'esperienza storica e politica, quella delle guerre aggressive di Napoleone, ed assume pertanto è valore di un giudizio critico, di una contestazione del presente e di un’ideale alternativa ad esso. Nel vagheggiamento di un Eden mitico di bellezza Foscolo esprime il suo rifiuto di una società violenta ed oppressiva, în cui si scatenano gli impulsi feroci che sono al fondo della natura dell’uomo, e l’aspirazione ad un ordine più umano che superi quegli impulsi in un vivere più pacifico e razionale. Quindi le Grazie possiedono un oggettivo significato politico. Come si vede, il discorso del critico collega il configurarsi dei temi della poesia foscoliana, nelle loro specifiche forme espressive, con i grandi temi ideologici della riflessione dello scrittore e con la dinamica delle forze in gioco nel momento storico.
Ora, è sul fondamento di tali presupposti!, all’interno di un cosiffatto contesto problematico, che si instaura la legalità del “mito” ?, la oggettiva funzionalità contestativa delle Grazie. Alla interpretazione delle quali nel senso delle loro più profonde animazioni e delle loro più autentiche destinazioni, dava suggerimenti lo stesso Foscolo quando avvertiva, nella Dissertazione?, che se le «allegorie» implicite del mito delle Grazie «fossero state dichiarate da Platone o da Bacone, noi avremmo avuto una conferma di più alla opinione messa innanzi da loro, che le allegorie derivano da una propensione naturale della mente umana, che sono da noverare tra
le più graziose produzioni della fantasia, e che la loro applicazione morale è dettata da una sapienza sollecita del miglioramento e del perfezionamento della vita sociale», o quando, in termini meno allusivi, e in preventiva polemica con tentazioni di lettura edonistico-“gastronomiche” 4, sottolineava nella stessa Dissertazione il «concetto morale» che sottende l’invenzione del velo delle Grazie «perché, sebbene Aristotele, o piuttosto i dommatici interpreti de’ suoi oracoli?, 1. tali presupposti: il critico ha analizzato i presupposti 4. letture ... “gastronomiche”: a leggere gustando solo ideologici delle Grazie nelle orazioni pavesi, nella trage- | il piacere sensuale delle bellezze poetiche. dia Aiace e nella Notizia intorno a Didimo Chierico. 5. dommatici ... oracoli: le affermazioni di Aristotele erano 2. mito: il mito delle tre Grazie, argomento del poema. interpretate dogmaticamente dai retori come oracoli, 3. Dissertazione: la Dissertazione di un antico inno alle Grazie, del 1822.
Foscolo
aventi autorità indiscutibile.
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145 insegnino il contrario, i poeti non devono scriver versi a diletto solamente degli oziosi». E s'intende che quella «sapienza sollecita del miglioramento e del perfezionamento della vita
sociale», che alimenta sotterraneamente la ragione poetica del carme, non può identificarsi date le premesse — in un messaggio politico “positivo”, ma fa tutt'uno con una prassi mitopoietica® che nell’“ idoleggiamento” e nella strutturazione di un mitico Eden di bellezza, di perfezione e di armonia trascrive il suo giudizio sul presente, il rifiuto di una società oppressiva e violenta, e correlativamente l’aspirazione ad un più umano ordine del mondo, cui presiedano le arti della pace e le virtù della compassione e del pudore. Il poema non è, nella sua essenza e nel suo significato ultimo, che una celebrazione dei valori della “civiltà” intesa come perenne superamento degli istinti belluini e guerrieri dell’uomo, come assidua ricerca di un’“armonia”
la quale si pone come metafora e simbolo di
dominio delle passioni egoistiche ed antisociali e fondamento di una più «mite» e razionale, pacata e umana dimensione del vivere, una celebrazione cui la coscienza sempre presente della attuale precarietà di quei valori conferisce intonazione di aspirazione dolente, trasformando l’inno in elegia. [...] Lo sfondo, infatti, e il presupposto strutturale su cui si regge l’alta stilizzazione mitografica delle Grazie, è costituito dalla angosciata coscienza della naturale ferocia degli uomini, «nati alle prede [...] ed alla guerra, e dopo brevi dì sacri alla morte», dalla tragedia dei «figli della terra/duellanti a predarsi». Si tratta di una pessimistica valutazione della condizione umana, a cui l’articolarsi in termini vichiani o comunque antirousseauiani”, e cioè il proiettarsi nella preistoria mitica come nativo e naturale modo d’essere della realtà umana, lungi dal togliere incidenza d’attualità, conferisce la consistenza di un dato assoluto e permanente proprio perché “naturale” e “istituzionale”. [...] Così il passato mitico si salda al presente8 nel segno di una ineliminabile eredità di violenza e di sangue che pare presiedere, oggi non meno di ieri, all’organizzazione della società umana e al rapporto fra i popoli. E su questo assillo-orrore del presente violento, così denso di umori storici e di risentimenti politici, ritorna assiduamente il Foscolo, costellandone il poema quasi a sottolineare un riferimento costante all'attualità, rispetto alla quale la contemplazione dell’universo liberato e redento delle Grazie si pone come termine di misura, strumento di “oggettiva” contestazione e ad un tempo come rifugio e evasione. Direi che questo riferimento assiduo al presente come termine dialettico della mitologia poetica delle Grazie, tale è la sua incidenza sia quantitativa sia qualitativa nell'economia dell’opera, costituisca una delle strutture portanti del poema. [...] E naturalmente l’esemplificazione potrebbe continuare. Ma ci pare che emergano ormai con sufficiente chiarezza ed attendibilità le linee secondo cui si struttura il mondo sereno e liberato delle Grazie; i valori che lo alimentano ed organizzano (bellezza, gentilezza, umanità, compassione e pudore) come archetipo? di una dimensione dell’essere e di un ordine del mondo estranei ed antagonistici alla sconvolta realtà presente; l’ottica mitopoetica, “straniante”!°, della rappresentazione, e cioè quella tendenza alla «contemplazione serenatrice»!!, che non vale per noi come segno di un ritrovato accordo del poeta col mondo e con le cose o come oblio del presente tragico e violento in uno svagato e indifferente sogno di bellezza, ma come misura di un consapevole e disingannato distacco dalla realtà storica, strumento di evocazione nostalgica di un mondo che rispetto a quella realtà si istituisce “oggettivamente” in termini di opposizione e di esorcizzazione. da Il mito e la storia. Analisi delle strutture dialettiche delle «Grazie» foscoliane, in «Angelus Novus», nn. 12-18, 1969 (ora col titolo Il mito e la storia in I miti e la storia.
Saggi su Foscolo e Verga, Liguori, Napoli 1984, pp. 54-55, 57, 65)
6. prassi mitopoietica: procedimento di creazione di
e della loro ferocia richiama a Foscolo le guerre presenti.
9. archetipo: forma originaria, modello assoluto fuori della ; x i ; storia. l T. vichiani ... antirousseauiani: Vico nella Scienza nuova aveva rappresentato l’umanità primitiva nella sua ferocia | 10. ottica mitopoetica, “straniante”: il vedere la realtà presente dalla prospettiva del mito serve a straniarlo bestiale; Rousseau asseriva invece la bontà dell’uomo allo * pù (v. G, voce straniamento). stato di natura. 11. «contemplazione serenatrice»: citazione da Fubini, 8. passato ... presente: allude al T24, L'umanità priUgo Foscolo, cit., p. 217. mitiva ece., in cui la rievocazione degli uomini primitivi
miti.
La critica
146
x
MARCELLO PAGNINI Strutture linguistiche e simboliche in A Zacinto L'analisi mette in evidenza le strutture formali del discorso poetico con microscopica attenzione; però non si arresta ad una descrizione e ad un catalogo dei procedimenti formali; ricostruisce bensì anche îl sistema segreto di simbologie che essi veicolano (nella parte del saggio che qui non è riportata rimanda inoltre ai grandi codici storici, classicismo e romanticismo). L’idea dell’acqua, simbolo materno, che è centrale nel sonetto, si riflette negli aspetti più segreti del linguaggio, nei fonemi impregati e nelle rime.
L’idea centrale del sonetto è quella dell’“acqua”; immagine importante, essendo il luogo della “fertilità” e dell’“esilio”. Il sèma! è variamente privilegiato. Molti lessemi? del componimento hanno a che fare con esso, direttamente: gonde-4mar- gacque metonimicamente?: 3 : 1sponde-3Zacinto-5Venere-sisole-11Itaca
e: gspecchi-glimpide. Anche un minuto frammento può rivelare la fissità mentale dell’immagine. 7limpide nubi
Maggini commentava saviamente: «Chiare, quasi trasparenti, non oscure come i nembi». È comunque evidente che l’attributo «limpide» è proprio delle acque e non delle nubi (nell’Inno I delle Grazie ci sarà l'epiteto proprio: «g1Candide nubi a lei Giove concede»). L’attributo fa pensare a nembi riflessi nel limpido mare («che te specchi nell’onde»). Vista la centrale polarizzazione delle forme e delle idee, nel sonetto, non a caso, a ben riflet-
tere, l’“acqua” diviene il centro magnetico / e propulsore. Stiamo ora parlando di un'attività mentale profonda. L’acqua è, nella tematica antropologica‘, potratrice di vita; è strettamente connessa, anzi consustanziata, con l’idea della maternità. Che tutto ha origine dalle acque oggi non è più nemmeno un mito. E scienza. Il mare Ionio ha generato Zacinto, Venere, i fantasmi poetici greci, Diamantina Spathis, e poi Foscolo. E l’acqua è anche inizio della vita, e perciò della errabonda curva dell’esistenza*, e della fatalità. La morte non può allora essere che privazione di acqua («petrosa Itaca», «illacrimata sepoltura»). Altri elementi suffragano questa interpretazione pontocentrica*. Il sonetto abbonda, fonosimbolicamente”, delle articolazioni consonantiche del frammento:
gl’acque sorta di gruppo archifonemico*8:
/1/ (liquida)
fanciulletto nell’onde quell’isole le tue limpide l’inelito verso di colui che l’acque illacrimata
1. sèma: unità minima di significato. 2. lessemi: unità lessicali, parole. 3. metonimicamente: sono parole che rimandano all’idea di«acqua» in base ad un rapporto di contiguità (cfr. G). 4. nella tematica antropologica: nei miti e nelle simbologie delle culture più diverse, studiate dall’antropologia culturale. In tutte queste simbologie l’acqua rappresenta la vita. 5. errabonda ... esistenza: allude al motivo dell’esilio presente nel sonetto.
Foscolo
/k/ (gutturale sorda)
toccherò giacque specchi nacqui tacque
acque
6. pontocentrica: che assume come centro il mare (greco pontos). 7. fonosimbolicamente: i suoni di cui è composta una parola assumono autonomamente significato simbolico, a prescindere dal significato della parola stessa. In questo caso i fonemi / e k richiamano le consonanti del gruppo l’acque alludendo all’acqua. 8. archifonemico: è il gruppo originario di fonemi, da cui deriva la serie dei fonemi simbolicamente significanti del sonetto, l e k.
147 L’insistenza è così imponente, nella pur limitata area lessicale del componimento, da non ammettere dubbi. [...] Un composto fonico come: 2
°
DS
Ie:
.
.
.
»
sL’inclito verso di colui che l’acque
LueseL
K-L
_K- L-K
sì rivela una combinazione tematica stretta degli archifonemi. E a guardar bene: gspecchi reca seco i temi di /sp/+/k/, che sono in sponda
acqua.
E si presti attenzione, poi, alla straordinaria polivalenza dell’umile congiunzione: gonde
la quale: a) è in posizione ritmica centrale del verso b) è in posizione centrale della intera oratio perpetua? (+5/-5) c) ripete fonologicamente il tema marino e rinforza così la serie paronomastica!°: sponde-onde-feconde-fronde. Analoga insistenza - anche se nominale - ricorre, significativamente, nell’Inno I delle Grazie:
[...] un dì la santa Diva, all’uscir de’ flutti ove s'immerse A ravvivar la gregge di Nerèo, Apparì con le Grazie; e la raccolse L'onda Jonia primiera, onda che amica Del lito ameno [...].
Dunque torniamo a dire che il tema centrale del sonetto, fortemente paronomastico, ossessivo, è il sèma profondo del “mare”, nelle due direttive fonologiche abbinate:
ONDE+ACQUE 1Sponde agiacque gonde 5feconde
4nacque gtacque
gonde 7fronde
gacque
da Il sonetto A Zacinto. Saggio teorico e critico sulla polivalenza funzionale dell’opera poetica, in «Strumenti critici», n. 23, 1974 (ora in Semiosi. Teoria ed ermeneutica del testo letterario, I1 Mulino, Bologna 1988, pp. 173-177)
9. oratio perpetua: il discorso sintatticamente ininterrotto che occupa i primi undici versi del sonetto.
C9
10. paronomastica: limpido e l’inclito differiscono solo per pochi fonemi (cfr. G).
NICCOLÒ MINEO Jacopo Ortis: scissione dell’io e crisi del ruolo intellettuale Il critico usa strumenti psicanalitici per definire l’eroe del romanzo (nonché lo scrittore, di cui il personaggio è considerato una proiezione). Jacopo appare diviso tra istanze aggressive e pumitive
verso gli altri ed istanze autopumitive che nascono da senso di colpa. Ciò che caratterizza ilpersonaggio è la scissione interna e la privazione d'identità, la mancata costruzione del suo Io. Ciò è il corrispettivo, a livello psicologico profondo, della condizione storica di Ortis (e di Foscolo): una condizione che ha privato l’intellettuale piccolo borghese di un ruolo, lasciandogli solo l’alternativa tra essere La critica
148
(SI
mediatore di consenso verso il potere in posizione subalterna, 0 esercitare il dissenso in forme astratte e velleitarie. Come si vede il discorso critico, pur usando strumenti psicanalitici, non si limita all’analisi “clinica” di un caso psicologico individuale, ma collega la psicologia del profondo alle condizioni della società in cui l'individuo è inserito, in un gioco dinamico di azioni e reazioni. Gli strumenti psicanalitici sono dunque completati con strumenti sociologici.
Ma l’Ortis nell’intera sua dimensione significante realizza anche altri bisogni inconsci del suo creatore: un impulso masochistico a riprodurre una situazione angosciosa e assieme il piacere della punizione attraverso il suicidio e la lunga mesta preparazione ad esso, nei confronti e di tutti quelli (dalla madre ad Antonietta!) che delusero l’amore di Niccolò-Ugo e della società nel suo insieme, civile e politica, che non ha consentito la realizzazione del sogno adolescente di libertà e di eroicità del discepolo di Vittorio Alfieri e quindi lo ha escluso. La situazione di Ortis è però di una complessità o contraddittorietà o provvisorietà che non si lascia ridurre a posizioni univoche. La posizione masochistica si intreccia inscindibilmente a una posizione di trionfo. C’è infatti, fino a un certo punto, una realizzazione di desiderio incestuoso?, poiché è Ortis a possedere esclusivamente il cuore di Teresa. Per di più è un masochismo in un certo senso anche strumentale (la sofferenza che estranea e giustifica l'aggressività) alla susseguente e finale punizione degli altri che è il suicidio di Jacopo. Non è a dire, per altro verso, che Jacopo giunga al suicidio solo a fini punitivi. Il romanzo è fitto di allusioni a un profondo senso di colpa (che giunge addirittura alla confessione, finzione forse, di un delitto), sicché il suicidio è anche motivato, seppure secondariamente, come autopunizione. Ancora una bivalenza quindi. E che veramente quel che costituisce, o non costituisce, Ortis come personaggio è la scissione e la privazione d’identità. Tra principio del piacere e ideale, tra Es e Super-io*4, l'Io del protagonista autore non si è costituito, il principio di realtà non si è imposto e tutta la situazione rimane contraddittoria. Ma è il corrispettivo «profondo» della condizione storica che Ortis-Foscolo rappresenta. La scissione e l'ambiguità sono le risultanti di un processo storico, che ha alienato l’intellettuale piccolo-borghese dalla realtà del mondo della produzione e lo ha privato di un ruolo organico alla classe, solo per breve tempo? conquistato, concedendogli solo l’alternativa tra una funzione subalterna di mediazione del consenso£ e l'emarginazione di una zona di astratto e velleitario esercizio del dissenso. E ciò appunto nella misura in cui la piccola borghesia ha perduto, anzi, in Italia non ha potuto neanche combattere, attanagliata dalle sue contraddizioni e dalle condizioni oggettive della rivoluzione «passiva»”, la sua lotta di classe. Eppure la morte di Jacopo, per una di quelle contraddizioni positive che caratterizzano la parabola foscoliana, segna proprio la fine, emblematica se non biografica, della contraddizione e della scissione. Foscolo ha eternato e contemporaneamente distrutto, anche se era in giuoco una forma del suo sé, una forma astratta che non poteva conciliarsi col mondo e la vita nella loro realtà. Attraverso lo scatenamento e il controllo formale del fondo oscuro della psiche, delle ansie e delle angosce più profonde, si è compiuta un’operazione di autentica catarsi personale e indirettamente storica. Se l’Ortis apre funestamente il secolo col suicidio di un «chierico»9, diciamo anche che un tal «chierico», così astratto e libresco, non poteva far altro che scomparire, appunto. da Ugo Foscolo, in Letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, vol. VII, tomo 1°, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 212
1. Antonietta: la Fagnani Arese, amata dal Foscolo nel periodo dell’Ortis. 2. desiderio incestuoso: il critico ha precedentemente indicato come l’amore di Jacopo per Teresa abbia un carattere edipico, poiché la fanciulla rappresenta la figura materna.
3. delitto: Jacopo è angosciato per aver causato involontariamente la morte di un contadino, travolgendolo in una delle sue folli cavalcate notturne. 4. Es ... Super-io: cfr. G. 5. per breve tempo: nel periodo delle “repubbliche giaco-
Foscolo
bine”, quando gli intellettuali borghesi hanno rivestito un ruolo politico e sociale di primo piano, poi cancellato dal dispotismo napoleonico. 6. mediazione ... consenso: l’intellettuale, con ciò che produce, serve a creare consenso verso il potere; ha quindi una posizione subalterna rispetto ad esso. 7. rivoluzione «passiva»: la rivoluzione fu portata in Italia dall’esterno, dalle armate francesi. 8. catarsi: riscatto, purificazione (cfr. G). 9. «chierico»: intellettuale.
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149 Bibliografia Edizioni delle opere
E in corso di pubblicazione l’Edizione Nazionale delle opere presso l'editore Le Monnier. Tra le antologie: Opere, a cura di E. Bottasso, Utet, Torino 1948-50; Opere, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano 1956; Opere, a cura di L. Baldacci, Laterza, Bari 1962; Opere, a cura di M. Puppo,
Mursia, Milano 1966; Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, Milano-Napoli 1974. Studi critici
F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana (1870-71), a cura di N. Gallo, Einaudi, Torino
1958; F. De SANCTIS, Ugo Foscolo poeta e critico (1871), in Saggi critici, a cura di L. Russo, Laterza,
Bari 1952, vol. III; E. DONADONI, Ugo Foscolo pensatore, critico e poeta, Sandron, Palermo 1910; G. CITANNA, La poesia di Ugo Foscolo, Laterza, Bari 1920; B. CRocE, Foscolo, in Poesia e non poesia, Laterza, Bari 1922; M. FuBINI, Ugo Foscolo (1928), ora in Ugo Foscolo. Saggi, studi, note, La Nuova
Italia, Firenze 1978; G. DE ROBERTIS, Linea della poesia foscoliana, in Saggi, Le Monnier, Firenze 1939; F. FLORA, Ugo Foscolo, Milano 1940; C. F. GorrIs, Studi foscoliani, La Nuova Italia, Firenze 1942; G. De RoBERTIS, Studi, Le Monnier, Firenze 1944; L. Russo, Ritratti e disegni storici, Laterza, Bari 1946; W. BINNI, Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino (1812-13), (1954), ora in Ugo Foscolo. Storia e poesia, Einaudi, Torino 1982; A. PAGLIARO, L'unità dei «Sepoleri», in Nuovi saggi di critica semantica, D'Anna, Messina-Firenze 1956; G. F. GorrIs, Nuovi studi foscoliani, La Nuova Italia, Firenze 1958; M. FUBINI, Ortis e Didimo (1963), ora in Ugo Foscolo. Saggi, studi, note, cit.; L. DERLA, Interpretazione dell’«Ortis», in «Convivium», 5, 1967; V. MASIELLO, Il mito e la storia: analisi delle strutture dialettiche delle «Grazie» (1968), ora in Il mito e la storia. Saggi su Foscolo e Verga, Liguori, Napoli 1984; M. CERRUTI, Esperienza dell’irrazionale ed evasione dalla storia nel sonetto foscoliano «Forse perché», in Neoclassici e giacobini, Silva, Milano 1969; F. FERRUCCI, All’ombra dei cipressi, in Addio al Parnaso, Bompiani, Milano 1971; L. DERLA, Il Foscolo e la crisi del classicismo, in “Belfagor”, 4, 1973; G. MANACORDA, Materialismo e masochismo: il « Werther», Foscolo e Leopardi, La Nuova Italia, Firenze 1973; M. PAGNINI, Il sonetto «A Zacinto». Saggio teorico-critico
sulla polivalenza funzionale dell’opera poetica (1974), ora in Semiosi. Teoria ed ermeneutica del testo letterario, Il Mulino, Bologna 1988; N. Mineo, Ugo Foscolo, in Letteratura italiana. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, VII, 1, Laterza, Roma-Bari 1977; G. GETTO, La composizione dei «Sepoleri» di Ugo Foscolo, Olschki, Firenze 1978; O. Macrì, Semantica e metrica dei «Sepoleri» del Foscolo, Bulzoni, Roma 1978; G. AMORETTI, Poesia e psicanalisi: Foscolo e Leopardi, Garzanti, Milano 1979; M. RAK, La «società in miniatura»: una sequenza dominante nelle «Ultime lettere di Jacopo Ortis», in Sette conversazioni di sociologia della letteratura, Feltrinelli, Milano 1980; AA.VV., Lezioni su Foscolo, La Nuova Italia, Firenze 1981; W. BINNI, Ugo Foscolo. Storia e poesia, cit.; M. CERRUTI, Foscolo, gli antichi segni di luce, in L’«inquieta brama dell'ottimo», Flaccovio, Palermo 1983; L. DERLA, L'isola, il velo, l’ara. Allegoria e mito nella poesia di Ugo Foscolo, E.C.I.G., Genova 1984; M. A. TERZOLI, Il libro di Jacopo. Scrittura sacra dell’«Ortis», Salerno, Roma 1988; M. CERRUTI, Introduzione a Foscolo, Laterza, Roma-Bari 1990; E. SANGUINETI, Introduzione a Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Bompiani, Milano 1990.
Bibliografia
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158
IL QUADRO DI RIFERIMENTO
“I/ Distinzioni
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Romanticismo come categoria storica e come movimento
Romanticismo
“perenne” e Romanticismo “storico”
Seicento e Settecento
preliminari
In Italia il movimento romantico si affaccia nel 1816, ma le tendenze romantiche erano in atto in Europa già da tempo, sin dagli ultimi decenni del Settecento, e nell’Italia stessa certi fenomeni culturali che possono rientrare nell’ambito romantico erano presenti prima di quella data, come abbiamo potuto rilevare nei capitoli dedicati all’età napoleonica e a Foscolo. Occorre dunque, prima di affrontare l’esame del Romanticismo, fissare una distinzione preliminare, indispensabile per evitare in seguito molti equivoci: il termine “Romanticismo” può essere usato come categoria storica, ad indicare un intero periodo nelle sue varie manifestazioni; oppure può essere usato in un’accezione più ristretta, a designare un determinato movimento, che si
concreta in scuole o gruppi intellettuali legati da principi comuni ed ispirati da una precisa poetica, che si esprime in mamifesti programmatici e in opere teoriche. Se si ha chiara tale distinzione, determinati scrittori, che non fecero parte di movimenti
romantici o addirittura li avversarono, possono egualmente essere considerati “romantici” nell'accezione più larga del termine, in quanto parteciparono della visione del mondo e delle tendenze di gusto di quel determinato periodo storico. Esemplare a tal proposito è il caso di Foscolo, che si è già esaminato; ma avremo modo di vedere ancora i casi di Leopardi e di Carducci. Un'altra precisazione necessaria è la seguente: in passato sia il Romanticismo sia il Classicismo sono stati visti come categorie universali dello “spirito”, che si collocano al di fuori del divenire storico e si presentano costantemente nelle varie epoche. Si è parlato così di Romanticismo “storico” e Romanticismo “perenne”. E questa una posizione oggi decisamente superata. La categoria “Romanticismo”, sia nell’accezione più vasta, sia in quella più ristretta, è usata comunque per designare fenomeni storici, legati alle condizioni spirituali e materiali di un dato momento della civiltà occidentale, e comprensibili solo in relazione con esso.
M4
Origine del termine “Romanticismo”
La parola romantic compare per la prima volta in Inghilterra verso la metà
del Seicento e, coerentemente con il clima razionalistico, viene usata in senso spregiativo ad indicare ciò che vi era di fantastico, assurdo e falso negli antichi romanzi cavallereschi e pastorali. Nel Settecento, quando si tende a riconoscere l’importanza della fantasia nell’arte, il termine comincia a perdere l’accezione peggiorativa, e passa a significare semplicemente «ciò che è atto a dilettare l’immagina-
zione». Viene anche usato per definire paesaggi simili a quelli che si trovano negli Microsaggio
154.
: antichi romanzi, cioè aspetti selvaggi, solitari e malinconici della natura. A fine Settecento viene poi a designare non solo la scena oggettiva, ma anche l'emozione soggettiva suscitata in chi la contempla. Nella Nouvelle Héloîse Rousseau col termine romantique definisce qualche cosa di vago e indefinito, «un non so che di magico, di sovrannaturale, che rapisce lo spirito e i sensi». Il termine fu poi usato dagli scrittori e filosofi che si raccoglievano intorno alla rivista “ Athenaeum” (cfr., in questo stesso Quadro di riferimento, il $ 4.1) per definire la letteratura moderna, nata dalla sensibilità formatasi nel Medio Evo, in contrapposizione con la letteratura classica: per questi romantici tedeschi la visione classica era contrassegnata dall’armonia e dalla pienezza, l’anima moderna da una lacerazione, da un senso doloroso di mancanza. Tale stato d’animo è il prodotto del Cristianesimo, che ha introdotto il senso del distacco da una totalità originaria, dell’umano dal divino, del finito dall’infinito (cfr. Schlegel, T31). Per cui il termine “romantico” viene usato a designare uno stato d'animo di nostalgia per ciò che è lontano, indefinito, sconosciuto (Sernsucht), di tensione verso l’infinito. In Italia, nei “manifesti” dei Romantici milanesi, la parola designa la poesia moderna, la poesia «dei vivi» in contrapposizione alla poesia «dei morti» e all’imitazione pedantesca dei classici (cfr. Berchet, T65).
I romantici tedeschi
I romantici
italiani
PO
2.) Aspetti 3 generali 1
—— del Romanticismo europeo
Impossibilità di una definizione sintetica
Il Romanticismo è un’astrazione
Le tematiche negative
2.1. Le tematiche “negative”. Il Romanticismo, inteso nella prima accezione, investe tutti gli aspetti della civiltà occidentale dalla fine del Settecento alla metà dell’Ottocento (per certi aspetti le sue manifestazioni si estendono ancora per tutto il Novecento, sino ai giorni nostri), condizionando e inglobando dialetticamente in sé anche quelle tendenze che vi si oppongono (come i vari classicismi); coinvolge inoltre non solo la letteratura, ma le arti figurative, la musica, il pensiero, la mentalità generale e persino il costume e la vita quotidiana. Darne una definizione sintetica è perciò impossibile e persino scorretto, perché un intero periodo storico, nelle sue infinite manifestazioni, talora fra loro divergenti o persino contraddittorie, non sopporta di essere chiuso in una formula, che schematizzerebbe e irrigidirebbe la mobile ricchezza del reale. Cercheremo tuttavia, per esigenze didattiche, di indicare alcune costanti da assumere come denominatori comuni di quella pluralità di manifestazioni culturali, di personalità artistiche, di tendenze, in modo da fornire delle coordinate di orientamento. Ciò deve indurre ad un’altra precauzione nell’uso della categoria “Romanticismo”: bisogna sempre essere consapevoli che essa è il risultato di un processo di astrazione. Nella realtà il Romanticismo non esiste: esistono solo scrittori, pensatori, artisti romantici, entità concrete e individuali. Solo partendo da queste entità e astraendo le loro caratteristiche comuni si può giungere a costruire la categoria storica generale (ma è un discorso che vale per tutte le categorie della storia culturale, Medio Evo, Rinascimento, Barocco, Illuminismo). Per individuare quei denominatori comuni si può partire da un dato di fatto: ciò che colpisce immediatamente chi osserva nel suo complesso, con un colpo d’occhio —d’insieme, la cultura romantica, è che in questo periodo, nella poesia, nella narrativa, nella letteratura drammatica, nelle arti, trionfano delle tematiche negative: il dolore, la malinconia, il tedio, l'inquietudine, l'angoscia, la paura, l’infelicità individuale e cosmica, la delusione, il disgusto, il rifiuto della realtà, il vagheggiamento della morte, il fascino del male, dell’orrore, del mistero. È emblematico il titolo di
un’opera che inaugura il nuovo clima culturale, ottenendo enorme successo ed esercitando grande suggestione: I dolori del giovane Werther. Si tratta di motivi che erano sempre comparsi nelle letterature di tutte le epoche; ma mai avevano dominato così totalmente il panorama della cultura. E ben difficile, se non impossibile, trovare uno scrittore o un artista di questo periodo che abbia una visione del mondo totalmente serena, ottimistica, immune da elementi negativi. L’età del Risorgimento
155 2.2. Le grandi trasformazioni storiche. A questa constatazione se ne può affiancare un’altra, riguardante non più il piano della vita spirituale, ma quello della vita associata dell’uomo: il periodo in questione è segnato da grandiose e rapide trasfor| Le due rivoluzioni: | quella politica
| La rivoluzione industriale
Le crisi cicliche
mazioni, che sconvolgono assetti secolari, nelle istituzioni politiche, nell’organizzazione economica e sociale, nei sistemi delle idee. Vi è innanzitutto la rivoluzione poli-
tica, che dalla Francia si irradia a coinvolgere l'Europa intera (senza dimenticare l’antefatto della Rivoluzione americana). Crolla la monarchia assoluta di diritto divino e lo stesso rappresentante di quell’ordine, il re, viene ucciso; si afferma il principio, di sconvolgente novità, che la fonte della sovranità è il popolo; alle idee di autorità e gerarchia si contrappongono le idee di libertà e di eguaglianza; il potere è assunto dai rappresentanti eletti del popolo. Sono fatti di enorme portata, che colpiscono profondamente la coscienza dei popoli europei, generando ora entusiasmo, ora smarrimento, sdegno, ripugnanza. Ma, oltre a quella politica, un’altra rivoluzione, meno rapida e forse meno direttamente evidente alla coscienza collettiva, era in atto: la rivoluzione economica determinata dall’industrializzazione. Originatasi già a metà Settecento in Inghilterra, essa si estende progressivamente, nel corso dell’Ottocento, agli altri paesi europei, facendo sentire sempre più prepotentemente i suoi effetti. La rivoluzione economica determina un dinamismo dirompente nella società, sconvolgendo stratificazioni sociali tradizionali, considerate eterne come vere leggi di natura. Ora nuovi ceti, prima disprezzati e tenuti in condizioni subalterne, si affacciano alla scena sociale e lottano per affermare la loro egemonia. Si apre la strada all’energia dell’individuo: grazie all’intraprendenza, al calcolo, all’audacia, e spesso alla mancanza di scrupoli, si creano in breve tempo fortune e potenze economiche colossali. Muta profondamente la vita quotidiana: una quantità di merci prima impensabile invade il mercato, grazie all’uso delle macchine che moltiplicano la produzione. I consumi si estendono a ceti che ne erano esclusi. Muta il rapporto città-campagna. Sorgono nuove città industriali, dove si concentrano masse di nuovi lavoratori, gli operai dell’industria. Entra in crisi il lavoro artigiano; muta la forma stessa del lavoro, che diviene sempre più spersonalizzato, parcellizzato, alienato. Nelle città industriali si addensa il nuovo proletariato, sfruttato, abbrutito, miserabile. Antichi valori patriarcali, propri delle società agricole, vengono distrutti. I trasporti, grazie alla macchina a vapore, si fanno infinitamente più rapidi e con essi i rapporti tra i vari paesi, gli scambi di merci e di idee. È una rivoluzione della vita umana di proporzioni mai viste prima: nel giro di pochi decenni il mondo occidentale muta più radicalmente di quanto non fosse mutato nel-
l’arco dei millenni precedenti. I mutamenti creano forti contraddizioni, che non possono non generare tensione e paura nella coscienza collettiva. È l’altra faccia, quella negativa e inquietante, della nuova realtà, che si contrappone alla faccia positiva, all’euforia e all’ottimismo ispirati dallo sviluppo del progresso, dalla libertà politica ed economica, dalla ricchezza crescente. Il sistema industriale esige la continua espansione, pena il crollo. Ma il mercato non può assorbire illimitatamente le merci prodotte: ciò determina delle crisi cicliche, dagli effetti rovinosi sull'economia e sulla vita quotidiana delle popolazioni. Un sistema economico che appare fondato sul calcolo e la razionalità si rivela così minato da un’oscura irrazionalità. Da tutto ciò nasce insicurezza, paura, senso di impo-
Le cose schiacciano l’uomo
tenza. Come l’apprendista stregone della fiaba, l’uomo moderno non si sente più in grado di dominare le forze che egli stesso ha scatenato. Questo senso di paura sì esprime nella letteratura “nera”: si pensi al mostro di Frankenstein, nell'omonimo romanzo di Mary Shelley (cfr. T41), l’uomo artificiale costruito dallo scienziato, che sfugge al suo controllo, seminando distruzione e morte. Oltre alle crisi cicliche, altri aspetti della nuova realtà sembrano sfuggire al dominio dell’uomo. Sul mercato i prezzi delle merci, o delle azioni (la Borsa), sembrano mossi
verso l’alto o verso il basso non dalla volontà umana, ma da forze intrinseche e misteriose. Dietro ai movimenti dei prezzi e dei valori di Borsa c’è pur sempre l’uomo che
compra e vende, ma questi rapporti umani non sono più immediatamente trasparenti. Le cose, gli oggetti, sembrano assumere una vitalità diabolica, schiacciando Il quadro di riferimento
156
n
l’uomo, togliendogli iniziativa e autonomia, occupando tutto il campo della realtà. L’età che fa trionfare l’energia creatrice dell’individuo è anche quella che vede il trionfo delle cose sull'uomo. È un altro motivo di paura e di inquietudine che si aggiunge. l Una forza antagonistica: il proletariato operaio
Il nuovo sistema produttivo industriale crea anche una forza antagonista, che
appare non assimilabile, non controllabile: la massa degli operai sfruttati, che si contrappone ostile al sistema sociale. L’ostilità e l’antagonismo si manifestano in molti modi: con la rivolta, talora violenta (il Luddismo ad esempio, che si accanisce contro le macchine), con lo sciopero paralizzante, ma anche solo con modi di vita opposti a quelli borghesi, ripugnanti alla coscienza comune della classe egemone (immoralità, promiscuità, alcolismo, delinquenza). La presenza di questa grande forza ostile, come di un grande vulcano sotterraneo che minaccia l’esplosione, incombe anch'essa paurosamente sulla coscienza collettiva, e percorre in modo inquietante le manife-
stazioni culturali dell’Ottocento.
La contaminazione della natura
po
Oltre a sconvolgere gli assetti politici e sociali tradizionali, con i valori che li consacravano, la nuova realtà aggredisce anche la natura: l’industria, con le sue esigenze, muta il volto al paesaggio naturale (ferrovie, ponti, dighe, fabbriche, città immense e in continua espansione che inghiottono la campagna); non solo, ma lo contamina con i suoi fumi, le sue scorie, i suoi veleni (non si dimentichi che la prima fase industriale si basa sul carbone, altamente inquinante). La Natura era considerata da tutta una tradizione come sacra, come una sorta di Madre inviolabile, come fonte dei valori più autentici. Così, nella coscienza collettiva, al senso di colpa per aver abbattuto gli istituti politici e sociali tradizionali (per aver ucciso il Padre, se si vuole usare la formula simbolica della psicanalisi), si associa il senso di colpa oscuro, spesso non i ben consapevole, ma inquietante, di aver violato la Madre Natura. 2.3. Il Romanticismo come espressione della grande trasformazione moderna. L’epoca di grandi trasformazioni tra Sette e Ottocento è quindi percorsa da tensioni laceranti, più o meno sotterranee. Se si considera che le tematiche negative che si elencavano all’inizio e queste tensioni sono compresenti nello stesso periodo, appare
La letteratura interpreta le tensioni dell’età
difficile non collegare tra loro le due serie di fenomeni: la letteratura sembra interpretare le paure, le ossessioni, le angosce della sua età. E opinione diffusa é costantemente ripetuta che il Romanticismo abbia le sue radici storiche nella delusione del razionalismo illuministico e delle speranze della Rivoluzione francese. Ma in realtà le tendenze romantiche, sotto le specie di tematiche negative quali quelle indicate, erano già in atto prima della rivoluzione: lo Sturm und Drang, il wertherismo, Rousseau, l’ossianismo, la letteratura “gotica”, tutto il cosiddetto Preromanticismo, che non è
che una prima fase del Romanticismo, in cui si esprime la percezione inquieta del crollo imminente del vecchio mondo e delle grandiose trasformazioni che si preparavano (cfr. Quadro di riferimento I, $ 7). Si può dunque formulare l’ipotesi che il Romanticismo, nel suo vasto processo complessivo, sia l’espressione non soltanto della delusione storica dell'Illuminismo e della rivoluzione, ma di tutto il grande moto di trasformazione di quella età, con le contraddizioni che esso genera. La delusione storica non è che uno dei momenti di quel processo, che ha radici più profonde e più lontane.
2.4. L’intellettuale e le contraddizioni dell’età. Il punto di contatto tra le due serie indicate, le tematiche culturali negative e le tensioni della nuova realtà sociale, è da individuare nella figura dell’intellettuale che produce quella cultura. L’intellettuale non vive in una dimensione separata, in una sorta di iperuranio ideale in cui non arrivano gli echi del mondo, ma, anche se si apparta, è pur sempre immerso nella realtà, ne patisce le contraddizioni e trasfonde la sua esperienza nella sua opera, talora in forma diretta, talora in forme mediate, allusive, simboliche. In genere l’artista ha le antenne più sensibili nel cogliere le tensioni del suo periodo, l’occhio più acuto nello scandagliare i processi in atto, una coscienza più lucida di quella del cittadino comune. In questa età ciò scaturisce non solo dalla particolare sensibilità dell’artista, ma anche da ragioni oggettive, dalla sua nuova collocazione sociale, che gli fa sentire in modo più diretto e doloroso le contraddizioni in atto. L’età del Risorgimento
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157
Mutamento del ruolo
. sociale e degli . intellettuali
L’estraniamento dell’artista \
L’artista incompreso e ribelle
Arte e mercato
In sistemi sociali del passato, come ad esempio quello aristocratico e assolutistico antecedente la Rivoluzione francese, l’intellettuale o faceva parte dei ceti egemoni (nobiltà, clero), o era da essi cooptato, come cortigiano o protetto. La sua funzione
era quella di elaborare l'ideologia dei gruppi dominanti e di mediare il consenso verso il potere (sono rare le figure di artisti ribelli nei secoli precedenti l’Ottocento). Ora, con l’avvento del nuovo sistema borghese, l’intellettuale perde in genere la sua posizione privilegiata. Sempre più raramente proviene dall’aristocrazia o dal clero e può godere di una rendita. Normalmente, deve trovare un'occupazione per vivere (il caso dello scrittore che vive dei proventi del suo lavoro intellettuale è ancora raro nel primo Ottocento europeo), e sono spesso occupazioni poco remunerate e di poco prestigio sociale (l'insegnante, il precettore privato, l'impiegato, il bibliotecario, il giornalista), o che comunque non gli consentono più quell’otium che era la prerogativa dell’intellettuale del passato. L’intellettuale insomma è ora un declassato, posto ai margini del corpo sociale. Ciò di norma genera in lui frustrazione, rabbia, risentimento verso la società. Il suo punto di vista non è più quello della classe dominante, ma un punto di vista estraniato. Questo gli consente un atteggiamento più critico e lo porta a cogliere più acutamente le contraddizioni del suo tempo. In secondo luogo l’artista, in quanto tale, è portatore del valore della bellezza disinteressata. Questo valore in altri sistemi sociali poteva coincidere con i valori della classe dominante, ad esempio con la raffinatezza e il culto del superfluo della società aristocratica. Ora invece dominano nella società altri valori, l’utile, il calcolo razionale, la produttività, che sono la negazione del bello disinteressato. L’artista è visto
come un individuo improduttivo, inutile,opeggio ancora come colui che ha solo il compito di intrattenere e divertire. Egli si sente così incompreso, umiliato. Accumula perciò altro risentimento; altri motivi di conflitto con la società. La lacerazione è aggravata dal fatto che in genere egli proviene proprio dalla classe sociale borghese, per cui si sente respinto dalla matrice stessa dalla quale è uscito. Ciò lo induce sovente ad atteggiamenti di rivolta, di anticonformismo esasperato, di rifiuto dei valori correnti (si pensi alla figura del dandy, del bohémien, del “poeta maledetto”). Ma questo conflitto con la classe da cui esce accresce in lui il senso di colpa dell’essere “diverso” e, in una sorta di circolo perverso, accentua ancora i suoi atteggiamenti di rivolta. Un terzo motivo di conflitto è originato dall’instaurarsi del mercato dei prodotti intellettuali. L’opera d’arte diviene una merce che si scambia sul mercato, che ha un prezzo; talora, come nel caso del libro, presuppone una vera e propria organizza-
zione industriale (l'editoria moderna). Anche questo offende l'artista: la sua opera è il prodotto della sua genialità creativa, è per lui un valore incommensurabile, senza prezzo: il fatto che sul mercato sia segnata da un prezzo è sentito come una contaminazione, quasi un sacrilegio. Non solo, ma se vuole vendere sul mercato, l’artista
Soluzioni di
compromesso
deve assecondare proprio i gusti di quel pubblico che egli disprezza, per la sua grettezza borghese e la sua insensibilità al bello, deve in certo qual modo prostituirsi. Questo rapporto col mercato accresce ancora la posizione conflittuale dell’artista verso la società, il suo senso di estraneità. Anche per questo l’artista ha l’occhio più acuto nel cogliere le contraddizioni della realtà in cui vive, perché tali contraddizioni le patisce dolorosamente su se stesso. Da questa conflittualità, da questa percezione acuta e dolorosa delle contraddizioni, nascono quelle tematiche negative dal cui esame abbiamo preso le mosse. Non mancano soluzioni di compromesso. L’artista può adattarsi al suo nuovo ruolo, accettare il meccanismo del mercato, mirare al successo e all'approvazione generale blandendo i gusti del pubblico e facendosi portatore dei valori correnti. In effetti, accanto alle tematiche negative estreme, esistono tematiche più moderate, che testimo-
niano un rapporto non di conflitto radicale ma di compromesso con la realtà presente; ma ciò non esclude che l’artista di questo periodo covi pur sempre un segreto rancore verso la società, un oscuro impulso di rivolta che si manifesta magari in forme simboliche attenuate, come l'evasione nel sogno o nell’esotico, ma pur sempre percepibili. Partendo dagli atteggiamenti degli intellettuali, si può allora individuare, sia pur
per grandi generalizzazioni, un denominatore comune delle diversissime manifestaIl quadro di riferimento
158 Un denominatore comune: il rifiuto
Il rifiuto della ragione
Il sogno e la follia
\_ Il soggettivismo!
La tensione verso l’infinito
Un ritorno alla
religiosità
Il male
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zioni del Romanticismo europeo: ed è l’inquietudine, il rifiuto, la fuga, la rivolta dinanzi ad una realtà sentita come negativa. Sono categorie forzatamente astratte, che bisognerà cercare di riempire di volta in volta del loro significato concreto ed analizzare nelle forme specifiche che assumono nelle pagine degli scrittori. 2.50I temi del Romanticismo europeo. Poiché la realtà moderna, che si delinea attraverso le grandi trasformazioni tra Sette e Ottocento, è caratterizzata dalla razionalità organizzatrice e produttiva, il rifiuto romantico si indirizza in primo luogo contro la ragione. È perciò limitativo parlare di opposizione del Romanticismo al razionalismo illuministico, come si fa abitualmente: l’Illuminismo non è che un aspetto delle tendenze alla razionalizzazione della realtà moderna e per di più è una semplice fase d’avvio, un preannuncio di ciò che seguirà. Il Romanticismo si presenta in primo luogo come esplorazione dell’irrazionale, di quella parte della realtà sommersa in una zona d’ombra, di quel vasto continente prima d’allora appena intuito da scrittori ed artisti e spesso evitato con paura. Le immagini simboliche che dominano nelle varie età sono sempre molto significative: l’età dell'Illuminismo razionalistico si riconosceva nell’immagine della luce (i “lumi”); il Romanticismo predilige invece la notte, la tenebra, che sono appunto metafore dell’irrazionale. E emblematico come uno dei più grandi poeti romantici tedeschi, Novalis, scriva degli Inni alla Notte (cfr. T38). In concreto, questa esplorazione dell’irrazionale si manifesta in un’attenzione per la vita dei sentimenti, per la passionalità (a questo avevano già indirizzato nel secondo Settecento il Sensimo, il culto roussoviano della sensiblerie, lo slancio passionale dello Sturm und Drang), ma soprattutto per gli stati della psiche che escono dalla normalità razionale: il sogno, la fantasticheria, l’ebbrezza, il delirio, l’allucinazione, la follia. Il sogno e la follia in particolar modo sono i due grandi motivi romantici, declinati in infinite forme nello svolgersi della letteratura europea dell'Ottocento. Essi costituiscono dimensioni alternative all’esistenza normale, grigia e piatta, i canali attraverso cui l’io entra in contatto con il mistero, l’ignoto, l’indicibile. La stessa creazione artistica è assimilata a furor, delirio, follia, in cui si fanno strada forze profonde che la razionalità comprime. Per questo l’esasperazione passionale, il sogno, la follia sono stati di grazia per il poeta e per l’artista. | Questa esplorazione dell’irrazionale, della zona d’ombra, dà origine ad un soggettivismo esasperato: il romantico tende a sprofondare negli abissi dell’interiorità, concepita come unica realtà esistente. Il mondo esterno non esiste, è solo una proiezione o creazione dell’io. Su questo atteggiamento agisce la suggestione della filosofia idealistica, che riduce la realtà a puro soggetto e considera il mondo esterno solo come negazione dell’io. Di qui scaturisce una singolare manifestazione della letteratura di questo periodo, in particolare di quella tedesca: l'ironia romantica, che consiste nel guardare il mondo con distacco, nella consapevolezza appunto che esso non è che una creazione dell’io, che l’io può fare e disfare a suo piacimento. Il soggettivismo, il rifiuto della realtà esterna e della razionalità che la regola, si traducono poi in una tensione inesausta verso l’infinito, in un’insofferenza per ogni limite e costrizione, nell’ansia mistica di superare le barriere del reale per attingere ad una realtà più vera che è al di là di esse, in cui l’io si identifica con la totalità. Questo indistinto misticismo si può concretare a volte nelle forme della religione positiva. Di contro al materialismo, all’ateismo o al deismo illuministici, il Romanticismo segna un netto ritorno alla spiritualità e alla religiosità, che si manifesta in vere e proprie conversioni alla religione tradizionale (Chateaubriand, Manzoni), ma più spesso si volge ad indagare un’altra dimensione del sovrannaturale, facendo ricorso alle scienze occulte, all’esoterismo, alla magia, all’alchimia. In questa dimensione si affaccia con urgenza, attraverso le pagine di tanti scrittori romantici, l’immagine del Principe delle tenebre, del signore del male, Satana, a cui viene tributato un culto segreto e blasfemo. Il male esercita un fascino prepotente sull’anima romantica. Di qui nascono le sfrenate fantasie di sangue, crudeltà, lussuria e morte che turbano per decenni l’orizzonte della letteratura europea (e che sono state magistralmente indagate da M. Praz in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1948). Vi è un filone
L’età del Risorgimento
159 Il sonno della ragione produce mostri
La Sehnsiicht
del Romanticismo, eloquentemente definito “nero”, che ama creare atmosfere orrorose e allucinate, popolate di arcane apparizioni, di spettri, di demoni, di visioni macabre, percorse da brividi di arcano terrore. «Il sonno della ragione produce mostri», scriveva ai primi dell’Ottocento il pittore spagnolo Francisco Goya: e sono appunto questi i mostri che il rifiuto della ragione fa affiorare dal buio dell’anima europea, popolandone le pagine di poeti e romanzieri. Al di là di queste punte estreme, il misticismo romantico spesso non trova una meta precisa e si risolve in una continua inquietudine, in un senso perpetuo di inappagamento, in un desiderio struggente di non si sa bene cosa. E lo stato d’animo che iRomantici tedeschi definiscono Sehnsticht, termine intraducibile, che è stato però
reso come *desiderio del desiderio», o «male del desiderio». Questa inquietudine
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L'esotismo nello spazio ni
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L’esotismo nel tempo
spinge l’anima a protendersi sempre al di là del luogo e del momento presenti, sentiti come limiti angusti e soffocanti. Oltre alla fuga negli abissi dell’interiorità e nella dimensione del sovrannaturale, si ha così anche una fuga nel tempo e nello spazio, attraverso l'immaginazione e la fantasticheria. E questa una delle tendenze fondamentali del Romanticismo, l’esotismo, che va inteso in un’accezione più ampia di quella corrente. Si può avere infatti un esotismo spaziale, che consiste nel vagheggiare luoghi lontani e ignoti, resi affascinanti proprio dalla lontananza e dalla diversità. I luoghi mitici dell’immaginario esotico romantico sono l'Oriente raffinato, lussurioso e crudele, oppure le contrade selvagge e incontaminate del nuovo mondo o dei mari del Sud. Ma si può avere anche un esotismo temporale, che consiste nel trasferirsi idealmente in altre epoche diverse dal presente. In tal caso due sono le mete più caratteristiche, il Medio Evo cavalleresco e mistico, oppure l’Ellade antica, vista come paradiso perduto di serenità, armonia, bellezza e pienezza vitale. A qualificare romanticamente la tensione verso l’“altrove” non è l’oggetto vagheggiato, ma il movimento della fuga. Perciò anche il mondo classico può essere fatto oggetto di un idoleggiamento di tipo romantico: lo si è visto in Foscolo, ma ne vedremo altre forme in Hòlderlin, in Keats, in Carducci. Alla base dell’esotismo, in qualunque forma si manife-
Il mito dell’infanzia
Il primitivo
Il popolo
sti, vi è il rifiuto della realtà presente, nella sua grigia piattezza o nelle sue tensioni laceranti. L'“altrove” vagheggiato non è mai un luogo o un tempo che corrisponda a coordinate reali, ma sempre un luogo o un tempo immaginario, mitico. Ed è contrapposto al presente come luogo/tempo immune dallo squallore o dall’atrocità, in cui la vita è più innocente, o più autentica, o più ricca, o esteticamente più raffinata. Da una disposizione analoga deriva un altro dei miti prediletti dal Romanticismo, quello dell’infanzia. Anche il mondo infantile è visto come un paradiso perduto di innocenza e di gioia, una stagione privilegiata in cui il rapporto con le cose è fresco e immediato e in cui il sogno e l'immaginazione alla squallida realtà ne sostituiscono una più bella. L'infanzia può essere quella individuale, ma anche quella collettiva dell’umanità: affine al mito dell’infanzia è, infatti, quello del primitivo, vagheggiato come depositario di una spontaneità e autenticità perdute dalla civiltà moderna (un mito che si affaccia già nel Settecento, in clima roussoviano). E poiché il primitivo sopravvive solo in paesi remoti, si ritorna al terreno dell’esotismo esaminato in precedenza: i miti romantici si organizzano in un sistema, in cui ogni elemento si lega agli altri. In una luce simile è visto anche il popolo, fanciullesco e ingenuo, dotato di una fantasia naturalmente poetica, depositario dell’anima originaria e spontanea della nazione. Anche quello del “popolo” è un altro grande mito romantico. Di qui nasce l'interesse a raccogliere le tradizioni, le leggende, le fiabe e i canti popolari, che percorre il Romanticismo europeo, soprattutto quello nordico; di qui il gusto di riprodurre le forme popolari da parte della letteratura colta. Ma del patrimonio tradizionale e popolare fanno parte anche le leggende fosche e macabre, brulicanti di creature sovrannaturali, demoni, spettri, streghe, mostri, oppure le credenze in un mondo fantastico e fiabe-
sco, popolato di gnomi, folletti, fate: l'interesse per quel patrimonio si collega quindi, per molti versi, con il gusto per il “nero” e per il fantastico proprio dell’irrazionalismo romantico.
2.6. Gli eroi romantici. Ilrifiuto ed il conflitto, oltre ad esprimersi in queste forme mediate e simboliche, vengono anche a tematizzarsi quasi direttamente in particolari figure eroiche che tornano costantemente nella letteratura romantica. Nella sua fuga Il quadro di riferimento
160 Titanismo e vittimismo
Il fuorilegge
L’esule, lo straniero
Il poeta
nello spazio e nel tempo, nel sovrannaturale o negli abissi dell’anima, il romantico si trova sempre ad urtare contro i limiti imposti dalla società umana. Nasce di qui un duplice ideale eroico: l’eroe romantico può essere il ribelle solitario che, orgoglioso della sua superiorità spirituale e della sua forza, sprezzante della mediocrità, si erge a sfidare ogni autorità, ogni legge, ogni convenzione, ogni limite, per affermare la sua libertà e la sua individualità d'eccezione (atteggiamento che viene definito titanismo); oppure può essere la vittima, colui che proprio dalla sua superiorità è reso diverso dall’umanità comune, e per questo è incompreso ed escluso, ma non esprime il suo disdegno in gesti clamorosi di rivolta, bensì isterilisce la sua vita nei sogni, senza mai riuscire a tradurli in azione, ed esprime il rifiuto con la solitudine, la malinconia, la contemplazione angosciata della propria impotenza e della propria sconfitta, il vagheggiamento della morte, sino all’estremo gesto autodistruttivo del suicidio (vittimismo). Gli archetipi di queste due figure si possono trovare subito all’affacciarsi di una sensibilità romantica nella letteratura europea: il primo nel personaggio del Masnadiere di Schiller (1783), il secondo nel Werther di Goethe (1774). Dai due atteggiamenti di base nasce una serie di figure mitiche, particolarmente care al gusto romantico. In primo luogo il nobile fuorilegge che, spinto dalla sua sete di infinita libertà e grandezza, calpesta le leggi umane e si erge a sfidare Dio stesso, compiendo terribili delitti, e per questo è destinato ad essere gravato dal peso di un’oscura maledizione. Su questa figura viene a sovrapporsi quella del primo grande ribelle, Lucifero, il più bello degli angeli, che aveva osato sfidare Dio in un folle peccato di orgoglio. Dietro il nobile fuorilegge romantico s’intravede perciò la figura dell’angelo caduto, avvolta spesso da un alone sinistro e satanico. È questo il caso estremo, ben esemplificato dai Masnadieri di Schiller citati in precedenza, nonché dal Corsaro di Byron (1814: cfr. T44). Ma le pagine della letteratura romantica europea sono popolate da figure di ex-lege, di irregolari, di irrequieti ribelli, il cui fascino scaturisce proprio dal rifiuto, dall’insofferenza della normalità. Sul versante opposto, quello del vittimismo, si colloca la figura dell’esule, l’uomo senza radici, che un destino avverso o la malvagità degli uomini o un’inquietudine senza nome spingono a vagare senza sosta, lontano dalla patria; una variante può essere la figura dello straniero, di cui sono ignoti il luogo di provenienza e il passato (che però si intuisce tempestoso), e il cui fascino nasce dal mistero che lo avvolge. In queste figure si proietta in forme metaforiche e traslate l'inquietudine dello scrittore, il suo rapporto conflittuale con la realtà, il suo senso di esclusione. Ma il conflitto arriva a rappresentarsi direttamente: anche il poeta è infatti una delle figure mitiche predilette dalla letteratura romantica. Egli è il genio, un’anima privilegiata, dotata di sensibilità e intelligenza superiori; attraverso la sua bocca parla la divinità stessa: proprio per questo non può essere compreso dalla massa degli uomini mediocri, e resta escluso dalla società, disprezzato, deriso, perseguitato. In questa luce, eroica e vittimistica insieme, la figura dell’intellettuale comparirà a lungo, in varie forme, nella letteratura europea dell’Ottocento, perdurando ancora in pieno Novecento. 2.7. Il Romanticismo “positivo”. La presenza dominante di tutte queste tematiche negative ha fatto parlare di una “malattia” romantica. Pertanto simili manifestazioni sono state svalutate da una storiografia ispirata a principi liberali e risorgimentali, di cui Croce è stato ancora in pieno Novecento un tipico rappresentante. Alla tematica negativa e malata è stato contrapposto un Romanticismo “positivo”, quello teso ai grandi ideali, all'impegno civile e patriottico, quello che riscopre la positività della storia e delle tradizioni nazionali e popolari. Il Romanticismo sente in effetti
Il concetto di nazione
con grande intensità il senso della nazione, anzi, si può dire che il concetto moderno di nazione, intesa non solo in senso geografico e politico, ma anche spirituale e culturale, nasca solo con il Romanticismo. Ogni nazione è come una grande individualità, con un’a-
nima che contraddistingue la sua peculiare identità, lo “spirito del popolo” (Volksgeist). “Popolare”, nella concezione romantica, viene a identificarsi come “nazionale”. Que-
st'anima si è formata attraverso le vicende storiche vissute da quel popolo. Per questo il passato storico è un patrimonio prezioso, che deve essere conosciuto e posseL’età del Risorgimento
161 Il senso della storia
Il Romanticismo
“positivo” e il rifiuto
Il valore della “malattia” romantica
Romanticismo reazionario
Romanticismo progressista
duto a fondo, perché una nazione abbia piena e forte coscienza della propria identità. E questo il senso della storia romantico, che si contrappone all’antistoricismo razionalistico. L'Illuminismo svaluta il passato come cumulo di aberrazioni, in nome della ragione, che è un dato eterno e immutabile; il Romanticismo, al contrario, ricupera il passato come fase di un processo in cui ogni momento è stato indispensabile, e perciò stesso positivo, da studiare senza condanne astrattamente aprioristiche. Ma, a ben vedere, anche questo Romanticismo “positivo” può essere assunto entro
la categoria del “rifiuto” che abbiamo proposto come denominatore comune delle varie manifestazioni del periodo storico. L'aspirazione all’ideale è pur sempre il rifiuto, la negazione del gretto utilitarismo proprio della società moderna, in cui, per usare le parole di Leopardi, «più de’ carmi il computar si ascolta». L'interesse per la storia nasce da una contrapposizione all’angustia e alla viltà del presente, tanto che spesso mal si può distinguere dal vagheggiamento nostalgico ed esotizzante del passato. Il recupero delle tradizioni nazionali e popolari è pur sempre polemico contro un mondo presente che nega e misconosce quelle radici, una contrapposizione dell’autenticità originaria a ciò che nella realtà attuale vi è di inautentico e degradato. Anche l’impegno civile del poeta, la battaglia contro l’ingiustizia e l'oppressione in nome della libertà e dell'umanità, presuppone una scontentezza nei confronti della realtà così com'è, una conflittualità con essa. La cifra dell’inquietudine e del rifiuto, insomma, si può pur sempre riconoscere anche dietro le manifestazioni “in positivo” del Romanticismo. Ma, dal lato opposto, è un errore dare un giudizio di condanna moralistica del Romanticismo “negativo”, bollandolo come “malattia”. In quella “malattia” si esprime la percezione dei grandi conflitti, delle grandi trasformazioni del mondo moderno, degli sconvolgimenti che queste provocano nella vita materiale e spirituale degli uomini. In forma più o meno chiara e diretta, la “malattia” romantica è dunque una manifestazione di coscienza critica, che sa andare a fondo nel cogliere l’essenza della realtà. 2.8. Gli orientamenti politici. Sul piano degli orientamenti politici, il “rifiuto” romantico del presente può andare in direzioni diametralmente opposte: può assumere posizioni reazionarie e regressive, vagheggiando come modello politico il Medio Evo feudale e imperiale e le sue forme sociali rigidamente gerarchizzate (ciò avviene soprattutto in Germania e in Francia, anche se non mancano cospicue eccezioni, come un Holderlin, un Heine, un Hugo); oppure può assumere posizioni liberali o democratiche, favorevoli alla rivoluzione, all’abbattimento del dispotismo politico e religioso, alla libertà, all’eguaglianza, al progresso, al riscatto delle nazioni oppresse (così il Romanticismo inglese e italiano); oppure può ancora esprimersi come fuga totale dalla società e dalla politica, rifiuto della storia e comunione mistica con la natura, chiusura gelosa nell’io e nel mondo dell’arte, elevata a valore assoluto. gr
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( 3./La concezione dell’arte e della letteratura
La poetica classicistica
Le poetiche romantiche si contrappongono nettamente alla concezione della letteratura che aveva dominato precedentemente in Europa, a partire dal Rinascimento italiano e dal “Gran Secolo” francese, e che era ispirata a principi classicistici. La poetica classicistica si fondava essenzialmente sul principio d’ “imitazione della natura”, desunto dagli antichi. Siccome la natura è immutabile, parimenti immutabile è anche l’arte. Esistono pertanto canoni eterni e universali del bello. Una volta raggiunto il culmine della perfezione, non resta che cercare di riprodurlo. Deriva di
qui il principio dell’imitazione letteraria: comporre significa sostanzialmente imitare
dei modelli consacrati. Il poeta deve sì avere un'ispirazione personale, che scaturisce dalla fantasia, ma essa deve disciplinarsi in un esercizio per così dire artigianale, che si fonda sul possesso di certi strumenti tecnici (le figure retoriche, la metrica) e sul Il quadro di riferimento
162
*
Il rifiuto delle regole e l’ispirazione
Originalità e spontaneità
È
rispetto di precise regole, rigidamente codificate, all’interno di un sistema di generi consacrati dalla tradizione. La composizione letteraria è quindi un’attività dominata dalla ragione. Il prodotto deve essere poi accuratamente, lungamente rifinito con il “lavoro di lima”, sino ad essere portato alla perfezione formale. Nulla deve rimanere approssimativo, scomposto. Il gusto classico è perciò dominato da un’idea di armonia, equilibrio, compostezza, levigatezza formale, che corrisponde sul piano dei contenuti a un sereno dominio delle passioni. È un ideale artistico supremamente aristocratico. Gli altri suoi criteri fondamentali sono infatti l’idealizzazione (al molteplice e al multiforme della realtà concreta vanno sostituite forme perfette, tipi ideali, astrazioni) e la selezione (è rigorosamente escluso dalla letteratura “alta” ciò che non risponde ai canoni del bello, ciò che non è degno e nobile). Si ha cioè una netta separazione degli stili: tragico e comico, sublime e quotidiano non devono mai essere mescolati nella stessa opera; il comico, poi, deve essere confinato in generi appositi, minori, come la commedia. La poetica romantica rifiuta recisamente regole, modelli, generi. La poesia non è esercizio razionale e artigianale, ma libera ispirazione individuale, una voce che proviene dal profondo dell’essere. Il concetto di “ispirazione” allude ad uno “spirito”, ad una sorta di divinità che parla per bocca del poeta. Ricompaiono nel Romanticismo concezioni già presenti nel mondo antico ed estranee al classicismo (in Platone ad esempio), che vedono la poesia come “follia divina”, una sorta di invasamento di una forza interiore più potente, di cui la voce del poeta è il veicolo. Di conseguenza l’arte non è imitazione, ma espressione della soggettività libera e irripetibile dell’individuo. Donde l'esaltazione del genio, una dote spirituale innata, primigenia, che non si può acquisire e che ha la forza creatrice della natura stessa. Di qui, contro il “principio di imitazione”, il culto dell’originalità: il poeta deve dire ciò che non è ancora mai stato detto e deve trasfondere nell’opera il suo inconfondibile carattere individuale; di qui ancora il culto della spontaneità e dell’autenticità: il senti
L’indefinito e il musicale
La mutevolezza storica
del gusto
Il brutto
mento del poeta deve trovare espressione immediata, sincera, senza filtri artificiosi; la pagina deve conservare tutta la carica passionale dell’anima che l’ha generata. Per questo, alla compostezza armonica del classicismo, si preferiscono l’eccesso, la disarmonia, la dissonanza, alla perfezione formale una forma magari disordinata, irregolare, approssimativa, frammentaria (anche se ciò è spesso solo apparente, ed è frutto di artifici non meno raffinati di quelli della poetica classica e di un’analoga cura compositiva). Se l’arte classica tende alle immagini nitide e plasticamente definite, che gareggiano con le arti figurative, l’arte romantica tende al vago, all’indeterminato, al musicale, che meglio può esprimere la disposizione sentimentale del soggetto. Dal culto dello spontaneo nasce poi la predilezione per la poesia dei popoli primitivi, in cui più urgente si esprime la forza immaginosa e fantastica; oppure, per gli stessi motivi, per la poesia popolare, ritenuta creazione immediata del popolo ingenuo e incolto. Legata a questa idea dell’arte come espressione della spontaneità individuale, è quella della molteplicità dei gusti a seconda delle condizioni storiche, sociali e culturali, che nega il concetto classico di canoni eterni e immutabili del bello. L’arte muta nel tempo ed esprime i gusti e i valori di determinate epoche, di determinati ambienti. Di qui l’idea che la poesia debba essere moderna, debba cioè rispondere a ciò che è vivo nella coscienza e nei sentimenti di un popolo in un determinato momento della storia. Ma ne deriva anche un allargamento dei confini del “poetico”: in esso può aver diritto di cittadinanza anche ciò che secondo i canoni classicistici era considerato “brutto” o “impoetico”, anche ciò che è basso e quotidiano. Crolla così il principio della “separazione degli stili”: nell'opera d’arte, come nella vita, tragico e comico, sublime e volgare devono stare fianco a fianco; anche ciò che è comune e quotidiano RaTor di essere rappresentato, ed in forma non solo “comica”, ma seria e sublime cfr. M10).
L’età del Risorgimento
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4.1 movimenti romantici in Europa Dopo aver tracciato a grandi linee il quadro del Romanticismo come generale periodo storico, vediamo ora i singoli movimenti romantici nei vari paesi europei, nelle loro specifiche caratteristiche.
L’«Athenaeum»
Le scuole romantiche ia
Le basi filosofiche e teoriche
Il nazionalismo
Il soggettivismo
Il fantastico
Il Biedermeier
4.1. Germania. È il primo paese europeo in cui si affaccia una “scuola” romantica, un gruppo di intellettuali accomunati da tendenze affini, espresse in manifesti, opere teoriche e opere creative. Già nel corso del Settecento si erano delineate tendenze precorritrici della nuova sensibilità, come lo Sturm und Drang; ma l’atto di nascita del Romanticismo vero e proprio in Germania è la fondazione della rivista «Athenaeum», pubblicata a Berlino dal 1798 al 1800 e animata soprattutto dai fratelli August Wilhelm e Friederich Schlegel. Vi collaborarono anche poeti come Novalis e Tieck, e filosofi come Schleiermacher e Schelling. Nel Romanticismo tedesco si possono distinguere tre centri, attivi in diversi momenti cronologici. La scuola di Jena fu attiva fra il 1798 e il 1805; personalità centrali si rivelarono i fratelli Schlegel, Tieck, Novalis, Fichte e Schelling. La seconda scuola romantica fiorì ad Heidelberg e a Berlino fra il 1804 e il 1806, sino al 1815; suoi esponenti furono Clemens Brentano, Adalbert von Chamisso. La terza fu la cosiddetta “scuolasveva”, sviluppatasi nel periodo della Restaurazione sino agli anni’40. La base filosofica del Romanticismo tedesco è l’idealismo di Fichte, che identifica il reale con l’Io e vede il mondo esterno come sua negazione, non-Io, e quello di Schelling, che propone una visione mistica della natura. Le posizioni teoriche sulla letteratura sono espresse nella rivista «Athenaeum», nelle Lezioni sopra la letteratura e le arti belle e nelle Lezioni sull’arte e la letteratura di August Wilhelm Schlegel, nella Storia della letteratura antica e moderna del fratello Friederich. Concetto basilare è che la nuova spiritualità romantica ha le sue radici nella spiritualità cristiana che si afferma nel Medio Evo. Caratteristico del Romanticismo tedesco fu il recupero delle tradizioni nazionali e popolari, collegato al nazionalismo, che nasceva dalla contrapposizione all’oppressione napoleonica e si manifestava come esaltazione dello spirito germanico originario. L’accentuazione nazionalistica è propria soprattutto della seconda scuola, quella di Heidelberg, mentre nella scuola di Jena erano ancora presenti tendenze cosmopolite. Il culto del Medio Evo e delle tradizioni nazionali germaniche conferisce al Romanticismo tedesco un’impronta regressiva e reazionaria. Espressioni del ricupero delle tradizioni nazionali furono: la raccolta di Lieder (canti) popolari anonimi Il corno magico del fanciullo (1806-1808, in tre volumi), curata da Brentano e Achim von Arnim, canti attinti alla tradizione medievale, ma rielaborati dai curatori; le Fabe antiche germaniche raccolte dai fratelli Grimm (1811-12), che ebbero grande diffusione, anche all’estero. Altre caratteristiche salienti del Romanticismo tedesco furono l’impulso alla fuga dal reale, il soggettivismo esasperato, la tensione verso l’infinito, ma anche l’ironia, la cosiddetta “ironia romantica” che nasce dalla consapevolezza che il mondo esterno è solo proiezione dell’io. Al tempo stesso, insieme al gusto del fiabesco e del leggendario, pervaso d’ingenuità popolare, si unisce il gusto per situazioni fantastiche, irreali, di sogno, per atmosfere magiche e per evocazioni spettrali e sinistre. L’ultima fase è caratterizzata invece da un ripiegamento verso il quotidiano e il famigliare. Un documento significativo di questa tendenza sono le Poesie scelte di G. Biedermeier, maestro elementare svevo, pubblicate nel 1855 da L. Eichrodt e A. Kusmaul. Biedermeier è una figura inventata, ma rappresenta il tipico piccolo borghese, chiuso nel suo mondo famigliare e soddisfatto del suo limitato orizzonte. Tale figura divenne emblematica del gusto di un’epoca, che si suole definire appunto Btedermeier, caratterizzata da un compromesso con la realtà comune e borghese dopo
gli slanci mistici e irrazionalistici del primo Romanticismo. E un gusto analogo a quello che in Inghilerra caratterizza l’età vittoriana (cfr. Il romanzo nell’Inghilterra dell’età vittoriana). Il quadro di riferimento
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(a
Le Ballate liriche
I poeti nei laghi
La seconda generazione
La narrativa
Chateaubriand
Madame
de Staél
La prefazione a Cromuell
La lirica
4.2. Inghilterra. Il manifesto del Romanticismo inglese può essere considerato la prefazione che William Wordsworth aggiunse nel 1800 alla seconda edizione delle Ballate liriche, a cui aveva partecipato con alcuni testi anche l’amico Samuel T. Coleridge (la prima edizione uscì nel 1798). Il programma si articola sostanzialmente in due punti: 1) il poeta deve usare un linguaggio semplice, vicino a quello della gente comune, che erediti quello della tradizione poetica popolare; 2) la poesia deve trattare cose e persone reali, quotidiane, umili. Come poi Coleridge preciserà nella Bi0grafia letteraria (1816-19), tra i due poeti si stabilì l'accordo che Wordsworth avrebbe trattato situazioni comuni in modo da rivelare quanto di magico vi fosse celato; Coleridge, invece, argomenti sovrannaturali in modo da farli apparire reali. Questa prima generazione romantica è detta dei “poeti dei laghi”, poiché amavano soggiornare nella regione dei laghi del Cumberland, nel nord-ovest dell’Inghilterra, e ispirarsi alla natura di quei luoghi. Dal secondo decennio del secolo, la scena letteraria fu dominata da una “seconda generazione” romantica, i cui maggiori rappresentanti si rivelarono Byron, Shelley, Keats. Questi ebbero fra loro in comune l’ansia di libertà e il conflitto con la società inglese, dal rigido moralismo e dalle convenzioni soffocanti, la fuga verso gli orizzonti sereni del Mediterraneo (l’Italia, la Grecia), il culto della bellezza. Dalla trattazione di realtà quotidiane passarono ad esplorare l’esperienza intima, soggettiva, in opposizione alla massificazione della rivoluzione industriale, che aveva cancellato l’individualità e l’interiorità. Alla realtà contrapposero mondi alternativi, creati attraverso l'immaginazione. In questa esplorazione, il loro linguaggio si fece più complesso, prezioso, ricco di immagini, spesso denso sino all’oscurità. Il Romanticismo inglese si espresse soprattutto nelle forme liriche. Nella narrativa spicca il Romanticismo attenuato dei romanzi storici di Walter Scott, che evocano il fascino di epoche passate o di costumi primitivi ed esotici come quelli degli abitanti delle Highlands scozzesi. La narrativa inglese tende piuttosto al realismo quotidiano, come testimoniano già all’inizio del secolo i romanzi di Jane Austen (1775-1817), Orgoglio e pregiudizio (1813), Mansfield Park (1814), Emma (1816), che rappresentano la vita della borghesia di provincia. É un aspetto che caratterizzerà la ricca produzione narrativa della successiva età vittoriana, che sarà vicina allo spirito Biedermeier tedesco: la rappresentazione della realtà di ogni giorno, della gente comune e senza storia (di cui già Wordsworth era stato, d’altronde, un precursore).
4.3. Francia. In Francia un movimento romantico si sviluppò più tardi che in Germania e in Inghilterra, cioè solo nel terzo decennio del secolo. Ma già nell’età napoleonica vi furono personalità che manifestarono appieno la nuova sensibilità. Ciò conferma l'opportunità della distinzione tra Romanticismo come periodo di storia della cultura e Romanticismo come “scuola” specifica. La figura più significativa è quella di Francois-René de Chateaubriand (1768-1848): nel Genio del Cristianesimo (1802), vi è un’esaltazione della religione cattolica, anche come fonte di ispirazione poetica e artistica, che si oppone al laicismo e al razionalismo del secolo precedente; Kené (1805) traccia il ritratto di uno dei più tipici eroi romantici, inquieto, infelice e “maledetto”. Sul piano teorico, un’importanza enorme ha La Germania di Madame de Staél (1766-1817), pubblicata a Londra nel 1818, che diffonde in Francia e in Europa la conoscenza della cultura tedesca contemporanea, della letteratura romantica e della filosofia idealistica. Il manifesto del movimento romantico fu la prefazione premessa da Victor Hugo (1802-1885) alla sua tragedia storica Cromwell (1827). Lo scrittore sostiene che nell’arte devono convivere bello e brutto, sublime e grottesco, tragico e comico; regole e convenzioni dei generi devono essere abolite perché si oppongono alla libera rappresentazione della natura; così è da respingere l'imitazione dei modelli, che soffoca l’originalità del genio. Il'romanticismo francese si espresse soprattutto nella poesia lirica: il sentimentalismo delicato e musicale di Alphonse de Lamartine (1790-1869), la grandiosità di Vietor Hugo, ricca di colore ma spesso gonfia e retorica, la lirica filosofica e sim-
L’età del Risorgimento
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bolica di Alfred de Vigny (1797-1863) che affronta il problema del male con severo pessimismo, la passionalità estrema di Alfred de Musset (1810-1857), la tendenza visionaria e allucinata di Gérard de Nerval (1808-1855), in cui si esprimono le pro-
La tragedia storica La narrativa
Il modello byroniano
Il “nero”
fondità dell’inconscio, e infine il capolavoro di Charles Baudelaire (1821-1867), / fiori del male (1857), che si situa al confine tra la cultura romantica e la nuova sensibilità decadente che caratterizzerà la seconda metà del secolo. Nella letteratura drammatica Hugo, con le sue tragedie storiche, Cromwell, Hernani, Il re si diverte, Ruy Blas, sconvolge le regole della tragedia classica, scatenando violente polemiche con i classicisti. Nella narrativa si hanno romanzi autobiografici come Le confessioni di un figlio del secolo di Musset, romanzi storici come Notre Dame de Paris di Hugo (1831), che ricostruisce un Medio Evo tenebroso e pittoresco; racconti di passioni ardenti in ambienti esotici come quelli di Prosper Mérimée (Colomba, 1840, Carmen, 1845), romanzi sentimentali e idillico-rusticali come quelli di George Sand (pseudonimo di Aurore Dupin, 1804-1876), romanzi sociali e umanitari, a forti coloriture romanzesche e popolari come I miserabili di Hugo (1867), romanzi d’appendice, come quelli fortunatissimi di Eugène Sue (1804-1857), I misteri di Parigi (1842-1843), e di Alexandre Dumas padre (1803-1870), I tre moschettieri (1844), Il conte di Montecristo (1845). Ma la narrativa francese offre soprattutto i vertici del romanzo realistico moderno con i romanzi di Stendhal (Henri Beyle, 1783-1842), Il rosso e il nero (1831) e La Certosa di Parma (1839) e la Commedia umana di Honoré de Balzac (1799-1850) che esamineremo con particolare riguardo (cfr. T54 e T55, M7). Radici nella cultura romantica rivela anche Gustave Flaubert (1821-1880), che tende però nelle sue opere a mortificare con implacabile rigore ogni residuo di romanticismo, grazie soprattutto ad una rigorosa impersonalità, e che tratteremo per questo motivo nel capitolo sul Naturalismo (cfr. A70 e T188, T189, T190, T191).
4.4. Russia. La letteratura romantica russa del primo Ottocento è caratterizzata da posizioni liberali e progressiste, critiche verso l’autocrazia zarista e le condizioni per certi aspetti ancora feudali della società. Gli intellettuali romantici furono spesso perseguitati per le loro posizioni con il carcere e l’esilio. Così Aleksandr Pugkin (1799-1837), che per le sue idee fu allontanato da Mosca e confinato nella tenuta paterna; così Michail Lermontov (1814-1841), che subì l’esilio nel Caucaso per una composizione, In morte di Puskin, in cui accusava gli ambienti aristocratici reazionari dell’ostilità verso il poeta. In entrambi agisce fortemente il modello byroniano. Un tipico eroe romantico è il protagonista del capolavoro di Puskin, Evgenij Onegin (1831), che guarda il mondo dall’alto di una superiorità spirituale che non riesce a realizzarsi nei fatti; così Il demone di Lermontov è un angelo del male esule sulla terra, sdegnoso della mediocrità e teso al sublime, senza però riuscire a realizzarlo nella pratica. Ma Puskin tende ad uno stile essenziale e cristallino, mentre Lermontov accentua i caratteri ribelli e anticonformistici.
4.5. Stati Uniti. La letteratura americana nasce tra Sette e Ottocento, dopo la conquista dell’indipendenza, ereditando i generi della cultura europea quali il romanzo sentimentale, il romanzo nero, il romanzo storico-avventuroso. I romanzi di James Fenimore Cooper (1789-1851), dedicati allo scontro tra i bianchi conquistatori e il mondo selvaggio delle praterie e delle foreste (L'ultimo dei Mohicani, 1826, La prateria, 1827, L'uccisore di cervi, 1841), sono in fondo la prosecuzione del romanzo storico scottiano. Ma i maggiori narratori americani dell'Ottocento, Poe, Melville e Hawthorne, ricalcano soprattutto le vie del “nero”: ciò è più evidente nei racconti di Edgar
Allan Poe (1809-1849), incentrati sul mistero, l’orrore, il brivido dell’arcano, ma si può cogliere anche nei capolavori di Nathaniel Hawthorne (1804-1864), La lettera scarlatta (1850) e di Herman Melville (1819-1891), Moby Dick (1851).
Il quadro di riferimento
166 I 5, Il movimento romantico in Italia e la polemica coi classicisti VI L’articolo di \. Madame
de Staél
Le reazioni dei classicisti
I manifesti romantici
«Il conciliatore»
Una letteratura
“popolare”
Il rifiuto dell’irrazionalismo
Il “vero”
L'occasione che diede impulso al formarsi di un movimento romantico in Italia fu la pubblicazione di un articolo di Madame de Staél sulla «Biblioteca italiana» nel gennaio del 1816, dal titolo Sulla maniera e utilità delle traduzioni. L’autorevole scrittrice deprecava la decadenza della cultura italiana contemporanea ed invitava gli italiani a uscire dal loro culto del passato, aprendosi alle correnti più vive della letteratura europea moderna. L’articolo suscitò subito violente reazioni da parte dei classicisti, che insorsero in difesa delle glorie nazionali e dei principi sacri dell’arte classica. Nel coro si distinsero le voci di intellettuali come Pietro Giordani, Carlo Londonio, Carlo Botta, che impostarono la discussione in termini più meditati e approfonditi, anche se non furono meno fermi nel respingere le tesi della De Staél. Oltre a ribadire il carattere immutabile ed eterno dei principi artistici e la qualità di modelli perfetti propria degli antichi, degni di perenne imitazione, questi classicisti erano mossi anche da sinceri intenti patriottici, e si erigevano a difesa delle tradizioni culturali italiane, che temevano potessero essere snaturate dall’assunzione di temi e forme delle letterature straniere. Il genio italiano, sostenevano, è figlio diretto di quello latino: le tematiche tenebrose e il gusto dell’orrido propri del gusto nordico sono estranei alla sua visione serena e luminosa della vita, al suo senso del bello come armonia e proporzione. Un gruppo di intellettuali più aperti alle innovazioni, definitisi “romantici”, intervennero a difesa dell’articolo della De Staél, controbattendo le accuse dei classicisti. Nel corso di quello stesso 1816 uscirono numerosi saggi ed opuscoli, oggi considerati come “manifesti” del Romanticismo italiano: Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani di Ludovico Di Breme, le Avventure letterarie di un giorno di Pietro Borsieri, la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo di Giovanni Berchet; più tardi si aggiunsero le Considerazioni sul «Giaurro» di Byron del Di Breme e le Idee elementari sulla poesia romantica di Ermes Visconti. Nel 1818 il gruppo degli intellettuali romantici, Pellico, Borsieri, Di Breme, Visconti, diede vita ad un giornale, «Il conciliatore», che doveva diventare il portavoce delle nuove idee letterarie, ma si proponeva anche finalità di progresso civile, diffondendo cognizioni scientifiche utili allo sviluppo economico della Lombardia. Per queste sue tendenze progressiste e liberali ebbe vita difficile con la censura austriaca, finché fu soppresso nel 1819. In opposizione all’attaccamento dei classicisti alla tradizione, i romantici affermavano l’esigenza di una cultura rinnovata e moderna, che non si rivolgesse solo alla cerchia chiusa dei letterati, ma ad un pubblico più vasto, al “popolo” (che nel . linguaggio del tempo indicava i ceti medi), interpretandone gli orientamenti e le aspirazioni. Per questo occorreva mettere da parte la mitologia classica, che era ormai solo patrimonio di un’élite, e affrontare argomenti vivi nella coscienza contemporanea, capaci di suscitare l’interesse di quel pubblico “popolare”. Ma occorrevano anche forme letterarie nuove ed un linguaggio che fosse in grado di comunicare i nuovi argomenti al pubblico. Per questo era necessario abbandonare il linguaggio aulico, proprio della tradizione letteraria italiana, che era praticamente una lingua morta, incomprensibile ai più, e liberarsi dall’impaccio delle regole e dei generi, che ostacolavano o addirittura inaridivano l’ispirazione del poeta. Se respingono le posizioni dei classicisti, i romantici italiani sono però lontani anche dalle soluzioni estreme del Romanticismo europeo e ne rifiutano sia le tematiche irrazionalistiche e tenebrose sia gli eccessi di anarchia formale. Le loro posizioni sono molto moderate: affermano, infatti, che «le finzioni della fantasia se non posano sulla reale natura delle cose e degli uomini, sono anzi un abuso che uno sfogo della mente». Il loro obiettivo è una letteratura che si ispiri al «vero» e sia equidistante dai vuoti formalismi dei classicisti come dalle evasioni fantastiche e sfrenate dei romantici nordici. Lungi dall’essere evasione nella pura forma o nel fantastico, la letteratura deve per essi an-
L’età del Risorgimento
167 Il Romanticismo italiano, avanguardia
della borghesia progressiva
Le differenze tra Romanticismo italiano
e Romanticismo europeo
corarsi alla rappresentazione della realtà e proporsi fini di utilità civile e morale, diffondendo idee, cognizioni, principi e contribuendo al progresso della società. Queste posizioni fanno comprendere come il movimento romantico lombardo sia stato l’espressione in campo culturale di un movimento della società che tendeva ad un rinnovamento profondo, capace di portare l’Italia, divisa politicamente e arretrata economicamente e civilmente, al livello delle altre nazioni europee più avanzate. In Italia una classe borghese in senso moderno, attiva, intraprendente sul piano economico e politico, cosciente dei propri diritti, dei propri valori e dei propri obiettivi, non esisteva ancora. Ma nei primi anni della Restaurazione il processo di formazione di questa nuova classe dirigente era ormai avviato, e fece le sue prime prove con i moti del ’20-’21. Il Romanticismo lombardo fu l’avanguardia intellettuale di questo processo, stimolandolo attraverso il dibattito e la diffusione delle idee. Non è un caso che gli intellettuali del «Conciliatore» abbiano preso parte alle cospirazioni politiche e siano stati colpiti duramente dalla repressione che seguì i moti, subendo il carcere e l’esilio. Ciò può spiegare le profonde differenze tra il Romanticismo italiano e quello europeo, l’assenza di quegli aspetti esasperatamente irrazionalistici, fantastici, mistici,
satanici, “neri” che si sono esaminati, l'aderenza al “vero” e ai principi della ragione. Il Romanticismo straniero, come si è visto, era già espressione di una lacerazione interna alla coscienza europea, in conseguenza delle rapide e traumatiche trasformazioni avvenute. In Italia, data l’arretratezza sul piano economico e sociale, tali lacerazioni non sono ancora presenti, se non in forma embrionale, o come echi e suggestioni provenienti dall’esterno. Il nostro Romanticismo è semmai espressione di un momento costruttivo, di crescita della società italiana. Sui conflitti e sulle lacerazioni prevale lo slancio ideale, ottimistico, di chi è impegnato a costruire una nazione moderna e civile. Lo scrittore italiano non è ancora in conflitto con la società; o meglio, se motivi di conflitto sono già presenti, essi sono spinti in secondo piano dal fatto che il letterato riveste un ruolo positivo nel corpo sociale: sia un ruolo intellettuale, in quanto si pone come guida ideologica dei processi politici e civili (l'esempio del «Conciliatore» è eloquente), sia un ruolo attivo, in quanto partecipa in prima persona alle lotte risorgimentali, cospirando, combattendo, soffrendo la prigione o l’esilio (cfr. più avanti $ 9). Romanticismo e Risorgimento in Italia di fatto coincidono.
Assenza delle tematiche negative
Romanticismo e Illuminismo italiano
Elementi nuovi rispetto all’Illuminismo
Per questo non possono avere posto in Italia, se non marginalmente e di riflesso, quelle tematiche negative che negli altri paesi sono l’espressione del conflitto tra l’intellettuale e il contesto sociale. Significativamente, le tematiche esasperatamente irrazionalistiche si diffonderanno in Italia, non appena il processo risorgimentale si sarà compiuto, col movimento della Scapigliatura, che compare all'indomani dell’unificazione (cfr. Parte III, La Scapigliatura). Le caratteristiche sottolineate spiegano anche perché non vi sia rottura ma continuità tra il Romanticismo italiano e l’Illuminismo. Il programma del «Conciliatore» non solo ricorda in più punti quello del «Caffè», ma vi fa esplicito riferimento ed usa persino la stessa terminologia, come ad esempio la formula chiave «diffondere i lumi». Come espressione di uno slancio progressivo della società italiana, è naturale che il Romanticismo si colleghi a quella precedente fase della cultura che andava nella stessa direzione. Tuttavia il Romanticismo lombardo non è semplicemente una “seconda fase” dell’Illuminismo del «Caffè»: il movimento ha caratteri nuovi, che lo collocano a buon diritto nel clima romantico. In primo luogo gli uomini del «Conciliatore», a differenza dei loro predecessori, possiedono un nuovo senso della storia, lontano dall’astrattezza
del razionalismo, che li fa guardare con diverso interesse al passato, specie medievale, ed hanno una precisa visione della nazione come prodotto storico e unità spirituale; in secondo luogo hanno come referente un pubblico “popolare”, cioè borghese, non più soltanto un’élite aristocratica; infine sono ormai liberi dall’illusione di una possibilità di collaborare con i governi assoluti illuminati per promuovere riforme dall’alto, hanno orientamenti decisamente liberali e sono fiduciosi nell’azione autonoma del “popolo”, che deve portare ad una profonda trasformazione dell’assetto politico. Tra il «Caffè» e il «Conciliatore» vi è di mezzo la Rivoluzione francese e l’età napoleonica. Il quadro di riferimento
168 6. Strutture politiche, economiche e sociali dell’Italia risorgimentale Il quadro politico
Dal punto di vista politico, l’Italia fra il 1815 e il 1861 era caratterizzata dalla mancanza di un’unità statale e dalla frammentazione in una serie di stati di esten-_ sione territoriale limitata: questo fattore allontanava l’Italia dall'Europa, dove da secoli si erano stabiliti i grandi stati nazionali. Si trattava per di più, in linea con le tendenze della Restaurazione, di staterelli assoluti, autoritari e polizieschi. Le fiammate rivoluzionarie del ’20-’21, del’31, del’48 portarono alla concessione di costituzioni che introducevano limiti e controlli al potere assoluto dei sovrani, ma i regimi costituzionali furono in genere di breve durata, travolti dalle restaurazioni successive ai moti. Solo in Piemonte lo Statuto albertino (che peraltro dava un amplissimo margine al potere regio) resistette, consentendo una dinamica politica parlamentare. Si deve poi aggiungere al quadro l’egemonia politica di una potenza reazionaria come l’Austria, che dominava direttamente nel Lombardo-Veneto, ma che esercitava pesantemente la sua influenza sugli altri stati, intervenendo anche militarmente (come in Piemonte e a Napoli nel ’21) ove si presentassero pericoli di rottura dello status quo fissato dalla Restaurazione. La divisione politica era un fattore di arretratezza civile, economica, culturale.
L’arretratezza civile
Leggi protezionistiche, dazi e dogane bloccavano la libera circolazione delle merci, impedendo la formazione di un vasto mercato di ampiezza nazionale, condizione necessaria per lo sviluppo moderno dell’economia. I regimi dispotici e polizieschi o paternalistici, che riducevano gli abitanti dei vari stati al ruolo di sudditi obbedienti e passivi ed impedivano ogni forma di partecipazione attiva e critica alla vita civile, ostacolavano la formazione del “cittadino” moderno e di una vera opinione pubblica. Le barriere fra gli stati impedivano i rapporti, gli scambi di conoscenze, la circolazione di libri e giornali. La censura retriva soffocava il fermentare delle idee ed il
L’arretratezza economica
L’agricoltura
L’industria
loro diffondersi. Le idee moderne e avanzate erano costrette alla clandestinità, o potevano manifestarsi solo in modo indiretto, tortuoso e allusivo. Sul «Conciliatore», ad esempio, non si poteva discutere apertamente delle idee politiche liberali, ma occorreva toccarle indirettamente parlando del progresso delle scienze, dei nuovi metodi di agricoltura o dell'incremento dei commerci. Il risultato di tutti questi fattori era che l’Italia si presentava nettamente in ritardo sul piano economico e sociale rispetto agli altri paesi europei. Mentre altrove, come in Inghilterra e in Francia, nei primi decenni dell’Ottocento era già in atto lo sviluppo dell’industria moderna, con i suoi effetti dirompenti sulla vita materiale e spirituale, l’Italia restava un paese eminentemente agricolo. E non era neppure sviluppata una forma di agricoltura moderna, capitalistica, impostata razionalmente in vista del profitto, con investimenti produttivi e miglioramenti scientifici dei sistemi di coltura. Un’agricoltura di questo tipo, ad opera di proprietari o affittuari dotati di Spirito imprenditoriale, si trovava solo nelle regioni più avanzate, in cui vi era una solida tradizione di riformismo illuministico, come la Lombardia, la Toscana e in parte il Piemonte. Altrove sussisteva ancora un’agricoltura di tipo feudale, basata sul latifondo o su forme medievali di affittanza, con sistemi di coltura primitivi, di tipo estensivo. L'industria in senso moderno quasi non esisteva. Si potevano contare solo manifatture di trasformazione di prodotti agricoli (tessili, alimentari), con scarso impiego di macchine e soprattutto con una manodopera in prevalenza di tipo stagionale, legata alla terra: contadini che nei mesi invernali, quando cessavano i lavori dei campi, prestavano la loro opera nelle manifatture e nelle filande, per ritornare poi nei campi con la bella stagione. Nel Regno delle Due Sicilie attività industriali (cantieri navali, cotonifici) sorsero per iniziativa statale, ma solo grazie ad alte tariffe protettive e
con l'apporto di capitali stranieri. Si trattava perciò di una struttura “industriale” molto fragile, destinata a crollare rapidamente dopo l’unità con l’abbattimento del protezionismo. Mancava in Italia anche un sistema del credito sviluppato in senso L’età del Risorgimento
169 moderno, atto a finanziare le attività produttive. Questa arretratezza economica si rifletteva inevitabilmente nell’arretratezza sociale: non esisteva in Italia, nel primo
L’inizio dello sviluppo
ad
La borghesia
Ottocento, una classe borghese moderna, paragonabile a quella dei paesi europei più avanzati, un ceto capitalistico dinamico, attivo, pronto a rischiare grandi capitali in imprese produttive, industriali, agricole, commerciali o in avventure finanziarie, dando così l’avvio ad un processo di moltiplicazione della ricchezza. Ciononostante, tuttavia, un certo qual processo di sviluppo e ammodernamento era iniziato in Italia, in misura più sensibile nelle regioni più avanzate. Aumentava in Lombardia, Piemonte e Toscana il numero dei proprietari, grazie alla soppressione dei vincoli feudali sulla terra e alla vendita di beni ecclesiastici avvenuta durante l'età napoleonica. Aumentava anche il numero dei proprietari che faceva fruttare capitalisticamerite la terra; venivano introdotte migliorie, bonifiche, canalizzazioni irrigue, vie di comunicazione e, a partire dagli anni ’40, anche ferrovie. A questo sviluppo partecipava l’ala progressista e liberale dell’aristocrazia, che non viveva solo più di rendite passive, come nell’antica tradizione nobiliare, ma si interessava attivamente ai progressi dell’attività economica, diventando di fatto lo strato superiore della borghesia. Una borghesia moderna si può dunque dire che fosse almeno in embrione. Il suo asse portante era l’alleanza economica e politica tra aristocrazia progressiva e ceti medi produttivi, imprenditori e commercianti. Ma in questo amalgama entravano altresì i rappresentanti delle professioni liberali, medici, notai, avvocati, gli alti fun-
I valori culturali
I ceti popolari
zionari dello stato, gli insegnanti superiori, gli ufficiali (spesso provenienti dall’esercito napoleonico). A cementare quest’insieme di ceti e a conferire loro, per lo meno in prospettiva, la fisionomia di una vera classe sociale, erano in primo luogo interessi e bisogni oggettivi: tutti questi strati sociali avevano innanzitutto l’interesse ad eliminare quei vincoli che l’assolutismo e la divisione politica imponevano allo sviluppo di una vita economica e civile moderna, all’espansione delle attività produttive e delle ricchezze; tutti avrebbero avuto da guadagnare, o economicamente o in promozione sociale, dalla formazione di uno stato unitario nazionale. Ma agivano potentemente anche valori culturali: questi ceti si identificavano con le idee di “Iibertà”, di “progresso”, di “civiltà” che provenivano dall'Europa più avanzata ed aspiravano ad allineare anche l’Italia al livello civile di quelle nazioni. L'Inghilterra e la Francia erano i paesi a cui si guardava come a modelli nello sviluppo economico, nel costume e nella vita sociale. Vi era poi il fattore determinante delle idee patriottiche, il sentimento di far parte di un’entità nazionale che era conculcata dalla frammentazione politica e dalla dominazione straniera. Per questo il culto del passato glorioso dell’Italia (che comprendeva anche la Roma antica) e delle grandi memorie letterarie e artistiche era l’elemento ideologico unificante dei vari strati che costituivano questa “borghesia” italiana, al di là dei vari orientamenti politici. Questo spiega anche il peso delle idee patriottiche nella letteratura e nella cultura in genere espresse da questa classe sociale nella prima metà dell'Ottocento. Da questa idea nazionale erano però sostanzialmente esclusi i ceti popolari. Essendo l’Italia ancora ben lontana da una rivoluzione industriale (si pensi che questa si verificherà solo un secolo dopo, nell’età giolittiana, ai primi del Novecento), non esisteva una classe operaia nel senso attuale del termine. Il “quarto stato” era composto prevalentemente da contadini; vi entravano poi a far parte artigiani, lavoranti, il ristretto numero degli operai delle manifatture (che in molti casi, si è visto, erano essi stessi contadini), lo stuolo dei domestici delle casate nobiliari e delle famiglie borghesi più agiate. Queste masse, specie nelle campagne, vivevano in condizioni di estrema miseria, vittime dello sfruttamento, della fatica, della fame, delle malattie; ma soprattutto, a causa dell’analfabetismo generalizzato (all’atto dell'unità gli analfabeti erano il 78%, il 90% nelle isole), erano escluse dalla circolazione della
cultura contemporanea. Le masse contadine vivevano come fuori della storia, chiuse nel patrimonio di una cultura tradizionale, folklorica, immobile da secoli. Dagli strati superiori filtrava ad esse quasi esclusivamente la cultura della Chiesa, che era ufficialmente schierata (salvo la breve parentesi di Pio IX) contro il moto risorgiIl quadro di riferimento
170 mentale. Pertanto anche l’idea di patria era ad esse estranea, rimanendo patrimonio esclusivo dei ceti più elevati e della piccola borghesia. Ciò spiega come il Risorgimento non sia stato (salvo limitate eccezioni) un fenomeno popolare, ma esclusivamente borghese, e perché le masse contadine siano state spesso strumento inconsapevole della reazione (così nell’impresa dei mazziniani fratelli Bandiera, così nell'impresa di Pisacane). E questa esclusione dei ceti popolari dalla formazione dello Stato italiano peserà poi negativamente sulla sua vita politica e sociale, all'indomani dell’unità.
7. Le ideologie Assenza di una cultura reazionaria
Il liberalismo
I cattolici liberali
La migliore intellettualità italiana, al di là dei vari schieramenti politici, si riconosceva unanimemente nell’idea nazionale, con i suoi corollari di libertà e progresso. Per questo sono irrilevanti in Italia le manifestazioni di una cultura apertamente reazionaria, favorevole all’assolutismo, alla restaurazione dei sovrani legittimi e al principio di autorità come garanzia di ordine in campo morale e civile, a differenza di quanto avveniva in altri paesi europei (si pensi al Romanticismo tedesco reazionario | e medievaleggiante, o al pensiero dei teorici della Restaurazione, De Maistre e De Bonald, in Francia). Le ideologie dominanti nella cultura risorgimentale si possono schematicamente suddividere in due grandi schieramenti: quello liberale moderato (nella variante laica e in quella cattolica) e quello democratico. Il liberalismo moderato era caratterizzato innanzitutto dal rifiuto della Rivoluzione francese e del giacobinismo, che aveva portato alla sovversione violenta, allo sradicamento della tradizione religiosa, all’egalitarismo estremistico e infine al Terrore. Il suo progetto politico escludeva pertanto rotture rivoluzionarie e moti insurrezionali. La soluzione del problema nazionale doveva giungere attraverso l’iniziativa dei sovrani, non attraverso l’iniziativa popolare violenta, grazie a graduali riforme che riprendessero la tradizione settecentesca dell’assolutismo illuminato e non sconvolgessero l’assetto vigente, e fossero soprattutto controllate dall’alto, in modo da evitare pericoli di degenerazione. Sul piano politico, si proponeva in genere una federazione degli Stati italiani esistenti, con forme di unione doganale, liberalizzazione dei commerci, potenziamento delle comunicazioni. Ove il potere regio venisse controllato da assemblee elettive (ma si preferivano organi semplicemente consultivi) si proponeva un suffragio censitario, limitato ai soli proprietari. Solo un’élite di nobili e alto-borghesi si riteneva che potesse avere la competenza, la lungimiranza, la saggezza, l’equilibrio per gestire la cosa pubblica ed elaborare le leggi, avendo come fine il bene comune, che doveva soprattutto posare sulla salvaguardia dei rapporti di proprietà e di potere esistenti, senza modificarli. A questi orientamenti liberali moderati si accostarono molti cattolici non allineati con l'indirizzo dominante del cattolicesimo della Restaurazione, che si proponeva come baluardo del legittimismo monarchico e della reazione della Santa Alleanza. Al contrario, essi ritenevano che i valori religiosi potessero concordare con i principi moderni di libertà e di progresso civile, nonché di riscatto nazionale. Su queste posizioni fu uno scrittore come Manzoni, che di quelle idee nutrì il suo capolavoro, I promessi sposi, destinato a larga diffusione fra il pubblico (Manzoni fu anche convinto assertore dell'idea unitaria, contro ogni ipotesi federalistica). Ma vi si possono riconoscere anche i sacerdoti Antonio Rosmini (1797-1855) e Raffaello Lambruschini (1788-1873), che assunsero posizioni critiche verso l’autoritarismo gerarchico della Chiesa della Restaurazione e sollecitarono riforme che consentissero maggiore partecipazione popolare alla vita della comunità ecclesiastica, minor formalismo nell’interpretazione della fede e maggior distacco dagli interessi temporali. L'opera che compendiò in sé le posizioni del cattolicesimo liberale fu Del primato morale e civile degli Italiani (1843) dell’abate piemontese Vincenzo Gioberti (18011852), che ebbe un’enorme diffusione e influenzò profondamente l'opinione pubblica
L’età del Risorgimento
171 moderata. Gioberti proponeva una federazione di Stati italiani, ciascuno con la sua dinastia legittima, sotto la presidenza del papa, e caute riforme politiche (organi consultivi, libertà di stampa, ecc.). Alla proposta giobertiana si affiancò quella di Cesare Balbo (1789-1853), con lo scritto Delle speranze d’Italia (1844), in cui si vedeva la soluzione del problema italiano nel gioco diplomatico delle potenze: l’Austria avrebbe potuto lasciare i territori italiani in cambio di contropartite in Oriente. Anche Balbo mirava ad una confederazione di Stati, ma proponeva la presidenza del re di Sardegna, anziché del papa. A sua volta Massimo D’Azeglio (1798-1860), nella Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana (1847), suggeriva riforme all’interno degli Stati italiani e una mobilitazione dell’opinione pubblica in loro favore, ribadendo il suggerimento di una leadership sabauda. Decisamente laica fu invece la visione dello’statista piemontese Camillo Benso di Cavour, che auspicava una netta divisione tra Chiesa e Stato («Libera Chiesa intibero Stato»), un riformismo illuminato che eliminasse le cause della sovversione, un’economia fondata sul liberismo. Cavour, come è noto, nel Risorgimento fu il massimo artefice dell’iniziativa
Le tendenze democratiche
La questione sociale
sabauda e di un controllo dall’alto del processo di unificazione, in opposizione alle tendenze insurrezionali mazziniane e garibaldine. Le tendenze democratiche, che in Italia facevano capo essenzialmente a Giuseppe Mazzini, puntavano, al contrario dei moderati, proprio sull’iniziativa popolare e sui movimenti insurrezionali che nell’appoggio del popolo avessero la loro base. Proponevano anche radicali cambiamenti di regime politico, attraverso assemblee costituenti che decidessero l’assetto istituzionale dell’Italia. La forma propugnata era quella repubblicana ed unitaria, contro le idee di federazione fra gli Stati monarchici esistenti, proprie dei moderati. Un’altra corrente di democrazia radicale, che faceva capo a Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, era invece contraria all’unità accentratrice e proponeva ur assetto repubblicano federativo, che avesse come modello la Confederazione elvetica e gli Stati Uniti d’ America e salvaguardasse le autonomie delle varie regioni italiane, diverse per storia, tradizioni, costumi, economie. Al suffragio censitario e al dominio politico delle élites aristocratiche e alto-borghesi, la corrente democratica mazziniana contrapponeva il suffragio universale ed una collaborazione tra le varie classi, fondata su un’idea religiosa di «dovere» e su una concezione romantica dell’unità spirituale del popolo-nazione. Mazzini guardava però prevalentemente ad un’associazione tra ceti borghesi e ceti operai e artigiani urbani, trascurando il grave problema delle masse contadine. Non ammetteva infatti leggi agrarie e ridistribuzioni delle proprietà fondiarie, che avrebbero violato il diritto intangibile di proprietà. Dinanzi alla questione sociale, al problema delle masse popolari (specie contadine) miserabili e abbrutite, le posizioni liberali e democratiche, così lontane fra loro in
La scuola cattolico liberale e la scuola democratica
campo politico, si avvicinavano notevolmente. Comune ad entrambe era l’idea di una progressiva elevazione dei ceti popolari che fosse non solo materiale, ma soprattutto spirituale, attraverso un’educazione intellettuale e morale e l’idea di un affratellamento fra le classi che eliminasse contrasti violenti o rivolte da parte dei lavoratori. AI] di là delle differenze ideologiche c’era cioè in comune una concezione solidaristica e associativa dei vari ceti che escludesse l’idea del conflitto fra le classi (S. F. Romano). Su questa base, il liberalismo moderato inclinava piuttosto ad un paternalismo illuminato nei confronti delle plebi, che segnasse più fortemente le distanze sociali, mentre la democrazia assumeva atteggiamenti di tipo populistico (cfr. su questo concetto M25), tesi ad esaltare le “virtù” popolari e il principio astratto di eguaglianza. Queste correnti ideologiche si riprodussero in campo letterario: ed era inevitabile, se si tiene presente che gli scrittori non vivono in una dimensione a parte, ma sono anch'essi immersi nel processo sociale; tanto più gli intellettuali italiani del primo Ottocento, che sentivano tutti vivamente l’impegno nazionale e patriottico. Già De Sanctis, nelle sue lezioni all’Università di Napoli, aveva proposto la distinzione, rima-
sta poi classica, tra la “scuola cattolica-liberale” e la “scuola democratica”. Occorre però osservare che il polo moderato ebbe una forza di attrazione e di aggregazione di gran lunga maggiore rispetto a quello democratico. Ciò soprattutto grazie alla staIl quadro di riferimento
172 tura di un intellettuale come Manzoni che, sia pur con le sue posizioni schive ed appartate, divenne un vero e proprio caposcuola, generando una serie di ammiratori e imitatori. La corrente democratica non ebbe nessuno scrittore che potesse essergli contrapposto; anzi, anche romanzieri di orientamento democratico, come Nievo, sul piano
letterario subirono l’influenza del modello manzoniano. Gli orientamenti del gusto letterario erano in consonanza con quelli ideologici: gli scrittori italiani furono in prevalenza moderati non solo ideologicamente, ma anche nelle scelte tematiche, evitando, come si è già avuto modo di sottolineare, sia quegli
argomenti estremi ed inquietanti propri del Romanticismo, sia soluzioni formali eversive, d’urto (non a caso, le tematiche estreme compaiono prevalentemente negli scrittori dell’ala “democratica”, come in Guerrazzi: cfr. $ 11.2 e T97). Tra scrittori e pubblico non si crearono pertanto situazioni di conflitto, di rifiuto sprezzante o di provocazione, ma un’armonica consonanza di valori, di gusti letterari e di linguaggio.
8. Le istituzioni culturali Declino della corte e dell’accademia
L’editore, imprenditore e operatore culturale
In conseguenza delle trasformazioni politiche, economiche e sociali che si sono esaminate, declinano rapidamente in Italia, in questo periodo, le due istituzioni che in passato presiedevano per eccellenza all’aggregazione degli intellettuali, all’elaborazione e alla diffusione della cultura: la corte e l'accademia. Lo stato non rinuncia a orientare e a controllare la produzione culturale, con maggiore rigidità quanto più è illiberale e dispotico. I sovrani sovvenzionano iniziative culturali ed editoriali, concedono agli scrittori cariche e cattedre, prebende e pensioni, promuovono la fondazione di periodici (esemplare è il caso della «Biblioteca italiana», voluta a Milano dal governo austriaco all'indomani della Restaurazione). Ma la società che viene emergendo dalle trasformazioni in atto nei primi decenni dell'Ottocento è ormai più complessa; il centro di aggregazione e orientamento culturale non può più essere la corte: il potere di orientamento si decentra, passa all’opinione pubblica, al mercato, al gusto dei lettori (cfr. in questo stesso Quadro di riferimento il $ 10). Si crea un gioco nuovo di forze e di poteri in campo culturale. Di conseguenza il ruolo dello Stato si riduce sempre più. La vita culturale si muove ormai intorno a due poli nuovi: l’editoria e il giornalismo. 8.1. L’editoria. Sino ai primi dell'Ottocento l’attività editoriale in Italia faceva capo alla figura del libraio stampatore o del tipografo, che producevano libri artigianalmente (talora a spese dell'autore stesso: vedi il caso della stampa delle tragedie alfieriane), con una diffusione di conseguenza molto limitata. Col passare dei decenni l’attività editoriale assume sempre più la fisionomia dell'impresa capitalistica. Al centro si pone una figura nuova di imprenditore, l'editore, che non si identifica più necessariamente con il libraio o con il tipografo. L'editore è un imprenditore perché investe capitali nella produzione di libri, al fine di ricavarne dei profitti da investire ulteriormente; ma è anche un operatore culturale, perché decide quali libri stampare, dando vita cioè a una politica culturale. Spesso è l'editore a commissionare i libri all'autore, specie se si tratta di opere scientifiche, trattati, manuali, opere divulgative. Si vale inoltre del lavoro di una serie di collaboratori, redattori, consulenti, direttori di collane, curatori, traduttori. Poi affida la stampa al tipografo e la distribuzione e lo smercio ai librai. Come ha messo in luce uno studio fondamentale di Marino Berengo (Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Einaudi, Torino 1980), fu soprattutto Milano la città in cui fu più sensibile questa trasformazione. E non è un caso, perché, per le condizioni economiche e sociali e per le tradizioni culturali, Milano era la città più avanzata d’Italia, la più vicina ai livelli europei. Si può ricordare, per la lungimiranza imprenditoriale e culturale, l’editore Fortunato Stellà, con cui collaborò Leopardi, dietro la corresponsione di uno stipendio fisso, per un commento al Canzoniere del Petrarca e la redazione di un’antologia della poesia e della prosa italiane. Ma iniziative editoriali rilevanti sorgeranno via via nei decenni
L’età del Risorgimento
178
‘ L’editoria come impresa
successivi a Torino (Pomba), Bologna (Zanichelli), Firenze (Le Monnier, Barbera). Come in molti altri aspetti della vita civile, il Sud è invece sensibilmente arretrato su questo terreno, anche a causa dell’ottusa politica dei Borboni che isola culturalmente il Regno dal resto dell’Italia, impedendo la circolazione di libri e riviste dagli altri stati della penisola. L’avvento dell’editoria come impresa capitalistica moderna è resa possibile dai processi di trasformazione borghese della società e dalla diffusione dell’istruzione (nei ceti medi, naturalmente: il libro e il giornale restano oggetti estranei alle masse popolari), che creano un pubblico nuovo di lettori, quindi un mercato di acquirenti della merce-libro. Ma un ruolo decisivo gioca anche l'evoluzione tecnologica (come sempre, nello sviluppo imprenditoriale dell’età moderna): per la stampa non si usano più torchi a mano, ma a vapore, che consentono di stampare un maggior numero di copie più rapidamente e con minori costi. Ciò permette minori prezzi di vendita e più larga diffusione del libro che, promuovendo a sua volta istruzione e interesse culturale, genera maggiore domanda, stimolando ulteriormente la produzione. Questo circolo di continuo sviluppo è tipico dell'economia capitalistica, e si manifesta anche nel caso di quella merce particolare che è libro, il prodotto culturale. Per questo aspetto, la carta stampata non è che una merce come tutte le altre. La produzione editoriale è varia e viene incontro ai più vari tipi di lettori e alle più diverse esigenze: edizioni di classici, novità letterarie (specie romanzi, di cui il pubblico borghese è affamato: cfr. in questo stesso Quadro di riferimento il $ 11.2), opere divulgative, compendi, manuali, almanacchi, strenne, letture per l’infanzia e
Ostacoli all’espansione dell’editoria
Il diritto d’autore
Periodici di cultura
per le famiglie, opere edificanti e religiose, riviste di cultura. Gravi ostacoli all'espansione dell’industria editoriale e alla diffusione del libro si rivelano però: la divisione politica, che impone dazi e dogane impedendo la creazione di un più vasto mercato di estensione nazionale, la presenza di censure poliziesche, che esercitano pesanti controlli, ostacolando sia la produzione sia la circolazione fra Stati (si è visto l'esempio del Regno delle Due Sicilie), la difficoltà dei trasporti e delle comunicazioni, ma soprattutto la mancanza di protezione del diritto d’autore. Esistevano privilegi di stampa attribuiti dai governi agli stampatori (cioè solo un determinato editore poteva stampare quella determinata opera), ma valevano solo per lo stato in cui avveniva la pubblicazione. Chiunque poteva stampare il libro negli altri stati senza corrispondere alcun diritto all’autore e all’editore. Ciò limitava i profitti degli editori, frenando l'espansione dell’editoria come impresa capitalistica; parimenti, privava gli autori di gran parte dei proventi delle vendite, ritardando il sorgere dello scrittore moderno, che vive della sua professione intellettuale. Un esempio significativo è offerto dai Promessi sposi, che si rivelò subito un grande successo e di cui fu pertanto stampato in tutta Italia un numero cospicuo di edizioni abusive. Manzoni, che era sensibile al problema della proprietà letteraria, denotando così una lucida coscienza d’intellettuale moderno, cercò di stroncare queste speculazioni, promuovendo, a proprie spese, una ristampa del romanzo con testo riveduto e arricchito da preziose illustrazioni, in modo da scoraggiare la concorrenza sleale. Ma l’operazione fallì: il mercato non assorbì più la nuova edizione e un gran numero di copie rimase invenduto. La consapevolezza di questi problemi si diffuse gradualmente tra scrittori ed editori, creando un movimento d’opinione che premeva per una regolamentazione legale del diritto d’autore. Già prima del ’48 si venne a un accordo in materia tra vari stati italiani, escluso il Regno delle Due Sicilie. L’unità diede poi definitiva sanzione al principio della proprietà letteraria su tutto il territorio nazionale. 8.2. Il giornalismo. Parallelamente all'editoria libraria si sviluppò nel primo Ottocento un’altra tipica istituzione culturale moderna, il giornalismo. In Italia esistevano già nel Settecento periodici di cultura (si ricordi il «Caffè») e gazzette di notizie e curiosità. L'iniziativa di fogli letterari e scientifici divenne sempre più ricca nelOttocento. Il fenomeno fu di proporzioni rilevanti soprattutto in Lombardia, per le ragioni sottolineate, ed in stretta connessione con il movimento nazionale: si è già ricordato «Il conciliatore», al quale negli anni successivi si aggiunsero gli «Annali di Statistica» e «Il politecnico» di Carlo Cattaneo. A Firenze un ruolo importante Il quadro di riferimento
174
Il quotidiano
o
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assunse negli anni ’20 l'«Antologia», intorno alla quale si raccoglievano i liberali moderati toscani. Fondatore fu Gian Pietro Vieusseux, un imprenditore e organizzatore culturale di origine ginevrina, al quale si deve un’altra rilevante iniziativa, l’apertura al pubblico di un “Gabinetto di lettura”, una biblioteca dove si poteva accedere per leggere giornali e libri (il “Gabinetto Vieusseux” esiste ancora oggi, a Firenze). Vieusseux introdusse nella conduzione dell’« Antologia» una novità che attesta la modernità delle sue vedute: i collaboratori della rivista ricevevano un compenso per i loro articoli: un fatto molto importante, perché sanciva la professionalizzazione del l lavoro intellettuale. Si diffusero inoltre i giornali quotidiani, gazzette con notizie di politica e di cronaca, dove erano inserite anche “appendici” dedicate ad argomenti culturali, recensioni di libri, spettacoli teatrali, esposizioni d’arte. Vi figurano altresì, da un certo momento in avanti, iromanzi a puntate, sul modello del fewilleton francese (Quadro di riferimento III, $ 5.2), che incatenavano l’interesse del pubblico, contribuendo ad incrementare le vendite. Il fenomeno assumerà poi proporzioni vistose nel secondo Ottocento. Il giornale diventa così anche in Italia un elemento fondamentale della società, poiché ha un peso determinante nella formazione dell’opinione pubblica: suggerisce gli orientamenti politici, influenza i gusti letterari, musicali, artistici, diffonde principi e valori che costituiscono l’elemento coesivo della società civile. Come aveva detto il filosofo Hegel, la lettura del giornale diviene una sorta di “preghiera” laica giornaliera del cittadino.
9. La fisionomia sociale
e il ruolo degli intellettuali L’intellettuale nell’Ancien Régime
Scrittori aristocratici
I chierici
9.1. La fisionomia sociale. I processi economici e sociali che sì sono in precedenza esaminati modificano, sia pur lentamente, anche la figura sociale dello scrittore rispetto al Settecento e all’età napoleonica. Anche in Italia, nella società dell’Ancien Régime, l’intellettuale o era un appartenente ai ceti privilegiati (un nobile che viveva delle sue rendite, un chierico che godeva di benefici ecclesiastici), oppure era al servizio dei privilegiati: era letterato cortigiano, segretario di un nobile o di un principe della Chiesa, precettore in case patrizie, otteneva benefici e pensioni dai principi e dai potenti grazie ai prodotti della sua arte. Il movimento illuministico in Italia non aveva modificato sostanzialmente questo quadro, restando fenomeno di élite, composto da un’avanguardia aristocratica. Dopo la crisi del periodo giacobino, quando l’intellettuale diviene militante, il periodo napoleonico tende a restaurare la vecchia figura dell’intellettuale cortigiano, stipendiato dal potere in funzione della creazione del consenso intorno al regime: esemplare al riguardo è la figura del Monti. Nell’età della Restaurazione e del Risorgimento compaiono ancora figure di scrittori di estrazione aristocratica che vivono delle loro rendite. Ma la loro presenza, in percentuale, diventa particolarmente bassa. Spesso inoltre questi intellettuali aristocratici acquistano una fisionomia prettamente borghese: Manzoni ad esempio è conte, ma rifiuta di essere chiamato col titolo nobiliare; inoltre cura personalmente le sue proprietà agricole e può anche dedicarsi, come si è visto, ad imprese editoriali, investendovi grosse somme: di fatto quindi è ormai un alto borghese. Leopardi, anche lui conte, ha una visione ancora molto aristocratica ma, provenendo da una nobiltà economicamente dissestata, per un certo periodo deve prestare la sua opera intellettuale per un editore per poter vivere lontano da casa, nei centri più vivi della cultura; vive cioè, sia pur con grandi difficoltà, della sua professione intellettuale.
Crolla anche la percentuale dei chierici: mentre era oltre il 60% tra Cinque e Seicento, scende sotto il 15% per i nati fra il 1781 e il 1800 (la fonte è lo studio di C. Colaiacomo, Crisi dell’«ancien régime»: dall’uomo di lettere al letterato borghese, in Letteratura italiana diretta da A. Asor Rosa, vol. 2, Produzione e consumo,
Einaudi, Torino 1983), per divenire irrilevante nel periodo successivo. La Chiesa L’età del Risorgimento
175
Il lavoro intellettuale
cessa di essere fonte di un’occupazione stabile per i letterati. Certamente esistono ancora scrittori che sono anche ecclesiastici, ma sono fenomeni individuali, che non bastano a definire una particolare categoria di intellettuali, come avveniva in passato. La maggioranza degli scrittori italiani dell’Ottocento è dunque laica e borghese. Per i nati tra il 1781 e il 1800, gli intellettuali provenienti dal terzo stato raggiungono il 59%. Per il periodo successivo, non essendo più nobili e chierici un ceto storicamente rilevante, occorre distinguere gli strati della borghesia da cui gli intellettuali provengono. Secondo uno studio di A. Acciani, Dalla rendita al lavoro (sempre nel vol. 2 della Letteratura italiana, cit.), l’alta borghesia presenta valori percentuali sul 34%, mentre la media e piccola borghesia va oltre il 60%. Come si vede, la percentuale restante di intellettuali proveniente dal quarto stato, urbano o rurale, è minima. Il dato conferma come la massa del proletariato fosse ancora praticamente esclusa dalla cultura, dalla produzione come dal consumo. Pochissimi fra gli scrittori italiani riescono in questo periodo a trarre interamente
come professione
il loro sostentamento dal lavoro intellettuale, curando edizioni, traducendo, collabo-
Sei scrittori borghesi
rando a giornali e riviste, fornendo consulenze agli editori. Se si escludono quelli che vivono di rendita, molti devono affiancare al lavoro intellettuale le libere professioni
L’indipendenza dello scrittore
(avvocati, notai, medici); altri occupano impieghi pubblici o privati; una parte rilevante, in crescita nel corso del secolo, si dedica all'insegnamento (fra i nati tra il 1815 e il 1870 oltre il 30%). Tuttavia il lavoro intellettuale comincia ad assumere la fisionomia di un’autentica professione: gli scrittori dedicano parte rilevante del loro tempo alle attività sopra esemplificate, traduzioni, consulenze, ecc., sviluppando specifiche competenze e abilità professionali. In questo periodo, poi, nessuno riesce ancora a vivere dei proventi ricavati dalla vendita delle proprie opere, dato l’insufficiente sviluppo del mercato letterario e l'assenza di una disciplina legale del diritto d’autore. Per trovare questa figura, tipica della società moderna, bisognerà attendere ancora parecchio tempo. Comunque tutti scrivono per il mercato, poiché le loro opere, in maggiore o minor numero di copie, sono diffuse dalla nascente industria editoriale. Lo scrittore è ormai parte di un apparato produttivo che è di tipo moderno, anche se solo agli inizi. Il letterato ottocentesco, prevalentemente di origine borghese, dovendo dedicarsi ad un lavoro per poter vivere, non gode più dell’otium letterario assicurato dalla rendita agli scrittori aristocratici del passato, o dai benefici vari concessi ai chierici e ai cortigiani. Ne deriva un dato caratteristico di questa età: la recriminazione sulla necessità di spendere energie in un’attività estranea a quella letteraria, talora noiosa e mortificante, sottraendole all’attività dello spirito, e il rimpianto di condizioni del
passato più favorevoli all'esercizio letterario. In compenso, questi intellettuali sono più indipendenti rispetto al condizionamento ideologico del potere di quanto non fossero i letterati cortigiani tradizionali, che dipendevano direttamente dai favori del signore. Questa nuova indipendenza è l’orgoglio dello scrittore borghese (ne abbiamo visto gli embrioni in Parini e Foscolo). Man mano però che si sviluppa il mercato letterario, lo scrittore subisce un altro condizionamento, forse ancora più pesante:
quello dei gusti del pubblico che deve acquistare le sue opere (cfr. qui di seguito $ 10).
9.2. Il ruolo sociale. Le condizioni particolari dell’Italia, che nella prima metà del secolo vive il processo della rivoluzione nazionale, destinato a formare uno stato unitario, con istituzioni politiche liberali, un'economia di mercato e strutture sociali
La situazione europea
borghesi, condiziona il ruolo degli intellettuali nella società. Abbiamo già accennato al problema nel paragrafo 5, a proposito delle tematiche del nostro Romanticismo, ma è il caso di riprenderlo e approfondirlo. Come si è visto, nei paesi in cui quei processi si sono già svolti, o sono molto più avanzati, si profila un conflitto tra l’intellettuale e la società (cfr. in questo stesso Quadro di riferimento il $ 2): l’intellettuale si sente privo di un ruolo, misconosciuto e messo ai margini nel sistema della razionalizza-
zione produttiva. Da qui rancore, rivolta, senso di colpa che si rovescia in un senso
di superiorità, nella rivendicazione di un privilegio spirituale (un bell'esempio di questi atteggiamenti si potrà trovare nell’Albatros di Baudelaire: cfr. T57). In Italia questi fenomeni sono inesistenti, o infinitamente più attenuati. A ben vedere, se si tiene presente quanto si osservava nelle pagine precedenti, condizioni oggettive di conIl quadro di riferimento
176 L’intellettuale italiano
ha ancora un ruolo
flitto tra intellettuali e società erano già presenti, nella misura in cui era avviato anche nel nostro paese un processo di modernizzazione. Però tali condizioni erano rimosse da esigenze più immediate, come l'impegno patriottico e civile nel processo risorgimentale. L’intellettuale italiano, infatti, ha, nella rivoluzione nazionale, ancora un ruolo preciso. Nell’azione innanzitutto: molti intellettuali del primo Ottocento sono impegnati direttamente nell’azione politica, cospirano nelle società segrete, partecipano alle insurrezioni, combattono nelle guerre di indipendenza, organizzano spedizioni, sono processati, incarcerati, esiliati, a volte giustiziati. Ma hanno anche un preciso ruolo intellettuale: elaborano e diffondono i valori che sono alla base del moto nazionale (l’amore di patria, la libertà, il culto delle grandi tradizioni del passato, l’unità spirituale del popolo), persuadono, incitano all’azione, celebrano le glorie e le vittorie. Sono la guida intellettuale, politica, morale della nazione che si va formando. Perciò soggettivamente non avvertono i motivi di conflitto con la società. Non troviamo di conseguenza tra gli scrittori italiani quegli atteggiamenti di delusione, di insofferenza violenta, di rivolta che caratterizzano tanti scrittori europei anche nel loro vissuto, nel loro comportamento, oltre che nei temi delle loro opere. Nei paesi stranieri lo scrittore romantico è essenzialmente antiborghese, spesso in modo esasperato e si rivolta contro la stessa matrice da cui proviene. In Italia lo scrittore romantico è invece il portavoce e il propugnatore dei valori di un assetto borghese in formazione.
10. Il pubblico
Il pubblico dei lettori comuni i
Il mercato letterario
La crescita dei ceti borghesi, sia in senso quantitativo, sia nell’importanza sociale, il parallelo incremento dell’istruzione, i processi politici in atto, che stimolano il bisogno di sapere, capire, partecipare, sono tutti fattori che determinano la formazione di un nuovo pubblico. A loro volta la nascita di un’editoria moderna e di una nuova letteratura “popolare” sono fenomeni che da un lato presuppongono questo nuovo pubblico, ma dall’altro, in un circolo di perpetua interazione, contribuiscono a formarlo e ad ampliarlo. Nella società dell’Ancien Régime il pubblico della letteratura era estremamente ristretto: lo scrittore si rivolgeva ad una cerchia chiusa, per gran parte composta di altri letterati come lui. Ora per la prima volta si può cominciare —a parlare di un pubblico “di massa”, non nel senso che sia composto da masse sterminate di persone (i lettori di libri, anzi, rispetto alle proporzioni attuali, sono ben poco numerosi), ma perché è costituito da persone che non fanno professione di letteratura e che si accostano al libro, nel loro tempo libero, per svago o per accrescere le loro cognizioni e raffinare i propri gusti. Lo scrittore non si rivolge più ad un piccolo gruppo di “addetti ai lavori” che spesso conosce personalmente e con cui intrattiene rapporti diretti, ma ad una folla anomina ed a lui ignota. La consapevolezza di questa nuova situazione della comunicazione letteraria si coglie nella Lettera semiseria di Berchet, che indica con grande precisione sociologica il pubblico a cui intende rivolgersi la nuova letteratura romantica: il pubblico dei ceti medi, le «mille e mille famiglie» che «pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte senza pure avere un nome ne’ teatri». Questo pubblico borghese viene chiamato da Berchet «popolo» ed è identificato con la stessa nazione. Ne sono esclusi i pochi aristocratici cosmopoliti e la gran massa del quarto stato, artigiani, operai, lavoranti, ma soprattutto i contadini. Si pensi che al momento dell’unità l’analfabetismo era al 78%. Una parte cospicua della popolazione era così esclusa dalla cultura “alta”, restando segregata in forme di cultura arcaica e folklorica, trasmessa oralmente: canti, fiabe, leggende, novelle, proverbi, sacre rappresentazioni, feste, sopravvivenze di antichi riti pagani, teatro dei pupi. La presenza di questo nuovo pubblico si identifica col mercato: è questo, infatti, che comprai libri e i giornali, che determina il successo o l’insuccesso di un romanzo, di un libro di poesie (lo stesso meccanismo vale per il teatro, per l’opera lirica, per le arti figurative). Diviene noto e circola solo ciò che piace, che è vendibile. Il resto
L’età del Risorgimento
170 è condannato alla dimenticanza o alla marginalità. Si può capire come il pubblico
Il condizionamento del pubblico sui generi
cominci ad esercitare un potente condizionamento sull'attività dello scrittore. Se vuole popolarità e guadagni (sia pur modesti, per le ragioni indicate), il romanziere, il drammaturgo 0 il poeta deve compiacerlo, assecondandone le esigenze. Può anche ritrarsene disgustato, sprezzante verso i suoi gusti grossolani; allora sceglie di chiudersi in solitudine, di rinunciare alla popolarità e di scrivere per pochi privilegiati. Questo secondo atteggiamento è ancora molto raro in questo periodo, data la funzione dell’intellettuale nel processo della formazione nazionale. Diverrà poi tipico del secondo Ottocento, a partire dalla Scapigliatura. Il condizionamento del pubblico agisce sulla formazione e la diffusione dei generi letterari. É un problema generale che va approfondito, come premessa ad un successivo esame dei singoli generi. Entrano in crisi, e vanno sempre più declinando, 1 generi classici (tragedie, poemi epici e didascalici, canzoni, odi), estranei all’orizzonte culturale, agli interessi e ai gusti del nuovo pubblico. Si afferma invece il romanzo che, grazie ai suoi meccanismi narrativi, è in grado di avvincere l’interesse dei lettori; per lo stesso motivo grande successo hanno forme di poesia narrativa come la novella in versi e la ballata; oppure piace la poesia che fa leva sul sentimentalismo o sulle passioni patriottiche. Ciò che piace e riscuote successo viene ripetuto e moltiplicato: comincia ad affacciarsi il fenomeno della serialità delle opere di successo, ben noto all’attuale cultura di massa. Proliferano così romanzi storici o novelle
Il condizionamento
sugli argomenti
in versi che ricalcano sempre gli stessi schemi narrativi, le stesse situazioni e gli stessi personaggi. Il medesimo discorso vale per i soggetti di un genere molto popolare come il melodramma. Il condizionamento del pubblico agisce poi sugli argomenti: la letteratura minore di questo periodo divulga a livelli “di massa” (si prenda sempre l’espressione nel senso relativo che si è sottolineato) tutta una serie di miti ricavati dalla letteratura romantica di livello “alto”, che sono richiesti dal pubblico perché rispondono evidentemente ad aspettative profonde, spesso inconsapevoli: donne angelo e pure fanciulle perseguitate, insidiose donne fatali e angeli della casa, generosi fuorilegge, eroi tenebrosi, mistioni di amore e morte. Il romanzo storico e la novella in versi accontentano spesso un facile gusto esotico per il passato, trasportando il lettore in un “altrove” più affascinante della grigia realtà di tutti i giorni, un Medio Evo avventuroso e cavalleresco, un Rinascimento fosco di intrighi, di passioni e di delitti.
Il condizionamento sulla forma
Il pubblico condiziona inoltre anche l'aspetto formale dei testi, la struttura dell’intreccio e i procedimenti narrativi: vicende complicate e ricche di sospensione, tali da poter incatenare l’attenzione, scene ad effetto, rivelazioni clamorose e inaspet-
Il linguaggio
Lo scrittore influisce
sul pubblico
tate, scioglimenti a sorpresa. Romanzi, novelle in versi, libretti d’opera, oltre a presentare argomenti e personaggi simili, si valgono degli stessi procedimenti per ottenere gli stessi effetti. Questo tipo di letteratura presenta già caratteristiche simili a quelle che saranno proprie nel secondo Ottocento della narrativa “d’appendice” (cfr. Quadro di riferimento III, $ 5.2). La letteratura “popolare” vagheggiata dai romantici contiene in sé i germi della letteratura “di consumo”. E il destino forse inevitabile di ogni tipo di letteratura che voglia rispondere al mercato e al vasto pubblico. Come reazione altrettanto inevitabile, si dipartirà da qui la letteratura d’avanguardia, che disprezza il mercato, e che comincerà ad apparire oltre la metà del secolo. Viene condizionato anche il linguaggio: non può più essere usato quello della tradizione classica, dalla sintassi latineggiante e dal lessico aulico, fitto di riferimenti mitologici o eruditi, ma si impone un linguaggio più vicino alla lingua d’uso, che possa essere compreso immediatamente dal pubblico. Ma l’instaurarsi di una lingua letteraria di immediata comunicazione è in realtà ostacolato dall’assenza di una vera lingua italiana comunemente parlata da tutti (cfr. qui di seguito $ 12). Per cui, anche in opere che dovrebbero essere “popolari”, si usano soluzioni ibride, che mescolano stilemi aulici con forme prosaiche, con risultati spesso di ineffabile goffaggine. Fa eccezione solo la soluzione manzoniana, come vedremo. Se il pubblico condiziona lo scrittore, è vero però anche l’inverso. Proprio la desti-
nazione relativamente “di massa” della letteratura consente allo scrittore di diffonIl quadro di riferimento
178
È dere largamente valori, modelli culturali, miti, formando la mentalità e i gusti di strati piuttosto vasti della popolazione. Si pensi all'enorme influenza che I promessi sposi, un vero best seller per i tempi, hanno esercitato sulla società italiana: il romanzo manzoniano si impose al lettore dell'Ottocento come modello di un’intera concezione della vita, dei rapporti umani, sociali, religiosi, diventando una sorta di guida morale ed estetica, un testo in certo qual modo sacro. L’area di influenza della letteratura si estende poi anche al di là dei confini del ceto medio alfabetizzato e lettore di libri. Proprio questo ceto medio, nei rapporti sociali quotidiani, può diffondere valori e miti ai ceti subalterni, come i contadini, gli artigiani, i domestici.
11. I generi letterari La rivoluzione poetica del Romanticismo
Sarca
11.1. La poesia. In campo europeo il Romanticismo segna una vera rivoluzione poetica, introducendo un modo profondamente nuovo di intendere la stessa nozione di poesia, non più come adeguazione a modelli e regole, ma come voce del profondo, espressione dell’intimo e della soggettività, che si crea i propri mezzi espressivi in assoluta libertà e originalità. Tutto ciò dà luogo ad una vera esplosione di tematiche nuove e ad un’esplorazione ardita di zone inedite del reale, in particolare della psiche o del mistero che circonda l’uomo; parallelamente, nasce anche un linguaggio lirico radicalmente nuovo, analogico e immaginoso, in cui la parola muta funzione,
La moderazione dei poeti italiani
La poesia patriottica
caricandosi di intensi valori suggestivi ed evocativi, che si collocano al di là della strutturazione logica del linguaggio della comunicazione abituale. Nella nostra letteratura solo la parola poetica di Foscolo e Leopardi, pur restando fedele a moduli classici, attinge alla potenza evocativa della lirica europea. La poesia di Manzoni non appartiene propriamente alla lirica, ma si colloca in un altro genere di poesia, vicino alla narrativa e alla drammatica, e va valutata in rapporto a tali diverse esigenze espressive. La produzione poetica minore del nostro Romanticismo appare invece particolarmente lontana dalle sperimentazioni europee, nei temi ma ancor più nel linguaggio: in ciò non solo si rivela il mediocre valore di questa produzione, ma si conferma quel carattere moderato e realistico che il Romanticismo italiano presenta, come si è visto, sul piano delle poetiche e dei programmi letterari. La poesia romantica italiana è in primo luogo poesia patriottica, colma di passioni risorgimentali, intesa a fini pratici, incitare alla lotta, esaltare le glorie del passato, deprecare il dispotismo e l'oppressione straniera, diffondere i valori fondamentali, come l’amore di patria, la fratellanza nazionale, la libertà. Ha perciò un carattere fortemente oratorio. Ciò spiega l’uso costante di metri rapidi, martellanti, come il decasillabo, l’ottonario e il settenario, che danno l’impressione dell’inno di battaglia, ed il frequente ricorrere di esclamazioni e interrogazioni, o di figure retoriche molto enfatiche come metafore e personificazioni. Data la sua destinazione e il suo intento di far presa immediata sui lettori, questa poesia punta anche ad un linguaggio di popolare facilità, mirando così a realizzare il principio romantico della “popolarità” della letteratura; ma in realtà non riesce a portare a compimento una vera rivoluzione del linguaggio poetico, avvicinandolo al linguaggio quotidiano. Restano infatti vistosi residui del linguaggio poetico tradizionale e classicheggiante, sia nel lessico aulico («speme», «crini», «brando», «augello» e simili) sia nella sintassi. È questa una caratteristica propria di gran parte della poesia romantica italiana, e non solo di quella patriottica (avremo modo di verificarla persino nella poesia manzoniana). L'esponente più significativo di questo genere di poesia è Giovanni Berchet (1783-1851), autore di Komanze (1824) e di Fantasie (1829), in cui trae ispirazione dalla situazione politica presente, ma volgendosi spesso al passato, a rievocare episodi di grandezza da
proporre come esempio e incitamento, come il giuramento di Pontida. Altri testi di questo genere ebbero nel secolo scorso larghissima notorietà, tanto da entrare, grazie anche alla scuola, nel patrimonio culturale di base della popolazione italiana, sino
L’età del Risorgimento
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o
La poesia satirica: Giusti
La novella in versi
. La ballata
La poesia religiosa: Tommaseo
La seconda generazione romantica: Prati e Aleardi
ai giorni nostri: La spigolatrice di Sapri e l'Inno a Garibaldi di Luigi Mercantini (1821-187 2), Addio a Venezia di Arnaldo Fusinato (1817-1889), Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli (1827-1849), divenuto inno nazionale della Repubblica italiana, nel secondo dopoguerra. 1 Accanto alla poesia patriottica si può collocare quella satirica, di cui l’esponente più ragguardevole è il toscano Giuseppe Giusti (1809-1850): i suoi Scherzi possono avere obiettivi politici e patriottici, ma spesso sono satira di costume, che fissa tipi e macchiette della società contemporanea. A differenza della goffaggine della lingua della poesia patriottica, il linguaggio di Giusti ha la vivacità saporosa del toscano parlato, ma cade spesso nella maniera e nella leziosaggine, rivelando al fondo una matrice letteraria. Due generi poetici molto diffusi e popolari nell’età romantica furono la novella in versi e la ballata. La novella in versi è un componimento di tipo narrativo che predilige motivi sentimentali (soprattutto amori infelici con fine tragica), con forti contrasti passionali e scene lacrimevoli, tesi a suscitare la commozione del pubblico. La vicenda può essere ambientata nell’età contemporanea, come nella Fuggitiva (1816) di Tommaso Grossi (1790-1853) e nell’Edmenegarda (1841) di Giovanni Prati (1814-1884); ma più spesso viene prediletto il Medio Evo, un Medio Evo di maniera, cupo o pittoresco, tipico di un gusto romantico deteriore: Ildegonda (1820) dello stesso Grossi, Pia de’ Tolomei (1822) di Bartolomeo Sestini (1792-1822), [da della Torre di Giulio Carcano (1812-1882). Ad un gusto affine si ispira la ballata. Nasce dall’imitazione delle ballate popolari nordiche, tedesche e inglesi, di cui Berchet aveva dato un saggio traducendo nella Lettera semaseria l’Eleonora (cfr. T64) e Il cacciatore feroce di Bùrger, proponendole come esempi di poesia «popolare». Si tratta di un tipo di componimento anch'esso narrativo, ma con forti coloriture liriche, che presenta avvenimenti avvolti in un alone leggendario e fantastico. Vi trionfa il gusto romantico del pittoresco e del sentimentale, oppure dell’orrido e del macabro. Talora vi compare l'elemento storico, ispirato ad un esotismo di maniera. Rappresentante più significativo del genere è Luigi Carrer (1801-1850), autore di ballate che ottennero vasta notorietà (La sposa dell’Adriatico, Il cavallo d’Estremadura). Entrambi questi generi, novella in versi e ballata, furono molto amati dal pubblico, che vi trovava soddisfazione al suo bisogno di evasione e di facile commozione. Essi testimoniano eloquentemente quella trasformazione della letteratura “alta” in letteratura ormai “di massa” che comincia a verificarsi in quest’età, agli albori del mercato letterario (cfr. il paragrafo precedente). Un posto a sé nel panorama poetico del Romanticismo italiano occupa la produzione di Niccolò Tommaseo (1802-1874), intellettuale di grande rilievo per la ricchezza dei suoi interessi (poesia, narrativa, critica, lessicografia). E una poesia di impronta eminentemente religiosa, ispirata ad una concezione mistica, quasi panteistica. Per la profondità del pensiero, l'originalità dei motivi e la densità del linguaggio spicca singolarmente in un panorama mediocre come quello della poesia minore di questo periodo. Tommaseo fu anche studioso di folklore, secondo il gusto del popolare proprio del Romanticismo, e raccolse una serie di Canti popolari greci, Ulrici, corsi e toscani (1841) da lui stesso tradotti felicemente. Si suole poi distinguere una “seconda generazione” romantica, di poeti attivi
intorno alla seconda metà del secolo, tra cui si segnalano Giovanni Prati (1814-1884) e Aleardo Aleardi (1812-1878). É una poesia che accentua l’effusione sentimentale già presente nei decenni precedenti, puntando ora all’enfasi ora all’estenuata languidezza, con un linguaggio poetico facilmente cantabile, che può far pensare ad un’ “Arcadia” romantica. Tuttavia, per altro verso, questi poeti contribuirono a diffondere quei motivi del Romanticismo europeo che la prima generazione romantica, nel suo moderatismo, aveva pressoché ignorato, come i motivi irrazionalistici, fantastici, onirici. E un segnale importante, che avverte come l’identificazione fra Romanticismo e lotte politiche risor-
gimentali si vada attenuando (anche se Prati e Aleardi parteciparono ancora a quei processi), e si vada delineando una crisi destinata ad aprire la strada a quella svolta che si avrà dopo l’unità con la Scapigliatura. Gli Scapigliati tuttavia rifiuteranno proprio le forme facili di questi poeti, prendendoli come bersaglio della loro polemica. Il quadro di riferimento
180 La poesia dialettale: Porta e Belli
La visione dal basso
Gli ambienti: Milano e Roma
Il disprezzo per il romanzo
Se la poesia romantica non riesce a compiere un rinnovamento autentico del linguaggio e dei temi poetici (esclusi sempre i vertici, Manzoni e Leopardi), una rivoluzione di profonda portata è introdotta dalla poesia dialettale, che conta due poeti oggi
riconosciuti di altissimo livello, Carlo Porta (1775-1821), che scrive in dialetto milanese,
e Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), che scrive in dialetto romanesco. Essi giungono ad una vera “rivoluzione copernicana” nella poesia: non solo perché affrontano zone della realtà tradizionalmente escluse dalla letteratura e ritenute impoetiche, quali la vita dei ceti popolari, nella sua miseria materiale e nella sua degradazione morale, ma per il punto di vista da cui quella realtà è guardata. La realtà plebea, ove fosse accolta in letteratura, era sempre stata presentata esclusivamente dall’ottica “alta” dello scrittore aristocratico e borghese che, per quanto si chinasse con simpatia e comprensione verso di essa, tendeva a subordinarla alla sua visione del mondo, al significato che egli voleva trarre dai fatti rappresentati. Tale è anche l’esito della pur innovativa operazione di Manzoni, che assume sì ‘come protagonisti del suo romanzo personaggi popolari, ma in funzione della sua visione problematicamente cristiana del mondo e del suo progressismo liberale, presentandoli come depositari di una serie di virtù positive in contrapposizione con le classi elevate, dove sembra concentrarsi tutto il male scaturito dalla caduta originaria dell’uomo. Porta e Belli compiono invece la scelta rivoluzionaria di adottare un'ottica dal basso, quella degli stessi popolani, con effetti sconvolgenti nella rappresentazione del reale, che viene visto da una prospettiva radicalmente “altra” rispetto a quella abituale e quindi fortemente straniante. Ne deriva una possibilità di lettura critica del reale di eccezionale acutezza e penetrazione. Ne fanno le spese i ceti privilegiati, la nobiltà milanese chiusa nella sua superbia sprezzante, il ceto ecclesiastico romano, monsignori, cardinali, il papa, che appaiono come un mondo morto e mummificato nella routine dell’esercizio di un potere autoritario e oppressivo. Ma anche del popolo stesso viene data una visione che, provenendo dall’interno, non è più idealizzata ed esemplare, subordinata alla visione dello scrittore: emerge così la sua sanguigna vitalità, ma anche la sua degradazione. L'ottica dal basso comporta la negazione di tutta una serie di miti che sono costruzioni della cultura “alta”: il mito del progresso, dell’incivilimento, dell’indefinita perfettibilità dell’uomo, mentre viene proposta una visione desolata, acremente pessimistica, che ha un alto potenziale demistificante e critico. In questa luce la lingua dialettale non risulta solo un espediente di maniera, inteso a conferire il colore locale alla rappresentazione, ma appare l’unica forma possibile per esprimere quella visione, capace di modellarsi con straordinaria duttilità su di essa. Si tratta perciò di un linguaggio poetico vivo, di eccezionale forza espressiva, che si adatta a tutte le sfumature: lontanissimo, quindi, dall’artificiosità stereotipata della contemporanea poesia in lingua. Gli esiti dei due poeti sono affini, ma diverse si rivelano le loro personalità, così
come gli ambienti culturali in cui si formano e agiscono. Porta vive nella Milano napoleonica e poi della Restaurazione, ed è vicino al gruppo romantico, condividendone i principi di poetica, la battaglia per la nuova letteratura, nonché l’impegno civile progressivo di ascendenza illuministica. Belli vive invece nella Roma papale, forse lo stato politicamente e culturalmente più chiuso e retrivo d’Italia, che non offre nessuna prospettiva di una trasformazione dello stato di cose esistente. Di qui la carica polemica della satira portiana, e il cupo fatalismo della poesia del Belli. 11.2. Il romanzo. Nell’età romantica si affermò in Italia un genere nuovo, il romanzo, che conquistò presto il pubblico, divenendo il genere più diffuso e più letto. La sua affermazione non fu però inizialmente senza contrasti. Infatti gli ambienti letterari tradizionalisti e classicisti guardavano al romanzo con profondo disprezzo, ritenendolo un genere inferiore, adatto tutt’al più per i lettori ignoranti e sprovveduti, ma indegno di essere accolto nel campo della letteratura vera e propria. Si manifestava così il fastidio di una cultura aristocratica per l’abbassamento della letteratura al livello dei non letterati e dei loro gusti. Tale disprezzo nasceva in primo luogo da pregiudizi retorici: il romanzo era un genere “nuovo”, “anfibio”, non rispondente
L’età del Risorgimento
181 a nessuno dei generi narrativi tradizionali, ritenuti sacri e intangibili dalla mentalità classicistica (poema epico, prosa storica, novella...); ma pesavano su di esso anche pregiudizi moralistici, per la presunta “pericolosità” morale di una rappresentazione troppo viva della realtà vissuta e delle passioni. Tutti questi pregiudizi erano dovuti al clima stagnante della cultura italiana, nel complesso ancora attaccata alla tradizione gloriosa del passato e chiusa entro una mentalità retorica e pedantesca, diffidente verso le esperienze letterarie dell'Europa contemporanea. E tale arretratezza culturale non era che la conseguenza della più generale arretratezza nel campo politico, sociale, economico dell’Italia, su cui si è già insistito. Il romanzo era stato, in
Europa, l’espressione letteraria più tipica della visione del mondo, dei gusti e degli interessi della borghesia, già divenuta o prossima a divenire classe dominante. Il romanzo moderno (cioè il romanzo che rappresenta la vita reale, non quello cavalleresco, avventuroso, fantastico, galante, come il romanzo medievale e barocco, destinato ad un pubblico di corte) si era infatti affermato per la prima volta, con Defoe, Richardson e Fielding, in un paese come l'Inghilterra, dove già nel Settecento la borghesia era avanzata e forte (cfr. M5, e il fondamentale volume di I. Watt, Le origini del romanzo borghese, tr. it., Bompiani, Milano 1976). Perciò, se in Italia mancava
I romantici e la difesa del romanzo
ai primi dell’Ottocento una tradizione romanzesca paragonabile a quella europea, era perché mancava la base sociale da cui essa potesse scaturire. Era naturale perciò che l'esigenza del romanzo si presentasse in Italia nel momento in cui la borghesia cominciava a formarsi con le lotte risorgimentali come classe dirigente, e che il compito di riscattare il romanzo dal disprezzo in cui era tenuto fosse assunto dal movimento che rappresentava l’avanguardia intellettuale di tale borghesia, il Romanticismo lombardo, il cui progetto culturale prevedeva un rinnovamento letterario collegato con il rinnovamento civile ed economico. Infatti la difesa del romanzo, accanto al rifiuto delle
Manzoni e il romanzo
Il modello scottiano
regole e della mitologia e accanto all'affermazione del carattere “popolare” della nuova letteratura, è uno dei punti principali della battaglia romantica sviluppatasi a partire dal 1816. I romantici, che sono moderati e alieni da atteggiamenti di rottura, riconoscono che al momento attuale il romanzo è effettivamente un genere inferiore, ma sono anche convinti che uno scrittore di valore possa «impadronirsene e nobilitarlo», come si esprime Silvio Pellico sul «Conciliatore» nel 1819. Ma è l’intellettuale più acuto e lungimirante del gruppo romantico, Manzoni, a capire più a fondo l’importanza dello strumento romanzesco. Sin dalla prima introduzione al Fermo e Lucia, scritta nella primavera del ’21, contemporaneamente ai primi capitoli, Manzoni, irridendo con la sua consueta ironia ai pregiudizi classicistici, si dimostra convinto del fatto che il romanzo abbia dignità pari a tutti gli altri generi, e che sia indispensabile introdurlo in Italia per colmare una lacuna culturale e per avviare un processo di svecchiamento della letteratura nazionale. E difatti Manzoni usa proprio il romanzo come strumento espressivo per eccellenza della sua visione del mondo e per realizzare il suo ideale di letteratura. Il romanzo storico. Il romanzo si afferma in Italia, nell’età romantica, essenzialmente come romanzo storico. Il modello era fornito dai romanzi dello scozzese Walter Scott, che dal 1814 avevano avuto un notevole successo ed avevano imposto la moda del racconto storico in tutta l'Europa (cfr. A23). Il romanzo storico si proponeva di offrire un quadro di una determinata epoca del passato, prossimo o remoto, illustrando non solo i grandi avvenimenti politici e militari, quelli che abitualmente sono ritenuti “storici”, degni di memoria, ma anche i loro effetti nel campo della vita
privata, i costumi, la mentalità, i modi di vita della gente comune, «insomma tutto ciò che ha avuto di più caratteristico, in tutte le condizioni della vita, [...] una data società in un dato tempo» (così si esprime Manzoni nel Discorso sul romanzo storico). Tale quadro doveva essere diverso da quello che poteva fornire la storiografia, perché veniva drammatizzato, proposto attraverso una rappresentazione «animata, in atto» (sempre parole di Manzoni), cioè attraverso il racconto delle vicende dei protagonisti. I grandi avvenimenti e i personaggi storici erano perciò lasciati sullo sfondo ed al centro della narrazione erano poste le vicende di personaggi immaginari e oscuri, più adatti a restituire nei particolari più minuti le condizioni quotidiane di vita di una data società che la storiografia non era solita considerare. Il quadro di riferimento
182 Il successo europeo del romanzo storico
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Il grande successo europeo del romanzo storico si può spiegare con l'interesse per il passato proprio dell’età romantica, caratterizzata dal senso della storia in opposizione al razionalismo antistoricistico degli illuministi. Al senso della storia si collegava poi strettamente l'affermarsi, in tutta Europa, del sentimento nazionale, che spingeva a cercare nel passato le radici dell’identità di un popolo (e questo è ben visibile nei romanzi scottiani, specie nel famoso Ivanhoe, cfr. T48). Ma il romanzo storico era anche un genere di intrattenimento, “di consumo” diremmo oggi, che veniva incontro al gusto dell’esotico proprio del tempo, fornendo al pubblico borghese l’occasione di una fuga verso un mondo diverso dal grigiore presente, più pittoresco e affascinante. In Italia la fioritura del romanzo, nelle forme del romanzo storico, si ha nel 1827,
La fioritura del 1827
Il romanzo e il nuovo
pubblico
quando escono I promessi sposi di Manzoni, La battaglia di Benevento di Guerrazzi, Il castello di Trezzo di Bazzoni, La Sibilla Odaleta di Varese, il Cabrino Fondulo di Lancetti. La comparsa quasi simultanea di un così gran numero di romanzi è oltremodo significativa: sta a indicare che un lungo processo sotterraneo di gestazione si è concluso, e i frutti vengono alla luce. Nella società italiana contemporanea c'erano esigenze profonde che invocavano il romanzo, e la produzione romanzesca non fa che soddisfarle. Il pubblico italiano aveva evidentemente fame di romanzi, del nuovo genere “popolare” per eccellenza, che rispondeva ai gusti e agli interessi del pubblico che si andava formando, non più composto da letterati ma da lettori comuni (cfr. in questo stesso Quadro di riferimento il $ 10). Costoro erano conquistati dalla forma narrativa in prosa che faceva leva proprio su una serie di espedienti per incatenare l’attenzione (anche i Promessi sposi, benché a Manzoni ripugni il “romanzesco”, sono un racconto che avvince; si pensi, per fare un esempio, a Renzo che cerca Lucia nel lazzaretto: il lettore ingenuo spasima nell’attesa di sapere se l’eroe riuscirà a ritrovare la donna amata); si immedesimavano nei personaggi, vivevano con essi casi straordinari, si divertivano nelle scene comiche e si commuovevano in quelle lacrimevoli
e sentimentali, si nutrivano dei miti che il romanzo veicolava, ricavavano dalla lettura nozioni storiche, erano proiettati in epoche affascinanti come il Medio Evo o il Rinascimento, trovavano alimento alle proprie aspirazioni patriottiche, ma soprattutto potevano leggere una prosa comprensibile, lontana dalla prosa accademica e aulica della
Gli scottiani
La scuola manzoniana
Guerrazzi
tradizione. Nei decenni successivi, a conferma del fatto che rispondevano a richieste profonde, i romanzi storici invasero il mercato, ottenendo quello che, in rapporto ai tempi, si può definire un successo “di massa”. Per questo, come si è già osservato per un altro genere di successo come la novella in versi, assunsero decisamente caratteristiche proprie della letteratura di consumo, come l’uso di procedimenti tesi scopertamente a conseguire certi facili effetti di sospensione, di commozione, di evasione, o come la ripetizione “seriale” di stereotipi, personaggi, situazioni, ambienti, intrecci. All’interno del genere si manifestano però diverse “scuole”, che sono già delineate chiaramente nella prima fioritura del 1827. Vi sono innanzitutto gli “scottiani” di stretta osservanza, Giovan Battista Bazzoni (1803-1850) e Carlo Varese (1792-1866), che ricalcano da vicino la formula del loro maestro, facendola però scadere nel pittoresco di maniera e negli intrighi puramente avventurosi. Si delinea poi una nutrita schiera di imitatori manzoniani: Tommaso Grossi, con Marco Visconti (1834), vicenda avventurosa e patetica di una soave fanciulla rapita dal tenebroso Marco Visconti (modellato sull’innominato manzoniano), con morte finale dell’eroina; Margherita Pusterla (1838) di Cesare Cantù (1804-1895), che attraverso le lacrimevoli vicende dell’eroina, implicata nella congiura contro il tiranno Luchino Visconti, ricostruisce la Milano trecentesca; Ettore Fieramosca (1833) di Massimo D’Azeglio (1798-1866), ispirato alla disfida di Barletta e quindi pieno di slanci patriottici, senza però trascurare l'elemento comico e quello patetico, con l’amore infelice dell'eroe e la sua morte; Niccolò de’ Lapi (1841) dello stesso D’Azeglio, ambientato all’epoca dell'assedio di Firenze nel 1827. Questi imitatori manzoniani si ispirano a episodi e figure del capolavoro del maestro, ma soprattutto cercano di riprodurre il tono affabilmente ironico della narrazione, restando però ovviamente molto lontani dal modello. Francesco Domènico Guerrazzi (1804-1873) rappresenta invece una corrente antitetica a quella manzoniana moderata e cattolica: lo scrittore era infatti democratico e accesamente anticlericale, nonché ammiratore di Byron e del suo eroismo attivistico. I suoi romanzi
L’età del Risorgimento
183 (oltre alla citata Battaglia di Benevento, L'assedio di Firenze, 1836, Veronica Cybo, 1838, Isabella Orsini, 1844, Beatrice Cenci, 1853) rivelano un gusto per il tenebroso, l’orrido, il macabro che richiama un certo gusto “nero” del Romanticismo straniero. Sono perciò lontanissimi dai moduli della scuola manzoniana, dal suo moralismo moderato e benpensante, del suo pedagogismo edificante, dal tono bonariamente colloquiale: VI sì ritrova una passionalità esasperata, continuamente tesa sino all’estremo limite, ed un’eloquenza enfatica, turgida, tribunizia. Il romanzo “sociale”. Se il romanzo storico domina la scena, si riscontra anche qualche esempio di romanzo di ambientazione contemporanea, inteso a rappresentare le condizioni della società attuale. Su questo terreno il romanzo europeo, nei primi
decenni dell’Ottocento, stava offrendo i suoi massimi capolavori con Stendhal e Bal-
Ranieri
Carcano
Percoto
Fede e Bellezza
I Cento anni di Rovani
zac in Francia, la Austen, Thackeray e Dickens in Inghilterra. In Italia invece il romanzo contemporaneo, o “sociale”, ha poca diffusione: evidentemente lo studio realistico della società presente esigeva una maturità di strumenti concettuali e narrativi che la cultura italiana era lontana dal possedere, sempre in conseguenza del ritardo politico e sociale del paese. Solo una società ormai matura può infatti analizzare se stessa con la profondità dimostrata dai grandi narratori europei. Nel 1839 Antonio Ranieri (1806-1888), il fraterno amico di Leopardi, pubblica Ginevra, l’orfana della Nunziata, incentrato sulle peripezie di una fanciulla napoletana, appartenente alla classe popolare, vittima delle angherie più terribili. E un romanzo che ha forti intenti di denuncia sociale, ma sconfina negli effettacci orripilanti del romanzo d’appendice. Di orientamento “manzoniano”, moderato e cattolico, è invece l’Angiola Maria (1839) di Giulio Carcano (1812-1882) che narra le vicende lacrimevoli di una giovane popolana e le insidie di cui è vittima, con atteggiamenti di paternalistica pietà per gli umili, mescolati ad effetti di commozione sentimentale. La narrativa “rusticale”. Il romanzo di Carcano può essere collegato ad un altro filone sviluppatosi a metà secolo, quello della narrativa «rusticale», che amò rappresentare la vita del mondo contadino. Negli anni ’40 si svolse sull'argomento un ampio dibattito, originato da un saggio di Cesare Correnti (1815-1888), Della letteratura rusticale (1846), che invitava a sviluppare questo genere. L'interesse per il mondo contadino rientrava in quel più generale interesse per il “popolo” proprio delle varie correnti della cultura risorgimentale. Alle origini, come modello letterario, si colloca Manzoni, che nel suo romanzo eleva appunto a protagonisti due popolani della campagna. Ma suggestioni provengono anche dalla scrittrice francese George Sand (1804-1876), autrice, oltre che di romanzi romanticamente passionali, anche di romanzi campestri, di ispirazione democratica e umanitaria come Lo stagno del diavolo (1846), Francois le Champi (1847), La piccola Fadette (1849), che godettero di ampia popolarità. La scrittrice italiana più tipica del genere rusticale è forse la nobildonna friulana Caterina Percoto (1812-1887), autrice di Racconti (1858), Novelle scelte (1880), Novelle popolari edite e inedite (1885). Non mancano in questa narrativa spunti di denuncia sociale, ma gli atteggiamenti dominanti sono il filantropismo paternalistico, che induce a guardare dall’alto le pene degli umili, o il populismo (per il concetto, cfr. M25), che porta a idealizzare la semplice vita e le virtù del popolo contadino. Sono presenti anche tendenze all’idillio campestre. Pochi anni dopo, il verismo verghiano tornerà ad occuparsi del mondo rurale, ma con atteggiamenti e soluzioni narrative che non avranno più nulla a che fare con questa sorta di Arcadia rusticale romantica. Il romanzo psicologico. In questo panorama, un posto decisamente a parte occupa Fede e Bellezza (1840) di Niccolò Tommaseo. E un romanzo che tratta complessi problemi psicologici, in cui si aggrovigliano ambiguamente sensualità e fede religiosa e che è lontano dal clima culturale italiano, affondando piuttosto le sue radici nel terreno francese.
Verso il romanzo contemporaneo. Una svolta, poco dopo la metà del secolo, è rappresentata dai Cento anni (1859-1864) di Giuseppe Rovani (1818-1874). Si tratta ancora di un romanzo di impianto storico, di ascendenza manzoniana, che parte però Il quadro di riferimento
184
Le confessioni
di Nievo
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dalla metà del Settecento per arrivare sino alla metà del secolo successivo: segna perciò il passaggio dal romanzo storico a quello di ambiente contemporaneo. Il Preludio è un documento importante, perché contiene un’esaltazione del romanzo come genere letterario per eccellenza, dove confluiscono tutti gli altri: testimonia così la fine di ogni pregiudizio intorno al romanzo e segna il passaggio al clima culturale i del secondo Ottocento, quando esso sarà il genere dominante. Un disegno simile a quello dei Cento anni possiede anche il capolavoro di Ippolito Nievo (1831-1861), Le confessioni di un Italiano (1857-1858, pubblicato postumo nel 1867), in cui, attraverso le memorie del protagonista, si rievocano le vicende di ottant'anni di storia italiana, dalla società ancora feudale alla vigilia della Rivoluzione francese al ’48. Il romanzo di Nievo segna veramente la fine dello schema del romanzo storico di origine scottiana, inaugurando una nuova maniera di narrare dove le vicende psicologiche individuali si collegano ai grandi processi politici e sociali.
M5
Le forme principali del romanzo nel primo Ottocento
Il romanzo moderno nasce in Inghilterra nel Settecento. I grandi romanzieri inglesi di questo secolo inaugurano le forme del romanzo che saranno ereditate dalla narrativa del secolo successivo. Si possono distinguere tre tipi fondamentali
di impianto narrativo: I tre tipi fondamentali
nel Settecento
Esempi ottocenteschi
L’età del Risorgimento
À
1. Il romanzo epistolare. È inaugurato da Samuel Richardson con Pamela (1740-1742) e Clarissa (1748) (per questo tipo, si rimanda a M2). 2. Il romanzo pseudo-autobiografico. Si presenta come un memoriale, contenente il racconto della propria vita e delle proprie esperienze fatto dal protatonista stesso. E inaugurato da Daniel Defoe, con Robinson Crusoe (1719) e con Moll Flanders (1722). Defoe vuole presentare i suoi romanzi non come racconti di invenzione, ma come documenti autentici, veri memoriali che riportano esperienze vissute da persone realmente esistite. 3. Il romanzo în forma “epica”. Mentre i due tipi precedenti si presentano come raccolte di documenti autentici (lettere, memoriali), questo tipo di romanzo racconta apertamente storie d’invenzione. Esponente principale è Henry Fielding, con Tom Jones (1749), racconto di avventure, ma anche quadro di costume e di satira sociale. A differenza del romanzo epistolare e di quello pseudo-autobiografico, narrati in prima persona dai protagonisti stessi, la storia è raccontata dalla voce fuori campo di un narratore anonimo, esterno ai fatti narrati, onnisciente, che manipola dall’alto tutti i fili complicati dell’intreccio ed interviene continuamente con informazioni, commenti, digressioni, apostrofi al lettore. i Per quanto riguarda il romanzo epistolare, nell'Ottocento in Italia si ha ancora l’Ortis di Foscolo (1802); poi la forma si esaurisce (la vedremo ancora ripresa da Verga con Storia di un capinera nel 1871). In Italia, la forma destinata a dominare è la terza. E quella che Manzoni adotta nei Promessi sposi, rifacendosi al modello del romanzo storico di Scott (ma tenendo presente anche l’esempio di Tom Jones). Sino a metà Ottocento, il romanzo in Italia è quasi esclusivamente storico e segue il modello scottiano-manzoniano. Forme simili vengono anche adottate dai due grandi romanzieri francesi del primo Ottocento, Balzac e Stendhal. In Inghilterra appartiene a questo tipo il capolavoro dell’età vittoriana, La fiera della vanità di Thackeray (1848). Non mancano però, in ambito italiano, esempi di romanzi nella forma pseudo-autobiografica, in cui sono i protagonisti a raccontare la propria storia: il più notevole è Le confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo (1857-1858, pubblicato postumo nel 1867). Nella narrativa inglese, l'esempio più famoso di questa forma è David Copperfield di Charles Dickens (1849-1850). Sulle forme del romanzo inglese del Settecento raccomandiamo la lettura di uno studio ormai classico: I. Watt, Le origini del romanzo borghese, trad. it., Bompiani, Milano 1977.
185 Un diverso genere narrativo
11.8. La memorialistica. La letteratura italiana dell'Ottocento è ricca di opere di carattere memorialistico, autobiografie, memorie, diari, testimonianze. Si tratta pur sempre di opere narrative: ma la differenza rispetto al romanzo consiste nel fatto che narrano esperienze realmente vissute, non vicende inventate. Vi sono pertanto assenti 1 caratteri vistosi del “romanzesco” che fanno del romanzo un genere preva-
lentemente di consumo. Ciò non toglie che spesso gli autori siano valenti narratori e Le ragioni della
diffusione del genere
Pellico
Bini
D'Azeglio
sappiano rappresentare vividamente ambienti e personaggi, avvincendo l’interesse. La matrice di questa produzione non è tanto da vedere nel soggettivismo romantico, in quel culto dell’io che spinge irresistibilmente lo scrittore a parlare di sé (impulsi del genere sono generalmente tenui nel nostro Romanticismo), quanto piuttosto in condizioni oggettive: la storia di questo periodo è occupata da eventi di tale portata da indurre coloro che ne sono stati partecipi o testimoni a tramandarne il ricordo. A ciò si unisce quella tendenza educativa che è propria del Romanticismo italiano: narrare esperienze significative di lotte, carcerazioni, esili, serve di esempio e stimolo alla formazione dello spirito patriottico 0, dopo l'unificazione, alla costruzione della nuova società e dei nuovi cittadini. Vi sono infatti opere più legate al periodo delle lotte risorgimentali ed altre scritte ormai dopo la loro conclusione. Alla prima categoria appartiene l’opera più famosa di questo genere, Le mie prigioni (1832), in cui Silvio Pellico, scrittore romantico, collaboratore del «Conciliatore», implicato nell’attività carbonara, narra l’arresto da lui subito nel 1820, il processo, la lunga carcerazione nella fortezza dello Spielberg. Il libro, però, non è una testimonianza di fervore politico, né tanto meno un incitamento alla lotta: è anzi la storia di una trasformazione spirituale, di un approdo, attraverso le sofferenze, alla fede e ad una cristiana rassegnazione. Al grande successo del libro contribuì senz'altro l’abilità narrativa di Pellico, che produceva commozione nel lettore con procedimenti sobri e con un linguaggio semplice e di immediata comunicazione; ma contribuì anche l’impostazione ideologica, la rassegnazione fiduciosa, il rifiuto della violenza, che trovava il consenso dell’opinione moderata, ampiamente diffusa nel pubblico dell'Ottocento. Di carattere molto diverso è il quasi contemporaneo Manoscritto di un prigioniero (1833) di Carlo Bini (1806-1842), democratico, collaboratore di Mazzini e amico di Guerrazzi. Nella sua opera, in cui ricorda i mesi trascorsi in carcere a Portoferraio per motivi politici, ricorre con vigore il motivo delle ingiustizie sociali. Alla pagina di Bini conferisce sapore l’umorismo, che proviene dalla lettura di Sterne. Alla seconda categoria appartengono I miei ricordi di Massimo D'Azeglio, usciti postumi nel 1867. Sono un’opera dai fini esplicitamente educativi, secondo il noto principio enunciato dall’autore, che, fatta l’Italia, occorreva «fare gli Italiani». D’Aze-
Settembrini
La letteratura
garibaldina
glio, esponente tipico, nonostante la giovanile scapigliatura artistica, delle tradizioni della nobiltà sabauda, dai costumi spartanamente militareschi, mira a formare «alti e forti caratteri», in contrapposizione al lassismo, all’inerzia e alla corruzione che a suo dire dominavano in quegli anni l’Italia postunitaria. Il libro è però salvato da un tono amabilmente conversevole e arguto, oltre che dall’abilità narrativa nell’evocare ambienti e figure, specie del periodo di giovanile bohème. Postume uscirono anche le Ricordanze di mia vita (1879) di Luigi Settembrini (1813-1876), incarcerato per dieci anni dopo i moti del ‘48 a Napoli, poi docente di letteratura in quell’università. Un’autobiografia intellettuale, da cui si ricava il quadro di un ambiente culturale, è La giovinezza del critico letterario Francesco De Sanctis, redatta negli ultimi anni di vita e pubblicata postuma nel 1889. Un posto a parte occupa la letteratura memorialistica nata dall'esperienza garibaldina, che ha dato luogo ad un vero e proprio filone letterario. Si possono ricordare I Mille (1886) di Giuseppe Bandi (1834-1894), e Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba (1838-1910). 11.4. La letteratura drammatica.
La tragedia storica. Il Romanticismo italiano, dietro lo stimolo teorico di critici europei come August Wilhelm Schlegel, elabora una nuova forma di tragedia, lontana dal modulo classico consacrato da Alfieri e ripreso da Foscolo e Monti: la trageIl quadro di riferimento
186
Manzoni
Pellico
Niccolini
Giraud
n
dia “storica”, che rievoca il passato rispettando il vero storico, ma completando la storia in ciò che essa non dice, cioè i sentimenti, le passioni, i processi interiori dei suoi protagonisti. Tale tipo di tragedia è di norma animato da spirito nazionale e riempie la ricostruzione del passato di riferimenti alla situazione presente e alle aspirazioni patriottiche del popolo italiano. Si libera inoltre dei vincoli delle unità classiche di tempo e di luogo, che soffocano ormai l’ispirazione del poeta moderno, e guarda a modelli lontani da quelli classici, come il dramma elisabettiano di Shakespeare e le derivazioni recenti di Schiller e del giovane Goethe. La realizzazione più compiuta di questo nuovo genere drammatico sono le tragedie manzoniane, Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822), che esamineremo a suo luogo, insieme alle riflessioni teoriche dell’autore sulla tragedia e sulle unità. Per il resto, il panorama della produzione tragica è piuttosto mediocre. Si può citare la Francesca da Rimini di Silvio Pellico, messa in scena a Milano nel 1815, che ebbe grande successo sia per gli spunti patriottici (peraltro abbastanza svincolati dalla sostanza della vicenda drammatica), sia per l’intreccio passionale e sentimentale. Un autore tragico di rilievo è anche Giovan Battista Niccolini (1782-1861), autore di tragedie come Arnaldo da Brescia (1843), di impianto patriottico e di infiammati spiriti anticlericali, caratterizzata da un’eloquenza enfatica e impetuosa.
La commedia. Privo di opere di interesse è invece il campo della commedia, che ai primi del secolo aveva ancora visto la produzione di Giovanni Giraud (1776-1834), autore di commedie satiriche sulla società contemporanea. Il melodramma. Il genere drammatico veramente fecondo, diffuso ed amato dal pubblico, fu il melodramma. Esso fu però un fatto squisitamente musicale e spetta-
Il libretto e la musica
colare, non letterario: i “libretti” erano strettamente subordinati alla musica e alle sue esigenze, privi di un’autonoma fisionomia letteraria, a differenza di quanto avveniva tra altre forme di scrittura drammatica, come la tragedia, e lo spettacolo da esse ricavato. Non è perciò legittimo, a rigore, considerarli a sé, svincolati dalla musica
e dallo spettacolo scenico. Se lo faremo, proponendo un esempio nell’antologia, è solo per esigenze didattiche, per fornire un documento di una determinata tendenza cul-
turale. Intrecci e motivi
Gli espedienti romanzeschi
Il melodramma, genere popolare
Poiché il melodramma è un genere largamente popolare (ancor più della narrativa, perché coinvolge anche i ceti più bassi esclusi dalla lettura), i libretti d’opera presentano caratteristiche affini a quelle dei generi letterari di più largo consumo, come il romanzo storico e la novella in versi: amori travolgenti e contrastati che spesso si concludono con la morte, conflitti passionali esasperati che contrappongono padri e figli, fratelli, amici; gesti sublimi di eroismo e sacrificio, di pietà o di malvagità tenebrosa, creature innocenti perseguitate, sventure inenarrabili, strazianti conflitti di amore e dovere. Per avvincere il pubblico, il libretto fa anche uso degli espedienti più plateali: misteriose identità alla fine svelate, colpi a sorpresa, scene madri, morti lacrimevoli in scena, travestimenti, equivoci che portano a terribili conseguenze, tutto il tipico repertorio del “romanzesco”. Non mancano anche gli spunti patriottici: ne sono ricche le opere di Verdi, che nell’opinione pubblica del tempo divennero un vero e proprio simbolo dell’amore di patria (si pensi ai cori famosi, «Va’ pensiero...» «Oh Signore, dal tetto natio»). Ma, ripetiamo, sarebbe scorretto considerare tutto questo di per sé, magari per condannare schifiltosamente il melodramma come genere deteriore: quelle situazioni, quei motivi stereotipati, quegli espedienti plateali non sono che materia bruta in mano ai grandi musicisti, Bellini, Donizetti, Verdi, che con la loro musica conferiscono vigore e autenticità anche agli intrecci più triti e ai personaggi più “romanzeschi”. Il melodramma, in particolare quello verdiano, fu così nel nostro Ottocento l’arte veramente popolare, che univa l’alto livello artistico con la vasta diffusione in tutti gli strati sociali, così vasta quale non poté mai avere la letteratura, che restava pur sempre rivolta a una minoranza in seno alla società italiana (si pensi che gli alfabetizzati erano il 22% sul territorio nazionale). Perciò, ben più che i vari generi letterari, come la lirica, la narrativa, la drammatica, fu il melodramma a esercitare un
L’età del Risorgimento
— 187 profondo influsso sui gusti, sulla sensibilità, sulle idee, sulla coscienza civile della nazione che si andava formando. La nascita del critico
professionista
I fini della nuova critica
Scrittori, politici e critici di professione
11.5. La critica e la storiografia letteraria. Nell’età romantica si assiste alla nascita della critica letteraria in senso moderno. Nelle età precedenti non esisteva infatti la figura del critico di professione, come lo intendiamo oggi: la critica era esercitata dagli scrittori, che giudicavano le opere di altri autori ed affermavano così la propria poetica; oppure si trattava di un esercizio accademico, erudito, inteso a dare precetti retorici. La nascita della critica letteraria nell'Ottocento è strettamente collegata con il fenomeno di fondamentale importanza su cui abbiamo già insistito, la nascita di un pubblico di lettori comuni, non letterati. Il critico è ora colui che svolge opera di mediazione tra gli scrittori e il nuovo pubblico: informa sui libri che vengono pubblicati, spiega, commenta, orienta il gusto, contribuisce al successo o all’insuccesso dell’opera. Questa funzione presuppone la presenza di altri due fattori tipici del nuovo assetto culturale: la diffusione della stampa periodica (riviste, quotidiani) e l’estendersi dell’istruzione. Preannunci di questa nuova funzione intellettuale si erano già avuti in età illuministica: si pensi agli articoli letterari sul «Caffè» milanese o sulla «Frusta letteraria» di Baretti. Ora riviste e giornali si moltiplicano, col passare dei decenni. Un giornale come «Il Conciliatore» nella sua battaglia per il progresso civile ed economico inserisce anche quella per una nuova letteratura; e la sua critica è proprio finalizzata a diffondere e a far accettare le nuove opere. Per questo non può più essere la critica pedantesca del classicismo, intesa solo a verificare se l’opera risponda alle regole e ai modelli, ma deve essere una critica che giudichi in base «all’intima conoscenza dell'umano cuore e delle nostre varie facoltà intellettuali», come si esprime Pietro Borsieri nel programma del «Conciliatore». La critica romantica tende quindi in primo luogo a saggiare se l’opera è originale, se nasce da autentica ispirazione, da moti profondi del cuore e della fantasia, se l’espressione è sincera o artificiosa, se sa suscitare moti analoghi nel lettore. In secondo luogo è una critica civilmente impegnata, intesa a promuovere e sostenere una letteratura che esprima lo spirito nazionale e interpreti i valori più radicati nel popolo. Non manca in questa età la critica esercitata dagli scrittori (che è un elemento indisgiungibile dalla stessa attività della produzione artistica, che non può non essere sostenuta dalla riflessione teorica): pagine molto acute scrivono, ad esempio, Manzoni o Leopardi, così come i politici, Mazzini, Gioberti, Cattaneo, che, consci del fatto
La storiografia letteraria
che la letteratura è un elemento centrale della civiltà di un popolo, riflettono sulle opere letterarie del presente e del passato in funzione della loro battaglia politica. Ma si delinea soprattutto la figura del critico di professione che scrive su giornali e riviste, esaminando singole opere o affrontando determinati problemi. Abbiamo già ricordato ad esempio l’articolo di Cesare Correnti sulla letteratura rusticale in Italia (cfr. in questo stesso Quadro di riferimento il $ 11.2 ). La personalità più interessante di questa critica “militante”, che scrive su periodici, è quella di Carlo Tenca (1816-1883), direttore dal 1845 della «Rivista europea», poi tra il °50 e il ’59 del «Crepuscolo», che condusse una battaglia per una letteratura moderna, rispondente alle esigenze del nuovo pubblico. Un discorso a parte merita la storiografia letteraria. Non erano mancati già dal
Settecento repertori della letteratura italiana, ma si trattava di raccolte di dati eruditi, esteriori, ispirate ad una concezione formalistica e retorica della letteratura. Il Romanticismo, come si è visto, introduce un interesse nuovo per la storia, facendo
nascere l’idea stessa di sviluppo storico, in cui i vari elementi si collegano tra loro, nella successione cronologica, secondo rapporti necessari ed un disegno organico. Al senso della storia si unisce anche quello della nazione, che si viene proprio formando nel processo storico come unità non solo territoriale e politica, ma anche spirituale e culturale (cfr. in questo stesso Quadro di riferimento il $ 2.7). È questo il terreno da cui nasce la storiografia letteraria, un genere tipico delOttocento romantico, destinato ad avere ampi sviluppi sino ai giorni nostri. La stoIl quadro di riferimento
188
iS
ria letteraria di questa età non è soltanto una rassegna di scrittori ed opere allineati
in successione cronologica, ma mira a ricostruire, dietro ivari momenti del processo storico, un disegno generale, una linea unitaria (ad esempio il passaggio da una cul-
tura tesa all’ideale ad una attenta al reale), e studia lo sviluppo della civiltà letteraria in connessione con lo sviluppo generale della cultura, delle idee, delle vicende politiche e sociali. Le storie letterarie dell’Ottocento sono dunque espressioni fondamentali della cultura risorgimentale, momenti di ripensamento di tutto lo svolgimento della storia nazionale, civile e culturale al tempo stesso. Emiliani Giudici
Settembrini
De Sanctis
Un esempio di rilievo è la Storia delle belle lettere in Italia (1844, ristampata nel 1855 col titolo Storia della letteratura italiana) di Paolo Emiliani Giudici (1812-1872), dove il corso della nostra letteratura è interpretato mediante le categorie di guelfismo e ghibellinismo, intese in chiave anticlericale come polo negativo e polo positivo della civiltà italiana. Un altro esempio è costituito dalle Lezioni da letteratura italiana (1868-1870) di Luigi Settembrini, anch’esse di impostazione fieramente anticlericale, per cui lo sviluppo della letteratura coincide per il critico con l'affermarsi progressivo di una cultura laica, in relazione con la conquista dell’unità nazionale. Ma il vero e proprio monumento della storiografia letteraria dell’Ottocento è la Storia della letteratura italiana (1870-1871) di Francesco De Sanctis, che, attraverso il disegno dello svolgersi della letteratura nazionale, dà anche la ricostruzione della storia civile e sociale dell’Italia dal Medio Evo all’età romantica (mà per un discorso più ampio, cfr. A62 e TT111-113).
12. Lingua letteraria e lingua dell’uso L’assenza di una lingua di uso comune
Ai primi dell'Ottocento mancava ancora in Italia, a differenza degli altri paesi europei, una lingua comune, che fosse usata: a) in tutte le regioni; 6) da tutti gli strati sociali; c) in tutte le occasioni della vita associata. La lingua “italiana” era la lingua letteraria consacrata da una lunga tradizione, che aveva le sue origini nel fiorentino trecentesco usato dai grandi scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio ed era utiliz-
Le cause del ritardo
zata solo da un’élite colta molto ristretta, e quasi esclusivamente per usi scritti (opere letterarie e di cultura, leggi, editti, documenti ufficiali, corrispondenza epistolare). La lingua d’uso, nella comunicazione orale quotidiana, era il dialetto locale che era parlato non solo dagli analfabeti, ma anche dalle persone colte. Anche Manzoni, con familiari, amici, concittadini, parlava abitualmente il dialetto milanese. Le cause di questo ritardo dell’unità linguistica italiana erano essenzialmente: 1) la divisione politica della penisola, con le difficoltà di comunicazione e di scambio che determinava. Negli altri paesi europei, come Francia e Inghilterra, l’affermazione di una lingua nazionale era stata resa possibile dallo stabilirsi dell’unità politica, avvenuta già diversi secoli addietro; in Germania, paese politicamente diviso come l’Italia, la formazione di un codice linguistico comune era stato determinato da un grande evento religioso, la Riforma protestante, e soprattutto dalla traduzione della Bibbia in lingua volgare; 2) la scarsa diffusione dell’istruzione e l’alto livello di analfabetismo, conseguenza, come si è visto, dell’arretratezza economica e sociale.
L’età napoleonica
Il Risorgimento e l’esigenza di una lingua nazionale
Il dominio napoleonico, unificando politicamente larga parte del Nord Italia, aveva dato un primo impulso ad una unificazione linguistica, accentuando al tempo stesso quell’influsso della lingua francese sull’italiana, che era stato avviato dall’egemonia culturale francese nell’età dell’Illuminismo. In questo periodo entrano in uso numerosi francesismi, radicatisi poi stabilmente nell’italiano. Negli anni della Restaurazione e del Risorgimento il formarsi di una coscienza nazionale propone anche l’urgenza di un unico codice linguistico, che accomuni tutti gli italiani in tutte le occasioni di comunicazione che si presentino, colte e quotidiane, scritte e orali, al di là delle barriere regionali o addirittura municipali (un torinese non era in grado di capire un palermitano che parlasse il suo dialetto, ma aveva qualche difficoltà anche a capire un novarese). Se la nazione è unità spirituale, anche la lingua della comunicazione
L’età del Risorgimento
189
«La questione della lingua
deve essere unica. I dialetti raccolgono in sé tutto un prezioso patrimonio di cultura locale e spesso sono lingue letterarie di alta dignità culturale, che hanno prodotto capolavori (vedi Porta e Belli), ma una nazione moderna non può fare a meno di una lingua nazionale: la sua mancanza è un fattore che blocca lo sviluppo civile. Già nei secoli passati si era posta più volte una “questione della lingua”: nel Trecento con il De vulgari eloquentia di Dante, nel Cinquecento con le discussioni tra Bembo e Trissino, nel Settecento con l’Illuminismo lombardo, nell’età napoleonica
con il Purismo. In tutti questi casi però si poneva esclusivamente il problema della lingua letteraria, non della lingua dell’uso comune, da impiegare in tutte le occasioni della vita di relazione. Solo con l’affacciarsi del movimento nazionale si verifica un radicale ribaltamento di prospettive, e la questione della lingua si pone non solo in senso letterario, ma come comunicazione sociale. Non è un caso che il problema sia
Manzoni
La soluzione del fiorentino
impostato in questi termini proprio da quel gruppo di intellettuali che rappresenta l'avanguardia del movimento nazionale, i romantici lombardi. Ed è ancora l’intellettuale più acuto ed avanzato del gruppo, Manzoni, a porre in forma più lucida la questione e a suggerire la soluzione teorica più radicale, destinata ad esercitare grande influenza. Il problema si pone a Manzoni nel momento in cui si accinge a scrivere un romanzo, cioè un’opera destinata al pubblico più vasto dei lettori comuni; ma di qui la riflessione manzoniana si allarga poi ad abbracciare il problema della lingua come strumento di comunicazione generale del popolo italiano. Lo scrittore si rende conto di come l’italiano sia una lingua “povera” e “incerta”: non possiede infatti tutti i termini e i costrutti che servono per l’uso quotidiano, ed il suo codice non è fissato stabilmente da un uso veramente comune dell’intera popolazione, per cui chi scrive o chi parla non ha mai la certezza di essere inteso appieno dal destinatario. La soluzione proposta da Manzoni è di individuare il modello di una lingua dell’uso comune nel fiorentino dell’uso vivo, attuale. Tale “codice” linguistico è raccomandabile per due motivi: 1) essendo una lingua viva, realmente parlata, è un “codice” completo e certo,
che offre tutti i termini e i costrutti per ogni tipo di comunicazione; 2) la completezza è un pregio di tutte le lingue municipali parlate in Italia; ma il fiorentino ha il vantaggio di essere strettamente affine alla lingua letteraria tradizionale. Nessun'altra parlata locale avrebbe la possibilità di imporsi come lingua nazionale, data la distanza che la separa dalla lingua colta. La soluzione manzoniana era di grande importanza nel campo letterario, perché, con l’edizione definitiva dei Promessi sposi, creava una lingua letteraria nuova, agile, agevolmente comprensibile, adatta al nuovo pubblico che si andava formando, dando così un colpo definitivo alla tradizione accademica, retorica, aulica e pedantesca della cultura italiana. Ma si rivelò importante anche nel campo civile, perché trovò risposte favorevoli nella classe dirigente del nuovo stato unitario, che condusse la sua politica di diffusione dell’istruzione ispirandosi alle tesi manzoniane. Per tutto il corso del Risorgimento, l'unificazione linguistica fu però un ideale ben lontano dal realizzarsi. Le masse popolari, specie quelle contadine, rimanevano segregate nel loro universo dialettale, escluse dalla comunicazione in lingua. Ciò contribuisce a spiegare la lontananza degli intellettuali e delle persone colte in genere dai ceti subalterni, e, inversamente, l’estraneità delle masse popolari alla vita politica e culturale della nazione: in primo luogo, persone colte e popolo non parlavano la stessa lingua. Un esempio di questa estraneità reciproca è dato dalla fine dell’impresa di Pisacane, che fu determinata dalla reazione violenta proprio di quei contadini che avrebbero dovuto sollevarsi in conseguenza della predicazione dei patrioti, e che invece non furono in grado di comprendere i loro nobili e infiammati appelli.
Il quadro di riferimento
190 Bibliografia Studi critiei sul Romanticismo in generale: M. PRAZ, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze (1930), 1976?; A. HAUSER, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1955; M. PupPo, Il romanticismo. Saggio monografico con antologia di testi e della critica, Editrice Studium, Roma 1967; G. MACCHIA, Origini europee del romanticismo, in Storia della letteratura italiana. L’Ottocento, VII, Garzanti, Milano 1969; A. DE PAZ, La rivoluzione romantica. Poetiche, estetiche, ideologie, Liguori, Napoli 1984; M. PAGNINI, Il Romanticismo, Il Mulino, Bologna 1986; A. DE Paz, Il romanticismo europeo. Un’introduzione tematica, Liguori, Napoli 1987.
L’età del Risorgimento
191
IL ROMANTICISMO
EUROPEO
1. Documenti teorici del Romanticismo europeo
A10. Wilhelm August Schlegel Nato ad Hannover nel 1767, pubblicò a Berlino dal 1798, con la collaborazione del fratello Friedrich e di altri pensatori e poeti come Schelling, Tieck, Novalis, la rivista
«Athenaeum», che fu portavoce della prima fase del Romanticismo tedesco,
quello del “gruppo di Jena” (cfr. Quadro di riferimento II, $ 4.1, I movimenti romantici in Europa). In seguito insegnò storia dell’arte e della letteratura a Bonn, dove morì nel 1845. Tra le sue opere spicca soprattutto il Corso di letteratura drammatica (1809-1811), che ebbe vasta diffusione in Europa e costituì un punto di riferimento teorico per i vari movimenti romantici (dalla lettura di esso fu influenzato Manzoni nell’elaborare la sua critica alla tragedia classica).
La «melancolia» romantica e l’ansia d’assoluto Alcuni filosofi, i quali però s’accordano con noi nella nostra maniera di riguardare! il genio? particolare de’ Moderni, hanno creduto che il carattere distintivo della poesia del Nord fosse la melancolia*; la quale opinione, dove sia chi bene la intenda‘, non s’allontana dalla nostra. Appo?* i Greci, la natura umana bastava a se stessa, non presentiva‘ alcun vòto”; e si contentava d’aspirare
al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma quanto a noi, una più alta dottrina c’insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo* il posto che gli era stato originariamente destinato, non ha sulla terra altro fine che di ricuperarlo; al che tuttavia non può giugnere, s’egli resta abbandonato alle sue proprie forze. La religione sensuale de’ Greci non prometteva che beni esteriori e temporali. L’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava 1. di riguardare: di considerare. 2. il genio: lo spirito. 3. la melancolia: la malinconia.
4. dove ... intenda: se intesa a fondo.
5. Appo: latinismo, presso. 6. presentiva: aveva consapevolezza di.
7. vòto: vuoto, limitazione. 8. gran fallo: il peccato originale.
Schlegel
192
È
se non una languida immagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgoreggiante. Sotto ilpunto
di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposito; la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte, ed oltre alla tomba soltanto brilla l’interminabile giorno dell’esistenza reale. Una simile religione risveglia tutti i presentimenti che riposano
nel fondo dell’anime sensitive’, e li mette in palese’; ella conferma quella voce segreta la qual ne!! dice che noi aspiriamo ad una felicità cui non si può aggiugnere! in questo mondo, che nessun
oggetto caduco! può mai riempire il vòto del nostro cuore, che ogni piacere non è quaggiù ch’una.
fugace illusione. Allorché dunque, simile agli schiavi Ebrei, i quali prostesi sotto i salci di Babilonia
facevano risonare dei loro lamentevoli canti le rive straniere !*, la nostr’anima esiliata sulla terra
sospira la sua patria, quali possono mai essere i suoi accenti, se non quelli della melanconia? E però! la poesia degli Antichi era quella del godimento, la nostra è quella del desiderio; l’una si stabiliva nel presente, l’altra si libra! fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire. Nondimeno non bisogna credere che la melanconia si vada al continuo esalando in monotone querimonie!, né ch’ella si esprima sempre distintamente. Nella stessa maniera che la tragedia fu sovente appresso de’ Greci energica e terribile ad onta!* dell'aspetto sereno sotto cui essi riguardavano la vita, anche la poesia romantica, come l’abbiamo pur anzi dipinta, può passare per tutti i
tuoni!, da quello della tristezza infino a quello della gioia; ma sempre trovasi in essa un certo che d’indefinibile che dinota l’origine sua; il sentimento è in essa più intimo, l'immaginazione meno sensuale, il pensiero più contemplativo. Contuttociò in realtà i limiti si confondono alcuna volta”, e gli oggetti non si mostrano mai interamente distaccati gli uni dagli altri, e quali siamo costretti di rappresentarceli per averne un’idea distinta. I Greci vedevano l’ideale della natura umana nella felice proporzione delle facoltà e nel loro armo-
nico accordo. I Moderni all’incontro?! hanno il profondo sentimento d’una interna disunione, d’una doppia natura nell'uomo che rende questo ideale impossibile ad effettuarsi: la loro poesia aspira di continuo a conciliare, ad unire intimamente i due mondi, fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sensi e quello dell’anima: ella si compiace tanto di santificare le impressioni sensuali coll’idea del misterioso vincolo che le congiugne a’ sentimenti più elevati, quanto di manifestare a’ sensi imovimenti più inesplicabili del nostro cuore e le sue più vaghe percezioni. In una parola, essa dà anima alle sensazioni, corpo al pensiero. Non è dunque maraviglia che i Greci ne abbiano lasciato, in tutti i generi, de’ modelli più finiti. Essi miravano ad una perfezione determinata, e trovarono la soluzione del problema che s’avevano proposto: i Moderni a riscontro, il cui pensiero si slancia verso l’infinito non possono mai compiutamente soddisfare se stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d’imperfetto, che l’espone al pericolo d’esser male apprezzate. dal Corso di letteratura drammatica, traduzione di G. Gherardini, Rossi-Romano, Napoli 1859
9. sensitive: sensibili.
10. in palese: in evidenza. 11. ne: ci. 12. cui... aggiugnere: che non si può raggiungere. 13. caduco: destinato a finire. 14. simile ... straniere: il riferimento è
Il Romanticismo
europeo
all'episodio storico noto come «cattività babilonese», quando gli Ebrei, schiavi appunto dei Babilonesi, intonavano canti pieni di nostalgia per la patria e di dolore per la prigionia. 15. E però: per questo. 16. si libra: resta sospesa.
17. querimonie: lamenti insistenti. 18. ad onta: malgrado. 19. tuoni: toni. 20. alcuna volta: talvolta. 21. all’incontro: al contrario.
193 ANALISI DEL TESTO
Visione classica
E una pagina fondamentale per definire la visione romantica del mondo, ed è tipica anche dell’impostazione mistica e metafisica propria del Romanticismo tedesco. Il discorso è costruito su un’opposizione tra visione classica, rappresentata essenzialmente dal mondo
e visione romantica
greco, e visione moderna, romantica. La visione greca era caratterizzata dall’armonia e dalla pienezza; ciò derivava però da un limite, la sensualità della religione pagana, che promet-
teva solo beni temporali ed in cui l’idea di immortalità era vaga, passando in secondo piano rispetto alla vita terrena. In confronto a questa pienezza, l’anima moderna è caratterizzata da una lacerazione, da un senso doloroso di mancanza. Tale intima frattura è un prodotto del Cristianesimo, che ha introdotto il senso del peccato, del distacco irrimediabile da una a
Poesia romantica e Cristianesimo
totalità originaria, dell’opposizione tra umano e divino, corpo e anima, transeunte ed eterno,
finito ed infinito. La poesia moderna, romantica, nasce dunque per Schlegel dallo spirito del Cristianesimo, ed è caratterizzata dalla nostalgia della pienezza perduta dall’uomo col suo distacco dal Creatore, da una tensione verso l’assoluto e la totalità. E qui perfettamente indicata la fisionomia fondamentale del Romanticismo tedesco, la sua intima inquietudine,
la sua ansia d’infinito. Da questa tensione mai appagata vengono fatti discendere da Schlegel anche gli aspetti formali della poesia moderna: il suo carattere di perpetua incompiutezza, di imperfezione, lontana dall’armonica perfezione formale dell’arte classica.
Novalis (cfr. A14) dai Frammenti
Poesia e irrazionale
Il sentimento! per la poesia ha molto in comune col senso mistico. E il senso per ciò che è proprio, personale, ignoto, misterioso, da rivelare, necessario-casuale?. Esso rappresenta l’irrappresentabile, vede l'invisibile, sente il non sensibile, ecc. La critica della poesia è un assurdo. E già difficile distinguere (eppure è la sola distinzione possibile) se qualcosa sia poesia o no. Il poeta è veramente rapito fuori dei sensi; in compenso tutto accade dentro di lui. Egli rappresenta in senso vero e proprio il soggetto-oggetto, anima e mondo. Di qui l’infinità di una buona poesia. Il sentimento per la poesia ha una vicina affinità? col senso della profezia e col sentimento religioso, col sentimento dell’infinito in genere. Il poeta ordina, unisce, sceglie, inventa ed è incomprensibile a lui stesso perché accada proWS, prio così e non altrimenti. Ma il vero distinti. hanno li tardi più Poeta e sacerdote erano in principio una cosa sola, e soltanto dovrebbe non E poeta. rimasto sempre è poeta è sempre rimasto sacerdote, così come il vero sacerdote l’avvenire ricondurre l’antico stato di cose?
dai Frammenti, a cura di G. Prezzolini, Carabba, Lanciano 1928
in un'unità gli opposti. 1.il sentimento: il termine va inteso nella | poetico e senso mistico significa assegnare | lare e fondere è molto affine. affinità: ... ha 3. procediun di sfera alla sacerdote e poeta senso. successivo del accezione stessa 2. necessario-casuale: accomunare senso
mento non razionale, che tende a mesco-
Novalis
194
i
»
ANALISI DEL TESTO È una delle più chiare definizioni del carattere irrazionalistico e mistico che i romantici tedeschi attribuivano alla poesia. La poesia vede l’invisibile, rappresenta il non rappresen-
tabile, l’ineffabile. Il poeta è un veggente, un profeta, quando scrive è come in estasi, rapito fuori dai sensi. La poesia è assoluta soggettività, perché nel poeta soggetto e oggetto, anima e mondo esterno si identificano. Il poeta opera non spinto da consapevolezza razionale di ciò che fa, ma come da una forza che lo trascende («è incomprensibile a lui stesso»). Novalis ha nostalgia delle epoche antiche, in cui il poeta e il sacerdote si identificavano, in cui il poeta aveva un carattere sacrale. Contro la secolarizzazione e la laicizzazione della poesia, prodotte dalla civiltà moderna, razionalistica e illuministica, auspica il ritorno dell’antico stato di cose. Da ciò emerge la visione reazionaria propria di Novalis, che esalta nostalgicamente il passato, in particolare la civiltà del Medio Evo, mistica, gerarchica, saldamente organica.
Il carattere ! irrazionalistico
della poesia
romantica
Il poeta sacerdote
A11. William Wordsworth È il poeta più rappresentativo della prima generazione romantica inglese. Nato nel 1770, subì l’influenza del comunismo anarchico del filosofo William Godwin e simpatizzò per la Rivoluzione francese. Soggiornò anche in Francia nel 1792, ma il dege-
nerare della rivoluzione verso il Terrore provocò in lui una forte delusione ed un distacco dalle idee rivoluzionarie, che lo spinsero a poco a poco verso posizioni conservatrici. Dall’amicizia con Samuel T. Coleridge (cfr. A19 e T43) nacquero, tra il
1797 e il 1798, le Ballate liriche, che costituiscono il manifesto della poesia romantica inglese. Altra opera importante è Il preludio (1805, pubblicato postumo nel 1850), ampio poema autobiografico che descrive la sua evoluzione spirituale e poetica. La poesia di Wordsworth, in polemica con quella del Settecento, predilige ambienti e personaggi umili ed usa un linguaggio semplice e immediato.
dalla Prefazione alle Ballate liriche
La poesia, gli umili, il quotidiano Alla seconda edizione delle Ballate liriche, nel 1800, Wordsworth
premise una Prefazione che è il più importante documento di poetica del Romanticismo ‘inglese.
Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condi-
zione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico!; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza; perché il comportamento della vita rurale nasce da questi sentimenti elementari, e, dato il carattere di necessità delle attività 1. enfatico: fatto di gesti, espressioni vivaci ed appariscenti.
Il Romanticismo
europeo
195 rurali, è più facilmente compreso ed è più durevole; e, finalmente?, perché in questa condizione le pas-
sioni degli uomini fanno tutt'uno con le forme stupende e imperiture della natura. Si è pure adottato
il linguaggio di questi uomini (certo purificato da quelle che appaiono le sue reali improprietà e da tutte le permanenti e ragionevoli cause di avversione o di disgusto), perché proprio essi comunicano continuamente con le cose migliori, dalle quali proviene originariamente la parte migliore della lingua, e anche perché, a causa della loro posizione sociale e della uniformità e ristrettezza dei loro rapporti interpersonali, soggiacendo in minor misura all’azione della vanità sociale, essi comunicano i loro sentimenti e le loro idee con espressioni semplici e non elaborate. Un simile linguaggio, che scaturisce da ripetute esperienze e da regolari sensazioni, è dunque un linguaggio più stabile e ben più filosofico di quello che i poeti di solito sostituiscono ad esso, pensando di attirare tanti più onori a se stessi e alla loro arte, quanto più si alienano le simpatie degli uomini e indulgono in arbitrarie e capricciose abitudini linguistiche per ammannire cibi adatti a palati volubili e volubili appetiti* che esistono solo nella loro immaginazione. dalle Ballate liriche, traduzione di A. Marucci, Mondadori, Milano 1979
2. finalmente: infine. ambienti semplici ed autentici, conclude | vano elaborato prodotti sofisticati destinati 3. per ammannire ... appetiti: Wordscon questa immagine polemica nei conad un pubblico che non corrispondeva a worth, dopo aver esposto le ragioni della | fronti del modo di concepire la poesia da | quello reale. preferenza accordata ad uno stile e ad | parte degli autori del Settecento, che ave-
ANALISI DEL TESTO
L’attenzione per il quotidiano
Gli umili vicini alla natura
Il linguaggio
semplice
È il passo centrale della Prefazione, dove vengono enunciate le tesi di fondo. Si possono individuare tre punti: 1. L’intento di rendere interessanti gli avvenimenti quotidiani mettendo in rilievo in essi le leggi fondamentali della natura umana. Questa attenzione per il quotidiano, il rifiuto dell'eccezionale e dell’eroico, la rivendicazione della dignità di ciò che è comune e umile, sono aspetti caratteristici della cultura inglese moderna. Erano già presenti nell’Elegia di Gray (cfr. T5) e saranno poi un motivo dominante della letteratura della successiva età vittoriana (in questo, Wordsworth è vicino alle scelte che Manzoni compie nel suo romanzo, dove protagonisti sono personaggi umili). 2. La rappresentazione della vita rurale, perché in essa i sentimenti essenziali si manifestano in modo più spontaneo e diretto, possono essere osservati più accuratamente e rappresentati con maggior forza. E un principio di chiara derivazione roussoviana: gli umili sono più vicini alla natura. Questa simpatia per gli umili in quanto portatori, come i primitivi e i fanciulli, di una spontaneità originaria e naturale, che nelle altre classi è soffocata dagli artifici della civiltà, è un aspetto tipico del Romanticismo e godrà di larga fortuna nel corso dell'Ottocento. 3. La riproduzione del linguaggio semplice dei personaggi umili, considerato come il modo più immediato e spontaneo per esprimere i sentimenti. Wordsworth polemizza quindi con il linguaggio elaborato e artificioso della letteratura precedente.
Wordsworth
196
u
Ì
Victor Hugo (cfr. A27) dalla Prefazione a Cromwell
si T34 Di
. dd Li
Il «grottesco» come tratto distintivo
dell’arte moderna L’ampia Prefazione premessa dal giovane Hugo al suo dramma storico Cromwell nel 1827 costituisce il manifesto del Romanticismo francese. Riprendendo una tesi del Corso di letteratura drammatica di Schlegel (cfr. T31), Hugo individua la discriminante tra mondo clas-
sîico e civiltà moderna nel Cristianesimo.
Ecco dunque una religione nuova, una società nuova: su questa duplice base, vedremo svilupparsi una poesia nuova. Fino allora (e chiediamo venia d’esporre una conclusione che il lettore avrà già ricavata da quanto precedentemente detto), fino allora la musa puramente epica degli antichi, comportandosi in ciò come il politeismo e la filosofia antica, non aveva studiato la natura che sotto un unico aspetto, escludendo senza pietà dall’arte pressoché tutto quello che, nel mondo sottoposto alla sua imitazione, non si accordava con un tipo determinato di bello. Tipo sulle prime magnifico, ma, come sempre accade di quanto è sistematico, fattosi negli ultimi tempi falso, meschino e convenzionale. Il cristianesimo conduce la poesia alla verità. Con esso la musa moderna vedrà le cose sotto un aspetto più elevato e più ampio. Sentirà che tutto nella creazione non è umanamente bello, che il brutto vi esiste accanto al bello, il deforme accanto al grazioso, il grottesco sul rovescio del sublime, il male col bene, l'ombra. con la luce; si chiederà se la ragione limitata e relativa dell’artista debba averla vinta sulla ragione infinita, assoluta del creatore; se è dell’uomo il correggere Dio; se una natura mutilata diverrà per questo più bella; se l’arte ha il diritto di scindere, per così dire, l’uomo, la vita, la creazione; se ogni cosa camminerà meglio quando sia stata privata dei suoi muscoli e della sua carica vitale; se finalmente sia il vero mezzo di essere armoniosi l’essere incompleti. E allora che, fisso l’occhio su avvenimenti tutt’insieme ridicoli e formidabili, e sotto l’influsso di quello spirito di malinconia cristiana e di critica filosofica cui accennavamo or ora, la poesia compirà un grande passo, un passo decisivo, un passo che, pari allo scossone di un terremoto, muterà tutta la faccia del mondo intellettuale. Si metterà a fare come la natura, a mischiare cioè nelle sue creazioni, senza tuttavia confonderle, ombra
e luce, grottesco e sublime: in altri termini, corpo ed anima, bestia e intelletto: perché il punto di partenza della religione è sempre anche il punto di partenza della poesia. Tutte le cose si tengono per mano. Ecco dunque un principio estraneo all’antichità, un tipo nuovo introdotto nella poesia; e, come nell’individuo una condizione di più modifica l’essere tutto quanto, ecco una forma nuova che si sviluppa nell’arte. Questo tipo è il grottesco. Questa forma è la commedia.
E qui ci sia consentito d’insistere: giacché abbiamo indicato il tratto caratteristico, la differenza fondamentale che separa, secondo noi, l’arte moderna dall’antica, la forma d’oggi dalla forma morta, O — per servirci di parole più vaghe ma più accreditate - la letteratura romantica da quella classica. [...] Nel pensiero dei moderni, al contrario, il grottesco ha una parte immensa. È dovunque: da un lato crea il deforme e l’orribile; dall’altro il comico e il buffonesco. Conferisce alla religione mille superstizioni originali, alla poesia mille immaginazioni pittoresche. È esso che semina a piene mani nell’aria, nell'acqua, nella terra, nel fuoco, quelle miriadi di esseri intermedii che ritroviamo ben vitali
nelle tradizioni popolari del medioevo; è esso che fa ruotare nell’ombra lo spaventevole carosello del sabba'; è esso ancora che dà a Satana le corna, gli zoccoli di caprone, le ali di pipistrello. È esso, sempre esso, che ora getta nell'inferno cristiano le repellenti figure di cui Dante e Milton?, col loro aspro genio, diverranno gli evocatori; ora lo popola di quelle forme ridicole in mezzo alle quali - Michelangelo da burla - scherzerà Callot?. Se poi dal mondo ideale passa al mondo reale, vi suscita parodie 1. sabba: nelle leggende medievali, convegno di streghe e spiriti del male durante la notte di sabato.
Il Romanticismo
europeo
2. Milton: John Milton (1608-1674) è ricordato soprattutto per il Paradiso perduto in cui evoca la figura di Satana.
3. Callot: Jacques Callot (1593-1635), famoso ed ammirato incisore francese, cominciò il suo apprendistato riproducendo
197 innumerevoli dell'umanità. Nascono dalla sua fantasia gli Scaramuccia, i Crispini, gli Arlecchini ‘, sog-
ghignanti immagini dell’uomo, tipi del tutto sconosciuti alla gravità degli antichi, e tuttavia usciti dalla classica Italia. E esso infine che, dando di volta in volta a un medesimo dramma i colori dell’immag i-
nazione meridionale e quelli dell’immaginazione nordica, fa sgambettare Sganarello intorno a don Giovanni e strisciare Mefistofele intorno a Faust?. da Cromwell, traduzione di C. Pavolini, Rizzoli, Milano 1962 all’incisione le opere di grandi pittori e amò rappresentare figure grottesche e bizzarre. 4. Scaramuccia ... Arlecchini: sono tutte
maschere della Commedia dell'Arte. 5. Sganarello ... Faust: Sganarello è il servo di Don Giovanni nell'omonima com-
media di Molière (1622-1673). Mefistofele e Faust rimandano al Faust di Goethe (cfr. T36).
ANALISI DEL TESTO Rifiuto del classicismo
Hugo rifiuta polemicamente i principi basilari del classicismo: l’identificazione dell’arte con il bello, definito da canoni precisi, eterni ed immutabili; la separazione degli stili, che vieta di mescolare tragico e comico, sublime e prosaico; il principio di selezione, che esclude rigorosamente dall’arte ciò che non è abbastanza nobile e degno. Al contrario, l’età moderna vuole ammettere anche il brutto e il deforme al regno dell’arte, per dare una rappresentazione non manchevole della realtà. Bello e brutto, tragedia e commedia, sublime e prosaico hanno il diritto di coesistere nella stessa opera: è questo il grottesco, visto da Hugo come il tratto distintivo dell’arte moderna. La trattazione di Hugo non va intesa però come semplice affermazione di esigenze realistiche, di una rappresentazione integrale della realtà contro le tendenze idealizzanti del classicismo. Vi sono in germe potenzialità ben più interessanti per l’arte a venire. La rivendicazione del grottesco è l’affermazione del carattere multiforme, a più facce, della realtà. La presenza del comico accanto al tragico, del prosaico accanto al sublime, impedisce che l’opera d’arte si cristallizzi in un’unica prospettiva. Il comico introduce prospettive inedite, “strania” l’univocità del serio e del sublime, inducendo a vederla da un altro angolo visuale: vedi Sganarello che sgambetta intorno a don
Il grottesco
Giovanni nella commedia di Molière, Mefistofele che striscia intorno a Faust nel dramma
di Goethe. Si intravede qui il punto di partenza di una linea che porterà al «grottesco» e all’«umorismo» di Pirandello, sino al «carnevalesco» di Bachtin.
PROPOSTE DI LAVORO pm
Caratteristiche della poesia classica Caratteristiche della poesia moderna romantica
Linguaggio della poesia Elementi caratterizzanti la specifica poetica ORESTE
di
Hugo
198
ù
|
2. Il Romanticismo in Germania
A12. Gottfried August Burger Negli ultimi decenni del Settecento il Bùrger (1747-1794) si segnalò nel recupero — delle forme dell’antica ballata popolare. Era un indizio del nascente interesse per la tradizione popolare che, soprattutto in Germania, caratterizzerà poi il Romanticismo. Birger scrisse però anche elegie e sonetti, e tradusse Omero e Shakespeare.
Eleonora La fama della ballata in Italia deriva dal fatto che Berchet la incluse, con Il cacciatore feroce (1778), nella Lettera semiseria, dl massimo manifesto del Romanticismo italiano, come esempio di poesia popolare. Ne diamo la parte conclusiva, nella traduzione in prosa dello stesso Berchet. | Il fidanzato di Eleonora, partito per la guerra, al termine di essa non fa ritorno a casa, provocando la disperazione della donna che accusa temerariamente Dio di non aver avuto misericordia di lei. Una . notte, un cavaliere sì presenta alla porta: è il fidanzato, che invita Eleonora a salire sul suo cavallo nero per portarla al letto nuziale.
La vezzosa donzelletta innamorata si succinse!, spiccò un salto, snella si gittò in groppa al cavallo, e con le candide mani tutta si ristrinse all’amato cavaliere. E arri arri arri! salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille. A destra e a sinistra, deh! come fuggivano loro innanzi allo sguardo e pascoli e lande e paesi! Come sotto la pesta rintronavano i ponti! - «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura de’ morti?». —- «Ah no! Ma lasciali in pace i morti!».
Da colaggiù qual canto, qual suono mai rimbombò? Che svolazzare fu quello de’ corvi??. Odi suono di squille, odi canto di morte! «Seppelliamo il cadavere». Ed ecco avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de’ morti. E l’inno somigliava al gracidar dei rospi negli stagni. - «Passata la mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e compianti. Ora io accompa-
gno a casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco, entrate al convito nuziale. Vieni, o sagrestano; vieni col coro, e precedimi intuonando il cantico delle nozze. Vieni, o sacerdote; vieni a darci la benedizione
prima che ci mettiamo a giacere».
1
Tace ilsuono, tace il canto; la bara sparì. E obbedienti alla chiamata quelli correvano veloci, arri
arri arri! lì lì sulle peste del morello?. E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Deh come fuggivano a destra, come a sinistra fuggivano e montagne e piante e siepi! Come fuggi-
vano a sinistra, a destra, e ville e città e borghi?
1. si succinse: strinse alla vita con una | liberamente. cintura le vesti per potersi muovere più | 2.svolazzare ... corvi: tradizionale segno
Il Romanticismo
in Germania
premonitore di sciagure. 3. morello: cavallo dal mantello scuro.
199 - «E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura dei morti?».
— «Ahi misera! Lasciali in pace i morti». Ecco, ecco; là sul patibolo, al lume incerto della luna, una ciurma di larve‘ balla intorno al perno della ruota?!
- «Qua qua, o larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga‘ degli sposi, quando saliremo in letto». E via via via, le larve gli stormivano dietro a’ passi, come turbine che in una selvetta di noccioli
stride fra mezzo all’arida frasca. E va e va e va; salta salta salta; e l’aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
Ogni cosa che la luna illuminava d’intorno, deh come ratto fuggiva, come fuggiva alla lontana! Come fuggivano e cieli e stelle al disopra di lui! - «E tu hai paura, mia cara? Vedi bel chiaro di luna? Arri arri arri! I morti cavalcano in furia. Ed hai tuttavia paura dei morti, o mia cara?». — «Ahi me misera! Lasciali in pace i morti». — «Su su, o morello! Parmi che il gallo già canti. Fra poco il sabbione sarà omai tutto trascorso. Su morello, morello! Al fiuto sento già l’aria del mattino. Di qua, o morello, caracolla di qua. Finito, finito abbiamo di correre. Eccolo che s’apre il letto nuziale. I morti cavalcano in furia. Eccola, eccola la meta». Impetuoso s’avventò a briglia sciolta contra un cancello di ferro. Ad uno sferzar di scudiscio toppa e chiavistello gli si spezzarono innanzi; e le ferree imposte cigolando si spalancarono. Il destriero drizzò la foga su per le sepolture. E al chiaror della luna tutto tutto biancheggiava di monumenti. Ed ecco, ecco in un subito portento, ahi, spaventoso! Di dosso al cavaliere ecco, a brandelli a brandelli cascar l'armatura, com’esca logorata dagli anni! In teschio senza ciocche e senza ciuffo”, in teschio ignudo ignudo gli si convertì il capo; e la persona in ischeletro armato di ronca e d’oriuolo*.
Alto s’impennò e inferocì sbuffando il morello, e schizzò scintille di fuoco. E via, eccolo sparito e | sprofondato disotto alla fanciulla; e strida e strida su per l’aere; e venir dal fondo della fossa un ulu-
lato!... A gran palpiti tremava il cuore d’Eleonora, e combatteva tra la morte e la vita. Allora sì, allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le larve; ed intrecciando il ballo della catena, con feroci urli ripetevano questa nenia: - «Abbi pazienza, pazienza; s’anche il cuore ti scoppia. Con Dio no, con Dio non venire a contesa. Eccoti sciolta dal corpo. Iddio usi all'anima misericordia!». Traduzione di G. Berchet, in I manifesti romantici del
1816, UTET, Torino 1964
7. ciocche ... ciuffo: capelli. stanno a spavento dei tristi e ad orrore de’ 4. larve: spettri. 5. ruota: «Terminato il supplizio de’ rotati, viandanti, finché il tempo ve li lascia stare» | 8.ronca ... oriuolo: roncola, clessidra: è la raffigurazione tradizionale della mor(Nota di Berchet). La ruota era uno struè uso in Germania di piantare in mezzo del palco un palo alto; in cima a cui è ficcata | mento di tortura con cui si slogavano le | te: la clessidra per segnare il tempo della vita, la falce (o roncola) per interrommembra dei condannati. orizzontalmente la ruota fatale. Su di queperlo. 6. giga: danza vivace di origine irlandese. sta buttansi i cadaveri de’ giustiziati. E vi
Biirger
200
È
Ì
ANALISI DEL TESTO È una tipica ballata romantica: per questo Berchet, nel redigere con la Lettera semise-
ria il suo manifesto della poesia romantica italiana, la scelse come documento della nuova poesia «popolare» diffusasi principalmente in Germania. E una fosca leggenda che risale effettivamente alle tradizioni popolari ed è pervasa dal gusto del soprannaturale e del macabro, proprio del Romanticismo nordico. Al motivo soprannaturale si associa poi il tema sentimentale, anch’esso caro al Romanticismo, dell'amore impossibile in vita che si attua nella morte: infatti il letto nuziale a cui il corteo di spettri accompagna i due sposi nella lugubre atmosfera notturna non è altro che la tomba. C’è anche il senso cupo della punizione divina che si abbatte senza perdono sul peccatore (Eleonora ha bestemmiato la provvidenza divina: per questo il fidanzato morto viene a prenderla), che rivela una religiosità tipicamente nordica. Sia pure attraverso la prosa, Berchet cerca di rendere il ritmo incalzante del testo originale di Bùrger.
Una fosca leggenda Il tema sentimentale
(T35. PROPOSTE DI LAVORO 1. Individuare gli elementi formali tipici della ballata (ad esempio riflettere sulle ripetizioni «arri arri arri!», sul valore del dialogo diretto, sugli elementi favolosi).
2. Nel passo è presente con particolare intensità il senso di morte: cogliere tutti gli elementi lessicali che rimandano all'area semantica della morte (ad esempio: «morti», «cadavere»). 3. Quali possono essere gli elementi tipici del genere popolare presenti nel brano? (ad esempio riflettere sull’aspetto formale, sul tema trattato, sullo stile della narrazione).
Wolfgang Goethe (cfr. A8) Hi Faust A quest’opera Goethe lavorò per tutta la vita, dalla prima redazione del 1775, l’Urfaust (che restò inedito e di cui fu ritrovata copia solo nel 1886), al compimento della seconda parte, avvenuto nel 18381, a pochi mesi dalla morte. Il Faust si ispira ad una leggenda apparsa per la prima volta in un libro popolare del 1587, a sua volta ispirato ad un personaggio storico, Georg Faust, oscura figura di mago vissuto nella Germania del primo Cinquecento. Nel Libro popolare Faust stringe un patto col diavolo per aver accesso ai segreti della natura, ed è visto negativamente, in una prospettiva luterana ortodossa, come esempio della
superbia peccaminosa dell’uomo che non sa stare entro i limiti della conoscenza segnati da Dio. Il libro ebbe
largo successo e numerose ristampe, subendo in seguito vari rifacimenti, sino al Settecento. La figura ispirò
anche il drammaturgo elisabettiano Christopher Marlowe (1564-1593) che nel 1592 compose la Tragica sto-
ria della vita e della morte del dottor Faustus, in cui Faust stringe il patto col diavolo per raggiungere una conoscenza illimitata del mondo, che ne garantisca anche il possesso assoluto; risalta così nella tragedia la grandezza dell’uomo, anche se deviata verso il male. Nel Settecento, Faust è ripreso dal razionalista Lessing che volge in positivo, illuministicamente, la sete illimitata di sapere del personaggio, e ne prospetta la salvazione finale. La figura di Faust suscitò in seguito anche l’interesse degli Stùrmer, di F. Muller e M. Klinger, per i quali Faust diviene l’individuo d’eccezione che vuole realizzarsi contemporaneamente su tutti i piani e che per questo va necessariamente incontro alla sconfitta. La leggenda di Faust entrò Il Romanticismo
in Germania
201 persino nel repertorio del teatro dei burattini, grazie al quale, a quanto pare, fu conosciuta originariamente da Goethe.
Anche il Faust del giovane Goethe avrebbe dovuto essere dannato, ma poi, nella lunga elaborazione subita
dal progetto iniziale, la figura si trasformò, arricchendosi straordinariamente di significati. L’opera ha forma
drammatica (Goethe stesso la indica come «Tragedia») e vi è premesso un Prologo în teatro, tra il Direttore, il Poeta teatrale e ilComico, poi un Prologo in Cielo, in cui Dio consente a Mefistofele di tentare Faust,
sicuro che egli si salverà comunque. La prima parte (pubblicata nel 1808) si apre nello studio del dottor
Faust, che esprime la sua stanchezza e il suo disprezzo per la vuota scienza medievale di cui ha nutrito tutta la sua vita. Vorrebbe un rapporto immediato con la natura, un accesso diretto ai suoi segreti. Evoca allora lo Spirito della Terra, ma questi lo respinge. La sconfitta induce Faust al pensiero del suicidio, ma il suono
delle campane e i canti del mattino di Pasqua lo distolgono dal proposito, riconciliandolo con la vita. Esce per ritrovare il contatto con il mondo, ma al rientro nello studio viene seguito da un cane nero che in seguito sì trasforma in un cavaliere dal piede equino: è il diavolo Mefistofele. Con lui Faust fa una scommessa: Mefistofele gli farà attraversare tutte le esperienze della vita ed egli gli concederà l’anima se mai arriverà
ad appagarsi anche solo di un istante di godimento. Il viaggio con Mefistofele percorre vari ambienti, quello goliardico di una cantina, tra studenti beoni, la cucina di una strega dove Faust viene magicamente ringiovanito, il sabba delle streghe nella notte di Valpurga. Faust conosce una fanciulla ingenua e di umile condizione, Margherita, e la seduce, uccidendone anche il fratello in un duello. La donna viene condannata a
morte per aver soppresso il figlio della sua colpa, ma, in chiusura della prima parte, una voce dal cielo annuncia la sua salvezza, prefigurando la finale salvazione di Faust. La tragedia rappresenta in questa prima parte l'impossibilità di Faust di conciliare l’amore con la sua irrequieta tensione, che lo induce a non appagarsi mai, autosuperarsi continuamente (è questo lo Streben, il concetto chiave dell’opera). La seconda parte è molto ampia ed è divisa in cinque atti, a differenza della prima, costituita da una successione di quadri staccati, senza immediata connessione logica tra di loro; è anche gravata da innumerevoli simboli e significati concettuali, che la rendono assai ardua. Faust, dopo essersi immerso nella natura,
che lo purifica dal rimorso, fa l’esperienza del «gran mondo», alla corte dell'Imperatore. Nel II atto discende alle Madri, le forme primigenie e ideali delle cose. Nel III atto si svolge la notte di Valpurga «classica»: qui Faust incontra Elena di Troia unendosi a lei: è il simbolo della fusione tra spirito classico e spirito germanico. Ne nasce Euforione, simbolo della poesia romantica. Nel IV atto Faust, grazie alla sua vittoria contro un anti-imperatore, ottiene dall’Imperatore una terra sterile, che cerca di strappare al mare con un sistema di dighe. Ma, insoddisfatto, vuole anche la terra dei due vecchi, Filemone e Bauci, suoi vicini; ricorre a Mefistofele, ma i due vecchi periscono in un incendio. Senza volerlo, Faust porta su di sé il peso della colpa. Viene l’ora della morte di Faust. Mefistofele e i diavoli, che vogliono la sua anima, vengono sconfitti dagli angeli. L'anima viene portata nelle sfere celesti, dove è accolta da Margherita, che è alseguito della Vergine. Gli angeli cantano: «Colui che sempre si è nella ricerca affaticato, noi lo possiamo redimere!». Il nulceo dell’opera è proprio in questo Streben, il perpetuo tendere ad una meta, in un’ansia di azione che supera ogni tentazione ad appagarsi di un obiettivo già raggiunto.
La scommessa
col diavolo
Dall'inizio della I parte, riportiamo la scena famosa della scommessa con Mefistofele.
STUDIO Faust, Mefistofele.
FAUST
tore? Bussano? Avanti! Chi sarà mai questo nuovo secca
MEFISTOFELE Son io. FAUST Avanti! Devi dirlo tre volte. MEFISTOFELE
FAUST
E dunque: avanti!
Goethe
202 MEFISTOFELE Così mi piaci. Spero che c’intenderemo. Per scacciare le tue paturne! eccomi qui ve. 4 stito da nobile cavaliero: abito rosso orlato d’oro, mantelletto di raso pesante, sul berretto piuma di gallo, al fianco lunga spada affilata; e tu spicciati a vestirti allo stesso modo; dopo di che libero : e senza impicci saprai finalmente che cosa sia vivere. FAUST Sotto qualunque veste sentirò la pena della mia angusta esistenza. Troppo vecchio per trastullarmi, troppo giovane per saper vivere senza desideri, che mai può darmi il mondo? Rinunciare devi, rinunciare! ecco l'eterno ritornello che suona all'orecchio d’ogni uomo, che ogni ora, durante tutta la vita, ci ricanta con rauca voce. Di sgomento è pieno ogni mio risveglio e mi vien da piangere al sorgere d’ogni nuovo giorno che nel suo corso non appagherà uno solo dei miei desideri, non uno! anzi con l’assidua critica turberà l'attesa d’ogni gioia e con le mille smorfie della vita sociale incepperà l’opera dell’ardente mio cuore. Quando poi cala la notte, trepido mi stendo sul giaciglio, ché anche lì non trovo riposo: selvaggi incubi mi cacceranno dal sonno. Il Demone che abita nel mio petto può bensì scatenarmi in seno il tumulto, ma, padrone delle mie forze, è poi incapace di volgerle all’azione. E così la vita m'è di peso, desiderata la morte e odiosa l’esistenza. MEFISTOFELE Eppure la morte non è mai ospite del tutto gradita. FAUST Beato colui cui essa cinge di lauri le tempie sanguinanti nel fulgore della vittoria, colui, che dopo una danza turbinosa, essa coglie tra le braccia della sua fanciulla. Oh, fossi anch'io nell’estasi piombato al suolo esanime dinnanzi alla forza di quello spirito sovrano?! MEFISTOFELE Eppure c’è qualcuno che una notte non vuotò la coppa di certo bruno liquore. FAUST A quanto sembra, stare a spiare non ti dispiace. MEFISTOFELE
Onnisciente non sono, ma molte cose so.
FAUST Poiché un dolce suono familiare mi strappò a quel terribile vortice?, e col ricordo dei tempi sereni illuse ciò che in me restava dei miei sentimenti puerili, io maledico a tutto ciò che chiude l’anima in una rete di seduzioni e di miraggi, e a forza di illusioni e lusinghe la trattiene in questa tragica spelonca‘! Maledetta anzitutto l’alta opinione in cui l’anima esalta se stessa! maledetto l’abbaglio dell'apparenza che s'impone ai nostri sensi! maledetto tutto ciò che nei sogni mendaci ci finge la gloria e l'immortalità! maledetto ciò che ci tenta come possesso: la donna, i figli, i servi, le terre! maledetto Mammona?, sia che coi suoi tesori ci sproni ad azioni ardite, sia che ci prepari le molli piume per i neghittosi* piaceri! Maledetto il succo balsamico dell’uva, come il supremo dono dell’amore! maledetta la speranza, maledetta la fede, e, anzitutto, maledetta la sopportazione! CORO DI SPIRITI INVISIBILE Ahimè, ahimè! con un pugno poderoso hai distrutto il mondo bello; precipita, va in frantumi! un semidio l’ha infranto! Portiamo nel nulla i relitti, e piangiamo sulla bellezza perduta. O tu, il più potente dei figli della terra, ricostruiscilo più splendido, riedificalo nel petto tuo! Con chiaro senso torna ad iniziare un’era nuova e nuovi canti le si accompagnino”! MEFISTOFELE Sono i miei spiritelli più giovani. Odili come con saggezza di vecchi signori incitano a godere ed agire! Verso il vasto mondo, via da questa solitudine, dove sensi e umori ristagnano,
vogliono allettarti. Finiscila di trastullarti colla tua malinconia; come un avvoltoio ti rode alle fonti della vita; mentre anche la più modesta compagnia ti farà sentire d’essere uomo tra gli ‘uomini. Però, bada, non intendo affatto cacciarti fra la canaglia. Non sono un personaggio illustre; ma se vorrai avviarti attraverso la vita sotto la mia scorta, m’impegno a mettermi tosto a tuo servizio. Son tuo compagno, e, se ti va, son tuo servo e schiavo umilissimo. FAUST E in cambio che ti debbo dare? MEFISTOFELE Eh, per questo c’è tempo. FAUST No no! il diavolo è un egoista, e non è facile che compia ciò che giova altrui per amor di Dio. Di’ chiaro e tondo le tue condizioni. Un servo della tua risma è un pericolo per la casa. 1. paturne: stato d’animo contrassegnato da malinconia, stizza, irritazione.
2. spirito sovrano: lo Spirito della Terra, che in precedenza Faust aveva cercato di evocare, senza riuscirvi. Lo Spirito della Terra rappresenta l’anima che pervade il mondo terreno e gli dà vita. ; 3. quel terribile vortice: determinato al suicidio, Faust è stato strappato da que-
Il Romanticismo
in Germania
sta intenzione dal suono delle campane di Pasqua. 4. tragica spelonca: la vita, paragonata ad un’orrida caverna. 5. Mammona: la ricchezza, resa quasi divinità e oggetto di culto. 6. neghittosi: indolenti. 7. Ahimè ... accompagnino: secondo alcuni interpreti, gli spiriti che intonano il
coro sono spiriti buoni che intendono salvare Faust dalla resa a Mefistofele; per altri si tratterebbe di spiriti infernali determinati a trascinare Faust con allettamenti ed inganni; altri ancora considerano questo coro un commento da parte dell’autore della maledizione di Faust.
208 MEFISTOFELE
Io quaggiù m’impegno a servirti, a obbedire a ogni tuo cenno,
senza requie né indugio; quando ci ritroveremo lassù mi renderai la pariglia. FAUST Di lassù poco m'importa. Quando avrai mandato il mondo in frantumi, venga pure il mondo nuovo. Da questa terra zampillano le mie gioie, e questo è il sole che rischiar a le mie pene; se un dì avverrà ch'io me ne sciolga, ebbene, avvenga ciò che vuole e può. Non voglio saperne se in un’altra vita ancor si odî € sl ami, se In quelle remote sfere ci sia un disopra e un disotto. MEFISTOFELE Se la pensi così l'affare è senza rischi. Impégnati; tosto sperimenterai con gioia le mie arti. Ti darò ciò che un uomo non vide mai.
FAUST E che cosa vuoi tu darmi, povero diavolo? Lo spirito d’un uomo nella sua sublime ricerca poté mai essere compreso da un par tuo? Hai tu i cibi che mai non saziano, hai tu l’oro rosso che fugge tra le dita come ] argento vivo, hai il giuoco a cui non si vince mai, la fanciulla che, tra le braccia dell'amante, già occhieggia con l'amante nuovo; hai, suprema gioia degli Dei, la fama che come
meteora passa e sparisce? Mostrami il frutto che imputridisce prima d’esser colto, l’albero che ogni giorno rinverdisce*! MEFISTOFELE Una tal richiesta non mi sgomenta, e questi tesori li tengo a tua disposizione. Ma verrà pure il tempo, mio caro, in cui si vuol godere in pace i propri beni.
FAUST Se mai verrà il momento in cui io, appagato, mi adagi sul letto del riposo, la sia tosto finita per me?! Se lusingandomi potrai mai così illudermi che io mi compiaccia di me stesso, se coi godimenti potrai così ingannarmi - sia quello il mio ultimo giorno! Ecco la scommessa che t’offro. MEFISTOFELE Accettata! FAUST Ecco la mano. Se mai dirò all’attimo fuggente: Arrestati! sei bello! tu potrai mettermi in ceppi: sarò disposto a perire; e allora la campana suoni pure e a morto, sarai esentato dal tuo servizio, si fermerà il pendolo, cadrà la lancetta, il tempo sarà conchiuso per me.
MEFISTOFELE
Pensaci bene! non ce ne scorderemo più.
FAUST E nel tuo pieno diritto; ma non è temeraria irriflessione la mia. Finché persevero in questo stato sono schiavo. Che importa dunque se tuo o d’un altro. MEFISTOFELE Oggi stesso al banchetto accademico! compirò il mio uffucio quale vostro servo... Alt! una piccola cosa: siam tutti mortali; quindi non vi spiaccia sottoscrivere due righe. FAUST Anche una scrittura pretendi, pedante? Non sai dunque ancora che sia un uomo, la parola d’un uomo? Non ti basta che, con una parola, io abbia vincolato i miei giorni per l'eternità? Corre via il mondo per mille impetuose correnti, e una promessa mi dovrebbe legare? Eppure questa follia è ben ancorata nei nostri cuori, e nessun galantuomo vorrebbe affrancarsene. Fortunato colui che serba pura in cuore la fedeltà; nessun sacrificio gli parrà troppo grave. Ma una pergamena con scritta e suggello è spettro che tutti sgomenta: la parola muore nella penna, signori del mondo sono cuoio e cera. Che vuoi da me, spirito malvagio? bronzo, marmo, pergamena, carta? e ch'io
scriva con lo stilo, il bulino!, la penna d’oca? Scegli a piacer tuo. MEFISTOFELE Perché tante parole, tante esagerazioni e riscaldarsi così? Un qualunque frustolo di carta mi basta, e firmerai con una goccia di sangue. FAUST Se ti basta, facciamola pure questa commedia. MEFISTOFELE Eh, il sangue è un succo specialissimo. FAUST Non hai davvero da temere ch’io rompa il patto! Tender tutte le mie forze è proprio ciò a cui m’im-
pegno... Mi ero creduto molto più che non fossi, lo riconosco: io son della tua famiglia. Il Grande Spirito !? mi ha respinto, la Natura mi è rimasta sbarrata. Spezzato si è ilfilo del pensiero e da un pezzo la scienza mi nausea. Negli abissi del senso si sazino le nostre ardenti passioni! Sotto gl’impenetrati veli della magia prodigi si apprestino! precipitiamoci nello strepito del tempo, nel vortice degli eventi! Si alternino pure gioia e dolore, fortune e insuccessi; solo attraverso l’attività l’uomo si afferma.
MEFISTOFELE
Non vi si fissa misura né meta. Se vorrete assaggiare un po’ di tutto, cogliere il diletto
volando di fiore in fiore, buon pro vi faccia. Solo arditezza, e niente scrupoli!
8. Mostrami ... rinverdisce: Faust desidera continuamente cose che non appagano mai. (Il passo è molto oscuro e discusso). 9. Se mai ... per me: Faust gioca Mefisto-
fele perché aspira ad una felicità che non può mai compiersi e che quindi non potrà
mai essere soddisfatta dal diavolo. 10. banchetto accademico: l’opera, nel progetto dell’autore, doveva contenere una “scena della disputa” (mai stesa, ma solo frammentariamente abbozzata), un dibattito accademico in cui Faust e Mefistofele dovevano discutere e sostenere le proprie
divergenti opinioni. 11. bulino: strumento per incidere metalli dolci. 12. Il Grande Spirito: lo Spirito della Terra.
Goethe
Ì
I
204
FAUST Ti ho già detto che non si tratta per me del piacere. Io mi voto alla vertigine, al godimento che confina col dolore, all’amore-odio, al dissidio che alla fine è ristoro. Questa mia anima, guarita dalla smania di sapere, non deve mai più chiudersi a nessuna sofferenza; voglio accogliere in me le gioie destinate all’intera umanità; voglio abbracciare col mio spirito le sue vette edisuoi abissi; ammucchiar nel mio petto tutto il suo bene e tutto il suo male, e così dilatare il mio io sino ai confini del suo io, per poi, com’essa, alla fine, naufragare".
MEFISTOFELE Credi a me che da qualche millennio mi sto masticando questo duro boccone: nel tempo che corre dalla culla alla tomba non c’è uomo che riesca a digerire la vecchia pasta lievitata! Credimi, il Tutto è buono solo per un Dio! Eccolo infatti nel suo eterno fulgore, mentre noi fummo ricacciati nelle tenebre, e a voi conviene alternare il giorno e la notte. FAUST Ma io voglio! MEFISTOFELE E sta bene! ma c’è una cosa che mi preoccupa; l’arte è lunga, la vita breve, perciò vi consiglio di prender qualche lezione. Associatevi con un poeta: lasciate che il galantuomo si abbandoni al suo estro e accumuli sul vostro capo tutte le più eccelse.doti: il coraggio del leone, la velocità del cervo, il sangue ardente dell’italiano, e la tenacia del nordico; fate che v’insegni il segreto di accoppiare generosità ed astuzia, e di innamorarvi con impeto giovanile, ma secondo un piano. Io stesso vorrei conoscere un tal uomo: lo chiamerei il signor Microcosmo. FAUST Ma che cosa son io se non riesco ad attingere le vette dell'umanità a cui tutti i miei sensi tendono? MEFISTOFELE Tu sei... quel che sei. Mettiti in testa una parrucca con milioni di riccioli, calza un coturno! alto alcuni palmi... rimani pur sempre ciò che sei. FAUST Lo sento: invano immagazzinai per anni i tesori dello spirito umano; ora che mi pongo a sedere nessuna nuova forza zampilla in me: non mi sono innalzato d’un capello; non mi sono accostato d’un passo all’Infinito. MEFISTOFELE Mio buon signore, voi vedete le cose come si vedon da tutti; ma dobbiam farci furbi prima che ci sfuggano le gioie della vita. E che diavolo! mani e piedi, testa e deretano son tuoi: ma non sono altrettanto nostre le cose di cui godiamo? Se posso comperarmi sei cavalli non è forse mia la loro forza? Galoppo, ed è tal quale fossi un campione con ventiquattro gambe. Animo, dunque, piantala con gli almanaccamenti, e via con me per il mondo! Te l’ho già detto: l’uomo che almanacca è come una bestia che uno spirito maligno fa girare in tondo su una landa brulla, mentre tutt'intorno ci sono bei pascoli verdi. i FAUST Be’, come si comincia? MEFISTOFELE Coll’andarcene. Mi domando che camera di supplizi è mai questa! Come si fa a passar la vita seccandoci e seccando quei poveri ragazzi! Lascia questo mestiere a quel pancione del tuo famulo!. E proprio come un trebbiapaglia vuoto. Tanto quel che sai di meglio non puoi dirlo ai tuoi alunni. To’, ne sento uno che vien pel corridoio. FAUST Non sono assolutamente in grado di riceverlo. MEFISTOFELE Quel poverino aspetta da un pezzo, non bisogna che se ne vada senza un contentino. Vien qui, dammi la tua zimarra* e il berretto. (Si traveste) Questo costume deve starmi d’incanto. E adesso affidati al mio buonumore! Un quarto d’ora mi basta. Intanto preparati al nostro bel viaggio! (Faust esce. Mefistofele travestito colla zimarra di Faust) Disprezza pure la ragione e la scienza, le supreme forze dell’uomo; lascia che attraverso l’abbaglio delle arti magiche lo spirito della menzogna si impossessi di te, ed eccoti senza scampo in poter mio. Il destino gli ha dato uno spirito che tende a gettarsi innanzi libero da ogni freno; lo slancio immoderato di esso lo ha portato a saltare al di là delle gioie terrene. Io lo trascinerò attraverso una vita bestiale, fra piatte idiozie. Egli sgambetterà, s’irrigidirà, resterà appiccicato; e mentre cibo e bevanda
offerti alla sua insaziabilità rimarranno sospesi a mezz'aria davanti alle sue aride labbra; invano supplicherà ristoro. Così anche se non si fosse venduto al diavolo, dovrebbe ugualmente dannarsi! da Faust, traduzione di B. Allason, Einaudi, Torino 1965 13. non si tratta ... naufragare: Faust non ricerca godimenti limitati di cuiappagarsi,
ma aspira all'infinito in cui si fondono tutti i contrari.
spessa, in uso nell’antica Grecia, a foggia di sandalo; era calzato dagli attori tragici sulla scena per assumere una statura più imponente. Mefistofele deride l’aspirazione
14. coturno: calzatura dalla suola molto
all’infinito di Faust. Per contro lo invita
Il Romanticismo
in Germania
a godere le gioie della vita. 15. famulo: servo. 16. zimarra: soprabito lungo usato nel Medioevo dalle persone di riguardo.
205 ANALISI DEL TESTO piunazione a totalità
Faust esprime la sua insoddisfazione della vita: è pieno di desideri, ma è impotente a realizzarli nell'azione. Mefistofele gli promette di guidarlo attraverso la vita, nel vasto mondo, fuori dalla solitudine sterile dello studio. Faust sa di voler l'impossibile e che Mefistofele, «povero diavolo», non glielo può offrire. Per questo accetta di scommettere la propria anima, perché sa che non sarà mai appagato nella sua ricerca, che non riuscirà mai a dire all’attimo
Il nuovo senso del patto col diavolo
La celebrazione
fuggente: « Arrestati, sei bello!» Come si vede in questa scena, in Faust c’è un’aspirazione alla totalità, a congiungersi con l’infinito, vivendo tutte le esperienze, bene e male, godimento e dolore, e dilatando il suo io sino ai confini dell'umanità. È una tensione sempre Inappagata, ma «solo attraverso l’attività l’uomo si afferma».
Il motivo antico del “patto col diavolo” assume dunque in Goethe un senso profondamente nuovo. Nella leggenda originaria di Faust, che vende l’anima al diavolo per cono-
scere i segreti della natura, si esprimeva il timore della scienza, che veniva sentita, da una prospettiva arcaica, ancora medievale, come negativa e demoniaca, perché distruggeva il sistema concettuale del vecchio mondo, e con questo anche il suo assetto materiale. Uno stato d’animo analogo viene a prodursi nella cultura romantica del primo Ottocento: anche dinanzi alle grandiose e travolgenti trasformazioni dell’industrialismo la scienza viene vista con paura, come qualcosa di demoniaco. Un esempio significativo è la figura dello scienziato Frankenstein di Mary Shelley (cfr. T41), che con la sua ricerca scientifica supera i limiti consentiti all'uomo e dà vita ad un mostro distruttore. Frankenstein è quindi un personaggio “faustiano” nel senso arcaico, originario. Il Faust di Goethe veicola tutt'altra visione: è la celebrazione dell’attivismo incessante, che non si ferma mai su nessun risultato
raggiunto. Lungi dall’esprimere gli oscuri timori suscitati dall’affermarsi dello spirito
dell’attivismo
moderno e dalla sua forza trasgressiva e trasformatrice, ne costituisce l’esaltazione: non si dimentichi che, nel suo attivismo, Faust tenta anche imprese colonizzatrici e industriali.
PROPOSTE
DI LAVORO
E
1. Rintracciare nelle battute di Faust le espressioni che rivelano la sua insoddisfazione della vita. 2. Quali beni persegue Faust? Quale visione del mondo rivelano i suoi desideri? (considerare anche il giudizio su di lui che esprime Mefistofele nel suo ultimo intervento).
3. Quale rapporto tra Faust e Mefistofele mette in luce la seconda battuta di Mefistofele? E quelle seguenti? (cfr. «...non sono un personaggio...»). 4. Rintracciare il punto del passo in cui Faust rivela la sua tendenza verso l'assoluto. 5. La scienza ha offerto un aiuto a Faust per arrivare all’infinito? Ren
agi
+ Cfr. La critica, C10
Goethe
en
206 A13. Friedrich Hòlderlin Non fece parte della scuola romantica vera e propria, ma fu uno dei massimi poeti romantici per il sentimento cosmico che infuse nelle poesie, «per la sua capacità di fondere come in un sogno armonioso gli opposti che dilaniavano la sua anima» (Mittner). i Nato nel 1770, studiò nel celebre collegio teologico Stift di Tubinga, dove ebbe come compagni Schelling e Hegel, i due futuri filosofi dell’idealismo. Fu abilitato all’ufficio di pastore, ma per tutta la vita si rifiutò di svolgerlo, per insofferenza del formalismo teologico e per motivi politici. Con alcuni amici aveva infatti fondato un club giacobino e attendeva che la rivoluzione scoppiasse anche in Germania. Ma era troppo portato al sogno e alla contemplazione per immergersi nell’azione. Nel 1796 fu precettore a Francoforte in casa di un ricco banchiere, Gontard, e si innamorò della moglie di lui, Suzette, che cantò col nome di Diotima. Ma infranse il legame, convinto di essere obbligato a sacrificare la felicità amorosa per restare fedele alla missione di poeta. La sua vita successiva fu tormentata: appariva inadatto a qualunque vincolo esterno di lavoro e dovette abbandonare diversi incarichi. Si manifestarono ben presto in lui sintomi di follia. Dal 1806 fu rinchiuso in una clinica, poi fu affidato in custodia ad un falegname che lo alloggiò in una torre sulle rive del Neckar. Qui trascorse i successivi trentasette anni della sua vita, in una condizione di
La vita
mite demenza, scrivendo ancora strani versi.
Le concezioni
Amico di Schelling ed Hegel, fu vicino alla filosofia dell’idealismo; ma mentre per Hegel la poesia si riduce a puro veicolo del concetto ed è subordinata ad esso, per Hòlderlin la poesia è la voce stessa dell’essere, dell’assoluto, per cui la filosofia è sussunta nella poesia. Il poeta è un vate che deve indicare la via di una rigenerazione radicale dell'umanità, attraverso una rinnovata armonia tra uomo e natura, tra il singolo e il Tutto, tra l’individuale e l’universale. Il cielo, il sole, la terra, le acque
sono dèi, emanazioni della presenza divina nel mondo. Gli antichi Greci vivevano in comunità immediata con gli dèi, avevano cioè il senso dell’armonia divina della natura. Il mondo moderno ha perso quest’armonia; il poeta ha proprio il compito di «far rinascere in mezzo all’“empia” umanità moderna [...]il culto degli dèi, cioè il senso della divina armonia che è diffusa nell’universo» (Mittner). Il ritorno degli dèi darà inizio ad una nuova età dell’oro dell'umanità. Su questo contrasto tra antichità ed età moderna si impernia il romanzo Ipertone (1797-1799). Il vagheggiamento della Grecia antica è oggetto di numerose liriche, come l’ampia elegia L’arcipelago. La poesia di Holderlin ha uno spirito di misura e di armonia che si può definire classico, anche se l’impeto lirico può giungere alla rottura della forma, quasi alla sua completa distruzione.
Diotima La poesia risale al 1797-1799. 1. Caos del tempo: il disordine del mondo
storico che ha perduto l'armonia del mondo
3 .
Vieni e placami questo Caos del tempo!, come una volta,
PE CEna
... concillato.: Delizia
Liotima,
la
Delizia della celeste musa, gli elementi hai conciliato?! 1
aonna
a cui è dedicata la lirica, è identificata con
acini liatoglielementi delmondoinlottafraloro.
1
31]
Ordina la convulsa lotta coi ROAcii
5
1
si
04 ordi del cielo,
, Finché nel petto mortale ciò ch'è diviso si unisca, Finché l'antica natura dell’uomo, la placida, grande,
Komm und besanftige mir, die du einst Elemente versohntest, / Wonne der himmlischen Muse, das Chaos der Zeit, I Ordne den tobenden Kampf mit Friedenstònen des Himmels, / Bis in der sterblichen Brust sich das Entzweite vereint, / fis der Menschen alte Natur, die ruhige, grofe, / Aus der gàrenden Zeit méchtig und heiter sich hebt. / Kehr' in Il Romanticismo
in Germania
ordinari levi l'armonia. deve tor. nare a conciliare i conflitti dell’uomo
Fuor dal fermento del tempo, possente e serena si levi?8.
moderno, in modo da far rivivere la tran-
Torna nei miseri cuori del popolo, bellezza vivente,
quilla e serena natura dell’uomo antico, per.sio alle turbolenze del mondo
an
ara
iivndo antico,
armonico e felice, è perito; mentre quello
padana parato privo
della
serenita
e
aella
CEI
glola
vitale
10
Torna all'ospite mensa, nei templi ritorna! Che Diotima vive come i teneri bocci d’inverno,
Ricca del proprio spirito, pure ella cerca il sole.
Ma il sole dello spirito, il mondo felice è perito
E in glaciale notte s’azzuffano gli uragani’.
eg I
»
antichi (in glaciale notte: il gelo eil buio si contrappongono all’idea di luce e di valore
5
Ò
f
6
è
È
da Poesîe, traduzione di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1963
che contraddistingue la classicità).
die dirftigen Herzen des Volks, lebendige Schénheit! / Kehr' an den gastlichen Tisch, kehr' in die Tempel zurtck! / Denn Diotima lebt, wie die zarten Blùten im Winter, / Reich an eigenem Geist sucht sie die Sonne doch auch. / Aber die Sonne des Geists, die schònere Welt ist hinunter / Und in frostiger Nacht zanken Orkane sich nur.
ANALISI DEL TESTO Nostalgia di un’armonia perduta
La poesia esprime la nostalgia struggente di un'armonia perduta, proiettata in una mitica grecità, che conciliava gli elementi conflittuali del cosmo e gli impulsi contrastanti negli animi degli uomini. Ad essa si contrappone il mondo presente, il mondo della storia, che è caos, «glaciale notte» in cui si «azzuffano gli uragani». Nel poeta vi è però una tensione inesausta a riportare in vita quell’armonia, a far rinascere un'umanità magnanima, forte e serena. Come l’ode Su un’urna greca di Keats (T46) il breve componimento esemplifica perfettamente un modo tutto romantico di guardare all’antichità classica.
PROPOSTE
DI LAVORO
|
1. La contrapposizione tra passato («una volta») e presente («caos del tempo» v. 1) è ravvisabile in tutto il componimento; rintracciare tutte le espressioni che rappresentano questi due momenti:
caos
tranquilli accordi
convulsa lotta
2. Rintracciare tutte le metafore presenti nel testo. brano? 3. Quale concezione dell'antichità è presente nel all’armonia proiettata nel mondo greco con i TT 25-26 4. Confrontare il concetto di Hélderlin dell’aspirazione delle Grazie di Foscolo.
Hoòlderlin
208
i A14. Novalis
Friedrich von Hardenberg (1772-1801; Novalis fu il suo nome d’arte) studiò a Jena con Fichte e Schiller, venendo a contatto con il gruppo romantico degli Schlegel, di Tieck e Wackenroder. Di tale gruppo fu il poeta più rappresentativo. A ventidue anni conobbe una giovane di quattordici anni, Sophie Kihn, destinata a morire di — tisi tre anni dopo. Da questa esperienza della morte nacquero gli Inni alla Notte, in prosa ritmica mista a versi, pubblicati nel 1800 sull’«Athenaeum». Tra il 1798 e il 1801 scrisse anche il romanzo Heinrich von Ofterdingen, ispirato alle corti del secolo XIII, dove era diffuso l’amor cortese. Del Medio Evo cristiano e imperiale Novalis fu entusiasta celebratore (cfr. anche T32), esprimendo perfettamente le tendenze reazionarie e regressive proprie del romanticismo germanico. Morì anch'egli di tisi, giovanissimo, nel 1801. Nella sua breve vita si può vedere simbolizzato il destino del
La vita
poeta romantico, proteso verso la morte.
La sua poesia subisce l'influenza della filosofia idealistica, che egli sviluppa in senso misticheggiante. Nella sua visione, in ogni essere fisico della natura vive lo Spirito assoluto; ogni essere finito è magicamente in rapporto col Tutto; Vita e Morte si confondono in una misteriosa infinità. Per questo negl’Inni alla Notte la morte è sentita come mistico sprofondare e confluire in un’unità ineffabile. Come si vede, la poesia di Novalis rappresenta le tendenze estreme dell’irrazionalismo romantico.
La visione mistica
Primo Inno alla Notte
Quale vivente, dotato di senso!, fra tutte le magiche parvenze dello spazio che si dilata intorno a lui, non ama la più gioiosa, la luce — con i suoi colori, i suoi raggi e onde; la sua mite onnipresenza di giorno che risveglia?. Come l’anima più intima della vita la respira il mondo immane delle. costellazioni senza quiete?, e nuota danzando nel suo flutto azzurro - la respira la pietra scintillante, in eterno riposo, la pianta sensitiva che sugge, e il multiforme animale istintivo* - ma sopra tutti lo splendido intruso* con gli occhi colmi di sensi, il passo leggero, le labbra dolcemente socchiuse, ricche di suoni. Come un sovrano della natura terrena, essa” chiama ogni forza a metamorfosi innumeri, annoda e scioglie alleanze infinite, avvolge la sua immagine celeste intorno a ogni creatura terrestre. La sua sola presenza rivela l’incanto dei reami del mondo. In plaghe remote” mi volgo alla sacra, ineffabile, arcana notte?. Lontano giace il mondo - sepolto nel baratro di una tomba - squallida e solitaria la sua dimora?. Nelle corde del petto spira profonda malinconia. In gocce di rugiada voglio inabissarmi e mescolarmi alla cenere. Lontananze della memoria, desideri della giovinezza, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze dell’intera e lunga esistenza vengono in grige vesti, come nebbie vespertine dopo il tramonto del sole!°. In altri spazi! la luce ha piantato le sue tende gioiose. Non tornerà mai dai suoi figli, che l’attendono in ansia con la fede degli innocenti? Che cosa d'improvviso! sgorga così carico di presagi sotto il cuore, e inghiotte l’aura tenue della malinconia? Anche tu trovi piacere in noi, oscura notte? Che cosa tieni sotto il tuo manto, che con 1. senso: senno.
2. mite ... risveglia: la luce si diffonde
ovunque,
risvegliando
gli uomini
e la
natura. 3. l’anima ... quiete: «le immense costellazioni del cielo, che ruotano senza mai fermarsi, respirano la luce come un principio vitale».
4. istintivo: dotato di istinto. 5. splendido intruso: l’uomo. Intruso sulla
Il Romanticismo
in Germania
terra, perché la sua vera patria è il cielo. 6. essa: sempre la luce. 7. In plaghe remote: lontano dalla luce. 8. ineffabile, arcana notte: la notte è misteriosa ed ha qualcosa di divino, che non si può esprimere. 9. Lontano ... dimora: il mondo avvolto nelle tenebre della notte appare lontano, immerso come in una tomba. 10. Lontananze ... sole: il calore della
notte evoca memorie e sogni della giovinezza avvolti in un sentimento di malinconia. 11. In altri spazi: nella parte dell'emisfero dove è giorno. 12. Che cosa d’improvviso: comincia la scoperta seducente ed irresistibile della notte e della soddisfazione che essa può donare.
209 forza invisibile mi tocca l’anima? Delizioso balsamo stilla dalla tua mano, dal fascio di papaveri!8. Le ali grevi dell'animo tu innalzi. Ci sentiamo pervasi da una forza oscura, ineffabile — un volto severo vedo con lieto spavento, che si piega su di me devoto e soave, e sotto i riccioli che senza fine s'intrecciano, mostra la cara giovinezza della madre!'. Come misera e puerile mi sembra ora la luce - come grato e benedetto il commiato del giorno - Solo per questo quindi”, perché la notte discosta da te i fedeli, tu seminasti per l’immensità dello spazio le sfere splendenti per annunciare la tua onnipotenza - iltuo ritorno — nei tempi della tua assenza. Più celesti di quelle stelle scintillanti ci sembrano gli occhi infiniti che la notte dischiude in noi!. Così lontano non vedono le più pallide di quelle schiere Innumerevoli — senza bisogno di luce penetrano con lo sguardo gli abissi di un’anima amante - il che colma uno spazio più alto di voluttà indicibile. Premio della regina del mondo, della eccelsa annuncia-
trice di mondi sacri, custode di amore beato — a me lei ti manda - amata soave - caro sole della notte, — ora veglio — perché sono Tuo e Mio!” —- tu mi hai rivelato che la notte è vita - mi hai fatto uomo
- consuma con ardore spettrale il mio corpo, così che io mi congiunga etereo più intimamente con
te e la notte nuziale duri in eterno.
dagli Inni alla Notte, traduzione di R. Fertonani, Mondadori, Milano 1982 eu
13. papaveri: simboleggiano il sonno. 14. un volto ... madre: la notte assume il volto di una giovane donna che si china su di lui; è forse il volto della fidanzata, morta giovanissima, o quello della giovane madre che si chinava su di lui nella culla; può anche essere che in realtà le due immagini femminili si confondano.
15. Solo per questo quindi: la notte, come una rivale vittoriosa, attrae irresistibilmente i seguaci della luce, ma questa,
attraverso le stelle (sfere splendenti) tenta, a sua volta, di non far scordare il suo potere di seduzione. 16. Più celesti ... noi: la notte mette nel-
l’uomo facoltà di conoscenza più profonde
di quelle razionali. 17. regina del mondo ... Mio: la notte, regina del mondo, manda come premio al poeta la donna amata, attraverso la quale può raggiungere una più profonda conoscenza, comprendere l’invisibile e l’ineffabile; grazie alla fusione fra la Notte e l’amata ritrova se stesso (sono Tuo e Mio).
ANALISI DEL TESTO La luce e la notte
L’inno è costruito sull’antitesi tra la luce e la notte. La luce è simbolo di un rapporto razionale col mondo, un rapporto che non dà la vera conoscenza, perché il giorno non è il mondo reale, ma solo quello delle apparenze che si trasformano incessantemente. Per questo la luce appare «misera e puerile» di fronte alla notte, chedà invece la vera conoscenza
perché mette in contatto con un mondo arcano, sacro, invisibile, ed innalza l’uomo con una
forza oscura, ineffabile. Essere avvolti dalla notte è come sprofondare in un abisso immemoriale, ricongiungersi con la Madre primigenia. Nella notte amore e morte sì fondono in una mistica unione, che dissolve l’io individuale nell’infinito e gli dà la suprema conoscenza.
Novalis
210 A15. Ernst Theodor Hoffmann La personalità
I racconti
Il sogno e il mistero
Nato nel 1776 a Konigsberg, nella Prussia Orientale (la città di Kant), intraprese la carriera di magistrato ma condusse vita irregolare, dissipata e febbrile, dividendosi tra la professione, la letteratura, la musica, la pittura, con la tendenza a intrecciare in un nesso strettissimo arte e vita. La passione per la musica oscillava tra il rapimento celeste e l'esaltazione patologica e distruttrice: vi vedeva infatti una virtù redentrice ma anche una sorta di forza demoniaca. L'amicizia con alcuni medici suscitò in lui l’interesse, tipicamente romantico, per i fenomeni occulti, telepatici, ipnotici, che compariranno poi nei suoi racconti. La prima raccolta di racconti fantastici esce nel 1814-1815, le Fantasie alla maniera di Callot, che nel gusto della caricatura e del grottesco si rifanno al disegnatore francese Callot, richiamato dal titolo. Nel 1815-1816 compaiono Gli elisir del diavolo, lungo racconto in cui il protagonista è ossessionato dalla presenza del proprio sosia (altro motivo molto caro al Romanticismo, che da Poe arriva sino a Dostoevskij e a Wilde). Nel 1817 escono i Notturni, che insistono su aspetti funebri e notturni dell’anima e della natura. A partire dal 1819 è pubblicata la serie di racconti I fratelli di Serapione, in cui è abolita la distinzione fra sogno e realtà. Del 1820-1821 è La principessa Brambilla, dove ricompare il dissidio tra io e sosia, tra fiaba e realtà. Nei racconti di Hoffmann la realtà quotidiana appare assurda e inquietante, e viceversa appare reale il mondo dei sogni, delle allucinazioni, della magia. L’arte di Hoffmann si spinge ad esplorare tutta una zona misteriosa e oscura della psiche ed è perciò tipica del clima romantico germanico. Ebbe una fortuna immensa ed esercitò una forte influenza sul romanticismo europeo, nei suoi aspetti più fantastici, magici e allucinati. In Italia subiranno il suo fascino, unitamente a quello di Poe, gli Scapigliati (cfr. Parte III, La Scapigliatura).
da L’uomo della sabbia
L'uomo della sabbia Kaiportiamo l’avvio del lungo racconto. Esso si apre con alcune lettere del protagonista, Nathaniel, che rievoca il terribile incubo
dell’«uomo della sabbia» che aveva funestato la sua infanzia: l’«uomo della sabbia» era lo spauracchio infantile, evocato dalle mamme per spaventare î bambini restii ad andare a letto. Agli occhi del protagonista quella figura paurosa si era identificata nel sinistro avvocato Coppelius, amico del padre e suo compagno di ricerche alchimistiche. Durante una visita successiva del mago Coppelius, il padre di Nathaniel resta ucciso da un’esplosione; Coppelius scompare senza lasciar traccia. Diventato studente universitario, Nathaniel crede di riconoscere Coppelius in un italiano venditore ambulante di lenti e oggetti ottici, Giuseppe Coppola, e ne resta terrorizzato: l'incubo della sua infanzia ricompare. Nathaniel si innamora di Olimpia, la bella figlia del suo professore di scienze, Spallanzani, anche se la giovane ha qualcosa di inquietante, lo sguardo fisso e i gesti singolarmente meccanici. Dimentica per lei la fidanzata Clara, fanciulla positiva e razionale (il nome è emblematico). Un giorno scopre terrorizzato che Spallanzani e Coppola sì disputano il corpo inanimato di Olimpia, privo degli occhi: la donna amata non era che un automa meccanico, costruito dal professore, a cui Coppola aveva inserito gli occhi. Nathaniel ha un accesso di follia. Guarito dopo lungo tempo, intende sposare Clara. Il Romanticismo
in Germania
211 Saliti su un’altra torre per contemplare il panorama, Nathaniel, in un nuovo momento di follia, cerca di gettare nel vuoto Clara, che viene però provvidenzialmente salvata dal fratello. Tra le persone che seguono
la scena dal basso vi è Coppelius-Coppola. Vedendolo, Nathaniel sì getta nel vuoto con un grido acuto: «Begli occhi! Begli occhi!».
Durante tutta la giornata, all’infuori del pranzo, io e mia sorella vedevamo molto di rado nostro padre. Doveva essere molto occupato nel suo lavoro. Dopo cena, che, secondo una vecchia abitudine si consumava già alle sette, noi tutti con la mamma andavamo nel suo studio e ci sedevamo attorno
a un tavolo rotondo. Il babbo fumava e beveva un grosso bicchiere di birra. Spesso ci raccontava storie meravigliose e vi si entusiasmava talmente da lasciar spegnere la pipa e io dovevo riaccendergliela con un pezzo di carta a cui avevo dato fuoco: il che era per me un vero divertimento. Spesso invece ci metteva dinanzi dei libri illustrati, sedeva muto e pensieroso nella sua poltrona e soffiava attorno
a sé vere nuvole di fumo, tanto che ci sembrava di nuotare nella nebbia. In quelle sere la mamma era molto triste e appena battevano le nove ci diceva: «Su, ragazzi, a letto, a letto! Viene l’uomo della
sabbia, mi par già di vederlo!». E io ogni volta sentivo veramente un passo lento e pesante che saliva su per le scale: doveva essere l’uomo della sabbia! Una volta quel camminare cupo e rintronante mi fece venire i brividi e alla mamma che ci conduceva via chiesi: «Mamma, chi è mai quel cattivo uomo della sabbia che ci allontana sempre dal babbo? che tipo è?». «Non esiste nessun uomo della sabbia, figliolo mio» rispose la mamma, «quando io vi dico che viene l’uomo della sabbia, voglio solo dire che voi siete assonnati e che non potete più tenere aperti gli occhi, come se si avessero gettato della sabbia». La risposta della mamma non mi accontentò; anzi, nella mia mente infantile sempre più chiaro si fece il pensiero che la mamma volesse negare l’esistenza dell’uomo della sabbia solo perché noi non dovessimo averne paura, tanto è vero che lo sentivo sempre salire le scale. Desideroso di voler vedere più da vicino questo uomo della sabbia e di sapere quali erano i suoi rapporti con i bambini, chiesi infine alla vecchia cui era affidata la mia sorellina minore chi fosse mai esso. «Oh, Niele» rispose costei «non lo sai ancora? Costui è un cattivo uomo, che viene dai bambini che non vogliono andare a letto e butta loro negli occhi manciate di sabbia fino a farglieli schizzare fuori sanguinanti dal capo; poi li prende, li mette in un sacco e li porta nella luna in pasto ai suoi figlioletti; questi stanno lassù in un nido e hanno il becco ricurvo come le civette e con questo beccano gli occhi
dei bambini cattivi». L’orribile immagine di quell'uomo crudele si impresse così nella mia mente e quando alla sera io
lo sentivo salire le scale, tremavo dall’angoscia e dal terrore. Mia madre riusciva solo a cavarmi dalla bocca questo grido balbettato tra le lacrime: «L’uomo della sabbia! L'uomo della sabbia!». Correvo quindi nella camera da letto e tutta la notte ero torturato dalla paurosa visione dell’uomo della sabbia. Quando fui abbastanza grande per comprendere che tutto ciò che mi era stato raccontato dalla governante dell’uomo della sabbia e della sua nidiata di figlioli nella luna non aveva nessun fondamento, l’uomo della sabbia per me continuava ad essere un fantasma pauroso ed ero sempre preso da vero terrore, non solo quando lo sentivo salire le scale ma sentendolo aprire anche la porta dello studio di mio padre ed entrarvi. Qualche volta non sì faceva vivo per molto tempo, ma poi veniva più fantasma volte di seguito. La cosa durò parecchi anni e io non riuscivo ad abituarmi all'idea di quel
rapporti con mio padre finila cui immagine odiosa non riuscì ad impallidire nella mia mente. I suoi
un terrore invincibile rono coll’ossessionare la mia fantasia. Avrei voluto interrogare mio padre, ma
favoloso uomo della me lo impediva. Io stesso, io solo, dovevo indagare nel mistero, dovevo vedere il in me. L'uomo radicò si sabbia: questo fu il mio più vivo desiderio che col passar degli anni sempre più si annida
facilmente della sabbia mi aveva messo sulla strada dell’avventura, del meraviglioso, che così storie di folletti, nell’animo dei fanciulli. Per me nulla di più bello che ascoltare o leggere le PRUAamo della senhia stava SIE di streghe, di pigmei, ecc. ecc., ma in cima a ogni mio desiderio e orribili atteggiamenti strani più nei io andavo ovunque, col gesso 0 serra disegnando
che
sugli
j utte le tavole. i PCI dei fanciulli in una piccola stanza camera dalla passare fece mi madre mia Di ciare A AA a quella di mio padre. Come sempre, quando battevano le nove e vicino ‘A0îc ssi casa nostra, nol dovevamo in tutta fretta allontanarci. in già lo sconosciuto lo si sentiva
che si apriva sul corridoio vicino ad
in
tutta fretta allontanarci. Dalla mia Hoffmann
212 per la casa si ip: bk; cameretta lo sentivo entrare dal babbo e subito dopo mi sembrava che o di fare in qualche Di i coraggi il me In a vapore dall’odore strano. Con la curiosità, sempre più crescev dalla mia cameretta i
oltre, la conoscenza dell’uomo della sabbia. Spesso, appena la mamma era già passata I quando clToeE sabbia, della l’uomo perché nulla vedere a o sgusciavo nel corridoio, ma non riusciv impulso spinto da un il punto dove avrei potuto vedere, era già entrato nella camera del babbo. Alla fine, sabbia. della l’uomo rvi aspetta per stessa camera nella dermi nascon irresistibile, decisi di 1 uomo della sabbia che Una sera, dal silenzio del babbo e dalla tristezza della mamma, compresi e mi nascosi vicino stanza la nove sarebbe venuto. Con la scusa che ero molto stanco, lasciai prima delle 3 . alla porta in un nascondiglio. Il portone di casa cigolò: dal vestibolo, su, verso la scala, rintronarono i passi lenti e pesanti. La mamma mi passò dinanzi con la sorellina. Piano piano aprii la porta della stanza del babbo. E gli, come al solito se ne stava seduto, muto e rigido, volgendo le spalle alla porta e non si accorse di me. Fui subito dentro, mi cacciai dietro la tendina, che era tesa su di un armadio aperto, vicino alla porta, dove il babbo teneva i suoi abiti. Sempre più vicino... sempre più vicino, risuonavano 1 passi... ecco... di fuori un tossire, uno scalpicciare, un borbottio strano. Nell'attesa angosciosa il cuore mi tremava. Ecco, proprio vicino alla porta un passo serrato... un colpo violento sulla maniglia... la porta sì spalanca con rumore! Facendomi animo, con cautela sporgo la testa. L’uomo della sabbia sta nel mezzo della stanza, davanti a mio padre: la luce chiara delle candele gli illumina il viso. L'uomo della sabbia, il tanto temuto uomo della sabbia, è il vecchio avvocato Coppelius, che qualche volta a mezzogiorno viene a mangiare da noi. Ma nessuna figura più mostruosa avrebbe potuto atterrirmi come quella di Coppelius. Immaginati un uomo alto, dalle spalle larghe, con una grossa testa informe, il viso terreo, le sopracciglia grigie e cespugliose, sotto le quali lampeggiano due occhi da gatto verdastri e pungenti e un naso grande e grosso cadente sopra il labbro superiore. La sua bocca si torce spesso in un sorriso malvagio; si vedono allora sulle guance due macchie scarlatte e uno strano sibilio gli passa attraverso i denti stretti. Coppelius compariva sempre con una giacca color cenere di taglio antico, il panciotto e i calzoni dello stesso colore, ma portava calze nere e le scarpe con piccole fibbie ornate di pietre. La piccola parrucca gli copriva a stento il cocuzzolo, i cernecchi! gli stavano appiccicati sopra le grandi orecchie rosse e una largha reticella per i capelli saltava fuori dalla nuca, lasciando vedere il fermaglio d’argento che teneva fissata la cravatta pieghettata. Tutto il suo aspetto era stomachevole e odioso; ma soprattutto a noi bambini facevano senso le sue mani pelose e nodose tanto che rifiutavamo tutto ciò che toccava. Egli ° se ne era accorto e si divertiva a toccare con un pretesto qualsiasi ora un pezzo di torta, ora un frutto dolce che la nostra buona mamma ci aveva messo sul piatto, cosicché, piangendo per lo schifo e per il ribrezzo, noi rinunciavamo a quelle ghiottonerie che dovevano darci gioia. La stessa cosa faceva nei giorni di festa, quando il babbo ci mesceva un bicchierino di buon vino: allora egli subito vi posava la mano oppure siportava addirittura il bicchiere alle labbra e rideva diabolicamente quando noi non riuscivamo a manifestare la nostra rabbia se non attraverso sommessi singhiozzi. Era abituato a chiamarci le bestiole. Lui presente, non dovevamo dire neppure una parola e non potevamo fare altro che maledire quel cattivo, odioso uomo che ci rovinava apposta anche il piacere più innocente. Anche la mamma sembrava che odiasse quel ripugnante Coppelius; appena infatti egli appariva, tutta la sua serenità, la sua natura gaia e semplice si mutava in una cupa tristezza. Mio padre invece di fronte a lui sì comportava come davanti a un essere superiore di cui si devono sopportare le scortesie e cercare di tenere alto a ogni costo il buon umore. Bastava che quello vi accennasse perché subito si preparassero cibi prelibati e si mescessero vini scelti. Quando dunque io vidi Coppelius, provai orrore e raccapriccio, perché solo lui poteva essere l’uomo della sabbia, ma l’uomo della sabbia per me non era certo lo spauracchio delle fole? della governante , quello che veniva a prendersi in pasto gli occhi dei bambini per le civette nella luna, no, certo; ma era un mostro orribile che, dove arrivava, portava con sé dolori e miserie, momentanee o perpetue.
Ero come affascinato. Col pericolo di essere scoperto e quindi severamente punito, rimasi dove ero, e origliavo sporgendo la testa dalla tendina. Mio padre accolse Coppelius con molto rispetto. «Su,
al lavoro » fece costui, con voce stridula, deponendo la giubba. Il babbo anche lui si tolse la veste da notte,
cupo e silenzioso e ambedue si misero lunghe tuniche nere. Dove le avessero prese non riuscii a vedere.
1. cernecchi: ciocche di capelli arruffate. 2. fole: favole.
Il Romanticismo
in Germania
215 prosaderop psn idiun supadio Stia ; ma vidi che quello che per tanto tempo avevo creduto Pica
( n cui stava un piccolo focolare. Coppelius sì avvicinò e vi accese una zzUrra e scoppiettante. Attorno vi stavano vari e strani oggetti. Dio mio! come era mutato mio padre mentresi chinava sul fuoco! Si sarebbe detto che un
dolore tremendo e
lancinante avesse trasfigurato i suoi lineamenti dolci e nobili in un demonio brutto e ributtant e. Assomigliava a Coppelius che con tenaglie arroventate toglieva dal denso fumo dei materiali sfavillant i che poi con grande energia martellava. Mi sembrava di vedere tutto attorno visi umani, ma senza occhi e, al posto di questi,
impresslonanti cavità nere. «Qua gli occhi, qua gli occhi» gridava Coppeliu s con voce cupa e tonante.
Preso da una paura selvaggia, mandai un grido e saltai fuori dal mio nascondi glio.
Coppelius mi afferrò: « Bestiola, bestiola!» belò digrignando identi... mi sollevò, mi buttò nel fuoco e la fiamma cominciò
a bruciarmi i capelli. «Ora abbiamo gli occhi, gli occhi... un bel paio di occhi di fanciullo». Così sussurrava Coppelius e con le mani prese dalla fiamma alcuni granelli incandescenti che voleva buttarmi negli occhi. Mio padre implorando alzò le mani e grido: «Maestro, maestro, lascia gli occhi al mio piccolo Nataniele, lasciaglieli». | Coppelius rise in modo stridulo e disse: «li tenga pure gli occhi il ragazzo per frignare nel mondo; ma ora osserviamo un po’ il meccanismo delle mani e dei piedi». E mi afferrò con violenza, le giunture scricchiolarono, mi svitò mani e piedi che andava poi rimettendo a posto: «Non tutti vanno bene! era meglio prima! Il vecchio aveva capito bene!» così sibilava e bisbigliava Coppelius, ma intorno a me vi erano le tenebre: una specie di convulso mi attraversò i nervi e le ossa e non sentii più nulla. Un dolce alito caldo mi accarezzò il viso. Mi ripresi come da un sonno mortale, la mamma stava china su di me. «E ancora qui l’uomo della sabbia?» balbettai. «No, figliolo caro: oramai se ne è andato, non può più farti del male» così diceva la mamma accarezzando e baciando il suo caro figliuolo ritrovato. Ma perché annoiarti oltre, mio carissimo Lotario? Perché raccontarti così distesamente ogni particolare, quando mi rimane ancora tanto da dire? Basta. Io fui scoperto ad origliare e maltrattato da Coppelius. La paura e l’angoscia mi fecero venire un febbrone per cui me ne stetti a letto qualche settimana. «L'uomo della sabbia è qui ancora?». Queste furono le prime parole sensate, e furono il segno della mia guarigione, della mia salvezza. da Racconti, traduzione di G. Fraccari, Mondadori, Milano 1951
ANALISI DEL TESTO Tra realtà e allucinazione
L’esplorazione dell’inconscio
L’interpretazione di Freud
Il racconto, di cui riportiamo alcune pagine significative, è tipico dell’arte di Hoffmann per la sua atmosfera da incubo, in cui i fatti restano sospesi in una zona incerta tra realtà e allucinazione. Si può avere il sospetto che tutta la scena dell'esperimento alchimistico sia frutto della fantasia eccitata e delle paure del fanciullo. Così il terrore che in Nathaniel ormai adulto suscita la figura di Coppola può essere ascritto alla sua latente follia, ma resta sempre il dubbio inquietante che l’incubo sia realtà. La figura di Coppelius-Coppola si carica così di valenze sinistre, vagamente demoniache. Avventurarsi nel regno degli incubi, delle allucinazioni, degli arcani terrori, della follia, significa esplorare il territorio buio della psiche, l’inconscio. La grande svolta segnata dall’arte romantica nella cultura occidentale fu proprio l'annessione di questo territorio affascinante e ignorato al campo della letteratura. Il fondatore stesso della psicanalisi, Sigmund Freud, riconosceva il suo debito nei confronti della cultura romantica. Non è un caso quindi che questo racconto abbia suscitato l'interesse di Freud, che ad esso ha dedicato alcune pagine in un famoso saggio del 1919, Il perturbante. Lo studioso sottolinea come il senso di ango-
scia e inquietudine creato dal racconto sia legato alla figura del “mago”
Coppelius ed alla
paura di vedersi strappati gli occhi che ossessiona il protagonista. E una tipica angoscia infantile e Freud, sulla scorta dello studio dei miti di varie epoche, dei sogni, delle fantasie dei nevrotici, la collega alla paura dell’evirazione. Il “ mago ” fa paura perché è un sostituto fantastico e simbolico del padre, da parte del quale, inconsciamente, sì teme ilcrudele intervento punitivo. Si tratta di fantasie inconsce legate al “complesso edipico”.
Hoffmann
214
T39) PROPOSTE DI LAVORO ne è quella di Nathaniel bambino; quali 1. Nella parte antologizzata del racconto il punto di vista della narrazio conseguenze per la narrazione implica questa scelta? che ne vengono date da Nathaniel, 2. Tracciare il ritratto di Coppelius, utilizzando le diverse rappresentazioni . Narratore dal , dalla madre di Nathaniel, dalla balia, dal padre di Nathaniel in cui è presente questa funzione. 3. Nel racconto ha grande importanza il “vedere”; rintracciare tutti ipunti del testo e di paura intorno 4. Cogliere tutti gli elementi presenti nella narrazione che creano :un’atmosfera di straordinarietà a Coppelius. di Freud, // 5. Riflettere sul valore che assume Coppelius come “doppio” del padre (utilizzare i suggerimenti i . perturbante) 6. Perché l’alchimia, che ha grande importanza nel racconto di Hoffmann, romantico?
desta l’interesse dello scrittore
e
+ Cfr. La critica, C11
M6
La teoria del “sublime” di Burke Radici storiche del “nero”
Walpole
Radcliffe
Il Romanticismo
Il romanzo
“nero”
È un genere di romanzo diffusosi in Inghilterra a partire dalla seconda metà del Settecento. Il termine usato nella letteratura inglese è propriamente “romanzo gotico”, ad indicare un gusto antitetico a quello luminoso e armonico del classicismo, un gusto per l’orrido e il tenebroso, quale si può riscontrare nel Medio Evo “gotico”, appunto. L'amore per il misterioso ed il tenebroso, per l'orrore ed il terrore si collega con la teoria del “sublime” di Edmund Burke (1729-1797), espressa
nelle Indagini filosofiche sulle idee del sublime e del bello (1756). Burke individua un particolare “sublime del terrore”, che scaturisce da soggetti cupi e terrificanti e che, proprio attraverso il terrore, può dare una forma di piacere. Ma questo gusto per il “nero” ha evidentemente radici molto profonde nel clima di un dato momento storico. È un sintomo eloquente di ciò che si agitava nell'anima europea, specie in Inghilterra, in un’età di grandiose trasformazioni e di terribili tensioni, quale la seconda metà del Settecento. Gli sconvolgimenti delle grandi rivoluzioni, quella politica e quella industriale, che distruggevano un assetto secolare, nella vita materiale come in quella spirituale (cfr. Quadro di riferimento II, $ 4.2), non potevano non generare smarrimento e angoscia. La paura proiettata nelle vicende romanzesche “gotiche” esprimeva questa paura più profonda e inconscia e al tempo stesso, attraverso il piacere estetico, la esorcizzava. Ma l’insistenza sull’orrore può essere vista anche da un’altra angolatura: la crisi vissuta dall'anima europea induceva ad abbandonare le grandi impalcature della ragione che sino ad allora avevano sistemato nella loro struttura rassicurante tutte le manifestazioni della realtà, e di conseguenza apriva la strada ad un’esplorazione delle zone oscure della coscienza, dove si agitano gli impulsi più inquietanti. E questa, come si è visto, una delle principali direttrici del Romanticismo. Il romanzo “nero” è appunto una delle prime manifestazioni di questa ricerca, anche se talora la traduce in forme rozze, intese più che altro ad ottenere il successo suscitando nel pubblico forti emozioni. Ma il “nero”, inteso come affascinata esplorazione della dimensione del Male che è al fondo della nostra anima, è destinato a percorrere tutta la letteratura moderna, in forme ben più sottili ed inquietanti, sino ai giorni nostri. L’iniziatore del genere può essere ritenuto Horace Walpole (1717-1797), con Il castello di Otranto (1764): compare già in questo romanzo la caratteristica ambien, tazione italiana (nell’immaginario inglese l’Italia era un paese esotico, di foschi intrighi e di crudeli delitti), nonché lo scenario del castello in cui si verificano sovrannaturali apparizioni. La rappresentante più tipica è Ann Radcliffe (cfr. A16), con 1 suol romanzi fondati sulla persecuzione di soavi fanciulle da parte di tenebrosi
in Germania
215 malvagi. Famoso è anche Il monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis (1775-1818),
Lewis
In cul un monaco, su istigazione del demonio che ha assunto seducenti forme femminili, perseguita la pura eroina. Se nella Radcliffe permaneva lo scrupolo illumi-
Nistico di cercare spiegazioni razionali dei fenomeni misteriosi, Lewis si immerge
Mary Shelley
Maturin Poe
invece fino in fondo nel soprannaturale, accumulando a piene mani atrocità, orrore, sacrilegi, erotismo perverso. Con il Frankenstein di Mary Shelley (1817) il genere sì solleva di livello, dando una densa rappresentazione simbolica dei terrori profondi dell’età (cfr. T41). Nel 1820 esce ancora Melmoth l’errante di Charles Robert Maturin (1782-1824) che ha al centro un altro tenebroso eroe del male, condannato ad errare perpetuamente sulla terra. Il genere “nero”, incentrato sul mistero, l’orrore e il terrore sarà portato ai massimi livelli da Edgar Allan Poe (cfr. A24 e T49), ma elementi neri si trovano anche negli altri grandi narratori americani
«Melville
Stoker
«Sade
Il “nero” in Italia
I promessi sposi e il “nero”
La perseguitata
dell'Ottocento, come il Melville di Moby Dick (cfr. A25 e T50). A fine secolo il genere offrirà ancora un interessante campione con il Dracula (1897) di Bram Stoker (1847-1912), che propone il tema del vampiro, altro motivo che, come quello del “mostro”, ossessiona l'immaginario collettivo, come testimonia la sua ripresa costante nel cinema. Singolare analogia con il romanzo “nero” hanno i romanzi di Sade (1740-1814), Justine, 0 le sventure della virtù (1791) e Juliette, o la prosperità del vizio (1797), incentrati anch’essi sulla persecuzione di una casta eroina da parte di infernali malvagi, che si chiudono in inaccessibili castelli o monasteri per compiere le loro nefandezze. Ma in Sade il racconto è piegato alla dimostrazione di tesi filosofiche, secondo le quali compiere il male significa agire conformemente alle leggi di natura. In Italia il genere “nero” non trova posto nella prima fase del Romanticismo: comparirà solo più tardi, con la Scapigliatura, soprattutto dietro suggestione dei racconti di Poe (cfr. Parte III, La Scapigliatura). Ma elementi di “nero”, sia pure attraverso il filtro moderato proprio del nostro Romanticismo, si possono riscontrare nella narrativa del primo Ottocento. Un esempio suggestivo è fornito proprio dai Promessi sposî. A quanto testimonia il figliastro Stefano Stampa nelle sue memorie, Manzoni in gioventù aveva letto questo genere di romanzi, e aveva meditato di scrivere anch’egli un «romanzo fantastico». Le tracce di questo romanzo non scritto si possono riconoscere nella filigrana del capolavoro manzoniano. Lo schema delle peripezie di Lucia, l’innocente fanciulla che, insidiata da un nobile dissoluto e arrogante, crede di trovare rifugio sicuro in un monastero e invece cade nelle mani di una monaca corrotta e assassina, con la cui complicità viene rapita da brutali sgherri e tenuta prigioniera nel castello di un «terribile uomo», circondato da una fama infernale di delitti e da un'atmosfera di mistero, ricorda lo schema
Monasteri
e castelli
dei romanzi “neri” di Lewis e della Radcliffe: l'innocenza perseguitata di Lucia si colloca a buon diritto accanto a quella dell’ Antonia del Monaco, che subisce la violenza del perverso monaco Ambrosio, della Emily dei Misteri di Udolpho, rinchiusa dal crudele Montoni nel sinistro castello di Udolpho, della Ellen dell’Italtano, vittima delle trame del satanico Schedoni, rapita da sicari, trasportata in carrozza in un solitario convento sui monti degli Abruzzi e tenuta prigioniera dalla badessa. Parimenti gli sfondi su cui l’eroina manzoniana si muove, il monastero pieno di misteri dove cova il delitto, il castello sinistro e inaccessibile del grande fuorilegge, hanno un’inconfondibile aria di famiglia con i monasteri ed i castelli in cui quelle infelici eroine subiscono le loro traversie. Anche i malvagi che perseguitano Lucia, l’innominato e Gertrude, hanno tratti che li accomunano alla lontana con i malvagi dei romanzi “neri”: il mistero e il terrore che circonda l’innominato, «un uomo 0 un diavolo», come lo vede don Rodrigo, il peso dei terribili quanto misteriosi delitti che grava sulla monaca di Monza. Persino il ritratto fisico di Gertrude ha alcuni tratti che richiamano quello di Schedoni, oltre quello dell'eroe byroniano che da Schedoni deriva (cfr. a riguardo G. Getto, I capitoli «francesi» dei Promessi sposi, in Manzoni europeo, Mursia, Milano 1971). Sul romanzo “nero” si è scritto molto, anche recentemente; suggeriamo solo e il diavolo, alcuni titoli particolarmente significativi: M. Praz, La carne, la morte , DESIO AMEVICANO TOMANZO nel Firenze, Sansoni 1948; L. Fiedler, Amore e morte lettenella sociale ario l'immagin e paura La Runcini, Longanesi, Milano 1963; R. della paura, Dialettica Moretti, F. 1984; Napoli Liguori, Romance, Gothic Il ratura,. in Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino 1987. Microsaggio
216 3.I1 Romanticismo in Inghilterra A16. Ann Radcliffe Nata a Londra nel 1764 e morta nel 1828, è la più tipica rappresentante del romanzo “nero” 0 “gotico” (cfr. M6). Non è ancora propriamente ascrivibile al movimento romantico, ma il “nero” sarà poi, nell'Ottocento, uno dei filoni centrali del Romanticismo. I suoi romanzi (I misteri di Udolpho, 1794; L'italiano, 0 dl confessionale dei penitenti neri, 1797) si incentrano sulle vicende di fanciulle perseguitate da un uomo misterioso e malvagio e si svolgono in paesaggi pittoreschi e selvaggi, di preferenza italiani, o su sfondi tenebrosi, sinistri castelli, cupi monasteri dove si cela il delitto, sotterranei dove avvengono torture o apparizioni spettrali.
da L'italiano, o il confessionale dei penitenti neri
Un archetipo dell’eroe maledetto È il ritratto del monaco Schedoni, il “malvagio” del romanzo, V’ar-
tefice di tutte le peripezie dei due giovani protagonisti, Elena e Vivaldi (dal vol. I, cap. II).
Viveva nel convento domenicano dello Spirito Santo, a Napoli, un uomo chiamato padre Schedoni; un italiano, come il nome indicava, di oscure origini sulle quali, in alcune circostanze, era apparso desideroso di gettare un velo impenetrabile. Quali che fossero le ragioni, non fu mai udito menzionare un parente o il proprio luogo di nascita, ma eludere abilmente ogni domanda che abbordasse l’argomento dal quale la curiosità dei suoi confratelli era stata in varie occasioni stimolata. C’erano tuttavia dei sintomi che permettevano di crederlo di nobile nascita, caduto poi in bassa fortuna; il suo spirito,
come talvolta emergeva dal travestimento delle abitudini, sembrava elevato. Non rivelava tuttavia gli slanci di un animo generoso ma piuttosto il cupo orgoglio di un essere deluso. Pochi membri del convento, incuriositi dalla sua comparsa, credettero che l'originalità delle sue maniere, il severo riserbo
e l’irremovibile silenzio, le abitudini solitarie e le sue frequenti penitenze fossero l’effetto di sventure che tormentavano uno spirito altezzoso e sconvolto; altri invece giudicavano tutto ciò la conseguenza di qualche orrendo delitto che macerava la sua intima coscienza. C'erano momenti in cui avrebbe voluto sottrarsi per sempre alla compagnia e quando, con tale inclinazione, era costretto a unirsi ai suoi simili, pareva non sapere dove fosse e restava immerso nel silen-
zio e nella meditazione fin quando non si trovava di nuovo solo. Altre volte poi non si sapeva dove
sì fosse ritirato nonostante l’attenzione con cui si seguivano i suoi passi e si controllavano i suoi abituali nascondigli. Nessuno però lo udì mai lamentarsi. I confratelli più anziani del convento gli attribuivano ingegno negando però la sua cultura; lo esaltavano per la profonda sottigliezza in cui in varie occasioni aveva dato prova ma osservavano che ben di rado era in grado di cogliere la verità quando era evidente; sapeva seguirla attraverso tutti i labirinti della disquisizione ma gli sfuggiva quando gli era davanti agli occhi. In effetti, non s’interessava alla verità né la perseguiva con ampie e valide argomentazioni ma amava esercitare l’astuzia raffinata della sua natura nel darle la caccia attraverso artificiali tortuosità.
. Nessuno dei suoi confratelli lo amava; a molti era sgradito, i più lo temevano. La sua figura colpiva, ma non per la grazia; era alto e, sebbene estremamente sottile, aveva membra grandi e sgra-
ziate e, nel procedere con andatura maestosa, avvolto nella tonaca nera del suo ordine, aveva un’aria terribile, un qualcosa di soprannaturale. Il cappuccio, gettando un'ombra sul livido pallore del suo volto ne accresceva la severità fino al punto da destare quasi orrore, anche per l’effetto dei grandi occhi i Il Romanticismo
in Inghilterra
217 melanconici; una melanconia che non era quella di un cuore sensibile e ferito ma piuttosto quella di
una natura cupa e feroce. C'era qualcosa nella sua fisionomia di estremamente singolare che non si può definire con facilità. Essa recava le tracce di molte passioni, ormai spente, ma che si erano impresse
in modo indelebile. Una abituale cupezza e alterigia predominavano sulle linee profonde del volto e i suoi occhi erano così penetranti che, in un sol colpo, parevano scendere nel cuore altrui e leggere 1 più riposti pensieri. Poche persone potevano reggere la loro indagine o persino sopportare di incontrarli due volte. Tuttavia, nonostante tutto quel grigiore e quella durezza, nelle rare occasioni in cui aveva rivelato qualche interesse, si era destato in lui un temperamento del tutto diverso talché sapeva
adeguarsi agli stati d’animo e alle passioni delle persone che voleva farsi amiche, con sorprendente .
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facilità e in genere con pieno successo.
da L'italiano, 0 il confessionale dei penitenti neri, traduzione di G. Spina, Sugar, Milano 1970
ANALISI DEL TESTO Il ritratto dell’eroe maledetto
Un’incarnazione del Maligno
| Individuiamo gli elementi fondamentali che compongono il ritratto del monaco: le sue origini sono «oscure» e su di esse il personaggio getta un «velo impenetrabile»; ha dietro di sé un misterioso passato: forse lo tormenta il ricordo di grandi sventure, o forse di qualche «orrendo delitto»; fugge gli altri uomini e si circonda di solitudine; sparge il timore intorno a sé con la sola sua presenza. L’aspetto fisico si intona a questo clima “maledetto”, misterioso e terribile: la sua figura grande e maestosa ha qualcosa di sovrannaturale; il livido pallore del viso è avvolto dall’ombra del cappuccio e ispira quasi orrore; gli occhi malinconici tradiscono una natura «cupa e feroce»; sul suo volto vi sono le tracce di molte passioni; i suoi occhi sono penetranti e pochi possono reggere la loro indagine; è feroce e malvagio, ma da lui spira qualcosa di grandioso e affascinante. Vi è tuttavia un particolare rivelatore, che è la vera e propria chiave per capire il significato profondo di questa figura, «il cupo orgoglio di un essere deluso»: è questo il carattere che il Romanticismo, su suggestione del Paradiso perduto di Milton, attribuirà a Satana, il più bello degli angeli, che per superbia tentò la ribellione a Dio; sconfitto e precipitato nell’inferno, grava ora su di lui una tremenda maledizione, accompagnata però anche dal feroce orgoglio di aver tentato la smisurata impresa. Schedoni, insomma, è una segreta incarnazione del Maligno, e il fascino che da
lui emana insieme col terrore è il fascino del Male, potentemente sentito dall’età romantica. Tanti eroi “satanici” e “maledetti” che verranno dopo di lui, a cominciare dall’eroe byroniano (cfr. T44), ne trarranno suggestioni. Su questi problemi, si può vedere uno studio ormai classico, M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, cit.,
cap. II, Le metamorfosi di Satana.
ì PROPOSTE DI LAVORO to il personaggio, individuare gli elementi tipici 1. Dopo avere riflettuto sulla tecnica con la quale viene presenta ).
che lo circonda dell'eroe satanico romantico (ad esempio l’aria di mistero Manzoni nel cap. XIX dei Promessi sposi e con 2. Confrontare questo ritratto con quello sull’inmmominato dato da ie? tari delle analog quello in precedenza offerto di Gertrude. Ci sono di Malachia. aggio person del ito propos a Confrontare anche con // nome della rosa di Umberto Eco,
del Maligno, e la Tigre di Blake? (cfr. T42). 3. C'è qualche rapporto tra Schedoni, segreta incarnazione
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+ Cfr. La critica, C12 Radcliffe
218 A17. Mary Shelley Nata a Londra nel 1797, era figlia di William Godwin, filosofo di idee anarchicocomuniste, e di Mary Wollstonecraft, autrice di opere femministe, che morì nel darla
alla luce. La sua infanzia fu cupa e infelice, e tutta la sua vita fu segnata dalla depres-
sione. Era una fanciulla ardita, imperiosa, di brillante intelligenza. A sedici anni incontrò Shelley (cfr. A21) e fuggì con lui, sposandolo nel 1316, quando la prima moglie
del poeta si uccise. Seguì Shelley in Italia, in una vita disordinata, funestata da vari lutti. Quando Shelley morì in mare, si trovò vedova a 25 anni, senza risorse, e si gettò nel lavoro scrivendo numerosi romanzi e opere di varia natura. Morì nel 1851.
BM Frankenstein,
ovvero il Prometeo
moderno
L’opera più famosa di Mary Shelley è il romanzo Frankenstein, che nacque nel 1816 sul lago di Ginevra, dove Mary, il marito e Byron trascorrevano l’estate. Appartiene al genere del “racconto del terrore”, “gotico”, che aveva goduto di larga fortuna in Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento (cfr. M6). Frankenstein è un giovane scienziato ginevrino, che, spinto dall’ardore della ricerca scientifica, trova il modo di creare la vita. Costruisce così una creatura umana con pezzi di cadaveri, ma è atterrito dalla mostruosità della sua creazione. Il mostro fugge, e si macchia di orribili delitti, uccidendo il fratellino di Frankenstein e facendo cadere la colpa sulla governante, che viene giustiziata. Durante un’escursione sul monte Bianco, Frankenstein incontra il mostro, che si è rifugiato sulle vette inaccessibili, e che gli racconta la sua storia. In lui vi era una nativa bontà e gentilezza, un bisogno di amore e comunione con gli uomini; ma gli uomini lo | avevano respinto e perseguitato, terrorizzati dalla sua mostruosità. L’infelicità l'aveva così reso malvagio, generando il lui il desiderio di vendicarsi del suo creatore, che non si era curato di lui. Chiede perciò allo scienziato di creargli una compagna, che lo ami e divida con lui la sua solitudine. Frankenstein promette, e si ritira a lavorare nel desolato paesaggio nordico delle isole Orcadi; ma poi, inorridito dalla prospettiva di una progenie di mostri che possa giungere a popolare la terra, non mantiene fede all’impegno. Il mostro si vendica uccidendo il più caro amico e la moglie dello scienziato, la sera stessa delle nozze. Frankenstein gli dà la caccia nei luoghi più remoti e selvaggi, sino ai ghiacci dell’artico. Ma qui, sfinito, muore, dopo aver raccontato la sua storia al capitano della nave che l’ha raccolto. Il mostro, ormai pago della sua vendetta, ricompare, esternando sulla bara del suo creatore la sua infelicità e disperazione, e si dilegua nelle tenebre, in cerca dell’autodistruzione.
La scienza trasgressiva che genera mostri Il passo è tratto dai capp. III e IV.
Dalla vostra ansia, dalla meraviglia e dalla speranza che i vostri occhi esprimono, amico mio, vedo che vi aspettate di conoscere il segreto che vi ho svelato. È impossibile: ascoltatemi con pazienza fino al termine del mio racconto e comprenderete facilmente perché sono riservato su questo punto. Non voglio condurvi, inesperto ed ardente come ero io allora, a una sicura rovina. Imparate da me - se non dai miei consigli, dal mio esempio - quanto pericoloso sia l'acquisto della scienza, quanto più felice
sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura consenta. Come mi trovai fra le mani un potere così sbalorditivo, esitai a lungo circa il modo di utilizzarlo. Per quanto possedessi la capacità di suscitare la vita, pure la creazione di una forma atta a riceverla
con tutti1suoi intrichi di fibre, di muscoli e di vene, restava sempre un'impresa di difficoltà e di fatica inconcepi
bili. Fui incerto dapprima se tentare la creazione di un essere come me o quella di un organismo più semplice, ma la mia immaginazione era troppo esaltata dal successo conseguito, per permettermi
di dubitare della mia capacità di dar vita ad un animale complesso e meravigl ioso come l’uomo I materiali cui potevo in quel momento ricorrere apparivano inadeguati ad un’impresa così ardua. Mi
Il Romanticismo
in Inghilterra
219 | preparai a una serie di insuccessi: forse i miei sforzi sarebbero stati continu amente delusi, e forse alla
la mia opera sarebbe riuscita imperfetta; pure, quando consideravo i quotidiani progressi della | fine scienza e della meccanica, ero Incoraggiato a sperare che i miei tentativi avrebbero almeno gettato le basi di una futura vittoria. Né la grandezza e la complessità del mio piano mi appariva no come indici della sua pratica inattuabilità. Così mi accinsi alla creazione di un essere umano. Poiché la piccolezza
degli organi rappresentava un grande ostacolo alla mia fretta, decisi, contrariamente alla mia inten-
zione, di costruire una creatura gigantesca, alta otto piedi circa e robusta in proporzione. Presa que-
sta risoluzione, Impiegai proficuamente alcuni mesi a raccogliere e ad apprestare ciò che mi era necessario, poi mi misi all’opera.
Nessuno può immaginare la complessità dei sentimenti che, come un uragano, mi travolsero nel
primo entusiasmo del successo. Vita e morte mi apparivano legami ideali che io per primo avrei potuto spezzare, rovesciando sul nostro buio mondo un torrente di luce. Una nuova specie mi avrebbe bene-
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detto come sua origine e creatore; molti esseri eccellenti e felici avrebbero dovuta a me la loro esistenza. Nessun padre avrebbe avuto diritto alla gratitudine dei figli così completamente come io mi
sarei meritata da loro. Seguendo il corso di tali riflessioni, pensai che, se potevo animare materia inerte, avrei potuto con l’andare del tempo (anche se ciò mi era per il momento impossibile) rinnovare la vita là dove la morte sembrava aver votato il corpo alla distruzione. Tali pensieri valsero a sostenere il mio spirito mentre continuavo nella mia impresa con ardore instancabile. Le mie guance si erano fatte pallide per lo studio, il mio corpo emaciato per l'isolamento. Spesso, sull’orlo della certezza, fallivo; pure mi abbarbicavo alla speranza che il giorno o l’ora seguente potessero segnare il mio successo. Io solo possedevo il segreto della mia attività, e la luna era spettatrice delle mie fatiche notturne mentre, con costanza incrollabile e ansiosa, penetravo nei misteri della natura. Chi può immaginare gli orrori del mio lavoro segreto, quando mi calavo nelle umide profondità di una tomba, o torturavo gli animali vivi per animare la creta inerte? Al ricordo, le ginocchia mi tremano e tutto mi ondeggia davanti agli occhi, ma allora un impulso irresistibile e quasi frenetico mi spingeva innanzi; sembrava che anima e sensi mi fossero rimasti per quest’unico scopo. Ma fu solo una esaltazione passeggera, che valse unicamente ad acuire la mia sensibilità quando, scomparso lo stimolo innaturale, mi riuscì di tornare alle vecchie abitudini. Raccolsi ossa da cripte e profanai i segreti del corpo umano. Attrezzai il mio misterioso laboratorio in una camera solitaria, o meglio in una soffitta, separata dagli appartamenti mediante un corridoio e una rampa di scale. Gli occhi quasi mi schizzavano dalle orbite mentre seguivo i particolari del mio lavoro. Sala anatomica e mattatoio! mi fornivano buona parte di ciò che mi occorreva; spesso la mia natura si ritraeva disgustata da quello di cui mi stavo occupando, mentre, spinto da un’ansia sempre crescente, progredivo nel mio lavoro e i lo avviavo alla conclusione. stagione I mesi estivi passarono mentre mi dedicavo corpo e animaa questo solo scopo. Fu una
splendida: mai i campi diedero messe più abbondante, mai le viti fornirono più ricca vendemmia: ma i miei occhi erano insensibili alle grazie della natura. E gli stessi sentimenti, che mi facevano trascurare il mondo circostante, mi spinsero a dimenticare gli amici lontani che non vedevo da tanto tempo.
[...] Ma non potevo distogliere i miei pensieri dal lavoro che, repugnante in se stesso, sì era Impa-
dronito irresistibilmente della mia immaginazione. Desideravo rimandare ogni manifestazione di affetto i al giorno in cui avessi raggiunto l’obiettivo che teneva occupata ogni fibra del mio essere. mia la negligenza a o colpa a attribuito avesse se ingiusto stato Pensavo che mio padre sarebbe
trascuratezza; oggi invece sono convinto che aveva ragione a Immaginare che io non fossi esente da a colpa. Un essere umano perfetto deve sempre conservare equilibrio e serenità, senza permettere passione o a desiderio transitori di turbar la sua quiete. Non credo che la ricerca del SI -* ea senti un’eccezione a questa regola. Se lo studio cui vi dedicate tende a indebolire i vostri a illecito, certo è studio distruggere la vostra inclinazione per le gioie più semplici e più pure, quello
estate; ma io DOS cioè non si adatta alla mente umana. [...] Passarono così Inverno, primavera ed Sue profondaSR di il graduale fiorire delle piante — spettacolo che sempre mi aveva colmato prima che mente ero occupato nei miei studi. Le foglie, quell’anno, si disseccarono
1l mio lavoro s avvi-
1. Sala anatomica e mattatoio: Frankencostruisce la sua creatura con pezzi stein .
di cadaveri e pezzi di animali macellati.
M. Shelley
220 mo era ottenecinasse alla meta, ma ogni giorno più mi vedevo vicino al successo. Pure ilmio entusias sembravo uno favorita, ne brato dall’ansia, ed io, più che un artista che si dedichi alla sua occupazio notte ero torOgni o. commerci triste schiavo condannato a faticare nelle miniere o a qualche altro più temevo tanto che questi, disturbi, imo: mentato da una febbre leggera, e inoltre mi ero fatto nervosiss nervi. miei dei solidità sulla giurato avevo sempre e in quanto avevo fino allora goduto ottima salute l’uno ripromisi mi e sintomi, e tali scomparir fatto presto Ma pensavo che moto e svaghi avrebbero (I i compiuta. stata fosse creazione e gli altri, quando la mia Era una cupa notte di novembre quando vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti atti ad infondere la scintilla di vita nell’essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era quasi l’una del mattino; la pioggia batteva monotona contro le imposte e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica, e un moto convulso le agitò le membra. i Come descrivere le mie emozioni dinanzi a questa catastrofe, o come dare un’idea dell’infelice che, con cura e pena infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra erano proporzionate, ed avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo, in cui erano collocati, con la sua pelle grinzosa e con le sue labbra nere e diritte. I casi della vita non sono così mutevoli come i sentimenti della natura umana. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo mi ero negato riposo e salute. Avevo desiderato il successo con un ardore che trascendeva ogni moderazione; ma ora che vi ero giunto, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore era pieno di un orrore e di un disgusto indicibili. Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori del laboratorio e passeggiai a lungo su e giù per la mia camera da letto, senza decidermi a prender sonno. Alla fine la stanchezza subentrò al tumulto che prima mi aveva scosso, e mi gettai sul letto, vestito com’ero, sforzandomi di trovare qualche istante d’oblio. Invano: dormii, sì, ma il mio sonno fu disturbato dagli incubi più spaventosi. Mi pareva di vedere Elisabetta? che, nel fiore della salute, passeggiava per le strade di Ingolstad. La abbracciavo con gioiosa sorpresa, ma le labbra, che le sfioravo nel primo bacio, assumevano il pallore livido della morte, i suoi lineamenti mutavano, ed ecco che io stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario ne ricopriva le forme, ed io potevo vedere
i vermi che strisciavano sotto i lembi della stoffa. Inorridito, mi scossi dal sonno; un sudore gelido mi copriva la fronte, i denti mi battevano, tremavo convulso in tutte le membra; poi, al chiarore incerto
e giallo della luna che filtrava attraverso le imposte, scorsi lo sciagurato, il miserabile mostro che io
avevo creato. Sollevò le cortine del letto, ed i suoi occhi, se occhi possono chiamarsi, si fissarono su
di me. Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre una smorfia gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii; aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi, ma fuggii e mi precipitai giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa dove abitavo, e lì rimasi per il resto della notte, camminando in su e in giù agitatissimo, tendendo ansiosamente l’orecchio e sussultando di paura ad ogni rumore, quasi esso mi annunciasse l’avvicinarsi dell’essere demoniaco cui così folle-
mente avevo dato la vita. Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto! Una mummia ritornataa vita non avrebbe potuto essere più spaventosa. Lo avevo osservato quando era incompiu to: era già brutto allora; ma quando muscoli e giunture erano stati resi capaci di moto, era diventat o qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire. da Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno, traduzione di B. Tasso, Rizzoli, Milano 1975 2. Elisabetta: la cugina e futura moglie.
Il Romanticismo
in Inghilterra
221 ANALISI DEL TESTO Ri romanzo della Shelley è molto importante, poiché dà una rappresentazione simbolica
di qualcosa
La scienza trasgressiva
che doveva essere radicato profondamente nella civiltà europea, tant'è vero
che ilmostro di Frankenstein è entrato a far parte dell'immaginario collettivo, ed è stato continuamente ripreso in seguito, sino ai giorni nostri, anche dai mezzi di comunicazione di massa (sono numerose le trascrizioni cinematografiche). Le pagine riportate mettono in evidenza un tema centrale del romanzo: la scienza trasgressiva, che viola i limiti segnati per la conoscenza umana, e si configura come colpa “satanica , come smisurato peccato d’orgoglio simile a quello originario di Lucifero, che perciò non può che attirare maledizione e sventura (come si è già osservato per la Radcliffe, il “nero” è strettamente legato alla tematica del satanismo, fondamentale nel Romanticismo). Lo studioso, trascinato dal suo folle orgoglio scientifico, sfida Dio, sostituendosi a lui e attribuendo all'uomo le prerogative della creazione della vita. Da qui il sottotitolo del romanzo, che allude a Prometeo, il titano che nella mitologia greca aveva forgiato gli uomini colla creta, violando un divieto degli dèi (Prometeo è una figura molto cara alla letteratura romantica, trattata da Goethe, Shelley, Byron). Questa visione negativa della scienza si spiega se collocata in un’età in cui le scoperte
Il mostro, simbolo dell’industrialismo
Il mostro, metafora del fallimento rivoluzionario
Il tema del
“doppio”
La struttura narrativa
scientifiche avevano partorito il “mostro” dell’industrialismo e della macchina, che distruggeva tutto un mondo del passato, generando smarrimento, miseria materiale e sofferenza. La rivoluzione industriale, in forme dirette o metaforiche, è uno dei grandi temi della letteratura di questo periodo. Il mostro di Frankenstein può essere visto perciò come metafora di questo “mostro”, che sfugge di mano all’uomo suo creatore, ritorcendosi contro di lui, e finendo per tiranneggiarlo e distruggerlo. Oppure può essere interpretato come metafora della classe operaia creata dall’industrialismo, che viene sentita con paura come una forza ostile che minaccia l’assetto vigente (è questa l’interpretazione proposta da un saggio affascinante di F. Moretti, Dialettica della paura, in Segni e stili del moderno cit., 1987). Questa paura della scienza, che può creare “mostri”, percorre tutto l’Ottocento, ed è ben viva ancor oggi, in un’epoca di enorme sviluppo tecnologico. Il segreto terrore che ispira la scienza è l’altra faccia dell’esaltazione entusiastica del progresso che è un luogo comune della nostra cultura. Non è difficile individuare questa paura in tutta una serie di romanzi, film, fumetti del genere fantascientifico, che si fondano sull’horror, ed hanno le loro lontane radici nel “nero” romantico (si pensi al tema ossessivo dei robot o degli androidi). In un’altra chiave
ancora, il mostro può essere letto come metafora delle illusioni “prometeiche” della Rivoluzione francese, che aspirava a creare l’uomo nuovo, e che aveva finito per partorire i “mostri” del Terrore giacobino. E un’interpretazione che non esclude affatto le altre, anzi, può essere complementare ad esse: un simbolo è sempre denso di più significati compresenti; ed il romanzo della Shelley è appunto di grande densità. Una lettura completa del romanzo (che si consiglia) può suggerire ancora un’altra chiave interpretativa. Il mostro appare come l’obiettivazione del male che è nello scienziato stesso, dei suoi impulsi inconsciamente distruttivi verso le persone care. Infatti il mostro da lui creato, e che gli sfugge di mano, causa la morte del fratello, dell’amico, della moglie, del
padre, e quella di Frankenstein stesso; lo scienziato è costantemente ossessionato dal rimorso per tutto ciò, ed asserisce di esser lui il vero responsabile, il vero assassino. La creazione della vita da parte di Frankenstein sarebbe allora una “negazione ” in senso freudiano, cioè una manifestazione mascherata e rovesciata di questo suo impulso di dare la morte;ilmostro, in altri termini, sarebbe il suo “doppio”. In tal senso, il romanzo appare denso di anticipazioni psicanalitiche, e precorre un altro testo capitale e famosissimo, come Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson, in cui un altro scien-
ziato trasgressore con i suoi esperimenti trova ilmodo di far emergere l’altra personalità che è in lui, quella malvagia, che prende corpo in un suo “doppio” omicida. parte È interessante anche la costruzione narrativa del romanzo. La vicenda è per gran
o; però narrata da Frankenstein stesso al capitano che lo ha raccolto tra Ìghiacci dell’Artic
sue illusioni nella vi è tutta una sezione in cui il mostro narra allo scienziato la storia delle tremenda deludella nobili, i possibilità di entrare nella comunità umana, dei suoi sentiment diversi punti due così hanno Si assassino. un e sione che fa di lui un infelice, un disperato a ed il lettore è portato di vista sulla vicenda: si ha anche il modo di vedere del mostro,
sue sventure. conoscere le sue ragioni e a partecipare emotivamente alle
M. Shelley
GER
| PROPOSTE DI LAVORO bun 1. Qual è il punto di vista della narrazione? 2. Alla luce del clima sociale e storico nel quale il romanzo nacque (1817) da una scrittrice di cultura inglese, come si spiega il giudizio limitante sulla scienza, espresso nel primo capoverso?
3. Cercare nel testo i particolari che connotano la ricerca scientifica di Frankenstein come “satanica ” (ad esem.. pio in quali luoghi si svolge la ricerca? Qual è lo stato d’animo dello scienziato? | risultati della sua ricerca. possono essere portati alla conoscenza di tutti?). 4. Tenendo presenti i successivi sviluppi della vicenda, riflettere sul significato dell’incubo di Frankenstein. 5. Quale atteggiamento ha il narratore nei confronti della sua scoperta trasgressiva? In quale punto del racconto lo si può cogliere? 6. Tenendo conto dei vari valori simbolici che ha il mostro creato da Frankenstein, riflettere sul significato della sua spaventosa bruttezza.
A18. William Blake Blake non appartiene cronologicamente alla generazione romantica; tuttavia del Romanticismo si può ritenere un precursore, anzi, se si intende il termine “romantico” nell’accezione storica più vasta (cfr. Quadro di riferimento II, $ 1), appare uno — dei rappresentanti più tipici del Romanticismo europeo. Nato nel 1757 a Londra dove visse fino alla morte, nel 1827 , fu incisore e pittore
Un poeta profeta
Le opere
Il Romanticismo
(cfr. Arte 7, fig. 16) oltre che poeta, e proprio con l’attività di incisore si guadagnava da vivere. Era politicamente rivoluzionario, vicino ai circoli che esaltavano la Rivoluzione francese, e per questo, nel 1790, fu arrestato e accusato di sedizione. Ma era anche un visionario, attratto da concezioni esoteriche e occultistiche. Si presentava
come poeta-profeta, sulla linea di John Milton, l’autore del Paradiso perduto (1608-1674). In Gerusalemme (1804-1820) vagheggia un’unione di tutti i popoli in una comune civiltà, e in questa prospettiva visionaria si scaglia contro i mali del presente, le guerre di conquista, la tratta degli schiavi, ogni forma di oppressione o di convenzione sociale. Nella nascente industria vedeva un nuovo nemico dell’umanità, nelle fabbriche e negli altiformi una nuova sorta di inferno. Riteneva che l’Apocalisse si stesse già verificando nei suoi tempi, in questo incalzare di trasformazioni. La sua concezione visionaria e profetica si trasferiva nelle sue opere: i Canti dell'innocenza (1798), Il matrimonio del Cielo e dell'Inferno (1790), i Canti dell’esperienza (1794). Stampava egli stesso i suoi libri con un metodo originale , corredati da incisioni che facevano parte integrante dei testi poetici; incisioni che si rifacevano ad una certa tradizione classica, michelangiolesca, ma deforma ndola e distorcendola in forme visionarie e allucinate. In lui convivevano le tendenze più contrastanti, il radicalismo politico di estrazione illuministica e l’irrazio nalismo estremo, chelo spingeva ad esaltare le «divine arti dell’Immaginazione». La sua forza anarchica si manifesta anche nel campo stilistico: «per lui la poesia, come l’azione, deve generare la sua forma dall'interno, spezzare le strutture convenzionali, essere insomma libera espressione di energia» (Praz). in Inghilterra
22S dai Canti dell ‘esperienza
La Tigre Tigre! Tigre! divampante fulgore Nelle foreste della notte, Quale fu l’immortale mano o l'occhio Ch'’ebbe la forza di formare La tua agghiacciante simmetria?” In quali abissi o in quali cieli Accese? il fuoco dei tuoi occhi? Sopra quali ali osa slanciarsi? E quale mano afferra il fuoco? Quali spalle, quale arte‘ Poté torcerti i tendini del cuore?? E quando il tuo cure ebbe il primo palpito, Quale tremenda mano? Quale tremendo piede?
1. divampante ... notte: il poeta si immagina la tigre come un bagliore di luce vivissima, che illumina le tenebre del caos (che egli rappresenta attraverso una foresta buia dai rami intricati). 2. La tua ... simmetria?: la perfezione della tigre è stupefacente per chi l’osserva, al punto da generare una sensazione di annichilimento. 8. Accese: il soggetto è l’immortale mano e l’occhio (v.3). 4. Quali ... arte: la mano di quale artigiano, artista. _ 5. Poté.... cuore: poté torcere, avvolgendosi, i nervi del tuo cuore? 6. l’Agnello: in antitesi alla Tigre, rappresenta l’innocenza, la mitezza. 7. Mentre ... pianti?: il poeta immagina che gli astri, alla vista della mostruosa energia della tigre, abbiano lasciato cadere atterriti le loro spade e abbiano bagnato il cielo di lacrime. 8. spia: occhio.
Quale mazza e quale catena? Il tuo cervello fu in quale fornace? E quale incudine?e Quale morsa robusta osò serrarne I terrori funesti?.
. Chi l’Agnello® creò, creò anche te? Fu nel sorriso che ebbe Osservando compiuto il suo lavoro, Mentre gli astri perdevano le lance Tirandole alla terra E il paradiso empivano di pianti”?
Tigre! Tigre! divampante fulgore Nelle foreste della notte,
Quale mano, quale immortale spia* Osa formare La tua agghiacciante simmetria? da Visioni, traduzione di G. Ungaretti, Mondadori, Milano 1965
fearful orests of the night, / What immortal hand or eye / Could frame thy Tiger! Tiger! burning bright / In the fc What / aspire? he dare wings what On / eyes? thine of fire / Burnt the symmetry? // In what distant deeps or ski es the sinews of thy heart? / And when twist Could / art, what and houlder, s what And // what the hand dare seize the fire? dread feet? // What the hammer? what the chain? / In thy heart began to beat, / What dread hand? and whatgrasp / Dare its deadly terrors clasp? // When the stars threw dread furnace was thy brain? | What the anvil? what he who made the Lamb with their tears, {Did he smile his work to see? / Did heaven water'd d An / , spears their down or eye, / Dare frame hand l immorta What / night, the of bright / In the forests make thee? // Tiger! Tiger! burning thy fearful symmetry? Blake
224 ANALISI DEL TESTO È una poesia visionaria, che allinea una serie di immagini potenti, di allucinata precisione ed evidenza, ma al tempo stesso oscure ed ambigue. Di conseguenza è difficile da decifrare, e difatti ha offerto l'occasione alle più diverse interpretazioni. L’oscurità, la densità
allusiva, i simbolismi misteriosi sono tutte caratteristiche che saranno proprie della poesia
romantica europea, sia pure in una varietà di forme espressive molto diverse. Una chiave di interpretazione può essere offerta da un concetto espresso nel Matrimonio del Cielo e dell’Inferno: «Il Bene è l'elemento passivo che ubbidisce alla Ragione. Il Male è l'elemento attivo che scaturisce dall’Energia». La Tigre può essere quindi intesa come simbolo del Male: ma il Male è dotato di affascinante energia, di una forma di spaventosa bellezza (l’«agghiacciante simmetria» del mantello della Tigre). La Tigre riempie di lacrime il cielo, ma Dio l’ha creata, e si compiace della sua creazione, così come della creazione del Bene (l’Agnello). Nella visione di Blake, come testimonia appunto il Matrimonio del Cielo e dell’Inferno, i contrari non sono opposti ma complementari, perché «senza Contrari non vi è Progresso». Una manifestazione storica del Male, a cui la poesia può alludere, è la potenza dell’industrialismo, che sta trionfando in quegli anni in Inghilterra: una forza terribile, ma grandiosa
L’oscurità
allusiva
Il Male
—Un’interpretazione simbolica
ed affascinante, che sta trasformando il mondo. Alla realtà industriale sembrano alludere le insistite metafore riguardanti gli strumenti della fucina, come ha suggerito Guido Ceronetti: «fuoco», «martello», «fornace», «incudine», «morsa». L’interpretazione può essere suffragata dal fatto che Blake era attento alle contemporanee trasformazioni industriali,
da lui viste come l’avvento di un nuovo Inferno. Se questa interpretazione è valida, Blake anticipa un modo di guardare ai fenomeni della modernità che tornerà spesso negli scrittori successivi, sino al Novecento: da un lato la condanna e la paura, dall’altro un atteggiamento di ammirazione affascinata per la potenza dei giganteschi processi di trasformazione.
PROPOSTA
DI LAVORO
|
* Le ripetute interrogazioni quale ritmo imprimono al testo?
> Cfr. La critica, C13
A19. Samuel Taylor Coleridge La vita
Il Romanticismo
Nato nel 1772 da un pastore protestante, studiò per un periodo a Cambridge, ma, spinto dai debiti, ne fuggì per arruolarsi nei dragoni. Con l’amico Robert Southey progettò una società ideale, basata sull’eguaglianza, da fondarsi in America, ma il progetto fallì. Coleridge tentò di guadagnarsi la vita tenendo conferenze e dirigendo una rivista politica (ammirava infatti entusiasticamente le idee della Rivoluzione francese). Deluso da questa esperienza, cercò sollievo dalla depressione nell’oppio. Nel 1797 strinse amicizia con William Wordsworth (cfr. A11) e progettò con lui le Ballate liriche (1798), da cui prese avvio il Romanticismo inglese. Fu poi in Germania, dove conobbe la filosofia dell’Idealismo. Al suo ritorno in Inghilterra, privo di mezzi e in rotta con la famiglia, passò anni tristi, sprofondando nell’abuso dell’oppio. Se ne riscattò nel 1816, dopo essersi sottoposto a rigidi controlli medici; poté . così riprendere l’attività intellettuale. Trascorse gli ultimi anni in un sobborgo di Londra, ripiegando su posizioni conservatrici dopo i giovanili entusiasmi rivoluzionari. in Inghilterra
22 Morì a Londra nel 1834. Fu un carattere dispersivo e passivo, fervido di sogni e di
Le opere
progetti ma incapace di tradurli nella realtà. La tragedia della sua vita fu una «tragedia della volontà» (Praz): è questo uno dei tratti più caratteristici del poeta romantico, che ricorre in varie forme lungo il secolo. Le opere poetiche più importanti furono scritte da Coleridge fra il 1796 e il 1802:
la Ballata del vecchio marinaio, che compare nelle Ballate liriche; Christabel, che rientra nelle convenzioni del racconto “gotico”, e tratta del rapporto misterioso dell’uomo con il trascendente e con il male; Kubla Khan, sorta di visione in sogno di un magico palazzo orientale. La sua poesia, caratterizzata da atmosfere sovrannaturali rese con allucinata evidenza, o da un clima di sogno, è una delle più tipiche espressioni del Romanticismo.
EH La ballata del vecchio marinaio Il poemetto apriva la raccolta delle Ballate liriche del 1798. Adotta la forma della ballata popolare, diffusa nella tradizione inglese. E il racconto di un viaggio simbolico. Si apre con una festa di nozze, interrotta dall’arrivo di un vecchio marinaio. Con il suo sguardo scintillante e ipnotico questi persuade uno degli ospiti ad ascoltare la sua storia. Egli descrive un viaggio per mare, sino alle montagne di ghiaccio del Polo Sud. Un albatros guida la nave nelle tempeste: ma il marinaio lo uccide con una freccia. È un gesto immotivato e misterioso, che condanna la ciurma alla morte. Solo il vecchio marinaio sopravvive, e dopo un viaggio allucinato riesce a ritornare in patria. Per espiare la sua colpa è condannato a ripetere la sua storia a tutti coloro che incontra.
L'uccisione dell’albatro:
colpa e maledizione Dalle parti II e III.
«E poi ci venne nebbia e neve insieme, Faceva freddo straordinariamente: E montagne di ghiaccio, quanto gli alberi alte, Ci flottavano! accanto, verdi smeraldo. La terra del ghiaccio e degli spaventevoli fragori, sulla quale non si scorgeva cosa vivente.
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Tra il turbinare le rocce innevate Facevano un lugubrissimo vedere: Non avvistavi forma d’uomo o bestia — Il ghiaccio era dovunque.
Ghiaccio qui, ghiaccio là, Era dovunque, il ghiaccio: E crosciava, ringhiava, ruggiva ed ululava, I rumori che intendi da svenuto! .
; : marino; 2 iii qui si carica di misteriosi valori simbolici.
2
&
Finché un grande uccello marino, un Albatro”, apparì di tra la bruma nevosa e venne accolto con gioia ed ospitalità grandi.
high, came floating by ? mast -high, i Ì grew wondrous cold:; / And ice, Ì and snow, / And it me both mist th be seen.] And through to was thing living no where sounds fearful of / peri 200ue Il [The land of ice, and we ken — / The ice was all between.
nor beasts the drifts the snowy clifts / Did send a dismal sheen: / Nor shapes of men and growled, and roared and howled, / cracked It / around: all was ice The / Il The ice was here, the ice was there, the snow-fog, and was received through came s Like noises in a swound! // [Till a great sea-bird, called the Albatros Coleridge
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70
Alla fine incrociammo un Albatro, Sbucò di tra la bruma; Lo salutammo in nome del Signore, Quasi che fosse un’anima cristiana.
Mangiò del cibo che mai aveva assaggiato, E ci volava intorno di continuo. Il ghiaccio si fendé scoppiando in tuono: Il timoniere ci passò nel bel mezzo! Ed ecco che l’Albatro si rivela uccello di buon augurio e segue la nave nel suo ritorno a nord, tra foschia e banchi di ghiaccio galleggianti.
Ci nacque a poppa un vento benigno*; L’Albatro ci teneva compagnia, Ed ogni giorno, per cibo o per gioco, Compariva al richiamo di noi.
: )
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Facesse nebbia o nuvolo, sull'albero o su sartia, Si stette appollaiato nove sere; Mentre di notte la bruma bianca Baluginava la luce della luna». Il vecchio Marinaio slealmente uccise il pio uccello di buon augurio.
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«Dio ti scampi, mio vecchio Marinaio, Dai diavoli che ti torturano così! Perché fai quella faccia?» Con la balestra Io abbattei* quell’Albatro. La nave entra subitamente in bonaccia.
Cadde la brezza, caddero le vele:
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Più triste di così era impossibile; Noi si parlava solamente per rompere Il silenzio del mare! In un cielo rovente, di rame,
Il sanguigno Sole, a mezzodì, 3. benigno: favorevole.
Stava a piombo sul maestro?,
4. abbattei: il gesto rappresenta una colpa molto grave, carica di funeste conseguenze.
Non più grosso della Luna
5. maestro: l'albero maestro.
È
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5
&
Un giorno e un altro, un giorno dopo l’altro
with great joy and hospitality.] At length did cross an Albatross, / Thorough the fog it came; / As if it had been a Christian soul, / We hailed it in God’s name. // It ate the food it ne’er had eat, / And round and round it flew. / The ice did split with a thunder-fit; / The helmsman steered us through! // [And lo! the Albatross proveth a bird of good omen, and followeth the ship as it returned northward through fog and floating ice.] And a good south wind sprung up behind; | The Albatross did follow, / And every day, for food or play, / Came to the mariners’s hollo! // In mist or cloud, on mast or shroud, / It perched for vespers nine; / Whiles all the night, through fog-smoke white, / Glimmered the white moon-shine.’ // [The ancient Mariner inhospitably killeth the pious bird of good omen.] ‘God save thee, ancient Mariner! | From the fiends, that plague thee thus! — / Why look’st thou so? - With my cross-bow /I shot the ALBATROSS. // [...] [The ship hath been suddenly becalmed.] Down dropt the breeze, the sails dropt down, / ’Twas sad as sad could be;/And we did speak only to break / The silence of the sea! // All in a hot and copper sky, / The bloody Sun, at noon, / Right up above the mast did stand, / No bigger than the Moon. // Day after day, day after day, /We stuck, nor breath
Il Romanticismo
in Inghilterra
RIT Stemmo, senza un alito, una scossa;
Fermi come una nave dipinta Sopra un oceano dipinto.
E si inizia la vendicazione dell’ Albatro.
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Acqua, acqua in ogni dove,
Edil fasciame® s’imbarcava” tutto; Acqua, e soltanto acqua, E neanche una goccia da bere.
Marciva perfin l’abisso. O Cristo! Che dovesse succederci questa! Cose vischiose strisciavano,
Con mille piedi, sul vischioso mare. no
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Intorno a noi, a sciami vorticanti, Fuochi di morte* ballavano a notte; E l’acqua, come gli olî delle streghe, Ardeva verde, azzurra e bianca. Uno Spirito li aveva seguiti: uno degli invisibili abitatori di questo pianeta, non anime dipartite né angeli; riguardo ai quali si può consultare il dotto ebreo Giuseppe? e Michele Psello!9, Platonico Costantinopolitano. Sono numerosissimi e non v'è clima od elemento che non ne conti uno o più.
Certuni in sogno Dello Spirito che Ci aveva seguiti, Dalla terra della 1835
Ed ogni lingua, per la sete estrema, ?
6. il fasciame: il rivestimento in legno
-
Non cacciavamo fuori la parola, Peggio che fossimo ingozzati di fuliggine.
8. fuochi di morte: i fuochi di Sant'Elmo, o fuochi fatui. Secondo le super-
I compagni, nella loro ambascia, non esitano a gettar
stizioni dei marinai, sono anime dei defunti.
9. Giuseppe:
Giuseppe
Flavio,
e
aglasaunienera
11. ci tribolava: ci tormentava.
l’intera colpa sul vecchio Marinaio; in segno di che, gli appendono al collo l’uccello morto.
dotto
10. Michele Psello: erudito e filosofo
.
S'era seccata alla r adice;
dell’imbarcazione. 7. s’imbarcava: si deformava, si arcuava.
ebreo del I-II secolo d.C.
presero coscienza così ci tribolava!!: nove braccia sotto, bruma e della neve.
|
Povero me! Che truci sguardate 140
Mi toccarono
da giovani e vecchi!
AI collo, al posto della croce, Mi venne
appeso l’Albatro.
nor motion; / As idle as a painted ship / Upon a painted ocean. // [And the Albatross begins to be avenged.] Water, water, every where, / And all the boards did shrink; / Water, water, every where / Nor any drop to drink. // The very deep did rot: O Christ! / That ever this should be! / Yea, slimy things did crawl with legs | Upon the slimy sea. // About, about in reel and rout / The death-fires danced at night; / The water, like a witch's oils, / Burnt green, and blue and white. // [A Spirit had followed them; one of the invisible inhabitants of this planet, neither departed souls nor angels; concerning whom the learned Jew, Josephus, and the Platonic Constantinopolitan, Michael Psellus, may be consulted. They are very numerous, and there is no climate or element without one or more.] And some in dreams assuréd were / Of the Spirit that plagued us so; / Nine fathom deep he had followed us / From the land of mist and snow. // And
every tongue, through utter drought, / Was withered at the root; / We could not speak, no more than if /We had been choked with soot. // [The shipmates, in their sore distress, would fain throw the whole guilt on the ancient Mariner: in sign whereof they hang the dead sea-bird round his neck.] Ah! well a-day! what evil looks / Had I from old and young! / Instead of the cross, the Albatross / About my neck was hung. // Part III There passed a weary time. Each
Coleridge
228 Parte terza
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Passarono giorni di pena. Riarsa La gola d’ognuno, l'occhio invetrato!%. Giorni di pena! Giorni di pena! Il vecchio Marinaio scorge, lontanissimo, un segno sulle acque.
Come vitrei gli stanchi occhi Quando, fissandoli a ponente, Vidi qualcosa contro il cielo. 150.
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Sulle prime mi parve un puntolino, Quindi un cencio! di nebbia; E si muoveva, e finalmente prese, Salvo mio abbaglio, una sua qualche forma. Un puntolino, una nebbia, una forma! E s’accostava, s’accostava: Come eludendo un folletto marino, Beccheggiava!, virava! e bordeggiava!°. Da più presso, gli sembra una nave; e a caro prezzo libera la favella dai ceppi!”.
La gola stretta, le nere labbra cotte, Non potevamo ridere né piangere, Ammutiti per l'estrema arsione!
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Mi morsi il braccio, ne succhiai il sangue E: Vela! urlai, una vela!
12. l’occhio invetrato:
i
tie:
lo sguardo
è
La gola stretta, le nere labbra cotte, A bocca larga m’udirono urlare:
13. cencio: velo. 14. beccheggiava: oscillava in senso lon-
«la.
gitudinale.
‘1
15. virava: mutava la rotta.
16. bordeggiava: veleggiava a zig-zag
risalendo il vento.
DE
Un lampo di gioia,
165
17. libera ... dai ceppi: riarso dalla sete, aveva taciuto a lungo; adesso la vista del
diovi
et
;
:
Gran Dio! digrignarono i denti per la gioia,
E tutt’insieme respirarono profondo, Proprio come
vascello provoca un’emozione talmente
bevessero
tutti.
cui segue l'orrore. Perché può essere una nave che
forte da sciogliere la lingua (favella) dai
s’avanzi senza vento e senza flusso 18?
ceppi dell’arsura.
18. nave ... flusso: si tratta di un vascello
Là, (gridavo), guardate là! Più non bordeggia!
fantasma che, anziché salvare i marinai,
Ma
aumenterà il loro smarrimento e la loro
:
inquietudine.
19. flutto: marea.
certo punta al nostro
soccorso:
?
SÈ
19
Senza bava di vento, senza spinta di flutto!, 170
Vien diritta e liscia liscia.
throat / Was parched, and glazed each eye. / A weary time! a weary time! // [The ancient Mariner beholdeth a sign in the element afar off.] How glazed each weary eye, / When looking westward, I beheld / A something in the sky. Il At first it seemed a little speck, / And then it seemed a mist; / It moved and moved, and took at last / A certain shape, I wist. // A speck, a mist, a shape, I wist! / And still it neared and neared: / As if it dodged a water-sprite, I It plunged and tacked and veered. // [At its nearer approach, it seemeth him to be a ship; and at a dear ransom he
freeth his speech from the bonds of thirst.] With throats unslaked, with black lips baked, / We could nor laugh nor wail; / Through utter drought all dumb we stood! / I bit my arm, I sucked the blood, / And cried, A sail! a sail! // With throats unslaked, with black lips baked, / Agape they heard me call: // [A flash of joy;] Gramercy! they for joy did grin, I And all at once their breath drew in, / As they were drinking all. // [And horror follows. For can it be a ship that comes onward without wind or tide?] See! see! (I cried) she tacks no more! / Hither to work us weal; / Without a breeze, without a tide, / She steadies with upright keel! // The western wave was all a-flame. / The day was well nigh done! / Il Romanticismo
in Inghilterra
229 Tutta avvampava l’onda di ponente. Il giorno se ne stava per morire. Quasi in bilico sull'onda di ponente
175
Sì stava il Sole largo e risplendente;
Quando quella strana sagoma infilò di colpo Tra noi e il Sole. Gli pare soltanto lo scheletro d’una nave.
E tosto il Sole si striò di sbarre,
180
(Madre celeste?, facci protezione!) Come guardasse da grata di galera?! Con tonda faccia e fiammeggiante. Ahimè! (pensai, e il cuor mi martellava) Come presto s’avvicina! Son le sue vele a riflettersi nel Sole Come spiritate ragnatele? Si vedon le coste della nave come sbarre sulla faccia del Sole all’occaso. La Donna spettro e la sua compagna in morte sono, sole, a bordo della nave-scheletro. Tale la nave, tale la ciurma?8!
185
Son le sue coste quelle tra le quali Guardava il Sole, come da una grata? E quella Donna è tutta la sua ciurma? Quella è la Morte? E ce ne sono due? E la Morte la socia della donna?
190
Aveva rosse le labbra, e franco l’occhio, E i ricci come l’oro:
La pelle bianca, com'è dei lebbrosi: i
Ella era l’orrida Vita nella Morte, Che congela agli uomini il sangue.
i
20. Madre celeste: l’invocazione spiega
il senso di orrore che deriva dal riconoscimento della vera natura del vascello.
La Morte e la Vita nella Morte si son giocata ai dadi la ciurma della nave, e la seconda vince il vecchio Marinaio.
21. da grata di galera: dalle sbarre di una prigione.
22. Come spiritate ragnatele: non vele,
ma remolant ragnatele, 28. Si vedon ... ciurma!: la nave
è ridotta
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Ci abbordò quel bastimento nudo,
E le due ira stavan buttando iÈ dadi;
!
a puro fasciame, i passeggeri sono solo
« La partita è finita! Ho vinto, ho vinto!»
due: la morte ed uno spettro impegnati in una partita a dadi la cui posta in gioco
Gridò, e dà tre fischi.
è la vita dell’equipaggio.
Non c’è crepuscolo dentro le corti del Sole.
Almost upon the western wave / Rested the broad bright Sun; / When that strange shape drove suddenly / Betwixt us and the Sun. // [It seemeth him but the skeleton of a ship.] And straight the Sun was flecked with bars, / (Heaven's Mother send us grace!) / As if through a dungeon-grate he peered / With broad and burning face. // Alas! (thought I, and my heart beat loud) / How fast she nears and nears! / Are those her sails that glance in the Sun, / Like restless gossameres? // [And its ribs are seen as bars on the face of the setting Sun. The Spectre-Woman and her Deathmate, and no other on board the skeleton-ship. Like vessel, like crew!] Are those her ribs through which the Sun / Did peer,
as through a grate? / And is that Woman all her crew? / Is that a DEATH? and are there two? / Is DEATH that woman's
mate? // Her lips were red, her looks were free, / Her locks were yellow as gold: / Her skin was as white as leprosy,
/ The nightmare LIFE-IN-DEATH was she, / Who thicks man's blood with cold. // [Death and Life-in-Death have diced for the ship’s crew, and she (the latter) winneth the ancient Mariner.] The naked hulk alongside came, / And the twain were casting dice; / “The game is done! I've won! I°ve won!” / Quoth she, and whistles thrice. // [No twilight within
the courts of the Sun.] Coleridge
230 200
S’immerge il Sole: le stelle erompono; D’un passo solo sopravviene il buio; Con un sibilo udito di lontano, Saettò via il vascello spettrale. Al sorgere della Luna,
Ascoltammo e guardammo in su di sbieco!
205
210
AI mio cuor la paura, come a una coppa, Sembrava sorseggiarmi tutto il sangue! Le stelle smorte, densa era la notte, Bianco, sotto la sua lanterna, Balenava il volto del timoniere;
La rugiada gocciolava dalle vele Finché ascese da levante
La Luna cornuta, con una stella brillante
Ancorata alla sua punta bassa. un dopo l’altro
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Un dopo l’altro, sotto la Luna e la stella Sua scorta, senza tempo per rantolo o sospiro, Ognun voltò la faccia in uno spasimo atroce E con gli occhi mi maledì. i suoi compagni cadono morti.
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Quattro volte cinquanta uomini vivi, (E non intesi rantolo o sospiro) Con tonfo greve, come ciocchi secchi, L’un dopo l’altro, caddero. Ma la Vita nella Morte dà inizio all’opera sua sul vecchio Marinaio.
L’anime si dipartirono dai corpi, — Volando a beatitudine o a tormento! E ciascun’anima accanto mi passò Come il frullo della mia balestra! da La ballata del vecchio marinaio,
traduzione di B. Fenoglio, Einaudi, Torino 1964
The Sun’s rim dips; the stars rush ourt: / At one stride comes the dark; / With far-heard whisper, o’er the sea, / Off shot the spectre-bark. // [At the rising of the Moon,] We listened and looked sideways up! / Fear at my heart, as at
a cup, / My life-blood seemed to sip! / The stars were dim, and thick the night, / The steersman’s face by his lamp gleamed white; / From the sails the dew did drip- / Till clomb above the eastern bar / The hornéd Moon, with one bright star / Within the nether tip. // [One after another,] One after one, by the star-dogged Moon, / Too quick for groan or sigh, / Each turned his face with a ghastly pang, / And cursed me with his eye. // [His shipmates drop down dead.] Four times fifty living men, /(And I heard nor sigh nor groan) / With heavy thump, a lifeless lump, / They dropped down one by one. // [But Life-in-Death begins her work on the ancient Mariner.] The souls did from their bodies fly,/ They fled to bliss or woe! / And every soul, it passed me by, / Like the whizz of my cross-bow!
Il Romanticismo
in Inghilterra
231
| ANALISI DEL TESTO La densità simbolica
,
_. Il rapporto
Le vicende narrate dal vecchio marinaio sono immerse in un clima allucinato, di sogno, o meglio d’incubo. Si tratta di eventi che si incidono con estrema evidenza, ma su cui grava un arcano senso di mistero, denso di significati simbolici. Lo stesso Coleridge afferma nella sua Biografia letteraria (1817): «Un'idea, nel senso più alto del termine, non può essere espressa se non attraverso un simbolo». Ma di un simbolo non si può dare un preciso equivalente logico, come per l’allegoria: il simbolo evoca una realtà profonda, in modo allusivo e ambiguo. Per questo esso possiede sempre una pluralità di significati, e può sollecitare una molteplicità.di letture. Non ci avventureremo perciò a indicare le varie interpretazioni che sono state date di questo testo, in particolare della natura della colpa commessa dal marinaio e della sua maledizione, perché ogni singola interpretazione pare delimitare troppo e quindi immiserire la carica suggestiva della poesia. È da notare solo come con il Romanticismo la poesia acquisti un carattere allusivo, polivalente, inquietante. Limitandoci a indicazioni molto “letterali”, il tema centrale appare il rapporto dell’uomo
dell’uomo
con il sovrannaturale, con la dimensione misteriosa di un mondo invisibile che lo circonda.
con il sovrannaturale
In una citazione di uno scrittore del Seicento, premessa da Coleridge all’edizione del 1817, sì legge appunto che esistono «più cose invisibili di quelle visibili nell’universo». Il vecchio marinaio non si era mai curato di quella realtà sovrannaturale e irrazionale. Il suo atto col-
Colpa e conoscenza
pevole lo fa uscire dal mondo abituale, dalle coordinate note e riconoscibili, e lo fa entrare in un altro mondo, arcano, inquietante e imprevedibile (Gorlier): il viaggio simbolico del racconto è un viaggio nell’irrazionale. Per entrare nell’universo della poesia occorre dunque, come per il vecchio marinaio, un «willing suspension of disbelief», una volontaria sospensione dell’incredulità, per usare una formula, diventata famosa, di Coleridge stesso. Si può ancora osservare, sempre restando ad un livello generale, che la conoscenza del-
l’arcano è collegata ad una colpa misteriosa (l’uccisione dell’albatro), da cui deriva al marinaio una maledizione che lo isola dalla socialità e lo condanna alla ripetizione eterna del suo errare e del suo racconto, con cui torna a comunicare al mondo sociale e razionale la sua
esperienza. La condizione del marinaio è di «Vita in Morte», perennemente al confine tra i due mondi del reale e dell’ignoto, di mediatore fra essi con il suo racconto eternamente ripetuto. In conseguenza della sua trasgressione, che gli ha consentito di conoscere l’ignoto, il marinaio assume caratteri inconfondibilmente demoniaci, gli occhi «scintillanti» (glittering eyes), attributo costante degli eroi demoniaci romantici (il Masnadiere di Schiller ha «occhi che lanciano fuoco», il Corsaro di Byron ha lo «sguardo di fuoco»). Ciò significa che la conoscenza dell’ignoto implica una trasgressione, da cui deriva una maledizione. Una lettura affascinante della Ballata è quella di A. Serpieri, La «Ballata» di Coleridge: il senso circolare, in Retorica e immaginario, Pratiche, Parma 1986.
PROPOSTA
DI LAVORO
®©
da cui emana un fascino e Il Marinaio è figura demoniaca dagli occhi « scintillanti» (tipici di tutti glieroi maledetti), qualche analogia con ipnotico. Ha commesso una colpa terribile ed è costretto a vagare in eterno. Presenta l'eroe byroniano?
Coleridge
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4 A20. George Byron
La vita
George Gordon nacque nel 1788 da famiglia nobile, ma di un ramo minore, decaduto e impoverito. A dieci anni ereditò il titolo di Lord Byron; nel 1808 prese possesso del maniero degli avi, e nel 1809 occupò il seggio che gli spettava per nascita alla camera dei Lords. Ciononostante, assunse atteggiamenti radicali, difendendo
ad esempio il movimento dei Luddisti, operai che distruggevano le macchine perché vi vedevano la causa della disoccupazione. Come era indispensabile ad ogni giovane patrizio del tempo, partì per il suo grand tour, il viaggio di istruzione sul continente. Visitò la penisola iberica, la Grecia, il Levante, tutte mete che rivelano un romantico
gusto per l’esotico. Il viaggio gli ispirò i primi due libri del Pellegrinaggio del cavaliere Aroldo (1812), che incontrarono un enorme successo. La figura di Aroldo, tipico eroe romantico, solitario, malinconico, come gravato da una maledizione, tormen-
Il mito byroniano
tato dal peso misterioso del passato, creò una vera e propria moda, e fu imitato da schiere di giovani. Alle pose di eroe fatale Byron univa, agli occhi del pubblico, anche il fascino del dandy, il raffinato, eccentrico spregiatore delle convenzioni. Sposatosi | nel 1815, si separò dalla moglie dopo un anno, suscitando vasto scandalo (incrementato anche dalla voce che la separazione fosse causata da un rapporto incestuoso di Byron con la sorella, voce probabilmente diffusa dal poeta stesso, che amava creare intorno a sé un alone maledetto). In conseguenza dello scandalo, il poeta lasciò l’Inghilterra nel 1816, recandosi in Italia (meta prediletta dei romantici inglesi, esuli dal proprio paese perché insofferenti del suo clima sociale conformistico: in Italia si recarono negli stessi anni anche gli altri due grandi poeti romantici, Shelley e Keats). In Italia Byron condusse vita sregolata, con molti amori, circondato dal suo mito
che gli procurava entusiastica ammirazione. Spinto dalle sue idee libertarie, prese parte ad una cospirazione carbonara a Ravenna. Nel 1823 accettò con entusiasmo la nomina del comitato per l'indipendenza della Grecia, che si era allora sollevata contro il dominio turco. Si recò in Grecia, ma morì nel 1824 a Missolungi di febbri. Nell’Europa del tempo incarnò un vero e proprio mito: il dandy aristocratico, sprez-
Le opere
zante delle convenzioni e delle norme morali comuni; l’uomo fatale, dal fascino tenebroso e maledetto; il ribelle, insofferente di ogni costrizione, il simbolo della lotta per la libertà contro l'oppressione e la tirannide. Questo mito biografico esercitò, insieme alle opere poetiche, una notevole influenza sulla letteratura, riscontrabile anche in Italia. Dopo il Pellegrinaggio del cavaliere Aroldo (a cui si aggiunsero altri due canti nel 1817 e nel 1818, ispirati ai soggiorni in Svizzera e in Italia), il successo di Byron fu accresciuto da una serie di novelle in versi (Il Giaurro, La sposa di Abido, Il Corsaro, Lara), in cui si combinava il fascino dell’esotico con intrecci passionali e melodrammatici, e veniva riproposto il tipo dell’eroe maledetto e fatale. Tale figura si ripresenta anche nella tragedia Manfred (1817), in cui è adombrata la passione ince-
stuosa per la sorella. Altre tragedie successive furono Caino, Marin Faliero, I due Foscari. Una svolta radicale è segnata dalle ultime opere, soprattutto dal poema incompiuto Don Giovanni (iniziato nel 1819), ironico e burlesco, che tratta delle avventure di un antieroe, narrate in forma colloquiale, ricca di divagazioni e di humour.
Il Romanticismo
in Inghilterra
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LIS
da Il Corsaro
L'eroe maledetto ) La novella in versi fu pubblicata nel 1814. Il protagonista , Conrad, é un pirata che vive nel suo nido d’aquila in un'isola dell'Egeo (dal Canto I, vv. 233-370).
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1. Di cui ... sgomenta: basta solo il suo nome a sgomentare il più saldo fra i cuori
della ciurma del Corsaro. 2. Volge ... freno: ha in pugno la volontà altrui e la volge a suo piacimento (freno: briglie). 3. guisa d’imperar: modo di comandare. 4. il vulgo ... annulla: esercita un’ascendente tale sul popolo da annullarne la volontà. 5. malìa: forte potere di suggestione. 6. Che può ... tanti?: «che cosa può legare il destino di tanti uomini al destino di uno solo?» 7. l'un: il singolo che pensa esercita il dominio sui molti che si limitano ad agire. 8. Magico ... altrui: magico dominio (dell’unico che pensa), che il successo rafforza, che l’accortezza che l’ha conquistato continua a mantenere, che sa piegare e conformare ai suoi disegni la debolezza altrui, e, utilizzando l’azione degli altri, che credono di agire per il proprio vantaggio, si fa prode grazie alle prodezze altrui. 9. Sotto ... più: «sulla terra i più devono faticare al servizio di pochi». . 10. decreto: legge. 11. le spoglie: il bottino. .12. Oh come... catene!: «come diverrebbe leggero per lui (l’uomo comune che fatica per il dominatore) il peso (pondo) spregevole dei suoi stenti volgari, il carico (incarco) umile delle sue pene, se potesse provare come pesano le splendide catene dell’uomo superiore!» 13. a l’opre: nei fatti. 14. il sembiante: l’aspetto, la fisionomia.
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[...] Quest’uom che nel mistero E ne la solitudine s’avvolge, Di cui raro è il sospir, più raro ancora Il sorriso, di cui pur solo il nome Qual è più saldo di que’ cor sgomenta! E fa imbiancar quelle abbronzate guance, Volge a suo senno di lor alme il freno? Con quella guisa d’imperar? che il vulgo Maneggia, abbaglia, istupidisce, annulla‘. Che è questa malìa? che una sfrenata Orda così, di tutte leggi ignara, Confessa, invidia, e pur contrasta indarno? Che può così d’un solo al fato il fato Legar di tanti? E l’opinion, l'impero Che su i molti operanti ha l’un” che pensa; Magico impero che il successo afforza, Cui l’accortezza che il carpì mantiene, Che la fralezza altrui piega e conforma A’ suoi disegni e, quelle braccia oprando Che altri adoprar per se medesmo estima, Prode si fa delle prodezze altrui. Così fu, così fia. Sotto la luna Sudar pei pochi denno i più*; decreto!° E di natura: ma colui che suda
Non odî no, non maledica a quello Che si porta le spoglie!!. Oh come lieve Gli si farìa de’ suoi volgari stenti L’ignobil pondo, di sue proprie ambasce L’umile incarco, ov’ei provar potesse Come pesan le splendide catene! Dissomigliante da gli antichi eroi Ch’eran démoni a l’opre*, angeli al volto, Poco il sembiante!' di Corrado avea Che notevol paresse, ancor che l’arco De le sue nere sopracciglia un guardo Adombrasse di foco. Era robusta,
That man of loneliness and mystery, / Scarce seen to smile, and seldom heard to sigh; / Whose name appals the
fiercest of his crew, / And tints each swarthy cheek with sallower hue; / Still sways their souls with that commanding
art / That dazzles, leads, yet chills the vulgar heart. / What is that spell, that thus his lawless train / Confess and envy,
yet oppose in vain? / What should it be, that thus their faith can bind? / The power of Thought - the magic of the Mind! Link'd with success, assumed and kept with skill, / That moulds another’s weakness to its will; | Wields with their hands, but, still to these unknown, / Makes even their mightiest deeds appear his own. / Such hath it been — shall
be - beneath the sun / The many still must labour for the one! / "Tis Nature's doom — but let the wretch who toils / Accuse not, hate not Rim who wears the spoils. / Oh! if he knew the weight of splendid chains, / How light the balance
of his humbler pains! / Unlike the heroes of each ancient race, / Demons in act, but Gods at least in face, / In Conrad’s form seems little to admire, / Though his dark eyebrow shades a glance of fire. / Robust but not Herculean - to the Byron
234 270
Ma non erculea la sua tempra e, lungi D’esser gigante, non più che vulgare! La sua statura; nondimen dal tutto
Di sua persona, lui fisando!°, cosa Spirar! parea più che vulgar!. Miravi, E ad ammirar ti confessavi astretto!,
275
Né il perché dir sapevi. Arsa dal sole
280
D’occulti? sì, ma non coperti” al tutto Ardui pensier. Dolce quantunque e umana La voce avesse e tutta insiem tranquilla L’aria del volto, eravi cosa affatto Pur non tranquilla e ch’ei cercar parea Che non fosse notata: i solchi ond’era
Avea la guancia, alta la fronte e pallida, E su la fronte brune ciocche incolte Profusamente ricadenti. Il labbro
Sporgea sovente, involontario indizio
285
15. non ... vulgare: non fuori dall’or3 dinario.
16. lui fisando: se lo si fissava.
17. Spirar: emanar.
290
La sua fronte scolpita e il suo frequente Trascolorar? chiamavan l’occhio e a un tempo Il confondeano; e ti parea che andassero Per le latebre? del suo spirto idee
Terribili, quantunque indefinite. 3
b)
i
18. più che vulgar: fuori dal normale.
E ben esser potea; ma d accertarlo
+ si celati. è
a l’audace Mai varcò di quel cor? Strale i 25
22. Trascolorar: impallidire.
Stato fora un suo sguardo
Cui? fu dato giammai? Chi nei recessì
19. astretto: costretto.
A
. coperti: nascosti.
23. le latebre: i nascondigli dell'animo.
295
x
800
;
:
Con pari intento e star fealo in riguardo timor che il proprio diheidi Sovra se: stesso”, to? ] N di ul segre das
Ridean sue labbra disdegnose il ghigno
tatore.
D’un demonio, D
28. star ... stesso: «gli imponeva (star fealo: lo faceva stare) un atteggiamento
che l'ira e la paura
PRO Svegliava a un tempo; , e làN dov’ei calava
È mae
cc prima il proprio segreto che quello di
3
OIspua svelasse cne ll
sostenere lo scontro del suo sguardo seru-
29. di timor ... segreto: «temendo di sve-
di quel ciglio scrutator bastanti
Che”
Ardìa taluno, a lui drizzava il suo
colpire l’ardito che avesse osato varcare
ii
.
pen pochi
Fosser lo scontro a sostener”°. Se l’occhio Drizzargli al volto per passargli al core
24. cui: a chi. Strale ... sguardo: il suo sguardo 25. sarebbe stato come una freccia pronta a
i recessi, gli anfratti del suo cuore. .| i quali. 26. Che: coloro ... sostener: capaci, in grado di 27. ciglio
. Eran
305.
L’adirato cipiglio, impallidita Si
fuggìa la speranza,
e sospirando
Dato
Ul».
30. Lievi ... pensier: «leggere sono le tracce che il pensiero imprime nel volto del
malvagio».
e 1 Perdon Nip o Agi 1evI son orme c e nel volto imprime
Del malvagio il pensier*°: nel cor, nel centro
sight / No giant frame sets forth his common height;// Yet, in the whole, who paused to look again, / Saw more than marks the crowd of vulgar men; / They gaze and marvel how - and still confess / That thus it is, but why they cannot guess. / Sun-burnt his cheek, his forehead high and pale / The sable curls in wild profusion veil: / And oft perforce his rising lip reveals / The haughtier thought it curbs, but scarce conceals. / Though smooth his voice, and calm his general mien, / Still seems there something he would not have seen: / His features’ deepening lines and varying hue | At times attracted, yet perplex’d the view, / As if within that murkiness of mind / Work'd feelings fearful, and yet undefined; / Such might it be - that none could truly tell - / Too close enquiry his stern glance would quell. / There breathe but few whose aspect might defy / The full encounter of his searching eye: / He had the skill, when Cunning’s gaze would seek / To probe his heart and watch his changing cheek, / At once the observer’s purpose to espy, / And on himself roll back his scrutiny, /Lest he to Conrad rather should betray / Some secret thought, than drag that chief's to day. / There was a laughing Devil in his sneer, / That raised emotions both of rage and fear; / And where his frown of hatred darkly fell, /Hope withering fled - and Mercy sigh’d farewell! // Slight are the outward signs of evil thought, /
Il Romanticismo
in Inghilterra
LIS 310
315
320
325
attraverso l’espressione del volto, l'odio, 380
è lecito.
Iurlar:
335
che prorompe.
41.pena guerreggiasse: facesse guerra
Senza tremar, vieni a mirar Corrado
A Ania
.
.
Il t ne uccello canta.
i
a
>
a
da Poesie, traduzione di M. Roffi, cit.
VII. She took me to her elfin grot, / And there she wept, and sighed full sore, / And there I shut her wild wild eyes / With kisses four. // x. And there she lullèd me asleep, / And there I dreamed-Ah! woe betide! — / The latest dream I ever dreamed / On the cold hill side. // x. I saw pale kings, and princes too, / Pale warriors, death-pale were they all; / They cried - ‘La belle Dame sans merci / Hath thee in thrall!’ // x1. I saw their starved lips in the gloam / With horrid warning gapèd wide, / And I awoke, and found me here / On the cold hill side. // xIl. And this is why I sojourn here, / Alone and palely loitering, / Though the sedge is withered from the lake, / And no birds sing.
ANALISI DEL TESTO
L’ambiguità simbolica
Aderendo al clima della ballata popolare, il componimento è avvolto da un’aura di mistero e di malìa, da un’atmosfera di estenuazione trasognata ed estatica. Le figure e gli eventi si caricano di significati simbolici ambigui e indeterminati (come già si è notato per la Ballata del vecchio marinaio di Coleridge). Un cavaliere senza nome erra solo, pallido e afflitto, in un desolato, silenzioso paesaggio acquatico e autunnale. Narra il suo incontro con una dama misteriosa, che unisce la leggiadria di una fata ad un’oscura minaccia (gli «occhi folli»). Essa getta sul cavaliere un incantesimo amoroso, lo porta in una grotta magica e lo induce al sonno. Nel sogno egli vede re, guerrieri, principi che la donna ha incatenato a sé col SUO
incantesimo, e che minacciano anche a lui la stessa sorte, ed infine si sveglia lungo il pendio
Keats
—. piu
248
i » “
di una fredda collina. La chiusa riproduce la situazione iniziale, col cavaliere che erra solo e pallido nel paesaggio acquatico. Il suo racconto spiega perché sia così pallido e afflitto, e perché continui ad errare, legato all’incantesimo che lo tormenta e gli toglie la volontà Sh i e la forza vitale. Una plausibile interpretazione che si può proporre è che la dama sia qui l'oscuro simbolo della malattia (non si dimentichi la minaccia della tisi che grava sul poeta) e della morte, che sgomenta e al tempo stesso attira con un misterioso e morboso fascino. Eros e Thanatos (cfr. G) si mescolano ambiguamente, l'Amore si risolve e si esalta nella Morte. Nella sua ambiguità, la Belle Dame può però anche essere il simbolo dell’esercizio poetico, in cui ilpoeta è assorbito consumando tutto se stesso, e che diviene anch'esso come una malattia: poesia, malattia e morte appaiono così legati da un oscuro vincolo di identità. i A prescindere dal significato che la Belle Dame assume all’interno dell’esperienza di Keats, la ballata presenta una delle prime incarnazioni poetiche di un mito destinato a lunga fortuna, quello della donna fatale, che esercita un influsso nefasto sull’amante, portandolo alla consunzione, alla perdizione e infine alla morte. Tale figura trionferà nel secondo Ottocento, nel clima decadente. In Italia comparirà nella Fosca di Tarchetti (cfr. T171), in Tigre
«x
reale di Verga, in innumerevoli eroine dannunziane, sino alla Nestoroff dei Quaderni di Sera-
su **
fino Gubbio operatore di Pirandello (per non citare che i testi più noti). Nella prima metà del secolo prevale invece, nella letteratura romantica, il mito dell’eroe fatale, sul modello
"*
Il fascino della morte
Il mito della donna fatale
dell’eroe byroniano (cfr. T44) o del René di Chateaubriand (cfr. T51). Su questi problemi si rimanda al capitolo La Belle Dame sans Merci del volume di M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, cit.
° PROPOSTE DI LAVORO
na
1. Ritrovare nel testo gli elementi formali tipici della ballata (ad esempio le ripetizioni, le interrogazioni). 2. Sottolineare le caratteristiche attribuite alla dama (ad esempio «bella nei prati», «figlia delle fate», «gli occhi folli») che ne fanno il prototipo della donna fatale. i
A23. Walter Scott
I poemi romantici
Il romanzo storico Il Romanticismo
Nato nel 1771 ad Edimburgo, in Scozia, da un agiato procuratore legale, esercitò anch'egli per qualche tempo l'avvocatura. Nel 1802-1803 pubblicò una raccolta di poesie popolari da lui curata, La poesia dei menestrelli della frontiera scozzese (The M'instrelsy of the Scottish Border). Tradusse anche ballate dei romantici tedeschi, e ne compose in proprio. Un suo lungo poema, Il lamento dell’ultimo menestrello (1805) ebbe uno strepitoso successo, e lo convinse a dedicarsi alla letteratura come unica professione. Da un lato Scott appare quindi immerso nel gusto romantico dell'epoca, inteso soprattutto a rievocare il clima della letteratura popolare del passato, fatta di ballate e leggende; dall’altro però offre la fisionomia del solido uomo d’affari. Infatti il successo letterario lo indusse a divenire socio dei suoi editori: così l’esercizio letterario si trasformò in una sorta di impresa. I cospicui proventi dei suoi romantici poemi (nel 1810 si aggiunse La Signora del Lago) furono investiti nel sogno di divenire proprietario terriero e signorotto feudale: si costruì un vero e proprio castello, Abbotsford, nella zona della Scozia da lui amata, e lo riempì di romantiche antichità. Però i poemi narrativi di Byron cominciarono a soppiantare nelle vendite i suoi poemi, e i proventi decrebbero rapidamente. Scott, con notevole fiuto commerciale, si volse allora al romanzo: nel 1814 pubblicò Waverley, ambientato nella Scozia del primo in Inghilterra
249 Settecento, che rappresenta lo scontro del mondo dei clan scozzesi ancora feudali con il mondo commerciale e industriale che andava sorgendo in Inghilterra. Il romanzo ebbe un enorme successo. Negli anni seguenti Scott, su quel modello,
Ivanhoe
Lo scrittore
ne sfornò una serie impressionante: Guy Mannering (1815), L’Antiquario (1816), Old Mortality e Rob Roy (1817), Il cuore di Midlothian (1818), La sposa di Lammermoor (1819), La leggenda di Montrose (1819). Sono romanzi che si svolgono prevalentemente nella Scozia del Sei e Settecento, e rievocano un passato vicino, affascinando il pubblico con la descrizione di un mondo in certo modo “esotico” come quello delle montagne scozzesi e dei suoi arcaici costumi. Nel 1819 invece Scott pubblicò Ivanhoe, ricostruzione dell’Inghilterra del XII secolo, all’epoca di Riccardo Cuor di Leone; era dunque un romanzo che rispondeva al gusto medievaleggiante dell’epoca; e per questo motivo gli assicurò la vasta fama nei paesi europei, dando origine ad una vera e propria moda del romanzo storico. Tutti questi romanzi furono scritti a ritmo incalzante, sotto l’assillo di guadagnare tanto da soddisfare le cambiali in scadenza dell'impresa editoriale di cui era socio. Scott appare dunque come il perfetto rappresentante di una nuova figura di intellettuale: lo scrittore come produttore di
come produttore
merci da vendere sul mercato, in vista dell'accumulo di un profitto. La scrittura let-
di merci
teraria diviene un’impresa industriale in piena regola (cfr. Quadro di riferimento II, $ 2.4), adattandosi alle leggi dell'economia capitalistica. Nel 1826, Scott fu però coinvolto nella rovina della casa editrice, e per evitare la bancarotta dovette incrementare in modo parossistico il ritmo della sua produzione. Morì nel 1832, stroncato dall’eccesso di lavoro, lasciando ben 29 romanzi, senza contare le opere di varia natura. I romanzi di Scott, specie quelli che riguardano la più recente storia scozzese, hanno un’indubbia forza nel ricostruire grandi processi sociali, ed anche i personaggi recano l’impronta precisa di un’epoca e di una classe; per certi aspetti, perciò, si possono considerare l’inizio del moderno romanzo realistico (cfr. M7; non si dimentichi che da Scott prese le mosse Balzac); però per altri aspetti presentano le caratteristiche tipiche della letteratura di consumo: trame che ricalcano sempre lo stesso schema, personaggi stereotipati, peripezie convenzionali, basate su espedienti triti come l’“agnizione” (la scoperta di un’ignorata parentela tramite qualche segno, un anello, un plico sigillato), scene ad effetto spettacolare e vicende sentimentali (ad esempio l’amore impossibile della fanciulla ebrea Rebecca per il cavaliere Ivanhoe). Il romanticismo di Scott soddisfa soprattutto il gusto del pittoresco e dell’esotico. È un romanticismo attenuato e moderato, che rifugge dalle tematiche estreme, il “nero”, il sovrannaturale, l’orrido, il tenebroso, e dà luogo ad un compromesso tra il fantastico-avventuroso ed il reale, costruendo saporosi quadretti di vita quotidiana, pervasi spesso da un bonario umorismo. Questo “imborghesimento” del Romanticismo preannuncia il clima che sarà proprio della successiva età vittoriana.
La forza realistica Le trame stereotipate
Un romanticismo “borghese”
Hi IJvanhoe Il romanzo, del 1819, è ambientato nell’Inghilterra del XII secolo. Lo sfondo storico è costituito dai conflitti tra i conquistatori Normanni e la popolazione sassone sconfitta. Riccardo Cuor di Leone, dopo il fallimento della crociata, rientra segretamente in Inghilterra, dove nel frattempo il fratello, principe Giovanni,
ha usurpato il trono; per riconquistarlo, Riccardo si avvale dell’aiuto dei Sassoni, avviando così la fusione
dei due popoli, che darà vita alla nazione inglese. Wilfred Ivanhoe, cavaliere sassone al servizio del re normanno Riccardo, diviene il simbolo di questa fusione. Nell’antefatto il sassone sir Cedric mette al bando il figlio Ivanhoe perché ama la sua pupilla Rowena, mentre egli vuole darla in sposa al nobile Athelstane. Ivanhoe parte allora per la crociata con il re Riccardo. La vicenda ha inizio con il grande torneo di Ashby: qui un misterioso cavaliere, il Diseredato, risulta vinci.
tore sul perfido normanno Brian de Bois Guilbert, grazie all’aiuto di un altrettanto misterioso Cavaliere Nero. Il Diseredato, nel ricevere il trofeo dalle mani di Rowena, rivela la sua identità: è Ivanhoe. Ferito, è curato da una fanciulla ebrea, Rebecca, figlia di Isacco di York, che si innamora di lui. Tornando dal torScott
Li 250 neo, Cedric, Rowena, Rebecca, Ivanhoe sono rapiti dal normanno Front de Boeuf. Il Cavaliere Nero li salva con l’aiuto di Robin Hood e dei suoi fuorilegge della foresta. Front de Boeuf, recando prigioniera Rebecca, si rifugia nel castello dei Templari, dove il fanatico Gran Maestro accusa la fanciulla ebrea di stregoneria. Rebecca ottiene che un campione si batta con Bois Guilbert per provare la sua innocenza. Ivanhoe sì presenta come suo campione. Nello scontro Bois Guilbert è stroncato dalla forza stessa delle sue passioni quando sta per avere la meglio su Ivanhoe, e muore. Il Cavaliere N. ero rivela la sua identità: è re Riccardo che impone il suo dominio sui Normanni ribelli che avevano seguito l'usurpatore Giovanni, ed ottiene anche la sottomissione dei Sassoni. Ivanhoe e Rowena si sposano, e Rebecca lascia l'Inghilterra col padre. Il romanzo mescola personaggi storici, come re Riccardo, a personaggi inventati, che consentono all’autore di ricostruire il costume sociale del tempo. Vi sono molte figure minori, come il porcaio Gurth, il buffone Wamba, il frate Tuck, a cui è affidata la componente comica, ma che risultano anche figure tipiche di un ambiente e di una classe sociale. Vi è un gusto documentario, inteso a ricostruire scenari d’epoca, con indugi minuziosi a descrivere arredi, suppellettili, abiti, armi. Ricorrono nel romanzo i luoghi caratteristici del Medio Evo romantico, soprattutto il castello e la foresta, dove s’annida una figura cara all’immaginario del tempo, il brigante gentiluomo; compaiono anche certe situazioni topiche, come il torneo, l'assedio, il giudizio di Dio. Sono tutti motivi che poi torneranno costantemente nei romanzi storici successivi, anche in quelli italiani. Alle vicende avventurose si intreccia il motivo sentimentale: l’eroe è diviso tra la bionda cristiana Rowena e la bruna ebrea Rebecca. Si presenta così una tipologia femminile, basata sulla contrapposizione tra la donna bionda e la donna bruna, destinata anch'essa a larga fortuna nella letteratura ottocentesca. In genere la bionda rappresenterà la soave donna-angelo, la bruna invece l’inquietante donnademonio, che insidia e minaccia di perdere l’eroe. Qui però Scott, come gli impone il suo moderatismo, non percorre fino in fondo questa strada: la bruna Rebecca non ha tratti inquietanti, ma è soprattutto portatrice del motivo patetico della “perseguitata” (altro t6pos molto caro al romanzo ottocentesco, ma presente già nel romanzo “nero”) e del motivo sentimentale dell’amore impossibile. Come si vede, Ivanhoe è una specie di summa di luoghi comuni romanzeschi.
su T48 |
°‘’‘’’»—Un“topos” delromanzo storico: il torneo Riportiamo le pagine conclusive dell’episodio del grande torneo di Ashby (dal cap. XILI).
Era un colpo d’occhio festoso ed impressionante insieme, questo di tanti prodi campioni, ben montati e riccamente armati, pronti per uno scontro così formidabile, saldi sulle loro selle da battaglia come tanti pilastri di ferro, mentre aspettavano il segnale d’attacco con lo stesso ardore dei loro focosi destrieri, che nitrivano e scalpitavano d’impazienza. I cavalieri tenevano dritte le loro lunghe lance, le cui punte brillavano al sole, mentre le banderuole che le adornavano sventolavano sopra le piume degli elmi. Così rimasero finché i marescialli del campo non finirono di controllare scrupolosamente i ranghi, per verificare che nessuna delle due parti avesse più o meno uomini del numero fissato. Il conto risultò esatto. Allora i marescialli si ritirarono dalla lizza, e Guglielmo de Wyvil, con voce tonante, diede il segnale: «Laissez aller!». Subito suonarono le trombe; i campioni misero le lance in resta!; gli sproni punsero i fianchi dei cavalli; e le prime file delle due schiere partirono l’una contro l’altra a gran galoppo e si scontrarono nel mezzo della lizza con un urto così forte che il fragore fu sentito ad un miglio di distanza. La retroguardi a delle due parti venne avanti a passo più moderato, per aiutare quelli che erano stati battuti, ed accrescere il successo dei vincitori nel proprio schieramento. pui risultati dello scontro non si poterono vedere subito, perché il polverone sollevato dal calpestio di tanti cavalli oscurava l’aria; e ci volle un minuto, prima che gli ansiosi spettatori potessero capire la piega che aveva preso la lotta. Quando si poté distinguere qualcosa, metà dei cavalieri di ogni par1. misero le lance in resta: disposero le | corazza, per appoggiarvi le armi durante lance per incominciare l’azione. La resta | il combattimento. era un ferro applicato al lato destro della
Il Romanticismo
in Inghilterra
21 tito erano stati sbalzati a terra, alcuni dall’abilità dei loro avversari nel maneggio della lancia; altri, dal maggior peso e forza del rivale che aveva travolto cavallo e cavaliere; altri giacevano a terra come
se non dovessero più rialzarsi; altri si erano già rimessi in piedi, e lottavano corpo a corpo con i nemici
nelle stesse condizioni; altri, infine, avendo subìto delle ferite che li mettevano fuori combattimento,
sì tamponavano il sangue con le loro sciarpe, e cercavano di uscire dalla mischia. I cavalieri ancora in sella, le cui lance erano quasi tutte volate in pezzi nella furia dello scontro, erano impegnati nei
duelli con le spade, e lanciavano i loro gridi di guerra scambiandosi botte, come se l’onore e la vita dipendessero dall’esito del combattimento. Il tumulto s’accresceva adesso con l’intervento della seconda linea di ogni schiera, che, fungendo da riserva, accorreva in aiuto dei compagni. I partigiani di Brian de Bois-Guilbert gridavano: - A@/ Beau-séant! Beau-séant?! Per il Tempio! Per il Tempio! - Gli altri gridavano in risposta - Desdichado! Desdichado!* - grido di guerra che avevano preso dalla parola che figurava sullo scudo del loro capo. Scontrandosi così i campioni, con tanta furia e con alterno successo, la marea della battaglia sembrava ondeggiare ora verso il lato sud, ora verso il lato nord della lizza‘, a seconda che uno o l’altro partito prendeva il sopravvento. Intanto il rumore dei colpi e le grida dei combattenti, uniti agli squilli delle trombe, coprivano i gemiti di quelli che cadevano, rotolando inermi sotto gli zoccoli dei cavalli. Le splendide armature dei combattenti, ora sfigurate dalla polvere e dal sangue, cedevano ad ogni colpo di spada e di ascia. Le belle piume, strappate dai cimieri, volteggiavano in aria come fiocchi di neve. Tutto ciò che era bello ed elegante nell’assetto guerriero era scomparso; e quel che ora si vedeva destava solo terrore o compassione. Eppure, tanta è la forza dell’abitudine, che non solo gli spettatori volgari, naturalmente attratti dagli spettacoli brutali, ma anche le nobili dame che gremivano le tribune, seguivano il conflitto con interesse palpitante, certo, ma senza desiderio di distogliere gli occhi da uno spettacolo così crudele. Ogni tanto, è vero, si vedeva impallidire un bel viso, o si udiva un debole grido, quando un innamorato,
un fratello, o uno sposo cadeva da cavallo. Ma, in generale, le dame incitavano i combattenti non soltanto battendo le mani e sventolando sciarpe e fazzoletti, ma anche esclamando: - Brava lancia! Buona spada! - quando vedevano qualche bel colpo. Tale essendo l’interesse che il bel sesso prendeva a questo gioco sanguinoso, tanto più facile sarà capire quale fosse quello degli uomini. Esso si manifestava con esclamazioni ad ogni mutar della fortuna, mentre gli occhi erano così fissi alla lizza che pareva che a dare e a ricevere i colpi così generosamente distribuiti, fossero gli stessi spettatori. E, durante ogni tregua, si sentiva la voce degli araldi, che incitavano: —- Lottate, prodi cavalieri! L'uomo muore, ma la gloria è immortale! Combattete; è meglio la morte della sconfitta! Combattete, valorosi cavalieri! i begli occhi delle donne mirano le vostre gesta! Tra le varie fortune della lotta, gli sguardi di tutti cercavano di scorgere i capi delle due schiere, che, cacciandosi nel fitto della mischia, incoraggiavano i compagni con la voce e con l'esempio. L’uno e l’altro si distinguevano dando prove di coraggio; e né Bois-Guilbert, né il cavaliere Diseredato, trovarono nel partito avverso un campione che potesse considerarsi indiscutibilmente pari a loro. Entrambi cercarono ripetutamente di venire a singolar tenzone, spinti da reciproca animosità, e consapevoli che la caduta di uno dei due capi sarebbe stata ritenuta decisiva agli effetti della vittoria. Ma tale era la calca e la confusione che, durante la prima parte del conflitto, i loro sforzi per incontrarsi rimasero vani, e furono più volte separati dall’irruenza dei loro seguaci, ansiosi di guadagnarsi onore misurando la propria forza contro il capo del partito avversario. Ma quando il campo si diradò per i vuoti lasciati in ambo le parti da tutti coloro che si erano dati per vinti, o erano stati respinti all'estremità della lizza, o comunque resi incapaci di continuare la lotta, il Templare e il cavaliere Diseredato s’incontrarono infine corpo a corpo, con tutto il furore che un odio mortale, unito alla rivalità d'onore, poteva ispirare. L'abilità di ognuno a parare e colpire era
tale, che gli spettatori ruppero in un grido spontaneo ed unanime che esprimeva il loro entusiasmo e la loro ammirazione.
2. Beau séant!: così si chiamava la bandiera dei cavalieri appartenenti all'ordine dei Templari. 8. Desdichado!: diseredato. È il nome del
misterioso cavaliere che si rivelerà poi Ivanhoe. 4. lizza: spazio fissato per il torneo.
Scott
5
LIL
Ma in quel momento il partito del cavaliere Diseredato ebbe la peggio; il gigantesco braccio di Front-
de-Boeuf da un lato, e la poderosa forza di Athelstane dall’altro, abbattevano e disperdevano tutti
quelli che erano esposti ai loro colpi. Trovandosi liberi dai loro avversari diretti, sembrò che ai due
cavalieri venisse contemporaneamente l’idea che avrebbero recato un vantaggio decisivo al loro partito, aiutando il Templare nel suo duello col rivale. Voltando perciò i loro cavalli nel medesimo istante,
da una parte il Normanno spronò il suo contro il cavaliere Diseredato, mentre il Sassone faceva lo stesso dall'altra. Sarebbe stato assolutamente impossibile sostenere un assalto così impari ed inatteso, se il grido generale di tutti gli spettatori, che non potevano non interessarsi a chi era esposto a un simile svantaggio, non avesse avvertito il cavaliere. - Bada! Bada! Sire Diseredato! - gridarono tutti, così che il cavaliere si rese conto del pericolo; e vibrando un colpo in pieno al Templare, fece indietreggiare nello stesso istante il proprio cavallo, in modo di evitare la carica di Athelstane e Front-de-Boeuf. Questi cavalieri, perciò, essendo loro sfuggito il bersaglio, piombarono da parti opposte tra l’oggetto del loro assalto e il Templare, quasi cozzando
i loro cavalli prima di riuscire a frenarli. Dominandoli, infine, e facendoli voltare, tutti e tre perseguirono il loro proposito comune di abbattere il cavaliere Diseredato. Nulla avrebbe potuto salvarlo, senza l’eccezionale forza e la prontezza del nobile cavallo che, il giorno precedente, aveva avuto in premio. Esso gli fu di grande aiuto quando il cavallo di Bois-Guilbert fu ferito, e quelli di Front-de-Boeuf e di Athelstane entrambi stanchi per il peso dei loro giganteschi padroni armati dalla testa ai piedi, e per le fatiche già sopportate. La maestria equestre del cavaliere Diseredato, e la prontezza del nobile
cavallo che montava, lo misero in grado, per qualche minuto, di tenere a bada in punta di spada i suoi tre antagonisti, volgendosi e roteando con l’agilità di un falco in volo, e mantenere i suoi avversari più separati che poteva, slanciandosi ora su l’uno ora su l’altro, menando colpi violenti con la spada, senza aspettare quelli che gli erano destinati di rimando. Ma sebbene la lizza risuonasse d’applausi alla sua bravura, era evidente che alla fine dovesse soccombere; e i nobili che circondavano il principe Giovanni lo supplicavano tutti ad una voce di abbassare il suo bastone di comando e salvare un cavaliere così coraggioso dalla disgrazia di essere vinto dal numero. — Non io, in nome del Cielo! - il Prince rispose. - Questo giovanotto che occulta il proprio nome e sprezza la nota ospitalità, ha già vinto un premio, e adesso deve rassegnarsi che gli altri abbiano il loro turno. - Mentre pronunciava queste parole, un incidente inatteso mutò le sorti della giornata. Tra i ranghi del Diseredato era un campione con un’armatura nera, montato su un cavallo nero, robusto e alto, che sembrava vigoroso e forte come il cavaliere che portava. Questo cavaliere, che non aveva nessuna impresa” sullo scudo, finora aveva mostrato pochissimo interesse allo svolgimento della lotta, respingendo con apparente facilità quegli avversari che lo assalivano, ma senza approfittare dei suoi successi, né cercare, a sua volta, di assalire nessuno. In breve, la sua parte era stata di spettatore più che di partecipante al torneo; atteggiamento che, tra il pubblico, gli aveva valso l’appellativo di Le Noir Fainéant, ossia il Nero Indolente. Quando vide il capo della propria schiera così a mal partito, questo cavaliere parve scuotersi improvvisamente dalla sua apatia; poiché, dando di sprone al cavallo che era fresco, accorse in suo aiuto come un fulmine, esclamando con una voce che pareva uno squillo di tromba: - Desdichado, alla riscossa! - Ed era tempo; poiché, mentre il cavaliere Diseredato premeva sul Templare, Front-de-Boeuf gli era già sopra con la spada alzata; ma, prima che riuscisse ad abbassarla, il cavaliere Nero gli vibrò un colpo sulla testa, che, scivolando sul lucido elmo, andò ad abbattersi con violenza appena attenuata sul frontale del cavallo facendolo rotolare a terra, e con esso Front-de-Boeuf, entrambi travolti dalla
violenza del colpo. Dopo di che, il Nero Indolente voltò il corsiero contro Athelstane di Coningsburgh;
e poiché aveva spezzata la propria spada nello scontro con Front-de-Boeuf, strappò dalla mano del
corpulento Sassone l’ascia che brandiva, e, come uno cui l’arma fosse familiare, gli assestò un colpo tale sulla cresta dell’elmo, che Athelstane andò anch'egli a giacere sul campo, privo di sensi. Compiuta questa duplice azione, che gli procurò tanti più applausi in quanto nessuno se l’aspettava da lui, il cavaliere parve ricadere nella sua apatia, e se ne ritornò tranquillamente verso l’estremità nord della 5. impresa: stemma nobiliare seguito dal motto.
Il Romanticismo
in Inghilterra
LIS lizza, lasciando che il suo capo se la cavasse meglio che poteva con Brian de Bois-Guilbert. Ciò non era più così difficile come prima. Il cavallo del Templare aveva perso molto sangue, e cedé all’urto della carica del cavaliere Diseredato. Brian de Bois-Guilbert rotolò a terra, impigliato in una staffa dalla quale non riusciva a liberare il piede. Il suo avversario, balzato da cavallo, gli agitò sulla testa
la spada fatale, ordinandogli di arrendersi; ma il principe Giovanni, più commosso dalla pericolosa situazione del Templare che non fosse prima stato da quella del suo rivale, lo salvò dall’umiliazione di darsi per vinto, gettando il suo bastone, e ponendo così fine al conflitto. Traduzione di M. S. Ferrari, in Waverley e Ivanhoe, Casini, Roma 1964
n
ANALISI DEL TESTO
Forma
Sottolineiamo alcune caratteristiche di questo passo: ; — Il gusto documentario, che mira a ricostruire il costume e l'atmosfera dell’epoca passata. — Il gusto del pittoresco storico: il narratore si compiace evidentemente allo spettacolo delle armi scintillanti, dei pennacchi, delle banderuole che si agitano al vento, così come sì compiace nel rappresentare le gesta di prodezza guerriera. -—Imeccanismi romanzeschi elementari: l’identità dell'eroe, a cui è indirizzata la simpatia del narratore e del lettore, è ignota, per accrescere la sospensione e avvincere l’attenzione del pubblico; un Aiutante altrettanto misterioso interviene a soccorrerlo, ed è romanticamente vestito di nero. -— Iruoli sono schematicamente definiti: un odio mortale divide l’Eroe dall’ Avversario, che naturalmente è il Malvagio per eccellenza. Non vi sono personaggi problematici. — La forma narrativa usata da Scott è il racconto in terza persona, condotto da un nar-
narrativa
ratore esterno al piano del narrato (eterodiegetico: cfr. M 1, $ 2.1), onnisciente, che inter-
*’ Gusto documentario Il pittoresco Meccanismi romanzeschi
I ruoli
-
viene con spiegazioni, commenti e giudizi. E un modulo già usato da Fielding nel Settecento e che godrà larga fortuna, tanto da imporsi come il canone tipico del romanzo del primo Ottocento. Anche Manzoni, Balzac, Stendhal vi faranno ricorso.
| PROPOSTE DI LAVORO 1. Il brano è scritto da un tipico narratore onnisciente; quali indizi rivelano la sua presenza? (riflettere in particolare sull’uso dell’aggettivazione). 2. Quali caratteristiche presentano i personaggi principali, ovvero il Templare, il cavaliere Diseredato, il Nero Indolente?
3. Quali aspetti tipici del romanzo storico sono presenti nel brano antologizzato? (cfr. Quadro di riferimento Il, $ 11.2).
4. Il torneo viene descritto come un momento della vita di guerra o piuttosto come uno spettacolo?
+ Cfr. La critica, C15
Scott
254 4. Il Romanticismo negli Stati Uniti A24. Edgar Allan Poe Nacque a Boston nel 1809, da attori girovaghi. Il padre era alcolizzato e trasmise
La vita
al figlio la tara dell’etilismo. Rimasto orfano, fu adottato da un ricco mercante, al
Allan (donde il secondo nome), ma col patrigno ebbe sempre rapporti difficili. La sua giovinezza fu tormentata ed inquieta; fu giocatore, bevitore, vagabondo. Ma già nel 1827 pubblicò la prima raccolta di versi, Tamerlano e altre poesie. A scrivere era spinto anche dal bisogno: i suoi racconti, pubblicati su periodici, avevano successo, ed egli fu spronato a praticare quel genere letterario. Fu direttore di varie riviste, e passò dall'una all’altra sempre più inquieto e insoddisfatto. Nel 1847 gli morì la giovane moglie; fu per lui un trauma terribile, che lasciò traccia in alcuni dei suoi racconti più allucinati (tra cui proprio quello che riportiamo, La rovina della casa degli Usher, dove il rapporto tra Roderick e Madeline adombra quello tra Poe e la moglie Virginia). Nel 49, a Baltimora, per strada, mentre usciva da una taverna,
I caratteri
fu colto da un attacco di delirium tremens (conseguenza dell’alcolismo), che lo portò alla morte. Tra le sue opere si possono ancora ricordare le Poeste (1831), il romanzo avventuroso e fantastico Gordon Pym (1837) e i racconti di Grotteschi ed arabeschi (1840). Ha lasciato anche scritti critici di grande acutezza (Filosofia della composizione), in cui sono anticipati principi che saranno propri del Decadentismo. Con la sua vita disordinata e inquieta ed i suoi atteggiamenti ribelli, Poe incarna la tipica figura dell’artista romantico, ed anticipa già la figura del “poeta maledetto”, che sarà propria del secondo Ottocento. Per questo fu ammirato da un altro grandissimo artista “maledetto”, Charles Baudelaire (cfr. A30) che gli assicurò fama in Europa traducendo i suoi Racconti straordinari. Attraverso Baudelaire, Poe ebbe larga influenza sugli scrittori scapigliati (cfr. Parte III, La Scapigliatura). L’arte di Poe, specie nei suoi racconti, è una delle espressioni più profonde di
dell’arte di Poe
un’essenziale tendenza romantica: l'esplorazione della zona buia della psiche, dove
Le opere
si annidano i “mostri”, i terrori, le angosce, gli impulsi inconfessabili. E questa la caratteristica di quel filone della letteratura romantica che abbiamo definito “nero”. I racconti di Poe talvolta ottenute bro e l’orroroso. tuna, il racconto sassino da parte di Marie Roget).
T49
"i :
sono dominati da atmosfere allucinate, stravolte, dense di mistero, con grande economia di mezzi, talvolta invece puntando sul macaPoe fu anche il creatore di un genere destinato ad immensa for“poliziesco”, fondato su un misterioso delitto e sulla ricerca dell’asdi un acuto investigatore (I delitti della via Morgue, L'assassinio
La rovina della casa degli Usher Il racconto risale al 1839 e fu pubblicato nel ’40 nei Grotteschi ed arabeschi.
Per tutta una fosca giornata, oscura e sorda, d’autunno, col cielo greve e basso di nuvole, avevo cavalcato da solo traverso a una campagna singolarmente lugubre fino a che mi trovai, mentre già cadeva l’ombra della sera, in vista della malinconica casa degli Usher. Non so come, ma appena l’ebbi guardata una sensazione d’insopportabile tristezza mi prese l’anima. Insopportabile, dico, già che non
le si univa il sentimento poetico e perciò quasi piacevole che accompagna in genere le immagini naturali anche quando siano le più cupe della desolazione e del terrore. Guardavo la scena che mi stava davanti: e lo spettacolo della casa e del paesaggio all’intorno, le fredde mura, le finestre come vuote
Il Romanticismo
negli Stati Uniti
LI orbite, i radi filari di giunchi e alcuni bianchi tronchi risecchiti, mi davano un avvilimento così estremo
che potrei paragonarlo soltanto allo stato del mangiatore d’oppio durante l’amaro ritorno alla realtà quotidiana, l’orribile momento in cui il velo dilegua. Era un gelo nel cuore; e una oppressione, un malessere, e nella mente un invincibile orrore, che la rendeva inerte ad ogni stimolo della fantasia. Che cosa, dunque, mi soffermai a pensare, rendeva tanto penosa la contemplazione della casa degli Usher? Ma rimaneva un mistero insolubile; né io riuscivo ad aver ragione delle ubbie! tenebrose che mi si affollavano dentro mentre riflettevo. E fui costretto a ritrarmi sulla conclusione poco soddisfacente che esistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno potere di rattristarci fino a un tal punto, ancorché l’analisi di questo potere dipenda da considerazioni troppo profonde rispetto a noi. Pensavo che forse una qualsiasi differenza nella disposizione degli elementi della scena, dei particolari del quadro, sarebbe bastata a modificare o persino forse a distruggere tanta forza di dolorosa impressione; spinto da questo pensiero, condussi il cavallo sulla riva scoscesa d’un lugubre stagno d’acque
morte che si stendeva, nel suo nero luccicore, presso la dimora; e guardai, ma ne ebbi un tremito ancora più profondo; guardai, riflesse, capovolte, le immagini dei giunchi di cenere, dei tronchi sinistri e delle finestre simili ad occhi vuoti. .., Erain questo soggiorno di malinconia, che io mi disponevo nondimeno a vivere per qualche tempo. Il proprietario, Roderick Usher, era stato fra i più cari compagni della mia infanzia, sebbene parecchi anni fossero trascorsi dall’ultimo nostro incontro. E tuttavia, una lettera mi aveva ultimamente raggiunto in una lontana regione del paese, una lettera di lui, il disperato tono della quale non ammetteva altra risposta che la mia presenza. La calligrafia palesava una agitazione nervosa. Ed Usher mi parlava di una acuta malattia fisica, d’uno squilibrio mentale che l’opprimeva, e d’un ardente desiderio di vedermi, chiamandomi il suo migliore ed anzi unico amico; nella gioia della mia presenza, sperava trovare qualche sollievo al suo male. Fu il tono di queste parole e di molte altre ancora, fu la profusione di cuore che accompagnava questa preghiera, a non concedermi modo di esitare; e senz'altro obbedii, pur meravigliandomene, come d’un ordine singolare. Nonostante l’intimità che ci aveva uniti da ragazzi io sapevo ben poco del mio amico. Egli aveva mantenuto, d’abitudine, un eccessivo riserbo. Mi era noto tuttavia che la sua famiglia antichissima si era distinta da tempo immemorabile, per il temperamento d’una speciale sensibilità dispiegato”, attraverso i secoli, in opere d’arte elevate, e, da ultimo, in ripetuti atti d’una generosa quanto discreta carità, come nella vocazione appassionata per i labirinti della scienza musicale (più, forse, che per le sue ortodosse e facilmente riconoscibili bellezze). Avevo appreso anche che dal tronco tanto glorioso
dell’antica razza degli Usher non erano sorti mai durevoli rami; che, in altre parole, a parte qualche effimera eccezione, l’intera famiglia si era perpetuata nella pura sua discendenza diretta. Era stata questa mancanza, pensavo, e intanto fantasticavo sul perfetto combaciare del carattere del luogo con
quello ben noto della razza, e riflettevo sull’influenza che in tanti secoli l’uno poteva aver esercitato sull’altro; era stata forse questa mancanza di deviazione collaterale e la conseguente trasmissione continua di padre in figlio dell’eredità del patrimonio e del nome, a identificarli l’uno nell’altro fino a trasformare il titolo originario della proprietà nell’equivoco e strano appellativo di «casa degli Usher», l’appellativo che, per la rustica gente del luogo, sembrava comprendere insieme la famiglia e la sua dimora. Ho detto che il mio atto abbastanza infantile, di guardare giù nello stagno, aveva avuto per sola conseguenza d’approfondire la prima, singolare impressione. E certo la coscienza del rapido intensificarsi della mia superstizione — perché la chiamerei altrimenti? — ne era stato in qualche modo l’agente principale. Questa, lo sapevo da tempo, è la regola paradossale di tutti i sentimenti che hanno alla loro base il terrore. E forse soltanto per questo, quando sollevai di nuovo lo sguardo dal riflesso nello
stagno verso la casa, subii una bizzarra immaginazione, così ridicola, davvero, che ne parlo soltanto per mostrar l’impeto delle sensazioni che m’opprimevano. La mia fantasia era così eccitata che credetti di notare intorno alla proprietà un'atmosfera particolare, «sua» e degli immediati dintorni, un’atmosfera diversa da quella del cielo, ma che esalavano gli alberi intristiti, ela muraglia grigia e la silen-
ziosa palude, una vaporosità pestilenziale e mistica, appena visibile ma fosca, inerte e color di piombo.
1. ubbie: timori infondati. 2. dispiegato: manifestato.
Poe
3 256 Respingendo da me quel che doveva essere stato un sogno, cercai d’esaminar meglio l'aspetto reale dell’edificio. Carattere principale ne pareva un’eccessiva antichità. I secoli l'avevano profondamente
tesscolorito, e minute fungosità ricoprivano la facciata, fino al tetto, come un delicato intreccio di c’era e intatta, era fabbrica? la ri; straordina ti deperimen suto. Ma tutto questo non aveva provocato una contraddizione violenta fra il consistere ancora perfetto delle sue parti e il deperimento delle singole pietre, che mi faceva pensare all’integrità speciosa‘ di qualche vecchia tavola di legno rimasta
lungamente a marcire in una cantina dimenticata, lontano dall’aria esterna. Ma, a parte questa corrosione di tutta la superficie, la casa pareva ancora abbastanza salda; forse l’occhio d'un puntuale osservatore avrebbe scoperto una quasi impercettibile fessura, che, partendo dall’alto della facciata, percorreva il muro a zig-zag perdendosi infine nelle acque malsane della palude. Sempre osservando queste cose, avevo cavalcato lungo il rialzo che portava alla casa. Qui il guardiano mi prese il cavallo; e passai sotto l’arco gotico dell’androne. Un servo dal passo furtivo mi guidò allora, in silenzio, per corridoi bui e intricati verso lo studio del padrone. Molto di quel che incontravo
per via valeva, non so come, a rafforzare le oscure impressioni di prima; sebbene le cose fra cui passavo — i foschi arazzi alle pareti, i pavimenti color d’ebano, e gli intarsi dei soffitti, e i trofei fantasmagorici* le cui armature rumoreggiavano dietro i miei passi - fossero ancora quelle, o simili a quelle cui io ero abituato dall’infanzia; sebbene non esitassi a riconoscerle per tali, esse destavano in me imma-
gini che non mi erano affatto familiari, e io me ne stupivo. Lungo una scala, incontrai il medico di casa; mi parve che la sua fisionomia esprimesse un misto di bassa malignità e di timore. M’incrociò con evidente trepidazione, e passò oltre; il domestico, in quel punto, aprì una porta e mi introdusse.
Mi trovai in una stanza dall’alto soffitto e ampissima. Le lunghe finestre gotiche erano così alte, sul nero pavimento di quercia, da divenir assolutamente inaccessibili. E la debole luce cremisi che traversava i vetri ingraticciati bastava appena a lasciar distinguere gli oggetti principali; gli occhi sì sarebbero sforzati invano di raggiungere i lontani angoli della stanza, o i recessi della volta intagliata. Oscuri arazzi ricoprivano le pareti; c’era una profusione di mobilio, antico, ingombrante, logoro e sparsi ovunque libri e strumenti musicali che non riuscivano ad animare la scena. Mi accorgevo di respirare un’aria di pena: un’aria di buia malinconia, profonda e irredimibile che sovrastava, e pervadeva tutto. Usher, al mio ingresso, lasciò il sofà sul quale era sdraiato, e mi venne incontro con una calda vivacità che mi parve, al primo momento, fatta d’enfasi esagerata con qualche sforzo, per adempiere i noiosi doveri d’un uomo di mondo. Ma bastò che guardassi il suo volto, per convincermi della sua completa sincerità. Ci sedemmo; e, per qualche istante, siccome egli taceva, lo contemplai con un senso di spavento e di pietà. Certo, in un periodo tanto breve, nessun uomo aveva subito mai cambiamento terribile come questo di Roderick Usher! Potevo a stento persuadermi dell’identità di questo spettro che stava davanti a me, con il compagno della mia infanzia; pure, il suo viso aveva sempre avuto caratteristiche singolari. Il pallore eccezionale, gli occhi ampi e liquidi, pieni di luce, le labbra esangui e piuttosto sottili, ma meravigliosamente disegnate; il naso affilato e lievemente ricurvo, dalle narici stranamente larghe per la sua forma; il mento modellato con delicatezza, e che tradiva, con la sua scarsa prominenza, un difetto di volontà; i capelli morbidi e fini, tutto questo, cui si aggiungeva l’enorme ampiezza della fronte, formava una fisionomia che non era facile dimenticare. Ma, ora, un cambiamento così intenso vi era stato portato dall’accentuarsi eccessivo di quelle caratteristiche, che io non sapevo quasi a quale persona parlassi. Ora, la pallidezza da fantasma del volto, e il sorprendente splendore dello sguardo mi colpivano in modo speciale; e mi mettevano paura. Inoltre egli aveva lasciato che i suoi capelli sottili crescessero a piacer loro; vedendoli spumeggiare intorno al suo viso in mille fili selvaggi io non potevo, nonostante ogni sforzo, riferire questa strana immagine d’arabesco a una qualunque idea di semplice umanità. Avvertii subito nel contegno del mio amico qualche cosa d’incoerente, ossia d’inconsistente, e mi accorsi presto come provenisse dal continuo tentativo, debole e senza speranza, di sormontare un’abituale trepidazione, un eccesso di agitazione nervosa. Mi ci aveva del resto preparato, non solo la sua 8. fabbrica: costruzione.
4. speciosa: apparente. 5. fantasmagorici: costituiti in modo tale
Il Romanticismo
che, accostati senza un ordine preciso, sug-
gerivano immagini fantastiche.
negli Stati Uniti
RIC lettera, ma anche il ricordo di certi momenti della sua infanzia; e tutto quanto si poteva dedurre dalla sua peculiare conformazione fisica e dal temperamento. Nel contegno di Usher si erano sempre alternate vivacità e debolezza; la voce che si perdeva sovente in un tremito d’indecisione (e, allora, pareva
che gli spiriti vitali fossero del tutto scomparsi), saliva rapidamente a un tono di concisione energica,
a una pronuncia acuta e dura, compatta e insieme vuota, a quell’articolazione gutturale ma perfetta-
mente modulata, che si osserva nei più disperati bevitori e negli oppiomani incorreggibili durante i
loro più intensi periodi d’eccitazione.
Fu dunque così che egli m’intrattenne intorno alle ragioni della mia visita, il desiderio ardente che aveva di vedermi, e il conforto che sperava di trovare in me. Abbastanza a lungo, parlò di quel che costituiva secondo lui la natura del suo male. Si trattava, secondo le sue parole, d’una ancestrale® irrimediabile malattia; no, d’una semplice affezione nervosa, egli aggiunse immediatamente; che sarebbe certo scomparsa tra poco. Essa si manifestava con una moltitudine di sensazioni anormali; mentre ‘ me le citava, più d’una riuscì a interessarmi e a turbarmi; ma forse c’entrò molto il tono delle parole. Lo tormentava una morbosa acutezza dei sensi. Soltanto i cibi privi quasi di sapore gli riusciva di tollerare; soltanto di certe stoffe si poteva vestire; il profumo dei fiori lo soffocava; gli occhi si sentiva torturati dalla più debole luce; ed ogni musica, salvo certi suoni degli strumenti a corda, gli dava orrore. Capii che era lo schiavo impotente d’una strana forma di terrore. «Finirò per morire», mi disse «io devo morire, di questa maledetta pazzia. Finirò così, così e non altrimenti. Se ho paura di quel che sta per venire, non è altro che per i suoi effetti su di me. Mi dà i brividi pensare alle conseguenze che un qualsiasi incidente, anche il più banale, può avere su questa agitazione tremenda della mia anima. Davvero, non provo orrore del pericolo che per la sua conseguenza sicura: il terrore. Sento che in questo mio triste stato, in questo stato d’impotenza, vado incontro presto o tardi al momento che la vita e la ragione mi abbandoneranno allo stesso tempo, nel mentre si dibattono contro il sinistro spettro,
la PAURA!» Appresi anche, per intervalli, e traverso confidenze rotte ed ambigue, un altro strano aspetto della sua situazione morale. Si sentiva incatenato a impressioni superstiziose — riguardanti la sua dimora, . dalla quale non osava uscire da molti anni - riguardanti un influsso della cui presunta potenza egli parlò con parole troppo tenebrose perché io le possa riportare qui; un influsso ch’erano riusciti ad ottenere su di lui, per via di lunghe sofferenze, talune caratteristiche della forma e della materia stessa della dimora avita; un influsso esercitato a poco a poco, sulla sua esistenza morale, dal fisico delle torri e dei muri grigi e della nera palude che li rifletteva. Esitando, egli ammetteva tuttavia che gran parte della sua singolare tristezza proveniva da un’origine più naturale e molto più semplice; dalla malattia lunga ed aspra, anzi, dall’evidente avvicinarsi della morte di una sorella adorata, sua sola compagna per molti anni, sua sola parente ormai sulla terra. «La morte di lei» egli proseguì con un’amarezza che non dimenticherò più «mi farà l’ultimo dell’antica razza degli Usher: resterò solo io, così fragile e disperato!» Mentre parlava, lady Madeline (poiché questo era il suo nome) lentamente passò per il fondo della stanza e sparì senza darmi segno d’essersi accorta di me. Mi suscitò uno stupore estremo, e paura: non riuscii però nemmeno a rendermi conto di queste sensazioni. Un’atmosfera di sbalordimento m’opprimeva intanto che i suoi passi si allontanavano. Allorché, infine, una porta si fu richiusa dietro di lei, il mio sguardo cercò con ansia
istintiva lo sguardo del fratello; ma egli aveva seppellito il viso tra le mani, e potei soltanto vedere che una bianchezza anormale gli aveva preso le dita smagrite ed umide di lagrime.
La malattia di lady Madeline si faceva gioco da tempo della scienza dei medici. Le strane sue carat-
teristiche consistevano nell’ostinata apatia, nel progressivo sfinimento del fisico, rotti da crisi rapide
e frequenti di semicatalessi. Fino allora ella aveva portato il suo peso con fermezza, e neppur si era rassegnata a restare a letto; ma, sulla fine della mia prima serata nella casa, bisognò che cedesse (così m’informò durante la notte e con immensa agitazione il fratello) alla potenza del male; seppi che probabilmente non sarebbe più apparsa al mio sguardo, che, almeno vivente, non l’avrei più riveduta. Né Usher né io per alcuni giorni pronunciammo il suo nome; in questo periodo non risparmiai sforzi
per confortare il mio amico; e leggevamo o dipingevamo, e ascoltavo talvolta, come dentro un sogno,
le sfrenate e suggestive sue improvvisazioni colla chitarra.
6. ancestrale: atavica, che proviene dagli antenati.
Poe
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9
Meglio la nostra crescente intimità mi permetteva d’entrare nel fondo della sua anima, e meglio potevo comprendere quanto amaramente inutili fossero tutti gli sforzi per risanare uno spirito dal quale il buio, come una qualità sua particolare e positiva, si riversava in un’incessante irradiazione luttuosa i i sopra tutti gli oggetti dell’universo.
Peserà sempre su di me il ricordo delle molte ore gravi che trascorsi così, 10 solo, col padrone della | casa degli Usher. Ma tenterei invano di riferire con esattezza il carattere degli studi ed occupazioni nei quali egli mi implicava. Una spiritualità morbosa illuminava le cose col suo splendore di zolfo. Le lunghe nenie che Usher improvvisava risuoneranno eternamente nella mia mente; e rammento, in modo speciale, una perversa e sconcertante deformazione dell’ultimo valzer, del selvaggio ultimo valzer di ‘ Weber”. Quanto alla pittura che gli nasceva dal calore della tormentata immaginazione, e che io vedevo concentrarsi, pennellata per pennellata, in misteriose forme che più non riuscivo a compren-
dere e più mi facevano rabbrividire; quanto alla sua pittura, benché ne abbia tuttora l’immagine viva davanti agli occhi, non saprei ridurne che una parte minima dentro-al compasso della parola scritta. Il pittore afferrava, teneva stretta l’attenzione attraverso un’estrema semplicità e quasi nudità di mezzi. Se riuscì mai, un mortale, a dipingere un’idea, questo mortale fu Usher. Certo, per me - nelle circostanze in cui mi trovavo — dalle astrazioni che il mio malinconico compagno s’infervorava a dipingere sorgeva una irresistibile impressione di terrore; impressione che non ho nemmeno per ombra provato a contemplare le pur incandescenti ma troppo concrete fantasmagorie di Fuseli*. Forse una tra queste rappresentazioni fantasmagoriche del mio amico, perché meno rigidamente astratta, può venir lievemente adombrata dalle parole. Si trattava di una piccola tela con un interno di cantina o di sotterraneo rettangolare, immensamente lungo, dalle pareti basse; bianco, liscio, senza interruzione né ornamento. Alcuni particolari del disegno servivano a lasciar comprendere come ci si trovasse ad una enorme profondità sotto la superficie della terra. Nell’ampia distesa del sotterraneo non si scorgevano uscite, e non si scorgevano torce né altre sorgenti di luce, ma un incomprensi-
bile fiume di raggi lo riempiva d’uno splendore intenso, squallido e solitario... Ho accennato come il nervo acustico dell’infelice non tollerasse nessuna musica all’infuori che certi suoni degli strumenti a corda. Era stata forse la ristrettezza dei limiti dentro i quali, per questa affezione morbosa, egli era costretto a suonare la chitarra, che aveva in gran parte provocato la bizzarria delle sue composizioni. Ma non si poteva pensare così della fremente facilità dei suoi impromptus?. Sia le note sia le parole delle sue sfrenate fantasie (egli accompagnava spesso la propria musica con dei versi) dovevano essere, ed erano infatti, il risultato di quell’intensa concentrazione di forze spirituali che, come ho detto più sopra, si produce in momenti specialissimi della più acuta eccitazione artificiale. Ho potuto ricostruire facilmente nella mia memoria le parole d’una delle rapsodie. M’impressionarono forse più del giusto, quando le conobbi; perché, nel loro profondo, 0, diciamo, più mistico significato credetti per la prima volta di scoprire una piena coscienza, da parte di Usher, che la ragione gli si oscurava. Questi versi s’intitolavano Il palazzo maledetto e se non precisamente, almeno press’a poco, sonavano così:
ni Nella nostra più verde vallata, abitata dagli angeli, un palazzo grandioso, una volta,
innalzava la fronte raggiante; nel domimio del re Pensiero, la sua fronte si ergeva laggiù! Mai spiegò, serafino, le ali su dimora splendente così. 7. Weber: Karl Maria von Weber (17861826), musicista tedesco. l
8. fantasmagorie di Fuseli: forma inglese del nome del pittore e scrittore d’arte sviz-
Il Romanticismo
2 Sulla cima, ondeggiavano al vento vittoriose bandiere dorate (è lontan, tutto questo, nel tempo,
è lontano, di tanto tempo fa); m quei giorni felici d’allora a ogni fragile fiato di vento lungo è chiari bastioni, fra l’erba, passava un profumo leggero.
zero Fùssli (1741-1825), che dipinse figure allucinate, d’incubo, cfr. Arte 7, fig. 14.
9. impromptus: composizioni musicali a schema libero.
negli Stati Uniti
259 3 Il viandante, guardando il castello, due finestre lucenti scorgeva; e là dietro, movimenti armoniosi
di fantasmi obbedienti ad un liuto; tutt'intorno ad un trono, seduto (porfirogénato!) il re, il signore di tutto il regno, era, nella sua gloria, veduto.
5 È
sù
4 Scintillava di perle e rubini la porta del bel palazzo e ne usciva a torrenti, a torrenti
una folla smagliante di Echi; la cui dolce funzione era solo di cantare cantare cantare, con le voci più belle del mondo, la sapienza sottile del re...
6
;
Ma geni del male, vestiti a lutto
Chi percorre, ancora, la valle,
assalirono la casa del monarca (ah piangiamo, piangiamo, ché mai
dietro quelle vetrate rossastre scorge forme in un moto confuso,
l'indomani avrà alba per lil),
ode musiche senza ritmo;
sè che intorno alla casa, la gloria risplendente una volta di porpora sì è mutata in oscura memoria degli anni travolti laggiù.
mentre esce una folla di mostri attraverso la porta oscura, come un fiume lugubre in piena; ride ma non sorride più.
Ricordo, con esattezza, che abbandonandoci alla corrente di sensazioni e di idee destate da questa
ballata, giungemmo a un punto dove si rese manifesta un’opinione di Usher che desidero citare non per la sua assoluta novità (poiché altri* hanno affermato la stessa cosa) ma per l’energia ostinata con la quale egli la sosteneva. Quest’opinione, in complesso, riguardava la sensibilità del mondo vegetale, sensibilità che Usher affermava con forza. Ma nella sua mente eccitata essa aveva preso un carattere più audace, e, sotto certe speciali condizioni, abbracciava l’intero mondo inorganico. Mi mancano parole per esprimere la pienezza, l’accanita certezza di questa sua convinzione. Essa si riattaccava in ogni modo, come ho accennato, alla realtà singola della vecchia dimora, delle sue pietre grigie. Le condizioni necessarie per la «sensibilità» erano state osservate qui, egli pensava, nel metodo seguito per collocare ogni pietra, nell’ordine che si era loro dato e nell’ordine naturale in cui le fungosità che le ricoprivano erano cresciute, in cui gli alberi intristiti le circondavano, soprattutto nella lunga immutabilità della scena, e in quel suo riflettersi dentro le acque immobili dello stagno. L’evidenza, l’evidenza di questo loro sentire si manifestava, secondo Usher (e, qui, le sue parole mi fecero trasalire), nel concentrarsi lento ma costante di un’atmosfera particolare intorno ai muri, alle acque. Ed egli aggiunse che se ne potevano vedere i risultati nell’influenza silenziosa, ma crudele, che aveva come modellato, attraverso i secoli, il destino della famiglia, e che aveva reso lui quale adesso lo vedevo, quale adesso era. Opinioni simili non si possono commentare. I nostri libri — i libri che per anni avevano formato non piccola parte della vita spirituale dell’infermo - erano, e lo si può immaginare, in relazione stretta col suo carattere di visionario [...]. Ma la
sua delizia era un in-quarto!! gotico eccezionalmente curioso — il manuale d’una chiesa dimenticata — le Vigiliae Mortuorum secundum Chorum Ecclesiae Maguntinae"?. Non potei fare a meno di ricordare le strane ritualità contenute in questo volume, quando, una sera, dopo avermi bruscamente informato della morte di lady Madeline, egli mi comunicò la sua intenzione di conservare il corpo di lei per una quindicina di giorni (in attesa del definitivo seppellimento) in uno dei molti sotterranei scavati dentro le mura maestre dell’edificio. Egli attribuiva al suo dise-
gno, però, una ragione più umana, tanto che non mi parve lecito discuterlo. Mi disse che lo guidava il pensiero della stranezza della malattia che gli aveva rapito la sorella, e della importuna e violenta curiosità scientifica dei suoi medici, che avrebbero potuto approfittare per questo della situazione remota ton 10. porfirogenito: nato nella porpora; era | Essays, vol. V (n.d.A.). 11. in-quarto: nella terminologia tipograappellativo degli imperatori bizantini. fica l’«in-quarto» è il formato di un libro * Watson, il dottor Percival e soprattutto un foglio il vescovo di Landaff. Vedi Chemical | che si ottiene piegando in quattro
1 l di stampa. 12. Vigiliae ... Maguntinae: «Le veglie dei morti secondo il Coro della chiesa di Magonza».
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ed indifesa della tomba di famiglia. Non nascondo che rammentando il contegno, e la fisionomia sinistra dell’uomo incontrato la prima sera sulle scale, mi parve di non dovermi opporre in aleun modo i a tale precauzione: in ogni caso, assolutamente innocua, e niente affatto innaturale. Dietro preghiera di Usher, lo aiutai nei preparativi per la sepoltura provvisoria. Disposto il corpo nella bara, lo portammo, noi soli, verso il suo primo riposo. Il sotterraneo dove lo deponemmo non veniva aperto da tempo infinito, e le nostre torce, soffocate dall'atmosfera opprimente, davano scarsissima luce. Esso appariva piccolo, umido, senza comunicazione col chiarore del giorno. Era situato a una grande profondità, proprio al disotto dell’ala dell’edificio dove si trovava anche ilmio appartamento; negli antichi secoli del feudalesimo doveva esser stato usato come segreta per 1 casì peggiori, più tardi come deposito di polvere o d’altre sostanze combustibili e il suolo, così come tutto il lungo passaggio a volta che precedeva, era accuratamente foderato di rame. E così la porta che era di ferro massiccio. Il suo peso enorme diede un suono singolarmente acuto e stridente, quando la si fece girare sui cardini.
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Deponemmo dunque il nostro lugubre fardello in questo luogo d’orrore, su dei cavalletti; spostammo leggermente il coperchio della bara, non ancora inchiodato; e tenemmo un momento gli occhi fissi sul volto del cadavere. Mi colpì immediatamente l’intensa rassomiglianza col fratello; e Usher, come indovinando il mio pensiero, mormorò che lui e la defunta erano gemelli, e che inesplicabili affinità li avevano uniti. I nostri sguardi, tuttavia, non restarono su di lei a lungo; ci era impossibile contemplarla senza terrore. Il male che aveva vinto lady Madeline nella piena giovinezza, aveva lasciato l’ironia d’un leggero colore roseo —- come succede di solito nelle malattie a stretto carattere catalettico - sul collo e sul volto, e le labbra conservavano un sorriso: il sorriso stanco ed ambiguo che è tanto pauroso nella morte. Rimettemmo al suo posto e fissammo con le viti il coperchio; chiusa bene la porta di ferro, riprendemmo con pena il cammino, verso gli appartamenti superiori che ci davano scarsa promessa di conforto. Dopo alcuni giorni di dolore, il disordine spirituale del mio amico subì una evidente trasformazione. Egli non si comportava più come prima, trascurava o dimenticava le sue occupazioni abituali. Errava di stanza in stanza senza scopo, a passi ineguali e precipitosi; e la sua pallidezza si era fatta, se possibile, ancor più spettrale; ma gli occhi avevano perduto ogni luce. Non tornavano più, nella voce, quegli accenti d’incisività rauca; adesso, egli parlava sempre con un tremito come d’estremo terrore. C'erano davvero momenti che io sospettavo nella sua mente il tormento d’un chiuso segreto, per la cui rivelazione gli mancasse il coraggio; altre volte, dovevo vedere in tutto questo soltanto il segno della pazzia poiché mi accadeva di trovare Usher a guardare nel vuoto - e così restava per lunghe ore - nell’attitudine di chi ascolti, con attenzione profonda, qualche immaginario rumore. Ci si può meravigliare che il suo stato mi opprimesse e che, anzi, provocasse in me una specie di contagio? Sentivo arrampicarsi sulla mia anima, con un progresso lento e incessante, il contagio delle folli superstizioni. Fu specialmente verso la settima o ottava notte dopo il trasporto di lady Madeline nel sotterraneo, che, stando a letto, provai la tremenda intensità di queste sensazioni. Il sonno non aveva voluto avvicinarsi al mio guanciale; le ore colavano, colavano lentamente. Avevo tentato, alla fine, di dominare ragionando i miei nervi; volli persuadermi che se non proprio tutto, almeno una gran parte di quel che provavo mi veniva dalla sconcertante influenza delle cose della stanza; forse dalle buie tappezzerie di stoffa che, vecchie e lacerate in più punti, tormentate dal soffio dell'uragano che saliva, si agita-
vano a tratti sulle pareti, e circondavano il letto del loro inquieto sussurro. Ma i miei sforzi furono
vani. Non potevo sormontare il terrore che m’invadeva e si trasformava ormai in angoscia, in un irra-
gionevole incubo che mi opprimeva il cuore. Con uno sforzo più violento riuscii a sollevarmi sul capezzale; appuntando lo sguardo dentro l’oscurità profonda della stanza, stetti ad ascoltare - non so perché, se non per un avvertimento istintivo — e colsi suoni bassi e misteriosi di cui non comprendevo la provenienza; mi giungevano, a lunghi intervalli, attraverso la tempesta. Fui invaso da un intollerabile orrore. Mi vestii in fretta (sicuro che il resto della notte non avrei egualmente chiuso occhio), e cercai di ritrovare la calma col percorrere su e giù, a grandi passi, la stanza. Avevo fatto soltanto alcuni giri, a questa maniera, quando un passo leggero su per la scala vicina mi fece star di nuovo in ascolto. E riconobbi il passo di Usher. Un attimo dopo, egli bussava piano piano alla porta; ed entrò, reggendo una lampada. La sua fisionomia era sempre d’un pallore spettrale — ma, adesso, negli occhi era anche una sorta d’ilarità insensata — e tutto, in lui, rivelava un contenuto
Il Romanticismo
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261 isterismo. Il suo aspetto era spaventoso, ma niente poteva valere, in questo senso, la solitudine che mi era pesata addosso così a lungo, e il suo ingresso mi fu di sollievo. «E voi non avete veduto?» egli esclamò di colpo, dopo qualche istante di silenzio. «Dunque non avete veduto? Ma, aspettate! Dovrete pur vedere!» Così dicendo, dopo aver riparato con cura la lampada, corse precipitosamente verso una delle finestre e la spalancò sulla tempesta. Il furioso impeto del vento ci strappò quasi dal suolo. Era una terribile notte d’uragano ma solennemente bella, unica nel terrore della sua bellezza. Un turbine si produceva, evidentemente, vicino a noi; perché il vento mutava continuamente di direzione, e la densità eccezionale delle nuvole, così
basse che sembrava schiacciassero i bastioni del castello, non ci impediva di distinguere la velocità con la quale, quasi avessero vita, accorrevano da tutte le parti dell’orizzonte l’una addosso all’altra senza distendersi per lo spazio. Ho detto che la loro enorme densità non ci impediva di distinguere
questo fenomeno; eppure non c’éra luna, non c'erano stelle, non c’era alcun riflesso di lumi. Ma la parte inferiore di queste immense nubi agitate, così come tutti gli oggetti dei nostri immediati dintorni, lucevano del sovrannaturale chiarore d’una esalazione gasosa, che pareva sempre languente e restava tuttavia visibilissima, avvolgendo la casa nel suo sudario. Ù «Voi non dovete, voi non potete vedere questo!» gridai, con un fremito, a Usher, e con dolce vio-
lenza lo allontanai dalla finestra, lo costrinsi a sedere. «Queste visioni che vi esaltano», proseguii «sono semplici fenomeni elettrici e abbastanza comuni; 0, forse, prendono la loro sinistra origine dai miasmi
pestiferi dello stagno. Chiudiamo la finestra; quest’aria gelida non vi può che far male. Ecco uno dei vostri romanzi preferiti. Io leggerò, voi ascolterete, e questa terribile notte, così, la passeremo insieme». Il vecchio libro che avevo preso era Mad Trist!, di Launcelot Canning; ma soltanto per modo di dire gli avevo attribuito la qualità di libro preferito, perché, invero, nella sua scialba e goffa prolissità c’era poco che potesse soddisfare la spiritualità altissima del mio amico. Eppure —- come era il solo che avessi a portata di mano - mi abbandonavo alla vaga speranza che l’agitazione cui Usher continuava ad essere in preda trovasse qualche sollievo (la storia delle malattie mentali è piena di simili anomalie) appunto nell’estrema assurdità di quanto stavo per leggere. A giudicare dall’attenzione tesa con la quale venni subito ascoltato, o mi parve venissi ascoltato, avrei potuto rallegrarmi per il successo del mio espediente. Arrivai a quel conosciutissimo punto del racconto in cui Ethelred, l’eroe di Mad Trist, dopo i vani tentativi per entrare pacificamente nella dimora dell’eremita, si dispone ad usare bravamente la forza; qui dove, com'è noto, le parole del libro sono queste: «Ed Ethelred, che era stato sempre valoroso e adesso era anche forte, grazie all’efficacia del vino bevuto, non si rassegnò a parlamentare ancora
a lungo coll’eremita (il quale, decisamente, aveva la testa dura e maliziosa); ma sentendo la pioggia sulle sue spalle e temendo che si mutasse presto in tempesta, alzò bene la mazza, e in tre o quattro colpi si aprì un passaggio tra le assi della porta, per la sua mano inguantata di ferro; tirando poi a gran forza con la quale, schiantò e strappò tutto a pezzi, così che il fracasso del legno secco risuonò e gettò l'allarme da un punto all’altro della foresta». Avevo terminato appena questo periodo, che trasalii, arrestandomi un momento; m’era sembrato (ma subito pensai a un gioco dell’immaginazione) udire in una parte remota della casa come un’eco esattamente analoga (benché soffocata e sorda) al rumore di legno schiantato e strappato a pezzi che era stato con tanta proprietà descritto da sir Launcelot. Doveva avermi impressionato, senza dubbio, una pura coincidenza, giacché fra i gemiti dei telai delle finestre e tutti gli altri rumori dell'uragano sempre più intenso, quella sensazione, in se stessa, non aveva niente di preoccupante. E proseguii la lettura: i «Ma Ethelred, il campione, entrato finalmente per quella porta, si meravigliò e s’infuriò grandemente di non trovar traccia del malizioso eremita; al suo posto stava un drago mostruoso scintillante di scaglie, e con la lingua di fuoco, che sorvegliava l'ingresso d’un grande palazzo d’oro, con l’impiantito!* d’argento; dal muro del palazzo pendeva un luminoso scudo di bronzo, che portava
scritto:
Chi è entrato qui ha mostrato di essere un conquistatore. Ammazzi il drago e avrà vinto lo scudo.
13. Mad Trist: sia l’autore sia l’opera sono immaginari. 14. impiantito: piattaforma.
Poe
262 Ed Ethelred sollevò di nuovo la mazza e la calò potentemente sulla testa del drago; il quale cadde ai suoi piedi, e rese l’anima pestifera con un urlo così orrido ed aspro, e insieme così penetrante, che Ethelred dovette sbarrarsi le orecchie con le mani per non udirne il suono spaventoso, il peggiore che i avesse mai udito». non io, che, Qui, ancora, dovetti fermarmi, e stavolta con smarrimento: non c’era dubbio adesso lontano, avessi udito (ma non avrei saputo dire in che direzione) un suono basso e apparentemente ma lungo, aspro, e stranamente stridente; in analogia perfetta con quel che avevo immaginato delFa l'urlo soprannaturale del drago. dentro a contraddittorii, pensieri di Questa nuova e straordinaria coincidenza mi destò una folla risvegliare non per spirito di presenza la almeno un senso di sbalordimento e di terrore, ma conservai con nessun richiamo la sensibilità morbosa del mio compagno. Non ero sicuro che avesse udito; benché, da qualche minuto, egli avesse stranamente mutato posizione, spostando a poco a poco la poltrona, che prima era dirimpetto alla mia, fino a guardare verso la, porta della stanza. Del suo viso scorgevo a malapena il tremito delle labbra, che parevano mormorare parole inafferrabili. La testa gli pendeva sul petto; eppure mi accorgevo che non dormiva dagli occhi che gli vedevo, di profilo, spalancati e rigidi. Anche il movimento del suo corpo, d’altronde, escludeva il sonno, poiché andava in un dolce dondolio uniforme da sinistra a destra, da destra a sinistra. Ma appena notato tutto questo ripresi la lettura. «E adesso, il campione, scampato appena dalla ferocia tremenda del drago, rammentandosi dello scudo di bronzo e che l’incantesimo era spezzato, rimosse il cadavere del mostro, e pose piede sull’impiantito d’argento che circondava il castello, dirigendosi verso lo scudo. Ma in verità, questo non attese la sua venuta; e da solo gli cadde ai piedi con uno strepito metallico, vasto e potente...» A questo punto, come se davvero uno scudo di bronzo fosse caduto pesantemente, sopra un impiantito d’argento, avvertii con precisione un rumore metallico, profondo, sonoro, ma come soffocato. Coi nervi stravolti, balzai in piedi; il movimento del corpo di Usher continuava ininterrotto, uniforme. Mi slanciai verso la sua poltrona: gli occhi di lui rimanevano fissi verso la porta, e tutto il viso era d’una rigidezza di pietra. Ma, quando gli toccai la spalla con la mano, un brusco fremito lo percorse da capo a piedi; un sorriso malato tremolò sulle sue labbra, e vidi che come noncurante della mia presenza egli mormorava parole precipitose, inarticolate. Piegandomi su di lui, riuscii finalmente a comprendere il loro tremendo significato. «Non sentite?... Io sento, sì... e ho già sentito... A lungo..., a lungo..., a lungo... per tanti minuti..., per tante ore..., per tanti giorni...; ho sentito, ma non osavo... oh, pietà di me... sciagurato che sono!... non osavo, non osavo parlare! Noi l'abbiamo chiusa ancora viva nella tomba! Non ve l’ho detto, che ho dei sensi acuti?... E ora vi dico che ho avvertito i primi suoi deboli movimenti dentro la bara. Li ho avvertiti da molti, da molti giorni; ma non osavo, non osavo parlare! E adesso... stanotte... Ethelred... ah, ah!... la porta dell’eremita che va in pezzi, e il tremendo rantolare del drago, e lo strepito dello scudo! Dite, piuttosto, lo squarciarsi della bara, e lo stridore dei cardini di ferro, e la marcia disperata lungo il corridoio foderato di rame! Oh! dove posso fuggire? Forse che lei non giungerà subito? Non sì precipiterà forse a rimproverarmi la mia fretta? Non ho già avvertito i suoi passi, su per la scala? Non distinguo forse il battito pesante, terribile del suo cuore? Insensato!» Qui egli si alzò di scatto, e gridò, sillaba per sillaba come se questo sforzo gli strappasse la vita: «Insensato! Vi dico che ora essa è dietro la porta!». Come se l'energia superumana della sua esaltazione si fosse mutata in potenza d’incantesimo, i grandi battenti d’antico ebano che Usher indicava spalancarono con lentezza, in quell’istante, le pesanti mascelle. Fu conseguenza d’una furibonda ventata; ma dietro la porta stava, nel suo sudario, l’alta figura di lady Madeline Usher. C'era sangue sulle sue vesti bianche, e tracce d’un combattimento atroce in ogni punto della persona. Per un attimo essa rimase, tremando e vacillando, sulla soglia; poi, con un lamento profondo, cadde pesantemente in avanti addosso al fratello, e nella definitiva agonia si trascinò insieme il corpo di lui, che il terrore aveva fulminato. Fuggii inorridito dalla stanza, dalla casa. L’uragano sfogava ancora tutta la sua ira, quando mi trovai sul terrapieno. All'improvviso una luce livida riempì la strada, e mi voltai per veder da che luogo
potesse provenire, col suo splendore così strano: giacché soltanto la vasta ombra del castello stava dietro di me. Ma la luna piena, color di sangue, splendeva ora attraverso la fessura (una volta visibile appena) che ho detto come percorresse la facciata a zig-zag dal tetto alle fondamenta. Mentre guarIl Romanticismo
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263 davo, la spaccatura s’ingrandì rapidamente; sopravvenne un furioso turbine di vento; subito l’intero
disco della luna si presentò ai miei occhi e il cervello mi venne meno al vedere che le possenti muraglie crollavano; si produsse un fracasso immenso e tumultuoso come la voce di mille cateratte, poi la palude buia ai miei piedi si richiuse in tetro silenzio sulle macerie della casa degli Usher.
Traduzione di E. Vittorini, in Opere scelte, Mondadori, Milano 1971
ANALISI DEL TESTO
Il narratore testimone
E un racconto molto denso e complesso. Un punto di partenza per la lettura può essere l'esame della costruzione narrativa e delle tecniche impiegate L’ottica narrativa. La storia è narrata da un narratore-testimone, che è egli stesso un personaggio della vicenda, ma non il protagonista bensì solo uno spettatore. Il suo è un punto di osservazione esterno e parziale, a cui la realtà della casa e dei suoi abitatori appare misteriosa. Solo a poco a poco il mistero gli si svela; il lettore quindi è messo a parte di esso solo man mano che il narratore scopre le cose. Ciò determina un’altissima sospensione narrativa, che l’adozione del classico narratore onnisciente (quello di Scott, di Manzoni, di Balzac) non avrebbe consentito.
Roderick e Madeline,
un’unica persona
Vita-Morte
Ragione e irrazionale
Alto e basso
Le due scene fondamentali
Il sistema dei personaggi. Se si esclude il narratore, che è un puro osservatore, il racconto gioca su due personaggi: il nevrotico, ipersensibile Roderick, artista singolarmente dotato, ultimo discendente di una casata in sfacelo, ossessionato da oscuri terrori, e la sorella Madeline, malata e prossima alla morte, che fa inizialmente una rapida apparizione, quasi fosse un fantasma, e ricompare nel finale allucinato e catastrofico. Un particolare essenziale è che i due sono gemelli, legati da una misteriosa affinità, tanto che Roderick si consuma al veder perire la sorella. Ed alla fine Madeline salirà dalla cripta per portare con sé il fratello nella morte. I due sono quindi le due facce di un’unica persona, che ritrova nella morte la sua unità. Il sistema delle opposizioni. Madeline è una chiara immagine della morte. L'opposizione di significati tra fratello e sorella è dunque un’opposizione Vita-Morte. Ma la Vita è precaria, debole, continuamente insidiata dalla morte, minata dalla paura di essere inghiottita dall’abisso. Roderick è un intellettuale: rappresenta la Ragione che tenta di escludere l’irrazionale, la Paura, che prende corpo nella sorella morente e che è parte ineliminabile di lui stesso (si tenga presente la loro somiglianza). La rimozione dell’irrazionale si concreta nella chiusura del corpo della sorella nel sotterraneo. Ma è una rimozione inutile: il rimosso torna prepotentemente, sino a inghiottire la coscienza, abbattendo i fragili baluardi opposti dalla Ragione (il significato del racconto è prefigurato dai versi composti da Roderick: il Palazzo del Pensiero, cioè la Ragione, è assalito da creature malvage, ed una folla ripugnante si riversa per la sua porta). Lo spazio. L'opposizione Vita-Morte, Ragione-Irrazionale si traducein un'opposizione spaziale, Alto vs Basso. L’Alto è rappresentato dallo studio di Roderick (il luogo dove si esercita il pensiero): è il luogo della Vita e della Ragione. Il Basso è la cripta dove è rin-
chiuso il corpo della sorella: è il luogo dell’irrazionale, del rimosso, delle potenze oscure che assediano la coscienza. Nel racconto “nero”, del terrore, i sotterranei hanno sempre questa profonda valenza simbolica e rappresentano il fondo buio della psiche da cui emergono i “mostri”, che minacciano di inghiottire la coscienza. E significativo allora che Roderick sia anche un artista: è una rappresentazione simbolica dell’artista romantico, che è ossessionato dall’oscura presenza dell’irrazionale, e che tenta di respingerlo, ma ne è alla fine sopraffatto. La struttura dell’intreccio. Sull’asse sintagmatico (cfr. M 1, $ 1.1) si hanno successivamente: una scena iniziale (l’arrivo del narratore alla casa Usher e l’incontro con Roderick); una parte riassuntiva, in cui la narrazione ha forma iterativa (viene cioè narrato una volta ciò che si ripete n volte: i particolari della vita dell’ospite nella casa Usher); infine il racconto si chiude con un’altra scena: i rumori sinistri che accompagnano la lettura del racconto cavalleresco, sino all'emergere di Madeline dalle profondità del sotterraneo, per venire
a trascinare con sé il fratello nella morte, con il conseguente crollo della casa intera. A tal
proposito, grande importanza ha un indizio iniziale: la crepa che percorre la facciata, osser-
Poe
È
264 vata subito dal narratore al suo arrivo, che preannuncia il crollo finale. Un altro indizio essenzialeè il quadro di Roderick, che rappresenta un sotterraneo, chiara prefigurazione di quello in cui sarà sepolta Madeline. Il tempo narrativo. In rapporto con i tre segmenti dell’intreccio si ha l’alternanza di tre diversi ritmi narrativi. Nella scena iniziale il tempo della storia (TS)è breve, mentre il tempo del discorso (TD) è alquanto lungo (cfr. per questi concetti M1, $ 2.3, Il tempo). Ne deriva un ritmo narrativo molto lento, e ciò, insieme con l'adozione delpunto di vista dello spettatore ignaro, contribuisce a creare il forte senso di sospensione. Nella parte centrale, TS è molto ampio, TD è breve: il ritmo è veloce, perché è una pura parte di raccordo che pone le basi della scena finale. In questa scena, invece, TS torna ad essere brevissimo, e TD molto ampio: la lentezza del ritmo crea un senso di fissità allucinata, che accresce la tensione e il terrore. Si può osservare il dosaggio abilissimo nella costruzione dell’intreccio, nell’uso del punto di vista e in quello del tempo narrativo: ogni elemento del racconto coopera perfettamente con gli altri, al fine della costruzione del senso. Su questo racconto si può vedere la classica interpretazione di M. Bonaparte, E. A. Poe. Studio psicanalitico, trad. it., Newton Compton, Roma 1976 (lo studio è del 1933); studi più recenti, molto acuti, sono: G. Livio, Poe e Butti: paura romantica e consolazione liberty, in AA.VV., E. A. Poe dal gotico alla fantascienza, Mursia, Milano 1978; M. Pagnini, E. A. Poe: «l demoniaco e «The Fall of the House of Usher», in Semiosi. Teoria ed ermeneutica del testo letterario, Il Mulino, Bologna 1988.
Le variazioni del ritmo
T49 PROPOSTE DI LAVORO È 1. Con quali espedienti il narratore tiene desta l’attenzione del lettore creando suspense? (Riflettere sul fatto che il narratore è testimone di quanto viene narrando; sui numerosi giudizi relativi al dramma; sul mistero che circonda gli Usher). 2. Tra i fratelli Usher e la loro casa c’è una corrispondenza? (Cfr. ad esempio la descrizione della casa all’inizio del racconto, dello studio in cui viene introdotto il narratore, il ritratto di Roderick Usher e i pochi tratti descrittivi di Lady Madeline).
. Ritrovare tutti gli elementi narrativi che annunciano il tema della morte (ad esempio la rovina fisica della casa). . Nell’economia del racconto qual è la funzione dei versi «Il palazzo maledetto»? . C'è una connessione tra l’uragano ed il crollo della casa Usher? W A DU . Ci sono
nel racconto tépoi del romanzo gotico?
— Cfr. La critica, C16
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265 A25. Hermann Melville Vita e opere
Nacque a New York nel 1819 da famiglia alto borghese, ma la rovina economica del padre e la sua morte lo costrinsero alla ricerca affannosa quanto vana di un impiego. Nel 1841 partì con una baleniera per un viaggio nel Pacifico che durò quattro anni, con avventurose peripezie. L'esperienza offrì lo spunto al primo racconto, Typee (1846), che ebbe molto successo, tanto da indurre Melville a scrivere un seguito (Omoo, 1847). Seguì Mardi (1849), complesso romanzo satirico e filosofico, bizzarro e farraginoso, che sconcertò il pubblico ed andò incontro ad un pesante insuccesso. Ciò indusse lo scrittore a riprendere i modi più tradizionali del racconto marinaro
(Redburn, 1849, e Giubba bianca, 1850). Nel 1850 strinse amicizia con un altro grande scrittore, Nathaniel Hawthorne. Nel 1851 uscì il suo capolavoro, Moby Dick, ma il
romanzo fu di nuovo aspramente respinto dal pubblico, e presto dimenticato. Nello stesso anno iniziò Pierre o delle ambiguità: voleva essere un idillio, atto a piacere al pubblico, ma si trasformò in un’opera cupa, densa di simbolismi astratti. L’insuccesso indusse lo scrittore a ritirarsi nell’isolamento. Continuò a scrivere, ma quasi nell’anonimato. Nel 1856 pubblicò I racconti della veranda, tra cui Bartleby e Benito Cereno, incentrati su esseri frustrati e inerti di fronte alla realtà. L'uomo di fiducia (1857) fu l’ultimo romanzo che apparve durante la sua vita; in seguito scrisse poesie, saggi e un poema, Clarel (1876). Nel frattempo, dal 1860, aveva finalmente trovata una sistemazione economica, grazie ad un impiego alla dogana di New York. Poco prima della sua morte scrisse ancora un capolavoro, Billy Budd, rimasto inedito e pubblicato solo nel 1924, che narra la storia di un giovane marinaio condannato ingiustamente, che accetta serenamente la sua morte. Melville si spense nel 1891. Fece parte di quel gruppo di scrittori (Hawthorne, Emerson, Thoreau, Whitman) che, a metà secolo, diede vita ad un movimento letterario profondamente innovatore nella cultura degli Stati Uniti, tanto da essere definito «Rinascimento americano». Quando morì era però quasi del tutto sconosciuto: solo nel Novecento la sua grandezza fu pienamente apprezzata.
BM Moby Dick È il racconto di una caccia alla balena, ma dietro al motivo avventuroso si celano densi significati simbolici. La vicenda è narrata da un narratore-testimone, Ishmael, che, con il polinesiano Queequeg, si imbarca a Nantucket sulla baleniera Pequod. La nave è comandata dal vecchio capitano Achab, su cui circolano voci misteriose, ma che solo più tardi comparirà in scena, come è proprio dei grandi eroi tragici. Achab si rivolge all’equipaggio per rivelare il vero fine del viaggio, l’uccisione di una mostruosa balena bianca, chiamata Moby Dick. In un viaggio precedente il mostro aveva tranciato una gamba al capitano, che ora perciò è mosso da una maniaca volontà di vendetta. Ma la balena si carica di complessi significati simbolici: è l’incarnazione del Male, e la caccia diviene così una ricerca iniziatica, una lotta col Mostro. Achab, nella sua volontà di uccidere la balena, anche a costo di dannarsi, assume la dimensione di un eroe faustiano. Egli rappresenta l’impulso alla conoscenza che non si arresta dinanzi a nulla, neanche al mistero e al male. E uno di
quegli eroi della trasgressione, della sfida all’ignoto, che sono caratteristici della letteratura romantica ottocentesca. Il capolavoro melvilliano, per questa sfida trasgressiva al male, per questa esplorazione delle forze oscure ed inquietanti che prendono corpo in un “mostro”, può essere ascritto alla categoria del “nero (cfr. a proposito l’interpretazione di L. Fiedler, Amore e morte delromanzo americano, cit., cap. XIV, Moby Dick). L'equipaggio, affascinato dall’eloquenza di Achab, giura di seguirlo nella folle impresa; solo Starbuck, il primo ufficiale, che, di contro alla tensione titanica e faustiana di Achab, rappresenta la visione razionale e i valori comuni, dissente. Nella baleniera sono presenti anche cinque Parsi, orientali adoratori del fuoco, tra cui Fedallah, che rappresenta l’aspetto demoniaco dell'animo di Achab, in opposizione a Starbuck. Della ciurma fanno parte ancora il pellerossa Tashtego, ramponiere, il negro selvaggio Degu ed il giovane negro Melville
ì
266
ta il selvagPip, impazzito durante un naufragio. Anche la composizione della ciurma è simbolica: rappresen 1 io, l’irrazionale.
la nave, ed ° ‘Avvistata la balena, comincia la caccia, che dura tre giorni. Alla fine, Moby Dick affonda a serbare destinato è ed bara, una ad aggrappato salva, si Ishmael Achab è inghiottito dalle acque. Solo \ memoria della storia. Il romanzo ha una struttura singolare, che lo distacca dai canoni del romanzo ottocentesco. Non è narrato da un narratore onnisciente, ma da un narratore-testimone, che costella il racconto delle sue riflessioni
e digressioni. Talora il romanzo assume una forma drammatica, quasi shakespeariana; in altri momenti si trasforma in una sorta di trattato sulle balene, nell’arte e nella storia, nell’anatomia e nella fisiologia, tra l’erudito e l’ironico; talora fornisce informazioni di tipo documentario sulla caccia alla balena e sulla sua utilizzazione.
«Il gran demonio vagante dei mari»
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In questo passo, il narratore spiega il significato che la caccia alla balena bianca assume per il capitano Achab (dal cap. XLI).
Nessuna meraviglia dunque che - sempre maggiormente prendendo corpo nella semplice traversata delle più selvagge plaghe oceaniche - le sparse voci sulla Balena Bianca finissero per incorporarsi ogni specie di accenni morbosi e abortive mezze suggestioni di moventi soprannaturali, che in ultima analisi rivestivano Moby Dick di nuovi terrori, tolti a prestito da nulla di ciò che è visibile su questa terra. Cosicché, in molti casi, Moby Dick finiva per produrre un tale panico che pochi di quelli che, per quelle voci almeno, avevano sentito della Balena Bianca, pochi di quei cacciatori avevano voglia di affrontare i pericoli della sua mascella. [...]. Una delle stravaganti congetture cui si è alluso, come quelle che avevano finito per connettersi con la Balena Bianca nella mente dei superstiziosi, era l’idea soprannaturale che Moby Dick avesse il dono dell’ubiquità, che fosse stato davvero incontrato nel medesimo istante a latitudini opposte. [...] Sapendo che, dopo ripetuti e intrepidi attacchi, la Balena Bianca era scampata viva, non dobbiamo stupirci se certi balenieri andavano ancor oltre nelle loro superstizioni e affermavano che Moby Dick non soltanto possedeva l’ubiquità ma era immortale (poiché l'immortalità è soltanto l’ubiquità nel tempo): che, sebbene selve di lance gli venissero piantate nei fianchi, lui si sarebbe sembre allontanato incolume, e che se davvero fosse mai stato ridotto a sfiatare sangue denso, un tale spettacolo sarebbe stato soltanto una spettrale illusione, poiché di nuovo in flutti incruenti, migliaia di leghe lontano, si sarebbe pur sempre intravisto il suo spruzzo immacolato. Ma, anche spogliandolo di queste escogitazioni soprannaturali, c'era abbastanza nella struttura terrena e nel carattere innegabile del mostro da colpire l’immaginazione con un'insolita potenza. Poiché non era tanto il suo non comune volume che così lo distingueva da tutti gli altri capodogli, quanto, com'è stato rivelato altrove, una particolare fronte rugosa, bianca come la neve, e un’alta, piramidale gobba bianca. Questi erano i suoi tratti preminenti, i connotati coi quali persino nei mari sconfinati e sconosciuti esso rivelava a grande distanza la sua identità a coloro che lo conoscevano.
Il rimanente del suo corpo era così striato, maculato e marezzato! dello stesso colore di sudario
che, alla fine, s'era guadagnato il titolo distintivo di Balena Bianca, un nome invero letteralmente giustificato dal suo vivido aspetto, quando lo si vedeva a scivolare in pieno meriggio per un mare azzurro-
cupo, lasciandosi dietro una scia galattica di schiuma lattiginosa, tutta cosparsa di pagliuzze d’oro. Ma non erano né la grandezza insolita né lo straordinario colore e nemmeno la mandibola deforme, che investivano così il capodoglio di terrore naturale, quanto la malvagità intelligente e senz’esempio, di cui secondo racconti particolareggiati esso aveva replicatamente dato prova nei suoi combattimenti. Soprattutto i suoi perfidi voltafaccia sgomentavano forse più di qualunque altra cosa. Poiché, nell’atto di scappare con ogni visibile sintomo di paura davanti ai suoi inseguitori esultanti diverse volte Moby 1. marezzato: variegato, cangiante.
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LOT Dick si era voltato d’improvviso e, piombando addosso ai cacciatori, aveva mandate le lance in frantumi o ricacciati verso la nave gli equipaggi costernati. Già parecchi disastri avevano accompagnato questa caccia. Ma quantunque simili sventure, seb-
bene poco se ne parlasse a terra, non fossero in nessun modo insolite nella baleneria, pure, nella maggior parte dei casi, pareva tanto infernale la premeditazione di ferocia da parte della Balena Bianca, che ogni mutilazione o morte ch’essa causava non veniva interamente considerata come inflitta da
un agente irrazionale?.
Pensate quindi, a quali estremi di acceso e forsennato furore fossero spinte le menti dei più disperati cacciatori, quando, tra i frantumi delle lance stritolate e le membra affondanti dei compagni squarciati, essi uscivano nuotando dai bianchi ribollimenti dell’ira terribile della balena, nel sole sereno ed esasperante che continuava a sorridere come a una nascita o a uno sponsale. Le sue tre lance sfondate, intorno, e uomini e remi turbinanti nei gorghi, un capitano, afferrando dalla prora spaccata il coltello della lenza, s'era lanciato sulla balena, come un duellista dell’ Arkansas sull’avversario, ciecamente tentando, con una lama di sei pollici, di raggiungere la vitalità?, profonda una tesa‘, del mostro. Quel capitano era Achab. E fu allora che, passandogli sotto di colpo la sua mandibola falcata, Moby Dick gli aveva falciato la gamba, come un mietitore fa di uno stelo d’erba in un campo. Nessun turco dal turbante, nessun prezzolato veneziano o malese, avrebbe potuto colpirlo con più apparente malvagità. Poco c’era quindi da dubitare che sempre, fin dal giorno di quell’incontro quasi fatale, Achab avesse nutrito un feroce desiderio di vendetta, tanto più accanito dacché nella sua insensata morbosità era infine giunto a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvage da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell’intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e con mezzo polmone. Quell’intangibile malvagità che è stata al principio delle cose; al cui impero persino i moderni Cristiani ascrivono metà dei mondi; che gli antichi Ofiti® dell'Oriente veneravano nel loro demonio scolpito; questa malvagità Achab non cadeva in ginocchio ad adorarla come quelli, ma trasportandone freneticamente l’idea nell’aborrita Balena Bianca, le si lanciava contro, così mutilato com'era. Tutto ciò che più sconvolge e tormenta la ragione, tutto ciò che rimescola la feccia delle cose, ogni verità che contiene malizia, ogni cosa che schianta i tendini e rapprende il cervello, tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, ogni male, per l’insensato Achab, era visibilmente personificato e fatto praticamente raggiungibile in Moby Dick. Egli accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l’ira e di tutto l’odio provati dall'intera sua razza dal tempo di Adamo, e poi, come se il suo petto fosse un mortaio, le sparava addosso la bomba del suo cuore bruciante. [...] Roso dentro, e bruciato di fuori, dalle zanne infisse e spietate di una qualche idea incurabile: uno simile, se si potesse trovarlo, apparirebbe proprio l’uomo da scagliare il rampone e levare la lancia contro il più spaventoso dei bruti. E, se per qualunque ragione lo sì giudicasse fisicamente inabilitato a ciò, pure un uomo simile apparirebbe magnificamente adatto a incitare e a urlare? i subalterni alla lotta. Ma sia come si sia, è certo che, col folle segreto della sua furia mai sfogata inchiavistellato e
serrato nell’anima, Achab s’era di proposito messo nel viaggio attuale con l’unico esclusivo scopo di dare la caccia alla Balena Bianca. Se qualunque delle sue vecchie conoscenze di terra avesse soltanto a metà immaginato quel che allora gli covava in petto, come subito le loro anime atterrite e diritte avrebbero strappato la nave a un uomo tanto satanico! Essi si attendevano crociere lucrose, del lucro che si conta in dollari di zecca. Egli era fisso a una temeraria, inflessibile, oltreterrena vendetta. Ecco, dunque, questo vecchio empio e grigio, inseguire per il mondo con maledizioni una balena degna di Giob”, alla testa di un equipaggio fatto principalmente di fuggiaschi sanguemisti, di reietti
2. da un agente irrazionale: da un animale privo di ragione. 3. la vitalità: il centro vitale. 4. un tesa: antica unità di misura usata in Italia ed in Francia prima dell’introduzione del sistema metrico decimale; corrispondeva all’incirca all’apertura delle braccia.
5. Ofiti: erano così designati gli gnostici, nel cui sistema mitologico-cosmogonico ha particolare rilievo il serpente (greco 6phis) del racconto della Genesi: il serpente rappresenta il principio della conoscenza del bene e del male, in opposizione a Dio, creatore del giudaismo, che avrebbe voluto
tenere nascosta agli uomini questa cono-
scenza. 6. urlare: spronare con urla.
7. degna di Giob: Giobbe, personaggio dell'omonimo libro dell'Antico Testamento; è
menzionato come esempio di virtù e pazienza.
Melville
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e di cannibali, e inoltre moralmente indebolito dall’insufficienza della semplice inerme virtù o rettitu-
dine di Starbuck, dall’invulnerabile spensieratezza e leggerezza indifferente di Stubb, e dalla mediocrità generale di Flask. Un simile equipaggio, così comandato, pareva scelto apposta da una fatalità infernale per aiutare Achab nella sua monomaniaca vendetta. Come mai essi rispondessero tanto all Ira del vecchio, da quale malvagio incantesimo le loro anime fossero possedute, che alle volte il suo odio pareva quasi il loro e la Balena Bianca altrettanto insopportabile avversaria loro che sua: come accadesse tutto questo, che cosa fosse per essi la Balena Bianca, o come insomma al loro spirito inconscio essa avesse potuto in qualche modo misterioso e insospettato apparire il gran demonio vagante dei
mari della vita — spiegare tutto ciò, sarebbe tuffarsi più a fondo che non possa scendere Ismaele®. Quel minatore sotterraneo? che lavora in tutti noi, come si può mai dire dove volga il SUO pozzo * al rumore sempre cangiante e soffocato che fa il suo piccone? Chi non sente il braccio irresistibile trascinarlo? Quale battello rimorchiato da un settantaquattro!! può restarsene fermo? Io, intanto, cedetti all'abbandono delle circostanze e del luogo, ma mentre ero tuttora smanioso di affrontare la balena, non potevo veder altro in quel bruto che il male più mortale. da Moby Dick, traduzione di C. Pavese, Frassinelli, Torino 1932
8. Ismaele: si ricordi che Ismaele è colui che racconta la storia. 9. minatore sotterraneo: l'inconscio. 10. pozzo: la galleria scavata dal minatore.
11. rimorchiato da un settantaquattro: rimorchiato da una nave da guerra dotata di settantaquattro cannoni.
ANALISI DEL TESTO
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In questo passo emerge in piena evidenza il valore simbolico della balena, come incarnazione del Male, come proiezione di tutte le forze malvage che si agitano nel profondo dell’uomo. E proprio del filone “nero” del Romanticismo far affiorare questo strato profondo della realtà, costantemente ignorato nelle epoche precedenti, obiettivandolo in esseri simbolici, spesso mostruosi. Il “mostro” è la personificazione di questa zona buia e inquietante, che urge e non può essere rimossa. Achab è “empio” e “satanico” perché si avventura alla ricerca di questo “mostro”, non si arresta ai limiti dell'ignoto e del proibito, ma vuole varcarli per conoscere e dominare la zona oscura del reale. L’aver ammesso questo territorio dellarealtà al campo letterario è la conquista straordinaria della letteratura romantica. Essa si configura come un grande “ritorno del rimosso”, l'esplorazione coraggiosa della zona buia
della realtà, che i miti della “Ragione felice” settecentesca tendevano ad occultare, e segna
la grande “irruzione” del profondo (come la definisce il critico americano Leslie Fiedler prima citato, autore di uno dei libri più acuti sulla letteratura romantica americana ed europea). Si noti però come il mostro e l’eroe siano presentati attraverso un’ottica particolare: Quella di Ismaele, scettico e disincantato di fronte a leggende e superstizioni, critico nei confronti della follia “monomaniaca” e dell’empietà del capitano Achab. Il punto di osservazione del grande dramma simbolico della ricerca del “mostro” è cioè straniato e critico.
L’incarnazione del Male
Il Romanticismo e il ritorno
del rimosso L’ottica narrativa
“T50 PROPOSTE DI LAVORO nu 4, Ricercare nel testo tutte le espressioni con le quali il narratore presenta Moby Dick come una balena straordinaria, che incute terrore.
2. Quale rapporto lega Achab a Moby Dick?
3. Rintracciare i punti del testo in cui traspare l’ironia e l’ottica straniata del narratore Ismaele.
Il Romanticismo
negli Stati Uniti
269 5. Il Romanticismo in Francia
A26. Francois-René de Chateaubriand Vita e opere
Nato nel 1768 da nobile famiglia bretone, fu avviato alla carriera militare. Nel
1791 compì un viaggio nell’ America del Nord, che gli offrì materiali per i suoi scritti. Tornato in patria nel ’92, si unì alle forze controrivoluzionarie, poi riparò in Inghilterra, dove visse come esule sino al 1800. Cresciuto nello spirito razionalistico del Settecento, ebbe una crisi spirituale che lo riportò alla religione cattolica. Si dedicò allora ad una grande opera di apologia della religione, Il genio del Cristianesimo (1802), dove intese dimostrare che la cattolica era la religione più poetica, più favorevole alle arti e alle lettere. E quindi un’esaltazione essenzialmente estetica: più che la verità ha di mira la bellezza della religione. L’opera presenta una serie di motivi che anticipano la sensibilità romantica: il Medio Evo cristiano e nazionale, il meraviglioso della Bibbia, il fascino delle cattedrali gotiche, il senso della natura vergine, del mistero universale. Il libro veniva evidentemente incontro alle attese di una sensibilità delusa dalla cultura illuministica e rivoluzionaria, ed incontrò un successo entusiastico. Nella vasta opera erano inclusi due brevi romanzi, Atala, che narra la storia d’amore di due indiani della Louisiana, con l’intento di mostrare l’armonizzarsi
Influssi di Chateaubriand sul Romanticismo
della religione con la natura e le passioni del cuore umano, e René, in cui, in forma autobiografica, l’autore traccia il ritratto di un eroe inquieto e melanconico, già tipicamente romantico. Per dimostrare la superiorità del meraviglioso cristiano su quello pagano, Chateaubriand scrisse quindi /Martiri (1809). Ricche di suggestioni dell’esotico e del primitivo sono Le avventure dell’ultimo Abencerage e I Natchez, opere scritte anni prima e pubblicate solo nel 1826. Dopo il ritorno dei Borboni, fu nominato Pari di Francia e prese parte attiva alla politica della Restaurazione, ricoprendo importanti incarichi diplomatici. Nel 1830, con la rivoluzione liberale, si dimise e si ritirò a vita privata, dedicandosi all’elaborazione delle Memorie d’oltretomba. Morì nel 1848. La sua opera esercitò una forte influenza sulla letteratura romantica dell’Ottocento, per il senso della natura e dei paesaggi primitivi, maestosi e malinconici, per l'entusiasmo religioso, per il gusto del Medio Evo. Il fascino da lui esercitato, oltre che dalla fervida immaginazione e dal gusto di una rappresentazione sontuosa e ricca di colore, deriva anche dalla sua prosa, pervasa da un’onda lirica sonora e magniloquente, ma che spesso rivela la sua gonfiezza enfatica.
MH René René, nato da una famiglia aristocratica colpita dalla rivoluzione, dopo un’infanzia malinconica e solitaria e dopo aver subito l’attrazione della vita monacale cerca con i viaggi di placare «l'inquietudine, l’ardore di desiderio» che lo segue ovunque. Ma la vista del mondo non gli giova a nulla. Anche tornando in patria non trova la pace, e neppure isolandosi nella tranquillità e nella solitudine della campagna. La disperazione lo conduce alle soglie del suicidio, ma lo salva l’affetto della sorella Amélie. Man mano però che la salute torna in lui, Amélie si strugge, perché è tormentata da una passione incestuosa per il fratello. Cerca scampo chiudendosi in un convento, mentre René parte per la Louisiana, per trovar pace nel contatto con la natura. Morirà nel massacro dei Natchez. Nella parte finale l’autore assume un atteggiamento moralisticamente critico verso il suo eroe, condannando le «inutili fantasticherie» che l’hanno condotto ad una vita sterile, di tedio e di solitudine, sottraendolo alle responsabilità verso la società. Ma nonostante questa condanna, il personaggio di René ricava tutto il suo fascino dall’essere tormentato e “maledetto”: tant'è vero che un’intera generazione romantica si identificò in lui e lo assunse a modello. Insieme a Werther, René è una delle prime manifestazioni della “malattia” romantica, ed uno degli archetipi dotati di maggior forza suggestiva. Chateaubriand
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T51 __
i L«ardore di desiderio»
dell’eroe
romantico È René stesso che narra la sua storia ad un vecchio capo indiano, Chactas, e ad un missionario.
Vanamente dunque avevo sperato di ritrovare nel mio paese di che calmare l’inquietudine, l’ardore di desiderio, che mi seguono ovunque. Lo studio del mondo non mi aveva insegnato nulla, e tuttavia À non avevo più la dolcezza dell’ignoranza. [...] straniera. terra una su stato fossì lo non quanto di patria, mia nella Mi trovai ben presto più isolato Volli gettarmi per qualche tempo in un mondo che non mi diceva nulla e che non mi intendeva. La mia anima, che nessuna passione aveva ancora logorato, cercava un oggetto che potesse legarla a sé; ma mi avvidi che davo più di quanto non ricevessi. Non si richiedeva da me né un linguaggio elevato, né un sentimento profondo. Non ero occupato che a rimpicciolire la mia vita, per metterla al livello della società. Trattato ovunque come uno spirito romantico!, vergognoso della parte che sostenevo, disgustato sempre più dalle cose e dagli uomini, presi la decisione di ritirarmi in un sobborgo per vivervi totalmente ignorato. Trovai da principio abbastanza piacere in questa vita oscura e indipendente. Sconosciuto, mi mescolavo alla folla: vasto deserto d’uomini?! [...] Quando giungeva la sera, riprendendo la via del mio rifugio, mi fermavo sui ponti, per veder tramontare il sole. L’astro, infiammando i vapori che si levavano dalla città, sembrava oscillare lentamente in un fluido d’oro, come il pendolo dell’orologio dei secoli. Mi ritiravo poi con la notte, attraverso un labirinto di vie solitarie. Guardando i lumi che brillavano nelle dimore degli uomini, mi trasportavo col pensiero in mezzo alle scene di dolore e di gioia che essi rischiaravano; e pensavo che sotto tanti tetti abitati, io non avevo un amico. Mentre ero immerso in queste riflessioni, la torre della cattedrale gotica batteva l’ora a rintocchi misurati, che si ripetevano su tutti i toni e a tutte le distanze di chiesa in chiesa. Ahimé! Ogni ora nella società apre una tomba, e fa scorrere delle lacrime. Quella vita, che m’aveva all’inizio affascinato, non tardò a divenirmi insopportabile. Mi stancai della ripetizione delle stesse scene e delle stesse idee. Mi misi a sondare il mio cuore, a domandarmi che cosa desiderassi. Non lo sapevo; ma mi convinsi tutt’a un tratto che i boschi sarebbero stati per me deliziosi. Eccomi all'improvviso risoluto di terminare in un esilio campestre una carriera appena cominciata, e nella quale avevo già divorato dei secoli?. Abbracciai quel progetto con l’ardore che metto in tutti i miei disegni; partii precipitosamente per seppellirmi in una capanna, come ero partito un tempo per fare il giro del mondo. Mi si accusa d’aver gusti incostanti, di non poter godere a lungo della stessa chimera, d’essere la preda di un’immaginazione che si affretta di arrivare al fondo dei piaceri, come se fosse oppressa dalla loro durata; mi si accusa di oltrepassare sempre la meta che sono in grado di raggiungere: ahimé! cerco soltanto un bene sconosciuto, il cui istinto mi perseguita‘. E colpa mia se trovo ovunque dei limiti, se ciò che è finito non ha per me alcun valore? Tuttavia sento che amo la monotonia dei sentimenti della vita, e se avessi ancora la follia di credere nella felicità, la cercherei nell’abitudine. La solitudine totale, lo spettacolo della natura, mi piombarono ben presto in uno stato pressoché impossibile a descriversi. Senza parenti, senza amici, per così dire solo sulla terra, non avendo ancora affatto amato, ero come sommerso da una sovrabbondanza di vita. Talvolta arrossivo all'improvviso, e sentivo scorrere nel mio cuore come dei ruscelli di lava ardente; talvolta gettavo delle grida involontarie, e la notte era egualmente turbata dai miei sogni e dalle mie veglie. Mi mancava qualche cosa per riempire l'abisso della mia esistenza: scendevo nella valle, mi innalzavo sulla montagna, chiamando con tutta la forza dei miei desideri l’ideale oggetto d’una fiamma futura; l’abbracciavo nei venti; cre1. spirito romantico: nell'originale esprit | fitta di uomini, è per l’eroe come un romanesque. Non sì dimentichi che il terdeserto, perché egli è estraneo all’umanità mine “romantico” in origine indicava il comune, ed in mezzo ad essa si sente solo carattere fantasioso e strano degli antichi come se fosse appunto in un deserto. romanzi” medievali (cfr. M4). 8. divorato ... secoli: la sua vita, pur 2. deserto d’uomini: la folla, pur essendo essendo, ancora breve, gli sembra che sia
Il Romanticismo
in Francia
già durata secoli. 4. istinto ... perseguita: si protende come spinto da un istinto a cercare un bene sconosciuto.
21 devo di udirla nei gemiti del fiume; tutto era quel fantasma immaginario, e gli astri nei cieli, e il principio stesso della vita dell’universo. [...] L'autunno mi sorprese tra queste incertezze: entravo con rapimento nei mesi delle tempeste. Talvolta avrei voluto essere uno di quei guerrieri erranti fra i venti, le nubi e i fantasmi?; talvolta invidiavo persino la sorte del pastore che vedevo scaldarsi le mani all’umile fuoco di sterpaglie che aveva acceso in un angolo del bosco. Ascoltavo i suoi canti malinconici, che mi ricordavano che in ogni paese il canto naturale dell’uomo è triste, anche quando esprime la felicità. Il nostro cuore è uno strumento incompleto, una lira a cui mancano delle corde, e con la quale siamo costretti a rendere gli accenti della gioia sul tono consacrato ai sospiri. Il giorno mi smarrivo per vaste brughiere contornate da foreste. Bastava poco alle mie fantasticherie: una foglia secca che il vento spingeva davanti a me, una capanna il cui fumo s’innalzava tra le cime spoglie degli alberi, il muschio che tremava al soffio del nord sul tronco d’una quercia, una | roccia solitaria, uno stagno deserto in cui il giunco avvizzito mormorava! Il campanile del villaggio, che s’elevava in lontananza nella valle, ha spesso attirato i miei sguardi; spesso ho seguito con gli occhi gli uccelli di passo che volavano sopra la mia testa. Immaginavo le rive ignote, i climi lontani dove sì dirigono; avrei voluto essere sulle loro ali. Un istinto segreto mi tormentava; sentivo che io stesso non ero che un uccello migratore; ma una voce dal cielo sembrava dirmi: «Uomo, la stagione del tuo migrare non è ancora venuta; attendi che il vento della morte si levi, allora spiegherai il volo verso le regioni ignote che il tuo cuore ricerca». «Levatevi presto, tempeste desiderate, che dovete trasportare René negli spazi d’un’altra vita!» Così dicendo, camminavo a grandi passi, il viso in fiamme, mentre il vento sibilava tra i miei capelli,
senza sentire né pioggia né gelo, ammaliato, tormentato, e come posseduto dal demonio del mio cuore. La notte, quando aquilone scuoteva la mia capanna, quando le piogge cadevano a torrenti sul mio tetto, quando attraverso la finestra vedevo la luna solcare il cumulo delle nubi, come un pallido vascello che ara i flutti, mi sembrava che la vita si reduplicasse al fondo del mio cuore, e che avrei avuto la forza di creare dei mondi. AN! se avessi potuto far partecipare un altro agli slanci che provavo! O Dio! se tu mi avessi dato una donna secondo i miei desideri; se, come al nostro primo progenitore, tu mi avessi condotto per mano un’Eva tratta da me stesso”... Bellezza celeste, io mi sarei prosternato dinanzi a te; poi, prendendoti tra le braccia, avrei pregato l'Eterno di donarti il resto della mia vita. Ahimé! ero solo, solo sulla terra! Un segreto languore s’impadroniva del mio corpo. Quel disgusto della vita, che avevo provato nella mia infanzia, tornava con una forza rinnovata. Ben presto il mio cuore non fornì più alimento al mio pensiero, e non mi accorgevo della mia esistenza che per un profondo senso di noia. Lottai qualche tempo contro il mio male, ma con indifferenza e senza avere la ferma risoluzione di vincerlo. Infine, non potendo trovare rimedio a quella strana ferita del mio cuore, che non era da nessuna parte ed era ovunque, mi risolvetti a lasciare la vita. Traduzione nostra
5. guerrieri ... fantasmi: è un’allusione ai poemi di Ossian (cfr. T6), in cui ricorrono
spesso situazioni del genere. 6. Eva... me stesso: è un’allusione oscura
all'amore incestuoso per la sorella, il suo | “doppio” (cfr. l’analisi del testo).
Chateaubriand
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ANALISI DEL TESTO La figura di René riassume in sé i tratti fondamentali della tipologia dell’eroe romantico: - È uno straniero tra gli uomini. La sua nobiltà spirituale, la sua superiore sensibilità, la sua inquietudine e la sua infelicità lo isolano dalla massa degli uomini comuni, che sono mediocri e ottusi, e non sono in grado di comprenderlo. Vivendo tra di loro, l’eroe si sente degradare e immeschinare. Nella sua solitudine, però, sente anche il peso dell’esclusione
dalla normalità (significativa è la contemplazione, dall’esterno, dei lumi che brillano nelle case degli altri). - Tende costantemente verso qualcosa che possa riempire l’abisso della sua esistenza, ma questo qualcosa gli è ignoto. Questa tensione è la Sehnsucht dei romantici tedeschi, il “desiderio del desiderio”, o “male del desiderio”. Ne deriva una continua inquietudine, che non può mai trovare appagamento, un’insofferenza per ogni limite, per il “qui” e “ ora”. - L’unica via d’uscita è nella fantasticheria (réverie). L'eroe desidera sempre di fuggire, di essere altrove, e con la fantasia si protende verso un “al di là” ignoto (vedi le fantasie suscitate dagli uccelli migratori). - Isolandosi dagli uomini, può trovare comunione solo con la natura; ma è una natura speculare al suo animo, cioè desolata e tempestosa (ed in questo aspetto vi è un’evidente reminiscenza ossianica: «Avrei voluto essere uno di quei guerrieri che errano fra i venti, le nubi e i fantasmi»). - Oscilla tra accensioni titaniche di potenza creatrice e l’abbattimento, il languore, la noia, che lo inducono a vagheggiare la morte. Si osservi però che ad un certo punto l'oggetto del desiderio, sempre sfuggente e ignoto, assume un volto più preciso: una donna, un’«Eva tratta da lui stesso», come Eva nacque dalla costola d’ Adamo. E questo può fornire la chiave per capire le radici profonde del tormento dell’eroe. Anche se René per ora non lo sa, l’oggetto del suo oscuro desiderio è proprio un suo “doppio”, la sorella. L’eroe è così tormentato e infelice perché vuole l’impossibile, ciò che è proibito, una forma di eros perverso e incestuoso che trasgredisce tutte le norme morali e sociali. La verità è così orribile che viene respinta dalla coscienza: per questo l'oggetto del desiderio a René resta ignoto, ed il desiderio stesso è inappagabile. Questo motivo dell’incesto, del legame ambiguo e impossibile tra fratello e sorella, tornerà frequentemente nella letteratura, in senso lato, “romantica”. Ricomparirà nel Manfred di Byron (ed è un motivo presente nella biografia stessa del poeta), nella Casa Usher di Poe (T49), poi più tardi nella Città morta, nelle Vergini delle rocce, nel Forse che sè forse che no di D’Annunzio. Il motivo può suggerire considerazioni più generali, che vanno al di là del caso dell’eroe di Chateaubriand: l’eroe romantico è sempre proteso verso ciò che è proibito, che le norme correnti della società impediscono. I fantasmi che insegue col suo desiderio sono gli impulsi più profondi della sua anima, sul versante dell’eros come della morte. Si è più volte sottolineato come il Romanticismo segni l'emergere, nelle pagine degli scrittori, delle forze oscure del fondo della psiche, i “mostri” che la cultura delle epoche precedenti aveva sempre cercato di rimuovere (per questo nella letteratura romantica vi sono tanti mostri, nel senso materiale del termine). Ma da questo desiderio trasgressivo, da questa sfida alle norme, nasce il senso di colpa, e questo si manifesta nelle forze autodistruttive, che si rivolgono verso il soggetto stesso: donde il vittimismo, l’ostentazione compiaciuta della propria infelicità, la voluttà di soffrire. i
La superiorità solitaria
La Sehnsucht
La réverie
La natura
Titanismo e noia
L’oggetto proibito del desiderio
Il tema . dell’incesto
L’eroe romantico
e il proibito
Il senso di colpa
‘T51 PROPOSTE DI LAVORO ®® 1. La descrizione dell’ambiente, sia di città che di campagna, è oggettiva o è in relazione con lo stato d'animo del personaggio?
2. Quali tentativi compie René per «calmare l’inquietudine, l’ardore del desiderio»?
Il Romanticismo
in Francia
208 A2?. Victor Hugo Nacque a Besancon nel 1802; il padre era un ufficiale, che divenne generale e conte sotto Napoleone. A soli venticinque anni, nel 1827, Hugo si affermò come il caposcuola del Romanticismo francese con la prefazione al dramma storico Cromwell (cfr. T34). Fu al centro di un cenacolo letterario che raccoglieva tutti i più noti scrittori romantici, Vigny, Musset, Sainte-Beuve, Gautier, Nerval, ed anche artisti come Delacroix. Hugo non appartiene al tipo del poeta romantico che si compiace della sua solitudine ed eccezionalità, erigendosi a sfidare titanicamente la società, o ripiegandosi vittimisticamente a contemplare il proprio io, ma rappresenta piuttosto il tipo del poeta impegnato nella battaglia culturale e civile, il propugnatore di
La vita
idealità democratiche e umanitarie, che si pone nei confronti dei contemporanei come guida e come vate. Nominato nel 1845 Pari di Francia, si fece protagonista di generose battaglie contro la pena di morte e per il miglioramento delle condizioni di vita del popolo. Durante la rivoluzione del ’48 assunse dapprima posizioni moderate, poi si oppose alle tendenze restauratrici, e soprattutto alla scalata al potere di Luigi Napoleone. Dopo il colpo di stato con cui questi instaurò una dittatura personale, andò
Le opere Le prime raccolte liriche
Le tragedie storiche
Notre Dame
de Paris
I castighi Le Contemplazioni
La Leggenda dei secoli
I miserabili
Altri romanzi
in esilio in Inghilterra, su un’isola della Manica, dove restò per venti anni (1851-1870), usando la poesia come strumento di lotta contro il dispotismo, in nome dei principi repubblicani e democratici. Dopo il crollo del Secondo Impero tornò a Parigi, circondato dalla venerazione generale e considerato come un maestro. Non partecipò direttamente ai fatti della Comune (1871), ma ne sentì la grandiosità. Morì nel 1885. La sua produzione è sterminata, e tocca una gran varietà di generi, la lirica, la tragedia, la satira, l’epica, il romanzo. Le prime raccolte di liriche si collocano nel solco dell’esotismo romantico, già inaugurato da Chateaubriand e da Byron (Le Orientali, 1829), o riprendono i toni intimistici, delicati e malinconici proposti con tanto successo da Alphonse Lamartine (Foglie d'autunno, 1831). In questa prima fase della sua attività predominano però le tragedie di argomento storico, che danno vita al teatro romantico, libero dalle regole classicistiche, caratterizzato dal gusto per forti conflitti tra grandi personalità: Cromwell (1827), Hernani (1830), la cui rappresentazione scatenò una clamorosa battaglia tra classicisti e romantici, Il re sì diverte (1832), Ruy Blas (1838). In questa fase si colloca anche un romanzo storico, Notre Dame de Paris (1831), dominato dal gusto per la ricostruzione pittoresca del passato e per l’intreccio a forti tinte. Durante l’esilio, con I castighi (1853) Hugo diventa poeta civile e satirico, scagliandosi contro il dispotismo di Napoleone III. Nelle Contemplazioni (1856) riprende i temi soggettivi e intimi (soprattutto il ricordo della figlia Léopoldine, morta in un naufragio, un trauma che segnò profondamente la vita del poeta). Nella Leggenda dei secoli (1859-1883) Hugo tenta l'epopea: è una storia dell’umanità attraverso quadri poetici delle varie epoche, dai tempi biblici al secolo XIX, ispirata alla fede nel progressivo incivilimento dell’uomo. E in questa opera che Hugo si afferma soprattutto come poeta vate, cantore delle più alte idealità. Una grande popolarità gli venne anche da romanzi. Nel 1862 pubblicò I miserabili, dedicato ai poveri e agli oppressi, in cui lo scrittore si fa predicatore umanitario
e punta a commuovere il lettore e a sollecitare la sua partecipazione morale, ma che offre anche una serie di quadri della società francese su un vasto arco di tempo, attraverso figure emblematiche, semplicisticamente tratteggiate ma di intenso spicco e di forte presa, tanto da divenire quasi proverbiali: il generoso ex forzato Jean Valjean, il santo vescovo Myriel, la prostituta Fantine, il poliziotto Javert, il monello Gavroche. Il romanzo ebbe enorme fortuna e commosse generazioni di lettori in tutto il mondo. È l’esempio più tipico del romanzo popolare ottocentesco di ambizioni sociali e umanitarie. Seguirono altri romanzi, sempre di ispirazione sociale, come I lavoratori del mare (1866), L'uomo che ride (1869), o di impianto storico, come Novantatré 1874). Ipo di Hugo si prolunga ben addentro il secondo Ottocento, un periodo caratterizzato da tendenze contrastanti con quelle romantiche, la disillusione, l’investigaHugo
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274 resta sempre caratzione disincantata e scientifica del reale. Però la sua produzione delle passioni, dei ideali, degli culto dal terizzata da un forte impianto romantico, tura europea, lettera della figura grande una ue grandi valori. Hugo appare comunq invecchiata e mente diabil irrime risulta opera sua della anche se oggi molta parte e scheerazion persino fastidiosa per l’enfasi, la magniloquenza predicatoria, l’esasp matica dei contrasti, lo scoperto intento di commuovere.
Booz addormentato La poesia è tratta dalla Leggenda dei secoli e risale al 1859. La diamo nella traduzione di D'Annunzio, pubblicata sulla “Cronaca bizantina” nel 1885, con l’epigrafe «Imitazione da V. H.» (si tratta infatti di una traduzione libera). D'Annunzio rende la metrica francese (quartine di alessandrini, rime ABBA) con analoghe quartine di versi martelliani, cioè settenari doppi. Il componimento è ispirato ad un episodio biblico del Libro di Ruth (capitoli 8 e 4), in cui Booz, vecchio e ricco possidente, è conquistato dalla dedizione di Ruth, una parente povera, e la sposa. Dall’unione discenderà la stirpe di David a cui appartiene Gesù. I
Ora Booz giaceva, stanco le braccia e il petto, però che faticato avea molto sull’aia. Ed or giaceva alfine Booz, presso le staia! ricolme di fromento, nel consueto letto. 5
1. staia: recipienti di legno cilindrici per misurare quantità di grano o cereali. 2. Se ben dovizioso: sebbene fosse ricco,
(dovizia: ricchezza, latinismo). 3. manipoli: fasci di spighe di grano. 4. cercar ne l’orme: spigolare, ossia cercare, seguendo il percorso dei mietitori, le spighe da loro perdute lungo il tragitto. 5. oblique: non rette, non oneste. 6. di probità ... incedeva: viveva con one-
stàetemperanza. Il biancore delle vesti
e
errata
7. però che: dal momento che. 8. rivo d’aprile: ruscello ricco di acque.
10
Possedea grandi il vecchio campi d’orzo e di grano al sole; e prosperavano i suoi campi in dovizia. Se ben dovizioso?, era mite ed umano il vecchio; e incline avea l’animo a la giustizia. Quando a sera tornavano da le agresti fatiche carichi di manipoli* i mietitori a torme, ei, vedendo una femmina china cercar ne l’orme*, dicea: — Lasciate, o uomini probi, cader le spighe.
Così, candidamente, lungi da oblique? strade, di probità vestito e di lino, incedeva”®.
15
Parean pubbliche fonti le sue sacca di biada,
però che” vi attingeano quanti la fame urgeva. D'argento
era la barba, come
rivo d’aprile*.
I. Booz s'était couché de fatigue accablé; / Il avait tout le jour travaillé dans son aire, / Puis avait fait son lit à sa place ordinaire; / Booz dormait auprès des boisseaux pleins de blé. // Ce vieillard possédait des champs de blés et d’orge; / Il était, quoique riche, à la justice enclin; / Il n’avait pas de fange en l’eau de son moulin, / Il n’avait pas d’enfer dans le feu de sa forge. // Sa barbe était d’argent comme un ruisseau d’avril. / Sa gerbe n’était point avare ni haineuse; | Quand il voyait passer quelque pauvre glaneuse: / — Laissez tomber exprès des épis, disait-il. // Cet homme marchait pur loin des sentiers obliques, / Vètu de probité candide et de lin blanc; / Et, toujours du còté des pauvres ruisselant, | Ses sacs de grains semblaient des fontaines publiques. // Booz était bon maître et fidèle parent; / Il était généreaux, quoiqu’il fàt économe; / Les femmes regardaient Booz plus qu’un jeune homme, / Car le jeune homme est beau, mais
Il Romanticismo
in Francia
Rd 20.
Le femmine guardavano, più che l’esili e blande forme? di un uomo giovine, quella forma! senile; però che l’uomo giovine bello è, ma il vecchio è grande. Il vecchio, risaliente le origini prime, entra negli anni eterni, esce dai dì malcerti!!. Al giovane una fiamma brilla ne li occhi aperti, ma ne li occhi de ’1 vecchio, è una luce sublime !?,
9. blande forme: dolci tratti.
10. forma: bellezza (latinismo).
11. Il vecchio ... malcerti: il vecchio è
vicino alla morte, che lo ricongiungerà con
Dio che l’ha na quindi si stacca dalle {reca della vita terrena e si avvicina IAT piovane sublimela fiamma del
II. |'
25
i
;
;
Ora Booz dormiva ne la notte tra i suoi.
Presso le mole! simili ne l’ombra a monumenti, 1 mietitori stavano distesi, come armenti stanchi. E questo era in tempi lontanissimi a noi.
giovane è il desiderio di vita, la luce del
vecchio è la visione dell'eternità. 13. mole: macine. aciio (1a
30
15. esercitata ... passaggio: coltivata da
che ignote orme
una popolazione seminomade che scopriva
III
i
ritrovato dopo tanti anni, ed il suo corpo imbalsamato sarà riportato in Palestina,
come supremo segno di fedeltà. Giuditta
giganti scopria ne ’1 suo passaggio Si
tutta era molle ed umida pe ’1 diluvio e feconda.
ancora le orme dei mostri preistorici. 16. Jacob e Judith: Giacobbe e Giuditta, entrambi personaggi biblici. Giacobbe, patriarca del popolo di Israele, si addormenta vicino al figlio Giuseppe avendolo
è considerata l’eroina della nazione di Israele; salvò Betulia dall’assedio di Olo-
Le tribù di Israello!* avean per capo un saggio. .
La terra, esercitata da una gente errabonda
35.
;
i
Come Jacob e Judith!, con le palpebre chiuse Booz giacea ne ’1 grave sonno patriarcale.
Or la porta de ’l cielo su ’1 Ù suo capo si schiuse z a
e ne discese
un
SOgno.
Ed il sogno
fu tale:
ferne.
17. vide ... lume: nel sogno profetico di
Booz vide una quercia fuor de ’1 suo ventre in piena
Booz, la quercia sta a rappresentare il destino vittorioso per il popolo d’Israele, la catena umana, il succedersi delle gene-
razioni: Booz, malgrado l’età avanzata,
vita sorgere e lenta Sg giugner l’ultimo] lume”. } U E di 40
avrà un discendente e la sua stirpe continuerà.
na stirpe
di FIROnI Vl $ ergea, qua, catena:
unre cantava a ’l piede*!, moriva in alto un lume!?. 6
3
ia re SURI secondo la tradizione autore dei Salmi (per
E mormorava Booz, sotto le verdi foglie: — Come può mai, Signore, questo dunque accadere?
questo cantava). (pn 19. moriva ... lume: Gesù, figlio di Dio, i fsSia Darid. i selafiere l'omapii
Su ’l1 mio capo fiorirono ottanta primavere: D » 131 : li iDr moglie ie. ed io non ho figliuoli, ed io non ho più
sia Gesù discenderanno
dalla stirpe di
Booz. NE 20. polo > Signore: la moglie di Booz è
45.
i
LO
Da gran tempo colei che meco ebbi giacente ha lasciato il mio letto pe ’1 tuo letto, Signore?;
ipa acc
e siam l’una dell’altro ancor misti?! d'amore,
22. semiviva: ancora viva nel ricordo.
ella pur semiviva” ed io quasi morente..
le vieillard est grand. // Le vieillard, qui revient vers la source première, / Entre aux jours éternels et sort des Jours changeants; / Et l’on voit de la flamme aux yeux des jeunes gens, / Mais dans l’oeil du vieillard on voit de la lumière. Il II. Done, Booz dans la nuit dormait parmi les siens; / Près des meules, qu'on eùt prises pour des décombres, / Les moissonneurs couchés faisaient des groupes sombres; / Et ceci se passait dans des temps très anciens. // Les tribus d’Israél avaient pour chef un juge; / La terre, où l'homme errait sous la tente, inquiet / Des empreintes de pieds de géant qu'il voyait, / Etait encore mouillée et molle du déluge. // III. Comme dormait Jacob, comme dormait Judith, / Booz, les yeux fermés, gisait sous la feuillée; / Or, la porte du ciel s'étant entre-haillée / Au-dessus de sa téte, un songe en descendit. // Et ce songe était tel, que Booz vit un chéne / Qui, sorti de son ventre, allait jusqu’au ciel bleu; / Une race y montait comme une longue chaîne; / Un roi chantait en bas, en haut mourait un dieu. // Et Booz murmurait
avec la voix de l’àme: / «Comment se pourrait-il que de moi ceci vînt? / Le chiffre de mes ans a passé quatrevingt, / Et je n'ai pas de fils, et je n’ai plus de femme. // Voilà longtemps que celle avec qui J'ai dormi, / O Seigneur! a quitté ma couche pour la vòtre; / Et nous sommes encore tout mélés l’un è l’autre, / Elle è demi vivante et moi mort à demi. //
Hugo
276 50
55
60
Una progenie nuova da me sorgere a gloria? Or come posso io dunque aver prole, 0 Signore? La prima giovinezza ha trionfanti aurore: esce il dì da la notte come da una vittoria. Ma la vecchiezza è tremula, quale ai venti alberello. Io son vedovo, solo, ne ’1 vespero, su ’1 monte; come un bove assetato piega all’acque la fronte, io l’anima reclino, mio Dio, verso l’avello?. — Così Booz parlava, ne la misteriosa notte, e a Dio volgea l’occhio inerte; però che? l’alto cedro non sente'a ’1 suo piede una rosa, e? non sentiva Booz una donna al suo piè. IV.
Mentre Booz dormiva, Ruth, una moabita”,
23. l’avello: la tomba.
il seno, ’1 vecchio,. nuda s’era distesa ai piedi de . °
e >. ala ei COSÌ.
sperando
26. moabita: abitante della regione del
27. sperando ... vita: l'originale ha semsa quale rag-
plicemente: «Sperando non si quelo Srobbe venyia l'imit
65
aria vita che dovrà
sorgere da lei.
70
desto)
o Galgala era il campo 30. Galgalà: Galgal
PRBRIORORA.
attendea, con pia serenità.
Era l’ombra solenne, augusta e nuziale. a li: occhisi stupefatti innanzi forse, Volavan . 3 : 3 . però che in alto a tratti angeli; de li umani, erranti apparivano
e sovrannaturale in cui si compie il destino di Booz e Ruth e a cui partecipano natura e animali. (Si legga, a questo proposito, il
donde gli Israeliti muovevano per le loro varie spedizioni e quindi ebbe importanza speciale nella storia del popolo di Israele,
E
dormiva sotto i cieli;
. p e i soffi de la notte languian su Galgalà?°.
divino. La traduzione
iatale
0 Ignoto baleno
Una fresca fragranza salia: da li asfodeli,< 30
portento presente oscuramente diqualche D’ Annunzio spe28. inconscio: senza sapere ciò che lo 1 À deengi VOLERE 29. inconscia: la ripetizione dell’aggettivo den isteria ee
_ — —___ _ ANALISI DEL TESTO
el.
ediergg;e
9, spes
Gig
È il tipico inno risorgimentale, un veemente incitamento alla lotta. Sul piano ideologico si possono osservare diversi punti: 1. Il richiamo alla grandezza di Roma (strofa 1) ed alle glorie della storia passata, lette come preannuncio delle lotte presenti contro gli stranieri e come esempi da cui trarre forza e decisione (strofa 4): si tratta di motivi ricorrenti nella letteratura patriottica di orientamento democratico e laico, sin dall’Ortis e dai Sepolerî di Foscolo (il Romanticismo moderato prediligeva invece, come si è visto, il Medio Evo cristiano). 2. L’aspirazione all’unità (strofa 2), di impianto mazziniano (si ricordi che non tutte le forze risorgimentali erano unitarie: vi era il federalismo moderato dei neoguelfi e quello democratico di Cattaneo). i 8. L'appello all’unità si fonde con uno slancio religioso verso l’affratellamento degli uomini (strofa 3): è la formula mazziniana «Dio e popolo». 4. La rivendicazione dei diritti delle nazioni oppresse (Italia, Polonia) contro gli imperi oppressori (strofa 5). La tensione patriottica e la volontà di eccitare gli animi al combattimento si valgono di un pesante sistema di artifici retorici, soprattutto personificazioni (l’Italia, la Vittoria, l’Aquila imperiale) e metafore: l’Italia che si cinge «l’elmo di Scipio», la Vittoria che porge la chioma, le spade vendute che sono pieghevoli come giunchi, l’aquila austriaca che ha perso le penne, il Cosacco che beve il sangue italiano e polacco, il sangue che brucia il cuore dell’aquila imperiale: è un sistema retorico di una gonfiezza enfatica, che sconfina decisamente nella goffaggine e nel ridicolo (solo tenendo conto della nobile destinazione dell’inno si è disposti a dimenticare tanta bruttezza). Sul piano lessicale, sono caratteristici i residui di un linguaggio aulico e classicheggiante («elmo di Scipio», «speme», «coorte») entro un lessico più semplice e comune: è un esempio dell’incertezza stilistica che è propria di tutta la poesia romantica italiana, divisa tra il desiderio di “popolarità” e il peso di una tradizione classicistica, di cui era difficile liberarsi. Il ritmo è quello incalzante e ritmato, proprio di tutta la poesia patriottica. È ottenuto con l’uso di versi pari (qui i senari), in cui l'accento cade costantemente nelle stesse sedi (qui la seconda e la quinta sillaba); altri versi prediletti della poesia patriottica sono il dodecasillabo (Manzoni, I coro dell’Adelchi), il decasillabo (Manzoni, Marzo 1821, T125, o Berchet, Il giuramento di Pontida, T73).
Il richiamo e Roma
L’unità
L’affratellamento dei popoli I diritti delle nazioni oppresse Gli artifici retorici
Residui di linguaggio aulico
Il ritmo
3.2. La novella in versi A4i. Tommaso
Grossi
Nato presso Como nel 1790, morì a Milano nel 1853. Fu notaio di professione,
ed amico di Porta e di Manzoni, che dal 1822 lo ospitò stabilmente nella sua casa.
Nel 1816 pubblicò una novella in versi in dialetto milanese, La fuggitiva, che l’anno seguente tradusse in italiano. Nel 1820 pubblicò un’altra novella in versi che ebbe grande successo, Ildegonda. Nel 1826 apparvero i primi canti del poema epico I Lombardi alla prima Crociata. Nel 1834 pubblicò un romanzo storico di imitazione manzoniana, Marco Visconti, incentrato su un’angelica fanciulla perseguitata dal tenebroso eroe che dà il titolo al libro. Nel 1887 uscì ancora una novella in versi, Ulrico e Lida.
Scrittori italiani dell’età romantica
3S6S MH Ildegonda La novella è di ambientazione medievale. Ildegonda è una fanciulla a cui il padre vuole imporre uno sposo, mentre ella ama già un altro giovane, Rizzardo. Sorpresa in un tentativo di fuga con l'amante, è chiusa in monastero, con l'alternativa o delle nozze, o della monacazione. Ildegonda fugge dal monastero e incontra l'amato, ma i due sono sorpresi dal fratello di lei. Rizzardo è imprigionato, accusato di eresia e condannato a morte. Ildegonda, rinchiusa nuovamente nel monastero per punizione, è imprigionata in un sotterraneo, dove ha lugubri visioni di fantasmi. Nel giorno dei morti la badessa cerca di indurla a farsi monaca,
ma Ildegonda sviene e il rito viene interrotto. Nella cella la fanciulla ha la visione di un’anima dannata, in cui crede di riconoscere l’amato Rizzardo trasformato in un demonio. Tenta il suicidio ma si salva, e viene tenuta incatenata in un sotterraneo. Ildegonda è ormai consunta dalle persecuzioni e dal dolore, malata e morente, ed è lacerata tra l’amore per Rizzardo e la convinzione che sia morto come eretico e dannato. Il confessore la rassicura: e finalmente può morire in pace.
La morte dell’eroina sventurata È la conclusione della lunga novella. Metro: ottave di endecasillabi (Parte II, ottave 56-73).
56 Ma, all’inoltrarsi della notte, il duro
Morbo più sempre minaccioso cresce: Farmaci adatti ministrati furo!,
E a nullo giovamento le riesce; Ella, con volto placido e securo, Sta la morte aspettando, e sol le incresce, Solo di questo lagnasi e sospira, Che morir debba al genitore in ira?. 57 Meste squillan nel buio le campane: Un basso mormorar di molte genti, Che di lontan procedon lente e piane, Avvicinarsi a poco a poco senti;
Il mistico recando augusto Pane* Fra lo splendor de’ sacri cerei ardenti, Ecco apparir devotamente il santo Ministro, e stargli le sorelle accanto. 58 La povera celletta d’improvviso Rifulger parve d’un celeste raggio; Una soavità di paradiso Confortò la morente al , gran Mgviaggio*, É sfavillar d’un riso
1. ministrati furo: furono somministrati.
E fu veduta
2. al genitore in ira: senza aver ottenuto
Di carità, di speme” e di coraggio,
È del Ra n) l'Eucarestia. il perdono il mistico ... Pane: 3.
Proferendo”, le porse il sacerdote.
4. al gran viaggio: viaggio nell’al di là.
5. riso: sorriso.
6. speme: speranza.
:
T7.le sacre ... proferendo: pronunciando
la formula sacra «Corpus Christi». 8. Poiché: dopo che.
d’amor, ) le sacre note Quando l’Ostia 7 59 Ipo
Poiché® col Sacramento benedette
Egli ebbe alfin le congregate suore, Grossi
364 Quelle in due file s’avviàr ristrette, Intonando le laudi del Signore:
Nessuna il piè fuor della soglia mette, Che non volga uno sguardo di dolore Alla morente, la qual, grave e muta, Con gli occhi ad una ad una le saluta. 60 Il lugubre corteo fuor della cella, China il volto, la rea? madre seguia; Ma Idelbene l’aggiunge e la rappella’’, Che l’amica morente la desia; La qual, con fioca e flebile favella, Tosto come la vide che venìa: - Madre, - le disse, — troppo ardita io sono
Di richiamarvi, e chieggone! perdono. 61
Salutate le mie compagne, e loro La povera Ildegonda ricordate, Quando la sera pregheranno in coro La requie!’ alle sorelle trapassate; Dite che mi perdonino, ch'io moro Pacificata, e che fra le beate Anime giunta al fin d’ogni desio, M’avranno intercedente! presso a Dio. -
62 Con un guardo Idelben poscia additando, Che fra le man tenea la faccia ascosa: — Questa afflitta, - dicea, - vi raccomando: Non le sia colpa se mi fu pietosa; L'ultima carità che vi domando La domando per questa generosa, Che il ciel mi diede con paterna cura A lenimento della mia sventura. -
63
La rigida badessa le rispose, Che saria fatto quanto le chiedea; Orò conversa! al ciel, le man le impose 9. rea: colpevole.
10. l’aggiunge e la rappella: la raggiunge e la richiama. 11. chieggone: ne chiedo. 12. la requie: L’eterno riposo (la preghiera). 13. intercedente: come mediatrice in loro favore. 14. orò conversa: pregò rivolta. |. 15. avea concetta: avevo nutrito. 16. la ripiglia: la rassicura correggendola. 17. le parti adempite: ha adempiuto al suo dovere.
Scrittori italiani dell’età romantica
Devotamente, e la benedicea;
E quella, le pupille lagrimose Chinava intanto, ed: - Ahi! lassa, — dicea, Ahi! che invano la speme avea concetta! Che m’avrebbe il mio padre benedetta. -
64 Il veggente ministro la ripiglia! Con salde efficacissime ragioni; Che le parti adempite! ella ha di figlia.
S6S Pregando il genitor che le perdoni; E che de’ suoi giudizi Iddio non piglia La norma nelle umane passioni”, Né d’un padre l’ingiusta ira mai fia Che il faccia declinar!’ dalla sua vita.
65 Mentre con santi detti la rincora La voce di quel giusto al gran tragitto”, Ecco che giunge rapida una suora Alla badessa, e recale uno scritto: Del ver presaga, la morente allora Parve rasserenasse il volto afflitto; La madre incontanente a lei lo porse,
Che ogni vigor raccolto alquanto sorse;
66
E baciò quello scritto e al cor lo strinse, Che scosso le balzò sotto la mano; Poi, desiosa, a leggerlo s’accinse Tre volte e quattro, e fu ogni sforzo vano,
Ché nebuloso al senso le si pinse: Ed ondulante su mal fermo piano; Sicché forzata finalmente il cesse?! Al confessor, che, lagrimando, lesse:
67
_ «Amata figlia: il veggio, è troppo tardo, «E vano in tutto il pentimento mio: «Pur so che m’ami, e l’ultimo tuo sguardo «Non sdegnerà lo scritto che t’invio. «Deh, perdonami, e prega il tuo Rizzardo «Che non chiami vendetta innanzi a Dio. «Pensa che il tuo fratello è mio nemico, «Ch’ei m’ha tradito, e ch’io ti benedico». 68 In atto di pietà la moribonda Levò le luci? al ciel senza far motto: Quindi alla gioia che nel sen le abbonda Cedendo, diè in un piangere dirotto:
Incurvata del letto in sulla sponda, Seco lei piange la sua fida, e sotto I rabbassati veli la badessa 18. e che ... passioni: «Dio non prende a misura le passioni umane per giudicare». 19. declinar: deviare. 20. al gran tragitto: passaggio nell’al di là. 21. il cesse: lo cedette. 22. le luci: gli occhi. 23. sulla pia: sulla devota Ildegonda. 24. gia: andava; va unito a benedicendo
(verso seguente).
‘Tacitamente lagrimava anch'essa.
69
Il commosso ministro sulla pia” De’ morenti le preci proferendo, Devotamente ad or ad or la gia” Nel nome di Gesù benedicendo, Grossi
366 Finché il tocco feral?° dell’agonia Fra ’1 sopor che l’aggrava ella sentendo, Balzò commossa, girò gli occhi intorno, E domandò s’era spuntato il giorno.
70 Le fu risposto esser la notte ancora; Ma che indugiar però più lungamente Non puote ad apparir nel ciel l’aurora, Ché già svanian le stelle in oriente. Tale di riveder la luce allora Surse desio nel cor della morente,
Che fe’ schiuder le imposte, e fu veduta Guardar gran tempo il ciel cupida? e muta. 71 Si scosse finalmente, e, vista accesa Starle la face? benedetta accanto,
Le preghiere ascoltando della Chiesa Che ripeteale quel ministro santo, E la campana funerale intesa, Che di squillar non desisteva intanto, Dolce alzò gli occhi ad Idelbene in viso, Ed: - Ecco, le dicea con un sorriso, 72
— Ecco l’istante che da lungo agogno... — Ma un affanno improvviso qui l’oppresse, E levarla a sedersi fu bisogno, Ché riaver l’anelito potesse. —- Oh me contenta! questo non è un sogno, Disse, poiché il vigor glielo concesse, Ché il dì de’ morti rammentava, quando Spirar tranquilla si credea sognando. 73 E furon queste l’ultime parole: Il capo, a guisa di persona stanca, POSSE .
Jeral:
Tunesto.
Lene lene?8 inchinò, siccome suole Tenero fior cui nutrimento manca. Le sorge a fronte luminoso il sole, i
it
1
26. cupida: desiderosa, ansiosa.
TOCE
È quella faccia, DI che neve bianca,
28. lene lene: leggero leggero.
D’una luce purissima celeste.
Scrittori italiani dell’età romantica
Col primo raggio incontra, e la riveste
SOT ANALISI DEL TESTO Luoghi comuni romantici
Dalla
La novella, come sarà apparso dal semplice riassunto, che abbiamo volutamente dato in forma alquanto particolareggiata, è un concentrato di luoghi comuni romantici: l’ambientazione medievaleggiante, le macabre visioni spettrali, le atmosfere notturne e cimiteriali, l’amore impossibile, la fanciulla innocente e perseguitata. In particolare le ottave riportate della conclusione offrono un perfetto esempio di poesia sentimentale, nel senso deteriore: il poeta vagheggia la morte dell’infelice eroina, che si spegne consunta dal dolore, tra un profluvio di lacrime e di buoni sentimenti, invocando il cielo e perdonando tutti (il motivo della morte straziante dell’eroina pura e perseguitata è particolarmente caro a Grossi, e tornerà nel suo romanzo storico, Marco Visconti). Si uniscono qui gli intenti edificanti, il compiacimento per la situazione lacrimevole e per la sofferenza del personaggio femminile, e l’intento di ottenere una facile commozione nei lettori, anche mediante la cantabile musicalità del verso. Dato il gusto del tempo, non desta meraviglia che la novella abbia ottenuto un grandissimo successo. Si vede di qui come la “popolarità” voluta dai romantici, cioè una
“popolarità”
letteratura rivolta al pubblico comune, possa facilmente sconfinare nella letteratura di con-
di consumo
la poesia fornisce emozioni già preconfezionate, ad effetto garantito. La letteratura di consumo è un fenomeno tipico della cultura contemporanea di massa; ma fa già la sua comparsa al primo delinearsi del pubblico borghese e del mercato letterario, nell’età romantica. Per avere un’idea di che cosa possa diventare il motivo della morte di un’eroina infelice
Il sentimentalismo
alla letteratura
—sumo, destinata ad un pubblico che nella lettura vuole palpitare e commuoversi, ed a cui
nelle mani di un poeta autentico, si veda il coro di Ermengarda di Manzoni (T132).
3.3. La ballata romantica
A45. Luigi Carrer Nato a Venezia nel 1801 e morto nel 1850, fu famoso soprattutto per le sue Ballate (1834), che incontrarono molto successo fra il pubblico romantico.
Il cavallo dell’Estremadura Metro: Quartine di ottonari, piani quelli dispari, tronchi quelli pari. Rime: abab.
Batte il pian! d’Estremadura? indomabile un destrier;
5 i
pur ch’ei sia di nostra fé‘,
|
sarà sposo d’Isab ella,
1. Batte il pian: percorre in lungo e in
È
largo la pianura.
3. prenci: principi.
tare il destriero selvaggio non s'era ancora fatto avanti.
»
del
di
sala ESUCLO del re. -
2. Estremadura: regione della Spagna. 4. sia di nostra fé: sia cristiano. 5. né ... ancor: l’eroe disposto ad affron-
tristo è il regno, e n’han paura duchi, prenci* e cavalier. — Chi gli ponga freno e sella,
Così va di terra in terra
10
proclamando un banditor; mn ì ;
DIRE, mesl son ch'egli Ce
né comparve il prode ancor?. Carrer
368 15
20
Di Granata e di Castiglia. le contrade visitò, vide Cadice e Siviglia, Tago e Duro valicò. D’Oviedo e di Pamplona trascorrea le piazze invan, e la Murcia e l’Aragona
e il bel suolo catalan. Ma un oscuro® di Biscaglia, ricco sol del proprio cor, si proferse” alla battaglia col selvaggio corridor. Ai magnati parve strano quel coraggio, e lo beffar*?: - Se non hai la striglia in mano, l’arte tua non potrai far?. — Non rispose, ma contenne la giusta ira dentro sé; ed attese finché ottenne d’esser tratto innanzi al re. Quivi giunto, tal ragiona”, (ma pria il capo si scoprì): — E egli ver, sacra Corona, ciò che intesi da più dì? Che chi ponga freno e sella a un destrier che terror dà, sarà sposo d’Isabella,
e tuo genero sarà? — — È mio bando quel che s’ode; la risposta fu del re; questo il premio fia del prode, purché sia di nostra fé. — Tacque appena, che il valente mosse pronto pel sentier
6. un oscuro: non un nobile cavaliere ma un giovane di oscure origini, sconosciuto. 7. si proferse: si offrì. 8. lo beffàr: lo schernirono. 9. Se ... potrai far: i nobili si prendono gioco del giovane per via delle sue umili origini: è nato stalliere (della striglia infatti si serve chi accudisce i cavalli), non domatore di cavalli. 10. tal ragiona: così parla. 11. Era ... presso: il sole stava per tra-
99
e moveale tal sermon!3: - Partì, sorto appena il giorno, quell’ardito biscaglin; cade il Sol, né fa ritorno;
60
qual ne pensi sia il destin? — E la figlia rispondea: — Padre mio, non so temer; molto il volto promettea dell’incognito stranier. —-
montare.
12. veron: balcone. 13. e moveale ... sermon: le rivolgeva tali parole.
dove appar più di sovente l’indomabile destrier. Poco va che fiero ascolta un nitrito rimbombar, e la gente in fuga volta solo il lascia a battagliar. Era il Sole a cader presso!!, e il re stavasi al veron!; Isabella avea da presso
65
Scrittori italiani dell’età romantica
Disse appena, che di grida la contrada risonò:
369 70
75
80
riede!‘ il prode, e seco guida il destriero che domò. Una folla gli fa scorta e festeggia il suo valor; ei senz'altro al re si porta! con a mano il corridor. - Ecco, ei dice, freno e sella il destriero ebbe da me: mia la mano è d’Isabella, e mio suocero tu se’. Si conturba a quell’accento!° il monarca e vorria già... Ma un avanzo di spavento verecondo e mite il fa!”. Indi parla: —- Ardita inchiesta! biscaglin, t’ascolto far; il tuo stato manifesta!9,
85
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14. riede: ritorna. 15. si porta: si reca. 16. a quell’accento: a quelle parole. 17. verecondo ... fa: lo rende prudente e misurato. 18. inchiesta: richiesta. 19. il tuo ... manifesta: rivela la tua condizione sociale. 20. allor ... che: allor da unire a che: allorché, quando. 21. miei gesti: le mie gesta, le mie imprese. 22. garrir non val: protestare non serve. 23. obbligasti la tua fé: hai impegnato la tua parola. 24. la tua fede attienmi: mantieni la parola che mi hai dato.
100
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perch’io sappia a chi parlar. — Di ciò allor non mi chiedesti che°° a pugnar venni per te; il mio stato son miei gesti”, essi parlano per me. A te basti saper questo, che anch’io venero Gesù: di me al cielo è noto il resto, che m’arrise e meco fu. — Ma il monarca gli ripiglia: - Biscaglin, garrir non val?; non fia sposo di mia figlia chi non è sangue real. Chiedi vesti, chiedi anella, ogni cosa avrai da me: ma non chiedermi Isabella, se non sei sangue di re. — — Non di vesti, non d’anella il mio patto fu con te; a concedermi Isabella
obbligasti la tua fé? - Del mio regno ogni altra bella con gran dote avrai da me; ma la mano d’Isabella non avrà chi non sia re. — Non parlarmi d’altra bella, non vo’ dote aver da te: io pugnai per Isabella, la tua fede attienmi”, o re! — - Or ben dunque, quinci parti, arrogante avventurier; e tra noi più non mostrarti, se vuoi vivo rimaner. —
Tacque l’altro, e un guardo bieco sul monarca fulminò: poi si mosse, e trasse seco il destriero che domò. Carrer
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Non s’intese più novella? né di lui né del destrier: ma sul volto d’Isabella siede un torbido pensier”. Indi?” a un anno un re potente
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a richiederla ne vien; non ricusa” ella né assente”; sempre tacita si tien. Ma il re padre ha pattuito, e le nozze si bandîr®9;
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da più parti al sacro rito genti veggonsi venir. Nell’augusta cattedrale più e più calca ognor si fa, con la mitra e il pastorale l'arcivescovo v'è già. Sulla porta in volto tetro?! stan valletti e alabardier per tener la plebe addietro, e far largo ai cavalier. Già il real corteo s’appressa delle trombe in mezzo al suon, incominciasi la messa,
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25. novella: notizia. 26. siede ... pensier: si dipinge un oscuro presentimento. 27. Indi: di lì. 28. ricusa: rifiuta. 29. assente: acconsente. 30. si bandîr: furono annunciate dai ban-
ditori. 81. tetro: accigliato. 32. faci: fiammelle (delle candele). 33. Una ... sorda: un mormorio. 84. ufficio: celebrazione del sacramento del matrimonio. 35. concento: accordo. 36. de’ molti: sottinteso avelli, tra le molte tombe le cui lapidi costituivano parte del pavimento delle chiese. 37. aprir ... avel: una è vista aprirsi. 38. per quel: per quello domato dal giovane biscaglino. 39. aver ... pieno: aver riempito di paura (di tema).
160
165
e al suo posto ognun si pon. E l’altar parato a festa, molte son le faci* e i fior, Isabella è in bianca vesta tra lo sposo e il genitor. Una voce sorda sorda", che scorrendo intorno va, di Biscaglia l’uom ricorda; dice alcun: S'ei fosse qua! Ma il tremendo ufficio?’ e santo non appena incominciò, della chiesa in qualche canto un tumulto si levò. Manda l’organo un concento? quasi il tocchi arcana man, ogni lume a un tratto è spento, e rimugge il tuon lontan. Poi de’ molti? in terra sparsi aprir vedesi un avel?”, e un destriero in su levarsi, cui ravvisa ognun per quel*; quel che sella s’ebbe e freno dall’oscuro avventurier,
dopo aver di tema pieno*° 170
Scrittori italiani dell’età romantica
il monarca e il regno intier. All’orrendo apparimento chi stia fermo più non v'è: tutti incalza lo spavento; e cogli altri sposo e re. Ma colei che al rito venne senza opporsi né assentir,
31 175
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al suo posto si mantenne, mentre gli altri via fuggir. Il cavallo a lei da presso sì va tosto ad accosciar, ed invitala sommesso sul suo dorso di montar. Confidente la donzella su vi sale e piglia il fren”; e il destrier con essa in sella fugge al pari del balen. Fuori uscito della chiesa tutta scorre la città,
“a 190
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200
poi de’ campi la via presa, dove andasse alcun nol sa”. Lo spavento a mano a mano nella plebe si calmò, ma calmarsi cerca in vano il monarca, che nol può. Crede ognor‘ tra un rito pio‘ spenti i cerei di veder, ode sempre un calpestio come zampa di destrier. Chiede a ognun che gli s’accosta d’un stranier che dée arrivar; ed udita la risposta, si rimette a interrogar. Così visse senza mente‘ presso a un anno, e poi mancò‘;
40. piglia il fren: afferra la briglia.
e al più prossimo
41. alcun nol sa: nessuno lo sa.
la corona abbandonò.
42. ognor: sempre.
205
parente
Non s’intese più novella‘
43. pio: religioso.
dell’ignoto avventurier,
45. mancò: morì.
e né manco d’Isabella
46. novella: notizia.
che scomparve sul destrier.
44. senza mente: fuori di sé.
A
,
ANALISI DEL TESTO
I caratteri fiabeschi L’elemento terrifico
Il ricalco popolare
:
È un tipico esempio di ballata romantica, che si collega chiaramente al gusto delle ballate popolari nordiche, come quelle del Bùrger divulgate da Berchet (cfr. T35). L'argomento ha caratteri leggendari e fiabeschi: la collocazione al di fuori di un tempo preciso, la dimensione spaziale vaga (l’Estremadura vale solo ad evocare un luogo lontano, pieno del fascino dell’esotico), il prode eroe di umili e misteriose origini che sconfigge il “mostro” (il cavallo selvaggio che semina terrore) e aspira alla mano della figlia del re come ricompensa. Al termine si mescola anche la componente arcana, sovrannaturale e terrifica, con la comparsa improvvisa del cavallo dalla tomba, preannunciata da un’atmosfera di mistero e di paura. Avvolta nel mistero è anche la conclusione, con la scomparsa della principessa sul dorso del cavallo È evidente l’intento di ricostruire l'atmosfera e il tono delle leggende popolari: i romantici ricercavano nel popolo un patrimonio genuino, di poesia spontanea e immediata, ricca di fantasia e di sentimento. In questo ricalco popolare rientra anche il motivo dell’ingiustizia sociale, il torto patito dall’eroe di umili condizioni da parte del re altezzoso e superbo. L’apparizione sovrannaturale del cavallo viene a punire l'ingiustizia: nelle leggende o nelle
Carrer
,
37 fiabe si proietta spesso in forma fantastica il risarcimento dei torti subiti da parte dei ceti | popolari.
La ricerca di popolarità è denunciata anche dalla tecnica narrativa elementare, che procede per scorci rapidi ed essenziali, senza indugiare in antefatti, descrizioni, spiegazioni (ma questa essenzialità mira anche a creare l'atmosfera favolosa di mistero). Un discorso analogo vale per il linguaggio, semplice e antiletterario, e per il metro, l’ottonario, dal ritmo facile e cadenzato.
| La tecnica narrativa
T73-78 PROPOSTE DI LAVORO pm 1. Sul piano formale individuare: a) livello metrico: quale metro viene preferibilmente adottato? Quali effetti di suono si ottengono? b) livello lessicale: c'è presenza di lessico quotidiano? Aulico? Di latinismi? c) livello sintattico: prevale la paratassi o l’ipotassi? d) livello retorico: ci sono apostrofi? Interrogazioni? Metafore? Allitterazioni?
2. Quali temi prevalgono? 3. Come viene trattata la figura dell’esule? Del poeta? Del patriota? Questi personaggi vengono trattati come nella contemporanea produzione romantica europea? 4. | testi 73, 75, 76 sono un esempio significativo di lirica patriottica risorgimentale italiana; riflettere sulle caratteristiche complessive di tale sottogenere. 5. Per il T73 in particolare ritrovare: a) le numerose figure retoriche presenti (ad esempio personificazioni, interrogazioni, metafore); b) quali scelte metriche conferiscono al testo il ritmo incalzante.
6. Quali aspetti del Medioevo vengono trattati nei testi 73, 74, 77? 7. Quali scelte dei vari autori rivelano che questi hanno voluto produrre una letteratura popolare?
8.4. La poesia satirica
A46. Giuseppe Giusti La personalità
Gli Scherzi
Nacque in Toscana, a Monsummano, nel 1809, da famiglia borghese. Era laureato
in legge, ma non esercitò la professione, vivendo delle sue rendite, nella limitata e tranquilla dimensione provinciale. Ne uscì negli anni della rivoluzione quarantottesca, quando fu deputato nell'assemblea legislativa toscana, ma fu spaventato dall'affermazione della sinistra democratica. Tornato il granduca con l'appoggio dell’esercito austriaco, si ritirò nuovamente dalla vita politica. Morì di tisi nel 1850. Lasciò numerose poesie satiriche, gli Scherzi, ed una Cronaca dei fatti di Toscana dal 1845 al 1849. Godette ai suoi tempi di larga fama, e fu a lungo considerato ragguardevole poeta. Oggi il giudizio su di lui è alquanto limitativo: la sua satira appare debole e superficiale, anche a causa dei confini angusti del suo moderatismo, amante dell’ordine e della mediocrità, timoroso di ogni novità.
Scrittori italiani dell’età romantica
SCÌ Re Travicello La poesia, scritta nel 1841, riprende la favola esopica: le rane, chiesto a Giove un re, e ricevutone un pezzo di legno, se ne sdegnano; il
dio manda allora un serpente che le divora. Con la favola Giusti allude al governo granducale degli Asburgo Lorena in Toscana, moderato e paternalistico, politicamente mediocre, ma non oppressivo come altri regimi. Metro: strofe di otto ottonari. Rime ababecdd.
Al Re Travicello Piovuto ai ranocchi,
Mi levo il cappello E piego i ginocchi; Lo predico anch'io Cascato da Dio: Oh comodo, oh bello Un Re Travicello! 10
15
1. rimase un corbello: rimase come uno sciocco (modo di dire toscano). 2. ci minchiona: si fa beffe di noi. 3. in appello: ci si appelli a Giove per la destituzione del re. 4. non tira a pelare: non mira ad imporre
Che scienza* di mondo;
Che re di cervello E un Re Travicello? 50
53)
Da tutto il pantano Veduto quel coso 20
tasse esagerate.
5. lascia cantare: dà libertà di parola. 6. non apre macello: non fa massacri dei suoi sudditi. T.nel fondo: la superficialità di questo tipo di sovrano ha i suoi lati positivi, perché lascia vivere. 8. scienza: conoscenza del mondo (saggezza). 9. s’adopra: si dà da fare. 10. d’intingere il capo: di andare a fondo nelle questioni. 11. leggerezza: il legno che galleggia è metafora della superficialità di questo tipo umano. 12. torna a capello: calza perfettamente (infatti il granduca di Toscana era chiamato “Altezza”). 13. mota: fango. 14. per chi non ha denti: evidentemente si riferisce ai sudditi del granduca, deboli e fiacchi nella volontà. 15. può farne ... comune: può fare a meno di un principe dotato di intelligenza. 16. sodo: serio (ma allude ironicamente al fatto che è di legne).
Calò nel suo regno Con molto fracasso: Le teste di legno Fan sempre del chiasso; Ma subito tacque, E al sommo dell’acque Rimase un corbello! Il Re Travicello.
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25
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— E questo il Sovrano Così rumoroso? (S’udì gracidare) Per farsi fischiare, Fa tanto bordello Un Re Travicello?
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Al re mentecatto,
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A un re di legname. Non tira a pelare*, Vi lascia cantare’, Non apre macello Un Re Travicello.
Volete il serpente Che il sonno vi scuota? Dormite contente Costì nella mota*, O bestie impotenti:
E fatto a pennello Un Re Travicello! 65
Tacete, tacete; Lasciate il reame, O bestie che siete,
Se a caso s’adopra* D’intingere il capo”, Vedete? di sopra Lo porta daccapo La sua leggerezza!!. Chiamatelo Altezza, Che torna a capello! A un Re Travicello.
Per chi non ha denti",
Un tronco piallato Avrà la corona? O Giove ha sbagliato. Oppur ci minchiona?, Sia dato lo sfratto
Si mandi in appello? Il Re Travicello. -
Là là per la reggia Dal vento portato, Tentenna, galleggia: E mai dello stato Non pesca nel fondo”:
Un popolo pieno, Di tante fortune, Può farne di meno Del senso comune”.
Che popolo ammodo,
Che principe sodo!’, Che santo modello Un Re Travicello!
Giusti
374 ANALISI DEL TESTO È un esempio di poesia satirica politica. L'autore è critico nei confronti del governo granducale, e mette in rilievo come sia politicamente inesistente, inetto e superficiale. D'altro lato la satira colpisce anche il popolo, velleitario nella protesta, ma incapace di modificare realmente le cose. Un simile governo è quindi il più adatto per simili sudditi. La vita mediocre e immobile sotto il governo granducale appare tutto sommato preferibile ad un regime autoritario, che opprima i sudditi e ne faccia strage. Dietro lo sdegno, appare la posizione sostanzialmente moderata di Giusti, venata di scetticismo amaro.
i
Alla fortuna della poesia satirica di Giusti contribuisce anche il suo aspetto formale: innanzitutto il linguaggio toscano, con la sua bonarietà colloquiale e immediatamente comunicativa, ma anche con la sua arguzia pungente, con i suoi modi di dire coloriti («rimase un corbello»); in secondo luogo i metri agili, rapidi e incalzanti, che si imprimono facilmente nella memoria.
Il linguaggio
S. Ambrogio La poesia trae spunto da un episodio avvenuto a Giusti nel 45, mentre era a Milano ospite di Manzoni: entrato nella chiesa di S. Ambrogio, l’aveva trovata piena di soldati austriaci che assistevano alla messa. Il primo moto di ripulsa era stato superato da un sentimento di pietà umana per quei soldati, anch’essi oppressi. Metro: ottave di endecasillabi.
5 1. che ... cagnesco: che mi guarda con cipica qualche funS glio. L’«Eccellenza» è forse zionario di polizia. 2. di dozzina: di poco conto, dozzinali. 3. mi gabella: mi fa passare, mi bolla. 4. metto ... berlina: espongo al ridicolo qualche birbante. 5. in Sant’ Ambrogio ... mano: nella basilica di Sant'Ambrogio, allora alla periferia di Milano. 6. il figlio giovinetto: Filippo Manzoni,
allora diciottenne. 7. un po” pericolosi: ipotizza ironicamente che così fosse considerato dalla censura austriaca Alessandro Manzoni. 8. Sandro: Alessandro Manzoni. 9. fa il nesci: fa finta di nulla. 10. nella vigna ... pali: in Italia, a fare da sostegni al regime austriaco; l’espressione vigna evoca l’immagine di una ricca terra di conquista, pali rinvia a impalati e a diritti come fusi. 7 11. di capecchio: ispidi come stoppa; il capecchio è una filaccia ottenuta dalla prima pettinatura di lino e canapa.
10
15
Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco! per que’ pochi scherzucci di dozzina?, e mi gabella® per anti-tedesco perché metto le birbe alla berlina*, osentailcaso avvenuto di fresco a me che, girellando una mattina, càpito in Sant'Ambrogio di Milano, o È È SUL in quello vecchio, là, fuori di mano?.
M°era compagno il figlio giovinetto® d’un di que’ capi un po’ pericolosi”, di quel tal Sandro*8, autor d’un romanzetto, ove si tratta di Promessi Sposi... Che fa il nesci*, Eccellenza, o non l’ha letto? Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato.
Entro, e ti trovo un pieno di soldati, di que’ soldati settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati, 20
Scrittori italiani dell’età romantica
messi qui nella vigna a far da pali!°: difatti se ne stavano impalati, come sogliono in faccia a’ Generali, co’ baffi di capecchio!! e con que’ musi, davanti a Dio diritti come fusi.
9465) 25
Mi tenni indietro; ché, piovuto in mezzo
di quella maramaglia, io non lo nego d’aver provato un senso di ribrezzo, che lei non prova in grazia! dell'impiego. Sentiva un’afa, un alito di lezzo: 30
scusi, Eccellenza, ma parean di sego,
in quella bella casa del Signore, fin le candele dell’altar maggiore.
Ma in quella che s’appresta" il sacerdote a consacrar la mistica vivanda!, 35
di sùbita! dolcezza mi percuote su, di Dalle come d’una
40
45
verso l’altare, un suon di banda. trombe di guerra uscìan le note di voce che si raccomanda, gente che gema in duri stenti
e de’ perduti beni si rammenti!”. Era un coro del Verdi; il coro!8 a Dio là de’ lombardi miseri, assetati; quello «O Signore, dal tetto natìo», che tanti petti ha scossi e inebriati. Qui cominciai a non essere più io; e, come se que’ così doventati!° fossero gente della nostra gente, entrai nel branco involontariamente.
Che vuol ella, Eccellenza? il pezzo? è bello, 12. in grazia: in virtù. L’«Eccellenza» infatti è alle dipendenze degli Austriaci. 13. di sego: il sego è un grasso animale dall’odore nauseante con cui si fanno candele scadenti. I soldati puzzano talmente che gli sembrano di sego anche i ceri preziosi dell’altare. 14. s’appresta: si prepara. 15. mistica vivanda: l’Eucarestia. 16. sùbita: improvvisa. 17. Dalle trombe ... si rammenti: ad opera della musica avviene la trasfigurazione dei nemici in uomini. 18. il coro: è il coro de / Lombardi alla prima crociata; in esso si esprime il disagio dei crociati in Palestina a causa della siccità.
50
55
27. in visibilio: in*estasi.
e coll’arte di mezzo, e col cervello dato all’arte, l’ubbie?! si buttan là. Ma cessato che fu, dentro, bel bello io ritornava a star come la sa; quand’eccoti, per farmi un altro tiro, da quelle bocche, che parean di ghiro”,
un cantico tedesco lento lento per l’aér sacro a Dio mosse le penne?: era preghiera e mi parea lamento, 60
d’un suono grave, flebile, solenne, tal, che sempre nell’anima lo sento: e mi stupisco che in quelle cotenne”, in que’ fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno.
65
Sentia nell’inno la dolcezza amara de’ canti uditi da fanciullo: il core, che da voce domestica gl’impara”, ce li ripete i giorni del dolore: un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e d’amore, uno sgomento di lontano esilio”, che mi faceva andare in visibilio?”.
19. doventati: diventati. 20. il pezzo: il coro. 21. l’ubbie: i pregiudizi infondati (in questo caso l’odio contro gli Austriaci). 22. di ghiro: dai baffi ispidi, simili a quelli dei ghiri. 23. a Dio mosse le penne: s’innalzò fino a Dio. 24. in quelle cotenne: la cotenna è la pelle del maiale, dura ed ispida; qui il termine rimanda alla insensibilità dei soldati tedeschi. 25. da voce ... impara: li apprende da un membro della famiglia. 26. esilio: il sentimento di disagio noto a chi prova l’esperienza dell'esilio.
poi nostro, e poi suonato come va;
70
E, quando tacque, mi lasciò pensoso di pensieri più forti e più soavi. Giusti
36 75. i
28. Re: è l’imperatore
FERRO Ferdinando
d'Au-
strappa a lor tetti e qua senza ai
stria, pauroso, timoroso di sollevazioni e
schiavi gli spinge per tenerci schiavi”; gli spinge di Croazia e di Boemme?',
rivolte dei popoli dell’Impero. 29. strapppa . . schiavi: l’imperatore
o geo
aenei punti più lonCORR vasto impero e li inviava
80
80. di Croazia e di Boemme: dalla Croa-
muti, derisi, solitari stanno,
rapina”, strumenti ciechi d’occhiuta on sanno: 33
=l’inverno.
per passare 32. d’occhiuta rapina: oculata ruberia.
33. non tocca: dalla quale non traggono vantaggi.
85.
principio del «divide et impera». è aRMAP Lina A a Aquel 37. ... principale: l’imperatore è
che lor OD
tocca
Si che forse n
e quest’odio, che mai non avvicina il popolo lombardo all’alemanno*, popoli avversi altratellati insieme. | , 4
Povera gente. lontana da’ suoi,
90
in un paese qui che le vuol male, po’ poi all’anima chi sa che 3 in fondo ] hi ‘ncipale
abbassato al ruolo di un diretto superiore
non mandi a que
Si Miaro ... noi: scommetto che ne sono
Qui, se non fuggo, abbraccio
in un ufficio qualsiasi. stanchi.
39. mazza dinocciolo: segno distintivo dei
’
e teme dividendo” giovali a chi regna (Laftratelia int
line 35. dividendo: era illo, principio informatore della politica austriaca. Gli ultimi quattro versi mirano a creare una reciproca sim-
patia tra i popoli sottomessi, a spezzare il
come mandre a svernar?! nelle maremme. A dura vita, a dura disciplina
pipe inpedro Dei Re
POSE LI 81. a svernar:
Costor, dicea tra me, Re” pauroso degl’italici; moti e :degli slavi, ,
paese 11 principale A
Gioco che l’hanno in tasca come noi.
95.
caporali austriaci.
5
;
un caporale,
ee
colla su’ brava mazza di nocciolo?’,
duro e piantato lì, come un piolo.
ANALISI DEL TESTO La poesia si apre con una satira della mentalità poliziesca: Giusti rifà il verso all’ottusità sospettosa, tra l’autoritario e il paternalistico, del funzionario austriaco, per il quale uno scrittore come Manzoni diventa «un di que’ capi un po’ pericolosi». Al centro del componimento sta il sentimento patriottico. Esso si manifesta inizialmente come repulsione morale e fisica per l’esercito straniero, per la rigidità dei soldati che li rende simili ad automi e li trasforma in strumenti meccanici di oppressione. Ma poi il patriottismo si allarga ad un senso di fratellanza tra i popoli: il poeta scopre che quei soldati sono vittime anch'essi di un assetto politico che schiaccia le nazionalità, che divide e contrappone tra loro i popoli per meglio opprimerli. Il grande successo della poesia, oltre che al nobile assunto, è dovuto al linguaggio, abilmente giocato su un'alternanza di toni colloquiali con toni più intensi e vibranti, che corrisponde ad un dosaggio di ironia e commozione.
Patriottismo e fratellanza
tra i popoli
Ironia e commozione
ITT79!80 PROPOSTE DI LAVORO 1. Esaminare il linguaggio dei due testi alla ricerca dei toscanismi, delle espressioni del linguaggio popolare, delle numerose metafore (ad esempio per il T79 «le teste di legno» v. 11, «un corbello» v. 15). 2. Ritrovare i punti dei testi in cui è evidente l’uso dell’ironia. 3. Confrontare la rappresentazione che Giusti fa dei «soldati settentrionali» (T80) con quella che Manzoni nel T130 (Adelchi, coro atto III) dà dei Franchi.
4. Nel T79 quale rappresentazione viene data del sovrano? Come viene descritto il rapporto del popolo col sovrano? Ci sono riferimenti alla realtà del tempo?
Scrittori italiani dell’età romantica
SIA 3.9. La poesta filosofico-religiosa A4?. Niccolò Tommaseo La vita
Nato a Sebenico, in Dalmazia, nel 1802, compì studi letterari a Padova. Gli furono vicini nella sua formazione Manzoni e Rosmini. Dal ’27 fu a Firenze e collaborò all’«Antologia», stringendo legami con il gruppo dei liberali toscani. Quando la rivista fu soppressa dal governo granducale nel 1833, si recò in esilio in Francia, dove restò sino al 1839, entrando in contatto con le correnti più vive della cultura del tempo. Qui scrisse Fede e bellezza, romanzo di ispirazione autobiografica, che riflette la sua religiosità mista a tormentata sensualità (fu poi edito nel 1840). In questo periodo pubblicò il suo primo libro di poesie, Confessioni (1836) e le Memorie poetiche (1838). Dal ’39 si stabilì a Venezia, e nel ’48 partecipò alla difesa della città contro gli
Fede e bellezza La poesia
Austriaci. In esilio a Corfù, dopo la caduta di Venezia, fu colto da cecità. Nel ’54 si stabilì a Torino, dove lavorò al grande Dizionario della lingua italiana. Visse poi a Firenze, dove morì nel 1874. Oltre alle opere citate, ne scrisse numerose altre, nei generi più vari: saggi critici (Dizionario estetico, Bellezza e civiltà), un romanzo storico (Il duca di Atene, 1837), traduzioni (Canti popolari toscani, corsi, ilirici, greci, 1841-42). Le poesie complete
Altre opere
furono raccolte solo nel 1872. Tommaseo è una figura di intellettuale che spicca notevolmente nel panorama della letteratura romantica italiana, per la sua personalità originale e ricca di interessi: sperimenta forme di poesia filosofico-religiosa inedite in quel periodo, dense concettualmente e sul piano del linguaggio; scrive un romanzo di ambiente contemporaneo, teso a sondare complesse psicologie, in un momento in cui trionfa il romanzo storico (cfr. T99 e relativa analisi); lascia un vero monumento linguistico con il Dizionarto; preziose sono anche le sue traduzioni dei canti popolari.
Una personalità di spicco
A una foglia Metro: terzine a rime incatenate (ABA, BCB, CDC, ecc.). 1. Tu pur: anche tu. 2. rai: raggi. 3. venivi ... t'amai: il poeta accoglieva nel suo animo tutte le manifestazioni della natura, rispettandole con un amore che non faceva distinzioni fra loro. fango. inata in loto: trasform 4. Conversa
gentile. D. nperCRI VI e nuove:
a
Foglia, che lieve a la brezza cadesti sotto i miei piedi, con mite richiamo forse ti lagni perch’io ti calpesti. Mentr’eri viva sul verde tuo ramo, 5
co’ rai? coll’ombre, Tu pur!Cà coll’aure, +. . ’ è
Rohe
mutan
Venivi unica nell anima 1014,
nuove perpetuerà l’armonia dell'universo.
i copericara pie fragile).
10
La CI
ao
si
a l’universo. 11. Mate... mio: soggetto: lo spirito mio; oggetto: te (=la foglia). Il mio spirito, salendo ai cieli, porterà con sé il ricordo della foglia. 12. pura idea: ridotta a pura idea.
Conversa in loto‘ ed in polvere o pia?, concento" il perpetuo nuove® per vite È Ì , seguilteral della prima armonia.
10. cadrò ... vento: dopo la morte anche
E io8, che viva in me stesso ti sento,
il poeta, come le foglie, si trasformerà in
Vigi Di
4
con lor d’amore indistinto t'amai?.
7. concento: accordo.
Pa i(frale: l’uomo
passai sovente, e di te non pensal; morta ti penso, e mi sento che t'amo.
15
tra breve, e darò del. mio frale® cadrò e
al fiore, all’onda, all’elettrico, al vento!°. Ma te, de’ cieli nell’alto, sull’ale recherà grato lo spirito mio!; e, pura idea!?, di sorriso immortale sorriderai nel sorriso di Dio. Tommaseo
— 878 gg _©_____________—__o_o—_, ANALISI DEL TESTO È un esempio di lirica religiosa. Da un lato vi è il ciclo continuo di trasformazioni della natura materiale: la foglia divenuta polvere e fango si trasfonde in vite nuove, continuando così l'armonia del creato; egualmente il corpo del poeta si fonderà coi fiori, le acque, il vento, l'elettricità. Lo spirito immortale dell’uomo porterà con sé l’idea della foglia in cielo: così anch'essa sarà immortale. Nella visione religiosa di Tommaseo vi è un legame tra tutte le
creature, e nello spirito umano si sublima a vita spirituale la vita di tutto il cosmo; maa sua volta l’umile oggetto materiale, la foglia, aveva svelato allo spirito dell’uomo l'armonia divina del mondo.
Le altezze Metro: ottava di endecasillabi. 1. questa ... pendenti: il cielo è parago-
Questa pianta del ciel che nutre i mondi,
nato ad un albero da cui pendono come
| frutti imondi. — PRE RAI ia 3. muover ... frondi: l’immagine
come frutti dall’albero pendenti!, lascia?, neli muover dell’eteree frondi?,© 4 s TA
i è oscura;
probabilmente ilruotare delle costellazioni.
4. ampiezze ... firmamenti: altre stermi-
altre ampiezze ammirar di firmamenti*:
5
nale galassie. ; a 5. in ruota ... ardenti: sfolgoranti di luce retorhia: 6. nascosa: nascosta.
sovra quelle altri cieli ancor più fondi, dalle cui Sacime, RIE in ruota immensa 6ardenti’, veggonsi i soli giù, come nascosa lucciola in siepe bruna, o ape in rosa.
ANALISI DEL TESTO E un esempio di lirica “cosmica”, ispirata all’infinità dell’universo. La poesia è percorsa da un duplice movimento: dal mondo lo sguardo si allarga all’ampiezza del cielo, sino a firmamenti sempre più lontani, a cieli più profondi; poi il punto di vista si rovescia, e il nostro mondo è contemplato da quelle infinite lontananze, per cui i «soli», le stelle della nostra galassia, appaiono piccoli come la lucciola nella siepe notturna, o l’ape in una rosa. Ma il mondo visto da quelle lontananze non suscita disprezzo e commiserazione, come avviene nella Commedia dantesca per la terra vista dall’alto dei cieli. Non vi è una svalutazione del terreno di fronte all’eterno, ma anche il mondo, pur in quelle dimensioni infinite dello spazio, appare come qualcosa di casto e prezioso, come indicano i paragoni della lucciola e dell’ape. Il volo del pensiero si traduce in immagini ardite e dense: non c’è un procedere raziocinante, ma per intuizioni allusive, che suggeriscono più che definire. In questo la poesia di Tommaseo anticipa soluzioni della poesia a venire.
Scrittori italiani dell’età romantica
Poesia “cosmica”
Le immagini
ti:
SCI Napoleone Metro: terzine a rime incatenate (ABA, BCB, CDC, ecc.).
pol ie mesto,
tempo.
ia PH
38.
solitario e battuto dal cattivo
2. dei mille ... morenti?: «degli innumerevoli soldati morti combattendo in tuo nome?»
DE ra 1 pensier” tetri del notturno orrore,
Di’, non vedevi Italia a te chiamante?, |,
6
3. Italia ... chiamante: in quanto còrso,
Napoleone era considerato italiano, per-
tanto avrebbe dovuto avvertire per la sua patria un particolare rispetto. 4. siccome ... muore?: «(Italia) che ti invocava come una creatura che sta morendo?» 5. ree: malvagie. 6. le più grandi ... arcane note: Tommaseo suggerisce un'immagine di Napoleone
Sul mesto scoglio! infra ’1 mugghiar de’ venti Di’, non sentivi il gemito incessante Dei mille ignoti, in nome tuo morenti?? Siccome creatura che si muore? Dellaiforti opre e dellilrontacito
opras ti,
Le più grandi a te stesso erano ignote;
9
E Dio col sangue che, crudel, versasti, Scrisse di lingua nuova arcane note®.
simile a quella proposta da Manzoni nel Cinque Maggio: di un uomo di cui Dio si è servito per la realizzazione di un piano
imperscrutabile allo stesso protagonista, che non si è reso conto appieno del significato delle sue imprese.
ANALISI DEL TESTO E una meditazione religiosa, suggerita dalla grande figura storica. Napoleone, con le opere eroiche o infami da lui compiute, appare come strumento inconsapevole di un misterioso disegno divino. La poesia è famosa, ma non è delle migliori di Tommaseo. Non va esente infatti da una certa gonfiezza enfatica, specie nelle prime due strofe (le immagini del gemito dei mille ignoti morti per colpa di Napoleone che giunge a Sant'Elena nel mugghiare dei venti, e dell’Italia personificata come creatura morente che chiama nell’orrore notturno, sono veramente troppo caricate e di cattivo gusto, oltre che banali).
PROPOSTE
DI LAVORO
|
1. Individuare il rapporto tra l’uomo e la natura, l’uomo e il cosmo, l’eroe e Dio presenti nelle tre liriche. 2. Riflettere sulle scelte formali di Tommaseo: quale sintassi viene utilizzata? Quale lessico? Il discorso è sempre totalmente esplicitato o ci sono delle allusioni?
+ Cfr. La critica, C23
Tommaseo
380 3.6. La poesia dialettale A48. Carlo Porta Nacque a Milano nel 1775 e vi morì nel 1821. Fu un oscuro impiegato della pubblica amministrazione, ma fu amico dei maggiori intellettuali del tempo, Foscolo, Manzoni, Grossi, Berchet, Visconti. La sua vita coincise con gli anni più densi della sto-
La formazione illuministica
L’adesione al Romanticismo
ria italiana, le campagne napoleoniche, la Repubblica Cisalpina, il Regno Italico, la restaurazione austriaca, la polemica classico-romantica. La sua formazione fu essenzialmente illuministica e d’ispirazione civile, pariniana; egli nutrì la sua satira della società contemporanea, soprattutto della nobiltà boriosa, retriva e ipocrita, attaccata ai suoi privilegi e incurante dei mutamenti epocali in atto (La preghiera, La nomina del cappellan); ma nella sua poesia spiccano anche i monologhi messi in bocca a personaggi del popolo (La Ninetta del Verzee, Desgrazzi de Giovannin Bongee, Lament del Marchionn di gamb avert), in cui viene data voce ai ceti più bassi. Porta fu vicino al gruppo dei romantici, e li sostenne nella loro polemica con varie poesie. Il rifiuto del classicismo era in lui strettamente legato al rifiuto del vecchio mondo aristocratico e clericale. Nel classicismo e nella sua poesia aulica vedeva lo spirito retrivo dell’Ancien régime; nel romanticismo individuava invece il rinnovamento culturale e civile nazionale, una letteratura nuova più aderente alla verità.
La preghiera Una nobildonna narra al suo cappellano uno sgradevole episodio accadutole nel recarsi in chiesa: un ruzzolone, che le aveva attirato gli scherni del popolino. Dopo una preghiera a Dio, la dama dimostra la sua superiorità donando ai pezzenti un soldo a testa. Metro: sestine di endecasillabi. Rime: ABABCC.
Donna Fabia Fabron de Fabrian! l’eva settada al foeugh sabet passaa col pader Sigismond ex franzescan?, 1. de Fabrian: il nome della nobile prota-
che Intrattant e ghe usava la pontaa
gonista occupa un verso intero. Va segnalato che in dialetto milanese il sostantivo
6
(intrattanta, s’intend, che el ris coseva)* de scoltagh sto discors che la faseva.
“fabrian” significa “deretano”. 2. ex franzescan: non si tratta di un frate spretato, ma di un frate estromesso dal
Ora mai anche mì don Sigismond
decretata dal governo francese.
che sia prossima assai la fin del mond
convento dopo la chiusura dei monasteri
convengo
8. intrattanta ... coseva: mentre la falsa carità della dama emerge gradatamente
nel corso del racconto, il frateèsubito pre-
sentato come un parassita scroccone.
4. fellonii: tradimenti. 5. uccision ... Regg: il poeta si riferisce all'uccisione del Duca di Berry, assassinato
hé d ni € vedo
12.
il 13 gennaio 1820.
appien nella di lei paura
cose
di 1 di una tal natura,
i
d’una natura tal, che non ponn dars
che in un mondo assai prossim a disfars.
: ; : Congiur, stupri, rapinn,
gent contro gent,
fellonii*, uccision de Princip Regg?,
Donna Fabia Fabroni di Fabriano era seduta al fuoco sabato passato col padre Sigismond o ex francescano, che frattanto le usava labontà (frattanto, s'intende, che il riso cuoceva) di ascoltarle questo discorso che (lei) faceva. IOra mai anch'io don Sigismondo convengo appieno nella di lei paura che sia prossima assai la fine del mondo, ché vedo cose di una tal natura, di una natura tal, che non possono darsi che in un mondo assai prossimo a disfarsi. /‘Congiure stupri, rapine, genti contro genti, fellonie, uccisioni di Principi Regi, violenze, angherie, sovvertimenti di troni e di Scrittori italiani dell’età romantica
381 violenz, avanii”, sovvertiment de troni” e de moral, beffe, motegg
18.
contro il culto, e perfin contro i natal del primm Cardin? dell’ordine social.
24
Questi, don Sigismond, se non son segni del complemento? della profezia, non lascian certament d’esser li indegni frutti dell’attual filosofia; frutti di cui, pur tropp, ebbi a ingoiar tutto l’amaro, come or vò a narrar.
i
-
6. avanii: soprusi. 7. de troni: forse le agitazioni liberali con-
30
della
e
del mondo,
pocalisse,
î
10. dell’attual filosofia: la filosofia illumi-
SITA 11. venerdì de marz: vener di quaresima dì
1
1
in
de mercadanti de librett, de Si,
386
in cui bisogna ottemperare alla preghiera.
e eFate fio duro
15
in guisa che, con tanto furugozz, agio non v'era a scender dai carrozz.
L’imbarazz era tal che in quella appunt
13. il mio copè: la carrozza nobiliare.
14. faragin: marmaglia
tanto al domestich quanto al vetturin. ‘3: . Tutte le porte e i. corridoi davanti i al tempio eren pien cepp d’una faragin!‘ de gent che va, che vien, de mendicanti,
tro Ferdinando VII di Spagna. 8. primm Cardin: l’aristocrazia. 9. | snioiemento: del ada i protezia
Essendo ieri venerdì de marz! fui tratta dalla mia divozion a Sant Cels*, e vi andiedi con quell sfarz che si adice alla nostra condizion; il mio copè* con l’armi, e i lavorin
ch’ero già quasi con un piede abbass,
0/00
me urtoron contro un pret sì sporch, sì unt
e ritirar per1 1schivarlo el 70 ch'io, pass, 1 16 . di
de immagin: libretti. di 16. de librett, immagini sacre.
devozione,
16. nel legno: nella carrozza.
17. un sculaccion: un colpo col sedere.
di
42
1ed1 ne
egno
PRE scu acclon
d
sl gran
che mi stramazzò in terra di rimand.
18. e donna e damma: donna e, soprat-
in un frangent Come me frimaness 2a SI
a
dialoga co; aa 19. e nel pudòr: probabilment
e le vesti si
ni
1 questa
erano scomposte nella caduta.
20. a ciuffolarmi ... vè!: «a zufolarmi die-
ii senliene Mate: SÌTue al cHe nello
scherzoso
intonato
dal
bardia abbigliato con parrucca e codino, ignorando
ostentatamente
quanto
acl
a Suppor:
nel decor compromessa e nel pudòr!*
NMulanesi ne
1816, quando Frances I rientrò co in Lom-
fatta è
e donna e damma!8 in mezz a tanta gent &
48.
Dre
è più che cert che se PO
a
ib. I0PCDa
fu don del ciel che mi guardò propens.
era
accaduto dal 1789 in avanti. Il popolo lo accolse fischiettando: «Franceschin cont el covin, / Franceschin cont el topè, / va via vè!».
E tanto più che appena sòrta in piè sentii da tutt i band quej mascalzoni a ciuffolarmi dietro il va via vè!?
morale, beffe, motteggi contro il culto, e perfino contro i natali del primo Cardine dell'ordine sociale. /Questi, don Sigismondo, se non son segni del compimento della profezia, non tralasciano certamente d’essere gli indegni frutti dell’attual filosofia; frutti di cui, purtroppo, ebbi a ingoiare tutto l'amaro, come ora vado a narrare. / Essendo ieri venerdì di marzo, fui tratta dalla mia devozione a San Celso, e vi andai con quello sfarzo che si addice alla nostra condizione; il mio coupé con le armi (araldiche), e gli alamari tanto al domestico quanto al vetturino. / Tutte le porte e i corridoi davanti al tempio erano pieni zeppi d’una farraggine di gente che va, che viene, di mendicanti, di mercanti di libretti
(sacri), di immagini, in guisa che, con tanto trambusto, agio non v'era a scendere dalle carrozze. / L'imbarazzo era tale che in quell (attimo) appunto che ero già quasi con un piede a terra, mi fecero urtare contro un prete così sporco,
così unto che io, per schivarlo e ritirare il passo, diedi nel legno uno sculaccione così grande che mi fece stramazzare in terra di rimando. / Come mi rimanessi in un frangente di questa fatta è facile supporre: e donna e dama in mezzo a tanta gente nel decoro compromessa e nel pudore è più che certo che se non persi i sensi fu dono del cielo che mi guardò benigno. - E tanto più che appena sorta in piedi sentii da tutte le bande quei mascalzoni zufolarmi dietro il
Porta
382 Risa sconc, improperi, atti buffoni,
54
quasi foss donna a lor egual in rango, cittadina... merciaja... o simil fango.
60
Ma, come dissi, quell ciel stess che in cura m’ebbe mai sempre? fino dalla culla, non lasciò pure in questa congiuntura de protegerm ad onta del mio nulla, e nel cuor m’inspirò tanta costanza quant c’en voleva in simil circostanza.
66
Fatta maggior de mì”, subit impongo al mio Anselm ch’el tacess, e el me seguiss, rompo la calca, passo in chiesa, giongo a’ piedi dell’altar del Crocifiss, me umilio, me raccolgh, poi a memoria” fò al mio Signor questa giaculatoria: Mio caro buon Gesù, che per decreto
dell’infallibil vostra volontà m’avete fatta nascere nel ceto distinto della prima nobiltà, 72
mentre poteva a un minim cenno vostro nascer plebea, un verme vile, un mostro:
io vi ringrazio che d’un sè gran bene abbiev ricolma l’umil mia persona, tant più che essend le gerarchie terrene simbol di quelle che vi fan corona”
PRIA S. riga Fatta maggior de mì: resa ia fortino:
supe
ETC 78
23. a memoria: improvvisata. Il colloquio
riflession ch'è godo così di: un grad i ; ; o del grad di Troni e di Dominazion. Questo favor lunge dall’esaltarm,
invirtù deipardiretto con Dioèpermesso
ticolari rapporti che la nobiltà intrattiene con l'Ente Supremo.
come
accadrebbe in un cervell leggier, È Bi sich
24. quelle ... corona: le gerarchie angeliche (come i Troni e le Dominazioni sot-
non serve mm campi che a YaMemorATM la gratitudin mia ed il dover
tocitate). La gerarchia sociale sulla terra per la nobildonna rispecchia la gerarchia
di seguirvi e imitarvi,
celeste, ed è immutabile come essa. 25. in cambi: al contrario.
84
specialment
mella clemenza con i delinquent®.
26. delinquent: sono gli uomini del
Quindi in vantaggio di costor anch'io
... stess: la nobildonna, nella sua superbia, paragona la propria misericor-
S off di co, È seg h x Pod * UniDad stess per too U IZ a a dare 10.
Ipo: 27. avii
dia a quella di Cristo in croce.
i, che avi
x
Ah sì abbiate pietà dei lor eccess,
va via vé! Risa sconce, improperi, atti buffoni, quasi fossi donna a loro uguale in rango, cittadina... merciaia... o simil
fango. / Ma, come dissi, quel cielo stesso che in cura mi ebbe sempre mai fino dalla culla, non tralasciò neppure in questa congiuntura di proteggermi ad onta del mio nulla, e nel cuore m’ispirò tanta costanza quanta ce ne voleva in simile circostanza. / Fatta maggior di me, subito impongo al mio Anselmo che tacesse, e mi seguisse, rompo la calca, passo in chiesa, giungo ai piedi dell’altare del Crocefisso, mi umilio, mi raccolgo, poi a memoria faccio al mio Signore questa giaculatoria: / «Mio caro buon Gesù, che per decreto dell’infallibile vostra volontà mi avete fatta nascere nel ceto distinto della prima nobiltà, mentre potevo a un minimo cenno vostro nascere plebea, un verme vile, un mostro: | i0 vi ringrazio che d’un così gran bene abbiate ricolma l’umile mia persona, tanto più che essendo le gerarchie terrene simbolo di quelle che vi fanno corona godo così di un grado che è riflesso del grado dei Troni e delle Dominazioni. | Questo favore lungi dall’esaltarmi, come accadrebbe in un cervello leggiero, non serve in cambio che a rammemorarmi la gratitudine mia ed il dovere di seguirvi e imitarvi, specialmente nella clemenza con i delinquenti. | Quindi in vantaggio di costoro anch'io vi offro quei preghi, che avete fatto voi stesso per î vostri nemici al padre Iddio: Ah sì abbiate pietà dei loro eccessi,
Scrittori italiani dell’età romantica
IGES 90
imperciocché ritengh che mi offendesser senza conoscer cosa si facesser.
96
Possa st’umile mia rassegnazion congiuntament ai merit infinitt della vostra acerbissima passion espiar le lor colpe, i lor delatt, condurli al ben, salvar l’anima mia, glorificarmi in cielo, e così sia.
102
Volendo poi accompagnar col fatt le parole, onde avesser maggior pes, e combinare con un pò d’eclatt? la mortificazion di chi m’ha offes e l’esempio alle damme da seguir ne’ contingenti prossimi avvenir,
108.
sorto a un tratt dalla chiesa, e a quej pezzent, rivolgendem in ton de confidenza, Quanti siete, domando, buona gent?9?... Siamo ventun, rispondon, Eccellenza! Caspita! molti, replico,... Ventun?... Non serve: Anselm?... Degh on quattrin per un.
A
Ma
Chì tas la Damma, e chì Don Sigismond pien come on oeuv de zel de religion, scoldaa dal son di forzellinn, di tond, l’eva lì per sfodragh on’orazion, che se Anselm no interromp con la suppera
28. un pò d’eclatt: con unpo’ dilustro, con | 114
un bel gesto (éclat, francese). 29. buona gent?: è una considerazione paternalistica.
vattela catta che borlanda : l’era!
; i da Le poesîe, a cura e con trad. di C. Guarisco, Feltrinelli, Milano 1964, vol. II
imperciocché ritengo che mi offendessero senza conoscere cosa si facessero. | Possa quest’umile mia rassegnazione congiuntamente ai meriti infiniti della vostra acerbissima passione espiare le loro colpe, i loro delitti, condurli al bene, salvare l’anima mia, glorificarmi in cielo, e così sia». | Volendo poi accompagnare col fatto le parole, onde avessero maggior peso, e combinare con un po’ di éclat la mortificazione di chi mi ha offeso e l’esempio alle dame da seguire nei contingenti prossimi avvenire, / esco a un tratto dalla chiesa, e a quei pezzenti, rivolgendomi in tono di confidenza, Quanti siete, domando, buona gente?... Siamo ventuno, rispondono, Eccellenza! Caspita! molti, replico,... Ventuno?... Non importa: Anselmo?... dategli un quattrino per uno. / Qui tace la Dama, e qui Don Sigismondo pieno come un uovo di zelo di religione, scaldato dal suono delle forchette, dei piatti, era lì per sfoderarle un’orazione, che se Anselmo non
interrompe con la zuppiera vattelapesca che sproloquio era!
ANALISI DEL TESTO La satira della mentalità aristocratica
È un esempio di satira dell’aristocrazia, che rimanda a radici illuministiche e pariniane. Il componimento è aperto e chiuso da una breve cornice narrativa (prima e ultima strofa); poi viene lasciata la parola al personaggio, alla nobildonna dal nome altisonante. Il suo lungo monologo rivela appieno la tipica mentalità dell’aristocrazia: il pregiudizio classista e la superbia nobiliare, la convinzione che la gerarchia sociale rispecchi in terra la gerarchia celeste, quindi che l'ordine esistente sia sacro e voluto da Dio; il disprezzo per i ceti inferiori, che diviene vera ripugnanza fisica; il vedere ogni accenno di trasformazione della realtà data come sfacelo apocalittico e preannuncio della fine del mondo; l'esibizione compiaciuta del lusso, l’ostentazione ipocrita di umiltà e carità cristiana che maschera il dispregio e l’arro-
ganza. Nell’ultima strofa si affianca alla nobildonna la figura del cappellano, che rapprePorta
384 senta la mentalità retriva di un clero servile e parassitario nei confronti dell’aristocrazia, pieno di zelo religioso essenzialmente per opportunismo interessato (lo «zel de religion, scoldaa dal son di forzellinn, di tond»): è un motivo qui appena accennato, ma largamente presente nella poesia portiana. Il poeta non interviene con i suoi giudizi: lascia che quel mondo aristocratico si denunci da sé, attraverso il suo linguaggio, in modo che la satira nasca dai fatti stessi. L'operazione linguistica condotta da Porta è raffinatissima (l’idea che la poesia dialettale sia rozza ed elementare è un pregiudizio privo di fondamento, che basterebbe questo componimento a sfatare). Il linguaggio della nobildonna mescola due registri: un italiano sussiegoso, che però scivola continuamente nel dialetto. L'italiano è pieno di frasi fatte, che rimandano ai pregiudizi e agli stereotipi mentali della nobiltà; vorrebbe essere il segno di una superiorità sociale e culturale, ma il dialetto, che gli si sovrappone inesorabilmente, è il segno della sostanziale volgarità della donna. Così, attraverso la mescolanza dei due registri linguistici, la menzogna a cui è improntata la vita nobiliare si smaschera nell’atto stesso di esprimersi: la semplice registrazione del linguaggio è, nelle mani di Porta, un potente strumento di satira e demistificazione. Emerge chiaramente di qui la capacità di approfondimento nella rappresentazione della realtà e la forza di analisi critica che possiede la poesia dialettale portiana. Sono qualità che spiccano soprattutto se confrontate con le tematiche trite ed i luoghi comuni espressivi di cui è piena la contemporanea poesia romantica in lingua (basta accostare questi versi al Trovatore di Berchet o all’Ildegonda di Grossi).
Il linguaggio
Italiano e dialetto
Desgrazzi de Giovannin Bongee È il monologo di un popolano, Giovannino Bongeri, rivolto ad un anonimo interlocutore di elevata condizione sociale. Il poveraccio narra le sue disavventure: le prepotenze subite prima da parte di una ronda notturna, poi di un soldato francese che sì è introdotto în casa per insidiargli la moglie, e che, alle sue proteste, lo picchia. Giovannino si mostra coraggioso a parole, nel raccontare, ma in realtà ha subito remissivamente i soprusi e le botte. Metro: sestine di endecasillabi. Rime: ABABCC.
Deggià, Lustrissem!, che semm sul descors de quij prepotentoni de Frances, ch’el senta on poo mò adess cossa m'è occors Jer sira in tra i noeuv e mezza e i des,
6
giust in quell’ora che vegneva via sloffi e stracch come on asen de bottia. Seva in contraa de Santa Margaritta e andava inscì bell bell come se fa ziffoland de per mì sulla mia dritta,
1. Lustrissem: il protagonista si rivolge ad
e quand sont Îì al canton dove che stà
una “eccellenza”, un personaggio non nego identificato ma di elevato rango
12
sociale.
2. di cardon: di cardi. Una metafora che
sta ad indicare una fila di fucili con la baio-
netta innestata.
quell pessee che gh’ha foeura i bej oliv
me senti tutt a on bott a dì: Chi viv? Sé;
Vardi innanz,
La
IC
e hoo capii dall’infilera
di cardon? e dal streppet di sciavatt
, Di già, Illustrissimo, che siamo sul discorso di quei prepotentoni di Francesi, che senta un poco mo’ adesso cosa mi è capitato ieri sera tra le nove e mezza e le dieci, giusto in quell'ora che venivo via floscio e stanco come un asino da bottega. / Ero in contrada di Santa Margherita e andavo così bel bello come si fa zufolando tutto solo sulla mia dritta, e quando sono lì all'angolo dove sta quel pesciaiuolo che ci ha fuori (in mostra) le belle olive mi sento tutto a un colpo dire: Chi vive? / Guardo innanzi, e ho capito dalla infilata dei cardoni e dallo strepito delle ciabatte che mi Scrittori italiani dell’età romantica
91019) che seva daa in la rondena, e che l’era la rondena senz’olter di Crovatt3; e mì, vedend la rondena che ven, fermem lì senza moeuvem: vala ben?
Quand m’hin adoss che asquas m’usmen el fiaa, el primm de tutt, che l’eva el tamborin, traccheta‘! sto asnon porch del Monferaa* el me sbaratta in faccia el lanternin® e el me fa vedè a on bott sò, luna, stell, a ris’c de innorbimm lì come on franguell. Seva tanto dannaa che quella azion che dininguarda s’el fudess staa on olter”. Basta: on scior ch’eva impari a sto birbon, ch’el sarà staa el sur respettor senz’olter, dopo avemm ben lumaa, el me dis: Chi siete? Che mester fate? Indove andé? Dicete!
3. Crovatt: Croati; come informa lo stesso Porta, era un termine dispregiativo per alludere alla guardia nazionale. 4. traccheta!: voce onomatopeica, indica un rumore forte e distinto, qui quello prodotto dallo sportellino della lanterna. 5. asnon ... Monferaa: si riferisce alla leggenda monferrina di un mostro in parte asino e in parte maiale; potrebbe anche alludere alle dimensioni particolarmente grandi degli asini di quella zona. 6. lanternin: la lanterna cieca. 7. dininguarda ... olter: fa passare la sua paura dinanzi all’autorità per prudenza e dominio di sé, che gli impediscono di fare uno sproposito. 8. vivi d’entrada: vivo di rendita. 9. polid: per bene. 10. el me sonna ... de pes: «suonare un buon filippo di peso» in origine: «dare un filippo (moneta spagnola coniata ai tempi di Filippo II) di peso giusto, non contraffatta»; per traslato passò a significare «dare una bella lavata di capo». 11. el solta el foss: procede sbrigativamente.
Ci sont?, respondi franco, in dove Sont galantomm e voo per el fatt intuitù poeu del mestee che foo, ghe ven quaj cossa de vorell savè? Foo el cavalier, vivi d’entrada*, e ghe giontaravel fors quaj coss del
voo? mè; mò! sò?
Me par d’avegh parlaa de fioeu polid’, n’eel vera? Eppur fudessel ch’el gh’avess ona gran volentaa de taccìà lid, o che in quell dì gh’andas tusscoss in sbiess, el me fa sercià sù de vott o des e lì el me sonna on bon felipp de pes!0. Hoo faa mì dò o trè voeult per rebeccamm tant per respondegh anca mì quajcoss, ma lu el torna de capp a interrogamm in nomo della legge, e el solta el foss!!, e in nomo della legge, già se sa, sansessia, vala ben?, boeugna parlà. E lì botta e resposta, e via d’incant; Chi siete? Giovannin. La parentella? Bongee. Che mester fate? El lavorant
ero imbattuto nella ronda, e che era la ronda senz'altro dei Croati; e io, vedendo la ronda che viene, fèrmami lì senza muovermi: la va bene? / Quando mi sono addosso che quasi mi annusano il fiato, il primo di tutti, che era il tamburino,
tràcchete! questo asinaccio porco del Monferrato mi spalanca in faccia il lanternino e mi fa vedere a un tratto sole, luna, stelle, a rischio di orbarmi lì come un fringuello. / Ero tanto stizzito di quella azione che Dio ne guardi se fosse stato un altro. Basta: un signore che era a fianco a questo birbone, che sarà stato il signor ispettore senz'altro, dopo avermi ben serutato, mi dice: Chi siete? Che mester fate? Indove andé? Dicete! | Chi sono? rispondo franco, dove vado?
Sono galantuomo e vado per il fatto mio; in quanto poi al mestiere che faccio, gliene viene in tasca qualcosa da volerlo sapere? Faccio il cavaliere, vivo d’entrata, e ora! ci perderebbe forse qualcosa del suo? / Mi pare d’avergli parlato da figliolo pulito, non è vero? Eppure fosse che egli ci avesse una gran volontà di attaccar lite, o che in quel giorno gli andasse ogni cosa in sbieco, mi fa accerchiare su da otto o dieci e lì mi suona una buona ramanzina coi fiocchi. / Ho
fatto io due o tre volte per riprendermi tanto per rispondergli anch'io qualche cosa, ma lui torna da capo a interrogarmi in nome della legge, e salta il fosso, e in nome della legge, già si sa, sia quel che sia, la va bene? bisogna parlare. / E lì botta e risposta, e via d’incanto; Chi siete? Giovannino. La parentella? Bongeri. Che mester fate? Il lavorante di
Porta
386 54
de frust!2. Presso de chi? De Isepp Gabella. In dovè? In di Tegnon!. Vee a spass? Voo al cobbi!*. In cà de voi? Sursì. Dovè? Al Carrobbi.
60
AI Carrobbi! In che porta? Del piattee. Al numer? Votteent vott. Pian? Terz, e inscì? El sattisfaa mò adess, ghe n’hal assee? Fussel mò la franchezza mia de mì, o ch’el gh’avess pù nient de domandamm, el va, e el me pienta lì come on salamm. Ah, Lustrissem, quest chì l’è anmò on sorbett,
l’è on zuccher fioretton! resguard al rest; el sentirà mò adess el bell casett che gh’eva pareggiaa depòs a quest. Proppi vera, Lustrissem, che i battost
66
hin pront come la tavola di ost.
Dopo sto pocch viorin!5, gris come on sciatt!
72
corri a cà che nè vedi nanch la straa, foo per dervì el portell, e el troeuvi on tratt nient olter che avert e sbarattaa... Stà a vedè, dighi subet, che anca chì gh’'è ona gabola anmò contra de mì.
Magara inscì el fudess staa on terna al lott,
che almanch sta voeulta ghe lassava el segn! Voo dent... ciappi la scara... stoo lì on bott, doo a ment... e senti in suj basij de legn dessora inscimma arent al spazzacà 1
12. de frust: “lavorante di fruste”, ossia
78.
come sarav on sciabel a soltà.
presso un sellaio; oppureeta “lavorante di cose
Mì a bon cunt saldo lì: fermem del pè
rigattiere. 13. Isepp Gabella...Tegnon: onomastica
della scara... e denanz de ris’cià on pien! col fidamm a andà sù, sbraggi: Chi l'è?
allusiva: il nome del datore di lavoro
A
fruste, vecchie, usate”, ossia presso un
(Gabella) richiama la voce gabellare, imbrogliare; la strada in cui è ubicato l’eserci-
zio (Tegnon) rievoca la spilorceria.
, vala ben?5 Coss’en3 disel, Lustrissem $ ; SRFCA rogna 1a8e per spassass
84
Vla
:
al dì d’incoeu s'è a temp anch quand se sla.
14. al cobbi: a casa, definita in forma ger-
gale un cobbi, un covile.
Intant nessun respond, e sto triech tracch
li. gris... sciaft. ‘furibondo. 18. pien: guaio serio.
Ghe sonni anmò on Chi l’è pù masiacch, ma, oh dess! l’è pesc che nè parlà coj sass;
DO ED a 16. pocch viorin: seccatura.
el cress, anzi el< va adreeCE a vegnì debass... . .
rattoppi. Presso de chi? Da Iseppe Gabella. In dovè? Nel quartiere dei Tignoni. Vee a spass? Vado a cuccia. In cà de voi? Signorsì. Dovè? Al Carrobbio. /Al Carrobbi! In che porta? Del piattaio. Al numer? Ottocento otto. Pian? Terzo, e così? E soddisfatto mo’ adesso, ce ne ha abbastanza? Fosse poi la franchezza mia di me, o che (non) ci avesse più niente da domandarmi, lui va, e mi pianta lì come un salame. / Ah, Illustrissimo, questo qui è ancora un sorbetto, è uno zucchero fior fiore riguardo al resto; sentirà poi adesso il bel casetto che c’era apparecchiato dietro a questo. Proprio vero, Illustrissimo, che le batoste sono pronte come la tavola degli osti. / Dopo questo poco violino, grigio come un rospo corro a casa che non vedo neanche la strada, faccio per aprire il portello, e lo trovo (a) un tratto niente altro che aperto e spalancato... Sta’ a vedere, dico subito, che anche qui c'è un imbroglio ancora contro di me. / Magari così fosse stato un terno al lotto, che almanco questa volta ci lasciavo il segno! Vado dentro... prendo la scala... sto lì un istante, faccio attenzione... e sento sui gradini di legno di sopra in cima vicino al solaio come sarebbe una sciabola a saltare. / Io a buon conto saldo lì: fèrmami al piede della scala... e prima di rischiare un pieno col fidarmi a andare SU, sbraito: Chi è? Cosa ne dice lei, Illustrissimo, la va bene? A cercar rogna così per spassarsi via al giorno d’oggi sì è a tempo anche quando che sia (cioè: in ogni momento). / Intanto nessuno risponde, e questo tricch tracch cresce anzi continua a venire da basso... Gli suono ancora un Chi è più marchiano, ma, oh adesso! è peggio che parlare coi Scrittori italiani dell’età romantica
SEC 90
infin poeù a quante mai sbraggi: Se pò savè chi l’è ona voeulta, o sì o nò? Cristo! quanti penser hoo paraa via in quell’attem che seva adree a sbraggià! M'è fina vegnuu in ment, Esuss Maria! ch’el fuss el condam!? reficciò de cà?,
96
ch’el compariss lì inscì a fà penitenza de quij pocch ch’el s'è tolt sulla conscienza.
El fatt l’è ch’el fracass el cress anmò: e senti ona pedanna oltra de quell proppi d’ona personna che ven giò; mì allora tirem lì attacch al portell, chè de reson, s’el se le voeur cavà,
102
l’ha de passà de chì, l’ha de passà. Ghe semm nun chì al busilles?!: finalment
vedi al ciar della lampita de straa
19. condam: deriva dal latino quondam,
a vegnimm
una volta; qui sta ad indicare «il fu», ossia
alla contra on accident
il defunto.
d’on cavion frances? de quij dannaa,
Si rn de cà: uno strozzino che subaf-
che inscì ai curt el me dis: Ett v6 el marì
ttava la casa a prezzi spropositati. 21. busilles: dalla locuzione latina în diebus illis (=in quei giorni) che un tradut-
108
tore lesse in die busillis e fu incapace di
respondi: Ovà® ge suì moà, perché? VPI NA so ter fi : Monsi RE 150) € tSpia, vo CE amm ua n
22. cavion frances: il cavion indica proDico Ge sadrag francesi, qui
l’è trè giolì, sacher Dieu, e me plè O giolì 0 non, ghe dighi, l’è la famma
francese.
23. Ett vò ... dessora lì?: si assiste, da qui in avanti, ad una milanesizzazione del fran-
N 3232 che stà dessora lì??:
Mì, muso duro tant e quant e lu,
interpretare busillis. Da allora l’espressione si usa per indicare una difficoltà, un ostacolo, un punto difficile.
per traslato, il soldato
de quella famm,
y
114
de moà
N
’
>
de mì, coss'hal mò ;
cese: «Siete voi il marito di quella donna
S'è che moà ge voeu coccé cont elle”.
sa ag DORIA
Coccé, respondi, che coccé d’Egitt?
.
Ovì: cui, sì.
25. Perchè
... plè: «perché,
;
riprende,
SA Di e mi a
Pa
+
Ch el vaga a fà coccé mn Sant Raffajell
vostra moglie, signore, è molto graziosa,
1128 id
là l'è el loeugh de coccé s’el gh’ha el petitt!
3
26. O giolì ... cuantamm?: «graziosa o no, gli dico, è ladonna mia di me, e allora cosa ha da dire?».
x
262
de cuntamm®®:
Ch'’el vaga foeura di cojon, che chì
120
’”% 4 , 39 no gh'è coccé che tegna. Avé Cap. è :
27. S'è ... elle: «è che voglio andare aletto
Cossa dianzer ghe solta, el dis: Coman!
con lei»; coecè dal francese coucher: giacere. 28. Ch’el vaga ... Sant Raffajell: una via malfamata di Milano.
A moà cojon?, e el volza i man per damm. ì ; E ; Ovej, ch’el staga Deo cont 1 man, ch’el varda el fatte sò de no toccamm,
sassi; infine poi a quanta mai (voce) sbraito: Si può sapere chi è una (buona) volta, o sì o no? / Cristo! quanti pensieri ho cacciato via (dal capo) in quell’attimo che ero dietro a sbraitare! Mi è perfino venuto in mente, Gesù Maria! che fosse il quondam sublocatore di casa, che comparisse lì così a far penitenza di quei pochi (peccati) che si è preso sulla coscienza. / Il fatto è che il fracasso cresce ancora: e sento un passo oltre quello proprio di una persona che viene giù; io allora tirami lì accanto al portello, ché necessariamente, se se la vuol cavare, ha da passare di qui, ha da passare. / Ci siamo noi qui al busillis: finalmente vedo al chiaro della lampada di strada venirmi all'incontro un accidente di uno zazzeruto francese di quelli dannati, che così alle corte mi dice: Etes-vous le mari de cette femme, qui loge au dessus? / Io, muso duro tanto e quanto lui, rispondo: 0vì, ge SU moà, perché? Parce que, riprende, votre femme M. onsieur c'est très jolie, sacré Dieu, et me plaît. O jolì o non, gli dico, lè la famma de moà de mì, c0ss hal mo da contarmi ? 1 C'est
que moi je veux coucher avec elle. Coccé, rispondo, che coccé d’Egitto? Che vada a far coccé in San Raffaele, là è il luogo di coccé se ne ha l’appetito! Che vada fuori dei coglioni, che qui non c’è coccé che tenga. Avete capito? / Cosa diavolo gli salta, dice: Comment! A moi coglione?, e alza le mani per darmi (cioè: battermi). Ehi, che stia fermo con le mani,
Porta
388 126
se de nò, Dia ne libra! sont capazz... e lu in quell menter mollem on scopazz. E voeuna e dò! Sangua de dì de nott?, che nol se slonga d’olter che ghe doo! E lu zollem de capp on scopellott. Vedi ch’el tend a spettasciamm?° el coo, e mì sott cont on anem de lion,
182
e lu tonfeta! on olter scopazzon. Ah sanguanon! A on colp de quella sort me sont sentuu i cavij a drizzà in pee,
29. Sangua ...nott: espressione eufemi-
e se nol fudess staa che i pover mort
stica per «Sangue di Dio!». 30. spettasciamm: spappolare.
m’han juttaa per soa grazia a tornà indree, se non ciappi on poo d’aria, senza fall
31. sparposett de cavall: sproposito | 138 enorme. Ancora una volta spaccia la sua
sta voeulta foo on sparposet de cavall*!.
paura per prudenza.
da Le poeste, cit., vol. I
che guardi il fatto suo di non toccarmi, sennò, Dio ne liberi! sono capace... e lui in quel mentre mollami unoscapaccione. / E una e due! Sangue di giorno di notte, che non si allunghi d’altro (con le mani) che glie(le) dò! E lui appioppami da capo uno scappellotto. Vedo che tende a schiacciarmi il capo, e io sotto con un animo da leone, e lui tànfeta! un altro scapaccione. / Ah sangue! A un colpo di quella sorta mi son sentito i capelli rizzarsi in piedi, e se non fosse stato che i poveri morti mi hanno aiutato per sua grazia a tornare indietro, se non prendo un po’ d’aria, senza fallo questa volta faccio uno sproposito da cavallo!
ANALISI DEL TESTO Anche qui il poeta dà interamente la parola al personaggio, senza mai intervenire: lascia insomma che il mondo subalterno si racconti da sé. Ma la funzione della registrazione diretta del parlato è ben diversa da quella che si è appena messa in luce nella Preghiera (T84): qui ad essere visto dal di dentro è il mondo delle vittime, degli oppressi. Si delinea così una vicenda disperata di soprusi, umiliazioni e violenze, che si ripetono sotto ogni forma di governo (si noti che Bongee chiama «Croati» i Francesi, perché per lui l’oppressione austriaca e quella francese non presentano differenze), ed a cui non è possibile trovare scampo. Se la realtà viene vista da dentro il mondo degli oppressi, la visione illuministico-romantica della storia si rovescia: non progresso ed incivilimento, ma «una immobilità senza speranze, una sofferenza divenuta abitudine, un’indifferente passività, un’accettata oppressione», una protesta destinata a restare sfogo velleitario e inutile (Asor Rosa). Dare la parola al mondo subalterno significa negare ogni mitologia progressiva, ogni convinzione dell’indefinita perfettibilità del sistema sociale. Porta poteva avere soggettivamente fiducia nel progresso, ma la rappresentazione oggettiva, che scaturisce dalla sua scelta di lasciare la parola agli oppressi, assume tutt'altro significato. Per questo aspetto, la poesia di Porta (come poi quella di Belli) acquista un forte valore negativo, demistificatore delle mitologie dominanti in quell'età. E una funzione omologa (sia pure con le grandi differenze nelle fisionomie specifiche dei linguaggi poetici) a quella rivestita da Leopardi (cfr. La ginestra, T162, e M16), ed anticipa la forza negativa e critica della narrazione verghiana. Come non vi è mitologia progressista, così non vi è nella poesia portiana mitologia populista (cfr. M25): il popolo non è indicato a modello di sanità e integrità morale, non è portatore di valori, né di quelli laici e democratici, né di quelli cristiani. Esso, grazie al fatto che prende la parola direttamente, senza mediazione, ha vita integralmente autonoma. Il popolo non è assunto dallo scrittore borghese in funzione del suo modo di vedere il mondo, ad esem-
plificare la sua morale e la sua ideologia politico-sociale, come avviene in altri scrittori roman-
tici, non escluso Manzoni, che, pur con la sua cristiana simpatia per gli umili, non lascia loro integralmente la parola; ma nel romanzo li subordina al suo discorso. Anche per questo aspetto il dialetto, in mano ad un poeta come Porta, si rivela non solo un duttile mezzo espressivo, ma anche un formidabile strumento critico.
Scrittori italiani dell’età romantica
Il mondo degli oppressi visto dal di dentro
Rappresentazione oggettiva e pessimismo
Il valore negativo
e critico
L’assenza di populismo
389
| PROPOSTE DI LAVORO mb 1. In quale misura la scelta del dialetto operata da Porta risponde alle esigenze della nuova poetica romantica italiana e della tendenza realistica europea? 2. C'è un legame tra il T84 e la tradizione illuminista lombarda settecentesca (Parini)? 3. Individuare i punti del T84 in cui Donna Fabia usa registri linguistici diversi e spiegare i motivi di tali scelte. 4. Nel T85 distinguere i punti in cui Giovannin Bongee racconta in “presa diretta” la sua avventura e quelli in cui ilnarratore, ad avventura conclusa, esprime dei commenti, delle anticipazioni. Distinguere anche gli aspetti
comici da quelli drammatici del racconto.
‘5. Quali registri linguistici usa Giovannin Bongee? Quali effetti sortisce l’uso del francese da parte sua? 6. Come viene caratterizzato il personaggio di Giovannin Bongee? (A quale classe sociale appartiene? Quale professione esercita? Quale rapporto ha con il potere? Le sue dichiarazioni di azione coraggiosa hanno un seguito?) ‘7. Ricercare le metafore, le esclamazioni, le interrogazioni, le similitudini, le iperboli, le onomatopee presenti nel discorso di Giovannin Bongee.
A49. Giuseppe Gioacchino Belli
I viaggi I sonetti romaneschi
Le posizioni reazionarie
Conformismo e ribellione dissacratoria
Nacque a Roma nel 1791. Ebbe un’adolescenza difficile, segnata prima dalla morte del padre (1802), poi da quella della madre, e di conseguenza dalla miseria. Condusse per anni vita stentata, con impieghi precari, sinché nel 1813 ottenne la carica di segretario dell’Accademia dei Tiberini, grazie ai suoi scritti in lingua italiana, di impianto classicistico e montiano. Nel 1816 il matrimonio con una ricca vedova gli consentì una vita agiata. Viaggiò allora per varie città italiane, entrando in contatto con gli ambienti culturali milanesi e fiorentini, i più vivi d’Italia. A Milano conobbe le poesie di Porta, che gli diedero l’impulso alla composizione dei suoi sonetti romaneschi. Vi lavorò intensamente, soprattutto tra il 1830 e il 1837, ma non li pubblicò mai, diffondendoli solo oralmente tra gli amici; morendo, anzi, diede i manoscritti ad un amico con l’incarico di bruciarli. Nel 1837 la morte della moglie riaprì per lui le difficoltà economiche. Nel 1848 la rivoluzione lo spinse su posizioni reazionarie, ostili a Mazzini e a Garibaldi. Caduta la Repubblica romana e tornato il papa, rivestì la carica di censore, e la esercitò con rigidezza: proibì ad esempio il Rigoletto e il Macbeth di Verdi, il Mosè di Rossini, e opere di Shakespeare. Morì a Roma nel 1863. Il tratto più caratteristico del Belli è la sua personalità che appare come sdoppiata: da un lato il conservatorismo accademico della produzione poetica in lingua, l'atteggiamento reazionario in politica ed il conformismo verso il potere, rappresentato a Roma dal papa e dalla Chiesa; dall’altro la massa dei sonetti dialettali (2269 componimenti), plebei, sanguigni, beffardi, irriverenti, spesso sboccati e osceni, che rivelano una carica di ribellione anarchica e dissacratoria. Belli vuol limitarsi a dar voce alla plebe, con assoluta oggettività: «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma [...]. Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e io lo ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare un’immagine fedele di cosa già esistente, e, più, abbandonata senza miglioramento». Ricostruisce dunque semplicemente, con puntiglioso rigore, un modo di vedere il mondo che non è il suo; a questo punto di
vista è lasciata la responsabilità della carica dissacratoria e anarchica. Ma si può far l’ipotesi che quella scelta sia l’occasione che consente l'emergere dell’altra faccia della personalità del Belli, forse ignota a lui stesso, e comunque soffocata dalla censura interiore.
Belli
390 Cosa fa er papa? Metro: sonetto.
. . . . . .
Cosa fa er Papa!? Eh trinca?, fa la nanna, taffia?, pija er caffè, sta a la finestra, se svaria‘, se scrapiccia”, se scapestra”, e tiè Roma pe cammera-locanna”.
Papa: Gregorio XVI. trinca: beve. taffia: mangia. se svaria: si diverte. se scrapiccia; si toglie i capricci. se scapestra: fa il dissoluto.
. cammera-locanna: camera sfitta, camera da affittare. E come se il trono papale fosse vacante. 8. nun avenno fiji: non avendo figli. 9. nun z’affanna: non si affanna. 10. a dirigge: a dirigere (lo Stato). 11. commanna: comanda. Per male che vada, chi comanda avrà sempre da mangiare.
Lui, nun avenno fijif, nun z’affanna? a dirigge!° e accordà bene l’orchestra; perché, a la peggio, l’irtima minestra sarà sempre de quello che commanna”!.
0NDHQZIDUI
10
Lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane, li crede robba sua: E tutto Mo; come a sto monno nun ce fussi un cane”.
E quasi quasi goderìa sto tomo!
12. come ... cane: come se a questo mondo
non ci fosse nessuno all’infuori di lui. 13. goderìa sto tomo: godrebbe questo furbacchione. 14. avanti de creà: prima di creare.
de restà solo, come stava Iddio avanti de creà! l’angeli e l’omo. 9 ottobre 1835
ANALISI DEL TESTO Come Porta, anche Belli lascia la parola alla plebe, con l’effetto che la realtà è colta attraverso un'ottica “dal basso”. E un’ottica disincantata, irriverente, per la quale nulla è sacro, tanto meno la figura del sovrano-pontefice, che quindi risulta corrosivamente straniata. Nei termini elementari della visione popolaresca, vengono messi in rilievo la corruzione di quello che dovrebbe essere il Vicario di Dio e il suo disinteresse per l’esercizio della sua sacra funzione; in secondo luogo, il suo cieco dispotismo, il ritenersi padrone assoluto del mondo: su questa linea, il sonetto termina con l’immagine della terribile solitudine del potente.
TT
Le cappelle papale Metro: sonetto.
1. La... papale: le funzioni religiose celebrate alla presenza del papa nelle cappelle vaticane. 2. ch’è successa: che è stata celebrata. 3. a la Sistina: nella cappella Sistina. 4. che più ... latina: «quello che maggiormente interessa i presenti è la predica in latino»; l'aggettivo possessivo su’ aceresce il senso della consuetudine dopo i tre avverbi sempre posti in apertura dei versi 5, 6, 8.
Scrittori italiani dell’età romantica
La cappella papale! ch’è successa? domenica passata a la Sistina?, per tutta la quaresima è l’istessa com'è stata domenic’ a matina.
Sempre er Papa viè fora in portantina: sempre quarche Eminenza canta messa; e quello che più a tutti j’interessa c'è sempre la su’ predica latina.
L’ottica “dal basso”
391 5. ariecorti: raccolti. 6. cor barbozzo inchiodato: E lenienteppogniata:
con il mento
10
7. cadaveri de morti: si tratta di un’espressione pleonastica: morti non aggiunge nulla a cadaveri ma contribuisce a ren-
dere più efficacemente l’immagine di fis-
Li Cardinali ce stanno ariccorti* : > 6 e cor barbozzo inchiodato* sur breviario, come tanti cadaveri de morti”. E nun ve danno più segno de vita
sità, di mummificazione di questa as-
sin che nun je s’accosta er caudatario*
semblea.
a dije: “Eminentissimo, è finita”.
8. sin che ... caudatario: fino a quando non
14 aprile 1835
si avvicina loro il cerimoniere che ha la mansione di reggere lo strascico della veste.
ANALISI DEL TESTO
Un mondo morto
Anche qui è il potere ad essere visto dal basso. Questa volta in una situazione determinata, rituale, come la funzione celebrata nella cappella Sistina alla presenza del papa per la Quaresima. Lo sguardo acuto, smaliziato e scettico del popolano coglie innanzitutto la ripetitività meccanica e ormai vuota del rito («è l’istessa», «sempre ... sempre ... sempre»). Ne esce l’impressione di un mondo chiuso e immobile, come irrigidito nella morte (i cardinali col mento sul breviario, «come tanti cadaveri de morti». In questa luce, la clausola finale («è finita») acquista un’ambiguità allusiva: alla lettera è solo l’annuncio che è finita la funzione, ma si direbbe l’annuncio della fine di quel mondo decrepito, che si spegne come in sordina, per interna estenuazione.
E ciò li tistimòni’ Metro: sonetto. 1. E... tistimòni: e ho i testimoni di questo fatto. 2. er Zanto Padre: il pontefice Gregorio
2 Quanno che er Zanto Padre
pe Pasquino ar tornà da la Nunziata
XVI.
3. pe Pasquino ... Nunziata: per la piazza di Pasquino di ritorno dalla chiesa dell’ Annunziata (dove si teneva una solenne festività il 25 marzo in onore della Vergine
ga
Nella nei
stava la statua omonima, vano attaccati biglietti contenenti satire
stava cor una ciurma indiavolata*
peggio d’un caporal de granattieri.
5
che je stàveno a sede de facciata*
tutt'e due zitti zitti e seri seri.
nata”, satira mordace, di contenuto prevalentemente politico). ti 4. cor una ciurma indiavolata: con un cipi-
A
‘
|
vi aeenai
SArcoEDeri e, IR,
E faceva una certa chiacchierata sà DIES 1
ar cardinal Orioli e a Farcogneri ’
invista (da cui“pasquicontro i personaggi
glio fosco.
Le DASRO Jerl
La gente intanto strillava a tempesta”;
10
elui de quae
de là dar carrozzone
6. a sede de facciata: a sedere di fronte nella carrozza. 7. strillava a tempesta: acclamava.
’na benedizzionaccia lesta lesta*.
ovazioni della folla ilpontefice risponde con
a gistì° a quelli; e quelli co la testa
8. ’na benedizzionaccia lesta lesta: alle
SE n ia 9. a gistì: a gesticblare.
ug ; Poi ritornava co le su’ manone
pareva che je dàssino raggione.
26 marzo 1838
Belli
392 ANALISI DEL TESTO La visione dal basso dà qui il senso della lontananza remota del potere, chiuso nei suoi segreti di Stato ed estraneo alla vita del popolo che lo circonda. Il popolano anonimo che parla è orgoglioso di aver potuto assistere di persona ad un momento della vita dei grandi. Ma il signficato di quei gesti e di quei discorsi a cui assiste gli resta precluso, arcano e incomprensibile. Il parlante partecipa all’entusiasmo popolare che circonda l'apparizione del sovrano; ma, al di là delle sue intenzioni, l’immagine che egli usa a designare l’espressione del papa (il cipiglio «indiavolato», «peggio d’un caporal de granattieri») rende con estrema evidenza la durezza brutale del potere. Così il disinteresse del papa, tutto preso dalle cure politiche, per la sua missione religiosa, è colto dal popolano con quel peggiorativo, «bene-
La lontananza del potere dal popolo
dizzionaccia».
Er miserere de la Sittimana Santa' Metro: sonetto.
Tutti l’ingresi? de Piazza de Spagna? nun hanno antro che dì si che piacere è de sentì a San Pietro er miserere* che gnisun istrumento l’accompagna?.
1. Er miserere ... Santa: ilMiserere della Settimana santa; si tratta del Miserere a
nove voci di Gregorio Allegri (1584-1652), sublime esempio di canto polifonico; esso veniva intonato nelle sere di mercoledì, giovedì e venerdì della Settimana santa ed era motivo di grande attrazione per gli stranieri presenti a Roma. 2. l’ingresi: gli Inglesi. 3. de Piazza de Spagna: i turisti inglesi alloggiavano generalmente in Piazza di Spagna, all'albergo Londra. 4. nun hanno ... er miserere: «non parlano d’altro che del piacere, della gioia, provati nell’ascoltare nella Basilica di San Pietro il Miserere». 5. che ... l’accompagna: che non è accompagnato da nessuno strumento (si tratta infatti di un canto polifonico, per sole voci). 6. in ne la ... tre sere: «chi, in Gran Bretagna o nelle altre cappelle all’estero, sa pronunciare così come a Roma in San Pietro». 7. miserere ... magna?: sono le parole del Salmo L: «Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam». La voce narrante, di estrazione popolare, ignorando il latino, equivoca il significato di magnam e ne dà un’interpretazione mangereccia, quella che immediatamente
5
10
Defatti, cazzo!, in ne la gran Bertagna e in nell’antre cappelle furistiere chi sa dì com’ a Roma in ste tre sere‘ maserere mei Deo sicunnum magna? Oggi sur magna ce sò stati un’ora8; e cantata accusì, sangue dell’ua!?, quer magna è una parola che innamora!.
Prima l’ha detta un musico, poi dua, poi tre, poi quattro; e tutt’er coro allora J'ha dato giù: misericordiam tua. 81 marzo
risponde al suo bisogno primario. 8. Oggi ... un’ora: «oggi le voci hanno indugiato a lungo sul magna» (così almeno pare all’osservatore). 9. sangue dell’ua!: sangue dell’uva (il
Scrittori italiani dell’età romantica
1836
vino). 10. quer ... innamora: quel magna è una
parola che fa innamorare, che rapisce per la sua pastosità che quasi materializza, nell’evocarlo, il cibo.
39S ANALISI DEL TESTO Un doppio senso malizioso
Il sonetto ruota tutto intorno ad un fatto linguistico, l’erronea interpretazione popolare del termine latino «magna» (maggnà in romanesco significa mangiare). In genere si sottolinea nel sonetto l'assenza di intenzioni anticlericali, il semplice assaporamento sensuale, da parte del parlante plebeo, della parola che a lui evoca l’idea del cibo. In realtà un’intenzione satirica non si può escludere: il popolano coglie quella parola, «magna», non solo perché il cibo è per lui valore primario, ma anche perché sa che mangiare è la preoccupazione fondamentale della gente di chiesa: è quindi un’allusione maliziosa alla loro ghiottoneria, che per lui si esalta come in un trionfo persino nei cori delle cerimonie della Quaresima, che dovrebbe essere destinatà al digiuno e alla penitenza. Così il finale si può anche intendere: i coristi esaltano tripudianti la misericordia di Dio, perché consente ai prelati di «maggnà» a crepapelle. Il sapore del sonetto sarebbe pertanto tutto nel doppio senso malizioso e disincantato.
sue mu
Er galateo cristiano Metro: sonetto.
Incontrai jermatina a Via Leccosa! 1. Via Leccosa: una strada nel centro di Roma. 2. drento a un carrozzino: dentro ad una
un Cardinale drento a un carrozzino Zi . ; ’ . che, sl DI fussi stato l umbreilimo,
piccola carrozza.
lo pijavi p° er legno d’una sposa?.
3. si nun ... sposa: «se non fosse stato per
l’ombrellino (l’ombrellino rosso era il segno denari Sica Sgt distintivo della dignità cardinalizia) l’avresti scambiata per la carrozza di una sposa». 4. pe fà una cosa: tanto per fare qualcosa.
VIP ln Sai
-
e messame
pera
6. caricai la dosa: sottolineai il gesto con
ossequio non apparisse troppo affettato».
8. ciaggiontai ... lesta: ci aggiunsi alla svelta. 9. comprimento: complimento.
10. cacciò la testa: tirò fuori la testa.
11. e me... vorta: non avendo inteso la villania pronunciata con il cerimonioso inchino, il cardinale l’accoglie con un segno di assenso.
la mano
ar berettino
piegai er collo e caricai la dosa*.
ostentazione.
7. E acciò ... smorfie: «affinché il mio
A r vedemmelo lì,N pe fàò una cosa 4 i ; a d i inchi Je vorzi* dunque dedica un Inc Ino,
n
E acciò la convegnenza nun ze sperda 10
in smorfie”, ciaggiontai cusì a la lesta?: “Te piace, Eminentissimo,
la merda? ”
ì
Appena Su’ Eminenza se fu accorta der comprimento?
mio, cacciò la testa 10
e me fece de sì più d’una vorta!!. 5 aprile 1835
_——u_nln"n"kinlnln"#w_—t.-—rr....rrllll11IIEE—ewe.
ANALISI DEL TESTO Nei sonetti precedenti la carica straniante e corrosiva è in certo modo involontaria, sca-
turisce tutta dalla visione spontanea, disincantata e scettica, che è l’abito stesso della plebe
Il gusto gratuito dello sberleffo
romanesca. Qui invece abbiamo l’irriverenza voluta, programmatica. Ma non in nome diun principio morale o politico: essa nasce dal gusto gratuito, irrefrenabile, dello sberleffo verso
ciò che è ufficiale e sacro. Dietro a tale gusto c’è però la rabbia accumulata per l’oppressione e la miseria, che giunge naturalmente a sfogarsi in quel modo.
Belli
, ;
|.
Li morti de Roma Metro: sonetto.
1. che ssò ... tacca: che appartengono ad una classe sociale intermedia.
...fotte: «fra tanta gente che 2. fra ttanta si lascia ghermire dalla morte».
Cuelli morti che ssò dde mezza tacca! fra ttanta ggente che sse va a ffà fotte?, vanno de ggiorno?, cantanno a la stracca*, verzo la bbùscia® che sse l’ha dda iggnotte®. 5
È
x
8. de ggiorno: fra mezzogiorno e il tracamente.
ùscia:l
, la
fos a;
sure
S
metafora
6. che ...iggnotte: che li deve inghiottire.
ionilja
HE
.
h
12
1
sò ppiù cciovili”, e ttlengheno la cacca de fuggì er zole!*, e dde viaggià dde notte".
monto. 4. cantanno a la stracca: cantando stan-
ne
Cuell’antri”, in cammio*8, c'hanno la patacca?
de siggnori e dde fijji de miggnotte 10,
5
:
Cc'è ppoi ’na terza sorte de figura/’, 10
’n’antra spesce! de morti, che ccammina
senza moccoli!” e’ ccassa in zepportura”8.
7. Cuell’antri: i nobili. 8. in cammio: invece. 9. la patacca: la tessera, la “patente”. 10. dde fijji de miggnotte: e di bastardi. 11. sò ppiù cciovili: sono più civili.
che ccottivati a?! ppessce de frittura”,
12. la cacca: presunzione.
sce bbutteno a la mucchia de matina?.
13. zole: sole. 14. dde viaggià dde notte: e di celebrare il funerale di notte (dopo l’Avemaria). 15. de figura: di cerimonia funebre. 16. spesce: specie. 17. senza moccoli: senza torce.
18. zepportura: sepoltura.
Cuesti semo noantri!’, Crementina?,
19. semo noantri: siamo noi, il popolo di Roma. 20. Crementina: Clementina, l’interlocutrice, un “tu” generico.
21. ccottivati a: considerati come.
22. ppessce de frittura: cioè poco. 23. sce ... matina: «ci buttano alla rinfusa di mattina nella fossa comune».
ANALISI DEL TESTO Non è più un esempio di satira del potere, come i sonetti che precedono, ma una riflessione sociale sulle diseguaglianze di classe, fatta sempre dall’ottica elementare del plebeo. Dietro c'è un’amara filosofia: una stessa buca nella terra inghiotte nobili, borghesi e plebei. E il motivo della morte che incombe costantemente nel mondo belliano. Dinanzi a questa desolata prospettiva, assumono un senso di ridicola commedia le pretese degli uomini di conservare anche nella morte le distinzioni sociali. Il sonetto si chiude con l’immagine dei plebei gettati nella fossa comune, in cui vibra la consapevolezza risentita, ma del tutto fatalistica, della propria condizione. A maggior ragione vale per Belli il discorso che si faceva per il Giovannin Bongee di Porta (cfr. T85): lasciare la parola agli oppressi significa negare ogni mitologia progressiva, ogni fiducia in un’indefinita perfettibilità dell’uomo, e far emergere una visione desolatamente senza speranza. Anche la poesia di Belli possiede per questo un forte valore negativo, demistificante, corrosivo di ogni facile certezza, che può essere accostato, oltre che a quello di Porta, a quello dei due grandi scrittori “negativi” e pessimisti della nostra letteratura ottocentesca, Leopardi e Verga.
Scrittori italiani dell’età romantica
Il motivo della morte
Visione dal basso e pessimismo
395 La morte co la coda Metro: sonetto.
Qua nun ze n’esce!: o semo giacubbini?, o credemo a la lègge der Zignore. SÌ ce credemo, o minenti? o paini‘, la morte è un passo che ve gela er core. A 1. nun ze n’esce: non ci sono alternative.
ò
‘2. giacubbini: giacobini, ossia atei.
Tao
i
" Ds
E
Da
li festini,
se trafica, s'impozzeno” quadrini,
del rione di Trastevere» (Belli). Denaro egliTA ) PERE
’ 4 | se fa d’ogn’erba eppoi ] se more! I un fascio... *
,
(Belli), signori.
5. Se curre: si corre.
-
E doppo? doppo viengheno li guai.
6. a le commedie: a teatro.
7. s’impozzeno: impozzare, mettere nel pozzo; per traslato: si risparmiano. 8. monno: mondo.
nigi FILA,
Sa 3 le commedi Sid
se va per l’ostarie, se fa l’amore,
e in pr
colar modo
.0a ga aoa ini
Se Ue
PR onno:
o in cielo
i o negli
11. cana: cagna, nel senso di odiosa, cru-
10
Doppo c'è l’antra vita, un antro monnoÈ, che dura sempre e nun finisce mai! E un penziere quer mai, che te squinterna!* 10 Eppuro, w bene o male, o a galla o a fonno!”,
sta cana"
eternità
dev’èsse
eterna!
dele.
29 aprile 1846
ANALISI DEL TESTO
La visione negativa
È un’altra meditazione sul motivo della morte. Innanzitutto emerge il senso di vanità dell’affaccendarsi umano, destinato a terminare inesorabilmente nella morte. Ma è soprattutto il pensiero dell’eternità che angoscia il popolano; è indicativo che egli non pensi neppure ad un’altra vita di beatitudine: l’altra vita non può essere per lui che il proseguimento di questa, per l’eternità: ed è questo il pensiero che lo sgomenta. Si direbbe che istintivamente aspiri alla morte come annullamento totale: solo così vi può essere liberazione e sollievo. Si delinea ancora quella visione aspramente negativa che si sottolineava nel sonetto precedente.
Er giorno der giudizzio Metro: sonetto.
sca 1. angioloni: grandi angeli. 2. tromme: trombe. 3. ccantone: angolo.
Cuattro angioloni! co le tromme? in bocca 3 se metteranno uno pe ccantone a ssonà*: poi co ttanto de voscione?
4. a ssonà: l’immagine rimanda da un lato
cominceranno a ddi5: «Fora a cchi ttocca»”.
all’Apocalisse di Giovanni, di cui Belli volgarizza il passo in VII, 1: «E dopo queste cose vidi quattro angeli sopra i quattro angoli della terra», dall'altro alla pittura barocca di tante chiese romane.
5. ttanto de voscione: con tanto di gran voce.
i 6. a ddi: a dire. 7. Fora a cchi ttocca: sotto a chi tocca.
Belli
396 8. filastrocca ... ppecorone: teoria, fila di scheletri che procederanno a quattro zampe come pecore. 10. come ... attorno de la bbiocca: attorno alla chioccia. 11. du’ parte: due schiere: i dannati e i salvati. 12. pe annà: per andare.
5
Allora vierà ssù una filastrocca de schertri da la terra a ppecorone?, pe rripijjà® figura de perzone, come purcini attorno de la bbiocca". E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto,
10
18. in cantina, una sur tetto: all'inferno,
che ne farà du’ parte”, bbianca e nera: una pe annà" in cantina, una sur tetto!8.
in paradiso. 14. ’na sonajjera: gruppo di angeli tumul-
All’ultimo usscirà ’na sonajjera!
tuante.
d’angioli, e, ccome si s’annassi!° a Iletto, smorzeranno!° li lumi, e bbona sera.
15. si s’annassi: se si andasse. 16. smorzeranno: spegneranno.
ANALISI DEL TESTO Ancora una fantasia mortuaria: si direbbe che c’è un legame diretto tra la presenza insistente della morte nella poesia del Belli e il mondo della Roma papalina che lo circonda, così decrepito e immobile da ispirare appunto un senso di morte (cfr. Le cappelle papale, T87). L’evento biblico è tutto tradotto in immagini popolari: gli angioloni con le trombe in bocca (che provengono evidentemente dall’arte barocca delle chiese romane, vista con gli occhi del plebeo), gli scheletri che escono «a pecorone» dalla terra, i morti come pulcini intorno alla chioccia che è Dio, la «cantina» e «il tetto» per «inferno» e «paradiso», gli angeli che spengono le luci come all’ora di andare a letto. Le immagini popolaresche sono riduttive, dovrebbero conferire alla scena qualcosa di bonario e di familiare, smorzandone la drammaticità. In realtà, con un gioco sapiente, ne fanno risaltare le solennità apocalittica, e danno in chiave grottesca il senso della vanità della vita umana. Soprattutto l’immagine conclusiva dello spegnersi delle luci, pur nel suo carattere bonariamente quotidiano, esprime l’angoscia dello spegnersi della vita universale.
Il motivo mortuario e la Roma papalina
—Un’apocalisse popolaresca
Chi cerca trova' Metro: sonetto. 1. Chi cerca trova: Giorgio Vigolo ed altri commentatori hanno individuato la fonte di questo sonetto nella battuta di un dialogo del cap. IV dei Promessi Sposi, quando, in merito all’uccisione del cavaliere da parte di Ludovico, qualcuno chiede: «Chi è stato ammazzato?» «Quel prepotentone» è la risposta; a questa segue una considerazione: «Chi cerca trova». 2. vorzùta: voluta. 3. SU’: SUO, 4. m’arisponne cojonanno: mi risponde schernendomi. 5. Orlanno: un Orlando per antonomasia, di nome e di fatto, come il paladino francese spaccone e millantatore. 6. Borgo-Pio: quartiere popolare di Roma. 7. sò: sono. 8. tiranno: prepotente. 9. lo vedde: lo vidi, va unito a correme
Se l’è vorzùta? lui: dunque su’ danno.
To me n’annavo in giù p’ er fatto mio, quann’ ecco che l’incontro, e je fo: “Addio”. Lui passa, e m’arisponne cojonanno?*. 5
Dico: “Evviva er cornuto”; e er zor Orlanno®
(n'è tistimonio tutto Borgo-Pio)% strilla: “Ah carogna, impara chi sò” io”; e torna indietro poi come un tiranno8.
10
Come io lo vedde? cor cortello in arto,
cola spumaala bocca e l’occhi rossi!! cùrreme addosso pe venì a l’assarto*,
(corrermi). 10. in arto: in alto.
Scrittori italiani dell’età romantica
11. rossi: iniettati di sangue. 12. a l’assarto: all’assalto.
S97 13. m’impostai: mi piazzai saldamente.
so Pasi a
CSS,
m'’impostai! cor un zercio!' e nun me mossi.
Je feci fà tre antri! passi, e ar quarto
16. serocchiorno l’ossi: scricchiolarono le
lo pres'in fronte, e Je scrocchiorno
ossa.
l’ossì \
4 settembre 1835
La vitalità elementare della
plebe
All’incombere continuo della morte, nella poesia belliana fa da contrappeso la vitalità elementare della plebe. Lo scetticismo sarcastico e amaro del popolano scompare nella rissa,
che è uno dei momenti essenziali della vita della plebe romana. E l’unico momento di vita intensa, nell’esistenza della città morta e immobile: ma è una vitalità irrazionale, animale,
La tecnica narrativa
una fiammata che s’accende improvvisa e che subito si spegne. In quel momento dietro il popolano, su cui pare gravare il peso di una civiltà antichissima, con tutto il suo disincanto e la sua indifferenza, emerge il primitivo, dalle passioni ferine. x Si può notare la sapientissima tecnica narrativa con cui è costruito il sonetto. È il protagonista stesso a narrare. Il racconto comincia în medias res, lasciando nel sottinteso l’antefatto. Anzi comincia dalla fine, dando per scontata la conoscenza del fatto conclusivo. Segue la riproduzione di una serie di rapide battute, che rendono il gusto pungente del motteggio popolare, e non fanno presagire l’esito drammatico. Il passaggio alle battute minacciose («Ah carogna...») è rapido e improvviso. La scena culminante si condensa in due soli particolari, carichi di violenza: la figura dell'avversario che avanza col coltello alzato, cogli occhi iniettati di sangue e la spuma alla bocca, e lo scricchiolìo delle ossa frantumate. Il narratore si concentra tutto su questo particolare fisico, in cui si esprime il compiacimento crudele e ferino della vittoria, il gusto del trionfo cruento. Il breve racconto isola un momento solo della vita popolare: non sappiamo nulla di ciò che precede, né di ciò che segue. Ma proprio questo dà il senso della concentrazione della vita di quel mondo tutta in quel solo attimo, subitaneo e violento, che spezza la monotonia inerte della quotidianità della città morta.
BISZ] PROPOSTE DI LAVORO Rm 1. L’uso del dialetto da parte del Belli risponde alle stesse esigenze del Porta?
2. Esaminare dal punto di vista formale i sonetti del Belli riportati rispetto a: a) livello retorico (ad esempio ci sono metafore? similitudini? allitterazioni?...) b) livello lessicale (ad esempio il lessico riguarda oggetti e situazioni della vita quotidiana? Ci sono termini aulici? Termini non appartenenti al dialetto romanesco?) C) livello sintattico (ad esempio prevale l’uso della paratassi o della ipotassi? Quali modi e tempi verbali prevalgono? L’aggettivazione è importante?) d) struttura formale (ad esempio ci sono dialoghi? rapidi rovesciamenti di situazione? commenti del narratore?) 3. Quale posizione il narratore popolare del Belli assume nei confronti dell’alto mondo ecclesiastico? Ovvero, in quali atteggiamenti descrive il papa e gli alti prelati? Questi sono rappresentati con rispetto e senso della sacralità? Di che cosa si occupano? S’interessano della povera gente? In quali ambienti vivono?
4. C'è una rappresentazione diretta della vita della povera gente o questa la si ricava comunque dalle osservazioni che i poveracci fanno, ad esempio, sul papa?
5. Qual è l’atteggiamento del Belli nei confronti della religione? 6. Come viene trattato il tema della morte? C'è una qualche speranza nel mondo dell’al di là? (cfr. ad esempio TT91-93).
+ Cfr. La critica, C25
Belli
me
398 4. I poeti del secondo Romanticismo A50. Giovanni Prati È il rappresentante del cosiddetto “secondo Romanticismo ” (il primo è quello della generazione del «Conciliatore »), dalle tendenze sentimentali e patetiche. Contro questo tipo di poesia reagiranno gli scapigliati e Carducci. i Nacque nel 1814 presso Trento. Nel ’41 fu a Milano, dove entrò in contatto con Manzoni e con i cattolici moderati. In quell’anno pubblicò la novella in versi Edmenegarda, che gli valse un grande successo. Partecipò all’attività cospirativa, ma nel °48 fu espulso da Venezia, come sospetto agente monarchico provocatore; si recò allora a Firenze, ma anche qui fu cacciato dal governo democratico, per la sua propaganda in favore di Carlo Alberto. Si trasferì infine a Torino. Fu deputato nel ’62, senatore nel ’76. Morì a Roma nel 1884. La sua produzione poetica fu vasta ed eterogenea: poesie patriottiche (Canti per il popolo, 18483), poemetti di gusto romantico (Armando, 1868) e le raccolte tarde di versi, Psiche (1876) e Iside (1878).
Incantesimo Appartiene alla raccolta Iside. Metro: strofe di cinque versi, i primi quattro settenari, l’ultimo endecasillabo. Il quarto settenario è sdrucciolo. Rime: abacB. L’endecasillabo ha una rima al mezzo con il primo e il terzo verso (il primo emistichio dell’endecasillabo è in effetti un settenario).
5 1. La maga: è la fata Azzarellina. 2. entro l’arena: sulla sabbia. 3. girò ... l’orma: descrisse un cerchio pronunciando una formula magica. 4. con frasca di vermena: con la bacchetta magica fatta di un tralcio di verbena. 5. tocco: toccato. 6. occipite: il capo. 7. mi ... forma: il protagonista si vede appena nella nuova forma assunta perché l'incantesimo della maga ha ridotto le sue dimensioni. 8. diafane: trasparenti. 9. vaga: vagante, libera. 10. altrui: per gli altri. 11. un po’ di covo: un po’ di rifugio. 12. Minuscola formica: comincia la serie
di diminutivi (ruchetta, picciolo nido, selvetta, arboscelli, piccioletta fata, erbetta) che caratterizza il mondo alter-
nativo in cui il protagonista è stato trasferito. \ 13. ruchetta: piccolo bruco d’argento. 14. picciolo: piccolo. 15. nutrica: alimenta. 16. curva: piegata ad arco.
La maga?! entro l’arena? girò, cantando, l’orma?;: con frasca di vermena‘ m'ha tòcco* in sull’occipite®, edio mi veggio appena in questa forma”. Sì picciolo mi fei per arte della maga, che in verità potrei nuotar sopra diafane*
10
ale di scarabei per l’aura vaga?.
15
O fili d’erba, io provo un’allegria superba d’essere altrui!° sì novo, sì strano a me. Deh fatemi, fatemi un po’ di covo”, o fili d’erba. Minuscola formica!
o ruchetta! d’argento sarà mia dolce amica
nell’odoroso e picciolo! 20
Scrittori italiani dell’età romantica
nido che il sol nutrica! e sfiora il vento. E della curva! luna
al freddo raggio, quando nella selvetta bruna
399 25
le mille frasche armoniche!” sì vanno ad una ad una addormentando;
e dentro gli arboscelli si smorza la confusa
canzon de’ filunguelli'8, 30
e sotto i muschi e l’eriche l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa!;
noi, cinta in bianca vesta, la piccioletta fata vederem dalla foresta
x
35
venir nei verdi ombracoli?”, di bianchi fior la testa incoronata?
E dormirem congiunti sotto l’erbetta molle ??;
17. frasche armoniche: ramoscelli che producono, muovendosi, una gradevole armo-
nia di suoni. 18. filunguelli: fringuelli. 19. l’anima ... chiusa: anche i ruscelli sembrano quietarsi. 20. ombracoli: anfratti. 21. la testa incoronata: con la testa inco-
40
mentre alla luna i punti toglie”? l’attento astrologo, e danzano i defunti? in cima al colle.
45
I magi d’Asia han detto che quanto il corpo è meno”, più vasto è l’intelletto, e il mondo degli spiriti gli raggia”’ più perfetto e più sereno.
50
Infatti, io sento l’onde cantar di là dal mare, odo stormir le fronde di là dal bosco; e un transito? d’anime vagabonde il ciel mi pare.
55
Da un calamo” di veccia? qua un satirin germoglia, da un pruno, a mo’ di freccia, là sbalza un’amadriade?°: è in parto! ogni corteccia ed ogni foglia.
60
Lampane? graziose giran la verde stanza: e, strani? amanti e spose, i gnomi e le mandragore?* coi gigli e con le rose escono in danza.
ronata.
22. molle: morbida. 23. toglie: scruta. ’ 24. i defunti: i fantasmi. 25. che ... meno: «che quanto più piccolo è il corpo». 26. gli raggia: irraggia l’intelletto. 27. un transito: un passaggio. 28. calamo: stelo. 29. di veccia: pianta delle leguminose. 30. amadriade: ninfa dei boschi. 81. è in parto: genera nuovi esseri. 32. Lampane: le lucciole. 83. strani: all’aggettivo va premesso
«come». 34. gnomi e ... mandragore: sono definiti strani amanti perché la mandragora è un vegetale (anche se dotato di una radice che assomiglia nelle fattezze ad un corpo umano); va ricordato che nel passato a que-
sta pianta venivano attribuite proprietà afrodisiache. 35. Del mondo ... metro?: «come è possibile che ai miei sensi, lenti (tardi) a percepire, giungano gli effetti visivi (il raggio) e uditivi (il metro) del mondo piacevole o sinistro?» 36. E: eppure. 37. vetro: lenti, occhiali. 38. Com'è ... volpe?: «come mai la volpe malvagia (che, insieme al martoro del v. 69, rappresenta i detrattori, i critici che calunniano il poeta) non rivela (latra) ancora i miei errori all’olmo e al pino?» 39. truculento martoro: la martora feroce. 40. succhiella ... mattutino?: «mi perfora le carni di buon mAttino?»
Del mondo ameno o tetro com'è che ai sensi tardi
mi piove il raggio e il metro? E 3° né cornetta acustica 65
mi soccorre né vetro*” orecchi e sguardi?
70
Com'è che le mie colpe non anco all’olmo e al pino latra la iniqua volpe??8 Né il truculento martoro®° mi succhiella le polpe a mattutino‘? Prati
400 Sono un granel di pepe‘ non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe”, ed è minor che lucciola nell’ombra d’una siepe il mio pensiero. Oh fata bianca, come un nevicato ramo‘“, dagli occhi e dalle chiome più bruni della tenebra, e dal soave nome in ch’io‘ ti chiamo.
Oh Azzarelina! in pegno dell’amor mio, ricevi questo morente‘ ingegno,
tu che puoi far continovi‘ nel tuo magico regno i miei dì brevi”.
L’erbetta ov’io m’ascondo so ch’è incantata anch'ella;
né vampa o furibondo refolo‘ o gel mortifica?° lo smeraldo giocondo?! in ch'è sì bella.
41. Sono ... pepe: è la risposta alla domanda della strofa precedente: nessuno mi accusa perché sono talmente piccolo che nessuno mi vede. 42. mi repe: mi si insinua. 48. il mio pensiero: complemento oggetto.
So che, d’amor rapita, in un perpetuo ballo mi puoi mutar la vita o su fra gli astri, o in nitide” case di margherita” e di corallo.
44. un nevicato ramo: un ramo su cui è
nevicato.
45. in ch’io: con il quale. 46. morente: che ormai è «volto al tramonto» (Petronio). Prati aveva infatti compiuto 60 anni. 47. far continovi: rendere perenni. 48. brevi: perché destinati a finire. Azzarellina ha dunque il potere, come le Muse
Sien aque, o stelle, o venti, ove abitar degg'io,
nel mondo classico, di eternare il poeta, di
farlo sopravvivere. 49. refolo: folata di vento. 50. mortifica: fa appassire. 51. lo smeraldo giocondo: il verde smeraldo luminoso. 52. nitide: lucenti. 53. di margherita: di perle. 54. m’assenti: concedimi. 55. oblio: dimenticanza. 56. è ruina: perché spinge a perseguire le illusioni. 57. è roseo nugolo: effimera come una nube rosa (le nubi rosa sono quelle del tramonto, destinate a dissolversi rapidamente). 58. ch’ebbri ci rende: che ci esalta. 59. alto: profondo. 60. danza ... attende: «procede in mano al destino e aspetta la sua fine». 61. il focherel di Venere: la stella di Venere; una lunga tradizione letteraria l'aveva collocata a presiedere agli amori furtivi degli uomini. 62. malinconico ... cieli: «pallido illumina i cieli di un azzurro tenue».
100
per primo don m’assenti® il bacio tuo: per ultimo, dei rissosi viventi il pieno oblio??. Ascolta, Azzarelina: la scienza è dolore,
la speranza è ruina”’,
la gloria è roseo nugolo””, 105
la bellezza è divina ombra d’un fiore.
110
Così la vita è un forte licor ch’ebbri ci rende®8, un sonno alto*’ è la morte; e il mondo un gran Fantasima che danza con la Sorte e il fine attende,
115
Vieni ed amiam. L’aurora non spunta ancor; gli steli ancor son curvi; ancora il focherel di Venere®! malinconico infiora i glauchi cieli*.
Scrittori italiani dell’età romantica
401 Vieni ed amiam. Chi vive,
63. naturalmente: per legge naturale.
64. guada ... rive: si avvia verso la morte. Le tenarie rive sono quelle di Capo Tenaro dove gli antichi avevano collocato l’ingresso dell’Averno, il regno dei morti. 65. a ciò non bada: non si cura della morte.
naturalmente guada alle tenarie rive®: ma chi è prigion nel circolo 120
che la tua man descrive a ciò non bada*°.
ANALISI DEL TESTO E una fiaba idillica, animata dal sogno di una fresca comunione con la natura, e che si esprime in forme di facile cantabilità. Può suggerire utili riflessioni il fatto che la poesia esca l’anno dopo delle Odi barbare di Carducci e lo stesso anno di Rosso Malpelo di Verga.
A51. Aleardo Aleardi Nacque a Verona nel 1812. Fu patriota, partecipò alla difesa di Venezia nel 49 e fu imprigionato nel ’52. Dopo il ’59 fu eletto deputato. Divenne professore di Estetica presso l’Istituto di Belle Arti a Firenze. Nel ’73 fu nominato senatore. Morì a Verona nel 1878. Con Prati, è considerato tradizionalmente il rappresentante tipico del secondo Romanticismo, sentimentale e languido. Però Aleardi tende al ricupero della dignità classica del linguaggio poetico, in contrasto con la popolare cantabilità della lirica romantica. La sua produzione è molto copiosa: Lettere a Maria (1846), Il Monte Circello, Le antiche città italiane marinare e commercianti (1856), Raffaello e la Forna-
rina,iCanti patri, il Canto politico (1862). A1’64 risale l'edizione definitiva dei Canti.
da Il Monte Carcello
I mietitori dell’Agro Pontino 1. interminata: molto vasta, senza confini. 2. la toscana onda si piega: si estende lungo il Mar Tirreno.
8. di smeraldi adorno: di color smeraldo. 4. molli ... odorosa?: si costruisca: «che attenda l’orma odorosa (l'impronta profumata) indizio della presenza di deità marine (divinità di mare) molli (intrise di acqua)». 5. venti ... cittadini: «essa è il cimitero di venti città dimenticate che un tempo sorgevano qui». 6. dal Ponto: che trae il nome da Ponto (dal greco, mare). 7. da sì... erbe sorrisa: «ed è così ricca di rigogliosa vegetazione». 8. una Tempe: località della Tessaglia passata alla storia per la bellezza del territorio. Per antonomasia l’espressione è usata ad indicare un luogo meraviglioso. 9. il venturoso: gli abitanti di Tempe erano fortunati poiché vivevano in un luogo bellissimo; il territorio delle paludi pontine è invece spopolato a causa della malaria. 10. rei: crudeli. 11. la Saturnia terra: l’Italia su cui regnò, secondo la mitologia, .il dio Saturno.
Il passo del poemetto riguarda i braccianti scesi dall’Abruzzo nell’Agro Pontino per la mietitura, destinati spesso alla morte per malaria. Metro: endecasillabi sciolti.
150
Vedi là quella interminata! che lungo la toscana onda si piega”, quasi tappeto di smeraldi adorno?, che de le molli deità marine l’orma attenda odorosa‘? Essa è di venti obliate cittadini* il cimitero; è la palude, che dal Ponto® à nome.
155
Sì placida s’allunga, e da sì dense famiglie di vivaci erbe sorrisa”,
che ti pare una Tempe?®, a cui sol manchi il venturoso? abitatore. E pure tra i solchi rei! de la Saturnia terra! 160
cresce perenne una virtù funesta che si chiama la Morte. - Allor che ne le meste per tanta luce ore d’estate Aleardi
402 il sole incombe assiduamente ai campi”,
165
12. Allor che ... ai campi: «d'estate quando il sole incombe sui campi per molte ore della giornata affliggendole con elevate
170
temperature».
13. àn ... all’esiglio: «hanno l’aspetto di gente che, mesta, si reca in esilio». 14. velenato aere contrista: l’aria, avvelenata dalla malaria, rattrista gli occhi.
15. la nota: il canto. 16. natali Abruzzi: del nativo Abruzzo. 17.le patetiche bande: è oggetto: i malinconici gruppi di mietitori. 18. la sudata opra: il faticoso lavoro. 19. riedono: ritornano. 20. sol: soltanto. 21. la passione dei ritorni: desiderio intenso di ritornare a casa (è complemento oggetto di addoppia). 22. domestico: familiare. 23. la cornamusa: la zampogna. 24. v’à che: c’è chi. 25. supremo: l’ultimo. 26. la mercé ... vita: la paga guadagnata in cambio della vita. 27. deserto: abbandonato. 28. nei venturi anni: negli anni seguenti. 29. a còr: a raccogliere. 30. un orfanello: il figlio. 31. insepolte: che non hanno avuto sepoltura nel paese natio.
175
180
185
190
traggono a mille qui, come la dura fame ne li consiglia, i mietitori; ed àn figura di color che vanno dolorosi all’esiglio!; e già le brune
pupille il velenato aere contrista!‘. Qui non la nota! d’amoroso augello quell’anime consola, e non allegra niuna canzone dei natali Abruzzi! le patetiche bande. Taciturni falcian le mèssi di signori ignoti; e quando la sudata opra! è compita, riedono!° taciturni; e sol? talora la passione dei ritorni?! addoppia col domestico? suon la cornamusa”. Ahi! ma non riedon tutti; e v'è che? siede moribondo in un solco; e col supremo” sguardo ricerca d’un fedel parente che la mercé de la sua vita? arrechi a la tremula madre, e la parola del figliuol che non torna. E mentre muore così solo e deserto?”, ode lontano i viatori, cui misura i passi col domestico suon la cornamusa. E allor che nei venturi anni? discende a còr?° le mèssi un orfanello®°, e sente tremar sotto un manipolo la falce, lacrima e pensa: Questa spiga forse
crebbe su le insepolte®! ossa paterne.
ANALISI DEL TESTO Si può ravvisare nel passo il gusto romantico per il paesaggio funebre (si noti il contrasto tra il sorriso delle erbe profumate e la Morte che vi aleggia). Si inserisce poi il motivo sociale dei mietitori abruzzesi: ma più che nel denunciare la fatica del lavoro, si insiste romanticamente sulla nostalgia degli esuli e sull’incombere della morte su di essi (a cui allude l’insistita sottolineatura del silenzio che grava sulle paludi e sui mietitori). Si può notare ancora la ripresa di un linguaggio aulico, di impronta classicheggiante, nel lessico, nelle perifrasi, nelle immagini. Si ha il senso di una restaurazione, che fa presagire quella carducciana.
PROPOSTE
Il paesaggio funebre
Il linguaggio aulico
DI LAVORO
1. Del T95 si possono ricercare tutti gli aspetti tipici della fiaba (confronta la rappresentazione della natura, quali personaggi | abitano, l’attenzione per la nascita straordinaria della terra...). Osservare inoltre come viene descritta la vicenda sentimentale (ad esempio c’è profondità nell’analisi dei sentimenti?). 2. Del T96 procedere ad un'analisi del linguaggio: quali i termini aulici? Le perifrasi usate? Le figure retoriche presenti? (ci sono sineddochi, similitudini, metafore, iperbati? Ci sono riferimenti dotti?).
Scrittori italiani dell’età romantica
403 5.
Ilromanzo
5.1. Il romanzo
storico
A52. Francesco
Domenico
Guerrazzi
Nacque E Livorno nel 1804. Acceso repubblicano, organizzò moti rivoluzionari,
e fu incarcerato nel 1833. Nel 48-49 ebbe un ruolo di primo piano negli avvenimenti di Toscana, e fece parte del triumvirato che esercitò poteri dittatoriali. Restaurato il regime granducale, fu condannato all’esilio. Dopo l’unità fu deputato, in aspra polemica con i moderati. Morì a Cecina nel 1874. Scrisse numerosi romanzi storici, che al tempo ebbero grande successo per il loro infiammato patriottismo: La battaglia di Benevento (1827), L’assedio di Firenze (1836), Veronica Cybo (1838), Isabella Orsini (1844); ma fu anche autore di romanzi di un umorismo di ispirazione sterniana: La serpicina (1847), Il buco nel muro (1862). Postumo uscì un romanzo sociale, che si ispirava al naturalismo francese, Il secolo che muore (1885).
da La battaglia di Benevento
La morte di uno scellerato Il romanzo è d’ambiente medievale, e si svolge all’epoca della battaglia di Benevento (1266) in cui re Manfredi, capo del partito ghibellino, è sconfitto da Carlo d'Angiò, capo del partito guelfo. Nel capitolo X viene tracciato il ritratto di un brigante di demoniaca malvagità, Drengotto. Fornito di cultura, ha un fosco passato di delitti, tra cui l’uccisione del padre, che lo aveva sorpreso a rubare dal patrimonio familiare; proclama il predominio della forza, «Madre Eva di tutti i diritti», nega la validità di ogni legge morale e civile, e proclama la malvagità naturale dell’uomo, il suo egoismo e il suo diritto a pensare solo a se stesso. A lui sì contrappone Ghino di Tacco, tipica figura di brigante gentiluomo, che sì erige a difensore delle norme morali. La contesa deve risolversi con un giudizio di Dio: è due briganti deporranno a terra i pugnali, poi si allontaneranno di cento passi; ad un dato segnale, ciascuno raccoglierà il suo (dal cap. X).
Dopo questo, Ghino! si raccolse un momento; poi scotendo la fronte, gittò il pugnale con tanta forza che più di mezzo l’internò nel terreno; quindi volte le spalle fece sembiante di incamminarsi al suo luogo.
Drengotto spiava? questo momento; si avventa rattissimo*, e già ficca con orribile perfidia il suo pugnale nel fianco di Ghino, allorquando una lama di spada si vide comparire di dietro ad un albero e percotere con tanta furia il braccio dello assassino, che la sua mano cadde a terra recisa. La mano guizzò saltellando, e lasciò andare il pugnale; poi si aperse e sì richiuse celermente, come se tentasse 1. Ghino: si tratta di Ghino di Tacco, bri- | giornata del Decameron. gante senese del XIII secolo, ricordato da | 2. spiava: aspettava ansiosamente. 8. rattissimo: velocissimo. Dante (Purgatorio, VI, v. 14) e protagonista della seconda novella della decima
Guerrazzi
404 strido, afferrarlo di nuovo, e stette assai tempo innanzi di quietare quel moto. Il ferito gittò acutissimo sguardo solo un con conosce testa, la volge Ghino svenuto. cadde finalmente rimase un momento in piedi, i il caso, ed esclama: i i 1 - Vive un Dio che punisce il tradimento! per forza: quasi denti i tra dissero e terra, a faccia la piegarono atterriti, I masnadieri, maravigliati e - Vive Dio? [...] [L'uccisione a tradimento è stata sventata dall’eroe del romanzo, Ruggiero, che ha assistito alla scena di nascosto: è lui a troncare la mano all’infame Drengotto. Ghino perdona generosamente il traditore, e ordina di curarlo]. I Masnadieri, licenziati da Ghino, si dispersero, chi qua, chi là, con diversi sentimenti, ma tutti profondi; né noi li diremo. I IRE I quattro che sostenevano Drengotto l’adagiarono sul letto; Beltramo in atto di dispiacenza* disse ai compagni:
— Avrete voi cuore di lasciarlo solo? — Non ci stai tu? uno di loro rispose, che faremmo noi per tutta la notte? - Giocheremo a zara’, soggiunge Beltramo. — Se così è, rimango. - Così io. - Ed io, risposero gli altri. Ma Beltramo, che aveva un atomo£ di umanità più di loro, osservò che Drengotto era svenuto, alla qual cosa essi risposero che dormiva; ed allora, non che egli fosse internamente persuaso che Drengotto dormisse, ma facendosi inganno con cotesta affermazione dei compagni, pose un po’ d’accordo tra la sua anima e quello che stava per fare”, e trasse i tre dadi di tasca. - Manca il vino! Uno dei compagni che aveva infinita impazienza di cominciare il giuoco: - Guardate su questa tavola: non vedete come Drengotto se ne trovi molto ben provveduto? Andando a pigliarlo nelle nostre capanne, logoreremo troppo gran tempo*; togliamo? di questo; se Drengotto vivrà, glielo pagheremo o rimetteremo, come voglia: se morrà, lo avremo bevuto senza pagare l’ostiero!9; è che tramuta in greco! anco l’aceto, come disse il poeta. I Masnadieri risero al motto, e tolto i fiaschi del vino ed alcune candele, si disposero in circolo sul
pavimento dando principio alla partita; avevano fatto da sei giri di giuoco, e bevuto altrettanti fiaschi di vino, allorché una voce che pareva uscisse di sotto terra chiamò: - Beltramo! — Ti sei svegliato, Drengotto? Sono da te, dopo questo tiro mi viene la mano, getto i dadi, e son da te. - Beltramo! - Eccomi, son lesto; dammi i dadi bel tiro! Sei e quattro dieci, e tre tredici; segna, Cagnazzo, la partita non è ancora perduta.
Poi levatosi in piedi andò al letto del ferito, il quale gli disse: - Beltramo, mentre io stava svenuto... - Come, non eri addormentato? esclamò Beltramo facendo le meraviglie. - Mentre stava svenuto, continuò, senza badargli, Drengotto, sia ch’io facessi alcun moto, sia che
la fascia... — Tre, tre! Sto per uno! urlò un Masnadiero. - Tocca a te a gittare, Beltramo; stanno per uno.
- Per uno! E come è andata questa? Un momento, Drengotto, gitto i dadi, e torno. - La fascia era mal messa, e il sangue...
4. dispiacenza: dispiacere. 5. a zara; ai dadi; gioco d'azzardo diffuso nel Medio Evo. Gr 6. un atomo: briciolo, una minima quan-
tità. troppo tempo. 7. pose un po’ ... per fare: si mise la | 9. togliamo: prendiamo. coscienza a posto. 10. l’ostiero: l’oste. 8. logoreremo ... tempo: consumeremo 11. in greco: in vino di eccellente qualità.
Scrittori italiani dell’età romantica
405 Beltramo che avea fatto un passo tornò indietro: - Il sangue? ripeté sbadatamente, e soggiunse: Cagnazzo, tira per me, che ora non posso. - Il sangue del mio corpo quasi che tutto fuggì dalle vene lacerate, ed io mi muojo: vedi! E si scoperse: miserabile spettacolo! Diguazzava dentro un lago di sangue. — Tredici! - Ho vinto! - Abbiamo vinto, Beltramo; cinque ne pèrdono.
- Segna al muro a scanso di liti... O Vergine gloriosa! Perché non m'hai chiamato prima, Drengotto? disse Beltramo e si affaccendò a rifasciargli la ferita. - Sta bene! rispose Drengotto sorridendo, ma fermati, che oggimai tu faresti opera vana. Io ti ho chiamato per rogare il mio testamento nuncupativo, e voi pure, compagni, accostatevi ed ascoltate ‘le mie ultime disposizioni. i I Masnadieri, che avevano finito il gioco, e senza il quarto andavano malamente innanzi, sorsero,
e ognuno col bicchiere alla mano s’incamminò verso il letto del ferito. Questi, vedutili pronti ad ascoltarlo, incominciò: ; ‘ — Invocato, ecc. ecc. Considerando essermi vicina la morte, che forma la conclusione della vita, di mente sanissimo, cioè, come sono stato sempre, lascio da prima l’anima a cui di ragione, e il corpo, poiché non ha pelle che possa giovarvi, tutto intero alla pianura. Item! lascio le mie armi, e le mie vesti a cui primo!‘ le piglierà. Item il mio danaro a voi altri quattro, onde facciate dirne, o ne diciate voi stessi... tante partite a zara. Item, a voi, il vino che tengo in serbo nella capanna, perché possiate passare allegramente questa notte e la seguente, se ve ne avanza...
- On! l'abbiamo già preso, esclamarono tutti. - Dunque cassi! il notaro questo Legato, disse il moribondo ridendo. Quindi istituisco erede nella università! dei miei debiti Beltramo di Tafo, che mi ha fatto tanto amorosa guardia in questa ultima malattia. — On! niente, niente, Drengotto; tu in questo caso avresti fatto lo stesso. - Credo che sì, Beltramo; solo ti prego di una grazia, e ti scongiuro a non rifiutarla alla nostra antica amicizia; quando porteranno a seppellire il mio cadavere, cercherai la mia mano, che deve essere rimasta in mezzo al bosco, e ti adoprerai di pormela accanto, in modo che subito la possa trovare; però che! quando l’arcangelo ci chiamerà a quel giudizio, ch'io non ho mai avuto, possa presentarmi dei primi e sapere subito il mio bene, o il mio male; altramente, come vedi, chi sa ove diavolo me la cacce-
rebbero, e quanto tempo dovrei frugare per rinvenirla. E qui rise, ma quel suo riso fu l’ultimo, ché l’agonia lo sorprese. Le sue labbra tremolavano increspate, i suoi denti battevano fragorosi, ell’era una espressione infernale: le palpebre parimente si aprivano e si richiudevano, con quella velocità con cui vediamo scuotere l’ale la farfalla nuovamente presa: il periodo della convulsione fu di pochissima durata, a mano a mano divenne più debole, cessò, e della creatura rimase la creta". I Masnadieri che circondavano il letto col bicchiere alla mano, vedutolo spirare, se lo accostarono alla bocca dicendo: - Anche questa è finita, alla salute dell'anima sua! e lo votarono: poi coperto il cadavere, tornarono a giocarsi a zara i denari del morto. 12. nuncupativo: nel diritto romano, si dice di un testamento pronunciato oralmente dal testatore in presenza di testimoni. 13. Item: parimenti (formula ricorrente nel
compagno scellerato come lui. linguaggio giuridico). i 17. però che: perché. 14. a cui primo: a chi per primo. 18. creta: il corpo privo d’anima (allusione 15. cassi: cancelli. 16. università: totalità. Con macabro | alracconto biblico: Dio foggiò l’uomo con l'argilla e vi infuse la vita col soffio). scherzo, lascia in eredità i suoi debiti al
Guerrazzi
406 ANALISI DEL TESTO Si può rilevare innanzitutto il motivo dei briganti, particolarmente caro alla letteratura romantica, che è affascinata dagli irregolari, dai ribelli alla società e alle norme convenzionali; in secondo luogo il gusto di tratteggiare personaggi di malvagità demoniaca, sprezzanti ogni legge morale (si noti l’«espressione infernale» di Drengotto morente): sappiamo infatti il fascino esercitato sui romantici da Satana e dalle sue incarnazioni. L'autore ostenta un fiero cipiglio moralistico, ma l’indugio insistito sul personaggio (non essenziale nell’intreccio) tradisce il fascino che esso esercita su di lui. Si può notare ancora il gusto per scene macabre e orripilanti, che sono abituali in Guerrazzi (la mano troncata che guizza come animata da diabolica vitalità, il lago di sangue in cui giace il ferito). I suoi romanzi storici amano raccogliere i temi più truculenti (non a caso lo scrittore era fervente ammiratore di Byron):
Il fascino del male
Il macabro e il truculento
nel panorama del nostro Romanticismo, Guerrazzi è forse l’unico che, sia pure in forme rozze,
tocchi certi temi del “nero” che sono tipici del Romanticismo europeo. In questo egli si contrappone nettamente ai romanzieri della scuola manzoniana, che, sulle orme del maestro, scrivono storie ispirate ad un moralismo moderato ed edificante, al più condito con un medievalismo di maniera o con motivi sentimentali (ad esempio il già citato Marco Visconti di Grossi).
A53. Cesare Cantù Nacque a Brivio, presso Como, nel 1804. Di tendenze politiche neoguelfe, dopo il 48 mutò i suoi orientamenti in senso antiliberale e clericale. Fu insegnante, deputato, sovrintendente all'Archivio di Stato milanese. Scrisse un numero imponente di opere. Tra quelle letterarie, ricordiamo il romanzo storico Margherita Pusterla
(1838), che fu molto letto e lo rese famoso; tra quelle erudite, una Storia della letturatura italiana (1865) e una Storia universale (1883-90), che ebbe grande successo. Morì a Milano nel 1895.
Hi Margherita Pusterla Il romanzo, di ambiente medievale, si svolge a Milano alla metà del Trecento, e ruota intorno a una congiura ordita contro Luchino Visconti, signore tirannico e crudele. La congiura è scoperta e soffocata nel sangue; ne resta vittima anche l’eroina, che dà il nome al romanzo.
T9g8 . ;_ ._
La tentazione dell’“angelo della casa Margherita, sposa di Franciscolo Pusterla, è un tipico “ angelo del focolare”, che si realizza nella casa e nella famiglia, e nel rendere felici i suoi cari. All’inizio del racconto Buonvicino, che un tempo l’aveva amata ma aveva rinunciato a lei, di fronte alla felicità domestica a cui assiste sente in lui «ravvivarsi la fiamma antica». Convinto che u suo amore sia del tutto innocente, osa dichiararsi all’amata con una
lettera: gli basterà sapersi amato per veder colmata di felicità tutta la sua vita. Ma teme anche di essere scambiato per uno scellerato seduttore, che attenta alla santità del matrimonio, e se ne tormenta (dal
cap. ILL). Scrittori italiani dell’età romantica
407 Con questo martello! passò Buonvicino la giornata: invano procurò divagarsi in altre cure, in differenti pensieri: la notte non chiedetemi se velasse le pupille?: né il dì seguente fu più tranquillo, o l’altro, o l’altro. Aspettava una risposta, e la risposta non sapea venire: temeva, sperava; e quel rimanere sospeso gli venne al fine così tormentoso, che per togliersene fuori, parevagli avrebbe sofferto meno di mal animo la certezza del peggio*. Alcuna volta per uscire dalla perplessità, proponeva di recarsi a lei, pareva deliberatissimo, indi mutava pensiero: tornava a risolvere, muovevasi, usciva,
s'avviava per quel quartiere, giungeva a quella via mozza‘, - un’occhiata alla porta, un sospiro, e passava. Dopo tanti pentimenti e ripentimenti, pure trovò il coraggio di entrare. Come gli tremavano le ginocchia, come gli bollivano le tempia nel breve tragitto dalla via all'ingresso! Il rimbombare del ponte levatoio sotto i suoi passi, parevagli una voce di sconsiglio’, di minaccia: salendo lo scalone, dovette ‘appigliarsi alla branca$, perché gli si annaspavano gli occhi; — v'era entrato sempre con tanto cuore, con sì serena baldanza! “Ch’io non sia più uomo?” disse tra sé: e col muto rimprovero rinvigorita la volontà, accostossi all’anticamera, ed ai famigli” chiese di Margherita. A lui non tenevasi mai la porta: onde rispostogli che la dama stava nel salotto, mentre un paggio correva ad annunziarlo, un altro ve
‘lo introduceva.
Era un salotto capace, coll’altissima soffitta di travi maestrevolmente intagliate e dorate; le pareti coperte di pelli a rilievi di colori ed oro: un tappeto orientale era steso sul pavimento: un fino cortinaggio di damasco cremisino ondeggiava sopra gli usci e innanzi alle spaziose finestre, fra’ cui telai arabescati e i piccoli vetri rotondi penetrava la luce temperata. Sul vasto focolare lentamente ardeva un ceppo intero, diffondendo un tepore ancor gradevole in quella prima stagione. Macchinosi* armadi di noce ed eleganti stipi d’ebano intarsiato ad avorio e messi ad argento e madreperle, erano addossati alle pareti: qui e qua alcuni tavolini, e qualche gran seggiola a bracciuoli ed orecchioni, somiglianti a quelle che oggi la comodità o l'imitazione ritorna di moda. In una di queste sedeva Margherita in abito di semplice eleganza; e poco da lei discosto, muta e indifferente come una decorazione, sovra umile sgabello lavorava una damigella. Margherita pareva allor allora avesse deposto sul predellino il tombolo, sul quale coi piombini stava tessendo trine, occupazione prediletta delle sue pari, ed erasi recato in mano un libriccino di pergamena, riccamente rilegato, con borchie d’oro cesellate finamente. Senza levare gli occhi da questo, “Ben venuto!” esclamò ella con accento melodioso e con un molle chinar di capo, allorché il paggio, alzando l’usciale?, ripeté il nome del cavaliero che introduceva. L’agitazione propria non permise a Buonvicino di notare se, nel suono della voce di lei, qualche tremito annunziasse l’interno commovimento: ma per legare discorso!°, “Quale è, Madonna”, le chiese
“il libro che ha la fortuna d’occupare la vostra attenzione?” “E” rispose ella “il dono più caro di che mio padre mi presentasse quando venni sposa. Caro padre! Negli anni di sua senile quiete, occupava d’ogni dì qualche ora a scriverne una pagina, coll’accuratezza che voi vedete: miniò egli stesso ed indorò queste lettere capitali!: son di sua mano questi ghirighori del frontispizio: ma il meglio, oh il meglio sono le cose che vi ha vergate, col titolo di Consigli a mia figlia. E me lo consegnò coll’ultimo bacio allorché mi congedò dalla sua casa a questa. Pensate s’io mel tenga caro! Anzi, poiché la ventura! vi guidò in buon punto, parrei troppo ardita se, avendo voi ozio, vi pregassi a farmene un poco di lettura?” Un desiderio della Margherita era sempre il suo: quanto più questo, che lo toglieva da una situazione così penosa ed impacciata! Accostato adunque uno scannello”, tosto si fu seduto poco lontano da lei. Margherita riprese il lavoro delle sue trine, la damigella continuava a cucire, e Buonvicino,
con avido movimento pigliato il libro, seguitando là appunto ove la dama mostrava d’averne sospeso la lettura, a voce alta incominciò:
“Ma sia pure, figliuola mia, che la passione ti tolga di mente quel Dio, che chiamasti testimonio de’ giuramenti fatti allo sposo: non badare nulla agli uomini, è quali, senza udire le discolpe, ti con1. martello: travaglio. 2. se velasse le pupille: chiudesse gli occhi. 3. la certezza del peggio: ottenere una risposta negativa. 4. mozza: chiusa. 5. di sconsiglio: che esprimeva parere
negativo in merito alla decisione. J 6. branca: ringhiera. 0° 7. famigli: servi. 8. Macchinosi: massicci. 9. usciale: grande porta per stanze interne.
10. legare discorso: dare avvio alla conversazione, superando l'imbarazzo. cage 11. lettere capitali: le maiuscole iniziali dei capitoli. 12. la ventura: il caso. 13. scannello: sgabello.
Cantù
408 il tuo consorte ignorare per sempre danneranno all’inappellabile tribunale dell’opimione, debba pure addio seremità: cento tumori t’asi torti tuoî. Qual sarai tu con te stessa? Consumato appena il fallo 4, sinistro! a mille altri ti conduce. salgono, a cento menzogne ti trovi costretta, e un passo dato în solo in grembo alla virtù “Tante ore passavi col marito, in quella mate gioia senza ebbrezza, che lio!?. Ora egli dee si ritrova; con lui dividendo, alleggerivi le tribolazioni, retaggio dell’uomo nell’esig un giuramento, ia rinfacc venirti odioso, egli continuo rimprovero del tuo peccato, egli la cui vista ti a, vorresti grubistratt ti se onde libera ti legasti seco, e che poi sleale hai violato. Se d’altro t’incolpa, cosa più straqual oh zza stificarti, ma la coscienza ti grida che meriti ben di peggio. Se t’accare tua ben l’anima o laceran ni ziante che le fidenti carezze d’un oltraggiato? — I suoi affettuosi abbando sereni di nio testimo letto nel peggio che i corrucci, che l’oltraggio, anzi più che un pugnale. La notte, detelo che l’offese, che colei di lato riposi, quieto, sicuro egli ti dorme a lato: — dorme quieto, sicuro a per la è egli te: per più è non dormire sta come ostacolo alle fantasticate sue felicità. - Ma il placido della cure sulle o pensier il i volgere t’ingegn rimproverarti tacendo. Nelle penose ore della lunga veglia, vita, sui passatempi; cerchi bearlo in quell’oggetto che chiami il tuo bene! e t’è causa d’ogni male: ma in ciò pure che dubbi, che deliri! Degli affetti suor che ti assicura? Te n’ha egli neppur dato prove quante il marito? M'amerd', dici, ‘perché l'amo”. Or non t’amava il tuo sposo? e lo tradisti. Bene; e se l’amico tuo ti trascuri e disprezzi, che gli dirai tu? rimproverarlo d’infedeltà, rinfacciargli i giuramenti? Ma il bene stesso che tu gli vuoi non è un’infedeltà, uno spergiuro? allora abbandonata da esso, ove ricorrerai? allo sposo ingannato? ai figli posti in dimenticanza? alla pace domestica demeritata? “Tali sono le tue veglie. E quando pure il sonno dà tregua alla fatica de’ pensieri, che sogmi! che visioni! Tu ne balzi atterrita, e fissi gli occhi sullo sposo. — Oh! forse, tra il dormire, ti uscì dal labbro una parola che tradisse il tuo segreto; lo guardi spaventata: egli guarda te carezzevole, e ti domanda, ‘Che hai? Oh l'animo tuo in quel punto! “Ed ecco intorno ai bamboli, cari, vezzosi, dolcissima cura, abbellimento e delizia della vita. Tu li carezzi, li carezza il padre, li bacia, li palleggia, ne guida i primi passi: insegna alle labbra infantili a ripetere il suo nome, il tuo: con essi viene a ricrearsi dalle sollecitudini de’ negozi!*: all’innocenza loro cerca il balsamo quando il nausearono la prepotenza, l'orgoglio, la doppiezza degli uomini. E ti dice: ‘Diletta mia! quanto è soave quest’età! quanta affezione ci lega al nostro sangue!’ “Miserabile! perché impallidisci?” ì “Poi coll’immaginazione egli previene il tempo: quando, già vecchio, si vedrà ringiovanire in quegli esseri amati, e quidato a mano da loro ritesserà la tela della vita; ‘Essi saranno buoni è vero, diletta
mia? buoni come la madre loro; e consolazione nostra com’essa fu sempre la mia’. “Che? tu chini la fronte? arrossisci? premi al seno il più piccino, non per impeto d'affetto, ma per velare il turbamento del viso? Suvvia, sta ferma: che temi? Dio non v'è, 0 non cura, 0 perdonerà per un sospiro che gli darai quando il mondo t’avrà abbandonata. Gli uomini non ne sanno nulla: nulla mai ne saprà il tuo consorte... Oh, ma che importa? Lo sa la coscienza tua, te lo rinfaccia con voce insistente che non puoi soffocare, cui non sai rispondere: essa ti mostra davanti una strada di menzogna e di raggiri, per cui sei costretta a scendere più rapida, quanto più inoltri pel declivio: vorresti fermarti, e non puoi... guai, guai se ti porta fin là dove neppure ti giunga la voce della coscienza! A ciò, figlia mia, a ciò vuol ridurti colui che tenta rapirti all'amore del tuo sposo. E costui ti ama?”
Grosse stille di sudore gocciolavano dalla fronte impallidita di Buonvicino, mentre leggeva: il cuore se gli serrava: sentivasi mancare; più e più fioca gli veniva la voce; — qui alfine del tutto gli mancò. Depose il libro, o piuttosto se lo lasciò cascare di mano: rimase cogli occhi a terra confitti, né per alquanti minuti poté riavere la parola. Margherita seguitava ad aggruppar i fili, movere i piombini, trapiantare gli spilli del suo lavoro, studiando dimostrarsi tranquilla: ma chi v’avesse posto mente, dallo scompi-
glio dell’opera avrebbe argomentato allo scompiglio dell’interno. Neppure a Buonvicino poterono rimanere inosservate alcune lacrime che, per quanto ella s’ingegnasse di rattenere, le caddero dagli occhi sul lavoro. - Qual merito avrebbe la virtù, se le sue vittorie non costassero nulla?
14. fallo: adulterio. i 15. dato in sinistro: sbagliato. 16. retaggio ... esiglio: eredità dell’uomo nell’esilio della vita terrena.
17. oggetto ... bene: l’amante. 18. sollecitudini ... negozi: preoccupazioni degli affari.
Scrittori italiani dell’età romantica
409 Dopo un intervallo di silenzio, egli si levò; e facendosi forza quanto poteva maggiore per rendere salda la voce, “Margherita”, esclamò: “questa lezione non sarà perduta: quanto mi basterà la vita, ve ne avrò obbligazione”. La dama levò sopra di lui uno sguardo di quell’ineffabile compassione che forse prova un angelo quando osservava l’uomo alla sua tutela commesso? inciampare nella colpa, da cui prevede che frappoco risorgerà bello del pentimento. Poi non appena Buonvicino fu uscito, non appena intese l’imposta rabbattersi? sull’osservata orma di lui, concesse libero sfogo all’affanno, sin allora penosamente
frenato; si alzò, corse alla culla ove dormiva il suo Venturino, lo baciò, lo ribaciò, e sulla tenera faccia del vezzoso infante lasciò sgorgare un torrente di lacrime, ultimo tributo che pagava alle memorie
della gioventù, a quei primi affetti che aveva lusingati perché innocenti. Una madre, nei pericoli del
cuore, a qual asilo più sicuro può riparare, che all’innocenza de’ suoi bambini? E il bambino aprì gli occhi, quegli occhi di fanciullo in cui il cielo pare riflettersi in tutta la serena limpidezza; fissò, conobbe la madre, e gettandole al collo le tenere braccia, esclamò: “Mamma, cara mamma!” Quella parola come suonava in quel momento preziosa, illibata, santa a Margherita! Tutta ne godette la voluttà: in quella trovò di nuovo la calma, la sorridente tranquillità d’un cuore, che il momento dopo la procella”, esulta
d’esserne uscito illeso.
i [Sconvolto, Buonvicino lascia il mondo, facendosi frate. Sarà lui, nel finale, a confortare Margherita sul patibolo. Colpito da uno spruzzo del suo sangue, morirà insieme a lei, schiantato dal dolore]. 19. commesso: affidato. 20. rabbattersi: rinchiudersi.
21. procella: tempesta.
ANALISI DEL TESTO La “borghesizzazione” del romanzo storico + Il motivo
dell’adulterio
Nonostante l'ambientazione medievale, Margherita Pusterla presenta una tipica atmosfera da romanzo “borghese”, di ambiente contemporaneo. Questa tendenza alla “borghesizzazione” caratterizza i romanzi storici più tardi, specie della scuola manzoniana, in contrasto con le trame avventurose dei primi romanzi di imitazione scottiana e dei romanzi di Guerrazzi, e prelude al passaggio alla narrativa di ambientazione contemporanea che trionferà poi nel secondo Ottocento. Questa scena è in tal senso estremamente indicativa: vi sì affronta infatti uno dei temi prediletti dal romanzo borghese ottocentesco, l’adulterio. Qui
il motivo è presentato da una prospettiva moralistica ed edificante: il pericolo sfiora appena il “paradiso” domestico dell’eroina, ed ella, sia pure a prezzo di un’interna lotta (tradita dal particolare dei fili aggrovigliati sul telaio), sa uscire vincitrice sulla tentazione, assaporando le gioie della famiglia e della maternità (uscito Buonvicino, corre ad abbracciare il bambino nella culla). L'atteggiamento benpensante è caratteristico dei romanzieri della scuola manzoniana, che sono di orientamento cattolico e moderato. E istruttivo in tal senso il con-
Il linguaggio
fronto con l’episodio prima riportato della Battaglia di Benevento dell’“estremista” (in senso politico e letterario) Guerrazzi (T97). La voce narrante cerca di riprodurre il tono bonariamente conversevole del narratore dei Promessi sposi, ma poi scivola nell’enfasi più trita e convenzionale. Prendiamo come esempio un solo passo: «Uno sguardo di quell’ineffabile compassione che forse prova un angelo quando osserva l’uomo alla sua tutela commesso inciampare nella colpa, da cui prevede che frappoco risorgerà bello del pentimento»: la rugiadosità melensa del linguaggio è pari alla convenzionalità del mito della donna “angelo”. + Cfr. La critica, C24
Cantù
410 5.2. Il romanzo pstcologico Niccolò Tommaseo (cfr. A47) MH Fede e bellezza La vicenda. Il romanzo fu pubblicato nel 1840; nel 1852 uscì una redazione riveduta e ampliata (ma comunemente si preferisce oggi la prima). La vicenda è di ambiente contemporaneo e utilizza spunti autobiografici. Un giovane letterato italiano, Giovanni, esule in Francia nel 1836, incontra in Bretagna Maria.
Questa gli racconta la sua storia: la seduzione da parte di un nobile russo, una nuova relazione con uno studente marsigliese che l’abbandona, un matrimonio non realizzato con un mercante. Giovanni a sua volta le rivela il suo passato, consegnandole il suo diario, dove narra i suoi amori sensuali, rivissuti con senso di colpa. Dopo l’incontro in Bretagna, nasce l’amore tra i due giovani dal passato tormentato. Dopo una contorta vicenda di reticenze, pudori, ripulse, confessioni, Giovanni e Maria si sposano. Ma in Maria si manifesta la tisi, malattia allora senza scampo. Giovanni si batte a duello con un francese che ha insultato l’Italia, ed è ferito. Guarisce, mentre Maria lentamente è consumata dalla malattia, sinché muore baciando il crocifisso.
L'importanza del romanzo. Nel panorama della narrativa italiana del primo Ottocento, dominata dal romanzo storico, che è patriottico, avventuroso, sentimentale o edificante, Fede e bellezza spicca singolarmente, poiché costituisce pressoché l’unico esempio di rilievo di una narrativa che tratti ambienti e problemi contemporanei; in secondo luogo Tommaseo osa affrontare una materia torbida, con un interesse a scandagliare psicologie contorte e moti interiori ambigui, misti di slanci religiosi e di erotismo, che, ciò che più conta, coinvolgono anche la donna: cosa impensabile nel romanzo italiano del tempo, la cui ferrea impostazione benpensante impone eroine purissime e angeliche, neppure sfiorate dalla colpa. Non è un caso che il romanzo sia nato in Francia, in un'atmosfera culturale totalmente diversa da quella italiana. La struttura narrativa. Fede e bellezza presenta una struttura narrativa complessa e singolare: Si alternano varie voci narranti: Maria che racconta la sua storia a Giovanni, Giovanni che racconta la sua storia
attraverso il diario (sono narratori autodiegetici: cfr. M1 $ 2.1); subentra poi una voce narrante anonima e fuori campo (narratore eterodiegetico: cfr. M1 $ 2.1). Anche la struttura temporale è complessa, fondata su anacronde, cioè su inversioni della successione cronologica lineare; il racconto prende le mosse dall’incontro di Giovanni e Maria in Bretagna; seguono due ampie analessi (il racconto delle loro storie precedenti), poi la narrazione riprende dal momento del loro incontro.
Amore coniugale e peccato: le tortuosità della psiche Dal libro V
Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento) Maria pregata, non voleva smettere prima di finire il lavoro. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto! suo più pallido € più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventata, Maria ritira in fretta la pezzuola che i non so che rosso sul volto: la tubercolosi si manifestava attraverso espettora-
zioni di sangue (dovute alle lesioni polmonari).
Scrittori italiani dell’età romantica
411 aveva sul grembiule; egli trepidando glie la prende, la trova intrisa di sangue, e mette un grido. “Non è nulla”. “Da quando?” “Dall’altr’ieri. Oh per carità non vi spaventate”. Egli cadeva abbattuto sopra una seggiola; e Maria l’abbracciava sollecita come fa madre figliuolo pericolante. Solevano (tale fin dal primo era il patto) dormire divisi: che da questo reciproco rispetto, conducevole insieme a virtù e a libertà, a sanità e a pulizia, credevano giovarsi l’amore. Ma quella sera ell’era sì ghiaccia, ed egli sì intimorito, e sì diffidente del silenzio di lei, che pregò di posarlesi accanto. E nell’impeto del dolore innamorato congiunsero labbro a labbro; e con ardore più abbandonato ma con anima monda riprovarono nuove'le gioie note: ed egli le disse parole d'amore quali ella non aveva sentite, misera, mai; ed ella gli disse parole d'amore quali egli non aveva sentite, misero, mai. Un’imagine or lontana or presente, velata dalla speranza, ma pur terribile, gli stava dinanzi; e avvelenava la dolcezza, e la faceva correre più veemente, penetrar più profonda. Parevagli d’abbracciare una donna condannata a morire, e la stringeva a sé come per rattenere l’angelo suo fuggente. Ma dell’affannarla col tremito dell'amore sentiva rimorso, e ristava a un tratto: ed essa con dolce voce lo chiamava confortando, e parlava degli anni avvenire. Così passarono tutta la notte: e mentr’ella s'addormentava, semi aperte le labbra rosseggianti, e con sul pallido viso la pace di persona consolata; Giovanni pensava: “Dio buono! difficil cosa anco i puri affetti esercitare con animo puro. Quante memorie vietate, fin ne' concessi abbracciamenti! Perdono, o terribile Iddio dell'amore severo! Non mi punite: non togliete a me questa ch’è ormai conglutinata? con l’anima mia!” 2. conglutinata: fusa.
Dal libro VI
Pareva Maria ad ora ad ora venir meno: poi, riconfortata, riaveva l’appetito ed il sonno: onde i medici sulla fin di novembre sperarono bene. Dalla consueta mestizia risaltavano le rare e brevi conso-
lazioni, come nel verno sotto il pallor degli ulivi risalta della poca erbolina il verde gaio. La stava il più che potesse levata, e leggeva. Pregavano talvolta insieme a voce bassa. Una domenica ell’era inginocchiata di contro alla finestra in un raggio di sole languido; ed egli dietrole*: e pur pregando, la riguardava. Una pezzuola rossa annodata sotto al mento, una verde che, incrocicchiata, dalle spalle si stendeva sul seno, il grembiule turchino sul vestito nero; davano al pallore del viso e alla mossa della gentile persona languidamente inchinata, non so che aria di vergine voluttà, che i pensieri di lui travolgeva vaganti per indocili fantasie. Poi riscosso, levava a Dio gli sguardi pentiti, e chiedeva con ardore trepido e rassegnato quella sì cara vita. E cercava come nell'anima sua, assodata dal consorzio‘ di lei, penetrasse la molle gioia di tali pensieri; e studiando se stesso scopriva che solita causa del condiscendere al senso era l’aver compiaciuto all’orgoglio, l’avere offesa la carità
ch’è dovuta a’ fratelli. E quando sentiva i terreni desiderii venire, allora cansava? Maria: la qual cosa ella non sempre intendendo, gemeva; e a momenti, tuttoché sicura di lui, si mostrava scontrosa a tutti,
massime alla buona Matilde. Matilde soffriva: soffriva per amore di lei, per affetto di lui; e vinti i naturali impeti suoi, s'inchinava a Maria come moglie a marito diletto e temuto. Quella ben presto si ravvedeva delle sue smanie, e con tanta vergogna da non osare tampoco“ chiederlene perdono; e tacendo l l’abbracciava. Un giorno più sfinita del solito: quant’hai fatto, disse, per me! quanto, povera Matilde, sofferto! 8. dietrole: dietro di lei. 4. assodata dal consorzio: resa salda dall’unione. >
5. cansava: evitava. 6. tampoco: nemmeno.
Tommaseo
412 per non t’amaregTu soffri, lo so, nel cuor tuo. Credi tu ch'i’ non lo intenda il tuo cuore 7? Ma taccio giare di più. Pregherò per te, sai? Sur “Oh sì, prega per me tutti i giorni: ché t'amo”.
fatto infe“Tu m'hai sempre amata, poveretta, anche tu. Che t'ho io reso altro che dispiaceri? Ho
lici i più cari miei. Quant’era meglio forse e per lui e per te, s’io l’avessi ceduto all’amor tuo, se m'aveste lasciata morire!” 1 Matilde confusa, commossa, ferita: “ah taci per carità”. “Iddio ti consoli, il nostro buono Iddio, l’unico amore sicuro degli abbandonati dal mondo 11 Matilde levando gli occhi con quasi disperata rassegnazione: “io sono tranquilla, credimi. Ho un angiolo in cielo che prega per me”. “Per te madre sua, e per me sorella tua moribonda”. | “Oh non dire”. “Io non ho nulla, poverina, da lasciarti per memoria di me”. E diede in pianto. Matilde baciò le sue lagrime costernata: in quel punto le venne all'anima l’imagine dell’uomo ad entrambe caro, e rabbrividì nel timore di profanar con pensiero men che pio quegli amplessi supremi, e si ritrasse tremando con le labbra aperte, come chi si sente vinto da un’ambascia grande. In questa Giovanni entrò: Matilde sedette, Maria si ricompose: tacquero. 7. Credi tu ... cuore?: «credi che io non conosca i tuoi sentimenti?»
ANALISI DEL TESTO Compare in questi due passi un motivo caro a tanta letteratura romantica: la figura della donna malata e morente (si è già vista l’Ildegonda di Grossi, T77, e si vedrà in seguito, pur con l’enorme distanza che le divide, l’Ermengarda di Manzoni, T131). Il motivo in Tommaseo non è però la banale ripetizione di un luogo comune, intriso di sentimentalismo: è interessante vedere l’ambigua, morbosa mescolanza tra sensualità, mortificazione degli impulsi erotici e senso del peccato. Si coglie soprattutto nel secondo passo: le fantasie erotiche di Giovanni sono eccitate dal languore virginale di Maria, ma subito represse. Interessante è anche la psicologia contorta e ambigua dei personaggi, sempre oscillante tra i poli inconciliabili delle tentazioni peccaminose e del senso di colpa, del bisogno di purificazione: Giovanni e Maria hanno un passato torbido, perciò vogliono vivere in angelica castità, ma l’eros sì insinua costantemente tra di loro. Ai rapporti complessi tra i due coniugi si aggiunge l’ombra dell’adulterio (la figura dell'amica Matilde), sempre allusa e sempre scacciata. Per questi aspetti il romanzo di Tommaseo fra presagire le ambigue tortuosità psicologiche del
Sensualità e senso del peccato
romanzo novecentesco.
Interessante è anche l'impianto narrativo degli episodi. Si può notare in essi il prevalere dell’ottica soggettiva di Giovanni (focalizzazione interna: cfr. M1, $ 2.2). Egli diviene il centro focale della visione, e possiamo assistere dall’interno ai processi tortuosi della sua psiche. Anche questa soggettivizzazione del racconto anticipa soluzioni a venire.
Scrittori italiani dell’età romantica
—Un’apocalisse popolaresca
413 5.9. Il romanzo sociale A54. Antonio Ranieri Patriota e letterato napoletano (1806-1888), è noto soprattutto per l'amicizia con Leopardi, di cui ha lasciato il ricordo, spesso pettegolo e impietoso, nel volume Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi. Agli anni giovanili risale il romanzo Ginevra, 0 l’orfana della Nunziata (1839).
N Ginevra,
o l’orfana della Nunziata
E il primo esempio di romanzo “sociale” in Italia. L’intenzione dell’opera è quella di denunziare la disumanità delle istituzioni della Napoli borbonica, che si rivela soprattutto negli ospizi per l’infanzia abbandonata. Ranieri, da una prospettiva democratica, guarda all'Inghilterra come modello più avanzato di un sistema di assistenza sociale a cui dovrebbero ispirarsi i riformatori. Il romanzo conduce i lettori attraverso gli ambienti più squallidi e degradati della vita napoletana: dalle catapecchie dei poveri alle carceri, dagli istituti correzionali alle case di tolleranza. L'autore è mosso anche da intenti di violenta polemica anticlericale: il più terribile persecutore della sventurata eroina è un prete, presentato come un mostro libidinoso. Il filo conduttore della denuncia sociale di Ranieri è la serie ininterrotta di sventure, sevizie, umiliazioni, raggiri, a cui va incontro la protagonista Ginevra, e che l’accompagneranno sino alla morte. In questo motivo dell’innocenza perseguitata l’opera di Ranieri si collega alla tematica del romanzo “nero” e di quello sadiano (cfr. M6), che hanno appunto al centro la figura della “perseguitata”. Il racconto delle persecuzioni atroci della protagonista, le scene a tinte forti, la predilezione per intrighi tenebrosi, per personaggi di disumana malvagità, fanno di Ginevra, oltre che l’inizio del romanzo sociale, anche l’antesignano del romanzo popolare d’appendice, che trionferà nel secondo Ottocento. L’opera pertanto spicca singolarmente nel panorama della narrativa della prima metà del secolo, dominata dal romanzo storico. Il romanzo è narrato in prima persona, come confessione dell’eroina, sotto forma di un memoriale, ad un sacerdote.
Sadiche persecuzioni sull’infanzia abbandonata To non so nel seno di qual donna, né per saziare le voglie di qual uomo, io fui concepita. Non so chi, levatami dal sacro fonte!, mi battezzò nel nome di Ginevra. Non conobbi mai colei che mi nutrì col suo latte, né mi sovviene di nessun volto umano che abbia sorriso alla mia infanzia.
La mia prima memoria è l’aver rotto la tenera fronte allo spigolo d’una tavola di marmo, ch'era nel mezzo d’un lugubre corridoio della Casa della Nunziata”. Questo mi avvenne per un calcio che mi scagliò una di quelle furie che quivi si chiamano nutrici, della quale mi si è dileguata ogni sembianza*. Questa memoria è come un lampo, che mi traluce talvolta alla fantasia e sparisce. Poi tutto è buio: e solo mi sovviene ch’io piangeva molto, abbandonata quasi ignuda sul freddo pavimento, ch'io bagnava delle mie lacrime: ma le cause del mio dolore mi sono fuggite. Il primo avvenimento, onde‘ mi è possibile di cominciare il racconto di questa mia povera vita, è i dor il seguente. delle noi con insieme piangere sembra natura la quali nei Era uno di quei giorni cupi e piovosi, fra terra per solito al gittata bimba, povera Io abbandonati. ha ci sciagure alle quali ella medesima fra era nutrimento, di mancanza dalla estenuata ed freddo del le centinaia di mie coetanee, morta
questa vita e l’altra, in uno di quei momenti di assenza totale di sensazioni, che si provano nei primi
1. sacro fonte: fonte battesimale. 2. Casa della Nunziata: è il nome dell’istituto dove la protagonista, abbandonata, viene allevata.
8. mi si è dileguata ogni sembianza: ho completamente dimenticato l'aspetto. 4. onde: dal quale.
Ranieri
414
i
giorni in cui la propria coscienza comincia a riconoscersi ed a contare, per così dire, una storia di se stessa. Una nutrice, e di costei ho presentissimo il laido” e sozzo viso, appressandosi a me, mi sollevò di peso per il sinistro braccio, di sì mala maniera, che mi slogò la spalluccia. In vano tenterei di esprimere con parole la fierezza“ del dolore ch'io ebbi. Le mie strida acutissime avrebbero riscosso il carnefice. Ma la donna parve non avvertirle, e sempre nella medesima attitudine mi portò, o più | ag tosto strascinò, in una specie di tenebroso parlatorio. Quivi, sopra molti rozzi scanni che l’ingombravano, erano assai bambini di ambo i sessi, in varie positure”, e tutte penosissime. Alcuni avevano le mani e i piedi così stretti e chiusi nelle fasce, che il sangue, come poscia ho capito, più non circolando, regurgitava alla testa. Però* mostravano il viso
tutto livido ed annerito, ed erano prossimi a rendere lo spirito?. Altri erano sciolti e scalzi; anzi tanto sciolti, e tanto scalzi, che nel cuore dell’inverno altro non avevano indosso che una sorta di grembiule,
dal quale parevano, ma non erano, coperti. Giravano per la squallida sala alcune figure come di contadine, brutte, le più, come la mala ventura. Queste davano di piglio a vicenda, chi a questo, chi a quell’altro bambino. Lo tastavano tutto, gli squarciavano la bocca, gli storcevano le palpebre, venendolo considerando! come ogni altra merce. Molti ne rifiutavano con quel garbo che potete immaginare. Qualcuno che andava loro a grado, lo toglievano! in braccio e portavano via senza più!°. Solamente un vecchio bianco e calvo, che, con larghi occhiali sul naso e con un grosso libro innanzi, sedeva a una tavola in un canto della sala, mentre la donna portava via il bambino, notava non so che in quel libro. Arrivata nel mezzo della sala, l’arpia che mi aveva ghermita aprì l’artiglio e mi lasciò cadere sopra uno scanno. Io fui presa e ripresa, per quel medesimo braccio ch’io aveva slogato, non so quante volte da non so quante persone. Fui stazzonata, sgualcita, pesta in tutte le forme possibili. L’eccesso del dolore mi aveva renduta in apparenza tranquillissima, togliendomi interamente la forza di piangere. Alla fine una donna di mezzana età”, ch’avea un occhio cieco, e l’altro così orrido e spaventato, che pareva una lammia!, dopo avermi straziata in mille guise, e postemi le mani in bocca e altrove, come sì fa dei cavalli, visto che io né pure fiatava, disse alle nutrici in quel suo rozzo linguaggio: «Questa bimba mi conviene. Io non posso patire i fanciulli che piangono. Dall’aurora si vede il buon giorno. Io voglio farmene un aiuto alle mie fatiche, ed ho bisogno ch’ella sia d’indole quieta ed obbediente. Che tempo ha ella?» «Quattro anni nei cinque», le fu risposto. «Or bene, la prendo», disse la donna. Allora il vecchio scrisse nel libro, e la donna me ne portò in braccio sulla via!. 5. laido: ripugnante. 6. la fierezza: la violenza. 7. positure: posizioni. 8. Però: per questo. 9. a rendere lo spirito: perdere la vita, morire. 10. venendolo considerando: consideran-
dolo. 11. lo toglievano: prendevano. 12. senza più: senz'altro. 13. mezzana età: mezz’età. 14. lammia: forma antica per lamia. Nelle credenze popolari dell’antichità e del Medioevo, mostro col corpo di serpente e
testa di donna che si credeva succhiasse il sangue dei bambini. 15. Quattro anni nei cinque: ha compiuto quattro anni e sta entrando nel quinto. 16. via: fuori dell’istituto.
ANALISI DEL TESTO Sono le pagine iniziali del romanzo, che già ne definiscono perfettamente l’ambiente e l'atmosfera. Si può notare come ogni particolare sia estremizzato, per colpire fortemente il lettore, per smuovere la sua commozione e la sua indignazione: l'atmosfera cupa e piovosa, il lugubre sfondo dell’orfanotrofio, il «laido e sozzo viso» della nutrice. il gesto crudele di slogare il braccio alla bambina, i bambini fasciati dal viso livido e annerito la bruttezza orrida della megera che porta via la protagonista, la brutalità con cui i bambini sono esaminati, come se fossero animali al mercato. La narrazione non conosce sfumature,
mezze
tinte. Ma dietro l'insistenza su particolari tesi a commuovere, si può anche cogliere una punta
di compiacimento sadico (che non è mai assente dai racconti edificanti e lacrimevoli sulle sventure dell'infanzia: ne è la prova eloquente persino lo zuccheroso Cuore di De Amicis).
Scrittori italiani dell’età romantica
La ricerca degli effetti
Un
compiacimento sadico
415 5.4. La crisi del romanzo
storico
A55. Giuseppe Rovani Una leggenda — per gli scapigliati
Nato nel 1818 a Milano, da famiglia di modeste condizioni, partecipò alle lotte risorgimentali, combattendo a Venezia nel 1848, e andando quindi in esilio a Lugano. Tornato a Milano, ebbe un modesto impiego alla biblioteca di Brera e intraprese l’at-
I romanzi
tività giornalistica, redigendo le appendici artistiche e musicali sulla «Gazzetta di Milano», ed acquistando in tal modo notevole prestigio in ambito cittadino. Al fascino intellettuale da lui esercitato si univa quello di una vita irregolare e dissipata, tanto che si creò intorno a lui una vera e propria leggenda, e fu venerato come un maestro dagli scapigliati milanesi (cfr. Parte III, La Scapigliatura). Morì alcolizzato e in miseria nel 1874. Esordì negli anni ’40 con romanzi storici di impianto manzoniano, che però rivelano già insofferenza per le convenzioni del genere. L’opera principale sono i Cento anni (1859-1864), a cui seguirono La libia d’oro (1868), romanzo d’intrigo vicino al gusto della narrativa d’appendice, e La giovinezza di Giulio Cesare (1873), in cui si mescolano una volontà dissacratoria delle figure eroiche della romanità ed un gusto aulico, prezioso ed antiquario.
MH Cento anni Il romanzo vuole essere la ricostruzione di cento anni di storia italiana, dal 1750 al 1850, in tutte le manifestazioni della vita pubblica e privata, del costume e delle arti, attraverso le vicende di numerosi personaggi, tra cui spicca un servo astuto e intraprendente, il Galantino, che riesce a far fortuna. La ricostruzione storica e sociale risulta però piuttosto aneddotica e superficiale, anche se colorita da episodi curiosi e insaporita dall’atteggiamento umoristico del narratore, che interviene continuamente con commenti e divagazioni, spezzando il filo del racconto. Il romanzo uscì a puntate nelle appendici della «Gazzetta di Milano» a partire dal 1857, e fu poi pubblicato in cinque volumi tra il 1859 e il 1864. Esso occupa un posto importante nella narrativa ottocentesca, poiché, insieme alle Confessioni di Nievo, segna il passaggio dal romanzo storico al romanzo di ambiente contemporaneo, e dissolve i moduli del romanzo storico precedente.
Un’esaltazione del romanzo Riportiamo alcune pagine del Preludio, in cui l’autore dichiara le sue intenzioni, e sì lancia in un’entusiastica esaltazione del genere TYOMANZESCO.
Di tutte le forme della letteratura e della poesia il romanzo è la più disprezzata, e per alcune classi di persone la più abborita. - La lettura di un romanzo si fa, per solito, di nascosto e lontano possibilmente dagli occhi de’ curiosi, press’a poco come quando si commette un peccato. — Se una ragazza è in odore di gran leggitrice di romanzi, storna da sé qualunque possibilità di matrimonio; la spina
dorsale deviata, il broncocele!, la clorosi?, l’isterismo*, l'epilessia‘, sono in una fanciulla, contro i gio-
vinotti assestati che voglion metter casa, spauracchi meno spaventosi dell'abitudine a legger romanzi. 1. broncocele: nell’antica terminologia medica, tumore che si forma all’interno della trachea e dei bronchi. 2. clorosi: anemia che dà un colorito pal-
4. epilessia: malattia del sistema nervoso lidissimo. che si manifesta con accessi convulsivi 3. isterismo: affezione psichica caratterizzata da instabilità emotiva e disturbi | intermittenti e con perdita di coscienza. somatici.
Rovani
416 - I maestri, i pedagoghi, i prefetti di camerata”, se colgono un giovinetto alunno sprofondato nella lettura di un romanzo, tosto è un tumulto nella famiglia, un parapiglia nel Collegio-Convitto; minacce di castighi, di espulsioni, di collere implacate. — Gli uomini gravi, 1 torci-colli*, quelli che si danno importanza, quelli che vogliono parere senza essere, i cultori di matematica, ì poliglotti, quelli dell alta e della bassa filologia, gli studiosi d’economia, quelli che aspirano, per lo meno, 2 diventar soci corrispondenti di un qualche istituto, danno tutti quanti a più potere la caccia ai romanzi, e guardano ai romanzieri con atti di commiserazione e di sdegno e d’inquietudine; press’a poco come gli esorcisti del bel tempo dell’inquisizione guardavano i sospetti di stregoneria. Bene sono esclusi dalla persecuzione e dall'odio universale alcuni pochi romanzi celeberrimi, che a buoni conti si chiamano libri, perché la parola non corrompa l’opera. - Ma anche questi pochi libri, che in Italia crediamo che sommino a cinque, e in Francia a tre, e in Inghilterra ai migliori di Scott e ai due di Bulwer”, sono concessi in via di tolleranza, press’a poco come al tempo dell’editto di Nantes erano sopportati i protestanti*. - Egli è bensì vero che il romanzo storico era come riuscito in addietro a sottrarsi all’interdetto, se non altro per la difficoltà delle ricerche e per la necessità di rovistare negli archivj, e perché, in una parola, la mente e la fantasia erano condannate alla schiavitù della schiena. - Ma dopo che il più grande dei romanzieri? venne a condannare il romanzo storico come una mostruosità della letteratura’, come
un ente ibrido, come un assurdo, come un impossibile, il romanzo storico fu cacciato più sotto ancora del romanzo intimo; e i pedanti che non trovarono mai da lodare Manzoni, questa sola volta s’accorsero della presenza del suo genio, questa sola volta che con coraggio inaudito nella storia dell’orgoglio umano, il grande uomo venne a dar di martello all’opera più colossale del suo genio appunto. - Da più anni in fatti il romanzo storico sembra che sia quasi scomparso dalla faccia del mondo; sembra che ai cacciatori della fama sia passata la voglia di farne: e colui che oggi ha la malinconia di pubblicare questo lavoro, e che, nell'età dell’innocenza, stampò tre romanzi storici! uno dopo l’altro; quantunque ne avesse avviato un quarto, dopo il discorso manzoniano, lo converse tutto quanto in fidibus! per la sua pipa casalinga. Ma se gli uomini onesti e pacifici, se i padri di famiglia, se i prefetti, se i prevosti possono essere oggimai quasi sicuri dall’assalto de’ romanzi storici, hanno tutte le ragioni di perdere l’allegria, se pensano a quell’altro genere di romanzi che si è convenuto di chiamare contemporanei, intimi, di costume. Questi romanzi crebbero a dismisura nella persecuzione, come gli schiavi d'Egitto e di Babilonia; si moltiplicarono a miriadi sotto alla percossa dei testoni pesanti, come le lumache quanto più sì zappa nell’orto contaminato. In Inghilterra e in Francia è una produzione di romanzi tale che sembran fatti a gualchiera, a trancia, a torchio, a mulino, a vapore! è un’eruzione perpetua e in tutti modi, e più invadente che la lava, dello spirito umano contro lo spirito umano. - Che direbbe se comparisse Orazio col suo precetto degli anni dieci!*? E quanti ne producon Francia e Inghilterra ajutate dagli Stati Uniti, tanti ne inghiotte il mondo, che come sigari li fuma e abbrucia, e ne getta gli avanzi alla bordaglia!. Tuona la critica, tuonano i pergami °, le fanciulle son minacciate di celibato, gli adolescenti di essere cacciati dai ginnasj, i gio-
vani di studio! d’essere esclusi dal banco. - Ma i romanzi si riproducono, si sparpagliano, penetrano dappertutto, e son letti persino da chi tuona e sbuffa; persino dalle madri sospettose; persino dagli
uomini che sidanno importanza; persino da quelli che hanno la missione di far prosperare l’alta filolo-
gia e la numismatica e la diplomatica e i concimi e il baco e il gelso. Sotto al grosso volume severo
5. prefetti di camerata: istitutori del | manzo storico e, in genere, dei componicollegio. menti misti di storia e d’invenzione (1850) 6. torci-colli: persone bigotte e arcigne. in cui Manzoni squalificava il romanzo sto7. Bulwer: Edward George Lytton, conte rico come genere ibrido, fondato sull’incondi Bulwer, scrittore inglese (1803-1873), ciliabilità fra invenzione e storia. autore di romanzi sociali (Eugene, 1852) e 11. nell’età ... romanzi storici: Lamberto storici (Gli ultimi giorni di Pompei, 1852). Malatesta, o I Masnadieri degli Abruzzi 8. come al tempo ... protestanti: l’editto (1843), Valenzia Candiano o la figlia deldi Nantes, emanato da Enrico IV nel 1598, l'ammiraglio (1844), Manfredo Palavicino, sanciva la tolleranza della religione proteo I Francesi e gli Sforzeschi (1845-1846). stante in Francia. è 12. in fidibus: striscia di carta ravvolta 9. il più grande dei romanzieri: Alessanper accendere la pipa; trae origine dall’edro Manzoni. spressione oraziana «ture et fidibus» (Car10. venne a condannare ... della letteramina, I, 36, 1), «con incenso e con suoni», tura: l’autore allude al trattato Del roche, interpretata scherzosamente dagli
Scrittori italiani dell’età romantica
studenti tedeschi, alludeva al tabacco e al mezzo per accenderlo. i 13. a gualchiera ... a vapore: a macchina, in serie. 14. Che direbbe ... anni dieci?: nell’Ars poetica (v. 389), Orazio sostiene che è meglio tenere i propri scritti nel cassetto per nove anni prima di renderli pubblici. 15. bordaglia: marmaglia. 16. pergami: i pulpiti da cui i preti pronunciavano le prediche. 73 giovani di studio: commessi di un negozio.
47 noi spesso abbiam visto trafugare, alla nostra visita inattesa, la leggiadra brochure! parigina, su cui di gran volo potemmo sorprendere i nomi orridi e peccaminosi di Gozlan, di Gautier, di Kock, di Dumas!!! Oh orrore!!!!9, Dopo tutto ciò, è egli giusto codesto dispregio in cui è tenuto il romanzo, sia storico, sia contemporaneo, sia di costumi, sia morale, sia industriale, sia marittimo, sia dell’alta, sia della bassa società,
sia didascalico, sia psicologico; ramificazioni tutte del gran ceppo del vetusto romanzo cavalleresco? - Noi crediamo fermamente di no, e fermamente crediamo che il dispregio provocato dai guasta-
mestieri? ingiustamente siasi rivolto contro al genere. Intanto, in codesto interesse antico e perpe| tuo del romanzo dev'essere deposta la ragione che storna? la sua abolizione. — Intanto i più grandi scrittori del secolo sono romanzieri; Foscolo, Manzoni, Goethe, Byron, Scott, Chateaubriand, Vittor Hugo, Bulwer tradussero in forma di romanzo le più splendide e più consistenti emanazioni della loro mente. Intanto in un libro di un grand’uomo morto di recente, abbiamo letto che l’Iliade d'’Omero è un romanzo storico, l'Odissea un romanzo intimo, la Divina Commedia un romanzo enciclopedico, Il Furioso un romanzo fantastico, la Gerusalemme un romanzo cavalleresco. — Tutte le verità e della religione e della filosofia e della storia, se hanno voluto uscire dall’angusta oligarchia dei savj, per traàvasarsi al popolo, hanno dovuto attraversare la forma del romanzo che tutto assume: - la prosa, la poesia, le infinite gradazioni dello stile; ei si innalza, in un bisogno, nelle più alte regioni dell’idea, s’abbassa tra le realtà del mondo pratico; è elegia, è lirica, è dramma, è epica, è commedia, è tragedia, è critica, è satira, è discussione; al pari dell’iride, ha tutti i colori, ed è per questo che si diffonde nel
popolo, e piove come la luce di luogo in luogo e di ceto in ceto e d’uomo in uomo, e per l’onnipotenza ® appunto può recar danni funestissimi come vantaggi supremi; ché tutto dipende dalla mente che o governa. 18. brochure: rilegatura economica. 20. guastamestieri: chi esercita male 19. di Gozlan, di Gautier, di Kock, di | un’attività; qui gli scrittori scadenti. Dumas!!! Oh orrore!!!: si tratta di autori 21. storna: allontana. considerati all’epoca immorali.
ANALISI DEL TESTO La discussione intorno al romanzo
Il romanzo, genere letterario per eccellenza
E un documento molto importante della discussione intorno al romanzo che si svolse nell'Ottocento. Come si è visto (cfr. Quadro di riferimento II, $ 11.2), nei primi decenni del secolo il romanzo era circondato da sospetto e disprezzo, in quanto genere nuovo, non consacrato dai generi tradizionali, ed era considerato un tipo di letteratura inferiore, buono solo per gli incolti. A questo pregiudizio si opposero i romantici del «Conciliatore», che rivendicarono la pari dignità del romanzo rispetto agli altri generi; fu poi soprattutto Manzoni a consacrarne la validità artistica con I promessî sposti. Il Preludio dei Cento anni, a metà secolo, presenta ancora una svolta determinante: per Rovani il romanzo non solo è un genere di pari dignità rispetto a tutti gli altri, ma è il genere letterario più alto, in cui possono confluire tutti i generi, tutti gli argomenti, tutti gli stili. Questa esaltazione del romanzo inaugura un atteggiamento che sarà proprio degli scrittori del secondo Ottocento, che vedranno in tale genere lo strumento espressivo per eccellenza dell'età moderna. Il passo mette in caricatura con molto humour l'atteggiamento dei benpensanti retrivi nei confronti del romanzo; poi il tono si fa vibrante e appassionato quando l’autore passa a tessere l’elogio del romanzo come genere supremo.
Rovani
..... pim :
418 L'ironia sui moduli romanzeschi tradizionali Riportiamo, dal cap. IX del Libro II, una delle tipiche digressioni della voce narrante dei Cento anni.
Or lasciamo per poco Milano, la Babylo minima! di Ugo Foscolo, e rechiamoci a Venezia, la città
adottiva del chiaro di luna, del romanticismo convenzionale e degli amori pseudoplatonici. O Venezia! oppure Vinegia?, come noi preferiamo di chiamarti per appagare un nostro gusto da antiquario, quante fantasie di poeti hai tu stancate; quanti romanzieri hai raggirati lontano dal vero, attraverso all’inestricabile labirinto delle tue calli; a quanti esageratori di professione hai fatto prestito grazioso della tragica tinta de’ tuoi palagi secolari e dell’onda stigia‘ de’ tuoi rii, saturi di gas fosforici e di quel jodio che è tanto lodato per la cura della scrofola5 Quante bugie, senza tua colpa, hai fatte pronunciare agli storici, che pure, con un coraggio da leone, s’incaricano di dire la verità! Quanti fémori e coscie e stinchi hai tu infranto colla pietra bianca de’ tuoi ponti traditori. A quanti giovinotti hai fatto perdere l'appetito e la salute ricoverandoli insidiosamente sotto al felze® delle tue gondole! Quanti odorati squisiti e permalosi hai offeso coll’odore infesto del tuo baccalà! Quante spregiate crete Versàr fonti indiscrete” dalle tue altane® e dalle tue finestre plebee sul capo dell’ansioso visitatore delle vetuste tue glorie! O Venezia, 0, come ci piace meglio, Vinegia! tanto straordinariamente bella e fantastica e divina, quanto, in certe parti, difettosa e incomoda e talora fetente! O regina dell’ Adriatico, o donna di duplice aspetto, che rendi veraci tutte le descrizioni perché, al pari della fata Alcina”?, ti mostri in apparenza di vegliarda a mettere in fuga chi pure è venuto a visitarti colle migliori intenzioni; ma per chi ben ti contempla, sei bella e giovane ed attraente e divina così, da ammaliare Ruggero. Del resto la colpa è di chi ha sempre voluto descriverti da un lato solo; e dei pittori di prospettiva che non sanno altro che far ripetizioni eterne della tua piazza e del tuo palazzo Ducale. Così il visitatore, tratto in inganno e venute a te coll’ansietà come di chi vede una terra di consolazione nella fata Morgana, s’indispettisce, se, dopo l’incantevol piazza e Rialto grande e le colonne del molo e l’ampia laguna, non vede che calli e callette, e negri rii, e casupole miserabili, e ballatoj con luridi cenci, zucche baruche", addentate ovunque dagli squallidi figli de’ tuoi pescatori. Il viaggiatore poetico che, pieno la testa delle narrazioni convenzionali di Venezia, vi capita la prima volta, e, per una bizzarria dell’accidente, in un giorno di pioggia; e prima di vedere le tue ricchezze gloriose s'incontra nelle miserie deplorabili e affacciandosi alla finestra dell’albergo, non ha altra sensazione che di chi abitasse nell’in-
terno d’un pozzo, tra l’acqua in fondo e una pezzetta di cielo bigia su in alto..., che indignazione egli sente contro le guide d’Italia menzognere; che assalti repentini di nostalgia, quand’anche venisse dalle febbrifere risaje!! e l'aspetto di codesta prima impressione è così micidiale, che gli dimezza e gli turba l'ammirazione e l'entusiasmo anche pei giorni del sole e per le scene che non hanno riscontro in nessun altro luogo del mondo. 1. Babylo minima: Foscolo così definiva Milano. 2. Vinegia: così era chiamata Venezia dagli autori nei secoli passati. 3. calli: stretti vicoli. 4. onda stigia: l’acqua torbida e stagnante dei canali è paragonata a quella dell’infernale palude Stigia. 5. serofola:
dal tardo latino, scrofulae:
ghiandole, malattia del sistema linfatico che colpisce in genere i bambini. 6. felze: specie di cabina posta al centro delle gondole per riparare i passeggeri. 7. Quante ... indiscrete: citazione da La salubrità dell’aria di Parini. Il testo pariniano ha propriamente: «Quivi i Lari plebei / da le spregiate crete / d’umor fracidi e rei / versan fonti indiscrete».
Scrittori italiani dell’età romantica
8. altane: logge. 9. Alcina: maga incantatrice, che, nell’Or-
lando Furioso, attira i cavalieri nella sua isola, trasformandoli in animali. 10. fata Morgana: miraggio. 11. zucche baruche: fette di zucca arro-
stite nel forno, cibo dei poveri. 12. febbrifere risaje!: risaie in cui aleggia la malaria.
419 ANALISI DEL TESTO La dissoluzione del romanzo storico
Il passo può essere utile ed esemplificare la dissoluzione dei moduli tradizionali del romanzo storico condotta da Rovani, ed il passaggio a moduli narrativi più inquieti, ironicoumoristici, che anticipano le soluzioni della Scapigliatura. La narrazione dei Cento anni è continuamente interrotta da intrusioni della voce narrante, che commenta, illustra, ma spesso si abbandona ad estrose e lunghe divagazioni. Questo modo di narrare prende evidentemente le mosse dal modello manzoniano, ma lo esaspera,
Ironia e mescolanze
lo porta alle estreme conseguenze, tenendo presente l'esempio dei narratori umoristici inglesi e tedeschi (Sterne, il Byron del Don Juan, Jean Paul). In questa pagina il bersaglio dell’ironia è il mito di Venezia, tenebroso, romantico, sentimentale. Si scatena così nel narratore un gusto beffardo e dissacratore, che si compiace a rovesciare i luoghi comuni sentimentali e ad insistere, al contrario, sugli aspetti più bassi e sgradevoli della realtà (i «gas fosforici» dei rii, le casupole miserabili, i luridi cenci): è un atteggiamento che preannuncia quello degli scapigliati, che ameranno dissacrare l’“ideale” contrapponendo ad esso il “vero”. Rovani in effetti è in una posizione mediana tra la narrativa della scuola manzoniana e la Scapigliatura. La tensione ironica si trasferisce anche nel linguaggio. Rovani gioca l’uno contro l’altro diversi livelli stilistici: termini colti e aulici («Vinegia» «palagi», «onda stigia»), citazioni
linguistiche
letterarie («Quante spregiate crete» da La salubrità dell’aria di Parini, la fata Alcina dal-
Lo spirito
dissacratore a scapigliato
l’Orlando furioso), termini prosaici («baccalà», «femori, coscie e stinchi»), termini scientifici («gas fosforici» «iodio»): lo stridente contrasto dei piani stilistici traduce la volontà dissacratoria dell’autore. Questo impasto linguistico piacque poi agli scapigliati, soprattutto a Carlo Dossi (cfr. A68 e T173), che vide in Rovani un maestro e ne portò il gioco verbale alle conseguenze più esasperate.
i.PROPOSTE DI LAVORO ! 1. Riflettere per ogni brano se l’ottica appartiene ad un narratore esterno, onnisciente (in questo caso cercare giudizi impliciti o espliciti che vengano dati) o ad un altro tipo di narratore.
2. In quali epoche storiche vengono ambientati i vari romanzi? 8.1 vari autori sono in qualche modo debitori dei grandi romanzieri del tempo, ad esempio Scott, Manzoni? 4. Quali concezioni dell'amore vengono rappresentate? (confronta in particolare i TT98-100: ci sono i tòpoi dell’amore romantico, ad esempio Amore e Morte?)
5. Il personaggio femminile (confronta Margherita Pusterla, Maria di Fede e Bellezza) quali caratteristiche psicologiche presenta? Come vive l’esperienza d’amore? 6. Dal punto di vista linguistico i vari brani presentano degli elementi interessanti? Quali considerazioni si possono fare a proposito del T102?
7. Analizzare il T101 individuando: a) le critiche rivolte al romanzo; b) le argomentazioni a difesa del romanzo che presenta Rovani; c) i motivi per i quali il romanzo è il genere letterario migliore perché «tutto assume».
Rovani
420 A56. Ippolito Nievo La vita
Le opere
Nacque a Padova nel 1831, da famiglia borghese. Il padre, avvocato, voleva
avviarlo alla carriera forense, ma Nievo, ottenuta la laurea all’Università di Padova nel 1855, non volle esercitare la professione per non fare atto di sottomissione al governo austriaco: aderiva infatti alle idee mazziniane. Partecipò alla seconda guerra di indipendenza, arruolandosi nei cacciatori a cavallo di Garibaldi. Nel ’60 partì con la spedizione dei Mille, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Imbarcatosi per ragioni di servizio dalla Sicilia verso Napoli su un vecchio vapore, morì nel naufragio | della nave, nella notte fra il 5 e il 6 marzo 1861. La sua produzione letteraria fu vasta, nonostante la breve vita. Scrisse versi (Le lucciole, 1855-1857, Amori garibaldini, 1860), romanzi (Angelo di bontà, 1855, Il conte pecoraio, 1857, Il Varmo, 1855-1856), racconti (Novelliere campagnolo). Queste opere testimoniano un’idea di letteratura tipicamente risorgimentale, cioè come strumento di educazione civile e morale. Dopo l’esperienza nella guerra d’indipendenza scrisse anche due saggi politici, Venezia e la libertà d’Italia e il Frammento sulla rivoluzione nazionale; interessante è soprattutto il secondo, in cui Nievo si rivela lucidamente consapevole di un problema centrale del Risorgimento, che era restato estraneo ai moderati: la necessità di rendere partecipi del movimento nazionale anche le masse popolari contadine, elevandole economicamente e legandole agli interessi della borghesia progressiva. Il capolavoro di Nievo è però Le confessioni di un Italiano.
HM Le confessioni di un Italiano Il romanzo fu scritto tra il dicembre del 1857 e l’agosto del 1858, e non ebbe da parte dell’autore una revisione definitiva. Fu pubblicato postumo nel 1867 col titolo Le confessioni di un ottuagenario, e suscitò scarsa attenzione; solo nel Novecento fu apprezzato come meritava.
La vicenda. È sostanzialmente un romanzo storico, ma di impianto molto diverso rispetto a quelli della prima metà del secolo. Il progatonista, Carlo Altoviti, narra in prima persona la sua lunga vita, dal 1775 al 1859. Alle sue vicende biografiche si intrecciano tutti gli eventi principali della storia italiana. La prima parte del racconto rievoca il mondo feudale e patriarcale del Friuli prima della Rivoluzione francese, attraverso il quadro della vita nel castello di Fratta. In questa parte ha rilievo soprattutto l’amore di Carlino per la cuginetta Pisana; amore che durerà tutta la vita, sia pur tra un’alternanza di abbandoni, tradimenti, rappacificazioni. Vi sono poi l’irruzione delle armate napoleoniche in Italia, che sconvolge quel mondo immobile e fuori della storia, il “tradimento” di Campoformio, la tragedia della Repubblica Partenopea, la Restaurazione, i moti del ’20-’21. Carlino, che vi ha partecipato, è condannato a Napoli ai lavori forzati; perde la vista, e la pena gli è commutata nell’esilio. A Londra, cieco e povero, sopravvive grazie alla Pisana, che giunge a chiedere l’elemosina per lui. Carlino riacquista la vista grazie ad un’operazione, ma Pisana muore — a causa delle privazioni. L’eroe torna in Italia e trascorre gli ultimi anni tra le memorie del passato, mentre amici e figli sono coinvolti nelle lotte d’indipendenza. Destino individuale e storia. La prima parte, che si svolge nel castello di Fratta, si presenta come romanzo di confessioni e memorie autobiografiche (sul modulo delle Confessioni di Rousseau, riecheggiate anche nel titolo), ed è soprattutto una rievocazione intenerita del mondo dell’infanzia. Qui spicca il ritratto della Pisana, una delle figure più vive della nostra letteratura, tenera, capricciosa, istintiva, appassionata, volubile apparentemente, ma in fondo fedele nel suo amore per il protagonista. Tuttavia anche in questa parte il destino individuale si intreccia con la storia pubblica, evocando vividamente il trapasso tra il mondo dell’ancien régime e la nuova epoca rivoluzionaria. Il quadro storico ha il sopravvento sulle vicende intime nella seconda parte del romanzo, che è anche quella più avventurosa, dove l’intreccio si fa più complicato e romanzesco.
L'impianto narrativo. Dalla prima alla seconda parte muta l’impianto narrativo. Nella prima lo spazio è ristretto (il castello e le zone circostanti), il tempo narrativo è molto lento, con scene particolareggiate e indugi nell’analisi intima delle psicologie; nella seconda lo spazio si fa infinitamente più ampio e variato, Scrittori italiani dell’età romantica
421
i
ed il tempo narrativo diviene molto più rapido, con vicende intricatissime spesso scorciate in sommari riassuntivi. Muta anche la focalizzazione del racconto: mentre nella prima parte è ristretta a quella del protagonista fanciullo (sia pur con interventi dell’io narrante adulto), nella seconda parte la prima persona diviene
poco più che una convenzione, e si ha l’impressione di un racconto condotto da un narratore onnisciente.
Verso il romanzo contemporaneo. Nell’evoluzione del genere romanzesco nell'Ottocento le Confessioni di un Italiano occupano un posto importante, poiché segnano il passaggio dal romanzo storico, dominante
nel primo Ottocento, al romanzo di ambiente contemporaneo, caratteristico del secondo Ottocento: la nar-
razione infatti, pur partendo dal secolo precedente, arriva sino agli eventi contemporanei alla scrittura del romanzo. In questa svolta, l’opera di Nievo è accompagnata da quella di Rovani, i Cento anni, che sono scritti all’incirca nello stesso periodo (anzi, si può far l'ipotesi che Nievo abbia tratto spunto per l'impianto della sua opera proprio dalla lettura delle prime puntate del romanzo rovaniano che uscivano, nel 1857, ‘sulla «Gazzetta di Milano»). Delle Confessioni riportiamo due passi, che esemplificano le due dimensioni del racconto, quella memoriale e intima, tesa al ricupero nostalgico del mondo dell’infanzia, e quella storico-avventurosa.
Ritratto della Pisana Il protagonista, Carlino, è figlio naturale della sorella della contessa di Fratta, ed è stato accolto al castello per carità. Pisana è la
sua cuginetta, figlia della contessa (dal cap. I). La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castani e dai lunghis-
simi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a coloro che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza!; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri e l’altro arrotondato sopra la fronte come un bel angelino addormentato. Ma mentre io mi deliziava di vederla bella a quel modo, ecco ch’ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti e godendo avermi corbellato? col far le viste® di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina voltava l’occhio, o si dimenticava del precetto avuto; poiché del resto la Contessa le aveva raccomandato di tenermi alla debita distanza dalla sua puttina, e di non lasciarmi prendere con lei eccessiva confidenza. Per me c'erano i figliuoli di Fulgenzio, i quali mi erano abbominevoli più ancora del padre loro, e non tralasciava mai occasione di far loro dispetti; massime perché essi si affaccendavano di spifferare al fattore che mi aveano veduto dar un bacio alla contessina Pisana, o portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino alla riva della peschiera. Peraltro la fanciulletta non sì curava al pari di me delle altrui osservazioni, e seguitava a volermi bene, e cercava farsi servire da me nelle sue piccole occorrenze piuttostoché dalla Faustina o dalla Rosa, che era l’altra cameriera, o la donna di chiave che or si direbbe
guardarobiera. Io era felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui poteva credermi utile; e prendeva un certo piglio d'importanza quando diceva a Martino: “Dammi un bel pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisana!” Così la chiamava con lui; perché con tutti gli altri non osava nominarla se non chiamandola la Contessina. Queste contentezze peraltro non erano senza tormento poiché pur troppo si verifica così nell'infanzia come nell’altre età il proverbio, che non fiorisce rosa senza spine. Quando capitavano al castello signori del vicinato coi loro ragazzini ben vestiti e azzimati, e con collaretti stoccati e berrettini colla piuma, la Pisana lasciava da un canto me per far con essi la vezzosa; e io prendeva un broncio da non dire a vederla far passettini e torcer il collo come la gru, e incantarli colla sua chiaccolina‘4 dolce e disinvolta. Correva allora allo specchio della Faustina a farmi bello anch’io; ma ahimé che pur troppo m’accorgeva di non potervi riescire. Aveva la pelle nera e affumicata come quella delle aringhe, le spalle mal composte, il naso pieno di graffiature e di macchie, i capelli 1. lunga pezza: a lungo. 2. corbellato: ingannato.
3. col far le viste: fingendo. 4. chiaccolina: chiacchiera.
Nievo
422 scapigliati e irti intorno alle tempie come le spine d’un istrice e la coda scapigliata come quella d’un merlo scappato dalle vischiate®. Indarno mi martorizzava il cranio col pettine sporgendo anche la lingua per
lo sforzo e lo studio grandissimo che ci metteva; quei capelli petulanti si raddrizzavano tantosto più ruvidi che mai. Una volta mi saltò il ticchio di ungerli come vedeva fare alla Faustina; ma la fatalità volle che sbagliassi boccetta e invece di olio mi versai sul capo un vasetto d’ammoniaca ch’essa teneva per le convulsioni, e che mi lasciò intorno per tutta la settimana un profumo di letamaio da rivoltar lo stomaco. Insomma nelle mie prime vanità fui ben disgraziato e anziché rendermi aggradevole* alla piccina, e stoglierla” dal civettare coi nuovi ospiti, porgeva a lei e a costoro materia di riso, ed a me nuovo argomento di arrabbiare e anche quasi d’avvilirmi. Gli è vero che partiti i forestieri la Pisana tornava a compiacersi di farmi da padroncina, ma il malumore di cotali infedeltà tardava a dissiparsi, e senza sapermene liberare, trovava troppo varii i suoi capricci, e un po’ anche dura la sua tirannia. Ella non ci badava, la cattivetta. Avea forse odorato la pasta di cui era fatto, e raddoppiava le angherie ed io la sommissione e l’affetto; poiché in alcuni esseri la devozione a chi li tormenta è anco maggiore della gratitudine per chi li rende felici. Io non so se sian buoni o cattivi, sapienti o minchioni cotali esseri; so che io ne sono un esemplare; e che la mia sorte tal quale è l’ho dovuta trascinare per tutti questi lunghi anni di vita. La mia coscienza non è malcontenta né del modo né degli effetti; e contenta lei contenti tutti; almeno a casa mia. - Devo peraltro confessare a onor del vero che per quanto volubile, civettuola e crudele si mostrasse la Pisana fin dai tenerissimi anni, ella non mancò
mai d’una certa generosità; qual sarebbe d’una regina che dopo aver schiaffeggiato e avvilito per bene un troppo ardito vagheggino*, intercedesse in suo favore presso il re suo marito. A volte mi baciuzzava come il suo cagnolino, ed entrava con me nelle maggiori confidenze; poco dopo mi metteva a far da cavallo percotendo con un vincastro? senza riguardo giù per la nuca e traverso le guancie; ma quando sopraggiungeva la Rosa od il fattore ad interrompere i nostri comuni trastulli che erano, come dissi, contro la volontà della Contessa, ella strepitava, pestava i piedi, gridava che voleva bene a me solo più che a tutti gli altri, che voleva stare con me e via via; finché dimenandosi e strillando fra le braccia di chi la portava, i suoi gridari si ammutivano dinanzi al tavolino della mamma. Quelle smanie, lo confesso, erano il solo premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho pensato che l’era più orgoglio ed ostinazione che amore per me. Ma non mescoliamo i giudizi temerari dell’età provetta colle illusioni purissime dell’infanzia. Il fatto sta che io non sentiva le busse che mi toccavano sovente per quella mia arroganza di volermi accomunar nei giochi alla Contessina, e che contento e beato mi riduceva nella mia cucina a guardar Martino che grattava formaggio. 5. scappato dalle vischiate: sfuggito dalle trappole di vischio. 6. aggradevole: gradito.
7. stoglierla: distoglierla. 8. vagheggino: individuo fatuo che fa il galante con le donne.
9. vincastro: bacchetta di vimini.
ANALISI DEL TESTO La pagina evoca quello che Baudelaire ha definito «il verde paradiso degli amori infantili» (Moesta et errabunda, T58). Non si dimentichi che il vagheggiamento del mondo inno-
Il vagheggiamento
di vista nel passo: vi è il punto di vista dell’Io-personaggio, Carlino fanciullo, con la sua fresca ingenuità infantile; ma ad esso si sovrappone il punto di vista dell’Io-narratore, Carlino adulto, anzi vecchio, che commenta i fatti del passato dall’alto della sua saggezza. La rievocazione dell’infanzia, di conseguenza, non è puro abbandono lirico, regressione stupita in un mondo magico, ma è sempre collegata a intenti moraleggianti. Nievo, con la vita di Carlo
Gli intenti patriottici
cente e favoloso dell’infanzia è uno dei grandi temi romantici. Si noti però il gioco dei punti
Altoviti, vuole scrivere la storia di un’educazione, il passaggio dalla beata irresponsabilità
infantile all’età adulta, con le sue responsabilità e i suoi doveri morali e civili. Il romanzo non è quindi opera di memorialistica lirica, ma ha intenti patriottici e civili. Lo dichiarano apertamente proprio le prime righe della narrazione: «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre 1775 [...]; e morrò per la grazia di Dio italiano».
Scrittori italiani dell’età romantica
dell’infanzia
e civili
423
PROPOSTE DI LAVORO ib 1. Trovare i punti del brano in cui l’io narrante adulto esprime giudizi sull'esperienza dell’io personaggio fanciullo. 2. Quali aspetti della psicologia della Pisana vengono messi in luce nel brano?
3. Quale rapporto è presente tra Carlino e la Pisana? 4. Trovare i punti del brano in cui l’ironia dell’io narrante è particolarmente avvertibile.
Carlino tribuno del popolo Stiamo nel 1796: avanzano in Italia le armate napoleoniche, in molti
luoghi scoppiano sollevazioni contro il vecchio stato di cose. L’episodio si svolge a Portogruaro, in Friuli, presso il castello di Fratta. Carlino, che ha 21 anni ed ha studiato legge a Padova, è divenuto cancelliere del conte (dal cap. X).
. Le notizie, signori miei, non avevano a quel tempo né vapori né telegrafi da far il giro del mondo in un batter d’occhio. A Fratta poi esse giungevano sull’asino del mugnaio, o nella bisaccia del cursore‘; laonde non fu maraviglia se appena lontano tre miglia dal castello trovassi delle gran novità. A Portogruaro era a dir poco un parapiglia del diavolo?, sfaccendati che gridavano; contadini a frotte che minacciavano; preti che persuadevano; birri che scantonavano, e in mezzo a tutto, al luogo del solito stendardo, un famoso albero della libertà*, il primo ch’io m’abbia veduto, e che non mi fece
anche un grande effetto in quei momenti e in quel sito. Tuttavia era giovine, era stato a Padova, era fuggito alle arti del padre Pendola‘, non adorava per nulla l'Inquisizione di Stato” e quel vociare a piena gola come pareva e piaceva, mi parve di botto un bel progresso. - Mi persuadetti quasi che i soliti fannulloni fossero divenuti uomini d’Atene e di Sparta”, e cercava nella folla taluno che al crocchio del Senatore” soleva levar a cielo le legislazioni di Licurgo* e di Dracone?. Non ne vidi uno che l’era uno. Tutti quei gridatori erano gente nuova, usciti non si sapeva dove; gente a cui il giorno prima si avrebbe litigato!° il diritto di ragionare e allora imponevano legge con quattro sberrettate e quattro salti intorno a un palo di legno. Balzava da terra se non armata certo arrogante e presuntuosa una nuova potenza; lo spavento e la dappocaggine dei caduti faceva la sua forza; era il trionfo del Dio ignoto, il baccanale dei liberti!! che senza saperlo si sentivano uomini. Che avessero la virtù di diventar tali io non lo so; ma la coscienza di poterlo di doverlo essere era già qualche cosa. Io pure dall’alto del mio cavalluccio mi diedi a strepitare con quanto fiato aveva in corpo; e certo fui giudicato un caporione del tumulto perché tosto mi si radunò intorno una calca scamiciata e frenetica che teneva bordone" alle mie grida, e mi accompagnava come in processione. Tanto può in certi momenti un cavallo. Lo confesso che quell’aura di popolarità mi scompigliò il cervello, e ci presi un gusto matto a vedermi seguito e festeggiato da tante persone, nessuna delle quali conosceva me, come io non cono1. cursore: messo, addetto alla notifica-
zione degli atti giudiziari. 2. del diavolo: l’autore presenta un’immaginaria insurrezione a Portogruaro. 3. albero della libertà: simbolo rivoluzionario della libertà, era costituito da un palo, su cui veniva collocato il berretto rosso.
4. arti del padre Pendola: padre Pendola, gesuita, aveva usato la sua influenza per spingere Carlino Altoviti a denunciare gli studenti rivoluzionari di Padova. 5. Inquisizione di Stato: una sorta di poli-
zia segreta della Repubblica di Venezia, costituita da tre membri; aveva compiti di vigilanza sulla sicurezza dello stato. 6. uomini d’Atene e di Sparta: genericamente grandi uomini del passato, cittadini delle repubbliche antiche. 7.al crocchio del Senatore: Armorò Frumier, senatore veneziano, si era trasferito a Portogruaro, avvertiti i primi sentori della rivoluzione. Carlino frequenta il suo salotto. 8. Licurgo: leggendario legislatore di
Sparta (secolo IX a. C.). 9. Dracone: legislatore ateniese vissuto nel VII secolo a. C.; autore della riforma timocratica (basata sul censo), fornì le prime leggi scritte. 10. si avrebbe litigato: si sarebbe disputato.
11. il baccanale dei liberti: festeggiamenti sfrenati degli schiavi liberati. 12. teneva bordone: collaborava con, sosteneva.
.
Nievo
424 sceva loro. Lo ripeto, il mio cavallo ci ebbe un gran merito, e fors’anco il bell’abito turchino di cui era vestito; la gente, checché se ne dica, va pazza per le splendide livree, e a tutti quegli uomini sbracciati e cenciosi parve d’aver guadagnato un terno al lotto col trovar un caporione così bene in arnese, e per giunta anco a cavallo. Fra quel contadiname riottoso!* che guardava di sbieco l’albero della libertà, e pareva disposto ad accoglier male i suoi coltivatori! v’avea taluno della giurisdizione di Fratta che mi conosceva per la mia imparzialità e pel mio amore della giustizia. Costoro credettero certo che io m’intromettessi ad accomodar tutto per lo meglio, e si misero a gridare: “Gli è il nostro Cancelliere!” “Gli è il signor Carlino!” “Viva il nostro Cancelliere!” “Viva il signor Carlino!” La folla dei veri turbolenti cui non pareva vero di accomunarsi in un uguale entusiasmo con quella gentaglia sospettosa e quasi nimica, trovò di suo grado se non il cancelliere almeno il signor Carlino; ed eccoli allora a gridar tutti insieme: “Viva il signor Carlino!” “Largo al signor Carlino!” “Parli il signor Carlino!” fi Quanto al ringraziarli di quegli ossequi e all’andar innanzi io me la cavava ottimamente; ma in punto a parlare, affé!5 che non avrei saputo cosa dire; fortuna che il gran fracasso me ne dispensava. Ma vi fu lo sciagurato che cominciò a zittire, a intimar silenzio; e a pregare che si fermassero ad ascoltar me, che dall’alto del mio ronzino, e inspirato dal mio bell’abito prometteva di esser per narrar loro delle bellissime cose. Infatti si fermano i primi; i secondi non possono andar innanzi; gli ultimi domandano cos'è stato. “È il signor Carlino che vuol parlare! Silenzio! Fermi! Attenti!...” “Parli il signor Carlino!” Oramai il cavallo era assediato da una folla silenziosa, irrequieta, e sitibonda! di mie parole. Io sentiva lo spirito di Demostene! che mi tirava la lingua; apersi le labbra... “Ps, ps!... Zitti! Egli parla!” Pel primo esperimento non fui molto felice; rinchiusi le labbra senza aver detto nulla. “Avete sentito?... Cosa ha detto?” “Ha detto che si taccia!” “Silenzio dunque!... Viva il signor Carlino!” Rassicurato da sì benigno compatimento apersi ancora la bocca e questa volta parlai davvero. “Cittadini” (era la parola prediletta di Amilcare!) “cittadini, cosa chiedete voi?” L’interrogazione era superba più del bisogno: io distruggeva d’un soffio Doge, Senato, Maggior Consiglio, Podesteria e Inquisizione”; mi metteva di sbalzo al posto della Provvidenza, un gradino più in su d’ogni umana autorità. Il castello di Fratta e la Cancelleria non li discerneva più da quel vertice sublime; diventava una specie di dittatore, un Washington a cavallo fra un tafferuglio di pedoni senza cervello. i “Cosa chiediamo?” “Cosa ha detto?” “Ha domandato cosa si vuole!” “Vogliamo la libertà!... Viva la libertà!...” “Pane, pane!... Polenta, polenta!” gridavano i contadini. Questa gridata del pane e della polenta finì di mettere un pieno accordo fra villani di campagna e mestieranti di città”!. Il Leone e San Marco ci perdettero le ultime speranze. “Pane! pane! Libertà!... Polenta!... La corda” ai mercanti! Si aprano i granai!... Zitto! zitto!... Il signor Carlino parla!... Silenzio!...” Era vero che un turbine d’eloquenza mi si levava pel capo e che ad ogni costo voleva parlare anch’io giacché erano tanto ben disposti ad ascoltarmi. “Cittadini”, ripresi con voce altisonante, “cittadini, il pane della libertà è il più salubre di tutti; ognuno ha diritto d’averlo perché cosa resta mai l’uomo senza pane e senza libertà?... Dico io, senza pane e senza libertà cos'è mai l’uomo?” Questa domanda la ripeteva a me stesso perché davvero era imbrogliato a rispondervi; ma la necessità mi trascinava; un silenzio più profondo, un’attenzione più generale mi comandava di far presto; nella fretta non cercai tanto pel sottile, e volli trovare una metafora che facesse colpo. i 13. riottoso: insofferente. 14. i suoi coltivatori: coloro che avevano alzato l’albero della libertà e che pertanto alimentavano gli ideali rivoluzionari. Verso di loro i contadini sono diffidenti. 15. in punto a parlare: in quanto a parlare. 16. affé: in fede. 5 17. sitibonda: assetata. 18. lo spirito di Demostene: impegnato nell’oratoria e nella politica, Demostene
visse ad Atene nel IV secolo a.C., e fu con-
siderato un modello dell’oratoria politica. 19. Amilcare: studente padovano, amico di Carlino, gli fa conoscere gli ideali della rivoluzione francese. “Cittadino” è l’appellativo messo in uso dalla rivoluzione. 20. Doge ... Inquisizione: sono le istituzioni della repubblica veneta cancellate dall'adozione del termine “cittadino”. Doge: la più alta magistratura della repubblica;
Scrittori italiani dell’età romantica
Senato: consiglio della Repubblica; Maggior Consiglio: Assemblea legislativa formata dai nobili che avessero compiuto i 25 anni; Podesteria: il podestà nelle città della Repubblica aveva poteri giurisdizionali e militari; Inquisizione: confronta nota 5. 21. mestieranti di città: artigiani. 22. corda: la forca.
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bano 6 continuai, x resta come un cane rabbioso, come un cane senza padrone!”
Viva! viva!” “Benissimo!” “Polenta, polenta!” “Siamo rabbiosi come cani! Viva il signor Carlino!...” Il signor Carlino parla bene!” “Il signor Carlino sa tutto, vede tutto!”
Il signor Carlino non avrebbe saputo chiarir bene come un uomo senza libertà, cioè con un padrone almeno, somigliasse ad un cane che non ha padrone e che ha per conseguenza la maggior libertà possibile; ma quello non era il momento da perdersi in sofisticherie®,
_ “Cittadini”, ripresi, “voi volete la libertà; per conseguenza l’avrete. Quanto al pane e alla polenta lo non posso darvene: se l’avessi vi inviterei tutti a pranzo ben volentieri. Ma c'è la Provvidenza che pensa a tutto: raccomandiamoci a lei!” Un mormorio lungo e diverso, che dinotava qualche disparità di pareri, accolse questa mia proposta. Poi successe un tumulto di voci, di gridate, di minacce e di proposte che dissentivano alquanto / dalle mie. “Ai granai, ai granai!” “Eleggiamo un podestà!” “Si corra al campanile!” “Si chiami fuori monsignor Vescovo!” “No no! Dal Vice-capitano!” “Si metta in berlina il Vice-capitano!” Vinse l’impeto di coloro che volevano ricorrere a Monsignore; ed io sempre col mio cavallo fui spinto e tirato fin dinanzi all’Episcopio”. ° “Parli il signor Carlino! Fuori Monsignore! Fuori monsignor Vescovo!” Sì vede che la mia parlata, senza ottenere un effetto decisivo sottomettendoli in tutto e per tutto ai decreti della Provvidenza, li aveva almeno persuasi a confidare nel suo legittimo rappresentante”. 23. sofisticherie: cavilli, sottigliezze.
24. Episcopio: vescovado. 25. legittimo rappresentante: il vescovo.
ANALISI DEL TESTO Il modello manzoniano
La visione democratica di Nievo Il gioco delle prospettive
Vicende private e grande storia
È evidente in questo episodio il modello manzoniano, la descrizione dei tumulti per la carestia ai capitoli XI, XII e XIII dei Promessi sposi: anche qui al centro del racconto vi è la folla ignorante, spinta solo dalle sue passioni, credulona, pronta a seguire qualunque voce che sappia allettarla. Ma Manzoni ha la visione del moderato, per la quale la sommossa popolare è pura esplosione di irrazionalità, dannosa sia per l’ordine civile ed economico sia per l'interesse del popolo stesso; per cui il giudizio è severo e senza attenuanti. Nievo invece ha la visione del democratico: anche se nei confronti della folla tumultuante ha il distacco ironico del borghese colto, egli sottolinea come quei rivoltosi siano schiavi liberati che per la prima volta si sentono uomini: coglie cioè le potenzialità liberatrici e progressive insite nel moto popolare, nonostante le sue spinte irrazionali. Si noti anche qui il gioco dei punti di vista tra Io-personaggio e Io-narratore (cfr. M1, $ 2.2). Il narratore, Carlino adulto, guarda con ironia, dall'alto della sua esperienza e della sua saggezza, il giovane se stesso, inesperto, impulsivo e vanaglorioso. Non vi è però condanna: l’agire del giovane, per quanto ingenuo e ridicolo, è visto come manifestazione di indole generosa, di un amore autentico per la libertà e il progresso. Non solo, ma, nonostante che il piccolo episodio della vita di provincia appaia come la comica parodia della rivoluzione, Nievo sa far sentire come esso sia egualmente importante, poiché è l’indizio di un grande rivolgimento storico che muterà il volto dell’Italia. Questo collegamento tra le vicende private e la grande storia dà profondità di prospettiva alla narrazione.
Nievo
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T104 PROPOSTE DI LAVORO 1. Procedere ad un confronto tra questo episodio e quello di Manzoni a cui Nievo si è ispirato (confrontare i capitoli XI, XII e XIII dei Promessi sposi). Come i due autori rappresentano la folla? Come giudicano la folla in rivolta? Stabilire un confronto tra Renzo che parla alla folla (confrontare il capitolo XIV dei Promessi Sposî) e Carlino. 2. Il discorso pubblico di Carlino quale ideologia rivela? Ovvero Carlino crede che il popolo possa ribellarsi e raggiungere la libertà? L'affermazione «[...] c'è la Provvidenza che pensa a tutto: raccomandiamoci a lei» quale ideologia rivela del personaggio? 3. Come l’io narrante adulto giudica l’esperienza «rivoluzionaria» del «signor Carlino»? L’intellettuale Carlino (è Cancelliere) come si rapporta con il popolo? (Se si vuole, al di là dell’analisi di questo episodio del romanzo, approfondire il problema tra intellettuale e popolo e quello della rivoluzione sociale; vedere di Nievo il Frammento sulla rivoluzione nazionale, dove l’autore affronta queste tematiche). 4. L’ironia usata dall’io narrante nel rievocare l’episodio della sollevazione quali effetti ottiene? C'è forse una svalutazione dell’esperienza popolare? 5. Quali sono i registri linguistici usati nel brano? (Ci sono espressioni del linguaggio parlato? Espressioni letterarie?). i
6. La memorialistica
A57. Silvio Pellico La vita
Nato a Saluzzo nel 1789, all’età di sedici anni fu mandato dalla famiglia a Lione per impratichirsi nel commercio. Tornato in Italia nel 1809, si stabilì a Milano, dove entrò in contatto con Foscolo, di Breme, Berchet, Visconti, gli intellettuali che daranno poi vita al gruppo romantico. Fu insegnante di francese e precettore presso
famiglie nobili. Assunto in casa del conte Porro Lambertenghi, presso cui si ritrovavano letterati romantici e patrioti, partecipò nel 1818 alla fondazione del «Conciliatore». Nel ’20 aderì alla Carboneria, ma nell’autunno dello stesso anno fu arrestato con altri patrioti, incarcerato e condannato a 18 anni di carcere duro nella fortezza
Le opere
dello Spielberg in Moravia. Nel 1830 ottenne la grazia e tornò libero. Ma l’esperienza del carcere l’aveva profondamente segnato nel fisico e nello spirito. Trascorse gli ultimi anni lontano dalla vita politica, chiuso in una religiosità sempre più rigida e . bigotta. Fu assunto dalla marchesa Giulia di Barolo come bibliotecario e con essa si dedicò a pratiche caritative. Morì a Torino nel 1854. Ampia fu la sua produzione; oltre agli articoli sul «Conciliatore», liriche, cantate, numerose tragedie (nel 1815 ebbe grande successo a Milano la Francesca da Rimini: cfr. T109), tutte opere pervase di sensibilità romantica. Ma la sua opera più famosa sono Le mie prigioni.
MH Le mie prigioni Sono il racconto delle esperienze di Pellico, dall’arresto, nell’ottobre del 1820, alla liberazione, nel set-
tembre del 1830. Il volume fu pubblicato nel 1832. Nelle intenzioni dell’autore l’opera doveva essere la testimonianza di una crisi spirituale, della riconquista della fede religiosa attraverso le sofferenze; ma i contemporanei la lessero prevalentemente in chiave politica, come un atto d’accusa contro la politica oppressiva dell’Austria. Il valore oggettivo della denuncia è messo in rilievo proprio dalla moderazione del tono. Scrittori italiani dell’età romantica
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_T105
Il carceriere Schiller
I.
Dai capp. LVIII-LIX
Allorché mi trovai solo in quell’orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi, al barlume che
discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto ed una enorme catena al muro, m’assisi fremente su quel letto, e presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me. Mezz’ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s’apre: il capo-carceriere mi portava una brocca d’acqua. — Questo è per bere, disse con voce burbera; e domattina porterò la pagnotta. —— —
Grazie, buon uomo. Non sono buono, riprese. Peggio per voi, gli dissi sdegnato. - E questa catena, soggiunsi, è forse per me? Sì, signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragione-
vole, non le porremo altro che una catena a’ piedi. Il fabbro la sta apparecchiando. Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de’ lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l’espressione odiosissima d’un brutale rigore! Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall’apparenza, e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch'io m’immaginava agitasse allegramente le chiavi, per farmi sentire la sua trista podestà!, colui ch'io riputava impudente per lunga consuetudine d’incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo, con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento.
Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole, e per timore ch’io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo. Nojato? della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d’umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore: - Datemi da bere. Ei mi guardò, e parea significare: - Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare. Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M’avvidi pigliandola, ch’ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò
il mio orgoglio. — Quanti anni avete?, gli dissi con voce amorevole. - Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui. Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito, nell’atto ch'ei ripigliava la brocca; e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma d’un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall’anima mia l’odio che il suo primo aspetto m’aveva impresso.
- Come vi chiamate?, gli dissi. - La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d’un grand’uomo. Mi chiamo Schiller®. — Indi in poche parole mi narrò qual fosse il suo paese, quale l'origine, quali le guerre vedute, e le
ferite riportate.
Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro a’ Turchi sotto il general Laudon a’ tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte le guerre dell’ Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone. Quando d’un uomo che giudicammo dapprima cattivo, concepiamo migliore opinione, allora, badando al suo viso, alla sua voce, a’ suoi modi, ci pare di scoprire evidenti segni d’onestà. E questa scoperta una realtà? Io la sospetto illusione. Questo stesso viso, quella stessa voce, quegli stessi modi ci pareano, poc'anzi, evidenti segni di bricconeria. S'è mutato il nostro giudizio sulle qualità morali, e tosto mutano le conclusioni della nostra scienza fisionomica. Quante facce veneriamo, perché sappiamo che appartennero a valentuomini, le quali non ci sembrerebbero punto atte ad ispirare venerazione, se fossero
. appartenute ad altri mortali! E così viceversa. Ho riso una volta d’una signora che vedendo un’imma1. trista podestà: malvagio potere. 2. Nojato: infastidito. 3. d’un grand’uomo ... Schiller: il carceriere avverte con amarezza il contrasto fra |
sé ed un più famoso Schiller, Friedrich, l’autore dei Masnadieri (1781), di Fiesco (1783), di Don Carlos (1783), drammi della rivolta contro il potere, della esaltazione
dei valori della giustiziae della libertà (cfr. A4).
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Pellico
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gine di Catilina, e confondendolo per la morte di Lucrezia. Eppure Non già che non vi sieno facce e non vi sieno facce di ribaldi che
con Collatino, sognava di scorgervi il sublime dolore di Collatino siffatte illusioni sono comuni.
di buoni, le quali portano benissimo impresso il carattere di bontà, portano benissimo impresso quello di ribalderia; ma sostengo che ; molte havvene di dubbia espressione. Insomma entratomi alquanto in grazia il vecchio Schiller, lo guardai più attentamente di prima, e non mi dispiacque più. A dir vero, nel suo favellare, in mezzo a certa rozzezza, eranvi anche tratti d’anima gentile. - Caporale qual sono, diceva egli, m'è toccato per luogo di riposo il tristo ufficio* di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il rischiare la vita in battaglia! Mi pentii d’avergli testé dimandato con alterigia da bere. - Mio caro Schiller, gli dissi stringendogli la mano, voi lo negate indarno, io conosco? che siete buono, e poiché sono caduto in questa avversità, ringrazio il Cielo di avermi dato voi per guardiano. — Egli ascoltò le mie parole, scosse il capo, indi rispose, fregandosi la fronte, come uomo che ha un pensiero molesto: - Io sono cattivo, o signore; mi fecero prestare un giuramento, a cui non mancherò mai. Sono obbligato a trattare tutti i prigionieri, senza riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza concessione d’abusi, e tanto più i prigionieri di Stato. L'imperatore sa quello che fa; io debbo obbedirgli. - Voi siete un brav’uomo, ed io rispetterò ciò che riputate debito di coscienza. Chi opera per sincera coscienza può errare, ma è puro innanzi a Dio! - Povero signore! abbia pazienza, e mi compatisca. Sarò ferreo ne’ miei doveri, ma il cuore... il cuore è pieno di rammarico di non poter sollevare gl’infelici. Questa è la cosa ch'io volea dirle. — Ambi* eravamo commossi. Mi supplicò d’essere quieto, di non andare in furore, come fanno spesso i condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente. Prese poscia un accento ruvido, quasi per celarmi una parte della sua pietà, e disse: - Or bisogna ch’io me ne vada. Poi tornò indietro, chiedendomi da quanto tempo io tossissi così miseramente com’io faceva, e scagliò una grossa maledizione contro il medico, perché non veniva in quella sera stessa a visitarmi. - Ella ha una febbre da cavallo, soggiunse; io me ne intendo. Avrebbe d’uopo” almeno d’un pagliericcio, ma finché il medico non l’ha ordinato, non possiamo darglielo. — i Uscì, rinchiuse la porta, ed io mi sdrajai sulle dure tavole, febbricitante sì, e con forte dolore di petto, ma meno fremente, meno nemico degli uomini, meno lontano da Dio. 4. ufficio: compito. 5. conosco: riconosco.
| 6. Ambi: entrambi. 7. d’uopo: bisogno.
ANALISI DEL TESTO Spicca innanzitutto nel passo l'orrore fisico del carcere, che appare come la materializzazione di un sistema ottusamente oppressivo. Ma con tale atmosfera contrasta la figura del vecchio soldato, con la sua umanità. Il senso di fraternità nei confronti del carceriere è un indizio di quella trasformazione in senso cristiano, che porta il Pellico ad un atteggiamento di umiltà e rassegnazione nei confronti del male. Ma proprio quell’aspetto umano che si rivela nel carceriere è l'accusa più dura al sistema: anche un uomo intimamente buono come Schiller è prigioniero di un meccanismo disumano, l'apparato repressivo e poliziesco dell’impero asburgico, che lo riduce a semplice strumento, e non gli consente di essere interamente se stesso. Sul piano dei procedimenti narrativi si notino le due prospettive: quella dell’Io-personaggio, che vive gli eventi, e quella dell’Io-narratore, che li rievoca a distanza di tempo. L’io-narratore anticipa ciò che l’Io-personaggio non può ancora sapere, e cioè che il carceriere nutre sentimenti di compassione per lui e parla in modo burbero per non darlo a vedere. Svelando ciò in anticipo, l’autore dimostra di non preoccuparsi di avvincere l’attenzione del lettore attraverso la sospensione narrativa e la successiva sorpresa: non è la narrazione avvincente il suo obiettivo, ma la riflessione morale.
Scrittori italiani dell’età romantica
Fraternità umana
Impianto narrativo e intenti morali
429 A58. Luigi Settembrini La vita
Le opere
Nato a Napoli nel 1813, insegnante di liceo, subì persecuzioni per le sue attività patriottiche, soprattutto dopo il 48. Fu condannato a morte, poi graziato e inviato all'ergastolo di Santo Stefano (1851). Nel 1859 la condanna fu commutata nella depor-
tazione in Argentina; ma la nave fu dirottata dal figlio, imbarcatosi travestito, e Settembrini poté rifugiarsi in Inghilterra. Tornò in Italia nel 1860, e nel 1861 fu nominato professore di letteratura italiana all’Università di Napoli. Morì a Napoli nel 1876. Lasciò vari scritti autobiografici, tra cui le Ricordanze della mia vita (uscite postume nel ’79) e L’ergastolo di Santo Stefano, in cui è registrata l’esperienza della prigionia. Lasciò anche una Storia della letteratura italiana (1866-1872), in cui la storia letteraria è letta alla luce delle posizioni politiche patriottiche e anticlericali dell’autore.
dalle Raicordanze della mia vita
Il ’48 a Napoli Dal cap. XX La moltitudine senza discorrere altro!, come udì pubblicata la legge nuova che costituiva lo stato, prese a festeggiare, andarono innanzi la reggia, e quantunque cadesse gran pioggia, vollero vedere il re, e salutarlo: egli comparve sul gran balcone, circondato dalla famiglia, dai ministri, e dai nobili servitori con le dorate livree, e fece molti inchini al popolo plaudente. Poi lo vidi uscire in un carrozzino scoperto con a fianco la moglie, e guidava egli i cavalli, e salutava accennando col capo: il popolo gli si affollò intorno, volevano torre? i cavalli e tirar la carrozza a mano, ma egli tutto fuoco nel volto con rabbiosa e paurosa impazienza, gridando “Lasciate”, e squassando le redini e flagellando i cavalli, si fece dar la via terribilmente, e corse per la città. Per tutta la via Toledo si vedevano carrozze e carri con sopra ogni condizione di persone che agitavano bandiere e gridavano: e tra gli altri su di un carro vedevasi don Michele Viscusi* vestito da popolano tra dodici popolani che rappresentavano i dodici quartieri della città, e tenevano ciascuno un gran cartello sul quale era scritto il nome ed il vanto del quartiere. La sera non interruppe le furiose feste ed il corso che durò gran parte della notte: i balconi tutti illuminati, i cittadini nei cocchi o a piedi agitavano torchi* accesi, gridavano, si abbracciavano fra loro chiamandosi fratelli, abbracciavano soldati, gendarmi, birri. Il popolo minuto ed i fanciulli non sapendo che dovevano dire, e pur volendo gridare, e forse beffare, ripetevano “Vivooo”, voce? senza idea“, come senza idea era per essi quel mutamento di cose. Ma non si può dire che sen-
timento si provava all’udire molti popolani gridare: “Viva Italia! noi siamo Italiani!”. Quella parola Italia che prima era profferita da pochi ed in segreto, quella parola sentita da pochissimi e che era stata l’ultima e sacra parola profferita da tanti generosi che morirono, udita allora profferire e gridare dal popolo mi faceva sentire un brivido per la schiena, pei visceri, pel petto, e mi sforzava alle lagrime. Nei giorni seguenti continuarono grida, luminarie, canti, musiche; ed una sera innanzi la reggia fu cantato un inno in onore del principe da molte signore e gentiluomini, e fu bellissimo. In questa ecco il carro di Mamone, tutto illuminato, e coi ritratti del Pagano, del Cirillo, e di altri del 1799”. 1. senza discorrere altro: senza più indugiare. 2. torre: rimuovere. 8. don Michele Viscusi: di lui dice l’autore in una nota: «Michele Viscusi, nato di civile ‘condizione, piacevole, arguto, beffardo, come napolitano prese a predicare al popolo, e a spiegargli che cosa fosse la costituzione. Il nostro popolo aborriva questo nome di costituzione, perché non intendeva altro che o re o repubblica, e ricor-
dava i mali sofferti dal 1820, la venuta degli austriaci, le morti, le condanne, le rovine di molte famiglie. Andava don
Michele nelle piazze più popolose, e montato in alto parlava ad una gran moltitudine, che lo interrogavano, e gli rispondevano. “Sapete che è la costituzione? E come il giuoco del tocco. Il re è padrone del vino, e se lo può bere tutto se ha stomaco, ma se ne vuole dare ad altri deve avere il permesso del sottopadrone che è
il parlamento”. La costituzione è come la ruota di un carro: il re sta in mezzo ed è il mozzo: i ministri sono i raggi, ed il parlamento è il cerchio di ferro che stringe in mezzo ogni cosa. E così la rota cammina». 4. torchi: torce. 5. voce: Suono.
6. idea: contenuto. 7. coi ritratti ... 1799: si tratta di patrioti
napoletani che diedero vita alla rivoluzione del 1799.
Settembrini
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Il re l’ebbe come un insulto, e se ne sdegnò fieramente, e il povero Domenico Mamome Capria, che era un professore di chimica, e aveva fatto quel carro coi suoi giovani, ebbe dipoi a passare 1 guai suol, 1 che furono molti e grossi. Dei mali sofferti per tanti anni si dava la colpa ai ministri, al confessore, e a taluno altro: dicevano che il Re era buono, e generoso sino a dare spontaneo uno statuto costituzionale, ma era stato tradito,
ingannato, non aveva saputo mai nulla dei dolori del popolo. Il Bozzelli stesso diceva a tutti: “Il Re è un leale cavaliere, ha maniere incantevoli, ha ingegno non mediocre, è di buona fede, ve lo assicuro io, è più costituzionale di noi”. “Neh!” rispondeva alcuno, “e noi per ventisette anni* non l’avevam conosciuto!” In tutti gli uomini di senno stava la ferma persuasione che il Re era di mala fede, che tutti iBorboni per tradizione di famiglia rappresentano la monarchia assoluta che è stata la loro grandezza, che cedono sforzati da necessità, ed all’occasione ripigliano il pieno potere, che Ferdinando aveva data la costituzione per imbrogliare le cose non per ordinarle, che chi pochi giorni innanzi aveva fatto bombardare Palermo, Messina, Reggio non era a un tratto diventato un angelo. “Stiamo attenti, smettiamo le feste, attendiamo a lo stato, ordiniamo la guardia nazionale, provvediamo a le provincie”?.
Ma le feste continuarono, anzi crebbero come si seppe che Carlo Alberto 1°8 di febbraio e Leopoldo di Toscana il 10 avevano dato anche essi le loro costituzioni!°. Feste lì per la nostra, feste qui per le loro. La rivoluzione di Napoli cominciò con l’agitare de’ fazzoletti, crebbe con le grida e le chiacchiere,
doveva finire con le schioppettate. Il 24 febbraio fu solennemente giurata la costituzione dal Re nella chiesa di San Francesco di Paola che è dirimpetto la reggia. Il Re vi andò a piedi tra due file di guardie nazionali, e vedendo tra queste un giovane Michele de Chiara che aveva la coccarda tricolore e gli andava da presso, gli disse: “Togliete cotesta coccarda: non sono i colori napoletani”. Il giovane se la cavò, e la pose in tasca. Giurò il re a voce alta, giurarono i principi reali, tutti gli alti uffiziali dello stato, e le milizie: molti siciliani che avevano uffici civili o militari in Napoli non vollero giurare, dicendo non sapere quale costituzione avrebbe la Sicilia. Furono altre feste ed allegrezze, ma i vecchi scrollavano il capo e dicevano: “Ha giurato, e spergiurerà come il nonno Ferdinando I”!. 8. per ventisette anni: si tratta certamente di una svista, gli anni in questione non possono che essere diciassette, partendo dal 1830, l’anno dell’incoronazione
di Ferdinando. 9. provvediamo a le provincie: sulla condizione delle provincie scrive il D’Ayala (1808-1877) nelle Memorie storico-militari
dal 1784 al 1815: «[...] le provincie tiravano avanti alla peggio, co’ vecchi ferri di polizia, con le vecchie abitudini corruttrici, col soffio deleterio del clero e dei reazionari (SSIS 10. Carlo ... costituzioni: Carlo Alberto
11. Ha giurato ... Ferdinando I: gli anziani ricordavano il comportamento di Ferdinando I di Borbone che nel 1821, dopo aver concesso la Costituzione, chiamò in
aiuto l’esercito austriaco per restaurare il governo assoluto.
promulgò lo Statuto il 14 marzo 1848, Leopoldo l’11 febbraio dello stesso anno.
ANALISI DEL TESTO Sono notazioni rapide ed essenziali, che restituiscono l’atmosfera di un momento storico di speranze ed illusioni. Settembrini coglie acutamente, nel clima della festa, due elementi negativi e inquietanti: innanzitutto il popolo minuto, che non capisce che cosa stia realmente accadendo e grida parole senza senso, forse a scopo di beffa (e nonostante ciò i borghesi colti, come Settembrini stesso, si commuovono nel sentir gridare dal popolo «Viva l’Italia!»); in secondo luogo la figura del re, intorno a cui si creano tante illusioni, ma che rivela chiaramente la sua reale posizione attraverso alcuni comportamenti: fende la folla in carrozza con irosa impazienza, e, dopo essersi inchinato dal balcone al popolo plaudente, obbliga il giovane a togliersi la coccarda tricolore. Per quanto concerne la tecnica narrativa, si noti il procedere oggettivo, tutto cose. A differenza del libro di Pellico, la soggettività dell’Io-narratore è assente, non vi sono cioè riflessioni o commenti. Ma anche l’Io-personaggio è quasi assente dal quadro, se si eccettua il rapido accenno alla commozione provata dinanzi al presunto patriottismo popolare. Qui sì verifica anche un contrasto tra il punto di vista dell’io-personaggio e la superiore conoscenza dell’Io-narratore, che sa come poi andarono effettivamente le cose.
Scrittori italiani dell’età romantica
Illusioni e indizi negativi
La tecnica narrativa
431 A59. Massimo D’Azeglio I romanzi storici
L’attività politica
Nacque a Torino nel 1798, da famiglia nobile. Negli anni giovanili condusse vita abbastanza scapestrata, e si trasferì a Roma per studiare pittura. Alla prima fase della sua vita risalgono anche i due romanzi storici Ettore Fieramosca (1833) e Naccolò de’ Lapi (1841), che seguono le orme manzoniane, ma con una certa libertà e felicità inventiva, toccando, oltre ai temi avventurosi, patriottici e sentimentali, anche toni comici. Del Manzoni divenne genero, sposando nel ’31 la figlia Giulia. Dopo il °43 si dedicò all’attività politica: il suo orientamento era moderato e favorevole alla politica sabauda. Dopo la sconfitta di Novara, nel 1849, divenne presidente del consiglio del regno di Sardegna. Dimettendosi nel 1852, consigliò al re di nominare suo successore Cavour. Ritiratosi dalla vita politica, trascorse gli ultimi anni sul lago Maggiore. Lavorò alle sue memorie, I miei ricordi, ma morì prima di terminarle nel 1866.
da I miei ricordi
L'educazione spartana della vecchia nobiltà sabauda Dalla parte I, cap. V
Non temere il dolore era un’altra delle lezioni che più assiduamente ci dava nostro padre, ed al precetto sempre, venendo l’occasione, aggiunse l’esempio. Se ci accadeva di lagnarci di qualche dolore, diceva un po’ in ischerzo, ma in fondo anco seriamente quanto al senso: “Un Piemontese, dopo che ha gambe e braccia rotte e due stoccate a traverso il corpo, allora, e non prima, può dire: ‘Veramente... sì... non mi pare di sentirmi proprio bene’ ”. Tanta era poi l’autorità morale che aveva saputo acquistare sull’animo mio che non vi sarebbe stato mai caso ch’io non l’ubbidissi in tutto, mi avesse pur detto di saltar da una finestra. [...] Si presentò poi un’occasione più grave di mettere alla prova la mia fermezzina! da bambino ed altrettanto, come si vedrà, quella di mio padre. Egli aveva preso a pigione una villetta ad un tiro di schioppo da San Domenico di Fiesole, sulla diritta volgendosi al monte, detta Villa Billi. [...] Stando in questa villa, era costume di mio padre di farci far lunghe passeggiate, che venivano regolate da una speciale legislazione. Severamente proibito di domandare: “Quante miglia abbiamo ancora? che ora è?” di dire: “ho sete, ho fame, sono stanco”, e, del resto, libertà piena d’atti e di parole. S’era un giorno sul tornare da una di queste gite, e ci trovavamo sotto Castel di Poggio, venendo verso Vincigliata per sassi e scoscendimenti.
Io m’ero colto un gran mazzo di ginestre ed altri fiori, avevo in mano un bastone, m’avviluppai? non so come e caddi malamente. Corse mio padre, mi rialzò, cercommi la persona? e, visto che mi dolevo d’un braccio, lo mise a nudo e trovò che un poco deviava dalla linea diritta; e difatti m’ero rotto l’ulna, una delle due ossa dell’antibraccio. Io che lo fissavo in viso, lo vidi come trasmutarsi e prendere un’espressione di così viva e tenera sollecitudine, che proprio non mi parve più lo stess’uomo. M’acconciò il meglio che potette il braccio al collo, e poi si riprese la via di casa. Passati alcuni minuti, durante i quali era potuto tornare nella natura sua solita, mi disse: “Senti, Mammolino, tua madre sta poco bene. A vedere che ti sei fatto male, si potrebbe 1. fermezzina: diminutivo di “fermezza”,
una connotazione ironica.
in quanto si riferisce ad un bambino. Ha | 2. m’avviluppai: inciampai.
3. cercommi la persona: passò in esame
il mio corpo.
D'Azeglio
432 rimescolare*. Bisogna, figliuol mio, che ti faccia forza. Domattina anderemo a Firenze, e ti si farà quel che occorre; ma per stasera non bisogna che mostri d’aver male. Hai inteso?” Tutto questo me lo disse con la solita fermezza, ma con grandissimo affetto, ed a me non parve vero d’aver un incarico importante e difficile da condurre a buon fine; e difatti me ne stetti tutta la sera rincantucciato, tenendomi il mio braccino rotto il meglio che potevo, e mia madre mi credette stanco della lunga passeggiata e non s’accorse di nulla. L'indomani condotto a Firenze, fu messo in ordine il braccio. Ma per guarir bene dovetti andare poi a’ fanghi di Vinai, pochi anni dopo. Forse ora dirà qualcuno che mio padre era un barbaro? Io mi ricordo di quel fatto come se fosse ora, e mi ricordo che nemmeno per ombra mi venne in capo di trovarlo tale. Ero stato così felice dell’indicibile tenerezza che gli avevo veduta dipinta in viso, e, d’altra parte, trovavo così ragionevole che non s’avesse a sgomentare mia madre che presi il difficile comando come una bella occasione di farmi onore. SCIE E tutto ciò perché non ero guastato?, e mi s’era già messo in cuore qualche poco di buon fondamento. Ed ora che son vecchio e che ho veduto il mondo, benedico la severa fermezza di mio padre: e vorrei i bimbi italiani d’ora ne avessero ognuno un simile e ne profittassero più di me; fra trent'anni l’Italia sarebbe la prima delle nazioni. 4. rimescolare: turbarsi, agitarsi. 5. guastato: viziato.
ANALISI DEL TESTO L’idea sottesa al racconto dell’aneddoto è quella che emerge nell’ultima riga; la necessità di temprare il carattere degli italiani con una disciplina severa, perché l’Italia possa diventare la prima tra le nazioni. E l’idea centrale di queste memorie: poco più avanti, al capitolo XIII, D'Azeglio sostiene che la «nostra sfiancata razza latina» ha un solo bisogno, «quello di temprarsi, di acquistar carattere, fermezza, forza morale», concetto poi ripetuto infinite volte nel corso del libro. La pagina è dunque un documento della mentalità dei patrioti conservatori del Risorgimento. L’intervento finale dell’Io-narratore, a commento dell’episodio, testimonia l'intento moralistico e pedagogico che anima l’autore nello stendere queste memorie.
Scrittori italiani dell’età romantica
L’intento moralistico i
433 A60. Giuseppe Cesare Abba Nacque a Cairo Montenotte (Savona) nel 1838. Partecipò come volontario alla Seconda guerra d'indipendenza, poi alla spedizione dei Mille. Dall’80 fu insegnante. Morì a Brescia nel 1910. Ci ha lasciato le Noterelle di uno dei Mille (1880), rielaborazione delle note prese durante gli avvenimenti.
dalle Noterelle di uno dei Malle
La fine dell’impresa È la pagina conclusiva dell’opera.
Oggi il Palazzo reale! guatava? il viale che gli si protende dinanzi lontano lontano, e pare che voglia arrivare sino a Napoli; guatava le file dei battaglioni rossi distese sotto i grandi alberi immobili e cupi sotto il cielo basso. Doveva venire il re a passare in rassegna tutto l’esercito garibaldino, un dodicimila che stavamo con l’armi al piede, in ordine di parata. Si aspettava! Il re sarebbe arrivato verso le due, lo avrebbe annunziato il cannone. E intanto nelle file si parlava, e passavano delle novelle bizzarre, motti, arguzie, cose da poema e da commedia. Udii persino delle volgarità. Ma non v'era allegrezza. Anche le nuvole, calando sempre più, mettevano non so che freddo, e l’ora, passando, portava stanchezza. Certi veneti del mio battaglione dicevano sottovoce che quando fosse passato il re, sarebbe stato bello circondarlo, pigliarselo, menarlo nei monti, e di là fargli dichiarar la guerra per Roma e Venezia. Che fossero visi da farlo? Alcuni sì: i più dicevano per dire. Ma nel più vivo di quei discorsi s’udirono le trombe dalla destra della lunga linea. Attenti... il Re! I battaglioni si composero, si allinearono, i cuori battevano, chi amava, chi no. Poi venne in giù una cavalleria trottando... Ah! quello che cavalcava alla testa non era il re: era Lui* col cappello ungherese, col mantello americano, e insieme a Lui tutte camicie rosse. Quel cappello calcato giù sulle sopracciglia segnava tempesta. Vennero, passarono, lasciando un grande sgomento, arrivarono in fondo al viale, diedero di volta, ripassarono come un turbine, sparirono. E poco appresso i battaglioni furono messi in colonna di plotoni..., pareva che si dovesse marciare a qualche sbaraglio*, tutti si era pronti... Così si andò verso il Palazzo reale, a sfilare dinnanzi al Dittatore piantato là sulla gran porta, come un monumento. E si sentiva che quella era l’ultima ora del suo comando. Veniva la voglia di andarsi a gettar a’ suoi piedi gridando: Generale, perché non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa! - Ma la guerra civile? Ma la Francia?... L’anno scorso fummo così amici con la Francia! Il Generale, pallido come forse non fu visto mai, ci guardava. S’indovinava che il pianto gli si rivolgeva indietro e gli allargava il cuore. Non so neppur uno di quelli che stavano vicino a lui. Che cosa contavano in quel momento? Lui, Lui solo: non vidi nulla. Ora odo dire che il Generale parte, che se ne va a Caprera, a vivere come in un altro pianeta; e mi par che cominci tirar un vento di discordie tremende. Guardo gli amici. Questo vento ci piglierà tutti, ci mulinerà un pezzo come foglie, andremo a cadere ciascuno sulla porta di casa nostra. Fossimo come foglie davvero, ma di quelle della Sibilla”; portasse ciascuna una parola: potessimo ancora raccoglierci a formar qualcosa che avesse senso, un dì; povera carta:... rimani pur bianca... Finiremo poi. 1. il Palazzo reale: si tratta della reggia di Caserta. 2. guatava: il palazzo reale, simbolo del
potere, viene personificato al punto di guardare con sospetto i battaglioni rossi. 3. la guerra per Roma e Venezia: Roma
e Venezia erano i due soli territori rimasti esclusi dal processo di unificazione. 4. Lui: Garibaldi, per antonomasia. 5. sbaraglio: battaglia. 6. Ma la guerra ... Francia!: marciare su Roma equivaleva a provocare uno scontro
armato con l’esercito sabaudo e con la Francia, alleata dell’Italia nella Seconda
guerra d’indipendenza. 7. ma... Sibilla: allude alle profezie della Sibilla, scritte su delle foglie che poi venivano sparpagliate dal vento.
Abba
434 ANALISI DEL TESTO Dopo lo slancio epico dell’annotazione precedente, la pagina finale esprime la delusione dei garibaldini per la conclusione monarchico-moderata della loro impresa, e per il fatto che Roma e Venezia restino ancora escluse dall’Italia unificata. La narrazione è scarna ed essenziale, ma alcuni elementi del quadro spiccano per la loro pregnanza di significato: l’immagine del palazzo reale che guarda le file dei battaglioni rossi fa sentire la lontananza e l’estraneità del potere monarchico rispetto agli ideali garibaldini; il cielo basso, le nuvole che calano sempre più, il freddo traducono fisicamente il senso di delusione e di scoramento. Si noti come nella scena l’Io-narratore non compaia e domini solo la visione corale. Le rapide notazioni in stile indiretto libero («Che fossero visi da farlo?»; «Ah! quello che cavalcava alla testa non era il re: era Lui») non sono attribuibili alla voce del narratore, ma interpretano sentimenti collettivi. L’io-narratore compare solo alla fine, a trarre la desolata conclusione, animata però da una vaga speranza di completare un giorno l'impresa.
PROPOSTE
La delusione
dei garibaldini
La visione corale
DI LAVORO
1. Ritrovare per ogni testo i punti in cui l’io-narratore esprime dei giudizi, delle anticipazioni sulla vicenda vissuta dall’io-personaggio. 2. Gli autori antologizzati nei brani precedenti vogliono semplicemente trasmettere il ricordo di certe loro esperienze del passato, 0, fedeli all’intento pedagogico-moralistico della letteratura risorgimentale, intendono trasmettere un insegnamento? Quale? (confrontare in particolare il T107).
3. Le esperienze storiche di cui si parla nei TT105-107 come vengono giudicate? (Ovvero quali aspetti dell’esperienza carceraria colpiscono Pellico? La concessione della Costituzione a Napoli da parte del re come viene giudicata? Quale giudizio esprime Settembrini sul «popolo minuto»? Quale valutazione sugli avvenimenti rivela l’ultima pagina dell’opera di Abba?).
4. Con quale stile i vari autori stendono le loro memorie? (ad esempio il lessico è quotidiano? La sintassi semplice o complessa? Il narratore colloquia con il lettore? Qual è il ritmo della narrazione? C’è impressionismo? Attenzione per la descrizione particolareggiata? C’è tendenza al bozzettismo?).
Scrittori italiani dell’età romantica
435 7.
La letteratura drammatica
(1.1. La tragedia
Silvio Pellico (cfr. A57) MW Francesca
da Rimini
,
La tragedia fu rappresentata al teatro Re di Milano la sera del 18 agosto 1815 da Luigi Domeniconi e Carlotta Marchionni, tra i migliori attori di quel tempo. Il successo della prima fu vivissimo, e si trasformò le sere successive in un vero e proprio trionfo. L'intreccio prende spunto dall’episodio dantesco del canto V dell'Inferno, modificandolo però profonda‘mente. Francesca, andata sposa contro la sua volontà a Lanciotto Malatesta, signore di Rimini, gli confessa di non riuscire ad amarlo, e vuol tornare dal padre a Ravenna. Ostenta anche di non poter sopportare la vista del cognato Paolo, tornato a Rimini dopo anni di imprese guerresche, poiché le ha ucciso in battaglia il fratello. In realtà Francesca ama Paolo, che ha conosciuto a Ravenna prima di essere costretta dal padre a sposare Lanciotto per motivi politici; ed anche Paolo è innamorato di lei. I due si rivelano il loro amore, ma respingono con orrore l’idea dell’adulterio. Il marito Lanciotto si avvede dei loro sentimenti e, credendo che Francesca l’abbia tradito, la uccide insieme a Paolo.
Sentimentalismo
romantico
e adulterio impossibile Riportiamo la scena dell’atto III in cui avviene la rivelazione del reciproco amore di Paolo e Francesca. SCENA FRANCESCA
II
s’avanza senza veder PAOLO.
FRANCESCA
5
10 1. alberga: risiede.
2. rei: colpevoli. id ia mercè: perdono. 4.
5. tutta: del tutto.
Ov’è mio padre? Almeno da lui sapessi Se ancor qui alberga... il mio... cognato... - Io queste Mura avrò care sempre... Ah sì, lo spirto Esalerò su questo sacro suolo Ch’egli asperse di pianto!... Empia, discaccia Sì rei? pensieri; io son moglie!... PAOLO — Favella® Seco medesma e geme. FRANCESCA Ah, questo loco Lasciar io deggio: di lui pieno è troppo! A] domestico altar ritrarmi io deggio... E giorno e notte innanzi a Dio prostrata, Chieder mercè* de’ falli miei; che tutta?
Non m’abbandoni, degli afflitti cuori Refugio unico, Iddio.
PAOLO
Francesca... Pellico
436 FRANCESCA
Oh vista! -
Signor... che vuoi?
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PAOLO Parlarti ancor. FRANCESCA Parlarmi? Ahi, sola io son!... Sola mi lasci, o padre?
Padre, ove sei? La tua figlia soccorri! — Di fuggir forza avrò.
PAOLO Dove? FRANCESCA Signore... Deh, non seguirmi! Il voler mio rispetta. Al domestico altar qui mi ritraggo: Del cielo han dio gl’infelici. 20
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PAOLO A’ piedi De’ miei paterni altar teco verronne"”. Chi di me più infelice? Ivi frammisti I sospir nostri s’alzeranno. Oh donna! Tu invocherai la morte mia, la morte Dell’uom che abborri*...; io pregherò che il cielo Tuoi voti ascolti e all’odio tuo perdoni, E letizia t’infonda, e lunga serbi Giovinezza e beltà sul tuo sembiante?, E a te dia tutto che desiri!’!... tutto!... Anche... l'amor del tuo consorte... e figli Da lui beati! FRANCESCA Paolo, deh! - Che dico? Deh, non pianger! La tua morte non chieggo. PAOLO Pur tu m’abborri... FRANCESCA E che ten cal", s’io USER Abborrirti?... La tua vita non turbo. Dimane io qui più non sarò. Pietosa Al tuo germano! compagnia farai. Della perdita mia tu lo consola; Piangerà ei certo... Ah, in Rimini, egli solo
Piangerà, quando gli fia noto!... - Ascolta. 40
Per or non dirgliel. Ma tu, sappi... ch’io Non tornerò più in Rimini; il cordoglio M’ucciderà. Quando al mio sposo noto Ciò fia, tu lo consola; e tu... per lui... Tu pur versa una lagrima. PAOLO
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50 6. d’uopo: bisogno. 7. verronne: verrò.
8. abborri: detesti. 9. sembiante: viso. 10. desiri: desideri. 11. ten cal: te ne importa. 12. germano: fratello.
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13. a me s’aspetta: tocca a me.
Scrittori italiani dell’età romantica
Francesca,
Se tu m’abborri che mi cale? e il chiedi? E l’odio tuo la mia vita non turba? E questi tuoi detti funesti?... - Bella Come un angel, che Dio crea nel più ardente Suo trasporto d’amor... cara ad ognuno... Sposa felice... e osi parlar di morte? A me s’aspetta*, che per vani onori Fui strascinato da mia patria lunge, E perdei... - Lasso! un genitor perdei. Riabbracciarlo ognor sperava. Ei fatto Non m’avrebbe infelice, ove il mio cuore Discoperto gli avessi... e colei data M'avria... colei, che per sempre ho perduta.
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FRANCESCA Che vuoi tu dir? Della tua donna parli... E senza lei sì misero tu vivi? Sì prepotente è nel tuo petto amore? Unica fiamma esser non dee nel petto Di valoroso cavaliero, amore. Caro gli è il brando! e la sua fama; egregi Affetti son. Tu sèguili; non fia! Che t’avvilisca amor. PAOLO Quai detti? Avresti Di me pietà? Cessar d’odiarmi alquanto Potresti se col brando io m’acquistassi Fama maggior? Un tuo comando basta. Prescrivi il luogo e gli anni. A’ più remoti Lidi! mi recherò; quanto più gravi E perigliose troverò le imprese, Vie più dolci mi fien, poiché Francesca Imposte me l’avrà. L’onore assai E l’ardimento mi fan prode il braccio; Più il farà prode il tuo adorato nome. Contaminate! non saran mie glorie Da tirannico intento *. Altra corona, Fuorché d’alloro, ma da te intrecciata,
Non bramerò”; solo un tuo applauso, un detto, 80
Un sorriso, uno sguardo... FRANCESCA Eterno Iddio! Che è questo mai? PAOLO T'amo, Francesca, t'amo,
E disperato è l’amor mio!
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14. brando: spada. 15. fia: succeda, avvenga 16. più remoti lidi: luoghi più lontani. 17. contaminate: corrotte, disonorate. 18. tirannico intento: intento di opprimere. 19. Altra corona ... bramerò: desidererò solo la pura gloria. 20. Porre in oblìo: dimenticare. 21. Repente: improvvisa. 22. feral corteggio: funereo, luttuoso seguito. 23. recente sepolero: tomba in cui una salma era stata tumulata di recente.
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FRANCESCA Che intendo? Deliro io forse? Che dicesti? PAOLO Io t'amo! FRANCESCA Che ardisci? Ah! taci! Udir potrian... Tu m’ami? Sì repentina è la tua fiamma? Ignori Che tua cognata io son? Porre in oblìo” Sì tosto puoi la tua perduta amante?... Misera me!... Questa mia man, deh, lascia! Delitto sono i baci tuoi! PAOLO Repente?! Non è, non è la fiamma mia. Perduta Ho una donna, e sei tu; di te parlava; Di te piangea; te amava; te sempre amo;
Te amerò sino all’ultim’ora! e s’anco Dell’empio amor soffrir dovessi eterno Il castigo sotterra, eternamente Più o più sempre t’amerò! FRANCESCA
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Fia vero?
M’amavi? PAOLO Il giorno che a Ravenna io giunsi Ambasciator del padre mio, ti vidi Varcare un atrio con feral corteggio” Di meste donne, ed arrestarti a’ piedi D’un recente sepolcro”, e ossequiosa Pellico
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i Ivi prostrarti, e le man giunte al cielo Alzar con muto ma dirotto pianto. Chi è colei?, dissi a talun. - La figlia
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Di Guido, mi rispose. - E quel sepolcro? — Di sua madre il sepolcro. - Oh, quanta al core Pietà sentii di quell’afflitta figlia!
Oh qual confuso palpitar!... Velata Eri, o Francesca; gli occhi tuoi non vidi Quel giorno, ma t’amai fin da quel giorno. FRANCESCA Tu?... deh, cessa!... m’amavi?... Io questa PAOLO
fiamma?”
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Alcun tempo celai; ma un dì mi parve Che tu nel cor letto m’avessi. Il piede Dalle virginee tue stanze volgevi Al secreto giardino”. E presso al lago
In mezzo ai fior prosteso?, io sospirando Le tue stanze guardava; e al venir tuo
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125)
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135 24. fiamma: si tratta della fiamma d’amore. 25. secreto giardino: giardino appartato, chiuso. 26. prosteso: disteso. 27.leggemmo ... sospetto: l'episodio dantesto di Paolo e Francesca è ripreso e citato quasi alla lettera. 28. ratta: veloce, rapida. 29. fea: faceva.
Ardir mi tolse. La tua man non chiesi; 140
30. patrie guerre: guerre tra appartenenti
alla stessa patria. 31. trassi a militar: mi recai a combattere. 32. rieder tosto: ritornare preòto. 33. speme: speranza. 34. vanne: vattene. 35. ond’io resista?: perché io resista?
Tremando sorsi. - Sopra un libro attenti Non mi vedeano gli occhi tuoi; sul libro Ti cadeva una lagrima... Commosso Mi t’accostai. Perplessi eran miei detti, Perplessi pure erano i tuoi. Quel libro Mi porgesti e leggemmo. Insiem leggemmo Di Lancilotto come amor lo strinse. Soli eravamo e senz’alcun sospetto”... Gli sguardi nostri s’incontraro... il viso Mio scolorossi... tu tremavi... e ratta?8 Ti dileguasti. FRANCESCA Oh giorno! A te quel libro Restava. PAOLO Ei posa sul mio cuor. Felice Nella mia lontananza egli mi fea?9. Eccol; vedi, le carte che leggemmo. Ecco; vedi, la lagrima qui cadde Dagli occhi tuoi quel dì. FRANCESCA Va, ti scongiuro, Altra memoria conservar non debbo Che del trafitto mio fratel. PAOLO Quel sangue Ancor versato io non aveva. Oh patrie Guerre®° funeste! Quel versato sangue E in Asia trassi a militar®!. Sperava Rieder tosto*, e placata indi trovarti, Ed ottenerti. Ah! d’ottenerti speme? Nutria, il confesso. FRANCESCA Ohimè! ten prego, vanne84;
Il dolor mio, la mia virtù rispetta. Chi mi dà forza, ond’io resista?35 PAOLO: Ah, stretta 145
Scrittori italiani dell’età romantica
Hai la mia destra! Oh gioja! dimmi, stretta Perché hai la destra mia?
439 FRANCESCA
Paolo!
PAOLO Non m’odii? Non m'’odii tu? FRANCESCA Convien ch'io t’odii.
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PAOLO E il puoi? FRANCESCA Nol posso. PAOLO Oh detto! Ah, mel ripeti! Donna, Non m’odii tu? FRANCESCA Troppo ti dissi. Ah crudo!86 Non ti basta? Va, lasciami. PAOLO Finisci non ti lascio se pria tutto non dici. FRANCESCA E non tel dissi... ch'io t'amo? - Ah, dal
labbro
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M'uscì l’empia parola!... Io t'amo, io muojo D’amor per te... Morir bramo innocente; Abbi pietà! PAOLO Tu m’ami? tu?... L’orrendo Mio affanno vedi. Disperato io sono; Ma la gioia che in me scorre fra questo Disperato furor, tale e sì grande Gioja è, che dirla non poss’io. Fia vero Che tu m’amassi?... E ti perdei! FRANCESCA Tu stesso M’abbandonasti, o Paolo. Io da te amata Creder non mi potea. - Vanne; sia questa L'ultima volta... PAOLO Ch’io mai t’abbandoni Possibile non è. Vederci almeno
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Ogni giorno!... FRANCESCA E tradirci? e nel mio sposo Destar sospetti ingiuriosi? e macchia Al nome mio recar? Paolo, se m’ami Fuggimi.
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36. crudo!: crudele. 37. ahi lasso!: ahimè infelice!
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PAOLO Oh sorte irreparabil! Macchia Al tuo nome io recar? No! - Sposa d’altri Tu sei. Morir degg’io. La rimembranza Di me scancella dal tuo seno; in pace Vivi. Io turbai la pace tua; perdona. Deh, no, non pianger! Che dico? Amami, sì; Precoce fato... - Odo Dammi tu forza! — A
non amarmi! —- Ahi, lasso8"! piangi sul mio Lanciotto. Oh cielo, me, fratel!
ANALISI DEL TESTO Il sentimentalismo: l’equivoco straziante
Il testo, essendo del 1815, è anteriore alla formazione della scuola romantica italiana,
ma è ascrivibile al clima romantico, essenzialmente per il suo sentimentalismo. Il carattere sentimentale della situazione scaturisce da due fattori: 1) l'equivoco straziante: ciascuno dei due giovani ama l’altro, ma ignora che l’amore sia ricambiato; Paolo crede che Francesca lo odi, Francesca crede che Paolo spasimi per un’altra donna. La rivelazione del loro amore Pellico
440 segna l’acme della commozione per un pubblico assetato di sentimentalità; 2) l’amore impossibile: pur amandosi perdutamente, Paolo e Francesca sono separati da una barriera inviolabile, il vincolo matrimoniale della donna. Anche questo conflitto sollecita la partecipazione emotiva del pubblico romantico. Si coglie di qui quanto iltesto sia lontano dalla profondità delle tragedie che Manzoni elaborerà pochi anni dopo. E questo un testo di consumo per
L’amore. impossibile
un pubblico medio, come le novelle in versi, le ballate, i romanzi storici che prolifereranno abbondantemente in seguito: tutti questi generi si basano sui meccanismi preordinati per
Gli effetti
ottenere certi effetti sul pubblico.
preordinati
Romantico è anche il medievalismo di maniera, che emerge nella rievocazione del primo incontro di Paolo e Francesca a Ravenna. Anche qui siamo ben lontani dalla poesia della storia che sarà propria delle tragedie manzoniane. Per ricreare l'atmosfera medievale, Pellico utilizza l'episodio dantesco, la lettura in comune del romanzo di Lancillotto da parte dei due amanti, con il turbamento che ne consegue. Ma, a differenza del testo di Dante, la lettura non induce al peccato mortale: fa solo nascere tra i due giovani un amore puro e ideale, che si strugge nella lontananza. Pellico respinge la carica trasgressiva insita nell’adulterio, che è motivo molto caro al Romanticismo nelle sue manifestazioni estreme, dalle quali l’amore adultero viene assunto a simboleggiare l'autenticità del sentimento contro le soffocanti convenzioni sociali, rappresentate dal matrimonio. L’autore, eliminando il motivo
Il rifiuto dell’adulterio
dell’adulterio, si arresta ad una forma moderata di romanticismo, temperata da un morali-
smo benpensante; moralismo che è evidentemente in sintonia con quello del pubblico, che sarebbe certamente scandalizzato dalla messa in scena di un tradimento coniugale. Perché l’adulterio diventi tema dominante del teatro e della narrativa, occorre aspettare il realismo del secondo Ottocento. Se la sensibilità che ispira la tragedia di Pellico è moderatamente romantica,illinguaggio è invece decisamente conservatore: è il linguaggio aulico del classicismo. È un’ennesima prova dell’incapacità, da parte dei romantici italiani, di innovare il linguaggio poetico.
Il linguaggio
+ Cfr. La critica, C26
7.2. Il labretto d'opera A61. Felice Romani Nato a Genova nel 1788, visse a Milano dal 1813 al 1884, dove conobbe Monti e Foscolo, e, nella polemica sul Romanticismo, si schierò con i classicisti (attaccò anche Manzoni per aver narrato la storia di due contadini che «nulla compiono di notevole e di degno»). Praticò l’attività letteraria, ma fu essenzialmente librettista. Scrisse libretti per Rossini, per Mercadante, per Bellini. Nel 1834 passò a dirigere la «Gazzetta ufficiale piemontese» a Torino. Morì nel 1865.
Ei Norma
Il libretto per la Norma di Bellini fu ricavato nel 1881 dalla tragedia omonima di Alexandre Soumet
rappresentata a Parigi nell’aprile di quello stesso anno. L’opera andò in scena il 26 dicembre 1881 alla Scala
di Milano, con successo sempre crescente. Norma è una sacerdotessa gallica, che ha amato il proconsole romano Pollione, avendone due figli. Ora però Pollione ama la giovane vestale Adalgisa, e vuole condurla con sé a Roma, abbandonando Norma. È Adalgisa stessa, ignara, che lo rivela a Norma. Questa pensa di vendicarsi uccidendo i figli di Pollione, ma prevale in lei l’amore di madre. Pollione è sorpreso nel tempio ed imprigionato dai Galli. Norma vorrebbe vendicarsi di lui e di Adalgisa, ma muta proposito, confessandosi rea di tradimento al padre e ai Druidi e muore sul rogo insieme con Pollione. Nell'ultima parte il libretto si allontana profondamente dalla fonte francese, nella quale Norma uccide i figli e poi si suicida. Scrittori italiani dell’età romantica
44 Amore
e morte
Riportiamo le ultime due scene del libretto.
SCENA X Norma e Pollione. NORMA
In mia mano alfin tu sei; niun! potria spezzar tuoi nodi. Io lo posso. POLLIONE NORMA
Tu nol déi?.
Io lo voglio. POLLIONE E come? NORMA
M'odi.
Pel tuo Dio, pe’ figli tuoi... giurar déi che d’ora in poi Adalgisa fuggirai... All’altar non la torrai?... E la vita io ti perdono... E mai più ti rivedrò. Giura. POLLIONE
10
No: sì vil non sono. NORMA (con furore represso) Giura, giura. POLLIONE (con forza) AR! pria morrò. NORMA
Non sai tu che il mio furore passa‘ il tuo? POLLIONE Ch'’ei piombi® attendo. NORMA
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20
Non sai tu che ai figli in core questo ferro?... POLLIONE (con un grido) Oh Dio! che intendo! NORMA (con pianto lacerante) Sì, sovr’essi alzai la punta... Vedi... vedi... a che son giunta! Non ferii, ma tosto... adesso consumar potrei l'eccesso... Un istante... e d’esser madre mi poss’io dimenticar. POLLIONE
niun: nessuno. nol déi: non lo devi. . torrai: porterai. . passa: supera. . piombi: mi colpisca. . spento: morto. wONH DU
An! crudele, in sen del padre il pugnal tu dèi vibrar. A me il porgi. NORMA POLLIONE
A tel Che spento”
cada io solo! Romani
442 NORMA Solo! Tutti. I Romani a cento a cento fian” mietuti, fian distrutti... E Adalgisa...
POLLIONE NORMA
Ahimè! Infedele
a’ suoi voti... POLLIONE Ebben, crudele? NORMA (con furore) Adalgisa fia punita, nelle fiamme perirà. POLLIONE
AN! ti prendi? la mia vita,
ma di lei, di lei pietà. NORMA
Preghi alfine? indegno! è tardi. Nel suo cor ti vo’ ferire. Già mi pasco® ne’ tuoi sguardi del tuo duol!, del suo morire; posso alfine, e voglio farti infelice al par di me. POLLIONE
AN! t'appaghi il mio terrore: al tuo pie’ son io piangente... In me sfoga il tuo furore, ma risparmia un’innocente; basti, basti a vendicarti ch'io mi sveni innanzi a te.
Dammi quel ferro. NORMA Che osi? Scòstati. POLLIONE Il ferro, il ferro! NORMA Olà, ministri, sacerdoti, accorrete.
SCENA ULTIMA Ritornano Oroveso, i Drudi, i Bardi e i querrieri. NORMA All’ira vostra nuova vittima io svelo. Una spergiura sacerdotessa i sacri voti infranse, tradì la patria e il Dio degli avi offese. TUDPTI
Oh delitto! oh furor! Ne sia palese!. NORMA
Sì, preparate il rogo.
Oh! ancor ti prego. Norma, pietà. TUTTI La svela. NORMA udite (Io rea’, l’innocente accusar del fallo! mio?) POLLIONE
7. fian: saranno. 8. ti prendi: prenditi. 9. mi pasco: mi nutro. 10. duol: dolore. ; 11. Ne sia palese: ci sia rivelata. 12. rea: colpevole. 13. fallo: colpa.
Scrittori italiani dell’età romantica
PUTDI
Parla: chi è dessa?
443 POLLIONE NORMA
AN! non lo dir. Son io.
TUTTI
10
Tu! Norma! NORMA Io stessa, il rogo ergete. DUTDI
(D’orror io gelo!) POLLIONE (Mi manca il cor). ARGHRAR
Tu delinquente! POLLIONE Non le credete. NORMA
Norma non mente. OROVESO On! mio rossor! NORMA
15
Qual cor tradisti, qual cor perdesti quest'ora orrenda ti manifesti. Da me fuggire tentasti invano; crudel Romano, tu sei con me.
20
Un nume", un fato di te più forte ci vuole uniti in vita e in morte. Sul rogo istesso che mi divora, sotterra ancora sarò con te. POLLIONE
AN! troppo tardi t'ho conosciuta... Sublime donna, io t'ho perduta... Col mio rimorso è amor rinato, 25
più disperato, furente egli è. Moriamo insieme, ah! sì, moriamo: l'estremo accento sarà ch’io t'amo. Ma tu morendo non m’aborrire”, pria di morire perdona a me. OROVESO
30
e CORO
On! in te ritorna, ci rassicura: canuto padre te ne scongiura: di’ che deliri, di’ che tu menti, che stolti accenti uscîr! da te.
Il Dio severo che qui t’intende, 35
se stassi!” muto, se il tuon sospende,
indizio è questo, indizio espresso che tanto eccesso punir non de’ *. OROVESO
40
14. 15. - 16. 17 18. 19.
nume: dio. m’aborrire: mi odiare. uscîr: uscirono. stassi: se ne sta. de’: deve.
scòlpati: discolpati.
Norma!... deh! Norma! scòlpati”... Taci? ne ascolti appena? POLLIONE (scuotendosi con un grido) Cielo! e i miei figli? Ahi! miseri! NORMA (volgendosi a Pollione) I nostri figli? POLLIONE Oh pena! (Norma, come colpita da un'idea, s’incammina verso il padre). TUIELI
Norma, sei rea? Romani
NORMA (disperatamente) Sì, rea, oltre ogni umana idea. TUIR
45
Empia! NORMA (ad Oroveso) Tu modi! OROVESO Scòstati. NORMA (a stento trascinandosi in disparte) Deh! m’odi! OROVESO Oh! mio dolor! NORMA (piano ad Oroveso) Son madre... OROVESO (colpito) Madre!!! NORMA Acquetati. Clotilde ha i figli miei... Tu li raccogli... e ai barbari li invola?® insiem con lei... OROVESO
50
DO
Giammai... giammai... va’, lasciami. NORMA (s’inginocchia) AN! padre!... un prego ancor. Deh! non volerli vittime del mio fatale errore... Deh! non troncar sul fiore quell’innocente età. Pensa che son tuo sangue... Abbi di lor pietà. Padre! tu piangi! OROVESO Oppresso è il core. NORMA
Piangi e perdona. OROVESO Ha vinto amore. NORMA
Ah, tu perdoni. - Quel pianto il dice. POLLIONE
e NORMA
Contento 60
il rogo — ascenderò?!. Contenta Io più non chiedo. - Io son felice. OROVESO
AN! consolarmene - mai non potrò. CORO 65
Vanne al rogo: ed il tuo scempio” purghi” l’ara e lavi il tempio;
20. invola: sottrai. 21. ascenderò: salirò sul. 22. serto: corona.
23. scempio: sacrificio. 24. purghi: purifichi.
Piange... prega... che mai spera? Qui respinta è la preghiera. Le si spogli il crin del serto??: sia coperto di squallor. (I Druidi coprono d’un velo nero la sacerdotessa).
70
Scrittori italiani dell’età romantica :
maledetta all’ultim’ora,
maledetta estinta ancor!
445 OROVESO
Va’, infelice! NORMA (incamminandosi) Padre... addio. POLLIONE
Il tuo rogo, NORMA
o Norma, è il mio.
e POLLIONE
Là più duro, là più santo incomincia eterno amor.
76
OROVESO
Sgorgan alfin, prorompi, o pianto: sel permesso a un genitor.
ANALISI DEL TESTO La situazione melodrammatica
Il linguaggio aulico
E una tipica situazione melodrammatica, di forte effetto sul pubblico, giocata su contrasti elementari, passioni portate all’estremo della violenza e processi psicologici schematici e improvvisi. Norma passa dall’odio e dalla smania di vendetta al perdono sublime e al sacrificio di sé. Pollione prima offre generosamente la sua vita per salvare Adalgisa, poi scopre di colpo di amare ancora Norma e, colto dal rimorso per averla tradita, accetta di morire con lei. Si inserisce poi il tema patetico dei figli, il cui amore piega la severità del capo dei Druidi, che perdona Norma. I due amanti salgono al rogo felici, e si uniscono nella morte dando inizio ad un amore più puro e più santo in un’altra vita. Il motivo dell’amore impossibile in vita che si attua nella morte è un tema molto caro alla letteratura romantica. Il finale è poi tutto un trionfo di lacrime e buoni sentimenti, in una nobile gara di perdono. Se la scena è ad effetto, scopertamente tesa a suscitare facile commozione negli spettatori, si noti come il linguaggio sia ancora quello aulico e compassato del classicismo tradizionale («torrai», «pria», «duol», «rea», «invola», «crin», «serto», «ara»). E una caratteristica comune ai libretti d’opera di questo periodo, ma anche al teatro tragico e alla poesia lirica. Non bisogna però dimenticare che questa mediocre poesia non è che il supporto della musica di Vincenzo Bellini, il canovaccio da cui essa prende le mosse. I grandi musicisti, Bellini, Donizetti, Verdi, compirono il miracolo di trasformare questo ciarpame di materiali
letterari di scadente qualità in altissima espressione musicale.
TT109-110
PROPOSTE DI LAVORO
1. Analizzare il linguaggio dei due brani alla ricerca in particolare di termini aulici, di costrutti classicheggianti.
2. In entrambi i testi si affronta il tema romantico dell'amore impossibile: verificare come esso sia trattato (a quali sentimenti viene data attenzione? Quali motivazioni presenta Francesca per rifiutare l’amore di Paolo?). 3. Per il T109 Pellico si ispira al canto V dell’/nferno di Dante modificandolo però profondamente, in quanto non fa commettere adulterio meno osa citare?
a Paolo e Francesca.
Perché Dante aveva descritto un adulterio che Pellico nem-
Romani
446 8. La critica e la storiografia letteraria A62. Francesco La vita
I saggi La Storia
La giovinezza
Il metodo critico
L’arte, sintesi di contenuto e forma
«Base del poeta è l’uomo»
La storicità della letteratura
Un ripensamento della storia culturale e civile
De Sanctis
Nacque a Morra Irpinia (Avellino) nel 1817. Compì gli studi a Napoli, frequentando la scuola del purista Basilio Puoti. Ancora giovanissimo, nel 1839, aprì una sua scuola. Nel 1848 prese parte coi suoi allievi all’insurrezione antiborbonica; di conseguenza fu imprigionato, poi amnistiato e nuovamente arrestato, restando in carcere per tre anni. Andò in esilio a Torino, dove visse sino al 1856; in seguito insegnò letteratura italiana al Politecnico di Zurigo. Rientrò in patria nel ’60, dopo l’unificazione. Sino alla morte, che avvenne nel 1883, si dedicò all’attività politica. Fu deputato della sinistra moderata e due volte ministro della Pubblica Istruzione. Dal ’71 al’77 tenne anche la cattedra di letteratura comparata presso l’Università di Napoli. Le sue opere principali sono i Saggi critici (1866) e iNuovi saggi critici (1873), raccolte di saggi già pubblicati in precedenza su riviste di cultura o periodici; il Saggio sul Petrarca (1869); la Storia della letteratura italiana (1870-1871). Furono pubblicate postume, a cura degli allievi, le lezioni sulla letteratura italiana del secolo XIX tenute all’universtà di Napoli, su Manzoni, Leopardi, la scuola cattolico-liberale e la scuola democratica. Un’opera di impianto autobiografico è La giovinezza. La critica di De Sanctis segna una svolta fondamentale, dal punto di vista metodologico, rispetto alla critica precedente. La critica classicistica era essenzialmente formalistica: concepiva cioè la forma come qualcosa in sé, un mero ornamento aggiunto dall’esterno ad un contenuto preesistente. La critica di impianto idealisticohegeliano, invece, presentava il pericolo opposto del contenutismo: l’arte era intesa come espressione simbolica di un’idea; tale critica tendeva perciò ad isolare il concetto espresso dall’opera, prescindendo dalla forma in cui esso si manifestava. La grande conquista di De Sanctis, che pure inizialmente era stato molto influenzato dalla filosofia hegeliana, fu di concepire l’opera d’arte come sintesi inscindibile di contenuto e forma. Egli afferma che non esistono un contenuto e una forma in sé, ma esiste solo un contenuto che ha trovato espressione in quella determinata forma. I contenuti astratti di idee di uno scrittore devono diventare una «situazione» concreta, che ha tutte le prerogative della vita. Si rivela così il disdegno di De Sanctis per ogni formalismno retorico come per ogni astrazione concettuale, e l'orientamento verso un gusto realistico, che esige «l'ideale calato nel reale», ed apprezza solo il «vivente», il «fantasma» poetico che vive di una vita equivalente a quella reale. Perché la poesia possa produrre il «vivente», essa, per De Sanctis, deve presupporre tutto un mondo ricco di valori, convinzioni, ideali etici, politici, religiosi, estetici profondamente vissuti dall’artista. De Sanctis è convinto che «base del poeta è l’uomo». La sua è perciò una critica che respinge la letteratura “pura”, avulsa dalla realtà e dalla vita, e privilegia una letteratura ricca di valori civili (purché, naturalmente, essi si calino in una forma «vivente», non restino astratti, come si è visto). — E perciò una critica civilmente impegnata, propria dell’uomo che ha condiviso appassionatamente gli ideali politici del suo tempo ed ha partecipato direttamente ai processi storici, pagando di persona con il carcere e l’esilio. La ricerca dell’«uomo» dietro il «poeta» fa sì che egli abbia forte il senso della storicità della letteratura, e sia sempre teso a cogliere i legami profondi tra la forma specifica dell’opera ed il contesto culturale e sociale da cui è nata. Per questo la sua Storia della letteratura ‘italiana è una vera “storia”, non una serie di monografie su autori e movimenti, tra — loro prive di collegamento. E, oltre che storia della letteratura, è più in generale una storia della cultura e della società italiana. É un ripensamento di tutta la storia civile in un'ottica risorgimentale, intesa a seguire una linea di progresso, il delinearsi in Italia di una coscienza moderna, laica e democratica, sia pur attraverso contraddizioni, ritardi, fasi di decadenza e involuzione. E significativo che la Storia sia scritta
nel 1870, quando, con la conquista di Roma, si conclude il processo di formazione dell’Italia come nazione moderna.
Scrittori italiani dell’età romantica
47 Una critica militante
Tra Romanticismo
e Positivismo
Da ciò si può comprendere come la critica desanctisiana non sia critica accademica, ma autenticamente militante, come testimoniano anche i molti saggi critici pubblicati su riviste e giornali, in cui De Sanctis interveniva nel vivo dei dibattiti e delle polemiche culturali contemporanee. Ancora negli ultimi anni di vita scrisse in difesa di Zola e del naturalismo, che nella cultura italiana suscitavano ondate di esecrazione, perché vedeva nel realismo zoliano un antidoto alla tradizione secolare della letteratura italiana «amica delle frasi e delle pompe, educata nell’Arcadia e nella rettorica», uno stimolo ad un contatto con il reale. Ad un bilancio storico, la critica desanctisiana costituisce il punto più alto raggiunto dalla critica romantica in Italia; ma l’intelligenza e l’apertura intellettuale fanno sì che De Sanctis, nell’ultima fase del suo lavoro, colga già il nuovo clima positivista e realista, e contribuisca a diffonderlo. Fa
BH Storia della letteratura
italiana
-:« Il disegno concettuale Nel disegno tracciato da De Sancits della storia della cultura italiana si distinguono tre momenti: nel Medio Evo la letteratura era sostanziata da forti idealità religiose, morali, politiche, però la tendenza al trascendente, all’astrazione teologica e allegorica l’allontanava dal reale; nel Rinascimento si comincia a considerare l’uomo e la natura di per se stessi, nel loro valore immanente, sulla strada di un progresso laico e scientifico, liberando la letteratura dalle astratte costruzioni teologiche; però questa visione laica e realistica genera uno scetticismo disincantato, che distrugge ogni serietà della coscienza, vuota la letteratura di ogni contenuto ideale e la riduce a pura forma. Comincia di qui, per De Sanctis, quella decadenza, quell’«infiacchirsi della coscienza», che porterà alla letteratura oziosa del Barocco e dell’Arcadia, specchio di un’involuzione della società e della cultura italiana; infine la rinascita di una coscienza civile nell’Italia del secondo Settecento determina anche una rinascita della letteratura: con Parini essa non è più vuoto esercizio formale, perché alla base del poeta torna ad essere l’«uomo», con la sua fede in «un mondo religioso, politico, morale, sociale». La strada aperta da Parini è poi proseguita da Alfieri, Foscolo, Manzoni, Leopardi; con essi la letteratura si riempie nuovamente di contenuti ideali fortemente vissuti, ma l’ideale non è più astratto, fuori del mondo, come nel Medio Evo, bensì è calato nel reale. Alla nuova letteratura della prima metà dell’Ottocento De Sanctis dedica una rapida sintesi nell’ultimo capitolo della Storia, chiudendo infine col tracciare le linee della cultura da costruire nel presente.
. Il valore dell’opera È evidente come alla base di questo disegno vi sia una precisa impalcatura concettuale di derivazione hegeliana: il Medio Evo rappresenta la tesî, il Rinascimento l’antitesi, la letteratura dell'Ottocento la sintesi. Ma tale impalcatura non ha nulla dello schema astratto, imposto a forza sulla realtà; al contrario, la Storia è una costruzione viva ed affascinante, in cui l’individualità inconfondibile dei movimenti, delle personalità, delle opere balza sempre in primo piano, ed il discorso è reso suggestivo dal dialogo che si instaura tra l’intelligenza del critico e i vari oggetti con cui essa si misura, coinvolgendo le sue passioni etico-civili. Per cui, anche se oggi molte sistemazioni storiche e molti giudizi su autori e opere appaiono superati, la Storia resta pur sempre un grande monumento letterario, in cui la critica romantica in Italia trova il suo massimo compimento. Non solo, ma al di là del suo valore scientifico e storico-culturale, l’opera
ha anche una sua autonoma validità estetica, che ne fa un classico della nostra letteratura, che si può rileggere sempre con rinnovato piacere. Recentemente un critico ha affermato che essa ha «la struttura retorica di una grande opera narrativa», e sembra «un romanzo, uno dei grossi romanzi dell'Ottocento», con la presenza «a tutto rilievo, o a sbalzo, di alcuni grandi personaggi, e la mescolanza di elementi tragici e comici, e l'alternanza di scene-affresco di massa con scene in cui su tutto spicca e si staglia l’eroe-individuo»; «come in un grande romanzo di formazione o di educazione dell'Ottocento, nel libro di De Sanctis c’è un
protagonista che si sviluppa e matura, vincendo ostacoli, superando momenti di crisi e di perdizione [...]: la “coscienza” della nazione italiana, che di volta in volta si incarna in singoli personaggi individuali» (R. Ceserani, Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 17-20)
De Sanctis
448 Ariosto, il puro artista Dal cap. XII
L'elemento dell’arte negativo e dissolvente' avea già percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico. L’ Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco? la cavalleria, come fece il Cervantes; e nel suo mondo s’incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina®, con la stessa indifferenza che s'incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando*. Il suo riso è più serio e più profondo. ( È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità’; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già sviluppato del reale e del possibile; è il riso precursore della scienza”®. Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a lui” che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza*, fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi e che atteggia e configura a suo genio?. La materia, in Dante così resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue punte e, come cera, riceve tutte le impressioni!°. L’immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si obblia!, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso nella creatura. L’obbiettività è perfetta. Ma guarda bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l’ha creata, e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura: e, a ogni modo, ci mette una grazia, che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà! in un istante le creazioni più interessanti; e ti avviene così spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia", e ti avvezzi a poco a poco a quell’ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l’autore sembra interamente scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare!‘, e sai che un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d’ironia l'elemento subbiettivo e negativo. Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento! nelle sue varie tendenze. È il Medio Evo, il mondo chiamato «barbaro», il passato rifatto dall’immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro quel sentimento dell’arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettività di una immaginazione giovane, ricca, analitica, pittoresca che caratterizza la nuova letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell’architettura, e che lì giunge alla sua perfezione, congiunta con lo splendore e con l'armonia la massima semplicità e naturalezza di disegno. E c’è insieme quell’intimo senso dell’uomo e della natura o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell’uomo, generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole, tu le configuri, tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi perché sai che quel mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, 1. dissolvente: disgregante; allude al genere satirico ed alla sua potenzialità corrosiva. 2. mettere in gioco: porre in ridicolo. 8. Gabrina: personaggio dell’Orlando Furioso: brutta e malvagia, la vecchia Gabrina è la custode maligna di Isabella nella caverna dei ladroni. 4. Berni ... Orlando: Francesco Berni (1498-1585) fu autore di un rifacimento
dell’Orlando.
innamorato
del Boiardo
(1524-1531). 5. diffuso ... qualità: «che si diffonde su ogni tipo di realtà soprannaturale». 6. riso ... scienza: il riso corrosivo di ogni credenza nel sovrannaturale anticipa lo spirito critico della scienza moderna. 7. a lui: per lui. 8. intelligenza: comprensione. 9. a suo genio: a suo piacimento. 10. riceve ... impressioni: risulta molto duttile, si lascia plasmare dalla mano del-
Scrittori italiani dell’età romantica
l'artista. 11. obblia: dimentica. 12. Una barzelletta ... ti disfà: crea un effetto di straniamento. 13. prendi guardia: assumi un atteggia-
mento guardingo. 14. te la lasci fare: ti lasci ingannare. Si allude ai meccanismi di presenza/assenza dell’autore nel testo. 15. Risorgimento: Rinascimento.
seni
449 e formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l’uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol dire: - Sono soldati e castelli di carta -. La cultura è nel suo fiore, l’immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione ed opera i più grandi miracoli dell’arte; ma lo spirito è già adulto, materialista e realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione. Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtà ma come arte, e, appunto
perché semplice gioco d’immaginazione o arte pura, lo perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco, è il suo organismo estetico. [...] Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore, e non amore; questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata!° e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio Serio della vita nello scopo e ne’ mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a’ trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio, o di Dante; e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò, dal punto di vista del reale, uno scherzo 0, come dicea il cardinale Ippolito, una «corbelleria». E sarebbe stata una corbelleria, se l’autore avesse voluto dargli più serietà che non portava e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perché il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l’aria di beffarsi lui de’ suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in
mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d’immaginazione, è ciò che dicesi «capriccio» e «umore». Se non che il poeta è zimbello!” spesso della sua immaginazione, e si obblia!* in quel suo mondo, e gli dà l’ultima finitezza. 16. profondata: sprofondata. 17. zimbello: è l’oggetto del gioco dell’im-
maginazione. 18. si obblia: si annulla.
ANALISI DEL TESTO Dissoluzione dell’ideale e
Appare chiaramente da questa pagina il disegno della Storia desanctisiana: in Ariosto vi è il trionfo di uno spirito dissolutore di ogni idealità, non vi è più «serietà di vita inte-
trionfo della
riore», ma solo il gusto della pura forma artistica. Il valore della poesia ariostesca non è
forma
disconosciuto, ma il critico coglie in essa i germi di un’involuzione della cultura e della società italiane, che porterà alla separazione della letteratura dalla realtà e allo svuotamento della letteratura stessa: è il sintomo di una decadenza generale della “coscienza” italiana. In questa impostazione si può vedere il carattere “militante”, etico-politico, della critica e della sto-
riografia desanctisiane, che spinge a privilegiare una letteratura nutrita di ideali, di forte impegno civile, su una letteratura di pura elaborazione formale.
De Sanctis
450 Parini: nel poeta rinasce l’uomo Dal cap. XX
luogo La sua forza è più morale che intellettuale, perché la sua intelligenza si alza poco più su del su’ alza Lo concetti. di à profondit e novità comune, ed è notabile più per giustezza e misura che per religioso, quasi carattere un dà gli che morale, contemporanei la sincerità e vivacità del suo senso ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell’intendere e dell’atto! mediante l’amore, che Dante chiamava «sapienza»: rinasce l’uomo. E l’uomo educa l’artista?. Perché Parini concepisce l’arte allo stesso modo. Non è il puro letterato3, chiuso nella forma, indifferente al contenuto: anzi la sostanza dell’arte è il contenuto, e l’artista è per lui l’uomo nella sua integrità, che esprime tutto sé stesso: il patriota, il credente, il filosofo, l'amante, l’amico. La poesia ripiglia il suo antico significato, ed è voce del mondo interiore; che
non è poesia‘ dove non è coscienza”, la fede in un mondo religioso, politico, morale, sociale. Perciò
base del poeta è l’uomo®.
La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l’idea, armonia tra l’idea e l’espressione". La base del contenuto è morale e politica: è la libertà, l'uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l’azione. E il vecchio programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La base della forma è la verità dell'espressione, la sua comunione diretta col contenuto, risecata? ogni mediazione. É la forma di Dante e di Machiavelli, riverginata con esso il contenuto?. a Il contenuto è lirico e satirico. È l’uomo nuovo in vecchia società. L’uomo nuovo non è un concetto o un tipo d’immaginazione: ha tutte le condizioni della realtà, ‘è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo mondo lirico è Giuseppe Parini, che canta sé stesso, esprime le sue impressioni, si effonde, così com'è, nella ingenuità della sua natura. Spariscono i temi astratti e fattizi di religione, di amore, di moralità. Tutto è contemporaneo e vivo e concreto. 1. atto: agire. 2. E l’uomo educa l’artista: equilibrio e misura, senso morale, sincerità (le doti di Parini uomo) diventano i tratti distintivi del Parini artista. 8. Non è il puro letterato: Parini non accoglie quel modello di letterato poco sensibile ai contenuti ideologici e all'impegno,
dedito invece al culto esclusivo della forma, modello che contraddistinse gli intellettuali
del periodo precedente. 4. è poesia: esiste poesia. 5. è coscienza: esiste coscienza. 6. Perciò base ... l’uomo: l’uomo Parini
è misura del letterato Parini: in questo sta la sua forza, che per De Sanctis è «più
morale che intellettuale». 7.E la forma... l’espressione: si stabilisce un preciso, omogeneo rapporto tra forma e contenuto. 8. risecata: eliminata. 9. riverginata ... contenuto: reintegrata con il contenuto stesso.
ANALISI DEL TESTO La pagina esemplifica l’ultimo momento della costruzione storica di De Sanctis: la rinascita della coscienza civile nell’Italia del secondo Settecento, che porta con sé anche la rinascita della letteratura: con Parini «la poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza». Il presupposto metodologico è il principio, caro alla critica romantica, della letteratura come espressione della società.
Scrittori italiani dell’età romantica
La rinascita della coscienza
451 Per una nuova letteratura dell’Italia unita Sono le pagine conclusive della Storia (dal cap. XX).
NL secolo!, sorto con tendenze ontologiche? e ideali, avea posto esso medesimo il principio della sua
dissoluzione*: l’idea vivente, calata nel reale. Nel suo cammino il senso del reale si va sempre più svi-
luppando, e le scienze positive prendono il disopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la critica‘. Ricomincia il lavoro paziente dell’analisi. Ritorna a splendere sull’orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con Vico. La Rivoluzione, arrestata e sistemata in organismi provvisori, ripiglia la sua libertà, si riannoda all’Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell’ordine politico, il positivismo nell’ordine intellettuale. Il verbo non è più solo «libertà», ma «giustizia», la parte fatta a tutti gli elementi® reali dell’esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi. Il brutto sta accanto al bello, 0, per dir meglio, non c'è più né bello né brutto, non ideale e non reale, non infinito e non finito. L'idea non si stacca, non
soprastà” al contenuto. Il contenuto non si spicca* dalla forma. Non ci è che una cosa: il vivente. Dal ‘seno dell’idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell’arte, nella storia. È un’ultima eliminazione di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici. La nuova letteratura, rifatta la coscienza,
acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come critica intenta a realizzare sempre più il suo contenuto, si chiama oggi, ed è, la «letteratura moderna». L'Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l'indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d’idee e di sentimenti troppo uniforme e generale, subordinato a’ suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato quello
che le potea dare?. L’ontologia con le sue brillanti sintesi avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente esaurita, ripete sé stessa, diviene accademica, perché accademia e Arcadia
è la forma ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo eclettismo dottrinario. Vedete il Prati in Satana e le Grazie e nell’Armando”. [...] La paziente e modesta monografia prende il posto delle sintesi filosofiche e letterarie. I sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i princìpi più inconcussi!! sono messi nel crogiuolo, niente si ammette più che non esca da una serie di fatti accertati. Accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante lotte e tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondente più allo stato reale dello spirito. C'è passato sopra Giacomo Leopardi'. Diresti che, proprio appunto quando s’è formata l’Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata". Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse, in modo vago ancora, ma visibile, un nuovo orizzonte. Una forza instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le altre.
L’Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertà e della naziona1. il secolo: l’Ottocento. 2. tendenze ontologiche: il pensiero filosofico del primo Ottocento, dominato dall’idealismo, si era contraddistinto per la tendenza a cogliere le categorie riguardanti la natura e la conoscenza dell'essere come oggetto in sé. 3. avea posto ... dissoluzione: aveva posto le premesse della confutazione di tali sistemi ammettendo che l’idea si realizza solo quando si cala nel reale. 4. critica: da intendersi nel significato etimologico del termine, come ricerca che consente di pervenire ad un giudizio e di assumere una posizione intellettuale in relazione ad un oggetto determinato. ‘ 5. Ricomincia ... l’analisi: riprende vigore il procedimento analitico, l’analisi dei fenomeni secondo quell’orientamento che con-
traddistinse il pensiero scientifico settecentesco.
6. la parte ... elementi: l’equa suddivisione di tutti gli elementi. 7. soprastà: sopraffà (col rischio di vani ficarlo). 8. si spicca: risulta separato. 9. L’Italia ... dare: per un secolo la cultura italiana è stata subordinata ad ideologie di ispirazione idealistica (Gioberti, Mazzini) costruite per il conseguimento dell’indipendenza politica; raggiunto questo scopo, per il quale il sistema di pensiero costituito risultava funzionale, il sistema si è dissolto. 10. Vedete Cousin ... Armando: Victor Cousin (1792-1867), pensatore francese,
tismo; Giovanni Prati fu seguace dell’estetica romantica negli anni in cui il Romanticismo si era svuotato delle idealità connesse alla sua fase risorgimentale. 11. inconcussi: solidi, ritenuti incrollabili. 12. C’è ... Leopardi: Leopardi ha rappresentato nel pensiero italiano una svolta in senso materialista ed anti-metafisico: da questo orientamento, secondo De Sanctis, la cultura italiana deve prendere le mosse. 13. quando s'è ... è nata: la proposizione sancisce il concetto di morte — superamento delle idee - guida del Risorgimento; raggiunta l’unità politica, il problema è rappresentato dalla esatta consapevolezza di tale situazione, in base alla quale potranno svilupparsi ideali nuovi.
tentò di superare le antinomie presenti nei vari sistemi filosofici propugnando l’eclet-
De Sanctis
452
1
lità, e ne è nata una filosofia e una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorché intorno i come a lei!‘. Ora si dee guardare in seno, dee cercare sé stessa: la sfera dee svilupparsi e concretars
sua vita interiore. L’ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademi-
che, i lunghi ozii, le reminiscenze d’una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl’impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento, ogn’intimità. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee cercare sé stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza 15, lo spirito italiano rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d’ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l’amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtà, non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt’i rami dello scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e paziente esploratrice; e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi, ne’ nostri costumi, nelle nostre idee, ne’ nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive; convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo; «esplorare il proprio petto», secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico: ci manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è uscita ancora la lirica. Ci incalza ancora l'accademia, l’Arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l'enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro. E da’ nostri vanti s’intravede la coscienza della nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d’idee, nunzia di una nuova formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E, questa volta, non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti. 14. L’Italia ... a lei: i principi di libertà e di nazione hanno rappresentato un invo-
lucro luminoso che ha circondato l’Italia impedendo alla cultura di conoscere approfonditamente la nazione reale. 15. In questa ... esistenza: negli anni in cui De Sanctis approfondiva questi pro-
blemi, negli intellettuali italiani s'imponeva l’esigenza di un’indagine sulle reali condizioni della nazione al fine di conoscerne meglio i problemi (tale esigenza era stata
segnalata
in particolare
da Pasquale
Villari). 16. oggetti ... contenuto: gli oggetti, assi-
milati
dalla coscienza, divengono contenuti. 17. «esplorare ... petto»: Leopardi, Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 235-236: «il proprio petto / esplorar che ti val?».
ANALISI DEL TESTO A conclusione della sua ricostruzione della storia letteraria italiana, De Sanctis indica le vie di una nuova cultura, commisurata alla nuova Italia che si era formata con l’unità.
La fase romantico-risorgimentale, segnata da una cultura idealistica, è ormai conclusa; si tratta di progettare una cultura che rifletta le nuove esigenze, i nuovi orientamenti. La via che De Sanctis indica, in opposizione alle tendenze della fase precedente, è quella del realismo: l'ideale non deve più essere astratto, separato dalla realtà, ma calato nel reale, far tutt'uno con esso. La letteratura non deve rappresentare l'ideale, ma il concreto e il «vivente». Per questo nuovo indirizzo, nelle lezioni napoletane immediatamente successive De Sanctis indicherà un modello: i Promessi sposi, in cui appunto l’ideale manzoniano è «calato nel reale». Il presupposto filosoficò di questa nuova cultura è indicato nello spirito “positivo”, che sottopone a critica la metafisica e non ammette nulla che non esca da “fatti” accertati. De Sanctis rientra già nel nuovo clima culturale che si andava formando in Italia all'indomani Scrittori italiani dell’età romantica
La nuova cultura
Il realismo
Verso il Positivismo
453 Storia letteraria come storia civile
dell’unità (cfr. Quadro di riferimento III, $ 2). Negli ultimi anni questa impostazione realistica e positivistica lo indurrà a guardare con interesse al naturalismo e al verismo. La conclusione è anche un esempio eloquente del fatto che De Sanctis intende la storia letteraria come storia civile: come per tutto il libro, attraverso l’analisi delle vicende culturali, ha ricostruito la storia dell’intera società italiana, così ora, tracciando per il futuro la via di una nuova cultura, delinea anche il modello di una nuova Italia civile da costruire.
- Cfr. La critica, C27
dai Nuovi saggi critici
T114
;
Francesca da Rimini Il saggio fu elaborato nel 1868, e pubblicato sulla «Nuova Antologia» nel ’69; doveva far parte di un’opera su Dante che De Sanctis non completò.
Beatrice è men che donna, è il puro femminile, è il genere o il tipo, non l’individuo!. Perciò voi potete contemplarla, adorarla, intenderla, spiegarvela, ma non l’amate, non la possedete con pura dilettazione estetica, anzi ne state a distanza. [...] Francesca? è donna e non altro che donna, ed è una compiuta persona poetica, di una chiarezza omerica. Certo, essa è ideale, ma non è l’ideale di qualcos'altro, è l’ideale di sé stessa, ed è ideale compiutamente realizzato, con una ricchezza di determinazioni che gli danno tutta la simulazione di un individuo. I suoi lineamenti si trovano già in tutti i concetti della donna prevalenti nelle poesie di quel tempo: amore, gentilezza, purità, verecondia, leggiadria. Ma questi non sono qui epiteti, ma vere qualità di persona messe in azione, e perciò vive. [...] Quella donna che cerca in paradiso, eccola qui, egli l’ha trovata nell’inferno. Francesca non è il divino, ma l’umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, è perciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti? che generano irresistibili emozioni. E questo è la vita. Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualità buona; sembra che nel suo animo non possa farsi adito altro sentimento che l’amore. «Amore, Amore, Amore!»4. Qui è la sua felicità e qui è la sua miseria. Né ella se ne scusa, adducendo l’inganno in che fu tratta o altre circostanze. La sua parola è di una sincerità formidabile. - Mi amò, ed io l’amai; - ecco tutto. Nella sua mente ci sta che è impossibile che la cosa andasse altrimenti, e che amore è una forza a cui non si può resistere. Questa onnipotenza e fatalità della passione che s’impadronisce di tutta l’anima e la tira verso l'amato nella piena consapevolezza della colpa è l’alto motivo su cui si svolge tutto il carattere. Appunto perché amore è rappresentato come una forza straniera all’anima e irrepugnabile, qui hai fiacchezza, non depravazione. Francesca è rimasta il tipo onde sono uscite le più care creature della fantasia moderna: esseri delicati, in cui niente è che resista e reagisca, fragili fiori a cui ogni lieve soffio è mortale, e che si rassomigliano tutte per una comune
natura. [...] L'uomo nella sua lotta resiste e, vinto anche, l’anima rimane indomata e ribelle: il suo tipo è Prometeo5. L’uomo che resista e vinca, può in certi casi essere un personaggio poetico; ma l’aureola della donna è la sua fiacchezza; né moralista otterrà mai che la donna invasa e signoreggiata dalla passione, ove® dalla lotta esca vincitrice, sia altro mai che un personaggio inestetico, virtuoso,
1. Beatrice ... l’individuo: De Sanctis distingue qui tra donna (l’individuo) e puro femminile (il genere o il tipo). Bea. trice appartiene alla seconda categoria; per questo il lettore la sente distante e non può amarla. 2. Francesca: a Beatrice De Sanctis con-
trappone Francesca i cui attributi, come dirà avanti, non sono epiteti esornativi ma sentimenti, qualità umane, che prendono vita nel personaggio; non è idea astratta, ma individuo vivente. 3. profondi contrasti: il fascino esercitato da Francesca sta anche nelle contrastanti
passioni da lei rivelate. 4. «Amore,
Amore,
Amore!»:
qui De
Sanctis riprende la famosa anafora del Canto V dell'Inferno, vv. 100-106. 5. Prometeo: il titano che aveva sfidato gli dei, donando il fuoco agli uomini. 6. ove: qualora.
De Sanctis
454 rispettabile, ma inestetico. La poesia della donna è l’esser vinta”, invano ripugnante? contro quella
ferrata? necessità che Dante ha espressa con rara energia nella frase: «Amore... a null’amato amar perdona». Ma contrastando e soggiacendo ella serba immacolata l’anima, quel non so che molle, puro, verecondo e delicato che è il femminile, «l'essere gentile e puro». La donna depravata dalla passione è un essere contro natura, perciò straniero a noi e di nessuno interesse. Ma la donna che nella fiacchezza e miseria della lotta serba inviolate le qualità essenziali dell’essere femminile, la purità, la verecondia, la gentilezza, la squisita delicatezza de’ sentimenti, poniamo anche colpevole, questa donna sentiamo che fa parte di noi, della comune natura, e desta il più alto interesse, e cava lacrime dall’occhio dell’uomo, e lo fa cadere «come corpo morto». Francesca niente dissimula, niente ricopre. Con-
fessa con una perfetta candidezza il suo amore; né se ne duole, né se ne pente, né cerca circostanze
attenuanti e non si pone ad argomentare contro di Dio. - Paolo mi ha amata, perché io ero bella, ed io l’ho amato perché mi compiaceva d’essere amata, e sentivo piacere del piacere di lui. — Sono tali cose che le donne volgari non sogliono confessare neppure all'orecchio. Chiama «bella persona» quello | di che s’invaghì Paolo; chiama «piacere» il sentimento che ancora non l’abbandona; e quando Paolo le baciò la bocca «tutto tremante», certo la carne di Paolo non tremava per paura. Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttà. Ma insieme con questo trovi un sentimento che purifica e un pudore che rivergina; talché a tanta gentilezza di linguaggio mal sai discernere se hai innanzi la colpevole Francesca o l’innocente Giulietta!°. 7. La poesia ... vinta: Francesca cede perché l’amore non risparmia nessuno. Questo perché, come spiega De Sanctis nelle righe successive, il fascino femminile con-
siste nel resistere, nel soggiacere «contrastando» in modo da conservare «immacolata l’anima». 8. invano ripugnante: che lotta invano.
9. ferrata: ferrea, immodificabile. 10. Giulietta: l’eroina del Romeo e Giulietta di Skakespeare.
ANALISI DEL TESTO Si trova qui applicato uno dei principi fondamentali dell’estetica e della metodologia critica di De Sanctis: l’«idea», il contenuto astratto, per divenire poesia deve calarsi in un’immagine concreta, individuale, che abbia tutta la vita del mondo reale (Francesca «è ideale compiutamente realizzato, con una ricchezza di determinazioni che gli danno tutta la simulazione di un individuo»). Si manifesta qui il gusto essenzialmente realistico del critico. Ma simanifesta in piena evidenza anche il suo gusto romantico. Dell’episodio egli riprende infatti
l’interpretazione del Foscolo (cfr. T30): Francesca, pur caduta nella colpa, «serba immacolata l’anima »; nella passione d’amore vi è «un sentimento che purifica e un pudore che rinvergina».
TT111-114 | PROPOSTE
L’«idea» e il «vivente»
Il gusto romantico
DI LAVORO
R(° Quale metodo d'analisi segue De Sanctis nel suo concreto operare? (De Sanctis si limita a fornire indicazioni letterarie” o traccia un quadro completo della società in cui operarono gli autori?).
2. Quali aspetti del lavoro critico di De Sanctis sono più tipicamente romantici? (Riflettere sulla concezione di «arte» per De Sanctis).
3. Con quale stile De Sanctis racconta la sua storia? (Il critico stabilisce un contatto con il lettore? Quale tempo usa? Il periodare è lungo o breve ed incisivo? Quali dati fornisce sull’autore o sull’opera che esamina?)
Scrittori italiani dell’età romantica
455
MARIO PRAZ Caratteri generali della letteratura romantica italiana Il critico, insigne studioso di letteratura inglese, guarda al nostro Romanticismo da una prospettiva europea. Da tale punto di vista risalta il carattere provinciale e Biedermeier della letteratura italiana del primo Ottocento. Il Biedermeier è una corrente della cultura europea caratterizzata da
un romanticismo attenuato, antieroico, che ama la realtà dimessa e familiare, quotidiana: un com-
promesso insomma tra spirito romantico e spirito borghese.
Il romanticismo minore si svolge tra noi in un’atmosfera più circoscritta e provinciale che altrove: è caratterizzato da un’estrema ingenuità, e di fatto appartiene piuttosto a quella versione borghese del romanticismo che fu la fase Biedermeier! della cultura europea ottocentesca. Questa ingenuità spiega la strana voga che ebbero in Italia i luoghi comuni del romanticismo (la melanconia, il languore, il sentimentalismo e tutta la banale attrezzeria del gusto «gotico») proprio nel periodo in cui si risvegliarono le energie nazionali alla lotta per la libertà politica. [...] La poesia di Giovanni Berchet è di poco superiore all’opera d’un improvvisatore; frasi, immagini, ritmi, han tutti la qualità di clichés a buon mercato, in parte deliberatamente, perché Berchet sentiva fortemente il bisogno di scrivere pel popolo in una lingua esente da preziosismo; ma essendo incapace di evitare qua e là parole e frasi letterarie logore, egli non riuscì che a produrre un ibrido?. Lo stesso ibridismo di lingua si ritrova in un poeta posteriore, Giovanni Prati, la cui mescolanza di frasi e intonazioni familiari con costruzioni classiche e forme fuori
d’uso fece pensare un critico? all’effetto «d’un forte profumo di muschio in un salotto borghese dove arrivano gli odori della cucina». Invero i ripetuti tentativi dei poeti italiani minori nell’Ottocento di adottare il linguaggio della vita reale eran destinati a finire in grotteschi insuccessi: esempio tipico, il poemetto del Tommaseo, Una serva (scritto nel 1887), il cui titolo suonava come una sfida, mostra continui cozzi tra espressioni e cadenze dozzinali e linguaggio poetico inamidato, un effetto che ci richiama alla mente oggetti utilitari vittoriani decorati con fregi classici (come una macchina per cucire «gotica», o una locomotiva camuffata con colonne doriche). Questo linguaggio ibrido, che non aveva valore alcuno di vera poesia, era invece adatto al libretto d’opera, quel tipo di comunicazione supremamente artificale le cui parole eran destinate a essere dilatate e deformate nei gorgheggi del canto. L’opera in musica fu davvero il risultato e l’apoteosi finale del romanticismo provinciale che dilagò in Italia nella prima parte dell’Ottocento. La voga pel romanzo storico a imitazione di Walter Scott (con nomi come Tommaso Grossi, Massimo D'Azeglio e F. D. Guerrazzi che sentì pure l’influsso dei “romanzi neri” inglesi), la voga per la pittura storica che divenne il contrassegno dello stile elevato, e fu fonte d’un’inesauribile produzione di enormi tele in cui episodi melodrammatici d’ogni periodo storico eran trattati con pathos accademico, - ed entrambe queste voghe sfruttate a fini politici e patriottici, cosicché episodi dei Vespri siciliani, la Lega lombarda e la Disfida di Barletta eran considerati chiare allusioni alla lotta contemporanea contro l’Austria [...]- tutto questo mondo di comparse di cartone in costumi sgargianti fu adottato di peso dall’opera, e sulle scene avvenne una miracolosa metamorfosi: lo sfondo storico fasullo divenne spettacolo, la sommaria psicologia che conosceva solo stridenti distinzioni di tiranni e vittime, demoni e angeli, l’ibrido linguaggio che infilava sullo stesso filo perle e palline di vetro, divennero pura estasi di canto. I creatori supremi di questo miracolo furono Vincenzo Bellini e Giuseppe Verdi. Perfino l’ibrido linguaggio della poesia italiana contemporanea poteva essere efficace come libretto, fornendo al musicista uno stimolo, un rozzo canovaccio per le sue fioriture musicali. Per improbabile o convenzionale che fosse l’azione delineata nel libretto, la musica vi poneva riparo; poiché chi s’aspetta verisimiglianza da un’opera? Condannasse pure Saint-Evremond‘ l’opera come un assurdo: le folle 1. fase Biedermeier: confronta l'introduzione al testo. 2. ibrido: mescolanza disorganica e promiscua. 8. un critico: C. De Lollis, Saggi sulla forma poetica del-
l’Ottocento, Laterza, Bari 1929. 4. Saint-Evremond: scrittore francese (1616-1703).
La critica
TOA
456
L
erano trascinate lo stesso a applaudire e piangere per le passioni presentate sulla scena, perché la musica faceva direttamente appello ai sentimenti, con una voce universale che penetrava più profondamente delle parole e della coerenza psicologica, e i fanciulli venivan battezzati col nomi degli eroi e delle eroine di Bellini e di Verdi, il cui destino commoveva la gente come se fosse stato di loro consanguinei. Che cosa avevano i moderni in comune con situazioni e affetti di età remote, onore cavalleresco, e vendetta, e stregoneria, e convenzioni e costumi trapassati? La
verisimiglianza non era quel che importava, perché qui era la verità, la verità del cuore e delle
sue emozioni. Se questa è caricatura, è una caricatura sublime. [...] Verdi, se le due parole mai potessero mettersi insieme, era un Biedermeier eroico. La sua arte, perfettamente intonata al periodo avventuroso e ardimentoso del Risorgimento, aveva tutto il fuoco degli Elisabettiani. Ma fu l’unico artista a dare una voce allo spirito garibaldino. Ché anche a voler considerare il più popolare tra quanti libri furono scritti dai patrioti italiani, Le mie prigioni di Silvio Pellico, il suo spirito è puro Biedermeier, i suoi motivi dominanti essendo la fede religiosa, l’umiltà, la rassegnazione alla volontà della Provvidenza e perdono per tutti gli uomini, non esclusi gli oppressori e i tiranni. [...] Un altro patriota che combatté per la guerra di liberazione e fu contabile dei Mille, Ippolito Nievo, scrisse versi intimi, pensosi, con qualche venatura umoristica, e nelle sue Confessioni di un italiano (sebbene non avesse ancora trent'anni quando le scrisse) cercò di considerare gli avvenimenti del passato col distacco nostalgico e ironico d’un vecchio ottuagenario. Il pittore Nino Costa, che partecipò alle campagne del 1848, del 1859, fu tra i difensori di Roma nel 1849 e tra gli attaccanti nel 1870, e combatté a Mentana, rivela nella sua arte un senso di ritmo, una preferenza per artificialità decorative, qualche influsso francese e qualche influsso preraffaelita®. Perfino nella celebre cronaca epica della spedizione di Garibaldi, di G. C. Abba, col modesto titolo di Noterelle di uno dei Mille (1880), troviamo intento educativo, insistenza sulle virtù della lotta silenziosa e della sopportazione, e ritratti idealizzati di sapor letterario (un guerriero gli ricorda un eroe di Virgilio, un altro un soldato di Cromwell, un terzo il Corsaro di Byron, un quarto Ferruccio, e così via), piuttosto che accenti adeguati al fervore giovanile d’azione e al semplice entu- | siasmo che animava i soldati di Garibaldi. [...] Insomma invano si ricercherebbero nel periodo del Risorgimento espressioni letterarie o artistiche che incarnino un nuovo spirito rivoluzionario: nessun pittore italiano produsse mai opera paragonabile alla Barricade di Delacroix, nessun poeta italiano - prima di Carducci, che fiorì quando il Risorgimento era conchiuso — ebbe accenti che potessero rivaleggiare con gli esuberanti inni e invettive di Victor Hugo; invano si cercherebbe, facendo appello alla testimonianza di versi o quadri italiani, di dar corpo all’immagine dell’Italia nei versi di Swinburne8: mystic rose ingrained with blood, impearled
with tears of all the world!? Invece delle rose e dei rapimenti (the roses and raptures) della rivolta e del martirio (per servirmi d’una famosa frase swinburniana), troviamo the lilies and languors, i gigli e i languori di domestiche virtù. Troviamo in Massimo D'Azeglio onestà, buon senso, una curiosa mescolanza di convenzione aristocratica e di franchezza popolana (per cui Jenner, che introdusse la vaccinazione, valeva più di Napoleone); in Luigi Settembrini un sereno modo di giudicare le cose, da un punto di vista sano, semplice, popolare; soltanto in Mazzini si sente battere un polso più caldo, ma egli non si leva tant’alto, nel suo nebuloso cielo pullulante di astrazioni bene sonanti, quanto Carlo Cattaneo, il patriota non romantico, s'alza nella sua sfera più concreta, scientifica,
dove non ci son figure simboliche, iperboli e favole a battere nel vuoto le lor luminose ali invano. Il Risorgimento ebbe i suoi solidi pensatori, come Cattaneo e Francesco De Sanctis, in cui il 5. influsso preraffaelita: che risente dell’influenza del movimento artistico e letterario sviluppatosi verso la metà dell'Ottocento in Inghilterra, caratterizzato dalla rivalutazione delle manifestazioni artistiche e culturali prerinascimentali. 6. Ferruccio: Francesco Ferruccio, il difensore di Firenze
nell’assedio del 1527. 7. Delacroix: Eugène Delacroix (1798-1868), maggior pit-
Scrittori italiani dell’età romantica
tore romantico francese. Allude al famoso quadro che rafgra “libertà sulle barricate rivoluzionarie (cfr. Arte 7, ig. 28). 8. Swinburne: Algernon Charles Swinburne (1837-1909), poeta inglese. 9. mystie ... world!: traduzione: «Rosa mistica intinta con il sangue, imperlata delle lacrime di tutto il mondo!»
457 Wellek!° ha veduto il primo critico italiano moderno d’importanza internazionale; ma non
ebbe appassionati tribuni (se mai soltanto una caricatura di tribuno, in Guerrazzi), e nessuna voce di indignato autore di satire, ché nessuno potrebbe così descrivere il superficiale, parrocchiale scherno di Giuseppe Giusti. i ie da Principali correnti nella letteratura e nelle arti in Italia durante l’Ottocento, in AA. VV., Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Mondadori, Milano 1963, pp. 663-667
10. Wellek: René Wellek (1908), critico americano d’origine cecoslovacca, autore di una fondamentale Storia della critica moderna (1955-1965).
C22
GIULIO BOLLATI La polemica classico-romantica Lo studioso delinea in una brillante sintesi il programma innovatore dei romantici italiani e la polemica che ne scaturì. Sottolinea soprattutto il paradosso che i patrioti romantici furono accusati di lesa patria dai classicisti per aver voluto aprire la cultura italiana a quelle straniere. Ma ricorda come furono attaccati anche da posizioni illuministiche, e accusati di oscurantismo passatista. Dalla polemica emergono i limiti e le contraddizioni del gruppo romantico, così come la tendenza moderata e conciliatrice tra arretratezza e innovazione.
Uomini totalmente immersi nel clima e nei compiti eccitanti dell'attualità sono appunto i romantici. Stretti intorno a un leader politico di grande prestigio come il Confalonieri, ambizioso successore del Melzi d’Eril nella genealogia dei nobili lombardi illuminati, formano una sorta di governo esiliato in patria. Il loro programma dichiarato - quello clandestino si esplica nella cospirazione antiaustriaca - è la preparazione di una rinascita nazionale collegata all’Europa del progresso liberale e borghese, ma affrancata da ogni tutela esterna (nel collasso del Regno italico il Confalonieri aveva guidato una piccola schiera politica dal nome impegnativo di Italici puri). E un programma totale, ispirato a un nuovo modo di pensare economia società politica cultura e il cui punto di mira è la Nazione Italiana (maiuscole del Berchet) affrancata dallo straniero, rigenerata moralmente, avviata verso le magnifiche sorti promesse dall’alleanza del vero . col bello e con l’utile. «Il Conciliatore» si dichiara foglio scientifico-letterario, e i suoi estensori si gettano a trattare di economia politica, di lega fraterna tra i popoli, del bisogno di una letteratura essenzialmente liberale, di scuole alla Lancaster [cioè basate sul mutuo insegnamento tra gli allievi], di diffusione di lumi, di mezzi coi quali aggiungere rapidità al progresso del sapere umano, e d’altri argomenti di consimile natura...
A mezza via tra positività settecentesca e scientismo positivista, è l'entusiasmo a connotare in senso «romantico» la capacità di leggere i fenomeni elettrici, l’inalveazione dei canali, la procedura criminale, le poesie castigliane, i trattati di economia, ecc., in un’unica chiave di promozione intellettuale-poetico-patriottica. In breve, i punti di riferimento su cui i romantici traguardano la nuova immagine dell’italiano sono: la civiltà moderna, a datare dal Medioevo cavalleresco
e cristiano, e il Nord insieme poetico e industriale, dei quali il liberalismo e il romanticismo costituiscono l’espressione rispettivamente politica e letteraria. Colpisce subito l’eterogeneità e l’incongruenza degli elementi gettati nel crogiuolo. Fusi in una sola miscela gli aspetti di maggiore spicco di tre culture, la francese, la tedesca, l'inglese, corrispondenti a società, a tipi di economia, a situazioni politiche profondamente differenziate; il romanticismo tedesco messo in parallelo col liberalismo di Benjamin Constant? e con l’economia politica inglese; tre angolature ideologiche, una delle quali, la romantica tedesca, dalle 1. liberalismo di Benjamin Constant: Henri-Benjamin | organismo politico che equiparasse libertà e autorità, antiConstant, uomo politico e scrittore francese (1767-1830). | cipando così il juste milieu (giusto mezzo) del posteriore Avanzò come fondamentale l’istanza del rispetto dell’in- | liberalismo francese. dividuo inteso come centro di valori; da ciò l’esigenza di un
La critica
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458 : gli apprendisti implicazioni nettamente reazionarie, allineate in una sola direzione di progresso
culturali stregoni milanesi evocarono mostri che non erano in grado di dominare. Delle merci al loro za pertinen la appieno o valutaron non facilità, alistica intellettu con che avevano importato intermeo stesso programma, anche perché attingevano alle fonti prevalentemente attravers
o e della diari (in modo particolare francesi): merci che nel caso, per esempio, dell’industrialism linea di loro alla rispetto ritardo in sua filosofia, erano in anticipo, nel caso del romanticismo to movimen del i promotor i che aggiunga Si agricola. cauto liberalismo nell’ambito di un'economia il se anche o restavan fondo in tali che e , attitudine per e ne erano dei letterati, per formazio Di ra. letteratu a di limitativ e ristretta nozione una rompere a proprio diretto era loro sforzo qui il loro errore iniziale, che condizionò tutta la polemica successiva: quello cioè di suffragare il loro invito ad aprire le finestre sulle letterature straniere e sui progressi della cultura moderna, con l’esempio di produzioni letterarie che erano piuttosto l’espressione di un gusto, o addirittura di una moda letteraria: com'è nel caso delle ballate macabre del Bùrger tradotte dal Berchet in appendice alla sua Lettera semiseria. L’insieme di queste circostanze spiega la commedia degli inganni che seguì. «Nazionali» e «amanti dell’Italia» sopra ogni altro, i romantici furono immediatamente accusati di lesa nazione. Insorsero i custodi della vecchia tradizione retorica a chiedere ragione dell’oltraggio recato alla civiltà in favore della barbarie: Ella [qui si parla della Staél, ma il discorso vale per tutti i romantici] per dimostrare che tra e le caligini del Norte? meglio amarono di errare le muse che non tra i boschetti e le eterne ghiacci i fragranze del Mezzogiorno, osò bruttare il peplo alla veneranda Italia, e gli splendidi lavori dei suoi figli disfigurare con mano profana.
Accusa ripetuta da più parti, anche di maggior dignità e levatura critica, e gravissima, carica com'era di ricatto nazionalistico. Si sarà riconosciuto, del resto, pur sotto il paludamento da operina buffa, il ricorrente Leitmotiv* del primato classico-italiano, ora alla ricerca di un nuovo assetto difensivo da opporre agli invasori del Nord: questa volta dilaganti alla conquista della penisola non con la forza delle armi, ma con l’insidia della disgregazione culturale. E che questo tema dell’eterna primavera italica, della vera ed unica luce di civiltà latina, non sia una semplice coda di retroguardia, ma la proiezione di elementi strutturali portanti, basterà a ricordarlo l’efficienza trascinatrice, la veemenza intimidatoria delle sue riapparizioni in tempi più vicini a noi: sullo sfondo della grande guerra e poi del fascismo, fatte le opportune variazioni secondo che i barbari di turno fossero teutoni o slavi o anglosassoni o galli. Un'altra delle illusioni dei romantici fu quella di credere che sarebbero bastati gli argomenti del buon senso a isolare gli avversari più retrivi (i grammaticali, i cruscanti, gli accademici) dalle forze giovani e potenzialmente più disponibili. Invece si trovarono a dover fronteggiare una reazione molto più estesa e più omogenea del previsto, perché se era vero che la coscienza e la memoria italiane erano ibernate in cristalli di vecchia letteratura, non si poteva dare di martello su quei cristalli senza che la nazione (e per essa la maggioranza dei suoi intellettuali-letterati) si sentisse minacciata dal buio di una irreparabile perdita dell’identità. Questo spiega come i «novatori» potessero essere attaccati simultaneamente da destra e da sinistra. C’è un nesso infatti tra l’accusa di tentato spegnimento della classicistica tradizione-madre e la seconda accusa, di tentato offuscamento della ragione, mossa ai romantici da posizioni illuministiche. Che il romanticismo... abbia una tentenza antiliberale e antifilosofica, è una verità così manifesta, che non ha d’uopo di molte dimostrazioni... Quelli che col prestigio della poesia cercano di rimettere in onore i pregiudizi e la superstizione, non possono certamente vantarsi di promuovere la civilizzazione e il perfezionamento dell’umano intelletto. 1 Trattasi niente meno che di correggere il mondo e di far rivivere, se fosse possibile, la beata ignoranza e la feroce anarchia dei tempi della cavalleria.
Per gli alfieri del liberalismo, quali si professavano i romantici, l'argomento era micidiale. Campioni della «filosofia», dell’«incivilimento», del «progresso», vedevano d’un tratto messe a nudo le contraddizioni e la precarietà della loro costruzione culturale, di cui non misura-
vano le valenze regressive. La loro nozione di Medioevo era vaga, e all’ossequio professato al 2. Norte: Nord. 8. Leitmotiv: motivo conduttore.
Scrittori italiani dell’età romantica
459 Sismondi‘, che ne dava un'immagine «liberale», non corrispondeva la capacità critica di rifiutare altre suggestioni di dubbia origine. Se di Breme è accorato quando a difesa dei romantici ripete quel che essi vor-
rebbero:
che il ministero poetico ritornasse a proposito della morale e del patriottismo; ch’egli fosse, come già ne’ tempi andati, un espediente di religione, di consolazione e di amore; che s’immedesimasse con tutte le circostanze solenni della vita sociale, ecc.
Ma è più importante che egli ora distingua «tra il romantico superstizioso e il romantico filosofico», preludio a una importante concessione: se i classicisti rinunceranno alla parte più estrinseca e formalistica delle loro leggi e dei loro principî, «noi da quel momento avremo cessato dì far distinzione fra poesia classica e romantica». Il che equivale a firmare un armistizio con gli avversari, sulla base di un accordo che uno di essi formula in questi termini: Romantici vogliamo esserlo anche noi italiani, noi figli primogeniti della moderna civilizzazione, noi da cui ebbe forme e splendore l’ancor rozza poesia de’ trovatori; romantici sì, ma avversi ai pregiudizi, alla malinconia, alla superstizione; romantici nelle idee, nelle opinioni, negli affetti, ma fedeli
all'esempio e ai precetti dei classici.
Come dire: la via italiana al romanticismo, dove l'aggettivo italiana assume, sulla soglia dell’età modernissima, il significato di un modo particolare di accordare arretratezza e innovazione, tradizione e rivoluzione, conservazione e modernità. Si capisce meglio, da questo punto di vista, ‘ come un giornale che doveva prendere il titolo di «Il bersagliere» abbia finito per chiamarsi «Il Conciliatore». Si capisce anche perché l’episodio romantico, confuso e provinciale se esaminato al microscopio nei suoi esiti teorici, sia invece un punto di riferimento per l’intera cultura italiana, provocatore di ripensamenti critici (come nel caso di Leopardi e più tardi di Mazzini), o di aggiustamenti in profondità lungo una linea di adesione (come nel caso del Manzoni). Si tratta infatti del primo e, pur nei suoi limiti, decisivo tentativo di fondare una politica di direzione culturale del Risorgimento. da L’italiano, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, pp. 981-984
4. Sismondi: Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi | una Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo che esal(1773-1842), storico, letterato ed economista svizzero, come | tava le libertà comunali. Constant in contatto con madame de Staél; fu autore di
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VITTORIO SPINAZZOLA Linguaggio e motivi della poesia romantica italiana Il critico sottolinea le incertezze e le timidezze dei romantici nel rinnovare il linguaggio poetico tradizionale. Sul piano dei contenuti mette in luce il contrasto tra patriottismo e ardore di libertà da un lato, patetismo e sentimentalismo dall’altro. Emerge infine il moralismo tradizionalistico, soprattutto per quanto riguarda le figure femminili, che fa sì che il Romanticismo italiano sia ben lontano da quello stramero.
Le difficoltà incontrate dalla giovane poesia romantica sono immediatamente percepibili sul piano delle scelte di linguaggio. Grande merito dei «conciliatoristi» fu senza dubbio l’aver impostato energicamente la questione, portando in luce la crisi del linguaggio poetico tradizionale. Ma nelle opere dei nuovi scrittori avverti il persistere di una timida incertezza che mina, spesso in modo grave, la coerenza dei risultati espressivi. Non per nulla la pienezza artistica viene raggiunta solo per il tramite del dialetto: ma la pur felicissima soluzione portiana limitava troppo gravemente l’apertura a un pubblico extramunicipale! per poter avere un carattere esemplare. È vero che il Grossi, amico e seguace del Porta, pagò a caro prezzo la conversione del vernacolo 1. extramunicipale: fuori della ristretta cerchia di quanti
intendessero il dialetto lombardo, e le varianti milanesi.
La critica
460 gli alla lingua: la traduzione italiana della sua Fuggitiva, originariamente scritta in milanese,
si rivolse in un vero e proprio camuffamento in panni curialeschi?. Ma l’episodio serve appunto a testimoniare l’urgenza con cui questi poeti vivevano il problema delle forme linguistiche. Certo era difficile liberarsi dell'eredità, anzi della presenza montiana: ben lo seppe, prima d’ogni altro, il Manzoni. I poemi, canzoni, inni del Monti non offrivano un vivido, fortunatissimo
esempio di quella poesia d’intervento? cui aspiravano i romantici? Ma occorreva mutarne il segno in nome di una ben più matura coscienza civile e di una moralità più intimamente rivissuta. Dalla letteratura d’occasione bisognava passare alla letteratura impegnata: e sì procedette
per tentativi. A cominciar dal Manzoni, i poeti romantici presentano una evoluzione laboriosa,
condotta per tappe successive, tra inquietudini e ripensamenti, nell’ansia di fissare un modello definitivo al quale attenersi. Nell'insieme essi configurano una vasta area di sperimentalismo dove è sin troppo facile notare i cospicui margini d’incertezza e i residui passatisti. La spada resta sempre il brando o l’acciaro, il vecchio è il veglio, il gelo è l’algore; dissolte le ornamentazioni mitologiche, subentra la retorica del patetismo; vien meno il gusto per le similitudini accuratamente rifinite ma non certo quello per i sonanti effetti oratori. Tuttavia sarebbe sbagliato interpretare queste oscillazioni in chiave di contrasto tra una spinta all'espressione realistica e l’invincibile ritrosia per i toni prosastici. I termini della questione sono diversi e più complessi: ne abbiamo conferma proprio sul piano in cui le scelte effettuate hanno carattere di più audace coerenza, quello metrico. Il prestigio degli Inni sacri e delle odi manzoniane orienta verso una preferenza per i versi parisillabi, ottonario decasillabo dodecasillabo. Alla complessa modulazione sinfonica della canzone petrarchesca si sostituiscono le cadenze facili, energicamente ritmate; abbandonate le grandi unità strofiche, prevalgono i raggruppamenti di quattro od otto versi, spesso collegati dalla rima tronca finale: siamo in una dimensione analoga a quella della canzonetta settecentesca, ma invece di una musicalità tenue ed elegante troviamo una scansione quasi da marcia o marcetta militare. Le strutture formali adottate dai romantici appaiono dunque più semplici e disinvolte, ma non per questo più aperte: anzi, molto regolate. Mentre il Leopardi procede alla distruzione della vecchia metrica in nome di una nuova maggior libertà di movimenti poetici individuali, i lombardi, sulla scia del Manzoni, tendono tutti a sliricarsi. La direzione più chiaramente indicata dal caposcuola è quella della coralità epica: ma, a dispetto degli illustri esempi forniti, essa non riesce ad affermarsi per intero. L’irresolutezza induce a conciliare, o tentar di conciliare, l’epico e il lirico: nell’ambito di questa mescolanza una particolare, fortunata soluzione viene esperita con la ballata, come la forma più agevole di sviluppo d’un motivo sbrigliatamente fantastico. In concorrenza con la ballata si diffonde però largamente anche la novella in versi: e qui ci si attiene alla forma classicamente chiusa dell’ottava di endecasillabi. Entrambi questi metri possono essere accomunati sotto un indice di poesia narrativa, o meglio romanzesca. Ma i nostri scrittori avevano l’occhio non tanto al realismo prosastico quanto al teatro, allo spettacolo. A dispetto della qualità artistica dell’Adelchi e del gran successo di pubblico della Francesca da Rimini del Pellico, i romantici non riuscirono a imporre la loro presenza sulle scene. Eppure questa era una delle loro maggiori ambizioni, in quanto essi intendevano pienamente l’importanza della rappresentazione ai fini del contatto con un largo pubblico, cui infondere profonde emozioni. Ma questa parte del programma romantico sarà svolta dal grande melodramma ottocentesco, da Bellini Rossini Verdi. I poeti rinunceranno a quella forma
di immediato appello alla collettività che è il teatro. Trasferiranno però la preoccupazione scenica nella pagina destinata alla lettura, che ne sarà segnata in modo sostanziale: La costruzione del personaggio poetico mira infatti a stimolare i processi di proiezione e identificazione da parte del lettore-spettatore: lo scrittore si rivolge alla nostra sensibilità, chiaman-
doci a partecipare immediatamente alle vicende evocate nelle suadenti cadenze del verso. Di
più, egli guida in modo esplicito le nostre emozioni, ricorrendo a vere e proprie didascalie per
indurci a soffermar l’attenzione sui passi decisivi. E la struttura del componimento è tutta impron-
tata a una esigenza d’ordine scenico: dalla definizione ambientale scatta il movimento narrativo che approda alla scena madre e si risolve nella perorazione conclusiva. Ne daremo a suo luogo 2. curialeschi: aulici. 3. poesia d’intervento: poesia che intervenisse sulla realtà contemporanea.
Scrittori italiani dell’età romantica
461 esempi particolareggiati: per ora basti notare che la poesia romantica è essenzialmente una poesia recitata, cioè destinata all’ascolto pubblico, non alla lettura mentale privata. Questo è uno degli aspetti basilari della sua democraticità; e qui è la fonte della sua energia drammatica, derivata da un procedimento di personificazione teatrale delle passioni. L'indagine dei contenuti conferma queste asserzioni, facendoci assistere alla messa in scena di un clamoroso confronto tra sentimenti pubblici e affetti privati. Da un lato vediamo l’idolizzazione* dell’ardore civico, della fedeltà alla propria terra, del fiero senso di una combattiva libertà: ecco la mitologia medievalistica, assieme all’incitamento alla lotta antiaustriaca. Dall'altro lato i tormenti e le speranze d’amore, con il loro prepotente esclusivismo: ed ecco gli eroi e le eroine che incarnano le ragioni del cuore e se ne consumano sino al delirio. Siamo sul piano del melodramma: ma tra i due momenti tematici interviene una mediazione nuova, offerta dal motivo della famiglia. Il naturale trasporto amoroso si santifica, inducendo alla creazione di una nuova cellula da inserire nel tessuto della collettività; a sua volta il sentimento patrio viene sublimato in quanto significa difesa di una comune tradizione e di una presente realtà di affetti umanamente incoercibili. L'ordine così stabilito è conforme ai più veri dettami della religione, che ne può venir assunta a suprema garante: Dio, famiglia, patria. Prende corpo un nuovo ideale umano: il cittadino attivamente inserito nella vita del suo popolo, non a dispetto ma proprio in ragione della sua ricchezza di affetti personali, che lo inducono a sentirsi altamente responabile di quanto compie sia nella vita pubblica sia nella privata, obbe- _ dendo sempre alla stessa istanza morale. Da ciò l’attenzione concessa, più che ai valori politici, a quelli regolanti i rapporti intersoggettivi nell’ambito della società civile: onore, dignitosa lealtà, rispetto reciproco. Fondato su tali basi, il concetto di eguaglianza non ha alcuna implicazione politica; in compenso, quello di libertà assume una forte carica antiautoritaria. L’oppressione tirannica viene sentita come attentato all’intima personalità di ciascuno, poiché limita e offende l’ambito in cui son chiamate a realizzarsi le più sacrosante esigenze sentimentali. L’etica familiare sanziona dunque la lotta per l’indipendenza e il diritto di autodeterminazione del popolo-nazione. Ma proprio questa etica determina anche il ferreo limite delle intenzioni rinnovatrici, perché chiama in causa il senso del peccato. I nostri poeti provano un vivace interesse per la condizione femminile, la più rigidamente definita dalla moralità tradizionale. Vogliono riscattare la donna dalla sua minorità, facendola entusiasticamente partecipe degli ideali liberali e patriottici. Ma nello stesso tempo ne ribadiscono con intransigenza la vocazione domestica. Mentre riscoprono la femminilità come spontanea effusione degli istinti affettivi, la fan soffrire e languire in nome di una norma di pudicizia inalterabile. Siamo ben lontani dalla sfrenatezza, dall’immoralismo dei romantici stranieri: quanto maggiore è la violenza degli appelli contro l’asservimento politico, tanto più gli scrittori italiani appaiono cautelosi® per ciò che attiene alla vita privata. da La poesia romantico-risorgimentale, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. VII, Garzanti, Milano 1969, pp. 965-968
4. idolizzazione: culto. 5. cautelosi: prudenti.
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SERGIO ROMAGNOLI Il romanzo storico, la prima letteratura di tipo moderno in Italia Il critico sottolinea le incertezze del romanzo storico nella conquista di un linguaggio medio, che si rapportasse al livello culturale del pubblico borghese. Raspetto all'organizzazione culturale, è la prima letteratura di tipo moderno in Italia, perché raggiunge un pubblico più vasto e presuppone una struttura editoriale già industriale.
Il romanzo storico, frattanto, sia che si volgesse a provvedere al diletto sia che mirasse alla
grandezza dell'animo ed al progresso dei costumi, stava entrando profondo nel costume della borghesia italiana, destava consensi ed entusiasmi che altri prodotti della letteratura non avevano conosciuto tanto vasti, si diffondeva in maniera insperata nonostante l'incertezza con cui La critica
462 i suoi autori provvedevano a comporne la prosa. La maggior parte d’essi era di origine settentrionale: lombardi, piemontesi, soprattutto, e veneti e liguri e toscani quindi, ma per tutti la questione era identica. Attratti dalla vicinanza con gli storici contemporanei verso una lingua letteraria d’impronta classicistica e collegata all’illustre tradizione storiografica che affondava le sue radici nei secoli, maestri il Machiavelli e il Guicciardini, essi tendevano tuttavia a disco-
starsene per raggiungere una prosa che risultasse eloquente, suasiva attraverso la conquista di un difficile tono medio. Non disdegnavano, però, per dar colorito, imprestiti dialettali e ricostruzioni arcaicizzanti in un’ingenua ricerca documentaria; avevano scoperto, inoltre, l'efficacia
dei dialoghi vivi e drammatici che il teatro veniva loro offrendo dalle pagine schilleriane, soprattutto, e da quelle dei tragici italiani della loro generazione, tra i quali il Pellico e il Niccolini. Ma, affannati sempre più, dopo il 1827, dietro le orme linguistiche del Manzoni, incappavano, dopo alcuni anni di libera lievitazione letteraria del proprio linguaggio regionale, nell’equivoco del toscano moderno, che sembrava donare, a chi avesse saputo usarne gli strumenti, vivezza e spontaneità; ad esso, inoltre, mescolavano tutte le forme impure che pullulavano nei volgarizzamenti dal francese e dall'inglese e ancora mal digerite dal patrimonio linguistico nazionale. E tuttavia, questa produzione abbondante sortirà l’effetto di porgere, accanto al capolavoro manzoniano, esempi più o meno approssimativi e improvvisati di una lingua comune, familiare e media, di un’espressione letteraria riserbata necessariamente alle classi colte ancora una volta, ma capace di rappresentare abbastanza veracemente il livello culturale cui era salita la borghesia dopo la Restaurazione e nel momento in cui s’accingeva ad accettare la rinnovata autorità politica della Francia e insieme la sua cultura arricchita dalle giovani potenti personalità di Hugo e di Balzac. La società italiana era, dunque, soggetta alla popolarità nuova del romanzo storico, quella medesima popolarità che aveva, in fondo, attirato anche il Manzoni. Questo genere letterario era nato pur esso sotto il segno della modernità, intendeva anch’esso ripudiare il chiuso recinto dell’arte aulica, ma dell’«utile» romantico! non gli riuscì, in sostanza, che a interpretare gli aspetti più grossi ed estrinseci. Rimase un genere minore, destinato a tramontare nel dileggio, ma certamente fu, sotto il riguardo dell’organizzazione culturale, la prima letteratura di tipo moderno in Italia; a Milano, a Torino, a Firenze, molti editori nel suo nome si adeguarono a strutture industriali che furono per lungo tempo efficienti. I famosi cinquemila franchi (12 mila lire austriache) guadagnati dal D’Azeglio con la prima edizione del suo Ettore Fieramosca nel 1833 (e non eran poi molti, nemmeno a que’ tempi, e d’altronde [ Lombardi alla prima crociata procurarono venti o trentamila lire al Grossi nel 1826) non furono affatto un’eccezione, perché, non foss’altro, le traduzioni dallo Scott, oggetto di contestazione legale fra editori, avevano già reso molto denaro; quei franchi sono il segno, piuttosto, di come, agli inizi del quarto decennio del secolo, si venisse considerando un certo prodotto letterario che non era più l’almanacco, la strenna popolare, l'opuscolo educativo (pressoché unici a godere grosse tirature prima del romanzo storico), ma un pregiato oggetto di consumo intellettuale della borghesia italiana. da Narratori e prosatori del Romanticismo, in Storia della letteratura italiana, cit., vol. VIII, Garzanti, Milano 1968, pp. 33-34
1. dell’«utile» romantico: uno dei canoni della poesia romantica, insieme al «vero» e all’«interessante»; confrontare Lettera sul Romanticismo di Manzoni, T122.
Scrittori italiani dell’età romantica
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CESARE SEGRE Significato del dialetto nella poesia di Porta e Belli _ Per il critico l’importanza centrale della poesia di Porta è un processo di immedesimazione con ‘ personaggi popolari, che acquista alla letteratura temi prima ignorati. Belli si colloca sulla scia di Porta, ma, scrivendo a Roma, attribuisce ai suoi popolani una filosofia rassegnata.
Da esperimenti della convenzione dialettale!, e da suggestioni venete (Goldoni?), il Porta giunge, col dialetto, ad un rapporto immediato con l’uomo. Non più la satira sottile, elegante, ancora settecentesca del Parini; ma l’evocazione, attraverso personaggi dolorosamente vivi, della società contemporanea. Appaiono nel Porta i travagli della regione più progredita d’Italia sotto la dominazione francese e sotto la restaurazione austriaca: vengono bollati gli egoismi nobiliari, i formalismi di una religione decaduta. E questo accostando stridentemente l’italiano dialetizzato dei nobili, il latino maccheronico? dei frati. Ma l’impostazione centrale della poesia del Porta, dei suoi grandi poemi, è fondata su un processo di immedesimazione. Se il Beolco* si travestiva da Ruzante e prendeva sulle spalle la grossolanità e la tragedia del povero contadino, ora il Porta, narrando in prima persona vicende toccate a elementi dell’infima borghesia, artigiani, prostitute, riesce a traguardare la realtà attraverso la loro rassegnazione o la loro velleitaria ribellione. Si acquistano così alla letteratura italiana classi sociali e temi umani che essa aveva ignorato o trattato con distacco. L'impegno etico, che negli innovatori illuministi rimaneva sfoggio e lusso delle classi più elevate, è portato nella dimensione nuova dell’uomo qualsiasi, del diseredato, del dominato (quello che solo dopo oltre un secolo doveva acquistare il diritto di voto): viene abbattuto ogni limite ai diritti di rappresentazione della poesia. Il Porta finiva così per incontrarsi con la tematica dei romantici, di cui si fece fautore: col loro umanitarismo, la loro interiore religiosità e la loro democrazia. Naturale che i romantici favorissero l’uso del dialetto, i classicisti lo avversassero: il senso storico, l'apertura umana, il populismo* dei primi fronteggiavano l’accademismo pseudo-illuministico dei secondi. Quando il Giordani attaccò il Cherubini* per la sua edizione di poeti milanesi, fu il Porta a ribattere. Sulla scia del Porta è il Belli. Anch’egli attua un procedimento di identificazione, e anch’egli, per bocca di popolani, mette in luce tutte le crepe di una società egoista e conservatrice. Ma il Belli, scrivendo a Roma, nella roccaforte dell’oscurantismo, dove le notizie dei tentativi di rinnovamento della Lombardia (o di Napoli) assumevano un colorito favoloso; scrivendo in una città dove i privilegi e le ipocrisie duravano da secoli, senza mutamento, attribuisce giustamente ai suoi popolani una filosofia di sorridente rassegnazione (del resto, il Belli stesso era un inveterato conservatore). I protagonisti del Belli sono meno drammatici di quelli del Porta perché nella ribellione verbale scaricano ogni impulso all’azione; su di essi, anzi, finisce per riversarsi la corruzione dei dominatori, confondendoli con essi. (E la forma conclusa ed epigrafica del sonetto, ottima per incastonare una battuta o un'immagine, sembra un rifiuto al discorso razionale, all’estensione temporale delle riflessioni). da Polemica linguistica ed espressionismo dialettale nella letteratura italiana, in Lingua stile e società, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 403-405
1. convenzione dialettale: l’autore allude alla tradizione dialettale che risale a Domenico Balestrieri, poeta dialettale milanese (1714-1780). Amico di Parini e Imbonati, fu tra i restauratori dell’Accademia dei Trasformati. Lasciò, fra le altre cose, La Gerusalemme liberata travestita in lingua milanese. 2. latino maccheronico: parodia del latino classico con parole italiane o dialettali latinizzate e con struttura grammaticale latina.
| 3. Beolco: Angelo Beolco, detto il Ruzzante dal nome del | personaggio delle sue commedie da lui interpretato. Nac| que forse a Padova nel 1502 e morì nel 1542. Scrittore e | attore, ebbe una rilevante cultura letteraria. | 4. populismo: simpatia per il popolo come portatore di valori positivi (cfr. M26). | 5. Cherubini: Francesco Cherubini (1789-1851) pubblicò | una Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese e un vocabolario milanese-italiano.
La critica
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GIUSEPPE NICASTRO Teatro e società negli anni del Risorgimento Il critico sottolinea gli stretti rapporti tra teatro e Risorgimento, m quanto il genere drammaaspitico, più direttamente condizionato dal rapporto col pubblico, è l'interprete pù immediato delle élite. di fatto un mente sostanzial rimane teatro il razioni del tempo. Tuttavia
Condizione preliminare per uno studio del teatro nel primo Ottocento è la definizione dei rapporti fra teatro e Risorgimento, fra il teatro cioè e gli avvenimenti politici che in quegli anni modificarono l'assetto della società italiana. Non c’è alcun dubbio infatti che il genere drammatico, condizionato, più delle altre forme di letteratura, dal rapporto con il pubblico, tendesse a diventare l’interprete degli ideali, delle aspirazioni e dei fatti del tempo. Ed era naturale che ciò avvenisse in forme più dirette ed immediate che in tempi normali, pur con i limiti che imponeva la cautela nei confronti della censura, particolarmente vigile durante la Restaurazione. Il Risorgimento dette impulso e vigore all'idea, che era stata dei maggiori drammaturghi del Settecento, di un teatro nazionale che offrisse all'Italia quel repertorio dai caratteri specifici e autonomi che le era sempre mancato. Ora quest’aspirazione è resa attuale e accresciuta dalla convergenza unitaria dei movimenti politici. Di fronte alla frantumazione del teatro regionalistico e all'invasione di quello straniero, il bisogno di una nuova fondazione drammaturgica è sentito dagli spiriti più avvertiti. A tale scopo, ci informa Manzoni, si ordinano società, si aprono concorsi, mentre a Firenze, nel 1859, si istituisce una cattedra di letteratura drammatica affidata a Francesco dall’Ongaro!. L’idea illuministica di un teatro nazionale si fonde con quella tipicamente romantica di un teatro popolare. Da ciò la scelta di argomenti tratti dalla storia d’Italia e, come voleva Mazzini, di fatti del
passato grandi, importanti e fecondi di un insegnamento morale, legati al presente da un nesso dialettico, secondo la lezione del teatro manzoniano. Esisteva poi un modo diverso, più semplice e immediato, di legare le vicende del proprio tempo a una rappresentazione scenica: ci riferiamo a quella produzione che sceglieva come argomenti fatti di cronaca contemporanea o episodi del passato che nascondessero riferimenti attuali. Ricordiamo, fra tante opere di quegli anni, alcune farse satiriche sulla figura di Radetzky, rappresentate nel ’48 a Milano da un vecchio attore, Giuseppe Moncalvo; alcuni testi anonimi. dal titolo oltremodo significativo, Le cinque giornate di Milano e La resa di Peschiera; un Francesco Ferrucci del liberale Luigi Capranica del Grillo, rappresentato a Roma nel novembre 1848, La morte dei fratelli Bandiera e consorti in Cosenza (1844) dell’attore fiorentino Vincenzo Bellagambi, Il generale Ramorino del veneto Francesco Cameroni che metteva in scena il caso di tradimento del famoso generale (F. Doglio, Teatro e Risorgimento); e ancora Il falò e le frittelle (1860) del famoso attore Gustavo Modena (1803-1861), repubblicano e mazziniano fervente, che in questo «mistero faceto-lacrimoso» criticava l’Unità d’Italia raggiunta senza partecipazione popolare e senza libertà. Il teatro patriottico, ricco di testi dialettali soprattutto in Piemonte e in Lombardia, al momento dell'Unità si arricchiva di numerosi drammi e commedie sulle gesta dei garibaldini in Sicilia. Intanto il toscano Luigi Sufier (1832-1903), nella commedia I legittimisti in Italia (1861), rievocava con garbo, sullo sfondo del piccolo mondo antico della Toscana granducale, i contrasti fra legittimisti e rivoluzionari, mentre Vincenzo Padula? nell’ Antonello capobrigante calabrese (1864) esaltava l’azione dei fratelli Bandiera nel quadro di rivendicazioni sociali che costringevano i contadini al brigantaggio. : Il teatro patriottico si piegava a forme prevalentemente popolareggianti, incurante di una severa disciplina formale. L'aggettivo «popolare» perdeva quindi il significato originario che aveva presso i grandi romantici, per indicare un’arte inferiore, dal contenuto e dalle forme sem-
plici ed elementari. L’opera tragica di Manzoni, che peraltro non era riuscita a stabilire un rap1. Francesco dall’Ongaro: (1808-1873), fu tra gli scrittori | con novelle in versi di gusto byroniano, scrisse versi e il
più popolari del Risorgimento, autore di un testo dramma- | dramma qui citato fondò e diresse «Il Bruzio», settimanale
tico di vasta fortuna come Il fornaretto di Venezia (1855), | di orientamento democratico (1864-1865), su cui pubblicò di Stornelli italiani (1847 e 1862) dai temi patriottici e dalla | una serie di articoli sullo Stato delle persone in Calabria forma facile e cantabile. dove denunciò le misere condizioni delle plebi calabresi. 2. Vincenzo Padula: (1819-1898) scrittore calabrese; esordì
Scrittori italiani dell’età romantica
465 porto fecondo con il palcoscenico, rimase un’esperienza isolata, non più raggiunta nel desolante panorama della cultura teatrale romantica; l'aspirazione di Mazzini a una letteratura dalle forme nazionali e dal concetto europeo restò irrealizzata, mentre il teatro del Risorgimento si riempiva dei tentativi degli epigoni, incapaci di fondare una tradizione autenticamente nazionalpopolare, come era avvenuto in quegli anni in Germania con Lessing dapprima, con Schiller e Goethe dopo, in Francia con Hugo, Dumas, Vigny e Musset, perfino in Russia con Pu&kin e Gogol, ovunque sì fondava cioè un grande teatro borghese in grado di accogliere e di interpretare la realtà di una nazione moderna. I motivi di questa situazione sono da ricercare, oltre che nei limiti generali della nostra cultura romantica, nelle carenze croniche del teatro italiano, nella mancanza di una tradizione valida e attuale (gli stessi Goldoni e Alfieri chiudono un’epoca piuttosto che preludere a nuovi tempi), nella mancanza quindidi un linguaggio teatrale che non fosse quello della Commedia dell’arte, giunta ormai alle ultime manifestazioni, e del melodramma, nella mancanza infine di un pubblico in grado di accogliere e di apprezzare le nuove opere. Eppure in questo periodo si assiste a un fatto insolito nella storia del nostro teatro, alla formazione cioè di compagnie stabili sovvenzionate dai governi: la «compagnia dei Commedianti italiani ordinari di S.M.I.R.» al servizio del viceré Eugenio Beauharnais, costituita nel 1807 dal capocomico Salvatore Fabbrichesi, che nel 1815 passò a Napoli al servizio di Ferdinando IV di Borbone fondandovi la Compagnia Reale (1816-1826); la Compagnia Reale Sarda, fondata nel 1821 a Torino e rimasta in vita sino al 1853; la Ducale di Modena (1823-1831) diretta da Francesco Augusto Bon; la «Drammatica Compagnia» (1827-1846) al servizio della granduchessa Maria Luigia di Parma. La formazione di queste compagnie non sottrasse il teatro alla speculazione commerciale (Monaco) e non permise di stabilire un nuovo tipo di rapporti con il pubblico; il teatro rimaneva fondamentalmente un fatto d’élite, cui mancavano la partecipazione di un vasto pubblico e un repertorio valido. Basti pensare al fatto che l’autore più rappresentato dalla maggiore compagnia, la Reale Sarda, fu Alberto Nota, mediocre e scialbo commediografo. In mancanza di scrittori italiani contemporanei si ricorreva al repertorio tradizionale o ai più acclamati autori stranieri. Oltretutto l’azione di queste compagnie fu limitata nel tempo e non andò oltre l’Unità d’Italia. Né a migliorare la situazione contribuirono gli attori di quegli anni, da Gustavo Modena ad Adelaide Ristori, da Tommaso Salvini ad Ernesto Rossi (prima ancora avremmo dovuto ricordare Antonio Morrochesi, grande interprete alfieriano, Anna Fiorilli Pellandi, specialista di drammi lacrimosi, e Carlotta Marchionni, prima interprete della Francesca da Rimini di Silvio Pellico), che pur dettero rinnovato slancio all’arte della recitazione. L’attore professionista abbandonava infatti il ruolo tradizionale di «comico» e affrontava il repertorio tragico, immedesimandosi nel ruolo con uno studio lungo e metodico del personaggio (Pandolfi). Era l’idea di Gustavo Modena, già ricordato come autore, che aspirava, sulla scia di Mazzini, a un grande
teatro popolare che educasse soprattutto gli individui meno abbienti a un nuovo spirito di giustizia e di eguaglianza. Modena auspicava un dramma storico che fosse accolto da tutto il popolo, ma nei fatti il suo repertorio era costituito in gran parte da drammoni d’appendice. Le difficoltà in cui si muoveva il grande attore riflettevano in realtà le contraddizioni del teatro risorgimentale ed erano il segno tangibile del fallimento di un’intera politica culturale. da Il teatro nel Primo Ottocento, in Letteratura italiana, diretta da C. Muscetta, vol. 7, tomo II, Laterza, Bari 1975, pp. 211-213
C27
SERGIO LANDUCCI Le tre dimensioni della storia di De Sanctis Il critico individua le tre linee principali della ricostruzione storica di De Sanctis: dl progresso concezione moderna, scientifico-immanentistica; la decadenza morale e politica del popolo itauna di liano dal Rinascimento in avanti; l'avanzata della borghesia. La seconda costituisce una linea divergente rispetto al “progresso” della civiltà moderna, che per De Sanctis è il destino tragico dell’Italia. L'analisi mette in evidenza come dietro la ricostruzione storico-culturale vi sia il moralista e dl politico.
Le tre dimensioni della Storia di De Sanctis sono dunque queste: i progressi di una concezione scientifico-immanentistica! del mondo, la decadenza morale e politica di un popolo, la lotta 1. scientifico-immanentistica: che non ammette l’esistenza di un qualsiasi principio di trascendenza.
La critica
466 di due grandi classi sociali fino alla sua conclusione rivoluzionaria. Ed è evidente che, nella Sto-
ria, la prima e la terza di queste prospettive, la “intellettuale” e la “sociale”, vengonoa combaciare e in concreto si sovrappongono, mentre, di conseguenza, la prospettiva moralistica si presenta come una linea divergente, il cui contrasto con i “progressi” della civiltà-società moderna costituisce, agli occhi del De Sanctis, il destino tragico dell’Italia. Dramma che, mentre nella
Storia della letteratura sembra trovar soluzione con la rinascita moderna della “pianta uomo” a cavallo tra il Settecento e Ottocento, nei testi in cui (nel medesimo giro di tempo) il De Sanctis guarda agli stessi problemi en moraliste?, si presenta come ancora angosciosamente aperto, come l’eredità di una scissione non ancora pacificata che un passato trisecolare fa pesare sul giovane Stato appena risorto: “L'uomo del Guicciardini vivit, timo in Senatum venit3, e lo incon-
tri ad ogni passo...”. Questo riferimento è essenziale per comprendere lo schema della Storia, giacché tale schema, nelle sue linee generali già vecchio e già presente nel De Sanctis fin dai tempi della sua prima scuola, nella sua forma più matura, nella forma più tipicamente “desanctisiana”, sorse sotto la suggestione di due “scoperte” compiute dal nostro autore contemporaneamente (nel 1869): la scoperta di Machiavelli come del fondatore dell’atteggiamento “scientifico” e realistico che definisce l’uomo “moderno”, e la scoperta dei Ricordi guicciardiniani come del testo che consegnava ai posteri, già compiutamente delineata, l’immagine di quel tipo di ethos* che aveva condotto l’Italia alla perdizione. Donde, da un lato, il superamento di slancio della “quistione posta male” individuabile nella domanda tradizionale se il pensiero di Machiavelli sia stato “morale od immorale” e la conclusiva presentazione di Machiavelli come, diremo oggi, “scopritore di nuovi valori”; donde, d’altro lato, quel tono di scoperta di qualcosa a lungo cercato, di un documento storico che potesse finalmente far luce sul paradosso di “un secolo chiamato del risorgimento”, e che fu pure quello della nostra decadenza”, che anima l’inizio del saggio sul Guicciardini. A un certo punto, quindi, nel discorso desanctisiano, Machiavelli e Guicciardini tendono a presentarsi come due simboli, come indicazioni compendiose delle due linee di sviluppo che, dal Cinquecento in poi, segnano il destino della storia italiana: rinascenza - nuova scienza e decadenza. Se questo è il “nodo” della Storta, c'è però da osservare che il De Sanctis lo tien saldo come termine di riferimento di tutto il suo discorso già precedentemente al momento in cui si trova a doverlo presentare compiutamente. Egli parla del Trecento e del Quattrocento con lo sguardo rivolto alla crisi cinquecentesca e quasi con un’impazienza di spiegarla anticipatamente; tanto è vero che, di fronte al Boccaccio di De Sanctis, ci si trova già dinanzi al duplice annunzio tanto del rinascimento laico e mondano, quando di quel prevalere dell’interesse privato sull’interesse pubblico, che alla lunga, porterà a morte la nazione italiana. E qui la prima grande svolta della storia (“Non è una evoluzione, ma è una catastrofe, o una rivoluzione...”, SL 314); ed essa ha appunto, come si è accennato, due lati: ... COSe serie sono in queste novelle, l'apoteosi dell’ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare da’ più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de’ baroni e de’ conti. Questi sono i caratteri di quella classe a cui apparteneva il Boccaccio.
Ma, d’altro canto, in Boccaccio spento è... il cristiano, e anche il cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e dare a lei l’ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il provvedere al proprio sostentamento. Dietro al cittadino comincia a comparire il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria$, e non lo tiri per forza di casa o di bottega... (SL 328).
E qui che, ancora una volta, emerge tutto il “sismondismo” di De Sanctis”.
Quando egli conclude: “Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro”, ecco altri due nomi che immediatamente acquistano il valore simbolico di due “numi” di opposte 2. en moraliste: da moralista. Rinascimento. 3. vivit, imo in Senatum venit: traduzione: «Vive, anzi | 6. industria: attività economica. viene in Senato». 7. “sismondismo” di De Sanctis: il Sismondi nella Sto4. ethos: costume, disposizione morale. ria delle repubbliche italiane del Medio evo aveva esaltato
5. risorgimento: De Sanctis usa il termine nel senso di | le virtù civili dei comuni italiani (cfr. C22, nota 4).
Scrittori italiani dell’età romantica
4167 civiltà: ib: cittadino î e il “buon borghese”. Ma il “cittadino” non è se non l’uomo del Comune
(ed è questo il termine di riferimento storico, definito in termini del tutto sismondiani, usato dal De Sanctis): | De guelfi e ghibellini è perduta la memoria, tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato. E non si persuade come Dante siasi potuto mescolare nelle pubbliche faccende... L’età eroica era passata; la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de’ padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora volgarità, e non è più grandezza; della religione, della libertà, dell’uomo antico c'erano ancora le forme, ma lo spirito era ito8. Di vita pubblica qualche apparenza era ancora in Toscana, sede della coltura; nelle altre parti era vita di corte. L’erudizione, l’arte, gli affari, i piaceri costituivano il fondo di questa nuova società borghese e mezzana?, della quale ritratto era il Boccaccio, gioviale, cortigiano, erudito, artista... da Cultura e ideologia in F. De Sanctis, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 315-317 là
8. ito: sparito. 9. mezzana: di grado sociale intermedio.
Bibliografia Studi critici sul Romanticismo italiano
K. R. GREENFIELD, Economia e liberalismo nel Risorgimento (1934), trad. it., Laterza, Bari 1940; G. DE RUGGIERO, L’età del Romanticismo, Laterza, Bari 1943; U. Bosco, Realismo romantico, Caltanissetta-Roma 1959; V. BRANCA, Introduzione a «Il Conciliatore», Le Monnier, Firenze 1965; M. FUBINI, Romanticismo italiano, Laterza, Bari 1971; L. DERLA, Letteratura e politica tra la Restaurazione e l'Unità, Vita e Pensiero, Milano 1977; M. PUPPO, Poetica e critica del Romanticismo italiano, Studium, Roma 1985; M. PuPPO, voce Romanticismo.in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, Utet, Torino 1986, 2° edizione riveduta.
Per i testi sulla polemica classico-romantica in Italia, cfr.: I mamifesti romantici, a cura di C. Calcaterra, Utet, Torino 1951; Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), a cura di E. Bellorini (reprint a cura di A. M. Mutterle), Laterza, RomaBari 1975.
Bibliografia
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469
| ALESSANDRO MANZONI |
(1) La vita I primi anni
Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria, uno dei ‘più illustri rappresentanti dell’Illuminismo "lombardo. Separatisi ben prestoigenitori, trascorse la fanciullezza e la prima adole-
scenza, sino al1801, in collegi retti da padri Somaschi e Barnabiti, dove ricevette la tradizionale educazione classica, ma coricepì anche una profonda avversione per imetodi. pedagogici e l’arido formalismo religioso di quegli ambienti. Uscito dal collegio a sedici anni, nutrito di idee razionaliste e libertarie, si inserì nell'ambiente cul-
turale milanese delperiodo napoleonico, strinse amicizia coi profughi napoletani Cuoco e Lomonaco, frequentò poeti già famosi come Monti e Foscolo. Conduceva vita gau-
dente, tra il gioco e le avventure galanti, ma si dedicava anche intensamente al lavoro
A Parigi
L’amicizia con Fauriel
La conversione
Il ritorno in Italia
intellettuale, scrivendo parecchie opere poetiche nel gusto classicistico dell’epoca. Nel 1805 lasciò la casa paterna e raggiunse la madre a Parigi, dopo la morte di Carlo Imbonati, l’uomo con cui ella aveva vissuto dopo la separazione dal marito. Tra il figlio e la madre, che si conoscevano ben poco, nacque un rapportoo affettivo molto intenso , destinato a segnare profondamente la vita successiva dello scrittore. A Parigi, il giovane Manzoni entrò in contatto con gli‘‘ideologi’’ un gruppo di intellettuali che erano gli eredi del patrimonio illuministico. Le posizioni liberali ed il rigore morale di questi intellettuali (de Tracy, Cabanis, Thierry, Fauriel) esercitarono un influsso determinante nella formazione delle idee filosofiche, politiche, morali e letterarie di Manzoni. Fauriel strinse con lui anche una profonda amicizia e, specie attraverso un fitto scambio di lettere durato diversi anni, divenne un importante punto di riferimento di Manzoni nel periodo più fecondo della sua attività di scrittore. A Parigi, il contatto con ecclesiastici di orientamento giansenista, vicini agli ideologi, incise anche sulla sua conversione religiosa. Sul suo ritorno alla fede cattolica Manzoni mantenne sempre uno stretto riserbo (lo stesso, d’altronde, con cui circondò abitualmente la sua persona, i suoi sentimenti, la sua vita privata). Pertanto è quasi impossibile ricostruirne le fasi interiori. Dovette essere determinante l’influsso della giovane moglie Enrichetta Blondel, che proprio a Parigi si convertì dal calvinismo al cattolicesimo. La conversione si accompagnò in Manzoni al primo manifestarsi di quelle gravissime crisi nervose che lo angustiarono per tutta la vita. Comunque, quando nel 1810 lasciò Parigi ritornando definitivamente a Milano, un profondo rinnovamento sì era compiuto1nella sua visione della realtà, che era ormai integralmente ispirata :al cattolicesimo. Il rinnovamento .coin-
Gli Inni Sacri
volse ‘anche l”attività intellettuale e letteraria: Manzoni abbandonò la poesia classicheggiante, lasciando incompiuti vari progetti, e si dedicò alla stesura di una serie di Inni sacri (1812-1815), che aprivano la strada ad una successiva serie di opere di orientamento romantico, nutrite di interessi storici oltre che religiosi. —Dopo ilritorno in Italia, Manzoni condusse l’esistenza appartata del possidente, Manzoni.
La vita
470
n
dividendosi tra la sua casa milanese e la villa di Brusuglio. La sua vita era dedicata
Manzoni e il Romanticismo lombardo
allo studio, alla scrittura, alle intense pratiche religiose, alla famiglia, che cresceva numerosa. Fu vicino al movimento romantico milanese, e ne seguì attentamente gli sviluppi (un gruppo di intellettuali si riuniva a discutere in casa sua), ma non partecipò direttamente alle polemiche con i classicisti e declinò l’invito a collaborare al «Conciliatore».
Un atteggiamento analogo assunse nei confronti della politica: di sinceri senti-
mentipatriottici ed unitari, seguì con entusiasmo gli avvenimenti del ’20-’21, ma non vi partecipò attivamente, e non fu toccato dalla dura repressione austriaca che ne Gli anni creativi
seguì. Sono questi gli anni di più intenso fervore creativo, in cui nascono le odi civili,
oltre alle Osservazioni laPentecoste, le tragedie, le prime due stesure del romanzo,
sulla morale cattolica, al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, ai saggi di teoria letteraria sulle unità drammatiche e sul Romanticismo. Ma
con la pubblicazione dei Promessi sposi, nel 1827, si può direconclusoilperiodo creativo di Manzoni. Lo scrittore assume un atteggiamento di distacco verso la formula stessa del romanzo storico, che gli aveva consentito di scrivere il suo capolavoro. Successivi tentativi lirici, come un inno sacro sull’Ognissanti, rimangono incompiuti.
Manzoni tende sempre più a rifiutare la poesia, considerandola Gli interessi storici,
filosofici, linguistici
falsità contro di al
vero storico e morale. Conseguentemente, approfondisce gli interessi storici, filosofici e Iinguistici. Lavora per anni, fino al 1840, alla terza redazione del romanzo, ma
con intenti ormai prevalentemente linguistici, secondo la tesi, elaborata nel frattempo, della fiorentinità della lingua italiana. L'amicizia con Fauriel è sostituita dall’amicizia con il filosofo cattolico Antonio Rosmini, che diviene la sua guida intellettuale.
In questi anni della maturità e della vecchiaia la sua vita è anche funestata da una
Manzoni e il Risorgimento
serie interminabile di lutti (la morte della moglie, della madre, di parecchi dei figli) e da dissapori famigliari (la condotta dei figli maschi). La sua figura di intellettuale è sempre più circondata di ammirazione, dopo il grandissimo successo del romanzo, che viene ristampato continuamente in tutta Italia (in edizioni per lo più “pirata”, non essendovi ancora tra i vari Stati italiani una convenzione sui diritti d'autore). Manzoni è ormai una figura “pubblica”, nonostante il suo atteggiamento sempre schivo e appartato. Durante le Cinque giornate, nel 1848, seguì con entusiasmo gli eventi politici, pur senza parteciparvi direttamente, e diede alle stampe l’ode patriottica Marzo 1821, tenuta per anni nascosta. Costituitosi il Regno d’Italia nel 1860, fu nominato senatore. Pur essendo profondamente cattolico, era contrario al potere temporale della Chiesa, e favorevole a Roma capitale: nel 1861 votò a favore deltrasferimento della capitale daTorino a Firenze, come la conquista della città da parte delle dopo 1872, nel Roma: verso tappa intermedia truppe italiane, ne accettò la cittadinanza onoraria, con scandalo degli ambienti cattolici più retrivi. Negli anni della sua lunga vecchiaia Manzoni fu circondato dalla venerazione della borghesia italiana, che vedeva in lui non solo il grande scrittore, ma anche un maestro, una guida intellettuale, morale, politica. Soprattutto il suo romanzo fu assunto nella scuola con tale funzione. Morì a Milano nel 1873, a 88 anni; gli furono tributati solenni funerali, alla presenza del principe ereditario Umberto, e fu sepolto nel cimitero monumentale.
2. Prima della conversione: le opere classicistiche Tra il 1801 e il 1810, cioè tra i sedici e venticinque anni, Manzoni compone opere
perfettamente allineate con il gusto classicistico allora dominante. Si tratta di opere scritte nel linguaggio aulico e con l’ornamentazione retorica della tradizione, fitte di rimandi mitologiciedotti, nello stile della poesia montiana e foscoliana che conoIl Trionfo della libertà
sciamo. Già nel 1801 scrive una “visione” allegorica in terzine, il Trionfo della libertà,
che si richiama ad un genere consacrato dal Monti, poeta in quel momentoal massimo della fama. Anche nella materia il poemetto risente del clima del tempo: colmo Manzoni
471 L’Adda e i Sermoni
f Il Carme
in morte di
È Carlo Imbonati
Urania sia
A Parteneide
Il distacco dal classicismo
di spiriti libertari, inneggia alla Rivoluzione francese e si scaglia contro la tirannide politica e religiosa, ma già rivela disillusione e amarezza dinanzi al fallimento degli ideali rivoluzionari traditi da Napoleone. Seguono l’Adda, poemetto idillico, indirizzato a Monti, e quattro Sermoni, in cui, prendendo a modello Parini, il giovane poeta polemizza con aspro moralismo contro aspetti del costume contemporaneo. Del 1805 è il Carme in morte di Carlo Imbonati. Riprendendo un modulo classico molto ripetuto, Manzoni immagina che l’Imbonati, che egli ammirava come un padre, gli appaia in sogno dandogli nobili ammaestramenti di vita e di poesia. In questo componimento, dalla delusione storica del giovane Manzoni si può veder nascere l’ideale del «giusto solitario», che si ritrae dinanzi al caos della storia contemporanea, e si rifugia aristocraticamente nella propria virtù e nella propria sdegnosa solitudine, dedicandosi al culto delle lettere: un atteggiamento che risente fortemente di Alfieri e di Foscolo. Ma vi si può già cogliere un presentimento del Manzoni futuro, nella convinta affermazione della sincerità e del rigore morale che deve ispirare la scrittura letteraria («Sentir [...] e meditar»; «il santo Vero mai non tradir»). Nel 1809 compone ancora un poemetto, Urania, che tratta un tema caro alla cultura neoclassica - gli uomini primitivi iniziati alla civiltà dalle Muse - già trattato dal Monti nella Musogonia (e che ben presto sarà affrontato da Foscolo nelle Grazie). A Parteneide è invece una risposta al poeta danese Baggesen, con cui Manzoni si scusa di non poter tradurre il suo idillio borghese Parthenais. Appena pubblicate queste ultime opere, tuttavia, Manzoni manifesta subito il suo scontento. Scrivendo a Fauriel, definisce A Parteneide «balivernes» (sciocchezzuole), e afferma che in futuro comporrà forse versi peggiori, ma mai più simili a quelli, a causa della loro «man-
canza assoluta d’interesse ». E il sintomo di un distacco dal gusto e dalla cultura classicistici; Manzoni ne avverte ormail’esaurimento, e sente il bisogno di una letteratura nuova, negli interessi come nel linguaggio. Abbandona quindi il progetto di un poema idillico sulla «vaccina» (cioè sull’innesto del vaiolo), eper tre anni non scrive nulla. E quando riprende a comporre, scrive gli Inni sacri, un genere dipoesia radicalmente diverso.
a Dopo la conversione: gli Inni sacri e altre liriche {
PRA ‘ Le Osservazioni sulla \. morale cattolica
/ La conversione e la — concezione della storia
La conversione fu per Manzoni un fatto totalizzante, che investì a fondo tutti gli aspetti della sua personalità. Ne sono una prova eloquente le Osservazioni sulla morale cattolica (1819), scritte per controbattere le tesi esposte dallo storico ginevrino Simonde de Sismondi nella Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo, e cioè che la morale cattolica è stata la radice della corruzione del costume italiano. Dalle argomentazioni di Manzoni traspare una fiducia assoluta nella religione come fonte di tutto ciò che è buono e vero, come punto di riferimento per ogni tipo di scelta, nel campo morale, politico, intellettuale. È inevitabile perciò che la svolta interiore segnata dalla conversione giochi un ruolo determinante nella svolta letteraria di Manzoni. L’approdo al cristianesimo è lo sbocco di un processo che aveva messo in crisi non solo scelte esistenziali, ma orientamenti ideologici e culturali.Inprimo luogo ciò può essere verificato nella concezione della storia. Una lunga tradizione di classicismo aveva visto nel mondo romano l’antecedente diretto della cultura moderna, e vi aveva scorto un modello supremo
di civiltà in tutti i campi, quello politico e civile, quello letterario, quello artistico. L'adozione di una prospettiva cristiana induce invece Manzoni ad un atteggiamento
risolutamente anticlassico: iRomani, egli sostiene, lungi dall’essere modelli di virtù,
furono un popolo violento, feroce e oppressore, animato da superbia e disprezzo per il resto del genere umano. Per contro, nasce in lui un nuovo interesse per il Medio la vera matrice della civiltà moderna. Da questo ripudio Evo cristiano, visto come anche, in Manzoni, un rifiuto della concezione eroica scaturisce classica visione della
ed aristocratica che celebra solo i grandi, i potenti, i vincitori, ed un interesse per
i vinti, gli umili, Ie masse ignorate dalla storia ufficiale.
Le opere
472
»
La nuova ottica cristiana influenza profondamente anche la concezione manzo-
La concezione della letteratura
niana della letteratura. Diviene centrale per Manzoni il problema della caduta, del
male radicato nella storia, della miseria dell’uomo incline inevitabilmente al peccato. Si forma in lui unavisione tragica del reale che non tollera più l’idillica serenità classica, il suo elegante distacco, il mondo fittizio delle belle favole mitologiche. Nasce che guardi al«vero» della condizione storica dell’uomo, di unaletteratura il bisogno
al di là di ogni finzione evasiva e di ogni convenzione artificiosa. Ne deriva il rifiuto‘
del formalismo retorico, dell’arte come esercizio ornamentale, come gioco fine a se stesso, il bisogno di un’arte che scaturisca da esigenze profondamente sentite, che affronti contenuti vivi nella coscienza, e si prefigga come fine non un ozioso diletto, ma l’«utile», nel campo morale come in quello civile. Scrive Manzoni nel Fermo e Lucia: «Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d’uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l’ultima delle professioni». Ì Erano motivi che andavano maturando in quegli anni nel gruppo di intellettuali milanesi che daranno ben presto vita alla scuola romantica. Proprio Manzoni, trac-
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L’«utile», il «vero», l’«interessante» vAder
ciando qualche anno più tardi un bilancio della battaglia romantica nella letteraa Cesare D'Azeglio (1823), fisserà in una formula sintetica i princìpi che muovono la ricerca letteraria sua e degli altri intellettuali: «L'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo». In effetti con la sua opera nel campo di la
lirica, delta poesia tragicae della narrativa romanzesca, Manzoni realizza nel modo più compiuto le esigenze di rinnovamento letterario che erano proprie del gruppo
romantico, e sia teoricamente, sia nel concreto della sua produzione artistica, elabora alpiù altogrado diconsapevolezza una nuova concezione della letteratura. Tutta
Gli Inni Sacri
Il rifiuto della mitologia
Ta produzione manzoniana, nei tre generi fondamentali - lirico, drammatico e narrativo - si presenta con un aspetto fortemente innovatore rispetto alla fisionomia della letteratura italiana del periodo neoclassico. La prima opera scritta dopo la conversione, gli Inni sacri, nati fra il 1812 e il 1815, fornisce subito l'esempio concreto di una poesia nuova, prima ancora che scoppi la polemica tra innovatori romantici e conservatori classicisti (1816). Per capire il valore di rottura di questi inni, basta pensare a qual era, in quegli anni, il modello poetico dominante: quello consacrato da Monti e da Foscolo, fondato sul culto del mondo antico, delle sue forme e del suo linguaggio, dall’adozione della mitologia clas-
sica come argomento per eccellenza. Manzoni rifiuta tutto questo, sentendo la materia mitologica e classica come repertorio ormai morto di temi ed espedienti formali, come qualche cosa di «falso», e decide di cantare temi che siano vivi nella coscienza contemporanea, aderenti cioè al «vero». Ne deriva una poesia che non si rivolge più alla cerchia iniziatica dei letterati, ma vuole avere un orizzonte «popolare», trattare.
ciò che èsentito da una larga massa di persone.-Per questo il poeta rinuncia all’ariIl carattere corale
I metri agili
X Carattere degli Inni
stocratico egocentrismo della poesia precedente (si pensi alla preminenza dell’io eroicamente atteggiato nella poesia alfieriana e foscoliana), e si propone quale semplice interprete corale della coscienza cristiana, si annulla nella comunità anonima dei fedeli che celebrano l’evento liturgico. Ciò si traduce nella particolare configurazione della forma poetica: Manzoni ricorre a metri dal ritmo agile e popolareggiante (settenari, ottonari, decasillabi), versi dal ritmo incalzante, che rendono il senso di fervore e di tripudio delle masse dei fedeli, e appaiono lontanissimi sia dalla solennità dell’endecasillabo classico, sia dalla leziosa grazia arcadica. Anche il linguaggio si libera dalle forme auliche del classicismo, senza tuttavia abbassarsi ad una dizione prosastica. Manzoni aveva progettato dodici inni, che cantassero le principali festività dell’anno liturgi Ma ne co. scrisse solo quattro, pubblicati nel 1815: La Resurrezione,
Il Natale, La Passione, Il nome di Maria. Un quinto inno, La Pentecoste, ebbe una
gestazione più travagliata, e fu condotto a termine solo nel 1822, passando attraverso varie stesure tra loro differenti. Ilmodello per gli Inni era offerto a Manzoni
dall’antica innografia cristiana, il materiale da un’ampia tradizione, che andava dai
Vangeli agli scritti dei Padri della Chiesa, agli oratori sacri del Seicento francese (Bossuet, Massillon, Bourdaloue), da Manzoni molto letti ed amati. I primi quattro Manzoni
473 inni, i più antichi, costruit sono isuuno schema fisso: enunciazione del tema, rievoca-
zione dell'episodio centrale, commento che affronta le conseguenze dottrinali e morali dell'evento. La Pentecoste, invece, nella redazione definitiva, rompe lo schema, met-
tendo da parte i motivi teologici e l’episodio, e insiste sul rivolgimento portato dallo Spirito nella sua discesa nel mondo, culminando in un’invocazione affinché esso scenda ancora sull’umanità.
Un’analoga forza di rottura possiede anche la lirica patriottrica e civile. Dopo
La lirica patriottica e civile.
due tentativi infelici di canzoni, Aprile 1814 e Il proclama di Rimini, lasciate interrotte, nel 1821 Manzoni compone l’ode Marzo 1821, dedicata ai moti di quell’anno
Marzo 1821
e allasperanza che l’esercito piemontese si riunisse agli insorti lombardi, e Il cinque maggio, ispirato alla mortedi Napoleone. Anche qui non resta più nulla delreperto-
{ Il cinque maggio
rio di immagini mitologiche, di riferimenti storici antichi, di figure retoriche della poesia civile classicheggiante. Viceversa, i fatti contemporanei sono visti nella prospettiva religiosa. In Marzo 1821 Dio stesso soccorre la causa dei popoli che lottano
per la loro indipendenza, perché opprimere un altro popolo è contrario alle sue leggi; nel Cinque maggio, l'alternanza di glorie e sconfitte della vicenda napoleonica è valutata dalla prospettiva dell'eterno, «ov'è silenzio e tenebra / la gloria che passò». Anche i cori inseriti nelle due tragedie (esamineremo a suo luogo la funzione attribuita ad essi da Manzoni) rientrano nella poesia lirica, e ne presentano le caratteristiche innovatrici. Vicino alle forme di Marzo 1821 è il coro del Carmagnola, che è una deprecazione delle lotte fratricide che dividevano il popolo italiano nel 400: la
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storia passata è vista da una prospettiva politica, riferita al presente. II primo coro
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dell’Adelchi è un esempio di poesia della storia, la ricostruzione delle vicende di quelle masse che la storia ha sempre ignorato, i Latini dell'VIII secolo, divisi tra due dominatori, Longobardi e Franchi. Manzoni va verso il passato con un autentico senso della storia, sollecitato dal bisogno di ricostruire la fisionomia inconfondibile di epoche lontane. Ma il passato è visto anche con l’occhio del presente, è affrontato per discutere i problemi politici dell’oggi (che sarà poi anche la soluzione del romanzo): il coro contiene infatti un ammonimento agli italiani, affinché non facciano affidamento su forze straniere per la loro liberazione nazionale. A parte si colloca il secondo coro, dedicato alla morte di Ermengarda: è la ricostruzione dei tormenti interiori dell’infelice eroina, ripudiata dal marito Carlo Magno, che cerca di soffocare la passione amorosa, ma è inesorabilmente sopraffatta dalla sua forza devastante, e trova una via di liberazione solo nella prospettiva dell'eterno. Compare anche qui la poesia della storia, nella rievocazione di due scene tipiche della vita medievale, la caccia e il ritorno del re dal campo di battaglia; ma è soprattutto poesia drammatica e psicologica, che presenta già in atto le doti del grande narratore.
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(4. Le tragedie fi
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La novità della tragedia manzoniana
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Come la lirica, anche la tragedia di Manzoni si colloca in posizione di rottura rispetto alla tradizione del genere. La novità si manifesta in due direzioni: la scelta
di luogo e di azione: i fatti si svolgevano nell’arco di una giornata, non vi erano mutamenti di scena, non si intrecciavano fra loro più azioni diverse. Manzoni invece, col
suo teatro tragico, vuole collocare i conflitti dei suoi personaggi in un determinato
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contesto storico, ricostruito con fedeltà. I princìpi che lo guidano sono esposti nella forma più chiara e sistematica in un ampio saggio, la Lettre à M. Chauvet sur l’umité de temps et de lieu dans la tragédie, concepito nel 1820 come risposta al critico J.-J. Chauvet che gli aveva rimproverato l'inosservanza delle unità, e pubblicato a Parigi, nel 1822, in francese, insieme con le sue due tragedie tradotte da Fauriel. In obbe-
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un tempo e uno spazio concreti; osservava inoltre rigorosamente l’unità di tempo,
La tragedia storica
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(Racine, Alfieri), anche quando metteva in scena personaggi ed eventi storici, is0lava l’azione in un mondo assoluto, fuori della storia, sottratto a ogni legame con
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della tragedia storica eil rifiuto delle unità aristoteliche. La tragedia classicheggiante
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Le opere
dienza al suo culto del «vero», Manzoni vi afferma di non voler «inventare dei fatti per adattarvi dei sentimenti», ma di voler «spiegare ciò che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto, mediante ciò che essi hanno fatto». Non c’è bisogno di inventare fatti, perché nella storia, in ciò che gli uomini hanno effettivamente compiuto, vi è, per Manzoni, il più ricco ed affascinante repertorio di soggetti drammatici. Per creare la poesia drammatica basta ricostruire un fatto storico nella dinamica interna
delle sue cause e dei suoi svolgimenti. Per questo il poeta deve essere fedele al «vero»
Vero e invenzione
storico, senza bisogno di prendersi arbitri inutili. Ciò che lo distingue dallo storico,
è che egli “completa” i fatti tramandati, investigando con l'invenzione poetica i pensieri e i sentimenti dichi è stato protagonista di quegli avvenimenti. La convinzione dell'eccellenza dei soggetti storici era stata radicata in Manzoni dalla lettura di Shakespeare, ed in specie dei suoi drammi storici: un autore che ripugnava al gusto classicistico, e che era stato esaltato dalla cultura romantica europea. A confermare le
convinzioni manzoniane contribuì anche la lettura delle tragedie storiche di Schiller e di Goethe, che risentivano dell’ammirazione per Shakespeare, nonché la lettura di opere teoriche del Romanticismo come il Corso di letteratura drammatica di Schlegel.
Proprio questo culto manzoniano del «vero» storico esclude l'osservanza delle unità
Il rifiuto delle unità aristoteliche
classiche. Chiudere lo sviluppo di un'azione in stretti limiti di tempo e di luogo, secondo Manzoni, costringe il poeta a esagerare le passioni, per far sì che i personaggi giungano in ventiquattr'ore alla risoluzione decisiva. Da questo nasce il «falso» della tragedia classicistica, ciòche Manzoni chiama il «romanzesco»: quella forzatura artifi-
ciosa dei caratteri e delle passioni, che non corrisponde alla «maniera d’agire» degli uomini nella realtà. Solo la libertà da regole artificiose per Manzoni consente di riprodurre il vero, di costruire caratteri autentici, individuali, nella gamma infinita delle loro sfumature. La falsità della tragedia, ritiene Manzoni, ha anche deleteri effetti morali, poiché gli uomini finiscono per applicare nella vita reale i princìpi e i sentimenti falsi visti sulla scena. Lo scrittore, in obbedienza alla sua rigida coscienza morale e alla sua concezione di una letteratura utile, che renda le cose «un po’ più come dovrebbono essere», è preoccupato dell’influenza che il teatro può esercitare. Solo un teatro che si ispiri al «vero» può per lui avere influssi positivi sul pubblico. Su questi temi Manzoni aveva meditato a lungo sin da quando aveva deciso di affrontare il teatro tragico, nel 1816. E le sue riflessioni avevano già trovato espressione in una serie di appunti, i Materiali estetici, lasciati inediti, e nella prefazione alla prima tragedia, Il Conte di Carmagnola. Scritta tra il 1816 ed il 1820, questa tragedia si incentra sulla figura di un capitano di ventura del Quattrocento, Francesco Bussone: al servizio del duca di Milano, ottiene molte vittorie, e giunge a spo-
Il Conte di Carmagnola
sarne la figlia; passa poi al servizio di Venezia, assicurandole una clamorosa vittoria su Milano nella battaglia di Maclodio. Ma, sospettatodi tradimento dai Veneziani \per la sua clemenza verso i prigionieri, viene attirato a Venezia con un falso pretee/sto, incarcerato e condannato a morte. Manzoni era convinto dell’innocenza del Conte Il conflitto tra l’eroe (tesi oggi confutata). La tragedia si regge dunque sul conflitto tra l’uomo d’animo puro e la ragion di Stato elevato, generoso e puro, e la ragion di stato, con i bassi intrighi machiavellici a cui dà origine. La tragedia affronta dunque un tema centrale della visione manzoniana, la storia umana come trionfo del male, a cui si contrappongono invano esseri incontaminati, destinati inevitabilmente alla sconfitta. Ma resta un tentativo poco riuscito, per la piattezza dei caratteri e la scarsa forza drammatica delle scene. :
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Lo stesso conflitto è al centro anche della seconda tragedia, Adelchi (1822), ma
viene svolto con ben altra forza drammatica. La tragedia mette in scena il crollo del regno longobardo in Italia nell'VIII secolo, sotto l’urto dei Franchi di Carlo Magno.
Manzoni era stato affascinato da quel remoto periodo storico, e soprattutto dalla sorte
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del popolo latino, oppresso dai Longobardi primae dai Franchi poi. Le ricerche sto-
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Manzoni
riche da lui compiute in materia avevano dato luogo ad un vero e proprio saggio storico, ilDiscorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, in cui Manzoni subiva l’influenza degli storici liberali francesi, soprattutto di Augustin Thierry, che aveva studiato non i popoli vincitori e dominatori, come era tradizione della storiografia, ma i vinti, gli oppressi.
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475 ‘ La vicenda
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Ermengarda,
figlia di Desiderio re dei Longobardi, è stata ripudiata dal marito Carlo
Magno, e torna dal padre. Questi vuol vendicarsi costringendo ilpapa Adriano a incoronare
re dei Franchi i figli di Carlo Magno rifugiatisi presso di lui. Giunge a Desiderio un messo di Carlo Magno che gli intima di restituire le terre sottratte al papa. Desiderio rifiuta e la guerra è dichiarata. Tuttavia i Duchi longobardi sono disposti a tradire. Carlo è bloccato alle Chiuse di Susa, ma il diacono Martino gli rivela un passaggio ignorato, che gli permette di aggirare le postazioni longobarde. Vani sono i tentativi di Adelchi di opporsi ai Franchi: i duchi traditori passano dalla parte di Carlo, e l’esercito longobardo è in rotta. Ermengarda si è nel frattempo ritirata nel convento di Brescia, per dimenticare l’«amor tremendo» per il marito; alla notizia delle nuove nozze di Carlo, è assalita dal delirio e muore. Un soldato ambizioso e traditore, Svarto, fa entrare le truppe dei Franchi in Pavia, capitale del regno longobardo. Adelchi resiste ancora a Verona. Desiderio è preso prigioniero. Giunge la notizia che Verona è caduta. Adelchi è portato in scena ferito e morente. Con le sue ultime parole, chiede al vincitore di essere pietoso verso il vecchio padre, e muore cristianamente.
5 I personaggi
——— _— La tragedia si incentra intorno a quattro personaggi: Desiderio, animato dalla
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volontà di vendicarsi di Carlo e di riparare il torto fatto al suo onore, e al tempo stessò
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. avido di potere e di conquiste; Adelchi, suo figlio, che sogna la gloria in nobili imprese,
e non riesce a realizzarle, in un mondo dominato solo dalla forza e dall’ingiustizia;
Ermengarda, che vorrebbe distaccarsi dalle passioni del mondo, ma muore devastata
dal suo «amor tremendo» per ilmarito; Carlo, che ha ripudiato Ermengarda eriesce
a tacitare ogni rimorso.in nome della ragion di Stato, presentandosi come «campione Personaggi politici e ideali
di Dio» nella difesa del papa aggredito dai Longobardi (cfr. M11). Si fa qui più evidente e più ricca di forza tragica la contrapposizione tra i personaggi “politici”, Desiderio e Carlo, animati solo dall’interesse della ragion di Stato e dalla passione di dominio, e i personaggi ideali, Adelchi ed Ermengarda, che, nella loro purezza, sono ina-
datti a vivere nel mondo esono destinati alla sconfitta, a trovare solo in un’altra vita la soluzione dei loro tormenti. I cori
Nelle sue tragedie Manzoni introduce il coro, una novità nel teatro tragico moderno. Manzoni stesso, però, nella prefazione al Carmagnola, precisa che esso non vuole avere la funzione posseduta dal coro nella tragedia greca: nelle tragedie antiche il coro era la personificazione dei pensieri e dei sentimenti che l’azione doveva ispirare; era cioè una sorta di spettatore ideale, che filtrava e idealizzava liricamente
Il «cantuccio» dell’autore
le passioni provate dal pubblico reale. Il coro manzoniano, invece, vuole costituire un «cantuccio» dove l’autore «possa parlare in persona propria», un momento lirico in cui lo scrittore possa esprimere la propria visione e le proprie reazioni soggettive
di fronte ai fatti tragici. In tal modo, pensava Manzoni, il poeta era sottratto alla tentazione di introdursi nell’azione e di prestare ai personaggi i propri sentimenti. Per Manzoni, cioè, la tragedia non deve essere effusione soggettiva, ma rappresentazione di caratteri e conflitti oggettivati, in nome sempre del «vero».
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Il classicismo rinascimentale
Le unità aristoteliche
La tradizione classicistica prescriveva che l’azione della tragedia non superasse la durata di ventiquattro ore e si svolgesse tutta nello stesso luogo, senza cambiamenti di scena. La regola delle unità era nata dal gusto classicistico del Rinascimento italiano e dal principio di imitazione dei classici che ne era il canone fondamentale. Secondo tale principio, ogni genere letterario doveva seguire precise regole ed imitare un modello antico. E poiché i grandi tragici greci usavano abitualmente concentrare l’azione nell’arco di un giorno e mantenere fissa l’azione, tali caratteristiche furono assunte come regole vincolanti assolute, valide per ogni tempo ed ogni luogo. A convalidare le regole fu proposta l’autorità di Aristotele, interpretando però in modo arbitrario le intenzioni del filosofo greco. In effetti Aristotele nella sua Poetica sottolineava con favore il rispetto delle unità nelle tragedie di Eschilo e Sofocle, ma si limitava semplicemente a constatare un fatto, una caratteristica storica e particolare del teatro greco, senza pretendere di dettare delle Microsaggio
476 Il classicismo francese del Seicento
I romantici
leggi valide in assoluto. L'obbligo delle regole fu poi rigidamente codificato dai trattatisti letterari del Cinquecento (specie nel clima di classicismo ad oltranza che è proprio della seconda metà del secolo) e seguito scrupolosamente dai poeti. Il principio delle unità fu consacrato definitivamente dal teatro tragico francese del Seicento, ed imposto come intangibile dai capolavori di Corneille e di Racine. Furono i romantici tedeschi, tra la fine del Settecento e l’inizio dell'Ottocento, a rifiutare la regola, opponendo ai classici il modello della tragedia di Shakespeare, che ignora completamente le unità. Il rifiuto dei romantici nasceva dal principio che il genio poetico deve creare liberamente, senza costrizione alcuna, come una forza della
natura. La teorizzazione più compiuta del rifiuto fu data dal critico tedesco August Wilhelm Schlegel (1767-1845) nel suo Corso di letteratura drammatica (1809), che ebbe risonanza europea.
5. I promessi spost
Il romanzo, una scelta innovatrice
Il romanzo realizza i
principi romantici
Il «vero»
L’«interessante»
5.1 Manzoni e il problema del romanzo. Più che nelle liriche e nelle tragedie, la più compiuta realizzazione della nuova concezione della letteratura si può trovare nel romanzo manzoniano: I promessi sposi è l’opera che ha la più forte carica innovatrice nei confronti della tradizione letteraria italiana. Già di per sé scegliere il genere “romanzo” come strumento di espressione letteraria è, nell’Italia del 1821, una decisione coraggiosa, di rottura, dati i pregiudizi retorici e moralistici che gravano sul genere, dalla mentalità classicistica ritenuto “inferiore”, indegno di entrare nel campo della letteratura (cfr. Quadro di riferimento II, $ 11.2). Inoltre, Manzoni trova nel romanzo lo strumento ideale per tradurre in atto i princìpi che ispiravano la battaglia romantica per un rinnovamento della cultura italiana in senso moderno, borghese ed europeo. In primo luogo il romanzo risponde perfettamente alla poetica del «vero», dell’«interessante» e dell’«utile», in cui Manzoni sintetizza l’essenza dei princìpi romantici: consente di rappresentare la realtà senza le astrazioni e gli artifici convenzionali propri della letteratura classicistica, aristocratica e di corte; si rivolge non solo alla casta chiusa dei letterati, ma a un più vasto pubblico, perché, attraverso la forma narrativa e un linguaggio accessibile, suscita facilmente l’interesse del lettore comune, in genere respinto da tragedie, odi e poemi epici, che trattano argomenti lontani dalla sua esperienza e sono scritti in una lingua ardua e inaccessibile; è anche facile introdurre nella narrazione l’esposizione di idee, precetti, cognizioni varie: in tal modo, data anche la sua relativamente vasta diffusione, il romanzo
L’«utile»
La libertà dalle regole La “separazione degli stili”
risponde alle esigenze dell'impegno civile dello scrittore, e fornisce il mezzo per comunicare al lettore notizie storiche, ideali politici, princìpi morali, secondo quella concezione educativa e utilitaria della letteratura che i romantici lombardi ereditano dalla precedente generazione illuministica. In secondo luogo il romanzo, essendo un genere nuovo, ignoto o quasi alla tradizione classica, permette allo scrittore di esprimersi con piena libertà, senza lottare con regole arbitrarie imposte dall’esterno. La principale di queste norme che Manzoni può dissolvere.col suo romanzo è la classica “separazione degli stili”, secondo cui solo ciò che è nobile ed elevato può essere rappresentato in forme serie e sublimi (cfr. M10). Nelle tragedie Manzoni non aveva potuto evitare di seguire tale norma, per il peso della tradizione che esigeva che personaggi della tragedia fossero re o principi. Nel romanzo, invece, egli sceglie di rappresentare una realtà umile, ignorata dalla letteratura classica, o vista solo in una luce comica: violando convenzioni
La rappresentazione seria del quotidiano
Manzoni
letterarie profondamente radicate, elegge a protagonisti due semplici popolani della campagna lombarda e rappresenta le loro vicende in tutta la loro profonda serietà e tragicità. La rappresentazione seria della realtà quotidiana è il tratto che meglio caratterizza il moderno realismo europeo (come ha indicato Erich Auerbach in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it., Einaudi, Torino 1956. Cfr. anche
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477 Il rapporto con la storia
L’individuale concreto
Il rifiuto dell’idealizzazione
M7). Ma la raffigurazione seria e problematica del quotidiano è possibile perché i personaggi sono immersi nella storia, ed acquistano profondità dalla tragicità che In essa è insita. Il personaggio non è più posto su uno sfondo astratto, fuori del tempo e dello spazio reali, come nella tradizione classica, ma rappresentato in rapporto organico con un dato ambiente e un dato momento, in modo che nessun suo pensiero, sentimento o gesto sì possa comprendere se non riferito a quel preciso terreno storico. Ciò porta con sé un’altra conseguenza: in opposizione alla tendenza classica a trasformare i personaggi in tipi generali, pure personificazioni di un tratto psicologico, di un concetto, di una passione, Manzoni rappresenta individui dalla personalità unica, inconfondibile e irripetibile, estremamente complessa e mobile, rivelando quella tendenza all’individuale e al concreto che è propria della cultura borghese moderna. Ne deriva ancora un corollario: il rifiuto di quella idealizzazione del personaggio, che è propria del gusto classico; specie i due protagonisti, pur essendo i portatori delle virtù considerate da Manzoni più alte, non cessano di essere due contadini, e della loro condizione conservano la mentalità, il linguaggio, icomportamenti. Il compenetrarsi di tutti questi elementi nei Promessi sposi fa sì che Manzoni, nella nostra letteratura del primo Ottocento, assuma una funzione di incalcolabile portata, quella di iniziatore della moderna tradizione del romanzo realistico (cfr. M7) in un paese culturalmente arretrato, chiuso nel culto di una grande tradizione ormai esaurita.
M10 La separazione degli stili nel mondo classico
La mescolanza
degli stili nel Medio Evo cristiano
La letteratura borghese e la
rappresentazione seria del quotidiano
Mescolanza e separazione degli stili
La concezione della letteratura nel mondo classico si fondava sul principio della separazione degli stili: gli argomenti seri ed elevati dovevano essere affrontati solo in uno stile sublime; gli argomenti dimessi e quotidiani, invece, potevano essere trattati solo in stile comico. Il principio si collegava strettamente con quello dei generi letterari: gli argomenti seri erano prerogativa dei generi più alti, l’epica e la tragedia; gli argomenti più umili invece potevano essere trattati solo nei generi minori, come la commedia. Nella coscienza letteraria dei Greci e dei Romani sarebbe stata impensabile una mescolanza degli stili: trattare in forma tragica argomenti umili, o viceversa, oppure mescolare comico e tragico, argomenti sublimi ad argomenti quotidiani nella stessa opera. Il principio è infranto e dissolto dalla nuova visione introdotta dal cristianesimo: per essa, l'argomento più sublime è un umile falegname morto sulla croce (il supplizio infamante che i Romani infliggevano agli schiavi). La cultura del Medio Evo cristiano pratica perciò la mescolanza degli stili. L'esempio più insigne è la Commedia di Dante, in cui si uniscono «cielo e terra», in cui si mescolano le realtà più turpi e quelle più elevate, e si fondono i più diversi linguaggi, da quelli gergali e plebei dell’Inferno a quello arduo e vertiginosamente sublime del Paradiso. Il principio della separazione degli stili ritorna in auge nelle epoche di classicismo: ad esempio il Rinascimento italiano e il secolo del Re Sole in Francia, che si rifanno a ideali letterari desunti dal mondo antico. La separazione degli stili è nuovamente eclissata con il comparire di una letteratura borghese, nel Settecento e nell'Ottocento. La borghesia, che nella sua ascesa ha come antagonisti e ostacoli i ceti nobiliari, contro il loro gusto aristocratico e classico rivendica il diritto della realtà umile ad essere trattata seriamente in letteratura. Uno dei tratti caratterizzanti la letteratura borghese di fine Settecento e del primo Ottocento è pertanto la rappresentazione seria, problematica, di figure, ambienti, fatti quotidiani, di cui viene rivendicato l’alto valore. In questa tendenza si inscrive la scelta manzoniana di porre al centro del suo romanzo due popolani, e di rappresentare in chiave seria, in tutta la loro tragicità, le loro peripezie. La letteratura classica avrebbe invece fatto di Renzo e Lucia due personaggi da commedia. Su questi problemi, si rimanda ad uno dei massimi capolavori della critica novecentesca: E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, cit. Microsaggio
478 Il modello del romanzo storico
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5.2. «I promessi sposi» e il romanzo storico. Per la sua opera narrativa, Manzoni sceglie la forma del romanzo storico, una forma che in quel momento gode di larga fortuna presso il pubblico europeo, a causa del successo dei romanzi storici dello scozzese Walter Scott (cfr. A23 e T48). Con I promessi sposi sì propone di offrire un quadro di un’epoca del passato, ricostruendo tutti gli aspetti della società, il costume, la mentalità, le condizioni di vita, i rapporti sociali ed economici. Secondo
Lo scrupolo del vero storico
Il quadro della società secentesca
Il riferimento al presente
L’ideale di società
Manzoni
il modello scottiano, protagonisti non sono i grandi personaggi storici, ma personaggi inventati, di oscura condizione, quelli di cui abitualmente la storiografia non si occupa. I grandi avvenimenti e i personaggi famosi costituiscono lo sfondo delle vicende vissute da questi personaggi, e compaiono in quanto vengono a incidere sulla loro vita. La storia viene in tal modo vista dal basso, come si riflette sull’esperienza quotidiana della gente comune. Per tracciare il suo quadro, Manzoni si documenta con lo serupolo di un autentico storico, leggendo, oltre alle opere storiografiche sull’argomento, cronache del tempo, biografie, testi letterari e religiosi, memorie, raccolte di leggi. Ciò spiega perché Manzoni, pur rifacendosi al modulo di Scott, sia critico verso il romanziere scozzese: gli rimprovera infatti l’eccessiva disinvoltura con cui tratta la storia, romanzandola attraverso l'invenzione. Per Manzoni invece personaggi e fatti storici devono essere affrontati nel modo più rigoroso. Non solo, ma lo serupolo del «vero» lo induce a rendere anche le vicende e i personaggi d’invenzione «così simili alla realtà che li sì possa credere appartenenti ad una storia vera appena scoperta» (come afferma in una lettera al Fauriel del novembre 1821: cfr. T120). Lo stesso scrupolo del «vero» lo induce altresì, nella costruzione dell’intreccio, a respingere il «romanzesco», cioè a «considerare nella realtà la maniera d’agire degli uomini», ad evitare di «stabilire dei rapporti interessanti ed inattesi tra i vari personaggi» e di «trovare degli avvenimenti che influiscano contemporaneamente sul destino di tutti», cioè di costruire quella «unità artificiosa che non si trova affatto nella vita reale» (a Fauriel, 29 maggio 1822: cHoebi2i 5.3. Il quadro polemico del Seicento e l'ideale manzoniano di società. La società di cui Manzoni vuol fornire un quadro nel suo romanzo è quella lombarda del Seicento sotto la dominazione spagnola. È un quadro fortemente polemico, come risulta già dallo schema fornito in una lettera a Fauriel del novembre 1822: «Il governo più arbitrario combinato con l’anarchia feudale e l’anarchia popolare; una legislazione stupefacente per ciò che prescrive e per ciò che fa indovinare, o racconta; un’ignoranza profonda, feroce, pretenziosa; delle classi con interessi e principi opposti [...]; infine una peste che ha dato modo di manifestarsi alla scelleratezza più consumata e svergognata, ai pregiudizi più assurdi e alle virtù più commoventi». Manzoni si colloca nei confronti del passato con l’atteggiamento dell’illuminista, acutissimo nel cogliere irrazionalità, aberrazioni, pregiudizi, ingiustizie. Il Seicento lombardo ai suoi occhi segna il trionfo dell’ingiustizia, dell’arbitrio e della prepotenza, da parte del governo, nella condotta politica e nei provvedimenti economici, da parte dell’aristocrazia e delle masse popolari; è il trionfo dell’irrazionalità nella cultura, nell’opinione ’ comune, nel costume. Ma questa ricostruzione critica del passato ha anche precise valenze politiche riferite alla situazione presente, come già si verificava nei cori delle tragedie (e nella prima stesura dell’Adelchi). La data di inizio della composizione del romanzo offre a questo proposito indicazioni illuminanti. Nel marzo 1821 si verificano i moti liberali, che Manzoni segue con fervore e speranza, come testimonia l’ode Marzo 1821. Falliti i moti, il 24 aprile Manzoni inizia la stesura del suo romanzo storico. Nel momento in cui la borghesia progressista comincia la propria rivoluzione nazionale, e subisce una sconfitta e una momentanea battuta d’arresto nella lotta, Manzoni risale al passato per cercare le radici dell’arretratezza in cui si trova l’Italia presente, e in tal modo, attraverso la critica della società del Seicento, offre alle nascenti forze borghesi il modello di una società futura da costruire. Le linee fondamentali di questo modello di società si possono ricavare guardando in controluce, come il negativo di una fotografia, il quadro polemico della Lombardia
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479
L’aristocrazia
Il popolo
I ceti medi
Liberalismo e cristianesimo
La religione, forza riformatrice
L’azione nella storia
spagnola tracciato nel romanzo. Data per scontata la condizione preliminare dell’indipendenza nazionale, le esigenze essenziali sono: un saldo potere statale che si opponga alle spinte degli interessi privati e sappia contrastare arbitri e prevaricazioni, restando immune da connivenze interessate coi gruppi sociali più potenti; una legislazione razionale ed equa ed un apparato della giustizia che sappia farla osservare, tutelando l’individuo da ogni arbitrio; una politica economica oculata, che sappia rispettare le leggi del mercato, e, con opportuni provvedimenti, sia in grado di stimolare l’iniziativa dei singoli, nel campo dell’agricoltura come dell’industria (si tenga presente che alla fine della vicenda Renzo investe il suo gruzzolo nell’acquisto di un filatoio); un’organizzazione sociale giusta, ma senza i conflitti che nascono dalla lotta fra le classi, in cui l’aristocrazia ponga ricchezze e potenza al servizio della collettività, e, in obbedienza ai precetti cristiani, dia spontaneamente a chi non ha ciò che essa possiede in abbondanza, in modo da distribuire più equamente i beni della vita; in cui le classi inferiori, pie e laboriose, si rassegnino cristianamente alle loro inevitabili miserie e rinuncino a rivendicare i propri diritti con la forza, attendendo il premio nell’altra vita e l’aiuto su questa terra degli aristocratici illuminati e benefici; in cui i ceti medi non siano chiusi nel loro gretto egoismo, e non siano gli strumenti del sopruso e dell’ingiustizia, ma dell’attività benefica dei potenti, fungendo da mediatori tra essi e il popolo. Nel sistema dei personaggi del romanzo, don Rodrigo e Gertrude rappresentano la funzione negativa dell’aristocrazia, che viene meno alle sue responsabilità ed usa il suo privilegio in modo oppressivo; il cardinal Federigo, con la sua attività benefica instancabile e lungimirante, rappresenta il modello positivo, e l’innominato, con la sua conversione, dedicandosi a proteggere i deboli oppressi e a beneficare gli umili, rappresenta il passaggio esemplare della nobiltà dalla funzione negativa a quella positiva. Per quanto riguarda i ceti popolari, l'esempio negativo è rappresentato dalla folla sediziosa e violenta di Milano, il positivo dalla rassegnazione cristiana di Lucia; Renzo, invece, come l’innominato nei ceti superiori, rappresenta il passaggio dal negativo al positivo, da un atteggiamento ribelle e intemperante ad un fiducioso abbandono alla volontà di Dio, analogo a quella di Lucia. Per i ceti medi, esempi negativi sono don Abbondio e l’Azzeccagarbugli, esempio positivo fra Cristoforo (che prima di diventare frate cappuccino era un ricco borghese). Questo ideale di società si nutre dei princìpi della nascente borghesia liberale; però con la componente laica si fonde indissolubilmente anche la componente religiosa. Il modello di una società giusta ma senza i conflitti fra le classi, in cui i privilegiati diano volontariamente a chi non ha e i diseredati sopportino pazientemente le loro miserie, secondo Manzoni è proposto dal Vangelo stesso (è quanto egli afferma in alcuni fondamentali capitoli della seconda parte della Morale cattolica, rimasta incompiuta e inedita: cfr. T116); e nella sua prospettiva, la predicazione della Chiesa può avere un'efficacia immensa nel condurre alla realizzazione di quell’ideale di società, persuadendo le classi contrapposte a seguire i principi sociali del Vangelo. Manzoni è convinto che la religione cattolica sia l’unica vera forza riformatrice, perché agisce alla radice dei mali della società, l'animo umano, e perciò può riuscire là dove le riforme politiche hanno fallito, producendo effetti disastrosi, come durante la Rivoluzione francese. Si è visto che la visione religiosa porta Manzoni ad avere una concezione tragica e pessimistica della storia, scaturita dal peccato originale. Manzoni è convinto che una ricostituzione della felicità originaria sia preclusa alle
forze umane su questa terra; però non per questo ritiene che occorra assumere un atteggiamento di fatalistica rassegnazione di fronte al male sociale: esiste secondo lui un margine per intervenire almeno ad attenuare il male, per cui diviene un dovere per l’uomo agire per contrastare il negativo della società e della storia (lo comprovano figure eroiche come quelle di fra Cristoforo, di Federigo, dell’innominato convertito). Per questo il cattolicesimo manzoniano, pur coi suoi presupposti pessimi-
stici, può arrivare a fondersi con un progressismo moderato di impronta laica e liberale, distaccandosi nettamente dagli orientamenti reazionari della Chiesa nell'età della Restaurazione. La società che Manzoni vagheggia, agli albori delle lotte risorgimentali, dovrà ispirarsi sia al liberalismo borghese sia ai principi religiosi del cattolicesimo: solo così potrà evitare le degenerazioni giacobine, autoritarie e violente, già sperimentate durante la Rivoluzione francese. Le opere
480
L’esplorazione del negativo della storia
La formazione di Renzo
La rassegnazione a Dio
La formazione di Lucia
Il superamento della visione idillica
Manzoni
5.4. L'intreccio e la struttura romanzesca. La vicenda prende le mosse da una situazione iniziale di quiete e di serenità: i due sposi promessi, nel loro villaggio sulle rive del lago, vagheggiano un avvenire di tranquilla felicità, segnata dalle gioie domestiche, dalle pratiche religiose e dal lavoro. In realtà questa situazione iniziale di idillio è solo apparente: la condizione dei due giovani è già insidiata dal male della storia, rappresentato dal sopruso nobiliare di don Rodrigo. Renzo e Lucia sono quindi inevitabilmente strappati alla loro vita quieta e appartata, e immersi traumaticamente nel flusso turbolento della storia. La loro vicenda si configura come un’esplorazione del negativo della realtà storica: Renzo sperimenta il male nel campo sociale e politico (la sommossa di San Martino, il disfacimento sociale della Milano appestata), Lucia soprattutto nel campo morale (l’«infame capriccio» del signorotto dissoluto e prepotente, la corruzione della monaca aristocratica, la violenza prevaricatrice del gran signore divenuto «tiranno»). Ma attraverso questa esperienza del negativo si compie anche la loro maturazione. Le vicende dei due giovani, entro il quadro com- . plessivo dell’opera, disegnano una sorta di “romanzo di formazione”, rimandando implicitamente ad un genere fondamentale nella tradizione romanzesca moderna (cfr. M8). I percorsi di formazione dei due protagonisti sono però diversi, come diversi sono i loro caratteri e le loro funzioni nel racconto. Renzo ha tutte le virtù che per Manzoni sono proprie del popolo contadino; però c’è in lui una componente ribelle, un’insofferenza per ogni forma di sopruso, la convinzione che l’oppresso possa farsi giustizia da sé, l’illusione che l’azione energica degli umili possa ristabilire la giustizia violata. Ciò costituisce un pericolo per l’eroe, perché potrebbe portarlo a commettere atti di violenza, che gli alienerebbero la benevolenza divina e lo estrometterebbero dalla compagine sociale. Il suo percorso di formazione consiste perciò nel giungere ad abbandonare ogni velleità d’azione e a rassegnarsi totalmente alla volontà di Dio. La formazione si attua attraverso le due esperienze della sommossa e della Milano sconvolta dalla peste: attraverso di esse Renzo arriva a comprendere la vanità delle pretese umane di reintegrare perfettamente la giustizia con l’azione. I due momenti fondamentali di tali esperienze sono la notte passata presso l’Adda, in cui Renzo fa il bilancio degli errori commessi durante la sommossa, ed il perdono concesso a Don Rodrigo morente nel lazzaretto. Al contrario di Renzo, Lucia sembra possedere sin dall’inizio per dono divino quella consapevolezza della vanità dell’azione che Renzo conquista dopo dure prove solo al termine delle sue peripezie. In lei c’è uno spontaneo rifiuto della violenza, un abbandono fiducioso, totale alla volontà di Dio. Per questo Lucia è vista di solito come un personaggio statico, che non subisce trasformazioni nel corso della vicenda, perché non ha bisogno di imparare nulla. In realtà anche Lucia attraversa un suo percorso di formazione. Anche lei ha inizialmente dei limiti, che deve superare grazie all’esperienza. Lucia, all’aprirsi del racconto, appare prigioniera di una visione ingenuamente idillica della vita, che riposa sul vagheggiamento di un avvenire di gioia e serenità entro i confini ristretti e protettivi della casa e del villaggio, dei monti e del lago, sulla convinzione che una vita «innocente» e «senza colpa» basti a tenere lontani i «guai», che la provvidenza pensi sempre a preservare i giusti dalla sventura, a guidare infallibilmente la loro esistenza a felici soluzioni. A Lucia manca quella consapevolezza del male che è necessaria per capire la vera natura della realtà umana nata dalla caduta, per cogliere il senso religioso stesso della presenza del negativo nel mondo. Attraverso le sue peripezie e le sue sofferenze, arriva alla fine a comprendere che non può esistere l’Eden in terra, che le sventure si abbattono anche su chi è «senza colpa», e che la vita più «cauta» e più «innocente» non basta ad evitarle. Anche Renzo, oltre al suo particolare percorso che si è già visto, matura un’analoga consapevolezza, insieme a Lucia. La consapevolezza si manifesta nel «sugo» che i due giovani, alla fine del romanzo, traggono dalla meditazione sulle loro vicende: «Conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per
451 La positività provvidenziale del male
una vita migliore». Lucia, insieme con Renzo, ha preso coscienza della reale tragicità del vivere in un mondo segnato dalla caduta, dall’incombere costante del male sulla realtà umana. La conquista spirituale è avvenuta grazie alle sventure patite. E attraverso di esse Lucia e Renzo prendono coscienza anche della positività provvidenziale del male. Compare così al termine del romanzo, a raccoglierne il significato ultimo, il concetto della «provvida sventura», tanto caro a Manzoni. È stato messo in dubbio che le riflessioni dei due protagonisti racchiudano davvero il «sugo» di tutta la storia, e si è supposto un gioco ironico da parte di Manzoni nell’indicare come tale le loro modeste banalità. In realtà Manzoni, con un gioco sottile spesso praticato nel romanzo, dissimula nella dizione dimessa dei suoi umili personaggi verità che egli ritiene fondamentali. 5.5. Il lieto fine, l’idillio, la provvidenza.
Il rifiuto dell’idillio
La concezione della
provvidenza
La visione tragica
Nella conclusione trovata dai due umili
protagonisti sono infatti presenti, anche se espressi in forma elementare, i cardini stessi della visione manzoniana. Innanzitutto il rifiuto dell’idillio, inteso come vagheggiamento di un «riposo morale», come rappresentazione di una vita quieta e senza scosse, nell’ambito ristretto della sfera domestica, lontana dai tumulti della storia, ignara del male che in essa è inevitabilmente presente. Si è già insistito sul fatto che Manzoni ha del reale una visione tragica, che scaturisce dal suo pessimismo religioso. Ma se la vita, in conseguenza della caduta dell’uomo, è inquinata dal male e dal dolore, ogni rappresentazione idillica della realtà, che raffiguri uno stato di quiete e di serenità perfette, è assolutamente difforme dalla verità; e sappiamo quale fosse il culto manzoniano del «vero». Si può capire allora perché egli respinga recisamente ogni forma di rappresentazione idillica. Si può obiettare che al termine del romanzo a Renzo e a Lucia tocca una vita tranquilla, prospera e serena: però, a ben vedere, non si tratta affatto di un idillio. Anche se la vita dei due sposi è sostanzialmente felice, non è immemore della realtà esterna all'ambito domestico: proprio grazie alla esperienza del male da essi compiuta, la loro esistenza è problematizzata dalla consapevolezza della tragicità del vivere, dell’incombere costante del male, che può colpire anche i più innocenti (i «guai» che vengono anche «senza colpa»). Per questo la loro vita non è finalizzata a «star bene», come esigerebbe un’aspirazione idillica, ma a «far bene», ad avere una posizione attiva verso il male e la sofferenza. Proprio nel «sugo» trovato alla fine dai due protagonisti si può trovare dunque l’espressione più chiara del rifiuto manzoniano dell’idillio. Ma si chiarisce, in quel «sugo», anche la concezione manzoniana della provvidenza. La formula corrente, che definisce I promessi sposi «romanzo della provvidenza», può prestarsi ad equivoci. E stato infatti osservato dalla critica più recente che l’interpretazione provvidenziale della realtà, nel romanzo, non è enunciata in prima persona dal narratore, ma è affidata sistematicamente ai soli personaggi. Ciò non significa ovviamente che Manzoni non creda ad una presenza provvidenziale nel mondo. Semplicemente, la sua concezione è diversa da quella dei suoi umili protagonisti, estremamente più problematica e complessa. Renzo e Lucia hanno una concezione elementare e ingenua della provvidenza, che identifica virtù e felicità: per loro Dio interviene infallibilmente a difendere e a premiare i buoni e a garantire il trionfo della giustizia. Nella superiore visione teologica di Manzoni, al contrario, virtù e felicità possono coincidere solo nella prospettiva dell’eterno: solo alla fine dei tempi vi è la certezza che i buoni saranno premiati ed i malvagi puniti. Nella sfera terrena la volontà divina, nel suo mistero imperscrutabile, può anche infliggere sventure e sofferenze ai giusti, senza garantire il loro risarcimento. Per Manzoni la provvidenzialità dell'ordine divino del mondo non consiste nell’assicurare la felicità ai buoni, ma nel fatto che proprio la sventura fa maturare in essi più alte virtù e più profonda consapevolezza. Come si vede, ritorna il concetto centrale della «provvida sventura». Solo alla fine Renzo e Lucia giungono a maturare questa più profonda visione della provvidenza, rendendosi conto che la sventura può colpire anche le persone più innocenti, e che la «fiducia in Dio» la rende utile «per una vita migliore». Sino a questa finale
presa di goscienza, vi è dunque una sfasatura tra la concezione della provvidenza che è propria di Manzoni e quella dei suoi umili personaggi. Per questo egli lascia Le opere
482
è
:
solo alla loro prospettiva l'enunciazione del concetto ingenuo di provvidenza, quasi a segnare la sua distanza. Ciò non implica che Manzoni consideri negativamente la fede elementare dei suoi eroi: al contrario, la guarda con superiore benevolenza, come manifestazione della loro preziosa innocenza di “umili”. Però sente il bisogno di portarli ad una superiore consapevolezza, attraverso il loro percorso di maturazione.
Le tre redazioni del romanzo
L’intreccio
I personaggi
L’impostazione del racconto
Ideale e reale
Manzoni
i
5.6. Il «Fermo e Lucia»: un altro romanzo? Del suo romanzo Manzoni ci ha lasciato tre redazioni: la prima inedita (1821-1823), pubblicata solo un secolo dopo dagli studiosi con il titolo Gli sposi promessi, poi, con maggior fedeltà agli intenti originari dell’autore, Fermo e Lucia; la seconda pubblicata dall’autore nel 1825-1827, già con il titolo definitivo I promessi sposti; la terza nel 1840-1842, che è quella che abitualmente oggi leggiamo. Tra le due edizioni pubblicate dall’autore (1827 e 1840) vi sono essenzialmente differenze linguistiche (vocaboli, costrutti), in obbedienza a quell’idea della fiorentinità della lingua che Manzoni elaborò dopo il 1827 (v. paragrafo seguente), mentre la prima redazione, il Fermo e Lucia, presenta differenze profonde, tali che hanno fatto parlare, da parte di molti, di un “altro romanzo”, di un’opera autonoma rispetto ai Promessi sposti. Vi sono innanzitutto differenze nella distribuzione delle sequenze narrative sull’arco dell’intreccio: mentre nei Promessi sposi, dopo la fuga dal paese, si hanno successivamente la storia di Gertrude, le vicende di Renzo nei tumulti milanesi e la fuga oltre confine, le vicende del rapimento di Lucia da parte dell’innominato, nel Fermo si ha prima tutto il blocco delle peripezie di Lucia, poi quelle di Renzo. Nel Fermo inoltre vi sono personaggi che hanno una fisionomia completamente diversa da quella della redazione definitiva: il conte del Sagrato, che corrisponde funzionalmente all’innominato, non è un personaggio di grande statura spirituale, ma un tipico “tiranno” secentesco, quasi un brigante, rozzo, avido e violento. Anche Lucia è sensibilmente diversa, più realistica, più legata ad una determinata condizione sociale e ad un costume storico, una tipica campagnola lombarda del Seicento, nei modi, nella mentalità, nel linguaggio. Vi sono anche interi episodi impostati in modo diverso: ad esempio, la storia della Signora di Monza è molto più ampia, e indugia su una serie di particolari (la relazione con Egidio, l’uccisione della conversa che ha scoperto la tresca) e di passaggi psicologici, che nei Promessi sposi saranno passati sotto silenzio. Ma, più in generale, è proprio l'impostazione del racconto che è sensibilmente diversa. Nel Fermo Manzoni ricorre in più larga misura al documento storico e realistico, con l’intento di fornire un preciso quadro di costume, introduce ampie digressioni di carattere saggistico su problemi storici, economici, culturali, lascia spazio a lunghe discussioni. Tutto questo materiale non narrativo è fortemente ridotto nei Promessi sposti: qui vi è la tendenza a risolvere in rappresentazione drammatica tutto ciò che nel Fermo è offerto in forma saggistica; inoltre certe tesi che nel Fermo sono enunciate esplicitamente, nei Promessi sposi sono affidate ad una sottile trama simbolica che soggiace alla narrazione (cfr. ad esempio l’analisi del T136). Infine nel Fermo vi sono posizioni critiche e polemiche più aspre e nette, mentre nei Promessi sposti le posizioni dell’autore sono più sfumate e talora dissimulate sotto il velo dell’ironia. Ciò perché nel Fermo vi è una più netta contrapposizione tra bene e male, positivo e negativo, ideale e reale: il negativo è portato alle estreme conseguenze, e ad esso è contrapposto un positivo simmetricamente estremizzato (De Castris). Nei Promessi sposi, invece, positivo e negativo sono più vicini, l’«ideale», per usare una famosa formula desanctisiana, è «calato nel reale». Di questi diversi procedimenti avremo modo di vedere degli esempi nelle analisi dei passi riportati.
483 6. Il problema della lingua
Inadeguatezza della lingua letteraria
La soluzione fiorentina
La revisione del romanzo
Gli scritti linguistici
L'operazione compiuta da Manzoni col suo romanzo ha una portata incalcolabile anche nel campo linguistico: con la redazione definitiva dei Promessi sposi Manzoni fornisce alla letteratura italiana moderna un nuovo modello di lingua letteraria, libero dall’antico «cancro della retorica» (come si espresse un grande linguista dell’Ottocento, l’Ascoli): su un piano più vasto, non più letterario ma civile, offre l’indicazione di una possibile lingua dell’uso nella società della futura Italia unita. Per un tipo di opera come quella che Manzoni concepiva, indirizzata ad un pubblico vasto e destinata a trattare problemi vivi nella coscienza contemporanea, non poteva più essere usata la lingua della tradizione letteraria, aulica e ardua, comprensibile solo a chi fosse fornito di alta cultura. Manzoni dimostra di esserne consapevole nel momento stesso in cui inizia la composizione del romanzo. In una lettera a Fauriel del novembre 1821 lamenta le difficoltà che oppone la lingua italiana alla scrittura di un romanzo, difficoltà che scaturiscono dalla sua povertà di costrutti e dalla mancanza di un “codice” comune tra chi scrive e chi legge, che dia la certezza di usare uno strumento comunicativo egualmente conosciuto da entrambi. Alla soluzione del problema di individuare questo “codice” Manzoni arriverà per gradi. In un primo momento, iniziando il Fermo, egli si orienta verso una lingua di compromesso, formata da un fondo di toscano letterario, ma arricchita da apporti della parlata viva, attraverso la conversazione con le persone colte, oltre che da termini provenienti dal francese, che possano essere mescolati a quelli italiani senza creare dissonanze. Ma già dopo il ’24, nel rivedere il testo per la pubblicazione, rinuncia a questa lingua composita e si orienta decisamente verso il toscano, quale poteva apprendere dai libri: e scopre con sorpresa molte concordanze tra i modi toscani e quelli degli altri dialetti, in particolare il milanese. Pubblicato il romanzo, il suo viaggio a Firenze nel 1827 «fu come una rivelazione: quella lingua tanto faticosamente cercata nei libri, eccola viva, agile, reale, nei Fiorentini colti con cui veniva a contatto» (Migliorini). Giunge così alla soluzione per lui definitiva del problema della lingua: la lingua italiana unitaria, quella da usare nella letteratura come nella vita sociale, deve essere il fiorentino delle persone colte; non la lingua morta dei libri del Trecento e del Cinquecento, come volevano i puristi, ma la lingua viva, parlata, attuale (cfr. Quadro di riferimento II, $ 12). In base a questi principi lo scrittore conduce la revisione del romanzo, che lo occupa per lunghi anni, sino al 1840. Manzoni lavora con estremo scrupolo, secondo il suo costume, sottoponendo continuamente l’opera a fiorentini colti per averne suggerimenti sulla proprietà di vocaboli e costrutti. Il romanzo, nella sua redazione definitiva, si offre così come esempio di lingua viva, agile, duttile, non irridigita dal peso retorico, aprendo anche per questo aspetto una nuova via alla letteratura italiana. Manzoni si preoccupò in seguito di esporre le sue tesi con scritti teorici. Nel 1847 scrive la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana; nel 1856, con Gino Capponi, avvia il Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze. Lavora anche a lungo ad un trattato Della lingua italiana, che tra il 1830 al 1859 ha ben cinque redazioni, ma resta manoscritto. Le tesi manzoniane incontrano il favore della classe politica dello Stato unitario. Il ministro della Pubblica Istruzione Broglio aveva affidato a Manzoni la presidenza della sezione milanese di una commissione, che aveva il compito di proporre i mezzi per diffondere nel popolo la buona lingua. Manzoni nel 1868 presentò la sua relazione, arricchita l’anno successivo di un’Appendice: la sua proposta era quella di diffondere la lingua fiorentina con un vocabolario, che costituisse un punto di riferimento sicuro, e con l’impiego di maestri fiorentini nelle scuole elementari. La proposta manzoniana fu seguita dallo Stato nella sua politica scolastica, ma la lingua dell’Italia unita, quella che oggi parliamo, si formò attraverso processi più lunghi e complessi, e assunse una forma ben diversa dal fiorentino, come avremo modo di vedere a suo luogo. Le opere
484
"I 7. Dopo I promessi sposi: il distacco dalla letteratura
Il distacco dalla letteratura
Il Discorso sul romanzo storico
La pubblicazione dei Promessi sposi nel 1827 segnò praticamente la fine della
stagione creativa di Manzoni. La revisione del romanzo, protratta per anni sino al
1840, obbedì prevalentemente ad interessi linguistici, come applicazione del modello linguistico fiorentino di cui Manzoni era assertore: nei confronti del romanzo troviamo anzi, nelle lettere di questi anni, atteggiamenti di sufficienza quasi sprezzante (viene definito «cantafavola»). Questo atteggiamento è chiarito teoricamente nel Discorso del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, già meditato poco dopo la pubblicazione dei Promesst sposi nel ’27, ma edito tra le Opere varie nel 1850. In esso viene condannata la struttura stessa del romanzo storico, basato sulla mescolanza di storia e d’invenzione, in cui l’invenzione deve com-
pletare la storia. Manzoni giunge alla conclusione che la mescolanza è illegittima, poiché l'invenzione introduce un elemento di falsità, che compromette quell’assenso che il lettore deve dare all’opera. Manzoni auspica quindi una netta separazione tra opere di invenzione e opere storiche. Ma in realtà il suo culto del «vero» si fa sempre più rigido, tanto da indurlo ad una svalutazione della letteratura, in confronto alla storia e alla filosofia. Per questo, oltre che per un inaridirsi della vena creativa, non scrive più opere poetiche o narrative. Due tentativi di lirica religiosa, un inno sull’Ognissanti ed uno sul Natale 1888 (che prende spunto della morte della moglie Enrichetta Blondel, che fu per lo scrittore un trauma terribile) rimasero incompiuti. Nel lunghissimo arco di tempo che va dal 1827 alla morte, nel 1873, cioè dai 42 agli 88 anni, Manzoni attese quasi esclusivamente a lavori di carattere storico, filosofico 0
La Colonna infame
La Rivoluzione francese
Dell’invenzione
linguistico. Come appendice ai Promessi sposi del 1840 compone la Storia della colonna infame, dove viene ricostruito il processo agli untori, durante la peste narrata nel romanzo. L’opera è una lucida, implacabile analisi delle responsabilità di quei giudici che condannarono degli innocenti. Vi compare il migliore Manzoni “illuminista”, all’altezza di tante pagine di critica delle aberrazioni del passato che si trovano nel romanzo; ma vi è anche la rivendicazione ferma della responsabilità dell’uomo, al di là dei condizionamenti del momento storico: le colpe dei giudici, per Manzoni, non possono essere ascritte alla barbarie dei tempi, poiché anche con gli strumenti giuridici e culturali del Seicento essi avrebbero potuto riconoscere l’innocenza degli accusati; e se non la videro, fu perché non la vollero vedere. Un'altra opera storica, più tarda, è il saggio comparativo su La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, iniziato nel 1862-64 e rimasto incompiuto. In esso Manzoni vuol dimostrare che la distruzione del regno di Luigi XVI non era necessaria per i miglioramenti che la Francia voleva nel suo ordinamento, e che quella distruzione provocò due disastrosi effetti, «l’oppressione del paese sotto nome di libertà» e l’impossibilità di sostituire il governo abbattuto con un governo stabile. Nell’opera si esprime quel liberalismo moderato, ostile dinanzi alle forme radicali di iniziativa popolare, che si era già espresso nei Promessi sposi. Un forte influsso sul Manzoni maturo esercitò il pensiero del filosofo cattolico Antonio Rosmini, a cui lo scrittore si ispirò nel dialogo Dell’invenzione (1850). Per
molti anni poi Manzoni meditò sul problema della lingua, lavorando come s'è visto ad un’opera, Della lingua italiana, senza mai portarla a compimento.
Manzoni
485 dalle Osservazioni sulla morale cattolica I due passi che seguono sono tratti dai capitoli II e V della seconda parte delle Osservazioni sulla morale cattolica, che Manzoni elaborò tra il 1819 e il 1820, e lasciò incompiuta e inedita. La prima parte, pubblicata
nel 1819, era organizzata come una confutazione delle tesi dello storico ginevrino Sismondi, che, nella Sto-
ra delle repubbliche italiane del Medio Evo, aveva accusato la religione cattolica di aver corrotto i costumi degli italiani; la seconda parte, invece, doveva constare di una serie di saggi autonomi, tesi a celebrare un’apologia della religione cattolica. Si tratta di pagine appena abbozzate, quindi molto dense e a volte tortuose.
Religione e idee moderne Parte II, cap. II "
Una accusa che si fa comunemente ai nostri giorni alla Religione cattoica, è ch’ella sia in opposizione collo spirito del secolo [...] Lo spirito del secolo! presente non è altro che il complesso di molte verità utili e generose, presentite già da alcuni uomini grandi?, diffuse di poi, e divenute il patrimonio di tutti i popoli colti, verità, il legame ed il punto centrale delle quali*, non osservato nemmeno da quei sommi che le promulgarono, è stato sentito ai nostri tempi, è divenuto il fondo, per dir così, della opinione pubblica, e distingue questa epoca sommamente ragionevole. Ora questo spirito che onora la ragione umana meno ancora per la sua evidenza che per la sua bellezza, non è secondato dalla religione cattolica, anzi molte volte essa vi si oppone; e quando siamo a questo punto non bisogna stupirsi, se l’intelletto si volge da quella parte dove sta la dimostrazione, e la coscienza della dignità umana‘. Perché se voi trovate ardita o erronea una proposizione che sia il risultato delle riflessioni degli uomini i più illuminati d’una generazione, se tremate ad ogni esame? che si istituisca, non dovete poi lagnarvi se si dirà che la vostra religione è nemica del pensiero, e che essa non vuole che il sacrificio del raziocinio ad una cieca sommissione: e dovrete esser convinti che su questa non è più da far conto. [...] Questo mi sembra a un dipresso il sugo dei rimproveri che si fanno in questo genere alla morale della Chiesa cattolica. [...] [...] Alcuni finalmente di quelli che onorano e difendono la Religione cadono nello stesso errore di attribuirle o per ignoranza o per fini particolari massime che essa non ha, la pongono così in opposizione collo spirito di un secolo in punti dove questa opposizione non esiste. [...] Ora questo fanno, forse senza avvedersene, forse credendo invece far bene, molti che nello spirito di un secolo pretendono condannare, con argomenti religiosi, opinioni non solo innocenti, ma ragionevoli, ma generose, opinioni le opposte delle quali sono talvolta assurde. Dal che, mi sembra, che ai nostri giorni sia necessario guardarsi più che non sia stato mai, giacché non giova dissimularlo, il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione, si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari. Gli oppugnatori di essa parlano come se la filosofia mondana” fosse salita ad una sfera di pensieri più elevata, più pura, più celeste che non quella a cui il Vangelo ha portata la mente umana. Ah! quanto questo inganno è più grande e più pericoloso, tanto più deve essere lo studio per non dare alcun pretesto ad alcuno di cadervi. I partiti in minorità non avendo la forza ricorrono alla giustizia, e questo è avvenuto spesso ai filo-
sofi: essi hanno dette verità utili ed importanti: e sono stati male avvisati” quelli che hanno voluto tutto confutare. Conveniva separare il vero dal falso; e se il vero* era stato tacciuto conveniva confessarlo e subire l’umiliazione di averlo tacciuto: non rigettare le verità per confutare. Quando il mondo
ha riconosciuta una idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Van-
1. spirito del secolo: il complesso di idee,
di dottrine, di principi che dominano nell’età presente. Manzoni allude soprattutto al patrimonio dell’Illuminismo ereditato dal liberalismo ottocentesco. 2. uomini grandi: i pensatori e gli scien-
ziati dei secoli precedenti. 8. il legame ... quali: il fatto che queste verità formassero un sistema coerente. 4. da quella ... umana: verso le nuove idee e contro la religione. 5. ad ogni esame: la libera critica perso-
nale, fondata sulla ragione. 6. la filosofia mondana: il pensiero laico. 7. sono stati male avvisati: hanno sbagliato. 8. il vero: la verità contenuta nel pensiero dei filosofi.
Osservazioni sulla morale cattolica
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i
gelo, mostrare che essa vi si trova, ricordargli che se avesse ascoltato il Vangelo, l'avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato. «Poiché tutto quello che è vero, tutto quello che è puro, tutto quello che è giusto, tutto quello che è santo, tutto quello che rende amabili, tutto quello che fa
buon nome, se qualche virtù, se qualche lode di disciplina, tutto è in quel libro divino». (Paolo ai Filippensi, C. IV, 8)°. Bisogna mostrare al mondo che anzi quello che la Religione può condannare in quelle idee è tutto
ciò che non è abbastanza ragionevole, né abbastanza universale, né abbastanza disinteressato. [...] La noncuranza stessa e l'ignoranza dello spirito del secolo da parte di tutti quelli che nella Chiesa
sono destinati ad insegnare, sarebbe di gravissimo nocumento!°. Non già che essi debbano essere diretti da quello, ma dovrebbero anzi diriggerlo, raddrizzarlo, e dove sia duopo! confutarlo con cognizione di causa, e con superiorità di ragione, non condannarlo in monte‘, né abbandonarlo a se stesso, giacché in questo secondo caso essi lasciano il bell’uficio di maestri a cui sono destinati, e nel primo! mostrandosi o parziali, o non informati, perdono l’autorità indispensabile per essere ascoltati e per-
suadere [...]. Tutto bisogna intraprendere, sottoporsi a tutto, piuttosto che lasciare prevalere l’opinione che la
Religione sia contraria ad una verità morale, piuttosto che permettere che i figli del secolo! si vantino di essere in nulla (intendo sempre delle scienze morali) più illuminati che gli allievi di Cristo. [...] Ah non si lascino mai gli ecclesiastici antivenire nell’esporre una idea conforme alla vera dignità dell’uomo, e soprattutto alla umanità, al rispetto per la vita e pei dolori del prossimo. Si esamini, si studi, si combatta il falso, non dico si conceda, ma si predichi, si stabilisca il vero; il mondo non si raddrizzerà, ma voi avrete fatto il vostro dovere, ma gli animi retti non avranno più pretesti per non ascoltarvi, ma ad ogni opposizione dello spirito del secolo con quello della Religione risulterà, non solo che la Chiesa ha sempre ragione, ma che hanno sempre ragione quelli che si gloriano di tenere e di diffondere gli insegnamenti della Chiesa. 9. (Paolo ... 8): Manzoni cita dalla lettera
11. duopo: necessario.
dannano in blocco le idee moderne.
di S. Paolo ai Filippesi. 10. nocumento: danno.
12. in monte: in blocco. 13. nel primo: nel primo caso, cioè se con-
cultura laica.
14. i figli del secolo: gli esponenti della
ANALISI DEL TESTO a
Il passo tocca un nodo centrale, sia nell’evoluzione del pensiero manzoniano, sia nel
sistema delle concezioni di quel momento storico. Tra il pensiero “moderno” e la Chiesa vi era stato e vi era ancora, quando Manzoni scriveva, un aspro conflitto. L’Illuminismo nel Settecento si era scagliato contro la Chiesa come baluardo di oscurantismo retrogrado; e la Chiesa a sua volta aveva bollato come empie e blasfeme le idee illuministe. Soprattutto
La Chiesa e il pensiero moderno
poi negli anni della Restaurazione la Chiesa, attestata su posizioni reazionarie, condannava con estrema rigidezza ogni residuo di spirito illuministico, progressista o liberale. La for-
mazione di Manzoni era stata illuministica. La conversione al cattolicesimo non lo induce però a rinnegare le idee in cui aveva profondamente creduto: data la coerenza e il rigore intellettuale che lo contraddistinguono, non potrebbe ora rivolgersi a posizioni reazionarie ed oscurantiste. Ma Manzoni non tenta semplicemente di conciliare fede cattolica ed Illuminismo, cercando punti comuni su cui quelle due concezioni si possano incontrare: egli sostiene che le idee moderne, progressiste, in quanto sono giuste, sono già presenti nel Vangelo, in cui è contenuto tutto ciò che è vero e giusto. Egli dunque tende a riassorbire le idee avanzate entro la religione. La Chiesa perciò, secondo lui, non solo non deve combattere quelle idee, ma farsene propugnatrice, nella predicazione delle verità del Vangelo. Soprattutto non deve permettere che il pensiero laico ne assuma il monopolio, presentandosi come unico portabandiera del progresso. La Chiesa deve accettare la sfida, gareggiare col pensiero laico; anzi, deve tendere ad assumere essa la guida dell’opinione del secolo, dirigendola e, se occorre, raddrizzandola.
Manzoni
Le idee progressiste sono già nel Vangelo
487 PROPOSTE DI LAVORO Pmi» 1. Quale rapporto Manzoni istituisce tra la «Religione cattolica» e lo «Spirito del secolo»? 2. ... e tra «il vero» e «Il Vangelo»? 3. Quale ruolo viene attribuito agli ecclesiastici? (cfr. «tutti quelli che nella Chiesa...»). 4. Le affermazioni contenute in questo passo trovano riscontro nella successiva produzione manzoniana? (in Salata per il rapporto Chiesa cattolica-cultura, confrontare nei Promessi sposi il cap. XXII sul cardinale ederigo).
Religione, riforme e classi sociali Parte II, cap. V
Rintracciare l'occasione di certi vizj e di certe virtù nella direzione data dalle cause politiche ad una nazione! è una ricerca fondata che ha prodotte belle e importanti scoperte, le quali hanno finito e finiranno col distruggere molte istituzioni cattive: ma supporre in una o più di queste cause tutta la moralità degli uomini”, immaginarsi che tolto quell’inciampo che si ha sotto gli occhi, tutta la via diverrà piana?, è dimenticare affatto la natura dell’uomo*. La facoltà di operare sugli uomini indipendentemente dalle relazioni politiche, mi sembra uno dei più bei caratteri di sapienza e di perpetuità della religione”. I sistemi politici sono tutti complicati, e il sostenerli e l’attaccarli è impresa nella quale entrano troppo facilmente mezzi onesti e viziosi, e gli effetti che ne vengono sono e misti di bene e di male, e per lo più incalcolabili da quelli stessi che gli vogliono produrre*. La vera religione doveva essere una guida all’uomo per operare rettamente in qualunque tempo e in qualunque sistema; essa deve dare mezzi per cui l’uomo che vuole esser giusto, lo possa essere, benché gli altri si ostinino a non esserlo, benché esistano cause che lo porterebbero al male: giacché queste cause non si possono togliere. Essa ha scelto di agire direttamente sopra l’animo di ognuno che la vuole ascoltare, perché questa azione è la sola che sia pronta, sicura, perpetua, ed universale. E si osservi che questa azione, mentre è indipendente dalle cause politiche, influisce però in bene sopra di esse, perché portando gli uomini alla giustizia ogniqualvolta essa sarà ascoltata, cangerà anche le istituzioni quando sieno dannose”. [...] Le leggi hanno un inconveniente necessario, ed è: che non possono creare un dovere senza far nascere un corrispondente diritto: bisogna quindi che per ottenere il loro effetto armino l’uomo contra l’uomo. La Religione impone dei doveri ad una parte, senza dar diritti all’altra; comanda p. es. al ricco di dare il superfluo, senza conferire al povero il diritto di ripeterlo’, comanda all’offeso di perdonare, senza che l’offensore possa pretendere il perdono. Da questa differenza consegue che la Religione può prescrivere alcune cose bellissime ed utilissime che non possono prescrivere le leggi, perché i diritti che conferirebbero con ciò sarebbero cagione di gravissimi mali, e la legge ne sarebbe inapplicabile, o distruttiva!’. 1. Rintracciare ... nazione: cercare le cause dei vizi e delle virtù degli uomini nella direzione politica di una nazione. 2. supporre ... uomini: supporre che la bontà o malvagità degli uomini dipenda interamente dalle forme di governo. 8. che ... piana: che eliminate certe istituzioni cattive, gli uomini diventeranno automaticamente buoni. 4. è... dell’uomo: perché non è vero che l’uomo sia buono per natura e venga cor-
rotto dalle istituzioni sociali: la natura
stessa dell’uomo è corrotta dal peccato originale. 5. La facoltà ... religione: il fatto che la religione operi direttamente sull’uomo, senza passare attraverso le istituzioni politiche, fa sì che la sua azione sia valida in ogni tempo e in ogni luogo. 6. gli effetti ... produrre: attaccare i sistemi politici può portare a sconvolgimenti incalcolabili. Manzoni polemizza contro gli sviluppi estremistici della Rivoluzione francese sotto il Terrore.
7. portando ... dannose: la religione, migliorando gli uomini, migliorerà indirettamente anche le istituzioni che sono prodotte dagli uomini. 8. bisogna ... l’uomo: perché chi sa di avere un diritto, è pronto a rivendicarlo anche con la forza. 9. ripeterlo: richiederlo. 10. i diritti ... distruttiva: la violenza che gli uomini impiegherebbero per rivendicare i loro diritti distruggerebbe la convivenza sociale.
Osservazioni sulla morale cattolica
488 La legge non deve parlare che quando abbia una quasi certezza di farsi obbedire: deve dunque avere la forza con sé: e, in quanto impone cose che non si farebbero spontaneamente, essa non comanda che ai più deboli”; la voce della Religione è sempre viva: essa parla ai più forti, a cui nessuna autorità umana potrebbe comandare, senza opprimerli od esserne oppressa; cioè senza disordini". Le leggi, supponendole fatte con rette intenzioni, tendono alla giustizia ed alla tranquillità: due
fini difficilissimi a conciliarsi, e sono quindi forzate di sacrificare il più sovente la prima alla seconda: la Religione tende a condurre tranquillamente alla giustizia perché determina a fare dei passi verso di essa quelli che non possono trovare ostacoli a questo nell’altra parte, che anzi non ne ricevono che benedizioni: determina a cedere volontariamente’. 11. inquanto ... deboli: perché i più forti si rifiutano di obbedire alla legge. 12. la voce ... disordini: la religione usa la persuasione, non la forza. Invece, sia nel
caso che gli oppressi impongano la legge agli oppressori, sia nel caso che i più forti
opprimano i più deboli calpestando la legge, si crea disordine. 13. la Religione ... volontariamente: cioè . se le classi subalterne pretendono la giustizia sociale, si scontrano con la resistenza
delle classi privilegiate; ma se le classi pri-
vilegiate, persuase dalla religione, si muovono verso la giustizia, non trovano ostacolo nelle classi inferiori, anzi il contra-
rio. Quindi la religione conduce alla giu- . stizia sociale senza sconvolgimenti dell’ordine.
ANALISI DEL TESTO Il passo sviluppa il pensiero di quello precedente, passando dall’esame del ruolo di guida che la Chiesa deve esercitare sull’opinione dell’epoca agli effetti della religione sul piano sociale e politico. Manzoni attribuisce alla religione cattolica una vera efficacia riformatrice, che può giungere ad attenuare i mali della società. La religione è più efficace delle riforme politiche, perché agisce direttamente sulla causa prima di quei mali, l'animo umano. Essa muta le coscienze degli uomini, e in tal modo può arrivare a mutare anche le istituzioni politiche ingiuste e dannose. La Chiesa può quindi condurre alla giustizia. Ma vi conduce senza gravi sconvolgimenti sociali, salvando l'ordine, a differenza delle riforme politiche, che possono produrre effetti sconvolgenti e incalcolabili. Essa risolve i problemi sociali non con la forza, ma con la persuasione, inducendo i privilegiati a spogliarsi spontaneamente e a beneficiare i poveri, e d’altro lato induce i diseredati a sopportare con pazienza e rassegnazione il loro stato, distogliendoli dalle rivendicazioni violente: tende cioè a «condurre tranquillamente alla giustizia», come afferma Manzoni con una formula felicemente sintetica. Questa visione della giustizia sociale, che rifiuta i conflitti, è evidentemente contrapposta, in forma polemica, alle trasformazioni violente imposte alla società della Rivoluzione francese, in particolare nella sua fase giacobina, a cui Manzoni sarà sempre fieramente avverso. Come si vede, il cattolicesimo nutre in Manzoni posizioni moderate, aliene da ogni trasformazione radicale. Questo ideale di una società giusta e tranquilla, che, grazie all'insegnamento della religione cattolica, attenui i problemi sociali senza dar luogo a conflitti fra le classi, prenderà poi corpo nelle vicende e nei personaggi del romanzo, che Manzoni comincerà a scrivere l’anno seguente.
La forza riformatrice della religione
La giustizia senza conflitti
T116 PROPOSTE DI LAVORO 1. Con l’espressione «dimenticare affatto la natura dell’uomo» Manzoni attribuisce all'uomo una natura corrotta, contrariamente a quanto affermava il pensiero illuminista. Come si spiega questa posizione manzoniana? 2. Ci sono differenze tra gli effetti della religione e quelli della politica? 3. Manzoni ritiene la religione.cattolica uno strumento in grado di modificare la situazione sociale degli uomini? (cfr. «comanda al ricco» e confronta con La Pentecoste, T124, vv. 125-128).
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Il romanzesco e il reale |
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J oseph-J oachim-Victor Chauvet nel 1820 aveva pubblicato sul «Lycée francais » un articolo in cui criticava i principi romantici a cui Man|PEA + Rae Shaft sera ispirato nel Carmagnola, in particolare la violazione delle to ilaril sa I Ù È | ve G pd out drammatiche. Manzoni risponde alle critiche con questa lettera x Cda ole: Aura Ponta ‘“ain realtà si tratta di un ampio saggio), pubblicata a Parigi insieme alle fi vOU Ce è sue due tragedie tradotte da Fauriel. La lettera è scritta in francese. I tu
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°... Spiegare ciò che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto, mediante ciò che essi hanno fatto,
ecco la poesia drammatica: creare dei fatti per adattarvi dei sentimenti, è il grande compito dei romanzi, da mademoiselle Scudéri! sino ai giorni nostri.
Io non pretendo per questo che tale genere di componimenti sia essenzialmente falso; vi sono certamente dei romanzi che meritano d’essere guardati come modelli di verità poetica; sono quelli i cui autori, dopo aver concepito, in una maniera precisa e sicura, dei caratteri e dei costumi, hanno inventato azioni e situazioni conformi a quelle che hanno luogo nella vita reale, per sviluppare tali caratteri e tali costumi: dico solamente che, come ogni genere ha il suo scoglio particolare, quello del genere romanzesco è il falso. Il pensiero degli uomini si manifesta più o meno chiaramente attraverso le loro azioni e i loro discorsi; ma, anche quando si parte da questa larga e solida base, è ancora ben raro raggiungere la verità nell’espressione dei sentimenti umani. A fianco di un’idea chiara, semplice e Vera, se ne presentano cento che sono oscure, forzate o false; ed è la difficoltà di isolare nettamente la prima che rende così piccolo il numero dei buoni poeti. Tuttavia anche i più mediocri sono spesso sulla via della verità: ne hanno sempre qualche indizio più o meno vago; solo che questi indizi sono difficili da seguire: ma che accadrà se li si trascura, se li si disdegna? E proprio questo l’errore che hanno commesso la maggior parte dei romanzieri inventando i fatti; e ne è derivato ciò che doveva derivare, che la verità è loro sfuggita più spesso che a coloro che si sono tenuti più vicini alla realtà; ne è derivato che si sono presi poca cura della verosimiglianza, tanto nei fatti che hanno immaginato quanto nei caratteri da cui hanno fatto uscire questi fatti; e che a forza d’inventare storie, situazioni nuove, pericoli inattesi, conflitti singolari di passioni e d’interessi, hanno finito per creare una natura umana che non somiglia per nulla a quella che avevano sotto gli occhi, 0, per meglio dire, a quella che non hanno saputo vedere. E tutto ciò è talmente vero che l’epiteto di romanzesco è stato consacrato per designare generalmente, a propositodi sentimenti e costumi, quel genere particolare di fal-
sità, quel tonoartificioso, quei tratti convenzionali che distinguono i personaggi dei romanzi. [Questo gusto romanzesco ha invaso il teatro, ed anche i più grandi poeti? non sempre se ne sono guardati. Buona parte di colpa spetta alla regola delle due unità].
In primo luogo essa costringe l’artista, come voi dite, Signore, a diventare creatore*. Ho già detto qualche parola su ciò che mi sembra essere questo genere di creazione; permettetemi di ritornare su questo punto importante: vorrei svilupparlo un po’ di più. ——— Più si considera, più si studia un’azione storica suscettibile d’essere resa drammaticamente, e più si scoprono legami tra le sue diverse parti, più si coglie nel suo insieme una ragione semplice e pro|fonda. Vi si distingue infine un carattere particolare, direi quasi individuale, qualche cosa di esclusivo e di proprio, che la rende quale essa è. Si sente sempre più che occorrevano tali costumi, tali istituzioni, tali circostanze per condurre ad un tale risultato, e tali caratteri per produrre tali atti; che occorreva d
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1. mademoiselle Scudéri: Madeleine de Scudéri (1608-1701) fu autrice di romanzi imperniati su intrighi inverosimili e passioni portate all'estremo, che rispondevano al gusto dell’avventuroso, dello stravagante e delle vicende amorose cortesi e galanti proprio dei salotti aristocratici nel
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periodo precedente il regno di Luigi XIV, che segnò invece l’avvento del gusto classico, fondato sull’armonia e l’equilibrio. 2. i più grandi poeti: Manzoni allude soprattutto ai grandi poeti tragici del Seicento francese, Corneille e Racine, di cui
parla diffusamente più avanti.
3. In primo luogo ... creatore: lo Chauvet aveva scritto che dovendo chiudere
l’azione entro i limiti di spazio e tempo prescritti dalla regola delle unità, il poeta non poteva riprodurre semplicemente la realtà, ma era costretto a modificarla con l’immaginazione.
Lettre à M. Chauvet
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490 che le passioni che vediamo in gioco, e le imprese in cui le vediamo impegnate, si succedessero nell’ordine e nei limiti che ci sono dati come l’ordine e i limiti di quelle stesse Imprese. Donde viene l’attrazione che noi proviamo a considerare una tale azione? perché la troviamo non soltanto verisimile, ma interessante? Il fatto è che noi ne scorgiamo le cause reali; ilfatto è che noi seguiamo, allo stesso passo, il cammino dello spirito umano e quello degli avvenimenti particolari presenti alla nostra immaginazione. Noi scopriamo, in una serie datadi fatti, una parte della nostra natura _ e del nostro destino; finiamo per dire dentro di noi: In tali circostanze, mediante simili mezzi, con simili uomini, le cose dovevano accadere così. La creazione imposta dalla regola delle due unità consiste nell’alterare tutto ciò, e nel dare all’effetto principale che si è conservato e che si rappresenta un'altra serie di cause necessariamente differenti e che devono tuttavia essere egualmente verisimili e interes-
santi; nel determinare per congettura ciò che, nel corso della natura, è stato inutile, nel far meglio di essa infine. Ora come si è potuto cercare il mezzo per raggiungere questo inconcepibile scopo? Abbiamo visto Corneille' chiedere il permesso di far camminare gli avvenimenti più in fretta di quanto la verosimiglianza permetta, vale a dire più in fretta che nella realtà. Ora questi avvenimenti ‘
che la tragedia rappresenta sono il risultato di che cosa? della volontà di certi uomini mossi da certe passioni. È stato dunque necessario far nascere più in fretta questa volontà esagerando le passioni, snaturandole. Perché un personaggio giunga in ventiquattr’ore® a una risoluzione decisiva, occorre assolutamente un grado di passione diverso da quello contro cui si è dibattuto per un mese. Così a quella gradazione così interessante attraverso la quale l’anima giunge all’estremo, per così dire, dei suoi sentimenti, è stato necessario rinunciare in parte; ogni pittura di quelle passioni, che prendono un po’ di tempo per manifestarsi, è stata necessario trascurarla; quelle sfumature di carattere che non si lasciano cogliere che attraverso la successione di circostanze sempre diverse e sempre legate tra loro, è stato necessario sopprimerle o confonderle. È stato indispensabile ricorrere a delle passioni
eccessive, a delle passioni abbastanza forti per produrre bruscamente le decisioni più violente. I poeti tragici sono stati, in qualche modo, ridotti a non dipingere che quel piccolo numero di passioni grosso-
lane e dominanti, che figurano nelle classificazioni ideali dei pedanti di morale. Tutte le anomalie di queste passioni, le loro varietà infinite, le loro combinazioni singolari che, nella realtà delle cose umane, costituiscono i caratteri individuali, si sono trovate escluse a forza da una scena dove occorreva picchiare bruscamente e a caso dei gran colpi. Quel fondo generale della natura umana, sul quale si disegnano, per così dire, gli individui umani, non si è avuto né il tempo né il luogo di spiegarlo; e il teatro si è riempito di personaggi fittizi, che vi hanno figurato come tipi astratti di certe passioni, piuttosto che come esseri appassionati. Così si sono avute delle allegorie dell'amore o dell’ambizione, per esempio, piuttosto che degli amanti e degli ambiziosi”. Di qui quell’esagerazione, quel tono convenzionale, quell’uniformità dei caratteri tragici, che costituiscono propriamente il romanzesco. Perciò capita spesso, quando si assiste alle rappresentazioni tragiche, e si paragona ciò che si ha sotto gli occhi, ciò che si sente, con ciò che si conosce degli uomini e dell’uomo, di essere sorpresi al vedere un’altra generosità, un’altra pietà, un’altra politica, un’altra collera, diverse da quelle di cui si ha l’idea o l’esperienza. Si sentono fare, e fare sul serio, ragionamenti che, nella vita reale, non si potrebbe non trovare molto strani; e si vedono gravi personaggi regolarsi, nelle loro determinazioni, su massime e opinioni che non sono mai passate per la testa a nessuno.
[Manzoni prosegue poi osservando come questo tipo di teatro abbia influenzato il costume, e come gli uomini abbiano finito per applicare alla vita reale le massime e i sentimenti falsi uditi sulla scena, ad esempio la necessità del suicidio per salvare l’onore. In tal modo il teatro ha esercitato un'influenza morale negativa]. E Traduzione nostra
4. Corneille: Pierre Corneille (1606-1684) autore del Cid, Cinna, Poliuto ecc., fu l’ini-
ziatore della tragedia classica francese del Seicento, rivolta alla società aristocratica e di corte. Seguì scrupolosamente le regole drammatiche, in particolare quella delle unità. 5. Perché ... ventiquattr'ore: si ricordi che la regola delle unità prescriveva che
Manzoni
l’azione della tragedia non superasse le ventiquattro ore. 6. dei pedanti di morale: gli autori dei trattati di morale che danno delle classificazioni generali e astratte delle passioni umane. La letteratura moralistica fu molto diffusa nel Seicento classico francese; rispondeva al gusto dell’epoca, che rifuggiva dal reale quotidiano e dal concreto
particolare, e ricercava l’aspetto assoluto ed eterno dei fenomeni, dei caratteri e dei sentimenti umani. : 7. Così... ambiziosi: personaggi che non hanno un carattere individuale, unico e
irrepetibile, ma stanno solo a rappresentare sentimenti generali e astratti, l’amore, l’ambizione ecc.
491 ANALISI DEL TESTO La polemica contro il romanzesco chiarisce alcuni punti fondamentali della nozione manzoniana di letteratura: — In primo luogo l’esigenza che la letteratura si ispiri al «vero». Il vero è per lui essen-
Il «vero»
zialmente «ciò che è stato», la storia. I fatti realmente accaduti hanno in sé, per Manzoni, una forza drammatica che non può essere eguagliata da alcuna invenzione.
Il «romanzesco»
— L’unità di tempo, costringendo a concentrare l’azione nel breve arco di una giornata, costringe anche ad esagerare le passioni che hanno condotto a quelle azioni, snaturandole, sopprimendo gradazioni e sfumature. Ciò ha indotto a cancellare i «caratteri individuali», nella «varietà infinita» delle loro passioni, nelle loro «combinazioni singolari». Ai caratteri individuali e inconfondibili si sono sostituiti tipi astratti, pure allegorie di certi concetti o sentimenti. Di qui nasce il «romanzesco» nella tragedia, che è il falso, l’artificioso, il con-
e il falso
venzionale, l'uniforme, che soffoca l’individualità.
La polemica contro il i
| — Questa polemica caratterizza storicamente l’idea manzoniana di letteratura. Il bersaglio polemico è l’arte classicistica, aristocratica e di corte, quella espressa dal Rinascimento
arlstocratico
un ideale classico di decoro e di dignità, tendeva ad una rappresentazione idealizzata. Per preservarsi da un contatto troppo diretto con la realtà, che avrebbe compromesso quella dignità, rifuggiva da ciò che era concreto, individuale, legato ad un particolare tempo e ad un particolare luogo, e rappresentava solo ciò che era universale, tipico, compiendo un processo di astrazione delle qualità concrete degli uomini e delle cose. Al contrario l’arte che è espressione della borghesia moderna, e che si affaccia tra fine Settecento e primi dell’Ottocento, in opposizione all’idealizzazione della letteratura aristocratica e classicheggiante punta il suo interesse proprio su ciò che è individuale e concreto: i personaggi non sono più proiettati su uno sfondo fuori del tempo e dello spazio reali, ma rappresentati in un legame organico, inscindibile, con un particolare momento della storia e con un particolare ambiente, in modo che nessun gesto o parola o sentimento si possa comprendere se non riferito a quel preciso terreno storico e immerso in quell’atmosfera. A questo gusto realistico moderno si rifà evidentemente la nozione manzoniana di letteratura che traspare dalle pagine della Lettre. Ed è una nozione che, più che nella tragedia, ancora legata come genere alla tradizione classica, si affermerà soprattutto nel romanzo.
Il tipico astratto i L’individuale concreto
e ancor più dalla letteratura francese dell’epoca del Re Sole. Tale letteratura, in nome di
PROPOSTE
DI LAVORO
1. Quale differenza istituisce Manzoni tra la
«poesia drammatica» e i «romanzi»?
2. Rintracciare nella prima parte del passo la definizione che Manzoni attribuisce al «romanzesco» e riflettere se / promessi sposi rientrano in questo genere. 3. Quali critiche Manzoni rivolge all’uso delle unità aristoteliche di spazio e tempo?
4. Quale nozione di letteratura emerge dal testo?
Q
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492 .
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Storia e invenzione poetica Il passo è sempre tratto dalla Lettre àM. Chauvet.
Ma, si potrà forse dire, se si toglie al poeta ciò che lo distingue dallo storico, il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? la poesia; sì, la poesia. Perché, in definitiva, che cosa
ci dà la storia? degli avvenimenti, che, per così dire, non sono noti che dall’esterno; ciò che gli uomini hanno compiuto: ma ciò che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro deliberazioni e i loro progetti, i loro successi e i loro infortuni; i discorsi con cui hanno fatto o cercato di far prevalere le loro passioni e le loro volontà su altre passioni e su altre volontà, con i quali hanno espresso la loro collera, riversato la loro tristezza, con i quali, in una parola, hanno rivelato la loro individualità: tutto ciò è quasi totalmente passato sotto silenzio dalla storia; e tutto ciò è il dominio della poesia. AN! sarebbe vano temere che essa manchi di occasioni di creare, nel senso più serio, e forse il solo . serio di tale parola! Ogni segreto dell’animo umano si svela, tutto ciò che fa i grandi avvenimenti, tutto ciò che caratterizza i grandi destini, si scopre alle immaginazioni dotate d’una forza di simpatia sufficiente. Tutto ciò che la volontà umana ha di forte o di misterioso, tutto ciò che la sventura ha
di religioso e di profondo, il poeta lo può indovinare; 0, per meglio dire, coglierlo, afferrarlo e renderlo. Traduzione nostra
ANALISI DEL TESTO La poetica del «vero» induce Manzoni a privilegiare i soggetti tratti dalla storia, e a riprodurre fedelmente i caratteri drammatici che sono insiti negli eventi storici stessi. Ma ciò facendo lo scrittore si trova costretto a individuare ciò che distingue la poesia dalla storia. La distinzione è indicata molto chiaramente in questo passo. Il poeta non inventa la dinamica dei fatti: questa gli è offerta dalla storia, ed egli la deve rispettare, proprio per non sprecare quelle potenzialità drammatiche che sono presenti nei fatti realmente accaduti. Ma gli resta egualmente un’ampia sfera di creazione: il poeta, con l’invenzione che gli è propria, ricostruisce i moventi psicologici dei fatti, i pensieri, i sentimenti che li hanno accompagnati negli animi dei protagonisti, e di cui la storia non ha conservato documenti.
Poesia e storia
L’invenzione
-T118 PROPOSTE DI LAVORO 1. Riflettere sulla differenza che Manzoni afferma esistere tra la poesia e la storia, tra il ruolo del poeta e quello
dello storico.
2. Manzoni resterà fedele a questa dichiarazione nella sua produzione letteraria? 3. Distinguere all’interno dei brani riportati sul Carmagnola e sull’Adelchi gli aspetti di «poesia» e di «storia».
Manzoni
|
493 dall’Epistolario
La funzione
della letteratura:
render le
cose «un po’ più come dovrebbono essere » La lettera, del 9 febbraio 1806, inaugura un carteggio con Claude Faurtel che si protrarrà negli anni. Fauriel, conosciuto da Manzoni durante il suo soggiorno parigino, era uno studioso di letteratura, di filologia e di storia. Manzoni strinse con lui un’affettuosa amicizia, e nelle lettere indirizzategli affidò riflessioni sul suo lavoro letterario, che sono per noi preziosissime. Io credo che la meditazione di ciò che è, e di ciò che dovrebb’essere, e l’acerbo sentimento che nasce da questo contrasto, io credo che questo meditare e questo sentire sieno le sorgenti delle migliori opere
sì in verso che in prosa dei nostri tempi: e questi erano gli elementi di quel sommo uomo). Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta. Ed è per ciò che gli scrittori non possono produrre l’effetto che eglino? (m’intendo*? i buoni) si propongono, d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le cose
un po’ più come dovrebbono essere. Quindi è che i bei versi del Giorno non hanno corretti nell’universale i nostri torti‘ costumi più di quello che i bei versi della Georgica di Virgilio” migliorino la nostra agricoltura. Vi confesso ch’io veggo con un piacere misto d’invidia il popolo di Parigi intendere ed applaudire alle commedie di Molière*. Ma dovendo gli scrittori italiani assolutamente disperare di un effetto immediato, il Parini non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono; fra i quali non v’è alcuno di quelli ch'egli s'è proposto di correggere; ha trovato delle belle immagini, ha detto delle verità: ed io son persuaso che una qualunque verità pubblicata contribuisce sempre ad illuminare e riordinare un tal poco il caos delle nozioni dell’universale”, che sono il principio delle azioni dell’universale. 1. di quel sommo uomo: Giuseppe Parini (1729-1799). Vissuto a contatto con gli illuministi milanesi, fu autore di Odi, che per la maggior parte affrontano argomenti civili, e del poemetto satirico Il giorno, che critica la vita oziosa dell’aristocrazia contemporanea.
2. eglino: essi. 3. m’intendo: intendo dire.
4. torti: corrotti. 5. Georgica di Virgilio: le Georgiche di Virgilio (70-19 a.C.) sono appunto un poema didascalico che dà insegnamenti sui lavori dei campi. 6. Molière: Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière (1622-1678) fu il più grande poeta comico del Seicento francese, autore dell’Avaro, del Misantropo, di Tartufo, del
Borghese gentiluomo ecc. Il popolo parigino capisce Molière perché la lingua letteraria francese non è completamente diversa da quella parlata come quella italiana (cfr. la lettera al Fauriel del 3 novembre 1821, T120). 7. dell’universale: della collettività.
ANALISI DEL TESTO
Il pubblico
Letteratura e realtà
La lettera, scritta da un Manzoni solo ventunenne, delinea già quella concezione della letteratura a cui lo scrittore poi si ispirerà nella grande stagione creativa delle liriche, delle tragedie, del romanzo. - I buoni scrittori non devono solo rivolgersi all’élite dei letterati, ma alla «moltitudine»: in questo Manzoni, anni prima della sua conversione letteraria al Romanticismo, prende
le distanze dal contemporaneo classicismo e dalle sue tendenze aristocratiche ed elitarie. - Gli scrittori devono avere un atteggiamento critico nei confronti della realtà esistente, e devono assumere un compito educativo, diffondendo tra la moltitudine il «bello»
e l’«utile»:
in tal modo possono contribuire a mutare le cose, rendendole un po’ più come dovrebbero
- essere. La letteratura per Manzoni deve dunque esser utile, agire sulla realtà e trasformarla: Epistolario
494 è questa una concezione che si collega chiaramente a quella dell’Illuminismo lombardo; e difatti, non a caso, il modello di scrittore proposto è Parini. — Illuministica è anche l’idea che, per riformare la società, occorra prima di tutto «illuminare» le menti degli uomini, diffondendo le idee «vere», perché le «nozioni» sono il principio delle «azioni» degli uomini. - Questa idea della funzione riformatrice della letteratura si colloca nel quadro concreto «della situazione italiana, della cui arretratezza sociale e culturale Manzoni traccia una dia-
gnosi precisa. Dovendo operare in una situazione così difficile, lo scrittore è costretto a rivolgersi a pochi, perché i più non sono in grado di intenderlo. Ma anche così la sua azione può essere efficace: mettere in circolo delle idee «vere» dà comunque inizio ad un processo, che può portare a riformare la società. i — Manzoni si rende conto del fatto che il carattere elitario della letteratura, nelle condizioni presenti dell’Italia, deriva anche da fattori linguistici: non vi è comunicazione tra lo "scrittore ela moltitudine perché la lingua italiana è pressoché una lingua morta, compresa e usata solo da una ristretta minoranza. Si delinea così quell’esigenza di una letteratura che usi un linguaggio comprensibile a vasti strati della popolazione, che sarà uno dei motivi centrali dell’attività manzoniana.
La diffusione del vero
La situazione italiana
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IT1Î9 PROPOSTE DI LAVORO
Il problema della lingua
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1. Individuare il ruolo che Manzoni attribuisce allo scrittore ed il suo rapporto con il pubblico. 2. Quali sono le cause del “fallimento” di scrittori quali Parini e Virgilio? 3. Individuare gli elementi tipicamente illuministici presenti nel testo. 4. Individuare gli aspetti dell’arretratezza sociale, politica e culturale dell’Italia che Manzoni indica.
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Hlromanzostorico, la lingua e il pubblico. Dalle lettere a Fauriel si possono ricavare indicazioni preziose soprattutto intorno alla concezione manzoniana del romanzo. La lettera seguente è del 8 novembre del 1821: Manzoni aveva iniziato la stesura del romanzo nell’aprile, interrompendola ben presto per le diffficoltà linguistiche qui analizzate. La lettera è scritta in francese: ne diamo la traduzione.
Per indicarvi brevemente la mia idea fondamentale sui romanzi storici, e mettervi così sulla via
di correggerla, vi dirò che li concepisco come una rappresentazione di uno stato dato della società per mezzo di fatti e di caratteri così somiglianti alla realtà, che li si possa credere appartenenti ad una storia vera or ora scoperta. Quando avvenimenti e personaggi storici vi sono mescolati, credo che occorra
rappresentarli nella maniera più strettamente storica; così per esempio Riccardo Cuor di leone mi pare difettoso in Ivanhoe!. Per quanto riguarda le difficoltà che oppone la lingua italiana a trattare simili soggetti, esse sono reali e grandi, ne convengo; ma penso che derivino da un fatto generale, che sventuratamente incide su ogni sorta di composizione. Questo fatto è (mi guardo intorno per assicurarmi 1. Ivanhoe: romanzo storico di ambiente | fu l’iniziatore del genere. Fu pubblicato nel 1820. medievale di Walter Scott (1771-1832), che
Manzoni
495 che nessuno mi ascolti) questo triste fatto è, a mio avviso, la povertà della lingua italiana. Quando un Francese cerca di esprimere le sue idee nel modo migliore possibile, guardate che abbondanza e varietà di modi? trova in questa lingua che ha sempre parlato, in questa lingua che si vien facendo da tanto tempo e tutti i giorni. In tanti libri, in tante conversazioni, in tante discussioni di tutti i generi. Con tutto ciò, egli ha una regola per la scelta delle sue espressioni, e tale regola la trova nei suoi ricordi, nelle sue abitudini che gli danno un senso pressoché sicuro della conformità del suo stile con lo spirito generale della sua lingua; non deve consultare dizionari per sapere se una parola urterà o sarà accettata: si chiede se è francese o no, ed è pressoché sicuro della risposta. Questa ricchezza di costrutti e questa abitudine ad usarli gli dà per di più il mezzo di inventarne, quando ne ha bisogno, con una certa sicurezza, perché l’analogia è un campo vasto e fertile in proporzione del positivo della lingua?: in tal modo può esprimere ciò che vi è di originale e di nuovo nelle sue idee mediante formule ancora molto vicine all'uso comune; e può segnare quasi con precisione il limite tra l’arditezza e la stravaganza. Immaginatevi al posto di tutto ciò un italiano che scrive, se non è toscano, in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che (anche se è nato nella regione privilegiata‘) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti dell’Italia, una lingua in cui non si discute verbalmente di grandi problemi, una lingua in cui le opere relative alle scienze morali sono molto rare, e a lunga distanza l’una dall’altra, una lingua che (a prestar fede a quelli che ne parlano di più) è stata corrotta e sfigurata proprio dagli scrittori che hanno trattato le materie più importanti negli ultimi tempi”; di modo che per le buone idee moderne non vi sarebbe un tipo generale d’espressione in ciò che si è fatto sino ad oggi in Italia. Manca completamente a questo povero scrittore quel sentimento per così dire di comunione con il proprio lettore, quella certezza di maneggiare uno strumento egualmente conosciuto da entrambi. Provi a domandarsi se la frase che ha appena scritta è italiana; come potrà dare una risposta sicura ad una domanda che non è precisa? Perché che cosa significa italiano in questo senso? secondo alcuni ciò che è consegnato alla Crusca’, secondo altri ciò che è compreso in tutta Italia, o dalle classi colte: la maggior parte non attribuisce a questa parola alcuna idea determinata. Vi esprimo qui in una maniera molto vaga e molto incompleta un sentimento reale e penoso: la conoscenza che avete della nostra lingua vi suggerirà subito ciò che manca alle mie idee, ma ho proprio paura che non v’indurrà a contestarne la sostanza. Nel rigore feroce e pedantesco dei nostri puristi” vi è, a mio avviso, un sentimento generale molto ragionevole; il bisogno di una certà fissità, di una lingua convenuta tra coloro che scrivono e coloro che leggono: credo soltanto che essi abbiano torto a credere che tutta una lingua sia nella Crusca e negli scrittori classici, e che, anche se ci fosse, avrebbero ancora torto a pretendere di cercarvela, di impararla, di servirsene: perché è assolutamente impossibile che dai ricordi di una lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile ad ogni istante di tutto il materiale di una lingua*. Ditemi ora che cosa deve fare un italiano che, non sapendo fare nessun'altra cosa, vuole scrivere. Quanto a me, pur disperando di trovare una regola costante e speciale per fare bene questo mestiere, credo tuttavia che vi sia anche per noi una perfezione approssimativa di stile e che per trasportarla il più possibile nei propri scritti occorre pensare molto a ciò che si vuole dire, aver letto molto gli italiani detti classici, e gli scrittori di altre lingue, i francesi soprattutto, aver parlato di materie importanti con i propri concittadini, e che in base a tutto ciò si può acquisire una certa prontezza nel trovare nella lingua che viene chiamata buona* ciò che essa può fornire ai nostri bisogni attuali, una certa attitudine ad estenderlo mediante l’analogia, ed un certo tatto per trarre dalla lingua francese 2. modi: in italiano nel testo. 8. Questa ... lingua: quanto più una lingua è ricca di costrutti, tanto più lo scrittore può inventarne dei nuovi, per analogia con quelli già esistenti. 4. nella regione privilegiata: la Toscana. La lingua letteraria italiana è il dialetto toscano, affermatosi nel Trecento in tutta
la penisola per il prestigio di Dante, Petrarca e Boccaccio. 5. una lingua che ... tempi: allude alle polemiche dei puristi contro gli illuministi italiani, che usavano un linguaggio cosmopolita, attingendo liberamente i termini
necessari dalle lingue straniere, soprattutto dal francese. 6. Crusca: l'Accademia della Crusca, formatasi a Firenze intorno al 1582, si propose la compilazione di un vocabolario che codificasse la pura lingua letteraria. Il modello era la lingua degli scrittori fiorentini del Trecento, secondo la tesi propugnata dal Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). La prima edizione del vocabolario della Crusca uscì nel 1612 e fu ristampata più volte in seguito con
aggiunte e modifiche. 7. puristi: i puristi, ai primi dell'Ottocento,
proponevano come modello di pura lingua italiana la lingua dei testi trecenteschi. Il maestro dei puristi fu il padre Antonio Cesari (1760-1828), che promosse anche l’edizione accresciuta e corretta del vocabolario della Crusca (1806-1811). 8. perché ... lingua: i puristi indicavano un modello di lingua scritta, letteraria. Secondo Manzoni invece solo l’uso parlato fa sì che una lingua sia veramente tale, e non una lingua morta o un gergo settoriale e specialistico. 9. lingua ... buona: la lingua della tradizione letteraria.
Epistolario
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496
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ciò che può essere mescolato alla nostra senza urtare con una forte dissonanza, e senza apportarvi
oscurità. Così con un lavoro più penoso e più ostinato si farà il meno peggio possibile ciò che presso di voi si fa bene quasi con facilità. Penso insieme con voi che scrivere bene un romanzo in italiano è una delle cose più difficili, ma trovo questa difficoltà anche in altri soggetti, benché in minor grado; e con la conoscenza non completa ma ben sicura che possiedo delle imperfezioni dell’artefice, sento anche in un modo quasi altrettanto sicuro che ve ne sono molte nella materia. Traduzione nostra
ANALISI DEL TESTO — Il primo dato interessante offerto dalla lettera è l'enunciazione, da parte di Manzoni,
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della propria idea di romanzo storico. Esso è essenzialmente un’operazione storiografica, la rappresentazione della società in un dato momento della storia; ciò esclude subito il «romanzesco», l'invenzione di casi fantastici, di combinazioni inverosimili. Il quadro sociale però, a differenza della storiografia, è ricostruito in azione, drammaticamente, attraverso le azioni dei personaggi. Per restituire la vita del passato nella sua dimensione quotidiana, è necesSario ricorrere a personaggi comuni, quelli di cui la storia non parla: di conseguenza tali personaggi devono essere inventati: ma poiché devono rispecchiare le condizioni di una data società, è necessario che essi siano perfettamente aderenti a quella realtà storica e restituiscano fedelmente mentalità e costumi del tempo. Devono insomma dare l’impressione non di essere inventati dal romanziere, ma ricavati da qualche documento storico appena scoperto, e ignorato sino a quel momento. Nel quadro possono poi comparire personaggi e avve-
Il vero storico L’invenzione
nimenti storici: in tal caso la fedeltà alla storia deve essere assoluta, ed il romanziere non
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sì può permettere alcun arbitrio (in ciò, Manzoni, critica un difetto di rigore in Scott). Questi principi saranno puntualmente applicati da Manzoni nel suo romanzo. — Non appena Manzoni affronta il genere del romanzo, che è destinato non all’élite dei letterati, ma al grande pubblico (per quanto poteva esistere in quei tempi), si scontra subito con il problema della lingua da impiegare per poter comunicare con esso. Manzoni si rende conto di disporre di uno strumento comunicativo povero, ma soprattutto incerto, che non gli dà la sicurezza di maneggiare uno strumento conosciuto egualmente da chi emette e da chi riceve il messaggio. Manzoni ne vede chiaramente le cause: la lingua italiana non è mai stata veramente lingua d’uso, ma, come già diceva nella lettera al Fauriel sopra riportata, una lingua quasi «morta». Intorno al problema della lingua da usare da parte di uno scrittore che voglia raggiungere la «moltitudine», Manzoni si arrovellerà per anni. La soluzione definitiva sarà, come sappiamo, l’adozione del fiorentino parlato moderno. Per ora, nella stesura del Fermo, come leggiamo in questa lettera, Manzoni si propone di attenersi ad una soluzione di compromesso, ibrida: usare come base la lingua letteraria tradizionale (quella «che viene chiamata buona»), con inserti del parlato («aver parlato di materie importanti coni propri concittadini»), adattamenti alle esigenze attuali, estensioni mediante l’analogia, e cauti apporti dalle altre lingue, in specie quella francese.
Il problema della lingua
‘T120 PROPOSTE DI LAVORO bi 1. Ricavare dal testo la definizione di romanzo storico formulata da Manzoni e verificare se si adatti ai Promessi Sposi.
2. Quali limiti, e attribuibili
a quali cause, Manzoni riconosce alla lingua italiana?
3. Quali sono i vantaggi per lo scrittore di lingua francese?
Manzoni
4197 Romanzo, romanzesco e realtà La lettera, sempre indirizzata a Fauriel, è del 29 maggio 1822. Come tutte le altre, tranne la prima (del 1806) è in francese (la diamo in traduzione).
... Sono immerso nel mio romanzo, il cui soggetto è collocato in Lombardia, e la cui epoca va dal 1628 al 1631. Le memorie che ci restano di quest’epoca presentano e fanno supporre una situazione della società
quanto mai straordinaria: il governo più arbitrario combinato con l’anarchia feudale e l’anarchia popolare'; una legislazione stupefacente per ciò che prescrive e per ciò che fa indovinare, o racconta:
un’ignoranza profonda, feroce, e pretenziosa: delle classi con interessi e princìpi opposti, alcuni aneddoti poco conosciuti, ma consegnati a scritti degnissimi di fede, e che rivelano un grande sviluppo di tutto ciò, infine una peste che ha dato modo di manifestarsi alla scelleratezza più consumata e più svergognata, ai pregiudizi più assurdi, ed alle virtù più commoventi ecc. ecc... Ecco di che riempire un canovaccio, 0 piuttosto dei materiali che forse non faranno altro che svelare l’inettitudine di colui che si accinge ad impiegarli. Ma, se occorre perire, periamo. Oso lusingarmi (ho imparato questa frase dal mio sarto di Parigi) oso lusingarmi per lo meno di evitare il biasimo di imitatore: a tal fine faccio ciò che posso per penetrare nello spirito del tempo che devo descrivere, per viverci: era così originale, che sarà proprio colpa mia, se questa qualità non si comunicherà alla descrizione. Quanto alla condotta degli avvenimenti, ed all’intreccio, credo che il modo migliore di non fare come gli altri sia di sforzarsi di considerare nella realtà la maniera d’agire degli uomini e di considerarla soprattutto in ciò che ha
d’opposto allo spirito romanzesco?. In tutti i romanzi che ho letto, mi sembra di vedere uno sforzo per stabilire dei rapporti interessanti ed inattesi tra i vari personaggi, per ricondurli sulla scena in compagnia, per trovare degli avvenimenti che influiscano contemporaneamente e in modi differenti sul destino di tutti, infine un’unità artificiosa che non si trova affatto nella vita reale. So che questa unità fa piacere al lettore, ma penso che ciò avvenga per un’antica abitudine; so che passa per un pregio in alcune opere che ne possiedono uno reale e di prim’ordine, ma ritengo che un giorno diverrà oggetto di critica; e che si citerà questa maniera di legare gli avvenimenti come un esempio dell’impero che l’abitudine esercita sugli spiriti più liberi ed elevati, o dei sacrifici che si fanno al gusto dominante. Traduzione nostra
1. il governo ... popolare: i signori feudali e il popolo non obbediscono alle leggi ema-
| nate dal governo centrale. 2. spirito romanzesco: sul «romanzesco»
cfr. il passo tratto dalla Lettre à M. Chauvet, T117.
ANALISI DEL TESTO La lettera è preziosa perché Manzoni vi sintetizza gli aspetti essenziali del quadro storico che intende tracciare attraverso il romanzo. I punti che lo scrittore mette in rilievo
La critica del passato
Gli elementi del quadro storico
possono così indicare alcune fondamentali linee di lettura dei Promessi sposti. - Si osservi innanzitutto l'atteggiamento polemico verso il periodo storico affrontato:
si tratta di una situazione «straordinaria» della società, ben diversa dal presente in cui si
collocano lo scrittore e i suoi lettori. Manzoni la critica quindi dalla prospettiva di una società che ha conosciuto un sensibile progresso, nel campo politico, del costume, della mentalità, della cultura, e in cui quelle aberrazioni sono ormai inconcepibili: tanto che il romanziere deve spiegarle accuratamente ai suoi lettori (si pensi alle tante digressioni storiche del romanzo). Questo atteggiamento critico e polemico verso il passato rivela la componente illuministica di Manzoni, ma anche la sua idea dell'impegno civile della letteratura. - Si ricostruiscano poi i vari aspetti che compongono il quadro: 1) un governo che si fonda sull’arbitrio; 2) una legislazione aberrante; 3) l'anarchia feudale (la nobiltà ignora le leggi, ha privilegi intoccabili e li sfrutta con prepotenza); 4) l'anarchia popolare (anche il popolo » non rispetta le leggi, e ricerca il proprio vantaggio con la forza); 5) ignoranza profonda e Epistolario
498 pretenziosa; 6) classi in antagonismo (si ricordi che Manzoni voleva una società che arrivasse «tranquillamente alla giustizia»); 7) la peste, che esalta all’estremo il bene quanto il male. Ira - Lo scrittore vuol «penetrare nello spirito del tempo», e ribadisce i suoi propositi di rigorosa fedeltà storica. i - Tale rigore esclude il romanzesco ed impone alla narrazione di aderire al modo in cui gli uomini agiscono nella realtà. Il romanzesco è definito qui soprattutto a livello di intrec-
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Lo scrupolo storico
Cio, come combinazione artificiosa e inverosimile di fatti, come ricerca di effetti di sorpresa,
che suscitino la curiosità del lettore.
T121 PROPOSTE DI LAVORO mu 1. Manzoni segna in questa lettera la distanza del presente dal periodo rappresentato nel romanzo. Si cerchino invece, nei Promessi sposi, i punti in cui Manzoni sottolinea come anche nel presente le cose non siano mutate. 2. Dal quadro negativo qui offerto della società del ’600 si ricavi l’idea della società «come dovrebbe essere» secondo Manzoni. 3. Si individuino gli aspetti del romanzo che corrispondono al quadro tracciato nella lettera. 4. Si colgano gli aspetti di critica al «romanzesco».
dalla Lettera sul Romanticismo
LL. T122
o
L'utile, il vero, l’interessante Il passo è tratto dalla lettera a Cesare d’Azeglio (nobile piemontese, padre di Massimo d’Azeglio, che era a sua volta genero di Manzoni) in cui lo scrittore traccia un bilancio del Romanticismo. Il passo riportato è tratto dalla redazione originaria del 1823, che è legata più direttamente al clima della battaglia romantica, e quindi storicamente più significativa. Tale redazione non fu mai pubblicata da Manzoni. Quella stampata nell'edizione 1870 delle Opere varie è notevolmente diversa. Il quadro del Romanticismo tracciato da Manzoni si articola in . due momenti: nel primo viene esposta la parte negativa, cioè le critiche rivolte dai romantici ai principi della letteratura classicistica, cioè all’uso della mitologia e alle regole; nel secondo si tratta del «positivo romantico», cioè della parte propositiva, i princìpi di poetica professati dai romantici e i loro programmi letterari.
Ommettendo quindi i precetti o i consigli positivi proposti pei casi particolari e con applicazione immediata; precetti e consigli, alcuni dei quali certamente potranno divenire soggetto da quistione, e che tutti insieme formano, a quel che me ne pare, un saggio molto pregevole, ma un saggio di ciò che può farsi col tempo; mi limiterò ad esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico. Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter essere questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo. Debba per conseguenza scegliere gli argomenti pei quali la massa dei lettori ha o avrà, a misura che diverrà più Manzoni
499 colta, una disposizione di curiosità e di affezione, nata da rapporti reali!, a preferenza degli argo-
menti, pei quali una classe sola? di lettori ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e la moltitudine una riverenza non sentita né ragionata, ma ricevuta ciecamente?. E che in ogni argomento debba cercare di scoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale, non solo come fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello‘: giacché e nell’uno e nell’altro ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero; è quindi temporario? e accidentale. Il diletto mentale non è prodotto che dall’assentimento ad una idea”, l’in-
teresse, dalla speranza di trovare in quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento e di riposo: ora quando un nuovo e vivo lume ci fa scoprire in quella idea il falso e quindi l’impossibilità che la mente vi riposi e vi si compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l'interesse spariscono. Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere. |
[Questo è l’ultimo risultato delle opinioni sul positivo romantico. Da principio ci si era arrestati più indietro: si rifiutava bensì la mitologia classica, perché non vera e per di più neppure creduta da quelli che la usavano in poesia, ma si ammettevano certe forme di meraviglioso e di fantastico credute vere dal popolo, e per questo solo fatto ritenute capaci di destare interesse. Ora tale dottrina è abbandonata dai Romantici, in nome di un’aderenza totale al vero].
[...] Non dissimulo, né a Lei, che sarebbe un povero ed inutile artificio, né a me stesso, perché non desidero ingannarmi, quanto indeterminato, incerto e vacillante nell’applicazione sia il senso dei vocaboli: utile, vero, interessante. E per non parlare che d’uno di essi, Ella sa meglio di me che il vero tanto lodato e tanto raccomandato nelle opere d’immaginazione, non ha mai avuto un significato preciso. Il suo ovvio e comune” non può essere applicato a queste, perché di consenso universale? vi debbe essere dell’inventato, cioè del falso. Il vero che debbe trovarvisi dappertutto, et méme dans la fable?, è dunque qualche cosa di diverso da ciò che si vuole esprimere ordinariamente con quella parola, o per dir meglio, è qualche cosa di non ancor definito; né il definirlo mi pare impresa molto agevole, quando pure ella sia possibile. Comunque sia, una tale incertezza non è particolare al princi-
pio che ho tentato di esporle; è comune a tutti gli altri, è antica; il sistema romantico ne ritiene meno ° di qualunque altro sistema letterario, perché la parte negativa, specificando il falso, l'inutile o il dannoso, il freddo che vuole escludere, indica e circoscrive nelle idee contrarie qualche cosa di più preciso, un senso più lucido di quello che abbiano avuto finora. Del resto, in un principio così recente, non si vuol tanto guardare agli svolgimenti che possa aver già ricevuti, quanto a quelli di cui è capace. La formola che esprime quel principio è così generale, le parole di essa hanno, se non altro, un suono,
un presentimento d’idee così bello e così savio, il materiale dei fatti che debbono servire agli esperimenti! è così abbondante, che è da credersi che un tal principio sia per ricevere di mano in mano svolgimenti, spiegazioni e conferme, di cui ora non è possibile prevedere in concreto né il numero,
né l’importanza. Tale almeno è l’opinione ch'io ho fitta nella mente, e nella quale io mi rallegro perché questo sistema non solo in alcune parti, come ho accennato più sopra, ma nel suo complesso mi sembra avere una tendenza religiosa.
1. una disposizione ... reali: un interesse nato dalla realtà vissuta, presente, non dalla lettura dei libri del passato (nel testo
del ’70: «dalle memorie e dalle impressioni giornaliere della vita»). 2. una classe sola: la classe dei letterati. 3. una riverenza ... ciecamente: la massa prova riverenza per i classici solo per sentito dire, senza conoscerli e senza poter dare un giudizio. :
4. il vero storico ... bello: la conoscenza della verità, nel caso dei fatti storici come
in quello dei principi morali, non è solo il fine a cui devono giungere le opere letterarie, ma anche ciò da cui nasce la loro bellezza. 5. temporario: temporaneo. 6. Il diletto ... idea: il piacere mentale è prodotto dal consenso che si dà ad una idea.
7. comune: sott. significato. 8. di consenso universale: per consenso generale. 9. «et mème dans la fable»: anche nella favola, nei componimenti basati sull’invenzione. 10. ne ritiene meno: ha meno punti incerti. 11. agli esperimenti: agli esperimenti di una nuova letteratura ispirata al vero e
all’utile.
Lettera sul Romanticismo
500 i ANALISI DEL TESTO Il passo fissa in forma sintetica i princìpi fondamentali a cui si ispira il Romanticismo italiano: - «L'utile per iscopo»: i romantici ereditano la concezione utilitaria ed educativa della letteratura che era già propria della generazione illuministica del «Caffè», a cui esplicitamente si collegano. Alla letteratura sono assegnati fini di diffusione dei “lumi”, di educazione morale, di sollecitazione civile e politica. Non si dimentichi che il gruppo romantico lombardo è impegnato politicamente in direzione risorgimentale. - «Il vero per soggetto»: Manzoni stesso riconosce che il concetto di «vero» non è agevolmente definibile. Si definisce più che altro in negativo, come rifiuto dei contenuti e delle forme della letteratura del passato, sentita come falsa, artificiosa, vuota e fredda. Il principio del «vero» è più che altro un’indicazione generale di tendenza, l’espressione di un bisogno. Toccherà alla letteratura del futuro concretare tale esigenza, dandole corpo in opere specifiche. - «L’interessante per mezzo»: anche questo principio suona polemico nei confronti della letteratura del passato. Se vuole essere «utile», la letteratura deve rivolgersi non solo ai pochi, ma alla maggioranza delle persone. Per far questo non può più adottare gli argomenti cari al classicismo, in specie la mitologia, che fa parte del patrimonio culturale e degli interessi di un’élite ristrettissima, ma deve rivolgersi ad argomenti più attuali, che siano vivi nella coscienza contemporanea e più vicini all'esperienza quotidiana. Inoltre non può più adottare solo le forme tradizionali, ma deve individuare forme più aderenti agli interessi reali del pubblico, più agevolmente accessibili. Manzoni stesso si era già adoperato per attuare questi princìpi nelle liriche e nelle tragedie, composte negli anni precedenti; ma la loro più compiuta attuazione si avrà nel romanzo (a cui Manzoni stava appunto lavorando).
L’«utile»
Il «vero»
L’«interessante»
È PROPOSTE DI LAVORO pini 1. Riflettere sui modi in cui la dichiarazione di poetica qui contenuta, «la poesia e la letteratura... interessante per mezzo», a) trovi riscontro nella produzione letteraria dell’autore b) sia estensibile a tutta la produzione romantica italiana.
2. Perché il vero è per Manzoni l’unica fonte del bello?
dal Carme in morte di Carlo Imbonati
Sr
T123 L ;
Il «giusto solitario» Carlo Imbonati, l’uomo con il quale la madre di Manzoni viveva dopo la separazione dal marito, e per il quale il giovane poeta nutriva profonda venerazione, era morto il 15 marzo 1805. Secondo uno schema consueto della poesia classicheggiante, Manzoni finge che l'ombra dell'Imbonati gli appaia in sogno e gli rivolga paterni consigli. Il carme è in endecasillabi sciolti.
Manzoni
501 1. Come... sviluppato: «mi sentii liberato dal corpo con la dolcezza con cui si desta dal sonno l’uomo che non è agitato da desideri o timori». Parla Carlo Imbonati, l’uomo con il quale la madre di Manzoni conviveva dopo essersi separata dal marito, e per.il quale il poeta nutriva profonda venerazione. L’Imbonati era morto il 15 marzo 1805. Secondo uno schema consueto della poesia classicheggiante, Manzoni finge che l’ombra del morto gli appaia in sogno e gli rivolga la parola. 2. mi stava: Giulia Beccaria, che stava al
capezzale del morente. 8. se ciò non era: «se non avessi dovuto separarmi da voi». 4. ov’è... peccato?: dove il fare bene è un fatto eccezionale, e il più grande motivo di lode è non aver fatto nulla di male. 5. altro: diverso. 6. dove sagace ... amor: si fa del bene solo per il calcolo di ricavarne un guadagno, e l’amore è vergognosa lussuria. 7. reo: colpevole. 8. Dura è pel ... molti: l’uomo giusto si trova solo a condurre una difficile lotta contro i perversi, che sono molti e d’accordo fra loro. 9. trita: battuta, frequentata. Il poeta si rifiuta di entrare in gara con i più, che aspirano solo al piacere, ai vani onori e ai guadagni. 10. e de le sale ... norma: «alle vuote chiacchiere dei salotti, dove si raduna l’alta società, preferisci un gruppo ristretto di amici onesti e la lettura dei classici, che pur essendo morti sono ancora di onore e di esempio al mondo». Il censito volgo sono coloro che stanno in cima alla scala sociale perché hanno un determinato reddito e pagano le relative tasse («censo»), ma per le loro qualità spirituali non sono che plebe volgare. 11. e dal viril ... partir: «non ti allontanare dai tuoi virili propositi». 12. gravi: dispiaccia. 13. se di te ... curasti: «se è vero ciò che udii di te, che tenesti in poco conto la divina armonia delle Muse, la poesia». 14. di veraci ... altrui: fosse di giovamento agli altri con scritti veritieri. 15. di lui: Vittorio Alfieri, che fu il primo grande tragico italiano. 16. ne le reggie: i protagonisti della tragedia alfieriana erano in genere dei re. 17. coturno: era la speciale calzatura dell'attore tragico greco. Vale per «poesia tragica». 18. el’aureo ... umili: svelò con la sua poesia i vizi che si celano dietro il fasto e l’apparente grandezza dei potenti, e così vendicò gli umili. 19. e di quel ... rosa: Giuseppe Parini, che fu precettore di Carlo Imbonati e gli dedicò l’ode L'educazione, che inizia col verso citato dal Manzoni. Il plettro era la lamina con cui si suonava la cetra, e per estensione indica la cetra stessa. È detto immacolato
[...] «Come da sonno», rispondea, «si solve uom, che né brama né timor governa,
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dolcemente così dal mortal carco mi sentii sviluppato!; e volto indietro, per cercar lei, che al fianco mio mi stava? più non la vidi. E s’anco avessi innanzi saputo il mio morir, per lei soltanto avrei pianto, e per te: se ciò non era?,
che dolermi dovea? Forse il partirmi 120
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da questa terra, ov’è il ben far portento, e somma lode il non aver peccato‘? Dove il pensier da la parola è sempre altro?, e virtù per ogni labbro ad alta voce lodata, ma nei cor derisa; dov'è spento il pudor; dove sagace usura è fatto il beneficio, e brutta lussuria amor$5; dove sol reo” sì stima chi non compie il delitto; ove il delitto turpe non è, se fortunato; dove
sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo. Dura è pel giusto solitario, il credi, dura, e pur troppo disegual la guerra contra i perversi affratellati e molti?. Tu, cui non piacque su la via più trita’ la folla urtar che dietro al piacer corre e a l’onor vano e al lucro; e de le sale al gracchiar voto e del censito volgo al petulante cinguettio, d’amici ceto preponi intemerati e pochi, e la pacata compagnia di quelli che spenti, al mondo anco son pregio e norma”, segui tua strada; e dal viril proposto non ti partir!, se sai». [...] «Or dimmi, e non ti gravi!?, se di te vero udii che la divina de le Muse armonia poco curasti»!8. Sorrise alquanto, e rispondea: «Qualunque di chiaro esemplo, o di veraci carte giovasse altrui!‘, fu da me sempre avuto in onor sommo. E venerando il nome fummi di lui!, che ne le reggie!° primo
l’orma stampò de l’italo coturno!”: e l’aureo manto lacerato ai grandi, mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili!5; e di quel, che sul plettro immacolato cantò per me: Torna a fiorir la rosa”. Cui, di maestro a me poi fatto amico, con reverente affetto ammirai sempre
scola e palestra di virtù?°. Ma sdegno
a indicare la purezza degli ideali morali e della vita del Parini.
Carme
20. scola ... virtù: apposizione (compl. oggetto di ammirai).
di cui
in morte di Carlo Imbonati pa
50? 21. un tanto nome: di poeta. 22. portar ... lor: portano nella poesia i sentimenti bassi e volgari, i vizi che li guastano nella vita. Il Pindo era un monte sacro alle Muse. 23. che di ... strapazzi: il passo è oscuro. Probabilmente: i poetastri, malfamati e privi di ingegno, fanno vergognosamente mercato delle loro lodi o dei loro attacchi polemici. 24. non ... destommi: suscitò una rabbia già provata altre volte. 25. s’io cadrò ... giace: «se fallirò nella carriera poetica, dicano almeno che ho fallito in tentativi originali, senza imitare gli altri». 26. «Sentir» ... «e meditar»: per comprendere il significato di questa formula famosa, occorre tener presente la lettera al Fauriel del 20 aprile 1812: «Io sono più che mai d’accordo con voi sulla poesia; occorre che sia tratta dal fondo del cuore; occorre sentire, e saper esprimere i propri sentimenti con sincerità [...] occorre pensare bene, pensare il meglio che si può, e scrivere». E qui in germe la poetica romantica del Manzoni: la poesia deve esprimere con sincerità i sentimenti, non ripetere solo le formule consacrate dalla tradizione, e deve essere nutrita di moralità, ispirata al vero.
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mi fero i mille, che tu vedi un tanto
nome?! usurparsi, e portar seco in Pindo l'immondizia del trivio, e l'arroganza, e i viz) lor?; che di perduta fama vedi, e di morto ingegno, un vergognoso far di lodi mercato e di strapazzi”». [...] [Ai poetastri viene contrapposta la figura di Omero, incorruttibile devoto alla poesia].
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Gioja il suo dir mi porse, e non ignota bile destommi”, e replicai: «Deh! vogli la via segnarmi, onde toccar la cima io possa, o far, che s’io cadrò su l’erta, dicasi almen: su l’orma propria ei giace»
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«Sentir», riprese, «e meditar?*: di poco
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esser contento: da la meta mai non torcer gli occhi, conservar la mano pura e la mente: de le umane cose tanto sperimentar, quanto ti basti per non curarle: non ti far mai servo: non far tregua coi vili: il santo Vero mai non tradir: né proferir mai verbo, che plauda al vizio, o la virtù derida». Da In morte di Carlo Imbonati (1805), vv. 112-215
ANALISI DEL TESTO
__ ss
Si possono osservare, in questo documento della fase neoclassica della produzione manzoniana, posizioni di rifiuto aristocratico e astratto della realtà, di impronta alfieriana e foscoliana. Di fronte al quadro della società contemporanea tracciato per bocca dell’Imbonati si delinea una posizione simile a quella di Jacopo Ortis (il romanzo foscoliano era uscito solo tre anni prima): una delusione profonda di fronte agli ideali traditi dalla storia (non si dimentichiche ancheil giovane Manzoni era stato “giacobino”), per cui il mondo storico è visto Come degradazione assoluta e irrimediabile dell’ideale. Il poeta si offre, in una prospettiva eroica, come colui che si mantiene puro e incontaminato dalla degradazione generale, come unico depositario dei valori autentici; per cui, dinanzi ad una simile realtà, non può che isolarsi in una sdegnosa e nobilissima solitudine, staccarsi dalla viltà del «volgo» per affermare l’altezza del proprio io. Naturalmente nel carme non vi è solo l'atteggiamento aristocratico che è proprio del classicismo, ma compaiono anche le sue forme più caratteristiche. Parini e Alfieri sono citati come grandi maestri, ai poetastri vien contrapposto Omero; più in generale i classici sono indicati come coloro che, pur scomparsi, «al mondo anco son pregio e norma», cioè come modelli supremi di dignità e bellezza, che dettano ancora norma all’operare letterario e civile di oggi: è questo un atteggiamento tipico del classicismo. Manzoni riproduce anche il linguaggio aulico proprio della tradizione: nel lessico («censito volgo», «italo coturno»...), nella sintassi, ricca di inversioni alla latina («la divina / delle Muse armonia»), nella metrica (il solenne endecasillabo sciolto, consacrato da Parini nel Giorno, da Alfieri nelle tragedie, da Monti nei suoi poemi). Tuttavia, negli ammonimenti dell’Imbonati, si è soliti cogliere già il germe del Manzoni futuro. In particolare nella formula «sentir e meditar» si è vista preannunciata la poetica romantica di Manzoni: la poesia deve esprimere con sincerità i sentimenti autentici e profondi, non ripetere solo le forme e i temi fissati dalla tradizione, deve essere nutrita di riflessione seria e di rigorosa moralità, ed ispirata al «santo vero».
Manzoni
La delusione dell’ideale e la solitudine del
giusto
Le forme del classicismo
Il germe del Manzoni futuro
503 PROPOSTE
DI LAVORO
|
1. Individuare tutti gli elementi classicisti presenti nel testo (ad esempio il lessico usato, la sintassi, le figure retoriche). 2. Individuati tutti gliaspetti negativi della società contemporanea elencati dall’Imbonati, confrontare questo quadro con quello tracciato da Foscolo per bocca di Parini nella lettera del 4 dicembre (vedi Foscolo, Ortis T14). 3. Nel tracciare il modello d’intellettuale, giusto e solitario, quali modelli precedenti Manzoni tiene presenti, e perché?
4. La scelta di Parini e Alfieri, quali poeti preferiti da Imbonati, da quali motivazioni culturali ed ideologiche è sorretta?
5. Riflettere sulla dichiarazione di poetica contenuta nei vv. 81-86: confrontarla con quelle individuate in precedenza (cfr. ad esempio le lettere al Fauriel) e verificarne la realizzazione nelle opere di Manzoni.
dagli Inni sacri
La Pentecoste E l’ultimo degli Inni sacri. La composizione fu lunga e travagliata e passò attraverso varie stesure, tra loro sensibilmente diverse. Fu ter-
minato nel 1822. E dedicato alla Pentecoste, la festa liturgica che celebra la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli il cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Cristo (in greco pentecostés significa appunto “cinquantesimo”), per conferire loro la facoltà di predicare a tutti è popoli e di essere intesi nonostante la diversità delle lingue. Sono strofe di otto settenari; il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli, gli altri piani, l’ultimo tronco. Rime: abebdeef.
5.
1. Madre de’ Santi: si rivolge alla Chiesa. Solo in seno alla Chiesa, secondo la dot-
trina cattolica, possono nascere i santi. 2. superna: immagine sulla terra della città di Dio. 3. del Sangue ... eterna: custode del sangue di Cristo mediante l'Eucaristia. 4. che le ... mar: la Chiesa è come un esercito che conquista tutto il mondo. 5. campo ... sperano: campo in cui militano quelli che sperano nella salvezza. 6. del Dio vivente: del Dio fatto uomo. 7. il tuo Re: Cristo. 8. colle: il Golgota. 9. del ... altar?: il Golgota è come l’altare bagnato dal sangue del sacrificio di Cristo.
Madre de’ Santi!; immagine della città superna”; del Sangue incorruttibile conservatrice eterna*; tu che, da tanti secoli, soffri, combatti e preghi; che le tue tende spieghi dall’uno all’altro mar‘; campo di quei che sperano?,
10
chiesa del Dio vivente”;
dov’eri mai? qual angolo ti raccogliea nascente, quando il tuo Re”, dai perfidi tratto a morir sul colle®,
15
imporporò le zolle del suo sublime altar?? E allor che dalle tenebre la diva spoglia uscita, La Pentecoste
504 mise il potente anelito 20
della seconda vita!9; e quando, in man recandosi
il prezzo del perdono!!, da questa polve al trono del Genitor salì; 25
30
compagna del suo gemito, conscia de’ suoi misteri”, tu, della sua vittoria figlia immortal!, doveri? in tuo terror sol vigile, sol nell’obblio secura,
stavi in riposte mura’, fino a quel sacro dì', quando su te lo Spirito 10. E allor... vita: quando il corpo divino di Cristo risorto emise il respiro della vita immortale. 11. e quando ... perdono: il sacrificio di Cristo è il prezzo del riscatto dell’umanità. 12. gemito: patimenti. 13. misteri: della natura divina e umana di Cristo. 14. della sua ... immortal: la Chiesa è nata dalla vittoria di Cristo sul peccato. 15. sol ... mura: gli apostoli stavano nascosti tra le mura del cenacolo, sicuri solo se dimenticati dal mondo. 16. quel sacro dì: il giorno della discesa dello Spirito. 17. l’inconsunta fiaccola: la fiaccola della fede, che non si consuma mai. 18. segnal de’ popoli: perché fosse guida a tutti i popoli. 19. il fonte ... aprì: la predicazione della dottrina cristiana. 20. Come ... l’udì: come la luce suscita i diversi colori, così la voce dello Spirito risuona molteplice alle orecchie degli uomini di varie nazioni convenuti a Gerusalemme, in modo che ognuno la intende nella propria lingua. Allude al miracolo narrato negli Atti degli apostoli, secondo cui gli apostoli, pur predicando in aramaico, riuscirono a farsi capire da uomini di lingue diverse. 21. Adorator degl’idoli: i pagani. 22. Solima: Gerusalemme. 23. vile ossequio: il culto dei falsi dèi pagani. 24. spose
40
45
rinnovar discese, e l’inconsunta fiaccola! nella tua destra accese;
quando, segnal de’ popoli", ti collocò sul monte, e ne’ tuoi labbri il fonte della parola aprì!. Come la luce rapida piove di cosa in cosa, e i color vari suscita dovunque si riposa; tal risonò moltiplice la voce dello Spiro: l’Arabo, il Parto, il Siro
in suo sermon l’udì?. 50
50
Adorator degl’idoli?!, sparso per ogni lido, volgi lo sguardo a Solima”, odi quel santo grido: stanca del vile ossequio”, la terra a LUI ritorni: e voi che aprite i giorni di più felice età, spose che desta il subito balzar del pondo ascoso;
... canto: le spose o destate
all'improvviso dal primo movimento del bambino che portano in sé, o già prossime alle doglie del parto, non devono più invocare la dea Giunone, protettrice delle partorienti secondo la falsa religione pagana. 25. Santo: il Dio cristiano. 26. Perché ... sospira?: la schiavà non deve più temere per i figli un avvenire di schiavitù, perché il cristianesimo annuncia una nuova libertà.
Manzoni
35
60
voi già vicine a sciogliere il grembo doloroso; alla bugiarda pronuba
non sollevate il canto”: cresce serbato al Santo? quel che nel sen vi sta. 65
Perché baciando i pargoli, la schiava ancor sospira”?
505 70
75
dolor:
il suo
sacrificio,
la
Passione. 30. Nova ... nove: una nuova libertà e
80
uomini nuovi. Gli uomini, rinnovati dal cristianesimo, possono essere liberi nello spi-
rito, anche se il corpo è schiavo, e possono attendere una liberazione più completa, in cielo. 81. nove ... prove: la salvezza eterna, conquistata nella lotta contro il male, è gloria più alta di quella guadagnata con le vittorie terrene. 32. nova ... non può: la pace interiore, che non può essere turbata da minacce e lusinghe; il mondo la deride, ma non può toglierla. 33. inospite: inospitali. 34. vaghi: vaganti. 35. algenti: coperte di nevi e di ghiacci. 36. Erina: l'Irlanda. 87. irta: montuosa. 38. uni ... cor: spiritualmente uniti per opera dello Spirito. 39. Placabile: portatore di pace, oppure facile al perdono. 40. cultor: ai fedeli. 41. rianima ... estinti: il dubbio sulle verità di fede uccide lo spirito, lo condanna alla morte eterna. 42. e sia ... vincitor: lo spirito conquista i cuori, ma si concede come premio ai vinti, dà loro la fede. Il paradosso è nel gusto del linguaggio mistico della tradizione cristiana. 43. Amor: secondo la teologia, la terza persona della trinità è l’Amore. 44. attuta: attutisci. 45. dona ... muta: pensieri virtuosi, tali che nel giorno della morte l’uomo, ripercorrendo con la memoria la sua vita passata,
ma che rapir non può*. O Spirto! supplichevoli a’ tuoi solenni altari;
soli per selve inospite*; vaghi*' in deserti mari; 85
90
95
100
dall’Ande algenti* al Libano, d’Erina* all’irta* Haiti, sparsi per tutti i liti, uni per Te di cor*8,
noi T’imploriam! Placabile?° Spirto discendi ancora, a’ tuoi cultor‘° propizio, propizio a chi T’ignora; scendi e ricrea: rianima i cor nel dubbio estinti‘; e sia divina ai vinti mercede il vincitor‘. Discendi Amor“; negli animi l’ire superbe attuta‘: dona i pensier che il memore ultimo dì non muta‘: i doni tuoi benefica nutra la tua virtude‘;
siccome il sol che schiude dal pigro germe” il fior; 105
che lento‘ poi sull’umili‘ erbe morrà non colto,
non debba rinnegarili.
46. virtude: virtude è soggetto di nutra, doni è oggetto. 47. dal pigro germe: il germe senza il calore del sole indugia a schiudersi. 48. lento: languido. 49. umili: basse. 50. lembo sciolto: la corolla aperta. 51. se fuso ... altor: se il mite raggio del sole, che dà vita alle creature e infaticabile le alimenta, non tornerà a diffondersi sul fiore attraverso l'atmosfera.
Nova franchigia annunziano i cieli, e genti nove; nove conquiste, e gloria vinta in più belle prove; nova, ai terrori immobile e alle lusinghe infide, pace, che il mondo irride,
27. E il sen... mira?: invidia le madri di figli liberi. 28. al regno: dei cieli. 29. nel suo
E il sen che nutre i liberi invidiando mira?”? Non sa che al regno i miseri seco il Signor solleva? Che a tutti i figli d’Eva nel suo dolor? pensò?
110
né sorgerà coi fulgidi color del lembo sciolto, se fuso a lui nell’etere non tornerà quel mite lume, dator di vite, e infaticato altor?!.
Noi T’imploriam! Ne’ languidi pensier dell’infelice La Pentecoste
506 115
scendi bufera ai tumidi
52. piacevol alito: sono predicati del sogg.:
pensier del violento;
come un alito di vento ristoratore, per gli
infelici, come bufera sconvolgente per i pensieri gonfi d'ira e di superbia del
violento.
scendi piacevol alito? aura consolatrice:
120
SeTSE Vl spira uno sgomento
che insegni la pietà.
53. Per Te: grazie a te (lo Spirito). 54. ch’è suo: è citazione dal Vangelo: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno
Per Te
i lamenti 55. volga ... somiglia: trasformi in gioia, pensando che come tutti gli uomini è fatto a somiglianza di Dio, e che in par-
volga i lamenti in giubilo ; pensando a cui somiglia”: “od tori È
58
ticolare somiglia a Cristo, vissuto in po-
125
cul iu
donato in copia,
doni con volto amico
2 cui a n ti deil ricco, a E la (ea, enza ha donato con più abbondanza i mezzi per vivere, doni al povero il superfluo, con atteggiamento amichevole e con
con quel tacer pudico, , > P_56 che accetto il don ti fa°°.
quel riserbo che rende gradito il dono, che
Spira de’ nostri bamboli
ta
57. Spira ... riso: rivelati nel riso dei bambini, indescrivibile nella sua purezza.
130
nell’ineffabil riso”; 3 Spargil la casta porpora
58. la casta ... viso: il casto rossore sul viso
alle donzelle in viso”;
delle fanciulle (si pensi ai frequenti rossori
manda
di Lucia nel romanzo,
specie dinanzi a
alle ascose
vergini
sm
59.
Gertrude). 59. manda ... gioie ascose: manda alle | 1835
le pure gioie ascose??; consacra delle spose
monache le pure e segrete gioie interiori, che chi vive nel mondo non conosce.
il verecondo
60. consacra ... amor: si veda il lieto fine
;
amor*®°.
Fo:
del romanzo.
Tempra de’ baldi giovani
61. Tempra ... ingegno: modera il carataa aaa troppo fiduciosi in sé (si
il confidente ingegno ar re ggi il viril prop osito
i
62. reggi ... segno: guida i propositi degli uomini maturi a fini che non ingannino. 63. voglie: desideri. 64. errante: che non si fissa più su alcun oggetto definito. 65. sperando: nella salvezza eterna.
Pa e ©
al ciel, ch'è suo”, le ciglia,
di Dio» (Luca, VI, 20).
vertà.
+; sollevi si ROXSh)
140
>
Re
;
62.
ad infallibil segno”;
adorna la canizie di liete voglie® sante; brilla nel guardo errante® di chi sperando muor.
ANALISI DEL TESTO Si possono distinguere nell’inno tre parti: I. vv. 1-48: la discesa dello Spirito sulla Chiesa, smarrita e timorosa dopo la morte di Cristo, per darle la forza di compiere la sua opera nel mondo; II. vv. 49-80: gli effetti della diffusione del nuovo messaggio cristiano nel mondo; III. vv. 81-144: invocazione allo Spirito Santo perché discenda ancora tra gli uomini. Nella prima parte si delineano due immagini antitetiche della Chiesa: dapprima appare paurosa e inerte, poi attiva nel suo impegno nel mondo; attraverso tali immagini Manzoni afferma la propria visione ideale della funzione della Chiesa (le due immagini contrapposte prende-
ranno corpo nel romanzo, rispettivamente nella timorosa passività di don Abbondio e nell’attivismo eroico di fra Cristoforo e del cardinal Federigo). Nella seconda parte si insiste sul messaggio di liberazione portato dal cristianesimo a tutti gli uomini, soprattutto agli oppressi. Compare cioè un motivo molto caro a Manzoni, l’ingiustizia e l'oppressione che angustiano la realtà umana, a cui solo il messaggio cristiano può dare un’alternativa. Nella terza parte si propone l’auspicio che il mondo terreno, che la caduta ha di tanto allontanato dal disegno divino, possa tornare a coincidere con esso. Se il mondo della storia è il trionfo del male, dell’ingiustizia, della violenza, dell’oppressione, l’alternativa vera è nell’altra vita; ma anche nel mondo umano Manzoni ritiene che sia doveroso contrastare il male. Per questo fine è necessario l'impegno attivo della Chiesa, sia direttamente nell’alleviare sofferenze, Manzoni
I. Chiesa passiva e Chiesa attiva
II. Il messaggio di liberazione del cristianesimo III. Il mondo terreno e
l’ordine divino
DOT Pessimismo cristiano e lotta contro il male storico
sia nell’indurre gli uomini a tale opera con la predicazione e l’esempio. Il cristianesimo di
Manzoni ha una fondamentale fisionomia pessimistica, ma non si risolve in rassegnazione
inerte di fronte al male della storia, bensì dà luogo ad un atteggiamento attivo ed energico, animato dalla fiducia nella possibilità di un relativo superamento dell’ingiustizia. È un atteg-
giamento ben diverso da quel rifiuto aristocratico e astratto della realtà negativa che si poteva osservare nel suo giovanile classicismo (cfr. Carme in morte di Carlo Imbonati, T123). L’ideale di società umana
L'ultima parte dell’inno propone poi i vari elementi di un quadro della realtà umana, riscattata dalla forza del messaggio cristiano e dall'intervento dello Spirito Santo. In primo piano è il problema della giustizia sociale. Torna un motivo caro a Manzoni: la religione contribuisce a sanare l'ingiustizia inducendo i privilegiati a dare generosamente a chi non ha, e dando ai poveri il conforto di un sicuro riscatto (vv. 121-128). È il principio già teorizzato nel capitolo V della seconda parte della Morale cattolica, e che sarà anche alla base dell’ideale di società espresso nel romanzo. Nelle strofe finali compare anche una serie di altri valori, che sono il fondamento della visione manzoniana, e che costituiranno l’intelaiatura
L’aspetto formale
dei Promessi sposi: la «casta porpora» delle fanciulle (si pensi ai rossori pudichi di Lucia), le «pure gioie ascose» delle monache (ne offrirà un esempio negativo Gertrude), il «verecondo amor» delle spose (Lucia nella conclusione della vicenda), il «confidente ingegno» dei «baldi giovani» che deve essere «temprato» (si ricordi la baldanza eccessiva di Renzo), lo sgomento che lo Spirito deve ispirare ai «tumidi pensieri del violento» (don Rodrigo), la canizie adorna «di liete voglie sante» (Federigo, Cristoforo). Dal punto di vista formale appare evidente la distanza che separa l’inno dalla poesia classicistica. Si può prendere come termine di confronto proprio il carme In morte di Carlo Imbonati. Non vi è più l’io privilegiato ed eroico in primo piano: si tratta di lirica corale, che esprime il sentimento dell’universalità dei fedeli («Noî t’imploriam»). Non vi è più il solenne e ampio endecasillabo, ma svelti e concitati settenari, dal ritmo incalzante. Il verso rapido e fortemente ritmato (settenario, ottonario, decasillabo) è prediletto dalla poesia romantica, che vuole incitare, commuovere, persuadere. Il linguaggio manzoniano non è più aulico e classicheggiante, tuttavia non appare prosaico: vi sono ancora numerose forme elette. Il romanticismo non porta fino in fondo una rivoluzione del linguaggio poetico nei confronti del classicismo (una vera rivoluzione linguistica sarà invece introdotta dal romanzo manzoniano).
24. PROPOSTE DI LAVORO 1. Individuare i termini aulici, le figure retoriche (metafore, metonimie, sineddochi...) presenti nel testo; riflettere sui motivi che hanno portato Manzoni all’uso di un lessico “militare” (ad esempio v. 7 «che le tue tende spieghi») ed alla scelta del genere innografico.
2. Individuare le caratteristiche che Manzoni attribuisce rispettivamente alla Chiesa debole e spaventata e alla Chiesa militante.
3. La libertà di cui parla Manzoni (v. 73 «nova franchigia») consente un miglioramento sulla terra della condizione dei miseri? A questo proposito riflettere in particolare sull'immagine della schiava (vv. 65 e sgg.). 4. Con quali caratteristiche Manzoni descrive nel testo il mondo della storia e quello celeste? 5. Utilizzando le indicazioni relative alla III parte contenute nell’analisi del testo, riflettere su come Manzoni nel romanzo svilupperà i temi qui accennati.
La Pentecoste
508 dalle Odi x
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L’ode fu composta nel marzo 1821, quando è patrioti lombardi rdi speravano che Carlo Alberto con l’esercito piemontese venisse in appoggio ad una loro insurrezione contro l’Austria. Manzonii anticipa gli eventi con la fantasia, immaginando che èpiemontesi abbiano guaoltrepassato îl confine del Ticino. In realtà gli eventi sperati non si verifi
carono. L'’ode fu pubblicata solo nel 1848: secondo alcune testimomianze, — Manzoni aveva distrutto il manoscritto per sfuggire alle perquisizioni pe austriache, nella repressione seguita ai moti del ’21, tenendo a memo-
ria il testo per molti anni. Secondo Cesare Cantù 1‘ultima strofa fu ‘. aggiunta nel 1848, sotto l'impressione delle cinque giornate. — i L'’ode reca una dedica a Theodor Korner, poeta tedesco morto în battaglia combattendo contro Napoleone. Il senso della dedicaè chiac
rito dalla strofa 8: anche îpopoli tedeschi hanno lottato contro l’oppressione straniera; non possono ora opprimere a loro volta gli italiani. — Metro: strofe di otto decasillabi. Schema delle rime: ABBCDEEC. —— —
5. 1. Soffermati ... giurato: il poeta immagina che l’esercito piemontese abbia già passato il Ticino (che segnava il confine tra Piemonte e Lombardia). I soldati si voltano a guardare il confine varcato, consapevoli del significato storico del gesto compiuto, assorti a contemplare il destino futuro che
L’han giurato: altri forti a quel giuro
10
essi stanno costruendo, e resi sicuri nel
loro cuore dalla consapevolezza dell’antico valore. 2. Non fia ... straniere: «non accadrà mai più che l’acqua di questo fiume costituisca il confine tra due paesi stranieri». 8. Non fialoco ... Italia: «non ci sarà mai più luogo dove sorgano confini tra le varie regioni d’Italia». 4. altri forti ... contrade: al giuramento dei piemontesi rispondono i patrioti della Lombardia e di altre regioni italiane. 5. sacre parole: del giuramento di fraternità fra gli italiani. 6. Chi potrà ... dolor: «solo chi riuscirà a separare (scerner) nelle acque del Po quelle degli affluenti in esso confluite, riuscirà a separare il popolo italiano risorto e riunificato in una serie di volghi spregevoli, senza dignità nazionale, e a risospingerlo agli antichi dolori dell’oppressione politica, andando contro il corso della storia e contro la stessa volontà divina (fati)». Gemina Dora: la Dora Baltea e la Dora Riparia. 7. Una gente... mare: «un popolo dhe sarà tutto libero, o sarà tutto schiavo dalle Alpi al mare».
Manzoni
Soffermati sull’arida sponda, Volti i guardi al varcato Ticino, Tutti assorti nel novo destino, Certi in cor dell’antica virtù, Han giurato!: Non fia che quest’onda Scorra più tra due rive straniere?: Non fia loco ove sorgan barriere Tra l’Italia e l’Italia*, mai più!
Rispondean da fraterne contrade*, Affilando nell'ombra le spade Che or levate scintillano al sol. Già le destre hanno strette le destre;
15
Già le sacre parole? son porte: O compagni sul letto di morte, O fratelli su libero suol.
Chi potrà della gemina Dora, Della Bormida al Tanaro sposa, Del Ticino e dell’Orba selvosa 20
Scerner l’onde confuse nel Po;
Chi stornargli del rapido Mella E dell’Oglio le miste correnti, Chi ritogliergli i mille torrenti Che la foce dell’Adda versò,
25
Quello ancora una gente risorta Potrà scindere in volghi spregiati, E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor®: Una gente che libera tutta, 30 O fia serva tra l’Alpe ed il mare”,
bai
€ 8/Una ... cor: il poeta sintetizza in due versi le componenti del concetto moderno di nazione:.il popolo è pronto a prendere
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di *i
tutto unito le armi per conquistare e difen-
dere la propria indipendenza (una d’arme);
Suite dallalingua commuiiaiia religione (altare), dalla tradizione (memorie), dalle
affinità etniche (sangue), dai sentimentie
9. Con quel volto ... tacer: «il Lombardo doveva stare nella sua terra con quell’atteggiamento sfiduciato e avvilito, con lo sguardo rivolto a terra e incerto, con cui sta sul suolo straniero un mendicante tollerato per pietà (sofferto per mercede); il capriccio degli oppressori era per lui legge; il suo destino era deciso in segreto da altri, senza che esso potesse neppure venire a conoscenza delle decisioni; il suo ruolo era solo servire e tacere, senza protestare». 10. nel proprio retaggio: «l’Italia riprende i suoi.diritti sulla terra ereditata dai padri». 11. Cenisio ... Scilla: indica gli estremi dell’Italia, a Nord e a Sud. La balza di Scilla è la punta della Calabria. 12. sui vostri ... tradito: «sulle vostre bandiere sta la vergogna di un giuramento tradito, quello di dare la libertà all’Italia» (le potenze coalizzate contro Napoleone avevano chiamato i popoli da lui oppressi alla ribellione, promettendo la libertà; ora invece l’Austria si è sostituita all’oppressione napoleonica). 13. iniqua tenzon: la guerra dell’ Austria contro i piemontesi sarebbe stata iniqua, perché intesa a perpetuare l'oppressione. 14. a stormo: i proclami della coalizione antinapoleonica erano come le campane che suonano a stormo per chiamare i popoli alla rivolta. 15. pera ... ragion: «perisca, scompaia l’ingiusto diritto del più forte, imposto con le armi». 16. Se la terra ... udì: «i Francesi, che opprimevano i popoli tedeschi, ora, sconfitti, giacciono sotto la terra che essi avevano conquistata: se Dio ha aiutato i Tedeschi a cacciare i loro oppressori, ora sicuramente aiuterà gli Italiani contro i Tedeschi stessi». Veramente ad opprimere gli italiani erano gli austriaci: ma Manzoni confonde i due popoli dalle origini etniche comuni, nella sua mossa oratoria; inoltre la Prussia era effettivamente alleata dell’Austria nella Santa Alleanza. 17. Sì, quel Dio ... guidò: «[non sarà sordo ai la menti degli italiani] quel Dio, che sommerse nel Mar Rosso (onda vermiglia) il Faraone malvagio (rio) che inseguiva il popolo d’Israele in fuga dall’Egitto, che mise in pugno all’eroina Giaele il martello con cui uccise l’oppressore del suo popolo (Sisara, generale dei Cananei, che si era rifugiato presso Giaele dopo una sconfitta)». 18. ugne: unghie (l’oppressore è presentato come un rapace dagli artigli pronti ad i afferrare la preda). 19. dovunque ... servaggio: «dovunque si diffuse la fama dolorosa della tua lunga schiavitù». 20. Dove ancor ... non è: «dove ancora non è stata abbandonata (deserta) ogni speranza nella dignità dell’uomo».
35
Con quel volto sfidato e dimesso, Con quel guardo atterrato ed incerto, Con che stassi un mendico sofferto Per mercede nel suolo stranier, Star doveva in sua terra il Lombardo; L'altrui voglia era legge per lui;
40
45
50
55
Il suo fato, un segreto d’altrui; La sua parte, servire e tacer®?.
O stranieri, nel proprio retaggio !° Torna Italia, e il suo suolo riprende; O stranieri, strappate le tende Da una terra che madre non v'è. Non vedete che tutta si scote, Dal Cenisio alla balza di Scilla!!? Non sentite che infida vacilla Sotto il peso de’ barbari piè?
N) PUT _
O stranieri! sui vostri stendardi Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito”; Un giudizio da voi proferito V’accompagna all’iniqua tenzon!; Voi che a stormo! gridaste in quei giorni: Dio rigetta la forza straniera; Ogni gente sia libera, e pera Della spada l’iniqua ragion”.
Se la terra ove oppressi gemeste Preme i corpi de’ vostri oppressori,
4
Se la faccia d’estranei signori
Tanto amara vi parve in quei dì;
pur e
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Soli
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2)
PRA
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CAaea,
Chi v’ha detto che sterile, eterno Saria il lutto dell’itale genti?
Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v’udì!9? 65
70
75
Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia Chiuse il rio che inseguiva Israele, Quel che in pugno alla maschia Giaele Pose il maglio, ed il colpo guidò”; Quel che è Padre di tutte le genti, Che non disse al Germano giammai: Va, raccogli ove arato non hai; Spiega l’ugne!5; l’Italia ti do.
‘Cara Grido Dove Ogni
Italia! dovunque ildolente uscì del tuo lungo servaggio’’; ancor dell'umano lignaggio, speme deserta non è?;
Dove già libertade è fiorita,
| Dove ancor nel segreto matura, Marzo
1821
510 21. Dove già ... per te: «nei paesi dove ha trionfato la libertà, dove ancora va matu-
rando in segreto, nelle cospirazioni; dove una profonda sventura suscita ancora dolore e pietà, non c’è cuore che non batta per le sorti dell’Italia». Tra i popoli europei si diffuse una forte simpatia per le sorti dell’Italia oppressa, quando scoppiarono i moti liberali. 22. Quante volte ... mar!: più volte in passato l’Italia aveva sperato nell’aiuto degli stranieri per riconquistare la propria libertà, ma aveva subito solo delusioni. È
implicito il concetto che un popolo può conquistare la libertà solo contando sulle proprie forze. Il concetto qui espresso sarà ripreso nel primo coro dell’Adelchi. Duplice mar: il Tirreno e l'Adriatico, che sono deserti perché da essi non viene nessun aiuto. 23. santi colori: la bandiera. 24. a pugnar: a combattere. 25. sui volti ... segrete: «lampeggi sui volti il furore contro l'oppressione, coltivato a lungo nel segreto dell’animo». Il poeta invita a passare dalle cospirazioni alla lotta aperta. 26. Il suo fato ... sta: «il destino dell’Italia dipende dalla forza guerriera dei suoi figli». 27. Al convito ... assisa: seduta al consesso dei popoli, ammessa cioè tra le altre nazioni europee. 28. orrida verga: il bastone, simbolo dell'oppressione. 29. Oh dolente ... udrà: «Chi non parteciperà alle giornate della lotta e del riscatto nazionale, ma ne sentirà solo parlare dagli altri, come uno straniero, ne sarà afflitto per sempre». 80. vittrice: vincitrice. f
Dove ha lacrime un’alta sventura
Non c’è cor che non batta per te?. Quante volte sull’Alpe spiasti L’apparir d'un amico stendardo! Quante volte intendesti lo sguardo Ne’ deserti del duplice mar?! Ecco alfin dal tuo seno sboccati, Stretti intorno a’ tuoi santi colori”,
E na IP e
0
Forti, armati de’ propri dolori, I tuoi figli son sorti a pugnar?4.
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Oggi, o forti, sui volti baleni Il furor delle menti segrete”; Per l’Italia si pugna, vincete! Il suo fato sui brandi vi sta”. O risorta per voi la vedremo
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A] convito de’ popoli assisa””, O più serva, più vil, più derisa, Sotto l’orrida verga” starà. a
Or giornate del nostro riscatto! ——> È patormale Oh dolente per sempre colui Pa (RSI
Che da lunge, dal labbro d’altrui,
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Come un uomo straniero, le udrà?! Che a’ suoi figli narrandole un giorno)
Dovrà dir sospirando: io non c’era; Che la santa vittrice®° bandiera Salutata quel dì non avrà.
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Nell’ode si possono individuare tre parti:
I.strofe 1-4: l’immaginata riunificazione delle forze piemontesi e lombarde propone il
tema dell’inevitabile unificazione nazionale, che Manzoni sente profondamente. Si trova qui
una famosa definizione dell’idea di nazione («una d'arme, di lingua, d'altare, / di memorie
L’unificazione
nazionale
di sangue e di cor»: vv. 31-32); i II. strofe 5-9: questa parte contiene un appello agli stranieri affinché cessino di oppri-
L’appello
mere l’Italia, in nome delle lotte da essi stessi sostenute per la loro libertà contro Napo-
agli stranieri
leone,ed in nome dei principi proclamati in quell’occasione. Il diritto di ogni popolo all’indipendenza è proposto in chiave religiosa, come voluto da Dio; III. strofe 10-13: l’ultima parte contiene un incitamento agli Italiani a lottare per la pro-
L’incitamento
pria libertà contando solo sulle proprie forze. L’ode termina in chiave profetica: il poeta
agli Italiani
si pone dalla prospettiva del futuro, quando unità e indipendenza saranno realizzate.
L’ode costituisce un esempio significativo di poesia patriottica. Il discorso è impostato
secondoimodulidiun’eloquenza veemente, che si vale in larga misura di eselamazioni, apox ts
strofi, interrogazioni retoriche, anafore (per esempio vv. 75-80: «dove» ripetuto quattro volte all’inizio di verso), personificazioni (l’Italia alle strofe 10-11). Il lessico ha una sostenutezza
Le figure EE
aulica, che risponde alla solennità declamatoria («giuro», «gemina», «prischi», «mercede» «tenzon», «pèra», «rio», «speme», «pugnar», «brandi»): è un lessico ereditato in tutto e
Il lessico
Manzoni
=
5ILI per tutto dalla poesia classicistica. L'eloquenza patriottica e marziale assume poi anche toni predicatori, con le immagini bibliche del Faraone sommerso nel Mar Rosso e della «maschia Giaele » (strofa 9). All’onda oratoria dà un contributo essenziale la metrica: i decasillabi sono versi molto ritmati, in cui gli accenti ricorrono costantemente nelle stesse sedi, 3%, 6? e 9? (a differenza dell’endecasillabo, in cui il vario distribuirsi degli accenti consente le più varie modulazioni). Il risultatoèun ritmo cadenzato, incalzante, da inno di battaglia. La metrica si lega direttamente alla destinazione della lirica, che vuole scuotere, incitare, entusiasmare,
Il decasillabo
usa cisti
spingere all’azione.
25 PROPOSTE BI LAVORO È 1. Esaminare il lessico usato individuando i termini aulici; ricercare le figure retoriche.
2. Individuare gli elementi (lessicali, sintattici, metrici) usati dall'autore per conferire all’ode una funzione “militante”, ovvero di incitamento alla partecipazione politica. 3. Ai vv. 31-32 si esprime la concezione di nazione di Manzoni: confrontarla con quelle discusse nel dibattito storico-politico del tempo (cfr. Mazzini, Gioberti, Balbo). 4. Riflettere sul significato che Manzoni attribuisce al concetto di libertà (cfr. vv. 81 e sgg.).
5. Manzoni giustifica in qualche modo il ricorso alla violenza? (cfr. vv. 64 e sgg.; cfr. la situazione dei Latini in Adelchi).
6. Qual è il significato della dedica
a Theodor Kòrner?
DO ib
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3. dato ... sospiro: reso l’ultimo respiro.
orba di tanto
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Y | anima. 5. SIRAZio: la notizia della morte di Na-
7. cruenta polvere: insanguinata dalle
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all’ultima
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a calpestar verrà.
12. con vece assidua: l’avvicendarsi incalW° zante di avvenimenti. M
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Napoleone.
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la sua cruenta polvere
9. in solio: in trono, nel fulgore della “DE
Così percossa, ala
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8. Lui: oggetto di vide, v. 14.
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11. tacque: non esaltò
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dato il mortal SOSpiro ’ stette la spoglia immemore
4. orba.... spiro: priva di una così grande
destino di un'epoca.
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come (da collegare al così del
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di sei settenari: il 1°, 8°, 5° sdruccioli, d — Le strofe sono composte
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nell’esilio di S. Elena.
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Napoleone, avvenuta il 5 maggio 1821 L'’ode èispirata alla morte di
1. Ei: Napoleone, che Fonsi 5 maggio 1821 nell’esilio di Sant'Elena.
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di moude 2° e4° piani, rimati fra loro, il 6° tronco. Schema delle rime: abcbde.
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e l’avviò, pei floridi* sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desidéri avanza‘, dov'è silenzio e tenebre la gloria che passò”.
Bella Immortal! benefica fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo”, allegrati; ché più superba altezza al disonor del Golgota giammai non si chinò”?. Tu dalle stanche ceneri”
sperdi ogni ria parola”: 105
il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola” sulla deserta coltrice
accanto a lui posò”. Il cinque maggio
514 e r_rr_È1_ÈrÈ_.—_mrmr_———È——tt@t@p@’@c e | _ SN È__ i
ANALISI DEL TESTO Vediamo innanzitutto come si distribuisce la materia del discorso nella sua successione i
momenti: duano sintagmatica (cfr. G). Si indivitre
La struttura del discorso
I. preambolo: la morte di Napoleone, l’atteggiamento del poeta di fronte all'evento (strofe Cage ant rievocazione della vicenda di Napoleone; a sua volta essaè divisain due parti: a) le
imprese vittoriose (strofe 5-9); b) la sconfitta e l'esilio, ladisperazione dell’eroe (strofe 10-14);
III. conclusione: il soccorso della fede, il trionfo dell'eterno sulla gloria terrena (strofe
020 Paseo peer
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SI
ora il sistema di opposizioni paradigmatiche (cfr. G, voce sistema) che si costruie sce all’interno di questa successione: I. Nelle quattro strofe del preambolo emergono subito due opposizioni fondamentali: 1) immobilità vs rapidità dell’alternarsi di vicende. L’immobilità della salma (v. 1) si oppone alla «vece assidua» delle azioni del grande uomo, alla rapida successione di caduta, fivincita e sconfitta definitiva («cadde, risorse e giacque»); 2) grandezza e gloria vs negatività dell’azione: «tanto spiro», «folgorante», «tanto rag-
I. Le opposizioni
fondamentali
gio», ma anche «cruenta polve»: il grande uomo ha seminato con le sue guerre distruzione, sofferenze e morte. Le due opposizioni saranno riprese e sviluppate successivamente. II. La parte centrale dell’ode, in cui viene rievocata per scorci la vicenda dell’eroe, sì articola innanzitutto su un'opposizione spaziale: lo spazio geografico amplissimo in cui si manifesta il genio militare di Napoleone («Dall Alpi alle Piramidi...») vs la «breve sponda» dell’isola in cui finisce esule; poi su un’opposizione temporale: il passato glorioso vs il presente misero dell’esilio. L'opposizione temporale è molto articolata nel suo distribuirsi sull’asse sintagmatico: strofe 5-9, il passato; strofe 10-13, il presente. Ma, all’interno del presente, si apre anche la prospettiva del futuro (Napoleone cerca di rivolgersi ai posteri con le sue memorie), poi di nuovo quella del passato, rievocato dalla memoria dell’eroe: il «sovvenir» dei «dì che furono» che assale l’esule (strofa 13). L'opposizione passato vs presente ripropone al suo interno, sviluppandola al massimo, l'opposizione che già si offriva nella prima parte, rapidità dinamica vs immobilità. Tutta la rievocazione delle imprese di Napoleone insiste sulla rapidità fulminea degli spostamenti («fulmine», «baleno», «scoppiò»), sulla dinamicità delle azioni e sulla rapidità delle trasformazioni (il «gran disegno», il servire «pensando al regno», il raggiungere la meta che era «follia» sperare, il pericolo e poi la gloria, la fuga e la vittoria, la reggia e l’esilio, la polvere e l’altare; ancor più sulla rapidità insiste la memoria dell'eroe stesso alla strofa 13 («mobili», «lampo», «onda», «concitato», «celere»). L'esilio a S. Elena ripropone invece il tema dell’immobilità («ozio», «cadde la stanca man», «tacito morir di un giorno inerte»). {& ti III. Nell'ultima parte ilcontrasto passato vs presente, vastità spaziale vs breve sponda,
II. Spazio
e tempo
Rapidità vs immobilità
III. L’eterno
dinamismo vs immobilità, che nell’animo dell'eroe diviene insostenibile («a tanto strazio / cadde lo spirto anelo»), viene superato attraverso l’ingresso di una nuova dimensione, fuori del tempo e dello spazio: l'eternità («più spirabil aere», «campi eterni»). In questa prospettiva viene ripresa e sviluppata l’altra grande opposiziorie, che era proposta sin dalle prime strofe: gloria vs negatività dell’azione. La gloria per tutta l’ode era presentata sistematica-
mente attraverso le metafore della luce è delrumore: «folgorante», «raggio», «fulmine»,
Luce e rumore
la gloria si annulla nel silenzio e nelle tenebre; il «premio ch’era follia sperar» è annullato
e tenebre
«rai fulminei», «lampo dei manipoli», «di mille voci al sonito», il «concitato imperio»; ora
dal «premio eterno», che supera ogni desiderio umano. I versi conclusivi ripropongono ancora
vs silenzio
una volta l'opposizione dinamismo vs immobilità («il Dio che atterra e suscita... accanto a lui posò»). Ma, nella nuova dimensione dell’eterno, l’immobilità non è più sconfitta e tor-
mento: sì rovescia di senso e diviene conquista della pace nel perdono divino. Nelle opposizioni che reggono la struttura dell’ode, dinamismo vs immobilità, luce e rumore della gloria vs silenzio e tenebra, si può scorgere tradotto in immagini il tema di
fondo, la meditazione sull'azione dei grandi uomini nella storia. La vita di1 Napoleone fu intensa e tumultuosa, soggetta a rapide trasformazioni e a sua volta causa di grandi e rapidi
sconvolgimenti (tema del dinamismo); ma fu positiva? La prospettiva di Manzoni èpessimistica: agire nella storia, alla ricerca della grandezza, vuol dire provocare distruzioni, sofferenze, morte; vuol dire raccogliere odi e oltraggi, per poi finire nell’inazione, nel tormen-
toso confronto tra passato glorioso e presente oscuro, nella solitudine, nella morte (tema Manzoni
L’azione dei. grandi nella
storia
DI dell’immobilità). L'azione degli eroi nella storia è svalutata nella prospettiva dell’eterno: la morte mette di fronte al vero significato dell’esistenza. Questa svalutazione dell’azione dei grandi che si riscontra nell’ode è vicina al pessimismo di Adelchi morente («Gran segreto è la vita, e nol comprende / che l’ora estrema»; «godi che re non sei, godi che chiusa / all’oManzoni e ——prart’è ogni via»). Si può misurare qui la distanza tra la prospettiva cristiana di Manzoni Foscolo dinanzi ela prospettiva classica e paganeggiante di Foscolo, il suo culto degli eroi, l’affermazione
all’eroico
dell’eternità della fama. Ciò non vuol dire che Manzoni neghi la possibilità di agire nella, storia e l’eroismo di individui eccezionali: lo dimostrano, nel romanzo, personaggi come Cri-
stoforo, Federigo, l’innominato convertito. Però si tratta di figure eroiche del tutto diverse. Secondo la nozione manzoniana dell’eroico, gli individui eccezionali devono legittimare la loro superiorità ponendola al servizio degli altri uomini, alleviando miserie e afflizioni e combattendo ingiustizie e soprusi.
PROPOSTE
DI LAVORO
| daUula. Ad, il biondo crin gemmata®, ta vedea nel pian discorrere pur Vinf0an la caccia affaccendata?”, e sulle sciolte redini chino il chiomato sir??;
e dietro a lui la furia de’ corridor fumanti”, 45
e lo sbandarsi, e il rapido redir?' dei veltri? ansanti; e dai tentati triboli? l’irto cinghiale uscir;
50
55
e la battuta polvere rigar di sangue, colto dal regio stral?”: la tenera alle donzelle il volto volgea repente, pallida d’amabile terror?. Oh Mosa errante”! oh tepidi lavacri?° d’ Aquisgrano! ove, deposta l’orrida maglia*, il guerrier sovrano scendea del campo a tergere
60
il nobile sudor!* Come* rugiada al cespite dell’erba inaridita, fresca negli arsi calami? fa rifluir la vita,
65
che verdi ancor risorgono nel temperato albor*5;
Dan
tale al pensier, cui l’empia virtù d’amor fatica”, discende il refrigerio 70
d’una parola amica”, e il cor diverte ai placidi gaudii d’un altro amor?9. Ma come il sol che reduce‘ l’erta infocata ascende,
75
e con la vampa assidua l’immobil aura incende"!, risorti appena i gracili steli riarde al suol‘; Adelchi
56 80
85
90
ratto così dal tenue obblio torna immortale l’amor sopito‘, e l’anima impaurita assale, e le sviate immagini richiama al noto duol‘. Sgombra, o gentil, dall’ansia mente i terrestri ardori; leva all’Eterno un candido pensier d’offerta, e muori: nel suol che dee‘ la tenera‘ tua spoglia ricoprir, altre infelici dormono, che il duol consunse; orbate
spose dal brando‘”, e vergini 43. ratto ... sopito: l’amore solo momentaneamente sopito torna rapido dopo il breve oblio. 44. e le ... duol: richiama al noto dolore le immaginazioni che temporaneamente se ne erano distolte. 45. dee: deve. 46. la tenera: Ermengarda muore giovane. 47. orbate ... brando: mogli private dei mariti dalla spada dei conquistatori Longobardi. 48. indarno fidanzate: invano, perché i fidanzati furono uccisi prima delle nozze. 49. i nati: i propri figli. 50. Te: oggetto di collocò, v. 103. 51. dalla ... oppressor: dalla stirpe colpevole dei Longobardi. 52. cui ... numero: prodi solo perché numerosi. 58. cui ... sangue: che non conoscevano altra forma di diritto che la legge del più forte, e la violenza sugli oppressi. 54. te ... sventura: le sventure di Ermengarda sono state provvidenziali, perché l’hanno collocata fra gli oppressi, impedendole di macchiarsi delle colpe degli oppres-
95
Te?° dalla rea progenie degli oppressor® discesa,
cui fu prodezza il numero”, 100
105
110
Manzoni
te collocò la provida sventura” in fra gli oppressi: muori compianta e placida; scendi a dormir con essi”’, Alle incolpate ceneri? nessuno insulterà. Muori; e la faccia esanime si ricomponga in pace;
d’un avvenir fallace”, lievi pensier virginei solo pingea”. Così
55. con essi: i Latini. 56. Alle ... ceneri: alle spoglie mortali senza colpa. 57. d’un ... fallace: ripete la formula dei 58. lievi ... pingea: il viso rifletteva solo i suoi pensieri sereni di vergine. 59. si svolge: si libera. 60. il trepido occidente: la luce tremula dopo la pioggia, dove il sole tramonta. 61. pio colono: il pio contadino, che vede nella natura i segni della volontà divina.
cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue”, e gloria il non aver pietà,
com'era allor che improvida
sori, e consentendole di salvarsi.
vv. 81 segg.
indarno fidanzate‘ madri che i nati‘ videro trafitti impallidir.
115
dalle squarciate nuvole si svolge’ il sol cadente, e, dietro il monte, imporpora il trepido occidente: al pio colono®! augurio
120
di più sereno dì.
dla i
DIC ANALISI DEL TESTO
Il preambolo
(str. 1-2) L’intervento
del poeta (3-4)
Il passato recente e i tormenti di
Ermengarda (5)
Il passato lontano e felice (6-10)
Ritorno al recente passato
(11-14)
Il presente (15-20)
La «provvida sventura»
La speranza ultraterrena
La lirica ha una struttura architettonicamente studiata, che poggia su rigorose simmetrie interne. Le prime due strofe fungono da raccordo con la scena che precede, ed insieme da preambolo del discorso lirico successivo: infatti, descrivendo Ermengarda morente, ripren-
dono la situazione in cui culminava la scena drammatica, ma accennano anche ad un motivo che sarà centrale nella poesia, la ricerca della pace nella vita eterna («Giace la pia col tremulo / sguardo cercando il ciel»). Nelle strofe 3-4 il motivo è sviluppato attraverso l’intervento della voce del poeta, che si rivolge al personaggio: la liberazione dal suo «lungo martir», causato dai «terrestri ardori», è fuori della vita; ma proprio attraverso la sofferenza provocatale dalla passione d'amore Ermengarda può divenire «santa» e degna di salire al «Dio de’ santi». La parte centrale del coro (strofe 5-14) è eminentemente narrativa e introspettiva. Alla costruzione architettonica dei motivi vi si intreccia un gioco complesso di piani temporali. La lirica prende le mosse da una situazione presente, Ermengarda in punto di morte. Con la strofa 5 è invece rievocato il passato recente: i tormenti dell'eroina chiusa nel monastero di Brescia dopo il ripudio. Essa cerca di soffocare il suo amore ed il ricordo dei giorni felici del matrimonio, ma quei giorni, pur non rievocati, riaffiorano prepotentemente nella memoria in tutte le ore del giorno, in tutti i luoghi, come una presenza ossessiva (è ripreso qui il motivo già posto al centro della scena drammatica che precede, il ritorno irresistibile di contenuti respinti dalla coscienza). Il martellare ossessivo dei ricordi è reso dall’incalzare anaforico dei complementi di luogo, che occupano ciascuno la breve misura di un settenario («Nelle insonni tenebre», «pei claustri solitari», «tra il canto delle vergini», «ai supplicati altari»). In questo passato recente si inserisce ancora un’altra dimensione temporale:ilpassato più lontano dei giorni felici trascorsi con Carlo, che riemergono alla memoria di Ermengarda (strofe 6-10). Il passato gioioso prende corpo, nella prospettiva dell’eroina, in due scene molto vivide. Sono scene che ricostruiscono due momenti tipici della vita di una corte medievale, la caccia e il ritorno del re dalla guerra, ed offrono un nuovo esempio di quella poesia della storia cara a Manzoni. Nel coro si presentano quindi in successione tre livelli temporali, presente, passato prossimo e passato remoto, incastrati per così dire uno dentro l’altro con la tecnica del flash back (un procedimento costruttivo che si è anche notato nel Cinque maggio). Con la strofa 11 si ritorna al livello temporale intermedio, il recente passato del soggiorno nel monastero. Viene descritta più minuziosamente la condizione psicologica di Ermengarda tormentata dai ricordi e dal risorgere della passione, attraverso la similitudine del cespo d’erba che riprende vita grazie alla rugiada, ma poi è incendiato dalla vampa del sole. Si ripropone il motivo, già accennato alla strofa 5, della potenza «empia» dell’amore, che risorge «immortale» e assale l’anima «impaurita» dell’eroina (strofe 11-14). La strofa 15 riprende testualmente, come un refrain, i versi iniziali della strofa 3, e ripropone il motivo
della liberazione dal tormento che è possibile solo nella morte. Si torna così, chiudendo il circolo, allivello temporale del presente, l’agonia di Ermengarda, da cui era partito il movimento lirico. Torna anche il motivo della purificazione attraverso la sofferenza, già toccato alle strofe 3-4, e si precisa nella formula famosa della «provvida sventura». Alla strofa 3 la sventura di Ermengarda appariva provvida perché le consentiva di salire a Dio «santa del suo patir»; qui è provvida perché libera Ermengarda dalla contaminazione di appartenere alla stirpe degli oppressori. L’idea che la «sventura» sia «provvida» è centrale nella visione manzoniana, e sarà posta alla base della costruzione ideologica dei Promessi sposi. L’ultima strofa, infine, riprende il motivo della speranza in un riscatto ultraterreno, del cielo i E i come promessa di pace e serenità, già accennato alla strofa 1. La complessa successione, anzi l’incastro dei piani temporali, e la disposizione architettonica dei motivi ad essi collegata, possono essere rappresentati in uno schema. Indichiamo con T1 il presente (Ermengarda morente), con T2 ilpassato recente (E rmengarda nel monastero) e con T3 il passato lontano (vita felice con il marito) e, per quanto riguarda i motivi,
con À la pace ultraterrena e il valore purificatore della sofferenza, con B itormenti di Ermengarda che non riesce a vincere l’«empia virtù d'amor», con C la felicità della vita matrimoniale. Nello schema risalta visivamente la costruzione simmetrica dei motivi (A agli estremi,
B nelle posizioni intermedie, C al centro) e dei vari piani temporali (T1 agli estremi, T2 nelle
posizioni intermedie, T3 al centro). Ne risulta anche la corrispondenza tra motivi e piani temporali, T1-A, T2-B, T3-C: Adelchi
DIE (str. 15-20) (str. 11-14) (str. 6-10)
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C
Il coro sviluppa l’analisi del personaggio di Ermengarda già delineata nella scena drammatica che precede. Ermengarda, nel sistema dei personaggi della tragedia (cfr. M11), è il “doppio” femminile di Adelchi. Anch’essa è un’anima pura ed elevata, che è estranea ad una realtà retta dalla legge della forza e dell’interesse, e si scontra inevitabilmente con la brutalità del mondo (è ripudiata in nome della «ragion di regno»). Ma se Adelchi esprime il rifiuto della realtà nel campo pubblico e politico, Ermengarda lo esprime esclusivamente nel campo privato dei rapporti amorosi. Anch’essa rivela chiaramente una matrice romantica: riproduce la tipica figura della donna angelo, che, nella sua eterea purezza, non è fatta per reggere l’urto delle passioni terrene, e soprattutto della passione amorosa. Il suo è un amore coniugale, quindi lecito e castissimo; eppure la potenza dell’amore (un’«amor tremendo», come sappiamo) è egualmente «empia» per lei, nel senso che non ha pietà della sua fragilità, e con i suoi troppo «terrestri ardori» la sconvolge e la devasta (si notino le forti metafore insistentemente ripetute: «ardori», «arsi», «infocata», «vampa assidua», «incende», «riarde»). Non per nulla nella memoria di Ermengarda chiusa nel monastero le immagini del marito sono sempre collegate con immagini di violenza e di sangue: la caccia, il cinghiale trafitto dalla freccia del «chiomato sir» (le lunghe chiome nella società barbarica erano segno di forza guerriera), che riga la polvere del suo sangue, mentre la sposa torce il volto «pallida d’amabile terror», l’«orrida maglia» di ferro che Carlo depone al ritorno dal campo di battaglia. Ermengarda è fatta per i «placidi gaudi» di un altro amore, quello celeste. Per questo rifugge dal contatto col mondo e si protende verso la sua vera patria che è il cielo. Anche per lei, come per Adelchi, la morte è l’unica soluzione al suo conflitto irriducibile con la realtà. E muore come il fratello, mirando al cielo, ansiosa di trovarvi la pace e la liberazione dai suoi tormenti. Nella morte, oltre alla pace, riacquista anche quella ideale verginità interiore, che l’urto con la passione terrena aveva contaminato («Muori; e la faccia esanime / si ricomponga in pace; / com'era allor che improvida / d’un avvenir fallace, / lievi pensier virginei / solo pingea»). In questo coro si può misurare appieno la portata dell’innovazione introdotta dalla poesia lirica di Manzoni rispetto alla tradizione dominante da secoli in Italia, quella derivante dal modello petrarchesco, la poesia come esposizione di moti soggettivi, come analisi dell’io del poeta. La poesia manzoniana è invece epica e drammatica: ha un taglio eminentemente narrativo, si fonda sulla costruzione di personaggi, sull’analisi di moti interiori non soggettivi, ma di individualità oggettivate, mette in scena conflitti drammatici. È una lirica in cui è presente già un grande narratore.
Manzoni
Il conflitto tra l’anima elevata e il mondo
L’«empia virtù d’amor»
Il superamento del conflitto nell’eterno
Una poesia epicodrammatica
|
539
2. PROPOSTE DI LAVORO ; Analizzare il linguaggio (ad esempio, verificare il tipo di lessico e di sintassi usati; individuare le figure retoriche, gli arcaismi; il valore dell’imperativo).
. Individuare i momenti descrittivi e quelli riflessivi del coro. 3. Del coro e dell’episodio riportato nel T132 cogliere gli elementi necessari per la definizione del personaggio.
. Confrontare il personaggio di Ermengarda con le altre famose eroine manzoniane, Gertrude e Lucia. Il confronto può avvenire in base alla classe sociale di appartenenza, al ruolo esercitato nell'ambiente nel quale vivono, alla psicologia... p 5. Confrontare la morte di Ermengarda con quella di Adelchi e di Napoleone.
. Si può parlare di “natura martirologica” di Ermengarda che vive intensamente il tema della colpa? (Cristo ha riscattato gli uomini dal peccato originale; da quale colpa deve riscattarsi Ermengarda?). >
\ PRATI
Il personaggio di Carlo Magno Carlo è bloccato alle Chiuse di Susa (l’unico passaggio possibile per scendere ‘in Italia con un esercito) dalle postazioni longobarde. Scoraggiato, pensa di ritirarsi. Giunge al campo un diacono, di nome Martino, rivelando di aver trovato un passaggio tra è monti che consente di prendere alle spalle è nemici. Carlo riacquista fiducia nel compimento dell’impresa (Atto II, scena 4). CARLO
Così, Carlo reddiva. Il riso amaro
285
290 1. per ... prego: con consigli o preghiere.
vai 2. proposto: proposito. sica “aa cirio 4. La stella ... tempo: la stella che gli pr- | 295
metteva un esito felice ca agi
leanza con i Longobardi.
i
tacita, in atto di rampogna, afflitta,
pallida, e come del sepolcro uscita?
CE ora
SS tieni fresa garanzia di un’al-
ove nacque Ermengarda. - Oh! del tuo® sangue mondoî son io; tu vivi: e perché dunque ostinata così mi stavi innanzi,
ialindo: non mi sono macchiato del tuo
se
dall'Italia rispingermi; bugiarda
no mai, no, rege esser non puoi nel suolo
vana, ingannevole. È vr si rivolge idealmente a Ermen- | 800
8. di
stette alcun tempo‘, io la riveggo. Egli era un fantasma d’error® quel che parea
era la voce che diceami in core
SERATE 5. fantasma d’error: un’immaginazione
sangue.
del suo nemico e dell’età ventura gli stava innanzi; ma l’avea giurato, egli in Francia reddia. - Qual de’ miei prodi, qual de’ miei fidi, per consiglio o prego’, smosso m’avria dal mio proposto”? E un solo, un uom di pace?, uno stranier, m’apporta novi pensier! No: quei che in petto a Carlo rimette il cor, non è costui. La stella che scintillava al mio partir, che ascosa
805
Dio riprovata* ha la tua casa, ed 1004p
starle unito” dovea? Se agli occhi miei
Adelchi
540 piacque Ildegarde!°, al letto mio compagna non la chiamava alta Sgr ragion di regno!!? DI
10. Ildegarde: la nuova moglie di Carlo. 11. alta ragion di regno: il superiore inte-
Se minor degli eventi! è il femminile tuo cor, che far poss’io? Che mai faria
distato... | 310 resse del regno, laragion
colui che tutti, pria d’oprar, volesse
Cic o
prevedere i dolori! Un re non puote
4
x
correr! l’alta sua via, senza che alcuno
13. prevedere i dolori: provocati dalle sue
azioni.
RISE
cada sotto il suo pié. Larva! cresciuta
AGI DI ORO IERI
l’ha tormentato.
nel silenzio e nell’ombra, il sol si leva, 815
squillan le trombe; ti dilegua.
ANALISI DEL TESTO Si è avvertito nell’analisi delle ultime scene della tragedia che bisogna stare attenti ad identificare il pessimismo di Adelchi morente con la prospettiva dello scrittore stesso. Infatti, accanto ad Adelchi e ad Ermengarda, che esprimono il rifiuto dell’azione nella storia, e accanto alla serie di personaggi “politici” che esemplificano la negatività del mondo storico, vi è ancora un personaggio fondamentale nel sistema del testo, che ha una fisionomia più problematica: Carlo Magno. Se Adelchi rappresenta l'impossibilità di agire nella storia, l'essenza stessa di Carlo è il realismo dell’agire politico. Carlo non ha mai problemi né esitazioni dinanzi all’azione (se non un rimorso passeggero per il ripudio di Ermengarda, subito tacitato in nome di superiori esigenze politiche); è convinto che l’interesse del regno giustifichi ogni azione, anche quelle che provocano sofferenze e ingiustizie, ma soprattutto è convinto di essere il «campion di Dio», e di essere chiamato da Dio stesso alla missione di invadere l’Italia per salvare il papa e «struggere gli empi». In realtà le parole che rivolge ai soldati, magnificando la preda che li attende in Italia, rivelano come sia spinto essenzialmente dal desiderio di conquista e di potenza. Eppure, nonostante questa demistificazione del potere e della forza che si ammantano di ragioni ideali, Carlo non appare come personaggio del tutto negativo. A questo punto diviene illuminante accostare alla tragedia il capitolo V del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia che l’accompagna. Qui Manzoni osserva che tutti coloro che agiscono nella storia sono inevitabilmente spinti da interessi privati di dominio. Visto che il bene assolutamente disinteressato è impossibile, bisogna adottare un altro criterio, sostiene Manzoni, per giudicare le azioni politiche: vedere se esse, perseguendo altri fini, riescano anche ad alleviare le sofferenze delle masse che ne subiscono le conseguenze, oppure tendano ad aumentarle. Ora è vero che Carlo Magno, calando in Italia, mirava in primo luogo a fini politici di potenza, così come il papa che lo chiamava cercava aiuto in un conflitto di potenza con i Longobardi: tuttavia il papa pensava anche a salvare i Latini dalle scorrerie di costoro, e la conquista di Carlo, pur non offrendo ai Latini la libertà, dava loro effettivamente una garanzia ed un « principio di riposo». Se si legge la tragedia alla luce di queste considerazioni del Discorso, il personaggio di Carlo assume un più complesso significato: anche se è colui che per la ragion di Stato ripudia la pia Ermengarda e la condanna a morire di dolore, che invade l’Italia per bramosia di conquista approfittando cinicamente del tradimento dei duchi longobardi, che impone il suo dominio ai Latini sostituendosi ai precedenti dominatori, è pur sempre il grande imperatore con il quale camminano la storia e la civiltà, che interviene a salvare la Chiesa e a cui Dio stesso indica la via grazie al diacono Martino, che preserva i Latini dalle feroci scorrerie dei Longobardi. L’azione politica, anche se non obbedisce a ragioni ideali ma alla legge del reali-
smo politico, viene accettata e in certa misura riscattata all’interno del disegno provviden -
ziale, visto che ne possono scaturire effetti positivi nel corso complessivo della storia. Ne risulta che non è impossibile agire politicamente per attenuare il male del mondo, come appare dalle parole di Adelchi morente. Se dunque si tiene conto della struttura complessi va della tragedia, anziché concentrare l’attenzione sul solo protagonista, appare che il senso del testo non è una negazione totale della storia e dell’azione politica, ma quella accettazione condizionata che tornerà poi nel romanzo. Il pessimismo di Adelchi non esaurisce il significato Manzoni
Carlo e il realismo
dell’agire politico
Carlo non è un personaggio del tutto negativo
L’azione politica nel disegno provvidenziale
L’accettazione condizionata della storia
54 complessivo della tragedia, ma è solo uno dei due poli di una dialettica tra rifiuto della storia e accettazione dell’agire politico, che è aperta in questo momento nella coscienza dello scrittore. Nei Promessi sposî il polo positivo assumerà molto maggior peso, con i personaggi di Federigo, dell’innominato convertito, di fra Cristoforo; però il romanzo non appare per questo aspetto così lontano dall’Adelchi come si suole abitualmente affermare.
PROPOSTA DI LAVORO
Pu
_
cd... ..--—
.® I vv. 31 1-313 definiscono Carlo come tipico eroe che persegue la ragion di Stato. Riflettere su questa caratterizzazione del personaggio, utilizzando anche le osservazioni presenti nell’analisi del testo, valide per una definizione meno “schematica” del personaggio.
M11
Il sistema dei personaggi nell’ Adelchi
Nella tragedia i vari personaggi si definiscono non solo in conseguenza del loro carattere individuale, ma, come in ogni testo letterario, anche in base alla serie di rapporti funzionali che tra essi si instaurano. Proviamo a ricostruire questo
Personaggi “machiavellici”
e ideali
Similarità e opposizione
sistema di rapporti. I personaggi fondamentali sono quattro: Adelchi, Ermengarda, Desiderio, Carlo. Essi possono essere posti ai vertici di un ideale quadrilatero di rapporti. Si delinea subito l'opposizione fondamentale: da un lato i politici “machiavellici”, che ragionano e operano solo in base al criterio della ragion di Stato e della forza, dall’altro i personaggi ideali, portatori di valori nobili e disinteressati, immuni dalla contaminazione della realtà politica. Sulla base di questa distinzione si possono individuare rapporti di similarità o di opposizione: personaggi ideali
personaggi politici
CARLO wo
STRO
ERMENGARDA
(dove: similarità, —— ‘— opposizione) Ma su questi rapporti se ne sovrappongono altri di diversa natura, amore/odio: Amore
e odio
L
>
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CARLO =
io
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(dove:@ — > amore;
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DESIDERIO
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—————- è
- - > €——
ADELCHI
ERMENGARDA i
odio).
I due sistemi non coincidono, come si vede chiaramente se si prova a sovrapporli: DESIDERIO
Pane
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CARLO
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Sì
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o
[ Ka
617 6. per ... spaura: poco manca che il cuore non si smarrisca, atterrito dalla percezione dell’infinito evocata dall’immaginazione. 7. come: quando, non appena. 8. il vento ... comparando: «odo stormire il vento fra queste piante, paragono il silenzio infinito al rumore (voce) del vento. La sensazione acustica (lo stormire del vento) aprela meditazione (e mi sovvien) sull’infinito nel tempo (l’eterno)».
9. mi sovvien ... lei: «e nasce nella mia mente (mi sovvien non significa “mi ricordo”, come taluni interpretano) il pensiero dell’eterno, delle epoche passate (le morte stagioni), del presente che ancora è in corso (la presente e viva) e della sua voce (e il suon di lei), ossia il suono delle imprese, delle azioni degli uomini che il presente restituisce, destinato a perdersi
Il cor non si spaura*. E come” il vento « Odo stormir tra queste piante, io quello 10 Infinito silenzio a questa voce Vo comparando*: e mi sovvien l'eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei’. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio!°; 15. E il naufragar m'è dolce in questo mare!!.
« rapidamente nello scorrere del tempo, che le copre di silenzio». 10. Così ... mio: «così in questa meditazione sull’infinito nello spazio e nel tempo il mio pensiero si smarrisce (s’annega)». 11. Eil... mare: il risultato della medita-
zione sull’infinito provoca piacere, la dolcezza inebriante dello smarrimento (l’effetto stilisticamente è rimarcato dall’ossimoro «naufragar m'è dolce), del perdersi delle facoltà intellettive nel mare dell’infinito.
\
ANALISI DEL TESTO L'’Infinito anticipa in forma poetica un nucleo tematico che diverrà il centro delle riflessioni leopardiane negli anni successivi, a partire dal luglio del 1820: la teoria del piacere, da cui si sviluppa la teoria del vago e indefinito (cfr. T148). Le pagine dello Zibaldone SOpra riportate sono perciò indispensabili a chiarire retrospettivamente il senso della poesia. Come si ricorderà, Leopardi vi vi sostiene sos che particolari sensazioni visive o uditive, per il loro carattere vago e indefinito, inducono l’uomo a crearsi con l'immaginazione quell’infinito a cui
L’Infinito e la teoria del vago e indefinito
—_. sue
aspira, e che è irraggiungibile, perché la la 1 realtànon offre che piaceri finiti e perciò delu-
denti. L’Infinito è appunto la rappresentazione di uno di questi momenti privilegiati, in cui l'immaginazione strappa la mente al reale, cheè il «brutto», e la immerge nell’infinito (esperienza che Leopardi, in un altro passo dello Zibaldone, definisce «estasi»: cfr. T148c); e, significativamente, le teorizzazioni dello Zibaldone richiamano proprio l’Infinito come un esempio (cfr. T148d). La poesia si articola in due momenti, corrispondenti a due distinte sensazioni di par-
gersi sino all’estremo orizzonte.sn ESTE pento della vista, che esclude il «reale» », fa SUDeN- | sn Infinito spaziale e infinito temporale
.
trare il «fantastico» (per usare le parole dello Zibaldone: «allora in luogo della vista, lavora: ? Sali l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale»): il pensiero si costruisce l’idea di un infiè» nito spaziale, cioè di spazi senza limiti, immersi in silenzi sovrumani e in una | profondissima ina quiete. Nel secondo momento (vv. 8-15) l'immaginazione prende l’avvio da una sensazione ‘*’*’ uditiva, lo stormire del vento tra le piante. La voce del vento, un dato presente, effimero, “viene paragonato ai silenzi prima immaginati, e richiama così alla mente l’idea di un infinito temporale (l’«eterno»), a cui si associa successivamente il pensiero delle epoche passate e svanite, e dell’età presente, col suo carattere ugualmente effimero, destinato anch'esso a svanire. La lirica ha una sua durata temporale interna, un suo andamento narrativo: le due sensazioni, e le due immaginazioni da esse suscitate, sono in successione tra loro, anzi,
scaturiscono l’una dall’altra; questa successione narrativa non si riferisce però a un evento unico, bensì a un’esperienza che si suppone ripetuta più volte nel tempo («Sempre caro mi fu...»). Vi è anche un passaggio psicologico: l’io lirico, dinanzi alle immagini interiori dell'infinito spaziale, prova come un senso di sgomento («per poco il cor non sì spaura»); ma nel secondo momento l’io si «annega» nell’«immensità» dell’infinito immaginato (spaziale e temporale), sino a perdere la sua identità; e questa sensazione di «naufragio» dell’ioè piacevole, «dolce». Se la coscienza rappresenta all'uomo il «vero», cioè la sua necessaria infelicità, lo spegnersi della coscienza individuale dà una sensazione di piacere, garantisce una forma di felicità. Tra lo «spaurarsi» del cuore e la «dolcezza» del naufragio non vi è però contrasto, come potrebbe apparire a prima vista: essi infatti non sono che i due aspetti L’infinito
618
1
dall’immaginazione deldi quell’«orrore dilettevole» che, secondo il sensismo, è suscitato l'infinito (Cellerino, 1972). | la È: ‘ " dell io nelSarebbe facile leggere il componimento in chiave mistico-religiosa: il perdersi della mistica l'infinito è il dato costitutivo di ogni esperienza mistica; il linguaggio tipico come Si stesso, i Leopard e », «naufraga l’io cui in «mare» è richiamato dalla metafora del
o. Già è visto, nello Zibaldone usa il termine «estasi» a indicare questi momenti di rapiment l Idro scoperse solitari primi i De Sanctis interpretava in chiave religiosa la lirica («Così ca idealisti critica della va successi e tradizion la tata interpre dio»); e in senso religioso l’ha
«Estasi» mistica
o esperienza sensistica?
(cfr. La critica). Ma bisogna fare attenzione: non è ravvisabile nel componimento nessun i accenno ad una dimensione trascendente, sovrannaturale; l’infinito non vi ha le caratter
stiche del divino, dello spirituale: anzi, nello Zibaldone Leopardi lo esclude esplicitamente, con fermezza: «L'’infinità della inclinazione dell’uomo è una infinità materiale» (luglio 1820). Non solo, ma questo «infinito» non è un infinito oggettivo, ontologico, bensì tutto soggettivo, creato dall’immaginazione dell’uomo («io nel pensier mi fingo»); ed è evocato a partire da sensazioni fisiche, in chiave prettamente sensistica, come di derivazione sensistica è la riflessione del piacere misto a paura provocato nell’immaginazione dall'idea dell’infinito. Con questo, non si può del tutto escludere una componente mistica nella poesia: bisogna però supporre che essa sia radicata negli strati più profondi della personalità leopardiana, e che, per arrivare a esprimersi, debba passare attraverso le forme culturali acquisite dal poeta, sensistiche e materialistiche, conformandosi a esse e subendo una decisiva trasformazione, che muta volto agli impulsi originari. La durata temporale e il processo psicologico in cui si articola l’esperienza cantata nella poesia prendono corpo in una struttura dal rigoroso disegno costruttivo, fondata su precise simmetrie ma molto articolata al suo interno. I due momenti, corrispondenti all'esperienza dell’infinito spaziale (vv. 1-8) e a quella dell’infinito temporale (vv. 8-15), occupano ciascuno esattamente sette versi e mezzo. Il passaggio tra i due momenti avviene al verso 8, che è diviso in due da una forte pausa al centro, segnata dal punto fermo: «il cor non si spaura. Il E come il vento». La pausa serve a distinguere i due momenti; però vi sono anche chiari elementi che sottolineano la continuità fra di essi, il fatto cioè che viene descritto un processo unico, in cui un’'immaginazione scaturisce dall’altra, senza contrasti con la precedente (nonostante l'apparente opposizione «spaura» - «m'è dolce»): si tratta di un elemento sintattico, la congiunzione coordinativa «e» all’inizio del secondo periodo, e di uno metrico, la sinalefe (cfr. G) che collega in una sillaba sola la vocale finale di «spaura» con la «e» successiva. All’interno, queste due sezioni si suddividono ancora ciascuna in due parti simmetriche: nella prima (vv. 1-3 e 8-10) si ha il punto di partenza dell’immaginazione dal dato reale, sensibile, la siepe e il vento che stormisce; nella seconda (vv. 4-8 e 10-15) l’allontanamento dalla realtà verso l’infinito immaginato. Le simmetrie si misurano anche sul piano sintattico. I due periodi in cui sono rese rispettivamente le esperienze dell’infinito spaziale e temporale sono costruiti su due serie analoghe in forma di polisindeto (cfr. G): «interminati spazi [...] e sovrumani silenzi, e profondissima quiete», «l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei». La simmetria si rompe sul piano lessicale: nel membro in cui si è resa l’esperienza dell’infinito spaziale si ha la prevalenza di parole molto lunghe: «interminati», «sovrumani» di quattro sillabe, «profondissima» di cinque; nel membro dedicato all’infinito temporale vi sono invece parole più brevi, al massimo trisillabe («eterno», «stagioni», «presente»): gli arditi polisillabi danno il senso di un'esperienza vertiginosa, che «spaura», mentre le parole più brevi e consuete corrispondono al distendersi dell’esperienza verso la pace del naufragio dell’io. All’effetto
Il disegno costruttivo
Il livello sintattico, lessicale, fonico
coopera anche il livello fonico. L'impressione di infinità spaziale è resa con l’uso di vocali lal toniche, che danno sempre un’idea di vastità («interminati spazi», «sovrumani»); il bri-
vido di sgomento è reso invece con vocali dal suono cupo, le velari /o/ («ove», «poco», «cor»), ma soprattutto con l'accento tonico sulla /u/ nella parola chiave «spaura», posta per di più in rilievo alla fine del periodo. Così il naufragio finale è accompagnato di nuovo dall’ampiezza delle vocali /a/ («immensità»; «naufragar», «mare»). Il senso di un'esperienza unitaria, al di là dei due momenti in cui si articola, è resa dal continuum metrico e sintattico che percorre tutto il componimento: nessun verso, tranne
il primo e l’ultimo, è isolabile sintatticamente: il discorso sintattico continua sempre nel verso
seguente; di conseguenza, su 15 versi vi sono ben dieci enjambements. La continuità è ribadita, sul piano sintattico, dall’alta presenza di particelle congiuntive che allacciano i singoli periodi: «ma sedendo», «ove per poco», «e come il vento», «e mi sovvien», «così tra queLeopardi
Il continuum metricosintattico
619 sta», «e il naufragar»; la congiunzione «e» è poi frequentissima anche all’interno dei periodi, come si è già rilevato (per tutte queste osservazioni cfr. Blasucci, 1985). L'impressione complessiva che si ricava da queste strutture è di un processo unitario, continuo, che però si
articola in momenti ben individuati al loro interno. La poesia è perciò un esempio di perfetta compenetrazione di significante e significato: a una continuità narrativo-psicologica corrisponde la continuità della struttura stilistica.
IT144) PROPOSTE DI LAVORO 1. Rispetto all'aspetto formale del componimento riflettere su: | a) livello grammaticale (abbondano nel testo, come tra gli altri ha notato il critico Angelo Marchese, gli aggettivi , * «questo» e «quello»: ritrovarli e verificare a quale vicinanza e lontananza spaziale e temporale rimandano. b) livello lessicale (ci sono nel testo termini aulici, «indefiniti e vaghi»? Quali sono le parole-chiave? Quali termini presenti nel componimento sono in relazione con la condizione d’infinito, annunciata dal testo? L’aggettivo - sempre premesso al sostantivo a cui si riferisce, ad esempio «ermo colle» — acquista particolare rilievo semantico?); c) livello retorico (ad esempio ci sono anafore? Metafore? Antitesi, come concreto vs astratto; particolare vs universale; orizzonte chiuso vs orizzonte aperto?); d) livello sintattico. Poiché l’Infinito può scomporsi in quattro parti: vv. 1-3; 3-8; 8-11; 11-13, ci sono simmetrie tra il primo e il quarto gruppo di versi e tra il secondo e il terzo rispetto alla partizione sintattico-metrica e a quella tematica? 2. Ritrovare nel testo tutti gli elementi che consentono di affermare che esso presenta una matrice sensistica.
3. Quali immagini dello spazio e del tempo sono rappresentate nel componimento? (ovvero lo spazio rappresentato è solo quello concreto e reale? E il tempo?). 4. Perché nel testo è molto presente il pronome personale di prima persona?
5. L’/nfinito si conclude con l’esperienza del «naufragar» nell’infinito e nell’eterno: si tratta di una fuga dal reale, come per molti poeti romantici europei, o in Leopardi assume un altro significato? 6. Confrontare questo testo con un passo dalla Vita di Alfieri (cap. IV, epoca III), in cui vi è una situazione analoga, e che può aver suggestionato Leopardi.
La sera del dì di festa Composto a Recanati, nella primavera del 1820, fu pubblicato per la prima volta, con gli altri idilli, sul «Nuovo Ricoglitore» nel 1825, col titolo La sera del giorno festivo, poî nei Versi del 1826 e nei Canti del 1831. Metro: endecasillabi sciolti.
. rivela ...
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti ; ; Posa la luna, e di lontan rivela
tagna: la luce lunare rende
Menia preciso, netto il profilo delle montagne. 2. O donna ... lampa: Leopardi si rivolge
gp 5 ee a una donna che reale; 1 sen lerl solitari
personaggio
tac-
laluce e dalle imposte socchiuse filtra ciono
(traluce) di qualche raro lume.
Serena ogni montagna!.
5.
0 donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi 2. Rara traluce la notturna lampa*:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno La sera del dì di festa
620
1
8. agevol ... nessuna: «un sonno pronto e facile (agevol), in quanto nessuna preoccupazione (cura nessuna) la tormenta (non ti morde)». 4. Quanta piaga: quale ferita. 5. Tu dormi: l’anafora col v. 7 serve a sottolineare la diversa condizione del poeta
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
10
che interviene adesso in prima persona.
6. io ... affanno: «mi affaccio a salutare questo cielo che quando lo si guarda (in vista) appare tanto sereno e la natura che nel suo moto eterno (antica) e inappellabile mi creò per soffrire» (concetto variamente ripreso nei Canti e nelle Lettere). 7. A te ... pianto: all'autore parla la Natura; dice di negargli perfino la speranza (speme) e lo condanna a versare solo lacrime di dolore (i tuoi occhi non brillino di altro sentimento se non di dolore). 8. solenne: di festa (è un latinismo). 9. or ... riposo: ora ti riposi dagli svaghi (il soggetto è la fanciulla). 10. ti rimembra ... te: «ti ricordi nel sogno dei giovani ai quali oggi piacesti e dei giovani che piacquero a te». 11. non io ... ricorro: «tra coloro ai quali tu ripensi non ci sono io e neppure lo spero». 12. io chieggo: chiedo (a me stesso, alla Natura onnipotente). 13. e... fremo: l'atteggiamento contrasta con la pacata contemplazione del verso 11, ma è il medesimo di cui si legge in una lettera inviata a Giordani presumibilmente negli stessi giorni: «Io mi getto e ravvolgo per terra, domandando quanto mi resta ancora da vivere» (A Pietro Giordani, 24.4. 1820). 14. In ... etate: in così giovane età. 15. non lunge: non lontano. 16. riede: ritorna. 17. sollazzi: divertimenti. 18. povero ostello: umile dimora. 19. fieramente: crudelmente (cfr. Zibal-
15
con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco»). 20. a... passa: nel riflettere sul fatto che tutto passa nel mondo senza quasi lasciare traccia (orma). 21. Ecco... succede: e trascorso il giorno di festa, ad esso succede quello feriale (volgar). 22. e... accidente: e il tempo trascina con sé ogni vicenda umana. 23. Or dov’è?: le interrogative retoriche, l’uso dello stilema ubî sunt (or dov'è) hanno la funzione di sottolineare l’ineluttabile destino di ogni momento della storia, soggetto a distruzione e annienta-
Leopardi
Appare in vista, a salutar m'’affaccio, E l’antica natura onnipossente, Che mi fece all’affanno®. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non ti pianto". Questo dì fu solenne*: or da’ trastulli*
20
25.
30
35
40
done, 50-51: «Dolor mio nel sentire a tarda
notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato, che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente
Cura nessuna?; e già non sai né pensi Quanta piaga‘ m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi?: io questo ciel, che sì benigno
45.
Prendi riposo*; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te!°: non io, non già ch'io speri, AI pensier ti ricorro!!. Intanto io chieggo!* Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo!*. Oh giorni orrendi In così verde etate!! Ahi, per la via Odo non lunge” il solitario canto Dell’artigian, che riede! a tarda notte, Dopo i sollazzi!”, al suo povero ostello 8; E fieramente!’ mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa”, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede?!, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente? Or dov'è” il suono” Di que’ popoli antichi? or dov'è il grido? De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio? Che n’andò per la terra e l'oceano?” Tutto è pace e silenzio, e tutto posa? Il mondo, e più di lor non si ragiona”. Nella mia prima età”, quando s’aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch’egli era spento*!, io doloroso”, in veglia*, Premea le piume*‘4, ed alla tarda notte Un canto che s’udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core”,
mento dal momento che questo è accaduto ai popoli antichi, agli avi famosi, al grande impero di Roma. 24. suono: l’eco delle imprese, la traccia della loro civiltà. 25. il grido: la gloria, la fama. 26. e ... fragorio: e il rumore delle battaglie e delle vittorie. 27. che ... oceano: «che percorse tutto il mondo fino all'oceano» (inteso come confine della terra, si trova anche in Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 290-291 («... per quante / abbraccia terre il gran padre Oceano»). 28. posa: qui, come nel verso 3, evoca l’idea
del riposo, della quiete, del deserto notturno lunare privo di tracce di vita. 29. e... ragiona: e non si parla più di loro. 30. Nella ... età: fanciullezza. 31. or ... spento: quando poi si era concluso. 32. doloroso: angosciato. 33. in veglia: insonne. 34. premea ... piume: stavo a letto. 35. ed ... core: «e allo stesso modo (similmente) provocava in me angoscia e malinconia il canto proveniente dai sentieri a notte tarda che nell’allontanarsi si spegneva».
621 ANALISI DEL TESTO Il notturno lunare e la poesia antica
Poesia «sentimentale» e poesia di «immaginazione»
Il titanismo
dell’io solitario
Il tempo che vanifica «ogni umano accidente»
Il legame tra le due parti della
lirica
La poesia si apre con un notturno lunare. È una di quelle immagini vaghe e indefinite, tanto care a Leopardi perché danno all’uomo l’illusione di attingere all'infinito: a conferma, nella serie di immagini elencate nello Zibaldone ha molto rilievo proprio la luce della luna (cfr. T143f). Nel trattare poeticamente le immagini vaghe e indefinite, secondo Leopardi, erano maestri gli antichi: e difatti questo notturno lunare della Sera, che pure, come possiamo facilmente supporre, prende le mosse da un’esperienza vissuta (cfr. la lettera del 6 marzo 1820 prima riportata, T141, che è l’antecedente diretto della poesia), è filtrato attraverso reminiscenze della letteratura classica. Leggiamo difatti nei Ricordi: «Veduta notturna con la luna a ciel sereno dall’alto della mia casa tal quale alla similitudine di Omero» (cfr. T142). La similitudine a cui si fa riferimento è tradotta da Leopardi stesso nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818): «Sì come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’ monti ed ogni selva / ed ogni torre...» (Iliade, c. VIII, vv. 555 ss.). E facile vedere come la Sera riprenda una trama verbale già presente in questa traduzione omerica: «senza vento», «discopre» («rivela» nella poesia), «ogni cima de’ monti» («ogni montagna»). Questo sovrapporre sulla realtà vissuta una realtà immaginata, con il soccorso di un filtro letterario, sarà un procedimento costante della poesia leopardiana, come avremo modo di verificare. Leopardi però è convinto che nel mondo moderno la poesia immaginosa e fanciullesca degli antichi non sia più possibile, per colpa dell’avanzamento della civiltà e della ragione; nel suo tempo non è praticabile che una poesia «sentimentale», nutrita di filosofia e della consapevolezza amara del vero. É vero che in Leopardi, sino ai grandi idilli, l'esigenza del «caro immaginar» è insopprimibile, e per questo egli non può rinunciare del tutto alle immagini vaghe e suggestive come il notturno lunare che apre la poesia; però subentra immediatamente la coscienza del vero: e difatti qui la suggestiva immagine iniziale entra subito in contrasto con gli sviluppi seguenti. Nel corpo della poesia si colgono due temi fondamentali, trattati successivamente in due parti distinte. Nella prima (vv. 4-24) si ha la contrapposizione tra due figure giovanili: quella della fanciulla, ignara di affanni, che si abbandona fiduciosa alle sue gioie e alle sue speranze, in armonia con la quiete notturna della natura, e quella del poeta, che la natura ha creato per essere infelice. L’io lirico sottolinea la propria diversità, che lo esclude dall’umanità comune, e che appare come un’arcana condanna, ma sottolinea anche il contrasto tra la presenza dell’essere infelice e la bellezza quieta e serena della natura (motivo che tornerà nell’Ultimo canto di Saffo). Questa contrapposizione dell’io solitario, su cui grava come una condanna, agli altri uomini e alla natura, si manifesta in forme romanticamente titaniche, in atteggiamenti di violenta ribellione («per terra mi getto, e grido e fremo»), che sono tipici di questo primo Leopardi. La seconda parte (vv. 24-46) presenta un tema a prima vista molto lontano: il passare di tutte le cose, il tempo che nel suo scorrere vanifica «ogni umano accidente». La meditazione è suggerita da un’altra sensazione vaga e indefinita, il canto solitario che risuona nella notte, allontanandosi a poco a poco. Un passo dello Zibaldone (v. nota 19) chiarisce il processo associativo, che la poesia lascia nel sottinteso: il canto fa risaltare il silenzio della notte, e richiama per contrasto l’animazione e la vita del giorno festivo, che in quel silenzio si sono dissolte senza lasciar traccia. Di qui nasce una più vasta riflessione sulla gloria dei popoli antichi, che è scomparsa nell’oblio attuale. É la ripresa di un tema dell’Infinito: anche là
un effimero rumore presente, lo stormire del vento, evocava l’infinità del tempo, le «morte stagioni» inghiottite nel nulla, e «la presente e viva», destinata anch'essa a sparire. Si pone a questo punto il problema di cogliere il legame che unisce le due parti e i loro temi, che a prima vista non hanno rapporti tra loro. Si noti che il passaggio tra la prima e la seconda parte si colloca alla metà di un verso: «... in così verde etate! Ahi per la via... »: vi è una forte pausa, segnata dal punto esclamativo, ma anche una sinalefe (cfr. G) tra la vocale finale di «etate» e quella iniziale di «Ahi». E un procedimento che sì è già osservato al v. 8 dell’Infinito: la continuità metrica è l’indizio che vi è un legame tra i due temi, anche se lasciato nell’implicito. Il legame può essere: i giorni del poeta sono orrendi, ma anche questa infelicità è un nulla, è destinata a vanificarsi nel fluire del tempo. Nell’Infinito vi era una conclusione analoga: il pensiero del poeta sì annullava nell’immaginazione dell'infinito spaziale e temporale. Là l'approdo al nulla aveva una funzione catarLa sera del dì di festa
622 vi tica: il «naufragare» dell'io era «dolce». Si verifica lo stesso anche qui? A tal proposito acclumano ogni di vanificarsi del motivo il alcuni sono interpretazioni divergenti: 1) per destino dente riprende il motivo dell’indifferenza della natura verso il poeta; quindi ilsuo pensiero Il uomini. gli tutti personale si allarga a una dimensione universale, che abbraccia della vanità universale accresce la disperazione iniziale (Peruzzi); 2) per altri, invece, sì verifica anche qui una forma di catarsi: la considerazione della vanità del tutto non accresce ma vanifica la disperazione iniziale in una contemplazione struggente ma rasserenante di un destino di annullamento universale (Blasucci).
Una colei catartica?
(T145 PROPOSTE DI LAVORO © 1. Per quanto riguarda l’aspetto formale del testo individuare: a) il livello fonico. Si osservino ad esempio i vv. dedicati al canto dell’artigiano (25-26; 44-45): quali vocali toniche predominano? Qual è l’effetto? b) il livello lessicale. Il lessico è quotidiano? aulico? Ci sono latinismi? Oggetti della realtà quotidiana come vengono definiti? (ad esempio «notturna lampa»). Ci sono nel canto parole «vaghe e indefinite» che Leopardi riteneva naturalmente poetiche? C) il livello retorico. Ad esempio ci sono anafore? Iperbati? Metafore? Allitterazioni? Enjambements? Esclamazioni? Interrogazioni?
2. | personaggi della canzone sono l’io lirico e la donna: quali azioni compiono? Quali sensazioni provano? Quale rapporto s’instaura tra i due (di somiglianza o di differenziazione)? 3. Rintracciare nella canzone e collocare nello schema seguente: sensazioni visive
sensazioni uditive
«dolce ... luna»
«Odo ... solitario canto»
moti. affettivi
| «mi si stringe il core»
affermazioni sentenziose
«A te la speme nego»
4. | versi 13-16 si riferiscono all’«antica natura onnipossente»; come viene caratterizzata dal poeta? 5. Quali sono i tempi nei quali si collocano le azioni descritte e come sono caratterizzati?
6. Si confronti la meditazione sul tempo e sul passare delle cose con quelle dell’/nfinito: quali differenze si possono notare? Il motivo compare anche nei Ricordi (T142): dove? in quale forma? 7. Si confronti ancora con l’/nfinito rispetto allo spazio rappresentato (ad esempio /nfinito vv. 5-6, Sera v. 38)
e alla funzione del suono (Infinito v. 10; Sera, vv. 33-36, 44).
8. Esprimere la propria valutazione a) rispetto all’unitarietà o meno della canzone b) rispetto alla presenza o meno di una catarsi finale.
Leopardi
_
e
623 Ad Angelo Mai
1. Italo ardito: Angelo Mai, ardito, infaticabile nell’esplorare il difficile mondo dei classici in un’età di vergognosa inerzia. 2. a che: perché, a quale fine. 3. non posi: non cessi. 4. svegliar ... padri: Mai, con le scoperte dei classici perduti, riporta in vita gli antichi. 5. gli meni: li riconduci. 6. a questo ... morto: il presente, morto, perché dominato dall’inerzia della maggior parte degli individui. 7. al quale ... tedio: sui cui grava il tedio, sentimento di opprimente fastidio, paragonabile alla nebbia che tutto offusca. 8. E come... lunga etade?: si costruisca: «e come (mai) vieni or sì forte e sì frequente a’ nostri orecchi o voce antica de’ nostri (padri dopo essere restata) muta (per) sì lunga etade?» 9. e perché tanti risorgimenti?: «perché tanti ritrovamenti di antici codici dopo secoli di ricerche senza risultati?». Leopardi definisce risorgimenti le scoperte di testi e frammenti di opere di autori classici; effettivamente questi versi sono immersi in un clima di speranza e di attesa di una rinascita che allontani l’esecrabile immobilismo del presente; quindi le scoperte filologiche del Mai acquistano valore civile e come tali sono esaltate dal poeta. 10. feconde ... carte: si tratta degli antichi manoscritti su pergamena da cui i monaci del Medioevo avevano raschiato il testo primitivo per sostituirlo con un altro; i progressi compiuti in campo filologico consentirono agli studiosi di recuperare il testo originale malgrado quest’ultimo fosse
La canzone fu composta a Recanati nel gennaio 1820. Angelo Mai, erudito filologo classico, bibliotecario alla Biblioteca Vaticana, aveva rotrovato parti del De republica di Cicerone, e la scoperta aveva avuto larga risonanza nel mondo intellettuale. La canzone fu pubblicata a Bologna nello stesso 1820, poi, insieme alle altre nove canzoni, nel 1824. Metro: dodici strofe di quindici versi (endecasillabi e settenari); schema delle rime: AbCBCDeFGDeFGHH.
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stato cancellato; ecco perché le carte, i codici conservati nelle biblioteche, sono
definite feconde. 11. alla stagion: i conventi polverosi conservarono per l’età presente, affinché ne traesse vantaggio, i codici che vi si trovavano da secoli nascosti e dimenticati. 12. i generosi ... degli avi: le parole degli
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Italo ardito!, a che? giammai non posi? Di svegliar dalle tombe I nostri padri‘ ed a parlar gli meni? A questo secol morto$, al quale incombe Tanta nebbia di tedio”? E come or vieni Sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente, Voce antica de’ nostri, Muta sì lunga etade?? e perché tanti Risorgimenti®? In un balen feconde Venner le carte’; alla stagion! presente I polverosi chiostri Serbaro occulti i generosi e santi Detti degli avi!2,. E che valor t’infonde, Italo egregio, il fato!? O con l’umano Valor forse contrasta il fato invano?!‘ Certo senza de’ numi alto consiglio Non è! ch’ove più lento E grave è il nostro disperato obblio 6, A percoter ne rieda ogni momento Novo grido de’ padri!”. Ancora è pio! Dunque all’Italia il cielo; anco! si cura Di noi? qualche immortale: Ch’essendo questa o nessun’altra poi L’ora da ripor mano alla virtude Rugginosa dell’itala natura”, Veggiam che tanto e tale E il clamor de’ sepolti, e che gli eroi Dimenticati il suol quasi dischiude??, A ricercar s’a questa età sì tarda Anco ti giovi, o patria, esser codarda”.
antichi, dei classici, ricche di insegnamenti
eroici, e per questo sacre. 13. E che valor ... fato?: «quale grandezza fuori dal comune ti concede il fato?» 14. O ... invano?: «oppure il destino, avverso al nostro tempo, non riesce ad impedire che sorgano grandi uomini?» 15. Certo ... non è: «certo non avviene senza un misterioso ma favorevole volere degli dei». Per l’espressione si veda: Virgilio, Eneide, II, 777-178: «Non haec sine numine divum / eveniunt» («Per celeste consiglio, certo, / queste cose avvengono», traduzione di E. Cetrangolo).
16. ch’ove ... obblio: «che proprio quando la nostra irrimediabile trascuratezza (delle glorie del passato) è più inerte e grave». 17. a percoter ... de’ padri: «giunge a scuoterci così di frequente la voce degli antenati che proviene dai nuovi ritrovamenti». 18. pio: pietoso. 19. anco: ancora. 20. si ... noi: ci ha a cuore, si preoccupa di noi. 21. ch’essendo ... natura: «perché essendo questo il momento (e nessun altro in seguito) di restaurare il valore degli Ita-
liani)». (Rugginosa è definita la virtude perché da tempo imbelle). 22. veggiam ... dischiude: «udiamo il grido degli antenati così frequente e intenso, vediamo il suolo dare alla luce quasi spontaneamente gli eroi di un tempo». Il ritrovamento degli scritti classici si trasforma metaforicamente nella rinascita degli uomini antichi. 28. a ricercar ... esser codarda: «per capire se, in un’età in così avanzato stato di decadenza, sia ancora degno comportamento per te attardarti nella tua viltà».
Ad Angelo Mai
624 24. 0 gloriosi: sottinteso spiriti: gli antichi. 25. non si toglie: non è impossibile. 26. distrutto: disfatto dal dolore, sfiduciato. 27. schermo: difesa. 28. scerno: vedo, distinguo. 29. è tal che ... speranza: si costruisca: «è tal che fa parer (fa sembrare) la speranza sogno e fola (favola)». 30. ai tetti ... successe: «nelle case che furono vostre (il suolo italiano) subentrò
una plebe senza onore, macchiata di vizi». 31. al vostro ... valor: «ogni valore di parola o di opera è ragione di scherno per coloro che sono discesi dal vostro sangue, gli Italiani di oggi». 32. di vostre ... invidia: «la gloria immortale che vi siete procurati non è motivo, per i vostri discendenti, né di vergogna né di emulazione». 88. ozio ... vostri: «l'indifferenza di una generazione imbelle circonda le vostre tombe» (monumenti, dal latino monumen-
Di noi serbate, o gloriosi?', ancora Qualche speranza? in tutto Non siam periti? A voi forse il futuro Conoscer non si toglie”. Io son distrutto 35
Fa parer la speranza”°. Anime prodi,
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Ai tetti vostri inonorata, immonda Plebe successe; al vostro sangue è scherno
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Ogni valor; di vostre eterne lodi Né rossor più né invidia?; ozio circonda I monumenti vostri*; e di viltade Siam fatti esempio alla futura etade**.
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Mai, che, dopo essere stato definito Italo
ardito (v. 1) e Italo egregio (v. 14) ora è apostrofato con l'appellativo di bennato perché della sua attività si gioveranno gli Italiani. 86. or quando ... caglia: «dal momento che ad altri non importa dei nostri nobili antenati, importi a te». 37. aspira benigno: spira propizio. 38. que’ giorni: il Rinascimento. 39. dira ... chioma: «alzavano il capo, risorgendo dalla funesta dimenticanza». 40. i vetusti divini: gli antichi scrittori. 41. a cui ... svelarsi: «La Natura parlò agli antichi, cioè gl’inspirò, ma senza svelarsi», in quanto, «più scoperte si fanno nelle cose naturali, e più si aceresce alla nostra immaginazione la nullità dell’universo», così Leopardi in Annuncio delle canzoni, «Nuovo Ricoglitore», Milano, settembre 1825. Gli antichi conservarono cioè la forza dell'immaginazione, le generose illusioni, che la conoscenza razionale distrugge. 42. onde ... Roma: «cosicché poterono rendere lieti i riposi magnanimi ai cittadini di Roma e di Atene»; si noti il contrasto tra
i riposi magnanimi degli antichi e l’ozio turpe del presente: negli antichi anche nei momenti di riposo restava vivo lo spirito eroico, grazie alle opere degli scrittori. 43. Oh tempi: sia l’epoca classica sia quella
rinascimentale. 44, Allora ... d’Italia: «allora era ancora lontana la rovina d’Italia». 45. anco ... turpe: «allora disprezzavamo ancora l’ozio vergognoso». 46. e l’aura ... suolo: «il vento sollevava (rapia) dal suolo italiano più faville» (di ingegno e di virtù). , 47.le tue ceneri: sono le ceneri di Dante, calde perché Dante morì alle soglie del Rinascimento, nel 1321, sante perché il
Leopardi
M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno”
È tal che sogno e fola
tum, “ricordo”, derivazione di monere, “ri
cordare ”). 34. futura etade: generazione futura. 35. Bennato: nobile; si rivolge ad Angelo
Né schermo” alcuno ho dal dolor, che scuro
E d’opra e di parola
ingegno, or quando altrui non cale Bennato De’ nostri alti parenti, A te ne caglia*, a te cui fato aspira Benigno"" sì che per tua man presenti Paion que’ giorni* allor che dalla dira Obblivione antica ergean la chioma”, Con gli studi sepolti, I vetusti divini‘, a cui natura
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Parlò senza svelarsi*!, onde i riposi Magnanimi allegràr d’Atene e Roma”. Oh tempi‘, oh tempi avvolti In sonno eterno! Allora anco immatura La ruina d’Italia‘, anco sdegnosi Eravam d’ozio turpe‘, e l’aura a volo Più faville rapia da questo suolo‘. Eran calde le tue ceneri” sante, Non domito nemico
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Della fortuna‘, al cui sdegno e dolore Fu più l’averno che la terra amico”. L’averno: e qual non è parte migliore Di questa nostra? E le tue dolci corde? Susurravano ancora Dal tocco di tua destra”, o sfortunato Amante?” Ahi dal dolor comincia e nasce
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L’italo canto”. E pur men grava e morde
magistero di Dante si colloca in una dimensione sacra, degna del massimo rispetto per Leopardi. 48. non domito ... fortuna: perseguitato ma non domato dal destino; l’espressione restituisce quella concezione agonistica dellavitachein Amore e Morte suona: «erta la fronte, armato / e renitente al fato». 49. al cui ... amico: «allo sdegno e al dolore di Dante fu di maggiore conforto della terra l'inferno (averno), dove la sua sete di giustizia fu appagata». 50. dolci corde: sono le corde della lira,
lo strumento musicale a cui si accompagnavano i poeti nel mondo antico. Qui significa poesia. 51. destra: mano. 52. o sfortunato amante: perifrasi per indicare Petrarca, autore del Canzoniere, dove si racconta la storia d'amore per Laura (dall’innamoramento alla morte e ai giorni della rievocazione e del rimpianto). 58. Ahi ... canto: Leopardi riconosce nel dolore la matrice della grande poesia italiana, comune a Dante, a Petrarca, a Leopardi stesso.
625 54. E pur ... n’affoga: «tuttavia il dolore opprime meno del tedio che annienta». 55. beato ... il pianto: l’affermazione paradossale è spiegata dalla massima che precede: Petrarca fu fortunato perché il dolore gli impedì di provare la noia. 56. fastidio: sinonimo di noia. 57. il nulla: il nulla ci accompagna dalla
vita alla morte; il motivo del nulla ritorna ‘nel canto più volte; ad esso si accompagna tutto un lessico mortuario: tombe, morto, sepolti, sonno eterno, ceneri, Averno, notturno, occulto, ombra, muto, avelli e forme negative: disperato, distrutto, sconsolato, sventurato, ignoti, immonde, inabitata, informe, inonorata (Galimberti). 58. allor: all’inizio del Rinascimento, iniziatosi dopo la morte di Dante e Petrarca. 59. ligure ... prole: la perifrasi allude a Cristoforo Colombo, ardita prole per l’ardore di conoscenza che contrassegnò la sua
Il mal che n’addolora
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Ma tua vita era allor® con gli astri e il mare,
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85.
d’Ercole, lo stretto di Gibilterra.
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nostro».
64. nostri: sottinteso lidi. 65. rotto: vinto. 66. contrasto: ostacolo. 67. ignota ... rischi: «raggiungesti una terra sconosciuta fino ad allora e la scoperta fu gloriosa ricompensa per il tuo viaggio e per i rischi del ritorno». 68. Ahi ... scema: le scoperte geografiche, si rammarica il poeta, riducono l’estensione del mondo, poiché lo rendono finito mentre l'immaginazione lo vedeva infinito. 69. e ... appare: ribadisce il concetto di prima; l’etra è il cielo, sonante perché propaga il suono; la terra è alma, alimentatrice, perché produce i frutti di cui gli uomini si cibano. Gli occhi di un fanciullo, ingenui ed ignari, hanno più potere di immaginazione di un saggio, vedono l’universo più vasto e misterioso. 70. Nostri ... pianeta?: Leopardi si chiede dove siano finite alcune delle più belle fantasie prodotte dall’immaginazione degli antichi sulle sconosciute dimore (ignoto ricetto) di popoli sconosciuti (ignoti abitatori) o intorno ai luoghi in cui albergavano gli astri durante il giorno (diurno degli astri albergo) e intorno al favoloso giaciglio dell’ Aurora e al misterioso rifugio notturno del sole (il maggior pianeta). «Al tempo che poca o niuna contezza si aveva della rotondità della terra, e dell’altre varie dottrine ch’appartengono alla cosmografia, gli uomini non sapendo quello
Immoto siede, e su la tomba, il nulla”.
Ligure ardita prole,
vita. 60. alle colonne: sono le mitiche colonne
61. oltre ai liti ... sera: Leopardi accoglie qui il mito, letto fra gli altri in Giovenale, Stazio, Floro, Strabone, secondo cui le popolazioni dell’Europa occidentale, al tramonto, udivano uno stridore simile a quello di un tizzone ardente o di un ferro arroventato immersi nell’acqua; esse ritenevano si trattasse del sole che si immergeva nell'Oceano. 62. commesso: affidato. 63. ritrovasti ... caduto: «ritrovasti nell’altro emisfero il sole, già tramontato nel
Del tedio che n’affoga”. Oh te beato, A cui fu vita il pianto?! A noi le fasce Cinse il fastidio”; a noi presso la culla
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105.
Quand’oltre alle colonne® ed oltre ai liti Cui strider l’onde all’attuffar del sole Parve udir su la sera“, agl’infiniti Flutti commesso ®, ritrovasti il raggio Del Sol caduto*, e il giorno Che nasce allor ch’ai nostri* è giunto al fondo; E rotto® di natura ogni contrasto”, Ignota immensa terra al tuo viaggio Fu gloria e del ritorno Ai rischi”. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo Non cresce, anzi si scema*, e assai più vasto L’etra sonante e l’alma terra e il mare Al fanciullin, che non al saggio, appare®?. Nostri sogni leggiadri ove son giti Dell’ignoto ricetto D’ignoti abitatori, o del diurno Degli astri albergo, e del rimoto letto Della giovane Aurora, e del notturno Occulto sonno del maggior pianeta?” Ecco svaniro” a un punto”, E figurato” è il mondo in breve carta”; Ecco tutto è simile”, e discoprendo, Solo il nulla s’accresce”. A noi ti vieta Il vero appena è giunto”, O caro immaginar; da te s’apparta” Nostra mente in eterno”; allo stupendo Poter tuo primo ne sottraggon gli anni®; E il conforto perì de’ nostri affanni*.
che durante la notte il sole operasse o patisse, fecero intorno a questo particolare molte e belle immaginazioni, secondo la vivacità e la freschezza di quella fantasia che oggidì non si può chiamare altrimenti che fanciullesca, ma pure in ciascun’altra età degli antichi poteva poco meno che nella puerizia» (Leopardi, Annotazioni alle dieci canzoni). Leopardi rimpiange la capacità, ormai perduta, di sognare. 71. svaniro: svanì ogni leggenda. 72. a un punto: a un tratto.
73. figurato: rappresentato. 74. in breve carta: in una limitata carta geografica. 75. tutto è simile: ogni luogo è simile all’altro. Le nuove terre scoperte appaiono in tutto simili a quelle già note, distruggendo le fantasie favolose.
76. discoprendo ... accresce: con l’aumento delle conoscenze, l’uomo prende coscienza che tutto è nulla. 77.A noi... giunto: il sopraggiungere del vero uccide l'immaginazione; confrontaA Silvia: «All’apparir del vero / tu misera cadesti» (tu = Speranza). 78. s’apparta: si separa. 79. in eterno: per sempre. 80. allo stupendo ... gli anni: appena varcata la soglia della fanciullezza, la consapevolezza dell’età adulta sottrae gli uomini al potere dell’immaginazione, così come il progresso delle conoscenze distrugge le credenze fantastiche degli antichi. 81. e il... affanni: in questo modo l’im-
maginazione, conforto degli affanni degli uomini, è del tutto scomparsa.
Ad Angelo Mai
626 82. intanto: negli anni in cui Colombo scopriva le Americhe. 83. cantor ... amori: la perifrasi allude ad Ariosto, di cui Leopardi cita il secondo emistichio dei I verso dell’Orlando furioso: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori». 84. empièr: riempirono. 85. felici errori: sono errori perché fantasie ingannevoli, ma felici perché rendevano felice l’uomo. 86. nova speme d’Italia: è la poesia ariostesca che, foggiando nuovi miti, dopo la caduta di quelli distrutti dalla scienza, rinnova in Italia la facoltà dell’immaginazione. 87. 0 torri ... palagi: Leopardi ripercorre i luoghi più tipici dell’Orlando furioso. 88. amenità: sono ifelici errori del v. 110. 89. belle fole e strani pensieri: favole gradevoli, immaginazioni che adesso sono estranee agli uomini. 90. in bando li cacciammo: Leopardi imputa la responsabilità dell'abbandono della fantasia agli uomini, che distruggono con la conoscenza i propri sogni. Leopardi non considera ancora il male connaturato con l’esistenza. 91. il verde: verde è il colore dell’immaginazione e della speranza. 92. Il certo ... duolo: è la risposta alla precedente domanda: (non resta altro che) la certezza che tutto, all'infuori del dolore, è vanità. 93. Torquato: si tratta di Tasso. 94. allora: quando Ariosto poetava. 95. a noi ... il cielo: «il destino preparava per noi la tua eccelsa mente, per te niente altro che una vita dolorosa». 96. sciorre: sincope per sciogliere. 97. onde: di cui. 98. l’alma ... cinta: «avevano cinta la tua anima». 99. l’immondo livor: l’iniquo rancore invidioso; Leopardi ripropone l’immagine, cara al Romanticismo, di un Tasso perseguitato dal rancore dei privati invidiosi e dei potenti malvagi. 100. Amor ... t'abbandonava: l’amore presunto per Eleonora d’Este; per Leopardi l’amore è l’ultima illusione ad abbandonare l’uomo (cfr. Storia del genere umano). 101. Ombra ... nulla: «il nulla ti apparve unica realtà salda e vera»; è motivo ricorrente della meditazione leopardiana. Nella lettera allo Jacopssen del 13 giugno 1823 scriverà: «Le néant des choses était pour moi la seule chose qui existait» (Il nulla delle cose era per me la sola cosa che esistesse). Il 2 maggio 1826 annota sullo Zibaldone: «L'infinito, cioè una cosa senza
limiti, non può esistere. Pare che solamente quello che non esiste, la negazione
dell’essere, il niente, possa essere senza limiti e che l’infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla». 102. inabitata piaggia: luogo deserto. 103. AI... tuoi: il riconoscimento ufficiale della gloria poetica di Tasso, la cerimonia solenne dell’incoronazione a poeta in Campidoglio, giunse tardi; infatti la morte di
Leopardi
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Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo Sole splendeati in vista, Cantor vago dell’arme e degli amori*, Che in età della nostra assai men trista Empièr* la vita di felici errori: Nova speme d’Italia*. O torri, o celle, O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi*"! a voi pensando, 115
In mille vane amenità* si perde La mente mia. Di vanità, di belle
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Fole e strani pensieri? Si componea l’umana vita: in bando Li cacciammo”: or che resta? or poi che il verde?! È spogliato alle cose? Il certo e solo Veder che tutto è vano altro che il duolo®.
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O Torquato®, o Torquato, a noi l’eccelsa Tua mente allora”, il pianto A te, non altro, preparava il cielo”. Oh misero Torquato! il dolce canto Non valse a consolarti o a sciorre* il gelo Onde” l’alma t’avean, ch’era sì calda, Cinta* l’odio e l’immondo
Livor® privato e de’ tiranni. Amore, Amor, di nostra vita ultimo inganno,
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T’abbandonava!®. Ombra reale e salda Ti parve il nulla!, e il mondo Inabitata piaggia!°. Al tardo onore Non sorser gli occhi tuoi!; mercé, non danno, L'ora estrema ti fu!%. Morte domanda Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda!
Torna torna fra noi, sorgi dal muto E sconsolato avello!%, Se d’angoscia sei vago!%, o miserando 140
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Esemplo di sciagura!. Assai da quello Che ti parve sì mesto e sì nefando, E peggiorato il viver nostro. O caro, Chi ti compiangeria, Se, fuor che di se stesso, altri non cura!°? Chi stolto non direbbe il tuo mortale Affanno anche oggidì, se il grande e il raro Ha nome di follia!!9; Né livor più, ma ben di lui più dura La noncuranza avviene ai sommi!!!? 0 quale!?,
Tasso avvenne pochi giorni prima dell’incoronazione. 104. mercé ... fu: la morte è stata una gra-
zia, non un danno perché ha liberato il Tasso dalla pena di vivere. 105. Morte ... ghirlanda: «chi ha sperimentato la tragica condizione umana (nostro mal), invoca la morte piuttosto che la corona poetica». 106. avello: tomba. 107. vago: desideroso.
108. o miserando esemplo di sciagura: si rivolge sempre al Tasso. 109. se ... cura: Leopardi considera il suo secolo dominato dall’egoismo. 110. se ... follia: se ogni azione grande e rara è considerata follia. 111. Né ... sommi?: nell'età presente ai sommi ingegni tocca (avviene) un destino ben peggiore dell'odio, l'indifferenza. 112. o quale: chi.
627 113. se ... volta: oggi non si troverebbe più nessuno disposto a preparare la ghirlanda per l'incoronazione poetica, dal momento che si presta ascolto al calcolo, all’utile
150
Se più de’ carmi, il computar s’ascolta,
Ti appresterebbe il lauro un’altra volta!3?
materiale, più che alla poesia. Un riscon-
tro di questa considerazione si legge in
Da te fino a quest’ora uom non è sorto, O sventurato ingegno, Pari all’italo nome!, altro ch’un solo, Solo di sua codarda etate indegno
Zibaldone, 1378, I, 23 luglio 1821: «E ver-
gognoso che il calcolo ci renda meno magnanimi, meno coraggiosi delle bestie. Da ciò si può vedere quanto la grande arte del computare sia propria dei nostri tempi». 114. o sventurato ingegno: sempre Tasso. 115. pari ... nome: degno della gloria italiana. 116. allobrogo feroce: perifrasi per alludere ad Alfieri; la definizione è tratta dall’ode Il Dono di Parini. Gli Allobrogi erano gli antichi abitanti della Savoia; poiché la dinastia sabauda regnava anche sul Piemonte, allobrogo equivale a piemontese.
Feroce: fiero.
155
160
n
117. polo: cielo. «E pigliato dall’usanza latina per cielo» (Leopardi, Annotazioni). 118. onde: per cui.
165
Allobrogo feroce!, a cui dal polo!!” Maschia virtù, non già da questa mia Stanca ed arida terra, Venne nel petto; onde! privato, inerme, (Memorando ardimento) in su la scena!!° Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia Questa misera guerra! E questo vano campo! all’ire inferme!? Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena Scese, e nullo! il seguì, che l’ozio e il brutto Silenzio or preme ai nostri! innanzi a tutto.
119. in su la scena: sulla scena teatrale,
attraverso le sue tragedie. 120. misera guerra: perché si tratta di una guerra verbale, non con le armi. 121. vano campo: campo di battaglia vano, perché la letteratura non è in grado di mutare la realtà. 122. all’ire inferme: impotenti. 123. nullo: nessuno. 124. ai nostri: gli Italiani. 125. Disdegnando ... fremendo: questi due gerundi connotano il ruolo attribuito da Leopardi ad Alfieri. 126. lo scampò ... peggio: gli evitò di vedere una condizione peggiore, quella dei tempi di Leopardi. i 127. Vittorio ... suolo: trova conferma in questi versi l’immagine sdegnosa e misantropica, caparbia e indomita di Alfieri, che richiama il ritratto presentato da Foscolo nei Sepolcri. 128. seggio: patria. 129. scorti da mediocrità: guidati da un ideale di vita mediocre. 130. sceso ... agguaglia: Leopardi si rivela polemico nei confronti dell’egualitarismo del suo secolo e di quello di Alfieri, in cui la scienza si è abbassata al livello medioere delle masse e l'ignoranza è salita di
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Disdegnando e fremendo!, immacolata Trasse la vita intera, E morte lo scampò dal veder peggio !?. Vittorio mio, questa per te non era Età né suolo!”. Altri anni ed altro seggio! Conviene agli alti ingegni. Or di riposo Paghi viviamo, e scorti
Da mediocrità!: sceso il sapiente 175.
E salita è la turba a un sol confine, Che il mondo agguaglia!. O scopritor famoso!%,
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Segui!; risveglia i morti, Poi che dormono i vivi; arma le spente Lingue de’ prischi eroi!, tanto che in fine Questo secol di fango! o vita agogni! E sorga adatti illustri, o si vergogni.
poco cosicché tutto si è ridotto allo stesso livello (un sol confine). 131. O scopritor famoso: Leopardi si rivolge nuovamente a Mai, scopritore di testi. 132. segui: prosegui. 133. prischi eroi: eroi antichi.
134. questo ... fango: questo secolo vile. 135. o vita agogni: o aspiri decisamente a nobili imprese. 136. o si vergogni: al confronto fra la
grandezza passata e la decadenza
del
presente.
Ad Angelo Mai
628 ANALISI DEL TESTO La canzone è una summa delle concezioni e dei temi leopardiani di questo periodo. Si può individuare innanzitutto il tema civile e patriottico, la deprecazione della decadenza dell’Italia presente rispetto ad un passato glorioso, identificato col mondo classico. Un momento di riscatto dalla decadenza è indicato da Leopardi nel Rinascimento, che ha riportato in vita i «vetusti divini»; da quel momento la «ruina» d’Italia è andata sempre più precipitando: oggi gli Italiani sono incapaci di azioni eroiche, vivono avvolti di «ozio turpe», sono «immonda plebe» che disprezza ogni valore nell’azione e nel pensiero, che ritiene «follia» il «grande» e il «raro» e porta attenzione solo al «computar». Dinanzi a questa situazione storica, il poeta assume atteggiamenti titanicamente combattivi (anche se lo slancio eroico si ripiega in una più disillusa disperazione). Il modello di questo agonismo eroico è Alfieri, che compare nell’ultima strofa, e che «solo, inerme» ha mosso guerra ai tiranni almeno cogli scritti, visto che in questo «secol morto» è preclusa ogni via d’azione. Questa polemica civile si inserisce in una più vasta meditazione filosofica sulla storia, che tocca un tema centrale nel pensiero leopardiano: il contrasto tra antichi e moderm. L’antichità è vista come la giovinezza dell’umanità: non avendo ancora la percezione del vero («Natura parlò senza svelarsi») gli antichi erano capaci di vaste immaginazioni, e quindi di illusioni generose e di gesta eroiche. La civiltà ha spento queste facoltà: l’uso della ragione ha dissolto l’immaginazione, ed ha tolto all’umanità ogni slancio, ogni energia, riducendola allo stato attuale di inerzia vergognosa. La canzone è l’esempio più chiaro di quello che è stato definito pessimismo storico. Il conflitto antichi-moderni si collega all’altro grande tema leopardiano: il conflitto NaturaRagione. Il motivo è sviluppato nelle due strofe dedicate a Cristoforo Colombo ed in quella dedicata ad Ariosto, e si presenta come opposizione tra «caro immaginar» e «vero». L’immaginazione fanciullesca, essendo vicina alla natura, fa vedere il mondo infinitamente vasto, vario e suggestivo. Ma il progresso della conoscenza soffoca questa visione: rappresentandoci il «vero», ci fa vedere crudamente la nostra miseria. Il mondo, una volta conosciuto, non risulta più grande, anzi appare limitato e meschino. Scoprendo, «solo il nulla s’accresce»: attraverso la ragione giungiamo alla consapevolezza che tutto è vano, che tutto è nulla, eccetto il nostro dolore. Per questo Leopardi antepone la conoscenza immaginosa e fantastica a quella razionale: però constata che questa visione fanciullesca è stata irreparabilmente distrutta dalla civiltà. La conseguenza della percezione lucida del nulla è il tedio: motivo che nella canzone ricorre continuamente. Riguardo a questo tema si possono distinguere due livelli. La noia ha innanzitutto una connotazione storica, legata alla condizione particolare dell’Italia moderna: è il clima soffocante e inerte della Restaurazione, che Leopardi, nell'angolo sperduto della provincia pontificia, soffre con particolare acutezza. In questa accezione, la «nebbia di tedio» sì identifica con l’«ozio turpe». La noia ha poi anche un significato esistenziale: è la percezione del nulla dell’esistenza in assoluto. Però questa percezione è conseguenza della ragione, che ha dissolto le «belle fole»: anche questo aspetto esistenziale si collega dunque a una dimensione storica.
Il tema civile
e patriottico
Antichi e moderni
Natura e ragione
Il «tedio»
l In sintesi, la canzone è costruita sull’opposizione tra due poli: 1) la condizione presente
di ozio e inerzia dell’Italia, che si iscrive nella condizione generale di vuoto e noia dell’umanità moderna; 2) il vagheggiamento di un paradiso perduto di pienezza vitale e di fervore immaginoso (antichità classica, fanciullezza). Possiamo definire questi due poli con la pregnante formula leopardiana del «vero» e del «caro immaginar». La polarizzazione si riflette sul piano dello stile: si può allora distinguere, nella canzone, un linguaggio del «vero» e un linguaggio dell’«immaginar». Il linguaggio del vero è aulico, solenne, e mira a conferire un che di fermo e definitivo - alla desolazione della negatività del reale. Elemento fondamentale di tale linguaggio è innanzitutto un lessico composto di latinismi e arcaismi: «numi », «Virtude», «viltade», «etade»,
«parenti», «vetusti», «ruina», «averno», «duolo», «polo» «prischi». Sul piano sintattico un ruolo essenziale hanno certe formule secche e lapidarie, da epigrafe funeraria, che si collocano in genere in chiusura di strofa, a esprimere il lucido approdo ad una consapevolezza definitiva, che non lascia alternative o vie di scampo («A noi presso la culla / immoto siede
e su la tomba, il nulla»; «il certo e solo / veder che tutto è vano altro che il duolo»). Sul piano metrico, il valore di conclusione definitiva, che tronca ogni possibilità, è accentuato
Leopardi
«Vero» e «caro immaginar» Il linguaggio del «Vero»
629 dal meccanismo serrato delle rime baciate. A livello delle figure retoriche, il linguaggio del «vero» è caratterizzato da metafore ardite, che tendono costantemente alla materializzazione dell’astratto (Galimberti, Blasucci): «nebbia di tedio», «virtude rugginosa», «tedio che n’affoga», «le fasce cinse il fastidio». L’astratto materializzato coincide sistematicamente
Il linguaggio dell’«immaginar»
bi
con concetti negativi, tedio, ozio, nulla: la materializzazione metaforica fa cioè capire come Leopardi li senta come entità solide, corpose («ombra reale e salda / ti parve il nulla», dice del Tasso, concepito come un alter ego). Il linguaggio dell’«immaginar» ama invece quelle immagini vaghe, che evocano idee di
vastità e indefinitezza, e quelle parole che Leopardi ritiene «poeticissime», sempre per l’idea di indefinitezza che suscitano: «tua vita era allor tra gli astri e il mare», «infiniti flutti», «ignota immensa terra» (non a caso, gli esempi ricorrono soprattutto nelle strofe dedicate a Colombo e ad Ariosto). A dare il senso di vastità sconfinata, Leopardi impiega sistematicamente le vocali /a/, specie se toniche, come si è visto nell’Infinito e nella Sera del dì di festa: «astri», «mare», «vasto», «alma», «vago», «armi», «amori»; la /a/ è spesso seguita da /n/ più consonante, gruppo che ha la funzione di dilatare ulteriormente il suono: «sonante», «cantor».
| PROPOSTE DI LAVORO
|
1. a) Estendere all’intera canzone le osservazioni di carattere metrico, lessicale, sintattico, retorico, presentate nell’analisi a proposito del linguaggio del «vero» e di quello dell’«immaginar». b) Ricercare le immagini che materializzano l’astratto. c) Cercare tutte le immagini e le parole vaghe e indefinite. d) individuare tutti gli enfzambements: sono da ascrivere al linguaggio del «vero» o dell’«immaginar»? 2. Rintracciare nel testo tutte le espressioni che si riferiscono al passato e quelle che si riferiscono al presente: come sono caratterizzate le due epoche?
3. Individuare tutte le espressioni che si riferiscono al cardinale Mai: quali caratteristiche del personaggio vengono messe in luce? Si può parlare di una sorta di delega ad agire che Leopardi affida al Mai? 4. La decadenza dell’umanità è data come un processo totale e irreversibile; per quale motivo Leopardi esalta nella scoperta del Mai una possibilità di riscatto? E una contraddizione?
5. Ci sono dei versi della canzone in cui Leopardi abbandona il ruolo dello «scrittore maestro» per assumere quello di «soggetto lirico» che riflette sulla propria personale condizione? 6. Qual è la funzione della rassegna dei grandi personaggi? Procedere a un confronto con la rassegna presente nei Sepolcri di Foscolo; in particolare confrontare l’Alfieri di Foscolo con quello leopardiano.
7. Perché alla scoperta di Colombo viene dato un giudizio ambivalente, positivo e negativo? 8. Nel v. 149 con il «computar» a che cosa allude Leopardi?
9. Quale concezione della poesia è presente nella canzone? 10. Come viene rappresentato il rapporto tra l’uomo e la natura? 11. Leopardi rivendica per l’intellettuale la possibilità di intervenire attivamente nel mondo? (confrontare i versi dedicati ad Alfieri; la funzione attribuita ad Angelo Mai).
Ad Angelo Mai
|, par » sun »
Ultimo canto di Saffo
1. Placida ... raggio: i sostantivi notte e raggio sono vocativi, preceduti dagli aggettivi placida (serena, tranquilla) e verecondo (casto, pudico). 2. cadente luna: la luna che sta per tramontare.
8. tu: riferito al nunzio del giorno, il pianeta Venere o Lucifero che annuncia il giorno. 4. dilettose: motivo di piacere, insieme a care, gradite, per iperbato (cfr. G) riferito a sembianze, immagini, aspetti della natura.
5. mentre ... fato: «finché mi furono i¬e le furie, le passioni dell'amore (erinni) e il destino crudele (fato)». 6. già non ... affetti: «ormai assistere a un gradevole spettacolo non arreca piacere a chi sia disperato». 7. Noi ... ravviva: il soggetto è l’insueto gaudio: un'insolita gioia anima noi infelici (Noi è un plurale di maestà ma, come osserva Russo, «sembra alludere alla comune infelicità di tutti imortali»: cfr. Analisi del testo). 8. allor ... quando: quando, allorché. 9. per ... Noti: «per l’aria (etra) limpida (liquido) e per i campi sconvolti (trepidanti) si aggira turbinando la furia polverosa dei venti» (Noto, vento che spira da Sud, Austro); etra liquido è espressione modellata su «liquidum aethera», Orazio, Odi, II, 20. 10. e quando ... divide: «e quando il tonante carro di Giove (per gli antichi la causa del tuono e del fulmine: «comunemente soleasi dai poeti riguardare il tuono come carro di Giove», Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi) incombe sul nostro capo e squarcia con il tuono, dividendolo in due, il cielo oscuro di nubi sopra di noi». 11. Noi ... nembi: «a noi infelici piace immergerci nella tempesta (natar tra’ nembi) fra i dirupi (balze) e valli scoscese». 12. e noi ... onda: «a noi (sottinteso piace) la disordinata (vasta) fuga delle greggi impaurite o lo scroscio (il suono) e la furia devastatrice (vittrice ira) dell'onda di piena contro (alla) la riva (sponda) mai sicura (dubbia) di un fiume profondo (alto)». 13. divo: divino. 14. rorida: rugiadosa. 15. i numi: gli dei. 16. empia sorte: destino spietato e ingiusto. 17. parte ... fenno: fecero partecipe. 18. A’ tuoi... intendo: «io, Saffo, assegna-
ta (addetta) come una estranea (ospite),
disprezzata (vile) e mal tollerata (grave)
Leopardi
Fu composto a Recanati nel maggio 1822, e pubblicato per la prima volta nel gruppo delle dieci canzoni del ’24. E un monologo lirico messo in bocca a Saffo, l’antica poetessa greca (VII-VI secolo a. C.), che, secondo la leggenda, sì sarebbe uccisa gettandosi dal promontorio di Leucade per amore del giovane Faone. Lo spunto è tratto da Ovidio, Eroidi, XV, ma il personaggio diviene pura proiezione autobiografica e portavoce delle idee leopardiane. A tal proposito il poeta dichiara la sua intenzione di «rappresentare l’infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto în un corpo brutto e giovane».
Metro: canzone di quattro strofe di 18 versi ciascuna: 1 primi 16 endecasillabi sciolti, gli ultimi due a rima baciata (settenario ed endecasillabo).
Placida notte, e verecondo raggio! Della cadente luna?; e tu? che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose* e care 5. Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato?, Sembianze agli occhi miei; già non arride Spettacol molle ai disperati affetti’. Noi l’insueto allor gaudio ravviva” Quando* per l’etra liquido si volve 10 E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti?, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo, Tonando, il tenebroso aere divide!°. Noi per le balze e le profonde valli 15. Natar giova tra’ nembi”, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell’onda”?.
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25
Bello il tuo manto, o divo! cielo, e bella Sei tu, rorida! terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi! e l’empia Sorte!° non fenno!. A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo!8. A me non ride L’aprico margo, e dall’eterea porta
agli splendidi regni della natura e, come un'amante non corrisposta, rivolgo (intendo) invano il cuore e i miei occhi con atto supplichevole alle tue bellezze». Saffo prende atto con amarezza della sua estraneità agli aspetti più suggestivi della natura con la quale non riesce a stabilire un rapporto di corrispondenza. Leopardi nello Zibaldone afferma: «L'uomo d’immaginazione, di sentimento e di entusiasmo,
privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch’è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore». Letteralmente con le parole dispregiata amante Leopardi allude alla condizione di Saffo, non corrisposta da Faone; tuttavia
l’espressione si può estendere a qualsiasi essere vivente teso a ricercare una corrispondenza con la natura.
b a
631 19. A me... albor: «a me, Saffo, non sor-
ride la campagna (margo, latinismo) soleggiata (aprico) né l’albore mattutino da oriente, la porta del cielo (eterea porta) da cui sorge il sole». 20. me: oggetto di saluta. 21. colorati augelli: variopinti pennuti (pictae volucres: Eneide, IV, 525). 22. murmure: mormorio. 23. e dove ... spiagge: «e dove, all’ombra dei salici dai rami pendenti verso terra un ruscello limpido distende le sue acque (seno) cristalline (puro), esso con sdegno sottrae le sue acque serpeggianti al mio piede incerto (lubrico) e nel fuggire (in fuga) urta (preme) contro le rive profumate (dai fiori)». 24 Qual ... volto?: «quale colpa mai, quale delitto (eccesso) tanto empio, abominevole (nefando) mi macchiò prima della nascita (anzi il natale) perché il destino (il ciel... e di fortuna il volto) fosse così ostile (torvo) nei miei confronti?» 25. allor ... vita: l'infanzia è considerata un’età innocente. 26. onde ... stame?: «per cui poi, privo di e per questo sfiorito, il filo (stame) oscuro (ferrigno, «del colore della ruggine», Leopardi) della mia esistenza si avvolgesse (si volvesse) al fuso della Parca (ciascuna delle tre divinità - Cloto, Lachesi, Atropo —- che presiedevano alla vita e alla morte dell’uomo) inesorabile (indomita)». 27. Incaute ... labbro: Saffo si rivolge a se stessa: le sue labbra pronunciano frasi temerarie. 28. i destinati ... consiglio: «una volontà (consiglio) imperscrutabile (arcano) determina gli eventi». 29. Arcano ... dolor: «tutto è misterioso (arcano), a eccezione del dolore degli
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Il murmure? saluta: e dove all’ombra
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giovinezza,
uomini».
30. Negletta ... posa: «noi, figli trascurati dagli dei, siamo stati creati per il dolore e il motivo è nella mente degli dei a noi
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Degl’inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico piè le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge”. Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?? Inche peccai bambina, allor che ignara Di misfatto è la vita”, onde poi scemo Di giovanezza, e disfiorato, al fuso Dell’indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame?? Incaute voci Spande il tuo labbro?”: i destinati eventi Move arcano consiglio”. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor??. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo De’ celesti si posa?°. Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni!* Alle sembianze il Padre, Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti*; e per virili imprese, Per dotta lira o canto, Virtù non luce in disadorno ammanto*3.
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Morremo*. Il velo indegno a terra sparto Rifuggirà l’ignudo animo a Dite”, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator de’ casi. E tu®” cui lungo Amore indarno, e lunga fede, e vano
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nascosta».
31. Oh cure... anni: «o affanni, o speranze dell’età giovanile!» 32. Alle ... genti: «il Padre, Giove, attribuì alle belle apparenze (amene sembianze) il dominio (regno) eterno tra gli uomini». 33. e per ... ammanto: «per quanto si compiano eroiche imprese, per quanto dotto sia il canto poetico, il valore (virtù) e l'altezza di ingegno non risaltano in un corpo deforme (disadorno ammanto)». 34. Morremo: è una citazione letterale della battuta di Didone (Eneide, IV, 659) «Moriemur» (traduzione: Morirò). 35. Il velo ... Dite: «allorché il corpo deforme (velo indegno) che copre l’anima di Saffo sarà abbandonato al suolo (a terra sparto), l’anima troverà scampo presso Dite (Dite o Plutone, divinità infernale)». 36. e il crudo ... casi: «e correggerà (emenderà) il crudele errore (crudo fallo) commesso dal destino (cieco dispensator
Il mattutino albor!; me? non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi
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D’implacato desio furor mi strinse, Vivi felice, se felice in terra Visse nato mortal*. Me non asperse Del soave licor del doglio avaro Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno Della mia fanciullezza‘. Ogni più lieto Giorno di nostra età primo s’invola”. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra Della gelida morte‘. Ecco di tante
de’ casi), nell’assegnare un brutto aspetto a un’anima elevata». 37. E tu: si rivolge a Faone, il giovane da lei infelicemente amato. 38. cui ... strinse: «a cui mi ha legato inutilmente un lungo amore, una lunga fedeltà ed una vana passione (furor) originata da un desiderio mai soddisfatto». 89. vivi ... mortal: «vivi felice se mai è stata concessa la felicità ad un essere mortale». 40. Me... fanciullezza: «dopo che perirono
le illusioni della mia giovinezza, Giove non mi cosparse del soave liquido contenuto nel
vaso (doglio, latino dolium, giara) della
felicità». Nell’Iliade, libro XXIV, v. 527, due recipienti stanno accanto al trono di Giove; contengono rispettivamente il dolore e la felicità; al secondo Giove attin-
geva più raramente, e mescolandovi sempre una parte di infelicità: per questo il vaso è detto avaro. 41. Ogni... s’invola: «i giorni più lieti della nostra vita sono i primi a dileguarsi». 42. Sottentra ... morte: «subentra la malattia, la vecchiaia, la minaccia della gelida morte». Ancora un'eco virgiliana, questa
Ultimo canto di Saffo
632 volta dalle Georgiche (III, 66-69): «Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi / prima fugit; subeunt morbi tristisque senectus / et labor, et durae rapit inclementia mortis». («Gli anni migliori della vita / sono i primi a fuggire per i miseri mortali; / vengono poi le malattie, / la desolazione della vecchiaia, / le sofferenze / e
senza pietà, implacabile / la morte ci travolge»: traduzione di M. Ramous). 43. Ecco ... m’avanza: «ecco, di tanti sperati premi e di tante piacevoli illusioni, mi
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Sperate palme e dilettosi errori, i Il Tartato m’avanza*, e il prode ingegno Han la tenaria Diva,
E l’atra notte, e la silente riva‘. rimane solo la morte» (il Tartaro, regno degli inferi). 44. eil... riva: «e accolgono il mio nobile ingegno Proserpina (tenaria Diva perché, secondo gli antichi, l'ingresso al regno dei
morti era collocato presso Capo Tenaro), l'oscurità del regno dei morti (atra notte) e la riva silenziosa di Acheronte» (altri intende: le pianure deserte dell’oltretomba).
ANALISI DEL TESTO Il tema centrale del canto sembra l’infelicità come destino individuale dell’io lirico, che
un errore del caso, dandogli un corpo brutto, ha condannato all’esclusione dalla natura e all’infelicità (è un motivo già presente nella Sera del dì di festa). In realtà l’idea dell’infelicità individuale si allarga a quella di un’infelicità universale, che abbraccia tutti gli uomini. Non a caso il discorso passa dall’i0 iniziale al noî: «Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor. Negletta prole / nascemmo al pianto, e la ragione in grembo / de’ celesti si posa»; e se in questo caso vi può ancora essere il dubbio di un plurale di modestia, nell’ultima strofa ben chiara è la diagnosi della condizione dell’uomo in generale, condannato a perdere ben presto la gioia giovanile, e a patire malattie, vecchiaia e morte. L’infelicità dunque non è solo più dei moderni che hanno perso la facoltà di illudersi, come Leopardi riteneva in precedenza, ma, derivando da terribili mali esterni, materiali, coinvolge tutti gli uomini, in ogni tempo. In questa prospettiva, non appare casuale che, come esempio di infelicità, sia propo| stalla poetessa greca: la miseria umana non risparmia neppure quegli antichi, che Leopardi riteneva privilegiati, perché più vicini alla natura ed immuni dagli effetti distruttivi della ragione. La concezione di un’infelicità universale nasce dal fatto che ora, all’idea di una natura benigna, propria del Leopardi degli anni precedenti, si associa l’idea di un fato crudele, che dispensa sventure alla cieca e destina l’uomo, «negletta prole», alla sofferenza senza scampo. Si delinea cioè un dualismo tra natura e fato; ma è una fase transitoria: ben presto sarà superata con l’attribuzione alla natura delle caratteristiche di questo fato ostile all'uomo (cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese, del 24, T149). Coerentemente con l’idea che anche gli antichi non sfuggivano all’infelicità, Saffo diviene portatrice di una coscienza tutta moderna, che ha perduto le illusioni primitive e ha assunto piena consapevolezza del «vero»: può così proporsi come portavoce del poeta stesso. La canzone è pertanto dominata dal linguaggio del «vero» (cfr. l’analisi di Ad Angelo Mai, T146). Compaiono anche qui quelle metafore ardite, attraverso cui il negativo assume sostanza corposa e tangibile («Sì torvo [...] di fortuna il volto», «disfiorato [...] si volvesse il ferrigno mio stame», «l’ombra della gelida morte »); domina il lessico aulico, che ha sempre la funzione di dare una forma solennemente definitiva al negativo: «arcano consiglio», «negletta prole», «indomita Parca», «velo indegno», «tenaria Diva», «atra notte»; compaiono anche quelle sentenze secche, lapidarie, che chiudono come un'epigrafe tombale una certezza disperata e lucidamente accettata: «Arcano è il tutto, / fuor che il nostro dolor »; «Virtù non luce in disadorno ammanto». Non mancano però esempi di linguaggio dell’«immaginar»; non tanto nella direzione del vago e indefinito, quanto dell’affettuoso, dell'abbandono al vagheggiamento di visioni idilliche: «Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna» (il notturno lunare richiama l'apertura della Sera del dì di festa), «aprico margo», «mattutino albor», «candido rivo» «puro seno», «odorate spiagge» (il motivo del profumo connota sistemat icamente i paesaggi È idillici ” leopardiani: si pensi al «maggio odoroso» di A Silvia e agli «odorati colli» delle Ficordanze), «dilettosi errori».
Leopardi
Infelicità individuale e universale
L’infelicità degli antichi
Il linguaggio del «Vero»
Il linguaggio dell’«immaginar»
633 PROPOSTE
DI LAVORO
1. Per quanto riguarda l’aspetto formale del testo riflettere rispetto a: a) livello metrico. Ad esempio osservare che le quattro strofe di 18 vv. sono formate da endecasillabi tranne sempre il diciassettesimo che è un settenario. Quale particolarità presentano sempre il 17° e il 18° verso di ogni strofa? Non essendoci rime, quale elemento determina le pause? Ci sono cesure? Enjambements? b) livello lessicale. Ci sono termini aulici? Del linguaggio quotidiano? Grecismi? Latinismi? Ricercare i termini appartenenti al linguaggio del «vero» e quelli appartenenti al linguaggio dell’«immaginar». Individuare le parole chiave di ogni strofa e riflettere sull'area semantica alla quale appartengono. c) livello retorico. Ci sono metafore? Interrogazioni retoriche? Immagini ardite? ‘2. Qual è il significato dell’oscillare nella canzone tra la prima persona singolare (ad esempio v. 5 mi, v. 6 occhi miei) e la prima plurale (ad esempio v. 8 No)? E un plurale effettivo o un plurale di modestia che equivale al singolare? 3. Dopo di aver individuato tutte le espressioni che descrivono il paesaggio, riflettere se c’è un nesso tra la ‘ descrizione della natura e le sensazioni provate dall’io lirico. 4. Quali sono le caratteristiche attribuite alla Natura?
5. Quali elementi avvicinano Saffo agli eroi romantici? 6. Quali corrispondenze vi sono con la tematica della Sera del dì di festa?
7. Quali elementi di questa canzone costituiscono i primi segnali del passaggio dal cosiddetto pessimismo storico a quello cosmico? 8. Quali elementi della canzone consentono di affermare che in essa è presente «una spinta protestataria, antiprovvidenzialistica, atea» (cfr. W. Binni, La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 1973, p. 74)?
Il pessimismo cosmico e l’«arido vero» dalle Operette morali
Storia del genere umano È la prima delle Operette in ordine di composizione. Fu scritta dal 19 gennaio al 7 febbraio 1824, e pubblicata per la prima volta nell’edizione del 1827.
Narrasi che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini, e fossero nutricati! dalle api, dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti favoleggiarono dell’educazione di Giove?. E che la terra fosse molto più piccola che
ora non è, quasi tutti i paesi piani”, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e apparisse nel
mondo molto minore varietà e magnificenza che oggi non vi si scuopre. Ma nondimeno gli uomini compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la terra, maravigliandosene sopra come di maemodo e riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che vasti, ma infiniti, così di grandezza
della stà e di leggiadria; pascendosi oltre a ciò di lietissime speranze, e traendo da ciascun sentimento
di felicità. loro vita incredibili diletti, crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione
ferma, incoCosì consumata dolcissimamente la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più erano tempo quel a fino eglino‘ che speranze, le minciarono a provare alcuna mutazione. Perciocché
figli, li trangugiava come venivano alla 1. nutricati: nutriti. luce, fu salvato da Rea, sua madre, e custo| alla sottratto Giove, Giove: ... 2. nel modo con voracità del padre Saturno che, sapendo | dito nell’isola di Creta; qui fu nutrito delle col miele che sarebbe stato spodestato da uno dei | illatte della capra Amaltea,
api, con il cibo portato dalla colomba. 3. piani: pianeggianti, senza rilievi. 4. eglino: essi.
Storia del genere umano
634 andati rimettendo* di giorno in giorno, non si riducendo ancora ad effetto, parve loro che meritassero poca fede”; e contentarsi di quello che presentemente godessero, senza promettersi verun accrescimento*8 di bene, non pareva loro di potere, massimamente che? l’aspetto delle cose naturali e ciascuna parte della vita giornaliera, o per l’assuefazione o per essere diminuita nei loro animi quella prima vivacità, non riusciva loro di gran lunga così dilettevole e grata come a principio. Andavano per la terra visitando lontanissime contrade, poiché lo potevano fare agevolmente, per essere ] luoghi piani, e non divisi da mari, né impediti da altre difficoltà; e dopo non molti anni, i più di loro si avvidero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi!°, e non così larghi che fossero incomprensibili!!; e che tutti i luoghi di essa terra e tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze, erano conformi gli uni agli altri. Per le quali cose cresceva la loro mala contentezza! di modo che essi non erano ancora usciti della gioventù, che un espresso fastidio dell’esser loro! gli aveva universalmente occupati. E di mano in mano nell’età virile, e maggiormente in sul declinare degli anni, convertita
la sazietà in odio, alcuni vennero in sì fatta disperazione, che non sopportando la luce e lo spirito, che nel primo tempo avevano avuti in tanto amore, spontaneamente, quale in uno e quale in altro modo, se ne privarono. Parve orrendo questo caso agli Dei, che da creature viventi la morte fosse preposta alla vita, e che questa medesima in alcun suo proprio soggetto, senza forza di necessità e senza altro concorso, fosse instrumento a disfarlo!. Né si può facilmente dire quanto si maravigliassero che i loro doni fossero tenuti così vili ed abbominevoli5, che altri dovesse con ogni sua forza spogliarseli!’ e rigettarli; parendo loro aver posta nel mondo tanta bontà e vaghezza, e tali ordini e condizioni, che quella stanza! avesse ad essere, non che tollerata, ma sommamente amata da qualsivoglia animale, e dagli uomini massimamente, il qual genere avevano formato con singolare studio!’ a maravigliosa eccellenza”. Ma nel medesimo tempo, oltre all’essere tocchi?! da non mediocre pietà di tanta miseria umana quanta manifestavasi dagli effetti, dubitavano eziandio? che rinnovandosi e moltiplicandosi quei tristi esempi, la stirpe umana fra poca età”, contro l’ordine dei fati, venisse a perire, e le cose fossero private di quella perfezione che risultava loro dal nostro genere, ed essi” di quegli onori che ricevevano dagli uomini. Deliberato per tanto Giove di migliorare, poiché parea che si richiedesse, lo stato umano, e d’indirizzarlo alla felicità con maggiori sussidi”, intendeva che gli uomini si querelavano® principalmente che le cose non fossero immense di grandezza, né infinite di beltà, di perfezione e di varietà, come essi da prima avevano giudicato; anzi essere angustissime, tutte imperfette, e pressoché di una forma?; e che dolendosi non solo dell’età provetta, ma della matura, e della medesima gioventù, e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferventemente di essere tornati nella? fanciullezza, e in quella perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non potea Giove soddisfarli, essendo contraria alle leggi universali della natura, ed a quegli uffici* e quelle utilità che gli uomini dovevano,
secondo l’intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre. Né anche poteva comunicare la propria infinità colle creature mortali, né fare la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità delle cose e degli uomini. Ben gli parve conveniente di propagare i termini®? del creato, e di maggior-
mente adornarlo e distinguerlo**: e preso questo consiglio, ringrandì la terra d’ogn’intorno, e v’infuse il mare, acciocché, interponendosi ai luoghi abitati, diversificasse la sembianza?* delle cose, 5. rimettendo: rimandando. 6. si riducendo ... effetto: producendo risultati. 7. fede: credito. 8. senza ... accrescimento: senza aspettarsi nessun aumento.
9. massimamente che: soprattutto perché. 10. termini certi: confini delimitati. 11. incomprensibili: indefinibili. 12. mala contentezza: insoddisfazione. 13. dell’esser loro: della loro esistenza. 14. spirito: vita. 15. questa ... disfarlo: «che l’uomo usi la sua stessa forza vitale per porre fine alla propria vita, senza alcuna necessità o inte-
Leopardi
resse esterno».
16. fossero ... abbominevoli: «avessero
goduto di così scarsa considerazione». 17. spogliarseli: privarsene. 18. stanza: luogo di dimora. 19. studio: cura. 20. a maravigliosa eccellenza: perché raggiungessero un altissimo grado di perfezione. 21. tocchi: colpiti. 22. eziandio: altresì. 23. età: tempo. 24. essi: gli dei. 25. sussidi: aiuti. 26. si querelavano: si lamentavano.
27. pressoché aspetto.
...
forma:
di identico
28. età provetta: vecchiaia. 29. essere tornati nella: essere restituiti alla. 30. uffici: compiti. 81. comunicare: mettere in comune, trasmettere.
32. propagare i termini: ampliare confini. 33. distinguerlo: diversificarlo. 34. v’infuse: vi versò. 35. la sembianza: l'aspetto.
i
635 e impedisse che i confini loro non potessero facilmente essere conosciuti dagli uomini, interrompendo
1 cammini, ed anche rappresentando agli occhi una viva similitudine dell’immensità. Nel qual tempo occuparono le nuove acque la terra Atlantide*, non sola essa, ma insieme altri innumerabili e diste-
sissimi tratti, benché di quella resti memoria speciale, sopravvissuta alla moltitudine dei secoli. Molti
luoghi depresse”, molti ricolmò* suscitando i monti e le colline, cosperse la notte di stelle, rassottigliò e ripurgò” la natura dell’aria, ed accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò e contemperò‘ più diversamente che per l’addietro i colori del cielo e delle campagne, confuse le generazioni degli uomini in guisa che la vecchiezza degli uni concorresse in un medesimo tempo coll’altrui giovanezza e puerizia. E risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza), e volendo favorire e pascere le eoloro immaginazioni‘, dalla virtù delle quali principalmente comprendeva essere preceduta quella tanta beatitudine della loro fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare), creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno strepito sordo
e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che‘ ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero* loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli non vedeva modo a ridurre in atto‘, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale. Fu per questi provvedimenti di Giove ricreato ed eretto‘ l’animo degli uomini, e rintegrata in ciascuno di loro la grazia e la carità‘ della vita, non altrimenti che l’opinione, il diletto e lo stupore della bellezza e dell’immensità delle cose terrene. E durò questo buono stato più lungamente che il primo, massime‘ per la differenza del tempo introdotta da Giove nei nascimenti, sicché gli animi freddi e stanchi per l’esperienza delle cose, erano confortati vedendo il calore e le speranze dell’età verde”. Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto” la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono?!, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto. All’ultimo tutti i mortali si volsero
all’empietà”, o che paresse loro di non essere ascoltati da Giove, o essendo propria natura delle miserie indurare e corrompere gli animi eziandio più bennati”, e disamorarli dell’onesto e del retto. Perciocché s’ingannano a ogni modo coloro? i quali stimano essere nata primieramente l’infelicità umana dall’iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei”, ma per lo contrario non d'altronde ebbe
principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità”. Ora poiché fu punita dagli Dei col diluvio di Deucalione la protervia* dei mortali e presa vendetta delle ingiurie, i due soli scampati dal naugrafio universale del nostro genere, Deucalione e Pirra”, affermando seco medesimo niuna cosa potere maggiormente giovare alla stirpe umana che di essere al tutto spenta, sedevano in cima a una rupe chiamando la morte con efficacissimo® desiderio, non che temessero né deplorassero il fato comune. Non per tanto, ammoniti da Giove di riparare alla solierano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera tudine della terra; e non sostenendo, come
36. Atlantide: favoloso continente collocato al di là delle colonne d’Ercole, poi eclissatosi nell’oceano o staccatosi per formare le Americhe. Ne parla Platone nel Timeo e nel Crizia, oltre a numerosi altri scrittori del mondo antico. 37. depresse: abbassò. 38. ricolmò: elevò. 39. ripurgò: purificò. 40. contemperò: mescolò. 41. le coloro immaginazioni: le immaginazioni di coloro, degli uomini. 42. commise loro che: affidò loro il compito di. 43. figurassero: rappresentassero. 44. a ridurre in atto: a tradurre in realtà.
45. perplesse: vaghe.
46. eretto: risollevato. 47.la grazia ... carità: il piacere e l’amore. 48. massime: soprattutto. 49. dell’età verde: della gioventù. 50. affatto: del tutto. 51. il costume ... serbarono: in una nota è lo stesso Leopardi a citare, fra gli altri, Erodoto, Strabone, Mela, Coricio sofista.
52. all’empietà: alla malvagità, al sacrilegio. 53. bennati: nobili. 54. a ogni modo: completamente. 55. coloro: i teologi. 56. stimano ... Dei: «ritengono che l’infelicità degli uomini sia la conseguenza del-
la loro malvagità e dei misfatti commessi
contro gli dei». Leopardi allude alla teoria del peccato originale. 57. per lo contrario ... calamità: «al contrario gli uomini sono malvagi perché infelici». 58. la protervia: la superbia. 59. Deucalione e Pirra: nelle righe seguenti Leopardi riporta il mito di Deucalione e Pirra narrato da Ovidio nelle Metamorfosi. 60. spenta: distrutta. 61. efficacissimo: sincero. 62. non sostenendo: non sopportando. 63. come: poiché, dal momento che.
Storia del genere umano
636 alla generazione; tolto delle pietre della montagna, secondo che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo le spalle, restaurarono la specie umana. Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della
propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre in qualunque stato ] impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due.
L’una mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla® in mille negozi e fatiche, ad effetto d’intrattenere gli uomini, e divertirli* quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana” felicità. fest i Quindi primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure: parte volendo, col variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere" colla opposizione dei mali il pregio de’ beni; parte acciocché il difetto” dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori, molto più comportabile” che non aveva fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di rompere e mansuefare” la ferocia degli uomini, ammaestrarli a piegare il collo”? e cedere alla necessità, ridurli a potersi più facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare”° negli animi affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri”, l’acume e la veemenza del desiderio. Oltre di questo, conosceva dovere avvenire che gli uomini oppressi dai morbi e dalle calamità, fossero meno pronti che per l’addietro a volgere le mani contra se stessi, perocché sarebbero incodarditi e prostrati di cuore, come interviene per l’uso dei patimenti”*. I quali sogliono anche, lasciando luogo alle speranze migliori, allacciare gli animi alla vita: imperciocché gl’infelici hanno ferma opinione che eglino sarebbero felicissimi quando si riavessero”° dei propri mali; la qual cosa, come è la natura dell’uomo, non mancano mai di sperare che debba loro succedere in qualche modo. Appresso creò le tempeste dei venti e dei nembi, si armò del tuono e del fulmine, diede a Nettuno il tridente®°, spinse le comete in girò e ordinò le eclissi; colle quali cose e con altri segni ed effetti terribili, instituì® di spaventare i mortali di tempo in tempo: sapendo che il timore e i presenti pericoli riconcilierebbero alla vita, almeno per breve ora*, non tanto gl’infelici, ma quelli eziandio che l’avessero in maggiore abbominio, e che fossero più disposti a fuggirla. E per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il bisogno e l’appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le quali cose non senza molta e grave fatica si potessero provvedere, laddove insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori* somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili e facili a procaeciare, siccome* usano di sostentarsi anche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli di California. Assegnò ai diversi luoghi diverse qualità celesti, e similmente alle parti dell’anno, il quale insino a quel tempo era stato sempre e in tutta la terra benigno e piacevole in modo, che gli uomini non avevano avuto uso” di vestimenti; ma di questi per l’innanzi furono costretti a fornirsi, e con molte industrie" riparare alle mutazioni e inclemenze del cielo. Impose a Mercurio" che fondasse le prime città, e distinguesse il genere umano in popoli, nazioni e lingue, ponendo gara* e discordia tra loro; e che mostrasse agli uomini il canto e quelle altre arti, che sì per la natura e sì per l’origine, furono chiamate, e ancora si chiamano, divine. Esso medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in ultimo volendo con un incomparabile dono beneficarle, mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze" eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la pote64. dopo le spalle: dietro le spalle. 65. propria natura: natura propria. 66. arti: mezzi. 67. implicarla: coinvolgerla. 68. negozi: occupazioni. 69. divertirli: distrarli. 70. incognita e vana: non conosciuta e che non si può raggiungere. 71. crescere: accrescere.
72. difetto: mancanza. 73. comportabile: sopportabile. è 74. mansuefare: ammansire. 75. piegare il collo: non opporre resistenza. 76. rintuzzare: frenare.
Leopardi
77. travagli propri: travagli dell'animo stesso.
78. interviene ... patimenti: come avviene per l'abitudine delle sofferenze. 79. si riavessero: si liberassero. 80. il tridente: secondo gli antichi, i terremoti erano causati dal tridente di Nettuno. 81. instituì: stabilì. 82. ora: periodo. 83. arbori: alberi. 84. siecome: come. 85. uso: abitudine. 36. molte industrie: grande operosità. 87. Mercurio: figlio di Giove e di Maia, fu
dal padre creato araldo degli dei e guida delle anime all’Ade. Fu il protettore dei commercianti, dei ladri, dei fraudolenti, delle strade. 88. gara: competizione. 89. fantasmi di sembianze: illusioni. Scrive Leopardi in una lettera a Pietro Giordani del 30 giugno 1820: «Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose In certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in a e compongono tutta la nostra vita».
637 stà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo primieramente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché innanzi all’uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità”, non dissimile negli uomini di allora da quello che fu di ogni tempo nei bruti, spingeva l’un sesso verso l’altro, nella guisa che è tratto ciascuno ai cibi e a simili oggetti, i quali non si amano veramente, ma sì appetiscono”. Fu cosa mirabile quanto frutto partorissero questi divini consigli® alla vita mortale, e quanto la nuova condizione degli uomini, non ostante le fatiche, gli spaventi e i dolori, cose per l’addietro ignorate dal nostro genere, superasse di comodità e di dolcezza quelle che erano state innanzi al diluvio. E questo effetto provenne in gran parte da quelle maravigliose larve*; le quali dagli uomini furono riputate ora geni ora iddii, e seguite e culte® con ardore inestimabile e con vaste e portentose fatiche per lunghissima età; infiammandoli a questo dal canto loro con infinito sforzo i poeti e i nobili artefici; tanto che un grandissimo numero di mortali non dubitarono chi all’uno e chi all’altro di quei fantasmi donare e sacrificare il sangue e la vita propria. La qual cosa, non che fosse discara a Giove”, anzi piacevagli sopra modo, così per altri rispetti, come che egli giudicava dovere essere gli uomini tanto meno facili a gittare volontariamente la vita, quanto più fossero pronti a spenderla per cagioni belle e gloriose. Anche di durata questi buoni ordini eccedettero grandemente i superiori”, poiché quantunque venuti dopo molti secoli in manifesto abbassamento, nondimeno eziandio declinando e poscia precipitando, valsero in guisa, che!° fino all’entrare di un’età non molto rimota dalla presente!%, la vita umana, la quale per virtù di quegli ordini era stata già, massime in alcun tempo, quasi gioconda, si mantenne per beneficio loro mediocremente facile e tollerabile. Le cagioni e i modi del loro alterarsi!° furono i molti ingegni! trovati dagli uomini per provvedere agevolmente e con poco tempo ai propri bisogni; lo smisurato accrescimento della disparità di condizioni e di uffici! constituita da Giove tra gli uomini quando fondò e dispose le prime repubbliche; l’oziosità e la vanità che per queste cagioni, di nuovo, dopo antichissimo esilio, occuparono la vita; l’essere, non solo per la sostanza delle cose, ma ancora da altra parte per l’estimazione degli uomini, venuta a scemarsi in essa vita la grazia della varietà, come sempre suole per la lunga consuetudine; e finalmente le altre cose più gravi, le quali per essere già descritte e dichiarate da molti!®, non accade ora distinguere. Certo negli uomini si rinnovellò quel fastidio! delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il diluvio e rinfrescossi quell’amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla! natura dell’universo. Ma il totale rivolgimento della loro fortuna e l’ultimo esito di quello stato che oggi siamo soliti di chiamare antico, venne principalmente da una cagione diversa dalle predette: e fu questa. Era tra quelle larve, tanto apprezzate dagli antichi, una chiamata nelle costoro!° lingue Sapienza; la quale onorata universalmente come tutte le sue compagne, e seguita in particolare da molti, aveva altresì al pari di quelle conferito per la sua parte alla prosperità dei secoli scorsi. Questa più e più volte, anzi quotidianamente, aveva promesso e giurato ai seguaci suoi di voler loro mostrare la Verità, la quale diceva ella essere un genio grandissimo, e sua propria signora, né mai venuta in sulla terra, ma sedere cogli Dei nel cielo; donde essa prometteva che coll’autorità e grazia propria intendeva di trarla, e di ridurla!!° per qualche spazio di tempo a peregrinare tra gli uomini: per l’uso e per la familiarità della quale, dovere il genere umano venire in sì fatti termini!!, che di altezza di conoscimento, eccellenza
d’instituti e di costumi, e felicità di vita, per poco fosse comparabile al divino. Ma come poteva una
90. cupidità: desiderio istintivo. 91. bruti: esseri privi di intelligenza, animali. 92. si appetiscono: si desiderano intensamente. 93. consigli: provvedimenti. 94, larve: fantasmi: le illusioni, dispensate da Giove agli uomini per consolare la loro profonda aspirazione all'infinito. 95. culte: venerate. 96. tanto ... propria: secondo Leopardi, gli antichi erano spinti a compiere azioni eroiche dalle loro generose illusioni.
97. fosse discara a Giove: spiacesse a Giove. 98. come che: poiché. 99. i superiori: i precedenti di cui ha parlato sopra. 100. valsero in guisa, che: rimasero in
vigore in modo che. 101. età ... presente: secondo Leopardi, l’età presente, dominata dalla ragione, ha spento le generose illusioni. 102. loro alterarsi: degli ordinamenti voluti da Giove, fondati sulle illusioni. 103. ingegni: espedienti.
104. uffici: funzioni.
105. da molti: probabilmente si riferisce ai delitti riferiti da molti poeti, come Ovidio, relativi a età successive a quelle dell’oro. 106. non accade: non occorre. 107. fastidio: noia. 108. aliena dalla: estranea alla. 109. costoro: di costoro. 110. ridurla: condurla. 111. venire ... termini: raggiungere tali traguardi.
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n
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pura ombra ed una sembianza vota!!? mandare ad effetto le sue promesse, non che menare in terra la Verità? Sicché gli uomini, dopo lunghissimo credere e confidare, avvedutisi della vanità di quelle profferte!!; e nel medesimo tempo famelici di cose nuove, massime per l’ozio in cui vivevano; e stimolati parte dall’ambizione di pareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di quella beatitudine che per le parole
del fantasma si riputavano, conversando colla Verità, essere per conseguire! si volsero con instantissime!! e presuntuose voci dimandando a Giove che per alcun tempo concedesse alla terra quel nobilissimo genio, rimproverandogli che egli invidiasse!!° alle sue creature l’utilità infinita che dalla
presenza di quello riporterebbero; e insieme si rammaricavano con lui della sorte umana, rinnovando
le antiche e odiose querele!!”della piccolezza e della povertà delle cose loro. E perché quelle speciosissime!!8 larve, principio di tanti beni alle età passate, ora si tenevano dalla maggior parte in poca stima; non che già fossero note per quelle che veramente erano!!’, ma la comune viltà dei pensieri e l’ignavia dei costumi facevano che quasi niuno oggimai le seguiva; perciò gli uomini bestemmiando scelleratamente il maggior dono che gli eterni avessero fatto e potuto fare ai mortali, gridavano che la terra non era degnata se non dei minori geni!, ed ai maggiori! ai quali la stirpe umana più condecentemente s’inchinerebbe, non essere degno né lecito di porre il piede in questa infima parte dell’universo. Molte cose avevano già da gran tempo alienata novamente dagli uomini la volontà! di Giove; e tra le altre gl’incomparabili vizi e misfatti, i quali per numero e per tristezza si avevano di lunghissimo intervallo lasciate addietro le malvagità vendicate dal diluvio. Stomacavalo! del tutto, dopo tante esperienze prese, l’inquieta, insaziabile, immoderata?!* natura umana; alla tranquillità della quale, non che alla felicità, vedeva oramai per certo, niun provvedimento condurre, niuno stato convenire, niun
luogo essere bastante; perché quando bene egli avesse voluto in mille doppi! aumentare gli spazi e i diletti della terra, e l'università delle cose, quella e queste agli uomini, parimente incapaci e cupidi dell’infinito, fra breve tempo erano per parere strette, disamene! e di poco pregio. Ma in ultimo quelle stolte e superbe domande commossero! talmente l’ira del dio, che egli si risolse, posta da parte ogni pietà, di punire in perpetuo la specie umana, condannandola per tutte le età future a miseria molto più grave che le passate. Per la qual cosa deliberò non solo mandare la Verità fra gli uomini a stare, come essi chiedevano, per alquanto di tempo, ma dandone eterno domicilio tra loro, ed esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi che egli vi avea collocati, farla perpetua moderatrice e signora della gente umana.
E maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio!, come quelli ai quali pareva che egli avesse a ridondare in troppo innalzamento dello stato nostro!” e in pregiudizio della loro maggioranza!%, Giove li rimosse da questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti i geni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non essere tale l’ingegno!*! della Verità, che ella dovesse fare gli stessi effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo, non come opera solamente della fortuna, ma come tale che per niuno accidente e niuno rimedio non la possano campare”, né mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte dei loro mali questa natura, che in tanto sieno mali in quanto sono creduti essere
da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo che esso gli stima; si può giudicare di quanto grandissimo nocumento "° sia per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali niuna cosa apparirà mag-
giormente vera che la falsità di tutti deipropri dolori. Per queste cagioni insino al presente, più che con altro né veggendo alle imprese e fatiche
ibeni mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa fuorché saranno eziandio privati della speranza; colla quale dal principio diletto o conforto alcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza! ed abbor-
112. pura ... vota: la Sapienza è una delle | realtà.
larve di cui sopra.
113. profferte: promesse. 114. essere per conseguire: stare per ottenere. © i lib: Instantissime: incalzanti. » 116. invidiasse: negasse. Jet querele: lamentele. 118. speciosissime: bellissime.
120. minori geni: le illusioni.
121. 122. 123. 124. 125. 126. 127.
maggiori: la verità. la volontà: la benevolenza. Stomacavalo: lo nauseava. immoderata: senza misura. mille doppi: immensamente. disamene: sgradevoli. commossero: suscitarono.
119. per quelle ... erano: illusioni e non | 128. consiglio: decisione.
Leopardi
129. ridondare ... nostro: risolversi in un
eccessivo innalzamento
della condizione umana. 130. maggioranza: superiorità (degli dei). 131. l’ingegno: la natura. 132. campare: sfuggire. 133. nocumento: danno. 134. negligenza: noncuranza
cl
639 rimento va da ogni opera industriosa, non che magnanima, che la comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti. Ma in questa disperazione e lentezza!* non potranno fuggire!”
che il desiderio di un’immensa felicità, congenito agli animi loro, non li punga e cruci!88 tanto più che
in addietro, quanto sarà meno ingombro e distratto dalla varietà delle cure! e dall’impeto delle azioni. E nel medesimo tempo si troveranno essere destituiti!‘° della naturale virtù immaginativa, che
sola poteva per alcuna parte soddisfarli di questa felicità non possibile e non intesa, né da me!"!, né da loro stessi che li sospirano. E tutte quelle somiglianze dell’infinito che io studiosamente!‘* aveva
poste nel mondo, per ingannarli e pascerli!, conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e inde-
terminati, riusciranno insufficienti a quest’effetto per la dottrina e per gli abiti! che eglino apprenche la terra e le altre parti dell’universo, se per addietro parvero deranno dalla Verità. Di maniera loro piccole, parranno da ora innanzi menome!*: perché essi saranno instrutti!‘ e chiariti degli arcani! della natura; e perché quelle, contro la presente aspettazione degli uomini, appaiono tanto più strette a ciascuno, quanto egli ne ha più notizia!‘. Finalmente, perciocché saranno stati ritolti alla terra i suoi fantasmi, e per gl’insegnamenti della Verità, per li quali gli uomini avranno piena contezza! dell’essere di quelli, mancherà dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine, così di pensieri come di fatti; e non pure lo studio e la carità!, ma il nome stesso delle nazioni e delle patrie sarà spento per ogni dove; recandosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati di dire, in una sola nazione e patria, come fu da principio, e facendo professione di amore universale verso tutta la loro specie; ma veramente dissipandosi la stirpe umana in tanti popoli quanti saranno uomini !. Perciocché non si proponendo né patria da dovere particolarmente amare, né strani! da odiare; ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesimo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi sieno per nascere, sarebbe infinito a raccontare. Né per tanta e sì disperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandonare la luce! spontaneamente: perocché l’imperio di questo genio li farà non meno vili che miseri; ed aggiungendo oltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del valore! di rifiutarla. Per queste parole di Giove parve agli Dei che la nostra sorte fosse per essere troppo più fiera 155 e terribile che alla divina pietà non si convenisse di consentire. Ma Giove seguitò dicendo. Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano Amore; il quale io sono disposto, rimovendo tutti gli altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla Verità, quantunque potentissima e combattendolo di continuo, né sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo se non di rado. Sicché la vita degli uomini, parimente occupata nel culto di quel fantasma e di questo genio!*, sarà divisa in due parti; e l’uno e l’altro di quelli avranno nelle cose e negli animi dei mortali comune imperio. Tutti gli altri studi!5”, eccetto che alcuni pochi e di picciolo conto, verranno meno nella maggior parte degli uomini. Alle età gravi il difetto delle consolazioni di Amore sarà compensato dal beneficio della loro naturale proprietà di essere quasi contenti della stessa vita, come accade negli altri generi di animali, e di curarla diligentemente per sua cagione propria, non per diletto né per comodo che ne ritraggano [...] Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magna-
nime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina! e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere
umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, 135. abborrimento: gnanza.
avversione,
ripu-
136. lentezza: torpore, inattività.
137. fuggire: evitare. 138. eruci: tormenti. 139. cure: preoccupazioni. 140. destituiti: privati. 141. né da me: «una felicità la cui natura sfugge perfino a me, Giove» (parla Giove in prima persona). i 142. studiosamente: con cura. 143. pascerli: nutrirli.
144. abiti: abitudini, 145. menome: minime.
146. instrutti: istruiti. 147. chiariti degli arcani: sarà loro fatta chiarezza sui misteri. 148. Di maniera ... notizia: ritorna il concetto già espresso nella canzone Ad Angelo Mai secondo cui la conoscenza del mondo non lo accresce ma lo rimpicciolisce e ce ne dimostra la vanità (« Ahi, ahi, ma conosciuto
il mondo
/ non
cresce,
anzi
si
scema»). 149. contezza: consapevolezza della vanità delle illusioni. 150. lo studio e la carità: l’amore e l’affetto.
151. e non pure ... uomini: Leopardi polemizza con il generico umanitarismo del suo secolo, che cela invece un assoluto egoismo individualistico. 152. strani: estranei, stranieri.
158. 154. 155. 156. rità. 157. 158.
la luce: la vita. valore: coraggio. più fiera: crudele. fantasma... genio: l'Amore e la Vestudi: occupazioni. pellegrina: eccezionale.
Storia del genere umano
Ò
640
e desiderio in ambeabbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore
Giove non gli condue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma troppo sente di compiacerli, trattone!” alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di qua: se per vince °° nume suo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del a dintorno posa, si egli lunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo al migliori tempi. Dove umana; quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine essere potendo né Giove, ndolo permette le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, del offesa ente grandem mo nell'ani e , fantasmi vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei dotarono lo fati i siccome E Dei. agli are contrast di loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo
quel primo voto!8! degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare !, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede!®, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono!
tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatis-
sima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri!, e quando! gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe !; tanto è da natura magnanimo e mansueto. Oltre che gl’immortali, contenti della vendetta che prendono di tutta la stirpe, e dell’insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari offese degli uomini; né d’altro in particolare sono puniti i frodolenti e gl’ingiusti e i dispregiatori degli dalla grazia di quelli. Dei, che di essere alieni anche per proprio nome: 159. trattone: ad esclusione di.
163. vi siede: vi rimane.
160. nume: potenza divina. 161. voto: desiderio. 162. che egli ... ad abitare: in cui sceglie di risiedere.
164. mordono: deridono. 165. i costoro obbrobri: le ingiurie di costoro. 166. quando: se anche.
167. niun ... prenderebbe: non ne deriverebbe alcuna sofferenza. 168. per proprio nome: singolarmente.
ANALISI DEL TESTO L’operetta, posta in apertura del libro, funge come da proemio ad esso, raccogliendo, sotto la forma di racconto favoloso, i temi principali della meditazione leopardiana di questo periodo, e annunciando le linee di svolgimento dell’intero volume. Vi si rispecchia la prima fase del pessimismo leopardiano, non ancora cosmico e materialistico (gli uomini infelici in
ogni età, per natura), ma storico (gli antichi più felici dei moderni), e psicologico-esistenziale, su base sensistica: la causa dell’infelicità è infatti quella indicata nella pagina sulla «teoria del piacere» dello Zibaldone, la tendenza a un piacere infinito che viene sempre delusa, perché ogni godimento è limitato, e che pertanto genera nell’uomo il senso della nullità di tutte le cose. Solo in una seconda fase del pensiero leopardiano l’infelicità sarà fatta derivare principalmente, in chiave materialistica, dai mali esterni che affliggono l’uomo e tutti gli altri esseri dell’universo. Come Leopardi indica attraverso il racconto favoloso dell’evoluzione umana, nelle età primitive e antiche all’impossibilità del piacere suppliscono le speranze e l'immaginazione, che fanno vedere il mondo infinitamente vario e bello. Ma poi subentra la scoperta del vero, che spegne ogni immaginazione e genera la noia. Questa è la causa della decadenza storica dell'umanità: la cognizione del vero, cancellando le generose illusioni, rende gli uomini meschini, egoisti, incapaci di grandi azioni e sublimi passioni, e ha conseguenze negative anche sul piano morale e civile. Si prospetta così in forma evidente la contrapposizione tra antichi e moderni che è alla base del pessimismo storico di Leopardi. Si può però osservare
che questa “storicità” dell’infelicità umana si colloca pur sempre sullo sfondo di un’infelicità universale, atemporale e necessaria, connaturata con l’uomo stesso, che non potrà mai
raggiungere quel piacere infinito a cui tende; perciò anche la felicità degli antichi è soltanto
relativa: le illusioni velano semplicemente una condizione oggettivamente infelice. Dietro il cosiddetto pessimismo “storico” di Leopardi vi è già una forma di pessimismo assoluto. Leopardi
Il pessimismo storico e Psicologico eSistenziale
Le illusioni e il vero
641 Concezione provvidenziale della natura
Emerge anche, in questa operetta, la concezione provvidenziale della natura: i mali esterni, fisici, rientrano nel suo piano benefico (qui adombrato in forma mitologica nei provvedimenti di Giove), per far risaltare il pregio dei beni, per ovviare alla sazietà e per far dimenticare agli uomini la loro noia immergendoli nell’azione. Solo più tardi, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, la natura sarà vista come nemica e persecutrice (il concetto del «piacer figlio d’affanno» tornerà nella Quiete dopo la tempesta, ma in chiave negativa e polemica contro la natura, non più in chiave provvidenzialistica).
148. PROPOSTE DI LAVORO 1. Quali elementi strutturali dell’operetta le conferiscono l'aspetto della favola? (si veda ad esempio l’iniziale «narrasi»; in quale tempo è collocata la vicenda? in quale spazio?). 2. Individuare le varie fasi della storia del genere umano che Leopardi delinea nell’operetta. Ad esempio 1° fase: mondo uniforme + uomini prima felici poi annoiati 2° fase: ...
. Quale concezione della felicità umana è presente nel testo? . È possibile ravvisare nell’operetta gli elementi della teoria del piacere già esaminati a proposito dell’/nfinito? . Qual è il significato dei vari provvedimenti presi da Giove nei confronti degli uomini?
. Analizzare i vari elementi del testo su cui si basa la contrapposizione antichi/moderni. dl ND asaiW . Confrontare
il quadro dell’età moderna qui offerto con quello presente nella canzone Ad Angelo Mai.
Dialogo della Natura e di un Islandese L’operetta fu scritta fra il 21 e il 80 maggio 1824. Lo spunto fu offerto, come ha suggerito Fubini, dalla Storia di Jenni di Voltaire, dove, nel contesto di un discorso sui flagelli da cui sono tormentati gli uomini, si parla delle terribili condizioni degli Islandesi, minacciati insieme dal gelo e dal vulcano Hekla. Di qui probabilmente è venuta a Leopardi l’idea di assumere un Islandese come esempio dell’infelicità dell’uomo e dei mali che lo affliggono.
Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica!, e passando sotto la linea equinoziale? in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne? a Vasco di Gama* nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide? da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua£. Ma fattosi più da vicino, trovò che era 1. andando ... dell’ Affrica: attraversando
la parte più interna dell’Africa. 2. la linea equinoziale: l’equatore. 3. intervenne: capitò. 4. Vasco di Gama: Vasco de Gama, navigatore portoghese, doppiò il Capo di Buona Speranza nel 1497; l'episodio a cui si al-
lude è raccontato nel canto V dei Lusiadi
di Camoens (1525-1580), poema epico che esalta le gesta del popolo portoghese, 0 lusitano, e la formazione del suo impero. 5. Vide: il soggetto sottinteso è l’Islandese. 6. ermi colossali... isola di Pasqua: sì tratta delle gigantesche sculture che rappre-
sentano una testa e un busto dalle fattezze umane; si trovano nell’isola di Pasqua, in Polinesia, ed ancora oggi la loro origine ed il loro significato costituiscono un mistero per gli etnografi. Di queste sculture Leopardi ebbe notizia da una relazione di viaggio: Voyage de La Pérouse autour du monde.
Dialogo della Natura
e di un Islandese
“i
642
|
il dosso e il gomitoa una una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato e di capelli nerissimi; la occhi di , terribile e montagna; e non finta” ma viva; di volto mezzo tra bello ultimo gli disse. | all parlare, senza spazio buono un quale guardavalo fissamente; e stata così a kai incognit era specie tua la dove luoghi NATURA - Chi sei? che cerchi in questi quasi tutto il tempo fuggitala e Natura; la fuggendo vo che ISLANDESE - Sono un povero Islandese, i questa. per adesso fuggo la terra, della della mia vita per cento parti NATURA - Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi. ISLANDESE - La Natura? i dn NATURA - Non altri. questa di a ISLANDESE - Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventur i i non mi potesse sopraggiungere. NATURA - Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che i si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi? persuaso e fui ISLANDESE - Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, gli uni continuamente chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo cagionane sopportando giovano; non cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che dosi scambievolmente infinite sollecitudini!!, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia e chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare! il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla;
e disperato dei piaceri!, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pen-. sare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo! alcuno, fuggire! che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato!. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’i-
sola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere", io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare
da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla", il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi!, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano?° mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura,
che d’esser quieta; riescono di non poco momento?!, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità
che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in
me stesso, a fine d'impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi,
per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non 7. non finta: non raffigurata (come le erme). 8. la tua ... incognita?: il genere umano era
sconosciuto. 9. dove ... potenza: nei luoghi selvaggi dell'Africa i fenomeni naturali sono più violenti. 10. a poche esperienze: quando avevo fatto poche esperienze.
Leopardi
11. sollecitudini: preoccupazioni. 12. avanzare: migliorare. 13. disperato dei piaceri: «perduta ogni speranza di procurarmi piaceri». 14. non offendendo: non arrecando danno. 15. fuggire: evitare. 16. contrastato: conteso. 17. senza ... piacere: senza alcuna sensa-
zione di piacere.
18. i ruggiti ... Ecla: iboati minacciosi del vulcano Hekla; di esso e dei danni che provoca agli Islandesi parla anche l’ateo Borton nella Histoire de Jenni di Voltaire. 19. alberghi: abitazioni. 20. non intermettevano: non smettevano. 21. riescono ... momento: hanno risultati di non poco conto.
643 patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi
destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi*; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi
alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre
osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal
freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni”
degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto
dire che tu dai? ciascun giorno un assalto e una battaglia formata” a quegli abitanti, non rei?” verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo*, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico?’ non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo*!. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa*’ negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi e disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all'uomo, per compensarnelo*, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria*. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però” da non potersi fuggire, siamo ingiuriati* di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza”, e con altre disposizioni*; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato
22. se non ... tali luoghi: «solo una fascia climatica della terra, quella temperata, e alcune precise regioni». 23. Ma io ... tropici: ancora un’eco voltairiana: la descrizione della sequenza delle disgrazie ricorda quella analoga occorsa al Candido nell'omonimo romanzo di Voltaire.
24. infestato dalle commozioni: tormentato dagli sconvolgimenti. 25. tu dai: l’Islandese riconosce la non accidentalità dei fenomeni naturali: c'è una deliberata volontà persecutoria della natura.
26. battaglia formata: una battaglia in piena regola, voluta. 27. rei: colpevoli. 28. sempre ... uomo: che sempre incombono sull'uomo. 29. filosofo antico: Seneca. Nelle Naturales quaestiones infatti si legge: «Si vultis nihil timere, cogitate omnia esse timenda» (traduzione: «Se volete evitare il timore, pensate che bisogna temere ogni cosa»). 30. perdonato: risparmiato. 81. temperante ... corpo: «non solo mode-
rato, ma determinato ad astenermi dai piaceri del corpo».
32. calamitosa: dannosa. 33. per compensarnelo: per compensarlo di ciò. 84. accecare ... patria: «sono stato sul punto di perdere la vista, come accade ai lapponi per il riflesso del sole nella neve». 35. però: perciò. 36. ingiuriati: danneggiati. 37. rigidezza: rigori dal freddo. 38. disposizioni: effetti che danneggiano.
Dialogo della Natura e di un Islandese
644
:
in qual sì “ oO quanto e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto egli uomini, e Ag il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica ora ce: ti assa cl ora degli altri animali*; e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci instituto”, per e ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi oci perseguiti; e che, per costume sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue eidelle tue viscere.
Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono‘ di perseguitare cagione, chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna della lugubre e amaro tempo il non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi*. E già mi veggo vicino non tuttavia questo e gravissime; miserie di vecchiezza‘; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e fino noi di ciascuno da preveduto viventi, de’ accidentale, ma destinato a te per legge a tutti i generi nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl incomodi che ne seguono. NATURA - Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone* pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con, qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se i0 vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, 10 non me ne avvedrei. ISLANDESE - Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza‘”; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso‘; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi . lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia‘. Se querelandomi io seco” di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese”; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene? egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarili. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio” tuo, se
non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare cheio non vi sia tribolato e straziato,
NG || o
e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. NATURA - Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di
produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento. oa
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39. animali: esseri viventi. 40. per costume e per instituto: per abitudine e per decisione premeditata. 41. finiscono: smettono. 42. ci opprimi: ci distruggi (cfr. La ginestra, vv. 31 e 238, T162). 43. il tempo ... della vecchiezza: ctr. Il tramonto della luna: «D’intelletti immortali / degno trovato, estremo / di tutti i mali, ritrovar gli eterni / la vecchiezza, ove
Leopardi
‘ fosse / incolume il desio, la speme estinta, | secche le fonti del piacer, le pene maggiori
/ sempre, e non più dato il bene». 44. dal quinto ... là: a partire dai venticinque anni. 45. fatture: creazioni. 46. trattone: tranne. 47. instanza: insistenza. 48. oppresso: schiacciato. 49. dall’altra famiglia: dalla servità.
50. querelandomi io seco: lamentandomi con lui. 51. farti le buone spese: mantenerti decorosamente.
52. ti si appartiene: sarebbe tuo dovere. 53. poteva ... ripugnarlo: non potevo né rifiutarlo né respingerlo. | 54. ufficio: compito. 59. sempre che: nel caso che. (e,
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645
ISLANDESE — Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filo| sofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e _con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e
maceri dall’inedia°, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano
che un fierissimo *” vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo? di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa. —-
56. rifiniti e maceri dall’inedia: sfiniti e
macilenti per la fame.
57. fierissimo: fortissimo. . 58. mausoleo: tomba, sepolcro. L’espressione mausoleo (monumento funebre de-
stinato a durare nel tempo) di sabbia (materiale di per sé inconsistente destinato ad essere spazzato via dalle folate di vento) si configura come un ossimoro; la figura retorica sottolinea l’ironia tragica del finale
dell'operetta; le espressioni è fama, sono alcuni, certi, non so quale contribuiscono con la loro indeterminatezza ad accentuare il senso di accidentalità, di casualità a cui è sottoposto il destino dell’uomo.
ANALISI DEL TESTO Dal pessimismo esistenziale al pessimismo materialistico
Come ha ben dimostrato Blasucci, l’operetta segna una fondamentale svolta nel pen-
siero leopardiano: il passaggio da un pessimismo sensistico-esistenziale a un pessimismo radicalmente materialistico e cosmico, dalla concezione di una natura benefica e provvidente
l’infelicità dell’uomo appariva di tipo psicologico-esistenziale, l'aspirazione ad un piacere infinito e l'impossibilità di raggiungerlo (cfr. la Storia del genere umano, T148); qui invece l’in-
La natura nemica
Il male elemento essenziale dell’ordine di natura
felicità è fatta dipendere materialisticamente dai mali esterni, fisici, a cui l’uomo non è in grado di sfuggire. L’Islandese, che è chiaramente portavoce di Leopardi, ne fa un elenco puntiglioso, ossessivo, che assume un tono di tragica terribilità: i climi avversi, le tempeste, i cataclismi, le bestie feroci, le malattie, e infine, più terribili di tutti imali perché non risparmiano nessuno, la decadenza fisica e la vecchiaia. Di qui l’idea di una natura nemica, che mette al mondo le sue creature per perseguitarle. Leopardi attribuisce ora alla natura quelle qualità di crudeltà e di indifferenza che aveva in precedenza riservato agli dei e al fato. È una scoperta preparata da tempo nelle meditazioni dello Zibaldone, che già avevano messo in dubbio che la natura avesse come fine il bene del singolo. Ma viene in piena luce in questa operetta; e la scoperta folgorante, traumatica, cambierà tutto il corso della riflessione e della poesia leopardiana successiva. Leopardi approda così a un materialismo assoluto e a un pessimismo cosmico, che abbraccia tutti gli esseri, non solo gli uomini, e tutti i tempi. L’infelicità non è dovuta solo a cause psicologiche, ma a cause materiali, alle leggi stesse del mondo fisico, che non hanno affatto per fine il bene degli uomini. Anzi il dolore, la distruzione, la morte, lungi dall’essere errori accidentali nel piano della natura, sono elementi essenziali del suo stesso ordine. Il mondo è un ciclo eterno di «produzione e distruzione», e la distruzione è indispensabile alla conservazione del mondo (ad esempio, animali o piante vengono distrutti per fornire nutrimento agli altri: nella chiusa l’Islandese costituisce il cibo che permette a due leoni sfiniti dalla fame di sopravvivere). La sofferenza è la legge stessa dell’universo, e nessun luogo, nessun essere ne è immune. E il dialogo con la natura si conclude con la domanda: a che serve questa vita infelicissima dell’universo? È la domanda che il pastore del Canto notturno rivolgerà alla luna: ed è una domanda che
non ha risposta («Arcano è il tutto, fuor che il nostro dolor», aveva già affermato Saffo Lo stile
nell’ Ultimo canto). Anche lo stile di questa operetta è diverso da quello delle precedenti: non la contemplazione fredda, distaccata dell’infelicità, che è conseguenza dell’ideale dell’imperturbabilità del “saggio”, ma una requisitoria incalzante, appassionata, che anticipa la protesta degli idilli pisano-recanatesi del ’28-’30 e della Ginestra.
Dialogo della Natura e di un Islandese
646 {49 PROPOSTE DI LAVORO I esem4. Analizzati la sintassi usata (prevalenza di paratassi o ipotassi), l’uso delle figure retoriche (esistono ad
pio metafore, anafore, interrogazioni retoriche?), l’area semantica alla quale appartengono prevalentemente i vocaboli usati dall’Islandese, definire quale stile usano i due personaggi del dialogo. 2. Fabula e intreccio nel dialogo non coincidono, ma i vari avvenimenti vengono narrati retrospettivamente dal personaggio dell’Islandese: quale effetto ne scaturisce per il ritmo del racconto? 3. Quale focalizzazione (cfr. M1) viene adottata?
4. Il viaggio dell’Islandese presenta le funzioni tipiche della quéte? (ad esempio partenza, infrazione di un divieto...). 5. Individuare gli elementi che caratterizzano la parte finale del testo («Mentre stavano...») come fortemente ironica. 6. Perché Leopardi sceglie proprio un Islandese come interlocutore della Natura? 7. Quale progetto di vita l’Islandese cerca di attuare e su quali presupposti filosofici esso si basa («vivere vita ‘ oscura»)? Ci sono delle opposizioni tra l’Islandese e gli altri uomini?
8. | vari luoghi visitati dall’Islandese presentano delle caratteristiche comuni? Quali? 9. Riflettere su come diversamente siano valutati i mali esterni, fisici, in questa operetta e nella Storia del genere umano.
10. La Natura «ha occhi e capelli nerissimi», «volto tra bello e terribile»: a quale mito romantico rimandano queste caratteristiche? 11. Perché la Natura è indifferente ai bisogni dell’uomo? Quali conseguenze derivano per l’uomo da questo atteggiamento? Perché questa indifferenza costituisce il passaggio dal pessimismo storico a quello cosmico?
12. A quale concezione filosofica rimanda l’affermazione della Natura: «la vita di quest’universo è un perfetto circuito di produzione e di distruzione»? 13. Confrontare l’immagine della Natura di questo dialogo con quella presente nell’abbozzo dell’/nno ad Arimane del ’33 (T159). CS
A
Ae)
-. — T150 . ._
Cantico del gallo silvestre Fu composta dal 10 al 16 novembre del 1824: è dunque l’ultima delle venti operette scritte nel 1824, e ne costituisce l’ideale epilogo (anche se, nell’edizione del ’27, Leopardi preferì porre come conclusione il Dialogo di Timandro ed Eleandro).
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo!. Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli
autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi
a profferir parole a guisa degli uomini?: perocché sì è trovato in una cartapecor a antica, scritto in
1. Afferman o ... il cielo: ieri la dell’im1 i fonte 6a. pin eonardizza si legge in unannotazione dell’autore che cita, fra gli altri, il Lewicon Chaldaicum Talmudicum et sot pe i |
| | | |
avrebbe ricavato le informazio azioni ni su questo | caelum usque, cantat coram me» (parafrasi pennuto, oltre che dal Buxtorf, dai Targum | alSalmo 50; «Gallo silvestre i cui ec pog(commenti in lingua caldaica al testo | giano sulla terra, e il capo tocca il cielo, biblico): «Gallus silvestris, cuius pedes concanta dinanzi È Rabbinicum di Giovanni Buxtorf. Leopardi | sistunt in terra, et caput eius pertingit in a 2. a guisa degli uomini: come gli uomini.
Leopardi
—
647 lettera ebraica?, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica*‘, cabalistica e talmudica, un cantico intiI tolato, Scir detarnegòl® bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza
fatica grande, né senza interrogare più d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, | sono venutoa capo d'intendere, e di ridurre in volgare® come qui appresso si vede. Non ho potuto | per ancora ritrarre” se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; O) fosse cantato una volta sola; e chi l’oda cantare, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra8. Quanto si è al volgarizzamento
infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), | mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio”, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: ilqual testo corrisponde in questa parte all’uso delle lingue, e massime dei poeti, d’oriente. Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità!’ in sulla terra, e partonsene le immagini vane.
Sorgete; ripigliatevi la soma” della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero. .. Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi’; si propone" i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire! nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia e speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina”. Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né susurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda!5; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia! minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia!: nello spazio dei secoli da te distinti!’ e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna,
in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano? e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche?”!, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura proveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile?, velocemente, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice? 3. in lettera ebraica: in caratteri ebraici. 4. in lingua ... rabbinica: la prima fu una vera e propria lingua parlata dai Caldei, popolo semitico stanziatosi in Mesopotamia verso il secolo XI a. C.; targumica è la lingua in cui furono compilate le parafrasi della Bibbia, mescolanza fra ebraico e caldaico; rabbinica è l'ebraico usato dai rabbini, maestri della religione ebraica; cabalistica: relativa alla dottrina ebraica, di
origine medievale, a carattere mistico ed esoterico, rivelata solo a pochi iniziati e tramandata di generazione in generazione; talmudica: lingua propria del Talmud, rac-
colta di testi che contengono le norme giuridico-religiose che regolano la vita delle comunità giudaiche. 5. Seir detarnegòl: espressione del linguaggio talmudico.
6. ridurre in volgare: tradurre. 7. ritrarre: sapere, capire.
8. o che il Cantico ... altra: «o che il Cantico vi sia stato tradotto da un altro lin-
guaggio».
9. Lo stile ... gonfio: interrotto ad imitazione della disposizione dei versetti biblici; gonfio equivale ad enfatico. 10. torna la verità: la luce allontana le tenebre come la verità gli ameni inganni. 11. soma: peso opprimente. 12. i negozi: gli affari, le occupazioni, gli impegni. 13. si propone: si prospetta. 14. che gli sieno per intervenire: che stiano per capitargli. 15. Dolcissima ... declina: letizia e speranza si conservano intatte nel sonno per svanire al momento della sveglia (vigilia).
16. banda: parte, luogo. 17. copia: quantità. 18. preside della vigilia: che presiede alla veglia, alla vita diurna. 19. distinti: misurati. 20. che le tue fiamme illustrano: che i tuoi
raggi illuminano. 21. nell’imo delle spelonche: nella profondità delle grotte. 22. quasi un gigante instancabile: annota Leopardi: «Salmo. Exultavit ut gigas», (il sole) si slancia nella corsa come un gigante (cfr. Salmi, 18,6). Anche nella mitologia classica Elios, il sole, era considerato un
gigante perché figlio di Iperione, uno dei Titani. 23. sei tu ... infelice?: annota Leopardi: «come un buon numero di Gentili e di Cristiani antichi, molti anco Ebrei (tra’ quali
Cantico del gallo silvestre
648
È
Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza difuori, niuno* intrinseco? movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per male Ani zio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe ConsTan, se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco , è male per se mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla”, fa di bisogno ad ora ad ora, depo: nendola, ripigliare un poco di lena”, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte”, Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto®° il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere! non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte. 1 be A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile*. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e deter-. minata*, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza® dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta nuovamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli conven-. ga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso” come effetto di errori, e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato e confidente *; la sera trista, scoraggiata e inchinevole®° a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta‘. Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto‘, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere‘, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l'universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire*: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova rin-
giovanisce. Ma siccome“
i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna
parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente”
si estinguono; così l’universo, benché
nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso
universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani,
e loro maravigliosi moti‘, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna:
Filone di Alessandria, e il rabbino Mosé Maimonide) furono di opinione che il sole, e similemente i pianeti e le stelle, avessero anima e vita». 24. niuna ... niuno: nessuna, nessuno.
25. intrinseco: connaturato all’organismo vivente. 26. caduco: di breve durata. 27. a portarla: per sopportarla.
28. lena: vigore. ‘ 29. e quasi una particella di morte: «né
questa (l’esistenza) si poteva diversificare e variare maggiormente che componendola in gran parte quasi nel suo contrario, cioè
Leopardi
in una specie di morte» (Zibaldone, 31 luglio 1820). 30. obbietto: scopo. 81. l’ultima causa dell’essere: l’ultima ragione dell’esistenza. 32. il più comportabile: il più sopportabile.
33. di presente: allora, in quel momento. 34. eziandio ... determinata: anche senza una ragione particolare e precisa. 35. pazienza: sopportazione. 36. se gli convenga: se gli si adatti. 37. volte ... riso: diventato oggetto di disprezzo e di derisione. 38. racconsolato e confidente: rassere-
nato e fiducioso. 39. inchinevole: propensa. 40. in età provetta: in età avanzata, matura.
41. Non per tanto: tuttavia. 42. della declinazione ... essere: del proprio degrado fisico. 43. scadere e languire: decadere ed essere sul punto di spegnersi. 44. siccome: come. 45. tutto dì: di continuo. 46. finalmente: alla fine. 47. moti: avvenimenti.
649 parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure
un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima‘, empieranno lo spazio immenso. Così que-
sto arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato‘ né inteso, | si dileguerà e perderassi?°. 48. silenzio ... quiete altissima: confronta | essere compreso e interpretato. L infinito, vv. 4-6. À 50. Così ... perderassi: avverte Leopardi: rta 49. innanzi di essere dichiarato: prima di «Questa è conclusione poetica, non filoso-
fica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine» (Note alle Operette morali).
ANALISI DEL TESTO L’idea psicologicoesistenziale dell’infelicità
La distruzione e la morte come
leggi universali L’osservatore straniato
Il testo raccoglie, a suggellare l’esperienza delle operette nel ’24, la nuova prospettiva balenata qualche mese prima con il Dialogo della Natura e di un Islandese. Non manca la ripresa di temi legati alla trama concettuale delle altre operette, cioè all’idea psicologicoesistenziale dell’infelicità come assenza di piaceri: la contrapposizione tra sogno e verità, l'impossibilità per alcuna creatura di raggiungere la felicità, l’assopimento della vita come unico rimedio al dolore, l’illusione che coincide con il risveglio al mattino, paragonato alla giovinezza. Ma poi si impone come tema centrale la morte: l’essere delle cose che ha come suo unico fine la morte, la natura intenta alla morte in ogni sua opera, l’affrettarsi alla morte di ogni parte dell’universo, il processo inarrestabile di decadimento che accompagna gli esseri di tutta la loro vita, la distruzione e la morte come leggi universali. Per mettere in rilievo questa realtà, Leopardi ricorre di nuovo, come per l’islandese, a un contemplatore posto al di fuori del genere umano, privo delle sue illusioni, e che perciò può osservare la condizione degli uomini da una prospettiva estraniata: per questo attribuisce il cantico alla figura bizzarra e favolosa del gallo silvestre (Blasucci). Scompare anche il tono lucido, raziocinante, di pura e distaccata contemplazione, che è proprio delle altre operette. Se si esclude il preambolo, che ostenta un’umoristica gravità filologica, e che serve da raccordo con il tono del resto del libro, l’operetta presenta una prosa poetica, percorsa da una forte tensione lirica (come Leopardi stesso avverte nel preambolo). Il corpus delle operette del ’24 si suggella perciò con la grandiosa immagine di un universo infinito dominato dalla «quiete altissima» della morte, in cui trova soluzione, annullandosi, l’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale».
{50 PROPOSTE DI LAVORO mm 1. Individuare gli elementi umoristici contenuti nel preambolo e le caratteristiche dello stile che individuano come «poetica» la prosa di quest’operetta. 2. Individuare i passi dell'operetta in cui sono presenti sia termini sia situazioni che alludono al tema finito/infinito già presente nell’/nfinito e nella Sera del dì di festa.
3. Il «silenzio nudo», la «quiete altissima», lo «spazio immenso» del finale ricordano gli «interminati spazi», i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quiete» dell’/nfinito. Cos’ha in comune quest'immagine «poetica» - come la definisce Leopardi - della morte universale con l’infinito attinto nell’immaginazione? 4. Ci sono delle analogie tra il sonno e la morte, tra la veglia e la vita?
Cantico del gallo silvestre
650 Il «risorgimento» e i grandi idilli dai Canti
"TI51
A Silvia
|
Composto a Pisa nell’aprile del 1828, fu pubblicato per la prima volta nell'edizione fiorentina dei Canti (1831). E il canto che inaugura una nuova stagione della poesia leopardiana, dopo gli idilli e le canna) zoni (1819-1823), quella dei grandi idilli (1828-1830).
Metro: strofe libere, senza schema fisso, con vario alternarsi di ende-
casillabi e settenari, e con rime anch'esse ricorrenti liberamente. 1. Silvia: la tradizione ha identificato Silvia in Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tubercolosi secondo alcuni a 18, secondo altri a 21
anni; tale gusto per l’aneddotica biografica riduce il significato della lirica, nella quale Silvia assurge a simbolo della giovinezza prematuramente interrotta dalla morte. 2. rimembri: ricordi. 3. quel ... mortale: «quell’epoca della tua vita» (giovinezza). 4. quando ... splendea: quando la bellezza risplendeva. Per Leopardi «una giovane
5
Di gioventù salivi?* Sonavan'” le quiete Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo® canto, 10
dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti, ecc., un
non so che di divino, che niente può agguagliare» (Zibaldone 30.6.1828). In Silvia splende la bellezza della giovinezza più che la bellezza in senso assoluto. 5. ridenti e fuggitivi: gioiosi e schivi. 6. lieta ... salivi: «serena e al tempo stesso assorta in un’ombra di mestizia (da attribuire forse ad un vago presentimento di morte), tu, Silvia, eri sul punto di oltrepassare la soglia (il limitare) della gioventù». Mentre in Foscolo «Giovinezza [...] danzante / discende un clivo onde nessuno
15
20
ventù.
;
14. ed... tela: «e (al suono) prodotto dalla tua mano
che, rapida, confezionava
telaio, con fatica, la tela».
Leopardi
al
Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte”?, D’in su i veroni del paterno ostello! Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela!‘. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate! e gli orti,
25.
11. menare: trascorrere.
paterna.
Io gli studi leggiadri Talor lasciando e le sudate carte,
Leopardi Silvia sale il limitare della gio-
12. Io ... parte: «Io interrompendo momentaneamente (talor)i graditi studi poetici e gli impegnativi lavori filologici (si noti il chiasmo studi leggiadri - sudate carte in cui gli aggettivi che qualificano l’attività intellettuale si oppongono) nei quali si consumano la mia gioventù (il tempo mio primo) e le mie forze migliori (e di me ... la miglior parte)». 13. d’in ... ostello: dai balconi della casa
Allor che all’opre femminili? intenta Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir!° che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare”! il giorno.
risale» (Grazie, Inno III, vv. 156-158), in
7. Sonavan: risuonavano. 8. perpetuo: ininterrotto. 9. opre femminili: i lavori femminili, la tessitura (la faticosa tela del v. 22). 10. vago avvenir: futuro indeterminato e al tempo stesso bello e desiderato: questi i due significati dell'aggettivo vago.
Silvia!, rimembri? ancora Quel tempo della tua vita mortale?, Quando beltà splendea* Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi’, E tu, lieta e pensosa, il limitare
30
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte!. Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno!”. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori!, o Silvia mia! Quale allor ci apparia La vita umana e il fato!!° Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato,
rate: illuminate il 15. dorate: dai raggi del sole. 16. quinci ... il monte: «da una parte il mare da lontano (da lungi), dall’altra i monti». 17. Lingua ... seno: «le parole (lingua mortal) non possono esprimere efficace-
mente
il sentimento
che provavo
nel
cuore».
18. cori: sentimenti. 19. Quale «.. fato: «come ci sembrava felice la vita umana ed il destino».
“1LALA
TAI
NNFISNTII
COZZA | 20. Quando ... sventura: «Quando mi ricordo di una così lieta speranza, mi opprime un sentimento insopportabile (acerbo) e di totale sconforto (sconsolato) e di nuovo torno a compiangere la mia
35
O natura, o natura, Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi??!
sventura», 21. O natura ... tuoi?: «O natura, perché
nella maturità (poi) non restituisci quello che prometti in gioventù (allor)?». 22.Tu... verno: «Tu, prima che l’inverno inaridisse le erbe». 23. da ... vinta: «consumata (combattuta) e uccisa (vinta) da un male oscuro» (che operava all’interno del suo organismo). 24. molceva: dall’infinito molcere (latino molcere) «verbo difettivo, usato solo da’ Poeti» nel significato di lenire oppure lusingare. Nel primo significato è usato nel
40
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno”, Da chiuso morbo combattuta e vinta”, Perivi, o tenerella. E non vedevi
45
famoso verso foscoliano: «E poi che nullo / vivente aspetto gli molcea la cura» (Dei Sepolcri, 192-193). Qui assume il secondo significato: «e non ti lusingava il cuore sentir lodare sia i tuoi capelli neri, sia il tuo sguardo che destava l’amore ed era pudico». 25. innamorati e schivi: un’altra coppia di aggettivi dopo ridenti e fuggitivi (verso 4) e lieta e pensosa (verso 5). La strofa che annuncia la morte di Silvia è intessuta di avverbi negativi: non vedevi, non ti molceva, né [...] ragionavan. 26. ragionavan: parlavano. 27. Anche ... dolce: «Di Îì a poco (fra poco) sarebbe perita (peria) anche la mia dolce speranza». 28. agli giovanezza: «Il destino (avverso) negò anche alla mia vita la giovinezza». 29. Ahi ... speme: «Ahi come sei svanita, cara compagna della gioventù, mia compianta speranza». In questi versi gradualmente svanisce la figura di Silvia nel suo. simbolo, la speranza, e da questi versi in avanti il riferimento si mantiene ambiguo. 30. Questo ... mondo: «E dunque questo il mondo vagheggiato?». 81. questi ... insieme: «queste sono le
E tornami a doler di mia sventura?.
Il fior degli anni tuoi; Non ti molceva” il core La dolce lode or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi?5; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan” d’amore.
50
Anche peria fra poco La speranza mia dolce?”: agli anni miei
55
Anche negaro i fati La giovanezza”. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell’età mia nova, Mia lacrimata speme!?
Questo è quel mondo?®° questi I diletti, l’amore, l’opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme8!? 60
Questa la sorte dell’umane genti? All’apparir del vero Tu, misera, cadesti?: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano”. gioie, i sentimenti, le attività operose, gli avvenimenti di cui parlammo insieme?». 32. All’apparir ... cadesti: «Al rivelarsi della reale natura delle cose tu, misera, tramontasti».
33. e ... lontano: «e indicavi con la mano, nell’atto di scomparire, la fredda morte e una tomba desolata, come unico fiore della vita».
ANALISI DEL TESTO
La costruzione simmetrica
A Silvia è, con l’Infinito, il momento più alto della poesia leopardiana. Vale quindi la pena di dedicare alla lirica un’analisi più ampia, che, prendendo spunto dalle sue caratteristiche, metta a fuoco certi aspetti generali della poesia di Leopardi. La lirica ha una costruzione rigorosamente simmetrica. La prima strofa ha una funzione proemiale, e introduce il tema: l’immagine di Silvia che emerge dalla memoria. La seconda e la terza propongono, sempre rievocando il passato, due situazioni parallele: le illusioni giovanili di Silvia e quelle del poeta, che si contrappongono alla faticosa realtà quotidiana, rispettivamente alle «opre femminili» e alle «sudate carte». La quarta strofa è un commento desolato alla delusione di quelle speranze. La quinta e la sesta, in simmetria con la seconda e la terza, ripropongono nuovamente un parallelo tra Silvia e il poeta: la fanciulla è morta prima di vedere il «fiore» dei suoi anni; così la speranza del poeta muore prima che egli possa godere della giovinezza; e di tante speranze resta solo la prospettiva della «fredda morte».
A Silvia
| mmm
n
652 La lirica non propone una vicenda d’amore, un preciso rapporto sentimentale tra i due gio-
vani (a differenza dell’ultima strofa delle successive Ricordanze, dedicata a Nerina). La
situazione è lasciata nel vago e nell’indeterminato: ciò che unisce Silvia e ilpoeta, a distanza, senza che tra loro vi sia alcun contatto, è solo il parallelismo tra due condizioni: la fanciulla del popolo e il giovane poeta aristocratico sono associati, al di là della distanza dei loro due mondi, solo dalla condizione giovanile, dalle sue speranze e dai suoi sogni, poi dalla loro delusione. Non solo la situazione, ma tutta la lirica è caratterizzata dalla cifra della vaghezza. Si noti innanzitutto come la figura femminile sia poverissima di indicazioni concrete: l’imma-
La vaghezza della situazione
La vaghezza della realtà fisica
gine di Silvia, in apertura, vive solo di due particolari, uno fisico, gliocchi « ridenti e fuggi-
tivi» in cui splende la sua bellezza (ma già gli occhi sono la parte fisica più ricca di significato spirituale), e uno psicologico, l'atteggiamento «lieto e pensoso» con cui la fanciulla si avvia a varcare la soglia della giovinezza. Questa estrema sobrietà di indicazioni risalta soprattutto se riferita al “codice” letterario della raffigurazione della bellezza femminile, quello della tradizione petrarchesca, che insiste minuziosamente su una serie di particolari fisici. Ancor più vaga è la raffigurazione del mondo esterno, l’ambiente che circonda le due figure: il paesaggio primaverile è poverissimo di indicazioni sensibili, concrete (forme, colori, profumi). Gli oggetti sono evocati quasi solo con il semplice nome: le stanze, le vie, il palazzo paterno, il mare lontano, i monti. Non vi sono descrizioni: solo pochi aggettivi estremamente sobri, quasi spogli, «quiete», «odoroso», «sereno», «dorate». Il mondo esterno è privo di urgenza fisica, materiale, sensuale: è come assottigliato, rarefatto (si pensi, a confronto, alla nettezza visiva e plastica, alla sensualità di certi paesaggi dei Sepolcri o delle Grazie). Questa sobrietà della raffigurazione, questa estrema vaghezza, non sono casuali: corrispondono a una precisa poetica leopardiana, la tendenza al vago e indefinito, in cui, secondo il poeta, consiste il bello e il piacevole delle cose, e soprattutto della poesia, perché stimola l'immaginazione, dà l’illusione di quell’infinito a cui perpetuamente l’uomo aspira, allontana dalla realtà, dal «vero», che è doloroso e brutto («tutto il vero è brutto», si legge nello Zibaldone nell’agosto 1821). Per questo, Leopardi sostiene a più riprese nello Zibaldone che più le descrizioni poetiche sono particolareggiate, più soffocano l'immaginazione; e viceversa, meno particolari offrono, più spazio lasciano al vagare della fantasia. Lo spunto da cui prende le mosse la poesia (il canto della fanciulla che giunge al poeta chiuso nel suo studio) è sicuramente un dato reale, vissuto: ne abbiamo la prova nei Ricordi d’infanzia e d’adolescenza del ’19 («Canto delle figlie del cocchiere e in particolare di Teresa mentre ch'io leggeva il Cimitero della Maddalena»). Ma questa realtà vissuta, per essere assunta in poesia, è sottoposta, per così dire, ad una serie di “filtri” che la depurano, le tolgono quell’urgenza materiale che è propria dell’«arido vero». Innanzitutto un filtro fisico: il mondo esterno è percepito da Leopardi attraverso la finestra del «paterno ostello», che lo allontana e lo separa dal mondo, impedendo il contatto immediato con la realtà. L’io lirico nella poesia di Leopardi non è mai immerso nel mondo, ma sempre separato da esso da una distanza, da una sorta di diaframma: questo diaframma è in genere la finestra. Leopardi percepisce sempre il mondo dal chiuso della propria stanza, dove studia, pensa, scrive, cioè, in definitiva, dal chiuso del proprio mondo interiore: la finestra è come il confine simbolico, che mette in contatto i due mondi, l’interiore e l’esteriore, l'immaginario e il reale. La sua funzione è simile a quella della siepe dell’Infinito: limitando ilcontatto diretto col reale, stimola l’immaginazione. Non a caso proprio la finestra è citata insieme con la siepe nella pagina dello Zibaldone del luglio 1820 in cui Leopardi teorizza l’esperienza dell’infinito attraverso l’indefinito: «L'anima si immagina quel che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario [...]. Quindi il piacere ch'io provava sempre da fanciullo, e anche ora, nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra...». Il secondo filtro è costituito proprio dalle operazioni dell’immaginazione. Il dato fisico del canto delle figlie del cocchiere non è tanto percepito con i sensi, quanto, appunto, trasfigurato attraverso l'immaginazione. Nel rapporto con il reale si determina una sorta di doppia visione, come Leopardi chiarisce nello Zibaldone proprio nel novembre di quell’anno 1828: «All’uomo sensibile e IMmaginoso, che viva, come io son vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, ilmondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campàgna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna , udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose». Ma il canto . della fanciulla suscita l'immag inazione perché è già di per sé di un tipo particolare: è una Leopardi
La poetica del vago e indefinito
La realtà “filtrata”
Il filtro fisico: la finestra
Il filtro della immaginazione
653
Il filtro della memoria
Il filtro letterario
Il filtro filosofico
Il nulla e la pienezza vitale
di quelle sensazioni vaghe e indefinite che Leopardi elenca nello Zibaldone come altamente suggestive, perché danno l’illusione dell’infinito: «È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta [...] un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza...». Un terzo filtro è la memoria: il ricordo per Leopardi ha una funzione analoga a quella dell’immaginazione, nel rendere indefinite e poetiche le cose: «Un oggetto [...] affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch'egli sia, non può essere poetico; e il poetico [...] si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago». Nel caso di A Sivia, la memoria richiama un particolare del passato, il canto della fanciulla, trasfigurandolo. Ma quel particolare del mondo esterno era stato già, a quel tempo, trasfigurato dall’immaginazione, dalla “doppia visione”; non si ha solo la memoria, ma la memoria di un’illusione: le due facoltà simili sommano le loro funzioni. Ma si aggiunge ancora un filtro letterario: le immaginazioni suscitate dalla suggestione indefinita del canto della fanciulla sono anche memorie poetiche; la “doppia visione” è anche la sovrimpressione sul reale del ricordo di passi poetici particolarmente cari: in questo caso, sulla figura di Silvia che canta mentre è intenta al telaio si sovrappone il ricordo virgiliano del canto di Circe, che giunge ai Troiani di lontano nel silenzio notturno mentre veleggiano dinanzi alle coste italiche: «Solis filia lucos / adsiduo resonat cantu [...] arguto tenues percurrens pectine telas» (La figlia del Sole fa risuonare le selve del suo perpetuo canto, percorrendo col pettine sonoro le sottili tele; Eneide, VII, vv. 11-14). Si osservino le precise corrispondenze verbali: «adsiduo cantu» - «perpetuo canto»; «resonat» - «sonavan»; «percurrens ... telas» - «che percorrea la faticosa tela» (Getto). Che sul canto di Silvia si sovrapponga il ricordo letterario del canto di Circe è confermato dal fatto che il passo virgiliano è sempre stato molto caro a Leopardi, come esempio mirabile del carattere immaginoso della poesia antica, e citato in vari punti della sua opera. E non a caso è richiamato proprio poche righe dopo le osservazioni sopra citate dello Zibaldone sulle suggestioni del canto che risuona in una stanza: «E tutte queste immagini in poesia sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe [...] Vedi in questo proposito Virgilio, Eneide, VII, v. 8, ss.». Ma vi è anche un filtro filosofico: l'illusione ricuperata dalla memoria non può più essere vissuta immediatamente, ingenuamente, come negli anni giovanili. Nel tempo che si è frapposto, vi è stata la presa di coscienza filosofica del «vero», l'approdo a una visione fermamente pessimistica del mondo. L'illusione risorge comunque, prepotentemente: ma, a differenza degli anni della giovinezza, è sempre accompagnata dalla consapevolezza del vero, dell’«infinita vanità del tutto». La memoria richiama dal passato immagini di giovinezza, bellezza, gioia; ma quelle immagini si proiettano come su uno sfondo d’ombra. Anche per questo nella poesia leopardiana la realtà appare così rarefatta, smaterializzata. Non solo quelle immagini sono fantasmi dell’immaginazione e della memoria, ma sono ulteriormente assottigliate dalla consapevolezza del fatto che tutto è nulla. Per questo la poesia leopardiana è così povera di determinazioni concrete, giocata sul “non dire”: solo poco oltre, e sarebbe il silenzio, la pagina bianca. La poesia è come una sfida ostinata al silenzio e al nulla. Per questo Leopardi è sì il poeta del negativo e del nulla, ma è anche il poeta della vita. Il suo pessimismo non ha le sue radici originarie in un'attrazione morbosa del nulla, in un accarezzamento compiaciuto della sconfitta, della rinuncia a vivere, della dissoluzione, della morte. Il dato primario dell’esperienza leopardiana è, al contrario, un bisogno di pienezza vitale, di vita intensa ed energica, di gioia. Il pessimismo nasce solo come formazione reattiva, dalla delusione di queste aspirazioni profonde. E non si manifesta come rassegnazione lamentosa, ma come rivendicazione vigorosa del diritto alla felicità, come protesta generosa ed eroica, per quanto disperata, contro tutte le forze ostili che soffocano quel bisogno costitutivo dell’uomo. L’idea del nulla non è abbandono irrazionale, ma lucida e ferma conquista della ragione: e ad essa vengono sempre contrapposte le ragioni della vita. Questo spiega la sostanziale unitarietà della personalità leopardiana: non vi sono due Leopardi contraddittori fra loro, l’«oscuro amante della morte» (Musset) e il poeta eroico e titanico, ma due atteggiamenti diversi a partire da un’unica disposizione originaria, vitale ed energica: il generoso slancio verso l’illusione e l'esplorazione coraggiosa del «vero». 4 Silvia si chiude con l’immagine della «fredda morte», ma per l’intero componimento il poeta evoca nonostante tutto, dallo sfondo d’ombra del nulla, le immagini della vita e della gioia, come protesta contro la forza maligna della natura che le ha negate all'uomo. Per questo appare oggi A Silvia
654 , di un Leopardi diviso dal coninaccettabile l’immagine romantica, che risale a De Sanctis l’intelletto negatore e distrutflitto «cuore»-«intelletto», il cuore proteso verso l’illusione e e irrazionale, ma rivendicaoscuro o impuls un tore: l'aspirazione alla pienezza vitale non è uita dal poeta, nella sua perseg e alment razion mente, lucida ne zione consapevole, posizio nu 3 ia filosof protesta eroica che ha le basi nelle conquiste della sua la pena perciò vale so; miracolo del ha che stilistica La lirica è costruita con una sapienza ndo le corriverifica livelli, vari loro ai formali, e struttur le ari particol nei di esaminarne sa si spondenze con quelle concettuali e tematiche. vi», «fuggiti Ivif: o fonemic gruppo del e frequent ricorrere il 1. Livello fonico Colpisce cioè è /Silvia/: di /vi/ il È ». «salivi», «avevi», «solevi», «sedevi», «schivi», « festivi», «perivi memodalla affiorata magine quell'im di poetico, l’indizio della presenza costante, nel tessuto ria, che costituisce una trama segreta sotto la superficie del discorso (Agosti). Si può anche o dal osservare che il particolare fisico che individua la figura di Silvia, gli occhi, è connotat », fuggitivi e «ridenti distanza: a rima di sorta una con /vi/, fonema ricorrere dello stesso i «innamorati e schivi». Per quanto riguarda il linguaggio dell’«immaginar», la sensazione vaga e indefinita del canto della fanciulla è resa mediante la prevalenza della vocale /a/, che come ormai ben sappiamo, è cara al poeta perché da un’impressione di vastità: «sonavan», «canto»; la suggestione, come accade spesso, è accentuata dalla nasale o dal gruppo /n/ più consonante che segue la /a/, che dilata ulteriormente il suono. Un discorso affine vale per il celebre verso, «e quinci il mar da lungi, e quindi il monte», in cui la suggestione di indeterminata vastità spaziale è sottolineata sia dalla /a/ di «mar», sia dal ricorrere frequente (quattro volte) del gruppo /n/ più consonante. 2. Livello morfologico. Risalta l'opposizione dei tempi verbali, imperfetto vs presente. L’imperfetto è il tempo che indica continuità nel passato: quindi segna l’immersione nella durata indefinita dei sogni giovanili, è il tempo della memoria e dell’illusione; per questo domina nelle strofe 1, 2, 3 e 5, che sono quelle che rievocano il passato. La continuità dell’imperfetto è interrotta nelle strofe 4 e 6, in cui il poeta non ricorda più, ma trae un amaro bilancio, vibrante della sua protesta contro la natura che nega la gioia all'uomo: qui irrompe il presente, il tempo del «vero», della consapevolezza, della delusione. Ma si noti, alla strofa 5: «perwi, o tenerella», «e non vedevi il fior degli anni tuoi», «non ti molceva il core»: la delusione delle speranze di Silvia è espressa con l’imperfetto; la memoria addolcisce la durezza del vero. 8. Livello lessicale. Il lessico risponde alla poetica dell’indefinito: nelle strofe della memoria e dell’illusione sono disseminate quelle parole vaghe che Leopardi considera sommamente poetiche: «fuggitivi», «quiete» (parola cara alla poesia idillica leopardiana: «e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / posa la luna» [La sera del dì di festa], «tien quelle rive altissima quiete» [La vita solitaria]), «perpetuo», «vago», «odoroso», «da lungi», «dolce». Vi sono anche termini «pellegrini», suggestivi per la loro patina arcaica, che li allontana dal trito uso comune: «rimembri», «veroni», «ostello», «giovanezza». 4. Livello sintattico. La sintassi è molto piana e limpida, fatta di periodi brevi, con poche subordinate. Le subordinate sono prevalentemente temporali: «quando beltà splendea», «allor che all’opre femminili intenta / sedevi», «pria che l’erbe inaridisse il verno»: è il segno che domina la dimensione temporale del flusso di memoria. Mancano quei nessi sintattici più razio-
Il livello fonico
Il gruppo /vi/
Il fonema /a/
Livello morfologico Imperfetto e presente
Livello lessicale Le parole vaghe
Livello sintattico
cinanti, come sono quelli causali, consecutivi, concessivi. Nelle strofe 1, 2, 3, 5, quelle del
ricordo, prevalgono le proposizioni enunciative, in corrispondenza con la pura contemplazione delle immagini della memoria. Nelle strofe 4 e 6, invece, la sintassi si inarca, si fa più mossa e tesa: ricorrono esclamazioni, interrogazioni; la tensione è accresciuta dalle insistite anafore,
che danno un andamento più concitato al discorso: «che ... che ... che», «0 ... 0», «perché ... perché», «anche ... anche», «come ... come», «questo ... questi ... questa». È il momento riflessivo, cherompeilflusso contemplativo della memoria, e sfociainmosse di sdegno e di protesta. . 5.Livello retorico. Sì può notare un numero di immagini metaforiche e di personificazioni infinitamente minore che non nelle canzoni: la fanciulla che sale il limitare di gioventù, ilfiore degli anni, la natura che inganna (ma la natura non è quasi più sentita come personificazione retorica), la speranza compagna della giovinezza del poeta, che perisce e indica di lontano la morte e la tomba. L’identificazione della speranza personificata con la figura diSilvia è discretissima, del tutto sottintesa, e si offre con perfetta naturalezza, senza dare ] impressione di alcun artificio retorico. Non si ha dunque lo stile «ardito», fortemente metaforico, che è proprio del linguaggio del «vero», di un atteggiamento titanico, esasperatamente agonistico. Non a caso le figure più insistite compaiono nelle strofe 4 e 6, quelle appunto
dedicate al «vero».
Leopardi
Livello retorico
La speranza e Silvia
655 Livello metrico e ritmico La libertà
metrica
I settenari
dissimulati DS rg pl
Le pause
i
6. Livello metrico e ritmico. La metrica è caratterizzata da una modulazione molto piana, pervasa da una segreta musicalità. La modulazione è creata soprattutto dalla libertà assoluta della struttura metrica, dall’alternarsi degli endecasillabi e dei settenari senza uno schema fisso, dalle rime liberatamente ricorrenti. Questa libertà metrica asseconda perfettamente quella tendenza alla vaghezza e all’indefinitezza delle immagini, che è il motivo centrale della poetica leopardiana. Nel contesto della poesia lirica italiana del primo Ottocento, ancora legata a schemi strofici fissi, la libertà metrica è una grande innovazione di Leopardi; ed è inaugurata proprio da questo canto. Al fluire melodico contribuisce anche un gioco metrico per cui, all’interno degli endecasillabi, assumono spesso rilievo dei più agili
settenari, separati da cesure dal resto del verso: «e tu, lieta e pensosa, // il limitare»; «era il maggio odoroso; Il e tu solevi»; «e quinci il mar da lungi, Il e quindi il monte»; «che speranze, che cori, Il o Silvia mia»; «perivi, 0 tenerella. // E non vedevi»; «La speranza mia dolce: Il agli anni miei». Di conseguenza la poesia viene ad avere una duplice modulazione: una manifesta, l’altra più segreta, dissimulata al di sotto della prima. La fluidità musicale è data anche dal fatto che moltissimi endecasillabi non presentano pause interne: vv. 2, 4, 10, 12, 18, 19, 20, 22, 25, 32, 35, 40, 41, 45, 46, 54, 58, 61. Questi versi si addensano soprattutto in concomitanza col motivo del canto di Silvia: al vago e indefinito dell'immagine corrisponde anche l’estrema scorrevolezza musicale; al contrario sono più rotti da pause i versi riflessivi, di protesta. La scorrevolezza è data anche dallo scarso uso di enjambements fortemente inarcati: in genere l’unità metrica del verso e quella sintattica coincidono, e ciò dà un senso di piana fluidità. Gli enjambements sono non a caso più frequenti nell’ultima strofa, dove, in corrispondenza col motivo del «vero», l'atteggiamento dell’io lirico è più risentito ed il tono si fa più vibrante e concitato: «peria fra poco / la speranza mia dolce»; «negaro i fati / la giovanezza»; «questi / i diletti». L'’enjambement mette in rilievo le parole chiave, ciò verso cui l’uomo si protende, e che la natura maligna nega, la speranza, la giovinezza, i diletti; e l’allontanamento di queste parole al di là del confine del verso sembra sottolineare l’irraggiungibilità delle realtà che esse designano. Diverso è il caso di «sonavan le quiete / stanze»; qui con l’enjambement viene dato rilievo a «quiete», parola cara all’“idillio” leopardiano, come si è visto, che qui ha una funzione fondamentale perché indica l'atmosfera di raccolta intimità che è propria del sogno giovanile. La dieresi («quiete») prolunga la parola in fin di verso, accentuando il senso di stasi contemplativa.
151 PROPOSTE DI LAVORO . Rispetto all'aspetto formale del componimento riflettere sul: a) livello lessicale. Ci sono parole che Leopardi indica come «poeticissime e piacevoli»? Ci sono termini dotti, arcaici? Del linguaggio quotidiano? Ci sono parole-chiave? b) livello grammaticale. Come viene usata l’aggettivazione? In particolare qual è la funzione degli aggettivi spesso accoppiati, ad esempio, «ridenti e fuggitivi»? Quali tempi vengono usati? c) livello retorico. Ci sono interrogazioni? Apostrofi? Anafore? Metafore? Interiezioni?
. Raccogliere tutte le espressioni che si riferiscono tanto all’aspetto fisico e psicologico quanto rispetto alle attività svolte da Silvia e riflettere sull’immagine complessiva del personaggio. Esso assume valore simbolico? (tenere presente, in particolare, l’ultima strofa). . Compiere analoga operazione per il personaggio maschile, l’io lirico.
. Come viene caratterizzata la natura? (cfr. vv. 36-39). In quale fase del pensiero di Leopardi si colloca tale concezione? . Raccolte tutte le espressioni riferite al tempo e allo spazio rappresentati nella canzone, individuare a quale tipo di poetica leopardiana rimandano. . Riflettere sul parallelismo tra il ciclo naturale e la vita umana istituito nella strofa 5.
7. Perché in questo testo (come nella Sera del dì di festa, nel Passero solitario, nelle Ricordanze) il motivo delle speranze giovanili è associato alla festa? A Silvia
656
ì
di Nerina (cfr. Le Ricordanze, T152, strofa 7). 8. Procedere ad un confronto tra il personaggio di Silvia e quello al telaio. Anche la Lucia PARO i 9. Silvia è una giovane del popolo, rappresentata mentre lavora ja le due igure dini are per confrontare rappresentata mentre lavora. Prendere spunto da questo particol nel 1828). Si può ricavare Silvia A 1827, nel nate quasi contemporaneamente (I promessi sposi
la
diversa
visione del mondo dei due autori.
Le ricordanze Fu composto a Recanati, tra il 26 agosto e dl 1 2 settembre del 1829, e pubblicato per la prima volta, come tutti è grandi idilli, nell'edizione R fiorentina dei Canti (1831). Metro: endecasillabi sciolti, raggruppati in strofe di diversa lunghezza. 1. Vaghe: belle, dolci, incantevoli; l’agget-
Vaghe! stelle dell’Orsa?, io non credea
tivo conferisce una connotazione che sta fra il lontano e l’indefinito. 2. Orsa: si tratta della costellazione del-
l’Orsa Maggiore. 3. per uso: come era mia abitudine da
0
na
. ragionar: colloquiare
fra sé.
Tornare ancor per uso? a contemplarvi
5.
Di questo albergo? ove abitai fanciullo, eee
Rap
Dese
E delle glole mie audi la fine®.
5. albergo: la casa paterna.
Quante immagini’ un tempo, e quante fole Creommi? nel pensier l'aspetto! vostro
6. e ...fine: nel passaggio dalla fanciullezza alapui, il poeta 6 la Sa sa il dolore, le speranze lo abbandonano; i
concetto è contiguo a quello espresso in A Silvia, versi 60-61: «All’apparir del vero
Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar‘ con voi dalle finestre
.
10
:
111
i SHorio zolla’,
E delle luci SE COMPAZIA Che, tacito, seduto in verde
| tu, (speranza) misera, cadesti [...]».
Delle sere io solea passar gran parte
aziona 8. fole: fantasie, illusioni, sogni.
Mirando* canto il ? cielo, ; edIl ascoltando il 14 Il
9. creommi: suscitò in me.
10. l’aspetto: la vista. de He e delle altre costella3 zioni
Della rana rimota alla campagna
15
la
E la lucciola errava appo” le siepi sussurrando Ein2a su l’aiuole, al vento ì a ,
12. in... zolla: su di un prato erboso.
I viali odorati, edi cIpressi
13. mirando: guardando, osservando con
Là nella selva!5; e sotto al patrio tetto!”
attenzione; ritorna alla memoria il verso
Sonavan
GeietInfinzto, 14. della rana +
rimota
È Sea l’onomatopea: sa (in pochi
20
4
voci alterne La e le tranquille
Opre!° de’È servi.dee Ecache p
... campagna: «della rana
sperduta, lontana (rimota) per la campa-
pensieriCI IMMENSI, i i pia
Che dolci sogni mi spirò”°
la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri, S
versi ritornano aggettivi
*
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
e verbi tipici della lingua di Leopardi: vaghe, mirando, rimota).
Io Pai PESA:
15. appo: dal latino apud, presso. 16. sussurrando ... selva: «mentre per il vento i viali profumati e i cipressi lontani nel bosco sussurravano». 17. sotto ... tetto: nella casa paterna. 18. voci alterne: l’alternarsi dei colloqui. 19. opre: le mansioni domestiche. 20. mi spirò: mi ispirò. 21. arcani ... mio: «immaginando, promettendo (fingendo) alla mia vita futura mondi misteriosi e felicità sconosciute». 22. Ignaro ... cangiato: «inconsapevole del mio destino e di quante volte in seguito sarei stato disposto a scambiare volentieri
Felicità fingendo al viver mio!?! Ignaro del mio fato, e quante volte
Leopardi
i
25
arcani mondi,
arcana
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato?. Né mi diceva il cor che l’età verde Sarei dannato a consumare? in questo con la morte la mia vita attuale (questa), piena di dolore e priva di qualsiasi conforto (nuda)».
23. che ... consumare:
«che sarei stato
condannato a sciupare la giovinezza (età verde)».
657
24. natio ... selvaggio: Recanati. | 25. intra... vil: in mezzo a persone gros| solane, volgari e spregevoli. 26. cui ... saper: «per la quale la cultura ed il sapere sono nomi estranei, spesso oggetto di derisione e divertimento». 27. per ... segno: «non tanto per invidia, dal momento che (che) non mi considera (tiene) superiore a sé, ma perché ritiene (estima) che tale, cioè superiore, io mi consideri (mi tenga) dentro di me (in cor mio), malgrado io non manifesti (non ne fo segno) a nessuno (a persona) la mia superiorità». 28. occulto: ignorato. 29. ed ... divengo: «e divento scontroso, intrattabile (aspro) contro la mia natura (a forza) tra la moltitudine di coloro che rivelano ostilità verso di me». 30. qui ... rendo: «qui metto da parte i sentimenti di compassione e la pratica del bene e divento (mi rendo) disprezzatore del genere umano». 31. per ... appresso: «a causa degli uomini gretti come animali (greggia) che mi circondano». 32. più ... l’allor: più della notorietà (la fama) e della gloria poetica, l’allor. 33. lo spirar: il respirare, la vita. 34. ti perdo: il poeta si rivolge direttamente al caro tempo giovanil, che va unito all'espressione vocativa del verso 49, O dell’arida vita unico fiore. 35. soggiorno disumano: non fatto per gli uomini. 36. Viene ... borgo: «dalla torre del borgo, (la torre della piazza principale di Recanati) portati dal vento, giungono i rintocchi delle campane che suonano le ore, un richiamo al presente ed un ulteriore stimolo a ricordare». 87. Era ... notti: «Questi rintocchi erano motivo di conforto, mi ricordo, durante le mie notti insonni». 38. quando ... mattin: «quando, ancora bambino,
30
35
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
40
45
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza Tra lo stuol de’ malevoli divengo”: Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, E sprezzator degli uomini mi rendo, Per la greggia ch’ho appresso*!: e intanto vola Il caro tempo giovanil; più caro Che la fama e l’allor*, più che la pura Luce del giorno, e lo spirar**: ti perdo Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano *, intra gli affanni, O dell’arida vita unico fiore. 50
55
60
al buio, io restavo insonne, a
causa di ricorrenti paure, attendendo ansiosamente le luci dell’alba». Il poeta ricorda frequentemente le angosce dell’infanzia ed il sollievo che il battito delle ore gli arrecava: «Mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna annuvolata e caliginosa allo stridere delle ventarole, consolato dall’orologio della torre» (Appunti e ricordi, 1819). 39. onde ... sorga: «da cui non derivi (torni) al mio animo (dentro) un'immagine del passato e da cui non si origini un piacevole ricordare». 40. Dolce ... se: il ricordo, di per sé, è piacevole. 41. van desio ... fui: «un inutile rimpianto del passato (inutile perché il passato non può ritornare), benché triste, e constatare che l’esistenza è compiuta». 42. Quella ... campagna: il poeta presenta alcuni dettagli della casa paterna; il loggiato rivolto ad occidente (agli estremi raggi del dì), gli affreschi (queste dipinte mura), quadri e disegni di scene pastorali (quei figurati armenti e il Sol che nasce | su romita campagha).
Natio borgo selvaggio”, intra una gente Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo, Son dottrina e saper; che m’odia e fugge, Per invidia non già, che non mi tiene Maggior di se, ma perché tale estima Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori A persona giammai non ne fo segno?”.
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70
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Viene il vento recando il suon dell’ora Dalla torre del borgo. Era conforto Questo suon, mi rimembra, alle mie notti?”, Quando fanciullo, nella buia stanza, Per assidui terrori io vigilava, Sospirando il mattin*. Qui non è cosa Ch'io vegga o senta, onde un’immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga”. Dolce per se‘; ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui*!.
Quella loggia colà, volta agli estremi Raggi del dì; queste dipinte mura, Quei figurati armenti, e il Sol che nasce Su romita campagna‘, agli ozi miei Porser mille diletti allor che al fianco M°era, parlando, il mio possente errore Sempre, ov’io fossi*. In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi, intorno a queste Ampie finestre sibilando‘ il vento, Rimbombaroi sollazzi e le festose Mie voci al tempo che l’acerbo indegno Mistero delle cose a noi si mostra Pien di dolcezza‘; indelibata, intera Il garzoncel, come inesperto amante, La sua vita ingannevole vagheggia, E celeste beltà fingendo ammira“.
43. agli ... fossi: «tutti questi particolari destarono in me infinite fantasie nei momenti di riposo quando mi era a fianco l'immaginazione (definita possente errore perché creatrice di tante illusioni) ovunque fossi».
44. sibilando: mentre sibilava.
45. al ... dolcezza: «in quell’età in cui il mistero delle cose, crudele e abietto, si rivela a noi illusoriamente dolce». 46. indelibata ... ammira: «il fanciullo, come amante inesperto, si sofferma ad
Le ricordanze
655 immaginare la vita non ancora vissuta (indelibata, letteralmente intatta) ed integra (intera), la vita destinata a deluderlo (ingannevole) e, creandola con la sua immaginazione (fingendo), contempla una bellezza che non appartiene a questa terra
(celeste)».
;
80
a
47. ameni inganni: un ossimoro; inganni sì, ma che recano piacere. 48. per ... pensieri: «per quanto passi il
tempo e cambino sentimenti ed idee». 49. intendo: capisco bene. 50. mero desio: puro e semplice desiderio, destinato a non realizzarsi. 51. sebben ... veggo: «sebbene la mia vita sia priva di ogni scopo, sebbene la mia condizione sia solitaria ed oscura, mi rendo ben conto che il destino mi toglie poco, perché la sorte degli altri uomini non è molto più felice». 52. qualvolta: ogni qual volta. 53. ed ... primo: «e a quel piacevole fantasticare proprio della mia gioventù» (cfr. verso 155). 54. che m’avanza: «tutto quello che mi rimane di così grande speranza è la morte» (cfr. Petrarca, Rime, CCLXVIII, v. 32 e Foscolo, In morte del fratello Giovanni, v. 12). 55. sarammi allato: mi sarà a fianco. 56. quando ... valle: «quando la terra diventerà per me un luogo estraneo». 57. e... l’avvenir: «ed il futuro non si stenderà più davanti al mio sguardo». 58. di ... risovverrammi: «certamente mi ricorderò di voi, speranze di un tempo». 59. imago: «immagine, ricordo delle speranze, delle aspettative giovanili». 60. farammi acerbo: mi renderà amaro. 61. indarno: inutilmente. 62. e ... d’affanno: «e mescolerà con l’affanno la dolcezza della morte» (dì fatal). 63. nel ... desio: nel contrastante accumularsi (tumulto) di gioie, angosce, desideri. 64. colà: nel giardino (di cui ha parlato in precedenza). 65. pensoso ... cessar: col proposito di porre fine (cfr. Zibaldone, 82, 2: «Io era oltremodo
annoiato
85
90
95
100
Leopardi
Ed a quel caro immaginar mio primo; Indi riguardo il viver mio sì vile E sì dolente, e che la morte è quello Che di cotanta speme oggi m’avanza”‘; Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto Consolarmi non so del mio destino. E quando pur questa invocata morte Sarammi allato”, e sarà giunto il fine Della sventura mia; quando la terra Mi fia straniera valle*, e dal mio sguardo Fuggirà l’avvenir®; di voi per certo Risovverrammi*; e quell’imago?’ ancora Sospirar mi farà, farammi acerbo L’esser vissuto indarno£, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d’affanno®. E già nel primo giovanil tumulto 105
Di contenti, d’angosce e di desio,
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Morte chiamai più volte, e lungamente Mi sedetti colà su la fontana Pensoso di cessar* dentro quell’acque La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse*,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore De’ miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva®: e spesso all’ore tarde, assiso Sul conscio letto, dolorosamente 115
68. assiso ... letto: «seduto sul letto, testi-
mone delle mie sofferenze di malato». 69. lamentai ... spirto: «affidai al silenzio e alla notte il compianto per il mio spirito in procinto di venir meno». 70. ed... canto: «e, sul punto di spegnermi (in sul languir), cantai a me stesso un canto funebre». (Si tratta della cantica Appressamento della morte composta nel 1816). 71. vezzosi: pieni di attrattive. » 72. al... donzelle: «all’uomo in estasi per la prima volta le giovani donne sorridono». 73. la ... porge: gli porge aiuti (gli = al rapito mortal).
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie La fortuna, ben veggo?”!. Ahi, ma qualvolta” A voi ripenso, o mie speranze antiche,
della vita, sull'orlo
della vasca del mio giardino»). 66. Poscia ... forse: «In seguito, per una malattia misteriosa, condotto in pericolo di vita». 67. il fiore... cadeva: ancora un’eco foscoliana: «Il fiore dei tuoi gentili anni caduto» (In morte del fratello Giovanni, v. 4).
O speranze, speranze; ameni inganni‘ Della mia prima età! sempre, parlando, Ritorno a voi; che per andar di tempo, Per variar d’affetti e di pensieri‘, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo‘, Son la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto, Inutile miseria. E sebben vòti
120
125
Alla fioca lucerna poetando, Lamentai co’ silenzi e con la notte Il fuggitivo spirto®’, ed a me stesso In sul languir cantai funereo canto”. Chi rimembrar vi può senza sospiri, O primo entrar di giovinezza, o giorni Vezzosi”!, inenarrabili, allor quando Al rapito mortal primieramente Sorridon le donzelle”; a gara intorno Ogni cosa sorride; invidia tace, Non desta ancora ovver benigna; e quasi (Inusitata maraviglia!) il mondo La destra soccorrevole gli porge”, Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
659 74. inchinando: inchinandosi a lui. 75. mostra ... chiami: «sembra accoglierlo ed invocarlo come padrone». 76. E ... può: «quale uomo può dirsi inesperto della sventura» (cfr. Pensieri, XLII: «[...] Certamente di nessuno che abbia passata l’età di 25 anni, subito dopo la quale incomincia il fiore della gioventù a perdere, sì può dire con verità, se non fosse di qualche stupido, ch'egli non abbia esperienze di sventure [...]»). TT. se ... stagion: «se per lui è già trascorso quel periodo denso di attrattive». 78. Nerina: anche questo, come quello di Silvia, è nome tratto dall’Aminta; secondo alcuni biografi si tratterebbe di Teresa Fattorini, secondo altri di una “tessitora”, Maria Belardinelli, morta nel 1827.
79. gita: andata. 80. che ... trovo: «giacché qui io trovo di te il solo ricordo». 81. ond’eri ... favellarmi: «dalla quale eri solita parlarmi». 82. ed ... riluce: «dalla quale si riflette
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135
O Nerina”! e di te forse non odo Questi luoghi parlar? caduta forse Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita”, 140
145
mestamente».
83. siccome ... giorno: come un tempo. 84. scolorarmi: farmi impallidire. Nel descrivere l’effetto provocato su di sé dalle parole pronunciate da Nerina, il poeta allude alla famosa battuta di Francesca da Rimini nella Divina Commedia (Inferno, V, v. 131: «[...] e scolorocci il viso»). 85. è sortito: è toccata in sorte. 86. odorati colli: odorosi, profumati; sta ad indicare l’aspetto attraente della natura. L'aggettivo odoroso/odorato è frequente in Leopardi: si trova in questo canto al verso 16 («i viali odorati»); in A Silvia, v. 13 («Era il maggio odoroso»); nella Ginestra, vv. 5-6 («odorata / ginestra») e 298 («selve odorate»). 87. Ivi danzando: «percorrevi (ivi) la vita a passo di danza» (la metafora indica lo slancio gioioso della vita giovanile). 88. quel ... immaginar: «quel fiducioso abbandonarsi a fantasticare sul futuro» (cfr. v. 89). 89. quando ... giacevi: «quando il crudele destino (fato) spegneva la luce del tuo sguardo e tu morivi (Se la vita è movimento — ivi danzando - e luce - splendea [...] quel lume / di gioventù -, la morte è buio — spegneali il fato — ed immobilità — giacevi -)». 90. anco: ancora. 91. se ... movo: «se mi reco a convegni festoso». 92. ramoscelli ... fanciulle: per la festa di calendimaggio (1° maggio) vigeva nelle campagne l’usanza antichissima che i giovani portassero cantando alle fanciulle ramoscelli fioriti. Era un auspicio di amore e fecondità, che coincideva col rinascere della natura a primavera. 93. piaggia: luogo, prato. 94. miro: guardo, vedo.
Suo venir nella vita, ed inchinando” Mostra che per signor l’accolga e chiami?” Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo Son dileguati. E qual mortale ignaro Di sventura esser può”, se a lui già scorsa Quella vaga stagion”, se il suo buon tempo, Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
150
Che qui sola di te la ricordanza Trovo®°, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra, Ond’eri usata favellarmi8!, ed onde Mesto riluce® delle stelle il raggio, E deserta. Ove sei, che più non odo La tua voce sonar, siccome un giorno83, Quando soleva ogni lontano accento Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto Scolorarmi?*4 Altro tempo. I giorni tuoi Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri Il passar per la terra oggi è sortito*, E l’abitar questi odorati colli*.
Ma rapida passasti; e come un sogno Fu la tua vita. Ivi danzando”; in fronte La gioia ti splendea, splendea negli occhi 155
Quel confidente immaginar*, quel lume Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi®. Ahi Nerina! In cor mi regna 160
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L’antico amor. Se a feste anco” talvolta, Se a radunanze io movo”, infra me stesso Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle”, Dico: Nerina mia, per te non torna Primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita Piaggia” ch’io miro”, ogni goder ch’io sento, Dico: Nerina or più non gode; i campi, L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno Sospiro mio”: passasti: e fia compagna D’ogni mio vago immaginar, di tutti I miei teneri sensi, i tristi e cari Moti del cor, la rimembranza acerba”.
95. eterno ... mio: mio eterno motivo di
rimpianto. 96. e... acerba: «e il crudele ricordo di te
sarà compagno di ogni mio dolce immaginare, di tutti i miei più teneri sentimenti, e delle emozioni tristi e care».
Le ricordanze
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marciscono. 30. ponete rose: i Greci e iRomani erano | 40
Freddo è qua giù: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda su la vita che passa l’eternità d’amore.
soliti incoronarsi durante i banchetti (qui assunti come simbolo di vita piena e gioiosa).
(31 agosto 1879)
ANALISI DEL TESTO La poesia, a nostro avviso, è un’eloquente riprova di come la tematica “pagana” e solare sia cercata da Carducci per esorcizzare l’urgere di inquietanti e angosciose immagini di morte (cfr. analisi al T182). All’inizio l’io lirico si immerge nella natura estiva, tutta fremente di vita, per sfuggire al senso di oppressione causatogli dalle «bianche e tacite case de i morti». Nella natura si inserisce poi l’immagine della bellezza femminile, che evoca a sua volta l’idea dell’amore: è dunque un’immagine dal punto di vista funzionale equivalente a quella che precede. L'immagine della morte, inizialmente scacciata, si ripropone però ostinatamente. Il poeta invita la donna a prestare ascolto alla voce dei morti che giunge di sotterra. Essi invitano
paganamente e edonisticamente a godere la vita, la giovinezza, l’amore, la bellezza, la natura: ma l’immagine fisica della morte, macabra e ripugnante (le corone di fiori che si squagliano «putride» intorno agli «umidi teschi») si impone con rilievo fortissimo, oscurando la visione della vita. L’invocazione finale all’amore, che proviene dal freddo e dalla solitudine del mondo sotterraneo, esprime tutta l'angoscia che l’idea della morte genera nel poeta, inducendolo
a protendersi disperatamente verso la luce e il calore della vita. Proprio questo struggente vagheggiamento della vita è la spia di quell’angoscia “romantica” che è il fondo originario della visione carducciana. La poesia vorrebbe essere un “pagano” inno alla gioia e alla pienezza vitale: ma il suo nucleo vero e profondo è il senso ossessivo e incombente della morte.
Carducci
Le immagini solari come esorcismo delle immagini di morte
851 Adi pe
PROPOSTE
DI LAVORO
®®
1. Ritrovare i termini aulici, i latinismi, tutte le espressioni che alludono al colore. Perché Carducci usa il termine «messidoro» (v. 4) per indicare il periodo giugno-luglio?
2. Perché il sole è identificato con un dio? 3. Ricostruire il sistema delle opposizioni continuando lo schema:
«luce che inonda la terra cantano le cicale»
«bianche e tacite case dei morti sotterra»
4. Individuare tutti gli elementi del quadro di natura che rimandano al motivo della solarità pagana e della vitalità gioiosa. 5. II personaggio femminile quali caratteristiche presenta? (È casuale la scelta del nome Delia? C’è contrasto coloristico nella sua descrizione? Cfr. questo personaggio con Lidia di Alla stazione in una mattina d'autunno,
T187).
6. Quali morti del passato vengono rievocati? (cfr. gli avi umbri, gli etruschi...). 7. Confrontare con Pianto antico (T184) per il sistema delle opposizioni mondo dei vivi / mondo dei morti.
Pianto antico! Fu scritta nel 1871, in memoria del figlio Dante, morto l’anno precedente. E compresa nelle Rime nuove. Metro: odicina anacreontica, composta di quattro quartine di settenari, di cui l’ultimo tronco. Rime: abbc; il verso tronco rima coi versi
conclusivi delle altre strofe.
1. antico: perché sono sciagure che da sempre hanno colpito l’uomo, ma anche perché, come
precisa
Carducci
stesso,
lo
spunto è tratto da un antico poeta greco, Mosco, che afferma che la primavera torna
sempre a fiorire, ma non tornano i morti. - 2. La pargoletta: nella prima stesura piccoletta. » 3. Il verde melograno: un albero di melo-
4
L’albero a cui tendevi La pargoletta* mano, Il verde melograno? Da’ bei vermigli fior,
8.
Nel muto* orto solingo Rinverdì tutto or ora E giugno lo ristora Dilucee di calor.
grano si trovava in un orto vicino all’abitazione bolognese della famiglia Carducci, in via Broccaindosso. 4. muto: perché non vi risuona più la voce del bambino. 5. Tu fior de la mia pianta: metafora: il figlioletto rappresenta il fiore della pianta costituita dal padre. 6. Tu: anafora, come sei/sei (vv. 13-14);
Tu fior de la mia pianta? 12
Percossa e inaridita, Tu® de l’inutil vita Estremo unico fior”,
16
Sei Sei Né Né
ne la terra ne la terra il sol più ti ti risveglia
fredda, negra; rallegra amor.
né/né (vv. 15-16); ma per un rigoroso esame formale della odicina si rinvia all’analisi del testo e alla lettura critica di Marchese: Lettura semiotica di «Pianto antico», CAT. T. Estremo ... fior: scrive Carducci: «Mi
ero avvitiechiato a lui con quanto amore mi restava nell’anima».
Pianto antico
852 ANALISI DEL TESTO Anche questo componimento presenta la tematica centrale della poesia carducciana, l’opposizione luce-ombra, vita-morte. Le due polarità in opposizione sono nettamente ripartite tra le prime due strofe e le ultime due. Nelle prime due dominano immagini di luce e di calore, con intense note coloristiche («verde», «vermigli», «rinverdì»), e rendono il senso della vitalità prorompente della natura primaverile. A questi motivi, nelle ultime due si contrappone il motivo dell’aridità, del freddo, del buio, dell’assenza di gioia vitale e d’amore. La serie delle opposizioni si può così ricostruire sulla base della trama delle parole chiave: rinverdì luce calor amore
vs vs vS vS
La luce e la vita Ilbuio e la morte
inaridita terra negra terra fredda inutil vita
Ma già nella prima parte, pur dominata dalla solarità, è presente una nota cupa, che anticipa il clima della seconda parte: il «muto orto solingo». E un’immagine di morte: il giardino è muto perché non risuona più dei giochi del bambino. L’io lirico si protende disperatamente, ma vanamente, verso immagini di solare vitalità, per scacciare l’immagine della morte che l’ossessiona. È una tematica strettamente affine a quella delle due poesie precedenti (per un’analisi più ampia, e per conclusioni diversamente orientate, si veda la lettura di Angelo Marchese, C47).
PROPOSTE
DI LAVORO
1. Confrontare l’analisi del testo con la lettura di Marchese (C47): quali aspetti della poesia vengono presi in considerazione? a quali conclusioni giungono le due analisi? Scegliere un’interpretazione, dandone ampia motivazione.
2. Procedere ad un confronto con il testo precedente (T183).
Presso una certosa! Datata 16 novembre 1895, fa parte di Rime e ritmi; rappresenta quindi l’ultima stagione della poesia carducciana. Metro: è ancora un metro «barbaro», che vuol riprodurre il sistema ionico a minore. Ogni strofa consta di due ottonari doppi, rimati fra loro, un ottonario piano, un senario sdrucciolo.
1. certosa: monastero
Ì
certosino.
2. mestamente pertinace: tra la vegeta-
zione segnata dalla stagione autunnale il
verde — che sta ad indicare la vita - resi-
ste in modo ostinato. 3. senza ... sitoglie: il distacco
della foglia
dal ramo si verifica senza vento, secondo un processo naturale.
Carducci
Da quel verde, mestamente pertinace? tra le foglie Gialle e rosse de l’acacia, senza vento una si toglie?: E con fremito leggero 4
SR
Par che passi un'anima.
Velo argenteo par la nebbia su ’l ruscello che gorgoglia
Tra la nebbia nel ruscello RA cello
Che sospira il cimitero, &exDan cipressi, fievole?
cad
dersi
i cade a perdersi la foglia.
i
n
853
bi
12
> DE: i A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima mia Il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!
Già ... prèsago: che già avverte i segni |4.Ares 5. 0 padre Omero: invoca Omero, poeta
della sua giovinezza, perché allieti la sua anima prima della morte, come il sole rallegra il bosco che pure già avverte l’inverno alle porte.
Improvviso rompe il sole sopra l’umido mattino, Navigando tra le bianche nubi l’aere azzurrino: Si rallegra il bosco austero Già del verno prèsago*.
16 ,
Il tuo canto, o padre Omero?, Pria che l’ombra avvolgami! È (16 novembre 1895)
ANALISI DEL TESTO Luce e ombra, vita e morte
La poesia offre un’ultima manifestazione della tematica più volte sottolineata: l’opposizione luce-ombra, il protendersi verso la luce della vita, che si identifica con la poesia classica («il tuo canto, o padre Omero») in contrapposizione con l’ombra della morte che avanza («pria che l’ombra avvolgami!»). La poesia è però tipica della maniera dell’ultimo Carducci: non più tensione aulica, toni sonoramente enfatici, immagini plastiche e nette, intense notazioni coloristiche, ma «una maniera sospirata, sussurrata, tutta lievi tocchi, tutta sfumature» (Getto).
PROPOSTE
DI LAVORO
È
1. In quale misura l’attenzione al colore è ancora elemento importante del testo? 2. Quali paragoni e metafore sono presenti nel testo? 3. Rispetto alla trama fonica, quali sono gli accenti, le pause? Spini
veccanannna
Idillio maremmano Scritta nel settembre 1872, è raccolta nelle Rime nuove. Metro: terzine di endecasillabi. Rime ABA BCB CDC, ecc.
Co ’1 raggio de l’april nuovo che inonda Roseo la stanza tu sorridi ancora Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda!; 1. tu sorridi ... bionda: improvvisamente
torna alla memoria questa figura femmi-
legata al tempo giovanile. nile, 2. obliò: ti aveva dimenticato. 3. tant’ora: tanto tempo trascorso. 4. di tumulti oziosi: di lotte ed affanni inualle polemiche letterarie e Ca
politiche. 5. senza ... tu: «di certo non hai passato
la vita in solitudine e malinconia».
E il cuor che t’obliò?, dopo tant’ora*
5
Di tumulti oziosi* in te riposa,
O amor mio primo, o d’amor dolce aurora.
Ove sei? senza nozze e sospirosa
; i i Non passasti già tu°; certo il natio
Borgo ti accoglie lieta madre e sposa; Idillio maremmano
854 10
15
Ché il fianco baldanzoso® ed il restio Seno a i freni del vel” promettean troppa Gioia d’amplessi al marital desio*.
Forti figli pendean da la tua poppa Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando? Al mal domo!° caval saltano in groppa. Com'eri bella, o giovinetta, quando Tra l’ondeggiar! de lunghi solchi uscivi Un tuo serto! di fiori in man recando,
6. baldanzoso: florido. 7. restio ... del vel: il seno riluttante, per la sua prosperità, alle costrizioni dell’abito. 8. marital desio: desiderio amoroso del marito. 9. un tuo sguardo cercando: cercando di cogliere nell'espressione dei tuoi occhi un segno di compiacimento. 10. mal domo: non ancora domato (si ricordi che la scena è collocata in Maremma, ricca di cavalli selvaggi). 11. Tra l’ondeggiar: nel campo di grano, tra le spighe che ondeggiavano al vento. 12. serto: mazzo. 13. cigli vivi ... aprivi!: «sotto le mobili ciglia spalancavi gli occhi azzurri lampeggianti di un fuoco ardente» (nella donna è rispecchiato il carattere selvaggio della Maremma). 14. ’1 cìano: il fiordaliso. 15. flava: bionda. 16. Sparso ... melogran: il sole splendeva attraverso i rami del melograno. 17. siccome ... dea: come al passaggio di Giunone, la dea a cui era consacrato. Le bellezze di Maria sono giunoniche.
18. indi: da allora.
20
Alta e ridente, e sotto i cigli vivi Di selvatico fuoco lampeggiante Grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!8! Come ’1 cìano!' seren tra ’1 biondeggiante Or de le spiche, tra la chioma flava! Fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante
25
La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
Sparso tra’ verdi rami il sol ridea Del melogran*, che rosso scintillava. Al tuo passar, siccome a la sua dea’,
Il bel pavon l’occhiuta coda apria 30
Guardando, e un rauco grido a te mettea. Oh come fredda indi! la vita mia,
Come oscura e incresciosa!’ è trapassata! Meglio era sposar te, bionda Maria! 35
19. incresciosa: fastidiosa.
Meglio ir tracciando? per la sconsolata? Boscaglia al piano il bufolo? disperso, Che salta fra la macchia e sosta e guata”,
20. tracciando: andando sulle tracce, inse-
Che sudar dietro al piccioletto verso?! Meglio oprando” obliar?, senza indagarlo,
guendo. 21. sconsolata: desolata.
22. il bufolo: il bufalo. 28. guata: si ferma a guardare sospettoso. 24. Che ... verso: il poeta sente che i suoi strumenti espressivi non risultano adatti ad esprimere la complessità e ricchezza dell’ispirazione. 25. oprando: con l’azione.
Questo enorme mister de l'universo! 40
Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo Mi trafora il cervello, ond’io dolente?”
Misere cose scrivo e tristi parlo”.
26. obliar: rimuovere, dimenticare.
27. 28. 29. 30.
dolente: angosciato. parlo: il verbo è usato transitivamente. muscoli: il corpo. cuor: i sentimenti. 31. rea mente: dalla mente crudele perché guasta il corpo e lo spirito. 32. malor civile: la vita civile è sentita come una malattia, che corrode le forze vitali. x 33. sacrato: il sagrato della chiesa. 34. solenni: di festa. 35. Onde: dal quale. 36. quindi ... quindi: da una parte ... dall’altra.
Carducci
45
Guasti i muscoli? e il cuor®° da la rea mente, Corrose l’ossa dal malor civile8?, Mi divincolo in van rabbiosamente.
Oh lunghe al vento sussurranti file De’ pioppi! oh a le bell’ombre in su ’1 sacrato?* Ne i dì solenni** rustico sedile, 50
Onde® bruno si mira il piano arato E verdi quindi i colli e quindi? il mare Sparso di vele, e il campo santo è a lato!
855 37. tra gli eguali: tra i coetanei. 38. novellare:
raccontare
della vita di paese, ecc.). 39. a le rigenti sere: nelle rigide sere d’inverno. 40. accogliersi: raccogliersi. 41. forti prove: gli atti di coraggio. 42. perigliosi avvolgimenti: l’aggirarsi ‘nella boscaglia seguendo la preda. 43. a dito.. supino: segnare col dito le ferite profonde nel cinghiale disteso supino. 44. frottole rimate: inutili chiacchiere messe in rima. 45. Trissottino: Carducci allude ad un personaggio delle Femmes savantes di Molière, Trissottin, che, insieme ad un amico di nome Vadius, aveva formato una vera e propria mafia letteraria. »
Oh dolce tra gli eguali? il novellare88 Su ’l quieto meriggio, e a le rigenti Sere accogliersi‘° intorno al focolare!
(ricordi, fatti
55
60
Oh miglior gloria, ai figliuoletti intenti Narrar le forti prove‘! e le sudate Cacce ed i perigliosi avvolgimenti‘
Ed a dito segnar le profondate Oblique piaghe nel cignal supino“, Che perseguir con frottole rimate I vigliacchi d’Italia e Trissottino*. aprile 1867 (1872)
LS
ANALISI DEL TESTO Motivi leopardiani
Il rovesciamento dei temi
leopardiani
La vita sana della campagna e la famiglia
La condizione intellettuale come malattia
Il componimento offre un esempio della tematica autobiografica della poesia carducciana, in particolare della memoria della giovinezza. E giocato su un motivo leopardiano: un’immagine femminile, quella di una fanciulla amata in gioventù, risorge dal passato attraverso la memoria, come quelle di Silvia e di Nerina. Si possono riconoscere rimandi puntuali ai testi di Leopardi: v. 7, «Ove sei?»: Le ricordanze, «Ove sei, che più non odo / la tua voce sonar...» (vv. 144-145); v. 8, «Non passasti»: Le ricordanze, «Passasti», (v. 149); vv. 8-9, «Natio borgo»: Le ricordanze, «Natio borgo selvaggio» (v. 30); v. 50, «E verdi quindi i colli e quindi il mare»: A Silvia, «E quinci il mar da lungi, e quindi il monte» (v. 25); vv. 17-21, le rime in «-ivi», «uscivi... aprivi»: A Silvia, «fuggitivi... salivi» (vv. 4-6). Ma il motivo è trascritto in una tonalità del tutto diversa, secondo la sensibilità carducciana, che è antitetica rispetto a quella di Leopardi, tanto che si può pensare persino ad un voluto rovesciamento. Innanzitutto si noti la sensualità delle notazioni fisiche, soprattutto coloristiche, lontanissime rispetto al «vago» e «indefinito» di Leopardi, che ha una gamma cromatica estremamente sobria, quasi povera: il raggio d’aprile «roseo», l’occhio «azzurro», il «biondeggiante or» delle spighe, la chioma «flava», l’estate che «fiammeggia», i «verdi» rami, il melograno che scintilla «rosso», i colli «verdi». Anche il simbolo femminile ha un significato antitetico: in Leopardi è la fanciulla morta giovane a causa di un «chiuso morbo» senza giungere a vedere «il fior degli anni suoi» e senza poter godere delle gioie dell’amore, la cui sorte testimonia il destino delle creature, vittime della crudeltà della natura, che nega ogni felicità; in Carducci invece è un'immagine di femminilità matronale, florida e opulenta (il fianco «baldanzoso», il seno «restio» ai «freni del vel», su cui l’occhio del poeta indugia con scoperto compiacimento), che allude ad un’esistenza sana e forte, ricca di gioie anche fisiche («troppa gioia d’amplessi al marital desìo»), a cui si collegano i valori della famiglia (i «forti figli» che pendevano dalla sua «poppa», ed ora balzano arditi in groppa ai cavalli): la vita semplice della campagna e la famiglia sono i valori che qui Carducci intende i celebrare (cfr. anche i vv. 46-59). Ma ad essi si contrappone, da parte del poeta, il senso tormentato della propria condizione di intellettuale (dal v. 31). La vita intellettuale è sentita come innaturale, falsa, il pensiero è visto come una “malattia” che corrode l'energia vitale, impedisce l'adesione immediata alla realtà (vv. 40-42) e condanna all’infelicità, all’inquietudine, alla sconfitta esistenziale. Compare qui un motivo largamente ricorrente nella cultura romantica: il senso di colpa del-
l’intellettuale per la sua diversità dall’umanità comune (il motivo era presente sin dai pri-
mordi, nel Werther di Goethe). Quello della gente comune è un mondo da cui il poeta romantico si sente estraneo: e tuttavia talora avverte la nostalgia della vita “ normale”, delle occuIdillio maremmano
856 pazioni materiali e banali, che liberano dall’assillo del pensiero. Nel caso di questa lirica carducciana, si ha la nostalgia per un mondo agrario, contrapposto al vivere cittadino (il «malor civile»). L'opposizione tra campagna (Maremma) e città si presenta come opposizione tra sanità e malattia, tra una vita forte e ardita e un’inerzia che corrompe e intristisce (per un esempio significativo di un simile senso di colpa dell’intellettuale e di una simile nostalgia della “normalità” borghese, cfr. Gozzano, Signorina Felicita; ma importante è anche il passo di Senilità di Svevo in cui l’eroe invidia il marinaio che guida il bragozzo, e ritiene che la sua “malattia” non sarebbe esistita se mai gli fosse stata affidata una qualunque attività concreta, materiale).
\Ti186 PROPOSTE DI LAVORO
a
1. Sono state indicate nell’analisi le più rilevanti reminiscenze leopardiane, ma ve ne sono altre sparse nel com-. ponimento. Individuarle.
.2. Confrontare i personaggi leopardiani di Silvia e Nerina con Maria bionda, ma anche la «donzelletta» del Sabato del villaggio (T.154) con i vv. 16-30 che riguardano l’apparizione di Maria tra i campi. 3. In quale modo il poeta qui rappresenta la condizione dell’intellettuale? Il mondo alternativo evocato nei vv.. 34 e sgg. a quale classe sociale appartiene?
4. Riflettere su come in questo testo venga rappresentato il motivo dell’estate; cercarlo in altre poesie riportate e confrontare. Che cosa rappresenta?
La realtà moderna
Alla stazione in una mattina d’autunno È datata 25 giugno 1875, e fa parte delle Odi barbare. Il poeta accompagna alla stazione la donna amata, che si allontana da lui. Metro: strofe alcaiche (vv. 1-2: quinari doppi; il quinario che costituisce il secondo emistichio è sdrucciolo; v. 3: novenario; v. 4: decasillabo).
1. fanali: i lampioni del viale della stazione (di Bologna). 2. accidiosi: pigri (perché si susseguono
Oh quei fanali! come s’inseguono accidiosi? là dietro gli alberi, tra i rami stillanti di pioggia 4
sbadigliando la luce su ’1 fango3!
8
la vaporiera da presso. Plumbeo* il cielo e il mattino d’autunno 5: come un grande fantasma n’è’ intorno.
oro)
3. sbadigliando ... fango: «proiettando sul i, Tn luce debole, che pare uno sbaiglio di noia». 4. Plumbeo: nuvoloso; grigio.
Flebile, acuta, stridula fischia
5. n’è: ci è. 6. questa: per iperbato riferito aravvolta e tacita
mia tali
gente;
ravvolta:
avvolta
Dove ’
nei
7. a’ carri fosch iconvogli i: scuri del treno.
8. speme: speranza.
Carducci
e a che move
È
ir) Juena 4 CAS a’ carri Ù foschi”, ravvolt a e tacita
12.
gente? a che ignoti dolori
0 tormenti di speme? lontana?
Ì
duignrasi
857
ah
9. Lidia: la signora Lina Cristofori Piva, allora sentimentalmente legata al poeta che, echeggiando Orazio, ne trasfigura il nome in Lidia. 10. la tessera: il biglietto. 11. la guardia: il controllore che fora i biglietti. 12. e al tempo ... ricordi: nel gesto di offrire il biglietto al controllore, cioè nella partenza, il poeta vede simbolicamente il distacco della donna dalla giovinezza e dalla felicità. 13. i vigili: i frenatori, che si riparano dalla pioggia incappucciati negli impermeabili. 14. tentati: sollecitati per verificarne il funzionamento. 15. rendono: restituiscono. 16. un’eco ... doloroso: al rumore dei freni corrisponde uno stato d’animo doloroso di noia esistenziale, di angoscia connaturata con l’esistenza quotidiana. 17. l’ultimo appello: ultimo invito a salire in carrozza. 18. il mostro: la locomotiva: al v. 33 sarà l’empio mostro; nell’Inno a Satana: «bello e orribile mostro». 19. conscio ... anima: consapevole dell’energia racchiusa nella sua struttura di metallo. 20. sbuffa, crolla, ansa: emette sbuffi di vapore, vibra, ansima.
21. i fiammei ... sbarra: accende i fari. 22. fischio ... spazio: il fischio del treno è come una sfida allo spazio che si appresta a divorare con la sua corsa veloce. 23. empio: crudele (perché gli porta via Lidia). 24. traino orribile: trainando le carrozze con un movimento e un rumore che risultano orrendi e laceranti. 25. sbattendo l’ale: probabilmente gli stantuffi che provocano il caratteristico rumore ritmico della locomotiva a vapore. Ma qui prevale l’immagine mitica del mostro.
26. gli amor miei: è la trasposizione dell’espressione latina «meos amores»; qui va inteso al singolare. 27. stellanti: lucenti come stelle. 28. di pace: che danno pace, serenità. 29. candida: da unire con fronte, al v. 40. 30. floridi ricci: riccioli folti, voluminosi.
81. la bianca ... atto soave: gli attributi coniati per Lidia in questi versi derivano . dal più convenzionale repertorio classico; si pensi a «d’un color pallido come quasi d’amore» (Dante, Vita nuova), o a «asciugandosi gli occhi col bel velo» (Petrarca, Chiare, fresche, dolci acque, v. 39). 82. Fremea ... aere: «palpitava la vita nell’aria tiepida dell’estate»; rievoca i giorni felici trascorsi con Lidia. 383. mi arrisero: mi sorrisero (soggetto gli occhi e il volto di Lidia). 34. giovine: perché ancora all’inizio dell’estate. 35. si piacea ... guancia: «si compiaceva di baciare [con il suo raggio] luminoso la morbida guancia della donna tra i riflessi castani dei capelli».
Tu per pensosa, Lidia*, la tessera!° al secco taglio dài de la guardia", 16
e al tempo incalzante i begli anni dài, gl’istanti gioiti e i ricordi!?. Van lungo il nero convoglio e vengono incappucciati di nero i vigili!8,
20
com’ombre; una fioca lanterna hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati! rendono! un lugubre rintocco lungo: di fondo a l’anima 24
un’eco di tedio risponde doloroso, che spasimo pare.
28
E gli sportelli sbattuti al chiudere paion oltraggi: scherno par l’ultimo appello! che rapido suona: grossa scroscia su’ vetri la pioggia. Già il mostro”, conscio di sua metallica anima’, sbuffa, crolla, ansa”, i fiammei
32
occhi sbarra”; immane pe ’1 buio gitta il fischio che sfida lo spazio??. Va l’empio” mostro; con traino orribile? sbattendo l’ale?® gli amor miei? portasi.
36
Ahi, la bianca faccia e ’1 bel velo salutando scompar ne la tènebra.
O viso dolce di pallor roseo, o stellanti?” occhi di pace”, o candida” tra’ floridi ricci° inchinata 40
pura fronte con atto soave?!
44
Fremea la vita nel tepid’aere*, fremea l’estate quando mi arrisero*; e il giovine8‘' sole di giugno si piacea di baciar luminoso
48
in tra i riflessi del crin castanei la molle guancia: come un’aureola più belli del sole i miei sogni ricingean la persona gentile®. Sotto la pioggia, tra la caligine?” torno ora, e ad esse vorrei confondermi; barcollo com’ebro?, e mi tocco,
52
non anch'io fossi‘ dunque un fantasma.
86. ricingean la persona gentile: avvolgevano la delicata figura. 37. tra la caligine: tra la nebbia. 38. torno: dalla stazione, dopo aver la-
sciato Lidia.
39. ebro: ubriaco. i 40. non anchio fossi: per rassicurarmi di non essere io stesso.
Alla stazione in una
mattina
d’autunno
858 41. Oh qual ... l’anima: la corrispondenza ambiente-stato d’animo dà luogo a questa esplicita metafora. Le foglie che cadono intorno paiono al poeta le sue speranze ed i suoi sogni che muoiono. 42. per tutto ... novembre: novembre diventa lo specchio della condizione di smarrimento esistenziale descritta nella quartina finale. 43. Meglio ... essere: per colui, per il quale l’esistenza ha perso ogni significato. 44. io voglio ... infinito: è l'abbandono, esplicitamente dichiarato, al naufragio nel tedio.
Oh qual caduta di foglie, gelida, continua, muta, greve, su l’anima”! io credo che solo, che eterno, 56
che per tutto nel mondo è novembre”.
Meglio a chi ’1 senso smarrì de l’essere*, meglio quest’ombra, questa caligine: io voglio io voglio adagiarmi 60
in un tedio che duri infinito‘.
| (25 giugno 1875)
ANALISI DEL TESTO Torna in questa poesia la struttura che abbiamo visto ricorrente nella lirica carducciana: in apertura un dato reale e presente, da cui prende avvio la “fantasia” (in questo caso il ricordo), poi il ritorno al presente. Qui però l’indugio sul presente ha di gran lunga maggior estensione che la rievocazione del passato. Colpisce innanzitutto il paesaggio d’apertura, pioggia, fango, cielo plumbeo, con le metafore dal forte valore connotativo che lo accompagnano: i fanali si inseguono «accidiosi» e «sbadigliano» la luce, il mattino d’autunno è come «un grande fantasma»: è un paesaggio urbano di gusto inconfondibilmente baudelairiano (cfr. Spleen, T59). Ma colpisce soprattutto il luogo dove la poesia è ambientata: una stazione ferroviaria, luogo per nulla “poetico”, secondo.il gusto tradizionale. Non solo, ma il discorso insiste sù tutta una serie di particolari quotidiani banali e prosaici (il biglietto forato dal controllore, i frenatori che percuotono i freni con sbarre di ferro, il rumore degli sportelli sbattuti, l’ultimo invito a salire in carrozza). La poesia del secondo Ottocento ama indugiare su particolari “realistici” di questo tipo. Ma ciò in Carducci è inconsueto: il poeta predilige usualmente un discorso aulico e sublime. L’indugio sui particolari prosaici possiede quindi una funzione particolare: sottolineare lo squallore avvilente della vita moderna, che nega ogni aspirazione alla bellezza. La stazione ferroviaria, nella cultura del tempo, è infatti il luogo emblematico della modernità, rappresenta gli scambi, il dinamismo, la vita attiva, gli interessi positivi. Essa ha però qui come due facce: la prima e più evidente è quella realistica e quotidiana, che si è sottolineata; ma su di essa si sovrappone un’altra dimensione. Si noti il ricorrere di colori foschi (il nero in particolare) che è troppo insistito per non essere voluto e denso di significati: carri «foschi», «nero» convoglio, vigili incappucciati di «nero», «com’ombre», «buio», «tenebra». Il nero è colore altamente simbolico, richiama essenzialmente la morte: questa stazione ferroviaria è infatti una sorta di regno dei morti: le figure che in essa si muovono silenziose, oppresse da «ignoti dolori» e «tormenti», richiamano le ombre dei dannati che si aggirano negl’Inferi; tutto è avvolto come da un'atmosfera spettrale, lugubre, su cui aleggia un senso di pena e sofferenza. Non manca neppure, in questo scenario infernale, la figura di Satana: il treno, un «empio mostro» contrassegnato da un tratto tipico delle figure demoniache, i «fiammei occhi». Poiché il treno, nella cultura dell'Ottocento, è il simbolo per eccellenza della modernità, tutto ciò rivela nel poeta paura e orrore per la vita moderna. Per comprenderne il motivo, occorre richiamare brevemente il contesto storico-culturale. La macchina è fatta segno, nella cultura di questo periodo, di una forte ambivalenza: è esaltata entusiasticamente dalla retorica corrente, come indizio del progresso inarrestabile, del trionfo della scienza sulle tenebre dell’ignoranza, ma appare anche come un'immagine mostruosa, inquietante. La macchina fa paura perché distrugge dalle radici tutto un mondo e un sistema di vita, capovolge i valori tradizionali, è un mostro che minaccia di sfuggire al controllo dell’uomo e di rivol-
gersi maleficamente contro il suo creatore (si ricordi il Frankenstein della Shelley, dove
sì esprimono, nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, questi segreti terrori). La paura della macchina è propria soprattutto degli artisti: essi sentono, magari senza averne chiara Carducci
La realtà
presente e la “fantasia”
Un paesaggio urbano
La realtà
prosaica
La stazione, luogo emblematico della modernità
La stazione come immagine
degli inferi
Paura e orrore
per la vita moderna
859 coscienza, che la macchina, cioè la nuova civiltà industriale, distrugge la loro posizione sociale L’ambivalenza carducciana verso la macchina
Lo spleen della . vita moderna La “fantasia”
|
ele immagini solari -
x
Un’ebbrezza di annientamento
tradizionale, li declassa a produttori di merci per il mercato (sono problemi già visti: cfr. in questa stessa parte Il quadro di riferimento, $4, e La strada ferrata di Emilio Praga, T165). In Carducci l’ambivalenza è particolarmente evidente. Già dodici anni prima, nell’Inno a Satana, aveva affrontato il tema del treno (cfr. T175). Si trattava di un inno al progresso e all'avanzata della scienza, perciò il treno era presentato in chiave positiva. Ma sì ricordi come veniva designato: «Un bello e orribile mostro» [corsivi nostri]. La contraddittorietà dei due aggettivi impiegati denunciava in modo trasparente l’ambivalenza. Carducci, democratico e progressista, si proponeva come il cantore della modernità, della scienza, della macchina, ma il simbolo del progresso suscitava in lui un oscuro timore. Qui, in Alla stazione, prevale decisamente il polo negativo. Il «mostro» non è più «bello», ma «empio»: la vita moderna, rappresentata dalla stazione e dal treno, suscita ormai nel poeta solo angoscia e «tedio», perché è bruttezza irredimibile, spleen, negazione della gioia e dell'amore. A questa realtà negativa si contrappone la “fantasia”, il sogno del poeta, che, per vincere lo spleen e l'orrore, richiama un’immagine lieta del passato, quella della donna amata. E puntualmente ricorre tutta la costellazione di temi che Carducci ama evocare per esorcizzare le forze oscure che lo angosciano, la luce, il calore, l’estate, la gioia vitale, la bellezza, l’amore. Il tutto assume le inevitabili vesti classiche: il sole che bacia la molle guancia di Lidia ha le sembianze apollinee di un dio greco (Apollo era appunto il dio del sole). Dopo la parentesi del “sogno”, il poeta torna al presente. Si riaffaccia il paesaggio iniziale, contrassegnato dalla pioggia, dalla «caligine», dal freddo, e diviene l’oggettivazione simbolica di uno spleen di tipo baudelairiano. Il poeta è preso come da un’ebbrezza di annientamento: anch'egli si sente come gli altri un’ombra che vaga negl’Inferi della città moderna («non anch’io fossi dunque un fantasma»). Nel “classico” Carducci, il cantore di tutte le forze sane e vitali, dell’operosità umana e del progresso, si annida, come si è potuto constatare più volte, la tipica “malattia” romantica. Ma l'importante è che qui, accanto al motivo della pena esistenziale, compare anche in piena evidenza quella che ne è la causa profonda, l’angoscia della realtà moderna.
PROPOSTE DI LAVORO Pu» 1. Esaminare:
a) il lessico dell’ode. Ci sono termini aulici che designano la realtà quotidiana, cioè questa è descritta a volte con vocaboli aulici? (ad esempio «tessera» = biglietto). Ci sono aggettivi che designano stati d'animo riferiti ad oggetti? (ad esempio «fanali accidiosi»). Ci sono latinismi? b) la metrica. Ci sono assonanze? Enjambements? . La rappresentazione della stazione nella mattina autunnale è realistica o densa di valori simbolici?
. Il passato ed il presente sono in contrapposizione? . Come viene rappresentata Lidia? (Ad esempio il suo ritratto è in contrasto con il nero che la circonda?). zione? . Perché il treno viene definito l’«empio mostro»? C'è ambiguità da parte di Carducci in questa rappresenta
. Qual è la condizione dell’io lirico? elementi coincidono? °° gn 69" . Confrontare il paesaggio qui rappresentato con quello di Spleen di Baudelaire (T59). Quali tea
Alla stazione in una mattina
d’autunno
860 QUESTIONARIO
DI RIEPILOGO SU CARDUCCI
È
1. Riflettere sulle scelte formali praticate da Carducci (generi letterari, forme metriche, lessico; in particolare riflettere sull’uso della rima barbara). 2. Quali epoche storiche vengono prevalentemente trattate da Carducci e perché?
3. Come si colloca la produzione di Carducci rispetto a Romanticismo e Decadentismo? Che cosa s’intende per classicismo carducciano? 4. Indagare all’interno della produzione carducciana il significato delle opposizioni presente-passato, morte-vita, luce-ombra. 5. Quale ruolo Carducci assegna all’intellettuale umanista all’interno della società dove la macchina è una pre-. i senza sempre più importante? 6. Ricercare, sull’intero arco della produzione poetica carducciana, il motivo del sogno che porta fuori della realtà ? (nel passato storico, nel passato personale, in mondi fantastici). 7. Spiegare i motivi della diversa fortuna di Carducci presso la critica ed il gusto dei lettori.
La critica Con le sue posizioni democratiche, anticlericali, con il suo classicismo a oltranza, nonché
con i suoi atteggiamenti battaglieri, Carducci suscitò molte polemiche da parte dei rappresentanti delle idee avverse. Ebbe però anche una serie di discepoli fedeli, che lo difesero con i loro scritti. Negli anni ’80, il suo prestigio era ormai indiscusso, ed era venerato come un vero e proprio maestro. Con l’avvento del dannunzianesimo e del clima spiritualistico e irrazionalistico tra Otto e Novecento, il favore e l’interesse intorno a lui si affievolirono, anche se nei suoi confronti rimase un atteggiamento di riguardoso rispetto.
La vera e propria storia della critica carducciana comincia con un volume di Enrico Thovez, Il pastore, il gregge, la zampogna (1909): il giudizio che ne scaturisce è limitativo: rispetto al vertice fissato da Leopardi, Carducci segna un regresso verso la letterarietà e l’artificio, un ritorno a forme ormai superate (anche se poi il critico riconosce l’esito felice del suo impressionismo paesistico o sentimentale). Una celebrazione della grandezza poetica carducciana è data invece da un ampio saggio. crociano del 1910. Anche se ammette certi momenti di «non-poesia», per il prevalere di interessi praticistici, polemici e pedagogici, o di un peso letterario ed erudito, Benedetto Croce indica la più alta realizzazione poetica carducciana nella poesia della storia, nutrita di passione etica e civile, che diviene poesia genuinamente epica. Croce vede in Carducci l’antitesi, anzi, l'antidoto a quella poesia novecentesca di matrice decadente, da lui non capita e respinta sdegnosamente. Individua così nella poesia carducciana «l’ultima e classica grande poesia italiana», ed insiste sulla visione della vita perfettamente integra che l’ispira, fissando così la fisionomia di uno spirito robusto, “sano”, totalmente immune da ogni “malattia” romantica o decadente. A mettere in luce un Carducci più “moderno” è inteso invece uno studio di Domenico Petrini del 1927, Poesia e poetica carducciana, che ebbe vasta eco e fu spesso ripreso e discusso. Il Petrini vede nello svolgimento della lirica carducciana una dissoluzione del mondo romantico e una ricerca di pure forme musicali e coloristiche, che apparentano la sua lirica al post-romanticismo parnassiano e decadente.
Carducci
i
861 | Attilio Momigliano, in vari saggi e poi nella Storia della letteratura italiana, riprende invece il motivo crociano della autentica “sanità” di Carducci, che rivela «un senso pieno e classico della vita», che i poeti posteriori non hanno più conosciuto. Questa idea della sanità classica di Carducci viene definitivamente dissolta da Mario Praz (1940), che, dall’alto della sua inarrivabile conoscenza delle letterature romantiche europee, vede nel “classicismo” carducciano una manifestazione di “nostalgia” tutta romantica per l’antico, sentito come paradiso di bellezza definitivamente perduto nel presente squallido dell’incipiente società industriale (ma il sostanziale “romanticismo” di Carducci era già stato sottolineato da altri critici in precedenza). Un punto fermo nella critica del secondo dopoguerra è costituito dal saggio di Natalino Sapegno (1949) che con severità ma con grande forza persuasiva segna i limiti della validità di Carducci. Partendo col sottolineare l’angustia culturale del giovanile classicismo, Sapegno individua il momento più felice della poesia carducciana nei Giambi ed Epodi, nell’impeto polemico della passione politica e sociale, con la rievocazione di certi momenti simbolici della storia, e nel movimento nostalgico verso un’infanzia selvaggia e ribelle, che si riflette nel paesaggio irto e scontroso della Maremma. Su questa linea si sviluppa il più vero Carducci anche nella poesia successiva, delle Rime nuove e delle Odi barbare. Ne esce «il profilo di un poeta minore, cui solo rari e brevi toccano in sorte i momenti di piena e persuasiva felicità». Venne poi la decadenza ideologica e parallelamente quella poetica: l'abbandono dello slancio democratico e sociale, per assumere posizioni conservatrici e nazionalistiche, e il ripiegamento nell’elegante preziosismo formale o nella retorica ufficiale e altisonante. Una stagione felice per la critica carducciana può collocarsi alla metà degli anni ’50, in coincidenza con il cinquantenario della morte. Se un Flora continua a vedere crocianamente in Carducci l’ultimo dei classici, Luigi Russo, rifiutando la definizione crociana di «poeta della storia», vuole costruire il profilo di un Carducci «senza retorica», ed insiste su un Carducci «funebre», cantore nostalgico di eroici mondi perduti (1955 e 1957). Giovanni Getto (1957) tende a mettere in luce e a rivalutare un Carducci meno noto, un poeta intimo, dal tocco lieve e allusivo, e sottolinea come il contrasto di luce e ombra che torna costantemente nella poesia carducciana non sia un’oscillazione tra classicismo e romanticismo, ma al contrario sia oscillazione tutta romantica. Walter Binni (1957) individua il tema più autentico della poesia carducciana nel contrasto di un sentimento della vita nella sua pienezza e di un sentimento della morte come totale e fisica privazione della vita. Di qui nasce un ritmo di svolgimento dialettico nello sviluppo dell’opera del poeta. Nel trentennio successivo, sino ai nostri giorni, Carducci non ha più suscitato vivi interessi critici. Ciò è molto significativo se si fa il confronto con il vivacissimo dibattito che si è svolto e continua a svolgersi intorno ai maggiori dell'Ottocento, Manzoni, Leopardi, Verga, in cui si misurano non solo gli strumenti metodologici più vari e più avanzati, ma anche grandi opzioni ideologiche: è anche questo un segno di come Carducci non sia più sentito come uno scrittore attuale. Su di lui abbiamo puntuali ricostruzioni monografiche, come quelle di Armando Balduino (1967), di Giambattista Salinari nella grande Storia della letteratura italiana diretta da E. Cecchi e N. Sapegno (1968), di Rosario Contarino nella Letteratura italiana. Storia e testi diretta da C. Muscetta (1975), ed ora il volumetto di Antonio Piromalli (1988). Su questo panorama di equilibrate ricostruzioni storiografiche, spicca la voce polemica di Giorgio Bàrberi Squarotti (1978), che si impegna in un aggiornato bilancio e fornisce un
quadro impietoso della mediocrità di Carducci, dimostrando come l’«organicità di uno scrittore con il suo tempo e i gruppi sociali dominanti in esso sono un bel guaio per la poesia stessa», e indicando come la poesia carducciana sia un sogno evasivo dalla realtà nel passato eroico o nell’idillio, un sogno consolatorio per il pubblico borghese, deluso e frustrato dallo squallore visa della realtà postunitaria. Rari sono, sulla poesia carducciana, gli interventi delle nuove metodologie che negli ultimi vent'anni si sono esercitate con proficue acquisizioni sui classici. Segnaliamo a questo proposito l’analisi di Pianto antico fornita da Angelo Marchese (1985). Un altro esempio di analisi semiotica molto elaborata di un testo carducciano, Il comune rustico, è data dal Seminario di Italiano a Friburgo (1976): ma tale lettura, pur impiegando strumenti che dovrebbero garantire un elevato grado di oggettività, ne fa un uso del tutto arbitrario, arrivando a conclusioni difficilmente accettabili.
La critica
24
862 BENEDETTO CROCE «Sanità» di Carducci
Il discorso segue il metodo consueto di Croce, teso a individuare il nucleo autentico di «poesia», . distinguendolo dalla «non-poesia». Emerge chiaramente l’immagine che Croce vuol dare di Carducci, quella di uno spirito sano, forte, «virile», totalmente immune dalle morbosità romantiche.
Il Carducci fu antiromantico, perché romanticismo significò per lui i nervi che prevalgono sui muscoli, la femminilità che si sostituisce alla virilità, il lamento che prende il luogo del proposito, la vaga fantasticheria che infiacchisce e svoglia dal lavoro. Fu antiromantico, altresì, perché nel romanticismo sospettò qua e là il misticismo, la trascendenza, l’ascesi. E perciò (al modo stesso che non aveva fatto suo l’atteggiamento disperato del Leopardi) si dichiarò antimanzoniano e pagano. Rarissime, nelle sue opere, le espressioni dell’angoscia innanzi al mistero imperserutabile; e quelle poche che vi s'incontrano rimangono estrinseche e superficiali, come nel sonetto giovanile alla Notte, in cui interroga: «Che misteri, che orror, dite, sono questi? Che siam, povera razza dei viventi?...»; o in quell’incidentale «enorme mister dell’universo» dell’/dillio maremmano. In verità, il cosmo non fu mai per lui veramente un problema, e non ebbe l’orrore del mistero. Al suo istinto sicuro, al suo quadrato buon senso, la vita apparve quella che essa è: la Vita; da accettarsi qual è e da non velarla con domande assurde, che foggiano, esse, il mistero. E la vita è bella, perché è la Vita; perché è trepidazione, è dolore, è gioia, è opera necessaria e feconda. Dove l’uomo prende più immediata coscienza della sua missione, se non nella campagna, nella vita rustica, nel lavoro agricolo, in quella forma di lavoro che prima richiamò a sé le forze del genere umano e rimane come il tipo di ogni operosità necessaria e feconda? E il Carducci sentì l’ammaestramento che viene dai campi; e guardò agli agricoltori, alle messi, al fieno, al pio bove, con sentimento religioso, e chiamò quelle immagini le «sante visioni della natura». Non fu, per lui, la campagna il luogo di riposo del cittadino nauseato e neurastenico, o la materia di nuove e raffinate voluttà, o l’oggetto della curiosità e del dilettantismo. Fu la buona madre, nel cui
seno anche il figliuolo adulto, anche il figliuolo coi capelli grigi, può ancora rifugiarsi, e ridomandarle la parola di conforto e di saggezza che già lo corresse e sorresse bambino. Fu la madre austera, che dice il semplice senso della vita con una semplice parola: il dovere. Come il Carducci dilesse l’agricoltore, tanto vicino al guerriero, e che vibra talora il pungolo sui mugghianti quasi palleggiasse l’asta, e lascia la marra nel solco e il cuneo nella quercia per impugnare la scure e il dardo a difendere la patria minacciata: - l’agricoltore, che esprime il fondamentale gesto umano; - così egli amò la manifestazione rustica della gioia di vivere, nella quale le forze pel lavoro si ristorano e ritemprano: il vino. [...] Lieo! è un divino amico; ma ha un compagno: l’amore. In questo accoppiamento, è già indicato il posto e il significato, che l’amore ha nel sentimento e nella vita del Carducci. Ed è, forse, qui la più viva opposizione tra lo spirito di lui e quello del romanticismo. Nel romanticismo, l’amore
è centro di attrazione: negli occhi della donna amata è Dio, è la patria, è la verità, è la poesia.
Nel Carducci la donna perde il nimbo? della santa, il candore dell'angelo, l'atteggiamento d’ispiratrice e rivelatrice. Non già che discenda a pura materia e strumento di piacere; il Carducci è sano e casto ed ignora la triste lussuria. La donna dei romantici ridiventa in lui, semplicemente, donna; e l’amore, che era nel centro della vita, prende il suo posto nella vita, un posto che non dirò secondario, ma che certamente è ben delimitato.
[...] Niente più dell’amore fa pensare alla morte: l’amore è il più intenso e rapidamente morituro degli affetti: la bellezza sfiorisce e muore prima ancora della vita fisica. Il Carducci non trae, da questo fato, argomento di pianto e desolazione, alla guisa dei pessimisti e dei romantici. Certamente chi, come lui, prende sul serio la vita terrena, chi ama gli affetti e l’opera, non può corteggiare la morte al modo dell’asceta: il pensiero della morte gli ombra il volto di malinconia. Ma egli accetta il necessario: attende calmo il richiamo dell’ora sacra, quando dovrà varcare quel passo che già varcarono Omero ellenico e il cristiano Dante. Ben più: se talvolta la tristezza 1. Lieo: epiteto del dio Dioniso o Bacco. 2. nimbo: aureola.
Carducci
863 lo preme, e pensa che egli domani morrà come morirono ieri quelli da lui amati, e, tenue ombra lieve, dileguerà via dalle memorie e dagli affetti, egli sa anche che «tutto trapassa e nulla può morire», e che «quel che fu torna e tornerà nei secoli». Nella vita universale, sente ripalpitare la sua individuale. da Giosue Carducci, Laterza, Bari 1920, pp. 45-49
MARIO PRAZ La nostalgia romantica dell’Ellade Il critico, forte di una conoscenza perfetta della letteratura romantica europea, smonta con eleganza ed ironia dl mito di un Carducci classicamente “sano”, che era stato proposto parallelamente (e con diversi intenti) sia dalla critica crociana sia dalla retorica celebrativa del regime fascista, e dimostra come dl preteso “classicismo” carducciano sia impregnato di nostalgia romantica per l’antica Ellade, vista come paradiso perduto e irraggiungibile di serenità e bellezza. Si tratta quindi di un sogno evasivo, in cui dimenticare lo squallore del presente borghese «in quell’oblio supremo che èl'estasi esotica» (il critico usa ironicamente anche la metafora della «fumatoria d’oppio classica»). E un esempio ad alto livello di critica comparatistica, che mette a confronto motivi culturali e linguaggi di diverse civiltà letterarie.
[I pittori del Primo Impero] miravano a realizzare canoni, non a sognare fantasmi. Il loro classicismo era ancora il classicismo romano, attuale. La mitologia si mescolava con la vita, il mondo antico riviveva nella moda, nel vestire, nel mobilio, nella politica. Napoleone era uno dei Cesari, Alessandro redivivo: gli eroi esistevano, le battaglie sui sanguinosi campi d’Europa valevano bene le pugne omeriche, e a paragonare le belle amiche e mogli dei guerrieri alle eroine e alle dee dell’antichità, non si faceva che reincarnare il passato nel presente. Potrà questa chia-
marsi una mascherata eroica: ma nell’attuarla nella vita pratica la fantasia trovava piena fruizione, appagamento senza residuo di nostalgia. La fantasia idoleggiava un presente, non si tendeva verso un passato sentito irrevocabile. In altre parole, il classicismo del Primo Impero è, se si vuole, manierismo, accademia, ma non esotismo. Altra cosa è l’ellenismo, o meglio il sogno ellenico che dominò l'Europa verso la metà del secolo scorso, e che, per via di contrasto, chiamerò ellenismo Secondo Impero. Secondo Impero, età non
più eroica come quella napoleonica, ma democratica, borghese, ove nessuna mascherata di stile antico era possibile nella vita pratica. Anzi, così meschina, piatta, grigia questa vita quotidiana dell'Europa pareva, in quella prima cupa fase dell’èra industriale dominata dal vapore (a petto della quale la fase moderna, finora dominata dal motore, è così agile e gaia, qualunque cosa possa pensarsi della prossima fase controllata dall'energia atomica e dall’automazione), che le anime dei poeti e degli artisti cercaron rifugio ed oblio in un ideale mondo di sogno: oblio dalle delusioni delle rivoluzioni politiche, 1830 e 1848, rifugio dallo squallore crescente delle città, dalla crescente meschinità della vita familiare e sociale. Invece della mascherata classica, si ebbe la fumatoria d’oppio classica: le réve helléenique!! Non di marca romana, questa, ma di marca tedesca. Poiché il sogno ellenico del Secondo Impero, anziché riattaccarsi alla perenne tradizione alessandrina (ché a dire alessandrina si dice implicitamente romana), si riattaccava alla tradizione dei grandi romantici tedeschi. Herder, Goethe, Schiller, Hòlderlin, pei quali il Mediterraneo era un sogno, il Sud,
un miraggio, la mitologia un esotismo: sogno, miraggio, esotismo conditi dalla Sehnsucht? dalla brama di vedere nutrita da persone intorno a cui son le tenebre. Boecklin® significa codesto esotismo messo alla portata di tutti: l’oppio a buon mercato, l’immagine struggente di un mondo abolito evocabile con poco sforzo dalle anime oppresse dal prosaico presente, dalle mille Madame Bovary d’una grigia èra industriale e democratica. No, il romanticismo del Carducci non cominciò colle battagliere e ironiche poesie scritte a 1. le réve hellénique: il sogno ellenico. 2. Sehnsucht: ansia, anelito struggente. 8. Boecklin: pittore svizzero (1827-1901), espresse nelle sue
opere quella linea romantica dai caratteri sconsolati e fatalistici.
La critica
è|
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imitazione di Barbier, di Hugo, di Heine”: il vero romanticismo di Carducci cominciò quando la sua anima si trovò nelle condizioni atte ad accogliere quella forma del mal du siècle® di cui abbiam visto la formula: «la beauté sereine et tranquille de l’arc grec paraissait exprimer merveilleusement les nouveaux besoins d’apaisement»”. E il Carducci si trovò in codeste condizioni dopo il 1870, quando quella che a lui pareva bassa politica, politica d’intrigo e d’insidie personali, seguita alle feconde passioni del Risorgimento, lo spinse a cercar rifugio dalla nauseabonda realtà in un mondo di pura contemplazione. L’esotismo neoellenico dei parnassiani pareva fatto apposta per soddisfare il besoin d’apaisement dell’antico adoratore dei classici Carducci. E appunto al tempo delle Primavere elleniche, ove fiorisce per la prima volta il sogno esotico carducciano, il poeta scriveva a un amico: «... Di quando in quando bisogna concedermi questi ritorni alla contemplazione serena o quasi idolatrica delle forme estetiche della Grecia naturalmente divina: di quando in quando bisogna concedermi che io mi riposi in questi lavori di cesello, che mi distragga dalla realtà, la quale finirebbe per soffocarmi nello sdegno e nel fastidio». La Grecia natural mente divina: la fumatorìa d’oppio parnassiana*, ove il Carducci cercò l’oblio, fino al cupio dissolvi? baudelairiano nella donna-paesaggio di sogno. I romantici Hugo e Heine non avevan fatto che agguerrire il Carducci d’un arsenale di metafore barocche e di frecce epigrammatiche: ma codesto Carducci aveva ancora ferma presa sulla realtà, sul presente, si figgeva gli occhi per esortare e inveire. Furono i cesellatori «classici», i levigati Gautier e Platen!°, a trasformare
il Carducci in vero e proprio romantico; nel cesellare egli poteva immaginarsi d’imitare il suo antico nume Orazio, ma il volto si torceva dalla realtà, la sirena parnassiana sussurrava:
L'ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge; sol nel passato è al bello, sol ne la morte è il vero!!
Questo Carducci, contrariamente a quanto suppone il Momigliano nel suo articolo sulla Sanità di Carducci, avrebbe potuto cantare Ravenna, la città bella nella morte, questo Carducci non è colui che, secondo le parole del Marpicati, «non faceva concessioni agli esotismi di nessuna specie». da Il classicismo di Carducci, in Gusto neoclassico, Esi, Roma 1974?, pp. 369-371, 386-387
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4. Barbier: Henri Barbier (1805-1882), autore di poesie di invettiva (Giambi, 1831) che ebbero una certa influenza su Carducci.
mente il nuovo bisogno di placamento». 8. parnassiana: cfr. M20. 9. cupio dissolvi: «desiderio di dissoluzione». Allude a
5. Heine: Heinrich Heine (1797-1856), scrittore tedesco,
Fantasia, T180.
che nelle sue opere criticò radicalmente la società tedesca da posizioni democratiche. Influenzò Carducci, che tradusse varie sue liriche. 6. mal du siècle: male del secolo. 7.la beauté ... d’apaisement: «la bellezza serena e tranquilla dell’arte greca sembrava esprimere meravigliosa-
10. Gautier e Platen: Théophile Gautier, scrittore francese; cfr. M20. August von Platen (1796-1835) poeta lirico tedesco dalle nitide forme classiche, dietro cui si cela un culto struggente della bellezza ed un estetismo tutto romantico. 11. L’ora.... vero: versi dall’ode barbara Presso l’urna di Percy B. Shelley.
NATALINO SAPEGNO Dal Carducci giacobino al Carducci retore e filisteo Dopo aver tracciato la storia interna della poesia carducciana, dal giovanile antiromanticismo angusto e provinciale, al momento fecondo dell’evocazione di un'età libera e ribelle, idoleggiata nella storia e nelle proprie memorie d'infanzia, fino all’involuzione formalisticamente preziosa e retorica-
mente roboante, che sì accompagna all’abbandono degli slanci democratici, il critico, concludendo il
suo discorso, proketta quel percorso sullo sfondo delle vicende sociali e politiche del periodo. È un esempio da crotica storicistico-sociologica, che mira a cogliere i nessi dialettici tra l’attività intellettuale e creata ed i grandi movimenti oggettivi della storia sociale.
La storia, che qui si è narrata, di un poeta, della sua ascesa e della sua decadenza, acquista un valore esemplare se noi la proiettiamo (che non è difficile) sullo schermo delle vicende sociali e politiche di quel periodo storico. Nel momento in cui la rivoluzione borghese del Risorgimento Carducci
865 si avviava alla sua conclusione, attraverso il compromesso monarchico, che assicurava bensì alla classe vittoriosa un concreto vantaggio economico, e cioè una possibilità di più intenso sfruttamento del mercato nazionale, ma a patto di rinunciare almeno per il momento a risolvere fino in fondo i problemi sostanziali dell’indipendenza, dell’unità nazionale e della libertà democratica, da cui pure la rivoluzione aveva preso il suo impulso iniziale; negli strati più avanzati della piccola borghesia soprattutto intellettuale si manifesta un atteggiamento di delusione e disgusto, affiorano rancori e proteste, la denuncia del tradimento che è in corso degli ideali lungamente perseguiti, il proposito di impedire che lo slancio rivoluzionario ancor vivo in taluni gruppi del movimento mazziniano e garibaldino s'impantani e vada sommerso nell’euforia di una vittoria troppo facile e che lascia sussistere troppe miserie reali, troppi residui di un odioso passato. Allora, all’agitarsi confuso delle tendenze democratiche giacobine e garibaldine e alle prime apparizioni di un socialismo di tipo libertario, bakuniniano!, sul piano politico, corrispondono, sul piano culturale e letterario, anche il rivoluzionarismo degli «scapigliati» lombardi e piemontesi, il giacobinismo e l’anticlericalismo del Carducci dei Giambi, e altri consimili fenomeni, tentativi di una letteratura ricca di motivi polemici, di interessi politici e di proteste sociali, che si avanza baldanzosa dietro la bandiera di una poetica di realismo. A mano a mano però che i termini del problema si vengono chiarendo e precisando e sboccano in un aperto conflitto di classi, mentre sorgono i primi moti contadini nel nord e nel sud, e si costituiscono le leghe e i sindacati e sorge un partito di lavoratori; noi assistiamo al rapido processo involutivo di queste correnti più avanzate della piccola borghesia, alla loro crescente paura, al loro progressivo distaccarsi dal blocco delle forze popolari per rimettersi pentiti al servizio dei gruppi più retrivi, ma più potenti, della classe dominante. Questa involuzione è evidente, e documentabile, suo terreno ideologico nel suo complesso, in tutti i campi e gli aspetti della vita culturale letteraria ed artistica italiana, ed evidentissima nel Carducci. A questa involuzione corrisponde, dal punto di vista dell’arte, un impoverirsi e restringersi della materia sentimentale, del lievito umano e poetico; una carenza affettiva e un ristagno formale; un distacco sempre più grave dai temi della vita reale, che si risolve di volta in volta nel conformismo della rettorica o nell’abbandono ai miraggi dell'evasione, del sogno. In questo senso il Carducci fu veramente il poeta rappresentativo di un momento della nostra storia: il giacobino Carducci prima, e poi il Carducci retore e filisteo? della fine del secolo. In lui, ad accelerare e aggravare il processo involutivo, s'aggiunse anche il carattere fin dal principio tutto letterario, e pertanto più povero, più chiuso, più indiretto, della sua esperienza (a paragone, per es., degli «scapigliati»): donde anche la portata minore e la manifesta sterilità del suo esempio. Eppure proprio questo Carducci precocemente decaduto fu, e in parte ancora resta, il più ammirato (non si dice già dai letterati di gusto più scaltro). Questa singolare fortuna è incominciata dal momento in cui tutta l’Italia peggiore, quella dei salotti e delle accademie, dei professori e delle signore per bene, della rettorica provinciale e della demagogia nazionalista, credette d’aver trovato finalmente il suo poeta, si riconobbe in lui e intorno a lui si raccolse per festeggiarlo e acclamarlo. Senonché proprio questa ammirazione unanime, in cui si trovavano e si trovano daccordo cattolici e massoni, monarchici e mazziniani, e i retori di tutte le tinte e di tutte le razze, era la miglior prova del fallimento della sua ambizione di vate, dell’inconsistenza del suo professato e ostentato magistero civile. A noi piace invece dimenticare questo Carducci dei giorni festivi e tornare, se mai, a rileggerci le scarse rime della sua stagione migliore, e ritrovare quel piglio aggressivo, quella scontrosa tristezza, quella musica virile e un po’ impacciata, un po’ ingenua e goffa, in cui veramente possiamo riconoscerlo ed amarlo poeta. Poeta minore, abbiam detto: e crediamo che sia l’unico
modo di affermare con sincerità, e non per una pigra consuetudine, le ragioni per cui il suo dono ancora vive in noi e il suo nome dura. Forse egli stesso, quando si paragonava ai più veramente grandi, ai classici, non avrebbe potuto e saputo sperare un riconoscimento maggiore. da Storia di Carducci, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Laterza, Bari 1960, pp 223-225 1. bakuniniano: che riprende il pensiero dell’anarchico | 2. filisteo: dalla mentalità borghese, meschina e conrusso Bakunin (1814-1876). formista.
La critica
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ANGELO
MARCHESE
Lettura semiotica di Pianto antico Il passo è un esempio significativo di critica semiotica. L'autore opera la sua analisi prima al livello delle forme del contenuto, mettendo in luce alcune opposizioni fondamentali (verde VS mart dita, luce vs negra, calor vs fredda), per arrivare così ad un’opposizione più profonda, vitalità natu rale vs inaridimento; per questa via riconferma in Carducci l’accettazione del materialismo posttivistico, calato in strutture di pensiero classico-naturalistiche. Poi conduce una verifica sul piano delle forme dell’espressione (livello fonico, morfologico, sintattico, metrico, retorico), e ne conclude la perfetta coerenza del testo, în cui tutti gli elementi costitutivi sono caricati di senso, e concorrono a costruire il senso globale.
Il nesso fondamentale è istituito dal triangolo: «albero»-«pianta»-«fior» che dà luogo sia a un paragone: «albero» (reale: il «melograno»): «pianta» (metafora: la vita del poeta) sia a una doppia metafora:
«fior» (riferito al figlio): «pianta» (riferito al padre).
Il rapporto fra il campo semantico referenziale!, quello dell’«albero»-«melograno», e il campo semantico metaforico, la «pianta-padre» e il «fiore-figlio» è evidentemente antitetico. Mentre il «verde melograno» manifesta, con una esuberante esplosione di colori («rinverdì», «vermigli fior»), la sua continuità vitale, la sua «paternità» ciclica ristorata dalla «luce» e dal «calore» della natura («giugno» sta metonimicamente per «primavera» e «primavera» per «natura»), la «pianta» dell’io-padre, privata dell’«estremo unico fior», ha subito come una violenza fatale e immotivata («percossa» implica per presupposizione la folgore che schianta e uccide, inaridisce), sicché la «vita» diventa insensata, «inutile».
I percorsi semantici si intrecciano, dunque: «fior» (metafora) implica «pianta» (metafora) per rapporto metonimico, interno (parte e tutto, generato e generante) e rimanda per antitesi all’identico rapporto fra «melograno» e «fior». Opposizione esplicita, l’abbiamo visto, dagli aggettivi: verde vs. percossa, inaridita, inutil
che manifestano l'opposizione semica? profonda: vitalità (naturale) vs. inaridimento (dolore) euforia vs. disforia
Un altro campo semantico antitetico è quello che oppone una coppia di sostantivi a una cop-
pia di aggettivi:
luce vs. negra
calor vs. fredda
La negazione della luce e del calore rappresenta, a livello figurativo, la condizione della morte, la catabasi? nella «terra», materialisticamente determinata come separazione dalla fonte vitale, il calore e la luce della natura («giugno»), del «sole». E ancora, come i verbi «rinverdire» e «risto-
rare» attestano la polarità euforica‘ del vitalismo naturalistico, così l'interruzione (e la privazione) di un rapporto positivo con la realtà è, al polo disforico, mancanza di gioia («né il sol più ti rallegra») e di amore (e si veda come l’impotenza disperata del padre si aggiunga e si sovrapponga a una cessazione di rapporti vitali naturali). «Risveglia» presuppone l’ovvia metafora in absentia* «sonno della morte», che ribadisce in conclusione tutte le connotazioni negative della lirica (il buio, il freddo, lo sfiorire, la stasi, il ib) referenziale: letterale. 2i opposizione semica: cfr. G, voce sema. Sì catabasi: discesa.
ax
dizione di ottimismo e vivacità, il secondo è il suo contrario (prostrazione, malinconia). 5. in absentia: in assenza, in mancanza. La metafora è
4. euforica: il vitalismo naturalistico ha due poli, quello | cioè implicita. «euforico» e quello «disforico», il primo designa una con-
Carducci
867 silenzio, l’estrema separatezza). Sicché gli ultimi quattro versi saturano il buco semantico del testo, quel «muto orto solingo» che per catafora® rimanda alla «terra fredda»-«terra negra», che è la definitiva localizzazione spaziale del bimbo, uno spazio chiuso e negativo com'è ora quello dell’« orto», senza la voce e la presenza del piccolo. (Si noti che «muto» è riferito a «orto» per ipallage”, con un felicissimo traslato fra la continuità ciclica della natura e l'interruzione, il vuoto creato dalla morte). Questa traccia di lettura testo-linguistica è ben lontano dall'essere completa, perché la poesia, anche al livello strettamente semantico, è ricchissima di connotazioni (ad esempio «estremo»,
«unico» rimandano per presupposizione a dati pragmatici*, della biografia e della psicologia del poeta). Ci interessa qui indicare il codice profondo di Pianto antico, il nucleo semantico-generativo del testo, il quale fa riferimento ad alcuni temi naturalistici (0 archetipi®) universali, in senso antropologico (il volgere delle stagioni, l'alternarsi della luce e delle tenebre, del caldo e del freddo e via dicendo). Se ne potrebbe ricavare uno schema interessante:
NATURA +|
luce vs. buio vita vs. morte primavera vs. inverno fiorire vs. sfiorire moto vs. stasi
vicenda privata: morte del figlio. Confronto poetafiglio: albero-fiore
CODICE NATURALISTICO Lo schema riconferma a livello di serie culturale, la sostanziale accettazione, da parte del Carducci, del materialismo positivistico, calato però in strutture di pensiero che potremmo definire classico-naturalistiche. La costruzione semantica generale ci permette di ritornare al testo per verificarne altre partiture, a diversi livelli (morfosintattico, retorico-figurativo, fonoprosodico). L’analisi delle strutture linguistiche mette in luce la prevalenza di elementi nominali attorno a due poli di attrazione nella prima parte del testo l’«albero» («L’albero... il verde melograno... rinverdì... e giugno...»), nella seconda il figlio («Tu fior... tu... sei... sei... né... né...»). Ed è evidente che la denotatività!° descrittiva delle prime due quartine (per quanto incrinata da due note memoriali che certificano l'assenza del bimbo: «tendevi» e «muto») è tutta proiettata verso la straziante allocuzione, quel «tu» che nemmeno l’amore del padre può risvegliare. L’economia, per così dire, della partitura sintattica è funzionale al contenimento della pena. Così pure il ricorso ad alcune figure del linguaggio (di posizione o sintattiche), come l’anafora («tu... tu», «sei ne la terra... sei ne la terra», «né... né»), l’epifora («fior... fior»), il chiasmo” («tu fior de la mia pianta... de l’inutil vita / estremo unico fior», «né il sol più ti rallegra / né ti risveglia amor») attesta, se ve ne fosse bisogno, la sapiente fattura e, se si vuole, la razionalità e l'equilibrio formali che, ancora, contemperano ogni eccesso sentimentale. Quanto alla partitura fonoprosodica!, si deve ricordare innanzitutto che la poesia è un’odierna anacreontica (il riferimento extratestuale a un istituto-cardine della letterarietà - la metrica - è ovviamente d’obbligo), composta di quattro quartine di settenari; il secondo e il terzo verso d’ogni strofa a rima baciata, il primo senza rima, il quarto (tronco) rimante col verso finale della strofa. L’esilità della struttura metrica, in apparente contrasto con il tono grave del contenuto, raffrena in una sorta di dolce nenia la piena del dolore, conforme al virile umanesimo carducciano. Le rime, assai sobrie, sottolineano nelle prime due quartine la continuità semantica fra «mano» e «melograno», fra il bimbo e la pianta, nella luce della memoria; mentre «mUTO» convoglia per riverbero fonico (paronomasia!8) «tUTtO» - staccato al centro del verso successivo -, in evidente opposizione di significato. 6. catafora: cfr. G.
7. ipallage: cfr. G. 8. pragmatici: cfr. G. 9. archetipi: modelli. 10. denotatività: cfr. G, voce denotazione.
11. anafora, epifora, chiasmo: cfr. G.
12. fonoprosodica: che riguarda il livello fonico della poesia e quello prosodico (la metrica). 13. paranomasia: cfr. G.
La critica
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una totalità di imma- | Suggestive iterazioni foniche crea anche il gruppo lor/, che unifica in
gini «fior», «orto», «or ora», «ristora», «calor». La ripresa di «fior», questa volta in funzioneo eata ilrapport metaforica e in riferimento al figlio, ripropone sulla scia musicale ora sottolin di vita natu- | oni di unità e di contrapposizione fra il bimbo e il melograno (cioè fra due espressi del rale). Le rime marcano i nessi negativi fra « inaridita» e «vita», unendo i campi semantici », («fredda li sensoria i aggettiv due nel padre e del figlio; la luminosità dell'apertura si spegne attiva le-a/, gruppi dei ica assonant one l’iterazi noti si e «negra») che ritmano la fatale sentenza anche negli ultimi due versi -, sicché «negra» è ripreso da « rallegra» nella continuità della negazione, che svuota di efficacia sia la natura sia l’amore.
Come si può constatare il livello eufonico !*-ritmico della poesia è perfettamente coerente con gli altri livelli costruttivi: semantico, morfosintattico e retorico (figurativo). Ilsenso globale della lirica si attiva, dunque, grazie alla complessa e sottile interazione fra i diversi livelli. Questo processo di semantizzazione!* di tutti gli elementi del testo è la riprova di quella totalità organica, autoregolata e connotativa!, che è tipica del testo letterario. da L'officina della poesia, Mondadori, Milano 1985, pp. 196-199 del testo si caricano di significato. 14. eufonico: concernente l’armonia dei suoni. 15. semantizzazione: il processo per cui tutti gli elementi | 16. connotativa: cfr. G, voce connotazione.
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Carducci
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IL NATURALISMO x
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- Per me, non c’è niente di più bello dei tramonti; soprattutto in riva al mare - disse Emma.
- Oh, io adoro il mare - esclamò Leone. dii sii. su quella ; - E poi, - continuò la signora Bovary, - non le pare che lo spirito erri più liberamente
i distesa illimitata, e che il contemplarla elevi l’anima e ispiri idee d’infinito, d ideale?
- Nei paesaggi di montagna è la stessa cosa — riprese Leone. sm Ho un cugino che l’anno scorso |
è stato in Svizzera. Mi diceva che è impossibile immaginarsi la poesia dei laghi, il fascino delle cascate, . l’effetto gigantesco dei ghiacciai. Si vedono pini d’una grandezza incredibile gettati attraverso tor- .
renti, capanne sospese su precipizi, e, a mille piedi sotto, quando s’aprono le nuvole, vallate intere. Questi spettacoli devono entusiasmare, disporre alla preghiera, all’estasi! Non mi stupisco più di quel |
famoso musicista che, per meglio eccitare la sua fantasia, soleva andare a sonare il pianoforte davanti |
a paesaggi imponenti. - Si diletta di musica? - chiese Emma. - No, ma mi piace molto. - Ah, non gli dia retta, signora Bovary, - interruppe Homais, chinandosi sul piatto — è tutta mode- | stia. Ma come, amico mio! Eh! L’altro giorno, in camera, lei cantava l'Angelo custode proprio d’in-) canto. La sentivo dal laboratorio; modulava le note come un vero artista! piazza. sulla piano, secondo al stanzetta una aveva Leone abitava infatti in casa del farmacista dove Arrossì al complimento del suo padrone di casa che già si era voltato verso il medico e gli enumerava, uno dopo l’altro, gli abitanti più in vista di Yonville. Raccontava aneddoti, dava informazioni. Non
si sapeva esattamente a quanto ammontasse il patrimonio del notaio; c'erano poi i Tuvache che si davano delle grandi arie. Emma riprese: - E quale musica preferisce? — Oh, la musica tedesca, quella che fa sognare. — Conosce gli artisti italiani? — Non ancora; ma li vedrò l’anno prossimo, quando sarò a Parigi per finire i corsi di legge.
- Come avevo l’onore - disse il farmacista - di esporre a suo marito a proposito di quel povero Yanoda che è scappato, lei si troverà a godere, grazie alle sue follie, di una delle case più comode di Yonville. Il principale vantaggio, per un medico, è una porta sul viale che permette di entrare ed uscire senza esser visti. Poi è fornita di tutte le comodità per una famiglia: lavanderia, cucina con dispensa, sala di soggiorno, fruttaio, ecc. Ah! quello era un tipo che non badava a spese! In fondo al giardino, vicino al fiume, si era fatto costruire un pergolato per andarci a bere la birra d’estate, e, se la signora ama il giardinaggio, potrà... — Mia moglie non se ne occupa molto - disse Carlo. - Benché le si raccomandi di far moto, preferisce restare a leggere in camera sua. — E come me - replicò Leone. - Che c’è di meglio, infatti, dello starsene la sera accanto al fuoco con un libro, mentre il vento batte ai vetri della finestra e la lampada arde?... — Non è vero? - disse Emma fissandolo coi suoi grandi occhi neri spalancati. - Non si pensa più a nulla, - egli continuò - le ore passano. Pur rimanendo immobili, si gira in paesi che par proprio di vedere, e il pensiero, avvinghiandosi alla finzione, si diletta nei particolari o segue Il filo delle avventure. Si mescola ai personaggi; ci pare che noi stessi palpitiamo sotto i loro abiti. — E vero! E vero! - diceva lei. - Le è capitato mai, - riprese Leone - di ritrovare in un libro un’idea che abbiamo già avuto vagamente, un'immagine incerta che torna da lontano, come l’esposizione completa del nostro sentimento più sottile? - Sì, l'ho provato - rispose lei. - Ecco perché amo soprattutto i poeti. Trovo che i versi sono più dolci della prosa e riescono meglio a far piangere.
— Alla lunga, però, stancano - riprese Emma. - Adesso, invece, mi appassiono ai racconti che si
leggono tutti d’un fiato, che fanno paura. Detesto i personaggi comuni e i sentimenti moderati che sl incontrano nella vita. - Infatti, - osservò il sostituto — quei lavori non toccano il cuore, si allontanano, mi sembra, dal vero fine dell'Arte. E così dolce, in mezzo alle disillusioni della vita, poter fermare il pensiero su caratIl Naturalismo francese
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teri mobili, affezioni pure, visioni di felicità. Quanto a me che sono qui, lontano dal mondo, questa
è la mia sola distrazione. Yonville offre così poche risorse! - Come Tostes, certo - riprese Emma. - E perciò ero sempre abbonata a una biblioteca circolante. [...] G. Flaubert, Madame Bovary, trad. it. cit.
ANALISI DEL TESTO I luoghi comuni
La stupidità
di Emma
e di Léon
Accanto all’evasione nei sogni (cfr. testo precedente), bersaglio della feroce demistificazione di Flaubert sono i luoghi comuni della conversazione borghese. Non si dimentichi che egli li raccoglieva, ordinandoli in successione alfabetica come le definizioni di un dizionario, con una cura maniacale che rivela irritazione e attrazione insieme. Tra Léon ed Emma nasce un’immediata intesa. Ciascuno ritiene di aver trovato nell’altro un’anima affine, accomunata da sensibilità e gusti artistici elevati, in contrapposizione alla grossolanità della gente di provincia. E, come si vede, i termini della conversazione hanno di nuovo un’impronta romantica. Ma in realtà l’arte e la sensibilità “squisita” sono degradate, nei due personaggi, a livello squallidamente piccolo borghese. Al di là delle loro pretese intellettuali e dei loro voli d’anima romantici, Emma e Léon partecipano, in forme diverse, alla stessa stupidità dell'ambiente che li circonda. Ciò è rivelato dalla piattezza e
dall’ovvietà dei loro discorsi, che non sono che una sfilata di luoghi comuni. Anche qui Flaubert si limita alla semplice registrazione delle battute di dialogo, senza alcun commento da parte del narratore: ma, come sempre, basta questo a far emergere in piena luce la stupidità che le impregna. L’impassibilità del narratore è lo strumento di un’implacabile irrisione.
| PROPOSTE DI LAVORO iu 1. Si provi a spiegare perché le affermazioni di Emma e Léon appaiono ridicole. 2. Trovare nelle affermazioni di Léon ciò che lo rende del tutto simile ad Emma.
Il grigiore della provincia e il sogno della metropoli È l’ultimo capitolo della prima parte. Qui l’insofferenza di Emma per la vita provinciale e il ménage coniugale tocca il culmine (parte I, cap. IX).
piacere. Sonava ai [...] Com'era Parigi? Che nome smisurato! Emma se lo ripeteva sottovoce, con
fin sull’etichetta dei suoi orecchi come una campana di cattedrale; le fiammeggiava davanti agli occhi Mica i 1 suoi barattoli di pomata. ri che di pesce, coi carrettie La notte, quando sotto le sue finestre passavano le carrette cariche ruote ferrate che si smordelle rumore il si svegliava; e, ascoltando
cantavano la Marjolaine!, Emma zava subito sulla terra battuta, all’uscita del paese: «Domani saranno laggiù», diceva tra sé! 1. la Marjolaine: canzone popolare.
Flaubert
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E li seguiva col pensiero su e giù per le colline, li vedeva attraversare i villaggi, correre sulla strada
maestra al chiarore delle stelle. Al termine di una distanza indeterminata, c’era sempre una piazza da | confusa dove il suo sogno svaniva.
Comprò una pianta di Parigi, e, scorrendo con la punta del dito sulla carta, girava per la capitale.
Seguiva i boulevards*, fermandosi a ogni angolo, fra le linee delle vie, davanti ai quadrati bianchi raffiguranti le case. Alla fine le si stancavano gli occhi; chiudeva le palpebre, e vedeva, nelle tenebre, palpitare al vento fiammelle di fanali a gas, mentre montatoi di carrozze s’aprivano, con gran rumore, davanti al peristilio dei teatri. S’abbonò a un giornale femminile, il Cestino, e al Silfo dei salotti; divorava, senza saltare una sola riga, le cronache delle prime rappresentazioni, delle corse, delle serate; s’interessava al debutto di una cantante o all'apertura di un negozio. Era al corrente della moda, sapeva chi erano i buoni sarti, quali erano i giorni dei ritrovi al Bois de Boulogne? o delle rappresentazioni all'Opéra. In Eugenio Sue* studiò la decorazione interna; lesse Balzac e Giorgio Sand’, cercandovi appagamenti immagi: nari alle sue bramosie personali. Portava i suoi libri perfino a tavola, e voltava le pagine mentre Carlo, mangiando, le parlava. [...] i Parigi, più vasta dell’oceano, brillava dunque, agli occhi di Emma, in un’atmosfera vermiglia. La vita molteplice che si svolgeva, agitata, in quel tumulto, era tuttavia divisa in parti, ordinata in quadri distinti. Emma ne scorgeva solo due o tre che le nascondevano tutti gli altri, e rappresentavano, da
soli, l’intera umanità.
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Il mondo degli ambasciatori si moveva su pavimenti lucidi, in saloni tappezzati di specchi, attorno a tavole ovali coperte da un tappeto di velluto con la frangia dorata. V’erano abiti a strascico, grandi misteri, angosce dissimulate sotto il sorriso. Veniva poi la società delle duchesse: gente pallida che si alzava alle quattro del pomeriggio; le donne, poveri angioli!, portavano sottane guarnite di merletti in punto inglese, e gli uomini, capacità sconosciute sotto apparenze frivole, facevano scoppiare i loro cavalli in gite di divertimento, andavano a passare l’estate a Baden®, e, verso la quarantina, sposa: vano qualche ricca ereditiera. i Nei salottini dei ristoranti dove si cena dopo la mezzanotte, si divertiva, al lume delle candele, la folla variopinta dei letterati e delle attrici, creature prodighe come re, piene d’ambizioni ideali e di deliri fantastici. Era una vita superiore; fra cielo e terra, fra le tempeste, qualcosa di sublime. Quanto al resto dell’umanità, era perduta, senza un posto preciso, e come inesistente. D'altronde, più le cose erano reali e vicine, e più il pensiero di Emma se ne allontanava. Tutto ciò che la circondava in modo immediato, la campagna noiosa, i piccoli borghesi imbecilli, la mediocrità dell’esistenza, tutto le sembrava un’eccezione del mondo, un’accidentalità particolare nella quale ella si trovava imprigionata mentre al di là si stendeva, a perdita d’occhio, l’immenso paese delle felicità e delle passioni. Ella confondeva, nel suo desiderio, la sensualità del lusso con le gioie del cuore, l'eleganza delle abitudini con le delicatezze del sentimento. L'amore non aveva forse bisogno, come le piante esotiche, di un terreno preparato, di una temperatura speciale? I sospiri al chiaro di luna, i lunghi abbracci, le lacrime che scorrono sulle mani abbandonate, tutte le febbri della carne e i languori della tenerezza, non si separavano,
dunque, dal balcone dei grandi castelli pieni di agi, da un salottino con le tende di seta e un tappeto ben folto, dalle giardiniere” fiorite, da un letto disposto su un piedistallo, né dallo scintillio delle pietre preziose e dei galloni delle livree. Il mozzo di stalla, che ogni mattina veniva a governare la cavalla, attraversava il corridoio coi suoi
grossi zoccoli; aveva il camiciotto strappato e i piedi nudi nelle ciabatte. Era quello il valletto in cal-. zoni corti* di cui bisognava contentarsi! Quando aveva finito il suo lavoro, se ne andava e non tornava più per tutta la giornata, poiché Carlo, rincasando, portava con sé la bestia nella scuderia, le toglieva la sella e le metteva lacavezza, mentre la domestica portava un fastello di paglia e lo buttava, alla bell'e meglio, nella mangiatoia. [...] 2. boulevards: i grandi viali parigini.
(1804-1857) autore di romanzi popolari come I misteri di Parigi (1842-48) alle porte di Parigi. Era il luogo di ritrovo 5. Giorgio Sand: pseudonimo della scritdella buona società e la meta del corso delle tura francese Aurore Dupin (1804-1876). carrozze. i 6. Baden: località termale tedesca, luogo 4. Eugenio Sue: romanziere francese | di ritrovo della società aristocratica. 3. Bois de Boulogne: grande pàrco, allora
Il Naturalismo francese
7. giardiniere:
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8. calzoni corti: la livrea della servitù nelle case aristocratiche esigeva i calzoni al ginocchio, secondo la moda settecentesca. i
881 Ma in fondo al cuore aspettava un avvenimento. Come i marinai in pericolo, girava occhi disperati sulla solitudine della sua vita cercando lontano qualche vela bianca tra le brume dell’orizzonte. Non sapeva cosa le sarebbe toccato, qual vento avrebbe spinto fino a lei quella vela, su quale riva l'avrebbe | condotta, se sarebbe stata una scialuppa o un gran vascello a tre ponti, carico d’angoscia o pieno di felicità fino ai portelli. Ma ogni mattina, nello svegliarsi, ella sperava per quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, si stupiva che nulla accadesse; poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava trovarsi all'indomani. Tornò la primavera. Emma ebbe qualche difficoltà di respiro ai primi calori, quando fiorirono i peri. Sin dai primi di luglio, cominciò a contare sulle dita quante settimane mancavano per arrivare a ottobre, pensando che forse il marchese di Andervilliers avrebbe dato un altro ballo a Vaubyessard?.
Ma il settembre passò senza che arrivassero lettere né visite. Dopo quella delusione, il suo cuore restò nuovamente vuoto, e ricominciò allora la serie monotona delle giornate. Si sarebbero dunque, ormai, susseguite così, sempre uguali, innumerevoli, senza apportar nulla di nuovo! Le altre esistenze, per piatte che fossero, avevano almeno la probabilità di un evento
imprevisto. Un'avventura provocava talvolta infinite peripezie, e la scena cambiava. Ma a lei non accadeva nulla, Dio aveva voluto così! L’avvenire era un corridoio nero, con in fondo una porta sprangata. Lasciò andare la musica. Perché suonare? Chi l’avrebbe ascoltata? Non avrebbe mai potuto suonare in un concerto, sopra un pianoforte Erard, vestita di velluto, con le maniche corte; percuotere con le sue dita leggere i tasti d’avorio, e sentir circolare, come una brezza, intorno a sé, un mormorio
estasiato. Non valeva dunque la pena di tediarsi a studiare. Abbandonò così anche il disegno e il ricamo. A che scopo? A che scopo? Cucire l’irritava. «Non ho più nulla da leggere», diceva tra sé; e stava là, a far arroventare le molle sul fuoco, o a guardar cadere la pioggia. Com'era triste, la domenica, quando sonavano i vespri! Ascoltava, in un ebetismo attento, battere,
a uno a uno, i rintocchi sordi della campana. Qualche gatto passeggiava lentamente sui tetti, arcuando il dorso ai raggi pallidi del sole. Sulla strada maestra il vento sollevava nuvoli di polvere. Lontano, talvolta, un cane urlava; e la campana, a intervalli uguali, continuava il suo rintocco monotono che si perdeva nella campagna. Intanto la gente usciva dalla chiesa. Le donne con gli zoccoli lustrati, i contadini con la blusa nuova, i ragazzini saltellanti a testa nuda davanti a loro. Tutti tornavano a casa. E fino a notte, cinque 0 sei uomini, sempre gli stessi, rimanevano a giuocare al turacciolo davanti alla porta della locanda. L’inverno fu freddo. I vetri delle finestre, ogni mattina, erano carichi di brina, e la luce che ne filtrava, biancastra come se avesse attraversato vetri smerigliati, rimaneva talvolta immutata per tutta la giornata. Alle quattro della sera bisognava accendere il lume. Nei giorni di bel tempo, Emma scendeva in giardino. La rugiada aveva lasciato sui cavoli trine d’argento, con lunghi fili chiari che si stendevano dall’uno all’altro. Non s’udivano uccelli, ogni cosa sembrava addormentata, anche la spalliera coperta di paglia, e la vite, simile a un grosso serpente ammalato, sotto il tettuccio del muro, dove, avvicinandosi, si vedevano muoversi i porcellini di terra | dalle molte gambe. Tra gli abeti nani, vicino alla siepe, il curato in tricorno!°, che leggeva il breviario, aveva perso il piede destro, e il gesso, sfaldandosi col gelo, gli aveva messo croste bianche sul viso. Poi Emma rientrava in casa, chiudeva la porta, attizzava i carboni e, quasi svenuta al calore del la domefuoco, sentiva la noia ricadere più pesante su di lei. Avrebbe ben voluto scendere a parlare con i ‘ stica, ma una specie di pudore la tratteneva. [...] a pianterMa era soprattutto all’ora dei pasti ch’ella non ne poteva più in quella piccola camera che pareva le umidi; i paviment i reno, con la stufa che fumava, la porta cigolante, i muri trasudanti, delfondo dal salivano bollito, del fumo le mettessero nel piatto tutta l'amarezza dell’esistenza, e, col va qualche nocl’anima sua come altre zaffate di scipitezza. Carlo mangiava lentamente. Lei rosicchia la punta del con cerata tela sulla righe o ciuola, oppure, appoggiata al gomito, si distraeva tracciand coltello. [...] G. Flaubert, Madame Bovary, trad. it. cit. 10. curato ... tricorno: la statua in gesso strappata al 9. ballo ... Vaubyessard: Emma era stata | sperienza unica, che l’aveva un curato, che si trova nel giardino. di | e borghese esistenza sua della ad un ballo al castello | grigiore ‘invitata dal marchese lungo. a l'aveva fatta sognare della Vaubyessard. Era stata per lei un’e-
Flaubert
882 ANALISI DEL TESTO Emerge innanzitutto in queste pagine l’aspetto più tipico del “bovarismo”: l’insofferenza per la monotonia della vita di provincia e per la mediocrità del ménage familiare genera il sogno di un mitico “altrove”, in cui la vita è piena e splendida; e questo “altrove” assume qui le forme della metropoli. Parigi ha, quindi, la stessa funzione del Medio Evo e dei golfi mediterranei delle rèveries già analizzate (cfr. T189). Anche in questo caso il sogno è costruito con materiali ricavati dai libri. Emma non può vivere direttamente la realtà, ma deve mediarla attraverso la letteratura (di second’ordine, commisurata al suo mediocre livello di cultura). Per lei la lettura è una sorta di droga, lo strumento per un “viaggio” fuori della dimensione consueta. E proprio il tentativo di vivere nella realtà i sogni sognati sui libri la porterà alla rovina e alla morte. Al ritorno da questi “viaggi” procurati dalla droga letteraria, Emma ritrova con disgusto la realtà quotidiana, che è rozza e volgare: si noti lo stacco fortissimo tra le immagini sognate, di lusso aristocratico e di passione, e la figura dello stalliere che le si presenta innanzi. Queste pagine sono significative anche per la tecnica narrativa usata da Flaubert. Sono un esempio della focalizzazione interna che domina nel romanzo. Il punto di osservazione è collocato essenzialmente nel personaggio. Tranne brevi didascalie oggettive, vediamo tutto attraverso la sua prospettiva. Però, come ha osservato Auerbach in un’analisi esemplare (in Mimesis, trad. it., Einaudi, Torino 19642, vol. II, pp. 257-259), Emma non solo vede, ma è anche vista vedere. Si avverte sempre la presenza implicita del narratore, che organizza la percezione in una forma a cui il personaggio, preda delle sue angosce, non saprebbe arrivare. Si prendano tre descrizioni: il quadro desolato del paese alla domenica, il giardino, la sala da pranzo all’ora dei pasti. Sono le realtà che entrano nel campo visivo di Emma, e le vediamo come le vede lei, attraverso il suo stato d’animo, che ie fa dare rilievo a determinati particolari, poiché rappresentano emblematicamente lo squallore del suo stato (il vento
che solleva la polvere, ad esempio, la statua del curato sbrecciata, i muri trasudanti umidità). Questi quadri, però, sono organizzati da una prospettiva superiore: Emma non saprebbe ordinare così le sue confuse percezioni, e tanto meno esprimerle così chiaramente. Tuttavia, non abbiamo mai un intervento esplicito e scoperto del narratore; la sua prospettiva si fonde indissolubilmente con quella del personaggio. Così avviene per i pensieri dell'eroina. Flaubert usa magistralmente il discorso indiretto libero per riprodurli. Si veda ad esempio il periodo che inizia: «Si sarebbero dunque, ormai, susseguite così...». Evidentemente, è Emma che pensa queste cose. Ma l’immagine finale del «corridoio nero» con la porta sprangata al fondo sembra appartenere al narratore più che al personaggio: il narratore sembra tradurre le confuse sensazioni di Emma nel proprio linguaggio, usando proprie immagini. Ma non si può nemmeno escludere che la preziosità letteraria della metafora voglia riprodurre il modo di esprimersi di Emma, nutrito di letteratura di second’ordine. Questa impossibilità di distinguere le due “voci”, quella del personaggio e quella del narratore, che sfumano l’una nell’altra (un critico, Roy Pascal, ha parlato di «voce duale»), dà origine a quella complessità di piani e a quelll’ambiguità che, come si indicava, è peculiare della narrazione impersonale di Flaubert. Questa fusione di voce e prospettiva tra personaggio e narratore fa sì che quella “traduzione” dei pensieri di Emma, a cui si accennava sopra, non elimini per nulla il carattere soggettivo del punto di vista che orienta la narrazione. La presenza del narratore in questa forma non assicura alla narrazione una prospettiva centrale sicura, che fornisca un’interpretazione univoca dei fatti, come nei romanzi classici di Balzac o di Manzoni, dove la prospettiva unificante è affidata al narratore onnisciente e ai suoi continui interventi.
Il Naturalismo francese
Il sogno di Parigi
La letteratura come droga
La focalizzazione interna
La presenza implicita del narratore
Le due voci,
personaggio e narratore
Soggettività della narrazione
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0. PROPOSTE DI LAVORO 1. Individuare i discorsi indiretti liberi. 2. Quali elementi possono rimandare alla “voce” del narratore? 3. Oltre a quelli indicati nell'analisi del testo, individuare nelle tre descrizioni sottolineate (quadro del paese, giardino, sala da pranzo) quegli elementi che ci fanno capire che esse riproducono la visione di Emma. 4. Distinguere le parti nelle quali si descrivono le fughe di Emma verso il mondo immaginato da quelle in cui compare l'osservazione della mediocre realtà quotidiana. 5. Il capitolo è ricco di oggetti: la pianta di Parigi, le riviste di moda, gli abiti di Emma, i vasi di vetro azzurro, ecc. Questi oggetti sono in rapporto con la psicologia di Emma? Costituiscono un elemento simbolico della narrazione?
Se si legge interamente il cap. IX: 6. Da quale punto di vista sono scritte le parti del capitolo che riguardano Carlo? Quali aspetti della sua personalità sono nettamente contrastanti con quelli di Emma? È un caso che spesso questo personaggio sia descritto mentre mangia?
+ Cfr. La critica, C48
MH L’educazione
sentimentale
Il protagonista del romanzo è Frédéric Moreau, un giovane provinciale che sogna romanticamente passioni sublimi e gloria letteraria (è quindi l’ideale fratello dell’eroina di Madame Bovary). L'azione inizia nel 1840. Frédéric, diciottenne, incontra su un battello fluviale madame Arnoux, moglie di un volgare mer-
cante d’arte, e si innamora di lei. Sarà l’amore di tutta la sua vita. A Parigi, dove segue con poco profitto i corsi di Legge, e conduce la vita di bohème degli studenti, stringe amicizia con Arnoux e frequenta la sua casa. Scopre così che egli tradisce la moglie con Rosanette, una ragazza di vita. Frequenta un gruppo di intellettuali ambiziosi e mediocri, tra cui il vecchio amico Deslauriers, che aspira al potere politico e vive frustrato dall’insuccesso e dalla miseria. Viene introdotto anche nel salotto di madame Dambreuse, moglie di un potente banchiere. Divenuto benestante grazie ad un’eredità, conduce vita mondana e lussuosa, restando
però sempre innamorato di madame Arnoux. Rifiutato dalla donna, che pure lo ama segretamente, allaccia una relazione con Rosanette, convive con lei e ne ha un figlio (che però muore ben presto). Frédéric si dimostra incapace di agire, di determinarsi in una scelta di vita. Di idee democratiche, segue affascinato la rivoluzione del ‘48, anche se non partecipa agli eventi, tutto preso dalle sue relazioni sentimentali. Avrebbe anche la possibilità di essere eletto all'Assemblea, ma come al solito esita, e la possibilità sfuma. La feroce
repressione degli operai affamati che manifestano fa crollare tutte le sue speranze. Gradatamente egli si . allinea con i conservatori. Diviene l’amante di madame Dambreuse, sperando di fare una brillante carriera grazie a lei, ma poi abbandona sia lei che Rosanette, disgustato dalla meschinità delle due donne, e sprofonda nella noia e nella disillusione. Una sera, nel ’67, riceve la visita di madame Arnoux. Rievocano insieme
ciò che non hanno potuto avere, e la donna se ne va lasciandogli una ciocca dei suoi capelli ormai bianchi.
Flaubert
884 me
T191
—.
Adolescenza e senilità:
;lrifiuto della scelta
È la pagina conclusiva del romanzo. Frédéric incontra l’amico Deslauriers, che l’aveva tradito sposando la fanciulla che avrebbe voluto sposare lui, Louise Roque. Insieme fanno un bilancio delle loro esistenze mancate e dei loro sogni delusi (parte III, capitolo VII).
Verso l’inizio dell'inverno, riconciliati ancora una volta, quasi fatalmente, da una natura che lispingeva
sempre a ritrovarsi e a volersi bene, Federico e Deslauriers stavano chiacchierando davanti al fuoco. | [...] E si misero a fare un sommario della loro vita. il sognato Tutt’e due avevano fatto fiasco: quello che aveva sognato l’amore! e quello che aveva potere?. E le ragioni, quali erano state? «Forse», disse Federico, «la mancanza d’una linea precisa». «Questo può valere per te. Io, al contrario, ho peccato proprio per eccessiva linearità, per non aver. tenuto conto delle mille cose secondarie che sono poi le più importanti di tutte. Io ho avuto troppa logica, tu troppo sentimento». Poi si sfogarono a dar la colpa al caso, alle circostanze, all’epoca in cui erano nati. «Non pensavamo certo d’arrivare a questo,» disse Federico, «quando tu progettavi, a Sens, una storia critica della filosofia, e io un grande romanzo medioevale su Nogent... Il soggetto l'avevo trovato in Froissart3: “Del modo tenuto da messer Brokars de Fénestranges e dal vescovo di Troyes nell’assalire messer Eustache d’Ambrecicourt”. Ti ricordi?». E tutti i momenti, esumando la loro giovinezza, si chiedevano l’un l’altro: «Ti ricordi?». Rivedevano il cortile del collegio, la cappella, il parlatorio, la sala d’armi a pianterreno, e certe . figure d’istitutori e d’allievi: un certo Angelmarre, nativo di Versailles, che ritagliava le suole degli stivali smessi, il signor Mirbal coi suoi favoriti rossi, i due professori di disegno geometrico e d’ornato, Varaud e Suriret, sempre in lite tra loro, e il polacco, compatriota di Copernico‘, astronomo ambulante che girava col suo sistema planetario di cartone e ch’era stato compensato per la sua conferenza
con un pasto in refettorio. E poi quella tremenda bevuta durante una gita, i primi sigari, la distribuzione dei premi, l’allegria delle vacanze... Era stato nelle vacanze del ’37 ch’erano stati dalla Turca. La donna che chiamavano così aveva per suo vero nome quello di Zoraide Turc; e molti credevano che fosse una musulmana, una turca, il che aumentava il fascino poetico della sua casa posta sulla riva del fiume, dietro le mura dei bastioni. Anche in piena estate c’era sempre ombra intorno all’edificio, reso inconfondibile dal vaso di pesci rossi posato sul davanzale accanto a una piantina odorosa. Le signorine, tutte in camiciola bianca, le gote imbellettate e, certi lunghi orecchini, battevano contro i vetri quando si passava davanti; e alla sera, ferme sulla soglia, canterellavano con le loro voci dolci e rauche. Quel luogo di perdizione era fantasticamente noto in tutto il cireondario. Per indicarlo si usavano perifrasi: «Il posto che sapete; una certa via; dall’altra parte dei ponti». Le mogli dei fattori, nei dintorni, tremavano per i loro mariti, le borghesi stavano in pena per le loro domestiche dal giorno che la cuoca del viceprefetto era stata sorpresa là dentro. Ed era, naturalmente, la segreta ossessione di tutti gli adolescenti.
Una domenica mentre tutti erano ai vespri, Federico e Deslauriers, dopo essersi fatti radere e arric-
ciare i capelli, avevano raccolto dei fiori nel giardino della signora Moreau, erano usciti dalla parte dei campi e, fatto un lungo giro attraverso i vigneti, eran tornati per la Pescheria e s'erano infilati dalla Turca, sempre coi loro mazzi di fiori in mano. Federico aveva offerto il suo come un pretendente a una fidanzata. Ma un po’ per il caldo che faceva il sognato ... amore: Frédéric, il prota-
gonista. i 2. sognato ... potere: Deslauriers, l’a-
mico.
Il Naturalismo francese
8. Froissart: cronista francese (1337-1404
circa). Le sue Cronache narrano le vicende di Francia, Inghilterra, Spagna, dal 1327 al 1400.
4. Copernico: l’astronomo polacco (1473-
1543) che elaborò la teoria astronomica che rivoluzionò quella tolemaica.
885 là dentro, un po’ per lo sgomento dell'ignoto, per una specie di rimorso, fors’anche per il piacere di
vedere con una sola occhiata tante donne tutte a sua disposizione, Federico s’emozionò a tal punto che si fece pallidissimo e restava lì senza muoversi, senza parlare. Le ragazze, rallegrate dal suo imbarazzo, s'erano messe a ridere; credendosi beffato, Federico era scappato via; e dato ch'era lui ad avere
i soldi, Deslauriers era stato costretto a seguirlo. Li avevan visti uscire; e n’era nata una storia di cui si parlava ancora dopo tre anni. Se la raccontarono da capo con tutti i particolari; ciascuno completava i ricordi dell'altro. QuanB'ebbero finito:
«Non abbiamo mai avuto niente di meglio, dopo», disse Federico. «Già, forse hai proprio ragione: non abbiamo avuto di meglio», disse Deslauriers. G. Flaubert, L'educazione sentimentale, trad. it. di G. Raboni, Garzanti, Milano 1966
ANALISI DEL TESTO Il piacere solo fantasticato
Il rifiuto della scelta
Una gioventù protratta indefinitamente
Adolescenza e senilità
La crisi dell’individuo
Gli eroi “inetti” del secondo Ottocento
La pagina finale è in calando rispetto al resto del romanzo, che termina così con toni grigi e spenti. I ricordi dei due amici si incentrano intorno all'episodio della casa di tolleranza: ciò non è casuale, perché l'episodio è denso di significato in ordine alla figura dell’eroe e al romanzo intero. Frédéric e l’amico erano stati spinti nella casa proibita dal forte desiderio sessuale; ma vedere in un solo colpo d’occhio tante donne a disposizione, aveva impedito a Frédéric di scegliere. A distanza di anni, ai due amici sembra che quella sia stata la cosa più bella che essi abbiano avuto dalla vita: il piacere solo fantasticato, e non goduto nella realtà. E una conclusione desolata: l’autore è amaramente ironico nei confronti del suo antieroe. Si tratta di un’ironia impassibile, sfuggente, come sempre in Flaubert, e quindi difficile da decifrare in modo definitivo. Con l’aiuto delle acutissime pagine di Franco Moretti (cfr. M8), tentiamo un’interpretazione. Frédéric preferisce l'immaginario al reale perché nell'immaginario sono compresenti tutte le possibilità; ogni determinazione negherebbe la rosa infinita dei possibili; ogni soddisfazione parziale del desiderio sarebbe deludente, perché ben più angusta della soddisfazione fantastica. Solo la fantasticheria può dare la disponibilità illimitata del reale. Per questo Frédéric in tutta la sua vita rifiuta di scegliere, come aveva fatto nell’episodio adolescenziale del bordello, vivendo solo nella fantasia. Per questo può indicare come la cosa migliore della sua vita il momento in cui, dinanzi a tante donne a disposizione, non ha scelto, riservandosi l’illimitata disponibilità nel sogno. Ma ciò significa non voler mai diventare adulto, non voler avere un rapporto maturo col reale. La vita di Frédéric è una forma di gioventù protratta indefinitamente, La gioventù è appunto quel momento in cui tutta la vita ci sta ancora davanti, e si è sospesi nell'attesa della scelta di un percorso. Quello di Frédéric è in definitiva il ritratto di un’iÎmmaturità, di un’impotenza di fronte al reale. Ma questa condizione di gioventù protratta trapassa di colpo, senza mediazioni, nella senilità, nel «vuoto intellettuale» e nell’«inerzia del cuore», nel rimpianto della propria vita mancata, dei sogni delusi, delle ambizioni non realizzate. Il momento intermedio della maturità, come rapporto diretto e attivo col reale, è scomparso. Adolescenza e senilità sono due estremi che finiscono per identificarsi. È una diagnosi crudele di una condizione tipica dell’uomo della fase dell’avanzata modernità. Le grandi forze impersonali che ormai a fine secolo dominano la vita sociale (la grande industria, la grande finanza, che si avviano alla condizione monopolistica) non lasciano più spazio all’individuo e alla sua azione. Tramonta un grande mito, caro alla cultura ottocentesca: quello dell’individuo energico e libero, capace di crearsi il proprio mondo con l’iniziativa e la volontà, nella sfera pubblica come in quella privata. Le pagine degli scrittori europei del secondo Ottocento sono piene di simili eroi “inetti”, immaturi, impotenti di fronte alla realtà, incapaci di scegliere e di agire, testimoniando quanto questa crisi dell’individuo nella società industriale avanzata sia un fatto centrale, tragicamente sentito. Nella letteratura italiana il grande interprete critico di questa condizione di crisi sarà Svevo, in particolare con Senilità (1898). Il romanzo di Flaubert coglie con geniale anticipo questa tematica.
Flaubert
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D°
® | personaggi dell’ Educazione sentimentale hanno sempre sognato ciò che non hanno avuto mai; sono confrontabili con Madame Bovary? ME
A72. Edmond
on 3
e Jules de Goncourt
I due fratelli Edmond e Jules de Goncourt (1822-1896 e 1830-1870) costituiscono un caso singolare di collaborazione letteraria. Godendo di notevole agiatezza, dedicarono tutta la loro vita all’arte. Raffinati collezionisti di curiosità estetiche, scris-
I documenti realistici
Il gusto morboso
Il Diario
sero varie opere di storia, di arte, di costume, con particolare predilezione per il Settecento e il Giappone. Scrissero anche numerosi romanzi, nati da una scrupolosa documentazione dal vero e tesi a descrivere costumi umani, con un’insistita attenzione per gli ambienti, ricostruiti attraverso la somma di minuziosi particolari: Suor Philomène (1861), Renée Mauperin (1864), Germinie Lacerteux (1865), Manette Salomon (1867), Madame Gervasais (1869). Dopo la morte prematura di Jules, Edmond continuò da solo a produrre romanzi: Elisa, ragazza di piacere (1877), I fratelli Zemganmo (1879), La Faustin (1882). In questi romanzi ripresero le idee più realistiche di Balzac e di Flaubert, ma vi unirono una curiosità estetizzante e sensuale per l’abnorme, il morboso, il brutto, il patologico. Furono pertanto tra gli iniziatori della.
narrativa naturalistica, ma per altri aspetti le loro opere rivelano cospicue venature di decadentismo. E un tratto tipico di tutta la cultura di quest’età (si è già visto il caso di Zola), in cui si fondono tendenze contrastanti, naturalistiche, tardo-romantiche e decadenti. L’opera più importante resta però il loro Diarto, iniziato nel 1851, e che Edmond, morto il fratello, continuò sino al 1895 (fu poi pubblicato in ben nove volumi). È una vera miniera di notizie sulla cultura e la società letteraria del tempo, una galleria di ritratti di uomini celebri, spesso centrati con corrosiva acutezza mediante piccoli particolari rivelatori. Edmond lasciò tutta la sua cospicua fortuna per la costituzione di una «Società letteraria Goncourt», che distribuisse ogni anno un premio ad un’opera letteraria. Ancor oggi il «Goncourt» è il premio letterario più prestigioso di Francia.
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La Prefazione a Germinie Lacerteux:
un manifesto del Naturalismo
La Prefazione, datata ottobre 1864, è uno dei primi e più significativi “manifesti” del Naturalismo francese. Il romanzo, uscito nel 1865, è la storia di una serva, malata di isteria, che si degrada progressivamente, fino alla morte, per una passione amorosa. Fu ispirato da un caso vero, quello di una domestica dei due fratelli. Nel rico-
struire la vicenda, essi si fondano su una rigorosa documentazione: si tratta dunque di un “documento umano”, una formula che avrà poi molta fortuna nel Naturalismo.
Dobbiamo chiedere scusa alpubblico per questo libro che gli offriamo e avvertirlo di quanto vi troverà. Il pubblico ama i romanzi falsi: questo romanzo è un romanzo vero. Il Naturalismo francese
887 —_ Amai romanzi che dànno l’illusione di essere introdotti nel gran mondo: questo libro viene dalla strada. «_ Amaleoperette maliziose, le memorie di fanciulle, le confessioni d’alcova!, le sudicerie erotiche, lo scandalo racchiuso in un’illustrazione nelle vetrine di librai: il libro che sta per leggere è severo e puro. Che il pubblico non si aspetti la fotografia licenziosa del Piacere: lo studio che segue è la clinica dell’Amore?. Il pubblico apprezza ancora le letture anodine*? e consolanti, le avventure che finiscono bene, le
fantasie che non sconvolgono la sua digestione né la sua serenità: questo libro, con la sua triste e violenta novità, è fatto per contrariare le abitudini del pubblico, per nuocere alla sua igiene. a mai dunque l'abbiamo scritto? Proprio solo per offendere il lettore e scandalizzare i suoi gusti? O. Vivendo nel diciannovesimo secolo, in un’epoca di suffragio universale, di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette «classi inferiori» non abbiano diritto al Romanzo; se questo mondo
sotto un mondo, il popolo, debba restare sotto il peso del «vietato» letterario e del disdegno degli autori che sino ad ora non hanno mai parlato dell’anima e del cuore che il popolo può avere. Ci siamo chiesti Se possano ancora esistere, per lo scrittore e per il lettore, in questi anni d’uguaglianza che viviamo, classi indegne, infelicità troppo terrene, drammi troppo mal recitati, catastrofi d’un terrore troppo poco nobile. Ci ha presi la curiosità di sapere se questa forma convenzionale di una letteratura dimenticata e di una società scomparsa, la Tragedia, sia definitivamente morta; se, in un paese senza caste ‘e senza aristocrazia legale, le miserie degli umili e dei poveri possano parlare all’interesse, all’emozione, alla pietà, tanto quanto le miserie dei grandi e dei ricchi; se, in una parola, le lacrime che si piangono in basso possano far piangere come quelle che si piangono in alto. Queste meditazioni ci hanno indotto a tentare l’umile romanzo di Suor Filomena, nel 1861; e adesso
ci inducono a pubblicare Le due vite di Germima Lacerteux. Ed ora, questo libro venga pure calunniato: poco c'importa. Oggi che il Romanzo si allarga e ingrandisce, e comincia ad essere la grande forma seria, appassionata, viva, dello studio letterario e della ricerca sociale, oggi che esso diventa, attraverso l’analisi e la ricerca psicologica, la Storia morale contemporanea, oggi che il Romanzo s'è imposto gli studi e i compiti della scienza, può rivendicarne la libertà e l'indipendenza. Ricerchi dunque l'Arte e la Verità; mostri miserie tali da imprimersi nella memoria dei benestanti di Parigi; faccia vedere alla gente della buona società quello che le dame di carità hanno il coraggio di vedere, quello che una volta le regine facevano sfiorare appena con gli occhi, negli ospizi, ai loro figli: la sofferenza umana, presente e viva, che insegna la carità; il Romanzo abbia quella religione, che il secolo scorso chiamava con il nome largo e vasto di Umanità; basterà questa coscienza: ecco il suo diritto.
Parigi, ottobre 1864.
E. e J. de Goncourt, Germinie Lacerteux, trad. it. di O. Del Buono, Rizzoli, Milano 1951 1. confessioni d’alcova: confessioni intime, segrete. 2. la clinica dell'Amore: è lo studio scien-
tifico, clinico dell'amore. 3. le letture anodine: disimpegnate, che provocano diletto ma istupidiscono; l’ag-
gettivo è usato in medicina per indicare un prodotto analgesico, sedativo.
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ANALISI DEL TESTO Da questo manifesto emergono alcuni punti essenziali della poetica del Naturalismo: _ il rifiuto della narrativa di consumo, convenzionale, di evasione, ed il perseguimento
I punti essenziali della poetica
di finalità serie, la ricostruzione della «storia morale contemporanea»; il proposito di non
naturalistica
;
curarsi, in questa ricostruzione, dei gusti del pubblico, anzi, di andare provocatoriamente i contro le sue abitudini più consolidate; tranarrativa dalla esclusa reale, del zona - l’acquisizione alla letteratura di una nuova chiave in trattati vengono che drammi, loro i e miserie loro le dizionale: le classi inferiori, È seria; come scienza, della fini dei e ico - l'attribuzione alla letteratura del rigore metodolog E.e J. de Goncourt
888 prescriveva la contemporanea mentalità positivistica; viene dato per scontato che la forma di: SPORE, | per eccellenza di questa nuova letteratura è il romanzo; - l'intento dello studio sociale, dell’analisi di miserie della società, in nome di una visione F umanitaria. È necessario però distinguere queste enunciazioni teoriche dalla realtà effettiva delle opere dei Goncourt. Ciò che spingeva i due scrittori a rappresentare il popolo era soprattutto la ricerca del nuovo e del raro, di sapori inediti e forti, propria di un gusto ormai sazio ed annoiato. Lo stesso Edmond annotava nel Diario il 3 dicembre 1871: «Il popolo, la canaglia, se volete, ha per me l’attrazione delle popolazioni sconosciute e non ancora esplorate, qualche cosa di quell’esotico che ricercano i viaggiatori». enti. In particolare in Germinie Lacerteux ciò che muove i due scrittori è un'attrazione sensuale, morbosa, per il brutto, il repellente, il patologico; qualche cosa che non ha nulla a che vedere con l’obiettività scientifica e documentaria, ma rivela semmai quelle tendenze decadenti di cui si diceva. E non vi è veramente la volontà di inserire in una rappresentazione letteraria il proletariato operaio, la classe nuova che si affacciava alla ribalta sociale nella nuova organizzazione industriale: il romanzo tratta di una serva, cioè ancora di un’appendice della borghesia (su questi aspetti, cfr. E. Auerbach, Mimests, cit., vol. II, p. 275).
Il gusto | pa ie
€ del raro i L’attrazione morbosa per
il patologico
PROPOSTE DI LAVORO mumunni 1. Estrapolare dai primi paragrafi del testo le opposizioni che i de Goncourt individuano tra il gusto del pubblico e la propria opera. 2. Quale ideologia traspare dalle indicazioni fornite sul XIX secolo e dal giudizio sul popolo? 3. Quali compiti sociali vengono affidati al romanzo? 4. Il metodo scientifico («Il Romanzo s’è imposto gli studi e i compiti della scienza») quali effetti comporta?
A73. Emile Zola
Thérèse Raquin I Rougon-Macquart
L’Assommoir
Le serate di Médan
Figlio di un ingegnere italiano e di una francese, nacque a Parigi nel 1840. Trascorse l'infanzia ad Aix-en-Provence, dove si legò d’amicizia con il futuro grande pittore Paul Cézanne. A Parigi, dopo la morte del padre, fu costretto a lavorare prima come spedizioniere presso l'editore Hachette, poi come capo della pubblicità. Si dedicò in seguito al giornalismo, che non abbandonerà mai anche quando si dedicherà all’opera di romanziere. All’inizio scrisse racconti di impronta romantica; ma ben presto subì l’influenza di Taine e dei de Goncourt e fu attratto dalle idee positiviste. Abbandonò così l'orientamento romantico, e scrisse il suo primo romanzo naturalistico, Thérèse Raquin (1867), impostandolo su basi scientifiche. In seguito concepì il suo vasto ciclo romanzesco, i Rougon-Macquart. Il primo volume, La fortuna dei Rougon, uscì nel 1871; i successivi 19 furono pubblicati, con regolarità impressionante, pressoché uno all’anno, sino al 1893. I primi non ebbero successo, mentre vasta risonanza ottenne L’Assommotr (1877), grazie soprattutto allo scandalo che suscitò con le sue crude descrizioni della degradazione umana degli operai parigini. Grazie a quel
romanzo Zola divenne celebre, e intorno a lui si raccolse un gruppo di scrittori più giovani, che lo consideravano un maestro e un caposcuola, tra i quali Maupassant e Huysmans (che pochi anni dopo divenne invece un esponente di punta del Decadentismo). Zola acquistò una villa a Médan, vicino a Parigi, dove si raccoglieva la domenica il gruppo dei suoi discepoli. Da quelle riunioni scaturì una raccolta di novelle, scritte dai vari partecipanti, Zola compreso: Le serate di Médan (1880), che costituì
Il Naturalismo francese
Ù d Le opere teoriche
I romanzi maggiori
Le tre città L’affare Dreyfus
I quattro Vangeli
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il manifesto collettivo della scuola naturalista. Zola espose le sue idee anche in opere teoriche, Il romanzo sperimentale (1880), Il Naturalismo a teatro (1881), I romanmeri naturalisti (1881). Dopo l’Assommoir altri romanzi notevoli furono Nana (1880), sull’ambiente del teatro e delle cortigiane; Pot-Bowille (1882), un quadro di vita borghese con tutte le sue sordide meschinità, attraverso lo spaccato di una casa signorile; La gioia di vivere (1884), romanzo profondamente pessimista sulla sofferenza che domina la vita umana e sull’ostilità della natura; Germinal (1885) sulla vita dei minatori; La terra (1887), sulla vita dei contadini, che appare connotata da sordidi interessi, degradazione subumana, ferocia bestiale; La bestia umana (1890), sull’ambiente delle ferrovie, in cui viene studiato l’istinto ancestrale alla violenza che è proprio dell’uomo; La disfatta (1892), un romanzo di guerra, che traccia un quadro della campagna militare che portò alla sconfitta di Sedan e al crollo del Secondo Impero. Dopo i Rougon-Macquart Zola intraprese un nuovo ciclo, Le tre città, Lourdes (1894), Roma (1896), Parigi (1897), dove polemizza contro la religione in nome della scienza. Esploso l’“affare Dreyfus”, intorno ad un ufficiale ebreo accusato ingiustamente di spionaggio, la Francia si spaccò in due, e nacquero violente polemiche tra reazionari, nazionalisti e antisemiti da un lato, democratici dall’altro. Zola si impegnò generosamente a combattere l’ingiustizia di cui era vittima Dreyfus e la marea montante dell’antisemitismo, e scrisse un articolo che ebbe enorme risonanza, J'accuse (Io accuso, 1898). Per questo fu condannato a un anno di prigione e si dovette rifugiare in Inghilterra. Tornato in Francia nel 1899, intraprese un terzo ciclo, I quattro Evangeli, Fecondità, Lavoro, Verità, Giustizia (1899-1903), dove espresse le sue idee umanitarie. Sono tuttavia opere stanche. La stagione del Naturalismo si era ormai esaurita, e
il clima culturale era dominato da altre tendenze, di tipo spiritualistico e antipositivistico, che polemizzavano violentemente contro la scuola zoliana. Lo scrittore morì nel 1902 asfissiato dalle esalazioni di una stufa; le circostanze della morte restano poco chiare, e si sospetta un attentato per vendetta, in conseguenza delle posizioni assunte da Zola nell’affare Dreyfus.
da Thérèse Raquin
La Prefazione:
letteratura e scienza
La vicenda narrata dal romanzo (1867) è la sequente: Thérèse, insoddisfatta del marito, debole e malaticcio, spinge l'amante Laurent a UCCIderlo, gettandolo nel fiume. I due assassini, però, sono ossessionati dal
loro delitto, e finiscono per darsi insieme la morte. Al suo apparire, il romanzo aveva suscitato scandalo. Nella Pre-
fazione premessa alla seconda edizione, nel 1868, Zola mira a difen-
dere il suo lavoro dalle accuse velenose rivoltegli dalla critica, che aveva additato il romanzo all’esecrazione universale come opera profondamente immorale e oscena, compiaciuta di turpitudini e sozzure. Lo scrittore espone invece i propositi puramente scientifici che l'hanno MOSSO.
Ho scelto In Teresa Raquin ho voluto studiare indoli, non caratteri: in ciò è tutta l'essenza del libro. in ogni sospinti personaggi dominati superlativamente dai nervi e dal sangue, privi di libero arbitrio, altro. null e bestiali atto della vita dalla fatalità della loro carne. Teresa e Lorenzo sono due esseri
gli impulsi delIn questi due bruti ho voluto seguire, a passo a passo, il sordo travaglio delle passioni, due protagomiei dei amori l’istinto, i turbamenti cerebrali che susseguono a tutte le crisi nervose. Gli nza consegue una è ono pisti non sono che la soddisfazione di un bisogno; il delitto che essi commett considera normale sbradel loro adulterio, conseguenza che essi accettano supinamente, come il lupo Zola
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nare le pecore; ciò che, infine, sono stato costretto a chiamare rimorso non è in loro che un semplice disordine organico, una reazione del sistema nervoso troppo teso. L'anima è perfettamente assente, ne convengo, poiché ho voluto proprio che così fosse. Si comincerà a capire, spero, che il mio scopo è stato essenzialmente scientifico. Quando ho creato i miei due personaggi, Teresa e Lorenzo, ho voluto porre e risolvere determinati problemi: così ho cercato di spiegare lo strano connubio a cui dà luogo l’incontro di due temperamenti diversi, e ho messo in rilievo i profondi turbamenti di una natura sanguigna a contatto con una natura nervosa. Si legga
il romanzo con attenzione, e si vedrà che ogni capitolo è lo studio di uno strano caso di fisiologia. In una parola, non mi sono proposto che questo: dato un uomo vigoroso e una donna insoddisfatta, cercare in loro la bestia, non veder altro che la bestia, inserire entrambi in un dramma violento, e anno-
tare scrupolosamente le sensazioni e gli atti di questi due esseri. In definitiva, ho fatto su due corpi vivi il lavoro di analisi che i chirurghi fanno sui cadaveri. [...].
Quando ho scritto Teresa Raquin mi sono appartato dal mondo e ho copiato, con minuziosa esattezza, la vita, dedicandomi esclusivamente all’analisi del meccanismo umano: vi assicuro che gli amori crudeli di Teresa e di Lorenzo non avevano per me nulla d’immorale, nulla che possa spingere a turpi passioni. [...] i Mi sono, quindi, veramente sorpreso quando ho sentito definire la mia opera una pozza di fango e di sangue, un pattumaio, una fogna, e via di seguito. Conosco l’amabile gioco della critica perché
l’ho fatto anch’io, ma confesso che l’insieme del coro mi ha un po’ sconcertato. Ma come! non c’è stato neanche uno dei miei colleghi che abbia spiegato il libro, non dico difeso! Fra le tante voci che gridavano: «L’autore di Teresa Raquin è un miserabile isterico che si compiace di pornografia», ne ho invano atteso una che dicesse: «No, questo scrittore non è altro che un analista, e ha potuto anche smarrirsi nel marciume umano, ma vi si è perduto come succede a un medico davanti al tavolo anatomico!» [...] Non vi sono, ai giorni nostri, più di due o tre uomini capaci di leggere, comprendere e giudicare un libro. Da costoro io accetto di ricevere lezioni convinto ch’essi non parlano senza prima aver pene- . trate le mie intenzioni e valutati i risultati dei miei sforzi. Essi si guarderebbero bene dal pronunciare le grandi vuote parole di moralità e di pudore letterario, e mi riconoscerebbero il diritto, in questi tempi di libertà dell’arte, di scegliere i soggetti dove meglio mi pare, senza pretendere altro che opere coscienziose, poiché essi sanno bene che solo la stupidità nuoce alla dignità della letteratura. Sono sicuro, quindi, che l’analisi scientifica tentata in Teresa Raquin non li sorprenderebbe: essi vi riconoscerebbero il metodo moderno, lo strumento di indagine universale di cui il secolo si serve con tanto fervore per penetrare l'avvenire. A qualunque conclusione dovessero giungere, ammetterebbero il mio punto di partenza: lo studio dei caratteri e delle profonde modificazioni dell'organismo sotto l'influsso dell'ambiente e delle circostanze. Mi troverei di fronte a veri giudici, a uomini che in buona fede ricercano il vero, scevri di puerilità o di falso pudore, che non si sentirebbero in dovere di apparire disgustati davanti a pezzi anatomici nudi e viventi. Lo studio sincero purifica tutto, come il fuoco. i E. Zola, Thérèse Raquin, trad. it. di E. Tombolini, Rizzoli, Milano 1949
1. tavolo anatomico: lo scrittore naturamentale» che persegue l’obiettività scienlista si paragona al medico; l'analogia pre- | tifica dell'esperimento di laboratorio. lude all'affermazione del «romanzo speri-
ANALISI DEL TESTO Anche queste pagine costituiscono uno dei primi manifesti della scuola naturalista. I punti programmatici che ne emergono sono: | — L'intento scientifico, la volontà di trasformare il romanzo nello studio di un caso di fisiologia, creato dall’incontro di due temperamenti diversi. È significativa la metafora del «chirurgo», del «medico davanti al tavolo anatomico»: nella visione positivistica e naturaliIl Naturalismo francese
programma naturalista
J
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sa
stica, lo scienziato per eccellenza è il medico, l’anatomista che seziona gli organismi per studiare il loro funzionamento. - La visione materialistica e deterministica: gli oggetti dello studio sono due bruti, spinti solo da istinti animali e reazioni fisiologiche. Assente è in loro la libertà di scelta; anche il rimorso non è che una semplice reazione organica. Nella prima edizione, Zola aveva posto come epigrafe al romanzo una frase di Taine: «... il vizio e la virtù, che sono dei prodotti come lo zucchero e il vetriolo». — Al determinismo fisiologico si associa quello ambientale: lo scrittore vuole studiare come i temperamenti e gli organismi si modifichino sotto l’influsso dell'ambiente sociale e delle circostanze. - La volontà di copiare con minuziosa esattezza la vita: essendo opera scientifica, il romanzo esclude l’invenzione fantastica.
La Prefazione ai Rougon-Macquart: ereditarietà e determinismo ambientale La Prefazione fu premessa al primo romanzo del ciclo, La fortuna dei Rougon, del 1871.
Voglio spiegare come una famiglia, un piccolo gruppo d’esseri, si comporti in una società, sviluppandosi per dare vita a dieci, a venti individui, che appaiono, al primo colpo d’occhio, profondamente dissimili, ma che l’analisi dimostra profondamente legati gli uni agli altri. L’ereditarietà ha le sue leggi, come la gravità. Cercherò di trovare e di seguire, risolvendo il doppio problema dei temperamenti e degli ambienti, il filo che conduce matematicamente da un uomo a un altro uomo. E quando avrò in pugno tutti i fili, quando terrò fra le mani tutto un gruppo sociale, farò vedere questo gruppo all’opera come attore d’un’epoca storica, lo creerò mentre agisce nella complessità dei suoi sforzi, analizzerò al contempo la somma della volontà di ciascuno dei suoi membri e la spinta generale dell’insieme. I Rougon-Macquart, il gruppo, la famiglia che mi propongo di studiare ha per caratteristica il traboccare degli appetiti, il vasto innalzarsi della nostra epoca, che si getta sui piaceri. Fisiologicamente essi sono la lenta successione degli accidenti nervosi e sanguigni che si manifestano in una razza, in seguito ad una prima lesione organica, e che determinano, a seconda degli ambienti, in ciascuno degli individui di tale razza, i sentimenti, i desideri, le passioni, tutte le manifestazioni umane, naturali ed
istintive, i cui prodotti prendono i nomi convenzionali di «virtù» e di «vizi». Storicamente, essi partono dal popolo, si irradiano in tutta la società contemporanea, si innalzano a tutte le condizioni, per
quell’impulso essenzialmente moderno che ricevono le classi basse in marcia attraverso il corpo sociale, e raccontano così il Secondo Impero mediante i loro drammi individuali, dall’imboscata del colpo di Stato! al tradimento di Sedan?. Da tre anni raccoglievo documenti di questo grande tragitto, ed il presente volume era già scritto quando la caduta dei Bonaparte, di cui avevo bisogno come artista, e che sempre trovavo fatalmente al termine del dramma, senza osare sperarla così vicina, è venuta ad offrirmi lo scioglimento terribile e necessario della mia opera. Essa è, oggi, completa, si muove entro un cerchio concluso; diviene il
quadro di un regno morto, d’una strana epoca di follia e di vergogna.
i
i
Quest'opera, che formerà parecchi episodi, è dunque, nel mio pensiero, la storia naturale e sociale
d’una famiglia sotto il Secondo Impero [...]. Traduzione nostra
rando in Francia il II Impero. 1. colpo di Stato: il colpo di Stato del 2 2. Sedan: nel settembre 1870 a Sedan dicembre 1851, con cui Luigi Napoleone Bonaparte si impadronì del potere, instau- | l’esercito francese subì da parte dei Prus-
siani una dura sconfitta, che determinò il crollo del II Impero.
Zola
892 ANALISI DEL TESTO È un documento importante, in cui Zola espone con molta chiarezza i propositi che lo ispirano nella costruzione del ciclo. Si possono individuare i seguenti punti: - l’intento scientifico: studiare le leggi dell’ereditarietà, nei caratteri trasmessi da indi-
Il programma
viduo a individuo di una famiglia;
del ciclo
- il determinismo: l’ereditarietà è una legge ferrea, «come la gravità»; essa conduce «matematicamente» da un uomo ad un altro; — il materialismo: i fatti “spirituali”, vizi e virtù, non sono che prodotti di processi organici, fisiologici. Si ricordi la frase di Taine che Zola aveva posto come epigrafe a Thérèse Raquin (cfr. analisi al T193); - il fattore biologico dei caratteri trasmessi ereditariamente si combina con un fattore sociale: l’ambiente in cui l’individuo si sviluppa, e che concorre a determinarlo; donde il sottotitolo del ciclo: «Storia naturale e sociale di una famiglia». Società e natura per Zola funzionano allo stesso modo; - dal punto di vista sociale, il ciclo vuol ricostruire il movimento delle classi basse, che si elevano all’interno della gerarchia della società. IRougon-Macquart quindi, oltre ad essere uno studio fisiologico, sono anche il quadro di una società in un dato momento storico, il Secondo Impero; - emerge allora l'atteggiamento politicamente impegnato e democratico che è proprio dello scrittore: lo si vede nel duro giudizio dato del Secondo Impero, «una strana epoca di follia e di vergogna».
da Il romanzo sperimentale
Lo scrittore come «operaio» del progresso sociale Sono pagine tratte dal saggio Il romanzo sperimentale, che apre il volume omonimo, in cui Zola, nel 1880, raccolse una serie di scritti teorici sul Naturalismo.
Nel secolo scorso l'applicazione più esatta del metodo sperimentale fa sorgere la chimica e la fisica che si liberano degli elementi irrazionali e soprannaturali. Si scopre, grazie all’analisi, che vi sono leggi immutabili; si diventa padroni dei fenomeni. Poi un nuovo passo è compiuto. Gli organismi viventi, nei quali i vitalisti! ammettevano una forza misteriosa, sono a loro volta ricondotti entro il meccanicismo che regola tutta la materia. La scienza prova che le condizioni di esistenza di un fenomeno sono le stesse negli organismi viventi e nei corpi bruti; ed allora la fisiologia assume a poco a poco la certezza della chimica e della fisica. Ma ci si fermerà a questo punto? Certamente no. Quando avremo provato che il corpo dell’uomo è una macchina di cui un giorno si potranno smontare e rimontare gli ingranaggi a piacimento dello sperimentatore, si dovrà ben passare alle manifestazioni passionali ed intellettuali dell’uomo. Da quel momento entreremo nel dominio che, fino ad ora, apparteneva alla filosofia ed alla letteratura; sarà la conquista decisiva, da parte della scienza, delle ipotesi dei filosofi e degli scrittori. Le sono la fisica e la chimica sperimentali; vi sarà la fisiologia sperimentale e, più tardi ancora, si avrà ilromanzo sperimentale. Si tratta di una progressione inevitabile ed è facile prevederne fin da ora il termine finale. Tutto è collegato, bisognava partire dal determinismo dei corpi inanimati per arrivare al determinismo degli organismi viventi; e poiché scienziati come Claude Bernard?
1. vitalisti: in contrapposizione ai materialisti, che vedevano tutta la realtà regolata da leggi meccaniche, i vitalisti la vede-
Il Naturalismo francese
vano pervasa da una misteriosa forza vitale. 2. Claude Bernard: illustre fisiologo (1813-
1878); introdusse il metodo sperimentale nella fisiologia.
È
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dimostrano ora che leggi immutabili regolano il corpo umano, si può annunciare, senza timore di ingannarsi, il momento in cui a loro volta saranno formulate le leggi del pensiero e delle passioni. Un identico determinismo deve regolare il ciottolo della strada ed il cervello dell’uomo. or Da quel momento la scienza entra dunque nel terreno che appartiene a noi romanzieri che, ora, analizziamo l’uomo nella sua azione individuale e sociale. Con le nostre osservazioni ed i nostri esperimenti portiamo avanti il lavoro del fisiologo, il quale ha portato avanti quello del fisico e del chimico. In qualche modo facciamo della psicologia scientifica per completare la fisiologia scientifica e, per condurre a termine l'evoluzione, non dobbiamo fare altro che utilizzare nei nostri studi sulla natura e sull’uomo lo strumento decisivo del metodo sperimentale. In una parola, dobbiamo operare sui caratteri,
sulle passioni, sui fatti umani e sociali come il fisico e il chimico operano sui corpi inanimati e come
ilfisiologo opera sugli organismi viventi. Il determinismo regola l’intera natura. L’investigazione scientifica, il procedimento sperimentale combattono ad una ad una le congetture degli idealisti e costituiscono i romanzi di pura immaginazione con i romanzi di osservazione e di esperimento. Certamente non ho qui l’intenzione di formulare leggi. Allo stato attuale della scienza dell’uomo, la confusione e l’oscurità sono ancora troppo grandi perché si tenti anche la più piccola sintesi. Tutto quel che si può dire è che un determinismo assoluto regola tutti i fenomeni umani. Perciò l’investigazione scientifica è un dovere. [...] Senza arrischiarmi a formulare leggi, ritengo che il fattore ereditario abbia una grande influenza sulle manifestazioni intellettuali e passionali dell’uomo; do anche un’importanza considerevole all’ambiente. Occorrerebbe affrontare le teorie di Darwin® ma questo non è che uno studio generale sul metodo sperimentale applicato al romanzo e mi perderei se volessi entrare nei dettagli. Dirò solamente una parola sugli ambienti. Abbiamo visto l’importanza decisiva data da Claude Bernard allo studio dell'ambiente infra-organico, di cui occorre tener conto, se si vuole trovare il determinismo
dei fenomeni negli organismi viventi. Ebbene, nello studio di una famiglia, di un gruppo di organismi viventi, credo che l’ambiente sociale abbia parimenti una importanza capitale. Un giorno probabilmente la fisiologia ci spiegherà il meccanismo del pensiero e delle passioni; sapremo come funziona la macchina individuale dell’uomo, come pensa, come ama, come procede dalla ragione alla passione ed alla follia; ma questi fenomeni, queste risposte del meccanismo organico all’influenza dell'ambiente interno non si manifestano all’esterno isolatamente e nel vuoto. L’uomo non è solo ma vive in una società, in un ambiente sociale e perciò per noi romanzieri questo ambiente sociale modifica continua mente i fenomeni. Anche il nostro grande studio ha in ciò il suo centro: nell’azione reciproca della società sull’individuo e dell’individuo sulla società. Per il fisiologo, l’ambiente esterno e l’ambiente interno sono unicamente chimici e fisici, il che gli permette di trovarne facilmente le leggi. Non siamo ancora in condizione di poter provare che l’ambiente sociale non sia, anche esso, che chimico e fisico. Lo è certamente o piuttosto è il prodotto variabile di un gruppo di esseri viventi, i quali sono totalmente sottoposti alle leggi fisiche e chimiche che regolano allo stesso modo gli organismi viventi ed i corpi inanimati. Perciò vedremo che si può agire sull'ambiente sociale agendo sui fenomeni di cui ci si sia resi padroni nell’uomo. E ciò costituisce il romanzo sperimentale: possedere il meccanismo dei fenomeni umani, mettere in luce gli ingranaggi delle manifestazioni passionali ed intellettuali quali li spiegherà la fisiologia, sotto le influenze dell’ereditarietà e delle circostanze ambientali, per mostrare l’uomo mentre vive nell'ambiente sociale che lui stesso ha prodotto, che quotidianamente modifica ed in seno al quale subisce a sua volta una continua trasformazione. Perciò dunque basiamo il nostro lavoro sulla fisiologia, prendendo, dalle mani del fisiologo, l’uomo isolato, per contribuire alla soluzione del problema e risolvere su basi scientifiche l'interrogativo circa i comportamenti degli uomini ( peer | non appena vivono in società. [...] per divefenomeni i studiare di è medicina in ed fisiologia Lo scopo del metodo sperimentale in l =: nirne padroni. [...] Dunque questo è lo scopo, questa è la moralità della fisiologia e della medicina sperimentale: divenire padroni della vita per dirigerla. Supponiamo che la scienza abbia proceduto nel suo cammino e che la conquista di ciò che è sconosciuto sia compiuta: l’età scientifica che Claude Bernard ha sognato sarà realizzata. Allora il medico sarà padrone delle malattie; guarirà infallibilmente agendo sul corpo 3. Darwin: cfr. M21. È
Zola
894 umano per la felicità ed il vigore della specie. Si entrerà in un secolo in cui l’uomo, divenuto onnipo-
tente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per fare regnare su questa terra tutta la giusti zia e la libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti. Ebbene, questo sogno del fisiologo e del medico sperimentale è anche quello del romanziere che applica allo studio dell’uomo nella natura e nella società il metodo sperimentale. Il nostro scopo è il medesimo; anche noi vogliamo essere padroni dei fenomeni della vita intellettuale e passionale, per poterli guidare. In una parola siamo dei moralisti sperimentali che mettono in luce mediante l’esperimento come si comporta una passione in un dato ambiente sociale. Il giorno in cui ci impadroniremo del suo meccanismo, si potrà curarla e placarla o almeno renderla il più inoffensiva possibile. Ecco dunque in che consistono l’utilità pratica e la elevata moralità delle nostre opere naturaliste, che sperimentano sull’uomo, che smontano e rimontano pezzo per pezzo la macchina umana per farla funzionare sotto l’influenza dei vari ambienti. Col procedere del tempo, col divenire padroni delle leggi, si tratterà soltanto di agire sugli individui e sugli ambienti, se si vuole arrivare allo stato sociale migliore. In tal modo facciamo della sociologia pratica ed il nostro lavoro avvantaggia le scienze politiche ed economiche. Non conosco, lo ripeto, un lavoro più nobile né una più ampia applicazione. Essere in grado di controllare il bene ed il male, regolare la vita, guidare la società, risolvere alla lunga tutti i problemi del socialismo, conferire soprattutto solide basi alla giustizia dando una risposta con l’esperimento ai problemi della criminalità, non è forse essere gli operai più utili e più morali del lavoro umano? E. Zola, Il romanzo sperimentale, trad. it. di I. Zaffagnini, Pratiche, Parma 1980
ANALISI DEL TESTO Il romanzo sperimentale è un testo teorico fondamentale, in cui Zola va a fondo nell’elaborare la propria idea di letteratura e il proprio programma. Le pagine che riportiamo offrono il nucleo centrale del suo pensiero, attraverso un’esposizione molto chiara e schematica. In sintesi, Zola ritiene che il romanzo debba far proprio il metodo sperimentale della chimica, della fisica, della fisiologia, applicandolo al campo della psicologia, agli atti intellettuali e passionali dell’uomo. Il presupposto è sempre che tali atti siano prodotti di meccanismi deterministici. Ma Zola si preoccupa soprattutto di definire le finalità del romanzo «sperimentale»: come compito della scienza è studiare i fenomeni per padroneggiarli, così il fine del romanzo è padroneggiare i fenomeni intellettuali e morali per dirigerli nel senso migliore. Così il romanziere con i suoi studi fornirà i.mezzi per guarire certi mali della società e per creare un migliore stato sociale. Emerge di qui l'ottimismo di Zola e il suo progressismo, la fiducia nella possibilità di un miglioramento della società, e nel contributo che ad esso può dare la letteratura. Zola crede nell'impegno sociale e politico dello scrittore, ed è convinto che la letteratura possa incidere sulla realtà in senso positivo. In queste pagine sì riflette un clima culturale tipico del positivismo.
Il Naturalismo francese
Il metodo sperimentale applicato lla psicologia Il fine progressista del romanzo
895
5. PROPOSTE DI LAVORO IL. Analizzare il linguaggio delle prefazioni (a quale area semantica prevalentemente appartengono i termini? cfr. ad esempio «studiare», «risolvere problemi»). 2. Quali sono i presupposti culturali
e metodologici da cui deve partire lo scrittore per scrivere un romanzo?
3. Qual è il compito dello scrittore-analista?
4. In quale misura il romanzo è un’opera sociale e a quale pubblico si rivolge?
5. Stabilire un confronto tra il T192 ed i TT193-195. 6: Stabilire un confronto tra i testi di Zola e le dichiarazioni di poetica di Capuana (T213) e Verga (TT202-204)
HE L’Assommoir Il romanzo, pubblicato nel 1877, è ambientato nella Parigi operaia, e narra una storia di alcoolismo, di
miseria e di degradazione umana. É anche un esperimento stilistico, poiché Zola vuol riprodurre il caratteristico gergo dell’ambiente proletario. Come afferma nella Prefazione, lo scrittore intende «colare in uno stampo molto elaborato la lingua del popolo». Il titolo deriva dal nome dato in gergo alla bettola dove si beve acquavite. Assommoir significa propriamente “mattatoio”: la bettola è così chiamata perché l’acquavite porta rapidamente all’abbrutimento e alla morte gli operai che contraggono il vizio del bere. Gervaise, venuta a Parigi giovanissima dalla provincia meridionale con l’amante Lantier, è da questi abbandonata con due figli piccoli e vive stentatamente facendo la lavandaia. Conosce Coupeau, un operaio lattoniere onesto e laborioso, e lo sposa. La famiglia prospera, sinché Coupeau cade dal tetto dove lavora ad una grondaia, e resta invalido. Si dà così al bere; la famiglia sopravvive grazie al duro lavoro di Gervaise, che ha aperto una lavanderia. Ritorna Lantier, e riallaccia la relazione con Gervaise, mentre Coupeau si degrada sempre più. La figlia Anna (la futura protagonista del romanzo Nana) comincia a corrompersi nell’ambiente sordido dei sobborghi proletari. Anche Gervaise cade preda dell’alcoolismo e muore in conseguenza di esso, dopo aver sperimentato la miseria più atroce e l’abbrutimento totale. Le pagine che riportiamo si collocano all’inizio della vicenda e presentano l’ambiente dell’« Assommoir», la bettola dove si ritrovano Gervaise e Coupeau che si sono appena conosciuti.
L’alcool inonda Parigi Dal cap. II
L’Assommoir si era riempito. Si parlava forte, con scoppi di voce che rompevano il sordo gorgoglio delle raucedini. Pugni sferrati sul banco, ogni tanto, facevano tintinnare i bicchieri. Tutti in piedi, con le mani incrociate sul petto o dietro la schiena, i bevitori formavano dei crocchi stretti gli uni agli altri. Vi erano, vicino alle botti, capannelli che dovevano aspettare un quarto d’ora prima di poter ordinare i loro bicchierini a papà Colombe. «Ohilà! Guarda un po’ quell’aristocratico di Ribes!!» esclamò Scarpone dando una gran manata sulle spalle di Coupeau. «Un signore che fuma sigarette e mette in mostra la biancheria! Vuol sbalordire l’amica e le offre leccornie, costui!».
«Non mi seccare, va’!» gli diede sulla voce Coupeau, innervosito.
1. Ribes: è il soprannome gergale di Coupeau: nell’originale Cadet Cassîs.
Zola
896 Ma l’altro sogghignava: «Basta! Siamo all’altezza della situazione, amico. I gradassi sono gradassi, ecco tutto!». E voltò le spalle dopo aver saettato un’occhiataccia terribile a Gervasia, che si trasse indietro un po’ spaventata. Il fumo delle pipe, l’odore acre di tutti quegli uomini salivano nell’aria satura di esalazioni alcooliche, ed ella se ne sentiva soffocare, presa da una tossettina intermittente. «Oh! che brutta cosa è mai il bere!» esclamò a mezza voce. E raccontò che in altri tempi, con sua madre, a Plassans”, beveva l’anisetta. Un giorno, però, era stata lì lì per morire e se n’era disgustata: i liquori non li poteva più vedere. «Ecco», aggiunse mostrando il bicchiere «la susina l’ho mangiata; soltanto, lascerò il liquore, mi
farebbe male». Coupeau non comprendeva neppure lui come si potessero tracannare bicchieri colmi di acquavite. Una susina ogni tanto non c’era nulla di male. Quanto al vetriolo, all’assenzio e alle altre porcherie, buona notte; non ne voleva sapere, lui. Avevano voglia i compagni a sbeffeggiarlo; rimaneva sulla porta, lui, quando quegli ubriaconi entravano nella bettola. Padre Coupeau, che era lattoniere anche lui, s'era sfracellata la testa sul lastrico di rue Coquenard, cadendo, in un giorno di sbornia, dalla grondaia del numero 25, e quel ricordo di famiglia li rendeva tutti saggi. Quand’egli passava per rue Coquenard e vedeva quel posto, avrebbe preferito bere l’acqua del rigagnolo, che buttar giù anche un solo biechiere gratis all’osteria. Concluse con queste parole: «Nel nostro mestiere le gambe devono essere ben salde». Gervasia aveva ripreso la cesta; però non si alzava, e la teneva sulle ginocchia, con lo sguardo smarrito, sognando, come se le parole del giovane operaio risvegliassero dentro di lei lontani pensieri di esistenza. E, lentamente, senza un apparente passaggio logico, aggiunse: «Mio Dio, non sono affatto ambiziosa io; non chiedo poi un gran che. Il mio ideale sarebbe di lavorare tranquilla, di aver sempre un tozzo di pane e un buco un po’ decente per dormire; capite? un letto, un tavolino, due seggiole e nient’altro. Ah! vorrei anche tirar su i miei figlioli, farne dei bravi ragazzi, se possibile. Ho un ideale ancora, ecco: di non essere mai bastonata, se mi rimettessi con un uomo: no, non mi piacerebbe essere bastonata. Tutto qui, vedete, tutto qui».
Cercava, interrogava i suoi desideri e non trovava più niente che la tentasse sul serio. E, dopo aver esitato, riprese: «Sì, si può, in fin dei conti, desiderare di morire nel proprio letto. Io, dopo aver sfaccendato tutta la vita, morirei volentieri nel mio letto, a casa mia, ecco». Si alzò. Coupeau, che approvava pienamente i suoi sogni, era già in piedi, preoccupato per l’ora. Ma non uscirono subito. Gervasia ebbe la curiosità di andare a dare un’occhiata in fondo, dietro al tramezzo di legno, al grande alambicco di rame rosso che funzionava sotto la vetrata luminosa del cortiletto: e il lattoniere,
che l’aveva seguita, le spiegò come funzionava, indicando con il dito le varie parti dell’apparecchio,
mostrandole l’enorme storta, da cui colava un limpido filo di alcool. L’alambicco, con i suoi recipienti di forme strane, con le sue lunghe serpentine, aveva un aspetto cupo; non ne usciva uno sbuffo: si sentiva appena il respiro interno, come un russare sotterraneo. Era come un lavoro notturno fatto in pieno giorno da un lavoratore ingrugnato, possente e muto. Intanto Scarpone, con i suoi due com-
pagni, era andato ad appoggiarsi al tramezzo in attesa che si rendesse libero un cantuccio del banco.
Aveva un riso di carrucola arrugginita, scuoteva il capo con gli occhi inteneriti fissi sulla macchina da ubriacare. Fulmini del cielo*! quanto era graziosa! C'era, in quel grosso pancione di rame, tanto
da tenersi lubrificata l’ugola per otto giorni almeno. Lui avrebbe voluto, ecco, che gli saldassero l’estre-
mità della serpentina fra i denti, per sentire la grappa ancora calda che lo riempisse, gli scendesse fino ai calcagni, sempre, sempre, come un ruscelletto. Diavolo! non si sarebbe più scomodato, e così avrebbe degnamente sostituito i ditali di quel somaro d’un papà Colombe. E i compagni ghignavano,
asserendo che quell’animale di Scarpone aveva uno scilinguagnolo ben sciolto, non c’era da dire. L’alam-
bicco, sordamente, senza una fiamma, senza alcuna galezza nei riflessi stinti del suo rame, continuava 2 Plassans: immaginaria cittadina del Sud della Francia, luogo d origine dei RougonMacquart. Vi si può riconoscere Aix-en-
Il Naturalismo francese
Provence. 8. Fulmini del cielo: da questa esclamazione ha inizio il discorso indiretto libero
del personaggio (nell’originale fitto di espressioni gergali), che arriva sino a «quel somaro di papà Colombe»,
È
897 a lasciar colare il suo sudore, l’aleool, come una sorgente lenta e perenne, che alla fine dovesse allagare la stanza, spandersi sui boulevard esterni‘, inondare l'immensa conca? di Parigi. Allora Gervasia, presa da un brivido, arretrò d’un passo: ma cercò di sorridere, mormorando: «E una sciocchezza, ma questa macchina mi mette freddo; anche la grappa mi mette freddo». Poi, tornando sull’idea di una felicità perfetta, che ella accarezzava: «Eh! non è vero, forse? Sarebbe assai meglio lavorare, mangiare un po’ di pane, avere un buco per sé, tirar su i figlioli, morire nel proprio letto...». «E non essere battuta» aggiunse Coupeau allegramente. «Ma io non vi batterei, se mi voleste, signora Gervasia. Non c'è pericolo; io non bevo mai; e poi, vi voglio troppo bene... Vediamo, via, potremmo riscaldarci un poco i piedi, questa sera?». . Aveva abbassato la voce, le parlava all’orecchio, mentre lei, con la cesta avanti, si apriva il passo
nella calca. Ma ella disse ancora di no, più volte, con la testa. Tuttavia si voltava, gli sorrideva, sembrava contenta di sapere che lui non beveva. Certo, gli avrebbe detto di sì, se non avesse giurato di
non rimettersi più con gli uomini. Arrivarono alla porta, uscirono. Dietro di loro la bettola restava gremita e ne giungeva fino alla strada il frastuono delle voci roche e l’odore dei giri di grappa. Si udiva Scarpone trattar da farabutto papà Colombe, accusandolo di avergli empito il bicchierino solo a mezzo. Era un dritto*; a lui nessuno la faceva; ci voleva altro! Ma aspetta! quello scimmione poteva spulciarsi a piacer suo; lui alla sua trappola non sarebbe più tornato di sicuro, e non gliene sarebbe importato proprio un fico. E proponeva ai compagnoni di andare all’Omino che Tossisce, una «miniera di pepe» della barriera Saint-Denis, dove se ne beveva di quella purissima. E. Zola, L’Assommotr, trad. it. di L. G. Tenconi, Rizzoli, Milano 1964 4. boulevard esterni: i grandi viali di circonvallazione. 5. l'immensa conca: l’originale ha un’e-
spressione più forte, «le trou immense», il buco immenso, che evoca l’idea di qualcosa di sordido e immondo.
6. Era un dritto: altro discorso indiretto libero, nell’originale pieno di espressioni in gergo.
ANALISI DEL TESTO Un’antitesi ad effetto
L’uso del gergo
Linguaggio dei personaggi e linguaggio del narratore
La visionarietà simbolica
L'episodio è costruito su un'opposizione, che preannuncia tutti gli svolgimenti futuri della vicenda: da un lato i due giovani proletari, che ostentano la ripugnanza per l’alcool che è propria delle persone morigerate e assennate, e rivelano le loro modeste aspirazioni ad una vita tranquilla tra lavoro e famiglia; dall’altro l’immagine cupa e minacciosa dell’alambicco, che segnerà la loro rovina. Una costruzione del genere è tipica della narrativa di Zola, che ama le grandi antitesi ad effetto. Esse sono la conseguenza della sua posizione di scrittore impegnato, che vuole lottare contro le “piaghe” della società, e per questo vuole impostare la narrazione in modo che comunichi chiaramente il suo messaggio al pubblico ed eserciti su di esso una forte suggestione. Il passo è indicativo anche per quanto riguarda la tecnica narrativa e l'impostazione stilistica. Si può rilevare il largo uso del gergo dei proletari parigini (purtroppo una traduzione non può rendere che in minima misura il sapore dell'originale). Ma si osservi la netta divisione di piani: il linguaggio gergale appartiene solo ai personaggi, sia nel dialogo diretto sia nel discorso indiretto libero. Il narratore, che rappresenta lo scrittore stesso, usa invece un linguaggio colto, letterario. L'impostazione stilistica corrisponde all’atteggiamento di Zola verso la materia. Il narratore è lo scienziato che osserva dall'esterno e dall’alto, con
distacco scientifico, quel mondo operaio, e lo giudica dal suo punto di vista di borghese illuminato e democratico (il dato è importante per capire poi i procedimenti ben diversi del veri1 smo di Verga e la sua diversa impersonalità). Ma non vi è solo la fredda osservazione scientifica. Al livello del narratore appartiene anche l’immagine apocalittica dell'alcool che trasuda dall’alambicco, invade la sala, si spande sui boulevards, inonda il «buco immenso» di Parigi. L'immagine rivela quell’aspetto visionario, fondato su grandi simbologie, che è tipico della narrativa zoliana, e si accompagna allo studio “scientifico” dei fenomeni.
Zola
898
7196) PROPOSTE DI LAVORO 1uCsmis _
proletari. 1. Individuare i punti in discorso indiretto libero, in cui è riprodotto il gergo dei personaggi 2. Individuare le zone del discorso attribuibili allo stile “alto” del narratore.
3. Mettere in rilievo itermini con cui è descritto l’alambicco che distilla l’acquavite; quale effetto mirano a produrre? | 4. Verificare in quale misura Zola in questo testo campione abbia messo in pratica i principi teorici esposti nei | testi analizzati in precedenza (cfr. TT193-195). di
E
-
“DD
— Cfr. La critica, C49
BH La terra Il romanzo, del 1887, è ambientato nel mondo contadino, e narra una fosca e truculenta storia di interessi economici e di odi all’interno di una famiglia, che sfociano in feroci delitti (ad esempio un figlio, insieme
con la moglie, soffoca il vecchio padre per sottrargli i risparmi, poi gli dà fuoco mentre è ancora agoniz: zante). Anche questo romanzo suscitò scandalo e polemiche, al punto che alcuni discepoli di Zola ruppero con il loro maestro. Riportiamo due brevi passi descrittivi, per esemplificare l’atteggiamento di Zola verso la campagna e il mondo rurale, nonché i suoi procedimenti narrativi.
e ;; 1197 - : -
La semina Dalla parte I, cap. I
Verso Chartres, a nord, la linea piatta dell’orizzonte conservava la nettezza di un tratto di penna
che tagliasse un disegno a inchiostro, tra l’uniformità terrosa del cielo vasto e il dispiegarsi sconfinato della Beauce!. Dopo il pranzo, il numero dei seminatori pareva cresciuto. Ora, ogni campicello aveva il proprio, essi si moltiplicavano, pullulavano come formiche laboriose messe allo scoperto da qualche grande scavo, che si accanissero su un compito smisurato, gigantesco, a fronte della loro piccolezza; e tuttavia si poteva distinguere, anche nei più lontani, il gesto ostinato, sempre uguale, una testardaggine d’insetti in lotta con l’immensità del suolo, vittoriosa alla fine della distesa dei campi e della vita. Sino al cadere della notte, Jean? seminò. Dopo il campo del palo, fu quello dei Rigagnoli e quello delle Quattro Strade. Andava, veniva, a lunghi passi ritmati tra i solchi, e il grano del suo sacco s’esauriva, la semente dietro di lui fecondava la terra.
Traduzione nostra;
1. Beauce: la regione agricola francese dove si svolge il romanzo.
cao «RI T _w:
—
i.
| 2. Jean: Jean Macquart, il protagonista.
La mietitura Dalla parte III, cap. IV
Il gran sole d’agosto saliva sin dalle cinque all'orizzonte, e la Beauce spiegava le sue messi mature, sotto un cielo di fiamma. Dopo gli ultimi acquazzoni dell’estate, la coltre verde!, di continuo crescente, era a poco a poco ingiallita. Ora era un mare biondo, incendiato, che sembrava riflettere il fiammeg-
giare dell’aria, un mare che facesse rotolare le sue onde di fuoco, al minimo soffio di vento?. Nien1. coltre verde: il grano che sta spuntando. 2. mare ... vento: il vento crea sulla distesa
Il Naturalismo francese
delle spighe mature delle onde che ricor| dano quelle del mare.
|
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d
t'altro che grano, senza che si potesse scorgere né una casa, né un albero, l’infinità del grano! Talvolta, nella
| calura, una calma greve addormentava le spighe, un odore di fecondità esalava e fumava dalla terra. Il parto SÌ compiva, si sentiva la semente gonfiata schizzare dall’utero* comune, in chicchi tiepidi e pesanti. E
davanti a quella pianura, a quella messe gigante, si era presi da un’inquietudine, che l’uomo non potesse mai vederne la fine, col suo corpo d’insetto, così piccolo in tutta quell’immensità.
Traduzione nostra 3. utero: metaforicamente, la spiga carica di chicchi.
ANALISI DEI TESTI Gli interventi del narratore ho
Le simbologie
‘
Anche qui è da sottolineare il massiccio intervento del narratore, che rappresenta il punto di vista dell’autore stesso. Per Zola l’impersonalità non significa un’“eclisse” dell’autore nel narrato, come si vedrà in Verga, il cui narratore “regredisce” nella realtà popolare rappresentata, adottandoun modo di vedere e di esprimersi che è simile a quella dei personaggi. Nei Rougon-Macquart il narratore conserva sempre la sua visione “colta”, dall'esterno e dall’alto, anche quando sono rappresentati ambienti operai e contadini: lo testimonia l’impostazione lirica di questi due passi, il linguaggio “poetico”, fortemente metaforico, ed il ritmo ampio e solenne. Emerge anche la volontà di costruire il racconto su grandi simbologie, che si è già notata nell’Assommotr (la madre terra, gli uomini formiche). Al fondo vi è una visione vitalistica e panica della natura, della potenza generatrice della “madre” terra, che è assaporata con un trasporto sensuale. Pare di sentire qui D'Annunzio (che difatti prenderà molto da questo materialismo vitalistico di Zola).
| PROPOSTE
DI LAVORO
Em
1. Rintracciare nei due passi tutte le espressioni tipiche dello stile “alto” dello scrittore; tutte le metafore. 2. Rintracciare nel passo b tutte le espressioni che danno della terra l’immagine della “grande madre”.
C48
JEAN ROUSSET La rotazione dei punti di vista in Madame Bovary Il critico mette in luce il particolare uso del punto di vista nel romanzo. All’inizio Ù fatti sono quindi non visti dall’ottica di Charles Bovary; anche Emma è vista dall'esterno, con i suoi occhi; diviene racconto del focale centro il e ruota prospettiva la Poi interiore. vita sua della sappiamo nulla la sua interioEmma: tutto viene filtrato attraverso la sua prospetta, e svamo ammessi a conoscere di vista di Charles. rità. Di nuovo, in chiusura, dopo la sua morte, ritorna a dominare il punto
ista dal Ci si stupisce dapprima della struttura generale del libro, che esclude la protagon anzi vista, di punto del problema al diritto preludio e dall’epilogo; questa meraviglia ci porta dei punti di vista adottati da Flaubert. La critica
900 La disposizione che dà a Charles Bovary un posto centrale all’inizio e alla fine era prevista fin dai primi canovacci, la sola modificazione sopraggiunta cammin facendo concerne i importanza crescente assunta da Homais nelle ultime pagine. Ora, questi due personaggi presentati da lontano e dall'esterno, personaggi-oggetto, coscienze opache, assicurano al romanzo un’entrata e una uscita in cui regna sovrano il punto di vista di chi si mette ai margini dello spettacolo, lo considera dall’alto e a distanza, e non vuol saper nulla sulle motivazioni segrete di figure che egli tratta da burattini. [...] Flaubert ha posto qui, alle due porte dell’opera dove egli prende contatto e commiato, la massima carica di ironia e di triste sarcasmo in quanto proprio qui egli guarda con lo sguardo più estraneo. Il romanzo si struttura così in un movimento che va dall’esterno verso l’interno, dalla superficie al cuore, dall’indifferenza alla complicità, per poi ritornare dall’interno alla periferia. In Flaubert, il primo sguardo sul mondo è portato da lontano; egli ne fissa dapprima solo i contorni, la crosta, il meccanismo, il «grottesco». Ma lo sguardo non tarda ad insinuarsi sotto la corteccia. [...] Emma infatti sta per apparire al campo visivo di Charles; questi servirà da riflettore fino al momento in cui la protagonista, accettata ed introdotta progressivamente, verrà alla ribalta e diverrà centro e soggetto. Ma ella deve introdursi, come ha fatto il suo futuro sposo, nella condizione subalterna di personaggio oggetto conosciuto dall'esterno, con questa differenza tuttavia: che essa appare sotto uno sguardo: non critico ma abbagliato, e nello specchio d’una sensibilità con cui il lettore si è familiarizzato ed in cui anche sporadicamente gli è stato concesso di penetrare, in particolare in occasione delle sonnolenze del medico e delle sue doppie percezioni quando all’alba cavalca verso la fattoria dei Bertaux, subito prima dell'apparizione di Emma nel romanzo. Flaubert si serve dunque di Charles per presentare Emma, e mostrarla così come questi la vede, aderendo strettamente alla sua prospettiva, adottando il suo angolo visivo limitato e la sua visione soggettiva per accompagnare un passo dopo l’altro la scoperta che egli fa di questa donna sconosciuta; mettendosi in ombra dietro il suo personaggio e talvolta immedesimandosi in esso, egli rinuncia all’ottica privilegiata dell’autore onnisciente per dare della sua protagonista solo un'immagine provvisoria, superficiale e successiva. i Charles giunge alla fattoria: «Una giovane donna, in abito di lana blu guarnita di tre volanti, si fece sulla soglia della casa...»; un vestito blu, ecco ciò che scorge dapprima, ed è anche tutto ciò che è dato vedere; una pagina dopo, egli osserva il candore delle unghie, poi i suoi occhi; un po’ più tardi, quando parla con lei, sono «le sue labbra carnose»; quando ella si volta, sono i suoi capelli annodati sul collo, che accennano un movimento «che il medico di campagna notò per la prima volta in vita sua». Al posto del ritratto alla maniera di Balzac, 0, prima ancora, di Marivaux!, che implica una vista d’insieme ed atemporale esprimente il sapere non del personaggio ma dell’autore, Flaubert fa, o piuttosto fa fare, dalle percezioni pointillistes? del suo personaggio in subbuglio, un ritratto frammentario e progressivo. Altri incontri verranno ad aggiungervi altri tocchi, ma sempre altrettanto sparsi, perché sempre nella prospettiva confusa dello spasimante. [...]. i Rimane innegabile, e chiaramente intenzionale, che durante tutto il preambolo Charles è centro e proiettore: che non lo si lascia mai un istante, ed Emma è vista solo attraverso di lui. Sap- _ piamo di lei solo ciò che egli ne viene a sapere, le sole parole che essa pronuncia sono quelle che gli dice e non abbiamo la minima idea di ciò che ella pensi o senta realmente. Emma ci è mostrata sistematicamente dall'esterno: così vuole il punto di vista di Charles. A questo proposito, Flaubert procede con il massimo rigore. Ce ne fornisce perfino un segno estremo: nel momento in cui la ragazza prende la decisione capitale di sposarsi, decisione che vincolerà il suo povero destino e tutto il libro che stiamo per leggere, il romanziere ce la nasconde; il dialogo con suo padre, i suoi movimenti intimi, la sua risposta, tutto ciò ci è presentato indirettamente e a grandissima distanza, la distanza alla quale sta Charles, attendendo dietro alla siepe che
la persiana della finestra sia spinta contro il muro. Di ciò che ella pensi di Charles e del matrimo-
nio, di ciò che ne attenda, di ciò che è dovuto accadere in lei durante questa mezz'ora, avremo solo un’idea differita e rifratta, più tardi, quando Flaubert avvicinandosi ad Emma ci svelerà 1. Marivaux: Pierre de Marivaux (1688-1763), scrittore | 2. pointillistes: tecnica di pittura impressionista, in cui francese, autore di testi teatrali e di romanzi, come la Vita | la visione d’insieme nasce dall’accostamento di minute pardi Marianna (1731-41) e Il villan rifatto (1735-36). ticelle di colore (cfr. Arte 8, fig. 44).
Il Naturalismo francese
901 il suo pensiero. Ma, all’istante, ella rimane ancora il personaggio oggetto contemplato da lontano da Charles Bovary e di cui conosciamo, come lui, solo alcuni tratti d'un viso, alcuni gesti, un vestito. Ciò che esiste dietro questa apparenza, ciò che è in realtà questa giovane donna, lo sapremo presto, poiché l’ottica sta per cambiare. Ma Charles non ne saprà mai molto di più, ella sarà
sempre per lui la sconosciuta indecifrabile che cesserà d’essere per noi, egli continuerà ad ignorare ciò che si nasconde dietro questo velo opaco, egli che non ha il potere del romanziere d’intromettersi in lei. Fin dal capitolo v, il perno gira lentamente, quella che era oggetto diviene
soggetto, il centro dell’attenzione passa da Charles a Emma ed il lettore entra nella coscienza che fin allora gli era preclusa come lo è ancora per Charles. Qui probabilmente risiede la ragione profonda della posizione centrale concessa nei primi capitoli all'ufficiale sanitario, così come del rispetto costante del suo punto di vista, fino alle immersioni insolite nella sua intimità: non solo si vede apparire Emma attraverso una sensibilità sommersa nel flutto della durata; ma, ancora di più, questa disposizione permette al lettore di vivere dall’interno la forma di conoscenza che Charles ha, ed avrà sempre, della moglie. Il ricordo che il lettore avvertito ne conserverà in seguito, una volta che Emma sia stata promossa al centro, contribuirà a dare luce e consistenza all’universo romanzesco in cui egli penetra. Fin dal capitolo VI, Emma s’introduce al centro, e non si allontanerà, se non per brevi interruzioni. In ciò nulla d’eccezionale. Balzac, assertore del trattamento globale e panoramico, si serve di un personaggio centrale, Rastignac per esempio, e sviluppa l’azione attorno a lui. L’originalità di Flaubert consisterà nel combinare punto di vista dell’autore e punto di vista della ‘ protagonista, nelle loro alternanze ed interferenze, e soprattutto nel predominio accordato alla visione soggettiva del personaggio in prospettiva. Il problema sarà allora di assicurare gli spostamenti di punto di vista ed i passaggi da una prospettiva all’altra senza spezzare il movimento, senza rompere il «tessuto stilistico». Lo dimostra il passaggio da Charles ad Emma, l’introduzione progressiva, quasi insensibile, del punto di vista dell’eroina. Il punto di partenza ed il punto d’arrivo di questo itinerario sono indicati dal ritorno d’uno stesso oggetto sottomesso a due sguardi differenti: il giardino di Tostes. «Più lungo che largo, il giardino si estendeva fra due mura di argilla... fino a una siepe di biancospino che ne segnava il confine con i campi. In mezzo c’era una meridiana d’ardesia...; quattro aiuole... In fondo, sotto le abetine, un curato di gesso leggeva il breviario» (p. 30). Semplice inventario dei luoghi, constatazione oggettiva delle superfici e dei materiali, quale può emanare da un osservatore neutro, da uno sguardo senza vibrazioni. [...] Emma è appena entrata nella sua nuova casa ed ella è per noi solo la sconosciuta cui Flaubert non ci ha ancora dato accesso. Sarà cosa fatta da lungo tempo quando, trenta pagine dopo, ci darà dello stesso giardinetto la visione affettiva che ne ha la sua protagonista disingannata, sensibile ora a tutto ciò che nelle cose stesse tradisce il disgusto, l’inerzia, la sfaldatura, il deperimento: «La brina aveva depositato sopra i cavoli delle trine d’argento che li legavano con lunghi fili chiari. Non si sentiva un uccello, tutto pareva addormentato. La spalliera di alberi da frutta era coperta di paglia e la vite era simile a un grande serpente malato sotto lo sporto del muro: appiè del quale, strisciavano dei mille piedi sulle loro infinite zampette. Tra le abetine, vicino alla siepe, il prete in tricorno che leggeva il breviario aveva perduto un piede; per effetto del gelo che faceva scrostare il gesso, il suo volto era coperto da una lebbra bianca» (p. 59). Nel frattempo, tutto è cambiato, non solo nella condizione e nell’umore dell'eroina, ma nella posizione del lettore rispetto all’eroina. Con un’abile rotazione, il punto di vista ha rotato ed il fulcro visivo si è progressivamente confuso con quello di Emma. da Forma e significato, tr. it., Einaudi, Torino 1976 (ed. originale 1962), pp. 124-130
La critica
902 C49
FRANCESCO
DE SANCTIS
Zola e l’Assommoir Su Zola diamo il giudizio di un grande contemporaneo, di diversa Formazione e di diverso orientamento, ma capace di cogliere senza pregiudizi ciò che di valido vi era nello scrittore francese. In reale» questa conferenza tenuta a Napoli nel 1879 De Sanctis dimostra di apprezzare «I acuto senso del personaggi; suoi dei decadenza la delinea Zola cui con scientifica» e l'«esattezza dell’osservazione ammira anche lo stile impersonale, lo «stile di cose»; conclude infatti sostenendo che il motto della nuova arte deve essere «poco parlar noi e far molto parlare le cose». Però dl giudizio è anche limitativo: Zola non è il creatore di un’arte nuova; distrugge ma non crea, non è il precursore del nuovo, ma il becchino dell’antico. Cosa è il suo Assommoir? È una evoluzione a rovescio, dall’uomo all’animale, dall’ideale umano di Gervasia sino all’idiotismo, alla intelligenza cristallizzata, all'essere morale demolito, all’es-
sere fisico incadaverito. Questa non è già materia di immaginazione; è materia reale. Stanno ì, in Parigi, questi esseri disumanati, in quella città che «marche à la téte de la civilisation». E di simili ne trovate in tutti i centri civili; due terzi dell'umanità sono più o meno in questo stato. E quali sono i motori di questa materia? Sono un complesso d’influenze che hanno formato quell’ambiente, e che hanno formato Gervasia. Il processo è schiettamente evolutivo, e ci piace tanto il vedere, con quale acuto senso del reale, con quanta esattezza di osservazione scientifica sono colti tutti i passaggi di una decadenza lenta ed inconscia, che trasforma l’uomo morale come la natura trasforma l’uomo fisico, senza che l’uomo se ne avveda; sicché, in ultimo,
Gervasia, paragonando il suo primo stato coll’abisso nel quale è caduta, scoppia in un riso folle, e talora se la prende col buon Dio. Diamo un esempio di questa evoluzione. L’unità del racconto è l’Assommotr, la bottega dei liquori spiritosi, la cloaca massima da cui derivano tutte le lordure. E là che Lantier preparava l’abbandono della compagna. È là che Coupeau tra i cattivi compagni dichiarava il suo affetto a Gervasia. E là che Coupeau, deturpato dal vino, fu ucciso dall’acquavite. È là che Lantier conduceva le sue vittime, che egli chiamava amici. Là, in quel ritrovo di oziosi, vivaio di ladri e di assassini. Questa è la sala di papà Colombe, che la prima volta si offerse alla vista di Gervasia, la quale presentiva colà la rivalità di una donna e il tradimento dell’uomo. “Un sabato Coupeau promette a Gervasia di condurla seco a teatro, e far la cena assieme. Il danaro della settimana voleva spenderlo così, e Gervasia, già decaduta, non trova nulla da dire. Aspetta, aspetta. E Coupeau non viene. E la fame le tortura lo stomaco: non regge più. Piove a dirotta. E cosa importa? Ella pensa: - All’Assommoir deve
stare costui —. E giunge all’Assommoar ed è lì per spingere l’uscio. Ma pensa: - Cosa diranno di me? Una donna in questo luogo! - E si ritrae. Ma piove, piove. E torna e si ritrae, finché non può più e trova subito il sofisma per coonestare: - Infine, sono una moglie che cerca il marito —. Entra e trova Coupeau in un cerchio di ebbri. Ebbro lui per il primo. Lascio gli sfoghi, i motti, le allusioni. Coupeau dice infine: - Bevi un po’; un goccetto ti sazia la fame —. Prega di qua,
spingi di là, Gervasia beve l’anisetta di Coupeau come beveva l’anisetta materna. E se ne sente confortare, e vede portarsi in giro un liquore che sembrava oro, e la macchina che le stava alle spalle le infiamma i nervi, la ubbriaca prima di bere. Beve, e poi beve, e poi beve; ella è già ebbra tra ebbri. Povera Gervasia! Aveva istinti, non aveva qualità, non aveva forza di resistenza. Questo processo evolutivo, condotto con una coerenza ed una costanza unica, desta la nostra
ammirazione. E non è meno potente, in questa evoluzione, lo stile, che è impersonale, stile delle cose. La materia è calda da sé; non le è bisogno sguardo d’artista. Abbellimenti, belletti, perifrasi, figure, questo dizionario delle vecchie forme qui non ha lasciato alcun vestigio. Col tipo è andata via
ogni esagerazione di frase. L'artista, colla sua morbosa ingerenza, non è più il prete, posto lì fra l’uomo e Dio; il lettore entra in comunione immediata colla cosa. E non perciò manca l’ideale. Gli è solo che l'ideale non nasce da una vita artistica soprapposta e mescolata con la vita naturale. L’ideale‘è nelle cose, dalle quali escono lampi e guizzi di sentimenti umani. In questo mondo
dove l’uomo scompare e la bestia appare, sono interessantissimi i pochi e rari e fuggitivi sprazzi umani, non accompagnati, non sviluppati dalla presenza dell'artista: sarebbe una profanazione. Prendiamo qualche esempio. Nella stanza dell'albergo Boncoeur, in mezzo alla desolazione,
Il Naturalismo francese
903 al presentimento dell’abbandono, un raggio di sole penetra illuminando. Mentre il pianto e i singhiozzi soffocano la madre, due bambini dormono nel riso della pace. Un poeta direbbe subito che quel raggio di sole e quella celeste pace è un’ironia. Zola non dice nulla. È la cosa che parla sola. C’è anche Lalia, fanciulla di otto anni, che ha visto morire la mamma sotto le mazzate del padre ubriaco, che prende anche lei ciascuna sera le frustate dell’ubbriachezza, che fa da mammina lei alle due piccole sorelline, ed è tutto ordine, tutto nettezza, tutto previdenza; e non ha altra espressione dell’anima se non due occhi neri, pensosi, che talora ingrandisce quando alcuna cosa esce dall’abitudine e la sorprende. Oramai è usa al puzzo dell’acquavite, foriero delle frustate. Ma una sera entra la buona Gervasia, che talora le era scudo contro il padre, e sente l’acquavite, la sente dalla bocca di Gervasia, e ingrandisce quegli occhi neri pensosi. Quanta materia di osservazione, quanta commozione in quella Lalia, che non parla e guarda. Questo è l’ideale delle cose. (applaust). [...] Concludiamo. Qual è il vostro giudizio di Zola? Un tal critico dice: - De Sanctis non lo lascia intendere, ma ha una predilezione per Zola; Zola è un progresso anche dirimpetto a Manzoni; Zola è più grande di Manzoni -. Che torre di Babele in queste parole! come in certuni la critica è ancora nella sua infanzia! (ilarità, approvazioni) Che cosa ha a fare il progresso delle forme con la grandezza dell’impegno artistico? Manzoni è geniale, Zola è un ingegno potente che non
sale fino al genio. i Egli non è un creatore di arte nuova, e neppure un precursore come si tiene. È un fenomeno, o se vi piace meglio, un sintomo. E il pittore della corruzione. Il bel mondo dell’arte ideale va in isfascio; e Zola raccoglie le macerie e te le butta sul viso. É la conclusione ordinaria di ogni ‘ demolizione, non è il principio di un nuovo edifizio. Il suo mondo animale è ottuso; Zola non intravede niente al di là. I precursori sono come la via lattea: lasciano una traccia luminosa; i posteri più tardi in quella luce scopriranno le stelle. (bravo). Zola non è il precursore del nuovo; ma è il becchino dell’antico. Nuove sono le forme sue dell’arte attaccate al cadavere del contenuto. da Zola e l’«Assommoîr», in Saggi critici, a cura di L. Russo, Laterza, Bari 19654, vol. III, pp. 327-332
Bibliografia Su (1935); (1949); Rizzoli, Milano
Gustave Flaubert: A. THIBAUDET, Gustave Flaubert, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1960 E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it., Einaudi, Torino 1956 J.-P. RIcHARD, La creazione della forma in Flaubert, in La creazione della forma, trad. it., Milano 1969 (1954); G. PouLET, Flaubert, in Le metamorfosi del cerchio, trad. it., Rizzoli, 1971 (1961); J. RoussET, «Madame Bovary» 0 dl libro su nulla, in Forma e significato, Einaudi,
Torino 1976 (1962); S. Acosti, Tecniche della rappresentazione verbale in Flaubert, Il Saggiatore,
Milano 1981; F. MORETTI, La prosa del mondo, in Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1986. Su Edmond e Jules de Goncourt: E. AUERBACH, Germinie Lacerteua, in Mîimesis, op. cit. Su Emile Zola: G. LukAcs, Per dl centenario di Zola, in Saggi sul realismo, Einaudi, Torino 1957 (1940); E. AUERBACH, Mimesis, op. cit.; G. DELEUZE, Zola e l’incrinatura, in Logica del senso, trad. Il it., Feltrinelli, Milano 1984? (1969); Interpretazioni di Zola, Savelli, Roma 1975; G. MACCHIA, Réalité RIPOLL, R. (1977); 1985 Milano Mondadori, Parigi, di romanzo come ossessione, in Le rovine
et mythe chez Zola, Lille-Paris 1981.
La critica
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905
GIOVANNI VERGA E IL VERISMO ITALIANO
1. La poetica del Verismo italiano La diffusione di Zola
in Italia
La sinistra e il Naturalismo
Capuana teorico del Verismo italiano
L'immagine di Zola che si diffuse in Italia fu innanzitutto quella del romanziere scienziato e impavidamente “realista”, nonché dello scrittore “sociale”, in lotta contro le piaghe della società in nome del progresso e dell’umanità. Difatti furono in
primo luogo gli ambienti culturali milanesi di sinistra, repubblicani e socialisti, a diffondere e ad esaltare la sua opera sin dai primi anni ’70 (e non a caso il centro della diffusione di Zola fu Milano, che, oltre alla sua tradizionale apertura europea, era la città più vicina, nelle forme dello sviluppo economico e sociale, agli ambienti stranieri, e perciò più disposta a capire e ad accogliere un prodotto della realtà moderna come il Naturalismo positivista, ed a recepire le sue istanze sociali). La prima traduzione italiana comparve in appendice al giornale «La plebe» nel 1875; e significativamente, dato l'indirizzo del giornale, il romanzo scelto fu La curée, dove si rappresenta la corruzione dell’alta borghesia e il mondo delle speculazioni finanziarie e edilizie. Il più fervente sostenitore di Zola e del “realismo” era il critico di tendenze democratico-radicali Felice Cameroni, che per anni, con i suoi articoli su vari giornali milanesi, diffuse la conoscenza dell’autore francese, esaltandolo perché professava «le teorie più radicali», «repubblicano in politica, materialista in filosofia, realista in arte», e difendendo le sue opere dagli attacchi della critica e dell’opinione pubblica conservatrice e benpensante, scandalizzate dalle sue “audacie” e dalle sue crudezze. La sinistra milanese però, se ebbe il merito di cogliere subito l’importanza delle nuove tendenze, facendone la bandiera per la propria battaglia politica e culturale, rimase prigioniera delle sue aspirazioni confuse e velleitarie, e dimostrò di non avere la forza culturale e l’altezza intellettuale necessarie per costruire una teoria artistica organica e coerente e, quel che più conta, per dare vita a opere veramente valide, creando un nuovo linguaggio letterario: le formulazioni teoriche rimasero quanto mai generiche e approssimative, e le opere creative o si limitarono alla ricerca di effetti scandalistici ai limiti della pornografia (come nel caso di Cletto Arrighi, autore di una Nanà a Milano), o indulsero all’enfasi esasperata di una protesta che insisteva sino alla noia e al ridicolo sugli orrori della vita degli emarginati (come nelle opere di Paolo Valera, da Milano sconosciuta alla Folla). Una teoria coerente ed un nuovo linguaggio furono invece elaborati da due intellettuali conservatori, due “galantuomini” meridionali, che operavano nello stesso ambiente milanese, assorbivano le stesse sollecitazioni del Naturalismo francese e condividevano l'ammirazione per Zola, sia pur da diverse prospettive: Verga e Capuana. Luigi Capuana, come critico letterario del «Corriere della Sera», ha una funzione fondamentale nel diffondere la conoscenza di Zola, con la recensione delle sue varie opere, in particolare dell’Assommotr, che nel ’77 ha un successo clamoroso. Ma in questi articoli, pur nell’esaltazione dell’opera zoliana, si coglie chiaraGiovanni
Verga e il Verismo italiano
Ri 906 quello del Naturalismo | mente un modo di intendere la letteratura ben diverso da
estrinseci, quali francese. Capuana respinge la subordinazione della letteratura a scopi e sociale. litico po egno l'imp e iche scientif tesi di la dimostrazione “sperimentale” -
pur non interve In questo, Capuana concorda perfettamente con l’amico Verga che, rso | nendo direttamente nel dibattito letterario col manifestare pubblicamente attrave novelle le opere, sue nelle saggi e articoli le sue teorie, lavora a tradurle concretamente i nel 1880 in Vita dei campi, e raccolte pubblicate a partire dal ’78 in vari periodic (1881). Proprio il vedere concreia Malavogl / e poi nel primo romanzo del suo ciclo,
tati certi principi nelle opere dell'amico offre a Capuana l'occasione di chiarire fino
in fondo le sue posizioni teoriche. Nel recensire I Malavoglia nel 1881 afferma peren-
toriamente: «Senza dubbio l'elemento scientifico s’infiltra nel romanzo contempora- , sta nella pretesa di un romanzo o. Né neo [...]; ma la vera novità non istà in quest
sperimentale, bandiera che lo Zola inalbera.arditamente, a sonori colpi di grancassa
“Scientificità” e forma
[...]. Un'opera d’arte non può assimilarsi un concetto scientifico che alla propria
maniera, secondo la sua natura di opera d’arte. Se il romanzo non dovesse far altro a azione [...], îl che della fisiologia o della patologia, o della psicologia comparatin il naturalismo esercitano o. IIpositivismo, né grande né bell guadagno non sarebbe
una vera e radicale influenza nel romanzo contemporaneo, ma soltanto nella forma,
e tal’influenza si traduce nella perfetta impersonalità di quest'opera d’arte» (cfr. | di Capuana quindi il naturalismo perde la sua volontà di T213). Nella prospettiva — o È,
no politico diretto, e si traduce solo in un modo particolare far scienza eil suoi ‘ © di fare letteratura. La “scientificità” non deve consistere nel trasformare la narra-
zione in esperimento, per dimostrare tesi scientifiche (pena la morte dell’arte: ed in questa difesa dell’autonomia dell’arte Capuana rivela le sue ascendenze idealisti-
che, specie dalle teorie estetiche di Francesco De Sanctis), ma nella tecnica con cui
lo scrittore rappresenta, che è simile al metodo dell’osservazione scientifica, per
à si manifeificit quanto resti nei limiti che sono propri dell’arte. La scientinsomma
sta solo nella forma artistica, nella maniera con cui l'artista crea le sue figure, organizza isuoi materiali espressivi. E questa maniera si riassume nel principio dell’impersonalità dell’opera d’arte: per questo l’impersonalità, come fatto formale, è il motivo centrale della poetica del Verismo italiano, in luogo dello “sperimentalismo” scientifico del Naturalismo francese (resta da chiedersi quale sia la causa di tendenze così divergenti: ma rimandiamo il discorso al $ 4). La formula diCapuana è ricavata, come si è visto, dall’esempio delle prime opere
veriste del Verga, e dalle stesse affermazioni dello scrittore che le accompagnano.
La teoria verghiana dell’impersonalità
Per chiarire il concetto diimpersonalità sarà bene quindi esaminare da vicino, nel Già nel ’79, pubblicando la novella L’amante di Graconcreto, le teorie verghiane. migna, Verga aveva avuto modo di esporre isuoi intendimenti nella lettera dedicatoria al Farina (cfr. T202); poi piùvolte aveva ribaditoisuoi principi invarie Iettere
e a Capuana e a Cameroni (cfr. T204). Secondola sua visione, larappresentazion artistica deve possedere l’«efficacia dell’essere stato», deve conferire al racconto l’im-
L’“eclisse” dell’autore
pronta dicosa realmente avvenuta; per far questo deve riportare «documenti umani», ma non basta che ciò che viene raccontato sia reale e documentato; deve anche essere raccontato in modo da porre il lettore «faccia a faccia col fatto nudo e schietto»,in modo che non abbia l'impressione di vederlo attraverso «la Ienté dello scrittore». Per questo lo scrittore deve «eclissarsi», cioè non deve comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive, le sue riflessioni, le sue spiegazioni, come nella narrativa tradizionale. L'autore deve «mettersi nella pelle» dei suoi personaggi, «vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole». In tal modo la sua mano «rimarrà assolutamente invisibile» nell’opera, tanto che l’opera dovrà sembrare «essersi fatta da sé», «esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore». Il lettore avrà l’impressione non di sentire un racconto dì fatti,.ma di assistere a fatti che si svolgono sotto i suoi occhi. A tal fine illettore deve essere introdotto nel mezzo degli avvenimenti, senza che nessuno gli spieghi
gli antefatti e gli tracci un profilo dei personaggi, del loro carattere e della loro storia, «come ei li avesse tutti conosciuti diggià, e più vissuto con loro e in quell’amGiovanni
Verga e il Verismo
italiano
907 biente sempre». Verga ammette che questo può creare una certa confusione alle prime pagine; però man mano gli «attori» si fanno conoscere con le loro azioni e le loro
parole, attraverso di esse il loro carattere si rivela al lettore: solo così, evitando l’in-
tromissione dell’autore che spiega e informa, si può creare «L’illusione completa della realtà» ed eliminare ogni artificiosità letteraria. Come si vede, la teoria dell’impersonalità non è per Verga una definizione dell’arte, che pretende di negare realmente ogni rapporto tra creatore e opera (che sarebbe assurdo), e tanto meno un’affermazione dell’indifferenza psicologica dell’autore nei confronti della sua materia, ma solo la definizione di un procedimento tecnico, di un modo di dar forma all’opera, di conseguire determinati effetti artistici, cioè di far sì che non si avverta nel narrato la presenza dell’autore. Per questo Verga parla di «artificio», di «illusione», di «impressione»: al lettore deve apparire “come se” l’autore fosse scomparso; ma è ovvio che è pur sempre l’autore ad organizzare i materiali in modo da dare quella particolare impressione. Resta da vedere come Verga attui questi suoi principi, e soprattutto quali motivazioni ideologiche stiano dietro all’adozione di questo procedimento dell’impersonalità. fn
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Il Verga applica coerentemente i principi della sua poetica nelle opere veriste composte dal ’78 in poi; e ciò dà origine ad una tecnica narrativa profondamente originale e innovatrice, che si distacca sia dalla tradizione sia dalle contemporanee espeLa scomparsa
rienze italiane e straniere. Nelle sue opere effettivamente l’autore si «eclissa», si
del narratore “onnisciente”
cala «nella pelle» dei personaggi, vede le cose «con i loro occhi» e le esprime «con le loro parole». A raccontare infatti non è il narratore “onnisciente” tradizionale, che, come nei romanzi di Manzoni, Balzac o Scott, riproduce il livello culturale, i valori,
i principi morali, il linguaggio dello scrittore stesso, ed interviene continuamente nel racconto ad illustrare gli antefatti o le circostanze dell’azione, a tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d'animo e le motivazioni psicologiche dei loro gesti, a commentare e giudicare i loro comportamenti, a dialogare col lettore. Il punto di vista dello scrittore non si avverte mai, nelle opere del Verga: la “voce” che rac-
conta si colloca tutta all’interno del mondo rappresentato, è allo stesso livello dei personaggi. Non è propriamente qualche specifico personaggio a raccontare; ma. il La “regressione nell’ambiente rappresentato
”
narratore si mimetizza nei personaggi stessi, adotta il loro modo di pensare e di sen-
cori
stessi principi morali, usa il loro
stesso modo di esprimersi. E come se a raccontare fosse uno di loro, che però
non compare direttamente nella vicenda, e resta anonimo. Quindi i fatti non passano attraverso la «lente» dello scrittore: siccome chi narra è interno al piano della rappresentazione, il lettore ha l’impressione di trovarsi «faccia a faccia con il fatto nudo e schietto». Tutto ciò si impone con grande evidenza agli occhi del lettore perché Verga, nei Malavoglia e nelle novelle, rappresenta ambienti popolari e rurali e mette in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, minatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da quelli dello scrittore borghese (diverso è il caso del Gesualdo). Un esempio chiarissimo è fornito dall’inizio di Rosso Malpelo, che è la prima novella verista pubblicata dal Verga (1878) e che inaugura la nuova maniera di narrare: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo». La logica che sta dietro questa affermazione non è certo quella di un intellettuale borghese quale era ilVerga: fa infatti dipendere da una qualità essenzialmente morale («malizioso e cattivo») un dato fisico, naturale, i capelli rossi; rivela cioè una visione primitiva e superstiziosa della realtà, estranea alle categorie razionali di causa ed effetto, che vede nell’individuo “diverso” un essere segnato come da un’oscura maledizione, che occorre temere e da cui è necessario difendersi. E tutta la vicenda è narrata da questo punto di vista: '
La tecnica narrativa del Verga
908 que dei vari minaè come se a raccontare non fosse lo scrittore colto, ma uno qualun narratore, tipico o anonim questo ma tori della cava in cui lavora Malpelo. Non solo, esaurientemente informa non , popolari i ambient di o delle opere verghiane che trattan : si pensi ai Manzoni o esempi ad fa (come ggi persona dei sul carattere e sulla storia ominato), né capitoli interi dedicati a fra Cristoforo, alla monaca di Monza, all’inn ancora alla pensi (si offre dettagliate descrizioni dei luoghi dove si svolge l’azione se si rivolcome parla ne sposti): si descrizione del lago di Como che apre I promes conosempre avesse che e, ambient stesso gesse a un pubblico appartenente a quello e dei glia Malavo o dei all’inizi lettore il Perciò luoghi. quei e sciuto quelle persone o parziali notizie solo e possied cui di ggi persona a fronte di trova si i vari raccont stessi essi che ciò rso non essenziali, e solo a poco a poco arriva a conoscerli, attrave fanno o dicono, 0 attraverso ciò che altri personaggi dicono di loro. E se la voce narrante commenta e giudica i fatti, non lo fa certo secondo la visione colta dell’autore, ma in base alla visione elementare e rozza della collettività popolare, che non riesce a cogliere le motivazioni psicologiche autentiche delle azioni e deforma ogni fatto in base ai suoi principi interpretativi, fondati sulla legge dell’utile e dell'interesse egoistico. Di conseguenza anche il linguaggio non è quello che potrebbe essere dello scrittore, ma un linguaggio spoglio e povero, punteggiato di modi di dire, paragoni, proverbi, imprecazioni popolari, dalla sintassi elementare e talora scorretta, in cui traspare chiaramente la struttura dialettale (anche se Verga non usa mai direttamente il dialetto, ma sempre solo un lessico italiano; tanto che se deve citare un ter- i mine dialettale lo isola mediante il corsivo). pa
POL
3. L'ideologia verghiana
Il «diritto di giudicare»
A questo punto è inevitabile chiedersi: che cosa induce Verga a formulare questo principio dell’impersonalità e ad applicarlo così rigorosamente? Una risposta è data da Verga stesso in un passo fondamentale della Prefazione ai Vinti (cfr. T203): «Chi osserva questo spettacolo [della «lotta per l’esistenza»] non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti». Verga ritiene dunque
che l’autore debba «eclissarsi» dall’opera, non debba intervenire in essa, perché non ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta. Ma tale risposta sposta semplicemente la questione. Perché non ha diritto di giudicare? Per trovare una risposta soddisfacente, occorrerà risalire alla concezione generale del mondo che è il presup-
posto di una simile affermazione. Alla base della visione di Verga stanno posizioni radicalmente società umana è per lui dominata NET time
Il pessimismo
pessimistiche: la
a
1),
un meccanismo erudele,.per cui il più forte schiaccia necessariamente il più debole. La generosità disinteressata, l’altruismo, la pietà sono solo valori ideali, che non tro-
vano posto nella realtà effettiva. Gli uomini sono mossi non da motivi ideali, ma dal-
l'interesse economico, dalla ricerca dell’utile, dall’egoismo, dalla volontà di sopraf-. fare gli altri. E questa una legge di natura, universale, che,governa qualsiasi società,
La «lotta per la vita» come legge di natura
in ogni tempo e in ogni luogo, e domina non solo le società umane, ma anche il mondo animale e vegetale. Come legge di natura, essa è immodificabile: perciò Verga ritiene
che non si possano dare alternative alla realtà esistente,né nel futuro, in un’organizzazione sociale diversa e più giusta, né nel passato, nel ritornare a forme superate dal mondo moderno, e neppure nella dimensione del trascendente (la sua visione è rigorosamente materialistica e atea, ed esclude ogni consolazione religiosa, ogni
speranza di riscatto dalla negatività dell'esistente in un’altra vita).
Ma se per Verga la realtà, per negativa che sia, è data una volta per tutte, senza
possibilità di modificazioni, si può capire perché egli non ritiene legittimo, per lo scrittore che la rappresenta, proporre giudizi. Infatti solo la fiducia nella possibilità di Giovanni
Verga e il Verismo italiano
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L’illegittimità del giudizio
modificare il reale può giustificare l'intervento dall’esterno nella materia, il giudizio correttivo, l'indignazione e la condanna esplicita in nome dell'umanità, della giustizia, del progresso (una riprova è il contegno di Manzoni, che continuamente interviene a giudicare i fatti narrati, perché ritiene che si possa dare un’alternativa ad essi, sia sul piano della storia, sia su quello del trascendente). Se è impossibile modi-
ficare l’esistente, ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso, e allo scrittore non resta che riprodurre la realt così com'è, à lasciare cheparlida sé, senza farla passare attraverso alcuna «lente» correttiva. La letteratura non può contri-
Impersonalità come espressione del pessimismo
=
*
x
Il conservatorismo
buire amodificare la realtà, ma può solo avere la funzione di studiare ciò che è dato
una volta per tutte, e diriprodurlo fedelmente, «senza passione». La tecnica impersonale usata da Verga non è dunque frutto di una scelta casuale, ma scaturisce coerentemente dalla sua visione del mondo pessimistica, ed è per lui il modo più adatto
per esprimerla. E chiaro che un simile pessimismo, che nega ogni trasformazione storica della società,e identifica l’assetto vigente con l’ordine naturale, ha una connotazione fortemente conservatrice. Vi si associa infatti un rifiuto esplicito e polemico, espresso dallo scrittore in più occasioni, per le ideologie progressiste contemporanee, democratiche e socialiste, che egli giudica fantasie infantili o interessati inganni, e causa di pericolosi rivolgimenti sociali. Però questo pessimismo conservatore non implica
affatto, nella visione di Verga, e tanto meno nella rappresentazione letteraria, un’acL’atteggiamento critico verso la realtà
L’immunità dai miti contemporanei
Il popolo
L’assenza di pietismo sentimentale verso il popolo
cettazione acritica della realtà esistente, una sorta di connivenza con proprio il pessimismo, pur impedendo di indicare alternative, consente cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo in quella realtà: nelle ghiane la disumanità della «lotta per la vita», lo sfrenarsi delle ambizioni
essa. Anzi, a Verga di pagine vere degli interessi, il trionfo dell’utile e della forza, lo scatenarsi degli antagonismi tra ceti sociali e individui, la brutalità dell’oppressione sui più indifesi, la sofferenza e la degradazione umana che essa provoca, sono messi in luce con implacabile precisione. Anche se non dà giudizi correttivi, Verga rappresenta con grande acutezza l’oggettività delle cose, e le cose parlano da sé, eloquentemente. Il pessimismo non è dunque un limite della rappresentazione verghiana, ma al contrario è la condizione del suo valore cono-
scitivo e critico. Non solo, ma proprioilpessimismo conservatore assicura a Verga l'immunità da quei miti che trionfano in tanta letteratura contemporanea, e la trasformano in mediocre veicolo di grossolana mitologia: innanzitutto il mito del progresso, centrale nella cultura e nella mentalità diffusa del tempo (si pensi all’Inno a Satana di Carducci, T175); poi il mito del popolo, sia nella sua versione progressista e umanitaria, sia in quella romantico-reazionaria e nostalgica (cfr. M26). Anche se le opere veriste di Verga hanno per gran parte al centro la vita del popolo, non si riscontra in esse quell'atteggiamento populistico che affligge tanta letteratura del secondo Ottocento, che consiste nella pietà sentimentale per le miserie degli “umili”, nella deprecazione retorica delle “piaghe” sociali, nella fiducia in un miglioramento delle condizioni dei diseredati garantito dalla buona volontà e .dal paternalismo benefico dei ceti privilegiati, e che si traduce in una rappresentazione manierata, patetica e lacrimevole o insopportabilmente zuccherosa della realtà popolare (per intendersi, basti solo pensare al Cuore di DeAmicis, 1886; cfr. T224). Tracce di una simile tematica umanitaria e sociale sipossono trovare nella materia in astratto di alcune opere veriste di Verga: in Rosso Malpelo ad esempio, che è la storia di un povero orfano maltrattato e incompreso, e può ricordare le vicende di tanti eroi infantili sventurati e privi d'amore dei racconti mensili di Cuore e della letteratura edificante dell’epoca; nei Malavoglia, che offrono un catalogo completo di tutte le disgrazie che si possono accanire sul popolo paziente e laborioso. Tuttavia il duro pessimismo, la visione arida e desolata, che si concentra sugli aspetti più crudi della realtà, mortifica in Verga ogni possibile abbandono al patetismo umanitario; anzi, la scelta di “regredire” nell’ottica popolare, di raccontare proprio dal punto di vista della lotta per la vita, che nega sistema-
ticamente ogni valore di umanità e di altruismo, costituisce la dissacrazione più impie-
tosa di ogni mito populistico “progressivo”. Ma in Verga non è presente neppure L’ideologia verghiana
910 L’assenza di mitizzazione del mondo rurale
pasil populismo di tipo romantico reazionario, proteso nostalgicamente verso forme connon Verga moderno, progresso del sate di vita. Pur sottolineando la negatività patriartrappone ad essa il mito della campagna, della civiltà contadina arcaica e
Say
innocenza. cale, concepita come un Eden di incorrotta autenticità, di una sanità e
di vita ormai perdute, da contrapporre come antidoto alla società cittadina e moderna. Tracce di una visione del genere si trovano ancora in una prima fase del suo veri smo, ma vengono superate nelle opere più mature. La campagna în esse non rappresenta un’alternativa al mondo brutale e corrotto della civiltà cittadina, fatta di «Banche» e «Imprese industriali», né un antidoto ai suoi mali. Il pessimismo induce Verga a vedere che anche il mondo primitivo della campagna è retto, nella sua essenza,
dalle stesse leggi del mondo moderno, l’interesse economico, l'egoismo, la ricerca dell'utile, la forza e la sopraffazione, che pongono gli uomini in costante conflitto fra loro. Verga non è scrittore che offra facili evasioni o immagini consolatorie, ma
è uno scrittore scomodo, aspro, sgradevole, che urta il lettore e stimola così la rifles-
sione critica. Non diffonde miti, ma semmai li distrugge.
4. Il verismo di Verga e il naturalismo zoliano
La tecnica narrativa di Zola
Il punto di vista dall’alto e dall’esterno
Il linguaggio popolare
Giovanni
A questo punto sarà risultata evidente la profonda differenza che separa il verismo verghiano dal naturalismo di Zola, che pure è un punto di riferimento ineludibile per gli scrittori italiani della nuova scuola. La distanza si misura sul piano delle tecniche narrative, innanzitutto. Nei romanzi di Zola non esiste nulla di simile all’originalissima tecnica verghiana della “regressione” nel punto di vista del mondo popo-
lare rappresentato. La “voce” che racconta nei Rougon-Macquart riproduce sempre il modo di vedere e di esprimersi dell’autore, del borghese colto, che guarda dall’esterno e dall’alto la materia; e questa voce narrante interviene spesso con giudizi sulla materia trattata, sia espliciti, sia impliciti (anche se manca quella coloritura soggettiva dei narratori di Manzoni o di Balzac). Si prenda ad esempio, nel secondo capitolo di Germinal (1885), la scena in cui i figli di un minatore fanno toeletta prima di recarsi al lavoro, ragazzi e ragazze insieme, in totale promiscuità: «Le camicie volavano, mentre, ancora gonfi di sonno, facevano i loro bisogni senza vergogna, con la naturalezza tranquilla di una cucciolata di cagnolini, cresciuti insieme». E evidente che qui lo scrittore, sottolineando la mancanza di pudore dei giovani e usando il paragone dei «cagnolini», dà un giudizio dal suo punto di vista, secondo il suo codice morale borghese, sul comportamento di quell’ambiente proletario, che ha un codice tutto diverso. Tra il narratore e i personaggi vi è un distacco netto, e il narratore lo fa sentire esplicitamente. Questo nel Verga verista non avviene mai: in un caso del genere egli avrebbe raccontato la scena dal punto di vista dei minatori stessi, cioè non avrebbe affatto sottolineato la mancanza di vergogna, perché la voce narrante, interna a quel mondo e partecipe della sua visione, non l’avrebbe minimamente percepita. In altri casi in Zola il giudizio è implicito, ed è rivelato da un particolare termine, che riflette la visione dell’autore. Ecco, sempre all’inizio di Germinal, la descrizione della cucina dei minatori: «Nonostante la pulizia, un odore di cipolle cotte, stagnante dal giorno prima, avvelenava l’aria calda» [il corsivo è nostro]: il termine «avvelenava» non può certo appartenere al livello dei minatori, che si nutrono quotidianamente di cipolle, ma esprime il giudizio dato dallo scrittore, in base alla sua particolare sensibilità di borghese, sulla miseria di quell’ambiente. Non c’è bisogno di insistere che il narratore “basso” di Verga non avrebbe mai potuto usare un termine del genere. Anche nell’Assommotr, dove pure Zola riproduce il gergo dei proletari parigini, vi è una netta distinzione fra il piano del narratore e quello dei personaggi: il gergo è impiegato solo se e dove sono i personaggi popolari ad esprimersi, con ildiscorso diretto o l’indiretto libero. Le zone dove è il narratore a parlare (descrizioni, analisi psicologiche ecc.) presentano al contrario un linguaggio letterario e colto,
Verga e il Verismo
italiano
r ba è
L’impersonalità di Zola | e quella di Verga
Tecnica narrativa,
poetica e ideologia in Zola e in Verga
911 da cui spesso traspare il giudizio del narratore sulla degradazione di quell’ambiente (cfr. T196). L’impersonalità zoliana è quindi profondamente diversa da quella di Verga: per Zola l’impersonalità significa assumere il distacco dello “scienziato”, che si allontana dall’oggetto, per osservarlo dall’esterno e dall’alto; per Verga significa Invece immergersi, “eclissarsi” nell'oggetto. Per usare due formule efficaci proposte da Luperini, l’impersonalità di Zola è a parte subiecti, quella di Verga a parte obecti. Queste tecniche narrative così lontane sono evidentemente la conseguenza di due poetiche e di due ideologie radicalmente diverse. Zola interviene a commentare e a giudicare, dall'alto del suo punto di vista “scientifico”, perché crede che la serit-
tura letteraria possa contribuire a cambiare la realtà, ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della letteratura, come studio dei problemi sociali e stimolo alle riforme (cfr. Il romanzo sperimentale, T195); dietro la “regressione” di Verga nella realtà rappresentata vi è invece, come sappiamo, il pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile, che la letteratura non possa in alcun modo incidere su di essa, e che quindi lo scrittore non abbia «il diritto di giudicare», e debba limitarsi alla riproduzione oggettiva, «sincera e spassionata», del dato. Restano però ancora da individuare le radici sociali di posizioni ideologiche e letterarie così diverse dei due scrittori, di solito collocati in un comune clima culturale. | Zola scrittore
democratico
Verga “galantuomo” conservatore
Autonomia del valore
artistico dall’ideologia
Zola ha fiducia nella possibilità della letteratura di incidere sul reale perché è uno scrittore borghese democratico, che ha di fronte a sé una realtà dinamica, una società già pienamente sviluppata dal punto di vista industriale, in cui i conflitti tipici del mondo capitalistico moderno hanno ormai raggiunto uno stadio avanzato, in cui esistono una borghesia attiva e consapevole ed un proletariato dalla coscienza sociale matura, combattivo ed organizzato; di conseguenza lo scrittore progressista, in un simile ambiente, si sente il portavoce di esigenze ben vive intorno a lui e sa di potersi rivolgere ad un pubblico in grado di recepire il suo messaggio e di reagire ad esso. Il rifiuto verghiano dell’impegno politico della scrittura, l’affermazione della pura letterarietà dell’opera e la scelta dell’impersonalità come carattere fondamentale della nuova arte “realista” rimandano invece ad una situazione economica, sociale e culturale ben diversa da quella francese. Verga è il tipico “galantuomo” del Sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato e immobile, estraneo alla visione dinamica del capitalismo moderno, e ha di fronte a sé una borghesia ancora pavida e parassitaria (nonostante i primi fermenti di innovazione e di sviluppo), e delle masse contadine estranee alla storia, chiuse nella loro miseria e nei loro arcaici ritmi di vita, passive e rassegnate. Il fatalismo del “galantuomo” poteva poi trovare conferma nella realtà attuale dell’Italia, in cui gli inizi dello sviluppo capitalistico, lungi dal modificare le condizioni subumane delle masse popolari, del Sud in particolare, non faceva che ribadirne l'esclusione e l'oppressione e rendere ancor più dura la loro vita: lo scrittore poteva facilmente concludere che nulla era mutato realmente, dietro la facciata delle intense trasformazioni, e ricavare la convinzione che nulla mai può mutare in assoluto nella storia degli uomini, che la legge della sopraffazione è un dato universale e necessario, e che quindi la letteratura può solo portare a conoscere la realtà, non a modificarla. Ed è inevitabile che anche gli influssi positivistici assorbiti dal clima culturale europeo, agendo in un simile terreno, non spingessero ad un’interpretazione ottimistica e progressiva della realtà, come era nel loro carattere originario, ma anzi, col loro ferreo determinismo, fornissero semmai una giustificazione filosofica alla convinzione che la realtà sociale è un prodotto naturale e come tale non potrà mai essere modificata. Osservare questo non significa però esaltare il “progressismo” di Zola contro il “conservatorismo” di Verga, e ricavarne giudizi di valore sulle rispettive opere. I valori artistici non sono conseguenza immediata e meccanica dell'ideologia di uno scrittore. Anzi, proprio la carica progressiva, per quanto generosa, è in buona parte responsabile dei vistosi difetti della narrativa zoliana: la mitologia scientifica alquanto del rozza e ingenua (ad esempio per quanto concerne l’ereditarietà), la mitizzazione amelodramm situazioni di “popolo” come forza selvaggia e primigenia, la creazione Il verismo di Verga e il naturalismo zoliano
912 documentario tiche e forzate e di simbologie artificiose, la pesantezza dell’intento
smo, la visione illustrativo, la turgidezza enfatica dello stile, e così via. Mentre il pessimi za ed essensecchez sua la na verghia va narrati alla arida e desolata della realtà dà critico. e ivo conoscit te altamen valore suo il ce zialità e le conferis
5. I “veristi” italiani
Non esiste un Verismo come movimento organizzato
Abbiamo insistito essenzialmente su Verga, sulla sua poetica e sulle sue tecniche narrative, non tanto perché è lo scrittore più rappresentativo, che ha fornito le realizzazioni più alte di una tendenza, quanto perché, a ben vedere, non si può dire che esista un “Verismo” come scuola o movimento organizzato, paragonabile a ciò che _ era stato il Romanticismo a Milano fra il ’16 e il ’21. La serie di scrittori che abitualmente viene classificata sotto tale etichetta non si raggruppa intorno a un programma culturale comune, esplicitamente affermato attraverso organi periodici (quale era «Il conciliatore»), non fa riferimento ad una comune visione della realtà e ad un’omogenea concezione della letteratura e del ruolo intellettuale. Non si può neppure parlare di una tendenza generale del gusto in cui si riconoscano autonomamente vari scrittori, al di là delle loro personali soluzioni ideologiche ed espressive. Il panorama del periodo cosiddetto verista offre una serie di esperienze che hanno tra loro ben poco di simile, e che soprattutto hanno ben poco da spartire con la matrice positivista e “zoliana” della scuola naturalista francese, da cui tradizionalmente si fa deri-
Verga scrittore isolato
vare il Verismo italiano: dal colorito e superficiale descrittivismo della Serao, venato di sentimentalismo da romanzo d’appendice e di ambizioni “psicologistiche”, all’accesa e provocatoria polemica sociale di Valera, al bozzettismo campagnolo moderato e paternalista di Fucini, all’aspro moralismo religioso di Pratesi, per non parlare del sensuale e perverso compiacimento del D’ Annunzio giovane nel rappresentare esseri primitivi ai limiti della ferinità (Terra vergine, Le novelle della Pescara). Nulla accomuna nel profondo questi scrittori, se non un generico riferimento ad una “realtà” non meglio definita, o più superficialmente ancora un interesse per figure e ambienti | popolari, per la rappresentazione delle loro miserie, o per il colore locale e regionale. Verga non ha dunque dietro di sé un vero movimento, in accordo col quale possa elaborare e discutere idee, mettere a punto esperimenti, delineare al limite un piano di rinnovamento letterario e di egemonizzazione dell’intero mondo culturale italiano (come era nelle intenzioni dei romantici, in antagonismo con la tradizione classicistica). Anche se assorbe molte sollecitazioni culturali, soprattutto nell’ambiente milanese, e fa tesoro di tutte le discussioni letterarie avvenute in quel giro di anni in Francia e in Italia, resta tutto sommato un isolato. Accanto a lui, negli anni decisivi, —a condividere pienamente posizioni teoriche e progetti, a discutere quasi quotidianamente dei nuovi problemi letterari, vi è solo l’amico Capuana. Più tardi, quasi in posi- zione di discepolo, si aggiungerà il più giovane De Roberto. Il Verismo, inteso come gruppo omogeneo di scrittori, dotato di piena consapevoleza teorica, che si rifà deliberatamente all'esempio francese, discutendolo e rielaborandolo originalmente, si restringe, volendo essere rigorosi, a questi tre nomi. Il Verga inoltre non esercitò mai larga influenza sulla cultura contemporanea, non creò una “scuola”, non costituì un modello a lungo imitato, come avvenne invece nel caso di Manzoni: tracce di
imitazione dei temi e della particolare tecnica narrativa verghiana si possono anche trovare in alcuni minori, ma in forme episodiche e soprattutto legate a tutt'altra concezione della realtà, lontanissime dal pessimismo materialistico del Verga, e quindi svincolate dalla loro motivazione profonda e ridotte a pura riproduzione esteriore di una maniera (come ad esempio nel cattolico e reazionario Zena; e si tratta di un’imitazione limitata ad uno solo dei romanzi, La bocca del lupo, mentre L’Apostolo segue vie diverse).
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
913 6. Lo svolgimento dell’opera verghiana 6.1. IL periodo preverista. Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri. Compì i primi studi presso maestri privati, in particolare il letterato patriota Antonino Abate, da cui assorbì il fervente patriottismo e il gusto letterario romantico che furono i dati fondamentali della sua formazione, come testimonia il primo romanzo, Amore e patria, scritto a sedici anni e rima-
La formazione
I romanzi giovanili
sto inedito. I suoi studi superiori non furono regolari: iscrittosi a diciotto anni alla facoltà di legge a Catania, non terminò i corsi, preferendo dedicarsi al lavoro letterario e al giornalismo politico (con i denari datigli dal padre per concludere gli studi pubblicò a sue spese un secondo romanzo, I carbonari della montagna, 1861-1862). Questa formazione irregolare segna inconfondibilmente la sua fisionomia di scrittore, che si discosta dalla tradizione di scrittori letteratissimi e di profonda cultura
Una peccatrice
Storia di una capinera
Eva
Eros e Tigre reale
umanistica che caratterizza la nostra letteratura, anche quella moderna (si pensi solo a Carducci, ammiratore e imitatore entusiasta dei classici e professore universitario): i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni, più che i classici italiani e latini, sono gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità, ai limiti con la letteratura di consumo, come Dumas padre (I tre moschettieri) e figlio (La signora delle camelie), Sue (I misteri di Parigi), Feuillet (Il romanzo di un giovane povero). E queste letture di intrigo o sentimentali, insieme con i romanzi storici italiani, quali quelli esasperatamente romantici di Guerrazzi, lasciano un’impronta sensibile nei suoi primi romanzi (nel ’63 pubblica ancora Sulle lagune). Nel 1865 lascia la provincia e si reca una prima volta a Firenze, allora capitale del regno. Vi torna nel ’69 deciso a soggiornarvi a lungo, consapevole del fatto che per divenire scrittore autentico doveva liberarsi dai limiti della sua cultura provinciale e venire a contatto con la vera società letteraria italiana (e proprio i suoi primi romanzi che abbiamo citato dimostrano, con la loro ingenuità e il loro cattivo gusto, quanto questa scelta fosse giusta e necessaria). Nel frattempo aveva ancora pubblicato il romanzo Una peccatrice (1866), fortemente autobiografico, che in toni enfatici e melodrammatici narra la storia di un intellettuale piccolo borghese di Catania, che conquista il successo e la ricchezza ma vede inaridirsi l’amore per la donna sognata e adorata, e ne causa così il suicidio. A_ Firenze termina Storia di una capinera (1871), romanzo sentimentale e lacrimevole, storia di un amore impossibile e di una monacazione forzata, che gli assicura un notevole e duraturo successo. Nel ’72 si trasferisce a Milano, che era allora il centro culturale più vivo della penisola e più aperto alle sollecitazioni europee. Qui entra in contatto con gli ambienti della Scapigliatura. Finisce il romanzo Eva, già cominciato a Firenze, storia di un giovane pittore siciliano che, nella Firenze capitale, brucia le sue illusioni e i suoi ideali artistici nell'amore per una ballerinetta, simbolo della corruzione di una società “materialista”, tutta protesa verso i piaceri, che disprezza l’arte e l’asservisce al suo bisogno di lusso. La protesta per la nuova condizione dell’intellettuale, emarginato e declassato nella società borghese dominata dal principio del profitto, è molto vicina all’accesa polemica anticapitalistica che caratterizza la Scapigliatura. A questo romanzo polemico, che ha le caratteristiche di un'ingenua confessione autobiografica, seguono romanzi d’analisi di sottili passioni mondane: Eros, storia del progressivo inaridirsi di un giovane aristocratico, corrotto da una società raffi-
nata e vuota, e Tigre reale, che analizza il traviamento di un giovane innamorato di una donna “fatale”, divoratrice di uomini, e la sua redenzione segnata dal ritorno alle serene gioie della famiglia. I due romanzi (usciti entrambi nel 1875) confermano il successo di Verga, e sono salutati dalla critica come esempi di È realismo edi analisi ardita e impietosa di piaghe psicologiche e sociali (« impavido realista» lo definisce Cameroni, che conduceva in quegli anni la battaglia per il realismo e faceva conoscere Zola in Italia).
6.2.
L’approdo al Verismo: «Vita dei campi».
In realtà stava maturando in Verga
una crisi. Dopo un silenzio di tre anni (interrotto solo dalla raccolta in volume di alcune novelle già pubblicate e di poco valore), nel 1878 esce un racconto che si discosta Le opere
914
Pe
La svolta: Rosso Malpelo
Nedda
fortemente dalla materia e dal linguaggio della sua narrativa anteriore, gliambienti mondani, le passioni raffinate e artificiose, il soggettivismo esasperato, lirico e melodrammatico: si tratta di Rosso Malpelo, la storia di un garzone di miniera che vive in un ambiente duro e disumano, narrata con un linguaggio nudo e scabro, che riproduce il modo di raccontare di una narrazione popolare. E la prima opera della nuova _ maniera verista, ispirata ad una rigorosa impersonalità. Già nel 1874 Verga aveva pubblicato un bozzetto di ambiente siciliano e rusticano, Nedda, che descriveva la vita di miseria di una bracciante; ma il racconto non può essere considerato un preannuncio della svolta: mutati gli ambienti, vi restavano identici i toni melodrammatici dei romanzi mondani, ancora sostanzialmente estranei all’impersonalità verista, con
La «conversione»
in più un gusto tutto romantico per una realtà esotica e diversa, ricuperata nella memoria, insieme ad un umanitarismo generico e sentimentale di fronte alle sofferenze degli “umili”. Questo cambio così vistoso di temi e di linguaggio è stato spesso interpretato come una vera e propria “conversione”. In realtà non esiste una frattura così netta tra i due momenti del narrare verghiano. Si tenga presente che Verga si proponeva fermamente di dipingere il “vero”, pur rifiutando ogni etichetta di scuola, già ai tempi di Eva e di Eros. Seriveva a Cameroni nel ’75: «Ho cercato sempre di essere vero, senza essere né realista né idealista, né romantico, né altro [...], ne ho avuto sempre l’intenzione, nell’Eva, nell’ Eros, in Tigre reale». Semplicemente, Verga possedeva strumenti ancora approssimativi e inadatti, poco personali e inquinati da
Le «basse sfere» e l’alta società
una convenzionale maniera romantica. L’approdo al Verismo non è quindi una brusca inversione di tendenza, ma il frutto di una chiarificazione progressiva di propositi già radicati, la conquista di strumenti concettuali e stilistici più maturi: la concezione materialistica della realtà e l’impersonalità. Non solo, ma la svolta verista non va interpretata in senso moralistico, come frutto di sazietà per gli ambienti eleganti e mondani, che induce a cercare maggiore autenticità e serietà di vita tra gli umili (come intendeva il Russo). Infatti con la conquista del metodo verista Verga non abbandona affatto gli ambienti dell’alta società per quelli popolari. Anzi, come afferma nella prefazione ai Malavoglia, si propone di tornare a studiarli proprio con quegli strumenti più incisivi di cui si è impadronito. Le «basse sfere» non sono che il punto di partenza del suo studio dei meccanismi della società, poiché in esse tali meccanismi sono meno complicati e possono essere individuati più facilmente. Poi lo scrittore intende applicare via via il suo metodo anche agli strati superiori, sino al mondo dell’aristocrazia, della politica, dell’alta intellettualità. Le tappe del processo che porta Verga a questo approdo al Verismo non ci sono
L’influsso dell’ Assommoir
L’influsso di Capuana
Vita dei campi
Giovanni
note, perché mancano o non sono per ora accessibili idocumenti. Certamente sull’adozione dei nuovi moduli narrativi esercitò un influsso determinante la lettura di Zola, i cui romanzi erano già diffusi nei primi anni ‘70 negli ambienti milanesi. In particolare dovette suscitare molta impressione su Verga L’Assommotr (1877), per la sua ricostruzione di ambienti e psicologie popolari, rappresentati al di fuori di ogni idealizzazione di maniera e di ogni pietismo sentimentale, così da dare l'impressione diretta della realtà vissuta, e soprattutto per il suo linguaggio, che riproduceva il gergo dei sobborghi parigini. Sull’Assommotr e sulla possibilità di «rendere il colore locale anche nella forma letterale» avvenivano nel ’77 lunghe discussioni al caffè Biffi tra Verga e gli amici Capuana e Sacchetti, come Verga stesso ricorda in una lettera successiva. Certo, come sappiamo, L’Assommoir fornì a Verga solo uno spunto iniziale, che egli poi sviluppò in direzione molto diversa, per certi aspetti opposta (cfr. $ 4). Un’influenza determinante nella chiarificazione dei nuovi principi di Verga esercitò pure Capuana, che con le sue recensioni contribuiva a diffondere la conoscenza di Zola, dando una lucida e personale sistemazione alle teorie veriste, e lavorava per conto suo ad un romanzo programmaticamente naturalista, Giacinta, incentrato sull’analisi di un caso di «patologia morale», che uscirà nel 1879 e sarà dedicato proprio a Zola. La nuova impostazione narrativa inaugurata nel ’78 con Rosso Malpelo è continuata da Verga in una serie di altri racconti, pubblicati su varie riviste tra il ’79 e 1’80, e raccolti nel 1880 nel volume Vita deî campi: Cavalleria rusticana, La lupa,
Verga e il Verismo italiano
915 J eli i pastore, Fantasticheria, L’amante di Gramigna, Guerra di Santi, Pentolaccia. Anche in questi racconti spiccano figure caratteristiche della vita contadina siciliana, e viene applicata la tecnica narrativa dell’impersonalità, che consiste nell’“eclissi” dell’autore e nella regressione della voce narrante entro il punto di vista del mondo popolare (con l’eccezione di Fantasticheria, che ha la forma di una lettera rivolta dall’autore ad una dama del gran mondo, con cui rievoca un soggiorno in un paesino di pescatori: cfr. T205). Accanto alla scabra rappresentazione veristica e pessimistica del mondo rurale, in queste novelle si può trovare ancora traccia di un atteggiamento romantico, di un idoleggiamento nostalgico di quell’ambiente arcaico come di una sorta di paradiso perduto di autenticità e innocenza, oppure come di un mondo mitico e folklorico, al di qua della storia e della modernità, dominato da passioni violente e primitive, che è l’antitesi dell’artificiosità della vita cittadina e borghese. In Verga, in questo periodo, è ancora in atto una contraddizione tra le tendenze romantiche della sua formazione e le nuove tendenze veristiche, pessimistiche e materialistiche, che lo inducono a studiare “scientificamente” le leggi del meccanismo sociale, e a riconoscere che anche il mondo rurale è dominato dalla stessa legge della lotta per la vita che regola la società cittadina; tendenze che sono già perfettamente individuabili in Rosso Malpelo. È una contraddizione che troverà presto soluzione nei Malavoglia.
6.8. IL ciclo dei «Vinti» e «I Malavoglia». Parallelamente alle novelle Verga concepisce anche il disegno di un ciclo di romanzi, che riprende il modello già affermato dai Rougon-Macquart di Zola. Il primo accenno a questo disegno è in una lettera del 1878 all’amico Salvatore Paola Verdura, in cui Verga annuncia di avere in mente «una fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro all’artista» (cfr. T200). A differenza di Zola però Verga non pone al centro del suo ciclo l'intento scientifico di seguire gli effetti dell’ereditarietà, bensì esclusivamente la volontà di tracciare un quadro sociale, di delineare «la fisionomia della vita italiana moderna», passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari alla borghesia di provincia all’aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza, che lo scrittore ricava dalle teorie di Darwin sull’evoluzione delle specie ani-
Un mondo arcaico ed immobile
mali ed applica alla società umana: tutta la società, ad ogni livello, è dominata da conflitti di interesse, ed il più forte trionfa, schiacciando i più deboli (cfr. M21). Verga però non intende soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i «vinti», che «piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti». Al ciclo viene premessa una prefazione, che chiarisce gli intenti generali dello scrittore: nel primo romanzo, I Malavoglia, «il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso» è preso «alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali»: si tratta della semplice «lotta pei bisogni materiali»; in quelle «basse sfere» il meccanismo sociale è meno complicato e «potrà quindi osservarsi con maggior precisione». Nei romanzi successivi sarà analizzata questa «ricerca del meglio» nel suo progressivo elevarsi attraverso le classi sociali, dall’avidità di ricchezza nella borghesia di provincia alla vanità aristocratica, all’ambizione politica e artistica. Anche lo stile e il linguaggio devono modificarsi gradatamente in questa scala ascendente, e ad ogni tappa devono avere un carattere proprio, adatto al soggetto. Il primo romanzo del ciclo è I Malavoglia (1881), la storia n i di una famiglia di pescatori siciliani. in ritmi chiuso arcaico, rurale mondo un di I Malavoglia rappresentano la vita da dominato e stagioni, delle ciclico ritorno sul modellano si che di vita tradizionali dei antica saggezza sulla fonda si che tradizionale, anch'essa vita della visione una proverbi. Ma non si tratta di un mondo del tutto immobile, fuori della storia: anzi, il romanzo è proprio la rappresentazione del processo per cui la storia penetra in quel sistema arcaico, disgregandone la compattezza, rompendone gli equilibri, sconvolgendone le concezioni ancestrali. L'azione infatti ha inizio all'indomani dell'unità, nel 1868, e mette in luce come il piccolo villaggio siciliano sia investito dalle tensioni di un momento di rapida trasformazione della società italiana. La storia e la moderLe opere
I
916 L’irruzione della storia
ì
bornità si presentano innanzitutto con la coscrizione obbligatoria, ignota al regno
unità bonico, che sottrae braccia al lavoro, mettendo in crisi la famiglia come arcaica
produttiva: proprio dalla partenza di ’Ntoni per il servizio militare prende le mosse la vicenda, e ha inizio la serie di difficoltà economiche e di sventure che rompono l'equilibrio tra la famiglia Toscano e il sistema sociale del villaggio; a ciò si aggiun- | gono poi le tasse (la piccola sommossa paesana per il dazio sulla pece), la crisi della
pesca, il treno, il telegrafo e le navi a vapore, che suscitano le reazioni ostili della
mentalità immobilista dei paesani. Il sistema sociale del villaggio, che già al suo interno
non è affatto una comunità indifferenziata di “umili”, ma è molto articolato in diversi strati di classe, è investito e trasformato da questi movimenti dinamici che proven-
Le trasformazioni
prodotte dalla modernità
Il conflitto ’Ntonipadron ’Ntoni, modernità e tradizione
La disgregazione della famiglia
La parziale ricomposizione finale
Dal pre-moderno al moderno
gono dall'esterno, dal grande mondo della storia. I Malavoglia, a causa delle difficoltà economiche indotte dalle trasformazioni in atto (la perdita delle braccia di ’Ntoni, la crisi della pesca), sono costretti a diventare «negozianti», da pescatori che erano:
sempre stati; e, in conseguenza del fallimento della loro iniziativa, subiscono un processo di declassazione, passando dalla condizione di proprietari di casa e barca a quella di nullatenenti, costretti ad «andare a giornata» per vivere. Ma, inversamente, vi sono anche processi di ascesa sociale, rappresentati dall’arrivista don Silvestro, l'“uomo nuovo”, che ricorre alle arti più subdole e agli intrighi più sottili per arrivare a una posizione di potere. Questo mondo del villaggio può apparire immobile solo perché i fatti narrati, in obbedienza al principio dell’impersonalità e alla tecnica dell’“eclissi” dell'autore e della regressione, sono presentati dall’ottica dei personaggi stessi: è la visione soggettiva degli attori della vicenda che rende l’immagine di una realtà statica, perché così essi sono abituati a concepirla. Ma la loro visione deforma, tradisce la realtà effettuale: mentre il montaggio narrativo la mette chiaramente in evidenza. Il personaggio in cui essenzialmente si incarnano le forze disgregatrici della modernità è il giovane ’Ntoni. Egli è uscito dall’universo chiuso del paese, è venuto in contatto con la realtà moderna, conoscendo la metropoli del continente, Napoli; per questo non può più adattarsi ai ritmi di vita ancestrali del paese, accettare il suo fatalismo immobilista, rassegnarsi pazientemente ad un’esistenza di fatiche e di miserie. Emblematico è il suo conflitto col nonno, che, in opposizione a lui, rappresenta invece lo spirito tradizionalista per eccellenza, l’attaccamento ad una visione arcaica e ai suoi valori. Sotto l’azione di tutte queste forze innovatrici, la famiglia, roccaforte del tradizionalismo, si disgrega; l'attaccamento del vecchio padron ’Ntoni ai valori antichi non vale a preservarla, anzi, è una delle cause della sua rovina (padron ’Ntoni consente il pignoramento della casa per mantener fede alla parola data); ed è proprio ’Ntoni, con la coltellata alla guardia doganale, in cui tocca il fondo il processo di degradazione a cui l’ha portato la sua inquietudine, a darle il colpo di grazia. È vero che alla fine Alessi riuscirà a ricomporre un frammento dell’antico nucleo familiare; ma ciò non implica un ritorno perfettamente circolare alla condizione iniziale (come ha osservato Bàrberi Squarotti): Bastianazzo, Luca, Maruzza, padron ’Ntoni sono morti, ’Ntoni e Lia sono lontani, Mena ha rinunciato al matrimonio per il disonore: le ferite sono immedicabili. Non solo, ma il romanzo non si chiude affatto con questa parziale ricomposizione dell'equilibrio, bensì con la partenza di ’Ntoni dal villaggio. È un finale emblematico: il personaggio inquieto, che già aveva messo in crisi quel sistema, se ne distacca per sempre, allontanandosi verso la realtà del progresso, delle grandi città, della storia. Il suo distacco è il commiato da tutto quel mondo arcaico, e ne sancisce la sconfitta irrimediabile, l'inevitabile scomparsa, segnando il passaggio dal pre-moderno al moderno. Il suo percorso sarà continuato da Gesualdo, che non avrà
più nulla del tradizionalismo immobilista della realtà arcaica rurale, ma sarà l’esponente più tipico del moderno, con il suo dinamismo e la sua intraprendenza di selfIl superamento dell’idealizzazione romantica del mondo contadino
Giovanni
made man (Luperini). I Malavoglia sono stati spesso interpretati come la celebrazione di un mondo primordiale e dei suoi valori (la religione della casa e della famiglia, il lavoro, l'onore),
come idoleggiamento nostalgico di una civiltà contadina, vista come alternativa e antidoto alla falsità e alla corruzione della vita cittadina. In realtà, se si tiene pre-
Verga e il Verismo italiano
917
La lotta per la vita nel mondo arcaico rurale
L’idealizzazione di pochi personaggi privilegiati
La struttura narrativa
bipolare
Il gioco dei punti di vista Lo straniamento dei valori e la loro
impraticabilità
Il giudizio critico sulla lotta per la vita
sente quanto si è visto sopra, il romanzo rappresenta al contrario la disgregazione di quel mondo e l’impossibilità dei suoi valori. Se, come si è visto, ancora nella prima fase del suo verismo persisteva in Verga una componente di nostalgia romantica per la realtà arcaica della campagna, vagheggiata come un Eden di innocenza e genuinità, di «sentimenti miti, semplici, che si succedono inalterati di generazione in generazione», di «fresco e sereno raccoglimento» (efr. T205 e T201), i Malavoglia segnano proprio il superamento irreversibile di tali tendenze. i Ma il romanzo non è solo un congedo accorato, la constatazione amara della fine di un mondo. La lucidità di Verga va ben oltre. Lo scrittore ormai, approdato ad un verismo duramente pessimistico, sa bene che quello non è semplicemente un mondo che scompare, ma un mondo matico, che non è mai esistito. Lungi dall'essere un Eden di serenità e autenticità, esso, prima ancora di essere investito dalle forze disgregatrici della modernità, era già dominato al suo interno dalla stessa legge della lotta per la vita che regola il mondo del moderno e del «progresso»; e lo era da sempre, perché quella legge, per Verga, regola ogni tipo di società, in ogni tempo e ad ogni livello della scala sociale. La fisionomia del mondo popolare nei Malavoglia non è data solo dai protagonisti, fedeli ai valori puri e disinteressati, ma anche dall’avari. zia disumana dell’usuraio Crocifisso, dall’ottuso attaccamento alla proprietà di padron Cipolla, dalla doppiezza priva di scrupoli del sensale Piedipapera, dalla malignità pettegola della Zuppidda, dall’avidità della Vespa, dall’arrivismo cinico di don Silvestro, e così via. La vita popolare è ormai vista da Verga nelle sue componenti reali. L’idealizzazione investe solo alcuni particolari personaggi, non il mondo rurale nella sua totalità. Lo scrittore non sa ancora rinunciare del tutto a certi valori, e li proietta in alcuni personaggi privilegiati ritagliando arbitrariamente, nel paesaggio desolato della «lotta per la vita», una zona franca, immune dalle sue feroci tensioni; ma, d’altro lato, sa bene che quei valori sono puramente ideali, che non trovano posto nella realtà effettiva, e rappresenta l’ambiente del villaggio nei suoi aspetti più crudi, analizzandone con chiara consapevolezza i meccanismi fondamentali, il principio dell’utile economico, l’interesse egoistico, l’uso della forza. Quel mondo arcaico che scompare sotto l’urto della modernità risulta, nella sua essenza, non dissimile da quello creato dal «progresso», già lacerato al suo interno dagli stessi conflitti e dalle stesse tensioni. Ne risulta una particolare configurazione della struttura romanzesca, una costruzione bipolare. Si tratta di un romanzo corale, fittamente popolato di personaggi, senza che spicchi un protagonista. Ma questo “coro” si divide nettamente in due: da un lato si collocano i Malavoglia, e alcuni personaggi a loro collegati (Alfio, Nunziata, la cugina Anna), che sono caratterizzati dalla fedeltà ai valori puri; dall’altro la comunità del paese, pettegola, cinica, mossa solo dall’interesse, insensibile sino alla disumanità. Si alternano quindi costantemente, nella narrazione, due punti di vista opposti, quello nobile e disinteressato dei Malavoglia e quello gretto e ottuso degli altri abitanti del villaggio. Questo gioco di punti di vista ha una funzione importantissima. L’ottica del paese ha il compito di straniare sistematicamente i valori ideali proposti dai Malavoglia. Quei valori, onestà, disinteresse, altruismo, visti con gli occhi della
collettività appaiono “strani”, non vengono compresi, anzi, vengono stravolti e deformati: padron ’Ntoni che rinuncia alla casa per onorare il debito non è ammirato per il suo gesto nobile, ma giudicato un «minchione», perché non ha applicato la legge e dell’interesse; l'angoscia del vecchio patriarca per il figlio in mare durante la tempesta è attribuita dal villaggio essenzialmente al timore per il carico di lupini in pericolo, cioè a ragioni economiche. Lo straniamento operato sui valori dal punto di vista del paese vale a denunciarne l’impraticabilità in un mondo dominato dalla lotta per la vita. Se quindi Verga non sa rinunciare al vagheggiamento dei valori autentici, e li sovrappone ancora in parte alla realtà popolare, è anche tanto lucido da rendersi tenconto che essi non trovano posto nella realtà, e da prendere distanze dalle sue D'alfatto. di realtà della impietosa l’analisi con negandole denze all’idealizzazione, di giuditro lato però il punto di vista ideale dei Malavoglia vale a fornire un metro emergere facendo villaggio, del zio dei meccanismi spietati che dominano l’ambiente Le opere
918 logica dalle cose stesse, senza interventi giudicanti del narratore, la disumanità della Il critica. luce una in ntarla rapprese dell'interesse e della forza, e consentendo di comdue le tica: problema mente estrema one romanzo, come si vede, ha una costruzi ponenti della visione verghiana, l’idealizzazione romantica della realtà arcaica e il verismo pessimistico reagiscono l’una contro l’altra, in un gioco dialettico.
Il marito di Elena Le novelle rusticane
Per le vie.
Il teatro
6.4. Dai «Malavoglia» al «Gesualdo». Tra il primo e il secondo romanzo del ciclo |. passano ben otto anni. Nel lungo intervallo il Verga pubblica un altro romanzo che non rientra nel disegno preannunciato, Il marito di Elena (1882), l’analisi delle irrequietudini di una moglie piccolo borghese, che con i suoi sogni e le sue ambizioni conduce il marito mite e devoto alla rovina. Nel 1883 escono le Novelle rusticane, che ripro-
pongono personaggi e ambienti della campagna siciliana, in una prospettiva però più amara e pessimistica, che porta in primo piano‘il dominio esclusivo dei moventi eco-. nomici dell’agire umano e rivela come la fame e la miseria soffochino ogni sentimento disinteressato. Un’indagine analoga, sempre ispirata da un lucido pessimismo, viene condotta anche sul proletariato cittadino nelle novelle di Per le vie, pubblicate nello — stesso anno. Nel 1884 poi Verga tenta l’esperienza del teatro con il dramma Cavalleria rusticana, tratto da una novella di Vita dei campi, che ottiene un clamoroso suc-
cesso di pubblico per la rappresentazione di costumi esotici e di passioni primitive. Nel 1889 esce infine il secondo romanzo del ciclo dei «vinti»,
Il Gesualdo
Il livello del narratore ‘si innalza
Fedeltà al principio dell’impersonalità
Giovanni
Mastro-don Gesualdo
(già comparso l’anno precedente, a puntate, sulla rivista «Nuova Antologia», in una redazione ancora approssimativa), storia dell’ascesa sociale di un muratore che, con la sua intelligenza e la sua energia instancabile, accumula enormi ricchezze, ma va incontro ad un tragico fallimento nella sfera degli affetti famigliari. Nel Gesualdo Verga resta fedele al principio dell’impersonalità, per cui il narratore, pur senza coincidere con un preciso personaggio, deve essere “interno” al mondo rappresentato. Però nel nuovo romanzo il livello sociale di questo mondo, in obbedienza al piano del ciclo, si è elevato rispetto ai Malavoglia e alle novelle: non si tratta più di un ambiente popolare, di contadini, pescatori, operai, ma di un ambiente borghese e aristocratico. Di conseguenza anche il livello del narratore si innalza, e ciò fa sì che torni a coincidere di fatto con quello dell’autore reale. Non si verificano più, pertanto, le deformazioni e gli effetti di straniamento che caratterizzavano la rappresentazione delle “basse sfere” della società, e che scaturivano dall’ottica “dal basso” del narratore. Il narratore del Gesualdo riprende i suoi diritti, ha uno sguardo lucidamente critico, un sarcasmo impassibilmente corrosivo nel ritrarre ambienti e figure, nel mettere in luce bassezze, meschinità, durezze ciniche del protagonista e degli altri personaggi. Ciò non vuol dire che Verga ripristini il narratore onnisciente dei romanzi del primo Ottocento, tornando indietro rispetto alle sue rivoluzionarie innovazioni narrative. Il narratore del Gesualdo non dà esaurienti informazioni sugli antefatti, o ritratti e storie dei personaggi, come fa il narratore dei Promessì sposi: ne parla come . se il lettore li conoscesse già da sempre; è proprio ciò che Verga aveva fatto nei Malavoglia, e che aveva teorizzato in una lettera a Capuana del 1881 (cfr. T204). Ciò si nota soprattutto per quanto concerne il protagonista. Nulla ci viene detto di lui, della sua storia antecedente, del suo carattere, quando compare per la prima volta in scena nel I capitolo, durante l’incendio nel palazzo dei Trao che minaccia la sua casa. Nei due capitoli seguenti ciò che sappiamo di lui lo ricaviamo solo dalle sue azioni stesse. Solo nel IV capitolo abbiamo uno scorcio della sua storia e della sua ascesa sociale; ma non è la voce del narratore a fornircela, con una digressione, bensì il personaggio stesso, che, in un momento di quiete serale dopo una giornata di attività frenetica, si abbandona ai ricordi e rievoca il suo passato, con un lungo monologo interiore in forma indiretta libera. E questa una tecnica eminentemente drammatica, che conferma la fedeltà di Verga al suo principio dell’“eclisse” dell’autore, anche se sel adotta le soluzioni specifiche richieste di volta in volta dalle esigenze della materia. Ma un’altra particolarità dell’impianto narrativo distingue il Gesualdo. I Malavo-
Verga e il Verismo italiano
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L’emergere dell’eroe
La focalizzazione del racconto
L’interiorizzarsi del conflitto valori-economicità
glia sono un romanzo corale, si è detto, che vede in scena una folla fittissima di personaggi. Di questi, solo i componenti la famiglia Malavoglia sono visti dall’interno, in modo tale che se ne possano conoscere pensieri e sentimenti, e nessuno di essi resta a lungo il centro focale del racconto. Tutti gli altri abitanti del villaggio, quelli che obbediscono alla legge della lotta per la vita, non godono di questo privilegio, e sono visti sempre e solo dall’esterno: sono descritti i loro gesti e sono riportate le loro parole, ma non vengono mai analizzati e spiegati imoventi psicologici dei loro atti. Il Gesualdo ha invece al centro una figura di protagonista, che si stacca nettamente dallo sfondo popolato di figure. E infatti la storia di un individuo eccezionale, della sua epica ascesa e della sua caduta. A questa centralità dell’eroe si adeguano i procedimenti narrativi: per gran parte la narrazione è focalizzata sul protagonista. Il punto di osservazione dei fatti coincide con la sua visione, cioè noi vediamo i fatti attraverso i suoi occhi, come li vede lui. Lo strumento per eccellenza di questa focalizzazione internaè il discorso indiretto libero, mediante cui sono riportati i pensieri del protagonista. E un modulo narrativo che, a partire da Madame Bovary, sta divenendo dominante nel romanzo del secondo Ottocento. Scompare anche, nel Gesualdo, la bipolarità tra personaggi depositari dei valori e rappresentanti della legge della lotta per la vita, che caratterizzava i Malavoglia. Il conflitto tra i due poli qui si interiorizza, passa all’interno di un unico personaggio, Gesualdo (Luperini). Pur dedicando tutta la sua vita e tutte le sue energie alla conquista della «roba», Gesualdo conserva tutto sommato in sé un bisogno di relazioni umane autentiche: ha il culto della famiglia, rispetta il padre e aiuta i fratelli, ama la moglie e la figlia e vorrebbe essere amato da loro, è generoso con gli altri. Ma non arriva mai a praticare fino in fondo i valori, non è mai veramente un personaggio “malavogliesco”. Gli impulsi generosi e i bisogni affettivi sono sempre soverchiati dall’attenzione gelosa all’interesse, dal calcolo cinico, dal gesto privo di scrupoli. La roba è il fine primario della sua esistenza, e ciò lo porta ad essere disumano, come
Il trionfo dell’economicità
Il pessimismo di Verga diviene assoluto
La sconfitta esistenziale di Gesualdo
quando sfrutta senza pietà i suoi lavoranti, o quando rinuncia a Diodata, che lo ama, per sposare Bianca Trao, che può aprirgli le porte della società aristocratica. A negare i valori è il personaggio stesso che potrebbe esserne il portatore. Ciò fa capire che in Verga non vi è più alcuna tentazione idealistica, come al tempo dei Malavoglia: non può più introdurre a forza, nel quadro desolato della realtà della lotta per la vita, personaggi interamente positivi. La logica dell’economicità, dell'interesse egoistico e della forza diviene il modello unico di comportamento ed occupa tutto il quadro, respingendo fuori dei suoi confini i valori disinteressati. Quei residui di idealismo romantico che si trovavano in Vita dei campi, e che venivano ancora introdotti nei Malavoglia, pur essendo poi negati dal pessimismo dello scrittore, sono qui del tutto scomparsi. Verga è approdato ad un verismo rigorosamente conseguente, ed il suo pessimismo è divenuto assoluto, al punto da non poter rappresentare in atto nessuna alternativa ideale ad una realtà dura e disumanizzata. Era una tendenza già visibile nelle Novelle Rusticane e in Per le vie: ma ora il Gesualdo la porta alle estreme conseguenze. Il frutto della scelta di Gesualdo in favore della logica della «roba» è una totale sconfitta umana. Gesualdo è amaramente deluso nelle sue aspirazioni a relazioni umane autentiche: il padre invidia la sua fortuna e nutre rancore per lui, tanto da voltargli le spalle persino sul letto di morte, i fratelli mirano solo a depredarlo delle sue ricchezze, la moglie non lo ama e lo tiene lontano con freddezza, la figlia (che non è sua figlia) si vergogna di lui e gli è estranea, anche quando egli è vicino alla morte, i figli naturali avuti da Diodata lo odiano, come lo odia e lo invidia tutto il paese, dai nobili ai borghesi ai popolani. Dalla sua lotta epica per la «roba», dalla sua energia eroica e dalla sua ascesi, Gesualdo non ha ricavato che odio, amarezza
e dolore; sinché questo frutto amaro si somatizza nel cancro allo stomaco, che lo corrode e lo porta alla morte. E proprio perché conserva in sé un'esigenza di affetti del autentici e di moti generosi, può assumere coscienza di questo totale fallimento Mazzarò dal diverso è suo ambizioso disegno, e di tutta la sua esistenza (in questo non era della Roba, che, nella sua completa alienazione nella logica dell'interesse, Le opere
à
920
i
Critica verghiana
della «religione della/roba»
Problematicità della rappresentazione
in grado di rendersi conto della sua inevitabile sconfitta di fronte alla morte, tanto da voler portare con sé la «roba» nell’al di là). Con una formula che ha goduto di molta fortuna, il Russo, per il Gesualdo, ha parlato di celebrazione di una nuova «religione», al posto di quella della famiglia che era al centro dei Malavoglia: la «religione della roba». Ma la critica attuale ha messo. bene in luce come tale «religione» sia di Gesualdo, non di Verga. Lo scrittore non celebra affatto l’accanimento del suo eroe nell’accumulare ricchezza, ma al contra. | rio lo presenta in una luce duramente critica e negativa. Anche qui Verga non ha un atteggiamento moralistico schematico e univoco, ma si colloca in modo problematico dinanzi alla materia. Egli riconosce quanto vi è di eroico nello sforzo di Gesualdo: il personaggio ha qualcosa di faustiano, nel suo tendere costantemente ad obiettivi più vasti, nella sua determinazione a «dannarsi l’anima» pur di raggiungere i fini del suo ambizioso disegno; dimostra una volontà ferrea, un’energia infaticabile, una:
Gesualdo eroe della modernità
capacità di sacrificio personale degna di un asceta, un’intelligenza eccezionale nel progettare, calcolare, prevedere, decidere; ha la potenza creatrice di un demiurgo e la ricchezza da lui accumulata ha qualcosa di grandioso ed epico. Però Verga rappresenta soprattutto il rovescio negativo di tutto ciò: l’alienazione nella «roba», la durezza disumana, le sofferenze provocate, l’insensatezza di una fatica che attira solo odio e dolore, e ha come unico sbocco la morte. La lotta epica dell’eroe faustiano della «roba» ha come fine un totale fallimento esistenziale. Gesualdo è un «vincitore» materialmente, ma è un «vinto» sul piano umano. Nella ricostruzione della «fisionomia della vita italiana moderna» perseguìta con il suo ciclo romanzesco, Verga, dopo il mondo arcaico della campagna messo in crisi dal progresso, rappresenta, nel Gesualdo, proprio un eroe tipico di quel progresso, un self-made man che si costruisce da sé il suo destino, un eroe della dinamicità e dell’intraprendenza. Nella sua onestà rigorosa, mette in evidenza anche quanto vi è di grande in questa figura moderna: ma il suo giudizio sul meccanismo del progresso è impietosamente negativo, come già lo era nei Malavoglia. Con questo, nel suo pessimismo, riconosce che il processo che porta alla modernità è inevitabile, «fatale» e necessario; e non indica alternative alla sua negatività rifugiandosi nella nostalgia di un passato precapitalistico mitizzato, o in utopie di una rigenerazione futura dell'umanità: si limita ad analizzare ciò che è dato, con occhio fermo e lucido.
6.5. L'ultimo Verga. La Duchessa de Leyra
L’interruzione del ciclo
Gli ultimi anni
I ricordi del capitano d’Arce Giovanni
Dopo il Gesualdo Verga lavora a lungo, a più riprese, al
terzo romanzo del ciclo, La Duchessa de Leyra, ma il lavoro non sarà mai portato
a compimento. Del romanzo ci resta solo il primo capitolo, che appare decisamente scialbo. Gli ultimi due romanzi del progetto iniziale, L'onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, non saranno neppure affrontati. Le ragioni dell’interruzione non sono facili da definire, anche perché non possediamo in proposito confessioni dirette dell’autore. Dovettero combinarsi tra loro l’inaridimento dell’ispirazione e la stanchezza dello scrittore ormai vecchio, le difficoltà di affrontare con il metodo prescelto gli | ambienti dell’alta società e le psicologie complesse e raffinate (difficoltà previste da Verga sin dalla prefazione del 1881), e infine lo stesso logoramento dei moduli veristi, sostituiti tra fine Ottocento e primi del Novecento da una nuova narrativa di vasto successo, quella di D'Annunzio e Fogazzaro, che si occupava della stessa materia, complessi problemi psicologici di personaggi delle classi elevate, ma da una prospettiva completamente diversa da quella veristica, e con diverse tecniche narrative. Dal 1893 Verga è tornato a vivere definitivamente a Catania, lasciando Milano,
dove aveva soggiornato lunghi periodi sin dal ’72, alternati con ritorni nell’isola; ed anche questo è un dato significativo, che testimonia una sostanziale rinuncia alla letteratura: tutte le sue opere importanti erano state ideate a Milano, in quel clima fervido di idee, iniziative, incontri, aperto a tutte le sollecitazioni della cultura moderna europea. Verga aveva sempre sentito come fosse impossibile per lui scrivere nell’ambiente della provincia. Pubblica ancora raccolte di novelle, I ricordi del capitano d'Arce (1891), di ambiente mondano, in parte rielaborazione di racconti più antichi,
Verga e il Verismo italiano
dl Î | Don Candeloro & C. | Dal tuo al mio
921 e Don Candeloro & C., sul mondo degli attori girovaghi; lavora ancora per il teatro riducendo per le scene La lupa (1894), e facendo rappresentare Dal tuo al mio, dramma incentrato su uno sciopero di solfatari e sulla figura di un operaio che, sposata la figlia del padrone, tradisce i suoi compagni in sciopero per difendere i suoi Interessi (1903; nel 1906 Verga, per la pubblicazione, trasformò il dramma in racconto): ma sì tratta di opere stanche, che non aggiungono nulla di nuovo alla sua
produzione, o testimoniano semmai un’involuzione. Dopo il 1903 lo scrittore si chiude
3
in un silenzio pressoché totale. La sua vita è dedicata alla cura delle sue proprietà agricole, ed è ossessionata dalle preoccupazioni economiche. Le lettere di questo periodo mostrano un inaridimento assoluto, anche della passione che fu la più importante della sua vita, per la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo. Le sue posizioni politiche si fanno sempre più chiuse e conservatrici. Allo scoppio della prima guerra mondiale è fervente interventista, e nel dopoguerra si schiera sulle posizioni dei nazionalisti, pur però in un sostanziale distacco da ogni interesse politico militante. Muore nel gennaio del 1922, l’anno della marcia su Roma e della salita al potere del fascismo.
Il Verga preverista da Eva
Arte, Banche e Imprese industriali È la prefazione a Eva, 1873
Eccovi una narrazione - sogno o storia poco importa - ma vera, com'è stato o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualche cosa che vi appartiene, ch'è il frutto delle vostre passioni, e se sentite di dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia - voi che non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila spettatori! e alla luce del gas, o voi che, pur lacerando i guanti nell’applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non scorga scintillare l’ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro occhialetto - tanto meglio per
voi, che rispettate ancora qualche cosa?. Però non maledite l’arte ch’è la manifestazione dei vostri gusti?. I greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il cancan litografato sugli scatolini da fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi un lusso da scioperati. La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo‘ — mettiamo pure l’arte scioperata - non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita. Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver più cuore, di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create - voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore là dove voi non lasciate che la borsa? — voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia. 1. scoprirvi ... spettatori: nella scollatura | della figlia. con i ... gusti: non condannate 3. non maledite dell’abito da sera, a teatro. 2.tanto ... cosa: ironico verso l’ipocrisia
l’arte come
immorale,
perché è solo lo
ciò che è diverso dai fatti positivi, dalle cose | concrete e materiali. 5. lasciate ... borsa: nell'amore.
del borghese, che è profondamente cor- | specchio della realtà d'oggi. isogni, tutto 4. tutto ... positivo: gli ideali, rotto, ma ostenta di difendere la virtù Eva
922 ANALISI DEL TESTO Il testo documenta lo spirito e il tono dei romanzi preveristi di Verga, che sono molto vicini al clima della cultura scapigliata. Spicca innanzitutto l’aspra polemica antiborghese: il disprezzo per il lettore ipocrita, che si indigna di trovare rappresentata nell'arte la sua corruzione, ricorda il «nemico lettor» del Preludio di Praga (cfr. T164), e, più indietro, l’«hypocrite lecteur» di Baudelaire. Vi è poi il rimpianto, tipicamente romantico-scapigliato, della bellezza del passato, oggi impossibile (la statua di Venere), la deprecazione dell’immeschinirsi dell’arte moderna, che invece di cantare il Bello ideale deve ridursi a rappresentare la realtà degradata del presente, la coscienza della perdita di funzione che tocca all’artista nella società produttiva del capitalismo (l’arte «lusso da scioperati»). Segue la polemica contro il gretto materialismo e la corruzione che sono il prodotto ‘di «un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali». Ma, agli occhi dello scrittore, quest'arte degradata dal materialismo contemporaneo si riscatta, perché mette coraggiosamente in luce il lato negativo della società, i «dolori sconosciuti» dei miseri che ne sono le vittime, le «ebbrezze amare» patite dalle anime più nobili (gli artisti, si suppone). Compito di quest’arte disperata è « gettare in faccia» questa negatività ai borghesi, che chiudono invece gli occhi dinanzi alle miserie da essi stessi create. Anche questo atteggiamento ricorda Preludio di Praga: «Canto una misera canzone/ma canto il vero!». Questa scoperta polemica e questo aspro moralismo “romantico”, con l'enfasi declamatoria in cui si traduce, scompariranno poi nelle opere veriste, in cui Verga sosterrà che lo scrittore che osserva lo spettacolo del progresso non ha «il diritto di giudicare». Ma si osservi come già qui Verga affermi di essere «vero». Anche rispondendo ad una recensione di Felice Cameroni a Tigre reale, nel 1875, proclamerà: «Ho cercato sempre di esser vero, senza esser né realista, né idealista, né romantico, né altro, e [...] ne ho avuto sempre l’intenzione, nell’Eva nell’Eros in Tigre reale». Ma è ancora il concetto di «vero» che è proprio degli scapigliati: la rappresentazione senza idealizzazioni o velature degli aspetti più crudi e più turpi della vita moderna, da cui sono scomparsi i valori ideali, per colpire polemicamente il mondo borghese che ne è il responsabile. Il «vero» nella fase verista assumerà poi un senso ben diverso: la raffigurazione pessimistica dei meccanismi spietati della «lotta per la vita», che sono immodificabili e senza alternative, e, di conseguenza, la scelta dell’impersonalità, cioè lasciar parlare le cose ed «eclissarsi» in esse. i |
Vicinanza al clima
scapigliato
La degradazione del Bello nella realtà moderna
Il valore di denuncia dell’arte
degradata
Aderenza al «vero»
Il «vero»
degli scapigliati e quello dei veristi
|T198. PROPOSTE DI LAVORO mu 1. Chi è il destinatario («Voi») della Prefazione a Eva? 2. Quale rapporto Verga individua tra la nuova società borghese industriale e l’artista?
3. Quale funzione viene attribuita all’arte? 4. Confrontare il significato della categoria del «vero» qui proposta con il «vero» per Manzoni, per gli Scapigliati, per il Verga successivo.
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
923 da Nedda
Il mondo contadino: umanitarismo,
patetismo, idillio Nedda è una lunga novella di ambiente siciliano, pubblicata nel 1874. In apertura del racconto, il narratore si abbandona alle sue fantasticherie dinanzi al caminetto acceso, e la sua memoria evoca un’altra fiamma vista tanti anni prima in una fattoria alle falde dell’Etna. Intorno ad essa sorgono varie figure, tra cui Nedda, una giovane bracciante, di cui viene raccontata la storia. E' una storia di povertà e patimenti: Nedda lavora duramente per guadagnare quel poco che le conLa
sente di vivere, insieme con la madre malata. Questa muore, lasciandola sola. Nedda accetta la corte di un altro giovane bracciante, Janu.
Le ragazze del villaggio sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della sua vecchia, e perché non aveva messo il bruno; e il signor curato la sgridò! forte, quando la domenica successiva la vide sull’uscio del casolare, mentre si cuciva il grembiule che aveva fatto tingere in nero, unico e povero segno di lutto, e prese argomento da ciò per predicare in chiesa contro il mal uso di non osservare le feste e le domeniche. La povera fanciulla, per farsi perdonare il suo grosso peccato, andò a lavorare due giorni nel campo del curato, acciò dicesse la messa per la sua morta il primo lunedì del mese; e la domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i giovanotti, all’uscire di chiesa, le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera; - ovvero diceva a sé stessa a mo’ di rimprovero che si fosse meritato: - Son così povera! - oppure, guardando le sue due buone braccia: - Benedetto il Signore che me le ha date! - e tirava via sorridendo. Una sera — aveva spento da poco il lume - udì nella viottola una nota voce che cantava a squarciagola, e con la melanconica cadenza orientale delle canzoni contadinesche: Picca cei voli ca la vaju’
a viju- A la mi’ amanti di l'arma mia?. - E Janu! - disse sottovoce, mentre il cuore le balzava dal petto come un uccello spaventato, e cacciò la testa fra le coltri. E il domani, quando aprì la finestra, vide Janu col suo bel vestito nuovo di fustagno, nelle cui tasche cercavano entrare per forza le sue grosse mani nere e incallite al lavoro, con un bel fazzoletto di seta
nuova fiammante che faceva capolino con civetteria dalla scarsella* del farsetto, il quale si godeva il bel sole d’aprile appoggiato al muricciolo dell’orto. - Oh, Janu! - diss’ella, come se non ne sapesse proprio nulla. - Salutamu! —- esclamò il giovane col suo più grosso sorriso. — O che fai qui?
- Torno dalla Piana*.
La fanciulla sorrise, e guardò le lodole che saltellavano ancora sul verde per l’ora mattutina. - Sei tornato colle lodole. - Le lodole vanno dove trovano il miglio, ed io dove c’è del pane. - 0 come? — Il padrone m'ha licenziato.
- 0 perché?
Gurig
- Perché avevo preso le febbri* laggiù, e non potevo più lavorare che tre giorni per settimana. — Si vede, povero Janu! - Maledetta Piana! - Imprecò Janu stendendo il braccio verso la pianura. 3. scarsella: tasca. 1. sgridò: perché non osservava l'obbligo 4. Piana: di Catania. del riposo festivo. 2. Picca ... mia: poco ci*vuole che io vada | 5. febbri: la malaria. a vederla - l’amante dell'anima mia.
Nedda
924 — Sai, la mammal!... - disse Nedda.
— Me l’ha detto lo zio Giovanni”. | Ella non aggiunse altro, e guardò l’orticello al di là del muricciolo. I sassi umidicci fumavano; le goccie di rugiada luccicavano su di ogni filo d’erba; i mandorli fioriti sussurravano lieve lieve e lasciavano cadere sul tettuccio del casolare i loro fiori bianchi e rosei che imbalsamavano' l’aria; una passera, petulante e sospettosa nel tempo istesso, schiamazzava sulla gronda, e minacciava a suo modo Janu, che aveva tutta l’aria, col suo viso sospetto, di insidiare al suo nido, nel quale spuntavano fra le tegole alcuni fili di paglia indiscreti. La campana della chiesuola chiamava a messa. — Come fa piacere a sentire la nostra campana! - esclamò Janu. - Io ho riconosciuto la tua voce stanotte - disse Nedda facendosi rossa, e zappando con un coccio di terra della pentola che conteneva i suoi fiori. Egli si volse in là, ed accese la pipa, come deve fare un uomo. - Addio, vado a messa! - disse bruscamente la Nedda, tirandosi indietro dopo un lungo silenzio. - Prendi, ti ho portato codesto dalla città - le disse il giovane sciorinando il suo bel fazzoletto di seta.
- On! com'è bello! ma questo non fa per me! — O perché? Se non ti costa nulla! — rispose il giovanotto con logica contadinesca. Ella si fece rossa, come se la grossa spesa le avesse dato idea dei caldi sentimenti del giovane, gli lanciò, sorridente, un’occhiata fra carezzevole e selvaggia, e scappò in casa; e allorché udì i grossi scarponi di lui sui sassi della viottola, fece capolino per accompagnarlo cogli occhi mentre se ne andava. Alla messa le ragazze del villaggio poterono vedere il bel fazzoletto di Nedda, dove c'erano stampate delle rose che sì sarebbero mangiate, e su cui il sole, scintillante dalle invetriate della chiesuola, mandava i suoi raggi più allegri. E quand’ella passò dinanzi a Janu, il quale stava presso il primo cipresso
del sacrato, colle spalle al muro e fumando nella sua pipa intagliata, ella sentì un gran caldo al viso, e il cuore che le faceva un gran battere in petto, e sgusciò via alla lesta. Il giovane le tenne dietro fischiettando, e la guardava a camminare svelta e senza voltarsi indietro, colla sua veste nuova di fustagno che faceva delle belle pieghe pesanti, le sue brave scarpette, e la sua mantellina fiammante. - La povera formica, or che la mamma stando in paradiso non c’era più a carico, era riuscita a farsi un po’ di corredo col suo lavoro. — Fra tutte le miserie del povero c’è anche quella del sollievo che arrecano le perdite più dolorose al cuore! [Nedda e Janu lavorano insieme al dissodamento di alcuni poderi, e la domenica tornano insieme al paese. Un giorno Nedda, vinta dall’ardore della campagna assolata, si abbandona a Janu. Avuto sentore del suo fallo, tutto il paese la evita. I datori di lavoro ne approfittano per diminuirle la paga. Nedda attende che Janu, andato a lavorare lontano, torni con il gruzzolo per il matrimonio. Però Janu torna senza un soldo, perché ha avuto la malaria. L'indomani riparte per un altro lavoro, la potatura degli ulivi].
Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio* per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala? a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, | era caduto da un’alta cima’, e s'era concio a quel modo. — Il cuore te lo diceva — mormorava con un triste sorriso. - Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui, e tenendolo per mano. Il domani egli morì. Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella mantellina e tornò indietro derelitta. Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola, al pari di un uccelletto ferito che va a x
6. zio Giovanni: un vicino caritatevole. Zio è appellativo comune in Sicilia, e non implica relazioni di parentela.
Giovanni
7. imbalsamavano: profumavano. 8. cicaleccio: chiacchierio.
9. scala: funge da barella.
Verga e il Verismo italiano
10. cima: potatura.
di un
olivo, lavorando
alla
138 ®n
925
| rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel | poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta;
quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio | del casolare dietro al cataletto!! che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che
i la buttassero alla Ruota!?. - Povera bambina! Che incominci soffrire almeno il più tardi che sia possibile! — disse. Le comari | la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bimba mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella deperì rapidamente, e invano Nedda
tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d’inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava su tetto, e il vento scuoteva l’uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo, e non sl mosse più.
Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll’alito e coi baci, e quando s’accorse ch’era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua madre, e le s’ingi-
nocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuori di misura. — Oh! benedette voi che siete morte! - esclamò - Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me! 11. cataletto: la bara della madre. 12. Ruota: arnese girevole dove si consegnavano i bambini all’orfanotrofio, in modo
che rimanesse sconosciuto chi li abbandonava.
ANALISI DEL TESTO Nedda non dà inizio al verismo verghiano
Assenza dell’impersonalità
A lungo Nedda fu considerata l’inizio del verismo verghiano, perché abbandonava gli ambienti eleganti e le passioni complicate dei primi romanzi, e rappresentava gli umili e le loro miserie, sullo sfondo dell'ambiente regionale siciliano. Ma oggi è stato messo in chiaro che non è la scelta di particolari contenuti a qualificare il verismo di Verga, bensì il metodo e la forma, il modo di porsi di fronte alla realtà e di rappresentarla (di questo Verga sarà poi ben consapevole, e lo proclamerà con molta chiarezza a più riprese). Qui ci sono sì dei contenuti che saranno tipici delle opere successive, ma mancano i due tratti distintivi fondamentali del verismo verghiano, la rinuncia pessimistica al giudizio e l’impersonalità, che ne è la traduzione formale. Non c’è traccia, in Nedda, di “eclisse” dell’autore, di regres-
‘sione del narratore all’interno del mondo rappresentato. Al contrario, il narratore sì pone in primo piano in apertura, sottolineando come tutto il racconto scaturisca da un moto della sua memoria: i due piani, quello dell’intellettuale e quello del popolo, sono nettamente distinti. Interventi
del narratore
Il patetismo sentimentale
Poi, nel corso del racconto, il narratore interviene frequentemente: ora con esclamazioni
che rivelano partecipazione sentimentale alle sventure dell’umile protagonista («la povera formica»; «fra tutte le miserie del povero c’è anche quella del sollievo che arrecano le perdite più dolorose al cuore!»), ora con similitudini dalla forte carica patetica («al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido»), ora con giudizi polemici contro l’insensibilità della società («quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile»; «Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata»). Questi interventi rivelano nell’autore l'atteggiamento
“umanitario” dell’intellettuale illuminato, che si sdegna dinanzi alle miserie della povera gente, condanna le storture sociali, e al tempo stesso si commuove, e si china verso i miseri con pietà sentimentale e paternalistica. Ne nasce una rappresentazione melodrammatica e patetica: si pensi alla morte della neonata affamata nel gelo del tugurio, mentre nevica (in Sicilia): tutto è costruito in modo da imporre la reazione emotiva, da strappare le lacrime. Siamo agli antipodi rispetto al duro pessimismo del Verga successivo, e all’impersonalità
rigorosa che ne deriva. Piuttosto una narrazione del genere si colloca esattamente nel clima e nel tono dei suoi romanzi preveristi (come conferma anche la cronologia, visto che Nedda
‘è del ’74).
Nedda
926 ono nostalIn più vi è un gusto tutto romantico per la rievocazione, attraverso l'abband siciliana, che a a campagn della quella diversa, e esotica realtà una di memoria, gico alla Eden perduto di tratti appare, al di là del problema sociale, in una luce idillica, quasi un evocato, su cui nte liricame natura, di sfondo lo veda Si . primitiva spontaneità e ingenuità d'erba, i manfili sui o luccican che rugiada di gocce le Nedda: e Janu tra o l’incontr si svolge che chiama campana la uccelli, degli canto il dorli fioriti che sussurrano lievi, l’aria profumata, contarituale il la contemp e narrator il cui con o intenerit alla messa; e si veda lo sguardo mondo del co romanti iamento vaghegg Il o. fazzolett del dono col amento, corteggi del dino rurale siciliano è una componente che perdurerà ancora in Vita dei campi, ma ormai in conflitto con tutt’altre tendenze, come dimostra un racconto come Fosso Malpelo.
pale on esiSIE
|
T199 PROPOSTE DI LAVORO inn 1. Ritrovare nel testo tutte le espressioni che denunciano lo stile “alto” del narratore. 2. Individuare il sistema dei personaggi rappresentato nella novella. Confrontare anche il mondo del villaggio dove vive Nedda con quello che circonda i Malavoglia ad Aci Trezza. 3. Qual è l'atteggiamento del narratore nei confronti del personaggio?
Verga teorico del Verismo
Il primo progetto dei Vinti: classi sociali e lotta per la vita È una lettera indirizzata all'amico Salvatore Paola Verdura, del 21 aprile 1878, in cui Verga espone per la prima volta il suo progetto di un ciclo di romanzi.
... Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria! della lotta per la vita?, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano; lotta provvi-
denziale che guida l’umanità, per mezzo e attraverso tutti gli appetiti alti e bassi, alla conquista della verità. Insomma cogliere il lato drammatico, o ridicolo, o comico di tutte le fisionomie sociali, ognuna colla sua caratteristica, negli sforzi che fanno per andare avanti in mezzo a quest'onda immensa che è spinta dai bisogni più volgari o dall’avidità della scienza ad andare avanti, incessantemente, pena la caduta e la vita, pei deboli e imaldestri. Mi accorgo che quando avrai letto questa lunga filastrocca, sarò riuscito a dirtene ancora niente e ne saprai meno di prima. Il primo racconto della serie, che pubblicherò fra breve, ti spiegherà meglio il mio concetto, se ci riesco. Per adescarti dirò che i racconti saranno cinque, tutti sotto il titolo complessivo della Marea e saranno: 1° Padron ’Ntoni; 2° Mastro-
don Gesualdo; 3° La Duchessa delle Gargantàs; 4° L’On. Scipioni; 5° L’uomo di lusso. Ciascun romanzo avrà una fisionomia speciale, resa con mezzi adatti?. Il realismo, io, l’intendo 1. fantasmagoria: successione di immagini | dri sociali in cui si articolerà il suo ciclo. 2. lotta per la vita: cfr. M21. lanterna magica: allude alla serie di qua- | 3. fisionomia ... adatti: la forma si adesu uno schermo bianco, prodotte da una
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
guerà ai diversi ambienti sociali rappresentati.
di 927
‘ così, come la schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa; la sincerità dell’arte, Iinuna parola, potrà prendere un lato della fisionomia della vita italiana moderna, a partire dalle classi |
|infime, dove la lotta è limitata al pane quotidiano, come nel Padron ’Ntoni', e a finire nelle varie aspi|razioni, nelle ideali avidità de L’uomo di lusso (un segreto), passando per le avidità basse alle vanità |del Mastro-don Gesualdo, rappresentante della vita di provincia, all’ambizione di un deputato.
| 4. Padron
’Ntoni: il primo titolo dei Malavoglia.
ANALISI DEL TESTO
Il progetto del ciclo dei Vinti
Superamento della visione romantica del popolo
Il progresso
La forma - adeguata al livello sociale rappresentato
La lettera risale allo stesso anno del primo testo verista pubblicato da Verga, Rosso Malpelo (cfr. T206); è un documento importante della svolta verista dello scrittore (che solo tre anni prima aveva ancora pubblicato Eros e Tigre reale), e della gestazione del progetto di un ciclo di romanzi, I vinti (per ora il titolo ipotizzato è La marea). Il progetto è già chiaramente delineato. Il ciclo vuole ricostruire la «fisionomia della vita italiana moderna», attraverso una serie di quadri dedicati ai vari livelli della scala sociale, dai più bassi ai più elevati. Motivo centrale di tutta la ricostruzione è la «lotta per la vita» (cfr. M21), nelle varie forme in cui si manifesta nei vari strati sociali, dal «cenciaiolo» al «ministro» e all’«artista». Quindi già all’altezza del primo progetto del suo ciclo Verga vede chiaramente come anche gli strati popolari siano dominati dalla stessa legge implacabile che regola gli strati più evoluti. Concettualmente, quindi, ha superato la visione romantica di un mondo popolare come paradiso di sanità e autenticità, capace di conservare intatti quei valori che sono distrutti dallo sviluppo della società moderna. Ciò è confermato anche dal contemporaneo Rosso Malpelo. Ma una simile impostazione contrasta singolarmente con la novella Fantasticheria, solo di poco precedente, in cui Verga vagheggia la «pace serena» del piccolo villaggio di pescatori, i «sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e.inalterati di generazione in generazione», e li vede come antidoto alle «irrequietudini del pensiero vagabondo», generate dalla vita moderna e cittadina (cfr. T205, ma anche la lettera a Capuana del 1879, riportata qui di seguito, T201). E la prova del fatto che in questa fase coesistono in Verga due tendenze, una più antica, romantica e nostalgica, che lo porta a mitizzare il popolo rurale in antitesi alla società borghese, ed una più recente, “verista”, che lo induce a vedere la realtà sociale in tutta la sua crudezza, senza più mitizzazioni. Nella lettera sono già in germe vari spunti che saranno poi sviluppati nella prefazione ai Vinti del 1881: il progresso visto come un’onda immensa, inarrestabile (nella prefazione sarà una «fiumana»), la cui forza propulsiva sono gli appetiti, dai più elementari ai più raffinati, e che travolge senza pietà i più deboli; il suo carattere «provvidenziale», che guida l’umanità alla conquista della «verità» (cfr. T203). É enunciato anche un fondamentale principio formale, che Verga applicherà rigorosamente nei suoi romanzi: ogni quadro deve avere una fisionomia speciale, resa coi mezzi adatti. Cioè la forma si deve adeguare alla realtà rappresentata: alla materia popolare dei Malavoglia, ad esempio, farà riscontro una forma popolare; poi, man mano che l’indagine salirà agli strati superiori, anche la forma dovrà adeguarsi. Verga ha già in mente il procedimento della “regressione ” del punto di vista narrativo nel mondo rappresentato. E difatti comincia ad applicarlo, in quello stesso anno, nel racconto Rosso Malpelo (i racconti verghiani sono spesso il laboratorio di esperimenti formali poi sviluppati nei romanzi).
I Vinti
È
928 Microsaggio Darwin e la «lotta per la vita»
Il “darwinismo
sociale”
La crisi della coscienza borghese
Le concezioni di Verga
Giovanni
y M21 ) Lotta per la vita e
“darwinismo sociale”
La nozione di «lotta per l’esistenza» impiegata da Verga nella prefazione ai Vinti (ma già presente nel primo progetto del ciclo di romanzi, la lettera al Paola del 1878, dove si parla di una «fantasmagoria della lotta per la vita»), proviene dall'opera di Charles Darwin (1809-1882), lo scienziato che con la teoria della sele-. zione naturale (L'origine della specie, 1859) rivoluzionò la concezione tradizionale dell’origine delle specie viventi, e diede un assetto organico e definitivo alla concezione evoluzionistica. Darwin sosteneva che il numero degli organismi viventi che nasce è superiore a quello che può vivere con le risorse disponibili. Quindi esiste tra i vari individui una continua lotta per poter sopravvivere. In questa lotta prevalgono i più adatti alle condizioni di vita in cui si trovano, e trasmettono i loro caratteri ai loro discendenti. Questa sopravvivenza del più adatto è la «selezione naturale»: come l’uomo seleziona artificialmente le specie animali e vegetali più utili ai suoi bisogni, modificandone le caratteristiche, così opera la natura, scegliendo per la riproduzione gli individui che nella lotta per l’esistenza hanno dei vantaggi. sopra i concorrenti. La dottrina darwiniana ebbe un’influenza enorme su tutto lo sviluppo scientifico e filosofico del secondo Ottocento, ed ebbe un peso notevole anche nelle scienze sociali, dando origine a quel filone del pensiero sociologico che si definisce appunto “darwinismo sociale”. Tale dottrina tende a vedere la società umana regolata dalle stesse leggi del mondo animale e naturale, quindi dominata anch’essa dalla lotta per la vita, che assicura la sopravvivenza e il dominio al più forte. In effetti la società umana nella sua storia millenaria è sempre stata caratterizzata da conflitti tra le varie classi sociali. Tuttavia il darwinismo sociale non analizza la lotta per la vita come un dato legato a forme specifiche, storicamente definite di società, ma la pone come legge assoluta di ogni forma di società possibile. Le tendenze di pensiero più reazionarie ne ricavano la conclusione che l’assetto sociale vigente, fondato sul dominio di una classe sulle altre, corrisponde alle leggi stesse di natura e non potrà mai essere modificato, o addirittura affermano la legittimità e la necessità del predominio del più forte sui più deboli, respingendo quelle nozioni di eguaglianza e di democrazia maturate nel corso moderno della storia borghese, dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese in poi. Queste teorie sono la manifestazione della profonda crisi attraversata dalla coscienza borghese nella seconda metà dell'Ottocento: viene meno la sicurezza di poter dominare concettualmente e praticamente tutta la realtà, la serena certezza in un futuro di pace, di equilibrio senza conflitti e scon‘volgimenti, di giustizia, di benessere illimitato, che erano i punti fondamentali della concezione della borghesia nel periodo eroico della sua ascesa. L'ideologia borghese perde quindi quei caratteri progressivi, tesi all’emancipazione dell’umanità intera, che possedeva durante le lotte rivoluzionarie contro il regime assolutistico-feudale, si chiude a difesa del dominio della classe egemone da ogni forza che possa contrastarlo e si riduce ad essere una semplice giustificazione dell’ordine vigente, o addirittura un’esaltazione dei suoi aspetti più negativi, la diseguaglianza, il trionfo della forza sul diritto, l'oppressione, lo sfruttamento, non più mascherati e taciuti, ma accettati apertamente come dati “naturali” e necessari a chi detiene il potere. Per molti aspetti la concezione della società che si può ricavare dalle affermazioni teoriche del Verga e soprattutto dalla sua rappresentazione della realtà rientra nell’ambito culturale di un “darwinismo sociale”. Per Verga la società a tutti i suoi livelli, dai più elevati ai più bassi, è dominata da uno spietato antagonismo tra individui, gruppi e classi: le leggi che la regolano sono la sopraffazione del più forte sul più debole e l’interesse individuale. E questa condizione è un dato di natura, . sostanzialmente eguale in tutti i tempi e tutti i luoghi. :
Verga e il Verismo italiano
929 “Sanità” rusticana e “malattia” cittadina E una lettera a Capuana del 14 marzo 1879. Verga è già a buon punto nella stesura dei Malavoglia (che recano ancora il titolo provvisorio Padron ’Ntoni) e comunica all'amico gli intenti che lo guidano nel lavoro.
La prima edizione della tua Giacinta! andrà in sei mesi, e al più tardi dentro l’anno, senti quel
| che ti dico; e allora sarai in condizione di aver meglio retribuito questo lavoro, e di ottenere altre con-
| | | |
dizioni per quel che scriverai. Anch’io faccio assegnamento su Padron ’Ntoni, e avrei voluto, se la disgrazia? non mi avesse perseguitato sì accanitamente e spietatamente darvi quell’impronta di fresco e sereno raccoglimento che avrebbe dovuto fare un immenso contrasto con le passioni turbinose e incessanti delle grandi città, con quei bisogni fittizii, e quell’altra prospettiva delle idee o direi anche dei sentimenti. Perciò avrei desiderato andarmi a rintanare in campagna, sulla riva del mare, | fra quéi pescatori e coglierli vivi come Dio li ha fatti. Ma forse non sarà male dall’altro canto che io | li consideri da una certa distanza in mezzo all’attività di una città come Milano o Firenze. Non ti pare | che per noi l’aspetto di certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? e che mai | riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi? 1. Giacinta: il romanzo di Capuana uscì | 2. disgrazia: la madre era morta il 5 | 3. impronta... città: cfr. Fantasticheria, nel 1879. dicembre 1878. 205%
ANALISI DEL TESTO L’opposizione campagna-città
La lettera è un documento importante della visione di Verga e della sua poetica. Vi si coglie innanzitutto l'opposizione campagna-città: il mondo popolare e rurale è concepito come un mondo di «fresco e sereno raccoglimento», antidoto alle «passioni turbinose e incessanti» e ai «bisogni fittizi» della vita cittadina e borghese. L'opposizione si specifica dunque come serenità vs turbamento, autenticità vs inautenticità. Ciò testimonia la presenza, ancora in una fase avanzata della stesura del romanzo, di una visione romantica del mondo della cam-
Il filtro intellettuale
pagna, come in Fantasticheria (cfr. T205). Ma con questa visione romantica e mitizzante contrasta il proposito affermato subito dopo: Verga non vuole un’immersione nostalgica in quel mondo (che pure sarebbe la sua prima tentazione), ma una rappresentazione a distanza, attraverso un filtro intellettuale. È questo che preserva Verga, nel romanzo, dall’idillio campagnolo e dalla mitizzazione idealizzante del mondo rurale. Ma lo preserva anche da una forma di “verismo” come riproduzione puramente mimetica, “fotografica”, che annullerebbe ogni distanza critica dall’oggetto. Verga vuole dare una «ricostruzione intellettuale », a distanza, della vita popolare siciliana, per mantenersi in una posizione straniata, criticamente vigile. É un principio fondamentale per capire la rappresentazione verghiana della realtà.
I Vinti
930 Impersonalità e “regressione” È la prefazione al racconto L'amante di Gramigna, ed ha la forma.
di una lettera indirizzata a Salvatore Farina. Questi (1846-1919), pro-
lifico romanziere e giornalista, era a Milano il direttore della «Riv sta minima», su cui il racconto fu pubblicato originariamente, nel 1880, con il titolo L'amante di Raja (fu poi raccolto in Vita dei campi). Farina era contrario alle tendenze veriste, e per questo Verga si rivolge a lui argomentando è suoi convincimenti letterari. Riproduciamo il passo nel testo dell’edizione definitiva del 1897, che presenta alcune varianti rispetto a quella originaria del 1880. Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io té lo ripeterò così come l'ho raccolto.
poponarrazione deicampi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della pei viottoli
lare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cerfarà pensare fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano carlo
sempre; avrà sempre l'efficacia dell’esser stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne: il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contraddittorî, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo, e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti momenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili!; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?? Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell'avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine. 1 più modesti... più umili: più modesti | impegnativo e importante di quello del- | gica, basteranno i semplici fatti (cfr. la perché sacrificano i grandi effetti drammal’arte del passato. lettera a Cameroni del 19 marzo 1881, tici, ma non più umili, perché il fine, l’ana- | 2.fatti diversi: articoli di cronaca. Non | T204). lisi del processo delle passioni, non è meno | ci sarà più bisogno dell’analisi psicolo-
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
951 ANALISI DEL TESTO
La consapevolezza
teorica di Verga
L’impersonalità
E, con la prefazione ai Vinti, l’unico testo teorico che Verga abbia pubblicato; tutto il resto della sua riflessione sulla scrittura letteraria è affidato a lettere private, non destinate alla stampa, o è ricostruibile da interviste giornalistiche. Ciò testimonia il pudore e il rigore di Verga: egli voleva parlare attraverso le sue realizzazioni artistiche concrete, senza sbandierare sulla scena letteraria teorie più o meno suggestive o provocatorie. Per questo è durato a lungo il pregiudizio di un Verga “debole di idee”, sprovveduto dal punto di vista teorico. Questo testo e gli altri che riportiamo lo smentiscono, dimostrando come Verga avesse ben chiari i problemi teorici che erano alla base del suo lavoro. Si possono desumere da questa pagina alcuni punti essenziali della poetica di Verga: - l’impersonalità: essa viene intesa come «eclisse» dell’autore, che deve sparire dal narrato, non deve filtrare i fatti attraverso la sua «lente», ma deve mettere il lettore «faccia a faccia» con il fatto «nudo e schietto». Il lettore deve seguire lo sviluppo di certe passioni come se non fossero raccontate, ma si svolgessero di fronte a lui, drammaticamente. L’opera, pertanto, deve sembrare «essersi fatta da sé». Con questa teoria dell’impersonalità, però,
La regressione del punto di vista narrativo
La riduzione del racconto all’essenziale
I rapporti di causa ed effetto nella vita psicologica
Verga non dà una definizione filosofica dell’arte che neghi il rapporto creativo tra l’artista e l’opera (come intese erroneamente Croce che, nella sua polemica antiverista, si scagliò contro un idolo creato dalla sua immaginazione), ma propone solo un principio di poetica: l’opera deve sembrare essersi fatta da sé; Verga sa bene che l’impersonalità è solo un procedimento espressivo, adottato per ottenere certi effetti artistici, e che dietro c’è pur sempre l'artista che mette in atto quei procedimenti, anzi, proprio attraverso di essi imprime all’opera il sigillo della sua personalità creatrice. — In relazione all’impersonalità e all’«eclisse» dell'autore, si delinea anche la teoria della regressione del punto di vista narrativo entro il mondo rappresentato: i fatti saranno riferiti «colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare». Deve cioè scomparire il narratore tradizionale, portavoce dell’autore, e deve essere sostituito da un’anonima voce narrante che ha la visione del mondo e il modo di esprimersi dei personaggi stessi. - L’«eclisse» dell’autore porta con sé un processo di scarnificazione del racconto, di riduzione all’essenziale. Vengono eliminate le minute analisi psicologiche della narrativa romantica. Il processo delle passioni è ricostruito solo da pochi punti indispensabili (il «punto di partenza» e «d’arrivo»). In un’altra lettera, a Felice Cameroni (cfr. T204), Verga chiarirà che la psicologia si deve ricavare non da profili dei personaggi costruiti dal narratore, ma dai loro semplici comportamenti, dai gesti e dalle parole, persino «dal modo di soffiarsi il naso». - Di qui deriva il rifiuto di una facile drammaticità, degli effetti romanzeschi plateali, «il pepe della scena drammatica», come Verga lo definisce in una lettera a Capuana. — Agli effetti romanzeschi si sostituisce una ricostruzione scientifica dei processi psicologici, fondata su una rigorosa consequenzialità logica e su rapporti necessari di causa e di effetto. Questa fiducia nelle leggi di causa ed effetto che regolano la vita interiore è un tratto tipico della narrativa di impianto naturalistico. É una concezione che rimanda alla mentalità positivistica, alla convinzione che tutta la realtà umana, sociale e psicologica, sia retta da leggi ferree e precise, che la ragione può ricostruire e dominare. È un principio che sarà poi messo in crisi dal romanzo novecentesco, soprattutto da Pirandello e da Svevo,
che insisteranno sull’incoerenza e la discontinuità della psiche, sui suoi processi oscuri, ambigui e indecifrabili.
PROPOSTE
DI LAVORO
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1. Individuare all’interno dei testi antologizzati: a) le caratteristiche del progetto di lavoro a cui allude Verga; b) i temi annunciati da Verga e che troveranno successivo sviluppo; c) i principi di poetica elencati.
I Vinti
932
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È
: I «vinti» e la «fiumana del progresso» È la prefazione ai Malavoglia, che funge però da prefazione all’in-
tero ciclo dei Vinti. E datata 19 gennaio 1881.
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilup-
parsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accor-
gersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle
basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che codesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascen-
dente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra*; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte, dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni,
dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti?. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani. I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal
più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza pel benessere, per l'ambizione - dall’umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi — all'uomo dall’ingegno e dalle 1. Duchessa de Leyra: in un primo tempo Duchessa delle Gargantàs. 2. individuo... tutti: l'individuo, cercando il suo interesse personale, coopera senza
Giovanni
Verga e il Verismo
saperlo al benessere di tutti. È un principio centrale dell’ideologia della borghesia ottocentesca, fiduciosa negli ef| fetti benefici della libera concorrenza,
italiano
secondo i precetti della dottrina economica liberista che risale ad Adam Smith (1723-1790).
o 933 volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé
di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la LE illegale; di foraI luinato fuori della legge — all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma del-
l ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente coi colori adatti*, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere.
3. colori adatti: con stile e linguaggio adatti all'ambiente rappresentato.
ANALISI DEL TESTO
La «fiumana del progresso»
Il materialismo
Il problema formale
Problematicità dell’atteggiamento verso il progresso
E il documento teorico più articolato e approfondito che Verga ci abbia lasciato. Il primo paragrafo è dedicato specificamente al primo romanzo del ciclo, IMalavoglia, ed indica con chiarezza sintetica qual è il tema di fondo dell’opera: la rottura dell’equilibrio di un mondo tradizionale e immobile, quello di una famiglia di un piccolo villaggio di pescatori, «vissuta sino allora relativamente felice», per l’irrompere di forze nuove, l’insoddisfazione dello stato attuale, il bisogno di migliorare le proprie condizioni di vita, che sono l’indizio dell’affacciarsi della modernità in quel sistema arcaico. Nel paragrafo successivo, lo sguardo si allarga al complesso dei romanzi del ciclo. Anche qui al centro dell’attenzione si pone la «fiumana del progresso», cioè il grande processo di trasformazione della realtà contemporanea, in particolare dell’Italia, che si sta avviando, dopo l’unità, ad un’organizzazione economica e sociale moderna. La forza motrice di questo processo, come già nella lettera al Paola del ’78 (cfr. T200), è identificata negli appetiti, da quelli più elementari, la lotta per i bisogni materiali dell’esistenza, a quelli più complessi e raffinati, via via che si sale nella scala sociale. È evidente qui un'impostazione duramente materialistica, che esclude i moventi “ideali” dall’agire dell’uomo, o comunque li considera subordinati a quelli materiali. Tipicamente naturalistico è anche vedere i processi sociali e psicologici come un «meccanismo». Tale meccanismo sarà semplice e facile da studiare nelle «basse sfere»; lo studio diverrà invece sempre più difficile man mano che il meccanismo si complica, nelle sfere superiori della società. Al termine del primo paragrafo Verga tocca anche rapidamente il problema formale. Perché l’analisi sia «esatta» e dimostri la «verità», occorre che essa segua scrupolosamente determinate norme. Noi sappiamo da altri testi che queste «norme» si compendiano nel principio dell’impersonalità. Lo scrittore sottolinea anche come la «forma» sia strettamente inerente al «soggetto»: cioè la «forma» è un fattore indispensabile perché l'osservazione sia esatta e raggiunga la verità. Ciò dimostra quanto Verga fosse consapevole del fatto che a caratterizzare la nuova arte non bastassero i contenuti in astratto, ma condizione fondamentale fosse la forma (cfr. T199 e relativa analisi). Alla fine della prefazione si aggiungerà vale poi un’altra importante precisazione: ogni scena va rappresentata con «i colori adatti»; livello al risponda che forma una di uso fare occorre a dire che in ogni romanzo del ciclo Paola. Ma sociale rappresentato. È quanto lo scrittore aveva già affermato nella lettera al «Lo stile, scriveva: Treves, anche in una lettera del 19 luglio 1880 al suo editore, Emilio in questa gradatamente modificarsi devono quadro del il colore, il disegno, tutte le proporzioni effetti, in principio questo A proprio». carattere un fermata ogni ad scala ascendente, e avere rappresenche Malavoglia, Nei nei due romanzi scritti, Verga si attiene scrupolosamente. e al linguaggio dell’amtano le «basse sfere», il narratore si adegua alle categorie mentali di ambienti sociali più a corrispondenz in innalza, si Gesualdo nel biente popolare, mentre quanti sono gli linguaggi elevati. Come ha osservato acutamente Contini, « Verga ha tanti e p dna strati che egli indaga, e li gestisce in parallelo». posizione ideologiche dello Il terzo paragrafo contiene invece le fondamentali prese di so». Verga non parteprogres scrittore di fronte all'oggetto del suo ciclo, la «fiumana del della sua epoca. comune inione nell'op nte cipa a quella mitologia del progresso che era domina I Vinti
934 Egli esprime bensì la sua ammirazione per la grandiosità del processo in atto, che ha qualcosa di epico; arriva persino a ripetere uno dei principi basilari dell'ideologia borghese moderna, quello formulato nel Settecento dall’economista Adam Smith, il fondatore del pensiero economico liberista, secondo cui l’individuo, perseguendo il suo interesse personale, coopera inconsapevolmente al benessere di tutti. Però non si assume il ruolo di celebratore del progresso, a differenza di tanti scrittori contemporanei, maggiori o minori (sì pensi al Carducci dell’Inno a Satana). Lungi dal levare inni, Verga insiste proprio sui suoi aspetti
negativi, «irrequietudini», «avidità», «egoismo», «vizi», «contraddizioni», quanto c’è di «meschino negli interessi particolari». E poi, nel concreto dell’opera, non assume come oggetto della rappresentazione gli aspetti epici e trionfali del progresso, bensì proprio il suo rovescio negativo: sceglie di soffermarsi sui «vinti», quelli che sono schiacciati dalle leggi inesorabili dello sviluppo moderno. I protagonisti dei cinque romanzi progettati sono appunto dei vinti nella «lotta per la vita» che domina la società contemporanea. E la chiave per capire tutto l'atteggiamento di Verga verso la realtà. Egli non fa parte della classe egemone del nuovo Stato liberale, non ne condivide i miti: dalla sua posizione defilata di “galantuomo”
del Sud vede molto chiaramente il rovescio negativo di quello sviluppo, che l'ottimismo ufficiale tendeva invece ad occultare. In chiusura della prefazione si colloca un’altra affermazione di capitale importanza: «Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo». E la frase su cui abbiamo già insistito (cfr. $8), rilevatrice di quel profondo pessimismo dello scrittore, che dà origine alla poetica dell’impersonalità e alla tecnica narrativa della regressione.
Gli aspetti negativi
del «progresso»
Il pessimismo
T203 PROPOSTE DI LAVORO È 1. Ricercare i termini della Prefazione che rivelano la cultura positivistica di Verga (ad esempio, «studio sincero e spassionato»...). . A quali soluzioni formali Verga fa riferimento? . Quali modelli Verga ha presente quando progetta un ciclo di romanzi? Realizzerà questo disegno?
. Quale ruolo Verga assegna all’osservatore-artista? . Quale concezione di “progresso” viene presentata? (osservare i termini usati per definire il progresso: «fiuTI_ WON a mana», «cammino»...). Che cosa determina il progresso? Come si colloca la posizione di Verga sul progresso nell’ambito della cultura positivistica? D.
Quale rappresentazione viene data del popolo? (cfr. Fantasticheria, T205).
7. Quali punti della Prefazione rivelano il pessimismo dell’autore?
n.
T20 4 i.
L'“eclisse” dell’autore e la regressione
nel mondo rappresentato
A) Il passo è tratto da una lettera a Capuana del 25 febbraio 1881. I Malavoglia sono appena usciti: lo scrittore esprime all'amico i suoi dubbi sulla validità dell’opera e sull’accoglienza del pubblico.
3 Avevo un bel dirmi che quella semplicità di linee, quell’uniformità di toni, quella certa fusione del l'insieme che doveva servirmi a dare nel risultato l’effetto più vigoroso che potessi, quella tal cura Giovanni
Verga e il Verismo italiano
9355 di smussare gli angoli, di dissimulare quasi il dramma sotto gli avvenimenti più umani!, erano tutte
cose che avevo volute e cercate apposta e non erano certo fatte per destare l’intere sse ad ogni pagina del racconto, ma ] Interesse doveva risultare dall'insieme, a libro chiuso, quando tutti quei personaggi sì fossero affermati sì schiettamente da riapparirvi come persone conosciute, ciascuno nella sua azione.
Che la confusione che dovevano produrvi in mente alle prime pagine tutti quei personaggi messivi
faccia a faccia senza nessuna presentazione, come li aveste conosciuti sempre, e foste nato e vissuto
in mezzo a loro, doveva scomparire mano mano col progredire nella lettura, a misura che essi vi torna-
vano davanti, e vi si affermavano con nuove azioni ma senza messa în scena, semplicemente, naturalmente, era artificio voluto e cercato anch'esso, per evitare, perdonami il bisticcio, ogni artificio lette-
rario, per darvi l’illusione completa della realtà. Tutte buone ragioni, o scuse di chi non si sente sicuro del fatto suo; e sai che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Capirai dunque com’ero inquieto non solo sul valore che avrebbe accordato il pubblico a queste intenzioni artistiche, giacché le intenzioni
A poro nulla, ma sul risultato che avrei saputo cavarne nell’ottenere dal lettore l'impressione che volevo.
1. dissimulare ....uumani: non ricorrere agli effetti drammatici e romanzeschi, ma dis-
simulare la drammaticità sotto gli eventi | più usuali e quotidiani.
B) Il passo è tratto da una lettera a Felice Cameroni del 27 febbraio 1881. Il critico aveva recensito I Malavoglia, esprimendo riserve sull'impianto narrativo, soprattutto sulla mancanza di un profilo che presentasse 1 vari personaggi.
Caro Pessimista, con me tu non sei tale, anzi temo che la tua benevolenza non ti faccia essere asso-
lutamente il contrario. Ho letto il giudizio che dai nel Sole dei miei Malavoglia e mi ha fatto un gran piacere il vedere quello che tu pensi del mio libro, e l’essere riuscito in parte ad incarnare il mio concetto agli occhi di un critico fine e imparziale come te. So anch’io che il mio lavoro non avrà un successo di lettura, e lo sapevo quando mi son messo a disegnare le mie figure col proposito artistico che tu approvi. Il Mio solo merito sta forse nell’avere avuto il coraggio e la coscienza di rinunziare ad un successo più generale e più facile, per non tradire quella forma che sembrami assolutamente necessaria!. [...] Io Mi son messo in pieno, e fin dal principio, in mezzo ai miei personaggi” e ci ho condotto il lettore,
ome ei li avesse tutti conosciuti diggià, e più vissuto con loro e in quell’ambiente sempre. Parmi que-
sto il modo migliore per darci completa l’illusione della realtà*; ecco perché ho evitato studiatamente quella specie di profilo che tu mi suggerivi pei personaggi principali. Certamente non mi dissimu-
avo che una certa confusione non dovesse farsi nella mente del lettore alle prime pagine; però man mano che i miei attori si fossero affermati colla loro azione essi avrebbero acquistato maggior rilievo, si sarebbero fatti conoscere più intimamente e senza artificio5, come persone vive, il libro tutto ci
ivrebbe guadagnato nell’impronta.di cosa avvenuta. Ecco la mia ambizione e il peccato che mi rimproreri. D’esserci riuscito non mi lusingo, ma lasciami pensare ancora che il concetto è perfettamente
.oerente ai nostri criteri artistici,
. forma... necessaria: allude alla tecnica \arrativa impersonale già descritta nella ettera precedente al Capuana, e su cui orna nelle righe successive. . Io mi son messo ... personaggi: ribairà ancora in una lettera a Luigi Russo el novembre 1919: «io ho cercato di metermi nell'ambiente dei miei personaggi, quasi nei loro panni, per rendere il qua-
e non mi dire che sono più realista del re®. dro coi colori suoi». 8. illusione ... realtà: l'impressione di un fatto reale, a cui il lettore assiste direttamente, senza il filtro della rappresentazione letteraria. 4. profilo: un ragguaglio al lettore sul carattere, l’aspetto fisico, la storia anteriore del personaggio, come nella narrativa tradizionale.
5. artificio: l’intromissione dell'autore che dà informazioni, spezzando l’illusione di assistere ad un fatto vero. 6. più realista del re: che si spinge troppo
oltre nell’applicazione delle teorie veriste, più avanti ancora dei più accesi sostenitori, quali il Cameroni stesso.
I Vinti
936 C) Il passo è tratto da un’altra lettera a Cameroni, del 19 marzo 1881.
come te, coscien: Caro Cameroni, ti ringrazio anche del tuo secondo articolo, e davanti ad un critico
delle zioso e convinto, mi cessa il debito di difendere le mie idee. No, io non limito i modi di sviluppo evi in solo e linea, prima in mettere di teorie naturaliste!, per servirmi del vostro frasario, cercando quel solo nte all'ambie , dando scrittore? lo denza l’uomo, dissimulando ed eclissando per quanto si può tanto d'importanza secondaria che può influire sullo stato psicologico del personaggio, rinunziando a tutti quei mezzi che sembranmi più artificiosi che emanazione vera e diretta del soggetto, la descrizione, lo studio, il profilo. Tutto questo deve risultare dalla manifestazione della vita del personaggio stesso, dalle sue parole, dai suoi atti; il lettore deve vedere il personaggio, per servirmi del gergo,
l’uomo secondo me, qual è, dov'è, come pensa, come sente, da dieci parole e dal modo di soffiarsi il naso. Io non ci sono riuscito, ma non vuol dire che il principio sia falso, altri riescirà; e ilprofilo, la descrizione, la presentazione, altro che sommaria e presentata di sbieco*, parrà falsa e insopporta= bile come sembrano oggi le tirate o i soliloqui sulla scena... 1. non limito ... naturaliste: in un articolo sui Malavoglia Cameroni aveva scritto che Verga, facendo nascere tutta la narrazione dai dialoghi e dalle azioni, senza dar dei profili dei personaggi, recava danno «ai propri lavori e alla propaganda |
delle teorie naturaliste, limitandone deli-
beratamente i modi dello sviluppo». 2. eclissando ... scrittore: anche in una lettera a Guido Mazzoni del 9 aprile 1890 Verga affermava: «l’intervento del macchinista non è necessario né sulle scene né
nel romanzo [...] Uomini e cose devono parlare da sé...». 3. di sbieco: attraverso il punto di vista di altri personaggi della vicenda.
D) Il passo è tratto da una lettera del 12 maggio 1881 al critico Francesco Torraca, che aveva recensito I Malavoglia.
... Devo a Lei il più bello ed importante articolo critico che sia stato scritto sui Malavoglia! Io non avrei potuto augurarmi encomio maggiore di quello che Ella mi fa dicendo cotesto romanzo perfettamente obbiettivo ed impersonale. Sì, il mio ideale artistico è che l’autore s’immedesimi talmente nell’opera d’arte da scomparire in essa. Vorrei quasi che un romanzo arrivasse a non portare il nome del suo autore, si affermasse da sé, come vivente per un organismo proprio e necessario, producesse quell’illusione potente dell’essere stato, che hanno le epopee dei rapsodi? e tutte le figure schiette della poesia popolare. E in questa obbiettività efficacissima della rappresentazione artistica, Zola istesso, così grande e possente, ha ancora della debolezza pel gusto colorista della nuova scuola letteraria francese, per la sua mirabile abilità di descrizioni [...] A me è parso che la descrizione nei Malavoglia doveva essere tanto più sobria, quanto meno è il sentimento della natura in quegli uomini primitivi, e del resto la più rigorosa efficacia parmi stia sempre nella sobrietà. Quegli uomini io ho cercato di riprodurli nella loro genuina orginalità mettendomi completamente nel loro ambiente, il più che ho potuto, rendendoli tali quali senza farli passare per nessuna preoccupazione artistica. Sono lietissimo di vedere che negli occhi di Lei ci sono riuscito, almeno in gran parte, e che Ella mi dia ragione in cotesto primo tentativo, che in Italia può passare per disperato, di farli parlare con la loro lingua inintellegibile a
gran parte degli Italiani, almeno di dare la fisonomia del loro intelletto alla lingua che essi parlano. Certuni mi addebitano di non aver separato in questo metodo la parte dello scrittore da quella dei suoi personaggi; e se arrivano a concedermi venia per l’ardimento in questo, avrebbero voluto che per la diversa intonazione dello stile lo scrittore avesse fatto sentire ogni venti linee: ora son io che parlo. La questione [...] si riannoda a quel che ho detto in principio, e parmi che non possa sussistere un momento l’illusione della completa immedesimazione col soggetto senza dare un’uniforme intona: zione a tutta l’opera, senza eclissare completamente lo scrittore.
Ilearticolo ... Malavoglia: Torraca aveva | glia su «La Rassegna», 9 maggio 1881. recensito favorevolmente I Malavo- | 2. rapsodi: antichi cantori epici.
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
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E) Il passo è tratto da una lettera del 14 luglio 1899 a Edouard Kod (1857-1910), romanziere svizzero seguace dell’indirizzo naturalistico, che aveva tradotto in francese le opere di Verga.
Se dovessi fare a voi, amico, e non pel pubblico le mie confessioni letterarie, direi soltanto questo: = che ho cercato di mettermi nella pelle dei miei personaggi, vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole — ecco tutto. Questo ho cercato di fare nei Malavoglia e questo cerco di fare nella Duchessa! in altro tono, con altri colori, in diverso ambiente. E qui cade in acconcio quel che disse Goncourt? che le scene e le persone del popolo sono più facili
a ritrarsi, perché più caratteristici e semplici - quanto complicati e tutti esprimentisi per sottintesi sono le classi più elevate, massime se si deve tener conto di quella specie di maschera e di sordina che l'educazione impone alla manifestazione degli stessi sentimenti, e alla vernice quasi uniforme che
gli usi, la moda, il linguaggio quasi uniforme nella stessa società tendono a rendere pressoché interna-
zionale in una data società.
E massime? nel mio metodo - che Dio m’assista per questa Duchessa!
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1. Duchessa: La duchessa de Leyra, che Edmond de Goncourt nella prefazione ai doveva essere il terzo romanzo del ciclo dei | Fratelli Zemganno (1879). Vinti e che Verga non terminò. 3. massime: soprattutto. 2. Goncourt: allude alle idee espresse da
ANALISI DEI TESTI
L’illusione
I cinque passi contengono la descrizione più chiara dei procedimenti in cui, secondo Verga, doveva tradursi il principio dell’impersonalità: soprattutto l’“eclisse” dello scrittore e la regressione del punto di vista narrativo entro la realtà rappresentata. L’obiettivo primario di Verga è eliminare ogni senso di artificiosità letteraria, dare l’«illusione completa della
della realtà
realtà», l'impressione di assistere direttamente ai fatti, senza alcun intermediario. Per questo
La narrazione
elimina la presenza dell’«autore», più propriamente quella voce del narratore onnisciente che interviene costantemente a descrivere gli ambienti, a delineare profili dei personaggi, a spiegare psicologie, a commentare e a giudicare. Il punto di osservazione si trasferisce all’interno dell’ambiente rappresentato, il narratore assume la mentalità e il linguaggio che sono propri dei personaggi («ho cercato di mettermi nella pelle dei miei personaggi, vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole»). Ciò dà origine ad un impianto narrativo molto nuovo, persino sconcertante: il lettore si trova di fronte ad una folla di personaggi, senza che essi gli vengano presentati e descritti, e deve imparare a conoscerli dall’azione stessa, man mano che essa progredisce. E li conosce attraverso le loro parole e i loro gesti, anche quelli apparentemente più insignificanti («da dieci parole e dal modo di sof-
si avvicina alla forma drammatica
fiarsi il naso»). È ‘un procedimento che avvicina la narrativa al dramma. Nel teatro realistico ottocentesco, infatti, al levarsi del sipario lo spettatore si trova di fronte a dei perso-
naggi che parlano e agiscono, senza saper nulla di loro e degli antefatti, e impara a conoscerli solo attraverso l’azione stessa. Questo avvicinarsi del romanzo al dramma è un tratto carat-
teristico della narrativa del secondo Ottocento (su questo si può vedere in generale J. W. Beach, Tecnica del romanzo novecentesco, trad. it., Bompiani, Milano 1948, e per Verga in particolare, G. Pirodda, L’eclissi dell’autore. Tecnica ed esperimenti verghiani, EDES, Cagliari 1976).
, @ PROPOSTA DI LAVORO
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l’“eclisse” dello scrittore. e Rintracciare in ogni testo le precise indicazioni che Verga fornisce per realizzare
I Vinti
938 Il narratore verista
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da Vita dei campi
Fantasticheria La novella fu scritta sicuramente prima del 1878, e fu pubblicata per la prima volta sul «Fanfulla della domenica» il 24 agosto 1879; in seguito fu raccolta in Vita dei campi, 1880. Ne riportiamo i punti salienti. L'autore si rivolge in forma di lettera a una dama dell’alta società, che, fermatasi nel villaggio di Acv Trezza, perché affascinata da quel mondo pittoresco di pescatori, dopo quarantotto ore ne fugge annoiata, proclamando: «Non capisco come sî possa viver qui tutta la vita».
Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi!, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch'esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli. E una cosa singolare; ma forse non è male che sia così — per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, «gente di mare», dicono essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano, quando ne mangiano, giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna accontentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato?. In quei giorni, c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso*, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo. Di tanto in tanto il tifo, il colera, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che non esser spazzato‘, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché. Po siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera? del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; - ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte | J fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete met: terci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall’altro lato del canocchiale? Lo | spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà. I Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. PerÎ ché? à quoi bon?® come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant'è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho
rivisto quella povera donna" cui solevate far l'elemosina col pretesto di comperar le sue arancie messe in fila sul panchettino dinanzi all’uscio. Ora il panchettino non c’è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po’ più in là a stenLi
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1. scogli giganteschi: gli scogli di lava che sorgono dal mare di fronte ad Aci-Trezza. 2. bocconi ... destinato: si sente meno il vuoto dello stomaco. 3. monelli ... ingrasso: come se la mise-
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ria fosse un buon incentivo all'aumento della popolazione. : 4. non esser spazzato: il non è pleonastico: non nega, ma rafforza. 5. ghiera: punta.
Verga e il Verismo italiano
6. à quoi bon?: a che pro? 7. povera donna: anticipa il personaggio della Longa nei Malavoglia.
939 der la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio posto della guari dia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com'è, vi
i aveva vista passare, bianca e superba. È Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti | ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più | dove - forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti - e nel guazzabuglio che facevano nella | mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare
| avoi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso ‘in capo alla cronaca elegante — sazia così da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine ‘di un libro. Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da | voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. [...]
Vi ricordate anche di quel vecchietto* che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete que- fi» sto tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. \ Ora è morto laggiù, all'ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei | . sl \ lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le dna DI o \\ { non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai? che il poveretto biascicava nel suo) \
dialetto semibarbaro.
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Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero,l vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le sue tegole», tanto che quando lo) portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua «occhiata di sole» accoccolato sulla pedagna!° della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercalo invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche. | La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella ragazza!!, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo” alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande!*, lontana dai sassi che l'avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all'ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra — un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria!*: - «nei guai!» come dicono laggiù. | Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa" l’uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera!?.
Grande e grosso com'era, si faceva di brace anch'esso se gli fissavate in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame!”, levando in alto
il berretto, e salutando un'ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano.
8. vecchietto: Padron ’Ntoni. 9. guai: lamenti. 10. pedagna: la traversa su cui i rematori puntano i piedi. 11. ragazza: Mena. 12. viso notissimo: Alffo Mosca, di cui Mena è innamorata.
13. lagrime ... città grande: in un primo tempo Verga aveva assegnato a Mena la sorte che sarebbe stata della sorella Lia, di finire in una casa di malaffare in città. 14. fratelli ... Pantelleria: ’Ntoni. 15. Lissa: battaglia navale persa nel 1866 dalla marina italiana contro quella austria-
ca. Nel romanzo vi muore Luca, il secon-
dogenito. 16. fiamma dell’ellera: serve a rischiarare i pesci per la pesca colla fiocina. 17. verga ... sartiame: il pennone di trinchetto, che è l’albero di prora. Le sartie sono i cavi che sostengono gli alberi.
Fantasticheria
940 L’altro!8, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo,
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fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suol, andando di qua e di là come pazzi, c'erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto imma- | ginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lascia.
vasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.
Meglio per loro che son morti, e non «mangiano il pane del re»!*, come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell’altro pane che mangia la sorella?°, e non vanno attorno come la donna delle arancie, a viver della grazia di Dio; una grazia assai magra ad Aci-Trezza. Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! [...] Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arancie; rimangono a ronzare attorno alla mendica, a brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccat-.
tar torsi di cavolo, bucce d’arancie e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là, dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va. - Insomma l’ideale dell’ostrica! - direte voi - Proprio l’ideale dell’ostrica?”! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano mi sembrano - forse pel quarto d’ora - cose seriissime e rispettabilissime anch'esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo? s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. - Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente. Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine? che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto, ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio. 18. L’altro: Bastianazzo. 19. pane del re: il cibo dei carcerati, fornito dallo stato. 20. altro pane ... sorella: guadagnato col mestiere di prostituta.
(21. ideale dell’ostrica: che sta sempe) ataal suo scoglio. pr?” 225 irrequietudini=.. vapabondo: le irrequietudini dell’intellettuale, che vive le contraddizioni della società moderna, intima-
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mente malata. 23. turbine: la vita turbinosa e sregolata del gran mondo. Allude ai romanzi “mondani” della prima maniera.
Verga e il Verismo italiano
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ANALISI DEL TESTO Il germe dei Malavoglia
L’idealizzazione del mondo rurale
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dell’impersonalità
Il testo reca già in germe i futuri Malavoglia: è facile riconoscerne, appena abbozzati, ipersonaggi, il vecchio padron ’Ntoni, la Longa, ’Ntoni, Luca, Mena, Lia. Ma siamo ancora ben lontani dal romanzo: il fatto importante è che manca qui il “coro” del paese, che è l’altro polo essenziale della struttura narrativa dei Malavoglia, e che, in opposizione alla famiglia protagonista, rappresenta il negativo della lotta per la vita, l'egoismo, la logica dell’utile, l’insensibilità umana. Infatti qui il mondo rurale è ancora idealizzato, non visto in modo
disincantato e pessimistico nelle sue reali componenti. Eloquente, alla fine, la celebrazione mem della «pace serena» e dei «sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di e» generazione in generazione». Se si accosta Fantasticheria a Rosso Malpelo e alla lettera" al Paola (cfr. T200 e T206) si hanno i termini di quella contraddizione interna nel modo in... cui Verga, in questa fase, concepisce ancora il mondo arcaico rurale, l’incertezza tra idoleggiamento romantico e rappresentazione duramente veristica. E anche assente qui il procedimento della regressione, proprio del Verga pienamente
verista. La voce narrante rappresenta direttamente l’autore stesso e il suo mondo. Non mancano neppure atteggiamenti polemici e moralistici contro il bel mondo e di pietà umanitaria per gli umili, che accostano questo testo al clima di Nedda e dei romanzi romantico-scapigliati.
i PROPOSTE DI LAVORO i 1. Il titolo della novella Fantasticheria, l’espressione «le irrequietudini del pensiero vagabondo» a quale clima culturale rimandano? (Ricordare che dal ’72 Verga era a Milano).
2. Individuare tutte le espressioni riferite all'ambiente naturale ed ai personaggi che rivelano chiaramente l’adozione di uno stile “alto”. 3. Ritrovare nel testo le indicazioni di poetica che Verga presenta.
4. Più volte il narratore paragona gli uomini agli animali, operando una forma di zoomorfismo; ritrovare questi punti e riflettere sul loro significato.
5. In che cosa consiste l’ideale dell’«ostrica» di cui parla l'amica del narratore? 6. Che cosa differenzia l’atteggiamento del narratore verso i popolani da quello della dama? 7. C'è una contraddizione tra la rappresentazione della durezza della vita dei pescatori e la finale esaltazione dei «sentimenti miti, semplici» che addormenterebbero «le irrequietudini del pensiero vagabondo»?
Rosso Malpelo Il racconto fu pubblicato per la prima volta sul «Fanfulla» nell’a-
gosto del 1878, e, nel febbraio 1880, in forma di opuscolo, nella «Biblioteca dell’Artigiano», edita dalla Lega italiana del «Patto di fratellanza
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per la diffusione di buone letture fra gli operai». Fu poi raccolto in aule Sar Vita dei campi nel 1880. Lo presentiamo nella redazione offerta dall eto e — 7 dizione definitiva di Vita dei campi (1897), che in vari punti differisc tiva. significa e matura più appare e «Mk da quella del ‘78-80, cha 0A
perché era un ragazzo L Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi cava della rena rossa malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla quasi dimentilo chiamavano Malpelo, e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo aveva cato il suo nome di battesimo. Rosso Malpelo
942 Di resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quel pochi soldi della. settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel
dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevutaa scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti. schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello! fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare. meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre censioso e sporco di rena rossa, ché la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica? per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava. Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato?, e dacché non serviva più, s'era calcolato così ad occhio col padrone per 34 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto‘ di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto”, come tuo padre. i Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze®, tanto era pericoloso; . ma d'altra parte tutto è pericoloso nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato. Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano acceso la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio”. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata®! — e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un
arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventratoa colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come.
se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava
dicendogli: «Tirati in là» oppure «Sta attento! Sta attento se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! ». Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre iferri nel corbello,
udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si ventra tutta in una volta, ed il
lume si spense. L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di M. alpelo, che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato strillavano e si picchiavano il petto per annun1. corbello: cesto. : 2. bettonica: una qualità di erba. Modo di dire popolare per “essere conosciutissimo”. À 3. ingrottato: cunicolo della cava.
Giovanni
4. asino da basto: gli venivano dati i lavori più gravosi. 5. non ... letto: già rivela un carattere violento, quindi si può prevedere che morrà | di morte violenta.
Verga e il Verismo italiano
6. onze: moneta che valeva L. 12,75. 7. morte del sorcio: schiacciato nel cunicolo. È un modo di dire dei minatori. 8. Nunziata: la figlia.
943 ziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti Invece, quasi avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, iche la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paraidiso, andò quasi per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo Sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava che si sarebbe impastata colle mani e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire della carra per delle settimane. Il bel-
l l'affare di mastro Bestia! Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero. - To”! — disse infine uno - è Malpelo! — Di dove è saltato fuori, adesso? Se non fosse stato Malpelo i non se la sarebbe passata liscia...
Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, den‘tro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati?, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strap‘pate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello!° di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussurrasse negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo, ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: — Così creperai più presto! Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i .maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così!». E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: «E stato lui, per trentacinque tarì!». E un’altra volta, dietro allo Sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera». . Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena în spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. | ano | Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: — To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che
ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! 9. invetrati: vitrei, sbarrati. 10. corbello: cfr. nota 1.
Rosso Malpelo
94 - Così come ticuoO se Ramnocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: carico per la ripida I asino un a cacciav imparerai a darne anche tu! - Quando
cerà il dolore delle busse, ilpeso, ansante e coll oe-_ salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito!!, curvo sotto suonavano secchi sugli colpi i e zappa, della chio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico
e, ma stremo di. stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battitur tante volte, È caduto era quale il uno n’era ce e i, forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocch to, perché picchia va L’asino — io: Ranocch a dire che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva a morsi. carne la rebbe strappe ci e piedi i sotto bbe non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pestere ti teraltri gli così puoi; che forte più darle di procura Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, ranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah/ ah! che aveva suo padre. - La. rena è traditora - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena.
se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui. Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! — e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te. - Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e
si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo. Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Fi diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai, il padrone; ma le
busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! — e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull’uscio in quell’arnese!, ché avrebbe fatto scappare il suo damo! se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri
ragazzi si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare!' nel cortile, ei sembrava non. avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre
povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano. La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, censioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin
nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano!° se vedevano il sole. Cosìcisono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove
11. rifinito: sfinito.
14. ruzzare: giocare.
12. arnese: così mal conciato. 13. damo: fidanzato.
15. ammiccavano:
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
si socchiudevano.
945 il pozzo d’ingresso è a picco, ci sì calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero,
comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja!*, a strangolarli; ma pel lavoro
che danno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; e se veniva fuori dalla
cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana. Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui
ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, — o il carrettiere, come compare
Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipain bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara! nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommo osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l’aveva sepolto vivo; si poteva persino vedere tutto che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi, scavando nella rena e avea le mani lacerate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo Sciancato — ei scavava di qua, mentre suo figlilo scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, che stavolta, oltre al lezzo del carcame!*, trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolò i calzoni e la camicia e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto. Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, e già pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole terra, del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per ore delle per palme, nelle l’una accanto all’altra, e stava a guardarle coi gomiti sui ginocchi, e mento uan intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
e la zappa del Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone
16. Plaja: Catania.
la lunga spiaggia a sud di
17. sciara: distesa di lava. 18. carcame: carogna.
Rosso Malpelo
946 padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli avevano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva
resi così lisci e lucenti nel manico con le sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più
lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. — Così si fa - brontolava Malpelo; - gli arnesi che non servono più si buttano
lontano. Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Fanocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avidità curiosa di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni e disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando!’ sui greppi°° dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva —
che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più —. L’asino grigio se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche ; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: - Non più! non più! - Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato da giovane, e ne era uscito coi capelli bianchi; e un altro, cui s'era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni. — Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva. - Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà. Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vaga-
mente — perché allora la sciara sembra più brulla e desolata. ‘ - Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo - dovrebbe essere buio sempre e dappertutto.
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: - Anche la civetta sente
i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli. Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate. - Tueri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti — gli diceva - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti.
,
Ramocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù
in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l’ha detto? - domandava M. alpelo, e Ranocchio
rispondeva che glielo aveva detto la mamma. 19. ustolando: mugulando. 20. greppi: fianchi ripidi delle alture.
Giovanni
21. guidalesche: finimenti.
Verga e il Verismo italiano
piaghe
prodotte
dai
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947 Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. 4 Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella.
E dopo averci pensato su un po’: - Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto”, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io. Dalì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera doveva
portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con. un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato,
aggiunse: - Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo” della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: - E meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo. Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero
Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul letto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchwo sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s'era era andata asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed battevano, lo se poi, in D'ora a stare a Cifali colla figliuola maritata e avevano chiusa la porta di casa. il grigio o come a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come
i o Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla. teneva nascosto sì e visto, mai s'era non Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che se lo pigliavano e prigione, dalla scappato era il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che 22. là sotto: contrariamente a quanto asserisce Ranocchio delle persone buone, non è andato in cielo.
23. ribrezzo: impressione di freddo, che fa rabbrividire.
Rosso Malpelo
948 era un ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione guare dentro là chiusi sempre tenevano si e lui, come malarnesi luogo dove si mettevano i ladri, e i dati a vista.
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Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi. - Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo. - Perché non sono malpelo come te! - rispose lo Sciancato. - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa.
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa
andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma a_ ogni modo, però, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo, per tutto l’oro del mondo. Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza
che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più sì seppe nulla di lui. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.
ANALISI DEL TESTO Il racconto occupa una posizione fondamentale sull’arco dell’opera verghiana: è infatti il testo che dà inizio alla fase “verista” dello scrittore. Un tempo si collocava la svolta verista in Nedda, che abbandonava gli ambienti mondani dei primi romanzi e affrontava l’ambiente popolare siciliano. Ma, come abbiamo visto (cfr. T203), non sono i contenuti in astratto a qualificare il verismo verghiano, bensì i procedimenti formali, e la visione che essi esprimono. Subito la frase iniziale evidenzia la rivoluzionaria novità dell’impostazione narrativa verghiana: affermare che Malpelo ha i capelli rossi «perché è un ragazzo malizioso e cattivo» è una stortura logica, che rivela un pregiudizio superstizioso, proprio di una mentalità primitiva. La voce che racconta non è dunque al livello dell’autore reale, non è portavoce della sua visione del mondo, ma è al livello dei personaggi, è interna al mondo rappresentato, e ne riflette l’inconfondibile visione (anche se non coincide con uno specifico e ben indi-
Il primo testo verista di Verga
Il narratore al livello dei personaggi
viduato personaggio). L’autore si è «eclissato», si è messo «nella pelle» nei suoi personaggi,
vede le cose «coi loro occhi» e le esprime «colle loro parole». L'apertura del racconto presenta immediatamente il procedimento della “regressione”, mediante cui si attua il basilare principio dell’impersonalità. Scompare il narratore onnisciente, portavoce dello scrittore stesso, che era l'elemento caratterizzante della narrativa del primo Ottocento, in Manzoni, Scott, Balzac.
Non essendo onnisciente, ma portavoce di un ambiente popolare primitivo e rozzo, il narratore di Rosso Malpelo non è depositario della verità, come è proprio dei narratori tradizionali. Difatti ciò che ci dice del protagonista non è attendibile: il narratore non capisce le motivazioni dell'agire di Malpelo, le deforma sistematicamente. Alcuni esempi sono molto evidenti. Dopo la morte del padre nel crollo della galleria Rosso scava con accanimento, ed ogni tanto si ferma, ascoltando. È facile intuire che scava nella speranza di riuscire ancora
a salvare il padre, e si ferma cercando di udire la sua voce al di là della parete di sabbia;
ma il narratore non capisce questi suoi sentimenti filiali, e attribuisce il suo comportamento
in base al pregiudizio del “Malpelo”, alla sua strana cattiveria («sembrava che stesse ad
ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussurrasse negli orecchi»). Più avanti, Malpelo Giovanni
Verga e il Verismo italiano
L’inattendibilità del narratore
949 tributa un vero e proprio culto alle reliquie del padre morto, gli strumenti, i calzoni, le scarpe: ciò dimostra in lui un attaccamento profondo, una pietas filiale per l’unica persona che gli voleva bene. Anche qui è facile intuire che cosa si muova nel suo animo, dolore, rimpianto.
L’effetto
Ma ancora una volta il comportamento del personaggio resta impenetrabile al narratore, che riflette la visione ottusa e disumanizzata di un ambiente duro come quello della cava (« rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio»). Infine, Rosso prende a ben volere Ranocchio, lo protegge, gli vuole insegnare le leggi brutali che regolano la vita, e si toglie il pane di bocca per darlo all’amico. Il narratore interpreta, riproducendo evidentemente l'opinione corrente nella cava: «per prendersi il gusto di tiranneggiarlo». _ Qualè la funzione di questo sistematico stravolgimento della figura del protagonista? E evidente dal montaggio del racconto che Rosso, pur essendosi formato nell'ambiente disumano della cava, ha conservato alcuni valori autentici, disinteressati: la pietà filiale, il senso della giustizia (si sdegna contro il padrone, responsabile dell’“ omicidio bianco” di cui il padre
di straniamento
è stato vittima), l'amicizia, la solidarietà altruistica. Il punto di vista del narratore “basso”,
La negazione della praticabilità dei valori | Lo straniamento rovesciato
La smentita della mitizzazione romantica del popolo
con le sue deformazioni e incomprensioni, esercita su questi valori un processo di straniamento (cfr. M22): fa apparire strano, incomprensibile, ciò che dovrebbe essere normale, i sentimenti autentici, i valori. Ciò deriva dal fatto che il narratore è il portavoce della visione di un mondo disumano, che ignora i valori, e conosce solo l’interesse e la forza. Lo straniamento che scaturisce dall’accettazione del punto di vista che domina la realtà oggettiva ha così la funzione di negare i valori, di mostrarne l’impraticabilità in un mondo dominato dal meccanismo brutale della lotta per la vita, che non lascia alcuno spazio ai sentimenti disinteressati. L’artificio narrativo è quindi gravido di significato: con la scelta di narrare dal punto di vista degli operai della cava, Verga esprime tutto il suo pessimismo. Ma si verifica anche uno straniamento in senso inverso, nei confronti del narratore: poiché chi conduce il racconto è proprio chi è portatore di quella visione disumana, ciò che dovrebbe essere strano, l’insensibilità totale ai valori, finisce per apparire normale: ciò denuncia con incisiva evidenza, sempre senza interventi giudicanti dal punto di vista dell’autore, lasciando parlare le cose stesse, lo stravolgimento profondo che domina nella visione del mondo di quell’ambiente e nei rapporti sociali che lo regolano (Luperini). Non va dimenticato che si tratta di un ambiente popolare: ciò dimostra come qui il mondo popolare non sia affatto mitizzato nostalgicamente come paradiso di innocenza e autenticità, ma sia dominato dalle stesse leggi che regolano anche gli strati più evoluti, la società delle «Banche» e delle «Imprese industriali». Questa soluzione costituisce la smentita amara delle tendenze romantiche che erano presenti in Verga nei confronti del mondo popolare (cfr. Fantastiche ria, T205). Non tutto il racconto è però impostato sull’effetto di deformazione e straniamento della figura del protagonista. Se nella prima parte Malpelo è visto solo dall’esterno, dal punto di vista ottuso e malevolo del suo ambiente, e le motivazioni dei suoi atti restano incom-
Il punto di vista del protagonista
La consapevolezza dell’eroe
In Rosso si proietta il pessimismo di Verga
prensibili al narratore (sicché solo per induzione il lettore le può ricostruire), nella seconda parte emerge il punto di vista del protagonista stesso, e possiamo allora sapere che cosa pensa e che cosa sente. Affiora così la visione cupa e pessimistica del ragazzo indurito dalla disumanità di quella vita di fatiche, patimenti e angherie. Rosso ha colto perfettamente l’essenza della legge che regola tutta la realtà, quella sociale come quella naturale: la lotta per la vita, in cui prevale il più forte, e il più debole rimane schiacciato. E su questa presa di del reale coscienza regola tutta la sua condotta. Da questa consapevolezza della negatività non nasce però in Malpelo la rivolta: proprio perché ha capito fino in fondo, egli sa che quella legge è immodificabile, e quindi non resta che adattarsi, con «disperata rassegnazione». Ma in lui c'è anche l’«orgoglio» di aver capito: e ciò lo distingue dal mondo in cui vive. Egli interpreta la realtà e agisce in base agli stessi principi che regolano quel mondo, ma, mentre gli operai della cava vivono inconsapevolmente quelle leggi, e non arrivano a capirne la vera natura, riducendo la loro vita a semplice riflesso meccanico, Rosso ne sa cogliere con chiarezza l’essenza, e stabilisce un distacco conoscitivo rispetto alla realtà. Nelle vesti del povero garzone di una cava si delinea perciò la figura di un eroe intellettuale, portatore di una consapevolezza lucida dei meccanismi di una realtà tragica quanto immodificabile. In lui si proietta evidentemente il pessimismo dello scrittore stesso, la sua visione lucida Verga ma disperatamente rassegnata della negatività di tutta la realtà, sociale e naturale. rapdi consente gli che conoscitivo distacco non sa proporre alternative, però conserva un l . negatività quella acutezza ria . presentare con straordina che inauSi può cogliere allora l’importanza dell’impostazione narrativa della novella, Rosso Malpelo
950 gura tutto il modo di narrare del Verga verista: la materia in astratto (i patimenti di un povero orfano incompreso e maltrattato) potrebbe essere quella di un racconto umanitario, edificante e patetico, teso a suscitare facile commozione, come ce ne sono tanti nella letteratura ottocentesca. Ma il modo in cui viene raccontata trasforma Rosso Malpelo in un’analisi dura e impietosa delle leggi sociali, dotata di altissimo valore conoscitivo e critico.
EIBUEI PROPOSTE DI LAVORO —
tene
L’importanza della forma narrativa
e
È
. Cercare tutti i punti in cui appare una manifesta incomprensione e deformazione dell’agire del personaggio.
N.
Quando incomincia a manifestarsi il punto di vista di Rosso? Attraverso quali strumenti? (ad esempio, discorso diretto, indiretto, indiretto libero).
. Ricostruire la “filosofia” di Rosso dalle sue varie enunciazioni.
. Quali suoi atti si possono interpretare come applicazione della sua “filosofia”? . Qual è la visione della realtà del narratore? Su quali principi si basa? Da che cosa lo si desume? . Si legga la redazione originale (1880) della novella (si può trovare in Tutte /e novelle a cura di C. Riccardi, Collezione | Meridiani, Mondadori, Milano 1979). Si individuino le varianti più significative: si possono cogliere tracce di un'impostazione narrativa diversa? N.
Tra i sentimenti autentici che restano in Rosso, e la “filosofia” disperatamente rassegnata che si costruisce, c'è un’evidente contraddizione. In quali punti si può ravvisare?
8. L’analisi del testo ha privilegiato il livello del “discorso”. Si esamini anche il livello della “storia” (per “storia” e “discorso” cfr. M1). a) Si ricostruisca il sistema dei personaggi e la serie dei rapporti funzionali che li legano (tra eroe, antagonisti, vittime, aiutanti). b) Si ricostruisca la fabula nella successione cronologica. c) Nell’intreccio si individuino nuclei e satelliti (può aiutare l’analisi di R. Luperini, Verga e /e strutture narrative del realismo, Liviana, Padova 1976). d) Si studi il tempo narrativo: 1) Si individuino le zone di narrazione singolative e iterative. 2) Si distinguano le scene dalle zone riassuntive. 3) E possibile stabilire la durata del tempo della storia? 9. Il racconto è leggibile a più livelli, con diverse metodologie. Può essere fruttuosa una lettura in chiave psicanalitica e simbolica. } a) Quale rapporto lega Rosso al padre? E alla madre? Perché alla fine della vicenda si avvia alla morte con gli arnesi del padre? b) Rosso diviene un personaggio leggendario dopo la morte. Perché lo era già prima in qualche modo? c) Rosso sceglie di morire nelle viscere della terra. Perché? Quali elementi preannunciano questa scelta nel corpo del racconto? d) Rosso ha tratti che rimandano all’eroe romantico “maledetto”: quali? Un aiuto a questo tipo di analisi si può trovare nell'opera citata di R. Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo, nonché in G. Pirodda, L’eclissi dell'autore, Cagliari 1976.
10. Per una lettura sociologica, Luperini nell’op. cit. ha indicato ì punti di contatto della novella con l’/nchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino. 11. Interessante il confronto con la novella di Jeli il pastore (in Verga, Tutte le novelle, cit.). Dopo avere analizzato Jeli il pastore con gli stessi strumenti applicati a Rosso Malpelo, cogliere le. analogie e le differenze. Riflettere se la definizione di Rosso Malpelo come eroe intellettuale possa adattarsi anche a Jeli. Ovvero, mentre Rosso raggiunge la coscienza critica della propria condizione, si può dire lo stesso anche di Jeli?
— Cfr. La critica, C55.
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
951 M22 La definizione dei formalisti russi
Lo straniamento
nei Malavoglia
Lo straniamento rovesciato
Lo straniamento
Nelle opere veriste del Verga troviamo abbondantemente usato il procedimento narrativo dello straniamento. Lo straniamento fu definito teoricamente dai formalisti russi degli anni ’20 (una corrente critica i cui rappresentanti principali sono Mi Sklovskij, B. Ejchembaum, Y. Tynianov, B. Toma$evskij, che insisteva sugli aspetti tecnici e formali dell’arte, giungendo addirittura a identificare l’arte con l’«artificio», cioè con i procedimenti tecnici mediante cui si costruisce il discorso letterario), e consiste nell’adottare, per narrare un fatto e descrivere una persona, un punto di vista completamente estraneo all’oggetto. Famoso ad esempio è un racconto di Tolstoj, Cholstomer, in cui i rapporti umani sono riflessi nell’ipotetica psicologia di un cavallo. Il risultato è che le cose più abituali, “normali”, presentate attraverso un punto di vista estraneo, appaiono insolite, strane, incomprensibili. Questo avviene frequentemente nei racconti e nei romanzi verghiani. Nei Malavoglia ad esempio i sentimenti autentici e disinteressati che sono propri dei protagonisti vengono spesso filtrati attraverso il punto di vista della collettività del villaggio, che a quei valori è completamente insensibile, e che giudica solo in base al principio dell’interesse economico e del diritto del più forte. Di conseguenza ciò che è “normale”, secondo la scala di valori universalmente accettata, e partecipata dal lettore, finisce per apparire “strano”, subisce una deformazione che ne stravolge la fisionomia. Ad esempio l'onestà di padron ’Ntoni, che pur di non mancar di parola riguardo al debito lascia che la sua casa venga pignorata, si trasforma in una vera e propria truffa nell’ottica stravolta di padron Cipolla, che accettava per nuora Mena Malavoglia solo se portava in dote delle proprietà; e sempre per lo stesso motivo padron ’Ntoni viene giudicato «minchione» dalla comunità, perché incapace di fare i suoi affari; così pure la purezza dei sentimenti che uniscono Alfio e Mena viene deformata dall’ottica grossolana di zio Crocifisso in una «rabbia» di maritarsi; e gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Questo tipo di straniamento compare quando sono in scena personaggi “ideali”, come i Malavoglia, che sono l’antitesi del punto di vista dominante nella narrazione. Ma quando sono in scena i loro antagonisti, i personaggi gretti, meschini e insensibili sino alla crudeltà che compongono il coro del villaggio, si verifica una forma di straniamento per così dire “rovesciata”: infatti, siccome il punto di vista di chi racconta è perfettamente in armonia con quello dei personaggi, il loro comportamento ottuso e crudele, invece di apparire nella sua vera luce, viene presentato come se fosse normale, o addirittura degno di approvazione. Come si vede è questo l’esatto rovescio del procedimento abituale dello straniamento, che abbiamo prima indicato: là ciò che era “normale” appariva “strano”, qui ciò che è “strano” appare “normale” (tale procedimento è stato individuato nel Verga da R. Luperini, L'orgoglio e la disperata rassegnazione, La nuova sinistra-Savelli, Roma 1974, pp. 47 ss.). Si veda ad esempio l’episodio già citato del pignoramento della casa del nespolo: il comportamento abietto di Piedipapera, che fa da prestanome a zio Crocifisso per spogliare iMalavoglia, e va in giro dicendo che essi sono «una manica di carogne», disonesti, avari e prepotenti, è guardato dal “narratore” popolare come se fosse cosa ovvia e giusta, senza il minimo moto di ripugnanza e di critica. Questa connivenza tra il “narratore” e la crudeltà o l'avidità interessata di un personaggio è forse esemplificata nella maniera più chiara e persuasiva della novella La roba: qui il “narratore” non dimostra mai riprovazione nei confronti di Mazzarò e dei metodi da lui usati per arricchire, la sua avarizia, la sordità ad ogni affetto famigliare, la brutalità nei confronti dei lavoranti, la disumanità verso i fittavoli rovinati e ridotti alla fame dal suo contegno di usuraio, le malversazioni e i raggiri; anzi il comportamento di Mazzarò non appare solo “ normale”, ma addirittura eroico e degno di encomio.
Microsaggio
952 BI / Malavoglia I Toscano, soprannominati «Malavoglia» (nell’uso popolare i soprannomi sono spesso il contrario delle qualità di chi li porta), una famiglia di pescatori di Aci-Trezza, posseggono una casa e una barca, la Provvidenza, che consentono loro una vita «relativamente felice» e tranquilla. Nel 1863 però il giovane ’Ntoni, figlio di Bastianazzo e nipote di padron ’Ntoni, il vecchio patriarca, deve partire per il servizio militare. La famiglia, privata delle sue braccia, si trova in difficoltà, dovendo pagare un lavorante. A ciò si aggiunge una cattiva annata per la pesca, e il fatto che la figlia maggiore, Mena, abbia bisogno della dote per sposarsi. Padron ’Ntoni, per superare le difficoltà, pensa di intraprendere un piccolo commercio: compera a credito dall’usuraio zio Crocifisso un carico di lupini, per rivenderli in un porto vicino. Ma la barca naufraga nella tempesta, Bastianazzo muore e il carico va perduto. I Malavoglia, oltre ad essere colpiti negli affetti, si trovano anche di fronte al debito da pagare. Comincia di qui una lunga serie di sventure. La casa viene pignorata; Luca, il secondogenito, muore nella battaglia di Lissa; la madre, Maruzza, è uccisa dal colera;
la Provvidenza, ricuperata e riparata, naufraga ancora, ei Malavoglia sono costretti ad andare a giornata. La sventura disgrega il nucleo familiare: ’Ntoni, che ha conosciuto la vita delle grandi città, non si adatta. più ad una vita di dure fatiche e di stenti; comincia a frequentare l’osteria e le cattive compagnie, è coinvolto nel contrabbando e, sorpreso, finisce per dare una coltellata alla guardia doganale (spinto anche da motivi di rivalità a causa di donne e da motivi d’onore: don Michele corteggia la sorella minore, Lia). Al processo ’Ntoni ottiene una condanna mite per le attenuanti d’onore, ma Lia, ormai disonorata, fugge dal
paese, e finisce in una casa di malaffare in città. A causa del disonore caduto sulla famiglia, Mena non può più sposare compare Alfio. Il vecchio padron ’Ntoni, atterrato dalle sventure, va a morire all’ospedale. L’ultimo figlio, Alessi, riesce a riscattare la casa del nespolo, continuando il mestiere del nonno. ’Ntoni, uscito
di prigione, torna una notte in famiglia, ma si rende conto di non poter più restare, e si allontana per sempre.
I Malavoglia e la comunità del villaggio: valori ideali e interesse economico E èl capitolo IV del romanzo. Bastianazzo è morto in mare, affondando con la barca carica di lupini. Gli abitanti del paese, seguendo un antico costume rituale, si recano alla casa del morto per la visita
del consòlo, cioè per portare conforto alla famiglia.
Il peggio era che i lupini li avevano presi a credenza!, e lo zio Crocifisso non si contentava di «buone parole e mele fradicie», per questo lo chiamavano Campana di legno, perché non ci sentiva di quell’orecchio, quando lo volevano pagare con delle chiacchiere, e diceva che «alla credenza ci si pensa». Egli era un buon diavolaccio?, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco; ma aveva denari sin che ne volevano e se qualcheduno andava a chiedergli dodici tarì* glieli prestava subito, col pegno, perché «chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l'ingegno» a patto di averli restituiti la domenica, d argento e colle colonne, che ci era un carlino‘ dippiù, com'era giusto, perché «coll’interesse non c’è amicizia». Comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che
l'aveva fatta aveva bisogno subito di denari, non dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano
false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san Francesco”; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo* di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché 1. a credenza: 1 a credito. D 1» s 2. buon diavolaccio: la presentazione è
ciò chee viene detto È 3. tarì: antica moneta
siciliana (in lire
fatta adottando il punto di vista del per- | valeva 42 centesimi e mezzo). sonaggio stesso. Però la realtà effettiva | 4. carlino: moneta che vale mezzo tarì. che si desume dal ritratto è ben diversa da | 5. braccio... san Francesco: la leggenda
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
narra che S an Francesco SaverioI avesse un braccio più lungo a forza di benedire. 6. rotolo: misura di peso (850 grammi).
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| era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. Insomma era la
| pr per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo, e senza essere uomo di mare, aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano la barca del diavolo — e quando gli dicevano perché non ci andasse lui a rischiare la pelle come tutti gli altri, che si pappava ilmeglio della pesca senza pericolo, rispondeva: - Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei? - Egli badava agli affari suoi, ed avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva esser pagato, senza tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perché era sordo, e per di più era scarso di cervello, e non sapeva dir altro che «Quel ch’è di patto non è d’inganno», oppure «Al giorno che promise si conosce il buon pagatore». Ora i suoi nemici gli ridevano sotto il naso, a motivo di quei lupini che se l’era mangiati il diavolo; e gli toccava anche recitare il deprofundis per l’anima di Bastianazzo, quando si facevano le esequie, insieme cogli altri confratelli della Buona Morte, colla testa nel sacco?. [...] La casa del nespolo era piena di gente*, e il proverbio dice: «triste quella casa dove ci è la visita pel marito!». Ognuno che passava, al vedere sull’uscio quei piccoli Malavoglia col viso sudicio e le mani nelle tasche, scrollava il capo e diceva: - Povera comare Maruzza! ora cominciano i guai per la sua casa! Gli amici portavano qualche cosa, com’è l’uso, pasta, ova, vino, e ogni ben di Dio, che ci avrebbe voluto il cor contento per mangiarsi tutto, e perfino compar Alfio Mosca era venuto con una gallina per mano. — Prendete queste qua, gnà° Mena, - diceva - che avrei voluto trovarmici io al posto di vostro padre, vi giuro. Almeno non avrei fatto danno a nessuno!, e nessuno avrebbe pianto. La Mena, appoggiata alla porta della cucina, colla faccia nel grembiule, si sentiva il cuore che gli sbatteva e gli voleva scappare dal petto, come quelle povere bestie che teneva in mano. La dote di Sant'Agata se n’era andata colla Provvidenza, e quelli che erano a visita nella casa del nespolo, pensavano che lo zio Crocifisso ci avrebbe messo le unghie addosso. Alcuni se ne stavano appollaiati sulle scranne, e ripartivano senza aver aperto bocca, da veri baccalà che erano; ma chi sapeva dir quattro parole, cercava di tenere uno scampolo di conversazione, per scacciare la malinconia, e distrarre un po’ quei poveri Malavoglia i quali piangevano da due giorni come fontane. Compare Cipolla raccontava che sulle acciughe c’era un aumento di due tarì per barile, questo poteva interessargli a padron ’Ntoni, se ci aveva ancora delle acciughe da vendere; lui a buon conto se n’era riserbati un centinaio di barili; e parlavano pure di compare Bastianazzo, buon’anima, che nessuno se lo sarebbe aspettato, un uomo nel fiore dell’età, e che crepava di salute, poveretto! [...] Don Silvestro per far ridere un po’ tirò il discorso sulla tassa di successione di compar Bastianazzo, e ci ficcò così una barzelletta che aveva raccolta dal suo avvocato, e gli era piaciuta tanto, quando gliel’avevano spiegata bene, che non mancava di farla cascare nel discorso ogniqualvolta si trovava a visita da morto. - Almeno avete il piacere di essere parenti di Vittorio Emanuele, giacché dovete dar la sua parte! anche a lui. E tutti si tenevano la pancia dalle risate, ché il proverbio dice: «Né visita di morto senza riso, né
sposalizio senza pianto». [...] Don Silvestro faceva il gallo colle donne, e si muoveva ogni momento col pretesto di offrire le scranne ai nuovi arrivati, per far scricchiolare le sue scarpe verniciate. - Li dovrebbero abbruciare tutti quelli delle tasse! — brontolava comare Zuppidda, gialla come se avesse mangiato dei limoni, e glielo diceva in faccia a don Silvestro, quasi ei fosse quello delle tasse. - Ella lo sapeva benissimo quello che volevano certi mangiacarte che non avevano calze sotto gli stivali inverniciati !’,e cercavano di ficcarsi in casa!* della gente per papparsi la dote e la figliuola: «Bella, non voglio te, voglio 7. testa nel sacco: il cappuccio che è la divisa della confraternita. 8. La casa ... gente: era antica consuetudine far visita ai parenti del morto portando offerte di vari cibi.
9. gnà: appellativo caratteristico del dialetto siciliano. 10. danno a nessuno: perché non ha famiglia. 11. la sua parte: la tassa di successione.
12. calze ... inverniciati: la Zuppidda insiìnua che don Silvestro, benché ostenti del lusso, è rimasto uno zoticone.
13. ficcarsi in casa: don Silvestro vuole sposare Barbara Zuppidda.
I Malavoglia
954 i tuoi soldi». Per questo aveva lasciata a casa sua figlia Barbara. - Quelle facce lì non mi piacciono. - A chi lo dite! - esclamò padron Cipolla - a me mi scorticano vivo come san Bartolomeo.
i
- Benedetto Dio! - esclamò mastro Turi Zuppiddo, minacciando col pugno che pareva la malabestia!' del suo mestiere. - Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani! — Voi state zitto! - gli diede sulla voce comare Venera - ché non sapete nulla. ! - Io dico quel che hai detto tu, che ci levano la camicia di dosso, ci levano! - borbottò compare Turi, mogio mogio. i Allora Piedipapera, per tagliar corto, disse piano a padron Cipolla: - Dovreste pigliarvela Voi, comare Barbara, per consolarvi; così la mamma e la figliuola non si darebbero più l’anima al diavolo. - È una vera porcheria! - esclamava donna Rosolina, la sorella del curato, rossa come un tacchino, e facendosi vento col fazzoletto; e se la prendeva con Garibaldi che metteva le tasse!, e al giorno d’oggi non si poteva più vivere, e nessuno si maritava più. - O a donna Rosolina cosa gliene importa. oramai? - sussurrava Piedipapera. - Donna Rosolina intanto raccontava a don Silvestro le grosse faccende che ci aveva per le mani: dieci canne! di ordito sul telaio, i legumi da seccare per l’inverno, la conserva dei pomidori da fare, che lei ci aveva un segreto tutto suo per avere la conserva dei pomidoro fresca tutto l’inverno. - Una casa senza donna non poteva andare; ma la donna bisognava che avesse il giudizio nelle mani, come s’intendeva lei; e non fosse di quelle fraschette che pensano a lisciarsi e nient’altro, «coi capelli lunghi e il cervello corto», ché allora un povero marito se ne va sott'acqua come compare Bastianazzo, buon’anima. - Beato lui! - sospirava la Santuzza - è morto in un giorno segnalato, la vigilia dei Dolori di Maria Vergine, e prega lassù per noi peccatori, fra gli angeli e i santi del paradiso. «A chi vuol bene Dio manda pene». Egli era un bravo uomo, di quelli che badano ai fatti loro, e non a dir male di questo e di quello, e peccare contro il prossimo, come tanti ce ne sono. Maruzza allora, seduta ai piedi del letto, pallida e disfatta come un cencio messo al bucato, che pareva la Madonna Addolorata, si metteva a piangere più forte, col viso nel guanciale, e padron ’Ntoni, piegato in due, più vecchio di cent'anni, la guardava, e la guardava, scrollando il capo, e non sapeva che dire per quella grossa spina di Bastianazzo che ci aveva in cuore, come se lo rosicasse un pescecane. - La Santuzza ci ha il miele in bocca! - osservava comare Grazia Piedipapera. — Per fare l’ostessa - rispose la Zuppidda - e’ s'ha ad essere così. «Chi non sa l’arte chiuda bottega, e chi non sa nuotare non si anneghi». [...] — Metteranno pure la tassa sul sale! - aggiunse compare Mangiacarrubbe. - L’ha detto lo speziale che è stampato nel giornale. Allora di acciughe salate non se ne faranno più, e le barche potremo bruciarle nel focolare. Mastro Turi il calafato stava per levare il pugno e incominciare: - Benedetto Dio! - ma guardò sua moglie e si tacque mangiandosi fra i denti quel che voleva dire. - Colla malannata che si prepara - aggiunse padron Cipolla, ché non pioveva da santa Chiara e se non fosse stato per l’ultimo temporale in cui si è persa la Provvidenza, che è stato una vera grazia
di Dio, la fame quest’inverno si sarebbe tagliata col coltello!
Ognuno raccontava i suoi guai, anche per conforto dei Malavoglia, che non erano poi i soli ad averne. «Il mondo è pieno di guai, chi ne ha pochi e chi ne ha assai», e quelli che stavano fuori nel cortile guardavano il cielo, perché un’altra pioggerella ci sarebbe voluta come il pane. Padron Cipolla lo sapeva lui perché non pioveva più come prima. - Non piove più perché hanno messo quel maledetto filo del telegrafo, che si tira tutta la pioggia, e se la porta via -. Compare Mangiacarrubbe allora, e Tino Piedipapera rimasero a bocca aperta, perché giusto sulla strada di Trezza c'erano i pali del telegrafo; ma siccome don Silvestro cominciava a ridere, e a fare ah! ah! ah! come una gallina, padron Cipolla si alzò dal muricciolo infuriato, e se la prese con gli ignoranti, che avevano le orecchie lunghe come gli asini. — Che non lo sapevano che il telegrafo portava le notizie da un luogo all’altro; questo succedeva perché dentro il filo ci era un certo succo come nel tralcio della vite, e lo stesso modo si tirava la pioggia dalle nuvole, e se la portava lontano, dove ce n’era più di bisogno; potevano andare a domandarlo allo speziale che l’aveva detta; e per questo ci avevano messa la legge che chi rompe il filo del 14. malabestia: specie di ascia o martello
che serve per spingere la stoppa nelle commessure delle barche. 15. Garibaldi ... tasse: nella prospettiva
Giovanni
| della gente ignorante del villaggio lo stato italiano è identificato con Garibaldi. 16. canne: unità di misura.
Verga e il Verismo italiano
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| cc va ìn prigione. Allora anche don Silvestro non seppe più che dire, e si mise la lingua in | tasca". - Santi del paradiso! si avrebbero a tagliarli tutti quei pali del telegrafo, e buttarli nel fuoco! -
| incominciò compare Zuppiddo, ma nessuno gli dava retta, e guardavano nell'orto, per mutar discorso.
- Un bel pezzo di terra! - diceva compare Mangiacarrubbe - quando è ben coltivato dà la minestra | per tutto l’anno. La casa dei Malavoglia era sempre stata una delle prime a Trezza; ma adesso colla morte di Bastianazzo, e ’Ntoni soldato, e Mena da maritare, e tutti quei mangiapane!* pei piedi, era una casa che faceva acqua da tutte le parti. Infine cosa poteva valere la casa? Ognuno allungava il collo sul muro dell’orto, e ci dava un’occhiata, per stimarla così a colpo. Don Silvestro sapeva meglio di ogni altro come andassero le cose, perché le carte le aveva lui, alla segreteria di Aci Castello. — Volete scommettere dodici tarì che non è tutt’oro quello che luccica - andava dicendo; e mostrava ad ognuno il pezzo da cinque lire nuovo. Ei Sapeva che sulla casa c’era un censo!’ di cinque tarì all’anno. Allora si misero a fare il conto sulle dita di quel che avrebbe potuto vendersi la casa, coll’orto e tutto. — Né la casa né la barca si possono vendere perché ci è su la dote? di Maruzza - diceva qualchedun altro, e la gente si scaldava tanto che potevano udirli dalla camera dove stavano a piangere il morto. - Sicuro! — lasciò andare alfine don Silvestro come una bomba - c’è l’ipoteca dotale. Padron Cipolla, il quale aveva scambiato qualche parola con padron ’Ntoni per maritare Mena con suo figlio Brasi, scrollava il capo e non diceva altro. — Allora - aggiunse compare Turi - il vero disgraziato è lo zio Crocifisso che ci perde il credito dei suoi lupini. Tutti si voltarono verso Campana di legno il quale era venuto anche lui, per politica, e stava zitto, in un cantuccio, a veder quello che dicevano, colla bocca aperta e il naso in aria, che sembrava stesse contando quante tegole e quanti travicelli c'erano sul tetto, e volesse stimare la casa. I più curiosi allungavano il collo dall’uscio, e si ammiccavano l’un l’altro per mostrarselo a vicenda. - E pare l’usciere che fa il pignoramento! - sghignazzavano. Le comari che sapevano delle chiacchiere fra padron ’Ntoni e compare Cipolla, dicevano che adesso bisognava farle passare la doglia, a comare Maruzza, e conchiudere quel matrimonio della Mena. Ma la Longa in quel momento ci aveva altro pel capo, poveretta. Padron Cipolla voltò le spalle freddo freddo, senza dir nulla; e dopo che tutti se ne furono andati, i Malavoglia rimasero soli nel cortile. - Ora - disse padron ’Ntoni - siamo rovinati, ed è meglio per Bastianazzo che non ne sa nulla. A quelle parole, prima Maruzza, e poi tutti gli altri tornarono a piangere di nuovo, e i ragazzi, vedendo piangere i grandi, si misero a piangere anche loro, sebbene il babbo fosse morto da tre giorni. Il vecchio andava di qua e di là, senza sapere che facesse; Maruzza invece non si muoveva dai piedi del letto, quasi non avesse più nulla da fare. Quando diceva qualche parola, ripeteva sempre, cogli occhi fissi, i e pareva che non ci avesse altro in testa. - Ora non ho più niente da fare! - No! - rispose padron ’Ntoni - no! ché bisogna pagare il debito allo zio Crocifisso, e non si deve i dire di noi che «il galantuomo come impoverisce diventa birbante». E il pensiero dei lupini gli ficcava più dentro nel cuore la spina di Bastianazzo. Il nespolo lasciava
cadere le foglie vizze, e il vento le spingeva di qua e di là pel cortile.”
— Egli è andato perché ce l’ho mandato io, - ripeteva padron ’Ntoni - come il vento porta quelle foglie di qua e di là, e se gli avessi detto di buttarsi dal fariglione® con una pietra al collo, l'avrebbe fatto senza dir nulla. Almeno è morto che la casa e il nespolo sino all’ultima foglia erano ancora suol; ed io che son vecchio sono ancora qua. «Uomo povero ha i giorni lunghi». Maruzza non diceva nulla, ma nella testa ci aveva un pensiero fisso che la martellava, e le rosicava
e pe consenso. | l'imposta. 21. fariglione: scogli lavici che sorgono 20. la dote: nel contratto nuziale erano la contropartita della dote di Maruzza e | dal mare di fronte ad Aci-Trezza. potevano essere vendute senza il suo non 19. censo: reddito calcolato come base per | 17. la lingua in tasca: ammutolì.
18. mangiapane: bambini che non lavorano.
I Malavoglia
956 agli occhi, e se li chiuil cuore, di sapere cos'era successo in quella notte, che l'aveva sempre dinanzi era liscio a di vedere ancora la Provvidenza, là verso il Capo dei Mulini, dove il mare deva le sembrav o contare ad una e turchino, e seminato di barche, che sembrano tanti gabbiani al sole, e si potevan e la paranza Cola, zio ad una, quella dello zio Crocifisso, l’altra di compare Barabba, la Concetta dello a squarcantava quale il o di padron Fortunato, che stringevano il cuore; e si udiva mastro Turi Zuppidd
ciagola, con quei veniva dal greto, a piangere cheta - Poveretta! —
suoi polmoni di bue, mentre picchiava colla malabestia, e l'odore del catrame che e la tela che batteva la cugina Anna sulle pietre del lavatoio, e si udiva pure Mena . cheta in cucina. mormorava il nonno — anche a te è crollata la casa sul capo, e compare Fortunato
se ne è andato freddo freddo, senza dir nulla. E andava toccando ad uno ad uno gli arnesi che erano in mucchio in un cantuccio, colle mani tremanti, come fanno i vecchi; e vedendo Luca lì davanti, che gli avevano messo il giubbone del babbo, e gli arrivava alle calcagna, gli diceva: - Questo ti terrà caldo, quando verrai a lavorare; perché adesso bisogna aiutarci tutti per pagare il debito dei lupini. Maruzza si tappava le orecchie colle mani per non sentire la Locca? che si era appollaiata sul ballatoio, dietro l’uscio, e strillava dalla mattina, con quella voce fessa di pazza, e pretendeva che le restituissero loro il suo figliuolo, e non voleva sentir ragione.
— Fa così perché la fame; - disse infine la cugina Anna - adesso lo zio Crocifisso ce l’ha con tutti loro per quell’affare dei lupini, e non vuol darle più nulla. Ora vo ‘a portarle qualche cosa, e allora se ne andrà. La cugina Anna, poveretta, aveva lasciata la sua tela e le sue ragazze per venire a dare una mano a comare Maruzza, la quale era come se fosse malata, e se l’avessero lasciata sola non avrebbe pensato più ad accendere il fuoco, e a mettere la pentola, che sarebbero tutti morti di fame. «I vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro». Intanto quei ragazzi avevano le labbra pallide dalla fame. La Nunziata? aiutava anche lei, e Alessi, col viso sudicio dal gran piangere che aveva fatto vedendo piangere la mamma, teneva a bada i piccini, perché non le stessero sempre fra i piedi, come una nidiata di pulcini, ché la Nunziata voleva averle libere le mani, lei. - Tu sai il fatto tuo! - le diceva la cugina Anna - e la tua dote ce l’hai nelle mani, quando sarai grande. 22. quella notte: in cui naufragò la Prov- | Provvidenza ed era morto nel naufragio. lini da accudire. Sposerà Alessi alla fine del videnza. 24. Nunziata: ragazzina orfana, abbando- | romanzo, e alla coppia toccherà di ricosti23. la Locca: suo figlio era a giornata sulla | nata dal padre con una nidiata di frateltuire il nucleo della famiglia distrutta.
ANALISI DEL TESTO Il ritratto di zio Crocifisso che apre il capitolo offre un bell’esempio dell’originalissima impostazione narrativa del romanzo. Il personaggio è presentato dall’ottica di un narratore interno al mondo popolare, che condivide pienamente la visione di quell’ambiente, dominata solo dalla logica dell’interesse; oppure (e l'incertezza testimonia quanto la costruzione della pagina sia complessa e sfumata), si può dire che la voce narrante è il riflesso del punto di vista di Crocifisso stesso, riecheggia il suo modo di vedere le cose e il suo modo di esprimersiì; tant'è vero che la presentazione, che all’inizio è fatta dall’esterno, può trasformarsi insensibilmente in un vero e proprio discorso indiretto libero del personaggio («che era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio»). E un procedimento abituale nei Malavoglia: siccome narratore e personaggi hanno la stessa mentalità e lo stesso linguaggio, spesso è difficile stabilire se il discorso appartiene all’uno o agli altri. Nel caso di zio Crocifisso, il risultato di questa ambigua osmosi è che il ritratto dell’usuraio avido e disumano risulta molto benevolo («era la provvidenza per quelli che erano in angustie»), la mancanza di scrupoli con cui strappa i suoi profitti appare perfettamente naturale («ci era un carlino dippiù, com’era giusto»), o si rovescia addirittura in comportamento benefico e meritorio («aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo»); se si affaccia qualche aspetto negativo (le bilance «false come Giuda»), esso è attribuito alla Giovanni
Verga e il Verismo italiano
Il narratore interno al mondo Popolare
L’osmosi tra narratore e ‘ Personaggio
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Lo straniamento rovesciato
Il “coro” del SA grettezza e insensibilità
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I Malavoglia e i valori
Le due polarità dei Malavoglia
malevolenza di «quelli che non erano mai contenti». Si verifica qui il tipico procedimento di straniamento “rovesciato” che si è già individuato in Rosso Malpelo: ciò che è strano, abnorme e ripugnante, l’avidità spietata dell’usuraio, venendo filtrato da un punto di vista che condivide la visione del personaggio stesso, appare normale, giusto e perfino lodevole. Come di consueto, questo tipo di straniamento fa risaltare lo stravolgimento profondo dei valori che si verifica in quella piccola comunità rurale; uno stravolgimento che la rende in tutto equivalente alla società evoluta, borghese e cittadina. Il fitto chiacchierio che percorre tutta la scena successiva della visita del consòlo non è una colorita scena di commedia, costruita per suscitare il sorriso indulgente sull’ingenuità primitiva di quei popolani, come è stato detto da taluni critici. Emergono al contrario la chiusura mentale, la grettezza interessata, l’insensibilità ai limiti della crudeltà che sono proprie della comunità paesana, e che lasciano un’impressione cupa, desolata, soffocante. Si pensi solo all’agghiacciante battuta di padron Cipolla, sull’«ultimo temporale in cui si è persa la Provvidenza», che «è stato una vera grazia di Dio» per le sue colture agricole. La comicità di Verga non è mai serena e liberatoria, ma sempre amara, sarcastica, intrisa... del suo totale pessimismo sugli uomini e sui moventi delle loro azioni. ma Se nella prima parte del capitolo la scena è occupata dal “coro” del paese, nella seconda »»» parte emergono in primo piano i Malavoglia, che finora sono comparsi solo indirettamente, © attraverso i discorsi degli altri personaggi. Si determina così uno stacco fortissimo rispetto alla precedente sequenza narrativa: alla squallida commedia dell'interesse e dell’egoismo sue si contrappone una prospettiva tragica, la rovina della famiglia che è la rovina di tutto un mì mondo. I Malavoglia, insieme con la cugina Anna e la Nunziata, contro la grettezza ottusa del paese si propongono come portatori di alti valori etici, gli affetti familiari, l'onestà, il‘ rispetto per la parola data, l’altruismo e la solidarietà disinteressata. Muta anche la tecnica narrativa: nella sequenza precedente gli abitanti del villaggio sono sempre presentati solo dall’esterno, attraverso le loro parole e i loro gesti; i Malavoglia invece sono visti anche dall’interno, e si è ammessi a conoscere la loro vita interiore. E un privilegio che, nel corso del romanzo, tocca solo ai Malavoglia, ed è il segno inequivocabile di un privilegio spirituale, che li distingue dalla meschinità del paese. Il capitolo esemplifica quindi perfettamente la presenza di due polarità opposte, che è caratteristica dei Malavoglia: quella della comunità del villaggio, che conosce solo la logica dell’interesse e della forza, ed è il semplice riflesso di un mondo regolato dal meccanismo della lotta per la vita, e quella della famiglia Malavoglia, che si ispira invece a valori etici puri e ideali.
207 PROPOSTE DI LAVORO e 1. Individuare, nel ritratto dello zio Crocifisso, i punti in cui il discorso del narratore riflette più evidentement la mentalità e il modo di giudicare del personaggio. personaggi, 2. Cercare nel romanzo altri passi in cui il narratore echeggia il modo di pensare e di esprimersi dei come avviene con zio Crocifisso. à disu3. Durante la visita del consòlo in quali battute del “coro” paesano emerge particolarmente l’insensibilit
mana e la grettezza interessata?
4. Individuare i punti in cui emerge l’interiorità dei Malavoglia. funzione. 5. Dopo aver catalogato tutti i proverbi presenti nel capitolo, riflettere sulla loro della Sicilia allo Stato italiano, 6. Quale concezione rivelano alcuni personaggi su certi aspetti dell'annessione quali le tasse, la diffusione del telegrafo?
I Malavoglia
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“vv i
«La conclusione dei Malavoglia: l’addio al mondo pre-moderno Dal cap. XV
... Alessi s'era tolta in moglie la Nunziata, e aveva riscattata la casa del nespolo. — Io non son da maritare; - aveva tornato a dire la Mena! - maritati tu che sei da maritare ancora -;
e così ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e s'era messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma. Ci avevano pure le galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia, e le reti e ogni sorta di attrezzi appesi, il tutto come aveva detto padron ’Ntoni; e la Nunziata aveva ripiantato nell’orto i broccoli ed i cavoli, con quelle braccia delicate che non si sapeva come ci fosse passata tanta tela da imbiancare, e come avesse fatti quei marmocchi grassi e rossi che la Mena si portava in collo pel vicinato, quasi li avesse messi al mondo lei, quando faceva la mamma. Compare Mosca scrollava il capo, mentre la vedeva passare, e si voltava dall’altra parte, colle spalle grosse?. - A me non mi avete creduto degno di quest’onore! - le disse alfine quando non ne poté più, col cuore più grosso delle spalle. - Io non ero degno di sentirmi dir di sì! — No, compar Alfio! - rispose Mena la quale si sentiva spuntare le lagrime. - Per quest’anima pura | che tengo sulle braccia! Non è per questo motivo. Ma io non son più da maritare. - Perché non siete più da maritare, comare Mena? — No! no! —- ripeteva comare Mena, che quasi piangeva. - Non me lo fate dire, compar Alfio! Non mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlar di mia sorella Lia, giacché nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne pentireste. Lasciatemi stare, che non sono da maritare, e mettetevi il cuore in pace. — Avete ragione, comare Mena! - rispose compare Mosca - a questo non ci avevo mai pensato. Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai! Così compare Alfio si mise il cuore in pace, e Mena seguitò a portare in braccio i suoi nipoti, quasi ci avesse il cuore in pace anche lei, e a spazzare la soffitta, per quando fossero tornati gli altri, che ci erano nati anche loro, - come se fossero stati in viaggio per tornare! - diceva Piedipapera. Invece padron ’Ntoni aveva fatto quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d’ Alessandria d’Egitto*, dal quale non si ritorna più; e quando il suo nome cadeva nel discorso, mentre si riposavano, tirando il conto della settimana e facendo i disegni per l’avvenire, all'ombra del nespolo e colle scodelle fra le ginocchia, le chiacchiere morivano di botto, che a tutti pareva d’avere il povero vecchio davanti agli occhi, come l'avevano visto l’ultima volta che erano andati a trovarlo in quella gran cameraccia? coi letti in fila, che bisognava cercarlo per trovarlo, e il nonno li aspettava come un’anima del purgatorio, cogli occhi alla porta, sebbene non ci vedesse quasi, e li andava toccando, per accertarsi che erano loro, e poi non diceva più nulla, mentre gli si vedeva in faccia che aveva tante cose da dire, e spezzava il cuore con quella pena che gli si leggeva in faccia e non la poteva dire. Quando gli narrarono poi che avevano riscattata la casa del nespolo, e volevano portarselo a Trezza di nuovo, rispose di sì, e di sì, cogli occhi, che gli tornavano a luccicare, e quasi faceva la bocca a riso, quel riso della gente che non ride più, o che ride per l’ultima volta, e vi rimane fitto nel cuore come un coltello. Così successe ai Malavoglia, quando il lunedì tornarono col carro di compar Alfio per riprendersi il nonno, e non lo trovarono più. Rammentando tutte queste cose lasciavano il cucchiaio nella scodella, e pensavano e pensavano a tutto quello che era accaduto, che sembrava scuro, scuro, come ci fosse sopra l’ombra del nespolo. Ora quando veniva la cugina Anna a filare un po’ con le comari, aveva i capelli bianchi, e diceva che aveva perso il riso della bocca, perché non aveva tempo di stare allegra, colla famiglia che aveva sulle spalle, e Rocco che tutti i giorni bisognava andare a cercare di qua e di là, per le strade e davanti la bettola, e cacciarlo verso casa come un vitello vagabondo. Anche dei Malavoglia ce n'erano due vagabondi; e Alessi si tormentava il cervello per cercarli dove potevano essere, per
1. tornato ... Mena: Mena aveva poco prima rifiutato la proposta di matrimonio di Alfio, a cui pure era legata da un antico affetto.
Giovanni
Verga e il Verismo
2. colle spalle grosse: curvo per il dolore. 3. gli altri: ’Ntoni e Lia. 4. Trieste ... Egitto: sono l'estremo nord e l'estremo sud delle conoscenze geogra-
italiano
fiche del paese, e sono nomi quasi proverbiali. o. cameraccia: la corsia dell'ospedale.
id È
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i le strade arse di sole e bianche di polvere, che in paese non sarebbero tornati più, dopo tanto
\ |tempo. Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò | ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto |di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano | quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, | perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto | grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore | serrato. Poi "Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene. | Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, | si sentì balzare il cuore in petto, e Mena gli disse tutta smarrita: - Te ne vai?
|
— Sì! - rispose ’Ntoni. — E dove vai? — chiese Alessi.
- Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per altro qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono. Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che egli faceva bene a dir così. ’Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non sapeva
risolversi ad andarsene. - Ve lo farò sapere dove sarò — disse infine, e come fu nel cortile, sotto il
nespolo, che era scuro, disse anche: — E il nonno? Alessi non rispose; ’Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto: - E la Lia, che non l’ho vista? _E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo: — E morta anche lei? Alessi non rispose nemmeno; allora ’Ntoni che era sotto il nespolo, colla sporta in mano, fece per sedersi, poiché le gambe gli tremavano, ma si rizzò di botto, balbettando: - Addio addio! Lo vedete che devo andarmene? Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ’Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva: - Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c'erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra... - Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ’Ntoni disse: - Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa. Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: - Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te. - No! — rispose ’Ntoni. - Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto
di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera,
mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia?
Anch'io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene.
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo. 6. belle chiacchierate: allora le definiva «chiacchiere senza sugo».
I Malavoglia
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- Addio - ripeté ’Ntoni. — Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti. E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci-Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che
fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico. Allora ’Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo. Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva
e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre re!
che luccicavano e la Puddara* che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a. chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che
si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. «Fra poco lo zio Santoro? aprirà la porta», pensò ’Ntoni «e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui». Tornò a guardare il mare, che s'era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta, e disse: - Ora è tempo d’andarmene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu. 7. Tre re: forse la costellazione di Orione. 8. Puddara: le Pleiadi. 9. zio Santoro: il padre della Santuzza,
cieco, che passa le giornate dinanzi all’osteria a chiedere l’elemosina.
ANALISI DEL TESTO Al termine della vicenda, Alessi ricompra la casa del nespolo, e vi ricostituisce un nucleo familiare. La conclusione del romanzo è da vedere come un “lieto fine”, la vittoria dei valori ideali sulla pessimistica analisi di una realtà dominata solo dalla lotta per la vita? Si tratta di pagine molto problematiche, che hanno sollecitato letture diverse. Il Russo, che ha domi-
nato per oltre un quarantennio la critica verghiana, le interpretava come una celebrazione della sacralità della casa e della famiglia, una «cerimonia religiosa», in cui il «tempio» che era stato violato «viene riconsacrato» (anche se non si tratta di un approdo idillico ad un porto di quiete e di benessere). Oggi la critica ha indicato altre direzioni di lettura. Barberi Squarotti osserva che la conclusione del romanzo non è un ritorno esatto al punto di partenza: la famiglia è dispersa, un mondo è scomparso definitivamente. La casa di Alessi non appartiene più ad una civiltà arcaica, ma è la casa dei “tempi nuovi”, il mondo del vapore, della rivoluzione del 1860. Ed in effetti la nota dominante in queste pagine finali è quella del rimpianto, della mancanza, della nostalgia, da parte dei personaggi, di un passato ormai irrecuperabile, non il senso di pienezza tranquilla di un restaurato equilibrio. Luperini, dal canto suo, osserva che il romanzo non si conclude propriamente con la ricostruzione del “nido” famigliare, a cui è dedicata solo una riga frettolosa, ma con la partenza definitiva di ’Ntoni. La conclusione ha dunque il senso di un distacco definitivo, di un addio amaro a quel mondo arcaico, a quello spazio chiuso e mitico, a quel tempo circolare e immobile (si pensi alla ripresa dei ritmi ciclici della vita del villaggio, che è la nota dominante dell’ultima pagina). Verga sa che quel mondo è scomparso, ed è ormai impossibile. Ad esso si contrappone l’eroe che Giovanni
Verga e il Verismo italiano
Un lieto fine”?
L’interpretazione di Russo
L’interpretazione di Bàrberi Squarotti
L’interpretazione di Luperini
961 parte per il mondo del moderno, verso la storia: la «fiumana del progresso» è inarrestabile. Secondo Luperini la conclusione, lungi dall’essere la celebrazione del mondo arcaico e dei suoi valori, è il distacco definitivo di Verga da quell’atteggiamento romantico che lo aveva indotto a cercare nella realtà rurale un «fresco e sereno raccoglimento» e un'alternativa al «progresso». Il paese è allontanato nel passato; e comunque era già un mondo lacerato al suo interno da forti tensioni sociali ed economiche. Continuando su questa linea, nel romanzo successivo del ciclo, il Gesualdo, Verga seguirà il suo eroe, una sorta di prosecuzione del personaggio di ’Ntoni, nel suo viaggio attraverso la realtà moderna, in cui la logica della «roba» domina senza contrasti, e i valori sono impossibili.
T208. PROPOSTE DI LAVORO du
1. Perché compare Alfio accetta la spiegazione di Mena sull’impossibilità delle loro nozze?
2. ’Ntoni lucidamente sa di non poter più restare nella casa del nespolo (cfr. «Anch'io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene»); quali sono le ragioni di questa esclusione? 8. Ritrovare i punti del testo in cui attraverso il discorso indiretto libero di *Ntoni viene descritto il paese di notte ed il suo risvegliarsi all’alba.
4. Individuare i punti del testo in cui è sottolineata la mancanza (di persone o di cose). . Quali aspetti danno il senso della ciclicità della vita del villaggio?
6. Confrontare ’Ntoni, tipico personaggio “escluso”, con Jeli e con Rosso Malpelo; stabilire anche un confronto con padron ’Ntoni e con Alessi.
M23
L’opposizione di fondo e quelle particolari
Il sistema dei personaggi nei Malavoglia
Abbiamo particolarmente insistito sui procedimenti originalissimi in cui prende forma il discorso narrativo nei Malavoglia; è necessario però, per la completezza dell'esame, esaminare il romanzo anche al livello della storia. Utilizziamo per questo una serie di acute indicazioni di R. Luperini, Simbolo e «ricostruzione intellettuale» nei «Malavoglia», in Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Il Mulino, Bologna 1989. Il sistema dei personaggi nel romanzo si fonda sull’opposizione che si è sottolicome valori neata, famiglia Malavoglia vs comunità del paese, che si può specificare in una serie poi articola si generale ione L'opposiz a. economic logica vs disinteressati che sono campi, diversi due dei di opposizioni più particolari tra singoli personaggi te: moralmen e posti in antitesi ideologicamente
Nucleo Malavoglia
Padron ’Ntoni Longa - Mena Padron ’Ntoni - Mena Mena - Nunziata
Villaggio
Zio Crocifisso Venera Zuppidda - Barbara Padron Cipolla - Brasi Vespa - Mangiacarrubbe
opposti: la realtà ora è L'opposizione dà vita anche ad un gioco di punti di vista Microsaggio
962 vista secondo l’ottica dei Malavoglia, cioè secondo l’etica dei valori, ora secondo. La posizione del narratore
Un terreno comune: la visione statica
Un terzo elemento irriducibile: ’Ntoni
l'ottica del paese, cioè la logica economica. Da questa alternanza derivano gli effetti di straniamento. Il narratore in questo gioco bipolare di punti di vista non ha una. posizione netta: ha una fisionomia che si potrebbe definire “camaleontica”, poiché ora si assimila alla visione dei Malavoglia, ora a quella del paese, con quel procedimento di “osmosi”, di confusione delle voci, che si è messo in luce nel ritratto di zio Crocifisso al cap. IV. Al di là dell'opposizione, tra le due polarità è però riconoscibile un terreno comune: la visione statica, tradizionalistica, che respinge il nuovo. e il mutamento, e considera la condizione data a ciascuno come effetto di una legge di natura immodificabile. In questo, due personaggi antitetici come padron ’Ntoni e padron Cipolla risultano equivalenti: se il vecchio Malavoglia proclama «fa l’arte che sai», Cipolla, dal canto suo, condanna aspramente il fatto che i Malavoglia da pescatori si siano fatti «negozianti». Tutti poi condividono la diffidenza e l’ostilità. verso i segni del moderno, le navi a vapore, il treno, i pali del telegrafo. Il sistema non è però perfettamente binario: vi è un terzo elemento che, a ben vedere, è irriducibile ai due termini in opposizione: ’Ntoni. Il giovane non accetta la religione della famiglia e del nido domestico, l’etica del lavoro, del dovere e del sacrificio; ma non coincide neppure del tutto con l’ottica del villaggio, perché non accetta la concezione statica di un ordine sociale che fissa ciascuno alla propria condizione, senza possibilità di mutamento. Nell’universo statico del villaggio, ’Ntoni introduce un elemento perturbante, dinamico: la volontà di spezzare l’immobilismo della tradizione, di uscire dai confini del villaggio, di far fortuna, di salire nella scala sociale. All’accettazione fatalistica di ciò che è, propria degli altri due poli, ’Ntoni contrappone l'inquietudine, l’insoddisfazione perenne, il dinamismo, anche nel senso del movimento spaziale: per ben tre volte, a differenza di tutti gli altri abitanti, esce dai confini del paese, l’ultima per non farvi più ritorno.
M24
Il filone narrativo di ’Ntoni: la linea retta
La struttura dell’intreccio
Dopo aver esaminato il livello della storia dei Malavoglia nella prospettiva del sistema sineronico dei personaggi, vediamolo nel suo sviluppo orizzontale, lungo l’asse sintagmatico della successione dei momenti della vicenda. Poiché il villaggio è un sistema chiuso e immobile, occorre un fattore dinamico che intervenga dall'esterno affinché l’intreccio si avvii: si è visto che è l’irrompere della storia, la trasformazione dell’Italia dopo l’unità. E non a caso il fattore che imprime l’avvio incide su ’Ntoni, il personaggio inquieto e dinamico: la vicenda ha inizio proprio con la sua partenza per il servizio militare; e, simmetricamente, si chiude con il suo allontanamento definitivo dal paese. Al centro si colloca un’altra partenza di ’Ntoni, in cerca di fortuna. Nell’intreccio è dunque ravvisabile innanzitutto un filone che fa capo a ’Ntoni. Esso è raffigurabile graficamente come un percorso rettilineo diviso in tre segmenti, che va in due direzioni, dall'interno del paese verso l'esterno e viceversa (tranne l’ultimo segmento, che ha un’unica direzione. —
I
| Napoli
Il filone narrativo della famiglia: il circolo
Giovanni
II
II mondo esterno
mondo esterno
Ma nell’intreccio vi è un altro filone narrativo, che fa capo alla famiglia. In questo caso si hanno tre momenti: I. La rottura dell’equilibrio preesistente: iMalavoglia, da sempre pescatori, si mettono a «fare i negozianti» col commercio dei lupini. II. Le sventure che derivano dalla rottura iniziale: essa è una violazione del> l'ordine stesso di natura, e la natura infligge la sua sanzione con il naufragi o della Provvidenza; di qui si dipana poi la serie delle sventure successive. HI. La ricomposizione dell’equilibrio: Alessi ricostituisce il “nido” famigliare. Se il filone narrativo di ’Ntoni ha una configurazione rettilinea, quello della fami-
Verga e il Verismo italiano
963 |Il circolo imperfetto
I
glia assume forma circolare; e si svolge tutto all’interno di uno spazio chiuso, quello del paese. Ma si è già osservato che la struttura circolare non è perfett a: il movimento non torna esattamente al punto di partenza. Innanzitutto la staticità originaria dell'universo arcaico del paese è stata compromessa per sempre dall’irruzione della storia; inoltre il “nido” famigliare è ricostituito solo parzialmente; infine il romanzo non si chiude propriamente con la ricostruzione del nucleo famigliare, ma con la partenza di ’Ntoni. Proprio la sua partenza è un fattore decisiv o che impedisce il ricostituirsi dell’equilibrio iniziale del “nido”. ’Ntoni è sempre l'eleme nto di disturbo nel sistema statico del villaggio; la linea della sua vicenda si sovrap pone e interferisce con l’altra, la contraddice, e ne compromette in modo decisiv o la chiusura circolare su se stessa. Il secondo filone narrativo della vicenda si potrà allora formalizzare e rappresentare graficamente così:
I. Violazione dell'equilibrio
II. 1 Naufragio
III. Ricomposizione (parziale)
della Provvidenza
dell'equilibrio
II. 6 Morte di Padron 'Ntoni
II. 2 Pignoramento della casa del Nespolo II. 5 Naufragio definitivo della Provvidenza II. 3 Morte di Luca II. 4 Morte di Maruzza
SPAZIO CHIUSO DEL V ILLASÒ
M25
(O)
Il tempo e lo spazio nei Malavoglia
Vi sono due cadenze temporali nei Malavoglia, come ha indicato Luperini (op. cit.) vi è un tempo segnato dal ritmo delle stagioni, dei lavori agricoli e della pesca, Tempo ciclico e tempo storico
Il ritmo del racconto ,
delle feste religiose: è un tempo non rettilineo ma circolare, che torna costantemente su se stesso, senza sviluppi. A questa dimensione ciclica si sovrappone un tempo storico, che si colloca in progressione lineare dal 1863 al 1878 circa, e vede le tappe del calvario della famiglia, che si intrecciano con gli eventi storici, la leva militare di ’Ntoni, la battaglia di Lissa, il colera, la costruzione della ferrovia in Sicilia. Nei Malavoglia vi è dunque una mescolanza di storia e mito, di romanzo “storico” e romanzo “etnologico”. La duplice scansione temporale riflette perciò il tema centrale del romanzo, il conflitto tra un mondo arcaico e la «fiumana del progresso» che lo sconvolge, compromettendone i ritmi ciclici, e introducendovi elementi perturbanti della modernità. i Ciò si manifesta anche nel ritmo del racconto, cioè nel rapporto tra tempo della storia (TS) e tempo del discorso (TD), 0, se si preferisce, tempo raccontato e tempo Microsaggio
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Spazio interno e spazio esterno
del raccontare. Nella parte iniziale il ritmo narrativo è più lento, tanto che TS e. TD sostanzialmente coincidono: nei primi quattro capitoli l’azione occupa solo quattro giorni. Poi, successivamente, TS si allunga sempre più e TD si accorcia: i capitoli V-IX coprono 15 mesi,icapitoli X-XV circa 12 anni (ricaviamo sempre questi dati da Luperini, op. cit.). E rilevante notare che mentre sino al capitolo IX al centro del racconto è la famiglia, e soprattutto il vecchio patriarca, dal X protagoni-. sta diviene ’Ntoni. Il ritmo lento è proprio del tempo ciclico della famiglia e del villaggio, mentre il ritmo veloce è proprio del tempo storico, che è il tempo di ’Ntoni, il personaggio dinamico, che turba l’assetto statico della famiglia e del paese. All’opposizione tempo mitico - tempo storico corrisponde l’opposizione spazio interno - spazio esterno ai confini del villaggio. Lo spazio interno, noto e rassicu-
al villaggio
rante, è caratterizzato dalla voce sempre uguale del mare, dal ritorno delle costellazioni del cielo, dalla vita della terra e dalle stagioni. Ad un tempo ciclico corrisponde uno spazio chiuso. Lo spazio esterno sfuma invece nell’indeterminato, ha qualcosa di minaccioso. Ciò che viene dallo spazio esterno, navi a vapore, treno, telegrafo, tasse, leva militare, colera, ha un effetto negativo, talora devastante, sullo spazio del villaggio. Però lo spazio chiuso non è uno spazio idillico, un “nido”
La casa del nespolo e il paese
. PROPOSTE
caldamente protettivo. Nella realtà è dominato anch’esso da conflitti feroci e forze devastanti: è lo spazio della lotta per la vita, né più né meno di quello esterno, delle grandi città e del «progresso». Può apparire idillico e mitico solo nella prospettiva dei personaggi, che lo trasfigurano nel loro amore e nella loro nostalgia. E questo effetto è reso possibile dal fatto che l’ottica narrativa è “interna” al mondo rap- — presentato, coincide con quella dei personaggi. All’interno dello spazio chiuso del villaggio si può ritagliare ancora un’opposizione: casa del nespolo vs resto del paese. In questo caso il paese è il termine negativo, la casa quello positivo. Dalla vita sociale del paese provengono minacce e traumi (le iniziative di zio Crocifisso e di Piedipapera, la malignità pettegola del “coro” paesano, le cattive compagnie che traviano ’Ntoni, le insidie di don Michele a Lia, ecc.), e la casa appare come rifugio e protezione. Ma essa è sempre insidiata dalle forze esterne, sino ad essere compromessa; e se alla fine si ripropone, sappiamo bene che è una sopravvivenza parziale, menomata da dolorose mancanze e lacerazioni.
DI LAVORO SUI MALAVOGLIA
©
1. Genesi del romanzo. Seguire i problemi di composizione del romanzo attraverso l’analisi di alcune lettere, ad esempio quelle riportate nel testo (cfr. TT200-201), la lettura della novella Fantasticheria (cfr. T205).
2. A livello del discorso narrativo individuare: . a) le:caratteristiche del linguaggio. Il lessico differisce dalla lingua nazionale? Quali termini sono scritti in corsivo? Qual è la struttura sintattica usata? (cfr. ad esempio l’uso del «che»; l’uso frequente della paratassi).
Qual è la funzione dei proverbi?
b) la regressione del narratore. Individuare i punti del romanzo in cui appare evidente che il narratore non. coincide con l’autore ma con il livello “basso” dei personaggi. c) lo straniamento. Individuare i punti del romanzo in cui i Malavoglia sono presentati dal punto di vista del paese, e la loro immagine ne risulta straniata e deformata. d) Il discorso indiretto libero. Individuare i punti del romanzo in cui si può riconoscere il discorso indiretto libero di un preciso personaggio; individuare anche i punti dove è difficile distinguere se il discorso appartiene a un personaggio o al narratore.
3. A livello della storia (sempre dal punto di vista narratologico) riflettere su: | a) i personaggi. Padron ’Ntoni, ’Ntoni, Alessi, le donne Malavoglia, il resto del villaggio quali caratteristiche psicologiche presentano? In quali valori credono? C'è contrapposizione tra padron ’Ntoni e ’Ntoni? Che cosa rappresentano a livello simbolico? Seguire la figura di ’Ntoni nel suo rifiuto dalla logica della famiglia. Su quali aspetti si verifica il distacco? Secondo Luperini la contrapposizione tra personaggi disinteressati e personaggi cinicamente interessati non è solo morale, ma corrisponde anche ad una distinzione tra piccoli proprietari e lavoratori in proprio, tra ceti improduttivi e produttivi (Luperini 1989). Verificare tale tesi,
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
1
965 analizzando i personaggi portatori dell’ideologia dell’economicità: sono tutti appartenenti al ceto usuraio e improduttivo? b) iltempo. Qual è la durata della vicenda? Ci sono delle date significative che scandiscono il romanzo? Qual è il rapporto tra il tempo del racconto e il tempo della narrazione? 4. A livello tematico individuare: a) la storia. Individuare i punti del romanzo in cui il processo storico esterno entra nell'universo chiuso del villaggio. Riflettere su che cosa rappresenta lo Stato italiano per il villaggio (cfr. in particolare come vengano giudicati il servizio militare, le tasse, l'usura). Quale concezione c’è della modernità?
b) la struttura sociale. Individuare le varie categorie sociali presenti nel villaggio: proprietari, artigiani, bottegai, braccianti... e attribuire ad esse ivari personaggi. È possibile una mobilità sociale all’interno del villaggio? c) la struttura economica. || villaggio siregge su un’economia moderna, aperta, capitalistica o su un modello arcaico, immobile e feudale? Il «negozio dei lupini» tentato da padron ’Ntoni in quale modello economico rientra? Perché fallisce? Qual è la logica economica del villaggio? Coincide con quella dei Malavoglia? Individuare i punti del romanzo in cui il narratore si fa portavoce della logica del villaggio e i punti in cui, al con-
trario, assume l’ottica disinteressata dei Malavoglia. d) l'ideologia. La rappresentazione che Verga dà del mondo popolare è idilliaca e romanticamente nostalgica o cruda e realistica? La concezione della realtà presentata è statica o dinamica? Intorno a quale modello di vita ruota l’«ideale dell’ostrica»? Quale concezione della modernità è presente nel romanzo? La lotta per la vita come si manifesta? Individuare i punti del romanzo in cui si manifesta il tema dell’esclusione. Individuare gli aspetti del romanzo che rivelano il totale pessimismo dello scrittore.
+ Cfr. La critica, C50-51-53-54
dalle Novelle rusticane
La roba La novella fu pubblicata originariamente sulla rivista «La Rassegna settimanale» nel dicembre 1880, poi raccolta nel 1883 nelle Novelle rusticane. -
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini!, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta - sentiva la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? magazzini rispondersi: - Di Mazzarò. - E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi che si metteche sembravano chiese, e le galline a stormi accoccolate all'ombra del pozzo e le donne e cammina, cammina E vano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? - Di Mazzarò. passando cane, un di mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all'improvviso l’abbaiare addosso pesasse gli come per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, sonnaccapo il levava vallone, al la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto
uliveto folto come un chioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di Mazzarò. - Poi veniva un
Erano gli ulivi di Mazzarò. bosco, dove l'erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. si velava di tristezza, campagna la e fuoco, E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il dal maggese?, e adagio adagio tornavano si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che lontani
vedevano nei pascoli i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell'acqua scura; e si mandre di Mazzarò; e sì delle biancastre macchie della Canziria*, sulla pendice brulla, le immense ora sì ed ora no, e risuonava che o campanacci il e udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, 1. Biviere di Lentini: lago di Lentini, in provincia di Siracusa.
che torna più volte 2. maggese: campo lasciato riposare senza | 3. Canziria: fattoria nelle opere di Verga. essere seminato.
La roba
966 Mazzarò perfin i il canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di iarsi col volo. rannicch a andavano che uccelli il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli
tutto grande è breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso omiciattolo, un era egli Invece pancia. sulla sse per quanto era grande la terra, e che gli sì cammina altro che aveva non grasso di e vederlo; a baiocco, un dato diceva il lettighiere, che non gli avreste di pane; soldi due che altro a mangiav non perché , riempirla a la pancia, e non si sapeva come facesse mo. quell'uo brillante, un ch'era testa la aveva ma e sì ch'era ricco come un maiale; Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere‘, col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore’; ma egli portava ancora il berretto”, soltanto lo portava di seta nera, la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva. la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla | sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello”, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della ._ giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto
della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto* alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e
le lasagne si scodellavano nelle madie® larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo, dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripe-
tere: - Curviamoci, ragazzi! — Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria! il re sì pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava
scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più
di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re!!, o gli
altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci
4. zappare ... mietere: prima di arricchirsi Mazzarò era un bracciante che lavorava a giornata. a 1 5. eccellenza ... pagatore: l'aristocrazia spesso era impoverita. 6. berretto: il copricato tipico dei ceti
Giovanni
| subalterni. Il cappello era invece il contras10. fondiaria: l'imposta fondiaria, pagata | segno dei ceti elevati. | dai proprietari di terre. i 7. corbello: cesta. 11. pagare il re: le tasse. Nella sua visione | 8.biscotto: pane cotto due volte per ren- | primitiva il personaggio personalizza lo derlo più conservabile. stato nella figura del re. | 9. madie: casse in cui si impasta.
Verga e il Verismo italiano
967
voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo!, colla banda, alle volte doveva mutar strada
‘e cedere il passo.
4
| Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col Iprendere la febbre dal batticuore O dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto ‘Il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule — egli solo non si logorava, pensando ialla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti;
non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. O Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e di tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri ', pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! — diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione, se ne stia a casa», — «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la mèsse o la vendemmia, e quando, e
come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non rimase altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te. - Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. — Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina di mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa!* limitrofa si ostinava a non cedergliela, o voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini!°, e arrivava
a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se la chiappava — per un pezzo di pane. - E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - Imezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo e l’asinello, che non avevano da mangiare. - Lo vedete quel che mangio io? —- rispondeva lui, — pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba. — E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare gliene tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non comprava somma, certa una insieme metteva appena e roba, era non che importava del denaro, diceva ed esser meglio subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re,
del re, ché il re non può né venderla, né dire ch'è sua.
3
lasciarla là dov'era. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva
re della roba, quando arriQuesta è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquista 12. il santo: la processione del santo patrono. 138. campieri: sorveglianti armati.
di terra. 14. chiusa: appezzamento 15. lupini: pianta dai semi commestibili.
La roba
968 vate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento
nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi.ehe ondeggiavano
di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia , e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone tra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! È Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, . e strillava: - Roba mia, vientene con me! 16. velavano ... nebbia: le foglie degli ulivi tendono ad un grigio argenteo.
ANALISI DEL TESTO La roba, insieme con le altre Novelle rusticane, rappresenta perfettamente la nuova direzione della ricerca verghiana dopo i Malavoglia, l'abbandono definitivo di ogni mitizzazione nostalgica e romantica del mondo rurale. Il polo positivo dei valori puri scompare, e la realtà risulta tutta dominata dalla logica dell’interesse e della forza. La famiglia non è più il centro ideale di quei valori e la loro difesa dalle forze avverse: si pensi a Mazzarò che rimpiange i 12 tarì spesi per il funerale della madre. Né si ha più un universo arcaico, regolato da ritmi ancestrali, da un tempo ciclico, in cui tutto torna sempre identico; il polo contrario, quello rappresentato nel romanzo dal giovane ’Ntoni, ha il sopravvento: al centro della novella vi è il tema della dinamicità sociale che travolge tutti gli equilibri tradizionali, nella figura di un selfmade man rurale, che dal nulla si crea una prodigiosa fortuna, e la cui scalata sociale è inserita in un ben identificabile processo storico della modernità, la crisi della nobilità di origine feudale e l’ascesa della borghesia. Tranne che all’inizio, dove Mazzarò è visto dalla prospettiva di un ipotetico viandante di livello culturale “alto”, che con le sue fantasie trasforma il personaggio in un essere favoloso, l'ottica narrativa è quella consueta al Verga verista, interna al mondo rappresentato,
proveniente “dal basso”. Ma l’effetto dell’artificio della “regressione” è ben differente rispetto a Fosso Malpelo. Là l’eroe era un “diverso” rispetto all'ambiente, dotato di una statura intellettuale e morale infinitamente più alta; qui invece Mazzarò è perfettamente
La scomparsa dei valori
La dinamicità sociale
Il narratore
è in sintonia col personaggio
integrato nella logica della lotta per la vita. Quindi in Rosso Malpelo l’ottica del narratore, essendo estranea all’eroe, non era in grado di comprenderlo, e stravolgeva malevolmente la sua figura, con un vistoso effetto di straniamento. Qui invece, poiché il narratore è in sintonia con l’eroe e la sua logica, si ha una celebrazione entusiastica, un vero panegirico
dell’uomo che si è fatto dal nulla.
i
Dato questo modo di presentare Mazzarò, i temi che ricorrono costantemente nella novella sono: 1) l'ammirazione per la potenza dell'accumulo capitalistico, che riesce a creare ricChezzeimmense, un mondodicose dalle proporzioni smisurate, epiche; la celebrazione impiega
-.
sn s
SOprattutto la figura dell’iperbole (i mietitori sembrano un esercito di soldati, gli aratri sono
numerosi come le lunghe file dei corvi, alla vendemmia accorrono villaggi interi alle vigne
La celebrazione iperbolica
dell’accumulo
di Mazzarò...), ed assume le movenze ampie dell’inno, con cadenze musicali maestosamente
intonate; 2) le virtù eroiche del protagonista, l’intelligenza, l'energia infaticabile, ma soprattutto l’ascesi, la capacità di sacrificare tutto alla “roba”, per cui Mazzarò appare quasi un santo martire dell’accumulo capitalistico; 3) il tendere inesausto sempre oltre gli obiettivi raggiunti, che fa di Mazzarò una sorta di eroe “faustiano” nel suo Streben (cfr. T36 e C10), nel suo sogno di potenza senza limiti, che lo spinge a collocarsi in posizione antagonistica addirittura rispetto alla suprema autorità in terra («voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed essere meglio del re»). Lanovella, grazie all'adozione di un punto di vista narrativo vicino al protagonista, presenta in tal modo la logica della “roba” in una luce epica, mitica, come qualcosa di sovrumano, titanico. Però vi è anche il rovescio della medaglia. Come avveniva per zio Crocifisso nel IV capitolo dei Malavoglia (cfr. T207), questa celebrazione, proprio per il suo oltranziU a . . smo, produce l’effetto di straniamento “rovesciato”: ciò che è strano, abnorme e ripugnante,
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
L’ascesa eroica di Mazzarò Il carattere “faustiano” dell’eroe
Lo straniamento rovesciato
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La critica — della «religione
della roba»
|
l’avidità disumana e crudele di Mazzarò, che risalta con perfetta evidenza dall’oggettività dei fatti, appare normale, legittimo o addirittura meritorio nella presentazione del narratore. Ciò, stridendo con la scala di valori morali che è implicita nel racconto e presupposta dal suo congegno, mette crudamente in luce lo stravolgimento profondo di quel mondo che conosce solo l’interesse ed ignora ogni altro valore. Ne scaturisce una critica ferma della «religione della roba»; ma anche qui sono le cose che parlano da sé, senza che l’autore inter-
venga dall’esterno con giudizi e condanne.
La problematicità della visione verghiana La conclusione: comicità e tragedia
L'impostazione della novella appare dunque intimamente problematica: Mazzarò ha veramente qualcosa di eroico e di epico nella sua dedizione ascetica al suo fine, nella sua potenza creatrice, nel suo tendere faustiano a mete sempre più alte; dall’altro lato però la logica.‘ dell’accumulo appare anche in tutta la sua disumana negatività. È quell’atteggiamento verso , pa il «progresso» che si manifesta anche nella prefazione ai Vinti; e lo stesso atteggiamento ricomparirà presto dinanzi ad un altro eroe dell'accumulo capitalistico moderno, Gesualdo. Ma bisogna ancora tener conto della conclusione, che presenta un rovesciamento di prospettive. Nella sua tensione ad accrescere indefinitamente il possesso, Mazzarò non si scontra soltanto con avversari umani, con la società e le leggi economiche, ma con la natura stessa, col limite naturale della vita. Quella tensione va allora incontro al totale fallimento: e, in un gesto disperato e folle, Mazzarò tenta di uccidere le galline, per portare con sé nella morte la «roba». Questa conclusione ha avuto interpretazioni diverse, che ora hanno insistito sulla comicità del gesto di Mazzarò, ora sul suo carattere tragico, terribile. L’oscillazione delle interpretazioni deriva probabilmente dalla problematicità del segmento narrativo finale, che rovescia i termini del resto del racconto. Se in precedenza Mazzarò appariva eroico nella prospettiva del narratore “basso”, e meschino e abietto nella prospettiva morale dell’autore, ora il suo gesto di bastonare le galline appare risibile nella prospettiva del narratore, che lo ritiene assurdo, non rispondente ad alcuna logica economica (Mazzarò per lui dovrebbe rassegnarsi e «pensare all’anima»), ma tragico nella prospettiva dell'autore, sensibile al dramma esistenziale dell’eroe, che ha posto la sua ragione di vita nell’accumulo infinito di «roba» ed è sconfitto dai limiti di natura. La duplicità di prospettive, pur rovesciate di segno, mette anche qui in evidenza la problematicità del personaggio.
PROPOSTE
DI LAVORO
1. Mazzarò è presentato inizialmente dall’ottica di un ipotetico viandante. Quali elementi ci indicano che è una prospettiva “alta”? Perché la presentazione iniziale avviene attraverso tale prospettiva? 2. Da quale punto del racconto comincia a insinuarsi la prospettiva “dal basso” del narratore popolare? Essa coincide in tutto con la prospettiva del lettighiere? e 3. Individuare tutti i punti in cui emerge la dimensione storica del conflitto tra nobiltà feudale in decadenza
borghesia in ascesa. ARA 4. Individuare tutti i punti in cui ricorre: a) il motivo epico della potenza creatrice dell'accumulo capitalistico; b) il motivo dell’ascesi dell'eroe; c) lo straniamento “rovesciato”.
come // gatto con gli stivali, 5. La roba è, come afferma il critico Barberi Squarotti, una « favola tragica» che inizia ? economico o una cruda vicenda realistica tutta incentrata sul tema aspetti comuni ma anche le diver6. Mazzarò anticipa il Gesualdo. Confrontare i due personaggi individuando gli novella // reverendo (in Verga, della eponimo io personagg il con fatto genze. Il confronto può anche essere Tutte le novelle, cit.).
La roba
970 Verga scrittore di teatro M Cavalleria
;
rusticana
Dalla novella di Vita dei campi Verga ricavò un dramma, che fu rappresentato a Torino il 14 gennaio 1884, con la grande Eleonora Duse nella parte di Santuzza, ed ottenne un vivo e duraturo successo. Per.
lungo tempo la fama di Verga fu legata a questo dramma ben più che ai M alavoglia, che non piacquero. al pubblico per l’austero rigore dell’impostazione formale. Dal dramma fu poi ricavata un’opera lirica, con. musica di Pietro Mascagni, anch’essa di grande successo. 3 L'intreccio è impostato sui motivi dell'amore, della gelosia e dell’onore. Turiddu, tornato dal servizio militare, trova Lola, la ragazza da lui amata, sposa di compar Alfio, il carrettiere. Per farla ingelosire corteggia Santuzza, che abita dirimpetto a lei. Riesce così a riannodare la relazione con Lola, ma Santuzza per vendetta rivela ogni cosa a compar Alfio. Il carrettiere sfida Turiddu ad un rusticano duello.
Codici e rituali di una società primitiva SCENA VII Compar Alfio, dalla destra, Turiddu, lo zio Brasi, la Gnà Lola, Comare Camilla e la Zia Filomena.
COMPAR ALFIO TURIDDU
Salute alla compagnia.
Venite qua, compar Alfio, ché avete a bere un dito di vino con noi, alla nostra salute l’uno
dell’altro (colmandogli il bicchiere). COMPAR ALFIO (respingendo il bicchiere col rovescio della mano) Grazie tante, compare Turiddu. Del vostro vino non ne voglio, che mi fa male. TURIDDU A piacer vostro (butta il vino per terra e posa il bicchiere sul deschetto!. Rimangono a guardarsi un istante negli occhi). ZIO BRASI (fingendo che qualcuno lo chiami dalla stalla) Vengo, vengo. TURIDDU Che avete da comandarmi qualche cosa, compar Alfio? COMPAR ALFIO Niente, compare. Quello che volevo dirvi lo sapete. TURIDDU Allora sono qui ai vostri comandi (lo Zio Brasî di sotto la tettoia fa segno a sua moglie di andarsene a casa. Comare Camilla via). GNAÀ LOLA Ma che volete dire? COMPAR ALFIO (senza dar retta alla moglie e scostandola col braccio) Se volete venire un momento
qui fuori, potremmo discorrere di quell’affare in libertà. TURIDDU Aspettatemi alle ultime case del paese, che entro in casa un momento a pigliare quel che fa bisogno, e sono subito da voi (si abbracciano e si baciano. Turiddu gli morde lievemente l’orecchio*). COMPAR ALFIO Forte avete fatto, compare Turiddu! e vuol dire che avete buona intenzion e. Questa sì chiama parola di giovane d’onore. GNA LOLA O Vergine Maria! Dove andate, compar Alfio? COMPAR ALFIO Vado qui vicino. Che te ne importa? Meglio sarebbe per te che non tornassi più. ZIA FILOMENA (s’allontana balbettando) O Gesummaria!
TURIDDU (chiamando in disparte compar Alfio)
Sentite, compar Alfio, come è vero Dio so che ho torto,
e mi lascerei scannare da voi senza dir nulla. Ma ci ho un debito di coscienza con comare Santa, ché
son io che l’ho fatta cadere nel precipizio*, e quant’è vero Dio, vi ammazze rò come un cane, per non lasciare quella poveretta in mezzo alla strada. COMPAR ALFIO Va bene. Voi fate l’interesse vostro (via dalla viottola in fondo a destra). 1. deschetto: tavolino. nel costume siciliano consacra l’impegno 2. morde ... orecchio: gesto rituale che | a battersi.
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
3. Santa ... precipizio: l’ho disonorata di fronte al paese.
971 SCENA VIII Turiddu e la Gnà Lola.
(GNA LOLA © compare Turiddu! In questo stato mi lasciate anche voi? {TURIDDU Non ci ho più nulla a fare con voi. Adesso è finita fra noi due. Non avete visto che ci siamo i abbracciati
e baciati per la vita e per la morte con vostro marito? O madre. ‘ GNÀ NUNZIA (affacciandosi) Che c’è ancora? 'TURIDDU Vado per un servizio, madre. Non ne posso fare a meno. Datemi la chiave del cancello, che | esco dall’orto per far più presto. E voi, madre, abbracciatemi come quando sono andato soldato, e credevate che non avessi a tornar più, ché oggi è il giorno di Pasqua. GNÀ NUNZIA O che vai dicendo? TURIDDU
Dico così, come parla il vino, che ne ho bevuto un dito di soverchio, e vado a far quattro
passi per dar aria al cervello. E se mai... alla Santa, che non ha nessuno al mondo, pensateci voi, madre (entra in casa).
SCENA IX La Gnà Nunzia attonita; la Gnà Lola in gran turbamento; Comare Camilla che fa capolino dalla cantonata; la Zia Filomena sull’uscio di casa; lo Zio Brasi presso la tettoia.
GNÀ NUNZIA 0 cosa vuol dire? ZIO BRASI (accostandosi premuroso) Gnà Lola, tornate a casa, tornate! GNA LOLA (turbatissima) Perché devo tornare a casa? ZIO BRASI Non sta bene in questo momento che vi troviate qui, in piazza! Se volete essere accompagnata... Tu, Camilla, resta qui con comare Nunzia, se mai. ZIA FILOMENA (avvicinandosi) O Gesummaria! Gesummaria!
GNA NUNZIA Ma dov’è andato mio figlio? COMARE CAMILLA (accostandosi all'orecchio di suo marito) O ch'è stato? ZIO BRASI (piano) Non hai visto, sciocca, quando gli ha morsicato l’orecchio? Vuol dire, o io ammazzo voi, o voi ammazzate me.
COMARE CAMILLA O Maria Santissima del pericolo! GNÀ NUNZIA (sempre di più in più smarrita) Ma dov'è andato mio figlio Turiddu? Ma che vuol dire i tutto questo? GNA LOLA Vuol dire che facciamo la mala Pasqua, gnà Nunzia! E il vino che abbiamo bevuto insieme ci andrà tutto in veleno! PIPUZZA (accorre dal fondo gridando) Hanno ammazzato compare Turiddu! Hanno ammazzato compare Turiddu! (tutti corrono verso il fondo vociando; la gnà Nunzia colle mani nei capelli, fuori di sé. Due carabinieri attraversano correndo la scena).
TELA
ANALISI DEL TESTO .
L’interesse
folklorico
Sono le scene conclusive del dramma. Risalta l’interesse folklorico, la ricostruzione di
un mondo arcaico, regolato da ferrei codici d’onore, con i suoi antichi rituali (il morso all’orecchio). Si può capire il fascino che scene del genere dovevano esercitare sul pubblico, a cui presentavano un mondo esotico e diverso, dominato da passioni violente, primitive ed elementari, qualcosa di molto lontano dagli ambienti e dagli intrecci consueti del teatro borghese del tempo. | 1 ne In realtà si può notare come Verga non indulga eccessivamente al colore, al pittoresco
Cavalleria
rusticana
972 l’autore recriminava). Le bat(lo facevano semmai le messe in scene dell’epoca, contro cui nel sottinteso. Anche per tutto del sono ici psicolog tute sono secche ed essenziali, imoventi sua poetica asciutta e rigola scrittura drammatica Verga resta sostanzialmente fedele alla i ; e soprattutto resta teatral i o rosa, che rifugge da quei facili effetti, che si dicono appunt sua psicologia devono la e ggio persona il cul per va, narrati fedele al principio che ispira la sua un modo completaPer 1204). (cfr. naso» il i soffiars di modo dal e parole risaltare «da dieci La figlia di vedere può si rurale, e mente diverso di trattare in teatro un mondo arcaico di un fascino il c'è cui in (1904), ni vent'an di ente esattam Jorio di D'Annunzio, posteriore del tempo. i mondo barbarico e magico, sensuale e violento, sospeso come fuori
ioni algusto Tuttavia nel dramma, rispetto al testo narrativo, vi sono maggiori concess è economico: to conflit il novella nella Alonge, Roberto to del pubblico. Come ha osserva ciò risponde e ricco; più uomo un per lasciato l’ha che Lola di vendica si povero, , Turiddu li, ecomateria ismi meccan e i indagar alla logica verista della narrativa verghiana, tesa ad tutto dramma tà. Nel onomici dell’ec legge a dalla dominat appunto nomici, della società, che è nsentime molla dalla solo mosso banale, o più intrecci un ad posto il do lascian e, scompar ciò tale, dall'amore e dalla gelosia.
u È ik DI dei facili effetti
Il dramma © la novella
1210 PROPOSTE DI LAVORO Pinin 1. Confrontare il testo drammatico con la novella. Valutare soprattutto l’effetto dell'assenza nel testo drammatico della voce narrante popolare. Valutare quale diversa rilevanza abbia nella novella e nel dramma il motivo economico.
2. Confrontare questo testo di Verga con La figlia di Jorio di D'Annunzio. Verificare soprattutto in quale modo Verga e D'Annunzio rappresentano il mondo arcaico e rurale.
L'ultima fase del verismo verghiano BD Mastro-don
Gesualdo
Gesualdo Motta, da semplice muratore, con la sua intelligenza e la sua energia infaticabile, è arrivato ad accumulare una fortuna. Quando il racconto ha inizio, la sua ascesa sociale dovrebbe essere coronata dal matrimonio con Bianca Trao, discendente da una famiglia nobile, ma in rovina. Nei calcoli di Gesualdo. il matrimonio può aprirgli le porte del mondo aristocratico del paese e consentirgli di stringere legami con tutti quelli che contano. In realtà, nonostante il matrimonio con una Trao, Gesualdo resta escluso dalla società nobiliare, che lo disprezza per le sue origini. Anche la moglie non lo ama, anzi ha quasi orrore di lui e lo respinge. Nasce una bambina, Isabella, che però è frutto di una relazione di Bianca con un cugino, prima del matrimonio. Isabella, crescendo, respinge a sua volta il padre, vergognandosi delle sue umili origini. Altre amarezze Gesualdo ha da parte del padre, che è geloso della sua fortuna, e dei fratelli, che mirano a spogliarlo dei suoi averi. Durante il 48, i nobili dirottano l’odio popolare contro Gesualdo, che si salva a stento dall’ira della folla. Isabella gli crea un altro dolore innamorandosi di un cugino povero, e fuggendo
con lui. Per riparare, Gesualdo la dà in moglie al duca di Leyra, nobile squattrinato, ma deve sborsare una dote spropositata. Tutte queste amarezze minano la salute di Gesualdo, che si ammala di cancro al piloro. Viene accolto a Palermo nel palazzo del genero e della figlia, ma per le sue maniere rozze viene relegato in disparte. La figlia non lo ama, e vani sono i tentativi fatti da Gesualdo per comunicare con lei. Gesualdo trascorre i suoi ultimi giorni in solitudine, angosciato al vedere lo sperpero del palazzo nobiliare, che ingoia le ricchezze da lui accumulate a prezzo di eroiche fatiche. E muore solo, sotto lo sguardo infastidito e sprezzante di un servo. Giovanni
Verga e il Verismo italiano
973 La tensione faustiana del “self-made man” Gesualdo giunge all’improvviso dove i suoi operai stanno costruendo il ponte, di cui ha avuto l'appalto dal Comune, e li sorprende mentre hanno interrotto il lavoro per ripararsi da un acquazzone. Tra di essi il più sfaticato è il fratello Santo. Spinto dalla sua frenesia attivistica, in nome della «roba», li incita a tornare al lavoro (Parte I, cap. IV).
Badava a ogni cosa, girando di qua e di là, rovistando nei mucchi di tegole e di mattoni, saggiando i materiali, alzando il capo ad osservare il lavoro fatto, colla mano sugli occhi, nel gran sole che s’era messo allora. - Santo! Santo! portami qua la mula... Fagli almeno questo lavoro, a tuo fratello! - Agostino voleva trattenerlo a mangiare un boccone, poiché era quasi mezzogiorno, un sole che scottava, da prendere un malanno chi andava per la campagna a quell’ora. - No, no, devo passare dal Camemi... ci vogliono due ore... Ho tant’altro da fare! Se il sole è caldo tanto meglio! Arriverò asciutto al Camemi... Spicciamoci, ragazzi! Badate che vi sto sempre addosso come la presenza di Dio! Mi vedrete comparire quando meno ve lo aspettate! Sono del mestiere anch’io, e conosco poi se si è lavorato o nol... Intanto che se ne andava, Santo gli corse dietro, lisciando il collo alla mula, tenendogli la staffa. Finalmente, come vide che montava a cavallo senza darsene per inteso, si piantò in mezzo alla strada, grattandosi l’orecchio: - Così mi lasci? senza domandarmi neppure se ho bisogno di qualche cosa? — Sì, sì, ho capito. I denari che avesti lunedì te li sei giuocati. Ho capito! ho capito! eccoti il resto. E divèrtiti alle piastrelle, che a pagare poi ci son io... il debitore di tutti quanti!... Brontolava ancora allontanandosi all’ambio! della mula sotto il sole cocente: un sole che spaccava le pietre adesso, e faceva scoppiettare le stoppie quasi s’accendessero. Nel burrone, fra i due monti, sembrava d’entrare in una fornace; e il paese, in cima al colle, arrampicato sui precipizi, disseminato
fra rupi enormi, minato da caverne che lo lasciavano come sospeso in aria, nerastro, rugginoso, sembrava abbandonato, senza un’ombra, con tutte le finestre spalancate nell’afa, simili a tanti buchi neri, le croci dei campanili vacillanti nel cielo caliginoso. La stessa mula anelava, tutta sudata, nel salire la via erta. Un povero vecchio che s’incontrò, carico di manipoli, sfinito, si mise a borbottare:
- O dove andasse vossignoria a quest’ora?... Avete tanti denari, e vi date l’anima al diavolo!
[Giunto in paese Gesualdo incontra il canonico Lupi, suo alleato in vari affari. Discorrono dell’asta per l’affitto delle terre comunali, a cui Gesualdo vuol concorrere, inimicandosi tutti i nobili del paese. Al canonico preme di fargli sposare Bianca Trao, e gli presenta il matrimonio come un buon affare, perché si imparenterà con tutti i pezzi grossi del paese e non li avrà più contro. Incontrano poi il cognato di Gesualdo, Burgio, che ha combinato un cattivo affare affittando un terreno, e Gesualdo è costretto ad affidare ad un sensale la cessione, rimettendoci del suo].
Sulla strada soleggiata e deserta a quell’ora stava aspettando un contadino, con un fazzoletto legato sotto il mento, le mani in tasca, giallo e tremante di febbre. Ossequioso, abbozzando un sorriso triste,
facendo l’atto di cacciarsi indietro il berretto che teneva sotto il fazzoletto: - Benedicite, signor don Gesualdo... Ho conosciuto la mula... Tanto che vi cerco, vossignoria! Cosa facciamo per quelle quattro
olive di Giolio? Io non ho denari per farle cogliere... Vedete come sono ridotto?... cinque mesi di terzana, sissignore, Dio ne liberi vossignoria! Son ridotto all’osso... il giorno senza pane e la sera senza lume... pazienza! Ma la spesa per coglier le olive non posso farla... proprio non posso!... Se le volete, "e 0 i vossignoria... farete un’opera di carità, vossignoria... al innanzi carro il messo avete perché - EA! eh!... Il denaro è scarso per tutti, padre mio!... Voi
buoi?... Quando non potete... Tutti così!... Vi mettereste sulle spalle un feudo, a lasciarvi fare... Vedremo...
1050 Non dico di no... Tutto sta ad intendersi... L’alvoltarsi. senza strada sua la per andarsene ad o seguitand E lasciò cadere un’offerta minima,
i santi, piagnucotro durò un pezzetto a lamentarsi, correndogli dietro, chiamando in testimonio Dio e 1. ambio: passo che consiste nel portare avanti contemporaneamehte le due zampe dello stesso lato.
Mastro-don
Gesualdo
974 e nani lando, bestemmiando, e finì per accettare, racconsolato tutto a un tratto, cambiando tono
- Compare Lio?, avete udito? affare fatto! Un buon negozio per don Gesualdo... pazienza!... m
è detta! Quanto a me, è come se fossimo andati dal notaio! - E se ne tornò indietro, colle mani in tasca. - Sentite qua, mastro Lio - disse Gesualdo tirando in disparte Pirtuso. Burgio s allontanò colla. mula discretamente, sapendo che l’anima dei negozi è il segreto, intanto che suo cognato diceva al sensale di comprargli dei sommacchi*, quanti ce n’erano, al prezzo corrente. Udì soltanto mastro Lio i che rispondeva sghignazzando, colla bocca sino alle orecchie: — Ah! ah!... siete in diavolo!... Vuol dire che avete parlato col diavolo!... Sapete quel che bisogna vendere e comprare otto giorni prima... Va. bene, restiamo intesi... Me ne torno a casa ora. Ho quelle quattro fave che m'aspettano. Burgio non si reggeva in piedi dall’appetito, e si mise a brontolare come il cognato volle passare I dalla posta. - Sempre misteri... maneggi sottomano! midolla colla suggellata e sgorbi di piena lettera una leggendo contento, Don Gesualdo tornò tutto di pane: - Lo vedete il diavolo che mi parla all’orecchio! eh? M’ha dato anche una buona notizia, e bisogna che torni da mastro Lio. i - Io non so nulla... Mio padre non m'ha insegnato a fare queste cose!... — rispose Burgio bronto-. lando. - Io fo come fece mio padre... Piuttosto, se volete venire a prendere un boccone a casa... Non. mi reggo in piedi, com’è vero Dio! - No, non posso; non ho tempo. Devo passare dal Camemi, prima d’andare alla Canziria. Ci ho venti uomini che lavorano alla strada... i covoni sull’aia... Non posso... E se ne andò sotto il gran sole, tirandosi dietro la mula stanca. Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra, non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude, arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidindia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzire, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi. Allorché vi giunse invece li trovò tutti quanti sdraiati bocconi nel fossato, di qua e di . là, col viso coperto di mosche e le braccia stese. Un vecchio soltanto spezzava dei sassi, seduto per terra sotto un ombrellaccio, col petto nudo color di rame sparso di peli bianchi, le braccia scarne, gli stinchi bianchi di polvere, come il viso che pareva una maschera, gli occhi soli che ardevano in quel polverìo. - Bravi! bravi!... Mi piace... La fortuna viene dormendo... Son venuto io a portarvela!... Intanto la giornata se ne val... Quante canne‘ ne avete fatto di massicciata oggi, vediamo?... Neppure tre canne!... Per questo che vi riposate adesso? Dovete essere stanchi, sangue di Giuda!... Bel guadagno ci fol... Mi rovino per tenervi tutti quanti a dormire e riposare!... Corpo di!... sangue dil... Vedendolo con quella faccia accesa e riarsa, bianca di polvere soltanto nel cavo degli occhi e sui capelli; degli occhi come quelli che dà la febbre, e le labbra sottili e pallide; nessuno ardiva rispondergli. Il martellare riprese in coro nell’ampia vallata silenziosa, nel polverìo che si levava sulle carni abbron-. zate, sui cenci svolazzanti, insieme a un ansare secco che accompagna ogni colpo. I corvi ripassarono gracidando, nel cielo implacabile. Il vecchio allora alzò il viso impolverato a guardarli, con gli occhi infuocati, quasi sapesse cosa volevano e li aspettasse. Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziria, erano circa due ore® di notte. La porta della fattoria era aperta. Diodata aspettava dormicchiando sulla soglia. Massaro Carmine, il comparo®, era
steso bocconi sull’aia collo schioppo fra le gambe; Brasi Camauro e Nanni l’Orbo erano spulezzati” di qua e di là, come fanno i cani la notte, quando sentono la femmina nelle vicinanze; e i cani soltanto davano il benvenuto al padrone, abbaiando intorno alla fattoria. - Ehi? non c'è nessuno? Roba senza: padrone, quando manco io! - Diodata, svegliata all'improvviso, andava cercando il lume tastoni, ancora assonnata. Lo zio Carmine, fregandosi gli occhi, colla bocca contratta dai sbadigli, cercava delle scuse. 2. Lio: Pirtuso, il sensale. prezzo e ne vuole acquistare per specu3. sommacchi: pianta dalle cui foglie si | lazione. ricava una polvere, usata per la concia del 4. canne: unità di misura. cuoio. Gesualdo ha previsto un rialzo del 5. due ore: dopo il tramonto.
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
6. camparo: chi sta a guardia dei campi. 7. spulezzati: sparsi.
È
975 - AN... sia lodato Dio! Voi ve la dormite da un canto, Diodata dall’altro, al buio!... Cosa facevi
al buio?... aspettavi qualcheduno?... Brasi Camauro oppure Nanni l’Orbo?...
La ragazza ricevette la sfuriata a capo chino, e intanto accendeva lesta lesta il fuoco, mentre il
suo padrone continuava a sfogarsi, lì fuori, all’oscuro, e passava in rivista i buoi legati ai pioli intorno
all'aia. Il comparo mogio mogio gli andava dietro per rispondere al caso: - Gnorsì, Pelorosso sta un po meglio; gli ho dato la gramigna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svogliata anch’essa... Bisognerebbe mutar di pascolo... tutto il bestiame... Il mal d’occhio, sissignore! Io dico ch’è passato di qui qualcheduno che portava il malocchio!... Ho seminato perfino i pani di san Giovanni* nel
pascolo... Le pecore stanno bene, grazie a Dio... e il raccolto pure... Nanni l’Orbo? Laggiù a Passanitello, dietro le gonnelle di quella strega... Un giorno o l’altro se ne torna a casa colle gambe rotte, com'è vero Dio!... e Brasi Camauro anch'esso, per amor di quattro spighe... - Diodata gridò dall’uscio ch’era pronto. - Se non avete altro da comandarmi, vossignoria, vado a buttarmi giù un momento... Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr'ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all’uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch’erano anch'esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fresche, e due pomidori ch’era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall’uscio entrava un venticello fresco ch’era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all’odore dei covoni nell’aia: - il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch'essa avidamente nella bica® dell’orzo, povera bestia, un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all’aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava. Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto: - Tu non mangi?... Cos'hai? Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato. - Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia! Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: - Benedicite a vossignoria! Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de’ begli occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l’arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche - gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!... - Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!... Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: - Te’, bevi! non aver suggezione! Diodata, ancora un po’ esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s'attaccò al fiasco arrovesciando il capo all’indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella a ridere. gola color d’ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise - Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!... rossa. Sorrise anch’essa, pulendosi la bocca un’altra volta col dorso della mano, tutta fede — Tanta salute a vossignoria! colle spalle Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all’uscio, Francoverso monte, il dietro alta, già al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere 8. pani di san Giovanni: pezzi di pane benedetto, che in base a credenze magiche
si suppone possano proteggere il bestiame e i pascoli.
9. abboccava ... bica: strappava morsi dal mucchio dell’orzo.
Mastro-don
Gesualdo
976 fonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti. in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello
più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi , ancora in piedi. Nell’aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga.
si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio. - Eh? Diodata? Dormi, marmotta?...
- Nossignore, nol... | Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all’uscio, buttando via le frasche carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le gambe fiacche. - Dormivil!... Se te l’ho detto che dormivi!... E le assestò uno scapaccione come carezza. . Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricarsi quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto... gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l’aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma... Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! - Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza! che cominciava a voler marito; la mamma
con le febbri, tredici mesi dell’anno!... —
Più colpi di funicella che pane! - Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna... Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. - Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme! di gesso che andarono via dalla fornace al
prezzo che volle mastro Nunzio... e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa... - E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!... - Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. «Fa l’arte che sai!» - Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misu-
rarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell’agrimensore... E ordinava «bisogna far questo e quest'altro» per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. - La madre non ci arrivò a provare quella consola-
zione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto, e Spe-
ranza carica di famiglia com'era stata lei... - un figliuolo ogni anno... — Tutti sulle spalle di Gesualdo, . giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva
passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent'anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! - Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, : tante inquietudini, tante fatichel!... La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle
terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto ildanno sulle spalle di lui!... — Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... — Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grasso d’in-
quietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane 10. Speranza: la sorella. 11. salme: unità di misura siciliana. 12. derrate: prodotti della terra.
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
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4
nero e duro dove sì trovava, sul basto della mula, all'ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria in mezzo a un nugolo di zanzare. —- Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! - trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie!* del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi - le liti fra tutti loro, quando gli affari non andavano bene. - Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare
il suo interesse. — Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l'occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi
per dire soltanto «vi saluto»; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce - la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore... — Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!... Hai le spalle grosse anche tu... povera
Diodatal... Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta, e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani che lo guidavano, e si spandevano lontane, nell’aria sonora. La luna, ora discesa sino all’aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l’ombra
vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi. — Nanni l’Orbo, eh?... o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella? - riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare. Diodata sorrise. - Nossignore!... nessuno!... i Ma il padrone ci si divertiva: — Sì, sì!... l’uno o l’altro... o tutti e due insieme!... Lo saprò!... Ti sorprenderò con loro nel vallone, qualche volta!... Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle; gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po’ larga e tumida, ma giovane e fresca. Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch'esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso. - Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l’Orbo! nol... - Oh, gesummaria!... - esclamò essa facendosi la croce. - Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!...
Tacque un altro po’ ancora, e poi soggiunse: - Sei una buona ragazza!... buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre... - Il padrone mi ha dato il pane - rispose essa semplicemente. - Sarei una birbona... - Lo so! lo sol... poveretta!... per questo t’ho voluto bene! A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. - Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giornil... Sempre all’erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa! Sempre l’occhio attento sulla mia roba!... Fedele come un cane!... Ce n’è voluto, sì, a far questa roba! Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono: - Sai? Vogliono che prenda moglie. i La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò: loro non si fa nulla!... di Senza paese... del grossi pezzi coi lega far Per .. - Per avere un appoggio. Per non averli tutti Vogliono farmi imparentare con loro... per l’appoggio del parentado, capisci?... teo ex; contro, all’occasione... Eh? che te ne pare? a andò che voce di tono Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un ; rimescolargli il sangue a lui pure:
i rea - Vossignoria siete il padrone... ata... Ancora non affezion sei mi - Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché
13. querimonie: lamentele.
Mastro-don
Gesualdo
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978 ci penso... ma un giorno o l’altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli...
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Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato.
— Perché piangi, bestia?
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- Niente, vossignoria!... Così!... Non ci badate... > d 1 - Cosa t’eri messa in capo, di”? — Niente, niente, don Gesualdo... - Santo e santissimo! Santo e santissimo! - prese a gridare lui, sbuffando per l’aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò: — Che c’è?... S'è slegata la mula? Devo alzarmi?... —- No, no, dormite, zio Carmine.
Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa: — Perché v’arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?... - M’arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?... | — Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti‘...
— Anche quest’altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v’è il comune che ci pensal... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago anch’io!... So io ogni volta che vo dall’esattore!... Si grattò il capo un istante, e riprese: - Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l’erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... Diodata! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse la figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c’è per tutti! Hai trovato
da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla...
In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l’aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito. — Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non posso andare a cercare gli eredi di qua e di là, per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m'’aiuta, saranno nati sotto la buona stella!... 14. poveri innocenti: i figli avuti da Gesualdo.
ANALISI DEL TESTO Ilcapitolo IV della prima parte descrive una giornata tipo di Gesualdo. Si divide in due parti. La prima (di cui diamo solo qualche esempio significativo) è tutta dominata dall’attivismo infaticabile dell'eroe, che bada a mille affari, vede tutto, provvede a tutto, non sente il caldo atroce, il digiuno, la fatica, pur di raggiungere l’obiettivo per lui sacro di accrescere e difendere la roba. In questo la figura di Gesualdo, come già quella di Mazzarò (cfr. 209), assume qualcosa di grandiosamente epico: le sue virtù eroiche sono la potenza demiurgica
— di creare ricchezza, la capacità di ascesi e di sacrificio, il tendere continuamente a supe-
rarsi. C'è anche in Gesualdo qualcosa di “faustiano”: come gli dice il vecchio che incontra per strada, dà l’«anima al diavolo» pur di avere la roba. Ma proprio per questo la sua figura è fortemente problematica. Oltre all’alone eroico, c'è in lui qualcosa di cupo e di sinistro, di disumano e spaventoso, nel suo concentrare tutta la vita, ossessivamente, a quell’unico fine, escludendo qualunque altra realtà. Si noti il paesaggio che lo circonda, che ha una fisioGiovanni
Verga e il Verismo italiano
Le virtà eroiche di Gesualdo
979 La sua alienazione
umana
La critica alla «religione della roba»
La scomparsa
del valore famiglia
La morale eroica dell’individualismo
nomia infernale: veramente Gesualdo è un “dannato”, sperimenta l'inferno, escludendosi dalla vita, per raggiungere i suoi fini. Questo è l'aspetto negativo della «religione della roba»: la totale alienazione, il sacrificio di ogni umanità. E la prova che la «religione della roba» non è celebrata da Verga, come interpretava il Russo, ma guardata con atteggiamento dura-
mente critico. i La seconda parte vede invece il momento del riposo, nella quiete della sera, nel paesaggio amato della Canziria. La tensione “faustiana” si attenua, ed emerge dalla memoria dell’eroe tutto ilsuo passato. Ma anche qui, nel suo lungo monologo interiore, espresso mediante l’indiretto libero, affiora tutta la negatività della sua ascesa, il prezzo durissimo che ha dovuto pagare, e soprattutto il volto disumano della lotta per la vita. Persino la famiglia, a differenza dei Malavoglia, non è più un rifugio: i conflitti si insinuano anche al suo interno, in particolare con la figura paterna. Non è solo un conflitto di interessi, ma più in generale
di visioni del mondo. Mastro Nunzio rappresenta la mentalità tradizionalista e immobilista («fa l’arte che sai»), propria di una società pre-moderna; Gesualdo, al contrario, ha la nuova mentalità dinamica e individualistica del mondo moderno, fondata sull’intraprendenza e il mutamento. Il conflitto Gesualdo-Nunzio riprende quello tra ’Ntoni e padron ’Ntoni; ma vi è una capitale differenza: il vecchio padron ’Ntoni rappresenta il grembo protettivo, caldo di affetti, del “nido” famigliare, che può sempre offrire un rifugio dai traumi della lotta per la vita; Nunzio invece è uomo arido, privo di affetti e di generosità, tutto interno anch'egli alla logica dell’interesse, e quindi non può più rappresentare il rifugio della famiglia. Questo valore è escluso dall’orizzonte del Gesualdo, diviene impossibile, in conseguenza del pessimismo sempre più aspro e coerente dello scrittore. In questo bilancio retrospettivo, l'alienazione e la disumanizzazione appaiono a Gesualdo giustificate proprio dalla morale eroica dell’individualismo: egli si sforza di convincersi che valeva la pena di pagare quel prezzo per ottenere quei fini. Ma questa giustificazione è messa in crisi da Diodata. La donna, con il suo amore e la sua fedeltà, rappresenta una dimensione
alternativa a quella in cui vive alienato Gesualdo, la dimensione dei valori autentici e disin-
L’interiorizzazione del conflitto valori-economicità
L’impostazione narrativa
teressati. È l’ultimo residuo dei valori che resiste nel mondo disumano della «roba» e del «progresso». Ma quei valori sono ormai totalmente impossibili, impraticabili: Gesualdo è costretto a rinunciare alla donna che lo ama e che egli ama per seguire l'interesse, sposando Bianca Trao. Per questo nasce in lui un forte senso di colpa ed un lacerante conflitto interiore. Si scorge qui come l’opposizione valori-economicità, che nei Malavoglia si proietta nei due poli contrapposti della famiglia protagonista e del villaggio, nel Gesualdo si interiorizzi nell’eroe stesso (Luperini). In Gesualdo resiste un fondo “malavogliesco” di affetti e di virtù etiche autenticamente vissute, ma la logica di cui è prigioniero gli impone di soffocarlo. E lo fa aggrappandosi sempre alla morale eroica dell’individualismo («E la mia roba?... me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono?»). Ma il conflitto resta aperto in lui, e continuerà a perseguitarlo sin sul letto di morte. Si può notare da queste pagine l’impianto narrativo diverso rispetto ai M alavoglia. Scompare l'impostazione “corale”, e spicca la figura solitaria dell'eroe. Non vi è più la regressione in un punto di vista “basso”, popolare, con gli effetti di deformazione e di straniamento che ne conseguono. Il punto di vista narrativo è “alto”, come rivelano le descrizioni paesistiche, dense di valore simbolico. Prevalgono il dialogo diretto, che dà un taglio nettamente “drammatico” al racconto, oppure la focalizzazione interna sull’eroe (il lungo monologo interiore in indiretto libero). Ed è l’autore che porta al personaggio la sua cultura e il suo linguaggio, ne interpreta e traduce pensieri e sensazioni.
| PROPOSTE DI LAVORO ? Quali un paesaggio 1. Analizzare le descrizioni paesi stiche: quali elementi richiamano il paesaggio infernale “alto”? livello di narrante voce una di a presenz idillico? Quali elementi rivelano la o. 2. Individuare i punti in cui emerge l’ascesi eroica di Gesuald
che qui emergono? 3. Quali sono gli aspetti negativi della «religione della roba» Mastro-don
Gesualdo
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980 4. Nel monologo in indiretto libero di Gesualdo si individuino le espressioni che sono proprie del livello linguistico del personaggio e quelle che rimandano al livello “alto” del narratore. Trasformare il discorso in indiretto libero di Gesualdo nel discorso diretto.
5. Quali elementi caratterizzano la psicologia di Diodata? Quale rapporto esiste tra Diodata e Gesualdo? 6. Confrontare mastro Nunzio con padron ’Ntoni: tutti e due presentano la mentalità tradizionale, ma con notevoli differenze: individuarle.
«Il pesco non s’innesta all’ulivo» Dalla parte III, cap. I
L’Isabellina, prima ancora di compiere i cinque anni, fu messa nel Collegio di Maria. Don Gesualdo adesso che aveva delle pietre al sole, e marciava da pari a pari coi meglio del paese, così voleva che marciasse la sua figliola: imparare le belle maniere, leggere e scrivere, ricamare, il latino dell’uffizio* anche, e ogni cosa come la figlia di un barone; tanto più che, grazie a Dio, la dote non le sarebbe mancata, perché Bianca non prometteva di dargli altri eredi. Essa dopo il parto non s’era più rifatta in salute; anzi deperiva sempre più di giorno in giorno, rosa dal baco? che s'era mangiati tutti i Trao, e figliuoli era certo che non ne faceva più. Un vero gastigo di Dio. Un affare sbagliato, sebbene il galantuomo avesse la prudenza di non lagnarsene neppure col canonico Lupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto la minchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più, per non darla vinta ai nemici. — Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote, né il figlio maschio, né l’aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima Diodata, un momento di svago, un’ora di buonumore, come il bicchiere di vino a un pover’uomo che ha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello! - Una moglie che vi squagliava fra le mani, che vi faceva gelare le carezze, con quel viso, con quegli occhi, con quel fare spaventato, come se volessero farla cascare in peccato mortale, ogni volta, e il prete non ci avesse messo su tanto di croce, prima, quand’ella aveva detto di sì... Bianca non ci aveva colpa.
Era il sangue della razza che si rifiutava. Le pesche non si innestano sull’olivo. Ella, poveretta, chinava il viso, arrivava ad offrirlo anzi, tutto rosso, per ubbidire al comandamento di Dio, come fosse pagata per farlo... Ma egli non si lasciava illudere, no. Era villano, ma aveva il naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglio anche lui. L'orgoglio di quello che aveva saputo guadagnarsi, colle sue mani, tutto opera sua, quei lenzuoli di tela fine in cui dormivano voltandosi le spalle, e quei bocconi buoni che doveva mangiare in punta di forchetta, sotto gli occhi della Trao. [...] Don Gesualdo non guardò a spesa per far stare contenta Isabellina in collegio: dolci, libri colle figure, immagini di santi, noci col bambino Gesù di cera dentro, un presepio del Bongiovanni? che pigliava un'intera tavola: tutto ciò che avevano le figlie dei primi signori, la sua figliuola l'aveva; e i meglio bocconi, le primizie che offriva il paese, le ciriegie e le albicocche venute apposta da lontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d’occhi, e soffocavano dei sospiri grossi così. La minore delle Zacco, e le Méndola di seconda mano, le quali dovevano contentarsi delle cipolle e delle olive nere che passava il convento a merenda, si rifacevano parlando delle ricchezze che possedevano a casa e nei loro
poderi. Quelle che non avevano né casa né poderi, tiravano in ballo il parentado nobile, il Capitano Giustiziere ch’era fratello della mamma, la zia baronessa che aveva il cacciatore‘ colle penne, i cugini
del babbo che possedevano cinque feudi l’uno attaccato all’altro, nello stato di Caltagirone. Ogni festa, ogni Capo d’anno, come la piccola Isabella riceveva altri regali più costosi, un crocifisso d’argento,
1. latino ... uffizio: delle funzioni religiose. Bongiovanni (1772-1859), scultore sici4. cacciatore: servo in livrea che andava 2. baco: la tisi. = a liano. Modellò in terracotta figure e scene | dietro alla carrozza dei gran signori. 3. presepio ... Bongiovanni: Giacomo | di vita siciliana.
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iun rosario coi gloriapatri d’oro, un libro da messa rilegato in tartaruga per imparare a leggere, nasce|vano altre guerricciuole, altri dispettucci delle alleanze fatte e disfatte a seconda di un dolce e di un’im| magine data o rifiutata. Si vedevano degli occhietti già lucenti d’alterigia e di gelosia, dei visetti accesi, |dei piagnistei, che andavano poi a sfogarsi nell’orecchio delle mamme, in parlatorio. Fra tutte quelle |piccine, in tutte le famiglie, succedeva lo stesso diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese. Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una gara fra i parenti a buttare ll danaro in frascherie®, e una confusione generale fra chi era stato sempre in fila, e chi veniva dopo. Quelli che non potevano, proprio, o si seccavano a spendere l’osso del collo pel buon piacere di mastro| don Gesualdo, si lasciavano scappare contro di lui certe allusioni e certi motteggi che fermentavano nelle piccole teste delle educande. Alla guerra intestina pigliavano parte anche le monache, secondo le relazioni, le simpatie, il partito che sosteneva oppure voleva rovesciare la superiora. Ci si accaloravano fin la portinaia, fin le converse che si sentivano umiliate di dover servire senz'altro guadagno anche la figliuola di mastro don-Gesualdo, uno venuto su dal nulla, come loro, arricchito di ieri. Le
nimicizie di fuori, le discordie, le lotte d’interessi e di vanità, passavano la clausura, occupavano le
ore d'ozio, si sfogavano fin dà dentro in pettegolezzi, in rappresaglie, in parole grosse. - Sai come si chiama tuo padre? mastro-don Gesualdo. —- Sai cosa succede a casa tua? che hanno dovuto vendere una coppia di buoi per seminare le terre. - Tua zia Speranza fila stoppa per conto di chi la paga, e 1 suoi figliuoli vanno scalzi. - A casa tua c’è stato l’usciere per fare il pignoramento. —- La piccola Alimena arrivò a nascondersi nella scala del campanile, una domenica, per vedere se era vero che il padre di Isabella portasse la berretta”. Egli trovava la sua figliuoletta ancora rossa, col petto gonfio di singhiozzi, volgendo il capo timorosa di veder luccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle altre piccine, guardandogli le mani per vedere se davvero erano sporche di calcina, tirandosi indietro istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida. Tale e quale sua madre. - Così il pesco non s’innesta all’ulivo. - Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorte che gli aveva attossicato* sempre ogni cosa giorno per giorno; la stessa guerra implacabile ch’era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e contro tutti; e lo feriva sin lì, nell'amore della sua creatura. Stava zitto, non lagnavasi, perché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mente le parole di suo padre*, gli stessi rancori, le stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interesse, e va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre, così faceva sua figlia. Così dev'essere. Si metteva il cuore in pace, ma gli restava sempre una spina in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l’allontanava appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signora, le compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, il nome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao - bel guadagno che ci aveva fatto! — La piccina diceva sempre: - Io son figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao. 5. frascherie: inezie, cose inutili. 6. mastro-don Gesualdo: “don” è l’appellativo delle persone altolocate, “mastro” degli artigiani. L’accoppiamento è spregia- |
tivo: come dire che Gesualdo ora è “don”, ma proviene da umili origini. 7. berretta: il copricapo dei ceti inferiori. 8. attossicato: avvelenato.
9. parole ... padre: gli rimproverava il distacco dalla famiglia e dalle sue tradizioni modeste.
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ANALISI DEL TESTO È un altro momento fondamentale, in cui Gesualdo trae un bilancio della sua esistenza
Gesualdo «vinto» nella vita affettiva
e delle sue scelte. Si profila già quella che sarà la sua sconfitta. Gesualdo è un vinto "ip senso diverso dai Malavoglia, non sul piano materiale (su cui anzi è un vincitore ”), ma nella dimensione interiore, della vita affettiva. In lui convivono la logica economica e un senso »malavogliesco” della famiglia e degli affetti. Non sa alienarsi del tutto, senza residui di laceracoscienza, nella logica della «roba», come fa Mazzarò. Ed è qui la radice della sua oltre tendeva, cui a obiettivo l’altro come misurare a zione interiore. Gesualdo è costretto giudica la non roba, della scelta la questo per sconfessa non Ma impossibile. sia alla «roba», "sbagliata, né rimpiange di non essersi indirizzato nell'altra direzione, quella dei sentimenti Mastro-don
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autentici, rinunciando alla logica economica e alla lotta per la vita. Non c’era per lui vera possibilità di scelta: l'alternativa degli affetti gli pare comunque impossibile. La logica dell'interesse è fatale, ineludibile. Questa conclusione è da lui ottenuta attraverso un elementare determinismo: «Il pesco non s’innesta all’ulivo»; «Ciascuno al mondo cerca ilsuo interesse, e va per la sua via [...] Così dev'essere». Cerca in tal modo di «mettersi il cuore in pace», di superare la contraddizione che lo lacera: ma non sa cancellare del tutto gli affetti, e il sentirli impossibili gli lascia «sempre una spina nel cuore». : i ì Nel suo fatalismo si proietta quello di Verga stesso. Anche se indica lucidamente gli effetti negativi dell’alienazione di Gesualdo nella «roba», lo scrittore non vuole moralisticamente concludere che Gesualdo avrebbe fatto bene a scegliere gli affetti, anziché l’ascesa economica e sociale. Anche per Verga si trattava di una scelta impossibile. Gesualdo è per lui determinato da un meccanismo ineludibile. Nel meccanismo sociale non vi è spazio per i valori autentici, ma solo per l’interesse. Tuttavia anche in Verga, come nel suo eroe, non c’è pacifica accettazione del dato di fatto: l’impossibilità dei valori è registrata con amarezza desolata. È sempre la «disperata rassegnazione» dinanzi alla durezza della lotta per la vita, che lo scrittore proiettava in Rosso Malpelo.
Il SAT el ERBA ità i; 1 e 1 aHica i Il fatalismo di Verga
La «disperata rassegnazione»
PROPOSTE DI LAVORO manum 1. Individuare tutti i discorsi indiretti liberi di Gesualdo.
2. Riflettere sul tipo d’educazione impartita a Isabella. Stabilire un confronto con i Promessi sposi, capp. IX-X, dove si parla dell'educazione di Gertrude (notare che anche nel testo manzoniano compare il termine «guerricciuola»).
.PROPOSTE
DI LAVORO SU MASTRO-DON GESUALDO
1. A livello del discorso narrativo individuare le caratteristiche di: a) Linguaggio. Rispetto ai Malavoglia quali sono le differenze più significative? Nelle varie parti del romanzo è adottato lo stesso tipo di linguaggio? b) Narratore. Il narratore è il riflesso dell’ottica popolare o appartiene ad un livello più alto? Individuare i punti del romanzo in cui emerge il suo giudizio sui fatti e sui personaggi. c) Focalizzazione. Individuare i punti del romanzo in cui la focalizzazione è interna su Gesualdo. Vi sono focalizzazioni interne su altri personaggi? 2. A livello della storia, dal punto di vista narratologico, provare ad applicare al Gesualdo gli strumenti usati per analizzare la storia nei Malavoglia. Ecco alcuni spunti di partenza: a) Sistema dei personaggi. Prendere in considerazione le opposizioni Gesualdo vs casa Trao (l’emergente, vs la famiglia nobile in decadenza); Gesualdo vs famiglia Motta (il dinamismo vs.il tradizionalismo del padre); Bianca vs Diodata. b) Struttura dell’intreccio. Se l’intreccio dei Malavoglia può essere rappresentato graficamente con un cerchio non chiuso CI ; Il Gesualdo con una parabola >, in quale punto comincia il declino della curva di Gesualdo? C) Analizzare le variazioni di velocità narrativa del racconto nelle quattro parti. Risulta un diagramma significativo? a) Nei Malavoglia si oppone uno spazio chiuso ad uno spazio aperto, casa del nespolo vs paese, paese vs mondo. Il “fuori” è minaccia, insidia. Lo spazio del Gesualdo è aperto o chiuso? Nel finale a Palermo il personaggio è confinato in uno spazio chiuso. Che cosa significa? 3. A livello tematico individuare le caratteristiche di:
a) Gesualdo: illustrare la natura di “self-made man” di Gesualdo, il suo rapporto con la ricchezza, la sua condizione di escluso rispetto alla famiglia d'origine, alla moglie, alla figlia, e di “vinto”. Riflettere inoltre sul
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valore simbolico della malattia che lo porterà alla morte. Rispetto a Mazzarò (cfr. La roba, T209) quali caratteristiche economiche moderne presenta? Individuare i punti del romanzo in cui Gesualdo agisce solo in base alla logica economica e quelli in cui si mostra generoso, disinteressato e legato alla famiglia. Qual è il suo rapporto con gli avvenimenti politici del 20 (moti carbonari) e del ’48 (i tumulti in paese a seguito della rivoluzione a Palermo?). Bianca e Isabella: ildestino delle due donne è simile? Quale tipo di donna rappresen tano? In quale misura l'origine aristocratica condiziona le loro scelte di vita? Quali sono le ragioni dell’incom unicabilità con Gesualdo? Quali sono i valori in cui credono? Diodata: che cosa rappresenta per Gesualdo? Quale figura femminile rappresenta? b) Struttura economica. Quale modello economico persegue Gesualdo? (Il fatto che i suoi investimenti siano differenziati - beni mobili ed immobili - che cosa indica?). Il giudizio di Gesualdo sull’accumulo della «roba» «coincide con quello dell'autore? Ci sono punti del romanzo in cui Gesualdo assume coscienza dell’insensa tezza di questo accumulo? C) Struttura sociale. Quali classi sono rappresentate nel romanzo? Quali valori perseguono? Quali rapporti tra le classi vengono delineati? Gesualdo riesce ad integrarsi nella classe sociale borghese, dove il suo denaro dovrebbe collocarlo? d) Ideologia. La sconfitta di Gesualdo quale concezione rivela di Verga? (cfr. in particolare il cap. V della IV parte del romanzo).
QUESTIONARIO
DI RIEPILOGO SU VERGA
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1. Cogliere gli aspetti della produzione di Verga che rivelano: a) il suo debito con la cultura positivistica; b) la sua frequentazione degli scapigliati e dei naturalisti francesi, in particolare Zola. Definire anche gli aspetti formali e ideologici che differenziano Verga da Zola. | 2. Sintetizzare gli elementi tipici della teoria dell’impersonalità di Verga. (Riflettere sul ruolo assegnato al narratore, sulle tecniche narrative usate). Quali sono i presupposti ideologici di tali scelte?
3. La letteratura per Verga può avere una funzione sociale come per Zola? 4. In quale modo Verga presenta il mondo popolare? Riflettere sulla diversa rappresentazione del popolo in Fantasticheria (T205), in Rosso Malpelo (T206), nei Malavoglia (T207) o ancora nel Gesualdo. Il popolo è miticamente e populisticamente depositario di buoni valori o dominato dalla violenza e dalla legge del più forte?
5. Verga ha fiducia nel progresso? Accetta i cambiamenti sociali? | brutali meccanismi della lotta per la vita, messi in luce da Verga, hanno un intento di denuncia sociale? Ci sono delle alternative per questo stato di cose? 6. Il pessimismo di Verga può essere accostato a quello di Leopardi nella Ginestra (T162)? Riflettere anche sul materialismo professato da entrambi gli scrittori.
7. Definire perché sia i Malavoglia sia Mastro-don Gesualdo sono dei “vinti”. 8. Riflettere sulle ragioni psicologiche e sociali che determinano la condizione d’“esclusione” per molti personaggi verghiani (cfr. ad esempio, Jeli, Rosso Malpelo, ’Ntoni Malavoglia).
Mastro-don
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984 La critica Le opere veriste di Verga tra i contemporanei non ebbero pieno successo né di pubblico né di critica, se si eccettua il consenso di quegli intellettuali che seguivano indirizzi affini (Luigi Capuana, Felice Cameroni). Il pubblico era respinto da una narrativa che rifuggiva dagli espedienti romanzeschi più consolidati, che aveva cura di «dissimulare il dramma» sotto gli avvenimenti più comuni, ed inoltre ricorreva ad una tecnica narrativa rivoluzionaria, sconcertante,
che violava le attese abituali del lettore, e ad un linguaggio ben lontano dal “bello scrivere” della tradizione letteraria italiana. Anche la critica più favorevole, del resto (con la sola eccezione di Capuana), esprimeva riserve proprio sulla tecnica narrativa: lo stesso Cameroni, pur tra molte lodi, sosteneva che lo scrittore, facendo scaturire tutta la narrazione dai dialoghi
e dalle azioni, senza aggiungere qualche «studio» o «profilo» dei personaggi, disorientava il lettore e limitava i modi di sviluppo della nuova narrativa naturalista; Francesco Torraca lamentava che Verga non spiegasse le motivazioni psicologiche delle azioni, e descrivesse solo gli effetti senza le cause. Per il grande pubblico Verga continuava ad essere l’autore di Storia di una capinera, oppure, sull’onda del successo teatrale, di Cavalleria rusticana. Con la crisi della cultura positivistica e naturalistica, a partire dagli anni ’90, e con l’affermazione di tendenze spiritualistiche, decadenti e idealistiche, era inevitabile che l’opera di
Verga, che già non aveva goduto di un successo incontrastato nel clima veristico, subisse un oscuramento di fortuna. Per anni lo scrittore godette di una considerazione di stima, ma non esercitò un'influenza significativa sulla letteratura italiana, che seguì tutt’altre vie. Paradossalmente fu poi proprio la critica idealistica, con la fortunatissima monografia di Luigi Russo (1919), che condizionerà per quarant’anni la critica verghiana, a “riscoprire” Verga e ad affermare definitivamente la sua grandezza; solo che questa riscoperta avvenne a patto di staccare l’arte di Verga dall’ambito della cultura positivistica e naturalistica in cui era nata e di costruirne un'immagine che potesse essere accettata dal nuovo gusto dominante. Già Benedetto Croce, nel 1903, svalutava l'impianto verista di Verga e costruiva l’immagine di un artista lirico, soggettivo e nostalgico, che trasfigurava miticamente figure e paesi della sua infanzia isolana. Il Russo riprende questa linea, “liberando” Verga dal verismo, considerato come limite impoetico, e presentando la sua analisi della Sicilia rurale come romantica regressione nel mondo dei primitivi. IMalavoglia sono per Russo l’esaltazione dei valori di quel mondo, la «religione della casa» e della famiglia, il Gesualdo è l'esaltazione della «religione della roba»; e nel-
l’arte di Verga il critico vede un’autentica religiosità, un «cristianesimo» non confessionale, ma
intimo e profondo. In tal modo, Verga gli appare come legittimo continuatore della linea del romanticismo manzoniano. Questo modo di leggere Verga in chiave romantica si riproporrà poi in tutta la critica idealistica, da Attilio Momigliano (1928) a Francesco Flora (1940). Il clima culturale del secondo dopoguerra, reagendo al gusto lirico e soggettivo che aveva caratterizzato l'epoca precedente, e in obbedienza al riaffermarsi di un gusto realistico, riporta al centro dell'attenzione il valore sociale della rappresentazione verghiana. Ma questa critica, orientata prevalentemente a sinistra, non riesce a perdonare a Verga di non essere abbastanza progressivo nel rappresentare la società. Per cui alcuni critici si sforzano di trovare egualmente elementi di progressività, nonostante l’innegabile conservatorismo dello scrittore (Giuseppe Petronio, 1948-49, lo stesso Russo, 1952; Adriano Seroni, 1954). Altri sot-
tolineano invece i limiti conoscitivi della sua visione, pessimismo fatalistico, rassegnazione,
incapacità di indicare alternative all’esistente (Gaetano Trombatore, 1947; Natalino Sapegno, 1945). Ma anche in questa critica sopravvivono residui di gusto idealistico: il Sapegno ad esempio insiste sulla trasfigurazione mitica e simbolica operata da Verga sulla realtà siciliana, riproponendo un Verga lirico ed epico cantore di un mondo primitivo. | Negli anni ’50 Importanti acquisizioni provengono dalla critica stilistica, che parte dalle
scelte stilistichee linguistiche dello scrittore per ricostruire la sua visione del mondo. Tale
tendenza pone finalmente al centro dell’indagine i mezzi tecnici con cui Verga costruisce la sua narrazione, che hanno un’originalità e un’importanza eccezionali, e che erano stati tra-
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
985 scurati dalla critica idealistica (indifferente agli aspetti “tecnici” della letteratura e attenta solo all intuizione” lirica) e da quella sociologico-marxista (sostanzialmente contenutistica). Fondamentale fu il contributo di Leo Spitzer (1956), che, discutendo col linguista Giacomo Devoto, mette in luce l’impiego fondamentale dell’indiretto libero nei Malavoglia e la dimensione corale del romanzo, in cui tutto è filtrato attraverso «un coro di parlanti semireale (il cui parlato potrebbe essere realtà oggettiva — ma non si sa davvero se lo è)». Molto utile è il lavoro di Emerico Giachery (1959), che individua nello stile di Verga la tendenza al «periodo lungo» e al «periodo breve», leggendovi la proiezione di una tendenza romantica mai superata e di una volontà di rappresentazione verista. Su Verga sono stati usati in maniera abbastanza scarsa gli strumenti psicanalitici. Al 1951-53 risale una serie di lezioni universitarie del grande critico Giacomo Debenedetti, che ricostruisce con strumenti di quel tipo la genesi dell’opera verghiana e la sua adesione al verismo (le lezioni sono state pubblicate solo di recente, nel 1976). Una svolta è impressa alla lettura di Verga, intorno alla metà degli anni ’60, da tre studiosi, che riflettono i fermenti nuovi presenti in quegli anni nella cultura marxista, e sottopongono a critica serrata le interpretazioni “di sinistra” dell’immediato dopoguerra. Vitilio Masiello (1964, poi 1970) dà un’attenta ricostruzione dell’ideologia verghiana e delle sue coordinate storiche, vedendo come l'ideologia prenda corpo concretamente nelle forme espressive. Lo studio ravvisa in Verga un anticapitalismo di tipo romantico, che, allo sviluppo moderno della società, contrappone come antidoto il mondo rurale, mitizzato come paradiso perduto di innocenza e sanità primordiali, che preserva intatti i valori fondamentali; mentre dalle Rusticane al Gesualdo si afferma una visione più duramente veristica e pessimistica, che mette in primo piano la lotta per la vita e i motivi economici. Alberto Asor Rosa (1965) e Romano Luperini (1968), rovesciando l’impostazione della critica marxista precedente, affermano che merito di Verga è proprio quello di non aver offerto alcuna immagine positiva e mitizzata del popolo. Il rifiuto del progressismo costituisce la fonte, non il limite, della riuscita verghiana, perché gli consente un rapporto lucidamente conoscitivo e critico con la realtà. Il valore dell’opera verghiana è indicato proprio nel suo carattere “negativo”. Luperini in particolare, ribaltando le posizioni di Russo, vede le ragioni di questa validità proprio nel verismo verghiano, nella sua visione crudamente materialistica e pessimistica, che nega ogni abbandono idealizzante, e dà origine ad una «negazione demistificante» della realtà. Al Verga lirico e romanticamente nostalgico cantore dei “primitivi”, si contrappone così un Verga tutto diverso, crudamente
verista.
Questa svolta degli anni ’60 ha costituito veramente un punto di partenza per un rinnovato discorso critico su Verga. I contributi successivi di maggior spicco si sono mossi prevalentemente su questo solco. La critica recente ha continuato ad approfondire l'indagine sull'ideologia di Verga, ma ha studiato soprattutto le strutture formali e le tecniche narrative, con l’ausilio degli strumenti offerti dalle nuove discipline, quali la semiotica e la narratologia. Segnaliamo gli studi di Vittorio Spinazzola (1970, 1977) che hanno avuto un valore veramente pionieristico nell’individuare i termini dell’impostazione narrativa di Rosso Malpelo e della Roba; di Guido Baldi (1973, 1977, 1980), che ha proposto la formula dell’«artificio della regressione» a indicare la tecnica verghiana dell’adozione di un narratore interno al mondo narrato, sottolineandone la forza e l’originalità; di Roberto Bigazzi (197 5), che ha analizzato questo procedimento nelle novelle; di Giovanni Pirodda (1976) che ha studiato il principio dell’“eclissi dell’autore” e le sue applicazioni narrative; ancora di Luperini, che ha minuziosamente ricostruito le strutture formali di Rosso Malpelo, a tutti i loro livelli (197 6), ha analizinsistendo sull’importanza dell’artificio dello straniamento, e, più recentemente, Rosso letto ha che , Marchese Angelo di (1982); ia Malavogl dei ‘zato anche le strutture formali ; (1980). gici narratolo i Malpelo con strument La roba, Strumenti antropologici ha impiegato Giorgio Bàrberi Squarotti nello studiare in base Bottiroli, Giovanni ). mettendo in luce la struttura della fiaba che ad essa è sottesa (1977
la figura dell’ipera strumenti retorico-semiotici, ha indicato invece al fondo della stessa novella intervento, ha recente un in Masiello, bole, e ne ha sottolineato il carattere visionario (1990).
La critica
986 messo in luce invece le strutture simboliche del Gesualdo (1989). Su una linea affine, anche Luperini recentemente ha studiato il mondo epico-folclorico e il tempo ciclico dei Malavoglia, in contrapposizione al carattere laico del Gesualdo, che è un viaggio nel moderno (1989). È ancora da ricordare il preziosissmo lavoro filologico che si è svolto in questi ultimi anni sui testi verghiani ad opera di numerosi studiosi (citiamo soprattutto Gino Tellini e Carla Riccardi), che hanno consentito finalmente di leggere le opere di Verga in un testo criticamente accertato, mentre in precedenza si era costretti ad usare edizioni molto scorrette. L’ac-
cessibilità dei manoscritti ha poi aperto la via a scoperte interessanti (varianti, prime stesure delle opere, abbozzi). È in corso la pubblicazione di un’edizione nazionale di tutta l’opera, a cura della Fondazione Verga di Catania, che offre la possibilità di una lettura dell’opera in tutte le sue stratificazioni e in tutte le sue pieghe.
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LUIGI RUSSO La religione della casa I passi che riportiamo esemplificano chiaramente la linea di interpretazione del Russo: innanzi tutto, secondo i principi metodologici crociani, il critico ricerca il sentimento ispiratore che dà origine alla «poesia», e lo individua nella «religione della casa». Verga è presentato come il cantore dei valori patriarcali, propri di un mondo primitivo ed elementare. E della sua arte viene sottolineato il carattere eminentemente lirico e religioso.
Questo senso di fatalità che c’è in tutto il racconto, non insinuato per tesi dallo scrittore, ma direttamente sentito dai protagonisti dell’azione, dà al romanzo una intonazione tragica, che, per essere intessuto di svariati episodi umoristici che coloriscono tutta la vita di un villaggio, non perde mai però questo suo ritmo di perduto dolore e della sua unità d’ispirazione. «A ogni uccello il suo nido è bello», avevano detto gli antichi: °Ntoni Malavoglia si è scordato di questo motto di saggezza; ed egli precipita nel vizio e con lui si abbatte tutta la casa dei Malavoglia. Tragedia, dove gli uomini non si atteggiano ad eroi, e sono eroi; silenziosi eroi del dovere, eroi dell’onore domestico, del lavoro e della fedeltà. Possiamo dire appunto che questo è il romanzo della fedeltà, nel senso religioso, alla vita, alle costumanze antiche e severe, agli affetti semplici e patriarcali. Dove questo patto è rotto, ivi sorgono gli elementi della futura catastrofe, e la catastrofe è lì a riaffermare, col dolore muto delle lagrime dei superstiti, la sanità dell’ideale e della saggezza antica disconosciuta. Padron ’Ntoni è il custode tenace di queste leggi invisibili della casa; egli è un semplice pesca-. tore, ma si drizza, davanti alla nostra fantasia, rude e triste, nell’austerità e naturale grandezza della sua anima all’antica, senza che l’artista abbia voluto farcene di proposito la prosopopea!, per tirarci al consenso e all’ammirazione. [...]
E anche il suo proverbiare frequente è pur una necessità ideale: padron ’Ntoni è, non soltanto il patriarca del santuario, ma anche l’umile salmista? di quella sua religione della casa e della famiglia [...]. E il suo senso religioso della vita si allarga nell’anima della famiglia: iMalavoglia nel lavoro sono una mano sola, nelle disgrazie sono un cuore solo, nelle decisioni una volontà sola, proprio come le dita della mano, e prima veniva lui, padron ’Ntoni, «il dito grosso, che comandava le feste e le quarantore». Noi già li vediamo, in iscorcio fin dalle prime pagine del romanzo; per ognuno che parli, nelle sue parole c’è l'animo, la voce, il gesto, dell’altro. Anche il racconto è 1. prosopopea: esaltazione pomposa in forma ritmata e destinate al canto, che costituiscono uno 2. salmista: i Salmi (dal greco psdllein, suonare la cetra) | dei libri dell’Antico Testamento; metaforicamente, padron sono composizioni religiose, inni, invocazioni, preghiere, | ’Ntoni è il sacro cantore della “ religione” della casa.
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
987 così condotto che non par di ascoltarlo dalla bocca dell'artista, ma a volta a volta dai singoli protagonisti, i quali rievocano sé e gli altri famigliari nella sintesi di un comune sentimento. Padron ’Ntoni è la sua famiglia, la famiglia è il suo cuore, e tutti insieme sono la vita e il cuore del villaggio. E per questo non si può dire che campeggi un protagonista nel romanzo, ma protagonista è tutto il paese, e lo scrittore è mirabile nel rievocare in ogni persona, ad ogni passo, quella vita collettiva e la storia totale di tutto il romanzo: e questo è segno di arte grande. [...] Particolarmente il senso religioso della casa si allarga in tutto il romanzo come la voce di una musica sacra che riempia, a volta a volta, e dòmi e soffochi il brusìo di una folla distratta di fedeli, e chiami tutti al raccoglimento. Da un coro stridulo di pettegolezzi paesani sale questo canto basso e solenne a una divinità severa e impassibile, a cui tutti rendono omaggio, anche gli stessi traviati, gli stessi oziosi, i vagabondi, che hanno perduto il gusto del focolare domestico. Ed è questa primitiva e potente religione della casa, e delle virtù patriarcali, che stringe
in una ferrea unità il romanzo. Una sola fede in tutti, un solo dio senza chiese, ma che vive,
ora per ora, nel cuore di tutti.
da G. Verga, Laterza, Bari 1963”, pp. 137-189, 159
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LEO SPITZER Il racconto corale e l’anima folklorica del villaggio Dal saggio di Spitzer riportiamo l’analisi di un passo famoso dei Malavoglia, in chiusura del cap. II: «Le stelle ammiccavano più forte, quasi si accendevano e i Tre re scintillavano sui faraglioni, con le braccia in croce, come sant’Andrea. Il mare russava in fondo alla stradicciola, adagio adagio, ea lunghi intervalli sì udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo, èl quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai; e c'era pure della gente che andava pel mondo a quell'ora, e non sapeva nulla di compar Alfio, né della Provvidenza che era in mare, né della festa dei Morti. Così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno». Lo Spitzer prende le mosse dall’analisi di un altro critico, il Giinther, che nel passo vede il passaggio da una descrizione esteriore del paesaggio ad un discorso indiretto libero che esprime i pensieri e i sentimenti di un personaggio, Mena (a indicare l’indiretto libero, viene usata la formula tedesca erlebte Rede, “discorso rivissuto ”). Per Spitzer invece tutta la descrizione paesistica è il riflesso dell’animo di Mena, che è l’eco del sentimento corale di tutto il villaggio. La critica stilistica, come si vede, dall’indagine minuziosa della costruzione della pagina e dal linguaggio risale alla visione poetica dell’autore.
Evidentemente Giinther deve aver pensato che l’erlebte Rede di Mena comincia, «nel mezzo di una frase», colle parole e andava pel mondo il quale è tanto grande...; con questa frase, che segue il pezzo narrativo sì udiva il rumore di qualche carro (e col verbo udire siamo preparati a sentire non solo rumori della natura, ma anche parole umane), sentiamo «il battere del cuore di Mena», preoccupata dalle parole di amore velato che ha un momento fa sentite da compare Alfio, dai pericoli che minacciano in quel momento suo zio Bastianazzo sulla sua barca «La Provvidenza», e dalla «Festa dei Morti» imminente, in cui Alfio andava alla città per un fine utilitario, «per un carico di sale», ma che, così accozzato nella mente di Mena colla «Provvidenza», acquista un tono funebre. Ma mi sembra che il cuore di Mena aveva «cominciato a battere» anche prima, benché meno percepibilmente - nella natura che sembra pervasa tanto dall'anima di Mena quanto questa è pervasa dal tutto della natura. Dopo tutto, «le stelle che ammiccavano più forte» non è che una ripresa delle parole di Mena nel suo dialogo precedente con Alfio: «Guardate quante stelle ammiccano lassù... Ei dicono che sono le anime del Purgatorio che se ne vanno in Paradiso» (allusione evidente alla morte imminente di zio Bastianazzo). 4 CILE i La natura agisce qui in consonanza con le credenze (o superstizioni) degli uomini (di quegli «ei» di cui Mena è una parte e a cui appartiene anche il nonno Padron ’Ntoni, che, guardando un poco dopo le stelle «che luccicavano, più del dovere» interpreta il loro augurio funesto come Re scintillavano sui farala nipote: «Mare amaro»). E la constatazione del narratore («i Tre termini antropomorfici, in concepita anche è glioni, colle braccia in croce, come Sant'Andrea») cioè di Mena che vede i faraglioni in quella forma (l’autore non ci dice oggettivamente «che formavano una croce di Sant’ Andrea»), che suggerisce un martirio umano - non sarà anche erlebte Rede questa descrizione della natura? Ma se le cose esteriori sono filtrate dalla coscienza umana La critica
988 di Mena, Mena stessa è un «essere corale» che pensa con l’anima folklorica! del villaggio e le
battute del suo pensiero non sono altro che il ritmo di questo pensiero collettivo. Il passo sui. carri che passano nel buio della notte e sulla gente che va nel mondo a quell’ora, che fa parte. del passo dove «batte il cuore di Mena», è infatti una ripresa di un passo anteriore, in cui parla compare Cipolla: - Notte e giorno c'è sempre gente che va attorno pel mondo -, osservò poi compare Cipolla. E adesso che non si vedeva più né mare né campagna sembrava che non ci fosse altro che Trezza, e ognuno pensava dove potevano andare quei carri a quell’ora.
Dobbiamo ammirare qui l’arte squisita del Verga: Mena si fa l’eco di quello che ha detto o pensato, non soltanto lo «sputasentenze di padre Cipolla», ma «ognuno» nel paese:è l’anima collettiva di Trezza che sente in quel momento la solitudine dell’uomo nell’universo. E pur vero il giudizio di Luigi Russo (che abbiamo l’occasione di citare più a lungo in ciò che segue): «per ognuno che parli, nelle sue parole è l’animo, la voce, il gesto dell’altro». L’erlebte Rede è parola corale. Altro particolare del nostro passo, non menzionato dal Ginther (né dal Devoto): perché, ci domandiamo, alla fine l’autore mostra «le bout de l’oreille»? fino al punto di epilogare (goffamente, potremmo pensare noi lettori moderni, avvezzati alla caratteristica indiretta): «Così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno»? Si potrebbe dire che Mena in questa descrizione della natura si muove di grado in grado più verso il centro della scena: prima (con «le stelle ammiccavano più forte») era presente nella natura col suo essere, per dir così folklorico*, poi il suo cuore personale cominciò a battere («e andava pel mondo il quale è tanto grande...») e finalmente emerge tutta la persona pratica di Mena, nella sua posizione precisa («sul ballatoio aspettando il nonno»). Il «Così pensava Mena» si riferirebbe a tutto il paragrafo (non soltanto al passo da «e andava pel mondo...» in poi) che sarebbe intieramente erlebte Rede — ma non lo capiremmo noi senza l’annuncio esplicito Così pensava...? Credo che bisogna invocare qui un altro motivo estetico: il principio epico-ritmico, l’abitudine dell'autore di introdurre certe ripetizioni di battute, come se la natura dei personaggi (e della «natura») ubbidisse a un ritmo interiore: bisogna infatti leggere la frase Così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno come un verso omerico costante‘ del genere di Così disse rispondendo a lui il piè veloce Achille. da L’originalità della narrazione nei «Malavoglia» (1956), in Studi italiani, Vita e pensiero, Milano 1976, pp. 300-302
1. anima folklorica: il villaggio dei Malavoglia ha una mentalità arcaica e primitiva, come quelle studiate dal folklore, che è la scienza che si occupa delle culture popolari sopravviventi nella civiltà moderna. 2. le bout ... oreille: letteralmente “la punta dell’orecchio”: cioè fa capolino. :
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| 3. essere ... folklorico: che partecipa cioè alla mentalità | collettiva del villaggio, alle sue credenze e ai suoi valori | arcaici. 4. verso ... costante: nella poesia omerica vi è la costante | ripetizione di formule, come quella riferita ad Achille che viene qui citata.
ALBERTO ASOR ROSA Verga antipopulistico e «negativo» Le pagine di Asor Rosa, nel 1965, segnarono una vera rivoluzione nel modo di leggere Verga. La
critica aveva sempre rimproverato allo scrittore le sue posizioni conservatrici, vedendo in esse un limite alla riuscita artistica; Asor Rosa indica invece come proprio il rifiuto di speranze progressive consenta a Verga di dare una rappresentazione critica della realtà, perché lo libera dagli impacci della mitologia populistica imperante nella sua epoca, e gli assicura una grande acutezza conoscita. E un tipo di critica sociologica che punta sul valore conoscitivo della rappresen tazione artistica, messa in relazione con l’ideologia dello scrittore. La rivalutazione di scrittori “non organici”
negativi, risente della lezione della Scuola di Francoforte (Max Horkheimer, Theodor W. Adorno). i
Che cosa caratterizza fondamentalmente il populismo? La convinzione, sia pure espressa attraverso gradazioni diverse, che il popolo contiene in sé valori positivi, da contrapporre di volta Giovanni
Verga e il Verismo italiano
989 in volta alla corruttela della società, alle ingiustizie del destino e degli uomini, alla violenza bruta della disuguaglianza. Niente di tutto questo in Verga. In Verga la rappresentazione popolare
è solo un momentodi un quadro più vasto, di cui essa non rappresenta un fattore particolarmente significativo. Dietro ai proletari dei Malavoglia e di tante delle novelle siciliane del Verga, c'è una visione di carattere più metafisico che storico!, un atteggiamento morale più ontologico? che terreno, un’indignazione e un pessimismo più universali che umani. Verga non assegna al popolo un posto «privilegiato» nella grande vicenda del dolore. Quel che affascina lo scrittore non è la sofferenza dei ceti subalterni, considerati come aventi leggi e manifestazioni proprie, bensì la ciclica inesorabile riconferma di una legge comune a tutti i ceti, a tutti gli uomini, a tutte le creature viventi: dal miserabile asino della novella Rosso Malpelo, ai pescatori dei Malavoglia, all’aspirante borghese Mastro-don Gesualdo, fino ai personaggi immaginati ma non compiuti degli ultimi romanzi del «ciclo dei vinti». Il rifiuto del giudizio diretto sulla materia rappresentata e il criterio stilistico-strutturale dell’impersonalità - canoni fondamentali della scuola naturalistica - sono da Verga applicati con stupenda facilità, proprio perché egli non ha un punto di vista ideologico progressivo da difendere. La sua ideologia, se è possibile esprimersi così, è la sua poetica. E quando lo scrittore esce da questa sua condizione di marmoreo e impassibile testimone, è solo per giudicare erroneo, anzi, folle e disperato, ogni tentativo di sottrarsi con la violenza, l’organizzazione, il programma politico, ad una condizione d’inferiorità e di dolore, che il destino ci ha assegnato. La ribellione popolare si muove in Verga tra i due poli della violenza cieca e animalesca, di cui i contadini danno prova nella novella Libertà, e del facile tradi-
mento di classe del protagonista del dramma Dal tuo al mio. Non c’è via di mezzo fra questi due estremi: ossia, non c’è speranza concreta di miglioramento, perché la «lotta per l’esistenza, pel benessere, per l'ambizione» non comporta deviazioni dalla sua linea di ferro e tremendo egoismo. Il paradosso, solo apparente a guardar bene, dell’arte verghiana sta in questo: che proprio il rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresentazione più convincente, che del mondo popolare sia stata data in Italia durante tutto Ottocento. Non è dunque opera del caso la grandezza di Verga poeta dei Malavoglia. Se volessimo scegliere la strada di un giudizio immaginoso, diremmo che il borghese Verga rifiuta la tazza del consòlo?, che la borghesia è sempre così pronta ad apprestarsi quando s’avvicina al così detto problema sociale: alla protesta e alla speranza, categorie molto dubbie sul piano ideologico e letterario, perché presuppongono fatalmente una posizione subalterna in chi le esprime, egli preferisce la conoscenza e la consapevolezza. Il rifiuto di un’ideologia progressista costituisce la fonte, non il limite, della riuscita verghiana. da Scrittori e popolo (1965), Samonà e Savelli, Roma 19662, pp. 59-61
1. metafisico ... storico: non riferito ad una particolare | determinazioni particolari e storiche.
consòlo è situazione storica, ma ad una condizione assoluta ed uni- | 3. tazza ... consòlo: nelle società meridionali, il
versale. 2. ontologico: l’ontologia è la branca della filosofia che stu-
il banchetto che viene offerto da parenti ed amici alla famiglia di un defunto, per consolarne il lutto.
dia le modalità fondamentali dell'essere, al di là delle sue
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VITILIO MASIELLO Società industriale e anticapitalismo romantico diede un contributo decisivo Con il saggio del 1964, Verga e la crisi della società italiana, Mastello lia, il critico riprende Malavog su mente recente più ndo Ritorna a. alla svolta della critica verghian è letto come espresromanzo Il i. le sue tesi, chiarendole, approfondendole e apportando alcune correzion iale in nome di industr civiltà a modern sione di un anticapitalismo romantico, di un rifiuto della mamera pù una e valori certi no difendo che rurale, forme di vita più arcaiche, quelle della società gendo. distrug va so umana di vivere, che il progres La critica
990 Evidentemente la struggle for life! — la lotta per la sopravvivenza, la «guerra di tutti co a tro tutti» - è legge universale, «principio fondamentale della nostra odierna società». Ma esso. non si manifesta dovunque con la stessa compatta, uniforme intensità e virulenza. Sopravvi: vono, ai margini di un universo integralmente alienato e reificato?, isole di resistenza certo destinate ad essere riassorbite e travolte, modi di essere e di vivere, di appropriarsi agli uomini e alle cose, antagonistici rispetto a quelli che la storia presente ha promosso e generalizzato; resiste e sopravvive — certo in condizioni sempre più precarie, come relitto storico, memoria, idea platonica di una dimensione «altra» del vivere - una diversa «prospettiva delle idee e dei sentimenti», non omologabile alla prima; esiste in definitiva una dialettica di idee, di atteggiamenti, di comportamenti — di modelli esistenziali ed umani - che, qualecchessia il suo esito finale, ci restituisce quanto meno una avara memoria di umanità. Che questa prospettiva «altra» sia perdente, storicamente ed ontologicamente? perdente, non importa. Chi ha detto che la storia si possa scrivere solo dal punto di vista dei vincitori? I Malavoglia sono, per un loro aspetto cospicuo e rilevante, il luogo simbolico di una tale alternativa alla civiltà «delle banche e delle imprese industriali», la testimonianza di un’antitesi residua e mitica. Sono comunque il luogo in cui si esplica e consuma una dialettica di valori, di prospettive etiche ed esistenziali, altrove ormai impossibile per la definitiva scomparsa di uno dei poli della contraddizione. Sono certamente la straniata” rappresentazione di quella dialettica e del suo necessario esito catastrofico: la storia di una necessaria inevitabile sconfitta, che relega nella dimensione del mito o recupera a livello di nostalgia o di utopia la prospettiva perdente. Già la stessa ambientazione scenica, la rappresentazione o piuttosto evocazione del villaggio di Aci-Trezza, mai naturalisticamente circostanziata ma semmai sbozzata con tecnica impressionistica, ci riporta in una dimensione «altra» del vivere, venata di tensioni idilliche e intrisa
di nostalgia: un pugno di case (anzi, di «casipole») sperdute tra mare e cielo - «un cielo turchino che non finiva mai» - e sbalzate entro una dimensione mitica dello spazio e del tempo, che isola e distanzia quasi fuori del mondo una realtà per altro verso concreta e riconoscibile. Trieste e Alessandria d’Egitto ne rappresentano i mitici antipodi, gli estremi confini evocati a rendere il senso di una distanza incommensurabile: Riposto il limite invalicabile, le colonne d’Ercole al di là delle quali ribolle il mondo grande e vorace, l’ignoto che a seconda dei casi affascina o spaura. Si veda, ad apertura di romanzo, la rappresentazione del villaggio al tramonto, la sera della partenza di Bastianazzo: quasi un’ouverture8, che introduce il tema e l’atmosfera di un’ancora intatta semplicità e serenità di vita, prima della tragedia, prima cioè che le nascenti «irrequietudini per il benessere»? ne sconvolgessero la primordiale, elementare «felicità» [...]. Ma più che l’ambiente naturale, lo sfondo scenico della vicenda, così diverso da quello delle grandi città «che uno il quale non ci sia avvezzo si perde per le strade; e gli manca il fiato a camminare sempre fra due file di case, senza vedere né mare né campagna» (XI, 170) - uno sfondo già di per sé significativo di una più umana dimensione del vivere - sono le forme e i modi di vita che vi si svolgono ad esprimere, ancora e in' questa fase, le animazioni da anticapitalismo romantico! che percorrono in profondità la tessitura del romanzo. In contrasto con i processi di dissoluzione delle relazioni interumane e di atomizzazione individualistica che caratterizzano la dimensione «urbana» del vivere, qui la vita ha una istituzionale dimensione comunitaria, un ritmo corale, che presenta certo i suoi risvolti negativi, i risentimenti e le frizioni tipiche delle piccole comunità, ma che immunizza dal rischio della dispersione e dell’isolamento. È l’idea del villaggio-famiglia - dove tutti si conoscono e tutti partecipano, 1. struggle for life: lotta per la vita; è la famosa formula di Darwin, lo scienziato che ha fondato la teoria evoluzionistica (cfr. M21).
2. alienato ... reificato: ridotto a cosa inerte e spersonalizzato, privo di consapevolezza attiva (dal latino alienus= che e ad altri, e res+facio=rendere simile ad una cosa). < 3. «altra»: diversa da quella dominante. 4. «prospettiva ... sentimenti»: la citazione è dalla lettera di Verga a Capuana del 14 marzo 1879 (cfr. T201). 5. ontologicamente: per ragioni assolute, non dipendenti
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Verga e il Verismo italiano
da particolari condizioni storiche. 6. «banche ... industriali»: citazione dalla prefazione a Eva (cfr. T198). 7. straniata: cfr. G e M22. 8. ouverture: la sinfonia che apre le opere liriche. 9. «irrequietudini ... benessere»: citazione dalla prefazione ai Malavoglia (cfr. T205). 10. anticapitalismo romantico: il rifiuto della realtà capitalistica moderna è un aspetto centrale del Romanticismo, che, in opposizione ad essa, guarda nostalgicamente a forme di organizzazione sociale del passato.
991 nel bene e nel male, delle vicende di ognuno - che alla fine del romanzo, post res perditas!! costituirà l’oggetto del rimpianto di ’Ntoni [...]. Ma c'è un ulteriore livello al quale è possibile misurare l’alterità!° di questo mondo rispetto all’altro, che turbina al di là: un livello, se si vuole, più segreto e reticente, più alluso che dichiarato, e che è possibile individuare in modo indiretto e per contrasto, in un più ampio quadro di riferimento. Mi riferisco alla tenuta, all’interna coesione e stabilità che l'universo arcaico-rurale emble-
matizzato nei Malavoglia testimonia, pur in presenza di fermenti di tensione sociale, rispetto agli sconvolgimenti, al rombo di tempesta che provengono dalle aree urbane. Si direbbe che il microcosmo arcaico, pur insidiato da fermenti di crisi che filtrano dall’esterno, sia tuttavia immune
dalla violenza delle tensioni che percorrono la società industriale. Si veda la scena della rivolta del villaggio per il dazio sulla pece, nella quale la rappresentazione dell’agitazione popolare, promossa e guidata dalle donne («la rivoluzione che facevano le mogli») appare stemperata e distanziata in un contrappunto di annotazioni riduttive, ireniche o sdrammatizzanti. [...] Di ben altra virulenza e drammaticità erano le crisi che investivano l’universo urbanoindustriale. da I «Malavoglia» e la letteratura della rivoluzione industriale», in I miti e la storia, Liguori, Napoli 1984, pp. 120-124
11. post... perditas: dopo la rovina, la perdita del “nido” familiare. 12. alterità: il carattere “altro”, alternativo.
C54
ROMANO LUPERINI La conclusione dei Malavoglia e il distacco di Verga dal suo anticapitalismo romantico Luperini è autore di numerosi studi su Verga. Il suo primo libro, Pessimismo e verismo in G. Verga (1968), aveva dato un contributo fondamentale alla svolta della critica verghiana. In questo ultimo libro, del 1989, amplia l’indagine sociologica e ideologica con altri strumenti, in senso lato “antropologici”, applicandoli ad un confronto tra i Malavoglia e è Gesualdo: il primo è un romanzo dal taglio simbolico ed epico-lirico, e rappresenta un mondo pre-moderno, mitico e folklorico; il secondo è invece un romanzo tutto “laico” e profano, che rappresenta realisticamente la modernità. Nelle pagine che riportiamo, il critico dà dei Malavoglia un’interpretazione che in parte coincide con quella di Masiello (rappresentazione di un mondo chiuso in un tempo ciclico, fuori della storia), ma ne diverge nettamente indicando come il romanzo segni il distacco definitivo di Verga da quella forma di anticapitalismo romantico, che lo aveva indotto a idoleggiare il mondo arcaico e rurale. epos e romanzo, Il confine fra premoderno e moderno è, nei Malavoglia, anche confine fra
aperto e profra tempo circolare e tempo lineare, fra spazio chiuso e sacro del villaggio e spazio solo possibile sarebbe esso perché percorso e durata come fano delle città. Vi manca il viaggio L’orizun confine. come viaggio dall’arcaico-rurale al moderno, dunque come profanazione di di sacrificio e rinuncia, di massimo un o attravers solo difeso essere può no premoder zonte del ta simbolicaesorcizza piuttosto viene di autorepressione: l'alternativa del moderno incombe e cura scrupola anche esorcismo tale di parte Fa mente che affrontata e risolta realisticamente. luogo. di l’unità a rispettat losa con cui nel romanzo è rigidamente o coincidano è mostrato Che il tema del viaggio e quello del rapporto fra premoderno e modern già era accaduto in come volta, esemplarmente delle pagine finali dei Mi alavoglia. Ancora una dal villaggio resta lontano ’Ntoni da occasione delle altre due assenze da Trezza, la vita trascorsa a condanna. E gli esplicit ogni di più vale che fuori dello spazio narrativo, avvolta in un silenzio anche Alfio, prima, pagine poche nde, D'altro vo. definiti torna da straniero, e solo per un congedo è uno lascia il suo paese meglio che da poco ritornato dalla Bicocca, aveva annunciato: «Quando non ci torni più». La critica
992 L’addio di ’Ntoni a Trezza è un addio alla civiltà dell’«eterno ritorno»!. Nell'ultimo capitol Alessi e ’Ntoni sono posti di fronte per suggerire un’opposizione di destini: l'uno resta nella casa rifugio e nel paese-nido, l’altro, strappato da questo tempo e da questo spazio mitici, appare ormai condannato allo sradicamento dell’esilio e al tempo-spazio del «progresso». I faraglioni, il mare che brontola sempre «la solita storia», i T're re, che luccicano, la Puddara che annuncia
l’alba appartengono allo stesso universo della famiglia patriarcale che Alessi rappresenta e che il fratello deve abbandonare per sempre. Mentre un nuovo giorno sta nascendo, "Ntoni guarda per l’ultima volta il paese, il cielo, il mare. L'inizio di una nuova giornata s'inserisce nel ritmo della rassicurante ripetizione da cui ormai egli è escluso definitivamente. Tutto ritorna e si ripete come sempre. E si ripetono anche le parole e le espressioni del narratore di una cadenza epicolirica: la parola «cominciare» è iterata sette volte, e l’espressione «cominciare la propria giornata» tre volte. A questo ritmo ciclico appartiene anche Rocco Spatu. Quanti hanno trovato irragionevole o scarsamente significante la battuta finale a lui riferita («Ma il primo di tutti a comin: ciare la sua giornata è stato Rocco Spatu») non hanno pensato che questo personaggio, pur essendo all’ultimo gradino della scala sociale, appare ora a ’Ntoni pienamente inserito in quel l'universo «idillico» e «familiare» che egli deve invece lasciare dietro di sé: persino lui può «comin: ciare,la sua giornata», come poco prima lo zio Santoro e le barche (ma, precedentemente, anche due personaggi certo non esemplari, come la Mangiacarrubbe e Brasi Cipolla, erano stati oggetto della dolorosa invidia di ’Ntoni perché «andavano a dormire nella loro casa»). Il tempo verbale in cui è rappresentata l’azione di Rocco Spatu è l’imperfetto, lo stesso che in queste pagine conclusive è riservato alle costellazioni, al mare, alle barche, alla vita del paese: è un tempo dura: tivo che sottolinea la ripetizione e la continuità, lo scorrere naturale delle stagioni non meno che dei gesti umani che all’alba si susseguono eguali di generazione in generazione. Invece il tempo verbale di ’Ntoni è il passato remoto, tempo dell’azione storica. La giustapposizione dei due tempi verbali mette in rilievo la contraddizione fra due diverse maniere di concepire il rapporto fra tempo e spazio e, in prospettiva, fra due diversi cronotopi? narrativi: di qui in avanti, infatti, Verga seguirà ’Ntoni nel suo viaggio nel moderno e quindi abbandonerà il romanzo «idillico» e «familiare» per quello «di prove», l’imperfetto per il passato remoto, il mito per la storia, la religione della famiglia per la logica della roba. Per questo, l’addio di ’Ntoni ha la dimensione tragica di una scelta storica. Egli che «sa» tutto (e questa nuova consapevolezza è ribadita due volte nelle pagine finali) sa anche che l’unica integrazione possibile sarebbe stata a Trezza, ma sa pure che, ormai, questa non è più possibile e che il suo destino è di accettare l’alienazione‘ del tempo lineare del «progresso» e delle grandi città. Di qui il suo rilievo autobiografico. Attraverso ’Ntoni, l’autore canta simbolicamente il distacco dalla propria formazione romantica che lo aveva indotto a cercare un momento di «fresco e sereno raccoglimento»? nel mondo arcaico-rurale e a rintracciarvi un'alternativa di valori. La fine del romanzo segna la fine dell’anticapitalismo romantico® di Verga. Significativamente, l’idealizzazione del paese-famiglia («Si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia») è tutta proiettata sul passato. È la memoria che trasfigura nostalgicamente una realtà paesana che il lettore sa attraversata da meschinità e da tensioni sociali ed economi che, e comunque già dominata dal cinismo e dalla logica dell'interesse. Il mito di Trezza non appartiene all’orizzonte del presente ma solo a quello del ricordo. La memoria e il simbolo colmano le fratture che pure l’analisi veristica aveva impietosamente rappresentato, e così Trezza può apparire la terra di una civiltà remota, ove il rapporto con la natura può essere ancora pieno e autentico. . L'universo arcaico-rurale idealizzato nel ricordo può ancora consentire sia il lirismo simbolico di armoniose correspondances® fra l’anima dei personaggi e il palpito degli astri, sia la cadenza epica dei proverbi di padron ’Ntoni, un personaggio in cui interno ed esterno, umanità ila«eterno ritorno»: la società arcaica non conosce sviluppo storico lineare: tutto ritorna sempre identico, ciclicamente, come la natura. 2. cronotopi: il cronotopo è il combinarsi nella narrazione della dimensione del tempo e dello spazio. 3. «di prove»: in cui l’eroe deve sottostare a prove, per ottenere un certo fine. 4. alienazione: nel tempo storico del progresso l'individuo
Giovanni
Verga e il Verismo italiano
| si spersonalizza, diviene estraneo a se stesso.’
| 5. «fresco ... raccoglimento»: citazione dalla lettera a Capuana del 14 marzo 1879 (cfr. T201). | 6. anticapitalismo romantico: cfr. nota 10 del passo precedente, | 7. correspondances: corrispondenze; l’allusione è al famoso sonetto di Baudelaire (cfr. T56 e C20).
rage Il secondo Ottocento: tra Realismo e Postimpressionismo
La pittura
Arte 8
.32) .38) .34) .35)
John Everett Millais, Ofelia, Londra, Tate Gallery; Honoré Daumier, Il vagone di terza classe, Ottawa, National Gallery of Canada; Giovanni Fattori, Buoi al carro, Firenze, Galleria d’ Arte Moderna; Gustave Courbet, Lo studio dell’artista, Parigi, Musée du Louvre;
.36) . 37) .38) . 39)
Edouard Manet, Ritratto di Silvestro Lega, Il pergolato, Edgar Degas, La lezione di Claude Monet, Impressione,
. .. . -
40) 41) 42) 43) 44)
Giuseppe De Nittis, Mattinata sul Tamigi, Parigi, Collezione privata; Camille Pissarro, La prima colazione, Chicago, Art Institute; Auguste Renoir, La colazione dei canottieri, Washington, Phillips Memorial Gallery; Vincent Van Gogh, Il ponte di Langlois, Otterlo, Rijksmuseum Kroller-Muller; Georges Seurat, Una domenica pomeriggio all’Ile de la Grande Jatte, Chicago, Art
. 45) - 46) . 47) . 48) . 49) .50) . 51)
Institute; Giovanni Segantini, Le due madri, Milano, Galleria d’ Arte Moderna; Henri De Toulouse Lautrec, Al Moulin Rouge, Chicago, Art Institute; Paul Cézanne, Natura morta con mele e arance, Parigi, Musée d'Orsay; Telemaco Signorini, La toilette del mattino, Milano, Collezione privata; Paul Gauguin, Donne sulla spiaggia, Parigi, Musée d’Orsay; Giovanni Boldini, Mademoiselle Lanthelme, Roma, Galleria d’Arte Moderna; Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, Milano, Galleria d'Arte Moderna.
Emile Zola, Parigi, Musée d’Orsay; Milano, Pinacoteca di Brera; ballo, Parigi, Musée d’Orsay; sole nascente, Parigi, già Musée Marmottan;
La scultura
fig. fig. fig. fig.
52) 53) 54) 55)
Vincenzo Adriano Medardo Auguste
Gemito, Il pescatoriello, Firenze, Museo Nazionale del Bargello; Cecioni, La Madre, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna; Rosso, Il cantante a spasso, Roma, Galleria Nazionale d’ Arte Moderna; Rodin, La porta dell’Inferno, Parigi, Musée Rodin.
L’architettura
fig. fig. fig. fig. fig.
56) 57) 58) 59) 60)
Charles Garnier, L’Opéra, Parigi; Alessandro Antonelli, Mole Antonelliana, Torino; Emilio De Fabris, Facciata di Santa Maria del Fiore, Firenze; Guglielmo Calderini, Palazzo di Giustizia, Roma; Giuseppe Sacconi, Monumento a Vittorio Emanuele II (Il Vittoriale o Milite ignoto), Roma; fig. 61) Gustave-Alexandre Eiffel, La Tour Eiffel, Parigi.
Il secondo
Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
D JOHN EVERETT MILLAIS (1828-1896), Ofelia, 1851-52, olio su tela, 76x112 cm,
Londra, Tate Gallery Il pittore inglese John Everett Millais fu uno dei fondatori del movimento prerafaellita, che si sviluppò iin Inghilterra a partire dal 1848, ponendosi in netta contrapposizione con la pittura accademica, giudicata priva di spontaneità e di reale sentimento, ed espressione di una società, quella creata con la Rivoluzione industriale. A loro dire, infatti, lo sviluppo delle macchine e della produzione industriale degli oggetti aveva sensibilmente ridotto l’importanza della creazione arti stica e del lavoro artigianale. Il maggiore teorico del movimento fu lo scrittore inglese John Ruskin (1819-1900), che nel suo Modern Painters, edito nel 1846, considerò com-
pito principale dell’artista la rappresentazione di temi che esaltassero il patrimonio religioso e spirituale della società contemporanea per cercare di rinnovarne i valori morali e civili. In quest'ottica va, quindi, considerato il recupero della tradizione e della cultura medioevale, avviata in quegli anni in Inghilterra sia in campo letterario sia in quello figurativo. Modello dei pittori prerafaelliti divenne, in particolare, la pittura italiana del Trecento e del Quattrocento, che era stata contraddistinta da una profonda religiosità; questi pittori si allineano così alle scelte stilistiche che avevano già ispirato, alla metà del secolo, i Puristi ed i Nazareni (cfr. Arte 7, fig. 26). Rispetto, però, alle opere degli artisti che presero parte a questi ultimi movimenti, essenzialmente ispirate a fonti letterarie di carattere religioso e storico, i Prerafaelliti affrontarono anche temi legati ad eventi contemporanei, cercando di rendere attuale il messaggio religioso: per questo nei loro dipinti i personaggi biblici sono spesso inseriti in ambientazioni ottocentesche. La corrente prerafaellita si propose, anche, di recuperare quella fedele aderenza alla rappresentazione della natura, propria delle opere quattrocentesche. In questo senso deve essere, quindi, letta l’Ofelia, esposta alla Royal Academy di Londra nel 1852, per la cui iconografia Millais si ispirò ad una scena del quarto atto dell’ Amleto di Shakespeare: è il momento in cui Ofelia decide di annegarsi, dopo essere venuta a conoscenza del fatto che Amleto, di cui è innamorata, ha ucciso suo padre, Polonio. Ciò che emerge, osservando il dipinto, è la perfetta fusione tra il corpo di Ofelia ed il paesaggio naturale circostante, reso dall’artista con una ricercatezza di particolari e con una brillantezza di colori, ottenuti grazie all’uso delle tonalità luminose del verde e del bianco. L'ambiente naturale, riprodotto da Millais nello splendore primaverile, diventa così estremamente idealizzato, quasi irreale, e fa da contrasto all’immagine della giovinezza di Ofelia, ormai definitivamente perduta.
HONORE
DAUMIER
(1808-1879),
Il vagone di terza classe, 1862,
olio su tela, 67x93 cm, Ottawa, National Gallery of Canada
Il francese Honoré Daumier è soprattutto
ricordato per le sue litografie caricaturali, nelle quali prese di mira la monarchia di Luigi Filippo (1831-1847), stampe litografiche che contribuirono a sviluppare anche in Francia il gusto per la satira politica che era stata, fino a quegli anni, una prerogativa dell’arte e della cultura inglese. L’attenzione con cui Daumier delineò le caratteristiche fisiche e gli aspetti grotteschi dei suoi personaggi avvicina sensibilmente la sua arte alle tematiche del realismo: oltre a raffigurare momenti legati alla vita politica, l'artista affrontò tematiche di forte
Bignificato Sociale. Daumier fu, infatti, particolarmente vicino alle classi popolari sia urbane che rurali, denungiandone spesso le misere condizioni di vita determinate dalla rivoluzione industriale. iò è evidente in questa tela, nella quale Daumier si sofferma sull’atmosfera raccolta dello scompartimento di lun vagone ferroviario: la luce che proviene dalla sinistra illumina i volti dei passeggeri, resi con rapidi tocchi bli colore tra il giallo ed il rosso, creando un sensibile effetto di chiaroscuro. Daumier, da abile caricaturista qual Pra, sottolineò 1 contorni delle figure con un tratto di colore nero, in modo da poter meglio evidenziare le differenti fisionomie ed i lineamenti dei visi, utilizzando colori caldi stesi sulla superficie pittorica con tratti particolarmente grassi, appena diluiti nell’acqua.
GIOVANNI FATTORI (1825-1908), Buoi al carro, 1867 ca., 40x104 cm, Firenze, Galleria
di
d’ Arte Moderna
Fattori fu uno dei massimi esponenti del movimento dei macchiaioli, sviluppatosi in Italia tra il 1855 ed il 1867. Gli artisti che parteciparono a questa corrente cercarono di opporsi alla cultura accademica, evitando di utilizzare il disegno ed i rigidi contorni delle figure che avevano contraddistinto la pittura neoclassica. Per questo motivo la superificie pittorica dei loro dipinti è caratterizzata da una pennellata veloce, distesa sulla tela con un procedimento “a macchia”, senza un preciso disegno preparatorio. Pur essendo evidenti i riferimenti alla coeva pittura realista francese, i macchiaioli evitarono nelle loro opere l’uso del chiaroscuro,
presente nei quadri di Daumier (cfr. fig. 33) e di Courbet (cfr. fig. 35), ricercando piuttosto accostamenti di colori chiari, in modo da aumentare la luminosità dei dipinti. Il soggetto preferito dalla pittura dei macchiaioli si rivelò il paesaggio, soprattutto quello della maremma, assoluto protagonista anche di questa tela di Fattori. Tutta la scena si riassume principalmente nel carro dei buoi dipinto sulla destra in posizione leggermente diagonale per poter rendere la profondità del quadro e la sensazione di vastità della campagna circostante. La figura del contadino è ottenuta con rapidi tocchi di colore bruno-grigio, senza la definizione di contorni precisi. Tutto il dipinto risulta diviso in tre piani distinti, grazie a tre diversi accostamenti di colore: il giallo-verde dei campi assolati in primo piano, i toni scuri delle montagne sullo sfondo nella parte centrale, infine l’azzurro intenso del mare, contrapposto al biancore delle nuvole, appena abbozzate da rapide pennellate.
34) i
Il secondo
Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
GUSTAVE COURBET (1819-1877), Lo studio dell’artista, 1854-55, olio su tela, 359x598 cm, Parigi, Musée du Louvre
Il panorama artistico francese della metà del secolo, pur essendo ancora contraddistinto dalle opere di Ingres (cfr. Arte 7, fig. 18) e di Delacroix (cfr. Arte 7, figg. 22-23), esponenti della corrente neoclassica e romantica d’inizio Ottocento, fu interessato da un primo tentativo di rinnovamento stilistico promosso da Horace Vernet (1780-1863) ed Ernest Meissonier (1815-1891). La ricerca di una maggiore adesione alla rappresentazione del vero, della realtà quotidiana, portò, infatti, i due pittori francesi a fissare scene di vita contemporanea. | Ne sono prova Le barricate di Rue de la Mortellerie, giugno 1848-49, dipinta da Meissonier in occasione dei moti rivoluzionari parigini, ed i paesaggi e le popolazioni arabe, più volte raffigurati nelle opere di Vernet, che soggiornò a lungo nelle colonie francesi del Nordafrica. Il bisogno di realismo, evidente in queste opere, aprì la strada allo sviluppo del movimento realista, che trovò in Gustave Courbet uno dei suoi massimi esponenti: il pittore francese si pose, infatti, in contrapposizione con la pittura romantica, accusata di non rappresentare la società contemporanea per i suoi continui riferimenti alle opere letterarie del passato. In concomitanza con le trasformazioni politiche ed ideologiche, avviate con i primi movimenti rivoluzionari del 1830 e del 1848, l’arte avrebbe dovuto diventare, secondo Courbet, un mezzo per poter esprimere la necessità di cambiamenti sociali; l’artista era quindi nuovamente chiamato a partecipare attivamente alle sorti della società, abbandonando quella chiusura in se stesso che lo aveva contraddistinto nel periodo romantico. A conferma del suo programma artistico lo stesso Courbet scriveva: «Ho voluto (...) rappresentare i costumi, le idee, l’aspetto della mia epoca, secondo il mio modo di vedere; essere non solo un pittore ma un uomo; in una parola fare dell’arte viva, questo è il mio scopo». La data della nascita ufficiale del Realismo può essere, così, considerata quella del 1855, quando Courbet, vistosi rifiutare alcuni dipinti destinati all'Esposizione Universale di Parigi, presentò le sue opere in un Pavillion du Réalisme, da lui appositamente aperto. Tra queste era esposto anche Lo studio dell’artista, considerato il simbolo del movimento realista. Courbet si ritrasse all’interno del suo studio parigino, mentre era intento a dipingere un paesaggio. Vicino a sé collocò una modella, raffigurante la “nuda” verità, ed un bambino, evidentemente simbolo dell’innocenza. Il pittore francese divise l’intera scena in due zone ben distinte: alla sinistra (cfr. fig. 35 a) raffigurò un gruppo di persone appartenenti a diverse categorie sociali, tra le quali si notano un commerciante ebreo inginocchiato davanti ad un prete, a simboleggiare, secondo Courbet, l’ipocrisia della religione; un mietitore, un cacciatore con il suo cane, un rabbino, un pagliaccio, metafora del teatro. Sulla destra Courbet dipinse, invece, alcuni esponenti della società intellettuale contemporanea come lo scrittore Charles Baudelaire (cfr. A30), intento a leggere, Champfleury, seduto in primo piano sullo sgabello, ed il filosofo Pierre-Joseph Proudhon, con l’abito rosso e la barba, posto al fondo del quadro.
Arte 8
Fig. 35b. G. COURBET, Ritratto di Baudelaire, Ger (?), olio su tela, 53x61 cm, Montpellier, Musée abre.
Fig. 35a. G. COURBET, Lo studio dell'artista (part.). Il significato di questa netta divisione del dipinto è da ricercare nella consapevolezza da parte di Courbet di potersi dedicare all’arte grazie all'amicizia e alla stima di collezionisti, poeti e mercanti, suoi principali committenti. Ma nello stesso tempo il pittore, volgendo le spalle a questo gruppo di persone, volle dimostrare la sua completa attenzione al mondo della gente comune, da cui l’arte realista avrebbe dovuto trarre continua ispirazione.
LA TECNICA Courbet fu profondamente ispirato dalla pittura seicentesca di Caravaggio (1571-1610) e degli artisti fiamminghi come Rembrandt (16061666), a lungo studiati nelle sale del Louvre. Il pittore francese ne riprese, infatti, soprattutto la ricerca degli effetti di chiaroscuro, ottenuto grazie all’uso del bitume, e i forti contrasti cromatici, grazie all’uso di colori accesi come il verde ed il rosso accostati ai bruni. Ciò è particolarmente evidente anche nel bozzetto preparatorio raffigurante Baudelaire (cfr. fig. 35 b), sebbene la soluzione adottata da Courbet nel dipinto definitivo evidenzi la scelta verso tonalità più scure, oltre che una diversa impostazione della figura dello scrittore. Courbet era solito utilizzare la spatola per distendere i colori sulla tela,
e, per ottenere una maggiore adesione al vero, utilizzò, in questo caso, una superficie particolarmente ampia in modo da dipingere ogni elemento presente nel quadro a grandezza naturale.
Il secondo
Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
D
EDOUARD MANET (1832-1883), Ritratto di Emile Zola, 1867-68, olio su tela, 146x114 cm, Parigi, Musée d’Orsay
Il gusto per il mondo orientale, che aveva caratterizzato il periodo romantico, influenzò notevolmente anche il francese Edouard Manet, che in questo ritratto dell’amico Zola dimostrò una certa predilezione per l’arte giapponese, evidente non soltanto nella decorazione floreale del paravento sulla sinistra e nella stampa del pittore Utamaro (1753-1806) appesa alla parete, ma anche nella resa pittorica della superficie. Allo stesso modo degli artisti giapponesi, infatti, Manet non utilizzò le mezze tinte ed il chiaroscuro, ma preferì una separazione netta dei colori, come dimostra il contrasto tra il nero della giacca e l’incarnato del viso di Zola, dipinto con una pennellata piatta, senza sfumature. Un effetto esaltato anche dalla pagina bianca del libro aperto che riflette la luce sul viso dello scrittore. La novità dell’arte di Manet sta, quindi, soprattutto nell’aver considerato il nero come un colore vero e proprio, e nel disegno
bidimensionale, privo di prospettiva, dei suoi dipinti, molto | vicino a quello ottenuto dagli incisori giapponesi nell’esecuzione delle loro stampe, particolarmente ricercate, in quegli anni, dai collezionisti parigini. Questi contrasti di luce gli furono, inoltre, ispirati dalla pittura barocca del pittore spagnolo Diego Velazquez (1599-1660), di cui aveva ripetutamente studiato le opere nelle sale del Louvre e del quale si nota sulla parete un’incisione tratta dal dipinto Los borrachos (Gli ubriachi), in parte nascosta dalla fotografia di un’altra celebre opera di Manet, l’Olympia (1865, attualmente conservata al Musée d’Orsay di Parigi). Nonostante la difesa di Zola, questa tecnica pittorica suscitò comunque molte critiche da parte dei contemporanei, che accusarono l’artista di voler rappresentare nelle sue opere non soltanto ciò che vedeva, secondo le regole del Realismo, ma anche ciò che sentiva, trasportando sulla telaisuoi sentimenti e gli stati d’animo. Per questa visione dell’arte, Manet può essere giustamente considerato un precursore della pittura impressionista (cfr. fig. 39).
SILVESTRO LEGA (1826-1895), Il pergolato, 1868, olio su tela, 75x93,5 cm, Milano, Pinacoteca di Brera LA
Poe"
Dopo essersi legato, negli anni giovanili, agli esiti della pittura purista, Silvestro Lega aderì verso il 1860 alla scuola dei macchiaioli, di
cui riprese l’uso della pennellata distesa “a macchia” sulla superficie pittorica e la preferenza verso tonalità chiare e luminose. Oltre ai consueti paesaggi, soggetto ricorrente nei dipinti dei macchiaioli, Lega raffigura nelle sue opere anche momenti di vita borghese, come in questa tela esposta alla Promotrice di Firenze del 1868. Rispetto all'opera di Fattori, in cui i contrasti cromatici sono particolarmente accentuati, il dipinto di Lega rivela ancora forti legami con la pittura purista, soprattutto per il disegno preciso della composizioArte 8
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Divisione della tela in linee orizzontali e verticali: il senso verticale è sintetizzato dagli alberi e dagli alti prati Phe circondano il giardino; il pergolato con le foglie illuminate dai raggi del sole aumenta la verticalità del dipinto entre, sulla destra, la cameriera che procede lentamente costituisce un altro elemento di separazione verticale el quadro. L'effetto orizzontale è, invece, ottenuto da Lega con l’inserimento del muretto che circonda il pergolato e con le ombre che si allungano sul pavimento. ega però sì discosta dai macchiaioli per aver disteso il colore in modo uniforme, con una pennellata meno grassa îpda, attribuendo così ancora particolare importanza al disegno e alla resa dei contorni con cui sono delineate e figure. |
EDGAR
DEGAS
(1834-1917), La lezione di ballo, 1874, olio su tela, 85,5x75 cm, Parigi, Musée d’Orsay
Nonostante avesse partecipato alla prima mostra degli Impressionisti del 1874, il francese Degas non riuscì mai a recepire pienamente la visione della natura che aveva caratterizzato la pittura di Monet (cfr. fig. 39) e degli Impressionisti in generale, non soltanto preferendo al plein air il tradizionale studio nell'atelier, ma dimostrando piuttosto nelle sue opere chiari riferimenti ai risultati tecnici ottenuti in quegli anni dalla fotografia. Le inedite inquadrature, soprattutto quelle diagonali, fissate dalle “istantanee”, influenzarono profondamente il disegno dei suoi dipinti, come si può notare in questa tela: il pittore francese inquadrò, infatti, la scena da un punto di vista rialzato rispetto al pavimento, come se si trattasse di una ripresa fotografica, e lo spazio è organizzato in senso diagonale, grazie all’inserimento del parquet dipinto a strisce continue. Degas stesso si servì più volte di immagini scattate dalla macchina fotografica per poter studiare con maggior attenzione gli atteggiamenti naturali delle figure da ritrarre. Affascinato dal mondo dello spettacolo e dalla danza in particolare, Degas riprese in questo dipinto una lezione di ballo nel ridotto del teatro parigino di Rue
Le Peletier, alcuni anni prima che fosse distrutto da un incendio. Piuttosto che rappresentare il momento della lezione, l’opera sembra soffermarsi sulle sue fasi finali: la ballerina in primo piano appoggia, infatti, stancamente la mano alla vita, mentre la compagna vicina si tocca la schiena in un atteggiamento di evidente stanchezza. Inoltre, il gruppo di danzatrici, dipinte al fondo della tela, dimostra chiaramente la mancanza di attenzione alle parole del maestro. Degas fu particolarmente sensibile alla scelta di colori tenui che aumentassero la luminosità dei suoi dipinti: anche in questo caso, infatti, si servì in prevalenza di toni verdi, a loro volta schiariti dal bianco del tulle delle ballerine e dalla luce che proviene alle spallle del maestro, “imbiancandone” la giacca. Su queste tonalità si stacca volutamente il rosso con il quale Degas dipinse la veste della ballerina sullo sfondo ed il fiocco della giovane in primo piano: volutamente, in quanto, con tale procedimento, l'artista stabilì i due poli opposti del dipinto, dilatandone sensibilmente la profondità. Il secondo
Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
_
CLAUDE MONET (1840-1926), Impressione, sole nascente, 1872, olio su tela, 48x63 cm, Parigi, Musée Marmottan
La definitiva affermazione della fotografia, elevata verso gli anni settanta al rango di vera e propria tecnica artistica dal fotografo parigino Félix Tournachon, detto Nadar (1820-1910), influenzò sensibilmente la nascita della pittura impressionista, sviluppatasi in Francia tra il 1867 ed il 1880. Secondo quanto teorizzato dagli artisti che vi presero parte, tra cui vanno ricordati oltre a Monet anche Camille Pissarro (cfr. fig. 41) e Auguste Renoir (cfr. fig. 42), la fedele adesione alla realtà e al dato naturalistico, così tenacemente ricercata dal Realismo, poteva, infatti, essere affidata alle immagini sviluppate dalla macchina fotografica; in questo modo all’artista doveva essere lasciata la piena libertà nella scelta dei soggetti da rappresentare e soprattutto la possibilità di esprimere sulla tela la propria visione della realtà. Nelle opere degli Impressionisti subentrò, così, al concetto di arte come imitazione del reale, quello dell’arte come creazione, come impressione, appunto, del soggetto rappresentato. Per riuscire ad immergersi completamente nella natura e coglierne gli innumerevoli effetti di luce, gli Impres-' sionisti uscirono dal chiuso degli atelier, in modo da poter dipingere direttamente all’aria aperta (en plein air): senza ricorrere all’esecuzione di disegni e bozzetti preparatori, fortemente legati ad un’impostazione
ancora accademica della creazione artistica, i pittori si affidarono al colore e agli arditi accostamenti cromatici per riprodurre sulla tela la luce naturale. Caratteristico dell’arte impressionista fu il rifiuto di quei soggetti storici che avevano contraddistinto il Romanticismo: i soggetti dei dipinti avrebbero dovuto, infatti, prediligere le raffigurazioni della natura, dando rilievo ai diversi effetti di luce determinatisi nei vari momenti della giornata e delle stagioni. Lo stesso Monet realizzò più volte quadri con il medesimo soggetto visto in diverse condizioni ambientali: ne sono prova la serie della Cattedrale di Rouen dipinta nel 1894, i Pioppi sul-
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l’Epte, una quindicina di tele esposte a Parigi nel 1892,ele celebri Nanfee, eseguite dall’artista negli ultimi anni di vita. Il termine Impressionismo fu coniato dai detrattori
del movimento in occasione della prima esposizione degli Impressionisti tenutasi nello studio del fotografo Nadar, il 25 aprile 1874. In quella occasione, infatti, Monet presentò questa tela, significativamente intitolata Impressione, sole nascente. Quella dell’artista francese è una pennellata veloce, che evita un preciso disegno compositivo, in favore di un’immediatezza ottenuta con l’uso di colori sovrap-
posti l’uno sull’altro, in modo da creare un irreale effetto di pittura riflessa. Il rosa dell’alba si confonde con l’azzurro dell’acqua che riflette la luce del sole (cfr. fig. 39 b), mentre le ciminiere, alla sini-
stra del dipinto, ed il porto sulla destra (cfr. fig. 39 b), sono delineati con rapidi tocchi di colore nero che
si confondono con l’acqua del mare e con il cielo. Anche le due barche di pescatori sono ottenute con una o due pennellate longitudinali in un’ultima estrema sintesi compositiva.
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Fig. 39 a.
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C.MONET, Impressione, sole nascente (part.).
LA TECNICA La caratteristica principale degli Impressionisti fu quella di distendere i colori con una pennellata “a virgola”, caratterizzata da un tratto estremamente veloce e nervoso, privo di un disegno preparatorio. A differenza degli artisti romantici come Géricault (cfr. Arte 7, fig. 19) e Delacroix (cfr. Arte 7, figg.. 22-23), che utilizzarono senza distinzione i colori puri (il rosso, il giallo, il blu), accostati a tonalità tenui servendosi anche di “non colori” come il bitume per aumentare gli effetti di chiaroscuro, gli Impressionisti scelsero esclusivamente i colori puri, poco diluiti nell'acqua, mescolati direttamente sulla tela o sulla tavolozza, per esaltare così la luminosità dei
propri dipinti. In particolare Monet, per poter ottenere i riflessi del-
l’acqua, tracciò pennellate orizzontali accostate e sovrapposte le une sulle altre, aggiungendo colore
fresco su una base di colore secco.
Il secondo Ottocento: tra Realismo
e Postimpressionismo
GIUSEPPE DE NITTIS (1846-1884), Mattinata sul Tamigi, 1878, 57x112 cm, Parigi, Collezione privata
L'arte italiana subì durante la prima metà del secolo un periodo di inevitabile crisi, dovuta alle difficili condizioni politiche ed economiche in cui versava l’Italia negli anni precedenti all’unificazione. Quel predominio nelle arti che era stato mantenuto fino alla fine del Settecento, passò agli artisti francesi le cui sperimentazioni e innovazioni stilistiche influenzarono sensibilmente anche la pittura italiana della seconda metà dell'Ottocento. Uno dei primi artisti italiani a subire il fascino della pittura francese di quegli anni fu il pugliese Giuseppe De Nittis, che si trasferì a Parigi subito dopo l’Esposizione Universale del 1867. Dopo aver partecipato alla prima mostra degli Impressionisti del 1874, intervallò al periodo parigino alcuni viaggi in Inghilterra per approfondire lo studio degli acquarelli realizzati da William Turner (1775-1851) e Richard Bonington (1802-1828). E proprio in occasione di un suo soggiorno a Londra, eseguì nel 1878 questa tela, direttamente dipinta sulle sponde del Tamigi, secondo la tecnica della pittura en plein air. L’uso di colori pastello rimanda alle composizioni della pittura inglese del Settecento, mentre l'atmosfera di tranquillità che pervade l’intero dipinto è esaltata dalla pressoché totale mancanza di movimento della barca; sullo sfondo si intravedono appena, in modo da aumentare la profondità del quadro, le prime case di Londra alle quali, sulla destra, fanno da contrasto le verdi sponde alberate. Pur denunciando di aver recepito alcuni insegnamenti della pittura impressionista, come la resa degli effetti di luce riflessa sull’acqua, ottenuti con nervose pennellate longitudinali, De Nittis si dimostra ancora profondamente legato alla pittura realista, soprattutto nella ricerca dei tradizionali accostamenti cromatici e nella raffigurazione di momenti di vita borghese, più volte ritratti nelle sue opere.
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(CAMILLE PISSARRO (1830-1903), La prima colazione, |1881, olio su tela, 66x54 cm, Chicago, Art Institute
[Dopo aver seguito, nei suoi primi dipinti, l'impostazione stilistica
idi Jean-Baptiste Corot (cfr. fig. 21), riprendendone i contorni iInetti e precisi ed il colore disteso in modo uniforme su tutta la superficie pittorica, Pissarro si legò, verso gli anni settanta, iall’Impressionismo, del quale riprese, in primo luogo, le speriImentazioni sul colore e sui suoi effetti di luce. Condannando aperitamente l’uso di tonalità scure, come il nero ed il bitume utilizizati dagli artisti romantici per aumentare il chiaroscuro, Pissarro riprese dagli Impressionisti la scelta di colori vivi e luminosi dispo‘sti sulla tela con rapidi tocchi di pennello sovrapposti l’uno sull’altro, come se si trattasse di un’opera non finita, ancora allo stato di abbozzo. Le caratteristiche pennellate “a virgola” degli Impressionisti sono evidenti in questa tela: i contorni della giovane donna seduta davanti alla finestra in un tranquillo momento di vita quotidiana sono, infatti, ottenuti dal colore mescolato velocemente sulla tela ed il fascio di luce che proviene dalla sinistra illumina l’intera scena. Verso gli anni ottanta Pissarro, affascinato dal Neoimpressionismo e dalle nuove teorie sul colore proposte da Seurat (cfr. fig. 44), realizzò una serie di dipinti basati sulla tecnica della pittura puntinata, per poi ritornare nuovamente ai risultati impressionisti negli ultimi anni di vita. AUGUSTE RENOIR (1841-1919), La colazione dei canottieri, 1881, olio su tela, 129,5x172,5 cm, Washington, Phillips Memorial Gallery
Entrato a far parte del gruppo di artisti composto da Manet, Degas, Monet, Pissarro e Cézanne, riunitisi in quegli anni al caffè parigino Guerbois, celebre punto d’incontro anche di scrittori come Zola e Daudet, Renoir dipinse questa tela nell’estate del 1880 a Chatou, sulle rive della Senna, nei dintorni di Parigi, raffigurando la terrazza ristorante della locanda dove era solito soggiornare. Seguendo la consuetudine della pittura en plein air, anche Renoir dipinse il quadro direttamente sul luogo, fuori dal chiuso degli atelier, in modo da poter riprodurre gli effetti di luce sui personagi effigiati e sulla natura circostante. Il pittore francese riuscì a cogliere con estrema naturalezza gli atteggiamenti e i sentimenti spontanei dell’allegra tavolata e dei personaggi ritratti al fondo del dipinto. La profondità della scena è ottenuta grazie alla disposizione diagonale delle figure, con un procedimento che rivela chiaramente il debito di Renoir per le nuove inquadrature prospettiche delle fotografie, che avevano già influenzato i dipinti di Degas (cfr. fig. 38). Ciò che rende il dipinto estremamente raccolto è il gioco di sguardi dei personaggi, ritratti a gruppi distinti, con i quali Renoir riuscì a cogliere le loro emozioni e i loro stati d’animo. Renoir dimostra in questo dipinto la preferenza per i colori fondamentali del giallo e del blu, accostati sulla tela al bianco così da aumentare la luminosità del dipinto. Le pennellate sono rapide, secondo la tecnica impressionista,
ma dimostrano una cura dei partico-
lari nella resa degli oggetti disposti sulla tavola, evidenziando un preciso interesse da parte di Renoir verso la raffigurazione di nature morte, più volte inserite nelle sue opere. Il secondo
Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
VINCENT VAN GOGH (1853-1890), Il ponte di Langlois, 1888, olio su tela, 55x65 cm, Otterlo, Rijksmuseum Kroller-Muller
Una Domenica pomeriggio all’Ile de la Grande Jatte, presentata da Georges Seurat (cfr. fig. 44) all'ultima mostra degli Impressionisti, tenutasi nel 1886, evidenziò la necessità da parte del pittore francese di modificare sensibilmente la visione della realtà e la stessa sperimentazione sui colori che aveva caratterizzato la pittura impressionista. In quello stesso anno giunse a Parigi l’olandese Vincent Van Gogh, che fu certamente influenzato sia dalle tematiche impressioniste della pittura en plein air sia dai nuovi studi ottici esaltati dall’o- | pera di Seurat. Ciononostante la sua è un’arte che dimostra già apertamente i riferimenti alla pittura espressionista d’inizio Novecento: per lui, come anche per Cézanne (cfr. fig. 47) e Gauguin (cfr. fig. 49), l’arte doveva diventare un mezzo per esprimere i molteplici significati della realtà. Ogni elemento naturale era, infatti, considerato come un simbolo che rimandava ad un significato non direttamente visibile, ma soltanto intuibile con l'immaginazione. In particolare Van Gogh desidera esprimere nelle sue opere la visione drammatica dell’esistenza e la sua difficoltà di vivere nella società borghese. Il mezzo per poter manifestare i propri stati d'animo diventano così, per l’artista olandese, gli arditi accostamenti cromatici: ecco quindi la preferenza per una pittura grassa, distesa sulla tela in modo nervoso ed irregolare, così da creare straordinari effetti di luce. I contorni sono assolutamente annullati per far posto ad una estrema semplificazione del disegno e ad una scarsa attenzione per i particolari. Questa ricerca d’interiorità e di riflessione sulla propria condizione si ritrovano chiaramente nel dipinto intitolato Il ponte di Langlois. Firmata e datata in basso a sinistra, questa tela fu la prima ad essere dipinta dall'artista olandese durante il suo soggiorno ad Arles, in Provenza, dove si trasferì nel febbraio del 1888. Il tema del ponte era particolarmente caro alla pittura impressionista in genere e a Van Gogh in particolare, per i suoi riferimenti alle stampe giapponesi, il cui collezionismo, iniziato già alla metà del secolo, aumentò sensibilmente verso la fine del 1800: per il mondo orientale, infatti, il ponte era considerato una metafora del passaggio dalla giovinezza alla vecchiaia. Con questo dipinto, quindi, Van Gogh volle esprimere la propria
Arte 8
‘visione della morte, dipingendo sulle rive del | fiume le donne intente a lavare i panni (cfr. fig. ‘43 a), in un atteggiamento concepito come una i metafora della purificazione dell’uomo prima :della morte. | Come si evidenzia dalle lettere scritte al fra| tello Theo, Van Gogh cercò, d’altronde, di far | conoscere ai suoi amici e mercanti olandesi i risultati della sua sperimentazione sui colori: «Volevo riuscire ad ottenere colori uguali a quelli dei vetri dipinti delle finestre e un dise-
gno a tratti decisi». Per Van Gogh, infatti, il
colore diventa il simbolo, il mezzo per esprimere la propria sensibilità, attraverso una scelta di tonalità vive in profondo contrasto tra
loro, come l’azzurro dell’acqua ed il giallo-rosso della campagna circostante e del ponte stesso. All’artista olandese non interessò, infatti, la precisa definizione delle figure, appena accennate da un tratto estremamente stilizzato, ma
la totale padronanza nell’uso del colore. Fig. 43 a. V. VAN GOGH, Il ponte di Langloîs, (part.).
LA TECNICA
Fig. 43 b. V. VAN GOGH, Il ponte di Langlois, 1888, matita e acquarello su carta, 30x30 cm, Collezione privata.
Nell'aprile del 1888 Van Gogh inviò al fratello Theo un acquarello (fig. 43 b) per fargli conoscere i suoi miglioramenti nell’uso dei colori ed il disegno definitivo dell’opera. Nell’arco della sua vita, Van Gogh non amò particolarmente la tecnica dell’acquarello perché non gli permetteva di sviluppare completamente le qualità del colore: nell’acquarello, infatti, le tonalità chiare possono essere ottenute soltanto diluendo i colori nell’acqua, diminuendo così l’intensità dei toni. Rispetto alla tela,
(iti
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l’acquarello raffigurante il Ponte di Langlois ha una dimensione quadrata e mostra alcune modifiche nelle figure delle donne e nella resa della sponda del fiume, rispetto all’opera definitiva. Ciononostante Van Gogh ebbe con la tecnica dell’acquarello la possibilità di avvicinarsi ai toni monocromatici delle stampe giapponesi realizzate su legno, grazie all’uso della matita nera con la quale tracciò le linee compositive ed i contorni. Nel dipinto, invece, Van Gogh mescola i colori direttamente sulla tela, secondo la tecnica usata dai pittori impressionisti: i tratti sono netti e si uniscono l’uno all’altro, come si può facilmente notare nella resa del pendio verso il fiume, privo di un preciso disegno compositivo, ma ottenuto con pennellate veloci, verticali e orizzontali, dove predominano i toni del giallo e del verde. Anche l’effetto del movimento dell’acqua e la sua trasparenza, più volte ricercata nelle opere degli Impressionisti (cfr. fig. 39), è reso da Van Gogh con tocchi rapidi di colore, bianco e azzurro sovrapposti, tracciati ora in senso orizzontale ora in senso circolare.
Il secondo Ottocento: tra Realismo e Postimpressionismo
GEORGES SEURAT (1859-1891), Una domenica pomeriggio all’Ile de la Grande Jatte, 1885, olio su tela, 205x305 cm, Chicago, Art Institute
Questo dipinto, esposto nel 1886 all’ottava ed ultima mostra parigina dei pittori impressionisti, è considerato il manifesto della corrente artistica nota con il termine “puntinismo”. L’elemento innovatore apportato dai puntinisti come Seurat e Paul Signac (1863-1935), fu la nuova tecnica nell’uso del colore: il pittore francese accostò, infatti, i tre colori fondamentali del blu, del giallo e del rosso con l’arancio, il viola ed il verde, questi ultimi ottenuti dalla reciproca mescolanza delle tinte fondamentali (il rosso e il giallo creano l’arancio; il rosso ed il blu danno il viola, mentre dall’unione tra il giallo ed il blu si ottiene il verde). Ciò che contraddistingue, inoltre, i Puntinisti è l'accostamento dei colori con piccoli tratti di pennello, in modo da creare un effetto di pittura puntinata, in contrapposizione alle pennellate veloci, “a virgola”, degli Impressionisti. Seurat seguì con particolare attenzione gli sviluppi degli studi ottici intrapresi in quegli anni: secondo i maggiori teorici, come Michel-Eugène Chevreul e Ogden Rood, i colori fondamentali, distesi sulla tela con piccoli punti, vengono automaticamente uniti dall’occhio umano, ad una certa distanza. Rispetto a quanto professato dagli Impressionisti non era quindi necessario mescolare i colori direttamente sulla tela o sulla tavolozza in quanto, con questo nuovo procedimento, il pittore ricreava gli effetti di luce naturale anche al chiuso dell’atelier. Veniva così meno, secondo i puntinisti, la necessità di dipingere direttamente en plein air e riprendeva vigore l’importanza data agli studi e ai disegni preparatori che gli Impressionisti avevano negato perché privavano, a loro dire, l’opera definitiva di spontaneità e di fantasia. Seurat realizzò, infatti, ventitré fra disegni e bozzetti preparatori a questo quadro, raffigurante una giornata domenicale all’isola della Grande Jatte sulla Senna, a nord di Parigi: gli alberi, la donna con la bambina e la coppia in primo piano sulla destra dividono verticalmente il dipinto, segnato, in senso orizzontale, dall'acqua della Senna e dalle ombre degli alberi che si allungano sul prato. L’atmosfera ottenuta sembra quasi irreale per l'assoluta mancanza di movimento dei personaggi ritratti, i cui gesti appaiono, infatti, pressoché bloccati.
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GIOVANNI SEGANTINI (1858-1899), Le due madri, 1889, olio su tela, 157x295 cm, Milano, Galleria d’ Arte Moderna
I risultati della pittura puntinista furono filtrati in Italia da un gruppo di artisti, come Giovanni Segantini e Gaetano Previati (1852-1920), che diedero vita al movimento del Divisionismo, sviluppatosi fino al primo decennio del Novecento. Connesso con il movimento letterario della Scapigliatura (cfr. Parte III, La Scapigliatura), il Divisionismo italiano si ispirò, infatti, nell’uso della tecnica pittorica, al Puntinismo o Neoimpressionismo promosso da Seurat con la tela Una domenica pomeriggio all’Ile de la Grande Jatte (cfr. fig. 44). Segantini rivelò una forte esigenza verista, evidente in questa tela, esposta alla Biennale di Brera del 1891. L’opera fu la prima di una serie di dipinti, realizzati dal pittore trentino, raffiguranti scene d’interni illuminati da luce artificiale. L'elemento centrale del quadro diventa per Segantini la fiamma della lanterna, vista come unica fonte di luce: oltre ad illuminare l’interno della stalla, la lanterna
assume, inoltre, anche un significato più strettamente sentimentale, poiché nelle intenzioni dell’artista il dipinto avrebbe dovuto esaltare, in primo luogo, il concetto universale di maternità, tanto umana che animale. La madre addormentata col bambino poggiato sulle ginocchia è delineata con estrema nitidezza dalla luce della lanterna che le illumina il viso; sulla sinistra l’immagine della mucca che si abbevera e del vitello disteso sulla paglia esalta la tranquillità e la serenità dell’ambiente e della vita rurale. Una delle caratteristiche di Segantini, evidente in questo quadro, fu quella di tracciare con linee nette le torsioni dei busti: lo si nota nella figura della madre, la cui schiena è dipinta con una linea continua che, all’altezza della spalla, si curva ad angolo retto.
Il secondo
Ottocento:
tra Realismo e Postimpressionismo
HENRI DE TOULOUSE LAUTREC (1864-1901), A_ Moulin Rouge, 1892-93, olio su tela, 123,5x141 cm, Chicago, Art Institute
L’artista francese Toulouse Lautrec, allievo di Degas, è soprattutto ricordato per i suoi dipinti incentrati sulla raffigurazione del mondo parigino della Belle Epoque, del Moulin Rouge, aperto nel 1889, e delle sue ballerine. In particolare, quest'opera rappresenta il cosiddetto promenoîr, posto intorno alla pista da ballo centrale, dove la gente prendeva posto ai tavoli. Lo sviluppo delle tecniche fotografiche e cinematografiche, avviate in quegli anni, che permettevano lo studio di nuovi tagli ed inquadrature prospettiche, influenzò sensibilmente il lavoro di Toulouse Lautrec allo stesso modo delle opere di Degas (cfr. fig. 38) e di Renoir (cfr. fig. 42): la scena è divisa diagonalmente dalla balaustra, dipinta sul margine del quadro, ed è delimitata, sulla destra, dalla . donna in primo piano, il cui viso è illuminato da una luce proveniente dal basso. Al tavolo siedono gli amici del pittore, tra cui si possono riconoscere, partendo da sinistra, il critico e scrittore Edouard Dujardin, il fotografo Paul Sescau ed Yvette Guilbert, celebre canzonettista e attrice, dipinta di spalle. Sullo sfondo si scorge, invece, lo stesso Toulouse Lautrec, con il suo caratteristico cilindro. Dopo aver disegnato l’intera scena con il carboncino (cfr. G), l'artista francese distese sulla tela i colori caldi dei rossi, dei gialli e dell’arancio, accostandoli, in
seguito, ai colori freddi come il verde ed il nero. La pennellata è rapida e concentra la sua attenzione sulle figure in primo piano, mentre gli specchi sullo sfondo, inseriti per aumentare lo spazio prospettico e la profondità, sono dipinti con un tratto longitudinale di verde e di arancio con il quale l’artista creò l’effetto di trasparenza. La tecnica di Toulouse Lautrec ha ormai superato quella degli Impressionisti per abbracciare un disegno più stilizzato, dove i contorni delle
figure sono resi con un segno di colore nero, che anticipa le soluzioni dell’art nouveau d'inizio secolo.
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PAUL
CEZANNE
(1839-1906), Natura morta con mele e arance,
1895-1900, olio su tela, 73x92 cm, Parigi, Musée d’Orsay
Non è facile definire il rapporto tra la pittura di Cézanne e quella degli Impressionisti e dei Postimpressionisti, in quanto l’artista francese manifestò nelle sue opere già alcune tendenze che si sarebbero concretizzate solo più tardi, con lo sviluppo del movimento cubista. Ciò è particolarmente evidente nel modo in cui Cézanne delineò i personaggi dei suoi dipinti, resi con tratti rigidi e squadrati, fortemente astratti, senza una vera attenzione ai particolari fisici, ed anche nella divisione geometrica dello spazio pittorico, privo di un’organizzazione prospettica ottenuta in modo tradizionale. Per Cézanne, infatti, lo spazio doveva essere
diviso in piani prospettici ben definiti, dove ogni oggetto della raffigurazione aveva una regolare dimensione ed una specifica funzione di equilibrio all’interno del dipinto. La sua natura morta è piuttosto un turbinio di linee geometriche che impediscono, a chi osserva il quadro, di focalizzare l’attenzione su un elemento predominante della composizione, perché il dipinto è volutamente studiato in modo da offrire diversi punti di osservazione, anticipando in questo le soluzioni della pittura cubista: appare così estremamente difficile identificare il tavolo su cui sono appoggiate le arance e le mele, e comprendere che cosa sia quell’insieme di linee e di colori, distesi con ampie pennellate, che costituisce lo sfondo del dipinto. Questa difficoltà è accentuata dall’accostamento quasi accecante tra i caldi toni rosso-gialli delle mele e delle arance ed il bianco con cui sono dipinte la tovaglia, la fruttiera e la ceramica decorata.
Il secondo Ottocento: tra Realismo e Postimpressionismo
TELEMACO SIGNORINI (1835-1901), La toilette del mattino, 1898, olio su tela, 120x175 cm, Milano, Collezione privata
Con la Sala delle agitate nel manicomio di San Bonifacio (1865, Venezia, Ca’ Pesaro) ed il Bagno penale (1896, Firenze, Galleria d'Arte Moderna), la pittura di Signorini si apre all’ultima fase della sua produzione, caratterizzata da un acceso sentimento realista. L’artista italiano, che soggiornò a lungo a Parigi dove ebbe modo di conoscere i maggiori esponenti della pittura contemporanea, fu particolarmente influenzato dalle opere di Degas (cfr. fig. 38). È, infatti, una resa fotografica dello spazio, già sperimentata dall’artista francese, a caratterizzare l’impianto prospettico di questo dipinto: l’interno della casa di tolleranza è vista da un’angolazione del tutto simile a quella offerta dalla camera ottica utilizzata dai fotografi. La divisione del pavimento, formato da blocchi di pietra incastrati fra di loro, ed il divano su cui siedono due donne hanno il compito di separare i piani prospettici del dipinto, organizzato da Signorini in tre sezioni distinte: la prima è caratterizzata dalla donna con la schiena scoperta e con la testa rivolta verso una seconda figura seduta al suo fianco; al centro della sala si notano, invece, la donna davanti al tavolo da toilette, mentre si sistema i capelli sotto lo sguardo della giovane in piedi e dell’uomo appoggiato sul tavolo. In particolare la posizione di quest’ultimo personaggio fu modificata dall’artista, come sì vede chiaramente dalle tracce della spalla e della testa dell’uomo, in un primo tempo dipinte più in alto. Chiudono la scena le tre figure sullo sfondo, due delle quali sedute su un divano: la parte finale del dipinto è illuminata dalla gialla luce del sole che proviene dalla finestra sulla destra, lasciando sul pavimento un’accesa ombra di luce. Proprio attraverso questo differente utilizzo dell’illuminazione nelle varie parti del dipinto, Signorini riuscì ad ottenere l’effetto di profondità caratterizzante l’intera composizione, che, oltre a cogliere un momento di vita quotidiana, rivela, nella disposizione stessa delle figure, una forte impostazione scenografica, ispirata al pittore dalle rappresentazioni teatrali dell’epoca. ©
PAUL GAUGUIN (1848-1903), Donne sulla spiaggia, 1891, olio su tela, 90x69 cm, Parigi, Musée d’Orsay
Gauguin si inserisce in quel clima di rinnovamento delle arti, successivo al periodo impressionista, che sfociò verso la fine del secolo nel movimento simbolista, di cui il pittore francese fu per certi aspetti un precorritore. La crisi del Positivismo portò, infatti, gli artisti come Van Gogh, Cézanne e Gauguin ad andare al di là della raffigurazione del dato naturalistico, e a far sì che la loro pittura esprimesse un bisogno di maggior idealismo e spiritualismo: se il pittore olandese (cfr. fig. 43) fece del colore il mezzo per manifestare le passioni umane e la sua difficoltà di
vivere nella società contemporanea, Cézanne, invece (cfr. fig. 47), aprì la strada al Cubismo, con la sua pittura astratta, lontana dalle regole tradizionali della prospettiva, mentre Gauguin studiò a lungo l’arte della Grecia antica, quella egizia e la scultura delle popolazioni extraeuropee, riprendendone in primo luogo l'impostazione simbolica e, più volte, la stessa disposizione delle figure come nel Ta Matete (Il mercato), dipinto nel 1892 (attualmente esposto nell’Offlentliche Kunstsammlung di Basilea), nel quale le donne sono ritratte come nei bassorilievi egizi. Arte 8
Il carattere sintetico della sua pittura, »contraddistinta da una stesura piatta del colore sulla tela, molto vicina agli esempi elle stampe giapponesi, diventa l’eleento peculiare del periodo trascorso ;a Tahiti. Gauguin s'imbarcò da Marsiglia, il 4 aprile 1891, alla volta dell’isola idel Pacifico, dove, salvo un breve rientro a Parigi tra il 1893 ed il 1895, rimase
‘fino alla sua morte. Ciò che affascinò iGauguin fu l’aspetto ancora profondamente primitivo ed arcaico delle popolazioni orientali, tanto che, in questa tela, il pittore va oltre alla pura sensai zione soggettiva della natura e dei suoi ‘colori, esaltata dagli Impressionisti, per i manifestare ed esprimere sulla tela le | proprie emozioni di fronte alla sempli| cità della vita indigena. Nell’uso stesso i del colore Gauguin si differenziò dagli Impressionisti e sviluppò la cosiddetta tecnica del cloisonnisme, caratterizzata
da zone di colore contrastanti tracciate con una pennellata piatta, priva di profondità. I toni dominanti in quest’opera sono il rosa, il giallo, l’arancio ed il rosso con cui vengono dipinte le due donne sedute sulla spiaggia: i loro tratti fisici sono delineati in modo estremamente sintetico, quasi astratto, senza un reale interesse alla resa dei particolari, mentre i movimenti risultano pressoché annullati da una visione bidimensionale, priva di prospettiva, volutamente creata dal pittore francese per ottenere un effetto più vicino ad un bassorilievo scolpito che ad un dipinto. GIOVANNI BOLDINI (1842-1931), Mademoiselle Lanthelme, 1907, olio su tela, 227x118 cm, Roma, Galleria d’ Arte Moderna
Dopo aver frequentato per alcuni anni il Caffè Michelangelo a Firenze, celebrato ritrovo dei macchiaioli, ed aver soggiornato per la prima volta a Parigi nel 1867, si trasferì definitivamente nella capitale francese, dove entrò inevitabilmente in contatto con gli Impressionisti, in particolar modo Monet, dedicandosi soprattutto alla realizzazione di ritratti dei personaggi che frequentavano i salotti parigini. In questo ritratto, firmato e datato dall’artista in basso a sinistra, Boldini raffigurò una giovane attrice. Siamo ormai lontani dall’impostazione ritrattistica di Francesco Hayez (cfr. fig. 25), ma anche da quella più recente di Edouard Manet (cfr. fig. 36): la resa dello sfondo è praticamente annullata in modo da far interamente risaltare la figura della giovane donna, i cui lineamenti del viso sono evidenziati dal trucco e dall’ampio cappello nero. Ma è soprattutto nella veste e nella parte sinistra del corpo dell'attrice che si manifesta l’abilità nella tecnica ritrattistica di Boldini: se il braccio e la mano sinistra appoggiata alla vita sono tracciati con una pennellata netta e precisa, il braccio e la mano destra sono quasi del tutto nascosti da una serie di pennellate veloci, tracciate con una mescolanza di linee circolari e longitudinali che danno un particolare effetto di movimento all’intero ritratto. Inoltre, a causa della mancanza di separazione tra il fondo ed il pavimento, dipinti con nel la stessa tonalità di colore, la donna sembra essere quasi sospesa l’imprescosì aumentando terreno, al reale appoggio vuoto, senza un estremasione di rotazione e di movimento. Questi elementi astratti, ritrattistica nascente alla Boldini di mente simbolici, avvicinano l’opera art nouveau del pittore viennese Gustav Klimt (1862-1918).
ondo Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
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GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO (1868-1907), Il Quarto Stato, 1901, olio su tela, 285x543 cm, Milano, Galleria d’ Arte Moderna
Il pittore alessandrino è uno dei più significativi esponenti, insieme a Giovanni Segantini (cfr. fig. 45), del Divisionismo, la corrente artistica sviluppatasi in Italia tra la fine dell’Ottocento e la prima decade del secolo successivo, che riprese gli studi sul colore avviati in quegli anni dal puntinismo di Georges Seurat (cfr. fig. 44) e di Paul Signac (1863-1935). Il movimento fece la sua prima comparsa ufficiale alla Prima Triennale di Brera, a Milano, nel 1891, alla cui seconda edizione, del 1894, Pellizza espose il dipinto Speranze deluse (Roma, Collezione privata), simbolo ad un tempo del vigore “popolare” della sua opera e della tecnica divisionista, filtrata dal puntinismo di Seurat. L'attenzione per gli aspetti sociali fu all'origine anche del Quarto Stato, esposto alla Quadriennale di Torino del 1902, che non ottenne particolari consensi da parte della critica contemporanea che accusò l’artista di aver dipinto un’opera priva di movimento. Pellizza lavorò a più riprese alla tela attraverso una serie di bozzetti preparatori eseguiti tra il 1891 ed il 1894, noti con il titolo di Ambasciatori della fame. In questa prima. fase compare, infatti, soltanto un gruppo ristretto di lavoratori in sciopero. Nel 1896 Pellizza dipinse Fumana, versione intermedia (cfr. fig. 51 a), mentre la tela definitiva fu terminata nel 1901. Rispetto al dipinto precedente, il pittore diminuì il numero delle figure e diede una maggiore importanza alla caratterizzazione fisica degli scioperanti, realizzando una serie di cartoni e disegni preparatori (cfr. fig. 51 b); il paesaggio sullo sfondo è privo delle case che avevano contraddistinto Fiumana ed è totalmente caratterizzato dalla campagna di Volpedo che si staglia su un cielo diventato più cupo, grazie all’uso del viola ricavato dalla contrapposizione del blu e del rosso. Il dipinto rappresenta, nelle intenzioni dell’artista, la volontà e la decisione da parte del popolo di affermare attraverso lo sciopero i pieni diritti. Siamo ormai nel periodo dei primi sindacati e sulla piazza di Volpedo, di fronte al palazzo Malaspina, abitazione del maggiore proprietario terriero della zona, il popolo dei lavoratori avanza come per incontrare chi osserva il dipinto, guidato in questa decisa marcia “pacifica” dalle tre figure in primo piano che rappresentano le tre età della vita. Da notare, inoltre, come i volti siano illuminati dal sole, a simboleggiare la speranza di un futuro migliore, pieno di luce.
Arte 8
LA TECNICA
lL'esecuzione del quadro impegnò lungamente, come si è visto, il pitItore italiano, che diede notevole importanza allo studio dei personaggi, ifondamentali per l'impostazione definitiva del dipinto. Pellizza era solito i realizzare, infatti, dopo i primi schizzi e bozzetti, una serie di disegni |preparatori a grandezza naturale: per questa tela se ne conoscono due |per le figure maschili in primo piano (cfr. fig. 51 b) e tre per gli altri |personaggi. Lo studio dell’uomo al centro della tela, eseguito su carta ‘a carboncino (cfr. G) e a conté (un particolare tipo di matita con cui ‘sì ottengono neri più morbidi) mette in rilievo il tratto preciso, privo di sfumature, caratteristico dei disegni di Pellizza: i contorni della figura SONO, infatti, tracciati in modo deciso, con particolare attenzione per la resa del viso oscurato dall’ombra del cappello, secondo una soluzione solo in parte ripresa nell’opera su tela. Il disegno serve, inoltre,
ad evidenziare i continui ripensamenti di Pellizza sulla posizione della gamba sinistra dell’uomo, proprio perché egli era consapevole della fondamentale importanza che la figura avrebbe avuto nella resa del movimento dell’intera scena. La tela è, invece, ottenuta tramite la tecnica della giustapposizione dei colori sviluppata in Francia da Seurat ed in seguito utilizzata anche in Italia da Segantini (cfr. fig. 45). Rispetto al pittore francese, il Divisionismo italiano usò tutti i colori della tavolozza, non soltanto quelli puri e fondamentali del rosso, del blu e del giallo. Pellizza distese i colori sulla tela con punti e trattini di rossi, arancio, rosa ai quali fanno da contrasto i verdi, gli ocra ed i gialli. Un procedimento con il quale riuscì a rendere pienamente l’effetto dei toni rosati che illuminano di luce diretta tutto il gruppo dei lavoratori.
Pea Fig. 51 b. G. PELLIZZA DA VOLPEDO Studio di figura, (1895-96), carboncino e contè su carta, 158x95
Fig. 51a. G. PELLIZZA DA VOLPEDO, Fiumana,
cm, Alessandria, Pinacoteca civica.
1896, olio su tela, 275x450 cm, Milano, Pinacoteca di Brera.
Il secondo Ottocento: tra Realismo e Postimpressionismo
D VINCENZO GEMITO (1852-1929), I pescatoriello, 1877, bronzo, 113x50x50 cm, Firenze, Museo Nazionale del Bargello
Contemporaneamente alle nuove tendenze espresse in pittura, la scultura subì nella seconda metà del secolo un notevole incremento ed un profondo e decisivo rinnovamento rispetto alla produzione successiva al Neoclassicismo. La necessità di rivolgersi a tematiche realistiche, ispirate dalla vita quotidiana, che aveva
in parte già contraddistinto le opere di Lorenzo Bartolini (cfr. Arte 7, fig. 27) e Vincenzo Vela (cfr. Arte 7, fig. 28), caratterizzò, infatti, anche il lavoro dello scultore napoletano Vincenzo Gemito, che espose al Salone Universale di Parigi del 1877 questa che risulta essere una delle sue più importanti e significative scul-
ture. Gemito, che aveva soggiornato per lungo tempo a Parigi venendo in contatto con le nuove tendenze artistiche di quegli: anni, sviluppò un’opera di forte intensità verista, raffigurando in modo dettagliato questo giovane, in bilico sullo scoglio, che tiene tra le mani i pesci appena staccati dall’amo. La rete per riporre i pesci è allacciata intorno al busto, mentre tra i suoi piedi si nota un piccolo contenitore di corda. Per riuscire ad ottenere un effetto di estrema adesione al “vero”, Gemito “costrinse” il modello a rimanere in piedi su un sasso cosparso di sapone, per poterne riprendere il vigore e la tensione muscolare. La scultura di Gemito si differenzia da quella neoclassica di Canova e da quella purista di Vela per la lavorazione del bronzo, la cui superficie è segnata dal cesello e dal bulino con i quali evidenziò realisticamente le increspature della pelle arsa dal sole. Il cesello, infatti, è un piccolo scalpello a testa arrotondata che, battuto con il martello direttamente sulla superficie metallica, crea delle ondulazioni; in un secondo tempo incise con il bulino, ottenendo in questo modo l’effetto dell’increspatura.
Arte 8
ADRIANO CECIONI (1836-1886), La Madre, 1880, marmo, h 130 cm, Roma, Galleria Nazionale d’ Arte Moderna
Il desiderio di maggior realismo trovò un tenace assertore nell'opera dello scultore fiorentino Adriano Cecioni, a lungo legato al movimento dei macchiaioli del Caffè Michelangelo. Dopo aver eseguito, tra il 1878 ed il 1879, il gruppo in gesso presentato all’ Esposizione Nazionale di Torino nel 1880, suscitando vive polemiche tra gli esponenti della giuria, Cecioni sì rivolse all'amico Carducci per poter ottenere dal Ministero italiano la committenza dell'esemplare in marmo, affidatagli soltanto nel 1884. Ciò che era stato in primo luogo imputato allo scultore fu l’eccessivo realismo usato nella raffigurazione della madre, una popolana toscana intenta a scherzare con il figlio. Cecioni preferì, infatti, abbandonare quella scultura accademica, piena di grazia e di delicatezza, che aveva caratterizzato il periodo precedente, esaltando in quest’opera il ruolo materno della donna, simboleggiato dal seno scoperto. Lo stesso Carducci considerò il gruppo in gesso come una celebrazione della semplicità della vita rurale, componendo una poesia celebrativa pubblicata sul «Fanfulla della Domenica» del 25 aprile 1880. Cecioni era, inoltre, pienamente convinto che la scultura levigata che aveva caratterizzato il periodo neoclassico non potesse essere superata soltanto con la raffigurazione di temi veristi, tratti dalla vita quotidiana: era anche necessaria una resa più mossa ed increspata delle superfici, evidente in quest'opera nella lavorazione del panneggio della veste. Questo il motivo principale della sua polemica contro le opere di Lorenzo Bartolini (cfr. Arte 7, fig. 2/7) che, a suo dire, non erano state in grado, pur nell’analisi di tematiche realistiche, di oltrepassare l’accademismo dell’opera canoviana.
MEDARDO ROSSO (1858-1928), IZ cantante a spasso, 1882-83, bronzo,
! 27x9x7,5 cm, Roma, Galleria Nazionale d’ Arte Moderna
Ispirato dalle tematiche affrontate dalle opere letterarie della Scapigliatura (cfr. Parte III, La Scapigliatura), ed in modo particolare da quelle di Cletto Arrighi (cfr. A63), che aveva apertamente denunciato le misere condizioni delle classi sociali più umili, Rosso privilegiò nella sua arte la rappresentazione di immagini ispirate alla vita quotidiana. Questo suo realismo non si risolse, però, esclusivamente nella raffigurazione dei minimi particolari e nella ricerca del “vero” che avevano caratterizzato la contemporanea scultura di Vincenzo Gemito (cfr. fig. 52) e di Adriano Cecioni (cfr. fig. 53). Le sue opere dimostrano, piuttosto, una particolare attenzione per gli effetti di luce riflessi sulla superficie scultorea, richiamandosi, in questo, agli esiti della pittura impressionista, i cui maggiori esponenti ebbe modo, in seguito, di conoscere direttamente durante un suo soggiorno a Parigi nel 1886. Nel Cantante a spasso Rosso diede particolare importanza alla lavorazione della materia, considerata come primaria fonte di luce; i contorni sono quasi del tutto aboliti e la ricerca della rappresentazione fedele dei tratti fisici del personaggio si risolve in una serie di incisioni nervose del bronzo attraverso colpi di cesello (cfr. G) e di bulino (cfr. G). La luce penetra nelle infinite increspature dell’abito del cantante, creando un effetto di intensa luminosità. Rispetto quindi alle esigenze realistiche, le figure di Rosso emergono dalla materia come opere non finite e diventano un tutt’uno con l’ambiente circostante. Proprio questa ricerca e questi risultati fanno dello scultore italiano , un anticipatore del Futurismo e dell’opera di Umberto Boccioni (1882-1916) Rosso. di dell’arte che fu uno dei maggiori estimatori
Il secondo
Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
AUGUSTE RODIN (1840-1917), La porta dell’Inferno, 1890-1900, bronzo, 635x400x85 cm, Parigi, Musée Rodin
AI ritorno dal suo viaggio in Italia del 1875, Rodin ricevette dallo Stato francese l’incarico di realizzare per il Musée des Arts Décoratifs di Parigi una porta bronzea nella quale fosse rappresentato un episodio della Divina Commedia di Dante. L'edificio non fu poi realizzato ed al suo posto si costruì la Gare d’Orsay, attualmente sede del Museo degli Impressionisti. i Scelto come soggetto la vicenda del conte Ugolino (Inferno, XXXIII), Rodin trovò ispirazione, per il disegno complessivo dell’opera, nella Porta del Paradiso scolpita da Lorenzo Ghiberti (1378-1455) nel Battistero di Firenze, e dimostrò anche una particolare attenzione alla forza espressiva e alla “plasticità” delle sculture di Michelangelo, a lungo studiate durante il suo soggiorno italiano. Sull’architrave (cfr. G) Rodin scolpì Le Tre Ombre, che non sono altro che la ripetizione di un’unica figura vista in atteggiamenti diversi: si tratta di Adamo, cacciato dal Paradiso terrestre. All’interno dell’architrave la scena si apre sulla sinistra con il busto di Abele flesso in avanti verso le figure dei dannati, che stanno. per sprofondare negli Inferi, come si nota chiaramente nella parte sinistra dell’architrave. Al centro, si staglia la statua del Pensatore, concepita nel 1880-81, da identificare forse come una rappresentazione fantastica di Dante o come un immaginario autoritratto dello stesso Rodin, mentre osserva dall’alto la sua opera. L'artista lavorò a lungo, come sua consuetudine, alla realizzazione di questa statua della quale si conserva uno studio bronzeo conservato anch’esso al Museo Rodin di Parigi (cfr. fig. 55 b). In questo appare evidente il riferimento alla scultura di Michelangelo, soprattutto nella resa della possente muscolatura e nell'intensità dell’espressione del volto. Il battente sinistro presenta, nel margine superiore, la figura di Icaro, simbolo dell’ambizione delusa, mentre, nella parte superiore del pilastro destro, Rodin riutilizzò la statua di Icaro per rappresentare il giovane che solleva con la forza del suo corpo l’amata, nell’inutile tentativo di salvarla dall’In-
ferno. Nella parte centrale del battente si svolge, invece, la scena in cui il conte Ugolino sta per divorare i propri figli. Come già evidenziato per il Cantante a spasso di Medardo Rosso (cfr. fig. 54), Rodin, che conobbe lo scultore italiano a Parigi nel 1886, diede particolare importanza alla materia, vista come primaria fonte di luce. Se la pittura impressionista aveva affermato la funzione fondamentale del colore, la scultura di Rodin dimostra una particolare attenzione alla lavorazione plastica della superficie bronzea, attraverso quelle torsioni dei busti e quegli effetti estremamente drammatici che erano stati condannati dalla cultura accademica d’inizio secolo e che lo avevano indotto ad affermare come Michelangelo lo avesse liberato dall’ Accademismo.
Arte 8
ig. 55 a. A. RODIN, Il conte Ugolino, matita nera ed cquarello, Parigi, Musée Rodin.
LA TECNICA La forza drammatica dell’evento viene espressa da iRodin attraverso la definitiva rottura dei rigidi schemi
odi simmetria e di compostezza stabilite dalle Acca-
fdemie. La scena ha un effetto di movimento che lo ‘scultore francese ottiene grazie alla particolare lavoirazione della superficie bronzea con la puntasecca. Si tratta di uno strumento, utilizzato soprattutto per lla realizzazione di incisioni, che termina con una ipunta di diamante o un ago d’acciaio e che, manoivrato in senso perpendicolare alla superficie, crea i dei solchi più o meno profondi a seconda della pres-
i sione della mano. La puntasecca gli permise, così, di esaltare la muscolatura e la plasticità delle figure (cfr. fig. 55 b), aumentando la drammaticità della
scena. Le fasi di lavorazione seguite da Rodin per la realizzazione della porta si possono riassumere in tre momenti principali: inizialmente l’artista eseguì idisegni preparatori dei singoli gruppi che dovevano decorare la composizione. Anche in questi casi (cfr. fig. 55 a) lo scultore si avvalse di un tratto estremamente sintetico e veloce, dando particolare importanza alla torsione dei busti e-al movimento delle figure ed aumentandone il volume con tocchi di acquarello nero, come si può notare nello studio sulla figura del conte Ugolino. Nella seconda fase realizzò per ogni figura scolpita, prima i modelli in gesso e poi quelli in bronzo, secondo le misure dell’opera definitiva. Per avere, inoltre, una visione diretta dei lavori, Rodin scolpì a grandezza naturale l’intero modello in marmo della porta su cui inserì, di volta in volta, tutti i gruppi di sculture.
Fig. 55 b. Rodin.
A. RODIN,
Il pensatore, Parigi, Musée
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Il secondo
Ottocento:
tra Realismo
e Postimpressionismo
CHARLES GARNIER (1825-1898), L’Opéra, 1861-75, Parigi
Lo sviluppo delle città, causato dalla crescita della popolazione urbana e dallo spopolamento delle campagne prodotto dalla rivoluzione industriale, modificò sensibilmente, nella seconda metà del secolo, la struttura urbanistica delle città italiane ed europee. Si fece, infatti, strada l’esigenza, già in parte nata con il Neoclassicismo, di organizzare in modo razionale l'aspetto urbano, attraverso la risistemazione dei centri storici, la costruzione di ampie strade e ponti di collegamento fra le varie parti della città. Ciononostante l’architettura fu in quegli anni ancora particolarmente influenzata da quella rielaborazione degli stili del passato che aveva interessato l’epoca romantica. Alla ripresa del gotico gli architetti accostarono, infatti, lo studio degli edifici progettati nel Cinquecento e nel Seicento, determinando così l'affermarsi del cosiddetto Eclettismo. l Ne è un esempio l’Opéra di Parigi, realizzata dall’architetto francese Charles Garnier tra il 1861 ed il 1875 su richiesta di Napoleone III: nel disegno della facciata sono rintracciabili i richiami all’architettura di Michelangelo, evidenti nelle piccole colonne dei balconi. Il loro abbinamento ad un ordine più grande di doppie colonne segue, inoltre, l'esempio della facciata barocca del Louvre, realizzata dall’architetto francese Claude Perrault (1613-1688) tra il 1667 ed il 1670. Oltre a questi riferimenti all'architettura rinascimentale e barocca l’eclettismo di Garnier si manifestò anche nella scelta di ricoprire il tetto dell’edificio con una verde cupola in rame, già apertamente legata al successivo stile Liberty che avrebbe caratterizzato l’architettura di fine Ottocento. Per la parte inferiore della facciata, Garnier progettò, invece, la realizzazione di quattro statue che dovevano raffigurare la Commedia e il Dramma, la Poesia lirica e la Poesia leggera, il Canto e la Musica, la Danza amorosa e la Danza bacchica, quest’ultima eseguita dallo scultore Jean-Baptiste Carpeaux (1827-1875) nel 1869 alla sinistra del basamento destro.
ALESSANDRO ANTONELLI (1798-1888), Mole Antonelliana, 1863-1897, Torino
Il susseguirsi delle Esposizioni Universali, tenutesi in Francia ed in Inghilterra a partire dalla metà del secolo, orientò l’attenzione, con l’importanza data alla produzione in serie degli oggetti, verso nuove tecniche di costruzione che rispecchiassero i progressi industriali dell’epoca. Alcuni architetti incominciarono, così, ad utilizzare materiali come il vetro ed il ferro, che avrebbero avuto una fondamentale importanza nella costruzione degli edifici Liberty progettati all’inizio del secolo successivo. Chi cercò di rivolgere una particolare attenzione alle nuove tendenze francesi e al rapporto tra arte e tecnica, fu, in Italia, Alessandro Antonelli, che rivelò la sua “modernità” soprattutto per il costante interesse alle dimensioni urbane e all'integrazione dei nuovi edifici all’interno di una struttura cittadina preesistente.
Progettata inizialmente per ospitare la sede del Tempio israelitico, la Mole Antonelliana fu in seguito destinata ad accogliere il Museo del Risorgimento. La possente struttura architettonica fu portata a termine solo dopo la morte dell’architetto novarese e riflette, comunque, evidenti collegamenti con l’Eclettismo: è costituita, infatti, da un’ampia base quadrata ancora memore degli esempi neoclassici, Arte 8
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sia per la frapposizione tra le finestre di una serie di paraste (cfr. G) e di semicolon ne corinzie (cfr. G), sia per nl ampio colonnato d’ingresso. Il secondo ordine, sempre di forma quadrata, dimostra, invece, una maggiore apertura | verso il Liberty per le vetrate a forma di lunetta. Su questa struttura quadrata poggia la copertura a due calotte incurvate, sulla quale si erge un ballatoio a quattro lati sorretto da colonne corinzie; delimita l’edificio la lanterna (cfr. G) di forma circolare che richiama ancora, per il suo sviluppo verticale, lo stile neogotico che aveva caratte-
rizzato molti edifici costruiti nella prima metà del secolo.
) EMILIO
DE FABRIS
(1808-1883), Facciata di Santa Maria del Fiore, 1871-79, Firenze
L'interesse per il restauro di edifici gotici, sviluppatosìi nel primo Ottocento grazie all’opera dell’architetto e teorico francese Viollet-le Duc (1814-1879), fu all'origine della sistemazione della facciata del duomo fiorentino, disegnata in forme gotiche da Arnolfo di Cambio ( 1245-1302) tra il 1296 ed il 1302. Rimasta incompiuta, a causa della sua morte, fu in
seguito demolita nel 1571. Sotto il granduca di Toscana Leopoldo II, si decise nel 1859 d’istituire un concorso internazionale per la ricostruzione in forme neogotiche della facciata. I dubbi sorsero principalmente per la scelta tra la sistemazione basilicale o tricuspidale: nella prima, la facciata doveva avere, in corrispondenza con le tre navate interne, tre timpani bassi (cfr. G); nella seconda, invece, si dovevano prediligere tre timpani cuspidali, in linea con i dettami architettonici del gotico seguiti anche da Arnolfo di Cambio. Il dibattito rientrava, d’altronde, nella discussione, in atto in quegli anni, sulla metodologia da seguire per i restauri di edifici preesistenti: alcuni teorici erano favorevoli al ripristino delle forme originarie, altri ritenevano fondamentale evidenziare il gusto dell’epoca in cui veniva realizzato il restauro. Nel caso della basilica fiorentina si decise di decorare la facciata secondo il modello tricuspidale, che l'architetto fiorentino De Fabris, vincitore del concorso, adattò in seguito alla scelta basilicale, come dimostra la mancanza delle due cuspidi laterali. La parte inferiore della facciata presenta tre portali bronzei; nelle nicchie poste ai lati superiori dei tre ingressi si trovano, invece, le statue dei quattro evangelisti (Matteo, Marco, Luca e Giovanni). La zona
centrale presenta tredici nicchie rientranti dove sono inserite le statue dei dodici apostoli, seduti alla destra e alla sinistra del Cristo in trono nella nicchia centrale. Un ampio rosone (cfr. G) vetrato decora, infine, la zona superiore della facciata. Il secondo Ottocento: tra Realismo e Postimpressionismo
GUGLIELMO CALDERINI (1837-1889), Palazzo di Giustizia, 1888-1910, Roma
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Il Calderini, dopo essere stato eliminato al concorso per il completamento neogotico della facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze affidata al De Fabris (cfr. fig. 58), vinse quello bandito per la costruzione del Palazzo di Giustizia, ribat-
tezzato fin dai contemporanei come Palazzaccio per le dimensioni e la decorazione eccessivamente ridondante. L'architetto italiano evidenziò in questo edificio la sua predilezione per l’Eclettismo, richiamandosi alle coeve esperienze francesi del Garnier. Come per l’Opéra di Parigi (cfr. fig. 56), anche il Calderini riprese alcuni elementi decorativi caratteristici dell’architettura rinascimentale come la decorazione a bugnato della parte inferiore della facciata e le colonne corinzie (cfr. G) del terzo piano, affiancate da un ordine inferiore di colonne, secondo un esempio gia utilizzato da Michelangelo (1475-1564) nel palazzo del Campidoglio a Roma. Il secondo piano presenta, invece, una serie di colonne disegnate a bugnato nella zona inferiore ed in stile corinzio in quella superiore. Sul coronamento superiore si erge, infine, una quadriga bronzea. L’opera del Calderini riflette ampiamente la crisi di idee che interessò l'architettura europea, ed in modo particolare quella italiana durante tutto l’Ottocento. GIUSEPPE SACCONI (1854-1905), Monumento a Vittorio Emanuele II (Il Vittoriale o Milite ignoto), 1885-1911, Roma Alla morte del re Vittorio Emanuele II, avvenuta nel 1880, fu indetto un concorso internazionale per la realizzazione di un monumento funerario in onore del sovrano, che doveva essere edificato sulla collina del Campidoglio. Vincitore del concorso fu l'architetto marchigiano Sacconi che avviò l’anno seguente i lavori, portati a termine, con inevitabili modifiche al progetto originario, soltanto nel 1911. I cambiamenti si resero necessari soprattutto per la mancanza di un piano unitario di costruzione, poiché il Sacconi, pur delineando fin dall’inizio la tipologia generale dell’edificio, la modificò più volte nel corso degli anni. Se, nelle intenzioni iniziali, il monumento doveva, infatti, celebrare la figura del re, in seguito, divenne il simbolo della raggiunta indipendenza. L'architettura è costituita da tre livelli: nel primo, una rampa di scale conduce all’ Altare della Pace con al centro la figura della Dea Roma scolpita all’interno di un’edicola: è circondata da un fregio marmoreo raffigurante a destra il Trionfo dell’amor patrio e a sinistra il Trionfo del lavoro. Due successive rampe di scale laterali portano alla statua equestre di Vitto-
rio Emanuele II, opera di Enrico Chiaradia ed Emilio Gallori, che poggia su un basamento su cui sono raffigurate le principali città d’Italia. Il terzo livello è, infine, costituito da un portico a sedici colonne doriche, sormontato da un coronamento
ed affiancato da due ali sporgenti, sulle quali si ergono due quadrighe di bronzo. La costruzione del Vittoriale è uno degli esempi più clamorosi della mancanza d’interesse da parte di Giuseppe Sacconi per il problema dell’integrazione dei nuovi edifici nell’assetto urbanistico preesistente (la zona dei Fori Imperiali), che aveva, invece, impegnato l’Antonelli (cfr. fig. 57) nella progettazione delle sue opere.
Arte 8
GUSTAVE-ALEXANDRE
EIFFEL (1832-1923), La Tour Eiffel, 1887-89, Parigi
Se l'architettura italiana finì col rielaborare stancamente gli stili del passato, gli esempi francesi dimostrano, invece, un tentativo di rinnovamento e di sperimentazione tecnica che trovò il suo massimo esponente in Gustave Eiffel, che in occasione dell'Esposizione Universale di Parigi del 1889 fu incaricato di costruire la Tour Eiffel, considerata il simbolo dell’architettura industriale di fine secolo. L'architetto francese fu essenzialmente un tecnico: perfezionando i sistemi di bullonatura e progettando le travi reticolari metalliche che offrono un’ottima resistenza e flessibilità e minor peso, contribuì allo sviluppo dell’uso del ferro, materiale considerato fino a quel momento povero ed utilizzato soltanto dagli ingegneri per la costruzione di ponti. Le Esposizioni Universali avevano, d'altronde, decretato in quegli anni il definitivo successo delle tecniche di lavorazione industriale, favorendo l’utilizzo del vetro e del ferro per la realizzazione degli edifici architettonici. Due materiali che sarebbero stati alla base della successiva architettura Liberty sviluppatasi all’inizio del Novecento. Eiffel utilizzò quindicimila pezzi metallici saldati insieme, innalzando così una torre di forma piramidale alta trecentoventi metri e dal peso di settemila tonnellate: è costituita da quattro pilastri uniti da una saldatura ad arco
che, partendo dalla base, si uniscono alla sommità attraverso un intreccio di travi metalliche. La decorazione è volutamente annullata per esaltare la snellezza e l’altezza della torre, in favore di una ricerca di luce che può essere raffrontata a quella ricreata in quegli anni dai dipinti impressionisti e dalle sculture di Medardo Rosso (cfr. fig. 54) ed Auguste Rodin (cfr. fig. 55).
Il secondo
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993 e destino perfettamente coincidono, come, appunto, solo nell’epos può accadere. Dopo I Malavoglia, l'autenticità di un rapporto diretto con la natura sarà sempre più difficile, le soluzioni simboliche e quelle epico-liriche diverranno progressivamente più rare sino a sparire del tutto già in Vagabondaggio, mentre gli eroi assomiglieranno piuttosto a ’Ntoni che a padron ’Ntoni. Si tratta infatti di protagonisti (come Gesualdo, o Bianca, 0 Diodata) duramente segnati da un’eccedenza di umanità rispetto alla loro sorte e, spesso, da una lacerante contraddizione fra interno ed esterno, fra esigenze dei sentimenti e logica economica: dunque, di personaggi ormai del tutto romanzeschi, in quanto lontani dall’immobilità e dalla ritualità dell’epos. Con l’addio di ’Ntoni stiamo per entrare dunque nel mondo laico e profano del moderno. da Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 63-66
ROMANO
LUPERINI
L’artificio dello straniamento Il critico, ritornando assiduamente su Verga, in un ampio arco di tempo che va dal 1968 al 1989, ha impiegato nella sua indagine tutti gli strumenti critici più aggiornati. Anche nell’analisi delle strutture narrative, studiate con gli strumenti della narratologia, ha conseguito risultati decisivi. Ne diamo un esempio con queste pagine dedicate all’artificio dello “straniamento” in Rosso Malpelo. Sì osserverà che il critico non si arresta ad una descrizione formale di “come è fatto” il testo, come in genere è proprio della critica strutturale e semiotica, ma allarga il discorso dai procedimenti formali in sé alla visione che essi veicolano, e ai risultati conoscitivi che consentono.
Il narratore, interprete delle «leggi della Natura» e della mentalità della comune degli uomini, è convinto che Rosso sia «cattivo» perché «diverso». Ne consegue che la sua narrazione produce un singolare effetto di straniamento. Nella prosa verghiana di Rosso Malpelo e dei Malavoglia esso non è dovuto soltanto all’attrito fra punto di vista del narratore e punto di vista dell’autore! (e del lettore), come avviene negli esempi classici che sono citati dai formalisti russi? e in cui l’ottica narrativa è effettivamente «strana» (quella di una piccola contadina nell’episodio del consiglio di guerra in Guerra e pace, quella di un cane o di un cavallo in Cechov o ancora in Tolstoj, quella di un cieco in Korolenko). Nel Verga, «normale» è il punto di vista del narratore (che è, tout court*, il punto di vista del mondo) e «strano» chi si comporta secondo una diversa logica. Mentre negli esempi degli scrittori russi l’ottica usata è chiaramente eccezionale per cui lo straniamento si realizza nel rappresentare ciò che è «normale» come se fosse «strano», il Verga rappresenta ciò che è effettivamente «strano» (l’alienazione, la violenza, la sopraffazione nei confronti di Rosso) come se fosse «normale». Non stupisce che la madre non faccia carezze al figlio, stupisce che non sia il figlio a fargliele. Tutto il racconto è costruito sulla base di questo artificio. Il Verga conosce la realtà ed esprime il proprio giudizio su di essa, come scrittore, non là dove la sua ideologia politica è palese ma proprio qui, nel procedimento di straniamento. Un narratore conosce narrando, tramite la creazione di proprie strutture stilistiche. Quelle qui inventate dal Verga sono fondate sul procedimento di straniamento, nella forma originale che abbiamo detto: il quale dunque non è solo un artificio tecnico per raggiungere l’impersonalità, ma anche una maniera per cogliere l'essenza stessa della realtà, la sua oggettiva assurdità ed invivibilità ed insieme la sua implacabile ed ineluttabile necessità. La voce narrante spiega e giudica gli avvenimenti secondo una logica oggettiva, che è nella natura e insieme nella mente della maggior parte degli uomini: questa logica
- una logica di violenza che tende ad escludere il diverso, ad espellerlo dalla comunità — è profondamente stravolta: eppure si tratta - non ci stancheremo di sottolinearlo — di uno stravolgirussi come esempio di ‘straniamento ”, di . osserper la distinzione tra Narratore | formalisti 1. narratore ... autore: . SI .* . . 3 una realtà “normale”, da un punto di vista di vazione $2.2). 1 M a e autore reale si rimanda i “strano”. 2. formalisti russi: cfr. M 22. 3. Korolenko: Vladimir Korolenko (1853-1921), scrittore | 4. tout court: decisamente. russo. Il sue racconto Il musicista cieco (1886) è citato dai
La critica
994 mento oggettivo che è insito nella struttura stessa della società e quindi contro di esso è inutile
ribellarsi. L'assurdità di questa logica oggettiva può essere fatta intuire al lettore grazie alla
frizione che esiste fra il giudizio della comunità e il senso emergente dal montaggio oggettivo delle sequenze della storia di Malpelo, fra l'ottica economica e violenta della società e ilcompor: tamento, alla fine didattico-altruistico, del protagonista, e insomma allo scarto che s’istituisce fra il punto di vista del narratore e quello (sempre taciuto eppure chiaramente percepibile) del. l’autore; ma non ha senso denunciarla e contestarla apertamente, perché un’alternativa ad essa, | per il Verga, semplicemente non esiste e non può esistere. Nessuna meraviglia dunque se nella logica stravolta del procedimento di straniamento ado: perato dal Verga s'incontrano non solo proposizioni causali che non sono tali, ma anche proposi; zioni consecutive che sono pseudoconsecutive: dopo la morte del padre, Rosso «era più triste e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio» [...]. Nel mondo capovolto, nel consorzio degli uomini, la bontà (qui il dolore per la morte del padre) è cattiveria, l’autentico è inautentico: ma lo scrittore non interviene a districare la verità, a ristabilire i giusti rapporti, a rimettere sui piedi la realtà rovesciata: si limita piuttosto a constatarne il carattere implacabile, a prenderne atto con un moto di disperata amarezza, che suscita nel lettore non la rivolta, ma una «impressione di melanconia soffocante», una «gran tristezza». In questa impossibilità dell'autore ad imporre il proprio giudizio (impossibilità che nasce dall’impotenza a fondarlo su alcunché di positivo) e nelle scelte stilistiche conseguenti [...] matura già una narrativa costretta a deporre l'atteggiamento onnisciente dello scrittore tradizionale. Si capisce allora come l’importanza dell’invenzione compositiva (si pensi al sistema dei personaggi) e stilistica (artificio di regressione’, procedimento di straniamento, «pseudooggettività») del Verga in Rosso Malpelo (poi continuata, ripresa e approfondita nei Malavoglia) vada ricercata soprattutto in due ordini di ragioni, tra loro abbastanza connessi. Da un lato è grazie a quest’invenzione e comunque in rapporto ad essa che si può parlare di realismo a proposito di Rosso Malpelo: esso non sta tanto (o soltanto) nel suo valore documentario di una condizione sociale di sfruttamento (dove esclusivamente per molto tempo si è andati a cercarlo) quanto piuttosto nella capacità del Verga di cogliere (cioè di conoscere e rappresentare attraverso originali soluzioni espressive) la struttura stessa, conflittuale ed antagonistica, dell’assetto sociale vigente, mostrandone il sistema di violenza su cui si basa e il profondo stravolgimento economico, la logica assurda ed alienata, l’invivibilità che ne consegue e per cui Malpelo si perde. Dall'altro il procedimento di straniamento, su cui è costruito l’intero racconto, così come poi / Malavoglia, dà un posto di rilievo al Verga nella storia delle strutture formali della narrativa moderna. Il Verga, pur essendo, da buon positivista e da conseguente materialista, convinto dell’oggettività della realtà [...], non può più dare su di essa un giudizio chiaro e definitivo che nasca da una volontà e da una possibilità di modificarla radicalmente; può solo contestarla per via interna, a livello di scelte stilistiche, nello spessore sottile ed «ironico» che s’insinua fra il punto di vista del narra: tore e il proprio. La negazione cessa di essere ideologica (perché a questo livello lo scrittore non ha più un ruolo e uno spazio) e si contrae su se medesima rischiando un assoluto nichilismo; ma intanto diventa anche un fatto interno alla letterarietà stessa dell’opera: pura rappresentazione, artificio formale. Per questa via il realismo del Verga si conferma più moderno di quanto si possa pensare, forse già un remoto preludio di quello della grande avanguardia europea. da Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su «Rosso Malpelo», Liviana, Padova 1976, pp. 69-73
5. artificio ... regressione: l’artificio verghiano per cui il | tato. Luperini usa la formula proposta da G. Baldi, L’arti narratore non narra dal suo punto di vista ma “regredi- | ficio della regressione, Liguori, Napoli 1980. sce” nell’ottica del mondo popolare e primitivo rappresen-
Scrittori realisti europei
995 Bibliografia Edizioni delle opere I grandi romanzi, a cura di F. Cecco e C. Riccardi, Mondadori, Milano 1972; Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, ivi, 1979; Mastro don Gesualdo, edizione critica a cura di C. Riccardi, Il Saggiatore, Milano 1979; Tutte le novelle, a cura di G. Tellini, Salerno, Roma 1980; Tutti i romanzi, a cura di E. Ghidetti, Sansoni, Firenze 1983; Opere, a cura di G. Tellini, Mursia, Milano 1988. Un’edizione nazionale, a cura della Fondazione Verga di Catania, è in corso di pubblicazione presso Le Monnier, Firenze. Edizioni economiche dei singoli romanzi e delle novelle sono nelle collane Mondadori (Oscar), Garzanti (I grandi libri), Rizzoli (Bur), Bompiani (Tascabili Bompiani).
Edizioni commentate
I Malavoglia, a cura di S. Guglielmino, Principato, Milano 1985; I Malavoglia, a cura di F. Cecco, Bruno Mondadori, Milano 1986; [Malavoglia, a cura di R. Luperini, Mondadori, Milano 1988; I Malavoglia, a cura di V. Guarracino, Bompiani, Milano 1989; I Malavoglia, a cura di T. Di Salvo, Zanichelli, Bologna 1989. Mastro-don Gesualdo, a cura di S. Guglielmino, Mursia, Milano 1984; Mastro-don Gesualdo, a cura
di E. Ghidetti, Principato, Milano 1987. Novelle, a cura di A. Cannella, Principato, Milano 1986.
Storie e antologie della critica G. SANTANGELO, Giovanni Verga, in I classici italiani nella storia della critica, La Nuova Italia, Firenze 1955; A. SERONI, Verga, Palumbo, Palermo 1960.
Leggere Verga, a cura di P. Pullega, Zanichelli, Bologna 1973; Interpretazioni di Verga, a cura di R. Luperini, Savelli, Roma 1975; Verga. Guida storico-critica, a cura di E. Ghidetti, Editori Riuniti, Roma 1979; Verga, a cura di M. Paladini Musitelli, Milella, Lecce 1984; Verga, a cura di G. Mazzacurati, Liguori, Napoli 1985; Il punto su Verga, a cura di V. Masiello, Laterza, Roma-Bari 1986.
Guide a carattere divulgativo
V. Guarracino, Guida alla lettura di Verga, Mondadori, Milano 1986; M. MEZZANZANICA, Come leggere «Mastro-don Gesualdo», Mursia, Milano 1986; M. Romano, Come leggere «I Malavoglia», Mursia, Milano 1983; S. ZaPPuLLA MUSCARA, Invito alla lettura di Verga, Mursia, Milano 1977. Studi critici
B. CROCE, Giovanni Verga, in «La critica», 1903 (ora in La letteratura della nuova I talia, Laterza, Bari 1915); L. Russo, Giovanni Verga, Ricciardi, Napoli 1920 (1919); A. MOMIGLIANO, Verga narratore, Priulla, Palermo 1923 (poi in Dante, Manzoni, Verga, D'Anna, Messina 1944); F. FLORA, Giovanni Verga, in Storia della letteratura italiana, vol. IV, Mondadori, Milano 1940; N. SAPEGNO, Appunti per un saggio sul Verga, in «Risorgimento», 1945 (ora in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Laterza, Bari 1961); G. TROMBATORE, Socialità e pessimismo nell’arte di Giovanni Verga, in «Rinascita», 1947, n. 3 (ora in Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia, Manfredi, Palermo 1960); G. PETRONIO, Lettura di «Mastro don Gesualdo», in «La Rassegna d’Italia», 1948-49 (ora in Dall’Iluminismo al Verismo, Manfredi, Palermo 1962); A. SERONI, Test per una lettura dei «Malavoglia», nei in Nuove ragioni critiche, Vallecchi, Firenze 1954; L. SPITZER, L’originalità della narrazione Pensiero, e Vita Scarpati, C. di cura a italiani, Studi in «Malavoglia», in «Belfagor», 1956, n. 1 (ora 1959 (poi, Milano 1976); E. GIACHERY, «La roba» e l’arte del Verga, in «Quaderni di Marsia», Roma Milano ampliato, col titolo Il periodo lungo, «La roba» e l’arte del Verga, in Verga e D'Annunzio, Silva,
Bibliografia
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Giovanni
Verga e il Verismo italiano
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SCRITTORI ITALIANI DELL'ETÀ DEL VERISMO
Studi sulla letteratura
contemporanea
Giacinta
Profumo
Le Appassionate > le Paesane
II marchese li Roccaverdina
1. La narrativa verista
A74. Luigi Capuana Nato a Mineo (Catania) nel 1839, fu anch'egli, al pari di Verga, agiato possidente agrario. Collaborò come critico letterario e teatrale a vari giornali e riviste, prima a Firenze per «La Nazione» (1864-69), poi a Milano per il «Corriere della Sera» (1877-82), e diresse a Roma «Il Fanfulla della domenica» (1882-88), uno dei più prestigiosi fogli letterari dell’epoca. Negli anni milanesi fu entusiasta divulgatore del Naturalismo francese e contribuì con Verga a elaborare la poetica del Verismo italiano, raccogliendo i suoi vari articoli su Zola, i Goncourt, Verga, ecc., in due volumi di Studi sulla letteratura contemporanea (1880 e 1882). Parallelamente all’attività critica e in stretta connessione con essa si dedicò alla narrativa: nel ’79 pubblicò Giacinta (ristampata poi nell’86 con profondi rimaneggiamenti, che tengono conto della tecnica impersonale verghiana), in cui, sulle orme di Zola, intendeva studiare scientificamente un caso di psicologia patologica, ma fallì la sua ambizione di proporsi come modello di una nuova narrativa di impianto naturalista, restando tutto sommato prigioniero della tradizione del romanzo psicologico romantico. Dopo Giacinta pubblicò un altro romanzo, Profumo (1891), incentrato su un caso di isteria, e numerosi volumi di novelle, che si distinguono in due diverse tendenze, bozzetti regionali siciliani di imitazione verghiana e analisi di casi amorosi abnormi e patologici, come indicano chiaramente i titoli delle due raccolte in cui vengono più tardi a confluire, le Appassionate (1893) e le Paesane (1894). A partire dal volume Per l’arte (1895) Capuana si allontanò progressivamente dal naturalismo rifiutando il legame tra arte e scienza ed esaltando sempre più l’autonomia dell’arte (sempre sostenuta d’altronde sin dagli articoli su Zola), sino a subire le suggestioni del nuovo clima spiritualista e antipositivista che caratterizza la fine del secolo (Gli «ismi» contemporanei, 1898). Nonostante questo mutamento di prospettive nel 1901 pubblicò ancora un romanzo, Il marchese di Roccaverdina, concepito molti anni prima e poi continuamente rimaneggiato, che fonde il quadro sociale siciliano di ascendenza gesualdiana con l’analisi di una passione psicopatologica, ma con un gusto ormai lontano dall’ottica scientifica e materialistica di un tempo. Negli ultimi anni insegnò all’università di Catania. Morì nel 1915.
Capuana
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3
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Scienza e forma letteraria: l’impersonalità La pagina è tratta dalla recensione ai Malavoglia di Verga, pubblicata sul «Fanfulla della domenica» nel 1881.
Il Balzac!, il gran padre del romanzo moderno, ha i suoi predecessori ai quali sta, forse, meno attaccato che i suoi successori non istiano a lui. Il Flaubert, i De Goncourt, lo Zola? che hanno fatto
e che fanno altro se non svolger meglio, ridurre a maggior perfezione quelle parti della forma del romanzo rimaste nella Comédie humaine in uno stato incipiente 0 imperfetto? Il naturalismo, i famosi documenti umani non sono una trovata dello Zola. Bisogna non aver letto la prefazione del Balzac al suo immenso monumento per credere che il trasportare nel romanzo il metodo della storia naturale* sia una novità strana e pericolosa. Senza dubbio l’elemento scientifico s’infiltra nel romanzo contempora:
neo e lo trasforma più pesantemente, con più coscienza, nei lavori del Flaubert, dei De Goncourt e dello Zola; ma la vera novità non istà in questo. Né stà nella pretesa di un romanzo sperimentale, bandiera che lo Zola inalbera arditamente, a sonori colpi di grancassa, per attirare la folla che altrimenti passerebbe via, senza fermarsi [...].. Un’opera d’arte non può assimilarsi un concetto scientifico che alla propria maniera, secondo la sua natura d’opera d’arte. Se il romanzo non dovesse far altro. che della fisiologia o della patologia, o della psicologia comparata in azione, [...] il guadagno non sarebbe né grande né bello. Il positivismo, il naturalismo esercitano una vera e radicale influenza nel romanzo contemporaneo, ma soltanto nella forma, e tal influenza si traduce nella perfetta impersonalità di quest’opera d’arte. Tutto il resto, per l’arte, è una cosa molto secondaria, e dovrebbe esser tale anche nei giudizi che si pronunziano intorno ai lavori rappresentanti, più o meno efficaci, della nuova formola artistica. [...] Nei romanzi del Balzac, questo sparire dell’autore avviene ad intervalli. Egli si mescola ogni po’ all’azione, spiega, descrive, torna addietro, fa delle lunghe divagazioni prima di lasciar i suoi personaggi a dibattersi soli soli colle loro passioni, col loro carattere, colle potenti influenze del lor tempo e dei luoghi; e l’onnipotenza del suo genio non si mostra mai così intera come quando le sue creature rimangon libere, abbandonate ai loro istinti, alla loro tragica fatalità. I suoi successori intervengono assai meno di lui nell’azione o non intervengono affatto. Si può dire che la loro opera d’arte sì faccia da sé, piuttosto che la faccian loro. E questo semplicissimo cambiamento ha già prodotto una rivoluzione che il volgo dei lettori difficilmente sarà nel caso d’apprezzare nel suo giusto valore. I Malavoglia si rannodano agli ultimissimi anelli di questa catena dell’arte. L'evoluzione del Verga è completa. Egli è uscito dalla vaporosità della sua prima maniera e si è afferrato alla realtà, solidamente. Questi Malavoglia e la sua Vita dei campi saranno un terribile e salutare corrosivo nella nostra bislacca letteratura. Lasciateli fare e vedrete. Se avranno poi la consacrazione (e se la meritano) d’una traduzione francese, eserciteranno un’influenza anche in una sfera più larga e conteranno per qualche cosa nella storia generale dell’arte. Giacché finora nemmeno lo Zola ha toccato una cima così alta in quell’impersonalità ch'è l’ideale dell’opera d’arte moderna. C’è voluto, senza dubbio, un'immensa dose di coraggio, per rinunziare così arditamente ad ogni più piccolo artificio, ad ogni minimo orpello rettorico e in faccia a questa nostra Italia che la rettorica allaga nelle arti, nella politica, nella religione, dappertutto. Ma non c’è voluto meno talento per rendere vive quelle povere creature di pescatori;
quegli uomini elementari attaccati, come le ostriche, ai neri scogli di lava della riva di Trezza. [...]
Un romanzo come questo non si riassume. E un congegno di piccoli particolari, allo stesso modo della vita, organicamente innestati insieme. L'interesse che ispira non è quello volgare, triviale del come finirà? ma un interesse concentrato che vi prende a poco a poco, con un’emozione di tristezza dinanzi a tanta miseria, dinanzi a quella lotta per la vita, qui osservata nel suo primo stadio quasi animale, e che l’autore s'accinge a studiare nelle classi superiori con una serie di romanzi legati insieme dal titolo complessivo: I Vinti. L’originalità Verga l’ha trovata dapprima nel suo soggetto, poi nel metodo impersonale portato fino alle sue estreme conseguenze. Quei pescatori sono dei veri pescatori siciliani, anzi di Trezza, e non rassomigliano a nessuno dei personaggi d’altri romanzi. Non è improba1. Balzac: cfr. A29 e M7. 23 Flaubert ... Zola: cfr. AT1 e A73. 3. prefazione ... naturale: nella prefazione
alla Commedia umana Balzac afferma di | de Saint Hilaire (le specie si differenziano voler applicare alla società la teoria delle a seconda degli ambienti in cui si svi| specie zoologiche del naturalista Geoffroy | luppano).
Scrittori italiani dell’età del Verismo
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bile che il Verga si possa sentir accusare di minore originalità quando il suo soggetto lo condurrà fra la borghesia e le alte classi delle grandi città, perché allora le differenze dei caratteri e delle passioni appariranno meno spiccate; ed è bene notarlo fin da ora.
ANALISI DEL TESTO
L’autonomia dell’arte #
La forma L’impersonalità
Come si vede, Capuana segna nettamente le distanze rispetto al «romanzo sperimentale». Zola era convinto di fare veramente, coi suoi romanzi, opera di scienziato, studiando l’ereditarietà e il determinismo ambientale (cfr. T195). Capuana ritiene invece che, perseguendo un simile obiettivo, l’arte si snaturerebbe, trasformandosi in qualcosa di estraneo. Egli è assertore dell’autonomia dell’arte: nelle sue teorie vi è una sensibile componente idea-
listica, che gli proviene anche da influenze del pensiero di De Sanctis. Per lui, quindi, la letteratura non deve diventare scienza ma restare letteratura, perseguire i suoi propri fini, che sono artistici. A] massimo, la letteratura potrà avvicinarsi allo spirito della scienza, che domina nei tempi moderni, nel metodo con cui rappresenta la realtà, cioè nella forma artistica, nella maniera con cui lo scrittore organizza i suoi materiali e i suoi mezzi espressivi. —E questa maniera si riassume nel principio dell’împersonalità, intesa come scomparsa dell’autore dall’opera, cioè soppressione di quell’intervento soggettivo, mediante commenti e giudizi, che caratterizzava la narrativa precedente. Non è un caso che le precisazioni teoriche di Capuana prendano spunto dai Malavoglia, in cui il principio dell’impersonalità è applicato con estremo rigore (e in forme del tutto originali rispetto a Zola, come si è visto).
PROPOSTE
DI LAVORO
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1. Secondo Capuana c’è un legame tra l’opera di Balzac e dei suoi successori e quella di Verga? 2. Per Capuana l’opera d’arte risponde a criteri suoi propri o può seguire i metodi scientifici, ad esempio della fisiologia o della patologia?
8. Quali meriti Capuana riconosce ai Malavoglia di Verga?
+ Cfr. La critica, C57
EH Giacinta Il romanzo fu pubblicato nel 1879, con dedica a Zola. Nel 1886 uscì una nuova edizione, interamente riscritta secondo il nuovo modello dell’impersonalità proposto dai Malavoglia di Verga: tutto ciò che nella prima redazione era raccontato da un narratore onnisciente, dall’esterno e dall'alto, diviene dialogo e messa in scena diretta. Abbiamo preferito antologizzare dalla prima redazione, poiché essa ci è parsa più utile
a documentare le prime fasi del Verismo: la Giacinta del 79 è in sostanza il primo romanzo di ispirazione naturalistica in Italia, e ambisce alla funzione di manifesto della nuova scuola. Quella dell’86 è in fondo meno
originale, più dipendente dal preponderante modello verghiano.
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de
Giacinta, nata in una famiglia della piccola borghesia di provincia, da una madre ambiziosa e arrivista
e.da un padre debole e succubo della moglie, subisce nell’infanzia la violenza di un servo. Il trauma incide i di un gionella formazione del suo carattere, determinando l’insorgere di una acuta nevrosi. Innamoratas
da un oscuro vane bello e mediocre, il napoletano Andrea Gerace, rifiuta di sposarlo, perché, ossessionata amante, come Andrea prende lei, di anziano più aristocratico ricco un Sposato impura. sente senso di colpa, si freddezza, di sintomi sfidando i pettegolezzi della chiusa città di provincia. Ma, quando scopre in Andrea
la sua passione diviene un’ossessione tormentosa, patologica.
Capuana
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Un «medico filosofo» e un caso
di «patologia morale» Dal cap. A
L’acuto sguardo del dottor Follini aveva indovinato qualcosa del travaglio della Giacinta. Egli era un medico, filosofo, pel quale i nervi, il sangue, le fibre, le cellule non spiegavano tutto ci
nell’individuo. Non credeva all’anima immortale; però credeva all'anima ed anche allo spirito: combinava Claudio Bernard, Wirchoff? e Molescott‘ con Hegel® e Spencer*, ma il suo Dio era il De Meis” della Università di Bologna. Si era impossessato così bene della dottrina del suo maestro, che ne aveva anche preso un po’ lo stile e le maniere, specialmente il risolino caratteristico tra ingenuo e malizioso. La Giacinta lo aveva interessato sin dai primi giorni come un caso di patologia morale® degno davvero di attenzione. In quella donna l’eredità naturale?, l'organismo potevan servire a dipanare appena una metà del problema. E siccome per lui la medicina non consisteva soltanto nella diagnosi e nella cura del morbo, così non lasciava sfuggirsi nessuna occasione di raccogliere elementi scientifici, cioè fatti individuali provati, pel suo gran lavoro sull’uomo ideato sin da quando si trovava all’ Università Bolognese. Quel giovane medico, ricco di tanta dottrina, aveva un’anima da poeta. La Giacinta, che lo aveva capito, si confessava, come ella soleva dire, molto volentieri con lui. I maligni, non potendo penetrare più in là della buccia, vedevano in quella intimità un sintomo cattivo per la posizione dell’ Andrea. Secondo loro, il dottor Follini era in via di soppiantarlo e se ne rallegravano segretamente. Nulla di più falso di questi sospetti. Per quanto grande fosse la simpatia ispiratagli dalla Giacinta, egli conservava rimpetto a lei la sua freddezza scientifica. La interrogava destramente, s’ingegnava di coglierla alla sprovveduta per sorprendere i sintomi nella loro schietta spontaneità; s’interessava alla evoluzione lenta e misteriosa con cui quel bel caso! procedeva verso uno scioglimento certamente terribile, secondo gli pareva potesse indursi dalle premesse; ma arrestavasi lì. Il suo cuore di giovane e di poeta non dava segni di vita; la donna non lo tentava. Lo scienziato non voleva perdere, innamorandosi della Giacinta, il
benefizio di un’osservazione così importante, così difficile a capitare un’altra volta; e si dominava e ‘ s'infrenava con padronanza tutta sua. Una sera la Giacinta pareva allegrissima. La sua allegria scoppiettava in frasi vibrate frizzanti che producevano una grande ilarità nella piccola cerchia di persone attorno a lei. Il dottor Follini la osservava, raccolto in un canto, senza aver veduto.
Però quando ella si accorse di quelle pupille quasi severe che le stavano addosso, si sentì impacciata in tutti i suoi movimenti. Sforzossi a continuare ma la sua lingua era legata, la sua mente si distraeva, i suoi pensieri diventavano incoerenti. Poco dopo si levò da sedere e, scambiate alcune parole con due o tre persone venutele incontro, si accostò al dottore. - Soffre? - le chiese il Follini, stringendole la mano.
l.inervi... tutto: non era un materiali-
sta assoluto, che spiegasse ogni fenomeno
psicologico con alterazioni dell'organismo. Nel personaggio Capuana proietta i suoi personali orientamenti. 2. Bernard: Claude Bernard (1818-1878), il maggior fisiologo francese dell’Ottocento, introdusse il metodo sperimentale nella fisiologia, prima ritenuta solo scienza di osservazione dei fenomeni. Alla sua opera si rifece Zola nel delineare il metodo del «romanzo sperimentale». 3. Wirchoff: Rudolf Virchow (1812-1902), scienziato tedesco di orientamento materialistico, diede contributi fondamentali alla teoria delle cellule.
4. Moleschott: fisiologo olandese (18221898) di orientamento materialistico, che considerava il pensiero e le attività spirituali come prodotti dell’organismo fisico. 5. Hegel: il massimo filosofo dell’idealismo tedesco (1770-1831), per cui tutta la realtà è spirito. 6. Spencer: uno dei maggiori filosofi positivisti (1820-1903); sosteneva però che al di là dell'esperienza, su cui si basa la scienza, vi è l’inconoscibile, il mistero. 7. De Meis: Camillo De Meis (1817-1891), medico e pensatore. Nella sua opera fondamentale, Dopo la laurea (1868-1869), tende a conciliare positivismo e idealismo hegeliano. Capuana lo ammirava
Scrittori italiani dell’età del Verismo
profondamente
e lo considerava
suo
maestro.
8. patologia morale: la patologia studia le malattie dell’organismo fisico. Il positivismo però era fiducioso di poter creare una scienza anche delle malattie “morali”, quelle che noi chiameremmo nevrosi e isteria. 9. eredità naturale: la legge per cui certi caratteri e certe anomalie si trasmettono ereditariamente. Era uno dei capisaldi del positivismo. Zola ne aveva fatto l’asse portante dei Rougon-Macquart. 10. bel caso: il medico ha individuato nella. passione amorosa di Giacinta una vera malattia.
1001 Ja Quando si soffre non si ride — rispose la Giacinta evidentemente stizzita di vedersi letto così bene
in fondo al cuore. - Contessa, ella dimentica che chi le parla sia un medico - ripigliò il Follini con dolcezza. — Ha ragione - disse la Giacinta. - Ma, Dio mio! che gliene importa? Perché mi guarda a quel modo? — La studio.
— Mi fa più male. E siccome il dottore si mostrò sorpreso di queste parole: - Mi fa più male - ella replicò. - Venga a vedermi domani. Sono sul punto di prendere una gran malattia; mi aiuti a morir presto! Lo attendo: non manchi. Lo lasciò confuso, impensierito, e tornò ad essere allegra come prima. — Dunque la cosa è più grave di quel ch’io credevo! — disse il giorno dopo il dottore andato a visitarla verso le due pomeridiane. — Forse no, - rispose la Giacinta. - Forse è una mia esagerazione. Non so in che modo, ma mi si è fissata qui (e coll’indice toccava la sua fronte nel centro) mi si è fissata un’idea! che mi rode la vita. Vi sono dei momenti nei quali mi credo diventata propria matta. Questa idea gira, come un arcolaio; m’impedisce di pensare ad altro, mi assorbe, mi succhia il midollo delle ossa. Dell’oppio, dottore, dell’oppio! Son parecchie notti che non dormo. — Il medico è come il professore, gliel'ho inteso ripetere più volte - disse il dottor Follini, che non cessava di guardarla negli occhi. - Vorrà dunque permettermi delle domande che per un altro sarebbero certamente indiscrete? — Interroghi - rispose la Giacinta. - Non avrò segreti per lei. — Di che si tratta? — Di nulla: di sospetti di fantasmi...; ma intravvedo qualcosa di triste! - Ha egli cambiato abitudini? - Sì e no; si sforza di non farmene accorgere, ma ho già scoperto lo sforzo: è stato peggio. - Ma, insomma, quest'uomo è proprio parte della sua vita? — Tutto! - Strano, inconcepibile! — esclamò il dottore abbassando la voce. —- Perché? - Mi permette di dirglielo colla mia solita schiettezza? — Altro! - É un uomo comune, quasi volgare, e...
- Mi ama!... Mi ha amato! - lo interruppe vivamente la Giacinta, con due significantissime inflessioni di voce.
— Una gran ragione, ne convengo. Però, dopo tutto, ella deve aver sentite delle aspirazioni a qualcosa di più elevato. Ognuno di noi ha un ideale che gli sfugge dinanzi. - Oh! la persona amata non è mai qual'è, ma quale noi ce la foggiamo. Poi le circostanze modificano tutto. A seconda di esse, le piccole qualità possono valere più delle grandi: gli stessi difetti diventare un gran merito. Il maggior predominio dell’Andrea sul mio cuore proviene, me ne sono accorta da poco, dalla sua debolezza. Gli ho immolato tutto. Ormai la mia vita non può avere altro pernio. Il disinganno mi ucciderebbe; già mi sento ferita. Dall’intonazione della voce, da certe sfumature di reticenze, da tutti i movimenti della persona, il dottore capì che la contessa manifestava appena un terzo della realtà del suo stato; e rimase indeciso
sul consiglio da dare. - Vi è un sol rimedio: viaggi — egli disse, dopo una breve riflessione. - Mi faccia dormire, non le domando altro! — rispose la Giacinta che aveva le lagrime agli occhi. Il Follini cavò di tasca il portafoglio, scrisse silenziosamente la sua ricetta, e posandola sul tavolo: - Un cucchiaio ogni sera - le disse - prima di mettersi a letto. [La vicenda si conclude con il suicidio di Giacinta, abbandonata dall’amante]. 11. fissata un’idea: la gelosia è divenuta ossessione nevrotica.
Capuana
1002 ANALISI DEL TESTO Il passo esemplifica perfettamente il taglio “naturalistico” di Giacinta. Tipica del Naturalismo è l’attenzione per i casi patologici, da studiare scientificamente. Qui non si tratta di patologia fisica, ma “morale”, un caso di nevrosi: una passione amorosa che, in una psiche malata come quella di Giacinta, si trasforma in ossessione. Anche il personaggio del dottor Follini è emblematico: quella del medico è una figura centrale della cultura positivistica e della letteratura naturalistica, perché incarna l'ideale ____.
dello “scienziato”, l'eroe di questa età. Il dottor Follini è qui la proiezione dell’autore stesso
n
entro il narrato: in lui prende corpo l'atteggiamento che Capuana intende aver verso la sua eroina, la rigorosa indagine scientifica del caso di «patologia morale». Al medico sono attribuite tendenze filosofiche che sono proprie di Capuana, gli interessi positivistici conciliati con l’hegelismo. Sul piano della tecnica narrativa siamo lontanissimi dall’impersonalità di Verga, quella sino a quel momento già sperimentata in Rosso Malpelo (1878) e in altri racconti di Vita dei campi, che, come sappiamo, consiste nell’“eclissi dell’autore” e nella regressione entro il mondo popolare rappresentato: qui in Giacinta vi è invece un narratore onnisciente che
Lo studio della patologia morale Il medico, eroe del Naturalismo
La tecnica narrativa
osserva dall'esterno i fatti e interviene con i suoi commenti. Anche nella tecnica narrativa,
oltre che nell'argomento, Capuana è più vicino a Zola (non si dimentichi che, in questa prima edizione, il romanzo è dedicato al maestro francese).
1214 |PROPOSTE DI LAVORO
n
1. Individuare gli interventi del narratore ed i punti in cui compare l’indiretto libero.
2. Perché Giacinta è «un bel caso di patologia morale»? 3. Quale formazione culturale possiede il dottor Follini? I 4. Cercare tutte le affermazioni scientifiche espresse dal dottor Follini.
A75. Federico De Roberto Nato a Napoli nel 1861, ma di famiglia siciliana, si formò nella Catania di Verga e di Capuana, dei quali fu discepolo e amico, e soggiornò anch'egli a Milano nell’ultimo decennio del secolo, poi più volte a Roma. Alla produzione letteraria affiancò per tutta la vita un’intensa attività giornalistica. Ai primi del Novecento si ritirò a Catania, con cariche onorifiche (sovrintendente onorario ai monumenti). Morì isolato e dimenticato, nel 1927, in una stagione culturale ben diversa da quella in cui aveva prodotto le opere più significative. Dopo aver esordito nel 1887 con le novelle de La sorte, vicine alla maniera regionalistica di Verga e Capuana, alternò in seguito raccolte di novelle veristiche come i Processi verbali (1890) con novelle e romanzi di analisi psicologica, Documenti umani (1888), Ermanno Raeli (1889), L illusione (1891). Nel 1894 pubblicò il suo capolavoro, I Viceré, vasto quadro sociale incentrato sulla storia di un'antica famiglia nobile siciliana, di cui vengono analizzate con implacabile freddezza le tare ereditarie, l’avidità interessata e la sete di dominio. Postumo,
nel 1929, uscirà L’imperio (purtroppo rimasto incompiuto), che continua I Viceré pi la scalata al successo politico dell’ultimo rampollo della famiglia Uzeda, onsalvo. Scrittori italiani dell’età del Verismo
È
1008
BM I Viceré Pubblicato nel 1894, il romanzo narra le vicende della nobile famiglia siciliana degli Uzeda, discendente da antichi viceré spagnoli dell’isola, intrecciandole con gli avvenimenti storici tra il '50 e 1°80. Odi, cupidigie, meschinità, rivalità si agitano tra i numerosi componenti la famiglia, che sono perpetuamente in conflitto tra loro, e sono uniti solo dall’orgoglio di casta e dalla difesa gelosa dei loro privilegi e della loro superiorità sociale. Tuttavia la decadenza della razza si rivela in un germe di follia che si manifesta in ciascuno di essi: tutti sono segnati da fissazioni e stranezze. La sete ossessiva di dominio caratterizza anche l’ultimo discendente, Consalvo, protagonista della parte finale del romanzo, che, dopo un’adolescenza dissipata, affronta con ambizione smodata e totale cinismo la carriera politica, abbracciando per opportunismo, lui aristocratico e intimamente reazionario, idee di sinistra. Egli è infatti convinto che al di là di ogni rivolgimento storico nulla può veramente mutare, e che i privilegiati devono sapersi adattare alle nuove situazioni politiche, come quella successiva all'unità, per mantenere intatto il loro potere.
Politica, interesse di casta
e decadenza biologica della stirpe Il duca di Oraqua, zio degli Uzeda, proveniente da una famigha aristocratica borbonica e reazionaria, ma divenuto liberale per cal-
colo e opportunismo, durante la spedizione garibaldina in Sicilia acquista una grande popolarità senza alcun merito, grazie ad alcuni gesti demagogici. Alle prime elezioni del nuovo Stato unitario, si presenta candidato al Parlamento, in base al principio: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri» (che suona come cinica parodia della famosa frase di Massimo d’Azeglio). Contemporaneamente, dopo anni di attesa e di delusioni, la nipote Chiara sta per dare alla luce un figlio (parte I, cap. 9)
Il giorno dell’elezione era vicino; i due Giulente, ma più specialmente Benedetto!, avevano scovato gli elettori, compiuto tutte le formalità dell'iscrizione; mattina e sera veniva gente a trovare il duca per dichiarargli che avrebbero votato per lui: i Giulente non mancavano mai. La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori, il cameriere del marchese? venne di corsa a chiamare il principe? e la principessa, perché Chiara era sul punto di partorire. Quando Giacomo e Margherita arrivarono in casa di lei, trovarono Federico che smaniava come un pazzo, dall’anGrasietà, non potendo assistere la sofferente, chiamando però a ogni tratto la cameriera, la cugina con restò principe Il partoriente. della ziella o una delle tre levatrici che si davano il cambio al letto un’aaveva costei parto, del travaglio il lui e la principessa entrò nella camera di Chiara. Nonostante marito. ria beata, sorrideva tra due contorcimenti, raccomandava che rassicurassero suo spine...» sulle è . Poveretto.. AN!... .. Margherita. stessa, tu Va’ «Ditegli che non soffro... conseguito! I d’esser punto sul dunque era ardente, più voto suo il anni, Il suo desiderio di tanti marito... Quando dolori s'attutivano, a quest'idea; ella non soffriva quasi più pensando all’ambascia del
la principessa tornò in camera, la levatrice esclamava: «Ci siamo!... Ci siamo!...»
in preda all'ultima «Presenta la testa?» domandò la cugina, che reggeva per le ascelle la marchesa crisi. «Non so... Coraggio, signora marchesa... Che è?...» regali: dall’alvo* sanA un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi col becco, un uccello pesce un bile, innomina cosa una guinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, 2. marchese: Federico, marito di Chia1. Benedetto: Benedetto Giulente, giovane sta per paravvocato borghese e progressista, aspira | ra, la nipote del duca, che 1 alla mano di una nipote del duca ed è | torire. Uzeda, nipote del Giacomo principe: 8. + causa. sua devoto alla
duca di Oragua, primogenito della casata ed erede del titolo principesco. 4. alvo: ventre.
De Roberto
1004 ancor Vivo. spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era È «Gesù! Gesù! Gesù!» aggirata per s'era che sa principes la liberata, appena sensi i perduto aveva fortuna, per Chiara, disgu-. la camera senza toccar nulla, incapace di dare aiuto alla partoriente, voltava adesso il capo, dal o: esclamand , costernate no sto prodottole da quella vista; e le levatrici, la cugina, la cameriera si guardava i «E chi vuol dare la notizia al marito!» Giusto il marchese, non udendo più nulla, chiamava:
«Cugina!... Donn’Agata!... Come va?... Cugina!... Non viene nessuno? » Fu donna Graziella quella che dovette andargli incontro a prepararlo al brutto colpo: «Cugino, di buon animo!... Chiara è liberata...» «È maschio?... È femmina?... Cugina!... Perché non parlate?» «Fatevi animo!... Il Signore non ha voluto... Chiara sta bene; questo è l’importante...» Il principe, entrato a vedere l’aborto il cui unico occhio erasi spento, tentò d’impedire al cognato smaniante l’entrata nella camera della moglie; ma non vi riuscì. Dinanzi al mostro che le levatrici costernate avevano deposto sopra un mucchio di panni, il marchese restò di sasso, portando le mani ai capelli. Frattanto sua moglie tornava in sensi, guardava in giro gli astanti. «Federico!... E maschio?...» furon
le prime parole che spiccicò.
|
«Stia zitta!» ingiunsero a una voce le donne, mettendosi dinanzi all'aborto per impedire che lo scorgesse. «Non le dite nulla per ora...» «Federico!» chiamava ancora la puerpera. «Chiara!... Come stai?» esclamò îl marchese, accorrendo. «Hai sofferto molto? Soffri ancora?»
«No, nulla... Nostro figlio?»
%
«Chiara, confortati! È una femminetta...» annunziò la cugina, accorrendo. «Che importa!... E tanto bellina...»
«Peccato!...» sospirò ella.
«Sei dolente per questo?» domandò poi al marito, vedendone la ciera buia.
«Ma no, no!... Tutti i figliuoli sono cari lo stesso...» «E dov’è?... Portatela qui...» fece ella, con un nuovo sospiro. In quello stesso punto la cameriera, dietro ordine della principessa, portava via il feto avvolto in un panno, cercando di non farsi scorgere. «E lì!...» esclamò Chiara. «Voglio vederla...» Allora una grande confusione ammutolì tutti quanti. Federico, accarezzandole le mani, baciandola in fronte, le disse: «Coraggio, figlia mia!... Fàtti coraggio... Vedi che anch’io mi rassegno! Il Signore non volle...» «E morta?» domandò ella, impallidendo. «No... è nata morta... Coraggio, poveretta!... Purché tu stia bene... il resto è nulla: sia fatta la volontà di Dio».
«Voglio vederla». Tutti la circondarono, insistendo per dissuaderla da quel proposito: giacché era morta! Perché angustiarsi a quella vista? Bisognava che ella s’avesse riguardo; l'importante adesso era la salute di lei! «Voglio vederla», ripeté seccamente. Bisognò contentarla. Non pianse, non provò raccapriccio nell’esaminare quell’abominio; disse al marito: «Era tuo figlio!...» E ordinò che non lo portassero via, pel momento. Arrivarono frattanto gli altri parenti, don Eugenio, donna Ferdinanda, la duchessa Radalì, i cugini del marchese; tutti si condolevano, ma auguravano miglior fortuna per la prossima volta. Arrivò anche il duca, verso sera, a fare i suoi convenevoli; ma restò poco, poiché i Giulente lo aspettavano giù, per riferirgli le ultime notizie intorno alle disposizioni del collegio: Benedetto pareva Garibaldi quando disse a Bixio: «Nino, domani a Palermo!...» Il domani infatti egli corse su e giù per le sezioni, per le case dei votanti, sollecitando la formazione dei seggi, interpretando la legge che riusciva nuova a tutti, incitando la gente a deporre nell’urna il nome d’Oragua. Frattanto in casa di Chiara, quasi in segno di protesta contro quell’ultima pazzia del duca, s'erano riuniti tùtti gli Uzeda borbonici [...]. La marchesa stava discretamente in salute e
sopportava anche con sufficiente rassegnazione la sua disgrazia; il marchese non lasciava il capezzale della puerpera e si chinava a parlarle all’orecchio: nessuno dei due ascoltava i motti feroci di donna Scrittori italiani dell’età del Verismo
î
1005
_Ferdinanda contro il fratello”, i ragionamenti storico-critici che il cavaliere® teneva al principino ”, venuto anche lui a far visita alla zia col Priore e fra’ Carmelo. Chiara aveva mandato a chiamare Ferdinando*, e lo aspettava con viva impazienza: quando egli apparve se lo fece venire accanto e gli parlò piano, lungamente. Poi chiamò la cameriera e, cavato di sotto al guanciale un mazzo di chiavi, glielo diede, ordinandole in mezzo al frastuono della conversazione: | «Sai la boccia dello strutto, nel riposto?... la grande?... Prendila, vuotala e nettala bene... Ma bene mi raccomando! Se c'è acqua calda è meglio». Pronta che fu la boccia, Ferdinando andò a vederla. «Va bene», disse; «adesso occorre lo spirito». La marchesa ordinò che andassero a comprarlo; e allora in mezzo al cerchio dei parenti stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando lavò, asciugò e introdusse poi nella boccia dove versò lo spirito e adattò il tappo. «C'è un po’ di sego?... di creta?...» «Ho il mio cerotto”, se ti serve...» disse il marchese. E del cerotto che appestava la camera Ferdinando spalmò l’incastratura del tappo, perché non entrasse aria nel recipiente. La marchesa seguiva attentamente l'operazione; Consalvo, con gli occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don Lodovico!°: «Zio, non pare la capra del museo?» Al museo dei Benedettini c’era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo!! con le zampe,
una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré!2. Premeva al principe di tornare dallo zio duca e, per fargli cosa grata, prese con sé il figliuolo, quantunque fosse l’ora che il ragazzo doveva tornare al convento. La famiglia era appena arrivata al palazzo, che s’udirono di lontano suoni confusi: battimani, grida, squilli di tromba e colpi . di gran cassa. Una dimostrazione di cittadini d’ogni classe con bandiere e musica, capitanata dai Giulente, veniva ad acclamare il primo deputato del collegio, l’insigne patriotta. Il portinaio, vedendo arrivare quella turba vociferante, fece per chiudere il portone; ma Baldassarre!, mandato giù dal duca, gli ingiunse di lasciarlo spalancato. La folla gridava: «Viva il duca di Oragua! Viva il nostro deputato!» mentre la banda sonava l’inno di Garibaldi e alcuni monelli, animati dalla musica, facevano capriole. I Giulente, il sindaco, altri otto o dieci cittadini più ragguardevoli parlamentavano con Baldassarre, volendo salire a complimentare l’eletto del popolo; poiché il duca si trovava su nella Sala Gialla, il maestro di casa ve li accompagnò: Benedetto Giulente, appena entrato, vide Lucrezia! accanto alla principessa, ancora col cappellino in capo. Il duca, fattosi incontro ai cittadini, strinse la mano a tutti, prodigando ringraziamenti, mentre dalla via veniva il frastuono delle grida e degli applausi, e il prin-
cipe, visto nel crocchio un iettatore, impallidiva mormorando: «Salute a noi! Salute a noi!» Fu il nuovo eletto, pertanto, quello che presentò Giulente alle nipoti. Il giovane s’inchinò, esclamando raggiante: «Signora principessa, signorina, sono felice e superbo di presentar loro la prima volta i miei omaggi in questo fausto giorno che è di festa per la loro casa come per tutto il paese...» «Viva Oragua!... Fuori il duca!... Viva il deputato!» urlavano giù. E Benedetto, quasi fosse già in casa sua, spalancò il balcone. Allora il duca impallidì peggio del nipote: egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco, dire qualcosa. Stringendosi a Benedetto, balbettava: «Che cosa?... Che debbo dire?... Aiutami tu, mi confondo...»
«Dica che ringrazia il popolo della lunsinghiera dimostrazione... che sente la responsabilità del man-
5. motti ... fratello: donna Ferdinanda, sorella del duca, è accesa borbonica e reazionaria. 6. cavaliere: don Eugenio, altro fratello del duca, ha la fissazione della storia della nobiltà siciliana. 7. principino: Consalvo, figlio di Giacomo: studia nel convento dei Benedettini.
8. Ferdinando: fratello del principe e nipote del duca di Oragua. Spirito stravagante e asociale, si diletta di scienze. 9. cerotto: medicamento a base di resine adesive, in cui sono incorporate sostanze medicinali. 10. Lodovico: altro fratello del principe Giacomo; è priore del convento dei Bene-
dettini. 11. otricciuolo: piccolo otre. 12. il prodotto ... Viceré: sottolinea la decadenza biologica dell’antica casata. 13. Baldassarre: il maggiordomo. 14. Lucrezia: sorella del principe Giacomo e nipote del duca. Giulente aspira alla sua mano.
De Roberto
Lo 1006 dato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo... animato dalla fiducia, sorretto...» Ma poiché le grida raddoppiavano, egli lo spinse verso il balcone.
Appena il deputato apparve, un clamore più alto levossi dalla via formicolante di teste; salutavano
coi capelli, coi fazzoletti, con le bandiere, vociando: «Evviva! Evviva!...» Giallo come un morto, affer-
rato alla ringhiera con tutte e due le mani con la vista ottenebrata, immobile in tutta la persona, l’Onorevole cominciò: i «Cittadini...» i Ma la voce si perdeva nel tumulto vasto e incessante, nel coro assordante degli applausi; l’atteggiamento del deputato non faceva capire che egli volesse discorrere. Benedetto alzò un braccio; come per incanto ottenne silenzio. «Cittadini!» cominciò il giovanotto; «in nome di voi tutti, in nome del popolo sovrano, ho comunicato all’illustre patriotta...» «Evviva Oracqua!!... Evviva il duca!...» «la splendida, l’unanime affermazione dell’intero collegio... Alle tante prove d’abnegazione da lui.date al paese...» «Evviva! Evviva!...» «il duca d’Oragua aggiunge quest’altra: di obbedire ancora una volta alla volontà del paese e di rappresentarci in quell’augusto consesso dove per la prima volta concorreranno i figli...» Ma non poté finire quel periodo. Le acclamazioni, i battimani soffocavano le sue parole; gridavano: «Viva l’unità italiana! Viva Vittorio Emanuele! Viva Oracqua! Viva Garibaldi!...» Altri aggiungevano: «Viva Giulente! Viva il ferito! del Volturno!...» «Lo slancio da cui vi vedo animati», egli proseguiva, «è la più bella conferma del responso dell’urna... di quell’urna donde ancora una volta esce la libera... la sovrana volontà!’ d’un popolo divenuto padrone di sé... Cittadini! Il 18 febbraio 1861, tra i rappresentanti della nazione risorta noi avremo la somma ventura di veder sedere il duca d’Oragua. Viva il nostro deputato!... Viva l’Italia!...» Uno scroscio finale d’applausi rintronò e la folla cominciò a rimescolarsi. Una seconda volta, con voce strozzata, senza un gesto, senza un moto, il duca aveva cominciato: «Cittadini...» ma giù non udivano, non comprendevano ch'egli fosse per parlare. Allora, voltatosi verso le persone che gremivano il balcone, egli disse: «Volevo aggiungere due parole... ma se ne vanno... Possiamo rientrare...» Sorrideva, traendo liberamente il respiro, come liberato da un incubo, stringendo la mano a tutti, ma più forte a Benedetto, quasi volesse spezzargliela. «Grazie!... Grazie!... Non dimenticherò mai questo giorno...» Guidò il giovane nella stanza attigua perché prendesse congedo dalle signore, accompagnò tutti fino alla scala. Quando rientrò, il principe, liberato anche lui dall’incubo della iettatura, ricominciò a complimentarlo, additandolo come esempio al figliuolo: «Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?» Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò: «Che cosa vuol dire deputato?» «Deputati», spiegò il padre, «sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento». «Non le fa il Re?» i «Il Re e i deputati assieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!8!...» _
15. Oracqua: la folla storpia il nome del | delduca è stata abilmente manipolata, suo idolo. i come i suoi meriti patriottici sono solo 16. ferito: Giulente era stato volontario | montatura. Però Giulente è patriota garibaldino. cero, e viene strumentalizzato e alla 17. libera ... volontà: in realtà l’elezione | ingannato dagli Uzeda.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
così 18. Viceré ... deputato: nella battuta si una concentra il significato dell’episodio: al di sin- | là dei mutamenti apparenti nulla può fine cambiare.
1007
| ANALISI DEL TESTO Il montaggio in parallelo
Il fatalismo pa
La tecnica narrativa
L'episodio si fonda sul montaggio in parallelo, condotto con notevole abilità, di due diverse sequenze narrative, il parto mostruoso e l’elezione del duca d’Oragua. Tale montaggio è evidentemente denso di significati, che l’autore, in nome dell’impersonalità, si guarda bene dall’esplicitare, lasciando che le cose parlino da sé. Si può leggere innanzitutto in chiave naturalistica: da un lato la decadenza biologica dell’antica razza nobililare, che ormai può solo dare origine a mostri; dall’altro però, nonostante questo, l’inesausta sete di dominio e l'avidità interessata che inducono la nobiltà ad ogni sorta di trasformismo, senza alcuno serupolo, pur di conservare il potere, anche ad accettare il nuovo stato liberale e il principio delle elezioni dei rappresentanti del popolo. Ma il montaggio parallelo si può anche leggere in chiave simbolica: il mostro è l'equivalente oggettivo della mostruosità morale della famiglia Uzeda, che si manifesta sia nel cinismo dei suoi trasformismi politici sia nell’ottuso reazionarismo e nella chiusura ossessiva a difesa degli interessi e dei privilegi. Pur attraverso l’impersonalità, traspare egualmente la dura condanna da parte dello scrittore. Ma De Roberto non prospetta alternative: la sua visione è fatalistica, come si può intuire dalla battuta conclusiva del principe Uzeda: «Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!...». I dominatori mantengono immutato il loro potere, nonostante ogni mutamento politico. Le trasformazioni storiche sono solo fenomeni di superficie, ma nel profondo nulla può cambiare veramente. E un pessimismo affine a quello di Verga. Le tecniche con cui De Roberto costruisce la narrazione impersonale sono però diverse
da quelle del Verga “rusticano”. Non vi è la “regressione” della voce narrante entro la realtà rappresentata. La narrazione si fonda sul dialogo (in larga misura), su didascalie descrittive e informative perfettamente neutre, e su discorsi indiretti liberi dei personaggi (siamo più vicini al modulo del Gesualdo). La narrazione tende ad avvicinarsi alla forma teatrale. De Roberto ne è perfettamente consapevole: nella Prefazione ai Processi verbali (1890) afferma infatti: «L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l'ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro». Solo raramente affiora dall’oggettività della narrazione una mossa sarcastica, che tradisce l’atteggiamento del narratore: «il prodotto più fresco della razza dei Viceré»; «egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco».
‘T215. PROPOSTE DI LAVORO 1. Individuare la “voce” del narratore, i suoi giudizi. 2. Confrontare lo spazio dato nel brano ai dialoghi e ai discorsi indiretti liberi dei personaggi con quello occupato dagli interventi del narratore. Quali conclusioni si possono trarre sulla tecnica narrativa di De Roberto? 3. Provare a riscrivere qualche passo significativo alla maniera di Verga, facendo “regredire” la voce narrante a livello dei personaggi e facendole adottare la loro mentalità ed il loro modo di esprimersi.
4. Quale concezione della politica traspare dall'episodio?
De Roberto
LI
A76. Remigio Zena Nacque a Torino nel 1850 da famiglia aristocratica genovese. Il suo vero nome
Vicende
era Gaspare Invrea; lo pseudonimo «Zena» deriva dal nome dialettale della sua città
biografiche
Poesie grigie Le anime semplici La bocca del lupo Le Pellegrine
di origine. Ebbe un'educazione conforme ai principi cattolici intransigenti e conservatori della famiglia, ai quali rimase poi sempre fedele. Seguì la carriera del magi strato civile e militare, in Italia, in Eritrea, in Medio Oriente. Dal 1877 cominciò a collaborare alle riviste genovesi più battagliere con versi, articoli e prose narrative. A Milano conobbe e frequentò gli scrittori scapigliati. I suoi interessi culturali si muovevano tra la Scapigliatura, il Naturalismo francese e il Verismo italiano. Entrò anche in contatto con Verga, che ammirava come un maestro. Nel 1880 pubblica le Poesie grigie, in cui si mescolano influenze della Scapigliatura e dei Parnassiani francesi. Nel 1886 escono i racconti Le anime semplici. Storie umili, dove Zena si accosta ai moduli veristici di Verga, affrontando personaggi popòlari e riproducendo la tipica “regressione” verghiana. Del 1892 è il romanzo La bocca del lupo, in cui è evidente l’influenza verghiana, sia nella materia sia nell'impianto narrativo. Nel 1894 escono le poesie delle Pellegrine, in cui Zena si rifà ai simbolisti
francesi, e che rappresentano il suo momento mistico-decadente. Nel ’91 aveva infatti soggiornato a Parigi, venendo direttamente a contatto con l’ambiente simbolista. Del 1901 è ancora un romanzo, L’Apostolo: ambientato a Roma, è la storia di un giovane aristocratico, ilcui carattere irrequieto si scontra con il dogmatismo delle gerar-
L’Apostolo
chie ecclesiastiche.
E un romanzo ormai lontano dall’indirizzo verista, che si rifà ai
moduli del romanzo psicologico. Zena morì a Genova nel 1917.
EH La bocca del lupo E la storia di un’erbivendola, Bricicca, rimasta vedova con tre figlie a lottare contro la miseria. Ha rilievo nella vicenda soprattutto la figura di Marinetta, la più inquieta delle figlie, che si fa attrarre dalla ricchezza, cadendo nelle insidie degli uomini. Il romanzo riprende una materia verghiana (la lotta per la sopravvivenza di una famiglia popolana, colpita dalla sventura e piombata nella miseria), ma soprattutto l’impianto narrativo. Zena, tra i veristi italiani, è l’unico (a parte il Capuana delle Paesane) a seguire fedelmente il peculiare modulo verghiano della “regressione”, adottando una voce narrante interna al mondo popolare rappresentato. Ma l'orientamento ideologico di Zena è lontano dal pessimismo materialistico di Verga: il suo conservatorismo cattolico lo induce piuttosto ad atteggiamenti di pietà paternalistica per gli umili e di moralismo edificante. Nella Prefazione Zena spiega infatti che il suo intento è di avvertire le famiglie dei pericoli che corrono le fanciulle inesperte, tra tanti “lupi” pronti a mangiarsele (donde il titolo del romanzo).
T216
Miseria popolare e colore dialettale Dal cap. I
Il meglio, nelle cose proibite dal governo, è di non mischiarcisi mai; per esempio, a forza di suppli-
che e di raccomandazioni, una mattina finalmente il re fece alla Bricicca! la grazia dei tre o quattro mesi che le restavano ancora, ed è uscita in libertà dopo un anno circa di prigionia per l’affare del
lotto clandestino, ossia del seminario”, come diciamo noi a Genova, ma intanto col suo volersi imba-
razzare in certi negozi*, fu essa che finì per uscirne colla testa rotta.
Jk Bricicca: è la protagonista (cfrì introduzione al testo). 2. seminario: «semendio» è l’espressione genovese che designa il gioco del lotto; è |
fatta derivare dal nome dell’edificio (il il nome di «semenfio». Palazzo del Seminario) dove aveva sede la | 3. imbarazzare ... negozi: immischiarsi in certi affari. tipografia che pubblicava i bollettini delle estrazioni. Per traslato anche l’urna prese
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1009 I Quando si nomina la Bricicca, s'intende la bisagnina‘ che sta sulla piazzetta delle Pece Greca, di fianco all’Angelo Custode, quella che aveva tre figlie, perché a Genova ce n’è un’altra chiamata Bricicca, che vende farinata a Prè, e le due non sono neppure parenti e neppure si conoscono, anzi questa di Prè figlie non ne ha mai avuto e dopo che il più grande dei maschi ha trovato un buon impiego nel
tramvai, se la passa bene e non ha più bisogno di nessuno. Invece la Bricicca della Pece Greca, povera diavola, se l’ha quasi sempre passata malissimo fino da quando stava ancora a Manassola e il marito partì per l'America lasciandole sulle braccia una corba?” di figliuoli tutti piccoli. Dalle nostre parti è cosa solita: i giovani pigliano moglie appena tornano a casa dal servizio militare, e dopo che alla moglie le hanno fatto fare i tre primi figli e il quarto è per cammino, s'imbarcano e che la moglie s’aggiusti; appena arrivati, danno segno di vita e mandano giù mezz’oncia d’oro, poi, i più bravi, si contentano di scrivere ogni sei mesi, lamentandosi d’essere stati ingannati, e che in America, o per la febbre gialla o per la guerra o per la pace, ci si muore di fame peggio che da noi. Ora che è fuori, la Bricicca tira avanti perché a questo mondo, finché non arriva la morte a tagliarvi l’erba sotto i piedi, avanti si tira sempre, ma quei pochi cavoli e quella poca frutta che vende in un portichetto, non le mettono caldo nemmeno sotto la lingua e dice che per morire così tutti i giorni, tanto vale morire una buona volta sul serio, massime adesso che gli anni per lei bisogna cominciare a contarli dai cinquanta in su. In coscienza, se non avesse vergogna, rimpiangerebbe il tempo che passò in Sant'Andrea”; vedeva il sole a quadretti, ma almeno mangiare, mangiava. E ora che è rimasta sola da un pezzo, dice che vorrebbe avere le figlie che potrebbero aiutarla, e quando invece le figlie le aveva con sé, si raccomandava a tutti i santi del paradiso, perché non sapeva come mantenerle. A quei tempi, dieci o quindici anni fa, subito dopo la morte del suo unico maschio, erano in quattro a mangiare, lei, due figlie che avrebbero digerito i mattoni del lastrico, e il fitto di casa che mangiava più di tutti e capitava puntuale come Pasqua dopo sabato santo. Dodici franchi al mese un buco sotto i tetti, che per arrivarci bisognava fare come i gatti e rimetterci un palmo di
fiato, dove d’inverno ci si ballava per tutto fuori che per l’allegria, e d’estate la minestra bolliva da sé senza fuoco. Il padrone cantava che lassù in cima l’aria era buona e si godeva la vista del porto e della Lanterna, ma la Bricicca della Lanterna non sapeva cosa farsene, e dodici franchi al mese erano tanto sangue che si levava. Una rovina era stata la morte del Gigio, il suo figlio maschio, da non consolarsene più notte e giorno. Avevano bel dirle le donne della Pece Greca che tanto e tanto, disperandosi, il figliuolo non l'avrebbe fatto risuscitare e che ci voleva pazienza; nossignore, lei non poteva avere pazienza! Era troppo cruda” vedersi portar via un ragazzo venuto su buono come il pane di Natale, affezionato, rispettoso, e vederselo portar via sul più bello, quando cominciava a dare una buona spalla alla famiglia. Non ce n’erano state abbastanza delle disgrazie? non si contava per nulla quella del marito, che tornato
finalmente dall'America più sprovvisto di quando era andato via, e venuto a Genova, dove lavorava in porto nello scarico dei vapori, aveva fatto la morte del topo* sotto la catena d'una mancina?. E dopo il padre, il figlio, alla distanza di dieci mesi. Pareva impossibile il giudizio di quel ragazzo, che appena uscito dalle scuole, un bravo impiego aveva saputo trovarselo, e altelegrafo si guadagnava i suoi cinquanta franchi al mese, piuttosto più che meno. Salute da buttar via non ne aveva, neppure
i passi non se li faceva rincrescere, lasciava che i compagni pigliassero l omnibus o si divertissero a camminare dietro la musica dei soldati, e lui a piedi tutto il giorno a portare i dispacci senza perdere dieci minuti, corri di qua, corri di là, da San Teodoro alla Pila, tanto che quasi sempre tornava a casa
ze stanco frusto!° e si gettava sul letto come un sacco vuoto, senza voglia di mangiare. vigilia La altro. domandava I superiori gli volevano bene tutti, si buscava qualche mancia e non un miliodi Natale, siccome di mancie ne aveva messo insieme discretamente e gli sembrava d essere bottiuna e Klainguti"* fratelli dai nario, aveva voluto comprare lui, del Suo, il torrone, il pan dolce"! e sia , mezzanotte di messa alla andato era glia di moscatello, per fare tutti insieme il Natale allegro; 4 bisagnina: fruttivendola; il termine | gna un numero considerevole. 6. in Sant’ Andrea: in carcere. deriva dalla località nella quale venivano coltivati gli orti, limitrofa al torrente Bi- | 7. cruda: crudele. .
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4
i sagno 5. una corba: letteralmente è una grossa
cesta o una misura di eapacità; qui desi-
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3
Nr
8. la morte del topo: era morto intrap. polato.
10. stanco frusto: stanchissimo, stanco ta morto. 11. pan dolce: dolce natalizio genovese. e
iz fratelli Klainguti: antica e rinomata famiglia di pasticcieri genovesi.
9. la catena d’una macina: gru girevole.
Zena
1010
i
il freddo o l’umidità pigliata giusto quella notte, ché le strade erano bianche di neve, la mattina della seconda festa non aveva potuto star su: dolori nelle gambe e nei reni, male in gola da non potere inghiottire nemmeno la saliva. Sul principio si era detto: non sarà niente, un po’ di costipazione, poi la costipazione era diventata un gran riscaldamento, e il medico fin dalla prima visita aveva fatto una certa faccia, che quando i medici fanno di quelle faccie, la morte, se non è alla porta di casa, è già per le scale di sicuro. Ventose tagliate, mignatte, vescicanti!, tutto inutile; di male in peggio, il povero. ragazzo aveva capito che per lui non c’era più rimedio, e mentre sua madre si strappava i capelli, lui, fatte le sue devozioni come un san Luigi, cercava di consolarla, che si facesse coraggio, che si sarebbero visti in paradiso. Perfino il parroco piangeva. A un tratto era parso che stesse un po’ meglio, ma la mattina di Pasquetta, intanto che le figlie erano uscite con dei vicini di casa per andare a vedere i Re Magi nel presepio dei Cappuccini, il meglio era diventato peggio in un momento e la morte era venuta.
Questo si chiamava cominciarlo bene l’anno! Restare sul lastrico è una disgrazia in tutte le stagioni, ma nel cuore dell'inverno è tanta roba da perdere la testa, e alla Bricicca le pareva d’essere come Bellinda e il mostro, senza sapere da che parte voltarsi per scappare. Dopo avere ben pianto, e portati al Monte! quei quattro stracci ammucchiati in casa a poco a poco dal ritorno del marito, si trovò nuda e cruda, lei e le figlie. Bisognava mangiare, e lei colle sue mani era giusto buona a mangiare, ché di mestieri non ne aveva mai imparato nessuno, nemmeno a far calzette, e tutto il guadagno si riduceva a quello di Angela, che orlava scarpe da donna per un calzolaio di via Assarotti, quello di rimpetto alla chiesa nuova della Concezione, e quando pigliava molto, arrivava a quattro franchi la settimana. Se di tanto in tanto, ad ogni morte di vescovo, non ci fosse stato qualche piccolo soccorso, ora da un benefattore, ora da un altro - roba di centesimi, non mica biglietti da mille o da cento
— tutte tre insieme avrebbero potuto andarsene a Staglieno! e distendersi nella fossa, per levare il fastidio agli altri di portarle sulle spalle. Quand’era a Manassola, col marito in America, la Bricicca s’era trovata a dei brutti punti, ma così agli ultimi, mai, e là almeno, tra l’aiuto dei suoceri e il buon prezzo della roba, ingegnandosi col vendere frutta ai maestri d’ascia!* del cantiere!’, la pignatta al fuoco l’aveva sempre potuta mettere. Anche qui, se le fosse riuscito d’impiantare nella Pece Greca, sulla piazzetta o nel vicolo, un banchino
di verdura, la pigione e la minestra le avrebbe fatte sortire, ma i primi denari chi glieli dava? I vicini non le avrebbero neanche sputato in bocca se l’avessero vista morire di sete. Il parroco una volta le aveva messo in mano un cavurrino?° e arrivederci in paradiso fu il primo e l’ultimo, perché a sentirlo lui, dei poveri ne aveva tanti in parrocchia, che per soccorrerli tutti ci sarebbe voluto un pozzo pieno di marenghi. La signora della Misericordia, alla quale s'era raccomandata, una signora ricca del suo, che i denari glieli portavano a carrate e amministrava nel sestiere del Molo un lascito grosso, detto giusto appunto della Misericordia, una palanca?! che è una palanca non l’aveva tirata fuori, dicendo che per quell’anno dei fondi disponibili dell’opera pia non ce n’erano più. Non ce n’erano più dei fondi, e come va allora che per tante e tante che non ne avevano bisogno, che la festa marciavano vestite di seta, con degli ori al collo, i fondi li aveva trovati? Tutte le settimane venivano i signori
della Società di San Vincenzo, che portavano delle cartelline, ma si poteva stare allegri! un chilo di pane e un chilo di polenta, tanto appena da non morire di fame per un giorno - e gli altri sei giorni? e vestirsi? e le scarpe? Dei lussi pel capo Angela non ne aveva certamente e Marinetta era ancora troppo giovine, non si trattava d’andare a far le belle nelle Strade Nuove, ma a rendere il lavoro in via Assarotti e alla maestra non si potevano mandare vestite come ladre e senza scarpe nei piedi. 13. ventose ... vescicanti: empirici rimedi contro la malattia. 14. la mattina di Pasquetta: la mattina dell'Epifania. 15. Bellinda e il mostro: fiaba popolare nella quale la protagonista, per salvare il proprio padre, accetta di accompagnarsi
ad un mostro, che però al momento delle nozze si trasforma in un bel principe. 16. Monte: è il Monte di Pietà, l’istituto che fa credito su pegno. 17. Staglieno: il cimitero monumentale di Genova. 18. maestri d’ascia: carpentieri addetti
x
Scrittori italiani dell’età del Verismo
alla costruzione o riparazione delle barche e delle navi. 19. del cantiere: il cantiere navale. 20. un cavurrino: moneta del valore di due lire, così chiamato perché recava l’effige di Cavour. 21. palanca: lira.
1011 ANALISI DEL TESTO L’imitazione verghiana: la regressione
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«Una diversa visione
rispetto a Verga
Sono le prime pagine del romanzo. Si coglie immediatamente l’impianto verghiano: la voce che narra riflette la mentalità di un popolano, come rivela la prima frase, che esprime l'ostilità e la diffidenza tipiche del popolo nei confronti dello Stato. Data la vicinanza di mentalità tra narratore e personaggio, avviene anche quell’insensibile trapasso tra il discorso dell’uno e dell’altro, che si poteva osservare nei Malavoglia: ad esempio il passo che comincia: «A quei tempi, dieci o quindici anni fa...» sembra riprodurre un discorso di Bricicca stessa, ma è difficile attribuirlo con certezza al personaggio o alla voce narrante. È come se il narratore “rifacesse il verso” al personaggio, assumendo nel proprio discorso le mosse caratteristiche del linguaggio dell’altro. Zena si impegna anche a riprodurre la parlata locale: il discorso del narratore così come quello dei personaggi (riportato in forma indiretta libera) è espresso sostanzialmente in italiano, ma è tutto infiorato di termini e di modi di dire dialettali. Manca però quell’effetto di straniamento che in Verga scaturisce dall’adozione di un punto di vista “dal basso”, e che vale a mettere in luce lo stravolgimento insito in una realtà dura e disumana. Zena riproduce solo esteriormente la maniera verghiana, rimanendo estraneo alla visione che la informa, duramente pessimistica e critica. La “regressione” ottiene solo effetti di vivace riproduzione del colore locale. In luogo della lucida, crudele indagine verghiana sulla disumanità dei meccanismi sociali, si ha al massimo un pietismo umanitario per le miserie dei poveri; proprio quel pietismo che in Verga è scongiurato dal rigore del pessimismo.
.T216 PROPOSTE DI LAVORO 1. Individuare i punti dov’è sicuramente il narratore che parla e dove parla il personaggio attraverso l’uso del discorso indiretto libero. Quali sono i punti incerti?
2. Registrare tutti i modi di dire dialettali, in gran parte usati per indicare luoghi.
3. Il personaggio della Bricicca viene introdotto dal narratore con notizie che lo caratterizzano o è privo di presentazione ed emerge nel suo agire come un personaggio verghiano? 4. Il racconto procede secondo una catena cronologica progressiva? Ci sono sospensioni? Regressioni?
5. Quali indizi rivelano il “pietismo” dell’autore?
A?7. Matilde Serao Nata a Patrasso, in Grecia, nel 1856, ma vissuta a Napoli e a Roma, diplomata
Il ventre di Napoli -Il paese di cuccagna
Fantasia
maestra, alternò per tutta la vita una copiosissima produzione narrativa con un'intensa attività giornalistica (nel’92 fondò a Napoli, con il marito Edoardo Scarfoglio, il quotidiano «Il mattino»). Alla descrizione di bozzetti napoletani, popolari e piccolo borghesi, è dedicata una parte rilevante della sua opera, dall’inchiesta giornalistica Il ventre di Napoli (1884) ai vari racconti quali Terno secco, Telegrafi di Stato, Scuola Normale femminile, e soprattutto l’opera più ambiziosa, / l paese di cuccagna (1891) per che, attraverso una serie di scene legate da un esile filo narrativo, la passione
il gioco del lotto, vuole dare un affresco di vita napoletana nei suoi vari ceti sociali. Accanto a questa produzione bozzettistica, si collocano romanzi come Fantasia (1883), con analisi psicologiche e d’ambiente borghese vicine al gusto naturalistico, ma con oppure toni sentimentali e strutture da romanzo d’appendice o da romanzo “rosa”; Serao
1012 La conquista di Roma Riccardo Joanna
romanzi di costume come La conquista di Roma (1885), sulla vita parlamentare, e Vita e avventure di Riccardo Joanna (1887), sul mondo giornalistico. L'ultima Serao abbandona l’interesse per i quadri di costume e si concentra su temi di psicologia
amorosa (Addio, amore, 1890; Evviva la vita, 1909), scrivendo storie di amori più o meno infelici, con l'immancabile spettro dell’adulterio. Abbandona anche le prospettive del Verismo e si lascia attrarre da tendenze spiritualistiche e mistiche, che _ erano di moda a fine secolo, in conseguenza della crisi del Positivismo. Muore nel 1927.
da Il paese di Cuccagna
Il sentimentalismo della miseria Il filo conduttore dei vari episodi del libro è la passione, tipicamente napoletana, per il gioco del lotto. Riportiamo appunto un passo che riguarda l’attesa dell’estrazione da parte di una folla di popolani (dal cap. I).
Le quattro si approssimavano e il cortile dell'Impresa! si riempiva di gente. In quel centinaio di metri di spazio, una folla popolana s'’infittiva, chiacchierando vivacemente, o aspettando in silenzio, rassegnatamente, guardando laggiù, al primo piano, la terrazzina coperta, dove si doveva fare l’estrazione. Ma tutto era chiuso, lassù, anche le imposte di legno, dietro i cristalli del grande balcone. Come altra gente arrivava, sempre, la folla giungeva sino alla muraglia del cortile: delle donne, respinte, si erano accoccolate sui primi scalini della scala: qualcuna, più vergognosa, si nascondeva sotto il terrazzino, fra i pilastri che si sostenevano, addossandosi alla porta chiusa di una grande stalla. Un'altra, giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri un po’ malinconici, un po stravaganti, con le occhiate livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra tutta magra nella sua veste di lanetta ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialetto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d’inverno impegnato? sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d’impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello, al figliuolo e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali* di stanze mobigliate, sensali di serve, che nell’estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vincoli San Sepolero, Taverna Penta,
Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l’estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l’opificio*, la bottega, abbandonato il duro e il mal retribuito lavoro, stringendo nel
taschino dello sdrucito panciotto erano venuti a palpitare innanzi più infelici, cioè tutti quelli che a buoni a tutto e incapaci, per mala
la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche Napoli vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rinuneratore, infelici senza casa,
JE il cortile dell'Impresa: è la sede dell’or2. impegnato: dato in pegno al Monte di 3. sensali: intermediari, procacciatori di ganizzazione del gioco del lotto, dove | Pietà, l'istituto di credito che concedeva | contratti. avvengono le estrazioni.
prestiti.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
4. fondaco, opificio: magazzino, officina.
1018 senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell’estremo avvilimento. [L’estrazione dei numeri delude le aspettative della folla, sollevando collera e indignazione].
Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione
del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che tina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera
li aveva abbattuti, come se avessero le braccia avevano giuocato tutt’i loro denari, quella matdi fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di sabato e per la domenica e per tutti i giorni
successivi tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l’infantile dolore di chi sente ì primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall’altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello . sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti — ed erano questi folli disperati che figgevano ancora gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco [...] Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione; ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell’esistenza. Il lustrino® Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l’estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. [...] Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora
qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po’ gracile solamente, le abbassava
il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo
Carmela, sua sorella, seduta sempre sull’alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino:
— Oh Carmela!
ai
- Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso.
- Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh... già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla
sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra? di già alla malattia o alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dire la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lattante lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile troppa facevano le intorno, nte curiosame ‘addormentato, mai due altri fanciulletti, che si guardavano pietà. Ella mentì. 5. lustrino: lustrascarpe. 6. sacra: consacrata, destinata.
Serao
1014 — Non l’ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta.
- Ti assicuro che non vi era affatto. — Non lo avrai visto, - ripeté Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato, sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature,
non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non ci sia; ma non può essere che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata", siamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah queste creature, queste creature, queste povere creature!
i
E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. — E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? - domandò a un tratto Annarella presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l’altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuol fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l’innamorato mio e... un’altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un’ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che mi guadagno, me lo giuoco. Un giorno o l’altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno... allora, allora vi dò tutto a voi, tutto vi dò.
— Oh povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. — Deve venire quel giorno, deve venire... - sussurrò l’appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. — Possa passare un angiolo e dire amen - mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. — Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di’ la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, — non hai niente da dare, ai bambini, oggi?
— Niente, - fece con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l’altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te la renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell’Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela.
La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col
suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli eche ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel
Sx e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. 7. bonafficiata: termine napoletano per indicare il gioco del lotto.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1015 ANALISI DEL TESTO
Bozzettismo
Patetismo
La descrizione della folla in attesa, e che, dopo l’estrazione, si allontana delusa nei suoi sogni, rende l’idea del “verismo” della Serao: un descrittivismo attento al colore locale regionale, inteso a fissare figure e bozzetti caratteristici. Al gusto coloristico si mescola poi la pietà sentimentale per la miseria del popolo. La scena tra le due sorelle è indicativa di un certo modo di rappresentare il popolo che è proprio di questa letteratura regionalistica e “sociale” del secondo Ottocento: vi è un’insistenza sui particolari patetici, tutta indirizzata a suscitare commozione nel lettore. Si può misurare la distanza che separa questo populismo sentimentale dal duro pessimismo verghiano e dal suo valore conoscitivo e critico. E confrontando con la prosa verghiana l'impostazione di questa prosa, in cui è costante l’intrusione della voce narrante, tesa a sottolineare i particolari più struggenti e a smuovere le lacrime, si può capire il significato dell’impersonalità scelta da Verga.
PROPOSTE 1
DI LAVORO
©’
. Delineare le caratteristiche del narratore: interviene nella narrazione con giudizi? Quale atteggiamento ha nei confronti dei personaggi? . Individuare i particolari della narrazione che fanno “colore locale”. . Individuare i punti della narrazione dove è scoperto l’intento di commuovere.
. Si può N p_WW
parlare di populismo per la scena tra le due sorelle? (cfr. M26)
A78. Paolo Valera
Milano sconosciuta
La folla
Nato a Como nel 1850 da una famiglia proletaria, negli anni ’70 frequenta a Milano della sinistra, collaborando ai giornali che ne erano portavoce. Da una ambienti gli serie di reportages usciti sulla «Plebe» compone il volume Milano sconosciuta (1879), che per la crudezza dei suoi quadri gli attira un processo. Seguono poi romanzi di impianto naturalistico, in cui sono denunciate con violenza le ingiustizie sociali e le miserie del proletariato e sottoproletariato urbano: Gli scamiciati (1881), Alla conquista del pane (1884), Amori bestiali (1884). A causa di una condanna per una lite con il capocomico Ferravilla, lascia l’Italia e soggiorna dieci anni a Londra. Tornato a Milano, si dà ad un’intensa militanza politica socialista: arrestato durante i moti milanesi del ’98, sconta anche alcuni mesi di carcere. Un’altra lunga serie di condanne riceve anche per i suoi articoli e opuscoli politici. Nel 1901 fonda il settimanale «La folla» e pubblica l’omonimo romanzo. Nel 1924, due anni dopo la presa del potere da parte del fascismo, scrive un polemico libro su Mussolini, ex compagno di partito, dove auspica il suo ritorno al socialismo. Il libro è sequestrato dai fascisti, e d’altro canto attira a Valera l'espulsione dal partito socialista. Muore nel 1926.
.H La folla redatto intorno al 990, gli anni in Il romanzo fu pubblicato nel 1901, ma probabilmente fu concepito e veri protagonisti né una trama, ma cui il Verismo era ancora in auge. È un romanzo corale: non vi sono della periferia milanese, Di:il "e e vengono tratteggiate le figure degli abitanti di un casone popolare dove un casermone popolare di rue il 1884 (in questo,.si può scorgere una reminiscenza dell’Assommoiîr, Valera
1016 de la Goutte d’or fa da sfondo a buona parte della vicenda). Il libro offre una rassegna dei più vari mestieri, e al tempo stesso un quadro di miseria e di degradazione umana, alcoolismo, malattie, superstizioni, vizi, violenze, delitti. Anche in questo agisce il modello dell’Assommoîr, ma portato a toni ancor più esasperati. Da questo sfondo emergono due personaggi “positivi”: il materassaio Giuliano, che matura una coscienza di classe, e la lavandaia Annunciata, che rappresenta la sana vitalità popolare e la libertà sessuale.
ai.
3
1218
Degradazione popolare
L
e coscienza di classe
A] sabato il Casone si tramutava in una fiera. Era un andirivieni di persone che non finiva mai. Si vedevano frotte di ragazze che rincasavano dalle fabbriche, madri che entravano con le corbe! cariche di provvigioni per la domenica, giovani che passavano con la giacca sulla spalla come infuriati dall’appetito, e uomini stracchi, con le scarpe piene di polvere, con le giacche e i capelli impillaccherati di calcina, che andavano di sopra con le sleppe? di polenta nei fazzoletti colorati che non avevano mangiate al lavoro. Il cortilone era cosparso di capannelli di operai in maniche di camicia, di individui seduti sui cavalletti o appoggiati alle carriuole dalle stanghe in aria o addossati alle muraglie, che discorrevano tranquillamente dell'aumento del pane, come di una birbonata del sindaco. Se la andava avanti di questo passo, diceva il 61 del quarto piano, blocco B, si poteva finire per fare il ladro. C’era il figlio della 74, della sesta ringhiera, il quale passava nove mesi dell’anno in prigione, e stava meglio di loro fuori a frustarsi le ossa. Un poveraccio di fabbro con una e ottanta al giorno doveva nutrire sei persone; col pane a quaranta centesimi il chilo, non aveva altra alternativa che patire la fame o fare dei debiti. Il 39, della seconda ringhiera del blocco A, conveniva anche lui che non si poteva più vivere. Una volta al sabato c’era modo di berne un mezzo e passare un’ora cogli amici. Adesso era molto se sì riusciva a comperarsi un grosso di tabacco di seconda ogni due giorni. Luigione, del terzo capannello, coi capelli arruffati e la cravatta rossa, diceva, pipando, che c’era nel «Secolo»? che l’aumento era una trama dei signori, i quali volevano punire così gli operai che davano ascolto a certi caporioni con certe ideacce che finivano per condurre i gonzi alla rivoluzione. Nessuno aveva mai saputo spiegare chi erano questi caporioni con tante brutte idee per la testa. Era però certo che prima di loro non si andava tanto a cercare il pelo nell’uovo. Per conto suo... - Cacone! Tutti si erano voltati dalla parte della voce. Chi era che aveva parlato? Se c’era qualcuno che gli bastavano i suoi cinque soldi poteva andare innanzi che lui non aveva paura. Non era più di primo pelo, ma non si sentiva tremare le ginocchia, perdio! Anche se fosse stato un gigante, perdio! Già, una volta o l’altra doveva venire alle mani con uno di questi birichini che sollevano i poveri diavoli che hanno la famiglia da mantenere, e lasciano gli altri nei pasticci. Caconi voialtri che dite sempre di voler fare la rivoluzione e non la fate mai! - Cacone! Dall’ultimo capannello a sinistra si staccava un giovine* alto, forte, in giacca di velluto oliva chiaro, con cravatta nera giù per la camicia di cotone azzurro, con il cappello floscio dall’ala rotonda, che pipava nella radica che gli sbatteva l’acceso sulla faccia. - Cacone!
Luigione voleva buttarglisi addosso e mangiargli via il naso. Era un pezzo che gli prudevano le
mani e che aveva voglia di sfogarsi con uno di codesti arruffapopoli che mettevano sottosopra il cortilone. Lui era lì che lo aspettava. Solamente domandava il permesso alla compagnia di cavarsi la giacca
per sentirsi più libero. Ma gli altri si mettevano di mezzo e dicevano che non c’era nulla di male. Chiunque, discutendo, poteva avere delle opinioni, senza venire alle mani. Se si fossero dovuti ammazzare tutti 1. corbe: ceste. : 2. sleppe: grosse fette. 3. «Secolo»: giornale portavoce del radicalismo borghese, ostile al socialismo marxi-
sta. Fu fondato a Milano nel maggio 1866. 4. un giovine: Giuliano, il materassaio socialista.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1017 coloro che la pensavano diversamente, là là, si avrebbe dovuto lavorare di coltello tutto il giorno. Con
un po’ di calma si avrebbe veduto che tutti e due erano d’accordo. - Coi rivoluzionarii, mai!
— Coi caconi, mai! [...] La notte infittiva e la fosca luce delle lampade metteva dei chiarori confusi alle finestre e gettava, qua e là, sui gruppi che chiacchieravano rasente i davanzali, chiazze che impallidivano e criminalizzavano? le facce. I vicini delle quattro ringhiere del blocco ove abitava l’Annunciata, veduti dal Cortilone gremito di chiacchieroni, parevano fantasmi che si rincorressero e si perdessero schiacciandosi gli uni negli altri. E i chiacchieroni, veduti dall’alto delle ringhiere, con le loro braccia che uscivano dai raggi della luna per immergersi nell’ombra, con le loro teste che sparivano e ricomparivano, sembravano una moltitudine di paesani in tumulto. Giuliano, il giovine forte, in giacca di velluto, annegato nella velatura chiara della luce lunare, con la bella testa che soprannuotava sulle altre, diventava la figura ascetica di un predicatore di turbe. Buono come un marzapane, ascoltava volentieri ciò che dicevano gli altri e non andava mai in collera che quando qualcuno sragionava come il Luigione, l'operaio cacone che sparlava dell’operaio. Gli faceva male di sentire a buttar giù una classe che lavorava tanto tanto. Suo nonno e suo padre erano stati operai come lui e come lui perdevano la pazienza se si dava addosso alla gente che lascia nelle fabbriche quasi tutta se stessa. Nessuno è perfetto. E anche i lavoratori hanno molto da imparare. Ma, santo dio! non si doveva dimenticare che loro saltavano via a pié pari il periodo scolastico. Correvano a bottega quando gli altri fanciulli andavano a scuola. Se non ci fosse di mezzo la miseria, si vedrebbe che anche i lavoratori non sono poi tutte zucche. Suo padre, che era stato presidente della società di mutuo soccorso dei fabbri, gli diceva, strada facendo, che egli era troppo vecchio per vedere certe cose, ma che era sicuro che i suoi figli e i figli dei suoi figli avrebbero veduto una società un po’ diversa da quella in cui viveva. Non gli pareva giusto che si dovesse faticare tutto il giorno per stentare la vita come i pitocchi che facevano nulla. I senzacasa gli rimescolavano il sangue. Diceva che era inumano di lasciarli a torno per le strade in quella maniera. Se avevano commesso dei delitti, c'era una buona legge per punirli. Ma se erano innocenti, bisognava aiutarli come si aiutano i naufraghi quando hanno perduto tutto durante il viaggio. Una volta, che il suo amico Stefano si era lasciato uncinare il braccio nelle ruote della macchina, pianse come un ragazzo. Era uno dei migliori lavoranti e un uomo a cui tutti volevano del bene. Gli sanguinava il cuore di vedere un povero padre di famiglia ridotto alla mendicità per un infortunio del lavoro. Si struggeva e si convinceva che qualcuno avrebbe dovuto pensarci. L’operaio doveva stare attento, ma la responsabilità Pt dei disastri non poteva essere tutta sua. Il grido venuto giù dalla scala C decompose l'assemblea che si deliziava a sentire un giovine che parlava con una semplicità che innamorava. Era il solito Giovanni che si era ubbriacato. Al sabato non andava a dormire se non faceva delle pagliacciate, che chiamavano sulla ringhiera anche gli inquilini che stavano per andare a letto. Non appena metteva piede nella stanza, dava della porca alla moglie e della vaianella alla figlia - due mangiapani che lui era stufo di vedersi in casa. Il giorno che gli era venuto in mente di sposarla, doveva rompersi una gamba tre volte. Il suo dovere l’aveva fatto. La madre aveva 39 anni e la figlia 20, e tutt'e due potevano andarsene fuori dall’uscio quando volevano. Lui non aveva bisogno di nulla. La minestra sapeva dove mangiarla, e più buona, accidenti! Se aveva del vino fino alla gola, allora incominciava a sacramentare coi pugni sul tavolo e finiva col trascinarle giù dal letto come stavano, per inseguirle a calci. La madre si lasciava martirizzare sovente senza dire una parola. Era inutile prendersela con un uomo che non sapeva quello che si faceva. Ma Luciana diventava più d’una volta una tigre. Stavolta si gettò indosso la veste e, coi capelli giù per le spalle e lo zoccolo in mano, si mise tra lui e la madre. - Provati a batterla, vigliaccone, se sei buono! Giovanni, aizzato, le si rovesciò addosso col manone spalancato. Luciana non vide altro. Gli menò una zoccolata sulla fronte che lo fece stramazzare al suolo innaffiato di sangue con l’urlo di un bue i i che ha ricevuto il primo colpo sulla testa. dosi al collo — Non ci sto più in questa casa! Casa del demonio, casa d’inferno! - diceva annodan
5. criminalizzavano: davano loro un’aria sinistra, da criminali.
Valera
1018
Da
il fazzoletto di seta scarlatta. - Andrò al diavolo. Non mi vedrete più, più, più! È ora di finirla con
un imbriacone di padre che non ci lascia quiete neanche in letto. Crepa! E tu, madre, guarda bene di dargli una mano. Lascialo lì a morire come un cane.
I vicini le davano ragione. L’ubbriachezza del padre era divenuta cronica. Sciupava parte della set-
timana e poi andava disopra a maltrattarle. L’inquilina di faccia, al loro posto, sarebbe andata alla questura. Un po’ di prigione per certi sbe-. vazzoni non fa male. Le amiche accarezzavano Luciana e le dicevano di ritornare a letto, ché la gente non avrebbe mancato di sparlare e di dar ragione a chi non ne aveva. - Facciano! Dicano! - rispondeva lei, accomodandosi il cappello di paglia affollato di fiori. - Sono stufa! Sono stufa! E batteva i piedi come presa dalle convulsioni. Andrea, che era stato avvertito all’osteria che il padre della sua morosa era di sopra a fare il prepotente, entrò nella stanza con la faccia spaurita. Era un tocco di vergogna che un uomo di 40 anni tribolasse delle povere donne tutta la settimana. Bisognava farla finita. Voleva aspettare ancora qualche mese per comperare della mobilia a pronti contanti. Ma non importava, avrebbe compiuto anche questo sagrificio per dare un po’ di quiete alle donne. - E tu, Luciana, ricordati che casa nostra sarà casa della mamma. Per un boccone di pane e un cucchiaio di minestra, non andremo in malora, non andremo. Luciana piangeva appesa al collo di Andrea e l’inquilina di faccia lavava con una pezzuola inzuppata la fronte dell’ubbriaco, perché a questo mondo bisognava essere cristiani anche coi cattivi. Sono dolori di testa questi uomini. Già, un po’, la colpa è anche degli osti. Se non dessero loro da bere quando hanno gli occhi rossi, non ci sarebbero di queste disgrazie. Dabbasso il cortile e il cortilone si erano spopolati. Non c'erano più che poche persone sparse che tiravano dalle pipe le ultime boccate di fumo, e, qua e là, delle coppie addossate ai muri o agli usci chiusi che si baciavano e si tenevano la mano in mano. Virginia, la figlia di Giovanna, la 32, era al suo posto di tutte le sere nell’inquadratura esterna del lavorerio* di Luraschi, il fabbricatore di casse da morto, con la bocca sulla bocca di Angelino, il figlio della Pina, la moglie del calzolaio manaccione, che se la palpeggiava con dei gridi di monello viziato. Qualcheduno chiudeva gli occhi per non vedere queste porcherie di ragazzi che avevano ancora la camicia sporca e si tiravano l’uno su l’altra come matrimoniati. Peppina, la locandaia”, quando usciva a votare il baslotto® dell’acqua dei piatti, non poteva trattenersi dal dire la sua. Se quella sfacciatona di Virginia fosse stata sua figlia, l'avrebbe presa a sculacciate. Ai suoi tempi si cresceva prima, e non si dava scandalo a nessuno. Si vedevano in chiesa, alla domenica, e poi si sposavano col consenso dei genitori. Adesso questi orrori del vicinato producono delle famiglie che tirano su dei piccini che fanno schifo. E si chiudeva dietro l’uscio, borbottando tra i denti che, quando c’era un po’ di timor di Dio, certe cose non si vedevano. 6. lavorerio: laboratorio. 7.locandaia: tenitrice di una locanda.
8. baslotto: recipiente.
ANALISI DEL TESTO Abbiamo visto in Zena e nella Serao esempi di pietismo sentimentale e conservatore nei confronti del popolo; in Valera si manifesta invece un populismo di segno diametralmente opposto, accesamente socialista (cfr. M26). Non si ha l'insistenza su particolari patetici e strazianti, con l’intento di suscitare le lacrime, ma su particolari crudi di degradazione fisica e morale, tesi a colpire violentemente, a provocare e a scandalizzare il lettore benpensante. Ricorre anche un tipo opposto di retorica moralistica: è chiara la volontà di fornire, con Giuliano, la figura positiva, esemplare, dell’operaio che ha assunto coscienza di classe, forte, buono e generoso, pronto a ribellarsi alle ingiustizie (che è l'equivalente retorico dei popolani umili e rassegnati della narrativa conservatrice).
Scrittori italiani dell’età del Verismo
Un populismo socialista
L'eroe positivo
1019 La tecnica 1 narrativa
Per quanto concerne l’impostazione narrativa, prevale per gran parte del brano l’indiretto libero, che riproduce i discorsi dei vari personaggi. Ma vi sono anche interventi di un narratore esterno, onnisciente, che mirano a colorire di una luce mitica l’eroe positivo (« Giuliano, il giovine forte [...] annegato nella velatura chiara della luce lunare, con la bella testa che soprannuotava sulle altre, diventava la figura ascetica di un predicatore di turbe»). Valera non punta dunque all’impersonalità, ma si rifà ad una tecnica più arcaica.
8 PROPOSTE DI LAVORO 1. Esaminare la tecnica narrativa del brano: ci sono interventi del narratore? Quali sono i discorsi indiretti liberi
dei personaggi?
2. Individuare tutti i termini gergali. 3. Quali particolari della vita popolare sono messi in luce? (ad esempio, dove vivono i personaggi? Come vestono? Quali lavori compiono? Come giudicano la loro realtà? Come sono i rapporti interpersonali?). 4. Quali personaggi femminili vengono tratteggiati? (ad esempio, le donne sono sottomesse ai valori tradizionali? Sono autonome? Come viene giudicato il comportamento libero di Virginia?). 5. Quali giudizi politici vengono espressi e a quale ideologia appartengono?
M26
Il populismo reazionario
Il populismo conservatore
Il populismo di sinistra
Il populismo
Il populismo è un atteggiamento nei confronti del popolo largamente ricorrente durante l’Ottocento, negli scrittori borghesi o aristocratici. Esso assume varie configurazioni, accomunate però da una caratteristica fondamentale: il popolo è visto con simpatia, come portatore di valori positivi (cfr. su questo problema A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, cit.). Le varie manifestazioni si possono raggruppare in tre grandi tendenze: 1. Vi è un populismo reazionario, che identifica il popolo col primitivo, portatore di una forza barbara e animalesca (un esempio significativo è D’ Annunzio), o che vede l’ambiente contadino come un mondo arcaico, che conserva intatti i valori distrutti dalla civiltà moderna, e che quindi offre un modello a cui tornare, riportando indietro il corso della storia (oppure, se non si crede più alla possibilità di mantenere in vita quei valori, un modello da vagheggiare con nostalgia come un paradiso perduto: è il caso di Verga, in una fase della sua opera). 2. Vi è un populismo conservatore: si riconoscono le miserie e le sofferenze del
popolo, e si auspica che vengano alleviate, ma con la convinzione che le condizioni di fondo non potranno mai mutare, e deprecando ogni tentativo di modificarle con la violenza e la ribellione. Questo atteggiamento si presenta in genere accompagnato da forme di pietismo sentimentale, di commozione umanitaria, di paternalismo consolatorio, di ammirazione per le capacità di sopportazione, di sacrificio, di rassegnazione del popolo. Solo il conservatorismo pessimistico di Verga sa evitare questi atteggiamenti, mantenendo un fermo contegno conoscitivo. 3. Vi è infine un populismo di sinistra, democratico o socialista, che vede nel popolo una forza progressiva, un principio attivo capace di trasformare la società e di renderla più giusta, o una forza dirompente, rivoluzionaria, che può distrug: i i i gere l'assetto vigente. Si può anche riconoscere una forma di populismo “ rovesciato A, che, invece di vedere il popolo “in positivo”, si compiace di rappresentare gli orrorie le turpitudini della vita popolare. È un atteggiamento che può obbedire ad un intento polemico, provocatorio (è il caso di Valera), oppure ad un gusto perverso per ciò che è corrotto e disgustoso, che rientra già in un’area decadente (ancora D'Annunzio in Terra vergine e nelle Novelle della Pescara). Microsaggio
1020
; A79. Emilio De Marchi De Marchi si colloca a parte rispetto alla corrente verista, anche se partecipa alle tendenze realistiche che sono proprie della narrativa del periodo. Nato a Milano nel 1851, si laureò in Lettere nell’ Accademia
Il cappello del prete Demetrio Pianelli Arabella
Giacomo l’idealista
Una pietà cristiana Una stanchezza | rassegnata
scientifica e lettera-
ria, dove, dopo aver insegnato in un liceo cittadino, fu professore di stilistica. Ebbe al tempo stesso incarichi nell’amministrazione cittadina, e svolse attività in campo assistenziale e filantropico. Frutto del suo interesse pedagogico fu L’età preziosa (1881), raccolta di esempi e insegnamenti per i giovinetti, e La buona parola, una collana di volumetti, da lui fondata e diretta a partire dal 1898, quando, dopo le agitazioni popolari e la sanguinosa repressione che ne seguì (il generale Bava Beccaris fece sparare con i cannoni sui dimostranti), lo scrittore mirava ad educare il popolo per distoglierlo dalla violenza e dalle sommosse. Dopo un esordio sulla linea scapigliata, pubblicò nell’87 Il cappello del prete, un romanzo popolare, dalla trama misteriosa, di tipo “giallo”. Nell’88 in appendice, e nel ’90 in volume, uscì Demetrio Pianelli, il suo capolavoro, storia di un “vinto”, di un piccolo impiegato che si sacrifica per gli altri, ricavandone solo dolore e delusione. Nel ’92-93 uscì Arabella, la storia
della nipote di Demetrio Pianelli, segnata allo stesso destino di sacrificio e rinuncia. Nel ’97 compare ancora Giacomo l’idealista, che presenta un mondo completamente stravolto dalla logica dell’interesse. De Marchi muore a Milano nel 1901. I personaggi della narrativa di De Marchi sono piccolo borghesi che conducono una vita stentata, tra sacrifici e lotte silenziose, tra dolori e difficoltà sopportati pazientemente e con decoroso pudore. Gli ambienti sono le case e le vie di una Milano popolare e modesta, che ha ancora legami colla campagna, e che sta per essere spazzata via dalle trasformazioni della modernità. A rappresentare queste figure e questi ambienti De Marchi non è mosso dagli intenti scientifici, documentari e sociali del Naturalismo, ma da una pietà di tipo cristiano per quelle esistenze grame, per i drammi oscuri della gente comune. Questa visione cristiana approda però ad un pessimismo sconfortato: la vita grigia di questi antieroi non è illuminata da alcuna speranza, anzi è oppressa da una stanchezza rassegnata, che approda a tentazioni di morte e totale annientamento.
MB Demetrio Pianelli L'impiegato Cesarino Pianelli, detto Lord Cosmetico, conduce un tenore di vita superiore alle sue possi-
bilità, per far brillare in società la bellissima moglie, Beatrice. Per pagare un debito, sottrae una somma dal suo ufficio. Mentre cerca inutilmente chi possa aiutarlo a restituirlo, è scoperto, e si uccide per il disonore. À provvedere a Beatrice e ai due figli pensa il fratello di Cesarino, Demetrio. Questi è un modesto
impiegato statale, campagnolo inurbato, timido e introverso, ma di animo sensibile e generoso, che vive un'esistenza grigia e povera, tra il lavoro impiegatizio e la sua squallida camera di scapolo. A poco a poco, senza ben rendersene conto, si innamora della cognata, ma non osa rivelarle il suo sentimento segreto. Bea-
trice non se ne avvede, e accetta di sposare il facoltoso cugino Paolino. Demetrio ha uno scontro con il suo
superiore che tenta di sedurre Beatrice e viene trasferito. Affiora in questa conclusione il pessimismo di
De Marchi. Demetrio si è sacrificato per il bene degli altri, ma il suo oscuro eroismo ha ottenuto in cambio solo disinganni e dolori: il suo amore resta ignorato da Beatrice, ed il gesto generoso di difenderla ha come unico risultato di sradicarlo dalla sua casa e dalle relazioni con le persone care. Riportiamo appunto la scena della partenza di Demetrio, che praticamente conclude il romanzo. Segue solo un breve epilogo, che descrive le nuove nozze di Beatrice. Scrittori italiani dell’età del Verismo
1021 L'anti-eroe piccolo borghese: grigiore esistenziale e desiderio di annientamento Dalla parte V, cap. III
Quel dì Demetrio ebbe molto da fare. Aggiustò i conti col padrone di casa, al quale lasciò il letto e il cassettone in pagamento: a Giovan dell’Orghen regalò le gabbie e qualche vecchio paio di scarpe: il resto diede a un stracciaiolo. Per sé riempì una cassetta e una valigia. La giornata passò come un
sogno in queste molteplici occupazioni e venne l’ora del pranzo, che non aveva ancora inghiottita una goccia d’acqua. Mandò Giovan dell’Orghen a comperare del pane, del salame cotto e un fiaschetto di vino e sedettero tutti e tre — il terzo era Giovedì - l’uno sulla cassa, l’altro sulla valigia, il cane in terra nel mezzo della stanza spoglia, a celebrare l’ultima cena. La compagnia non guastava la malinconia de’ suoi pen-
sieri, ‘perché il sordo non l’obbligava a parlare e il cane non l’obbligava a stare attento. Si trovava così solo senz’essere isolato. Finito il pranzo, mandò Giovan dell’Orghen a portare una lettera a Beatrice, da consegnare al signor Paolino delle Cascine e rimase una mezz'ora a contemplare, per l’ultima volta, col cuore ammalinconito ma non triste, la stesa dei tetti, già rosseggianti nel sole del tramonto, disseminati in cento strutture intorno all’antico campanile delle Ore, coi fumaioli dalle mille bocche aperte, cogli abbaini, le altane! verdeggianti, che era insomma da molti anni il mondo delle sue solitarie escursioni, quando dalla finestra correva cogli occhi lungo le gronde, dentro i soffitti, tra le buie armature dei tetti... Dunque, addio tegole addio abbaini, addio campanile delle Ore, addio vecchio Duomo di Milano?, che più si guarda più diventa bello, più diventa grande, come se ognuno vi aggiungesse per frangia i suoi pensieri migliori. Addio Milano, città più buona che cattiva, che dà volentieri da mangiare a chi lavora, ma dove, come in ogni altro paese del mondo, chi non sa fingere non sa regnare. Mezz'’ora dopo egli era alla stazione. In un angolo della sala d’aspetto, seduto sulla sua valigia, attende senza impazienza che aprano lo sportello di terza classe della linea di Genova. La stazione va gradatamente rischiarandosi della luce bianca che mandano i rari fanali elettrici, mentre nel cielo dietro, le piante della circonvallazione,
resiste ancora come un braciere ardente l’ultimo raggio del crepuscolo. Non è una partenza allegra, ma non può dire nemmeno di sentirsi turbato e rotto il cuore come supponeva. C’è nelle stesse sofferenze un limite, oltre il quale non si sente o non si capisce più nulla, ma sottentra quasi l’abitudine al dolore, da cui si va, a seconda dei casi, o verso l’indifferenza o verso
la rassegnazione. Demetrio, ascoltando il suo cuore, si sentiva più vicino a questa che a quella. Qualche cosa di dolce era stillato nella sua vita, e scendeva, sottilissimo filo di consolazione, in mezzo alle vecchie amarezze della sua grama esistenza. Se si sforzava di rintracciare da qual vena misteriosa scaturisse in lui questa goccia soavissima e fresca di ristoro, gli pareva di ricordarsi d'averla sentita
fluire dalla fronte quel momento che Beatrice, tornando verso Quell’atto di pietà, quella mano leggiera ferma un mezzo guarito molti mali. Beatrice certo non immaginava il bene e della carità che provoca i miracoli, che dice al paralitico:
di lui, aveva collocato la mano sul suo capo. minuto sul capo di un uomo malato aveva che gli aveva fatto. E la forza della pietà prendi il tuo letticciuolo e cammina: e al
povero Lazzaro: sorgi dalla tua fossa. Ebbene, vecchio e tribolato Demetrio Pianelli dalle scarpe rotte
(notò che veramente le sue scarpe non erano in molto buon arnese), tu non sei forse l’ultimo degli scribaccini del regno d’Italia. Sua eccellenza* non lo saprà mai e non ti farà cavaliere per questo, ma
tu hai fatto piangere sulla tua disgrazia gli occhi di una bella creatura; hai saputo far vibrare il suo
cuore e schiudere quanto di più tenero e di più delicato Vera in lei. O Demetrio o Matteo o Carlambrogio, chi sa che tu non sia passato inutilmente nella vita di questa donna?
direttore (Demetrio a loggia sui tetti dei | un’evidente ripresa del celebre «Addio | 3. Sua eccellenza: il 1. altane: costruzioni statale). impiegato è cap. sposi, (Promessi manzoniano monti» fabbricati. VIII). 2. addio tegole ... addio ... Milano: è
De Marchi
1022
Eran questi all'ingrosso i concetti fondamentali di quella convinzione, che lo rendeva docile e rassegnato al suo destino: e vi si sprofondò tanto col capo, che non vide Arabella‘, se non quando la ragazzetta gli pose la mano sulla spalla. Dietro di lei, strascinando un paio di scarpe non sue, Giovan dell’Orghen si fermò a far riverenze al sor Demetrio che andava a vedere il mare. Il più felice degli uomini aveva indosso, non ancora ben distesi dal sole, gli abiti del povero Cesarino. - Come hai saputo che partivo stasera? - La mamma, quando son tornata dagli esami, mi ha detto: «Sai? lo zio Demetrio va via». «Dove va?» chiesi naturalmente. «È stato traslocato in un altro ufficio dal governo». «E non mi ha detto niente? - non ti credo. A me lo avrebbe detto, in un orecchio, ma l'avrebbe detto». Se la mamma avesse voluto accompagnarmi, venivo subito a trovarla, e non lo avrei lasciato partire. Mi son fatta accompagnare sul tardi dal Berretta. Non c’era già più in casa. Allora ho pregato Giovan dell’Orghen di accompagnarmi alla stazione. É proprio vero? Lei va via, così senza dir nulla?... Arabella, un poco affannata per la corsa fatta, parlava con un’eccitazione più di dispetto che di rammarico. - Che ti può fare adesso lo zio Demetrio? lascialo andar via - egli disse sorridendo. - Lo so, lo so bene... basta!
Arabella alzò gli occhi al quadrante dell’orologio e ve li tenne fissi come se facesse dei conti sulle ore. Vestita dell’abitino nero che aveva indossato agli esami, con scarpe a bottoni lucidi che le serravano delicatamente il collo del piede, con in testa un tocco d’astrakan da cui si svolgevano a onde i capelli neri, la bianchezza della sua carnagione spiccava in mezzo a tutto quel nero; gli occhi profondi e intelligenti guardavano molto lontano al di là delle cose, come fanno tutti gli occhi che pensano. - Lo so bene - ripeté, seguitando l’idea che le passava davanti. - Non avrei creduto che dovesse finire così. Povero papà! - La mamma lo fa per il vostro bene - fu presto a dire Demetrio, che nella voce quasi severa della fanciulla credette d’intendere un’altra voce che si corrucciasse in lei. Non mai Arabella gli era parsa così somigliante al povero Cesarino come quella sera che la rivedeva nell’abito elegante e nella luce bianca dei fanali. Il suo profilo suscitò la memoria del giovinetto collegiale’ che un altro Demetrio bifolco incontrava ai tempi della mamma Angiolina, quando i piedi in due zoccoli di legno e una forcona in ispalla usciva dalla stalla dei buoi. Giovan dell’Orghen intanto, vestito degli abiti di un disertore’, andava ramingando davanti a tutti gli sportelli, guardando in terra, se mai la Provvidenza avesse lasciato cadere un mozzicone di sigaro. Demetrio stava accostando nei suoi rapidi confronti il passato al presente, i vivi ai morti, quando s’intese l’ululato di Giovedì, che i guardiani chiudevano nello scompartimento riservato ai cani che viaggiano. - Povero Giovedì... non voleva distaccarsi dal suo padrone. Arabella, che aveva sognato nella notte il verso del cane, ebbe un brivido in tutta la persona. Tratta dalla successione delle idee, soggiunse: — Stamattina la mamma mi ha dimandato se io sapevo com’era morto il mio povero papà. Essa non sa ancora tutta la verità... | — Risparmiatele questo dolore... E in quanto a me, Arabella, abbia pazienza. Vedrai che ti troverai bene alle Cascine. Paolino è buono e sarà per voi un secondo padre. Ci sono delle necessità, figliuola mia, ci sono delle necessità, credi a me, innanzi alle quali è religione chinare la testa. | — Lo so, povero zio! - esclamò con pieno abbandono la ragazza, girando il braccio sul collo di Demetrio, che sedeva più basso. Colla maniera con cui circondò il collo e con cui gli prese la mano, gli fece
capire ch’essa non aveva bisogno d’altri commenti, e che sapeva tutto. Le anime semplici sono anche le più trasparenti. Essa tornò a sollevare gli occhi lucenti al quadrante dell’orologio, mentre Demetrio
abbassava i suoi sulle rughe delle sue vecchie scarpe. Stettero così forse un minuto, senza parlare,
durante il quale risonarono ancora le lamentele di Giovedì chiuso in gabbia. S’intesero così senza par-
lare, stringendosi tratto tratto la mano con un battito di tenerezza. Arabella dopo un po’ di tempo nel consegnare allo zio una busta che pareva una lettera, riprese a dire: - La mamma la prega d’accettarlo per sua memoria. È il suo ritratto. 4. Arabella: la nipote, figlia del fratello e | rino, che i genitori contadini avevano fatto di Beatrice. studiare, a differenza di Demetrio. 6. abiti ... disertore: Cesarino è definito 5. giovinetto collegiale: il fratello Cesa-
Scrittori italiani dell’età del Verismo
«disertore» perché si è suicidato, cioè è fuggito dinanzi alle difficoltà della vita.
1023 - Ringraziala - balbettò lo zio, senza alzare gli occhi.
Arabella disse di sì con un colpo delle palpebre. Durante il tempo che lo zio Demetrio stette allo sportello a comperare il biglietto, essa sedette sulla valigia, abbandonando le mani sulle ginocchia, assorta in una grande quantità di cose, che non avevano ordine, ma che la trascinavano colla forza d'una corrente, di cui sentiva nella testa il frastuono.
La stazione era andata man mano popolandosi di gente che si raggirava frettolosa nella luce scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo rotolio delle carriole che menavano i bauli e alle voci sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiare dei ferri, il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccio di tante persone mosse e sospinte anch’esse da pensieri, da voglie, da inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò non bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo presto la storia della sua giovinezza”. Guai se gli occhi avessero la vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio, che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano le fece capire ch’era giunta l’ora d’andarsene. Giovan dell’Orghen prese la valigia e si avviò verso la sala d’ingresso. Arabella si attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla soglia. Era pallidissima, ma non piangeva per non conturbare con lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi col corpo in preda a piccole scosse, colle righe del volto tese a uno sforzo supremo, disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un discorso che non volle uscire e lì sulla soglia, sotto gli occhi del controllore, baciò sulla fronte Arabella, mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma
con lui. E si divisero senza
piangere. Demetrio quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d'un ‘torbido lampadino giallognolo, poté abbandonarsi interamente, con minor suggezione di se stesso, alla piena dei vari pensieri che in quell’epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l’anima. Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l’aria colle labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi respiri del crepuscolo.
Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora una volta alla vista del viaggiatore in tutta l'ampiezza del corso co’ suoi bianchi edifici — e già splendevano di lumi case e botteghe - la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuose dei pensieri. Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov'era nato, dov'era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e più in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al da ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava bene il per venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch'essa aveva lavorato
ascoltare. Un de’ suoi. «Ciao, mammma...» disse una voce che un Demetrio irritato e sordo non volle la stupenza abbazia tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all’orlo del quale appare nella sua nera e solenne di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall'acqua livida, e venir addosso sull aria oscura; € più costruzione, colla stupenda macchina del campanile* impressa come un’ombra la reggia del signor Paolino?. in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine,
che meno si pensava alle A quella chiesa quante volte aveva accompagnata la sua mamma nei tempi | x Ii miserie del mondo! patetie lunghe figure certe con santi, e tiepidi così angoli C'erano in quell’antico convento degli davano sul verde luminoso che su per i muri: c’erano dei corridoi così lunghi con cento cellette che un tal senso di riposo, che solo delle praterie: c’era insomma in quella vecchia badia del medio evo 3 SEI, ; j } tazione in giovinezza: la descri- | tato da Carducci nell ode Alla s e ... : T187). (cfr. d'autunno mattina una | presenta Lie aa ile: costruzione ; i ... campanile 8. macchina i e rappresenalcune analogiej con l’ambient
CU HA 9. signor Paolino: il cugino ricco che sposerà Beatrice.
struttura. I
De Marchi
1024
È
a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent’anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra.
In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sì un’altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell’angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una voce, ancora
in fondo al cuore, sussurròin tono quasi di canzonatura: «t o to... finito».
ANALISI DEL TESTO Il commiato di Demetrio dalla sua casa è raffigurato con minuto realismo, che indugia su gesti quotidiani e piccole occupazioni abituali. Ma sui particolari prosaici e apparentemente insignificanti pesa la tristezza di una sconfitta senza speranza, che tiene dietro ad un destino che nulla può riscattare. Lo scrittore, dinanzi al momento drammatico, tende a smorzare i toni, gioca sul non detto, vuol far parlare da sole le piccole cose. Lo stato d'animo di tristezza, non disperata ma pacata, si proietta nel paesaggio urbano: i tetti milanesi, familiari alle giornate solitarie del protagonista, lo squallore anonimo della stazione. Anche la scena del commiato dalla nipote mira ad evitare il patetismo melodrammatico ed è tutta tenuta su toni dimessi e smorzati, giocata sui sottintesi e le sfumature. Infine la corsa in treno attraverso la campagna, verso i luoghi familiari della giovinezza, equivale ad un ritorno indietro nel tempo, ad un viaggio compiuto nella memoria. Il paragone tra il passato e il presente fa sentire tutta l’inutilità dell’esistenza e il peso della sconfitta. Allora la stanchezza rassegnata dell’umiliato si trasforma in desiderio di annientamento totale. Tutti questi motivi, il grigiore senza scampo dell’esistenza, la sconfitta, la volontà di annullamento, allontanano già De Marchi dal clima del naturalismo, e lo avvicinano alle atmosfere più inquiete della narrativa della crisi di fine Ottocento, popolata di eroi stanchi e sconfitti. Ciò si rivela anche nell’impianto narrativo dell’episodio. Queste pagine dimostrano come De Marchi punti soprattutto sull’analisi interiore, più che sulle analisi d’ambiente del naturalismo: i romanzi di De Marchi sono vicini alle soluzioni del romanzo psicologico, ne costituiscono la dimessa variante piccolo borghese. La conferma viene dalla tecnica narrativa = | impiegata dallo scrittore. Quasi tutto l’episodio che esaminiamo è focalizzato sul personaggio: gli eventi e gli oggetti del mondo esterno sono visti prevalentemente dalla sua prospettiva. Ad esempio il paesaggio finale della campagna sembra a tutta prima presentato oggettivamente dal narratore; ma ben presto appare chiaro che esso è filtrato attraverso gli occhi e lo stato d’animo di Demetrio, e la descrizione si trasforma in monologo interiore. Il narratore non è distaccato e impersonale: la sua prospettiva si sovrappone a quella del personaggio e si confonde con essa, in una solidarietà discreta; sicché è spesso difficile (e inutile) distinguere se sia il narratore o il personaggio il soggetto di certe riflessioni. Così è per l’addio a Milano, che riduce in tono minore, dimessamente colloquiale, l’« Addio monti» manzoniano: il rimando “colto” è la prova dell'intervento del narratore, però non c’è dubbio che lo stato d’animo è quello del protagonista; così è per il soliloquio in cui Demetrio trova consolazione al pensiero di aver suscitato la pietà della bellissima cognata.
Le piccole cose quotidiane
Il desiderio di annientamento
L’analisi
interiore
La focalizzazione sul personaggio
T219 PROPOSTE DI LAVORO 1. Individuare i punti in cui è il narratore che conduce il racconto.
2. Individuare i punti in cui è il personaggio a “vedere” e a “pensare”.
3. Qual è l'atteggiamento di Demetrio Pianelli verso l’epilogo della sua vicenda? Può essere definito unì “vinto” o un “vincitore”?
4. Quali sono gli oggetti citati che creano l'atmosfera di tristezza?
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1025 2. La poesia “realista” A380. Olindo Guerrini Postuma
Polemica e Nova polemica
Nato a Forlì nel 1845, morì a Bologna nel 1916. Nel 1877 pubblicò la raccolta di poesie Postuma, fingendo che si trattasse dei versi di un cugino morto ventenne di tisi, Lorenzo Stecchetti. Il volume suscitò enorme scandalo, per i temi erotici allora ritenuti audaci e per gli atteggiamenti dissacratori e blasfemi. Nelle raccolte successive, Polemica e Nova polemica, del 1878, Rime di Argia Sbolenfi (1897) ricom. pare la denuncia violenta dell’ipocrisia e del conformismo morale, religioso e sociale. L’opera di Guerrini ebbe vasta risonanza ai suoi tempi anche per gli atteggiamenti anticlericali e socialisteggianti, che trovavano eco in certi ambienti intellettuali italiani; per la polemica contro i residui romantici e idealistici fu affiancata a quella di Carducci (Postuma è del 1877 come le Odi barbare) e vista come esempio della tendenza dell’arte contemporanea al “realismo” (che era inteso come rifiuto di un’idealizzazione della realtà e come rappresentazione dei suoi aspetti più bassi e sgradevoli).
da Postuma
Il canto dell’odio
Quando tu dormirai dimenticata . Sotto la terra grassa E la croce di Dio sarà piantata Ritta sulla tua cassa, Quando ti coleran marcie le gote
Entro i denti malfermi
E nelle occhiaie tue fetenti e vuote Brulicheranno i vermi, ‘Per te quel sonno che per altri è pace Sarà strazio novello E un rimorso verrà freddo, tenace, A morderti il cervello. Un rimorso acutissimo ed atroce Verrà nella tua fossa
: A dispetto di Dio, della sua croce, A rosicchiarti l’ossa.
Io sarò quel rimorso. Io te cercando Entro la notte cupa, Lamia che fugge il dì!, verrò latrando Come latra una lupa: 1. Lamia ... dì: essere mostruoso che si aggira di notte, vampiro. 2. Per te fatta letame: decomponendosi il corpo della donna defunta è divenuto concime (letame).
Io con quest’ugne scaverò la terra
Per te fatta letame?
E il turpe legno schioderòd che serra
La tua carogna infame. Guerrini
1026
À Oh, come nel tuo core ancora vermiglio i - Sazierò l'odio antico, Oh, con che gioia affonderò l’artiglio Nel tuo ventre impudico! Sul tuo putrido ventre accoccolato Io poserò in eterno, Spettro della vendetta e del peccato,
Spavento dell’inferno: Ed all’orecchio tuo che fu sì bello
Susurrerò implacato Detti che bruceranno il tuo cervello
Come un ferro infocato. Quanto tu mi dirai: - Perché mi mordi E di velen m’imbevi?* Io ti risponderò: - Non ti ricordi Che bei capelli avevi?
Non ti ricordi dei capelli biondi Che ti coprian le spalle E degli occhi nerissimi, profondi, Pieni di fiamme gialle?... E delle audacie del tuo busto e della
Opulenza dell’anca? Non ti ricordi più com’eri bella, Provocatrice e bianca?
Ma non sei dunque tu che nudo il petto Agli occhi altrui porgesti E, spumante Licisca‘, entro al tuo letto Passar la via facesti?* Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati Spalancasti le braccia, Che discendesti a baci innominati E a me ridesti in faccia? Ed io t'amavo ed io ti son caduto Pregando innanzi e, vedi,
Quando tu mi guardavi, avrei voluto Morir sotto a’ tuoi piedi.
3. m’imbevi: mi sommergi. 4. Licisca: meretrice vissuta sotto l’imperatore Claudio, menzionata dal poeta satirico Giovenale. Spumante sottolinea la vivacità spumeggiante della donna. 5. entro ... facesti: «facesti entrare nel tuo letto tutti quelli che passavano per la via». 6. lenoni: il lenone nell’antica Roma era il mercante di schiave; per estensione si intende chi, a scopo di lucro, favorisce la prostituzione. 7.rea carogna: i resti di una donna erudele e malvagia.
Perché negare, a me che pur t’amavo, Uno sguardo gentile, Quando per te mi sarei fatto schiavo, Mi sarei fatto vile? Perché m'hai detto no quando carponi Misericordia chiesi, E sulla strada intanto i tuoi lenoni*
Aspettavan gl’Inglesi? Hai riso? Senti! Dal sepolero cavo Questa tua rea carogna”, Nuda la carne tua che tanto amavo,
Scrittori italiani dell’età del Verismo
L’inchiodo sulla gogna,
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{ E son la gogna i versi ov’io ti danno Al vituperio eterno, A pene che rimpianger ti faranno Le pene dell’inferno. Qui rimorir ti faccio, o maledetta, Piano, a colpi di spillo, E la vergogna tua, la mia vendetta Tra gli occhi ti sigillo. —
ANALISI DEL TESTO Estranietà di Guerrini al Verismo
Un orizzonte culturale tardo romantico
Non esiste una poesia
“verista”
Se l’opera di Guerrini fu considerata ai suoi tempi un esempio di poesia “verista” e suscitò per questo reazioni violente e infinite polemiche, oggi la prospettiva storica ci fa vedere come manifestazioni letterarie del genere non abbiano assolutamente nulla in comune con la narrativa di Verga, Capuana, De Roberto, né coni suoi temi né con le sue serie sperimentazioni formali (per chi vive i fatti letterari a distanza ravvicinata, sono facili clamorosi abbagli di quel tipo). Come testimonia questo testo, con il suo compiacimento per il macabro e il disgustoso, che precipita nel ridicolo, la poesia di Guerrini può semmai essere ascritta ad un clima “scapigliato” di infimo rango, chiassosamente provocatorio. Il suo orizzonte culturale è tardo romantico: a provarlo è la matrice di un componimento come questo, che va ritrovata in una poesia di Baudelaire, Rimorso postumo («Quando tu dormirai, mia bella tenebrosa / al fondo di un monumento costruito in marmo nero, / e quando non avrai per alcova e maniero / che un sotterraneo piovoso e che una fossa profonda; / quando la pietra, opprimendo il tuo petto pieno di paura / e i tuoi fianchi resi flessuosi da un'affascinante noncuranza / impedirà al tuo cuore di battere e di volere / e ai tuoi piedi di correre la loro corsa avventurosa / la tomba, confidente del mio sogno infinito / (perché la tomba sempre comprenderà il poeta), / durante le lunghe notti da cui il sonno è bandito, / ti dirà: A che cosa ti serve, cortigiana imperfetta, / non aver conosciuto ciò che piangono i morti? / e il verme roderà la tua pelle come un rimorso»). Da questa poesia baudelairiana aveva tratto spunto anche un poeta scapigliato, Emilio Praga, in un componimento di Penombre (1864), Vendetta postuma. Si può notare anche il mito, caro al clima tardo romantico e scapigliato, della donna fatale e perversa, che si fa gioco dell’uomo e lo distrugge. Una poesia “verista” in Italia non ci fu: strumento espressivo del Verismo furono esclusivamente il romanzo, la novella e, in subordine, il teatro. Come espressione delle generi-
che tendenze al “realismo”, proprie dell’epoca, si ebbero in poesia solo manifestazioni tru-
culente come quelle di Stecchetti, o rappresentazioni del grigiore quotidiano e piccolo borghese come nei versi di Vittorio Betteloni e altri. + Cfr. La critica, C61
A81. Vittorio Betteloni ra Nato a Verona nel 1840, visse sempre nella città natale, insegnando letteratu re Canzonie versi, di raccolte alcune italiana. Morì nel 1910. Fu noto soprattutto per (1869), Nuovi dei vent’anni (1861-1862), L’ombra dello sposo (1866), In primavera un dimesso verso periodo, del propria , tendenza la esprime versi (1880). La sua poesia poesia della sublime dizione la rifiuta che e, quotidian cose piccole realismo, attento alle tradizionale (impersonata ancora da Carducci). Betteloni
1028
.
dal Canzoniere dei vent'anni
Poi ti tenevo dietro piano piano Avvenne allor che quando sulla sera Tornavi a casa, io t'attendevo in ponte; Leggiadre parolette avevo pronte;
Pur com’uom che assai teme e poco spera, Zitto mi stavo in atto di preghiera, E tu passavi con sommessa fronte. Ma non senza pertanto aver rivolto A me prima uno sguardo fuggitivo, Conscia della cagion perché venivo; 10
Io dello sguardo, benché picciol molto, Che, agli occhi tuoi caduto, avea raccolto, Fino alla nova sera il cor nutrivo?.
... Poi ti tenevo dietro piano piano, 15
Com'è costume dei novelli amanti, Pur di scorgerti solo da lontano, Senza parere all’occhio dei passanti: E tu con atto cauto e sospettoso,
20
Per non mostrar che a me ponessi mente, Volgevi a mezzo il capo tuo vezzoso, Ad or ad or non molto di sovente;
Ma non molto di rado tuttavia Temendo pur che addietro io fossi troppo, O non pigliassi a caso un’altra via, O in qualche amico non facessi intoppo?. 25
1. sommessa fronte: col capo chino. 2. nova ... nutrivo: «alimentavo col ricordo di quello sguardo il mio cuore fino alla sera seguente».
3. O in qualche ... intoppo: «(temendo che) l’incontro di un amico potesse trattenermi dal seguirti».
Quindi arrivata, ancor sul limitare
Il piede soffermavi un breve istante; Là t’arrestavi a rapida guardare S'io pur non ero tuttavia distante; 30
Scrittori italiani dell’età del Verismo
Poscia, fatte le scale in un momento, Al terrazzo accorrendo t’affacciavi; Io ti venivo innanzi lento lento, Tu col sorriso allor mi salutavi.
il |
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Id È
ANALISI DEL TESTO La realtà quotidiana
Il linguaggio prosastico
Risalta da questo esempio l’attenzione alla dimessa realtà quotidiana, colta nei suoi particolari più banali (anche se la rappresentazione è ancora intrisa, romanticamente, di senti-
mentalismo dolciastro: non a caso Betteloni subì l’influenza del conterraneo Aleardo Aleardi). L'aspetto più significativo è il linguaggio, che, in netta opposizione con le tendenze auliche da sempre dominanti nella poesia italiana (non abbandonate interamente neppure dai romantici, pur nella loro ricerca del “popolare”), punta volutamente a confondersi con la prosa, impiegando termini comuni, “impoetici”, e cadenze del parlare quotidiano.
0-221 PROPOSTE DI LAVORO 1. Del testo di Guerrini catalogare tutte le espressioni macabre e disgustose. 2. Procedere ad un confronto con il testo di Baudelaire presentato nell'analisi del testo.
3. Del testo di Betteloni catalogare tutti i termini del lessico quotidiano.
3. Il dramma borghese A82. Giuseppe Giacosa
Avvicinamento al Verismo
Il teatro borghese
Nato presso Ivrea nel 1847 e morto a Milano nel 1906, fu attivo soprattutto come scrittore di teatro, passando con molta versatilità attraverso molti generi drammatici. Il suo primo successo fu il dramma storico in versi, di gusto sentimentale tardo romantico, Una partita a scacchi (1873). Si avvicinò poi al verismo, dedicandosi con Novelle e paesi valdostani (1886) all'analisi della realtà regionale. Da questa svolta nascono anche i drammi più significativi: Tristi amori (1887), I diritti dell’anima (1894), in cui si accosta alla tematica ibseniana, Come le foglie (1900), che rappresenta la decadenza di una famiglia borghese un tempo ricca, ed è avvolta da un’atmosfera di tetraggine, giocando sui silenzi, le allusioni e le sfumature, tanto che si è parlato di atmosfere “cechoviane”. E uno dei rappresentanti più tipici del cosiddetto “teatro borghese”, quel teatro di impianto realistico che nel secondo Ottocento mette in scena la quotidianità della vita borghese contemporanea, con i suoi problemi economici e familiari ed i suoi conflitti; ma al tempo stesso Giacosa è interprete e diffusore dei valori borghesi fondamentali, la famiglia, la rispettabilità, il lavoro. Fu anche autore di libretti d'opera per Giacomo Puccini (La Bohème, 1896, Tosca, 1899, Madame Butterfly, 1904).
BH Tristi amori
La vicenda si svolge in provincia. Emma, la moglie dell'avvocato Giulio Scarli, ha come amante un collaboratore del marito, Fabrizio Arcieri. Giulio è generoso con Fabrizio, e vuole venirgli in aiuto offrendosi
di pagare per lui una cospicua cambiale, ma Fabrizio rifiuta. Giulio scopre la relazione tra lui e la propria
moglie. Fabrizio si prepara alla fuga con Emma, ma questa, al momento decisivo, non sa staccarsi dalla figlia e decide di restare con il marito nonostante tutto. Giacosa
ni venne
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3
|
AI centro del dramma vi è il classico triangolo marito, moglie, amante, che è il motivo centrale del teatro borghese del secondo Ottocento. Il testo segna però una svolta importante nella drammaturgia del tempo, poiché rompe con le strutture e i personaggi del passato e punta decisamente sulla prosaicità, sul grigiore della vita quotidiana. Questa insistenza sulla prosa quotidiana (famosa è rimasta la scena in cui Emma fa i conti della spesa con la domestica) spiacque al pubblico al debutto del dramma. Ma la critica lo salutò come una pietra miliare, come il testo più moderno e originale del teatro italiano.
ZIO La trasgressione dell’adulterio i. T222 ; _‘0‘»’»@ ilrientro nella norma Sono le scene finali del dramma (Atto III, scena VI, VII, VIID.
SCENA VI Emma e Fabrizio
EMMA (apre l’uscio dello studio). FABRIZIO (entra). EMMA Lo sapevo. FABRIZIO Ero nascosto sulla scala. L'ho veduto uscire e sono entrato. Tu parti con me. Ho pensato a tutto. Vedrai... ora sei agitata, ma... EMMA No... non parliamo... non parliamo. Dopo... più tardi... qualche cosa sarà... ma non parliamo adesso. Come si fa? FABRIZIO C'è la carrozza, fuori, al ponte. Tu esci dal giardino... si può uscire dal giardino? EMMA Sì. FABRIZIO Subito, allora. EMMA Subito, subito. Dove andremo? FABRIZIO Dove vorrai. EMMA Non importa. Via di qui. Avremo tempo a pensare...tutta la vita, avremo tempo. Dovunque si vada è irreparabile, non è vero? E allora... FABRIZIO Vatti ad apparecchiare!. EMMA Sì: tu aspetti qui? FABRIZIO Io faccio il giro e ti aspetto fuori dell’usciolo del giardino. Là non c’è mai nessuno. EMMA No, aspettami qui... non avrei coraggio e bisogna averlo. Che sarebbe di me in questa casa? Non ci posso stare. Dunque!... Hai visto? Ha portato via la bambina. FABRIZIO Sì. EMMA Sai perché? Ci ha indovinati?. FABRIZIO No. EMMA Ci ha indovinati. FABRIZIO Ma no... come vuoi...? EMMA Oh, lasciamelo credere... aiutami a crederlo... non èmeglio? E poi ne sono sicura, queste cose
si sentono. Perché sarebbe uscito ora, colla bambina? E così naturale! Non è più il mio posto, questo! Con che diritto, io...? Guai se non l’avesse indovinato! Pensa... se rientrando credesse di trovarmi... se cercasse per la casa... Oh! oh! oh! no... no... lo sa... È tutta sua la casa, ora, tutta, tutta,
tutta sua! Noi saremo già lontani... Tornerà, accenderà la lampada... si prenderà la bimba in braccio... le farà tante carezze... la parte mia! FABRIZIO
Vieni! vieni, vieni!
1. Vatti ... apparecchiare: vai a prepararti. 2. Ci ha indovinati: ci ha scoperti.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
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EMMA Sì, vado; guarda... c'è ancora un barlume di giorno. È meglio aspettare che oscurisca del tutto. E più prudente!... Povero Fabrizio! Che catena, per te! che impedimento nella tua vita! FABRIZIO Oh sei crudele, Emma!
EMMA Me lo dirai eh! il giorno che ti sarò di peso! FABRIZIO Vedi come sei! Se non ti strappi subito, tu rimani, Emma. Io son sicuro che tu rimani. EMMA Non vengo mica per te. FABRIZIO Non mi ami più?! EMMA Ci vengo perché mi sento indegna di questa casa. FABRIZIO Sono stato io! EMMA Anche tu!... Ti voleva tanto bene!
FABRIZIO
Non mi ami più.
:
EMMA Ti amo, ma ti perderò venendo con te. FABRIZIO Non importa... vieni... non andar più di là... vieni come sei... EMMA Sì sì, come sono... aspetta... qui c’è uno scialle... (Sulla sedia presso la tavola da lavoro ci sarà uno scialle modestissimo, grigio. Emma lo prende). Così... (Indica lo studio) Usciamo di là, eh? (Si appoggia alla tavola di mezzo per reggersi e vede la bambola, la mostra a Fabrizio) Fabrizio! guarda!
FABRIZIO Che? EMMA Guarda. Lei sì che crede di trovarmi tornando. Domanderà tanto di me! colla sua piccola voce cara. Tanto, domanderà! Che potranno rispondere? FABRIZIO Dio! Dio! Dio! EMMA Lei non sa nulla. Si avvezzerà certo a fare senza di me. Sì che l’amerà suo padre! E lei... che adorazione! FABRIZIO (scorato) Resta... resta, va!... povera donna! resta! EMMA E quando sarà grande... FABRIZIO Addio! EMMA (lasciandosi cadere sulla sedia) Addio! FABRIZIO Lo sapevo, sai, venendo. EMMA Sì, anch'io. Volevo... ma sentivo che non avrei potuto... Dove vai?
FABRIZIO Non so. EMMA Parti subito? FABRIZIO Sì. EMMA Che sarà di te? FABRIZIO Lavorerò. EMMA Mi scorderai? (Con sorriso triste). FABRIZIO Non lo spero. EMMA Tuo padre resta? i i FABRIZIO Sì. Io non l’ho più veduto. Ho pagato un suo grosso debito e gli ho lasciato... EMMA Penserò a lui. FABRIZIO Grazie! EMMA
Non diciamoci nulla, eh!
FABRIZIO No... ci lasciamo per sempre. EMMA Pregherò tanto per te! FABRIZIO Addio, Emma! EMMA Addio, Fabrizio! (Fabrizio via per lo studio).
SCENA VII Emma sola.
la porta per cui è uscito Fabrizio. EMMA Così, così (Sî passa la mano sulla fronte, guarda piangendo si dispone ad apparecchiar la Singhiozzando prende la bambola, la bacia, la depone sul sofà, por col viso nelle mani. In questo, tavola: d’un tratto scoppia in un pianto dirotto e si getta sul sofà
suono del campanello).
Giacosa
1032 SCENA ULTIMA Detta, Gemma, indi Giulio.
SR GEMMA Ah ci sei! (Corre dalla mamma). braccio). in (Prendendola trovarmi!... non di EMMA Oh Gemma, Gemma! Sì, ci sono! Credevi i GIULIO (entra ed osserva).
EMMA (seguitando) Ti avevano detto che non mi avresti più trovata? N 0, bimba mia, no; non sono andata via, no, cara, non sono andata. Sono qui. La tua mamma sta qui sempre, sempre, sempre con te. Cara la mia bimba! Con te! Ha il viso freddo freddo, poverina! Qui, che te lo scaldi! Qui!
fa freddo eh, fuori! Gemma! Gemma! (Si accorge di Giulio, depone la bambina e scatta in piedi) AN! GIULIO Perché deponi la bambina? Gemma, va’ di là un momento, eh?... un momentino! (Gemma va. A Emma). Non sei andata via... Hai fatto bene. C’è la bambina! Capisci che non perdono. C'è la memoria che non si può distruggere. Ho creduto che tu andassi: e non te lo avrei impedito! Ma così potrò far meglio la parte mia, che è di procacciare uno stato* a Gemma. Se un giorno sarà ricca, potrà forse sposare un uomo che non sia costretto a dare tutto il suo tempo al lavoro, e chi sa... che non le riesca più facile essere un’onesta donna. Noi siamo due associati in un’opera utile, e sarà così per tutta la vita. Queste cose non finiscono... si trascinano disperatamente. Ora chiama Gemma, e quando sarò pronto, chiamerai anche me. Io vado nello studio. Il mio posto è là! (Si avvia allo studio. Emma rimane immobile).
FINE
3. uno stato: una condizione economicamente e socialmente adeguata.
ANALISI DEL TESTO L’adulterio è un gran tema romantico: nella letteratura del Romanticismo esprime il culto della passione come valore supremo, che nega e infrange le convenzioni sociali artificiose, quali il matrimonio. L'impostazione “realistica” del dramma di Giacosa è il rovesciamento della mitologia romantica: l’eroina, che pure vive per tutta la vicenda nella dimensione dei sogni romantici (non sarà casuale il nome, Emma, che richiama la Bovary flaubertiana), non sceglie alla fine l’autenticità del sentimento e la libertà, ribellandosi alle convenzioni mortificanti, ma si adegua alla norma: accetta di stare accanto al marito che non ama, accetta lo squallore del ménage domestico, rinunciando ai sogni. E si adegua in nome dei principi sacri del mondo borghese, la famiglia, i doveri verso la figlia. A questi stessi principi si allinea il marito, che a sua volta accetta che la vita coniugale riprenda come prima, pur di garantire il futuro alla prole. Sul piano delle soluzioni drammatiche tutto ciò implica il rifiuto dei forti conflitti, delle scene madri melodrammatiche, dei colpi di scena; Giacosa smorza i toni, puntando sul grigiore, sulla prosaicità del quotidiano, dominata da un senso opprimente di squallore e di tristezza: si noti che questa scena culminante si svolge sullo sfondo dei preparativi per la cena, uno dei rituali più tipici della quotidianità borghese. Non vi è però solo “realismo”, adesione alla “prosa” della realtà contro la “poesia” del romanticismo: Giacosa propone un teatro che sia interprete e portatore presso il pubblico di fondamentali valori borghesi, l’integrità della famiglia, il dovere di assicurare con il lavoro il futuro dei figli. Questo conformismo spicca se si confrontano queste scene con la conclusione di Casa di bambola di Ibsen (1879), in cui una moglie lascia marito e figli per cercare di costruire la propria dignità di persona autonoma (cfr. T234).
Scrittori italiani dell’età del Verismo
L’adulterio
L’accettazione della norma
La prosaicità del quotidiano
I valori borghesi
1033 PROPOSTE
DI LAVORO
1. In ossequio al rispetto di quali valori Emma rinuncia al proprio amore per Fabrizio e resta nella casa del marito? 2. Perché Fabrizio non si stupisce del fatto che Emma non voglia seguirlo? 3. Quale tipo di donna rappresenta Emma? Procedere ad un confronto con Nora di Ibsen. (Si suggerisce a questo proposito l'utilizzo dell’analisi già citata del critico R. Alonge, C62).
+ Cfr. La critica, C62
4. Il teatro dialettale A83. Carlo Bertolazzi Nato presso Cremona nel 1870, morì a Milano nel 1916. Fu giornalista e autore di parecchie commedie, parte in italiano, parte in dialetto milanese, in cui sono offerti quadri di vita popolare. Famoso è soprattutto El nost Milan (18983), diviso in due parti, La povera gent e I sciòri.
E El nost Milan Il dramma ha una struttura singolare. È diviso in quattro atti, che si svolgono in ambienti caratteristici della vita popolare milanese, il Tivoli, un parco dei divertimenti, il Broletto, dove avviene l’estrazione del lotto, le cucine economiche, dove vanno a mangiare i poveracci, un asilo notturno. All’inizio di ogni atto si muove coralmente una folla eterogenea, fatta di povera gente, e si colgono i dialoghi casuali che si intrecciano al suo interno. Solo alla fine dell’atto dalla folla si staccano i protagonisti, e rapidamente si delinea
il dramma. Il filosofo francese Louis Althusser, dedicando alla commedia una recensione entusiasta, in occasione di una rappresentazione parigina del 1962, con la regia di Giorgio Strehler per il «Piccolo teatro» di Milano, sottolinea la coesistenza di un tempo vuoto, in cui non succede nulla (nelle scene corali all’inizio
di ogni atto), e di un tempo pieno, nel finale, in cui si svolge in un lampo l’azione; al tempo stesso di uno spazio vasto, popolato da una moltitudine di persone legate da rapporti accidentali, e di uno spazio ristretto, in cui si muovono tre soli personaggi, serrati in un conflitto mortale. Nina, figlia di Peppon, che vive miseramente facendo il mangiatore di fuoco, cade sotto il dominio di un teppista, Carloeu detto il Togasso, che la maltratta e la sfrutta. Il padre, che è «la miseria onesta fatta persona», come afferma la didascalia di presentazione, uccide il Togasso per salvare l’onore della figlia. Ma questa, stanca della sua vita di stenti, decide di prostituirsi ai signori.
Bertolazzi
1034 Melodramma
e realismo
Riportiamo la scena finale, in cui Nina rivela al padre le sue intenzioni (atto IV, scena V).
SCENA V Nina dalla destra, detti e voci interne. El Peppon è pallido e convulso. I capelli e la barba scomposti. Evidentemente è in preda a forte agitazione.
NINA (entra, vede il padre, colpita) El papà! PEPPON (con voce tremante) Sì, sont mi, gh’hoo bisogn de ditt ona parola... [e] 1 NINA (osservando il padre, spaventata) S'è success? PEPPON (pausa; piglia la figlia pel braccio, sì guarda attorno con sospetto, poi emozionato; pianissimo) L’hoo coppaa! NINA (con voce strozzata) Chi? PEPPON (cupo) El Carloeul!... NINA (con un grido soffocato) Cos'è?! PEPPON (spezzando per l’emozione la frase) Sigura de sì. Me s’è quattaa la vista! el rideva stoo moster, el m’è vegnuu denanz col sò fà, a fam ballà i tò danee propri sul ms, a dimm ch’el te dava, e mì gh’hoo vist pu; spavente minga! (Nina terrorizzata si copre la faccia con le mani) Oramai quel che l’è, l’è! sarà quel che sarà! L’è tre or che corri come on disperaa, senza savè in dove, senza capì pù nient! Vorevi consegnam subit, e poeu me sont ricordaa de ti, e hoo voruu vegnì a saludat per l’ultima volta! (Pausa. Nina non ha il coraggio di alzare gli occhi. Spaventato dal silenzio della figlia) Nina, te me guardet nanca in faccia? te foo paura? NINA (a mezza voce, crollando la testa) No... PEPPON (straziante, sempre a bassa voce) L’hoo faa per ti; te see che te vuj ben compagn d’on matt! NINA (nervosamente come nauseata e vinta da tante disgrazie, quasi imprecando, con ira sorda) Destin baloss! | PEPPON Nina, ma te me diset nient? (Scuotendola; agitato) Guardom in di oeucc, te gh'hee nanca ona parola per tò pader?! (Nîna accenna di no col capo. El Peppon la fissa; pausa, poi più forte) Te ghe vorevet ben, forsi? te vorevet sta con lù?! NINA (a scatti, nervosa, agitatissima) Con lù? (Dà in una risata convulsa: con grande amarezza) Per ciappà di bott? Per fà vitt de lader? Per patì la famm? Uff! ma nanca per sogn! L’era on pezz che ghe pensavi anca mi! (Terribile) Puttost che andà innanz inscì, me saria trada in del tombon de San Marc! (Riteniamo opportuno, per agevolare la lettura, dare una traduzione delle battute, poiché il dialetto milanese non sempre è di immediata comprensione). } NINA Il papà! PEPPON Sì, sono io, ho bisogno di dirti una parola... NINA Cos'è successo? PEPPON L'ho ucciso! NINA Chi? PEPPON Il Carloeul... NINA Cos'è?! PEPPON Proprio così. Mi si è oscurata la vista! rideva ’sto mostro, mi è venuto davanti col suo fare, a farmi ballare i tuoi soldi proprio sul muso, a dirmi che ti picchiava, ed io non ci ho più visto; non ti spaventare! Oramai, quel che è fatto, è fatto, sarà quel che sarà. Sono tre ore che corro come un disperato, senza sapere dove, senza capire più nulla! Volevo costituirmi subito, e poi mi ricordato di te, ed ho voluto venire a salutarti per l’ultima volta! Nina, non mi guardi neppure in faccia? ti faccio paura? NINA No... PEPPON L'ho fatto per te; lo sai che ti voglio un bene da pazzi! NINA Destino maledetto! PEPPON dala non mi dici nulla? Guardami negli occhi, non hai neanche una parola per tuo padre?! Gli volevi bene forse? volevi stare con lui? . NINA Con lui? Per prendere delle botte? Per far vita da ladri? Per patire la fame? Uff! ma neanche per sogno! Era un pezzo che ci pensavo anch'io! Piuttosto che tirare avanti così, mi sarei buttata nella fossa di San Marco [una fossa nel Naviglio, presso la chiesa di San Marco, dove erano soliti gettarsi i suicidi]. i
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1035 PEPPON (con ansia) E allora? NINA Allora... la manera de liberamen, mi l’avevi già trovada, sigura! (Pausa; il padre la fissa sempre con maggiore intensità. Con un filo di voce) Me sont decisa jer... PEPPON (incalzante) A fà cosa? NINA dJer... (pianissimo) Sont andada dalla Martina!. PEPPON (spaventato) Ti?!
NINA (senza guardarlo)
Sì, propri mi! Son andada de lee, propri de leel...
Pausa lunga, angosciosa. PEPPON (l’emozione l’assale; si avvicina alla figlia; in principio balbetta, non trova le parole, poi le parla col pianto nella voce come di uomo offeso in tutto ciò che ha di più sacro: nel suo orgoglio ‘di vero popolano onesto) Nina! sentom ben, guarda, quisti hin i ultim paroll del tò pover papà, che adess el và in man della giustizia, ma credom, Nina, dam a trà, per caritaa! (Forse) Stà strasciada, patiss la famm, ma va no cont lor, và no coi sciori, per l’amor di Dio! Te vedett, a stoo penser me par de diventà matt! Va no cont lor! NINA (piano quasi sillabando) No, sont decisa, papà, sont propri decisa! (Mentre la Nina parla il padre la guarda, prima con meraviglia poi con spavento; in ultimo rimane come vinto, e con cenni del capo acconsente, soggiogato dalle ragioni della figlia. La Nina ha trovato un’intonazione strana: nella sua voce vi è tutta una rassegnazione disperata) L'è inutil fass di illusion! guarda, adess te parli come mai t’hoo parlaa! (Apparentemente calma) Da on poo de temp, me senti de vess diventada on’altra tosa, tutta diversa! mi soo no, me par de vegh on tocch de sass al post del coeur! Vuj dit tuttcoss prima de divides per semper. (Con tristezza crescente) Te vedet cosa sont diventada tutt a on tratt? Oramai me stremisi pù de nient, me disesen mi so no cosa; n’hoo passaa tropp de dispiasè! (Commovendosi senza saperlo) S’eri bona, papà, s'eri bona de bon ona volta! (Pausa). Te cominciaa ti a sbaglià, a tiram sù senza dimm cosa s’eri; (vedendo chel padre cerca di opporsi) lassom, lassom tiram in ment tuttcoss, vuj sfogam, vuj difendom! Te se ricordet? mi stavi semper a casa, in d’ona vesina, ti te vegnevet tard a trovamm, e te me portavet semper quaicoss de bon... stavi ben allora! s’eri trattada come ona sciora! (Con dolcezza) Mi el savevi no che te lavoravet in piazza, che te se tiravet foeura i boccon de bocca per vanzàmi a mi! e quand t’han portaa all’Ospedal, e ona bella mattina la vesina l’ha m’ha miss foeura de l’uss, te se ricordet? Sont vegnuda a trovatt. (Pausa). Vesin al tò lett gh’era là on vecc, te me faa on basin e te me ditt: «Và con lù!» Mi sont andada! L’era el papà del Rico! (Pausa). Sont stada duu més, sui fèr, sui piazz, inscì, ajutand i alter, perché mi de ballà s’eri minga bonna; intanta: ti te see guarii e te see vegnuu a toeum! Mi, dopo duu més s’eri pù mi! el Rico el m’aveva striaa! (Con passione e 1. Martina: mezzana che procura fanciulle povere alle voglie erotiche dei signori.
PEPPON E allora? NINA
Allora... la maniera di liberarmene, io l’avevo già trovata, sicuro! Mi sono decisa ieri.
PEPPON A fare che cosa? NINA. Ieri... sono andata dalla Martina. PEPPON Tu? di VAS, NINA Sì, proprio io! sono andata da lei, proprio da leil... PEPPON Nina!: sentimi bene, guarda, queste sono le ultime parole del tuo povero papà, che adesso va in mano alla giustizia, ma cre-
dimi, Nina, dammi retta, per carità! Resta stracciata, patisci la fame, ma non andare con loro, non andare con i signori, per l'amor i di Dio! Vedi, a questo pensiero mi sembra di diventare matto! Non andare con loro! i NINA No, sono decisa, papà, sono proprio decisa. E inutile farsi illusioni! guarda, adesso ti parlo come non ti ho mai parlato. Da un po’ di tempo, sento di essere diventata un’altra ragazza, tutta diversa! non so, mi sembra di avere un pezzo di pietra al posto del cuore! voglio dirti tutto, prima di dividerci per sempre. Vedi cosa sono diventata tutto ad un tratto? Ormai non mi spavento più di niente, mi dicessero non so cosa; ne ho passati troppi, di dispiaceri! Com'ero buona, papà, com'ero buona davvero una volta! Hai cominciato tu a sbagliare, a tirarmi su senza dirmi che cosa ero; lasciami, lascia che mi faccia venire in mente tutto, voglio sfogarmi, voglio difendermi! Ti ricordi? Stavo sempre a casa, da una vicina, tu venivi tardi a trovarmi, e mi portavi sempre qualcosa di buono... stavo bene allora! ero trattata come una signora! Non sapevo che lavoravi in piazza, che ti toglievi i bocconi di bocca per avanzarli per me! e quando ti hanno portato all’ospedale, e una bella mattina la vicina mi ha messo fuori della porta, ti ricordi? Sono venuta a trovarti. Vicino al tuo letto c'era un vecchio; mi hai dato un bacio e mi hai detto: «Va’ con lui». Io sono andata! Era il papa del Rico. Sono stata due mesi, sui ferri, sulle piazze, così, aiutando gli altri, perché io di ballare non ero mica capace; intanto: tu,sei guarito e sei venuto a prendermi! Io, dopo due mesi non ero più io! Il Rico mi aveva stregata! Signore,
Bertolazzi
1036 trasporto) Signor! come ghe voreva ben a quell’omm! l’unica persona che mi hoo amaa su sta terra, l’unica e sola! (Cambia tono di voce, diventa aspra) Perché hoo minga poduu stagh insema? perché
hoo minga poduu sposall anmi come tanti alter? (Con dolore) Perché s’erom fioeu de nissun, senza danee, senza nient, domà cont di miseri! (Pausa, mesta crolla il capo tenendo gli occhi sbarrati
pieni di lagrime. Parla singhiozzando) El Rico l’è mort tisigh, sotta i tend de sò baraccon intanta ch’el ciamaven foeura per fa rid la gent! Allora l’è staa, quell che staa! (Cambia ancora tono, parla con voce rotta, a scatti) El Tivoli! e poeu el Tivoli! l’Orcell e Viarenna, dove hoo trovaa el Carloeu.
(Con odio) Quell l6cch schifos che me tegneva sotta senza che mi podess sbrottà! e l’odiavi, neh, t’el giuri papà, l’odiavi, e bisognava che stass cont lù, che ghe voress ben! Quand el me casciava i sò ceuce in faccia, mi tremava pussee de quand l’alzava i man per damm! On dì sont stada stuffa, ne podevi pù; pativi la famm, semper! (Con amarezza crescente) Semper! propi semper! (Sì sforza di sorridere; pausa). L’altrer hoo vist la Moretton, l’era in carrozza! l’andava ai cors! (Con sarcasmo) Vuj lee in carrozza! n’hoo poduu pù, e via, sont andada dalla Martina! (Pausa; pianissimo con un filo di voce) Doman mattina la me presenta a on scior, a on’ingegnee, a vun in cilinder; el ghe pensa lù a vestim, sigura! Voo ancami a fà la sciora, a mangià i bon boccon, a bev el vin e a dormì quattada! (Quasi con rassegnazione) L'è inutil, t’el set anca ti, e poeu t'el vedet e tel tocchet con man: (con tristezza straziante) nùn, povera gent, g'hemm poch de scernì su sta terra; se fem giudizi, bisogna o patì la famm o coppàss, se de no andà in galera o fà... come foo mi! cosa | me restaria d’alter de fà? cosa? dimmel ti, se te see bon. Ti te voset contra i sciori compagn de tanti alter, e seguitee a mangià cadènn! Sii mai staa bon de ciapass la vostra part; te dovevet pensagh a toa tosa, e preparagh ona vita men grama. Cos'è success? Che mi me rangi come podi! (An4mandosi) Gh'hoo diritto ancami de god la mia part a stoo mond; sont compagn di alter, tal e qual! (Commovendosi sino al pianto) E quand me ven el magon, quand me senti ancamò quaicoss chi de dent, che par ch’el voeubbia saltam foeura, allora bevi, casci via tutt’i brutt penser, e torni cattiva! (0iangendo) senza coeur e senza sentiment. Vuj veghen pù, perché sont stuffa de patì, sont stuffa de fà sta vita! (Piange forte). Padre e figlia con slancio si abbracciano: pausa lunga.
GIOVANNA (entra) Che scusen, ma l’è tard! (Via). PEPPON Ciao Nina, se vedaremm pù! (Sta per partire. Nina si incammina verso la destra, Peppon la richiama con voce strozzata) Nina, Nina! Ven chì, fam on basin! Nina si butta ancora nelle sue braccia. El Peppon e la Nina si baciano; rimangono qualche istante abbracciati piangendo, poi si separano. Peppon fugge dalla comune e Nina via da destra. Cala lentamente la tela.
come gli volevo bene a quell’uomo! L’unica persona che ho mai amato su questa terra, l’unica e sola! Perché non ho potuto stargli insieme? Perché non ho potuto sposarlo anch'io come tanti altri? Perché eravamo figli di nessuno, senza soldi, senza niente, solo > con delle miserie! Il Rico è morto tisico, sotto le tende del suo baraccone mentre lo chiamavano fuori per far ridere la gente! Allora è stato quello che è stato! Il Tivoli! e poi il Tivoli! l’Orcello e Viarenna, dove ho trovato il Carloeu. Quel balordo schifoso, che mi teneva sotto senza che potessi fiatare! e l’odiavo, neh, te lo giuro papà, l’odiavo, e bisognava che stessi con lui, che gli volessi bene! Quando mi cacciava gli occhi in faccia, tremavo più di quando alzava le mani per picchiarmi! Un giorno mi sono stufata, non ne potevo più; pativo la fame, sempre! Sempre! proprio sempre! L'altro ieri ho visto la Morettona, era in carrozza! andava alle corse! Veder lei in carrozza! non ne ho potuto più, e sono andata dalla Martina! Domani mattina mi presenta a un signore, ad un ingegnere, ad uno in cilindro; ci pensa lui a vestirmi, sicuro! Voglio anch'io fare la signora, mangiare i buoni bocconi, bere il vino e dormire ben coperta! E inutile, lo sai anche tu, e poi lo vedi e lo tocchi con mano: noi, povera gente, abbiamo poco da scegliere su questa terra; se abbiamo giudizio, bisogna o patire la fame o uccidersi, se no andare in galera o fare... come faccio io! cosa mi resterebbe da fare? cosa? dimmelo tu, se sei capace. Tu gridi contro i signori come tanti altri, e continuate a masticare amaro! Non siete mai stati capaci di prendervi la vostra parte; dovevi pensarci tu a tua figlia, preparargli una vita meno grama. Cos'è successo? che mi arrangio come posso! Ho diritto anch’io di godermi la mia parte a questo mondo; sono come gli altri, tale e quale! E quando mi prende lo sconforto, quando sento qualcosa qui dentro, che pare voglia saltarmi fuori allora bevo, caccio via tutti i brutti pensieri, e torno cattiva! senza cuore e senza sentimenti. Non voglio vederne più, perché sono stufa di patire, sono stufa di fare questa vita! GIOVANNA Scusino, ma è tardi! PEPPON Ciao Nina, non ci vedremo più! Nina, Nina, vieni qui, dammi un bacio!
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1087 ANALISI DEL TESTO
La negazione del melodramma
Althusser, a proposito di questa scena conclusiva, ha sostenuto che in essa non è da ravvisare il melodramma lacrimoso sulla sorte dei miserabili, come ha sostenuto la critica, ma al contrario una presa di coscienza che dissolve criticamente i miti melodrammatici. Il melodramma è rappresentato dal padre, che è prigioniero di una serie di illusioni, la legge del
cuore, l’onore. Nina invece non ha illusioni, ha aperto gli occhi sulla realtà, ha capito che il mondo è fatto di crudeltà e che la morale è solo menzogna: con la sua spiegazione spazza via tutti i miti del padre (L. Althusser, Il «Piccolo», Bertolazzi e Brecht. Note su un teatro materialista, in Per Marx, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 111-129).
sto
(1223) PROPOSTE DI LAVORO È 1. Nella scena si contrappongono due sistemi di valori, rappresentati dal vecchio Peppon e dalla giovane Nina;
individuarli attraverso l’analisi delle battute. 2. In quale misura la scelta di vita di Nina è determinata dalla sua condizione sociale? In un tipico dramma borghese, ad esempio di Giacosa, avrebbe avuto spazio un simile comportamento? 3. Utilizzare le numerose indicazioni registiche contenute nelle didascalie per immaginare una realizzazione scenica e/o una lettura drammatizzata.
5. La letteratura per l’infanzia A84. Edmondo
Cuore
Primo maggio
Amore e ginnastica
De Amicis
Nato a Oneglia (Imperia) nel 1846, intraprese giovanissimo la carriera militare, e, dopo aver partecipato alla guerra del 1866, lasciò l’esercito dedicandosi al giornalismo e alla letteratura. Ottenne il primo successo con i bozzetti de La vita militare (1868), cui seguirono relazioni di viaggio (Spagna, 1873, Marocco, 187 6). L’opera più celebre è Cuore (1886). De Amicis intervenne anche sulla questione della lingua (L’idioma gentile, 1905), propugnando un ideale di ispirazione manzoniana. Nel 1891 aderì al socialismo, facendosi portavoce di istanze umanitarie. Da questa adesione nacque un romanzo, Primo maggio, rimasto a lungo inedito e pubblicato solo di recente (1980), che ha al centro la figura di un intellettuale che generosamente sceglie la causa del proletariato, andando incontro ad una tragica fine. Un De Amicis diverso dall'immagine più nota, quella dell’educatore, risulta dal lungo racconto Amore e gimnastica (nella raccolta Fra scuola e casa, 1892), che tocca toni ironici e garbatamente erotici, e che è stato ripreso di recente. De Amicis
1088 BM Cuore La struttura. È un libro di lettura destinato ai ragazzi. Si presenta come il diario di un bambino di 8: elementare, Enrico Bottini, di facoltosa famiglia borghese. Si compone di una successione di aneddoti e bozzetti di vita scolastica, da cui risulta soprattutto una serie di ritratti di compagni, appartenenti a diverse classi sociali e dai caratteri più vari: il primo della classe bello e intelligentissimo, lo sgobbone dalla volontà. di ferro, il ragazzone generoso e già maturo come un uomo, il trafficone, l’aristocratico superbo, il figlio
del muratore, del carbonaio, scolastico tipo, e, attraverso pagine di diario del ragazzo e messaggi ammonitori che
dell’erbivendola, il precoce delinquente. Si snoda così la vicenda di un anno di esso, un quadro della società torinese dell'età umbertina (anni ’80). Alle si alternano i racconti mensili edificanti che il maestro propone agli scolari, padre, madre, sorella lasciano sul diario di Enrico.
Gli intenti pedagogici. È unlibro dall’intento pedagogico, che mira allo scopo a cui tende tanta letteratura di questa età, «fare gli italiani» (secondo la famosa espressione di D'Azeglio): l’obiettivo primario è forgiare la classe dirigente del nuovo stato unitario (rappresentata dal borghese Enrico), ma, al di là di questo, trasmettere un sistema di valori e un modello di comportamento sociale che sia valido per tutte le classi e per tutta la nazione. È quindi uno dei libri in cui meglio si esprime la visione della realtà della borghesia italiana postunitaria. I principi che vengono proposti sono: la famiglia, da rispettare e venerare, l’amore di patria, il culto dell’esercito, della recente tradizione risorgimentale, delle istituzioni, del re, la condanna severa, senza appello, di ogni forma di devianza e di rivolta contro l'assetto vigente e le sue norme (Franti), la fede nel progresso, l’esaltazione delle attività produttive e delle virtù laboriose, l’incitamento all’altruismo e soprattutto alla solidarietà verso i diseredati, la dignità del lavoro, la necessità di un rapporto di reciproco rispetto tra i vari strati sociali, che hanno ruoli diversi, ma tutti egualmente necessari nella vita nazionale (a patto che ciascuno resti al suo posto). Come ha ben detto Asor Rosa, Cuore è «il prontuario delle moralità dominanti», il progetto «di ciò che l’età postunitaria avrebbe voluto essere ». Il libro ebbe una diffusione immensa (anche fuori d’Italia) e divenne parte integrante, attraverso le letture scolastiche, del bagaglio culturale di generazioni di italiani. E perciò un’opera che ha avuto un peso enorme nella formazione della mentalità media e dei sistemi di valori dell’Italia moderna. La sua importanza storica fa sì che vada vista con attenzione. Per quanto riguarda il suo valore letterario, lasciamo la verifica alla lettura diretta degli esempi.
-. tazda
Il carbonaio e il signore 7, lunedì
Non l’avrebbe mai detta Garrone, sicuramente, quella parola che disse ieri mattina Carlo Nobis a Betti. Carlo Nobis è superbo perché suo padre è un gran signore: un signore alto, con tutta la barba nera, molto serio, che viene quasi ogni giorno ad accompagnare il figliuolo. Ieri mattina Nobis si bisticciò con Betti, uno dei più piccoli, figliuolo d'un carbonaio, e non sapendo più che rispondergli, perché aveva torto, gli disse forte: — Tuo padre è uno straccione. - Betti arrossì fino ai capelli, e non disse nulla,’ ma gli vennero le lacrime agli occhi, e tornato a casa, ripeté la parola a suo padre; ed ecco il carbonaio, un piccolo uomo tutto nero, che compare alla lezione del dopopranzo col ragazzo per mano, a fare le lagnanze al maestro. Mentre faceva le sue lagnanze al maestro, e tutti tacevano, il padre di Nobis, che levava il mantello al figliuolo, come al solito, sulla soglia dell’uscio, udendo pronunciare il suo nome, entrò, e domandò spiegazione. - E quest’operaio, — rispose il maestro, - che è venuto a lagnarsi perché il suo figliolo Carlo disse al suo ragazzo: Tuo padre è uno straccione. Il padre di Nobis corrugò la fronte e arrossì leggermente. Poi domandò al figliuolo: - Hai detto quella parola?
Il figliuolo, — ritto in mezzo alla scuola, col capo basso, davanti al piccolo Betti, — non rispose. Allora il padre lo prese per un braccio e lo spinse più avanti in faccia a Betti, che quasi si toccavano, e gli disse: - Domandagli scusa. Il carbonaio volle interporsi, dicendo no, no; ma il signore non gli badò, e ripeté al figliuolo: - DomanScrittori italiani dell’età del Verismo
1039 dagli scusa. Ripeti le mie parole. Io ti domando scusa della parola ingiuriosa, insensata, ignobile che dissi contro tuo padre, al quale il mio si tiene onorato di stringer la mano. Il carbonaio fece un gesto risoluto, come a dire: Non voglio. Il signore non gli diè retta, e il suo
figliuolo disse lentamente, con un filo di voce, senza alzar gli occhi da terra: - Io ti domando scusa... della parola ingiuriosa... insensata... ignobile, che dissi contro tuo padre, al quale il mio... si tiene ono-
rato di stringer la mano. Allora il signore porse la mano al carbonaio, il quale gliela strinse con forza, e poi subito con una | spinta gettò il suo ragazzo fra le braccia di Carlo Nobis. - Mi faccia il favore di metterli vicini, — disse il signore al maestro. - Il maestro mise Betti nel banco di Nobis. Quando furono al posto, il padre di Nobis fece un saluto ed uscì. Il carbonaio rimase qualche moménto sopra pensiero, guardando i due ragazzi vicini; poi s’avvicinò al banco, e fissò Nobis, con espressione d’affetto e di rammarico, come se volesse dirgli qualcosa; ma non disse nulla; allungò la mano per fargli una carezza, ma neppure osò, egli strisciò soltanto la fronte con le sue grosse dita. Poi s’avviò all’uscio, e voltatosi ancora una volta a guardarlo, sparì. - Ricorda-
tevi bene di quel che avete visto, ragazzi - disse il maestro; questa è la più bella lezione dell’anno.
Gli amici operai 20, giovedì
Perché, Enrico, mai più? Questo dipenderà da te. Finita la quarta, tu andrai al Ginnasio ed essi faranno gli operai; ma rimarrete nella stessa città, forse per molti anni. E perché, allora, non v’avrete
più a rivedere? Quando tu sarai all’Università o al Liceo, li andrai a cercare nelle loro botteghe o nelle loro officine, e ti sarà un grande piacere il ritrovare i tuoi compagni d’infanzia, - uomini, — al lavoro. Vorrei vedere che tu non andassi a cercare Coretti e Precossi, dovunque fossero. Tu ci andrai, e passerai delle ore in loro compagnia, e vedrai, studiando la vita e il mondo, quante cose potrai imparare da loro, che nessun altri ti saprà insegnare, e sulle loro arti e sulla loro società e sul tuo paese. E bada che se non conserverai queste amicizie, sarà ben difficile che tu ne acquisti altre simili in avvenire, delle amicizie, voglio dire, fuori della classe a cui appartieni; e così vivrai in una classe sola, e l’uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non legge altro che un libro. Proponiti quindi fin d’ora di conservarti quei buoni amici anche dopo che sarete divisi, e coltivali fin d’ora di preferenza, appunto perché son figliuoli d’operai. Vedi: gli uomini delle classi superiori sono gli ufficiali,
e gli operai sono i soldati del lavoro; ma così nella società come nell’esercito, non solo il soldato non è men nobile dell’ufficiale, perché la nobiltà sta nel lavoro e non nel guadagno, nel valore e non nel
grado; ma se c’è una superiorità di merito è dalla parte del soldato, dell’operaio, i quali ricavan dall’opera propria minor profitto. Ama dunque, rispetta sopra tutti, fra i tuoi compagni, i figliuoli dei soldati del lavoro; onora in essi le fatiche e i sacrifizi dei loro parenti; disprezza le differenze di fortuna e di classe, sulle quali i vili soltanto regolano i sentimenti e la cortesia; pensa che uscì quasi tutto dalle
vene dei lavoratori delle officine e dei campi il sangue benedetto che ci ha redento la patria; ama Garrone, ama Precossi, ama Coretti, ama il tuo «muratorino»
che nei loro petti di piccoli operai chiudono
dei cuori di principi, e giura a te medesimo che nessun cangiamento di fortuna potrà mai strappare
queste sante amicizie infantili dall'anima tua. Giura se fra quarant'anni, passando in una stazione di strada ferrata, riconoscerai nei panni d’un macchinista il tuo vecchio Garrone col viso nero... ah non m'occorre che tu lo giuri: son sicuro che salterai sulla macchina e che gli getterai le braccia al collo,
fossi anche Senatore del Regno.
Tuo padre
De Amicis
1040 ANALISI DEI TESTI I due passi sono esemplari a testimoniare la visione sociale di De Amicis: è una visione il linea di principio democratica (tutte le classi sociali, anche le più umili, hanno pari dignità, e devono rispettarsi a vicenda), solidaristica (chi è privilegiato deve chinarsi verso i meno
fortunati), ma anche, di fatto, conservatrice: si dà per scontato che il figlio del borghese possa diventare senatore del Regno, mentre il figlio del popolo non può finire che macchinista nelle ferrovie. Riletti oggi, passi del genere suscitano inevitabilmente il riso, unito ad un senso di fastidio. È una reazione che non deriva dalle idee in sé che vengono proposte dallo scrittore: essa scatta a prescindere dal fatto che a quelle idee si aderisca o meno. Deriva invece dalla forma del discorso, dal modo in cui le idee sono proposte. Occorre quindi fare attenzione ai meccanismi con cui De Amicis costruisce il suo messaggio. Essi si possono così sintetizzare: - lo schematismo esasperato degli esempi (il carbonaio e il signore, il senatore del Regno e il ferroviere); - la volontà di imporre un principio, ignorando ogni dubbio, ogni problematicità, ogni alternativa; - l'intento scoperto di suscitare reazioni emotive e di predeterminarle rigidamente in un’unica direzione (di regola la commozione e le lacrime). Qualunque idea, imposta in questo modo, non potrebbe che suscitare riso e fastidio: non ‘è l’idea in sé che è ridicola, ma la rigidezza grossolana con cui è costruito il messaggio. La letteratura autentica non è mai “rigida”, ma sempre infinitamente duttile, ricca di sfumature, problematica.
La visione sociale
La forma del discorso
La madre di Franti 28, sabato
Ma Votini è incorreggibile. Ieri, alla lezione di religione, in presenza del Direttore, il maestro domandò a Derossi se sapeva a mente quelle due strofette del libro di lettura: dovunque è guardo i0 giro, Immenso Iddio ti vedo!. - Derossi rispose di no, e Votini subito: - Io le so! — con un sorriso, come per fare una picca? a Derossi. Ma fu piccato lui, invece, che non poté recitare la poesia, perché entrò tutt’a un tratto nella scuola la madre di Franti, affannata, coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve, spingendo avanti il figliuolo che è stato sospeso dalla scuola per otto giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! La povera donna si gettò quasi in ginocchio davanti al Direttore, giungendo le mani, e supplicando: - Oh signor Direttore, mi faccia la grazia, riammetta il ragazzo alla scuola! Son tre giorni che: è a casa, l’ho tenuto nascosto, ma Dio ne guardi se suo padre scopre la cosa, lo ammazza; abbia pietà, che non so più come fare! mi raccomando con tutta l’anima mia! - Il Direttore cercò di condurla fuori; ma essa resistette, sempre pregando e piangendo. - Oh! se sapesse le pene che m'ha dato questo figliuolo, avrebbe compassione! Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà. Io già non vivrò più un pezzo, signor Direttore, ho la morte qui; ma vorrei vederlo cambiato prima di morire perché... — e diede in uno scoppio di pianto, — è il mio figliuolo, gli voglio bene, morirei disperata; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore, perché non segua una disgrazia in famiglia, lo faccia per pietà d’una povera donna! — E si coperse il viso con le mani, singhiozzando. Franti teneva il viso basso, impassibile. Il Direttore lo guardò, stette un po’ pensando, poi disse: - Franti, va’ al tuo posto. - Allora la donna levò le mani dal viso, tutta racconsolata, e cominciò a dir grazie, grazie, senza lasciar parlare il Direttore, e s’avviò dig dovunque ... vedo: sono versi di P. Metastasio (1698-1792) dalla Passione di Gesù
Cristo, un oratorio composto nel 1730. 2. fare ... picca: fare un dispetto.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1041 verso l’uscio, asciugandosi gli occhi, e dicendo affollatamente: - Figliuol mio, mi raccomando. Abbiano pazienza tutti. Grazie, signor Direttore, che ha fatto un’opera di carità. Buono, sai, figliuolo. Buon giorno, ragazzi. Grazie, a rivederlo, signor maestro. E scusino tanto, una povera mamma.
- E data
ancora di sull’uscio un’occhiata supplichevole a suo figlio, se n’andò, raccogliendo lo scialle che strascicava, pallida, incurvata, con la testa tremante, e la sentimmo ancor tossire giù per le scale. Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: — Franti, tu uccidi tua madre! - Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise.
ANALISI DEL TESTO Franti e la Negazione
Per i meccanismi su cui si regge il racconto, vale quanto detto nell'analisi precedente. Ma la figura di Franti in sé merita maggiore attenzione. Egli rappresenta la negazione vivente di quel sistema perfettamente integrato che il libro disegna, in cui trionfano dolciastri buoni sentimenti e perfetto ossequio all'ordine costituito. Riportiamo le considerazioni sul personaggio fatte da Umberto Eco in una pagina ormai famosissima, che, al di là dell’impostazione scherzosa, svolge un discorso molto serio sulla funzione del negativo, specie quando esso si manifesta nel riso (detto per inciso, in queste pagine, del 1962, si può ravvisare il nucleo di idee del futuro romanzo di Eco, Il nome della rosa, 1980): «Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento, oppure ride perché ha una missione. Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma - strano a dirsi - la Negazione assume i modi del Riso. Franti ride perché è cattivo - pensa Enrico
— ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa. [...] | Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente - o il sogghignante - altro non è che il maieuta di una diversa società possibile. [...] Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi ride, per ridere, e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi, ciò di cui ride, e ridere dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore. Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da ragazzi; ridete dell’usanza di radersi, e poi discuteremo. Chi ride deve dunque essere figlio di una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e quindi, da figlio infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che crolla doveva morire. E quindi il riso, l’ironia, la beffa, il marameo, il fare il verso, il prendere a gabbo, è alla fine un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello che resiste nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva cadere). Tale è Franti. Dall’interno idilliaco della terza classe in cui alligna Enrico Bottini, egli irraggia il suo riso distruttore; e chi si aggrappa a ciò che egli distrugge, lo chiama infame. Fatto nascere dall’immaginazione di De Amicis e dalla visione astiosa di Enrico come prinre cipio dialettico, Franti viene troppo presto eliminato di scena perché si possa intravvede accetche, l'Ordine è comico il se quale reale funzione avrebbe egli svolto in questo quadro: abbozzato tato ed esasperato a bella posta, esplode e si fa Altro, Franti non ha neppure espandersi saputo ha non Enrico, di sospettosa visione dalla freno a Tenuto il suo compito. i germi liberacome dialettica voleva: e solo noi possiamo ora intravvederne e svilupparne
* tori e correttivi. [...] De Amicis
1042
i
Eliminato dal contesto fantastico in cui viveva, Franti è accantonato dal cronista dell'Ordine e della Bontà: ed è supposto finire all’ergastolo, dove appunto si raccolgono i nonintegrati. Franti è così rimasto come un abbozzo di Comico possibile: per riuscire egli avrebbe dovuto assumere - ostendando buona fede — i panni di Enrico e scrivere lui stesso il Cuore. Col sogghigno - invece che col singhiozzo - facile. Siccome non ha raccontato, ma è stato raccontato, non ha assunto la funzione di giustiziere comico, ma è rimasto come un’ombra,
una tabe, una falla nel cosmo di Enrico, una presenza inspiegabile e non risolta» (U. Eco, Elogio di Franti [1962], in Diario Minimo, Mondadori, Milano 1963, pp. 160-169).
‘224b, 225 PROPOSTE DI LAVORO mune 1. Quali sono le caratteristiche della lingua usata da De Amicis? (riflettere sul lessico, sulla costruzione sintattica, sull'uso abbondante dei dialoghi, sulla forma diaristica, sullo stile).
2. Quali particolari del racconto rivelano che l’autore predetermina l’effetto di commozione? Chi racconta? Il narratore coglie i fatti attraverso una particolare visione? Da cosa lo si coglie? 3. Quale tono prevale nella narrazione? In particolare è presente il comico?
4. Come vengono rappresentati i rapporti tra le diverse classi sociali? Si può parlare di populismo? Ci sono comportamenti e modi di dire tipici di ogni classe?
A — Cfr. La critica, C 59
A85. Carlo Collodi Carlo Lorenzini (Collodi è uno pseudonimo letterario) nacque a Firenze nel 1826. Di idee democratiche, partecipò alle guerre d’indipendenza nel ’48 e nel ’59; in seguito svolse attività giornalistica, e, dopo il 60, fu impiegato alla Prefettura. A partire dal 1875 scrisse libri per bambini per l'editore Paggi: Giannettino (1876), Minuzzolo (1877). Raccolse anche macchiette, caricature e bozzetti, in Macchiette (1880), Storie allegre (1881) e Occhi e nasi (1881), in cui ritrae una Firenze vecchiotta di poveracci e borghesucci, con un gusto umoristico tipico della tradizione toscana. Ma vi si rivela anche l’attenzione e la simpatia per un mondo irregolare e marginale, come quello dei «ragazzi di strada» e per il loro spensierato ribellismo verso ogni regola. e istituzione. Nell’81 pubblicò a puntate sul «Giornale per i bambini» La storia di un burattino, poi ampliato in volume nell’83 col titolo di Le avventure di Pinocchio, che ebbe un enorme successo mondiale. Collodi morì nel 1890.
MB Pinocchio
Il messaggio proposto. Pinocchio è un altro libro per l’infanzia che, letto,da milioni di ragazzi sull’arco di un secolo, ha avuto un’enorme influenza nella formazione della cultura nazionale. La vicenda è troppo nota perché sia il caso di riassumerla nei dettagli. E la storia di un’educazione: l’essere anomalo e informe il burattino di legno, discolo, riottoso ad ogni disciplina, insofferente dello studio e della fatica, incostante, avventato, malvagio a volte per superficialità, dopo essere passato attraverso diverse esperienze e molti dolori, si ravvede, diventa un ragazzo in carne e ossa, ligio ai doveri e agli affetti familiari. Come ha osservato Asor Rosa, in Pinocchio si proiettano un po’ quei difetti nazionali, che venivano tradizionalmente rimScrittori italiani dell’età del Verismo
1043 | proverati al popolo italiano. Il libro mira quindi anch'esso, come tanta letteratura pedagogica di questa età, a “formare gli italiani”. Il messaggio che Collodi trasmette ai ceti popolari si incentra intorno ad alcuni valori fondamentali: ildovere del lavoro e dell’operosità, la sottomissione, il rispetto delle norme. Sono press’a poco i valori proposti dal Cuore di De Amicis. Ma in Pinocchio non vi è il peso pedagogico, l'imposizione dall alto dei valori con tecniche stereotipate, la predeterminazione di effetti grossolani di commozione. Collodi punta al contrario su una straordinaria inventività fantastica e avventurosa, che si regge su un ritmo incalzante e senza soste. La narrazione attinge in gran copia a motivi mitico-fiabeschi, che hanno radici molto profonde nella cultura popolare: basti pensare all’avventura nel ventre del pescecane, che richiama i riti di iniziazione dei giovani e i miti di morte e rigenerazione delle culture arcaiche, che hanno poi fornito materiali alla fiaba. La simpatia per il ribelle. Inoltre, se Collodi si propone come il pedagogo che vuole inculcare valori d’ordine, d’altro lato nel racconto è evidente la simpatia per il discolo, il ribelle, che rappresenta la resistenza alla norma, l’antagonismo verso l’ordine esistente. Questa simpatia che avvolge l’irregolare è confermata dall’attenzione ai «ragazzi di strada» che compare in Occhi e nasi. Se ci rifacciamo al discorso di Eco (cfr. analisi del T225), Pinocchio ha qualcosa della carica negativa e critica di Franti, ma, a differenza del perso-
naggîo deamicisiano, non è bollato senza appello come essere infame, né è privato della parola: la trasgressione è messa al centro del racconto, e suscita irresistibilmente la partecipazione del lettore. Ne risulta un libro infinitamente più aperto di Cuore, più problematico e moderno, leggibile con gusto anche oggi.
Il paese dei balocchi Pinocchio per un anno ha mantenuto la promessa di studiare e di essere buono. Dopo che ha dato gli esami, la Fata gli assicura che l'indomani finirà di essere un burattino e diventerà un ragazzo perbene. L'avvenimento deve essere festeggiato: Pinocchio va ad invitare tutti è suoi
amici.
Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo il quale si chiamava di nome Romeo, ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo! nuovo di un lumino da notte. Lucignolo era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola, ma Pinocchio gli voleva un gran bene. Di fatti andò subito a cercarlo a casa per invitarlo alla colazione e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era; tornò una terza volta, e fece la strada invano.
di Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico una casa di contadini. - Che cosa fai costì? - gli domandò Pinocchio avvicinandosi. - Aspetto la mezzanotte per partire. — Dove vai? - Lontano lontano lontano. - E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!... ss - Che cosa volevi da me? è toccata? mi che a fortun la sai non mento? avveni - Non sai il grande SCA — Quale? gli altri. tutti come e te come - Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo - Buon pro ti faccia. mia. - Domani, dunque, ti aspetto a colazione a casa
- Ma se ti dico che parto questa sera.
1. lucignolo: è la treccia di fili che si immerge nell’olio della lucerna o nella cera della candela, e poi vieìe accesa.
1
Collodi
1044 - A che ora? —- Fra poco. — E dove vai? - Vado ad abitare in un paese... che è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna! - E come si chiama? — Si chiama il Paese dei balocchi. Perché non vieni anche tu? - Io? no davvero! — Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più sano per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola, e ogni settimana è composto di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre. Ecco un paese come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili! — Ma come si passano le giornate nel Paese dei balocchi? — Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare? , - Uhm! - fece Pinocchio, e tentennò leggermente il capo come dire: «E una vita che farei volentieri anch'io!» — Dunque, voi partire con me? Sì o no? Risolviti. - No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo perbene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio, e buon viaggio. — Dove corri con tanta furia? — A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte. - Aspetta altri due minuti. - Faccio troppo tardi. - Due minuti soli. — E se poi la fata mi grida? - Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà, - disse quella birba di Lucignolo. — E come fai? Parti solo o in compagnia? - Solo? Saremo più di cento ragazzi. -— E il viaggio lo fate a piedi? - Fra poco passerà di qui il carro che mi deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese. — Che cosa pagherei che il carro passasse ora! - Perché? — Per vedervi partire tutti insieme. — Rimani qui un altro poco e ci vedrai. - No no: voglio ritornare a casa. — Aspetta altri due minuti. - Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me. - Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli? - Ma dunque, - soggiunse Pinocchio, — tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte? scuole? — Neanche l’ombra. - E nemmeno maestri? - Nemmen uno. — E non c’è mai l’obbligo di studiare? - Mai, mai, mail! - Che bel paese! - disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. - Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro. 2. punte: per nulla.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1045 - Perché non vieni anche tu? — E inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola. - Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali,... e anche quelle liceali, se le incontri per la strada. — Addio, Lucignolo: fai buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli amici.
Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene; ma poi, fermand osi e voltandosi all’amico, gli domandò:
— Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei giovedì e di una domenica?
— Sicurissimo! — Ma lo sai di certo che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano con l’ultimo di dicembre? — Di certissimo! = Che bel paese! - ripeté Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione. Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e furia: - Dunque, addio davvero; e buon viaggio.
— Addio. — Fra quanto partirete?
— Fra poco. - Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di aspettare. —- E la Fata?... - Oramai ho fatto tardi,... e tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo è lo stesso. - Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida? - Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà. Intanto si era già fatta notte, e notte buia; quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino e sentirono un suono di bubboli* e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato che
parve il sibilo di una zanzara. — Eccolo! —- gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi. — Chi è? - domandò sottovoce Pinocchio. - È il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no? — Ma è proprio vero, - domandò il burattino, - che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare? - Mai, mai, mai!
— Che bel paese, che bel paese, che bel paese! [Naturalmente Pinocchio cede alla tentazione, e si reca con Lucignolo nel paese dei balocchi]. La mattina sul far dell’alba, arrivarono felicemente nel Paese dei balocchi.
Questo paese non somigliava a nessun altro del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano quattordici anni, i più giovani ne avevano otto appena. Nelle strade un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno; questi facevano a mosca cieca, quegli altri si rincorrevano, altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa; chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare con le mani in terra e con le gambe in aria; chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale con ] elmo di foglio e lo squadrone‘ di cartapesta; chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi
fischiava, chi rifaceva il verso della gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal
passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assor3. bubboli: sonagli. 4. squadrone: sciabolone.
Collodi
=
1046
i
diti. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti
i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: «viva i balocci! » (invece di «balocchi»), «non vogliamo più schole» (invece di «non vogliamo più scuole»), «abbasso Larin Metica» (invece di «l’aritmetica») e altri fiori consimili. Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi che avevano fatto il viaggio con l’Omino, appena ebbero messo il piede dentro la città si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda e in pochi minuti, come è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro? In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane, passavano come tanti baleni. - Oh, che bella vita! - diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo. - Vedi dunque, se avevo ragione? - ripigliava quest’ultimo. - E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per perdere il tempo a studiare!... Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure: 1 ne convieni? Non vi sono che i veri amici che sappiano rendere di questi grandi favori. - È vero, Lucignolo. Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: «Non praticare quella birba di Lucignolo, perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male». - Povero maestro! - replicò l’altro tentennando il capo. - Lo so pur troppo che mi aveva a noia? e che si divertiva sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli perdono! - Anima grande! - disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi. Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola, quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa che lo messe proprio di malumore. E questa sorpresa quale fu? Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse... Indovinate un po’ di che cosa si accorse? Si accorse con sua grandissima maraviglia che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo. 5. a noia: in antipatia.
ANALISI DEL TESTO Nell'episodio è ben esemplificato il conflitto di fondo su cui si basa il percorso di formazione dell’eroe: da un lato l'aspirazione ad integrarsi nella società e ad adeguarsi alle sue norme e ai suoi doveri (il desiderio di diventare un ragazzo in carne ed ossa, di compiacere la Fata turchina, evidente figura materna); dall’altro il richiamo prepotente del “principio del piacere”, come lo chiamerebbe Freud (cfr. G), a seguire liberamente l'impulso naturale e a soddisfare il bisogno di godimento (il paese dei balocchi). I poli del conflitto sono l’infanzia, età spontanea, libera da responsabilità, tutta dominata appunto dal principio del piacere, e l’età adulta, dominata dal principio di realtà, con i suoi doveri e i suoi legami. E evidente il fascino che emana dalla descrizione del paese dei balocchi, in cui prende corpo in forma favolosa un bisogno originario dell’uomo, quello della libertà del godimento. Ma scatta anche il congegno moralistico del racconto: Pinocchio, che ha trasgredito ai suoi
Il conflitto tra infanzia ed età adulta
doveri, è trasformato in un asino.
Tutte le numerose avventure che compongono il libro (modello narrativo: cfr. MI, $1.2): allontanamento da casa zione / ritorno / ricompensa (Ricciardi). Queste “funzioni” mente anche qui: nelle pagine seguenti a quelle riportate e la ricompensa, la possibilità di diventare finalmente un
Scrittori italiani dell’età del Verismo
si fondano su uno schema fisso / infrazione / punizione / espiafondamentali tornano puntualsi ha poi l’espiazione, il ritorno ragazzo.
Il modello narrativo
1047 PROPOSTE
DI LAVORO
1. Ci sono giudizi del narratore sul comportamento di Pinocchio? 2. Quali sono gli elementi “fiabeschi” dell’episodio? 3. Che cosa rappresentano la Fata e Lucignolo?
4; Leggere il Seguito della vicenda, nella quale Pinocchio verrà trasformato in asino, e trovare a quali particolari momenti del racconto corrispondono le funzioni “espiazione (ritorno)-ricompensa”.
+ Cfr. La critica, C59
A86. Emilio Salgari
I romanzi
Il fascino di Salgari
Un messaggio non conformistico
L’anticolonialismo
E il più popolare autore di racconti d'avventura, destinati ad un pubblico di ragazzi e adolescenti. Nato a Verona nel 1863, con i suoi libri ebbe largo successo, ma, sfruttato dagli editori, visse in gravi angustie economiche. Morì suicida a Torino, dove viveva, nel 1911. I suoi romanzi si svolgono in paesi lontani ed esotici, ma questi luoghi furono rico-
struiti dal romanziere solo con la fantasia, sui libri, poiché egli condusse vita sedentaria, senza mai allontanarsi da Torino. Scrisse un’ottantina di romanzi, raggruppati per lo più in cicli: il ciclo dei pirati della Malesia (Le tigri di Mompracem, I pirati della Malesia, Le due tigri, ecc., in cui confluisce anche il personaggio di Tremal Naik, eroe dei Misteri della Jungla nera), quello dei Corsari (Il corsaro Nero, Yolanda la figlia del Corsaro Nero, La Regina dei Caraibi), quello della prateria (La scotennatrice, Sulle frontiere del Far West, Gli scorridori della prateria); alcuni romanzi sono ambientati anche nel mondo antico (Cartagine in fiamme, Le figlie dei Faraoni), o nel futuro (Le meraviglie del Duemala, Il re dell’aria), anticipando così l'odierna fantascienza. Anche Salgari, letto e amato dai ragazzi per generazioni (oggi forse il suo fascino agisce più attraverso le riduzioni televisive e cinematografiche) ha contribuito potentemente a formare la cultura dell’Italia postunitaria. I suoi romanzi hanno alimentato l'immaginario collettivo di figure eroiche (Sandokan, il Corsaro Nero), di luoghi esotici (la jungla indiana, le isole della Malesia, la Tortuga dei corsari, le praterie del West), di situazioni avventurose (arrembaggi, battaglie, fughe tra mille pericoli in luoghi selvaggi, prigionie ed evasioni, la “resa dei conti” finale con il malvagio). Ma sulle giovani generazioni questi romanzi hanno agito in direzione esattamente opposta rispetto a Cuore e a Pinocchio: se il messaggio di quei libri educativi era conformistico, invitava all'integrazione del ragazzo nel sistema delle norme correnti, quello di Salgari è essenzialmente anticonformistico: i suoi personaggi più famosi e amati sono eroici e nobili fuorilegge, in lotta contro la società e i valori costituiti, secondo un modulo romantico: Sandokan e il Corsaro Nero sono infatti le derivazioni, adattate al livello della narrativa popolare, di una figura centrale della letteratura romantica “alta”, il sublime fuorilegge byroniano. Non solo, ma in un’età di imperialismo colonialista, in cui si alimentava il mito della superiorità dell’uomo bianco e il disprezzo per i popoli di altre razze, ritenuti barbari e ben meritevoli di essere colonizzati, gli eroi di Salgari sono spesso uomini di colore, malesi, indiani, filippini, pellirosse, che lottano generosamente contro l'oppressione coloniale. Nell’elementare schematismo etico di questi romanzi, che, come è proprio del romanzo popolare, si fonda sulla contrapposizione netta di “buoni” e “ cattivi”, Le buoni” sono gli indigeni che lottano per la loro indipendenza, i “cattivi ” sono i bianchi che li vogliono
dominare: si pensi appunto a Sandokan e al suo acerrimo avversario, Lord James Brooke. In questo senso, Salgari lancia un messaggio opposto a quello di un altro
fortunato autore di romanzi esotico-avventurosi per ragazzi, Rudyard Kipling (1856-1936), che è il celebratore del colonialismo inglese.
Salgari
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BH La tigre della Malesia Il romanzo fu pubblicato in una prima stesura nel 1883 nelle appendici della «Nuova Arena» di Verona: era quindi indirizzato ad un pubblico adulto. Tale stesura era notevolmente diversa rispetto a quella posteriore in volume (1901), dal titolo Le tigri di Mompracem: le differenze consistono soprattutto in attenuazioni dei tratti più esasperati della primitiva ferocia dell’eroe, per rendere il romanzo più adatto ad un pubblico di ragazzi. Preferiamo riportare però un esempio della prima versione, perché ci consente di anticipare il discorso sul romanzo d’appendice, di cui ci occuperemo subito dopo.
Il «terribile uomo» È l’inizio del romanzo (cap. I).
La mezzanotte del 20 aprile 1847, un acquazzone diluviale, accompagnato da scrosci di folgore e da impetuosi soffi di vento, subissava la solitaria e selvaggia Mompracem, isola situata sulle coste occidentali di Borneo, e il cui nome bastava in quei tempi a spargere il terrore a cento leghe all’intorno. L'abitazione della Tigre della Malesia, posta come aquila su di una gran rupe tagliata a picco sul mare, a cinquecento passi dalle ultime capanne del villaggio di Gjehawem, quella notte, contro il solito, era illuminata. Dai vetri colorati di una stanza a pianterreno, uscivano getti di luce rossigna, che rischiaravano fantasticamente le asperità delle rocce e le trincee e le gabbionate sparse all’esterno. Diamo un’occhiata a questa stanza, luogo favorito del terribile capo dei pirati di Mompracem. Era questo un salotto alquanto vasto, colle pareti sepolte sotto pesanti tessuti di broccatello, di velluto cremisi e di sete di Francia, qua e là sgualciti, macchiati e rattoppati, e col terreno coperto da morbidi tappeti di Persia, sfolgoranti d’oro e di colori. Nel mezzo faceva bella mostra un tavolo intarsiato d’ebano e fregiato d’argento, destinato forse, un tempo, a qualche sfondato riccone delle Filippine, e tutto ingombro di bottiglie e di calici del più ‘puro cristallo di Venezia. Addossati agli angoli, grandi scaffali, coi vetri infranti, chi sa per qual capriccio del pirata, riboccanti di anelli d’oro, di arredi sacri contorti o schiacciati, di vasi di metallo prezioso, di perle e di cumuli di diamanti e di brillanti mescolati assieme, scintillanti come tanti soli, sotto i riflessi
della gran lampada dorata sospesa al soffitto. In un canto un divano turco, non meno ricco per dorature e sculture, colle frange strappate e le stoffe infangate e spesso insanguinate; in un altro un armonium? incrostato d’oro, colla tastiera di avorio, che portava qua e là certi segni, da credere che fossero stati fatti a colpi di scimitarra, avventati forse dal pirata nei suoi momenti di delirio, e per ogni dove, ammonticchiati alla rinfusa, ricchi costumi, quadri dalle tele screpolate, dovuti forse a celebri pennelli, tappeti arrotolati, lampade rovesciate, bottiglie ritte o capovolte, porcellane infrante, moschetti indiani rabescati, brunite carabine, tromboni di Spagna, e spade, scimitarre, scuri, piccozze e pugnali, bruttati di sangue e di resti di cervella! . In quella sala, così stranamente arredata, su di una poltrona, colla testa fra le mani, come di chi medita, se ne stava Sandokan, il sanguinario capo dei pirati di Mompracem. Quest'uomo, meglio conosciuto sotto il nome di Tigre della Malesia, che da dieci anni insanguinava le coste del mar malese, poteva avere trentadue o trentaquattro anni. Era alto di statura, ben fatto, con muscoli forti come se fili d’acciaio vi fossero stati intrecciati, dai lineamenti energici, l’anima inaccessibile a ogni paura, agile come una scimmia, feroce come la tigre delle jungla malesi, generoso e coraggioso come il leone dei deserti africani. Aveva una faccia leggermente abbronzata e di una bellezza incomparabile, resa truce da una barba nera, con una fronte ampia, incorniciata da fuligginosi e ricciuti capelli che gli cadevano con pittoresco disordine sulle robuste spalle. Due occhi di una fulgidezza senza pari, che magnetizzavano, attiravano, che ora diventavano melanconici come quelli di una fanciulla, e che ora lampeggiavano e schiz1. armonium: strumento musicale a tastiera azionato da mantici e pedali.
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1049 zavano fiamme. Due labbra sottili, particolari agli uomini energici, dalle quali, nei momenti di batta-
| glia, usciva una voce squillante, metallica, che dominava il rombo dei cannoni, e che talvolta si piegavano a un melanconico sorriso, che a poco a poco diventava un sorriso beffardo, fino al punto di trovare il sorriso della Tigre della Malesia, quasi assaporasse allora il sangue umano! Da dove mai era uscito questo terribile uomo, che alla testa di duecento tigrotti, non meno intrepidi di lui, aveva saputo, in poco volger d’anni, farsi una fama sì funesta? Nessuno lo avrebbe potuto dire. I suoi fidi stessi lo ignoravano, come ignoravano pure chi egli si fosse. [...]
A ogni modo si sapeva che egli era il più terribile e il più capriccioso dei pirati della Malesia, un
uomo che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella
dei moribondi. Un uomo che amava le battaglie le più tremende, che si precipitava come un pazzo nelle mischie più ostinate dove più grande era la strage e più fischiava la mitraglia; un uomo che, nuovo Attila?, sul suo passaggio non lasciava che fumanti rovine e distese di cadaveri. Però, se questa belva, se questo uomo-tigre era così sanguinario, non mancava di una certa generosità, che lo rendeva più attraente. Quante e quante volte egli aveva rimandato, rifiutando persino il riscatto, dei prigionieri, nemici suoi personali. Quante e quante volte, dopo aver lottato ore e ore, contro una nave ostinatamente difesa, con gran strage dei suoi pirati e con gran pericolo di se stesso, vintala, la lasciava ripartire senza nulla esigere in compenso, e senza che i suoi tigrotti osassero alzare la voce. Così, come era generoso, questo strano selvaggio era pur cavalleresco. Il singolar uomo, quando gli veniva dato di fare prigioniere delle donne, usava verso di esse mille cortesie, improvvisando feste e banchetti, e continuando in tal modo, fino a che la smania della guerra lo riprendeva. Allora, una bella notte, le faceva imbarcare a bordo dei suoi prahos? e, senza chiedere uno spillo che fosse uno spillo, senza voler accettare un ringraziamento, le conduceva alla costa più vicina e, prima che potessero riaversi dalla sorpresa di quella strana generosità, le sbarcava, per ripigliare di poi la sua vita libera e avventuriera. Erano già parecchie ore che il pirata se ne stava lì, sdraiato sulla poltrona, colla fronte stretta fra le mani, lo sguardo cupo e le labbra contratte. Il primo tocco della mezzanotte, suonato da un orologio della stanza vicina, venne a trarlo da quella immobilità più che strana. Si levò girando all’intorno uno sguardo ancor più torvo, tracannò d’un fiato una tazza ricolma d’un liquore color ambra e, calcandosi ben in capo il verde turbante cosparso di piccoli diamanti, aprì la porta e uscì. i Egli s’inoltrò in mezzo a un labirinto di trincee sfondate che parevano aver sostenuto più di un assalto, di terrapieni che non conservavano che l’ombra di se stessi, d’antiche armi infrante e di rottami d’ogni sorta, in mezzo ai quali facevano lugubremente capolino scheletri umani dalle vuote occhiaie e monti d’ossami. Nel passare, il pirata mise i piedi su di un teschio umano, che s’infranse crocchiando. «Maledetto!» esclamò la Tigre. S’arrestò sull’orlo della rupe. La notte era tempestosa; il vento ruggiva fra le trincee e sul tetto accuminato della capanna, sfilacciando la bandiera color di sangue che ondeggiava sulla cima di una grande antenna, e il mare muggiva furiosamente ai piedi delle scogliere, e i tuoni rombavano orrendamente fra le masse vaporose. Rie ; sad i Diede uno sguardo al villaggio di Gjehawem che stendevasi ai suoi piedi, l’asilo dei suoi cari tigrotti, i poi guardò attentamente il mare aspettando che un lampo lo rischiarasse.
Stette cinque minuti immobile, sull'orlo della rupe, colle braccia incrociate aspirando voluttuosa-
mente il vento infuocato del sud, lasciandosi flagellare dalla pioggia e collo sguardo fisso sullo sconvolto oceano, poi ritornò senza affrettarsi all'abitazione. Vuotò un’altra coppa e tornò a sdraiarsi sulla poltrona. Non vi restò che un istante; parve indeciso, ritornò alla porta tendendo l’orecchio e, facendo
i un brusco voltafaccia, si portò dinanzi l’armonium. del vento e del mare e qua io!» ruggito il fuori di Al -. egli esclamò «Qual contrasto! -
2. Attila: re degli Unni dal 434 al 453,
detto “il flagello di Dio” per la sua ferocia. 3. prahos: veloci imbarcazioni malesi.
Salgari
1050 Fece scorrere le magre dita sulla tastiera traendone alcuni suoni che a poco a poco presero l’apparenza di una romanza suonata con lentezza estrema, appena appena distinta fra lo scatenarsi della tempesta. A poco a poco andò accelerandosi quasi volesse esprimere il veloce pensiero del suonatore, per poi ritornare lenta e melanconica fino a morire tra i soffi del vento.
ANALISI DEL TESTO Sono evidenti i tratti che accomunano il personaggio salgariano con l'archetipo del «Corsaro» di Byron (cfr. T44): | — il terribile fuorilegge vive solitario come un’aquila in cima ad un’alta rupe, spargendo il terrore intorno a sé. Accanto alla ferocia e alla crudeltà, ha però tratti generosi (risparmia gli avversari valorosi) e cavallereschi (onora le donne prigioniere e le lascia andare libere); - le sue origini e la sua storia passata sono avvolte nel mistero, e ciò contribuisce ad accentuare l’alone mitico e leggendario che lo circonda; - è divorato da un segreto tormento (si saprà poi che è l’amore per una misteriosa fanciulla dai capelli d’oro, la «Perla di Labuan»); - alla tempesta del suo animo corrisponde lo sfondo tempestoso su cui campeggia; — anche i tratti fisici (al di là delle differenze razziali) richiamano quelli del Corsaro byroniano, soprattutto la vera e propria cifra iconografica costituita dalle chiome nere e dagli occhi lampeggianti e magnetici, che «schizzano fiamme» (il Corsaro ha «uno sguardo di fuoco», «a glance of fire»); — in più rispetto a Byron, si può osservare l’accentuazione dell’elemento esotico: nella figura stessa dell’eroe, che è malese, e nella congerie di oggetti disparati che lo circondano. L'impianto narrativo è quanto mai tradizionale, affidato a un narratore onnisciente che introduce, spiega, descrive. Se l’onniscienza trova un limite (il passato della Tigre), si tratta solo di un espediente per creare il senso del mistero e avvincere la curiosità. Il romanzo popolare punta su meccanismi elementari, che facciano immediata presa sul lettore: ignora . quindi le innovazioni e le sperimentazioni complesse della narrativa “alta” ad esso contemporanea (si pensi che due anni prima della Tigre della Malesia erano usciti IMalavoglia). Questi moduli resteranno invariati anche nella produzione salgariana dei decenni successivi, senza mai risentire delle grandi trasformazioni in atto nel romanzo. Anche la lingua è composta di espressioni molto banali e stereotipate, ma al tempo stesso fortemente accentuate, sempre per colpire facilmente la fantasia.
Sandokan e il Corsaro
di Byron
L’impianto narrativo
Il linguaggio
|T227. PROPOSTE DI L AVORO 1
n
. Confrontare con la redazione successiva, quella abitualmente in commercio, e individuarne le differenze.
2 . Confrontare con la descrizione del Corsaro di Byron (T44). In che cosa si manifesta la riduzione a livello popolare? 3. Osservare il lessico, ricercando in particolare le forme stereotipate.
4 . L'ambiente nel quale vive Sandokan è minuziosamente descritto: c'è corrispondenza tra lo spazio e la psicologia dell’eroe?
5. Sandokan è designato con la formula «terribile uomo»; è la stessa usata da Manzoni per l’innominato (I promessi sposi, cap. XIX). C'è qualche collegamento col personaggio manzoniano? 6. Lo scrittore Salgari ha dei ‘debiti con la letteratura romantica alta?
Scrittori italiani dell’età del Verismo
1051 6. Il romanzo d’appendice A87. Carolina Invernizio
I temi: la famiglia
I motivi macabri
Romanzo
e cronaca nera
Il populismo sentimentale
Le strutture narrative
Nata a Voghera nel 1858, morì a Cuneo nel 1916. Figlia di un funzionario governativo, si trasferì per alcuni anni a Firenze, dove nel 1881 sposò un ufficiale dei bersaglieri. Fu il perfetto esempio della donna di casa, schiva di ogni successo mondano. Proprio questo probabilmente le consentì di interpretare le attese di vastissimi ceti piccolo e medio borghesi, appassionati lettori dei suoi romanzi. Pubblicò il primo nel 1377 (Rina, o l’angelo delle Alpi); ne seguirono circa altri 130, usciti per la maggior parte a puntate sulla «Gazzetta di Torino» e l’«Opinione nazionale» di Firenze, con titoli ad effetto come Il bacio di una morta, La sepolta viva, Anime di fango. I romanzi della Invernizio presentano i temi e le strutture tipici del romanzo d’appendice. Al centro si colloca la famiglia, i cui valori vengono all’inizio infranti e alla fine ricomposti. Spesso motore della vicenda è l’adulterio, a causa di donne fatali e perverse che soggiogano gli uomini; oppure sono i casi di trovatelli, che attraverso peripezie e sofferenze ritrovano i genitori e vedono riconosciuti i loro diritti. All’interno della famiglia si compiono i riti più crudeli, indispensabile presupposto al trionfo del bene, dall’assassinio violento all’avvelenamento, all’infanticidio, allo stupro. Questi motivi garantiscono l'interesse morboso delle vicende e la presa sul pubblico. Tornano costantemente motivi macabri e terrificanti, l'ossessione della morte, i luoghi
bui e appartati, cantine, soffitte, dove si compiono efferati delitti e si occultano cadaveri. Attraverso questi motivi morbosi trovano sfogo gli impulsi inconfessabili di una sessualità repressa del pubblico. L’interesse per essi è affine a quello per la “cronaca nera”, avidamente letta proprio sulle pagine dei giornali, su cui uscivano anche le appendici della Invernizio. I suoi romanzi sono spesso la prosecuzione narrativa di questa tematica giornalistica, gonfiata ed esasperata. A] gusto morboso si accompagna poi il sentimentalismo populistico con cui sono visti personaggi di poveri e perseguitati, che vivono in squallidi quartieri dove alligna il vizio e la miseria. E tipica del romanzo d’appendice la presenza di questi temi “sociali”: un po’ perché essi suscitano facile commozione, ma anche perché fanno leva sulle frustrazioni di un pubblico in massima parte popolare, che si identifica nelle ingiustizie patite dai personaggi romanzeschi, e trova risarcimento fantastico alle proprie miserie nell’inevitabile “lieto fine”. A compensare queste frustrazioni, i romanzi dell’Invernizio propongono spesso il mito della promozione sociale. Il mutamento improvviso di condizione è consentito dall’espediente dell’agnizione, per cui l’eroina povera si scopre di nobili natali ed è reintegrata nel suo rango; oppure da matrimoni tra le figlie del popolo ed eredi di ricche famiglie. Ma contro la ragazza povera e onesta è in agguato l’eterna insidia dell’aristocratico e infame seduttore. ‘Le strutture narrative di questi romanzi sono meccanicamente ripetitive, come stereotipati sono i personaggi. Tutto è finalizzato alla suspense, equivoci, rivelazioni sensazionali, scambi di persona, travestimenti, oppure al forte shock e all’identificazione emotiva. Anche il linguaggio è rozzo e banale, contesto di frasi fatte enfatiche e goffe. Eppure tutto questo ciarpame ai suoi tempi fu letto avidamente da migliaia di persone, e costituisce pertanto una radiografia di eccezionale interesse di bisogni, istinti repressi, fantasie, terrori, aspirazioni di larghi strati della popolazione italiana di quegli anni, e delle condizioni sociali che li alimentarono.
Invernizio
1052 da Il bacio di una morta
La sepolta viva Alfonso, giunto dalla Spagna con la moglie Ines, viene a sapere che la sorella è morta, e ottiene di poterne vedere la salma, già rinchiusa nella bara. Il custode aveva con lentezza fatte girare le viti della cassa e, senza alcuno sforzo, ne sollevò il
pesante coperchio. Un gran velo bianco copriva il cadavere. Il custode l’alzò con una delicatezza ed un rispetto, strani in un uomo del suo mestiere, e scoperse la pallida e bella figura della contessa. Alfonso ed Ines congiunsero le mani, e per qualche minuto il loro dolore parve tacere, davanti alla serenità di quella figura, che dormiva del sonno tranquillo, solenne della morte. La contessa era vestita tutta di bianco: i suoi capelli sparivano sotto una cuffia di trina, che le scendeva fino sulla fronte: al collo aveva una croce di brillanti attaccata ad un nastro celeste. Ella era bella di una celeste purezza, e sotto quelle trine candide, con quel vestito bianco, pareva una vergine assopita nei pensieri del cielo. Il viso era pallido, dimagrato, ma non aveva quella lividezza spaventosa, proprio dei cadaveri. Nessuno, vedendola, avrebbe creduto alle sofferenze che furono il preludio della di lei morte. Uno sguardo sembrava scivolar fuori dalle pupille semichiuse; dalle labbra aperte ad un principio di sorriso, sembrava uscire ancora una parola di amore, di addio, per i suoi cari.
«Com'era bella» mormorò Ines portandosi il fazzoletto agli occhi. «Bella e buona» disse Alfonso con un brivido. E scuotendosi dall’estasi che l’aveva per un istante dominato, si gettò piangendo su quell’adorato cadavere. «Clara... mia Clara... - diceva singhiozzando - eccomi a te di ritorno... ma tu non mi vedi... non . odi il tuo povero fratello che ti è vicino; tu sei morta pensando che io t’avessi dimenticata... morta scrivendo... e pronunciando il mio nome... Clara... o mia Clara...». Le lacrime gli scendevano in copia sulle guance. «Sei pur bella!... - continuò - ma Dio solo vede ora i tuoi dolci sorrisi... Oh! Clara... dimmi chi ti ha resa infelice sulla terra, chi ti ha fatto morire così giovane?... parlami... parlami... sono Alfonso, il tuo fratello che amavi tanto...». S'interruppe con un palpito angoscioso, e le braccia indebolite gli caddero penzoloni lungo il corpo. Ines cercò di sorreggerlo, di trascinarlo lontano. Ma egli si svincolò da lei. Pareva non potersi saziare di guardare quel cadavere; egli s’ostinava a credere che colei che aveva tanto amato non poteva essere morta, e che forse stava per risvegliarsi. Era sì bella ancora quella morta! V’era ancora tanto fascino in quelle purissime forme, nella delicata posa! Possibile che l’anima di lei fosse svanita intieramente nello spazio, e non rimanesse ancora, in quel corpo reso inerte, un soffio di vitalità! Le pupille di Clara non avevano il color vitreo, appannato, oscuro, che sogliono prendere gli occhi degli estinti. Alfonso le guardava e gli pareva che esse ricambiassero i suoi sguardi. Eppure quelle pupille erano immobili, come la fronte di Clara era ghiacciata. Ma il giovane non sapeva staccarsene. «AN! se Dio volesse... se Dio volesse -mormorava come in delirio. - Clara... Clara... guardami ancora..
dammi un bacio... un bacio solo... per mostrarmi che mi hai perdonato». Ed appoggiò le sue labbra ardenti sulle labbra della povera morta. Ma allora gettò un grido, che risuonò lungamente in tutta la cappella, e si alzò barcollando come un ubriaco, coi capelli scomposti, gli occhi sbarrati. «Le sue labbra si sono mosse! - esclamò. - Ella mi ha baciato... ella è viva... sì, è viva!» Scrittori italiani dell’età del Verismo
1053 La donna fatale Clara rinviene, e narra la sua storia. Dopo un periodo di felice vita coniugale, da cui era nato un figlio, il marito Guido era stato sedotto siuna ballerina, Nara, per la quale tempo prima si era battuto in vello.
Ella si tirò il cappuccio sugli occhi e, mentre metteva il piede sul predellino della vettura, mancò poco non mandasse un grido soffocato e non cadesse sul selciato della strada. Nell’interno della carrozza v'era il conte Guido. Nara fece violenza su se stessa, salì, sedette presso di lui, e poi fece salire la cameriera, stringendole la mano per avvertirla e raccomandarle il silenzio. Ma appena la carrozza si slanciò di corsa, Nara prese vivamente una mano di Guido. «Voi... voi qui... signore?» «Io Nara... che non sapevo come parlarvi, come mostrarvi il dispiacere, che mi ha procurato il vostro improvviso svenimento. Perdonate il mio ardire...» «Oh! signore... non parlate così: non avete voi arrischiato un giorno la vostra vita per me? AN! se jo mi sono svenuta, voi solo sapete il perché: era l’emozione di vedervi dopo tanto tempo che non ho saputo nulla di voi, per quante ricerche io abbia fatte». Il cuore di Guido palpitò. «Voi avete ricercato di me, Nara?» «ON! sì... — rispose ella con voce debole e tremante — ero presente quando vi batteste col duca, vi vidi cadere a terra ferito». «Voi... voi... eravate là!?» «SÌ, io... vedete, se voi foste morto, sarei morta con voi! - esclamò con ingenuità — ma il chirurgo
assicurò che la vostra ferita era leggiera». «Infatti, il giorno stesso, potei partire per Firenze». «Fu per questo che io vi ho cercato inutilmente per tutta Parigi... e che il marchese di Chartre si rideva di me». Un lampo brillò negli occhi della ballerina, lampo sinistro, che Guido non poté osservare. Il giovane conte capiva che la sua condotta non era delle più lodevoli, capiva che aveva fatto male a seguire quella donna, si ricordava delle parole del marchese, ma ormai l'orgoglio di vincerla su tutti gli altri, il fascino che emanava da quella leggiadra creatura, tutto si era riunito per sconvolgergli il cervello, per fargli dimenticare che a casa, in quell’istante stesso, una donna pura, una donna casta, tutta sua, sognava di lui, faceva mille disegni sull’avvenire.
La carrozza si fermò dinanzi alla casa dove Nara abitava. Ella salì con Guido, e appena entrata nel suo gabinetto, congedò la cameriera, e gettando il mantello e il cappuccio da un lato, si mostrò a Guido nel provocante costume che aveva in teatro, all’ultima scena del ballo. Ma in quel gabinetto, illuminato da una luce blanda, misteriosa, la giovine acquistava mille seduzioni che sulla scena non aveva. La maglia color carnicino faceva spiccare il contorno delle sue gambe modellate stupendamente: le sue braccia, il suo petto nudo, sembravano ancor più sorprendenti sotto il contrasto del suo corsetto! di seta rossa e argento. Nella splendida capigliatura nera, era intrecciato un semplice ramo di mughetti: i suoi occhi brillavano più dei brillanti ch’ella portava agli orecchi. Il conte Guido sentiva il sangue salire a fiotti al cervello. «Voi cenerete con me» disse Nara con un sorriso inebriante. Guido, incapace di proferire parola, accennò di sì col capo. pic i Nara suonò con violenza il campanello.
«Stanotte ceno in questo gabinetto, - disse alla cameriera accorsa — cinque minuti di tempo per preparare ogni cosa!» E mentre la cameriera usciva: : «Io intanto... se permettete andrò a vestirmi». «No, rimanete così... siete tanto bella!» esclamò Guido.
1. corsetto: bustino, indumento femminile che sostiene il seno.
Invernizio
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Nelle pupille languide di Nara, brillò un raggio di contento?, i palpiti del suo cuore le sollevavano a sbalzi il petto. l Ella si sdraiò sulla pelle di tigre che era presso l’ottomana?, dove Guido si era seduto, e rivolse su di lui le pupille languide, umide, tendendogli le mani, che egli strinse fra le sue. _J «Chi me l’avrebbe detto - esclamò Nara - che avrei avuto a Firenze una così grande felicità! Vi ho ricercato tanto, Guido!»
Bisognava essere stupidi per non comprendere la passione ardente, che si covava nell’animo di quel l’ammaliante creatura; bisognava esser folli per respingerla. Guido non era né l’uno, né l’altro: quella donna gli dava le vertigini, quella donna l’ammaliava. Egli subiva l’impero* di tante attrattive, e tutto il suo essere si slanciava verso l’incantatrice ballerina, che gli poneva nel cuore de’ fremiti ignoti. L'immagine di Clara impallidiva al confronto di quell’ardente- creatura. L'amore timido, pudico, della giovane contessa, si ritraeva dinanzi alla passione fulminante di Nara. Presto la cena fu pronta; i due giovani vi fecero onore. Tuffarono insieme le labbra nello stesso bicchiere, ed i vini e i liquori, di cui entrambi abusarono, finirono per dar loro l’ebbrezza, per far dimenticare a Guido ogni altra creatura che non fosse quella che gli stava dinanzi. «Tu mi ami, Nara... mi ami? ...» mormorò. «Se ti amo? ... Ma dal primo momento che ti vidi, la mia anima fu tua... Malgrado la vita agitata che ho finora condotto, il mio corpo è puro come quello della fanciulla, che non si stacca mai dal fianco
della madre, che è protetta da un’affezione?’ santa e leale. Si è che io giurai a me stessa di non cedere che all’uomo che avessi amato, di non appartenere che a colui a cui avrei dato tutto il mio cuore. E quest'uomo sei tu. Io sono tua, Guido, tua... perché ti amo, ti amerò sempre!...» 2. contento: gioia. 3. ottomana: divano-letto.
4. impero: fascino prepotente, imperioso. 5. affezione: affetto.
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Il processo riparatore Sempre più succubo di Nara, Guido sì lascia convincere ad eliminare la moghe col veleno. Tuttavia, come si è letto, il fratello giunge in tempo a salvare Clara. Partono per Parigi, dove Clara, assunta l’identità di una misteriosa «Dama nera», riconquista il marito. Guido si sot-
trae così all’influenza di Nara, che, per vendicarsi, lo accusa di avere assassinato la moglie. Ma al processo avviene la sorpresa.
L'esame dei testimoni era finito, ed il Pubblico Ministero stava per alzarsi, cominciare la sua requisitoria, quando un usciere venne a parlare all’orecchio del presidente. La folla vide il magistrato sussultare, rivolgersi ai compagni, e dopo una breve e vivace discussione la sua voce tonò nell’ampia aula: «In virtù dei miei poteri discrezionali, chiedo che sia sentita un’altra testimone». E voltosi all’usciere: «Fate entrare!» esclamò. Tutti volsero ansiosi lo sguardo da quella parte, ed un sordo bisbiglio corse nella folla. La testimone annunziata comparve. Era una signora tutta vestita di nero, con un velo talmente fitto in viso, che sarebbe stato impossibile di riconoscerla.
Ma Guido, a quella vista, sussultò: divenne alternativamente pallido e rosso: una viva commozione
pareva invaderlo.
Nara, invece, provò qualche cosa di freddo al cuore, ed i suoi occhi si fissarono fiammeggianti sulla sconosciuta. Il pubblico faceva mille congetture: la curiosità, già vivamente eccitata, si accresceva sempre più. L’incognita s’inoltrò con passo fermo sino al banco del presidente, ed invitata a prestare giuramento, lo fece con una voce limpida, squillante, che ebbe un’eco in tutti i cuori. «Il vostro nome?» disse il presidente. ‘ Scrittori italiani dell’età del Verismo
1055 L’incognita con atto rapido alzò il velo, mostrando un viso pallido, ma celestiale, incorniciato da capelli biondi, come l’oro purissimo. «Sono la contessa Clara Rambaldi!» rispose ad alta voce. Fu come un colpo di fulmine! Guido, che all’apparire dell’incognita velata aveva creduto di riconoscere la Dama Nera, si vedeva dinanzi sua moglie!... Capì, indovinò tutto, e rimase con gli occhi dila-
tati, le labbra convulse, le narici frementi.
Nara, atterrita a quell’apparizione, si nascose colle mani il viso, ma poi sollevandolo: «Quella donna mentisce... - gridò con audacia. - La contessa Clara è morta...»
Presidente, giudici, avvocati, giurati, si guardavano in viso, come colti da stupore. Tra la folla era corso un brivido di spavento; la gente si chiedeva se sognava od era sveglia. Ma il presidente, rimessosi subito dalla sorpresa, calmò gli animi colla sua parola dignitosa, moderata; poi, volgendosi alla contessa Rambaldi che sola era rimasta tranquilla, esclamò: «Ripetete il vostro nome!» In mezzo al silenzio della sala, la voce della Dama Nera sorse limpida, affascinante. «Sono la contessa Clara Rambaldi, creduta morta, e come tale deposta nella cassa e portata al cimitero dell’Antella per esser seppellita. Ma Dio ha voluto salvarmi, e nella sua bontà non ha permesso che io fossi sepolta viva!» Un fremito glaciale percorse l’uditorio. «Perché non siete comparsa prima?» chiese il presidente. «Perché soltanto oggi son giunta a Firenze e ho saputo l'accusa che pesava su mio marito. Io ero decisa a non risorgere per il mondo, a non turbare la pace di chi credevo felice; ma siccome egli ha bisogno di me, siccome egli viene accusato di un delitto che non ha commesso, vengo qui per testimoniare dinanzi a tutti la sua innocenza». Il conte non poté resistere a siffatta scossa. Essere proclamato innocente da lei, che aveva tanto sofferto per causa sua, che egli aveva negletta, respinta, avvelenata, che per lui mancò poco non fosse sepolta viva, era cosa da smarrire il senno, e, sopraffatto dall'emozione, dalla vergogna, ruppe in un
pianto dirotto.
ANALISI DEI TESTI Il moderno La donna fatale
I valori familiari
Nel primo passo si può notare il gusto macabro, che sconfina decisamente nella necrofilia, e l’effettaccio a sensazione della morta che rivive. Nel secondo spicca il motivo della donna fatale, perversa e divoratrice di uomini, che è un tema largamente presente anche nella letteratura “alta” (in Verga, in D'Annunzio, in Fogazzaro, in Flaubert, in Wilde, in Huysmans), e che qui è degradato a stereotipo, per il consumo immediato di un pubblico “basso”. Naturalmente, obbedendo al cliché, la donna fatale ha i capelli neri. Nel terzo passo, si ha la conclusione sensazionale e lai sorpresa, che però ha anche laa funzione di confermare i che ? TunzI( i valori partecipati dal pubblico, poiché ricostituisce i valori familiari violati.
228b, 228c. PROPOSTE DI LAVORO 1. Clara e Nara rappresentano due modelli antitetici di donna; verificare tutte le opposizioni che le caratteriz3 zano, fisiche e psicologiche. 2. Analizzare lo stile dei brani: il lessico è quotidiano? Ricercato? La sintassi complessa? E importante il dialogo? Ci sono frasi stereotipate? Quali caratteristiche presenta l’aggettivazione? 3. Quali generi della letteratura “alta” la scrittrice utilizza in questo romanzo? (Riflettere sul motivo del macabro, su quello del delitto e del processo, sulla vicenda d’amore). + Cfr. La critica, C58
Invernizio
1056
i 7. La narrativa femminile
A88. Sibilla Aleramo È lo pseudonimo di Rina Faccio. Nata ad Alessandria nel 1876, trascorse l’adolescenza in un borgo marchigiano, dove si sposò sedicenne. Separatasi dal marito nel
1901, andò a vivere a Roma, dove scrisse il primo romanzo, Una donna (1906), che ebbe grande successo. A Roma si dedicò ad attività sociali, impegnandosi nelle scuole dell'Agro Romano da lei fondate con Giovanni Cena per lottare contro l’analfabetismo di quelle zone depresse. Seguirono poi vari volumi di versi e di prose. Morì a Roma nel 1960.
HM Una
donna
È un romanzo fortemente autobiografico, che narra la storia di una giovane donna, sposata ad un uomo ottuso e brutale, la quale progressivamente prende coscienza e si libera dell’oppressione di un ambiente familiare e provinciale retrogrado e mortificante. La liberazione ha come strumento l’attività intellettuale, la scrittura letteraria e saggistica che la protagonista inizia nella sua prigione casalinga e provinciale, per poi trasferirsi a Roma, dove viene a contatto col movimento femminista e col socialismo.
Una presa di coscienza Dai capitoli XII e XIII
E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia,
una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana. E come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che
non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia irresistibile per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte sino a recidere in sé i più profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Quasi inavvertitamente il mio pensiero s’era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola: emancipazione che ricordavo d’aver sentito pronunciare nell’infanzia, una o due volte, da mio padre seriamente, e poi sempre con deri-
sione da ogni classe d’uomini e di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran folla delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute, eravamo degli esemplari. E come un religioso sgomento m’aveva invasa. Io avevo sentito di toccare la soglia della mia verità,
sentito ch’ero per svelare a me stessa il segreto del mio lungo, tragico e sterile affanno [...]. Mi stimavo fortunata nella mia solitudine. L’aspro calvario era ben sempre sotto a’ miei occhi; guardandolo restavo affascinata dal pensiero delle innumeri creature che ne salivano uno uguale senza trovare alla vetta neppure una croce su cui attendere una giustizia postuma. Donne e uomini; agglo-
merati e pur così privo ognuno di aiuto! Quella l’umanità? E chi ardiva definirla in una formula? In realtà la donna, fino al presente schiava, era completamente ignorata, e tutte le presuntuose psicologie dei romanzieri e dei moralisti mostravano così bene l’inconsistenza degli elementi che servivano per le loro arbitrarie costruzioni! E l’uomo, l’uomo pure ignorava se stesso: senza il suo complemento, Scrittori italiani dell’età del Verismo
d 1057 solo nella vita ad evolvere, a godere, a combattere, avendo stupidamente rinnegato il sorriso spontaneo e cosciente che poteva dargli il senso profondo di tutta la bellezza dell’universo, egli restava debole o feroce, imperfetto sempre. L’una e l’altra erano, in diversa misura, da compiangere [...]. Qualche settimana dopo mio marito venne a casa tutto preoccupato. Io avevo ricevuto il dì stesso
una lettera di una scrittrice illustre che mi invitava a collaborare in un periodico femminile che stava per fondare, incaricata da una nuova Società editrice. Mi si offriva un modesto compenso. Speravo vederlo rallegrarsi. Al contrario mi intimò di tacere. Egli aveva saputo che l’ingegnere fidanzato di mia sorella aveva subìta una perquisizione. In quel momento un’onda di reazione percorreva l’Italia. Mio marito cercò la rivista che portava il mio articolo, alcune lettere di antichi e nuovi corrispondenti che me ne complimentavano, e buttò tutto sul fuoco: vi aggiunse un mucchio di giornali e di riviste; indi si mise a frugare tra le mie carte... Quell’ora emerge nella mia memoria fra le più amare e insieme le più profonde della mia vita: notando la meschinità della creatura a cui ero aggiogata, e vedendomi così definitivamente divisa in ispirito e sola, sentii il brivido che incutono certi spettacoli in cui il grottesco si mescola al sublime.
Passato quel panico, continuai a scrivere e a pubblicare. Cominciavo a ricevere echi delle mie idee in lettere e in articoli. Un professore italiano, riparato di recente in Svizzera, aveva iniziato meco una corrispondenza attiva. Sotto i suoi auspici una giovane dottoressa veneziana mi aveva pure scritto
e un’amicizia epistolare s'era presto annodata fra i nostri due spiriti ferventi. La mia immaginazione si popolava di figure disparate, che prendevano curiose fisionomie nell’indeterminatezza dei contorni. Di taluni de’ miei corrispondenti non tentavo neppure di foggiarmi l’immagine nella mente: uno scienziato genovese, ad esempio, tutto dedito alla propaganda morale fra i marinai, era riuscito a divenirmi carissimo e oggetto di culto devoto, senza che pensassi di conoscere nulla della sua vita privata, della sua età. Di altri, di certi giovani che pubblicavano articoli o versi negli stessi periodici in cui collaboravo, vedevo invece subito i visi timidi o fatui. Le donne mi destavano maggior curiosità: le avrei desiderate tutte belle; talune mi mandarono i loro ritratti, e questi erano davvero tutti graziosi...
Sorelle? Chi sa! Qualche rapida delusione mi pose in guardia. Via via intravvedevo lo stato delle donne intellettuali in Italia, e il posto che le idee femministe tenevano nel loro spirito. Con stupore constatavo ch’era quasi insignificante; l’esempio, in verità, veniva dall’alto, dalle due o tre scrittrici di maggior grido, apertamente ostili - oh ironia delle contraddizioni! - al movimento per l'elevazione femminile. Di ideali d’ogni specie, d’altronde, tutta l’opera letteraria muliebre! del paese mi pareva deficiente?: grandi frasi vuote, senza nesso e senza convinzione. E nell'azione anche, com’eran rare le donne! La maggior parte straniere. Le giovanissime, provviste di titoli accademici, avevano quasi disdegno per la conquista dei diritti sociali. Fra queste era la mia nuova amica di Venezia, singolare ingegno critico. Fra le attempate più d’una mi lasciò indovinare d’essere stata torturata e logorata dalla vita; e apertamente mi esortavano a non gettarmi nella mischia, a temperare i miei entusiasmi, a perseguire qualche puro sogno d’arte se proprio non mi bastava l’amore del mio bimbo e del mio nido. Sincere, certo. Le loro lettere mi
lasciavano perplessa. 1. muliebre: femminile. 2. deficiente: priva.
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Il teatro del grande attore 1. Il grande attore mattatore La generazione del “grande attore”
Una questione terminologica
Quando Gustavo Modena morì, nel 1861, Adelaide Ristori aveva 39 anni, Ernesto Rossi ne aveva 34 e Tommaso Salvini 32. Le età che abbiamo appena elencato servono a mettere in evidenza che si trattava di una generazione ben precisa, la generazione successiva a quella di Modena che moriva a 58 anni. Si tratta, quindi, della generazione che avrebbe dovuto portare avanti la “riforma” del maestro (Modena era stato maestro di Salvini e Rossi, e di altri ancora, tranne che della Ristori). Ma, al contrario e quasi in opposizione, venne invece fuori quella che si suole definire la generazione del “grande attore” che se per ciò che attiene al tipo di recitazione prosegue, almeno fino a un certo punto (e vedremo quale), sulla strada segnata dal maestro, non fa certamente altrettanto per ciò che riguarda gli altri aspetti del programma innovatore modeniano. A questi grandi seguiranno poi Giacinta Pezzana e Giovanni Emanuel, nati rispettivamente . nel 1841 e nel 1848, che sono i maggiori rappresentanti della seconda generazione dei successori di Modena. La terza generazione è costituita da Ermete Novelli, Ermete Zacconi e Eleonora Duse nati rispettivamente nel 1851, nel 1857 e nel 1858. Tra la Ristori, che è la più vecchia, e la Duse, che è la più giovane, si collocano le tre generazioni che hanno fatto grande, e di fama mondiale, il teatro italiano. Questo periodo, che copre tutta la seconda metà dell’Ottocento e la prima parte del Novecento, viene definito quello del teatro del “grande attore” e del “mattatore”. La storiografia teatrale non ha ancora sistemato definitivamente la questione terminologica per ciò che riguarda l’uso dei due termini, “grande attore” e “mattatore”. Chiarito che “grande attore” non indica semplicemente un attore grande ma un determinato modo di concepire il teatro (infatti, si dice, per esempio, “arte grand’attorica”, a significare proprio l’arte di quel momento storico), il periodo del “grande attore” sarebbe quello della Ristori, di Rossi e di Salvini mentre quello del “mattatore” risulterebbe quello di Novelli e Zacconi. Questa classificazione mostra un primo evidente difetto che è quello di lasciar fuori la generazione di mezzo - che noi riassumiamo nei nomi della Pezzana e di Emanuel - e di mostrare imbarazzo nei confronti della Duse che apparterrebbe, sì, alla generazione dei “mattatori”, ma che vera “mattatrice”, almeno del tutto, non fu. Ma questo non è l’unico inconveniente nel distinguere tra grande attore e mattatore (d’ora innanzi, chiarita la questione terminologica, li seriveremo senza virgolette). Il fatto è che distinguere è difficilissmo dal momento che ogni grande attore è già un mattatore e - come vedremo analizzando la struttura della recitazione grand’attorica - ogni mattatore è sempre ancora un grande attore, pur con tutte le diversità che non possono non esserci tra generazione e generazione; in conclusione, quindi, secondo noi, non è il caso di distinguere tra i due termini.
Adelaide Ristori,
prima attrice.
Il riscontro sociale del grand’attoremattatore
Teatro 8
Gioverà soffermarsi un attimo sul termine “mattatore”. L'origine è incerta, probabilmente deriva dallo spagnolo matador. Ma che il termine sia derivato o no dallo spagnolo, oltre a ricordarci delle favolose tournée in Sud America dei nostri grandi attori, veicola certamente un’idea di “grandezza”. Grandezza un po’ spagnolesca, un po’ eccessiva, legata a una esaltazione della propria persona da cui, in un modo o nell’altro, nessun grand’attore andò esente. E il mattatore, questo atteggiamento, oltre a averlo nei confronti del pubblico, lo ha anche con i propri compagni d’arte e, infine col testo. E tutto ciò, lo vedremo subito, è già presente nella recitazione del grande attore; e in alcuni, al massimo grado. Ma il ruolo del grande attore-mattatore non è solamente un ruolo teatrale bensì anche un ruolo sociale che si colloca in modo ben preciso nella scala dei valori del tempo. E non è certo un caso che inizi a affermarsi verso la metà dell'Ottocento e che trionfi poi nell’ultimo trentennio del secolo giungendo fino alla prima guerra mondiale, dal momento che risulta essere un’evidente incarnazione di quell’individualismo che si afferma così decisamente a partire dall'età romantica. In teatro il grande attore-mattatore rappresenta ciò che nella vita economica è il grande imprenditore dell’età del liberalismo. È lui che rischia su se stesso tutto il suo capitale - e il cosiddetto “rischio d'impresa” è uno degli elementi di base del programma liberistico -, egli stesso è la propria impresa. Gli altri attori e tutti coloro che partecipano allo spettacolo sono non solo i suoi sottoposti ma anche i suoi scritturati (e cioè, con termine più generale, ‘dipendenti’), la base sia economica che artistica su cui troneggia la sua solitaria grandezza.
1111
è
d ì
Struttura della recitazione
grand’attorica
Infatti la grandezza del grand’attore-mattatore è solitaria. Ma per capire questa struttura dobbiamo fare un passo indietro. l Modena, con la sua riforma, oltre a impostare un tipo di recitazione basata, come abbiamo visto, su una sorta di realismo grottesco, aveva anche tentato, andando incontro a un grave insuccesso economico, di formare una compagnia “di complesso” (o d’“insieme”) che superasse la divisione in ruoli e dove ogni attore avesse la parte adatta ai propri mezzi. Quando però le cose andarono male, dopo la sua partecipazione diretta ai moti del 1848, egli si ridusse a recitare pochi mesi all’anno, anche a causa della sua malferma salute. In questo periodo, che passò a Torino e comunque nel regno sardo-piemontese dal momento che gli era interdetta, per ragioni politiche, l’entrata negli altri stati d’Italia, egli usava “affittare” una compagnia secondaria: pochi giorni di prove e poi subito le recite in circuiti di provincia nelle cittadine piemontesi e liguri, oltre a Torino e Genova. Il repertorio era quasi sempre lo stesso: Saul di Alfieri e Luigi XI di Delavigne, soprattutto, che erano i suoi due cavalli di battaglia e che poteva recitare quasi da solo. Ora è evidente che così dicendo s’intende una struttura della rappresentazione in cui gli altri attori sono ridotti a “pertichini” — il termine è del tempo —- e cioè a semplici presenze che, sul palcoscenico, non hanno altra funzione che quella di fornire un “appoggio” (di qui probabilmente l’etimologia: pertica= appoggio) all’esibizione di colui che è primo e, in questo modo, anche solo a reggere lo spettacolo: appunto il grande attore-mattatore.
2. Il mercato del teatro e i gusti del pubblico Il mercato del teatro
Tommaso Salvini. Il mercato
giudicato da Modena
E chiaro che questo tipo di struttura spettacolare si può comprendere solamente se si tiene conto del mercato teatrale, e cioè di quella particolare forma di commercio che è il commercio di “prodotti” dell’allora nascente industria dello spettacolo. E evidente che il commercio teatrale ha delle sue norme che si appoggiano, sostanzialmente, sulla regola di base su cui si fonda qualsiasi tipo di commercio: la legge della domanda e dell’offerta. Si offre un “prodotto” che risponde a una domanda, a una richiesta non necessariamente esplicita del pubblico. (Per ciò che riguardai “prodotti” dell’industria culturale la “domanda” è spesso implicita, almeno in un primo tempo). Il pubblico decreta il successo o l'insuccesso dell’intrapresa spettacolare affollando o no la sala e quindi permettendo all’impresario-capocomico di guadagnare o, al contrario, decretando la sua rovina economica. É ancora evidente che i gusti del pubblico - tranne casi rarissimi di pubblici estremamente raffinati ma ristretti socialmente e quindi poco influenti dal punto di vista economico - sono quello che sono. E l’eterno conflitto, che data dal XVII secolo ma che certamente assume forme esasperate proprio a partire dal primo Ottocento, tra il pubblico che vuole divertirsi e l’attore che vuole farlo pensare, che pretende di avere successo non dando al pubblico ciò che questo richiede ma, al contrario, esprimendosi in scena secondo la propria poetica artistica. E il pubblico sceglie: nel periodo storico di cui stiamo parlando al teatro di rappresentazione preferisce l’opera lirica che lo diverte e distrae assai di più. Ma lasciamo ancora una volta la parola a Modena stesso che, nel 1845, risponde al commediografo Giacinto Battaglia che gli aveva presumibilmente (non abbiamo la lettera di Battaglia) proposto di formare insieme una compagnia con dichiarati intenti d’arte: Quanto alle cose lusinghiere che mi dite sulla mia influenza nell’avvenire dell’arte, amico mio, soffrite che vel ripeta, non ne faremo nulla. Una Compagnia girovaga, ristretta poi come la mia, alla sola Lombardia e Toscana!, non può dar carne ai miei sogni d’altra volta?. Le provincie non rispondono alla chiamata, gusto varia ogni trenta miglia, i teatri sono in mano dei nobili e dei ricchi che Lombardia e To: ma esigono da noi un triscana: Modena, per non solo non vogliono dotare? le Compagnie comiche4; opere in musica. Ho delle impresari gli impegnarne? per incassi nostri sui buto ragioni politiche, in quel periodo non un bel pregare, gridare che uccidono l’arte drammatica, indispettirmi; è tutt'upoteva recitare negli
6.
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Moi vogliono 1 DRCrA: altri stati italiani. 2. miei ... volta: si gnia dei giovani (cfr. Teatro 7, $ 5). riferisce a quei so3. dotare: sovvenzionare, si direbbe oggi. gni che sono alla 4. comiche: comico, nell’Ottocento, sibase — nel ‘43, e gnifica, in senso lato, “attore”; qui, dunquindi solo due anni que, si deve intendere: compagnie dramprima di questa letmatiche. ; tera — della forma5. impegnarne: probabilmente vuole dire zione della Compa-
(Epistolario di Gustavo Modena, cit., p. 69)
che gli impresati utilizzano il ricavato del tributo sugli incassi delle compagnie drammatiche per dare in anticipo, si direbbe oggi, una somma - che valga come impegno a esibirsi in quel teatro - alle compagnie d’opera. 6. tutt'uno: inutile.
Il mercato del teatro e i gusti del pubblico
1112 Ed ecco quali sarebbero invece, per Modena, le condizioni necessarie per poter perseguire finalità d’arte: 1. teatro Re: importante teaPer creare una buona Compagnia bisognerebbe che avessi il teatro Re! gra-
tro milanese dove recitava abitualmente la Compagnia copi LES
tis, senza nessun peso di affitto, che potessi farvi agire i miei attori due sole volte,
tre volte per settimana, che avessi denaro da sciupare per prendere allievi a doz(ibidem) zine, provarli, rigettarne gli inetti, e per aver agio di istruirli.
Di qui la conclusione: 1. débuts: con questo termine che letteralmente vorrebbe dire “esordio”,
“de-
Questo è impossibile: dunque? non ci pensiamo più. Torno a dar dei débuts}, e mi stabilisco a Milano. La mia Compagnia è già licenziata [...]. Ecco dove vanno a finire le mie sciagurate illusioni. Vanno a raggiungere quelle altre... inno-
butto”, qui Modena probabi
—inate?... che pagai più care.
DR i ina oggi, con termine inglese, 24 : 3 . definiamo recital: 2. innomi-
E voi pure farete bene a persuadervi che anche in fatto d’arte drammatica > È mente. le cose stanno come stanno, perché non possono stare diversame (Op. cit., pp. 69-70) -
nate: le illusioni politiche.
I gusti
del pubblico
Ancora una volta in questa lettera - come in molte altre - Modena risulta un analista perfetto delle condizioni del nostro teatro di rappresentazione della sua epoca. Ma poiché le cose dell’industria teatrale stanno proprio come egli dice, ben si capisce che sia proprio lui, nella contraddizione con se stesso cui lo costringe il mercato per sopravvivere, a dar vita, e se pure suo malgrado, alla figura ancora embrionale del mattatore. Non bisogna però credere che la struttura recitativa grand’attorica risponda esclusivamente a ragioni economiche. Certo questo vale per Modena: infatti quello economico fu il motivo principale che gli fece abbandonare il tentativo di “riformare” una compagnia. Ma non accadde la stessa cosa per i suoi successori che si pongono, nei confronti del pubblico, in ben altro modo. Modena aveva cercato di “educare” i suoi spettatori, ma aveva dovuto ripiegare, per usare una metafora militare, su una linea di difesa. Tutti gli altri, a partire da Adelaide Ristori, hanno, nei confronti del pubblico, un atteggiamento di totale sottomissione anche se vogliono, ma non c’è contraddizione tra le due cose, cercare di sottometterlo a loro volta alla propria bravura.
3. La prima generazione (Ristori, Salvini e Rossi) Adelaide Ristori
Ecco la Ristori, ormai sessantacinquenne che rievoca la sua vita: 1. m’imponesse!: mì si Imponesse.
Non è a dire come il pubblico m’imponesse!! Fin da giovinetta mi venne inculcato tale rispetto e tale soggezione di esso, che mi abituai a non mai confondermi.
A. RISTORI, Ricordi e studi artistici, Torino-Napoli, L. Roux e C., 1887, p. 52
Da questo presupposto facilmente deriva un rovesciamento di posizione, per ciò che riguarda la “compagnia di giro” e quindi l’ineluttabile variare del pubblico nei confronti di ciò che pensava Modena. Quello che per lui era un freno insormontabile per l’arte — e cioè cambiare pubblico quasi ogni sera e dover pertanto subire i suoi gusti anziché imporgli il proprio — diventa, al contrario un dato positivo per la Ristori: Le condizioni dell’arte drammatica in Italia, specialmente a quei tempi!,
Adelaide Ristori nella Maria Stuarda
di Schiller.
1.aqueitempi: quila Ristori si riferisce agli stessi anni di cui parla Modena e cioè gli anni quaranta; 2, cui: che: 3. a mio grado: a mio piacere.
non consentivano che i corsi delle recite nelle diverse città abitualmente oltrepassassero i 30 o 40 giorni; raramente poi le recite si prolungavano per due mesi. Il cambiare così sovente di pubblico, aveva grandissimi vantaggi. Non era necessario aver affiatato uno svariato repertorio, e il pubblico non aveva tempo d’abituarsi agli attori, a detrimento degli entusiasmi. Qual potere non ha sovra —una mente creatrice d’artista quel vivo e continuato fascino del pubblico! Così —dunque ne avevo sempre davanti a me uno nuovo, cui? facilmente scuotevo a —mio grado?, ed il quale, grazie alla corrente magnetica, che prontamente si stabiliva fra noi (condizione necessarissima per me), mi comunicava quelle scintilleche completano l’artista, e, senza le quali, ogni studio porta l'impronta dell’aridezza, della deficienza. (Op. cit., p. 13)
I vantaggi che per la Ristori ha il cambiare spesso pubblico sono tutti legati al “teatro commercio = come lo definiva Modena. Infatti il primo di questi vantaggi è costituito dal fatto che il pubblico non ha, in questa struttura di compagnia di giro, il tempo di “abituarsi agli attori” Teatro 8
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Il processo di “identificazione”
a) l'attore compare in prima persona
b) l’attore recita un personaggio
perché questo andrebbe “a detrimento degli entusiasmi”. Risulta evidente che se Modena intendeva educare il pubblico a una forma più alta di arte teatrale, la Ristori, con questa affermazione, dimostra di aver solamente intenzione di affascinare il pubblico con le sue esibizioni attorali: che il pubblico “capisca” o no è per lei del tutto irrilevante, quello che conta è che si diverta se pure di quel divertimento particolare che è demandato al teatro di rappresentazione, non tanto “distraendosi” quanto “identificandosi”. Cerchiamo ora di chiarire quale è il meccanismo dell’identificazione. Per incominciare dovremo notare che il pubblico può identificarsi in molti modi con un attore. L'esempio più evidente può essere dato dall’immedesimazione che avviene nei confronti di uno sportivo. Un corridore ciclista non è un attore anche se è certamente un uomo di spettacolo, se pure di quel particolare tipo di spettacolo che è lo spettacolo sportivo. Egli fa spettacolo mettendo in scena se stesso e la propria bravura. Chi segue una corsa ciclistica si identifica, si immedesima nel suo campione preferito: da questa identificazione nasce il piacere di assistere all’avvenimento e tutto ciò che ne deriva: per esempio quello strano stato di abbattimento che si impadronisce del “tifoso” — espressione del gergo “sportivo” per definire quella che noi qui chiamiamo identificazione — se il suo campione non ha vinto, oppure di esaltazione in caso di vittoria, eccetera. Se ora passiamo dallo spettacolo sportivo a quello teatrale - lasciando stare ciò che sta in mezzo, come lo spettacolo circense, per esempio — ci accorgiamo che anche in teatro possiamo avere un'esibizione in cui l’attore compare in prima persona e una, invece, in cui l'attore si è a sua volta immedesimato nel personaggio. Il primo caso, a lasciar ora stare tutto ciò che accadde dal Medioevo alla Commedia dell’ Arte e di cui abbiamo parlato nei volumi precedenti, può risultare ancora oggi evidente in un recital di poesie: lì è l’attore che si presenta in un abito che egli ha scelto come abito di scena ma che è il suo abito di scena e non quello del personaggio che sta recitando; la scenografia è di solito composta da un drappeggio e da un leggìo - quando l’attore non recita a memoria - e così via. Ma quello che più conta è che l’attore non fa altro che mettere in evidenza se stesso in quanto interprete di un testo poetico e il pubblico è interessato a lui, alla sua esibizione. Le cose cambiano e si complicano se l’attore “recita” o “interpreta” un personaggio. Abbiamo visto (cfr. Teatro 7, $ 5) come Modena recitasse in modo particolare il personaggio. Ciò che del testo a lui interessava era l’«orditura», la «macchina» (termini suoi): il personaggio lo “creava” lui, l'abbiamo letto nel brano di Dall’Ongaro. Questa caratteristica passerà tale e quale nel grande attore-mattatore. Ma il personaggio che lui creava era un personaggio particolare, né tragico né comico, grottesco come lo abbiamo definito. Quei passaggi dal tragico al comico — di cui ci informano Bonazzi e tanti altri testimoni del tempo — venivano realizzati con una presenza dell’attore all’interno del personaggio. Gioverà un esempio a rendere meno arduo questo concetto. Modena, per recitare la Divina commedia si era inventato un personaggio Dante che, in costume d’epoca, dettava a un amanuense il suo poema. Grazie a questa struttura spettacolare egli poteva intervenire sul testo, modificandolo e variandolo. Ecco la testimonianza di uno che lo aveva visto. Certo così egli rinunciava coraggiosamente a tutti quegli effetti plastici al
Adelaide Ristori in una scena della
Maria Stuarda di Schiller.
quali si presta il racconto [...] ma si apriva un campo vastissimo ai commenti, alle interpretazioni che egli mirabilmente estrinsecava nelle pause, nelle sospensioni delle dubbiezze di quella artistica dettatura. Di queste dubbiezze, di queste sospensioni, ne rammento una arditissima.
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[omessa
Nel canto XIX dell'Inferno — e precisamente alla terzina: O Costantin, di quanto mal fu matre, Non la tua conversion, ma quella dote ; Che da te prese il primo ricco patre dopo il primo verso, proseguendo rapidamente come incalzato dal pensiero, cominciava il secondo così: E la tua conversion... E qui si fermava - ma poi, dopo una breve pausa, con una intonazione di voce più rimessa!, esprimendo con essa e con un moto della mano e del labbro il pentimento della riflessione, quasi facesse una concessione al sentimento del futuro lettore, riprendeva: Non la tua conversion... S proseguiva.
(L. Fortis, Ricordi d’arte. La compagnia sarda e Gustavo Modena, in «Nuova Antologia», 1 giugno 1893, pp. 498-499)
1. rimessa: dimessa.
La prima generazione (Ristori, Salvini e Rossi)
È chiaro che in un caso come questo l'attore non si vuole identificare totalmente nel personaggio ma solo in parte: egli opera, nei confronti del personaggio, qualcosa che abbiamo definito come uno “spiazzamento ” (cfr. Teatro 7, $5). È cioè l’attore che spiazza se stesso nei confronti del personaggio e che slitta (il termine “slittamento” è, lo vedremo nel prossimo volume, dovuto a Petrolini)
fuori dallo stesso mostrandosi in prima persona. E infatti, Leone Fortis che scrive nel 1893 e cioè in piena epoca naturalistica quando ormai l’identificazione col personaggio è divenuto un dogma, benché fosse stato grande estimatore e amico di Modena, commenta in questo modo: Certo in queste arditezze spiccava troppo l’individualità dell’artista — come pensatore e filosofo. (Ibidem)
Adelaide Ristori nelterzo atto della pa Antonietta
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L’“eclissi dell'autore” (cfr. Parte III, Giovanni Verga e il verismo italiano, $ 1), nonera stato affatto un imperativo categorico per Modena come lo sarà invece . per il naturalismo: tanto è vero che egli stesso, lo scrive in una lettera a un amico, ammette di esagerare nella foga ideologica per paura che il pubblico non capisca, ma se ne DIS fa un problema estetico e non di teoria dell’arte. Completamente diverso l'atteggiamento della Ristori, di Rossi e Salvini. La prima, già fin
dall’Introduzione del suo libro di ricordi, usa esplicitamente il termine “immedesimazione”:
1. proprie: loro.
Sotto i climi più diversi mi fu dato rappresentare la parte di protagonista in capolavori immortali, e riconobbi che gl’impeti delle umane passioni suscitavano sensazioni intense fra i popoli d’ogni razza. Posso dire altresì che nel proposito da me assunto, e spesso greve per le mie forze, ho spiegata tutta la mia coscienza d’artista, cercando sempre d’immedesimarmi coi personaggi che io rappresentava, studiando a tale scopo i costumi dei loro tempi, ricorrendo alle fonti storiche per ricostituire la loro personalità fisica e morale nelle loro manifestazioni, ora mansuete, ora terribili, ma sempre grandiose. Gli applausi di cui i più eletti uditori mi onorarono, furono certo adeguata ricompensa ai miei sinceri sforzi; ma debbo aggiungere che le più vive soddisfazioni d'animo mi provennero appunto dall’essere riuscita ad identificarmi coi personaggi che rappresentava e ad ispirarmi alle proprie! passioni. Quante volte uscii di scena coi nervi contratti, affranta dalla fatica e dalla commozione, ma sempre felice del mio successo perché adoravo l’arte mia! (A. RISTORI, op. cît., pp. XI-XII)
dello spettacolo: teatro in musica e teatro di —
Queste parole di Adelaide Ristori possono essere ritenute esemplari di una sensibilità che perdura tuttora, quella per cui l’attore s’identifica a tal punto col personaggio che sta recitando da portarne le conseguenze nella vita. Abbiamo sottolineato i due termini “immedesimarmi” e “identificarmi” perché sono quelli che ci interessano: come si vede la Ristori è ben conscia di quale sia la sua poetica teatrale. Ma torniano ora alla questione del rapporto con l’opera lirica per meglio comprendere l’importanza della struttura recitativa del grande attore-mattatore, così come l'abbiamo chiarita nelle pagine precedenti, all’interno del mercato dello spettacolo. L’opera lirica, grazie alla forza della musica, attrae lo spettatore in mondi immaginari, di sogno. Il teatro di rappresentazione,
rappresentazione
ner sua natura, non ha la stessa forza. Si tratta, pertanto, di far sì che il teatro di rappresenta-
L’identificazione
zione sia messo nella condizione di far concorrenza all'opera lirica. Il processo recitativo che permette al pubblico di sognare - all’interno di un teatro non “lirico” ma “di prosa” - è quello dell’immedesimazione. Immedesimandosi nel personaggio l'attore permette allo spettatore, a sua volta, di identificarsi in lui. Viene eliminato in questo modo quel margine di critica che il tipo di recitazione modeniana non solo permetteva ma esigeva. Ora, attraverso l’identificazione nel personaggio, si pretende, al contrario, un’identificazione del pubblico nell’attore recitante totalmente a-critica dal momento che la critica impedisce il sogno. Questo tipo di recitazione, che intende far sognare, espunge ineluttabilmente la parte “comica” del personaggio drammatico: e d’ora in poi ci troveremo di fronte a una galleria di personaggi tutti terribilmente seri, rigidi, in quanto non dialettici. Ma il processo di identificazione nel personaggio ha anche un’altra valenza, quella di essere
Il mercato
e il naturalismo
Teatro 8
il modulo recitativo principale del naturalismo a teatro. Infatti nel momento in cui si vuole che il teatro imiti la vita è chiaro che non è più pensabile che l’attore possa recitare in modo straniato e cioè mostrando chiaramente che sta recitando. L’imitazione della vita di tutti i giorni
1115
Le tournée all’estero O
Adelaide Ristori
nella tragedia Giulietta
di Paolo Giacometti.
Il giudizio di Zola su Salvini
pretende, al contrario, quella che venne definita la “quarta parete”: gli attori, cioè, avrebbero dovuto recitare come se il pubblico non esistesse e lo spazio vuoto che divide gli attori dagli spettatori avrebbe dovuto essere considerato dai primi proprio come una parete, la quarta, visto che le altre tre (fondale, quinta di destra e quinta di sinistra) sul palcoscenico già esistono. E proprio il naturalismo del grande attore italiano sarebbe, secondo Giovanni Calendoli, che ha scritto una storia dell’attore, il principale motivo dei suoi successi all’estero, oltre che ovviamente in patria. Riferendosi a Rossi e Salvini, lo storico dice che i due «furono nella scena italiana i [...] maggiori rappresentanti di un periodo di transizione che preparava l’avvento del Naturalismo» (G. Calendoli, L’attore. Storia di un’arte, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1959, p. 464). Quindi, per ciò che riguarda i trionfi all’estero loro e, lo aggiungiamo noi, della Ristori, scrive ancora Calendoli: «Del nuovo movimento (il naturalismo) i due attori italiani erano già i portatori e questo carattere anticipatore della loro arte, nella direzione che tutto il teatro europeo avrebbe ben presto assunta, spiega meglio di ogni altra ragione l’entusiastico successo da essi raccolto così in Europa come in America» (op. cit., p. 466). E La Ristori che riprende le tournée all’estero degli attori italiani. Certamente esiste, come afferma Alonge, uno stretto nesso tra l’espansione capitalistica e i viaggi del grande attore: «Il fatto è che in queste notazioni di viaggio non circola solo l'antico compiacimento del comico dell’Arte che traversa le Alpi. Qui c’è davvero anche qualcosa di inedito, uno sfondamento in direzione planetaria, un radicale internazionalismo teatrale che si spiega solo con il superamento capitalistico delle frontiere. La Ristori compie nel ’74-76 il suo sensazionale ‘giro del mondo’, ma è essenzialmente un giro del mondo di lavoro: 312 recite in venti mesi e dodici giorni, cioè una rappresentazione ogni due giorni! E solo il trionfo di un capitalismo sovranazionale che poteva assicurarle questa serie ininterrotta di piazze teatrali» (R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 52-53). La Ristori è particolarmente in sintonia con questo modo di sentire, divenuta marchesa e collaboratrice di Cavour. Modena, repubblicano accesissimo e nemico acerrimo dell’industrialismo a teatro, è, al contrario, ben conscio di ciò che questa espansione e razionalizzazione capitalistica del mercato teatrale significa per l’arte: egli «diceva invece che il posto dell’artista è fra la sua gente, che ‘dove non si parla, e poco o nulla si conosce la sua lingua’ non vi può essere arte drammatica, ma ‘fantasmagoria d’orpello e di talchi’, industria da ‘far ribrezzo’ » (C. Meldolesi, Modena e la Ristori, in «Bollettino del museo-biblioteca dell’attore», gennaio-aprile 1970, p. 10). dl E certo ha ragione, almeno fino a un certo punto. È chiaro che per avere successo all’estero il tipo di recitazione deve essere diverso da quello impostato da Modena. Il grottesco modeniano, infatti, prevede un preciso uso delle parole che devono essere ben comprese, dei toni, oltre che di tutto ciò che è espressione del corpo dell’attore. E prevede anche, come abbiamo visto, un rapporto col personaggio particolare. Per potersi “far capire” all’estero, dove la lingua è poco e male conosciuta — e a parte gli esperimenti di recitazione nella lingua del paese — è necessaria un’identificazione stretta col personaggio e una recitazione che non preveda sfumature ma che si proponga come immediatamente comprensibile: una recitazione che mette in scena i sentimenti - che sono non solo eterni ma anche “internazionali” — e non tanto la ragione in dialettico rapporto col sentimento, come è proprio del grottesco modeniano. E, inoltre, quanto più i personaggi sono veri, e cioè quanto più tendono a imitare la vita, secondo la poetica naturalistica, tanto più saranno partecipabili e comunicabili. Perché l'aspetto industriale del grande attore-mattatore è proprio rappresentato da una preminenza del suo voler comunicare sulla sua necessità diesprimersi. È questa l’epoca in cui l’attore si rende conto che chi più comunica più ottiene In termini di successo. A differenza di Modena, la Ristori, Rossi e Salvini guadagneranno moltisRucto simo; e gran parte di questo guadagno verrà proprio dalle tournée all’estero. Torniamo ora alla questione del naturalismo e di ciò che dice Calendoli. Non c’è il minimo dubbio che il successo di critica come di pubblico sia da ascriversi a quel motivo e cioè al fatto che i nostri attori erano portatori di uno stile se non proprio ancora naturalistico già però fortemente intriso di elementi naturalistici in paesi in cui il teatro era ancora lontanissimo da questo clima. È interessantissimo leggere ciò che scrive Zola (cfr. Parte III, Il naturalismo francese, AT1) come critico teatrale su Salvini e sul teatro francese, commentando il modo in cui l'attore italiano fa morire Corrado nella Morte civile (cfr. qui di seguito il $ 6). La prima generazione (Ristori, Salvini e Rossi)
cn
Infine Salvini ha avuto una trovata di genio: si è disteso su un divano e quando
spira, la testa rivolta verso Emma, sembra crollare, il suo peso lo trascina, capitombola a terra e rotola dinanzi alla buca del suggeritore, mentre 1 personaggi presenti si spostano e lanciano un grido. Bisogna essere un grande attore per
Tommaso Salvini.
osarlo. L'effetto è inatteso e folgorante. La sala intera s’è alzata in piedi, singhiozzando e applaudendo. La compagnia che recita con Salvini è molto dignitosa. Ho osservato la maniera convinta nella quale recitano questi attori italiani. Finalmente non guardano il pubblico. La platea non sembra esistere per essi. Quando ascoltano, hanno gli occhi fissi sul personaggio che ascolta. Nessuno di loro avanza fino alla buca del suggeritore, come un tenore che stia per intonare la sua grande romanza. Volgono le spalle alla platea, entrano, dicono ciò che debbono dire e se ne vanno naturalmente, senza il minimo sforzo per richiamare gli occhi sulle loro persone. Tutto ciò sembra poco ed è invece enorme soprattutto per noi, in Francia. Avete mai studiato i nostri attori? La tradizione è deplorevole nei nostri tea- . tri. Siamo partiti dall'idea che il teatro non deve avere nulla di comune con la vita reale. Da ciò una posa continua, un rigonfiamento dell'attore che prova il bisogno irresistibile di mettersi in vista. Se parla, se ascolta, lancia occhiate al pubblico; se vuole mettere in rilievo una battuta, si avvicina alla ribalta e la porge come un complimento. Le entrate, le uscite sono regolate anch’esse in modo da colpire. In una parola gli interpreti non vivono la commedia; la declamano, essi si sforzano di ottenere ciascuno un successo personale, senza preoccuparsi minimamente del complesso. (E. ZoLa, Il naturalismo a teatro, riportato e tradotto in G. Calendoli, op. cit., p. 466)
Certo questo brano ricopre grande interesse perché da una parte individua in Salvini il grande attore del naturalismo nascente e, dall'altra, postula quell’idea di compagnia di complesso che era stata tanto a cuore circa quarant'anni prima (il volume di Zola è del 1881) a Modena. E questo, infatti, è il punto. Nei quarant’anni che sono passati è avvenuto qualcosa di fondamentale. L’idea modeniana di una recitazione grottesca si è ormai trasformata, come già abbiamo detto, in una poetica di recitazione “sublime”, dove il sublime è dato soprattutto dal sentimento. E, contemporaneamente, questo recitare il sentimento si è strettamente legato al naturalismo nascente in quanto questa forma di sublime viene ricercato nella vita di tutti i giorni, come è evidente essere la poetica di Zola che critica il teatro francese perché «non ha nulla di comune con la vita reale». Inoltre lo scrittore francese, che diverrà il maestro europeo del naturalismo, auspica che si realizzi quella compagnia di complesso, l’unica che possa restituire sul palcoscenico “la vita reale”. Ma questo
Ernesto Rossi
non è altro che prefigurare, in un certo modo almeno, l’avvento della regia, come nota Alonge (op. cit., p. 72) sulla scorta di Artioli (U. Artioli, Teorie della scena dal Naturalismo al Surrealismo. I. Dai Meininger a Craig, Sansoni, Firenze 1972, pp. 96-97): infatti la regia nascerà in Europa, e solo nel ’900 si presenterà in Italia (ne parleremo nel prossimo volume) proprio strettamente legata al naturalismo. La regia realizzerà fino in fondo la poetica dell’immedesimazione dell'attore nel personaggio e quella del palcoscenico come luogo dove si “riproduce” la vita di tutti i giorni. E chiaro che per realizzare il secondo punto è necessario passare per il primo: se l’attore non s’identificasse nel personaggio sarebbe impossibile arrivare al naturalismo sul palcoscenico, in quanto l’attore - lo descrive bene Zola - risulterebbe sempre poco credibile. E certamente questo il motivo per cui Ernesto Rossi, che fu l’altro nostro attore grandissimo della metà Ottocento - era nato nel 1827 e morirà nel 1896 - piacque meno a certa critica. Non invece al pubblico e a quella parte della critica che non aveva ancora fatto proprio il credo naturalistico: i suoi successi e i suoi trionfi furono enormi, quanto quelli della Ristori e di Salvini. Di lui ci rimangono due libri piuttosto importanti (Studi drammatici e lettere autobiografiche, Le Monnier, Firenze 1885 e Quarant'anni di vita artistica, Niccolai, Firenze 1887, 8 voll.) che lo rivelano attore attento e studioso. Un critico, nel 1880, scrisse: 0 Ernesto Rossi [...] è il titano dell’arte drammatica e resta unico interprete del più grande dei tragici [Shakespeare], partecipando ad un vero artistico, che è l’impronta dell’attuale concezione dell’arte. (G. M. ScALINGER, A proposito di Ernesto Rossi, in «Lo Sport», 19 agosto 1880)
Teatro 8
1117 E un altro critico, molti anni prima, aveva a sua volta scritto: Alcuni ho udito a fare dei paragoni fra il Rossi e il Salvini; io non credo che se ne possano fare, perché essi rappresentano due scuole. Salvini ha raffinata la scuola intima e non trovo chi paragonargli. L’uno è il rovescio dell’altro; stimabili entrambi, io preferisco il Rossi. In mezzo a tanto spiritualismo moderno, in un tempo di tanta filosofia e critica, per me chi risponde più ai bisogni attuali è Rossi. (B. Marcrano, L’Amleto, in «L'Italia», 4 maggio 1867)
“Ma quando Rossi morì, ormai il naturalismo aveva trionfato definitivamente e con lui quell’idea di rispetto del testo che tendeva proprio a eliminare la possibilità che il grande attore, recitando se stesso e non il personaggio, violasse decisamente i codici della verosimiglianza. Ecco cu che Rossi, nei necrologi, diviene l’attore da cui liberarsi in gran etta:
Ernesto Rossi.
nitore smopolita: un at-
La sua morte è un lutto per il teatro; non è tuttavia un grande danno. Ernesto Rossi recitava ancora, ma la sua missione era finita. Egli non era più un nostro attore; il repertorio moderno gli era sconosciuto e l’arte scenica come tutte le altre non può vivere di solo (sic) memoria, 0, peggio, di anacronismi [...]. Era un divo, un trionfatore cosmopolita!, un fenomeno di passaggio, un solista che si produceva in alcuni pezzi di bravura, e che il pubblico udiva, ammirava ed applaudiva senza esame critico, per abitudine, per rispetto e per suggestione PESA |. Due anni or sono a Milano egli recitò — e fu l’ultima volta — il Re Lear. Il magnifico dramma era stato da lui ridotto un informe e quasi incomprensibile seguito
tore che aveva
di brani dialogati. Coll’antica disonvoltura del comico italiano egli s’era tagliata
trionfato in tutto il mondo.
una parte nel mirabile capolavoro senza nessuna pietà, anzi senza il minimo rispetto per l’autore. RE,
(G. Pozza, Ernesto Rossi. L’artista, in «Corriere della Sera», 5 giugno 1896)
È molto evidente in questo giudizio su Rossi del critico del più autorevole giornale dell’epoca la fretta di sbarazzarsi di una presenza così ingombrante quale quella del grande attore. Il giudizio di Pozza su Rossi si basa sostanzialmente su due punti cardine dell’ideologia teatrale che il critico del «Corriere della Sera», che ha 44 anni ed è quindi nel pieno della maturità, porta avanti con estremo vigore. Rossi era un solista, un attore che si produceva in pezzi di bravura solitaria, senza alcuna cura dell’“insieme”, dello spettacolo “di complesso” e, di conseguenza, interveniva pesantemente sui testi senza nessun rispetto per l’autore. Quello che sta a cuore a Pozza, e che gli fa dire che in fondo la morte di Rossi non è una grande perdita, è proprio l’ideologia teatrale che si va affermando in quegli anni e che sarà alla base del teatro di regia che trionferà nel ’900: e cioè un teatro che, partendo dal testo e considerandolo la base del linguaggio della scena da rispettare “alla lettera”, giunga a uno spettacolo dove tutti i personaggi inventati dallo scrittore siano rispettati e quindi recitati da attori di valore, uno spettacolo che non si regga più sulla bravura di uno solo, se pure eccezionale. La cosa curiosa è che però Rossi mostrava, almeno a parole, un certo rispetto per Shakespeare. Nello studio drammatico dedicato all’Amleto scrive: ) Pa FOia iQUI A iena x carne, lardo, legumi, pollame, salsicciotti, ecc.
I due manoscritti regalatimi da Modena [Otello e Amleto] o per meglio dire le due riduzioni... non mi piacquero affatto. Erano due rafforzamenti delle traduzioni del signor Leoni di Parma, una vera olla potridal, come dicono gli spagnoli. Malgrado tutto il rispetto, che io devo al più illustre degli artisti drammatici dell’èra nostra, e tutto l’amore, che gli porto, in omaggio al vero e alla libertà, in quei zibaldoni, non vi era che il nome di Shakespeare. (E. Rossi, Studi drammatici e lettere autobiografiche, Le Monnier, Firenze 1885, pp. 87-88)
È evidente che Modera si era rifatto uno Shakespeare a suo uso e consumo come poi, malado il rispetto dimostrato per lo scrittore nel brano citato, testimonia Pozza che farà Rossi. E.il modo di lavorare del grande attore-mattatore su cui ci siamo soffermati già abbastanza. La prima generazione (Ristori, Salvini e Rossi)
1118 4. La seconda generazione (Emanuel) Giovanni Emanuel
Questo modo di lavorare cambia con quella che potremmo definire la generazione di mezzo e che ha come maggiori esponenti Giovanni Emanuel (1848-1902) e Giacinta Pezzana (1841-1919). Emanuel fu l'attore naturalista per eccellenza. Anch’egli aveva molto a ridire sulla recitazione di Rossi e già dal 1880. In quell’anno, infatti, scrisse un libretto di violenta risposta a un articolo del critico napoletano Giulio Massimo Scalinger che aveva pubblicato sul settimanale «Lo Sport» un articolo esaltato e esaltante l’interpretazione dell’Amleto da parte di Rossi. Questo libretto di Emanuel - pubblicato sotto lo pseudonimo di John Weelman di Terranova (Weelman è anagramma di Emanuel) - è assai prezioso. Come spesso succede la descrizione che un attore fa del modo di recitare di un altro attore è precisa e puntuale e utilissima per ricostruire lo stile di recitazione dell’attore di cui si parla. Tenuto conto che la polemica è violentissima, data la diversità delle poetiche recitative dei due, leggiamo un brano dello scritto di Emanuel che, non dimentichiamoci, risponde a Scalinger: Ora, che razza di un attore vero è il tuo E. Rossi, che fin dal momento che ‘ vien fuori ed apre bocca, invece di essere Amleto, somiglia tutto ad un commediante! Invece di essere un povero principe addolorato per la morte del padre e nauseato dal sacrilegio della madre, è invece una specie di quei Luigi Gonzaga che veggo dipinti nei quadri, con un po’ di petto scoperto in modo molto voluttuoso, e parla con una forma di voce, che pare gli esca per di sotto al mantello? Perché il suo braccio si ferma per aria come gli volesse far prendere un po’ di 1. agrimensore:
fresco? Perché quel rimasticare le parole che sembrano doppie? E quel cammi-
colui che misura e stima i terreni.
nare dietro lo spettro con passi cadenzati e misurati da far pigliare Amleto in quella campagna su quegli spalti per un agrimensore! vestito di velluto di seta? (J. WEELMANDI TERRANOVA, Fossî 0 Salvini? Risposta ad un articolo del giornale lo Sport di Napoli, Edizioni economiche del “Piccolo Faust”, Bologna. 1880, p. 22)
Emanuel prende di mira proprio la recitazione grand’attorica di Rossi, quel suo esibirsi al di là del personaggio con l’enfasi della sua voce e dei suoi gesti. Egli è, invece, fautore di una recitazione controllata, smorzata nei toni, semplice («il sublime dell’arte è la semplicità», op. cit., p. 70). E, oltre al resto, Emanuel mostra anche grande rispetto per il testo e per gli scrittori: O come? gli attori non possono essere veri artisti? Sicuro, sicuro, d’un po’ d’arte hanno bisogno anche essi, ma a loro basta un poco, con molto studio e molta
applicazione. Ed è collo studio e coll’applicazione di questo studio che gli attori possono... creare la parte, come dicono i giornalisti, che hanno quasi tutti la debolezza di posare a critici, come tutti i comici si chiamano modestamente artisti. Vedete, ragazzi, sono i giornalisti che ci hanno guastati! Non è mica vero che gli attori creino la parte: il personaggio l’ha creato l’autore: e l'attore a forza
Giovanni Emanuel.
di studio e di applicazione riesce poi a vestirlo!
(Op. cit., pp. 37-38)
Ma questo rispetto per il testo, che porterà l’attore a imparare l’inglese per tradurre direttamente Shakespeare (cfr. qui di seguito il $ 6), è poi solo apparente 0, meglio, è una posizione ideologica che non si risolve in una autentica prassi scenica. Come è evidente da quanto ancora scrive lo stesso Emanuel: i : Gli autori sono classici, romantici, idealisti, realisti, gli attori debbono essere sempre vertsti [...]. Altro è uniformare la propria individualità al carattere del per- . sonaggio, e altro è uniformarlo al genere, allo stile dell’autore. Se il personaggio è un vecchio l’attore si farà vecchio, si tingerà il viso, si metterà la parrucca, le gambe saranno stracche, il suo gesto meno vibrato, la sua voce più fioca [...]: ma l’attore non deve avere una voce e un gesto pel classico, pel romantico e pel vero. E così nell’Oreste! egli deve gestire e parlare come gestirebbe e parlerebbe in 1. Oreste: di Alfieri, uN dramma di Dumas; la sua voce deve avere la stessa naturalezza di tuono? che
2. tuono: tono.
3. inbuon volgare: inbuon italiano.
avrebbe, supponiamo, nell’Armando della Signora dalle Camelie, e, così adoprando
egli riesce a due scopi: ad ammorbidire la durezza del verso Alfieriano (sic), e a bandire la recitazione classica, che in buon volgare? non è poi che la barocca. (Op. cît., p. 20)
Si vede bene, da questa citazione, come Emanuel operasse anch'egli, contro tutte le sue convinzioni apparenti, come qualsiasi altro attore del suo tempo dal momento che anche lui intendeva ridurre tutti i testi alla sua cifra recitativa. Altro che rispetto dell’autore. E, infatti, Emanuel fu un grande attore, a suo modo, e cioè un grande attore “naturalista”. Il più grande del periodo di mezzo di cui s’è detto.
Teatro 8
di 1119 5. La terza generazione (Novelli e Zacconi) Ermete Novelli
Alla generazione di Emanuel segue quella di Ermete Zacconi (1857-1948), Eleonora Duse (1358-1924) e Ermete Novelli (1851-1919). Eleonora Duse svelerà nel suo modo di intendere il teatro una sensibilità diversa da quella degli altri attori del suo tempo che la spinge più verso il ’900: e pertanto di lei parleremo nel prossimo volume. Diverso il discorso per i due Ermete. Questi risulteranno i più tipici rappresentanti del mattatore, anche perché i nemici di questo tipo di attore, coloro che vogliono che anche in Italia trionfi la regia, prenderanno proprio loro come bersaglio privilegiato dal momento che godono dei favori del pubblico. Novelli è un attore particolarissimo che, proprio nel momento in cui bene o male tende a imporsi il rispetto del testo, se pure nel modo distorto in cui lo intende Emanuel, si comporta in modo opposto. Egli è il re dell’improvvisazione. Edoardo Boutet, critico (ma non solo: nel 1905 sarà l’animatore della Stabile romana) a cavallo dei due secoli, nel 1900 scrive uno strano elogio di Novelli: [Dell] osservazione [della vita], così sottile e così chiara, egli si serve per la percezione dirò così del volto e dell'anima del carattere nel quale sulla scena deve vivere; del volto e dell’anima le vicende diverse attraversanti!. Ma non chiuso nel buio del palcoscenico la composizione del carattere va egli formando, ha bisogno del largo e possente fremito della vita, nel libero aere, nel libero sole. Brontoli pure il suggeritore, Ermete Novelli — è fatto così — non si occupa e preoccupa delle norme quotidiane che alla ribalta si avvicendano. Nel suo regno ha leggi sue e suoi ordinamenti. Quando ha imparato la “parte” a memoria - ah, questo sì, è del buon tempo! - si abbandona a quanto spontaneamente egli si va a proposito ridestando. Così riesce ancora a quella che a volte par strana virtù ed è l'aspetto particolarmente caratteristico della sua individualità: di veder perfino quello che non c'è; e da quattro battute, sia pure da una didascalia fra le parentesi, far sbocciare o fiorire quasi sempre una macchietta, qualche volta anche un carattere. Però che non è arrischiatissimo affermare come egli abbia saputo far rivivere non solo la commedia ma anche, ed è un bel caso, quella che chiamerò la tragedia dell’arte, alto e solenne rendendo l’improvviso. E con una fortuna incomparabile. (E. Bouret, Ermete Novelli, in «Le Cronache teatrali»,
1. attraversanti: attraversando. Ermete Novelli
(La morte civile).
25 ottobre - 5 novembre 1900, pp. 48-49)
La prosa piuttosto enfatica e reboante di Boutet riesce in questo abbozzo di ritratto a rendere molto chiaramente la personalità artistica di Novelli che improvvisa sia la commedia, cosa solita in fondo, che la tragedia. Ci ricorda Sergio Tòfano, un attore che fu allievo di Novelli e che divenne grande nel primo Novecento, che sui copioni della Compagnia Novelli spesso le battute del capocomico non erano nemmeno scritte ma al «loro posto c’era uno spazio bianco
La Campagna di Ermete Novelli, nel 1900,
al Lessing Teater di Berlino.
La terza generazione (Novelli e Zacconi)
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Ermete Zacconi
e una didascalia: ‘Qui parla il Commendatore’. E - commenta Tòfano - a quel punto il suggeritore si fermava curioso di sentire cosa, quella sera, avrebbe detto il Commendatore» (S. Tofano, Il teatro dell’antica italiana, Rizzoli, Milano. 1965, p. 218). Quella di Novelli è evidentemente una reazione alla mancanza di libertà per la drammaturgia d’attore che l’impostazione crescente di una drammaturgia dello scrittore e del regista sta imponendo a colui che fino a quel momento è stato considerato il re della scena. Ermete Zacconi si ribella a questa tendenza in modo diverso. Anch’egli professa, a parole, un grande rispetto per lo scrittore ma, di fatto, anche usufruendo della libertà data dalle traduzioni, riduce tutti i testi a misura del personaggio che gli interessa creare. Nel suo periodo ottocentesco le sue piu grandi creazioni sono quasi tutte su testi non italiani: Nikita nella Potenza delle tenebre di Tolstoj, Vassili in Pane altrui di Turgenev. Ma su tutte eccelle quella di Osvaldo in Spettri di Ibsen di cui abbiamo il copione (cfr. qui di seguito il $ 6), per cui andrà famoso per tutta la vita. Egli è l'attore verista per eccellenza e il suo personaggio deve corrispondere a questa sua poetica, quale che siano le intenzioni dello scrittore del dramma che egli recita. Ecco allora che Osvaldo verrà “costruito” da lui osservando i malati di sifilide e riflettendo .
sulla realtà più che sul copione di Ibsen. Egli stesso, rispondendo a un’intervista nel 1895, dice: L’Ibsen, già, com’ella sa benissimo, è un grande pensatore. Il filosofo però prende la mano al drammaturgo. Nella sua preoccupazione della tesi, egli dimentica che i suoi personaggi sono esseri umani; diventano simboli, strumenti per esplicare le tesi dell’autore. (Un’intervista con Ermete Zaccone (sic) sulla sua carriera, sui capolavori drammatici e sullo studio delle sue interpretazioni, in «La Sera», 19-20 aprile 1895)
Ecco così giustificata un’interpretazione sia del personaggio che dell’insieme del dramma che ben poco ha a che fare con quello scritto da Ibsen che, per altro nel 1899 ebbe a dire che «Zacconi recita sotto il mio nome un dramma Spettriì che non è mio» (U. Ojetti, Cose viste. Tomo secondo 1928-1948, Sansoni, Firenze
1951, p. 17).
Ma Zacconi ha, almeno fino ai primi anni del ’900, l'appoggio incondizionato della critica e del pubblico. Il suo verismo, unito ovviamente a una straordinaria genialità recitativa, piace un po’ a tutti. Un medico, il professor Enrico Morselli docente di psichiatria all’Università di Genova, scrive di lui: [Zacconi] a me sembra eccellere su tutti [...] nella rappresentazione degli stati psichici che caratterizzano “l’uomo moderno”. (E. MoRSELLI, L’arte di Ermete Zacconi giudicata da Enrico Morselli, in un quotidiano di Buenos Aires del 16 agosto 1899; ritaglio senza altre indicazioni contenuto nella cartella “Zacconi” della biblioteca teatrale del Burcardo di Roma)
Zacconi nella parte di Osvaldo in Spettri di Ibsen.
E, quando una polemica lo opporrà al vecchio Salvini per ciò che riguarda il modo di far morire in scena Corrado nella Morte civile, Sabatino Lopez, uno degli scrittori più prolifici di commedie borghesi, lo difenderà a spada tratta mettendo chiaramente in luce la sua poetica artistica: Ermete Zacconi, è attore naturalista [...]. Qualcuno si occupa, fin troppo, di recitar bene e anche di recitar bello: lui si occupa esclusivamente di recitar vero e di recitar forte. Guardate un esempio nella Morte civile, Corrado ha da morir di veleno. E tra i veleni Zacconi ha scelto per Corrado la stricnina. Una volta che ha scelto è deciso. La sua morte ha da esser lunga e terribile, e lunga e terribile sarà. Anzi, nella verità più lunga e terribile che si possa [...]. Qualcuno si ribella. . E Zacconi, pur senza sorridere dei sensibili e dei pietosi e degli ultra sensibili, non muta; un galeotto muore e muore di veleno. Una caduta, una bella caduta! non gli piace perché non è vera; l’avvelenato per stricnina - egli ne ha visto uno — si contorce, si divincola, si intirizzisce, poi si aggruppa?, cade avvolto siccome una serpe, ed egli si contorce, si divincola, s’intirizzisce, si aggruppa, cade avvolto siccome una serpe.
(S. Lopez, Ermete Zacconi, in «Natura e arte», I semestre 1898-1899, p. 564)
1. una bella caduta: Qui è chiaro il riferimento a come Salvini faceva morire Corrado.
2. aggruppa: si raccoglie su se stesso.
E con questo attore naturalista e verista che ha fatto proprio ancora una volta, e fino in fondo malgrado i tempi cambiati, il modo di lavorare del grande attore° mattatore, con questo attore cui spetterà in sorte, nella prima parte del ’900 di fare da bersaglio a tutti coloro che vorranno il trionfo di una nuova idea di teatro, si chiude l’Ottocento, anche se non di una chiusura vera e propria si tratta, Teatro 8
1121 ma di un momento di trapasso visto che altri attori - abbiamo detto della Duse ma qui non citiamo che i maggiori, ovviamente — già lavorano in direzioni diverse. Il risultato sarà la fine non solo del grande attore-mattatore ma, a parte le eccezioni, più in generale degli attori grandi.
6. I copioni del grande attore La scrittura drammatica italiana e il grande attore
La scrittura drammatica italiana
e la compagnia di complesso
I copioni del grande attore
L’Amleto di Emanuel
La scrittura drammatica italiana del secondo Ottocento è già ampiamente presente in questo volume nella sezione letteraria (cfr. Quadro di riferimento III, $ 5.7; T109 [Pellico]; T210 [Verga]; T222 [Giacosa]; T223 [Bertolazzi]) e così è giusto che sia dal momento che il grande attore non amò quella letteratura - a parte le eccezioni, come quella della Francesca di Pellico - e, come abbiamo già visto, preferì rivolgersi a scrittori stranieri - o se italiani, come Giacometti di cui diremo, poco adatti a essere inseriti in una storia letteraria — per “creare” i propri personaggi. Shakespeare, soprattutto, che permise a molti grandi attori-mattatori dell’Ottocento (e non solo a quelli che per ragioni di spazio abbiamo citato) di ritagliarsi il proprio personaggio. Ma anche Ibsen e Strindberg, per l’ultima generazione, quella di Zacconi e della Duse. Il fatto è che i personaggi di queste opere, e massime quelli shakespeariani, respirano in una grande aria, per così dire. Sono cioè personaggi che permettono all’attore — libero, lo ricordiamo, oltre tutto attraverso la traduzione di fare del testo ciò che vuole — di espandere tutta la sua “grandezza” di grand’attore. Perché, ci siamo a lungo fermati su questo, il grande attoremattatore è proprio un grande attore: tutto in lui è grande, il gesto, l'impostazione della voce, il suo ergersi sugli altri attori e il suo dominare il pubblico. A un attore di questo genere non si addicono personaggi meschini, “borghesi” (quella del secondo Ottocento viene definita, appunto, la “commedia borghese” [cfr. Quadro di riferimento INI, $ 5.7]), che si aggirano in salotti grigi tormentati da una mediocre psicologia. Di qui il fatto che per il teatro recitato, e cioè per la storia dello spettacolo, questa scrittura drammatica è poco significativa. Lo è anche dal punto di vista letterario, con le debite eccezioni tra cui risaltano El nost Milan e Cavalleria rusticana che, se spicca in questa drammaturgia non appartiene però, per questo motivo, al miglior Verga. E invece interessante da un punto di vista sociologico perché ci indica una tendenza della borghesia italiana nei confronti dello spettacolo che diviene insieme, e a seconda dei periodi storici, lo spettacolo che la nuova classe dominante offre a se stessa a conferma dei suoi nuovi valori e il luogo dove questa classe «volle fare l’inventario del mondo» (S. Ferrone, op. cit., p. LIV). Tutto ciò interessò quelle compagnie che intendevano porsi nel solco della modernizzazione del teatro che andava verso una compagnia di complesso senza grandi attori; in fondo, nell’apparente somiglianza il contrario di ciò che aveva vagheggiato il grande Modena che nella compagnia di complesso vedeva la possibilità per il grande attore di creare un vivaio di attori altrettanto grandi. Purtroppo quasi tutti i copioni dei grandi attori sono andati perduti, come capita per molti documenti che riguardano la storia del teatro; altri, invece, non sono ancora stati pubblicati. Per nostra fortuna invece, due copioni di Emanuel sono comparsi sulla rivista «Teatro archivio», l’Amleto e il Re Lear, ambedue a cura di Maria Gilda Barabino. Questi copioni contengono, oltre alla “parte levata” del protagonista - e cioè la parte di Amleto “staccata” da quelle degli altri personaggi - anche le riflessioni di Emanuel, lo studio del personaggio. Questi “studi” stanno lì a dimostrare il grande lavoro e la eccezionale coscienza artistica del grande attore dal momento che non c’è nessuno di questi che non applichi questo metodo di lavoro sul personaggio. Come già sappiamo, alcuni di questi studi, come quelli della Ristori e di Rossi, nascono già per la pubblicazione. Emanuel affronta l’Amleto nel 1875, a 28 anni. Il suo primo Amleto «non è pazzo, ma ha
l’anima dilaniata tra gli insegnamenti della fede e la febbre della vendetta, vive cioè il dramma di un credente in cui l’anelito ad una giustizia superiore e assoluta venga inquinato dalla coscienza di un’ingiustizia attuale e flagrante: ma poiché occhi ostili spiano il suo turbamento, egli crede di dissimularlo in un ordito di stranezze ed estri bizzarri» (M. G. Barabino, L ‘Amleto di Ema-
nuel: divenire di un personaggio, in «Teatro archivio», maggio 1984, p. 40). Si vede in questo modo di “leggere” il personaggio shakespeariano una caratteristica dell’interpretazione di Emanuel tendente a staccarsi decisamente da quella di Rossi che, invece, punta tutto su un registro alto, tragico, cui dà aria la follia di Amleto. Quando, nel 1889, 14 anni dopo,
Emanuel
stende invece gli appunti che ci rimangono sulla sua interpretazione del personaggio, per lui I copioni del grande attore
"2 1122 Amleto è diventato ancora un’altra cosa. E, ancora una volta, sempre più lontano da quello di Rossi. La traduzione è dello stesso Emanuel che, da autodidatta, studia l'inglese proprio a questo scopo. La sua versione tende al semplice, al colloquiale, a differenza di quella principe dell’Ottocento di Giulio Carcano, utilizzata dagli altri attori. Come esempio del suo modo di procedere riportiamo qui la scena finale, la II scena dell’atto V che egli mette a parte e fa diventare l’inesistente - nell’originale di Shakespeare - atto VI, mettendole a fronte una traduzione “normale”. Si vedrà come egli persegua, anche attraverso le parole del testo, quella ‘riduzione al quotidiano’ che è alla base della sua poetica naturalistica. ATTO VI - SCENA
I
SECONDA SCENA Sala del castello Entrano Amleto e Orazio
AMLETO E di ciò, basta, amico. Passiamo ora all’altra cosa. Credo che tu non abbia dimenticato l'episodio. Orazio Dimenticarlo, monsignore? AMLETO Amico, nel mio cuore infuriava una sorta di combattimento che non mi lasciava chiuder occhio la notte: mi sentivo peggio di un ammutinato in ceppi. Con atto impulsivo... E benedetto sia quell’impulso, ché, riconosciamolo, l’ardimento serve pure talvolta egregiamente quando falliscono i nostri profondi disegni: e ciò dovrebbe insegnarci che c’è un Dio, il quale dà forma ai nostri piani, comunque li abbozziamo. OrAZIO Questo è certissimo.
AmLeto Salito su dalla mia cabina con sulle spalle la mia gabbana di bordo, andai cercando a tentoni nel buio e trovai quello che volevo. Frugai nei fardelli di quei due; e dopo me ne tornai in cabina; fatto ardito e indiscreto dal mio orgasmo, ruppi i sigilli di quelle credenziali solenni; e vi trovai — oh, Orazio, il re gaglioffo! - l'ordine formale, infarcito di
molte considerazioni «per la salvezza della Danimarca e dell'Inghilterra altresi», con — oh! - tanti spauracchi e male profezie, se fossi lasciato vivo; onde, e di conseguenza,
che,
appena presa visione delle credenziali, senza frapporre indugio - no, neanche il tempo di affilar la scure - mi dovessero tagliar la testa. Orazio
No, veramente?
AmLETO Ecco la credenziale. Puoi leggerla a tuo agio. Vuoi sentire ora quello che ho fatto io? OrazIO Con tutta l’anima. AMLETO Chiuso in una tale rete di scelleraggini — prima che io proponessi il prologo alla mia fantasia, essa, per conto suo, aveva già dato
principio al dramma - mi siedo e preparo una nuova credenziale; vergata in bello stile. Ho sempre ritenuto un pregio dei mediocri come sono i nostri uomini politici, lo scrivere agghindato: sicché dovetti un tempo molto sudare per liberarmi da quegli arzigogoli; ma adesso, amico, mi venivano a pennello. Vuoi
che ti dica, a senso, quello che scrissi? Orazio Sî, sf, monsignore. Teatro 8
r
1123 AMLETO Una preghiera fervida del re al suo fedele tributario, il re d’Inghilterra, acciocché il loro reciproco affetto stesse fra loro come una palma in fiore; acciocché altresi portasse la sua ghirlanda di spigata avena la pace; e affinché altresi si ponesse, essa, qual virgola tra le loro amicizie, stabilmente; e dopo molti altri acciocché e altresi di questa specie e soma, dicevo che «presa visione e atto di quanto era in oggetto», senza ulteriore disputar sul meno e il più, fossero i due prefati latori senza confessione, essere alla svelta
messi a morte. ORAZIO Come poteste riapporre i sigilli? AMLETO Anche a questo provvide la Provvidenza. Avevo nella mia borsa il sigillo del re mio padre: quello che aveva servito di modello a questo re d’ora. Piegai lo scritto nella stessa guisa dell’altro; lo sottoscrissi, vi apposi i suggelli, lo riposi al sicuro: della sostituzione non si accorse anima viva. Il giorno dopo ci fu lo scontro coi pirati e il resto che ne seguî, lo sai. ORAZIO E cosi Rosencrantz e Guildenstern sono sistemati. AMLETO Amico, avevano preso troppo sul serio la parte a loro assegnata. Non li ho io sulla coscienza: è la sorte di chi vuol ficcare il naso nei fatti altrui; è il rischio di chi, di bassa condizione, viene a interporsi tra le stoccate furibonde e i colpi di potenti avversari.
ATTO VI - SCENA I (Entra con Orazio) Buon Orazio, sono veramente dolente di essermi lasciato trasportare con Laerte a degli impeti di sdegno, perché nella mia causa veggo l’immagine della sua. Avrò sempre in conto la sua stima, ma le sue bravate mi hanno fatto perdere ogni misura!
Orazio Ma che razza di re, è costui? AmLETO E non è, ora, mio dovere... pensa: quel manigoldo che mi ha assassinato il re mio padre e scanagliata mia madre; si è intrufolato tra le mie speranze e il mio trono; e ora, con la frode - e che frode! - ha gettato un tale amo a insidiarmi la vita; dimmi tu se non è ora mio dovere di ripagarlo della sua stessa moneta. E non c’è da dannarsi l’anima a lasciar che un tal cancro di natura arrechi nuovi danni? Orazio Presto sarà informato dall'Inghilterra sull'esito della faccenda là... AMLETO Sî. Presto. L'intervallo è a mio vantaggio; e la vita d’un uomo è appena il tempo di contare fino a uno. Ma di essere tanto trascorso con Laerte mi duole, ora, moltissimo, caro Orazio. Perché nella mia causa vedo l’immagine della sua. Voglio chiedergli scusa. Però, è vero: a quelle sue ostentazioni di cor-
doglio non ci ho visto più. Orazio Zitto. Chi è quello lf? Entra Osrico.
Ve ne ringrazio umilmente, signore. Conosci questa zanzara?
Osrico Vostra altezza è la molto ben tornata in Danimarca. AmLeTo Umilissimamente obbligatissimo, signore. (A Orazio) Conosci questa zanzarina? Orazio Mai visto, monsignore. AmLeto Tu sei in grazia di Dio più di me: è un vizio, conoscerlo. Possiede molta terra, e fertile. Fa’ che una bestia sia padrona di altre bestie, e la sua greppia sarà alla mensa del
I copioni del grande attore
1124 Meglio per te! È uno stupido, ma è molto ricco.
L’udrò con tutta l’attenzione possibile... ma adopera il berretto per il suo vero uso: è fatto per la testa. No, al contrario, è molto freddo: il vento viene dal nord.
Nondimeno, forse perché non mi sento bene, l’aria mi sembra soffocante.
Una scommessa? (gli accenna di coprirsi)
Il suo merito non perde nulla nella vostra bocca.
re. È un cafone, ma, come vasti letamai. Osrico Dolce signore, qualora a vosta signoria, avrei per importante comunicazione
dicevo, possiede
tornasse comodo vossignoria una da parte di sua
maestà. AmLeTo La ricevo, signore, con ogni diligenza del mio intelletto. Avviate il vostro copricapo alla sua destinazione che è la testa. Osrico Ringrazio vossignoria: fa molto caldo. AmLeTo No, anzi piuttosto freddo, credetemi. Tira il tramontano. Osrico Difatti: piuttosto freddo, vostra altezza. AmLETO Però anche mi pare che una certa afa e caldura si faccia sentire, se non sono io che... _ Osrico È vero, vostra altezza, sî, è un’afa, un’afa da non si dire... Ma, monsignore, sua maestà mi ha comandato di significare a vostra altezza che ha messo una grossa posta su di voi. Si tratta, altezza... AmLETO Vi supplico, signore... (gli fa cenno di mettersi il cappello). Osrico Grazie, vossignoria; sul mio onore, sto meglio cosî. Altezza, è tornato Laerte, di recente, alla Corte; un assoluto gentiluomo, pieno di eccellenti distinzioni; di piacevolissima conversazione, e presenza; insomma a voler dir di lui a sentimento, egli è la rosa dei venti e il calendario di tutta cortesia; il continente d’ogni raffinatezza, a cui ogni raffinato gentiluomo si augurerebbe di approdare. AmLETO Signore, il suo definimento non subisce da voi perdizione veruna; sebbene - io so — la sua divisione in capitoli inventariali darebbe
il capogiro all’aritmetica mnemonica; e non sarebbe tuttavia che un lento scarrocciare appetto al volo della sua veloce vela. Ma nella sincerità di questo mio estollimento, lo considero un’anima di gran tonnellaggio; e il suo infuso, di una tale carezza e rarità, che a dir di lui con esatta dizione non c’è che il suo specchio: come chi volesse seguirne l’orma potrebbe unicamente aspirare all'ombra sua. Osrico Vostra altezza dice di lui molto infallibilmente. AmLETo Ma qual è il concernente, signore? Perché inviluppiamo quel gentiluomo nel bozzolo dei nostri algidi fiati? OsrIco Come, signore? Orazio Non vi sarebbe dato d’esprimervi con un altro linguaggio? Non può davvero riuscirvi impossibile. AMLETO Che cosa implica il nominativo di questo gentiluomo? OsrIco Laerte? ORAZIO (piano ad Amleto) Ha vuotato il sacco delle parole: esaurite le sue riserve auree. AMLETO Sî. Laerte, signore. OsrIco Io so che vostra altezza non è ignorante... Teatro 8
ci
1125 Vorrei che mi credeste tale.
Di che armi parlate? Sono due delle sue armi. Or bene? Or bene...
E il motivo della scommessa?
Signore, io passeggerò in questa Se piace a Sua Maestà è appunto l’ora mie ricreazioni. Portate qui i fioretti. lora Laerte non rifiuti e il re persista scommessa, guarderò di fargliela dagnare.
sala. delle Quanella gua-
Ecco, questo è il sugo... e voi poi lo infiorerete a vostro talento. Tutto per voi, tutto per voll...
AmLeETo Spero. Ma che voi lo sappiate, in fede mia, non sarebbe un avanzamento per me. Dunque, signore? OsrIco Vostra altezza, dicevo, non è ignorante dell'eccellenza di Laerte. AmLETO Non lo confesserò per non gareggiar d'eccellenza con lui; ché il solo modo di conoscere un uomo, è conoscere se stessi. Osrico Intendevo dire, signore, nel maneggio dell’arma. Nella valutazione che se ne fa generalmente egli è tenuto a nessuno secondo. AmLeto In quale arma? OsrIco Stocco e pugnale. AMLETO Queste sono due armi: ma fa lo stesso. Osrico Il re, signore, ha scommesso con lui sei cavalli di Barberia, contro i quali ha deposto, come intendo, sei stocchi francesi e pugnali, completi di accessori; ciosòno: cinturoni, pendagli, eccetera. Tre degli affusti, sul mio onore, sono un desio: molto responsivi alle else, delicatissimi e di molto liberal concetto. AmLETO Che cosa chiamate voi «affusti»? OrazIO Lo sapevo che prima o dopo bisognava ricorrere al dizionario! Osrico Gli affusti, signore, sono i pendagli di sospensione. AmLeTo La parola avrà più stretta parentela con la cosa il giorno che al fianco cingeremo un cannone. Fino a quel dî vorrei che fossero pendagli. Procediamo. Dunque: sei cavalli di Barberia contro sei spade francesi e accessori; di cui tre liberalconcetti affusti, ciosòno, pendagli. Ciosòno le poste in gioco da parte danese e francese. E in che termini fu, come voi dite, deposta, questa gara? Osrico Il re, signore, ha scommesso, signore, che in una dozzina di assalti tra voi e Laerte egli vi avrebbe superato di tre stoccate al massimo: per modo che la scommessa è di nove su dodici. E la cosa verrebbe tosto all’esperimento, quando vostra altezza volesse degnar la risposta. AmLETO E se io rispondo «no»? Osrico Intendevo, altezza, la opposizione della vostra persona in questa prova. AmLeTo Io, signore, resterò qui a far quattro passi in questa sala. Se cosî piace a sua maestà, e giacché questa è l’ora del mio riposo quotidiano, si rechino le armi. E quando sia disposto il gentiluomo e fermo al suo proposito il re, io vincerò per lui, se posso; se no soltanto mio sarà lo scorno e con, in più, le stoccate che mi prenderò. Osrico Devo io riportarvi in questi termini? AmLeto In sostanza sf, signore; salvo le efflorescenze peculiari al vostro stile. Osrico Accomando il mio devoto omaggio a vostra altezza. AMLETO Alla vostra. Alla vostra. Esce Osrico.
I copioni del grande attore
1126 Fa bene a raccomandarsi da sé, perché nessuno vorrebbe darsi questa briga. Quel cortigiano poppava ancora e già adulava la mammella prima di succhiarla.
AmLETO Fa bene ad accomandarsi da solo ché nessun altro lo prenderebbe in accomandita. Orazio La pavoncella se n’è volata via col suo guscio in testa come uno storno di nido. AmLeTo Quello è uno che da lattonzolo domandava licenza alla mammella prima di succhiare. E come lui tanti altri della stessa covata che vedo coccolati da questa età di sterco, hanno adottato certi toni di moda e una conversazione tutta corticale, schiuma di sapone e feccia, che li trasporta a volo attraverso le più stolte e insulse opinioni: che se fai l’atto di soffiarci su per provarne la consistenza, quelle bolle sono bell’e svanite.
Entra un gentiluomo. GenTILUOMO Monsignore, sua maestà, che vi ha mandato il giovane Osrico, è stato da lui informato che eravate qui ad attenderlo e mi invia ora a voi per chiedervi se siete disposto per la partita d'armi cortesi con Laerte; o se desiderate rinviarla a miglior tempo. AMLETO Rimango fermo nel mio proposito e ligio al beneplacito del re. Quel che conviene a lui, conviene anche a me, ora e quando che sia; purché io mi trovi nelle buone disposizioni d’ora. GENTILUOMO Il re la regina e il seguito stanno scendendo. AmLeTo Va bene. GENTILUOMO La regina desidera che diciate una buona parola a Laerte prima di cominciare la partita. AmLETO Ottimo consiglio.
Esce il gentiluomo. Non lo credo! Dacché egli andò in Francia io mi tenni in continuo esercizio, e vincerò. Tuttavia non potresti immaginare da quale affanno sia oppresso il mio cuore: ma non importa!
No, no, io sprezzo gli auguri. Se la mia ora è giunta, essa non avrà più da venire! Basta essere preparati.
Orazio Voi perderete, monsignore. AmLeTo Non credo. Da quando egli è partito per la Francia io mi sono tenuto costantemente in esercizio. Vincerò di misura, sul vantaggio. Ma tu non puoi immaginare quanta angoscia ho qui, intorno al cuore. Non ha importanza. OraZzIo Importa, monsignore, e molto. AMLETO Sciocchezze. Un’ombra di presentimento che potrebbe turbare, forse, una
donna. ORAZIO Se a una cosa ripugna il vostro animo obbeditegli. Li avverto io prima che siano qui. Vado a dire che non siete in vena. AmLETO Neanche per idea. Noi sfidiamo i presagi. Vi è una particolare provvidenza nella caduta d’un passero. Se è ora, non è dopo; e se dopo non è, allora è adesso; e se adesso non è, dovrà pur essere. Tutto è tenersi pronti. Poiché nessuno sa quello che lascia, che importa lasciare prima o-poi? Lascia andare. Entrano il re, la regina, Laerte, Osrico e altri gentiluomini e seguito con fioretti e guantoni. Su una grande tavola, boccali di vino e coppe.
Teatro 8
1127 RE
Perdonatemi, signore! Io vi ho offeso, e voi perdonatemi da gentiluomo quale siete! Voi certo non potete ignorare la profonda distrazione, che mi tormenta. Se ho fatto qualche cosa che abbia potuto spiacervi o ledere il vostro onore, io qui dichiaro che fu effetto della mia demenza. Dunque Amleto, che offese Laerte? No mai, dal momento che Amleto non era conscio di se stesso! E allora chi è che offese Laerte? Fu la demenza di Amleto! Ed io rinnego quell’azione come se scagliando una freccia al di sopra del tetto avessi avuto la sventura di ferire mio fratello.
Mi riesce dolcissima la vostra assicurazione, e combatterò lealmente in questa lotta fraterna. Orsù, dateci i fioretti.
Io sarò il vostro piastrone!, o Laerte! La mia ignoranza farà risaltare la vostra destrezza, come una notte buia fa risaltare il chiarore d’una stella. No, sul mio onore!
Benissimo, signore! Vostra Grazia ha voluto tenere dal lato più debole! 1. piastrone: qui Emanuel sceglie, tra i vari significati di “foil” quello di piastrone e cioè di quello strumento formato da una gran piastra di cuoio che usano gli schermidori per addestrarsi. Lodovici, invece, sceglie il significato legato alla pietra preziosa, il supporto su cui incastonarla. Il termine inglese ha anche «altri significati (“scacco, traccia [di animale braccato], attacco [sventato], fioretto”): è impossibile rendere in italiano la ricchezza dell’ambiguità dell’originale. .
Questo mi va. Sono tutti di uguale lunghezza questi fioretti?
Vieni, Amleto, vieni a prendere questa mano dalle mie. (Mette la mano di Amleto in quella di Laerte). AmLeTo Io ti ho offeso, Laerte, ma tu, che sei gentiluomo, perdonami. Questa assemblea sa — e l’avrai pure udito anche tu - come io sia punito da una penosa insania. Quello che ho fatto e che può avere gravemente ferito in te natura onore e affetto, qui proclamo pazzia. Fu Amleto, forse, a offendere Laerte? Certo, no: Amleto lo nega. Chi fu dunque? La sua pazzia: e se cosî è, Amleto è dalla parte di chi riceve il torto: la sua pazzia è il nemico del povero Amleto. Amico, alla presenza di tutti quelli che sono qui, mi valga questa mia sconfessione d’ogni proposito maligno, a scagionarmi tanto ai tuoi occhi generosi, da persuaderti che scoccando una freccia di là dal tetto della casa, ho ferito un fratello. LAERTE Pace sia sul piano della natura, che, pure, in questo caso dovrebbe incitarmi, d’istinto, alla vendetta. Ma sul piano dell’onore prima di riconciliarmi voglio essere confortato da qualche anziano e notorio esperto di queste questioni, d’un suo parere, o di qualche precedente, in modo da serbarmi salvo e intatto il mio nome. Fino a quel giorno riceverò come affetto l’affetto che mi offrite e non gli farò offesa. AMLETO Accolgo l'offerta con animo liberato e combatterò lealmente con te questa fraterna partita ad armi cortesi. I fioretti, qua, presto! LAERTE Qua uno a me. AmLeTo Sarò il castone del tuo brillante, Laerte: sulla mia poca bravura la tua maestria brillerà come stella dov'è più buia la notte. LAERTE Vi burlate di me, signore... AmLETO No, per questa mia mano. RE Porgete i fioretti, Osrico. Amleto, conosci la scommessa? AMLETO Benissimo, signor mio. E so che vostra grazia ha puntato sul vantaggio concesso al più debole. RE Non temo, vi ho visto tutti e due; e solo perché egli ha il vantaggio di un più intenso esercizio, ho preteso i punti di vantaggio per noi. LAERTE Questo fioretto è troppo pesante. Datemene un altro. AMLETO Questo per me va bene. Sono tutti d’una misura? OsrIco Sî, monsignore. Si mettono in posizione. RE
Qua, sulla tavola, i boccali di vino. Se Amleto tocca al primo assalto o al secondo, o al terzo entra a pareggio, partano da tutti i merli salve di artiglieria. Il re berrà alla lena di Amleto, che non gli manchi; e getterà nella coppa la perla più ricca tra quelle che quat-
I copioni del grande attore
1128 tro re hanno portato successivamente sulla corona di Danimarca. Datemi le coppe; e fate che il tamburo dica alla tromba e la tromba agli artiglieri là di fuori, e i cannoni ai cieli, e il cielo rilanci alla terra, l'annuncio: «Ora il re beve alla salute d’Amleto». (A? due avver-
sari) A voi! Trombe.
Andiamo, signore?
RE I giudici del campo tengano gli occhi bene aperti. AmLETO Pronto? LAERTE Pronto, monsignore. Si battono.
Toccato!
Si giudichi. (lo dice con nobiltà e con affabilità).
AMLETO LAERTE AMLETO OsrIco
E una... No. Arbitro... Toccato Laerte;
molto
nettamente
toccato.
LAERTE Bene. Al tempo. RE Alt! A me la coppa. Amleto; questa perla è tua. (Getta nel vino la perla) Alla tua salute! Tamburo, trombe, colpo di cannone.
No, voglio fare prima un nuovo assalto. A noi Laerte!... Toccato di nuovo!
Grazie, o signore?.
Orsù, Laerte, al terzo assalto. Non vi fate giuoco di me, vi prego: schermite con tutta la vostra arte, e non mi trattate da fanciullo! 2. signore: questa volta l'originale è inequivocabile: madam, signora e non signore. Evidentemente Emanuel intendeva far convergere l’odio del pubblico tutto su Claudio, l'usurpatore, il malvagio.
Teatro 8
RE Dategli questa coppa. AMLETO Prima un altro assalto. Tenetela lf da parte per me.
Pronto. E due... vero? LAERTE Toccato. Due a zero. RE Il nostro Amleto vincerà. REGINA Hail fiato corto; è grasso. Tieni il mio fazzoletto, Amleto. Asciugati le tempie. La regina beve alla tua fortuna, Amleto! AMLETO Grazie, signora... RE (con un grido) Gertrude, non bere! REGINA Sî, perdonate, monsignore; voglio bere. (Beve). RE (a parte) La coppa avvelenata. Troppo tardi! REGINA Bevi anche tu, Amleto. AmLeTo Non ora. Dopo, dopo. REGINA. Aspetta, che ti asciughi la fronte. LAERTE (al re) Ora lo pungo io... RE Non credo. LAERTE (riavviandosi a riprendere il suo posto) Eppure, quasi me ne rimorde la coscienza. i AMLETO Il terzo assalto, su, Laerte; finora hai fatto per gioco. Attacca a fondo, te ne prego: altrimenti penserò che tu voglia burlarti di me. i LAERTE Ah, cosî? Bene. In guardia! Si battono.
Osrico Niente. Né di qua né di là. LAERTE E questa a te! (Ferisce Amleto). (sì battono: resta toccato: piccola pausa; sì riattaccano: cadono i fioretti)...
Amleto si accorge allora che il fioretto di Laerte è a punta scoperta. Si infuria. Ne segue una lotta furibonda nella quale i fioretti si scambiano e Amleto ferisce Laerte.
1129 No, no, avantil... (e ferisce Laerte).
RE Separateli! Sono impazziti! AmLeto In guardia, Laerte! La regina cade a terra.
Come sta la regina?
Oh tradimento!
Si chiudano tutte le
porte, e si cerchi il traditore!
OsrIco La regina! Guardate: là! là! Orazio Perdono sangue tutti e due. Come state, signor mio? OsrIico Come state, Laerte? LAERTE Eh, come il lupo preso alla tagliola. L'ho tesa io stesso, e sono giustamente punito dal mio inganno. AmLETO Come sta la regina? RE E svenuta alla vista del sangue. REGINA No. La coppa. La coppa. Avvelenata, Amleto... AMLETO Perfidia e tradimento! Olà, sbarrate la porta. Stanate il traditore, dov'è. Laerte cade.
LAERTE È qui, Amleto. Amleto, sei morto. Nes-
x
Questa punta è avvelenata? veleno compi l’opera tua!
Allora,
suna medicina al mondo può salvarti. Non ti resta mezz'ora di vita. La spada del tradimento è quella che hai ora in mano tu - a punta scoperta e intinta nel veleno. L’inganno vile è ricaduto su di me. Io qui sono prostrato, per non più rialzarmi. Tua madre è avvelenata. Non reggo pit... Il re, tutta opera del re. AmLETO Anche la punta avvelenata! E allora, veleno, compi l’opera tua... (F'erisce il re). Tutti Tradimento! Tradimento! RE Aiuto, amici! Aiuto! Non sono che ferito, potete ancora salvarmi! Aiuto! Amleto trafigge il re.
Danese incestuoso, bevi alla tua tazza!
troverai la tua perla!
AmLeTo Incestuoso assassino; maledetto danese sanguinario! E questa la coppa della perla? Segui mia madre. Il re muore.
Ti perdoni il cielo! Io ti seguirò! Addio, sventuratissima regina...
LarrTtE Ha avuto quello che meritava. Quella pozione l’aveva preparata lui stesso. Scambiamoci il perdono, nobile Amleto. Non ricada su te né la mia morte né quella di mio padre. Né su di me, la tua (Muore). AmLETO Il cielo te ne assolva. Ti seguo. Sono morto, Orazio; sciagurata regina, addio. Voi che assistete tremanti, pallidi a questi casi, semplici spettatori o comparse in questa vicenda, quando ne avessi tempo — ché la morte, empio sbirro non allenta la sua ferrea tenaglia - oh, potrei dirvi... No, nulla. Orazio, 10 muoio: tu vivi; racconterai di me, della mia causa, onestamente, la verità a chi vorrà
saperne di più. Orazio Non io. Io sono più un antico romano che un danese. E in questa coppa, di quel veleno c’è ancora qualche goccia. AmLeTo Se sei un uomo, dammelo. Per il cielo, la voglio; dammela. Oh buon Orazio, che nome ferito, se le cose rimangono ignorate come ora sono, vivrà di me! Se mai mi portasti nel
I copioni del grande attore
1130
i tuo cuore negati per qualche tempo ancora l'eterna beatitudine e resta a sospirare di pena in questo nostro crudo mondo, per raccontare la storia, vera, di me. Di dentro, marcia militare e spari. Qual fragore guerriero è questo?
... Io muoio. Orazio: il potente veleno assopisce ogni mia facoltà. Fortebraccio sarà eletto ad occupare questo trono: egli ha il mio voto moribondo: tu gli farai noti gli avvenimenti... che mi trassero a questo fine... il resto non è che silenzio!... (muore).
AmLETO Che sono questi strepiti di guerra? OrAzIO Il giovane Fortebraccio, tornato vincitore dalla Polonia; ora offre queste salve guerresche agli ambasciatori d’Inghilterra. AmLETO Ah muoio, Orazio; il potente veleno soverchia in me gli spiriti della vita. Tanta non me ne avanza da sentire i messaggi dell’Inghilterra.
Ma faccio profezia che la scelta cadrà sul gio- | vane Fortebraccio. Abbia anche il mio voto di morente. Questo, gli dirai; e narragli il corso di questi casi, e dei fatti che li hanno determinati. Il resto è silenzio. (Muore). ORAZIO
Si è spezzato, ora, un gran cuore. Buo-
nanotte, principe caro. Un volo d’angeli ti accompagni cantando fino al tuo riposo. Marcia militare vicinissima.
Orazio
Che è questo tamburo che si avvicina?
Entrano Fortebraccio e gli ambasciatori inglesi con tamburi, bandiere e seguito.
FoRrTEBRACCIO Dov'è questo spettacolo? Orazio Che vuoi vedere? Un orrendo prodigio di dolore? Allora fermati qui. FoRTEBRACCIO Questo carnaio grida vendetta. Morte orgogliosa! Che festa prepari nella tua eterna spelonca, che con un colpo solo hai falciato nel sangue tanti principi? AMBASCIATORE È uno spettacolo orribile! E troppo tardi arrivano, con noi, i dispacci dell’Inghilterra. Sono spente le orecchie che dovevano ascoltare da noi come, secondo gli ordini affidatici, furono messi a morte Rosencrantz e Guildenstern. Da chi ci sentiremo dire grazie? Orazio Non dalla sua bocca; se pure avesse ancora tanto di vita da ringraziarvi. Non fu lui a volere la morte di quei due. Ma poiché voi dalla Polonia vinta e dall'Inghilterra ci arrivate qui mentre tutto questo sangue è
ancora caldo, date voi (a Fortebraccio) l’ordine che queste salme siano esposte in vista sopra un eccelso palco; e che io possa dire alle genti, che ancora non lo sanno, come questi casi seguirono. E sentirete allora di atti carnali, sanguinosi e snaturati; di castighi temerari e di uccisioni casuali; e di altre, preparate d’astuzia o per necessità; e, in questo epilogo, di male orditi complotti ricaduti sul capo dei loro artefici. Di tutte queste cose io posso riferirvi di ragion veduta, lealmente. ForTEBRACCIO Le ascolteremo subito; convochiamo a udirle, con noi, i più cospicui cittaTeatro 8
1131
Micra
dini. In quanto a me io non senza amarezza, abbraccio la mia buona fortuna. Ho su questo reame qualche diritto non dimenticato che ora il mio interesse e l'occasione mi invitano a reclamare. Orazio Anche di questo avrò motivo di parlarvi, a nome di colui, il cui voto altri ne procaccerà; e sarà bene che sia fatto subito, e qui, mentre gli animi sono ancora cosî percossi;
;
affinché poi, più tardi, non ne seguano altre sventure da gravi errori o da altre macchinazioni. FoRTEBRACCIO Quattro capitani Portino Amleto, come un soldato, al palco. Posto alla prova Si sarebbe mostrato buona tempra di re. Della sua morte
Diamo l’annunzio con fanfare e salve di guerra. Levate i corpi. Un simile spettacolo da campo di battaglia Male si addice A questo luogo. Andate, comandate ai soldati di sparare. Fine dell’ultimo Atto G. EMANUEL, Amleto, a cura di M. G. Barabino, in «Teatro archivio», maggio 1984, atto VI, scena I
Il lavoro di Emanuel
sul personaggio
La morte civile
di Paolo Giacometti
Di fuori, salve d’artiglieria. W. SHAKESPEARE, Amleto, Einaudi, Torino 1973, trad. it. di C. V. Lodovici, atto V, scena II
E interessante notare, oltre alla colloquialità del discorso, la stringatezza dell’azione e l’eliminazione dell’ultima parte del testo shakespeariano. Ambedue queste posizioni rispondono decisamente alla poetica del grande attore. La prima, quella della stringatezza, si pone sulla linea di dare lo spazio il più ampio possibile al protagonista. Riducendo l’importanza della trama — proprio in questa scena è abolita tutta la prima parte in cui si parla della restituzione dell’inganno a Rosencrantz e Guildenstern, personaggi divenuti evanescenti nel testo di Emanuel il grande attore accentra l’evento spettacolare su se stesso, sulla propria esibizione artistica. Naturale quindi anche il secondo punto: alla morte di Amleto - molti grandi attori-mattatori terminano i propri pezzi con la morte del personaggio che stanno recitando - non doveva seguire più nulla e le famose parole «il resto è silenzio» (rese ancor più colloquiali dal quel «non è che») non avrebbero potuto non suggellare la fine della tragedia. Come si vede anche il naturalista Emanuel, che vuole ricondurre tutto al quotidiano e al “prosaico”, agisce poi, per certi aspetti, in totale consonanza con la metodologia “sublime” del grande attore, dal momento che naturalista o no, è anch’egli perfettamente inserito nel solco della tradizione grand’attorica. I grandi attori utilizzavano anche, oltre a quelli stranieri, testi di scrittori italiani, come è ovvio in un periodo in cui le compagnie di giro cambiavano spettacolo quasi ogni sera. Ma, in questi copioni non cercano certo il ‘bel’ testo ma l’orditura che permetta loro di creare un grande personaggio. Tra questi testi Rossi, Salvini e Zacconi resero celebre la mediocre, dal punto di vista letterario, Morte civile di Paolo Giacometti (1816-1882). Questi è scrittore abituato a lavorare per gli attori, su commissione, anzi, come scrive Alonge, «l’esempio più significativo (e meglio documentato) di collaborazione fra grande attore e autore è quello di Giacometti alle prese con la Ristori a proposito della Maria Antonietta» (R. Alonge, op. cit., p..34). E benché non sembri che abbia composto La morte civile su commissione, questa risente decisamente di una struttura grand’attorica. La parte del protagonista è tale da prestarsi alla recitazione tipica del grande attore. Si tratta di un ergastolano, Corrado, che riuscito a fuggire al carcere vorrebbe ora riavere la figlia e la moglie. Ma alla prima è stato detto di essere orfana di madre e figlia del medico Palmieri (e le è stato mutato il nome da Ada in Emma). Rosalia, la madre di Ada e moglie di Corrado, vive nella casa del medico come governante. Corrado si rende conto che la figlia ama il padre adottivo e che Rosalia e Palmieri sarebbero ben contenti di potersi sposare ma, data la legislazione del tempo che non prevede il divorzio, non possono farlo. Ecco che a questo punto decide di sopprimersi: è l’unico modo per rimuovere l’ostacolo. Queste le scene finali del dramma: I copioni del grande attore
SCENA SECONDA Emma ed il suddetto
Paolo Giacometti.
Teatro 8
EMMA (vedendo Corrado) Sempre quest’uomo!... (fa per partire). CorraDo No, non mi fuggite ora, o fanciulla, perché ho gran bisogno di parlarvi. Emma Parlarmi?... Sempre parlarmi! Corrapo È l’ultima volta! Emma Partite? Corrapo Sî - domani non mi vedrete più — ciò vi farà piacere? EMMA Un poco, perché... Corrapo Perché vi atterrisco, lo so... ma non vi sembra di vedere in me qualche cosa di diverso? non sono tranquillo? non vi parlo più soavemente? — Or bene, se temete che anche adesso io possa farvi del male, mi metterò ginocchioni davanti a voi... (s’inginocchia). Emma OH! questo poi no.. Corrapo Volete che io mi ‘alzi? sono debole - aiutatemi, stendetemi la mano.. (protendendo le braccia). EMMA Sî, pover’uomo... (nel prendergli le mani, si accorge delle fossette e contusioni che sogliono produrre i serrami delle catene). Che vedo? i vostri polsi furono offesi, straziati?... Ah! forse... mio Dio!... foste condannato ai ferri?... Oh! (coprendosi gli occhi, Corrado profondamente colpito dal ribrezzo di sé medesimo, dopo di aver cercato di coprire i polsi, barcollante per commozione eccessiva, sì appoggia allo schienale della sedia, chinando èl capo). Condannato! e per quale delitto?... non me lo dite; ho fatto male a interrogarvi; non vi sdegnate... ma vedo che i vostri occhi si gonfiano di lagrime... Ah! non mi fate più paura, ma molta pietà... Sventurato! e se incontrerete vostra figlia, la vostra Ada?... io tremo tutta pensando a lei! Corrapo Non la incontrerò... essa è già morta... Emma AR! il Signore le è stato misericordioso! perché, toccando le piaghe dei vostri polsi, come feci io, un poco fa, sarebbe morta di dolore e di vergogna. (Corrado non potendo più resistere si lascia cadere sulla sedia). Vi viene male? Gesù mio! come impallidite! forse vi ho offeso, poveretto! non volevo offendervi... Voi soffrite molto - volete che chiami qualcheduno?... Corrabo No - guardate, dentro a questo medaglione conservo un liquore che mi farà guarire (mostrando il medaglione). Emma Abbisognate di aiuto? CorraDo Del vostro aiuto per?... oh no! - Piuttosto, giacché siete sf buona, rivolgete il capo, e pregate Dio per me. Emma Lo pregherò in ginocchio. (S’inginocchia e giunge le mani). CoRrRADO (non visto da Emma, la guarda appassionatamente, quindi levando gli occhi in alto, dice) Mio Dio! tu sai per chi prega questa fanciulla; esaudisci la sua preghiera, e nella tua sapienza perdona al suicida! (Beve quindi, posato il medaglione sul tavolo, si accosta ad Emma e le dice affettuosamente) Grazie, mio buon angelo... io mi sento già meglio. Emma AR! vorrei che fosse vero, perché non posso spiegarvi quello che, nell’atto della mia preghiera, ho provato per voi... vedete che io piango... Ohimè! voi siete venuto per far piangere tutti... Corrapo Io? EMMA Sî, anche mio padre, anche Rosalia si sono fatti cosî malinconici dopo il vostro arrivo!... CorrADO Eppure sono venuto per rendervi tutti felici... per lasciarvi una dolce memoria di me. Emma Voi partite— è singolare! temo che anche Rosalia abbia in mente di partire, di abbandonarmi... CORRADO Ve lo ha detto essa? EmmA No, veramente, ma poco fa mi ha abbracciata e piangeva, come sì sogliono abbracciare le persone che si amano, come si piange quando si parte per non ritornare sî presto... e forse mai più. Corrapo Vi sarete ingannata - abbandonarvi essa? perché? - Ma voi ne soffrireste? Emma Tanto ne soffrirei! CorrADO Amate dunque molto la povera Rosalia?
1133 Emma Come mia madre. Corrapo E godreste assai se lo fosse veramente? Emma Oh! godrei tanto! Sappiate che io nel segreto del mio cuore ho creduta possibile questa felicità... io la sognai più volte... sognai che Rosalia ed il papà erano sposi, uniti segretamente... guardate un po”! CoRRADO (dopo aver riflettuto) E se voi non aveste sognato che il vero? Emma (sorpresa) Buon Corrado, che dite voi? Corrapo Ecco perché sono venuto, o mia fanciulla; per dirvi, no, non è giusto che duri l’amaro inganno; che rivolgiate sempre i vostri occhi al cielo, per cercarvi la madre vostra, mentre dessa vive quaggit, in questa casa... EMMA Rosalia?... Corrapo Sî, ecco la memoria che volevo lasciarvi. Emma Rosalia mia madre?... ma non sogno anche adesso? non ho sognato allora? AN! se è vero, grazie, mio amico, grazie! Ma dov'è, dunque, Rosalia?... che non parta, che non mi lasci ora - dov'è mio padre? (Corre verso la porta a
destra) Ah! venite, venite! SCENA ULTIMA Rosalia, Palmieri, i suddetti RosaLia Che volete Emma? PALMIERI Corrado? EMMA (a Palmieri) Ah, dimmi se è vero ciò che mi ha fatto credere il povero Corrado. Mia madre non è morta nel darmi alla luce (A Rosalia) Parlate anche voi, toglietemi la spina dal cuore — siete voi... sei tu mia madre? ROosALIA (con terrore e sorpresa) Ah! PALMIERI Che?... voi le diceste? Corrapo Tranquillatevi; le ho detto ancora che un nodo legittimo vi unisce a Rosalia. PALMIERI Come? Corrapo Perdonatemi se le ho svelato il segreto... ma potevo, dovevo farlo nel momento solenne in cui l'ostacolo che si opponeva alla pubblicazione del vostro matrimonio sparisce per sempre. RosALIA (spaventata) Sparisce?... PALMIERI Corrado, che avete voi fatto? CorRAaDO Ho riflettuto su ciò che vidi ed udii... PALMIERI Ah! temo di comprendere... Corrapo Suvvia dunque, o fanciulla, temete ancora che io vi abbia ingannata? (La prende per mano) Venite, che io vi unisca alla madre vostra, che vi veda abbracciate!... (serrandola fra le braccia della madre). EMMA Ah, il mio sogno! RosALIA (sempre spaventata) On! figlia!... (Vedendo Corrado che sta per cadere)
Corrado?... Emma (vedendolo infatti cadere sulla sedia) Egli sviene... PALMIERI (con una mano sul polso, l’altra sulla fronte di Corrado) Egli muore! Rosaria Muore? EmMA Aspettate: questo medaglione contiene un liquore salutare, egli ne ha bevuto qualche goccia, momenti or sono... proviamo a dargliene ancora... PALMIERI (vedendo il medaglione aperto, lo afferra e dopo di averlo aspirato) Veleno? si è avvelenato! Rosaria Mio Dio! Emma Avvelenato! RosaLiA Presto dunque un rimedio... PaLMIERI Ah! non ve n'è alcuno! - è tardi. — CoRRADO (ripetendo macchinalmente le parole) È tardi! (Con vaneggiamento, 0 sogno febbrile) Povera donna! nobile uomo! magnanimi cuori!... meritavano un po’ di bene, un premio... e l’ottengono da me... RosALIA (fra sé, costernata) . Ah! la mia confessione lo ha reso suicida! PALMIERI (Muore per noi!) CorRADO (come sopra) Dite che vengono a prendermi?... Ah! il delatore... Vile!... Stolti! il cadavere civile perde il moto... ho terminato di ucciderlo io... Ah! la mia Ada... la mia Ada!... RosaLia Chiama sua figlia... (Ad Emma) Egli ha creduto che tu lo fossi... Ah! I copioni del grande attore
1134 se lo credesse anche adesso!... accostati a lui - chiamalo padre, perché muoia in pace! EMMA "oh sî! (Sî accosta a Corrado, e ponendogli la mano sulla fronte, gli dice con grande affetto) Padre, padre mio, guarda la tua Ada. CorrADO (trasognato) Ada?... (Si alza e la stringe convulsivamente fra le braccia, ma guardando Rosalia e Palmieri, torna in sé e dice) No, no, Emma... (Fa cenno a Palmieri di accostarsi e cost pure a Rosalia, pone fra loro Emma e, dopo di averli strettamente aggruppati, stende le sue mani sui loro capi — poi cade e spira. - Rosalia ed Emma mandano un grido di dolore e si curvano sul corpo di Corrado). PALMIERI (rimasto in piedi ed allargando le braccia, coll’accento doloroso e solenne dell’uomo che pensa all’umanità) Legislatori, guardate! (P. GIACOMETTI, La morte civile, atto V, scena II e ultima,
in Il teatro italiano. V. La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, cit., pp. 204-208)
La polemica Salvini-Zacconi sulla Morte civile
a) la posizione di Salvini
Già abbiamo visto come recitassero sia Salvini che Zacconi questo finale, il primo nel racconto di Zola (cfr. qui sopra il $ 3) e il secondo in quello di Lopez (cfr. qui sopra il $ 5). Nell’estate del 1902 divampò una dura polemica tra Salvini e Zacconi a proposito di questo finale. Ma la questione era più profonda e riguardava due stili di recitazione, e di necessità, due diverse interpretazioni non solo del personaggio ma, come sempre, dell’opera e dell’idea del teatro. Per Salvini - che faceva morire Corrado di crepacuore - il vero tema della Morte civile è quello costituito dall’amore di Corrado per la figlia e la famiglia, e dalla gelosia; motivi sufficienti, secondo lui «a fargli schiantare il cuore». E seguita: Orbene, ridotto l’uomo a questi estremi dov’è necessità che si uccida? E che si uccida con un veleno, che non si sa come possa aversi procurato, errante e fuggiasco su pei monti? Se quest'uomo preso da un eccesso di disperazione si fosse infranto il cranio contro un muro o si fosse gettato in un precipizio, ciò sarebbe stato naturale e verosimile; ma avere un veleno come la stricnina dell’egregio artista Zacconi [...] è del tutto assurdo e inverosimilmente comico. Per evitare lo sconcio di una morte anti-artistica e per non cadere nell’inverosimile, preferii farlo sparire dal mondo naturalmente, e non far restare nei superstiti [...] il rimorso d’essere causa involontaria di un suicidio. (La polemica Salvini-Zacconi è riportata in op. cit., tomo II, Appendice, pp. 435-441; il brano cit. è a p. 436)
b) la risposta di Zacconi
Ma Zacconi legge il testo in altro modo e, per questo, crea un personaggio tanto diverso. Secondo lui l’autore volle che Corrado fosse siciliano perché aveva bisogno di una di quelle nature esuberanti nelle quali le passioni non hanno confini e salgono alla maggiore intensità, rendendole così accessibili ai grandi delitti come alle grandi virtù, di una di quelle nature atte sia a uccidere per causa passionale, sia ad uccidersi per magnanimità di sacrificio.
E volle ancora che la sua creatura avesse l'animo di un artista, perché in lui fosse tanta idealità da essere atto al nobile sacrificio. E volle che egli si sopprimesse a riparare il doppio errore del codice e del dogma religioso. (Op. cit., p. 439)
Spettri di Ibsen
Teatro 8
Ecco quindi che, per Zacconi, il testo serve a affermare i nuovi ideali positivistici («Da quanto ho detto l'illustre Salvini vedrà che nelle indagini come nelle induzioni, noi procediamo con metodo razionale positivo. E se a lui sembriamo illogici, ciò vuol dire che non misuriamo la logica con lo stesso metro» [op. cit., p. 440]): quello che vuole recitare Zacconi è un dramma di forti passioni (come fa Salvini) ma strettamente intrecciato a una tesi civile, quella della necessità del divorzio. Per Salvini il palcoscenico è ancora un luogo dove esprimere se stessi attraverso la manifestazione delle passioni, per Zacconi è certamente questo ma anche un pulpito da cui far pervenire al pubblico messaggi di progresso. Questo vale anche per gli Spettri di Ibsen. Il testo ibseniano è ricco e complesso ma l’utilizzazione che ne fa Zacconi tende a semplificarlo, a favore della sua poetica d’attore, anche a rischio di rendere poco plausibile la storia. Le intenzioni dello scrittore sono quelle di dar vita a un dramma, complesso e sfumato in cui spiccano le due grandi figure di Elena Alving e di suo figlio Osvald, la prima tormentata dal rimorso per non aver vissuto come ora ritiene avrebbe dovuto essendosi sposata senza amore a un uomo dissoluto, e il secondo, giovane pittore, afflitto da un male oscuro che i medici gli hanno detto avrebbe ereditato dal padre. Altre figure sono
f 1135 Caricatura di Tommaso Salvini.
1. Il copione, manoscritto, è conservato presso il Museo biblioteca dell’attore di Genova. Sulla
prima pagina porta il timbro della compagnia Zacconi-Pilotto-Sciarra e il visto di censura con luogo e data: Verona, 9 febbraio 1894. Abbiamo trascritto il copione così come si presenta, senza intervenire
in alcun modo. Nell’originale la divisione in scene non esiste. Certe didascalie, poche per la verità, o
parti di queste sono risultate illeggibili e ciò è stato segnalato nel modo solito ([...). Le parentesi quadre stanno invece a indicare battute o parti di queste ‘che venivano probabilmente a volte recitate a volte no, dal momento che, per contro, le battute certamente
non
usate
sono cancellate in modo da risultare illeggibili. >
presenti nel dramma; tra queste spicca quella di Regina, nata da una relazione tra il signor Alving e una domestica, e quindi sorellastra di Osvald che, all’oscuro di tutto, appena tornato a casa dopo un soggiorno parigino, la seduce. Questo ambiente torbido è assente nel copione di Zacconi, che utilizza una traduzione che è già di per sé una «traduzione-riduzione-adattamento [...] che ridefinisce teatralmente i personaggi, casomai schiacciando e appiattendo i personaggi minori, come era prevedibile per un teatro fondato non sull’insieme ma sulla assoluta centralità dell’attore protagonista» (R. Alonge, op. cit., p. 201). Zacconi procede ulteriormente in questa direzione, una direzione già pensata per lui, eliminando battute e spessore agli altri personaggi. Ne risulta estremamente impoverita anche la parte della madre, Elena, che invece nel testo di Ibsen ha grande importanza. Riportiamo la scena finale da cui spicca chiaramente - soprattutto nel confronto con una traduzione “normale” che mettiano a fronte - la preminenza che il personaggio di Osvald assume nei confronti di quello della madre e anche l’innervazione drammatica più secca che Zacconi fa assumere al copione: SCENA
SESTA!
Elena ed Osvaldo
OsvaLpo (che è alla finestra) È andata via Regina? ELENA Sî! (canto di Osvaldo). OsvaLpo (canterella un poco, poi con voce lenta) Come ha fatto male. Ma già in questa casa tutto va male. ELENA (verso di lui, giungendo le mam) Osvaldo, figlio mio, tu sei commosso? OsvaLpo ([...]) Credi dunque che la storia di mio padre?... ELENA Sf; ti ha fatto male. OsvaLpo No, no, ne fui sorpreso, resto sono indifferente.
ma del
ELENA ([...])) Indifferente... ti è indifferente il sapere...
OsvaLD (alla finestra, guardando fuori) Se n’è andata? SIGNORA Sî. OsvaLD (mormora tra sé) Che brutta cosa... SIGNORA (dietro di lui, posandogli le mani sulle spalle) Osvald, figlio caro... Sei molto turbato? OsvaLp Da quello che mi hai detto di mio padre? SicnoRa Sf, del tuo disgraziato padre. Temo che l’impressione sia stata troppo forte per te. OsvaLp Che idea! Naturalmente mi ha stupito moltissimo, ma in fondo non me ne importa niente. SicNoRA (ritirando le mam) Non te ne importa niente! Che tuo padre sia stato così infelice?
I copioni del grande attore
1136 OsvaLpo Sî! Mi commuovo alla sua disgrazia come gli altri si commuovono alla mia. ELENA E null’altro? ma è tuo padre? (sic). OsvaLpo (con impazienza) Padre; padre, lo ho conosciuto io forse mio padre? Di lui non ho che un vago ricordo. Quando rideva vedendomi star male, dopo avermi costretto a fumare nella sua pipa. ELENA È spaventoso quanto tu dici. Un figlio deve sempre amare suo padre. Deve sempre essergli riconoscente. OsvaLpo Di cosa? di cosa debbo ringraziare mio padre? Tu che sei donna intelligente, non devi più avere di queste idee vecchie e superstiziose. Mamma, capiscilo, non sono che idee senza corpo.
OsvaLp Naturalmente mi fa compassione, come qualunque altro, ma... Sicnora Nulla più? Tuo padre, il tuo proprio padre! OsvaLD (con impazienza) Oh, mio padre... mi padre! Si può dire che non l’ho conosciuto. Di lui ricordo una cosa sola, che un giorno m'ha fatto vomitare. Sicnora È spaventoso! Un figlio non deve amare il proprio padre, nonostante tutto? OsvaLp Ma se il figlio al padre non deve nulla? Se non l’ha neanche conosciuto? Sei ancora attaccata a quel vecchio pregiudizio, tu cosî evoluta in tutto il resto? Signora Non sarebbe che un pregiudizio...? OsvaLp Ma sî, mamma, dovresti capirlo. E una di quelle idee che hanno corso nel mondo, e...
ELENA (commossa) Degli spettri!! OsvaLpo Si, spettri! hai ragione di chiamarli cosî, spettri! ELENA (angosciata) Osvaldo, ma dunque tu non ami neanche me? OsvaLpo Ti conosco e so dell’affetto che mi porti, te ne sono grato. Ecco il sole sorge, non avrò più questa paura... Mamma, questa sera mi hai detto che saresti pronta a fare per me qualunque cosa. ELENA Sî, l’ho detto.
SIGNORA (sconvolta) Gli spettri! OsvaLD (passeggiando per la stanza) Sî, puoi ben chiamarli spettri. SIGNORA (prorompendo) Osvald... ma allora tu non ami neanche me! OsvaLp
Te, ti conosco almeno...
SicNoRA Sì, mi conosci; ma questo è tutto? OsvaLp So anche quanto affetto hai per me; e di questo debbo esserti grado. E ora che sono ammalato puoi essermi infinitamente utile. Sicnora Sî, è vero, Osvald? Oh, quasi quasi benedirei la malattia che ti ha ricondotto a casa da me. So bene, infatti, che tu non sei mio: bisogna chio ti riconquisti. OsvaLDp (impaziente) Sî, sî, si; tutte queste non son che parole. Non dimenticare che sono un malato, mamma. Non posso occuparmi molto degli altri; ho abbastanza da pensare a me stesso. SIGNORA (a voce sommessa) Sarò paziente, ‘ m’accontenterò. OsvaLp E dovrai essere allegra, mamma! Sicnora Sf è vero, Osvald? Sono riuscita finalmente a liberarti di tutto ciò che ti tormentava: rimorsi, rimpianti? OsvaLp Sî, da quelli sf. Ma chi mi libera dall’angoscia? SIGNORA Dall’angoscia? OsvaLD (camminando in su e in giù per la stanza) Regine l’avrebbe fatto senza dif-
ficoltà. SienoRA Non ti capisco. Che cos'è quest’angoscia?... e che poteva farci Regine? OsvaLp Siamo già molto avanti nella notte, mamma? SIicNoRA È quasi il mattino. (Guarda fuori nella serra) Il giorno comincia a spuntare, lassi sulle cime. Farà bel tempo, Osvald. Fra poco vedrai il sole. Teatro 8
1137 OsvaLp Mi fa piacere. Ah, avrei ancora tante ragioni di vivere e di godere... SIgnoRA Lo credo bene! OsvaLp Anche se non riesco a lavorare, potrei sempre... SIGNORA Oh, ricomineerai presto a lavorare,
mio caro ragazzo. Non devi più ruminare quei pensieri angosciosi, deprimenti. OsvaLp
No, è stato un bene che tu m’abbia
liberato da quelle fantasie. E se riuscirò a vincere quest’ultima... (Si siede sul sofà) Mamma, parliamo... _Sienora Si, parliamo. (Spinge una poltrona verso il sofà e siede vicinissima a lui). OsvALD ... eintanto sorgerà il sole. E allora tu saprai tutto. E io non sentirò più quest’angoscia. SIGNORA Che cosa saprò? OsvaLp 1893: Zacconi primo Osvaldo negli Spettri.
OsvaLpo E mantieni la tua parola? ELENA Io nonhochetee non voglio vederti soffrire. OsvaLpo Brava! Il tuo animo è quello di una donna forte; non devi quindi disperarti per quanto ti dirò! ELENA Macosa c’è dunque ancora? OsvaLpo
No, no, non cominciare a gridare,
[mi promettesti d’essere tranquilla.
ELENA
Telo prometto.
OsvaLpo Sappi dunque che questa stanchezza che accuso, questa impotenza al lavoro non è la mia vera, la terribile mia malattia! ELENA (spaventata) Spiegati... 2. È questo il caso più sbalorditivo di tagli possibili. Ma c’è una conferma. Oltre al copione che qui trascriviamo, sempre presso il Museo biblioteca dell’attore, ne è conservato un altro, certamente
più tardo perché porta il timbro della «Compagnia drammatica di proprietà e diretta dal Comm. Ermete Zacconi», sul cui frontespizio è scritto a grandi lettere «Suggeritore». Si tratta dunque - del copione del suggeritore. Anche in questo copione una sbarra unisce gridare a non può essere. Tutto ciò risulta senza dubbio confermare un possibile taglio.
OsvaLpo Il mio male è atavismo, malattia ereditaria ed è qui (sì batte la fronte e
ripete a voce bassa) E qui. ELENA (in preda a viva commozione) No, Osvaldo, no. OsvaLpo Non gridare. Mi dai noia. Temo che il male abbia a svilupparsi da un momento all’altro... Ma sta tranquilla mamma, fa come me. ELENA (alzandosi)
No, non è vero, è impossi-
bile, non può essere] ?. OsvaLpo A Parigi ebbi una minaccia, ma durò poco, 3 giorni, quando l’ho potuto sapere, mi prese la paura e sono partito subito per tornarmene a casa.
ELENA Questa dunque è la tua paura? OsvaLpo Sî, come vedi è una fantasticheria, oh! perché non fui colpito da una malattia
Mamma, non hai detto poc'anzi, che
non c’è nulla al mondo che tu non faresti per me se io te lo chiedessi? SIGNORA Certo che l’ho detto! OsvaLp E lo mantieni, mamma? SIGNORA Puoi contare su di me, figlio mio adorato. Io vivo per te solo. OsvaLp Sî, sî, allora ascolta... Senti, mamma,
tu hai un animo forte ed ener-
gico. Devi restare lî tranquilla mentre m'ascolti. SienoRa Ma cosa c’è di cosî tremendo...! OsvaLp Non devi dare in ismanie. Hai sentito? Me lo prometti? Resteremo qui seduti e ne parleremo tranquillamente. Me lo prometti, mamma? SIGNORA Sî, si, te lo prometto; ma parla dunque! OsvaLp Bene, allora ti dirò che questo stato di spossatezza... e l’incapacità di pensare al lavoro... tutto questo non è la malattia Stessa... SicnoRa Ma qual è infine la tua malattia? OsvaLp La malattia che ho ereditato... (addita la propria fronte e parla a bassa voce) risiede qua dentro. SIGNORA (quasî afona) Osvald! No... no! OsvaLp Non gridare. Non posso sopportarlo. Sî, vedi, è qua dentro, in agguato. E può erompere da un momento all’altro. Sicnora Oh, che orrore...! OsvaLp Serbati calma! Ecco a che cosa sono ridotto... Sicnora (balzando in piedi) Non è vero, Osvald. Non è possibile! Non può esser cosî! x OsvaLp Ho avuto un accesso a Parigi. E passato presto. Ma quando ho saputo di che cosa si trattava, un’angoscia folle, spaventosa s'è impadronita di me; e allora sono tornato a casa più presto che ho potuto. SicnoRA Era questa l’angoscia...! OsvaLp Sî, vedi, perché è indicibilmente atroce. Fosse stata una qualunque malattia mortale... Di morire non ho paura,
I copioni del grande attore
1138 mortale, non temo la morte [quantunque desideri vivere il maggior tempo possibile. ELENA Sî lo devi, Osvaldo.] OsvaLpbo Mi spaventa l’idea di tornare come un bambino.
anche se mi piacerebbe vivere ancora il più a lungo possibile. SicnorRa Sî, sî, Osvald, bisogna che tu viva! OsvaLp Ma questo invece è spaventoso. E quasi come ridiventare un bambino in fasce; aver bisogno di essere nutrito, aver
bisogno di... Oh, non si può immaginare! ELENA Ogni fanciullo ha una madre che lo cura. OsvaLpo (alzandosi) Non voglio: dovrei restare in quello stato per molti e molti anni, diventare vecchio coi capelli bianchi, tu potresti morire prima di me, e io allora? (sedendosi su una sedia presso Elena) Il medico mi disse che ne avrò per molto tempo, [ha definito il mio male un rammollimento cerebrale. (Ridendo amaramente) Devo pensare sempre al velluto rosso, devo avere sempre qualche cosa di molle da accarezzare. ELENA (getta un grido) Osvaldo! Osvaldo! OsvaLpo (si alza e cammina per la scena) Mi hai tolto anche Regina: se l’avessi avuta vicina avrei pregato lei di farmi quel favore che ora sto per chiedere a te. ELENA (avvicinandosi) Cosa vuoi? dimmelo, ma supponi che tua madre non ti accontenti? OsvaLDo Dopo quella minaccia di cui ti ho parlato il medico mi ha confessato che si rinnoverà... oh ne sono certo]3.
ELENA Ma che cuore aveva quel medico per dire queste cose a te? OsvaLpo Fui io che l’ho costretto; gli dissi che dovevo fare il mio testamento (siede) E ne avevo infatti bisogno (estrae da una tasca interna una scatoletta) Mamma, questa è morfina in polvere. ELENA (guardandolo spaventata) Osvaldo! Osvaldo mio! i OsvaLpo Ne ho economizzato 12 polveri (Elena fa per togliergli la scatola) Ora no, mamma, ora non è ancora il momento (ripone la scatola al posto). ELENA Soffro troppo, non posso sopravvivere a tanto strazio. OsvaLDbo No, tu devi vivere. Se Regina fosse stata ancora qui le avrei confessato il mio stato e l’avrei pregata di quest’ultimo servizio, essa mi avrebbe aiutato.
3. Anche questo taglio è confermato dal copione del suggeritore.
Teatro 8
ELENA No! OsvaLpo Le avrei detto che quando mi avesse veduto tornato bambino, quando fosse, stata certa che ogni speranza era svanita. ELENA Regina non lo avrebbe fatto.
Sicnora Il bambino ha la mamma che lo cura. K OsvaLp (balzando in piedi) Mai e poi mai! E proprio questo che non voglio! Non posso sopportare l’idea di restare cosî magari per molti anni... diventar vecchio e grigio. E chi sa, tu potresti anche morire prima di :me. (Si siede sulla poltrona della signora Alving) Il medico ha detto che l’esito non è necessariamente mortale. Ha parlato di rammollimento cerebrale, o qualcosa di simile. (Sorride dolorosamente) Trovo che l’espressione è cost bella! Mi fa pensare a tendaggi di velluto scarlatto... una materia delicata, morbida alle carezze. SIGNORA (con un grido) Osvald! OsvaLD (balza di nuovo in piedi e passeggia nella stanza) E ora m'hai portato via Regine! Se avessi avuto lei, almeno! Lei mi sarebbe venuta in aiuto. SicnoRA (andandogli accanto) Che cosa intendi dire, caro figlio mio? Che aiuto può esserci al mondo, che io non ti sappia dare? OsvaLp Laggiù, quando mi ripresi dopo l’accesso, il medico mi disse che se si ripeteva... e sì ripeterà... non ci sarebbe stata più nessuna speranza.
Signora E ha avuto la crudeltà... OsvaLp Ve l’ho costretto. Gli ho detto che dovevo prendere certe disposizioni... (Sorride maliziosamente) E le ho prese, infatti. (Estrae una scatoletta dalla tasca interna della giacca) Mamma, vedi questo? SigNnoRA Cos'è? OsvaLp Morfina. SIGNORA (guardandolo atterrita) Osvald...
figlio mio! OsvaLDb Ne ho messo insieme dodici fialette. SIGNORA (allungando le mani) Dammi la scatola, Osvald. OsvaLp Non ancora, mamma. (Rimette la scatola in tasca). SIGNORA Io non reggo più! OsvaLp Lo devi. Se avessi qui Regine, le avrei detto il mio stato... e l’avrei pregata di rendermi quell’ultimo servizio. Lei l’avrebbe fatto; ne sono sicuro.
SIGNORA Mail! OsvaLp Quando
la cosa orribile si fosse abbattuta su di me, e lei mi avesse visto li, impotente come un bambino, perduto senza speranza... senza possibilità di salvezza... SignoRA Per nulla al mondo Regine avrebbe
fatto una ‘cosa simile!
1139 OsvaLpo Regina l'avrebbe fatto, è leggera lei, molto leggera, e si sarebbe stancata
presto di curare un malato come me. ELENA Ringraziamo dunque Dio che non sia più qui. OsvaLpo Ora però sei tu, mamma, che mi hai da rendere questo servizio. ELENA Io?... tua madre? OsvaLbo Appunto per questo. ELENA Io che ti ho dato la vita? OsvaLpo Non te l’ho chiesta. E poi la bella vita che mi hai dato! Puoi riprendertela. ELENA (correndo verso la serra) Aiuto, aiuto! OsvaLDo (correndo dietro) Non lasciarmi solo, dove vuoi andare? ELENA A cercare un medico, lasciami dunque. OsvaLpo (chiude la porta della serra e si mette la chiave in tasca) No, tu non puoi uscire e nessuno potrà entrare. (sì avanzano sulla scena avvicinandosi al divano) Ma dunque non hai cuore di madre tu? Come puoi tollerare che io soffra tanto? ELENA (dopo una breve pausa) Lo farò. OsvaLDbo
ELENA
Davvero?
Eccoti la mano, ma non sarà neces-
sario, è impossibile. OsvaLpo Speriamolo mamma, e viviamo uniti fino a che possiamo. (si siede in una poltrona vicino al divano. Il giorno comincia a sorgere, nel giardino comincia ad apparire la luce, la lampada però è sempre accesa).
OsvaLp Regine l’avrebbe fatto. Regine aveva un cuore meravigliosamente leggero. E si sarebbe stancata presto di curare un malato come me. SIGNORA Allora sia lode al cielo che Regine se n'è andata! OsvaLp Sî, ma allora devi aiutarmi tu, mamma. SIGNORA (con un grido acuto) Io! OsvaLp A chi tocca, se non a te? Sicnora Io! Tua madre!
OsvALD Appunto per questo. Sicnora Io che ti ho dato la vita? OsvaLD Non te l’avevo chiesta. E che sorta di vita è quella che m’hai dato? Non so che farne. Riprenditela. Sicnora Aiuto! Aiuto! (Corre fuori in anticamera). OsvaLD (inseguendola) Non lasciarmi! Dove vai? SIGNORA (in anticamera) A cercarti un medico, Osvald! Lasciami andare! OsvaLDp (anch'egli in anticamera) Tu non uscirai. E nessuno entrerà qua dentro. (Sî sente dare un giro di chiave).
SIGNORA (rientrando) Osvald, Osvald... figlio mio! OsvaLD (la segue) Se hai per me un cuore di madre... come puoi vedermi soffrire quest’angoscia senza nome? SIGNORA (dopo un breve silenzio, dominandosi) Eccoti la mia mano. OsvaLp Lo farai...? Sicnora Se sarà necessario. Ma non sarà necessario. No, no, è impossibile. OsvaLp Speriamo. E viviamo insieme, finché possiamo. Grazie, mamma. (Sì siede sulla poltrona che la signora Alving aveva spinto presso il sofà).
Nasce il giorno; la lampada sul tavolo è ancora accesa.
ELENA (avvicinandosi cauta ad Osvaldo) Osvaldo mio, sei più tranquillo?
SIGNORA (avvicinandosi cautamente) tranquillo, ora?
OsvaLpo
OsvaLD Sf. SIGNORA (china su di lui) Hai avuto un orri-
Sî.
ELENA (china su lui) Fu un brutto sogno che hai fatto: queste emozioni furono troppe per te... hai bisogno di riposo. Vieni, avrai tutto quello che desideri: come quando eri bambino. Ora ti sei calmato non è vero? Guarda Osvaldo che bella giornata va facendosi, guarda v'è il sole. Oggi vedrai il sole anche nella tua casa (va a spegnere la lampada, si vede è giardino illuminato dal sole).
Ti senti
bile incubo, Osvald. Null’altro che immaginazione. Non hai potuto sopportare tutte quelle scosse. Ma ora ti riposerai! A casa, con la tua mamma, figlio mio benedetto. Tutto quello che desideri l’avrai, come quando eri piccino... Ecco, ora la crisì è passata. Vedi com'è stato facile? Oh, io lo sapevo. Guarda, Osvald, che magnifica giornata si prepara. Un sole sfolgorante. Ora puoi davvero vederlo il tuo paese. (Va al tavolo e spegne la lampada).
Levar del sole. Il ghiacciaio e le cime, nel fondo, sono inondati di luce.
I copioni del grande attore
1140 OsvaLpo (siede immobile sulla poltrona ad un tratto esclama) Mamma, dammi il sole!
OsvaLp (seduto sulla poltrona, voltando le spalle allo sfondo, non sì muove; improvvisamente dice) Mamma, dammi il sole.
ELENA (lo guarda con spavento)
SicnoRA
Eh!
OsvaLpo (abbattuto fiacco spossato) Il sole! il sole! ELENA (corre a lui con un grido) Osvaldo! OsvaLpo (raggomitolandosi sulla poltrona, î muscoli del corpo gli divengono flosci, le braccia gli cadono penzoloni, e quarda con sguardo stupido innanzi a sé). ELENA (tremando dalla paura) Cosa è questo? (gridando) Osvaldo! Osvaldo! (s’inginocchia davanti a lui e lo scuote) Osvaldo guardami, non mi riconosci? OsvaLpo (senza espressione) Il sole! il sole! ELENA (balza in piedi e alzando le mani grida) No è troppo è troppo; non posso più sopportare! (gelata paralizzata) Dove sono?... (brevissima pausa poi si slancia su Osvaldo per prendere la scatola della morfina che egli mise in tasca sul petto) Sî, è qui... (retrocede spaventata) No, non posso! (cade angosciata su una sedia e mettendo la testa sulle mani scoppia in singhiozzi). OsvaLDo (sempre con accento d’ebete ripete) Il sole! il sole!
(presso
il tavolo,
sussulta
e lo
guarda) Cos'hai detto? i OsvaLD (ripete con voce sorda e afona) Il sole. Il sole. SIGNORA (si precipita verso di lu) Osvald, che hai? (Osvald sembra accasciarsi sulla poltrona, tutti i suoi muscoli si rilassano;
il viso è senza espressione; gli occhi sono fissi, spenti. La signora Alving, tremante di terrore) Cos'è questo? (Con un grido) Osvald! Che hai? (Sî getta in ginocchio accanto a lui e lo scuote) Osvald! Osvald! Guardami! Non mi riconosci? OsvaLD (con voce afona, c.s.) Il sole! Il sole! SIGNORA (disperata balza in piedi, si caccia le mani nei capelli e grida) Questo non si può sopportare! (Sussurrando come irrigidita) Non si può! Mai! ([mprovvisamente) Dove ha messo la scatola? (Cercando rapidamente sul petto di Osvald) Qui! ([ndietreggia di qualche passo e grida) No, no, no!... Sî!... No, no! (A due passi dal figlio, le mani contratte fra i capelli, lo guarda fissamente con muto terrore). OsvaLD (sempre immobile) Il sole. Il sole. (E. IssEN, Gli spettri, Einaudi, Torino 1981, trad. di A. Rho, atto III, pp. 73-79)
L’Osvald di Zacconi: le critiche di d’Amico e di Gobetti
La vera poetica di Zacconi
Teatro 8
Certo Zacconi fa di Osvald una creazione grandiosa: è il personaggio in cui meglio si realizza la sua poetica positivistica, come già abbiamo detto. Ma non bisogna farsi fuorviare da giudizi tardi, quali quelli di d’Amico e Gobetti. E noto infatti che i due critici non avevano in simpatia Zacconi (anche se d'Amico, ancora nel 1929, scrive: «Zacconi è forse l’ultimo superstite, in Italia, della razza dei ‘grandi attori’ » [S. d'Amico, Tramonto del grande attore, Firenze, la casa Usher, a cura di A. Mancini, 1985, p. 58; 1° ed., Mondadori, Milano 1929]) e che le loro critiche si appuntavano in modo particolare su Spettri. Secondo d’ Amico Zacconi “invece di rappresentare il dramma d’una madre che avendo peccato (secondo il poeta) contro la Vita, n’era punita con l’esclusione di suo figlio dai supremi beni spirituali della vita, rappresentava la disgrazia di un povero giovane che aveva ereditato dal padre vizioso una brutta malattia” (Op. cit., p. 57). E Gobetti: «Osvaldo resta la materiale esemplificazione della campagna antialcoolica» (P. Gobetti, Scritti di critica teatrale, a cura di G. Guazzotti, Einaudi, Torino 1974, p. 147). Ma queste critiche riguardano un attore che è ormai intorno ai 65 anni (era nato nel 1857) e risentono del clima dell’inizio degli anni venti del Novecento, un clima di decisa battaglia antipositivistica e, almeno nel caso di d’ Amico, che non a caso mette in corsivo il termine “spirituali”, filospiritualistica. Si parlerà di questo nel prossimo volume. Per concludere su Zacconi, e sul “suo” Spettri bisognerà dire che non tanto di battaglia contro l’alcolismo o di dramma ereditario si sarà trattato dal momento che abbiamo visto che nel copione “saltano” proprio quelle battute che sono dedicate all’“atavismo” ma di qualcosa di più complesso da cui non è escluso il dramma dell’ereditarietà (non dimentichiamo che per Zacconi il palcoscenico è anche un pulpito da cui far giungere messaggi di “progresso” allo spettatore) se pure reso assai più implicito di quanto i suoi detrattori vorrebbero far credere. Che cosa fosse veramente il dramma di Osvald ce lo dice lo stesso Zacconi nel 1897, e cioè nel periodo in cui recita il dramma ibseniano con maggior successo:
1141 La vita di Elena Alving trascorre interamente nella menzogna, e Osvaldo, il frutto fatale della menzogna stessa, è il penitente senza colpa, ma nel tempo istesso, il punitore. Nell'ultima scena della tragedia voglio dimostrare appunto questo punitore destando vero terrore quando Osvaldo impone alla madre l’infanticidio! con un egoismo tanto più crudele quanto più egli ne è incosciente. (E. MARANGONI, Ammirando Ermete Zacconi, in «L'arte drammatica», 28 dicembre 1899, p. 5)
1. infanticidio: nel senso di uccisione di un | to che il Marangoni traduce da una rivista figlio; il termine non è di Zacconi dal momen- | tedesca di due anni prima. fr
Come è evidente da queste dichiarazioni dell’attore il suo Osvaldo è ben più complesso di quanto potrebbe esserlo un personaggio creato per propagandare qualche messaggio sociale. È, invece, un personaggio a tutto tondo, che punisce la propria madre facendosi uccidere: come si vede un dramma, come è normale per il grande attore, tutto di sentimenti ma di sentimenti e solo in piccola parte “di propaganda”; che è tutta un’altra cosa confronto a come lo lessero — e forse a come era diventato - quasi trent'anni dopo d'Amico e Gobetti.
Zacconi nella parte di Osvaldo in Spettri di Ibsen.
Bibliografia 1. Per le questioni generali cfr. Teatro 7, Bibliografia, 1, 2, 3, 4 e 8. A 3 sarà da aggiungere, per il periodo preso in considerazione in questa sezione, il recente e molto informato R. ALONGE, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1988, con ricca bibliografia (pp. 253-260) cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti.
2. Per Giacometti si veda la nota introduttiva di Ferrone premessa alla Morte civile nel volume citato in 3, tomo secondo, pp. 133-137, con bibliografia.
3. Sterminata la bibliografia su Shakespeare e Ibsen; e non è certo questa la sede per riportarla. Per ciò che ci interessa, invece, e cioè il rapporto tra Shakespeare, Ibsen e il grande attore si veda: C. MELDOLESI, Alla ricerca del grande attore: Shakespeare e il valore di scambio, in «Teatro archivio», settembre 1979, pp. 114-127 e (sulla Ristori), L. CARETTI, La regia di Lady Macbeth, in Il teatro del personaggio, Shakespeare sulla scena italiana dell’800, a cura di L. Caretti Roma, Bulzoni, Roma, 1979, pp. 147-180, per ciò che riguarda Shakespeare, e R. ALONGE, «Spettri», Zacconi e un agente tuttofare: traduttore, adattatore (e anche un poco drammaturgo), in «Il castello di Elsinore», luglio 1988, pp. 69-94, per Ibsen.
Bibliografia
1142 Glossario N.B. Il presente glossario si riferisce esclusivamente a termini che comparono nel volume. Non pretende assolutamente di essere un dizionario di reto-
depositate nell’inconscio collettivo di ognuno. Es.: gli archetipi del Padre e della Madre.
rica, di narratologia, ecc.
Architrave. Elemento architettonico orizzontale sostenuto da colonne (v.) o da pilastri (v.). Negli ordini classici costituisce la parte inferiore della trabeazione (v.).
Abaco. Elemento architettonico a base quadrangolare con cui termina il capitello (v.). Allitterazione. Figura retorica che consiste nella ripetizione degli stessi fonemi (v.) in due o più parole vicine. Es.: «Ascoltando il canto/della rana rimota alla campagna» (Leopardi, Le ricordanze», v. 14).
Asindeto (dal greco a=prefisso di negazione, syn=insieme, déo=lego). Coordinazione dei membri della proposizione o del periodo senza l’uso di congiunzioni. Es.: «Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,/senz’amor, senza vita» (Leopardi, Le ricordanze,
Anacronia (dal greco and=indietro, di nuovo, khrénos=tempo). Nel racconto, la rottura della successione cronologica dei fatti, per cui vengono raccontati dopo fatti avvenuti prima di altri, o viceversa. Es.: nell’Eneide la caduta di Troia è raccontata da Enea a Didone, quando giunge e Cartagine; il Piacere inizia con il ricongiungimento di Andrea Sperelli ed Elena Muti dopo una lunga separazione; solo in seguito viene raccontato l’inizio del loro amore.
v. 88 s.).
Anafora (dal greco and=di nuovo, phéro, porto). Ripresa della stessa parola, o di un gruppo di parole, all’inizio di più versi o membri del periodo consecutivi. Es.: «Sei nella terra fredda/sei nella terra negra» (Carducci, Pianto antico, v. 13 s.). Analessi (dal greco andlepsîs=riprese). In narratologia, l'inserimento nel racconto di avvenimenti del passato. Es.: nei Promessi sposi, la storia di fra Cristoforo e di Gertrude. L’inserimento dà origine a un’anacronia (v.). Anticlimax (dal greco anti=contro, klimax= gradazione). Una serie di parole disposte secondo un ordine di intensità decrescente, o per quanto riguarda il significato, o per quanto riguarda aspetti formali. E l’inverso di climax (v.). Archetipo (dal greco arché=origine, e tjpos= modello). In senso generico, il modello originario da cui derivano molteplici manifestazioni della realtà.
Nella psicologia analitica di Carl Gu-
stav Jung «archetipi» sono le forme originarie dell’esperienza psicologica
Glossario
pod
Asse sintagmatico-Asse paradigmatico. Concetti fondamentali della linguistica. I rapporti tra le unità costitutive della lingua, fenemi (v.), lessemi (v.), sintagmi (v.) ecc. sono di due tipi. Nel discorso le unità si dispongono insieme con le altre in una successione lineare, in cui ognuna di esse entra in un rapporto di contiguità con quella che precede e con quella che segue: è questo l’asse sintagmatico del linguaggio (o asse della combinazione). Ad esempio nella frase: «Oggi è una bella giornata» l’asse sintagmatico è costituito dalla serie delle varie parole collocate una dopo l’altra, con implicazioni sintattiche tra di loro (oggetto, predicato). Ma ognuno di queste parole ha rapporti al di fuori di quella singola frase, con gli altri termini del sistema linguistico generale. Ad es. «oggi» con «ieri» o «domani», «bella» con «bellezza», o «brutta», o «bruttezza». Non sono rapporti in atto, come quelli sintagmatici, ma virtuali; possono essere istituiti solo dalla memoria del parlante, che richiama per similarità od opposizione altri elementi del sistema linguistico. É questo l’asse paradigmatico (o della sostituzione). Ognuno di noi, parlando o scrivendo, seleziona termini e costrutti nel sistema globale della lingua (lungo l’asse paradigmatico), poi li combina nel discorso a formare frasi e periodi (lungo l’asse sintagmatico). Le stesse operazioni possono valere per la costruzione o la lettura di un testo letterario. Ad es. un testo narrativo si può esaminare nella successione lineare dei vari elementi che costituiscono l’intreccio, rilevando i
rapporti di contiguità che li uniscono; oppure ogni elemento può essere visto in relazione con altri elementi non contigui, a cui rimanda nel sistema globale del testo, oppure in relazione con il sistema dell’opera generale dell’autore, o addirittura con il sistema letterario del momento storico in cui si colloca il testo (motivi, procedimenti narrativi, retorici, stilistici, ecc.).
Attante. Secondo il semiologo Algirdas Greimas i ruoli diversi che possono essere ricoperti da un’infinita serie di personaggi in miti, favole, testi narrativi di tutte le culture, possono essere ridotti a sei ruoli fondamentali: Soggetto, Oggetto, Destinatore, Destinatario, Aiutante, Oppositore. Questi ruoli sono chiamati «attanti». Il sistema che li collega è il MODELLO ATTANZIALE:
DESTINATORE + OGGETTO + DESTINATARIO î AIUTANTE + SOGGETTO + OPPOSITORE Si tratta di un modello valido per qualunque testo narrativo, esistente o possibile; è il prodotto di un processo di estrema astrazione delle caratteristiche particolari dei vari personaggi di tali testi. Il modello attanziale si colloca sull’asse paradigmatico (v. ) del testo, mentre il Modello narrativo (v.) si colloca su quello sintagmatico (v.). Non bisogna confondere attante con personaggio: lattante è un ruolo, e come tale può essere ricoperto anche da più personaggi diversi. Ad es. nei Promessi sposi l’attante Aiutante è rappresentato dagli attori fra Cristoforo, cardinal Federigo, innominato convertito. Viceversa un singolo personaggio può rispondere a diversi ruoli attanziali: l’innominato è prima Oppositore, poi Aiutante. Nella Coscienza di Zeno, Malfenti, il padre di Augusta, è al tempo stesso Destinatore dell’Oggetto (la donna) e Oppositore del Soggetto (Zeno).
Autodiegetico, Narratore (dal greco aut6s=medesimo, diégesis=narrazione). Termine della narratologia (v.) proposto da Gérard Genette (1972; cfr. M1): è il narratore che è protagonista
della storia da lui stesso raccontata. E una forma particolare del Narratore omodiegetico (v.). Es.: Il fu Mattia Pascal di Pirandello, in cui chi racconta è Mattia stesso; oppure la Divina
commedia.
1143 Biacca. Pigmento bianco di carbonato di piombo utilizzato per schiarire i colori. Bugnato. Rivestimento murario utilizzato per decorare le parti esterne degli edifici. È costituito da blocchi di pietra detti bugne, per lo più di forma quadrangolare, che, a seconda del rilievo e della superficie, caratterizzano le diverse tipologie di bugnato: quello liscio, quando le bugne hanno un leggero rilievo; quello rustico, quando presentano una maggiore aggettazione; a cuscinetto, quando le bugne hanno forma bombata; infine, a punta di diamante, quando la forma è quella di una piramide o di un tronco di piramide.
Capitello. Elemento architettonico che unisce la colonna (v.) con la trabeazione (v.). Carboncino. Piccola asta di carbonio,
più o meno morbido, utilizzata per disegnare. Catafora (dal greco katd= giù, phéro=porto). In senso sintattico, si ha quando un termine ne anticipa un altro seguente. Es.: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Montale, Non chiederci la parola, v. 12), dove «codesto» anticipa «ciò che non siamo ecc. ». In senso retorico, si ha quando una parola (di norma il soggetto) è posto al fondo della frase. Es.: «Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse» (Foscolo, A Zacinto, v. 11).
Catarsi (dal greco katharsis = purificazione). Nella Poetica di Aristotele, l’effetto di purificazione che la tragedia produce negli spettatori, inducendo in essi «pietà» e «terrore». In senso generico vale «purificazione». Cesura (dal latino caedo=taglio). Pausa che divide un verso in due membri (emistichi, v.). Es.: «ove per poco / il cor non si spaura. // E come il vento / odo stormir...» (Leopardi, L’infinito, vv. 7-8), dove la pausa è segnata dal punto fermo dopo «spaura».
Chiasmo. Disposizione incrociata dei membri di una proposizione o di un periodo (dalla lettera DG X, che si leg-
Climax (dal greco klimax=gradazione). Una serie di parole disposte secon-
do un ordine di intensità crescente, o per quanto riguarda il significato, o per quanto riguarda aspetti formali. Es.: nell’Infinito ai vv. 4-5 si ha un climax tra parole bisillabe («sedendo», «mirando»), quadrisillabe («sovrumani») e di cinque sillabe («profondissima»). Codice. Insieme di norme che rendo-
. no possibile la comunicazione di un messaggio. Per esempio nella comunicazione verbale il codice è la lingua: se diciamo “sole” ci comprendiamo se facciamo tutti riferimento al codice “lingua italiana”; chi farà riferimento al codice “lingua inglese” non potrà comprendere. Anche per la letteratura esistono codici che rendono possibile la comprensione dei messaggi (i testi): certe convenzioni formali, certi motivi ricorrenti in un dato momento culturale. Ad es. per noi moderni, che non possediamo più il codice allegorico, risulta difficile comprendere le allegorie di Dante, mentre per i contemporanei era agevole. Colonna. Struttura verticale di sostegno a base circolare. La colonna corinzia è caratterizzata da un fusto con scanaltura a spigolo appiattito, dal capitello (v.) a foglie d’acanto e dal fregio (v.) continuo sulla trabeazione (v.); la colonna dorica presenta un fusto con scanalature a spigolo vivo, il capitello diviso in abaco (v.) ed echìno (v.), ed il fregio composto da triglifi (v.) e metope (v.). Infine, la colonna ionica ha un fusto caratterizzato da scanalature a spigolo tagliato, dal capitello decorato con volute laterali e da un fregio continuo sulla trabeazione. Connotazione. Concetto della linguistica; indica un valore supplementare che un segno assume, oltre a quello di designare un determinato oggetto, che è invece il compito della denotazione (v.). Es.: «nido», in senso denotativo, si riferisce alla tana che gli uccelli co-
1. significante
struiscono per deporre e covare le uova; in senso connotativo può riferirsi alla casa con tutte le implicazioni affettive e i valori morali e sociali che ad essa vanno uniti. Es.: nei Malavoglia padron ’Ntoni, alludendo alla casa ed al paese a cui è attaccato, cita il proverbio «Ad ogni uccello suo nido è bello»: qui sono chiaramente presenti sia il valore denotativo sia quello connotativo del termine «nido». In termini linguistici, nel processo di connotazione un segno (significante+ significato: v.) preso globalmente diventa a sua volta il significante di un significato più complesso. Si veda lo schema a piè pagina, dove la linea continua e le minuscole indicano il processo di denotazione, la linea
tratteggiata e le maiuscole indicano quello di connotazione. Su questa base, torniamo all'esempio citato: i fonemi (v.) /n/, /i/, /d/, /ol compongono il significante della parola «nido», che rimanda al significato «tana degli uccelli»: questa è la denotazione; ma a sua volta il segno «nido» diviene il significante di un nuovo significato più ampio, che implica calore affettivo, sostegno reciproco, onestà, laboriosità, ecc.: questa è la connotazione.
Cornice. Elemento architettonico orizzontale che costituisce la parte superiore della trabeazione (v.). Demiurgo (dal greco demiurgòs= artefice). Termine usato da Platone ad indicare l'artefice divino che, plasmando una materia caotica preesistente, dà forma al mondo, prendendo a modello le idee, che sono le forme assolute ed eterne degli oggetti della realtà sensibile. In senso metaforico, designa chi ha eccezionali doti di creatore, e sa dar forma alla realtà che lo circonda imprimendovi il sigillo della sua personalità. Denotazione. Processo di comunicazione che ha la semplice funzione di designare un oggetto (referente, v.), senza altri sensi supplementari. (v. connotazione).
2. significato
ge “chi”). Es.: «Odi greggi SE du | gire armenti» (Leopardi, Il passero solitario, v. 8); unendo i quattro membri indicati con a, b, b, a mediante due lineette, si ha appunto il segno X:
bXa
b
Glossario
1144 Determinismo. Concezione presente
nella filosofia e nella scienza sin dall’antichità, e tornata in auge in età moderna. Consiste nel vedere la realtà regolata da rapporti di causa ed effetto necessari e inevitabili, senza possibilità di scarto o libertà di scelta: data una certa causa, non può che scaturire un certo effetto. Tale concezione va unita in genere allo scientismo (v.), al meccanicismo (v.), e al materialismo (v.). Tale concezione domina ad esempio nell’Assommotr di Zola: posti dei personaggi ad agire nell’ambiente «appestato» dei sobborghi parigini, non ne può scaturire che la loro degradazione, per un processo meccanico in cui la libera scelta personale non ha luogo.
Diacronia (dal greco did =attraverso, khr6nos=tempo). Termine della linguistica: indica lo studio dei fatti linguistici nelle trasformazioni che subiscono lungo il corso del tempo. In senso più largo, può indicare lo studio di qualunque altro fenomeno nel suo svolgersi nel tempo (v. sincronia). Discorso. In narratologia (v.) sta a indicare il “come” viene raccontata la storia (v.), cioè le forme dell’espressione di un racconto. Echìno. Parte inferiore del capitello (v.), situato tra il fusto della colonna e l’abaco (v.). Emistichio. (dal greco hemi= mezzo, stichos=verso). Una delle due parti in cui una cesura (v.) divide un verso. L’endecasillabo può dividersi in: quinario più senario piani («e questa siepe // che da tanta parte»; L’infinito, v. 2); quaternario tronco più settenario piano («odo stormir // tra queste piante, io quello»; ivi, v. 8); settenario più quinario piani («il cor non si spaura. // E come il vento»; wi, v. 7). In questo ultimo caso vi è sinalefe (v.) tra la vocale finale del primo emistichio e quella iniziale del secondo: per questo metricamente settenario e quinario danno undici sillabe. Enjambement (dal francese enjamber, scavalcare). Si ha quando la fine del verso non coincide con la fine del membro sintattico, per cui l’enunciato “scavalca” il verso e continua in quello seguente. Es.,: «... arcani mondi arcana / felicità fingendo al viver mio» (Leopardi, Le ricordanze, v. 24 s.), deve la fine del verso spezza in due il sintagma (v.) aggettivo-sostantivo, «arcana felicità».
Glossario
Epifora (dal greco epiphord= aggiunta). E l’opposto di anafora (v.): quando due o più membri sintattici terminano con la stessa parola o lo stesso gruppo di parole. Es.: «Tutto è presente. Il passato è presente. Il futuro è presente» (D’ Annunzio, Notturno). In
calizzazione interna quando il punto di vista coincide con quello del personaggio, focalizzazione esterna quando la narrazione vede il personaggio solo attraverso i suoi comportamenti, senza aver accesso alla psicologia (cfr.
MI, $ 2.2).
poesia coincide con la rima univoca,
che si ha quando in rima viene ripetuta la stessa parola. Eros (dal greco = amore). Nella terminologia psicanalitica freudiana l’istinto di vita, che tende all’autoconservazione, contrapposto a Thanatos (v.), l’istinto di morte. Es. In tedesco, pronome neutro, che
si usa nelle espressioni impersonali. Nella terminologia freudiana indica «la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità», di cui abbiamo indizi attraverso i sogni e i sintomi nevrotici. E un caos di «impulsi ribollenti», non conosce «né il bene, né il male, né la moralità» (Freud). Nei paesi di lingua inglese viene indicato con il pronome neutro latino Id.
Eterodiegetico, Narratore (dal greco héteros=altro,
diverso,
e diégesis=
narrazione). Termine della narratologia (v.) proposto da Gérard Genette (cfr. M1): Narratore che non è presente come personaggio nel racconto. Es.: il Narratore dei Promessi sposi. E l’opposto di omodiegetico (v.).
Fabula. Termine della narratologia (v.): indica gli avvenimenti dell’intreccio (v.) ricostruiti nella loro successione cronologica (che nell’intreccio può essere sovvertita). Focalizzazione. Procedimento per cui i fatti di un racconto sono presentati
da un particolare punto di vista, in mo-” do che l’informazione narrativa reca l'impronta della soggettività di chi “vede”.Vi può essere focalizzazione sul Narratore (v.), quando il racconto è presentato attraverso l'ottica del Narratore, focalizzazione sul personaggio quando i dati sono visti attraverso la prospettiva del personaggio. La focalizzazione sul narratore può anche essere esterna, quando non penetra nell’interiorità del personaggio a cogliere le motivazioni psicologiche dei suoi atti, ma si limita a descrivere dall'esterno i suoi comportamenti. Genette dà una sistemazione diversa dalla nostra: parla di focalizzazione zero quando vi è il Narratore onnisciente e il canale dell’informazione non subisce restrizioni soggettive, fo-
Fonema (dal greco phoné= suono). E la più piccola unità di linguaggio. In linguistica si indica con le lettere dell’alfabeto tra due barrette, /a/, /e/, /p/, /t/, ecc. Mentre i suoni che l'apparato fonatorio dell’uomo può emettere sono infiniti, i fonemi, le unità dotate di senso, sono in numero limitato. Questo perché il fonema è un’astrazione da una molteplicità di suoni concreti, un modello ideale. Ad esempio i parlanti A, B, C... Z emettono ciascuno
un suono “a” diverso. Ma tutti questi suoni si possono riferire al modello astratto /a/; e ciò permette la comprensione reciproca. I fonemi, combinandosi fra loro, danno origine ai monemi, unità fornite di senso grammaticale e morfologico (in termini sempli-
ci, le parole).
Fonosimbolismo. In poesia (ma anche nella prosa, artistica e non), i suoni che compongono le parole possono assumere significati autonomi, evocativi ed allusivi. Il caso più comune di fonosimbolismo è l’onomatopea, in cui il suono della parola imita il suono dell’oggetto designato. Es.: «Volaron sul ponte che cupo sonò» (Manzoni, I coro dell’Adelchi), dove i suoni cupi della /o/ e della /u/ rendono il rimbombo degli zoccoli dei cavalli sulle tavole del ponte. Ma talora i suoni hanno un potere evocativo più vasto, meno determinato. Es.: «Ed ascoltando il canto | della rana rimota alla campagna» (Leopardi, Le ricordanze, v. 13 s.), dove il susseguirsi di /a/, spesso accentate, crea una suggesione di vastità spaziale indefinita. Fregio. Elemento la trabeazione (v.), ve (v.) e la cornice sico. Solitamentre
architettonico delposto tra l’architra(v.) del tempio clasdecorato a rilievo.
Frontone. Coronamento architettonico di forma triangolare che nel tempio classico decorava la parte superiore dei lati minori. Costituito dagli spioventi del tetto e dalla trabeazione (v.) è delimitato da cornici aggettanti che racchiudono, in alcuni casi, un rilievo scultoreo. Funzione. Termine proposto da V. J. Propp, studioso russo della fiaba po-
1145 polare, nella Morfologia della fiaba (1928). Indica le unità minime che
compongono il racconto della fiaba, costituite dalle azioni depurate delle determinazioni particolari ad ogni testo, cioè degli attributi specifici dei personaggi che le compongono. Le stesse
funzioni ricorrono in tutto il corpo della “fiabe di magia” russe studiate da Propp, ed in successione costante, individuando così un modello narrativo (v.) comune a tutte le fiabe. Guglia. Elemento architettonico decorativo di forma conica, piramidale o poligonale, tipico dello stile gotico, situato alla sommità di torri e strutture verticali. E solitamente conclusa a cuspide (v.). Idealismo. In generale, concezione che sostiene che la realtà è costituita da idee, pensiero. Ad essa si oppongono il realismo, secondo cui le cose hanno un’esistenza autonoma rispetto al pensiero (la cosa “albero” esiste indipendentemente dall’idea di “albero”), ed il materialismo (v.), che ritiene che tutta la realtà sia costituita da materia. Nell’età moderna l’idealismo si è affermato soprattutto in Germania ai primi dell'Ottocento, con pensatori come Fichte, Schelling, Hegel. In Italia è stato ripreso nel Novecento da Croce e da Gentile. Intreccio. In narratologia (v.) la successione degli elementi costitutivi della storia (v.), nella forma in cui si presentano concretamente nel discorso (v.): i rapporti temporali possono essere rovesciati da anacronie (v.); personaggi e azioni conservano i loro attributi specifici, a differenza che nel modello narrativo (v.), che si colloca invece ad un livello massimo di astrazione. Ipallage (dal greco hypallaghé = mutamento, scambio). E uno scambio di rapporti tra gli elementi di una frase. Il caso più frequente consiste nel riferire un aggettivo ad un sostantivo diverso da quello a cui logicamente dovrebbe attribuirsi. Es.: «Sorgon le dive /membra da l’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata, v. 7 s.), dove «egro» (= malato) logicamente dovreb‘be riferirsi a «membra», non a «ta-
ati
lamo».
Iperbato (dal greco hypérbaton, inversione). È la separazione di due termini, che dovrebbero essere uniti sintatticamente, mediante l’inserzione di al-
tri termini. Es.: «Slanciansi lunghe tra "1 verde polveroso e i pioppi le strade» (Carducci, Fuori della Certosa di Bologna, v. 7). E procedimento stilistico caro alla poesia classicheggiante, che cerca con esso di riprodurre le inversioni tipiche della lingua latina. Iperuranio (dal greco hypér=oltre e ouran6s=cielo). Nella filosofia platonica, la zona oltre il cielo in cui hanno sede le idee, i modelli perfetti ed eterni “delle cose. Ipotassi (dal greco hypétaxris= subordinazione). Rapporto di subordinazione di una o più proposizioni rispetto alla principale del periodo. Si contrappone alla paratassi (v.), che consiste nell’allineare tutte le proposizioni sullo stesso piano, mediante la coordinazione. Iterativa, Narrazione. Nella terminologia narratologica introdotta da Genette, consiste nel raccontare una sola volta ciò che accade n volte. (Cfr. MI, $ 2.3).
Lanterna. Elemento architettonico di forma circolare o poligonale, situato sulla sommità di una cupola o di un tiburio (v.). Solitamente presenta una serie di finestre per aumentare l’illuminazione interna dell’edificio. Lesèna. Elemento architettonico con funzione decorativa, costituito da un semipilastro o semicolonna lievemente aggettante dal muro. Lessema. Unità del linguaggio composta dalla combinazione dei fonemi (v.). E il minimo elemento linguistico provvisto di significato.
Maledettismo. Atteggiamento che consiste nell’ostentare disprezzo per i valori e le convenzioni sociali comuni, nel condurre vita irregolare e immorale, compiacendosi del vizio e della dissolutezza. Compare già in età romantica, esprimendo il fondamentale conflitto tra l’artista e la società; si afferma poi pienamente in età decadente. Il termine trae origine dalla serie dei Poeti maledetti pubblicati da Paul Verlaine nel 1883 sul periodico “Lutèce”. Si trattava di versi di Tristan Corbière, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé. Materialismo. La concezione che sostiene che tutta la realtà è materia, negando l’esistenza di sostanze spirituali.
Si contrappone a idealismo (v.) e a spiritualismo (v.); si unisce di norma a determinismo (v.) e a meccanicismo (v.). Meccanicismo. Dottrina filosofica affermatasi soprattutto con il sorgere della scienza moderna e con il materialismo (v.) degli Illuministi. Essa nega il finalismo, cioè quella concezione
secondo cui ogni aspetto della natura è ordinato ad un fine secondo un piano provvidenziale, e sostiene che la natura è come una grande macchina, regolata da un determinismo (v.) rigoroso, cioè da un ferreo meccanismo di cause ed effetti che esclude l’intenzionalità e la libera scelta. Metafora (dal greco metaphérein= trasferire). Figura retorica che consiste nel sostituire un termine proprio con un altro, il cui significato ha con il primo un rapporto di somiglianza. Es.: «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume?» (Dante, Inferno, I, v. 79 s. ); «Gemendo / il fior de’ tuoi gentili anni caduto» (Foscolo, In morte del fratello Giovanni, v.3 s. ); «E il colle sopra bianco di beve ride» (Carducci, Nella piazza di S. Petronio, v. 2).
Metonimia (dal greco metd + 6noma= spostamento di nome). Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine proprio con un altro, che ha con il primo un rapporto di contiguità (logica o materiale). Es. lo scambio di causa ed effetto: «Talor lasciando le sudate carte» (Leopardi, A Sqdvia, v. 16), cioè lo studio faticoso, che fa sudare sui libri; la materia per l’oggetto: «Che tronca fe’ la trionfata nave | del maggior pino» (Foscolo, De sepolcri, v. 135); il contenente per il contenuto: «Cittadino Mastai, bevi un bicchier» (Carducci, Il canto dell’amore, v. 120); l’astratto per il concreto, o viceversa: «Or di riposo / paghi viviamo,
e scorti / da mediocrità» (Leopardi, Ad A. Mai, vv. 171-173), dove «mediocrità» vale per «uomini mediocri»; l’autore per l’opera: «Leggere Dante». Mètopa. Elemento architettonico decorativo che caratterizza, nell'ordine dorico, il fregio (v.) della trabeazione (v.), alternandosi al triglìfo (v.). E costituito da una lastra, quadrata o rettangolare, a volte decorata da dipinti
o sculture a rilievo.
Mitopoiesi (dal greco mythos= mito e poiéo= creo). E il processo di creazione dei miti.
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1146 Modello narrativo. Si ricava attraverso la comparazione di più testi narrativi, individuandone le azioni fondamentali (funzioni, v.), prescindendo dai soggetti che le compiono e dai loro attributi specifici in ogni testo particolare. Si colloca sull’asse sintagmatico (v.) del testo (cfr. M1, $ 1).
Naos. Nel tempio locale più interno nato ad accogliere vinità. Può essere nao (v.).
antico è la cella, il dell’edificio, destil’immagine della dipreceduto dal pro-
Narratologia. Disciplina che sudia il testo narrativo (cfr. M1). Narratore. Nella terminologia narratologica, indica la “voce” che racconta. Può essere un personaggio della storia stessa, come Jacopo Ortis o Mattia Pascal (narratore omodiegeti-
cato in quanto si oppone ad altri. Es.: came e pane si distinguono perché il fonema /c/ si oppone al fonema /p/. Il meccanismo per cui il significato di un elemento si definisce in modo differenziale per opposizione ad altri elementi vale per ogni tipo di sistema, anche per il testo letterario. Ad es. in un sistema di personaggi (v.), il significato di un personaggio si definisce per opposizione rispetto a quello di un altro: come Lucia e Gertrude, cioè purezza vs corruzione. L'opposizione si indica convenzionalmente con il segno vs che è l’abbreviazione di versus (v.). Ossiméro (dal greco 0xys=acuto e mor6s=insensato). E un’apparente insensatezza, che in realtà è acuta; con-
siste nella combinazione di due termini tra loro in contraddizione, che sembrano escludersi l’un l’altro. Es. «provvida sventura» (Manzoni, II coro dell’Adelchi).
Piedritti. Struttura architettonica verticale, con funzione portante, su cui poggiano l’arco, la colonna, la parasta (v.) ed il pilastro. Pinnacolo. v. guglia. Poetica. Nella tradizione classica indica i trattati che fissano le norme dello scrivere poetico (la Poetica di Aristotele, l’Arte poetica di Orazio). Oggi è comunemente usato a indicare il complesso delle concezioni di un autore o di un movimento intorno all’arte, ed anche il programma artistico che essi si prefiggono. Pilastro. Elemento architettonico verticale di sostegno, caratterizzato da una base poligonale o quadrangolare. Polisindeto (dal greco polys= molto e syndéo=lego insieme). Coordinazione tra più membri sintattici o proposizioni mediante ripetute congiunzioni. Es.: «E mi sovvien l’eterno / e le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei» (Leopardi, L'infinito, vv. 11-13). E l’opposto di asindeto (v.).
CO, V.), oppure può essere ad essa estraneo, pura voce fuori campo come il narratore di Promessi sposi o dei Malavoglia (narratore eterodiegetico, v.); in questo secondo caso va distinto dall’autore reale, in carne ed ossa, in quanto il Narratore è una funzione del testo, e fa parte dell'universo della finzione.
Paragramma (dal greco pard=vicino, e grimma= scrittura). Accostamento di due parole che si distinguono solo per una lettera. Es. viso-riso, canepane.
Narratario. Nella terminologia narratologica, è il destinatario del racconto del Narratore (v.). E anch'esso una funzione del testo, e fa parte della finzione narrativa, quindi non è da confondere con il lettore reale, in carne ed ossa, che legge il testo. Es.: Lorenzo Alderani, l’amico a cui Jacopo Ortis indirizza le sue lettere. Spesso è un destinatario solo virtuale, non è un personaggio vero e proprio che compaia nella storia (così i «venticinque lettori» a cui ironicamente si rivolge il Narratore dei Promessi spost).
Paratassi (dal greco pard=vicino e tdxis=disposizione). Rapporto di coordinazione tra varie proposizioni di un periodo. Si contrappone ad ipotassi (V.).
Principio del piacere. Termine della psicanalisi freudiana: indica la tendenza istintuale all’appagamento del piacere, a prescindere da ogni norma morale e sociale. Vi si contrappone il principio della realtà (v.).
Paronomaàsia (dal greco pard=vicino e onomasta=denominazione). Ac-' costamento di parole con somiglianze foniche, ma di significato diverso. Es.: «Le tue limpide nubi e le tue fronde | l’inelito verso...» (Foscolo, A Zacinto, v. 6 s.), dove «limpide» e «l’inclito» hanno diversi fonemi in comune. Rientra in questa categoria anche l’anagramma, che deriva da parole composte dagli stessi fonemi, ma diversamente ordinati. Es.: «Silvia»/«salivi» in A Silvia, v. 1 e v. 5.
Principio della realtà. Termine della psicanalisi freudiana: indica il controllo degli istinti da parte dell'Io, che ammette solo l’appagamento di quelli che sono compatibili con le esigenze della realtà esterna, della società e della morale. Ad esempio, perché ci sia civiltà e vita sociale occorre secondo Freud che vi sia un controllo delle esigenze istintuali. La piena affermazione del principio del piacere (v.) segnerebbe la disgregazione della vita sociale.
Nuclei. Nella terminologia narratologica, sono i nodi essenziali dell’intreccio (v.), che non si possono eliminare senza cambiare la logica dell’intreccio stesso.
Omodiegetico, Narratore (dal greco hom6s=uguale e diégesis=narrazione). E il Narratore (v.) presente trai personaggi stessi della storia raccontata. Es. Adso di Melk, il giovane monaco che racconta la vicenda nel Nome della rosa di Eco. Opposizione. Termine della linguistica. In un sistema linguistico, ogni elemento si definisce ed acquista signifi-
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Parasta. Pilastro con funzione di sostegno, inserito nella parete e leggermente aggettante. La sua decorazione riflette gli stili utilizzati per le colonne (v.).
Pausa. In narratologia (v.), quando il tempo della storia (v.) è=0. Il racconto non procede, e in suo luogo vi sono divagazioni, descrizioni, spiegazioni. Es. la spiegazione delle origini della carestia nel capitolo XII dei Promessì sposi.
Poliserpia (dal greco polys=molto e séma= significato). Indica il carattere proprio della poesia (e del testo letterario e artistico in generale) che esprime più significati, interpretabili in più modi.
Pronao. Nel tempio greco costituiva l’atrio o vestibolo, delimitato da colonne o pilastri, che precedeva il naos (v.). Puntasecca. Strumento che termina con una punta di diamante o con un’ago di acciaio utilizzato per incidere solchi più o meno profondi.
1147 Referente. Termine della linguistica: è l’oggetto designato dal segno (v.) linguistico. Ad esempio il referente della parola «albero» è l’albero di cui noi parliamo, che si può vedere fuori della finestra. Il referente può essere anche un concetto astratto: la virtù, la felicità. Referenziale è il linguaggio che intende semplicemente designare dei referenti, senza sovrasensi ulteriori. Si svolge quindi il livello della denotazione (v.), escludendo ogni forma di connotazione (v.). Rimozione. Nel linguaggio della psicanalisi indica l’esclusione dalla coscienza di contenuti sentiti come pericolosi dall’Io, che si difende relegandoli nell’inconscio. I contenuti rimossi tornano però al livello cosciente in forma mascherata, come sintomi ne-
vrotici (fobie, ossessioni...), lapsus verbali, atti mancati, sogni. E questo il ritorno del rimosso. Anche certi temi letterari possono essere visti come ritorno del rimosso, individuale o sociale. Ad esempio i mostri che popolano la letteratura romantica. Ripetitivo, racconto. Nella terminologia narratologica di Genette, consiste nel raccontare n volte ciò che è avvenuto una volta sola. Satelliti. Nella terminologia narratologica di Seymour Chatman (cfr. M1), sono gli elementi dell’intreccio che completano, sviluppano, spiegano i nuclei (v.). Eliminandoli, la logica dell'intreccio non ne risulterebbe sconvolta.
Scena. Nella terminologia narratologica, si ha quando tempo della storia (v.) e tempo del discorso (v.) coincidono. Scientismo. Concezione che vede la scienza moderna come fonte suprema di conoscenza, capace di comprende-
re integralmente il reale e di dominarlo, e che esige che tutte le altre discipline si conformino al modello della scienza. E la concezione che trionfa nell’età del Positivismo.
Segno. Nella terminologia linguistica, ciò che vale a designare un certo concetto (significato, v.) attraverso un’espressione fonica (significante, v.). Il segno è dato quindi dall'unione di significante e significato. Vi sono però anche segni non linguistici (una vignetta, un cartello stradale, un modo di vestire, ecc.). .
Sema (dal greco séma= segno). Unità minima di significato. Semantica (dal verbo greco semdino= significo). La parte della linguistica che studia i significati. Semiologia (dal greco séma= segno e l6g0s= scienza). La scienza che studia i segni, linguistici e non linguistici. Fu postulata dal fondatore della linguistica strutturale Ferdinand de Saussure (1857-1913), ed ha recentemente avuto grandi sviluppi (oggi si preferisce usare il termine semiotica). In particolare la semiotica letteraria studia,
con i metodi semiotici, quel peculiare segno che è il testo letterario. Significante. In linguistica, l’espressione fonica che rimanda ad un concetto (significato, v.). Es. nella parola «sole» il significante è la serie di fonemi /s/, lol, /1/, le/, combinati in quella successione. In un segno non linguistico, come un certo abbigliamento, il significante è la linea dell’abito, l’accostamento di colore ecc. Ad esempio Jeans più giubbotto nero con borchie, oppure gessato grigio doppio petto con cravatta regimental: è chiaro che questi due significanti rimandano a significati ben diversi, come «teppista di periferia» o «manager di industria». Significato. In linguistica, il concetto a cui rimanda l’espressione fonica, il significante (v.). Sinalefe (dal greco syn=insieme e aleipho=unisco). In metrica, la fusione della vocale finale di una parola con quella iniziale della parola successione nel verso. Le due vocali si pronunciano distinte, ma metricamente contano come una sillaba sola. Es.: «Dolce e chiara è la notte e senza vento» (Leopardi, La sera del dì di festa , v. 1), dove la sinalefe ricorre ben tre volte. Sincronia (dal greco syn=insieme, e khronos=tempo). Termine della linguistica. Una descrizione sincronica di una lingua esamina i rapporti funzionali che si istituiscono fra i vari elementi del sistema linguistico (fonemi, lessemi...) in un dato momento del suo sviluppo, prescindendo dagli stati precedenti e successivi. Si oppone all’analisi diacronica (v. diacronia), che studia invece le trasformazioni del sistema linguistico nel corso del tempo. O1tre ai sistemi linguistici, anche altri sistemi si possono studiare sincronicamente o diacronicamente: ad esempio
il sistema letterario. Si può studiare la letteratura vedendo lo sviluppo di temi, generi, forme, stili, ecc. in senso diacronico; ma si può operare una sezione trasversale della letteratura, studiando i rapporti tra tutti questi elementi in un dato momento della storia, in contemporanea. Ad esempio, i rapporti tra il linguaggio aulico del classicismo e il linguaggio più popolare dei romantici negli anni 1815-1820 (studio sincronico del sistema letterario), oppure l'evoluzione della lingua poetica da Petrarca al Novecento (studio diacronico). Sineddoche (dal greco synekdoché= l’accogliere in sé). È la figura retorica che si ha indicando la parte per il tutto (o viceversa). Es.: «Alla poppa raminga le ritolse / l’onda incitata dagli inferni dei» (Foscolo, Dei sepoleri, Vv. 222 s.), dove «poppa» sta al posto di «nave». Sinestesia (dal greco syn=insieme e aisthesis=sensazione). Fusione delle sensazioni; consiste nello scambiare tra loro sensazioni di carattere visivo fonico, tattile, olfattivo; ad esempio una sensazione fonica può evocare immagini visive, una sensazione olfattiVa può evocare una sensazione tattile, ecc.: «Vi sono profumi freschi come carni di bimbo / dolci come oboi, verdi come praterie» (Baudelaire, Corrispondenze, v. 9 s.); «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscio che fan le foglie / del gelso» (D'Annunzio, La sera fiesolana, vv. 13). Singolativa, narrazione. Nella terminologia narratologica di Genette consiste nel raccontare una volta ciò che è avvenuto una volta.
Sintagma (dal greco s/jn=insieme e tasso=ordino, dispongo). Gruppo di parole collegate fra loro da legami sintattici. Può essere un’unità anche inferiore alla proposizione. Es.: «Quei monti azzurri» (Leopardi, Le ricordanze, v. 21), «O dell’arida vita unico fiore» (Leopardi, Le ricordanze, v. 49), «All’ombra dei cipressi» (Foscolo, Dei sepolcri, v. 1). Gli elementi di un sin-
tagma si combinano lungo l’asse sintagmatico (v.), cioè in sequenza lineare, uno dopo l’altro. Sistema. Un insieme di elementi, cia-
scuno dei quali ha una funzione precisa in rapporto a tutti gli altri, di modo che, se viene modificato, si deter-
Glossario
1148 mina una modificazione di tutto l’insieme. Secondo la linguistica strutturale la lingua è un sistema; anzi, ognuno dei suoi livelli (fonologico, morfologico, lessicale, sintattico, semantico) costituisce un sistema. Es.: si prenda il sistema vocalico del latino:
In alcuni dialetti settentrionali la/u/è diventata/ù/ (come in francese), per cui la/o/è passata al posto della /u/: a é e
è 0]
Pea Anche il testo letterario è un sistema. Ad es. in un testo narrativo i personaggi compongono un sistema di personaggi, in cui ciascuno di essi ha significato non in sé, ma in relazione a tutti gli altri. Ad esempio nei Promessi sposti: Renzo (Eroe) pre pra] Gertrude | Fra Cristoforo innominato I Lucia —Federigo Don Abbondio (Eroina) innominato II (oppositori) (aiutanti)
la zza Don Rodrigo ea (Avversario) Sommario. Nella terminologia narratologica, la narrazione in cui il tempo del discorso (v.) è minore del tempo della storia (v.): TD