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Italian Pages 369 Year 2002
Guido
Baldi
Silvia
Giusso
PERCORSI
Mario
Razetti
Giuseppe
E STRUMENTI
Zaccaria
Guido
Baldi
Silvia
Giusso
PERCORSI
Mario
Razetti
Giuseppe
Zaccaria
E STRUMENTI
DAL TESTO ALLA STORIA DALLA STORIA AL TESTO Dalla Scapigliatura
al Postmoderno
edizione modulare
Storia del Teatro e dello Spettacolo a cura di Gigi Livio
Editor: Gigi Livio
Redazione: Cristina Desderi Progetto grafico: Ufficio grafico Paravia Copertina: Studio Livio, Torino Impaginazione elettronica: LIV, Cascine Vica, Rivoli (Torino) Controllo qualità: Andrea Mensio L’opera è stata unitariamente concepita e discussa in ogni suo par-
ticolare da tutti gli autori. Nel presente volume sono di Guido Baldi i Percorsi storico-culturali, I, Il, V; i Percorsi tematici, Dalla Scapigliatura al Verismo, P 1-7, Il Decadentismo, P 1-6, Dal dopoguerra al Postmoderno, P 1-4; il Glossario. Sono di Giuseppe Zaccaria i Percorsi storico-culturali, IMI, IV; i Per-
corsi tematici, Il primo Novecento e il periodo tra le due guerre, P 1-7; Dal dopoguerra al Postmoderno, P 5-7. I Percorsi d’arte sono di Gianni Solinas. Dario Tomasi ha curato l’inserto Momenti di storia del linguaggio cinematografico.
In copertina: George Grosz, Metropolis, 1916-1917, olio sutela, part., Madrid, Fundacién Coleccién Thyssen-Bornemisza © by SIAE 2002
Tutti i diritti riservati © 2002, Paravia Bruno Mondadori Editori Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche, appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest'opera, l’Editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. L'editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a ripro-
durre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all'Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’Ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02809506.
Stampato per conto della casa editrice presso «La Tipografica Varese S.p.A.» Varese, Italia
LIBRI DI TESTO E SUPPORTI DIDATTICI La qualità dei processi
di progettazione, produzione e commercializzazione
Prima edizione
Ristampa 001203405
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Perché un'edizione modulare Oggi nella scuola è entrata in crisi l'ambizione enciclopedica che sorreggeva l'impostazione tradizionale dell'insegnamento della letteratura, cioè la pretesa di fornire un quadro esaustivo del patrimonio nazionale, con i necessari riferimenti stranieri. Questa impostazione, per la ristrettezza del tempo effettivo a disposizione, determinava spesso l'impossibilità di un approccio diretto ai testi e dava origine a un insegnamento per grandi sintesi puramente manualistiche, che tenevano lontano lo studente dal patrimonio vivo della cultura. Da quando si è imposta la tendenza a dare ai testi un'assoluta centralità, si è cercato di ovviare a quegli inconvenienti in vari modi, attraverso selezioni rigorose, che puntavano a mettere a fuoco solo le personalità, le opere, i movimenti più significativi. Di questa esigenza si sono fatti interpreti i recenti programmi ministeriali destinati ad alcuni tipi di scuola, proponendo un'impostazione modulare dell'insegnamento letterario, articolata in unità didattiche di vario tipo, che consentono di sperimentare una pluralità di approcci e di percorsi, ciascuno con obiettivi specifici. | programmi ministeriali indicano, sia pure in modo non prescrittivo, alcune tipologie di queste unità didattiche: storico-cu/turali, tematiche, per generi, ritratto d'autore, incontro con l'opera. Proprio per rispondere a queste esigenze è nata questa edizione modulare di Da/ testo alla storia, dalla storia al testo. Riorganizzando in modo diverso i materiali che già hanno incontrato il favore di docenti e studenti, essa infatti cerca di offrire i cinque tipi di unità didattiche previsti, affidati a specifici volumetti, in modo da fornire agli insegnanti tutti gli strumenti per operare la scelta delle unità su cui articolare il loro piano di lavoro annuale.
La struttura dell'opera L'opera è divisa in tre volumi, uno per ciascuno degli anni del triennio; ogni “volume” a sua volta comprende una serie di tom'/, di mole contenuta, dedicati alle varie tipologie di unità didattiche: — PERCORSI E STRUMENTI, contenente: | Percorsi storico-culturali, intesi a fornire gli strumenti per capire il contesto e le coordinate per costruire, con itesti raggruppati nelle sezioni antologiche, unità didattiche che diano il quadro di un'epoca, di un movimento, di una tendenza culturale, di una corrente (ad esempio l'Umanesimo, l'Illuminismo, il Romanticismo...). Vi si esaminano sistematicamente le strutture politiche, sociali ed economiche, le istituzioni culturali, il ruolo degli intellettuali, il pubblico, le idee e le mentalità, la lingua. | Percorsi tematici, anch'essi da seguire, in collegamento con le parti antologiche, per legare con un filo unitario la lettura di una serie di testi in cui compaia un determinato tema (ad esempio L'amore e la donna, Città e campagna...). Alcuni di questi percorsi tematici proseguono attraverso tutti e tre gli anni di corso, segnando persistenze culturali nelle varie epoche e sottolineando affinità e differenze tra di esse; altri sono limitati a zone più ristrette e specifiche (come quello dedicato al motivo della macchina, tipico della modernità). Alcuni microsaggi che illustrano concetti o problemi di carattere generale (ad esempio la Storia dei metodi critici, Il testo narrativo). Il Teatro (per l'ultimo anno di corso anche una Storia del linguaggio cinematografico). L'Arte. Il Glossario. — AUTORI E OPERE, contenenti i profili degli autori maggiori e un'ampia sezione antologica, con particolare ampiezza ed approfondimento per l’opera che viene posta al centro dell'attenzione (ad esempio Dante e la Commedia, Ariosto e l'Orlando furioso, Leopardi e i Canti...) Per mettere in evidenza atfinità o contrasti di visioni del mondo, di temi e di soluzioni formali all'interno di un dato panorama culturale, questi tomi presentano di norma coppie di autori, ad esempio Petrarca e Boccaccio, Ariosto e ___
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IV Tasso, Manzoni e Leopardi. Ciascun tomo si chiude con un questionario che, attraverso domande appositamente mirate e opportuni riferimenti alle trattazioni precedenti e ai testi antologizzati, vuole stimolare negli studenti il confronto critico e la riflessione personale. — GENERI, dove, raggruppati a seconda del genere, sono antologizzati gli scrittori cosiddetti “minori” e gli stranieri, con alcuni testi degli scrittori italiani maggiori che siano particolarmente significativi ad illustrare le caratteristiche di un genere (Petrarca per la lirica, Ariosto per il poema cavalleresco...). Ad ogni tomo sarà premessa un'introduzione illustrante le caratteristiche del sistema dei generi in quella data epoca.
Gli Echi nel tempo e le persistenze di temi e forme Per rispondere all'esigenza, sempre prospettata dai programmi, di accostare temi e forme della letteratura recente a quelli del passato, anticipando approcci alla letteratura moderna e contemporanea sin dai primi anni di corso, sono stati elaborati materiali di nuovo tipo, gli Echi ne/ tempo. Essi, prendendo spunto da temi o soluzioni formali di alcuni grandi scrittori dell'Ottocento, stabiliscono paralleli con temi o soluzioni per qualche verso affini negli scrittori del Novecento. In tal modo gli studenti saranno stimolati a individuare continuità e differenze, a rilevare la lunga durata di temi e forme, a percepire l'attualità del passato e al tempo stesso a sottolineare lo spessore storico dei fenomeni culturali e letterari. Tali Echi riportano passi anche abbastanza ampi delle opere a cui si fa riferimento, in modo da consentire sempre la verifica diretta sui testi. | passi scelti mirano anche a suscitare negli allievi la curiosità e il gusto di allargare le proprie esplorazioni, mediante esperienze personali di lettura. Per il Novecento, poiché l'arco diacronico tende progressivamente a zero, gli Echi nel tempo sono stati sostituiti con materiali affini che stabiliscono paralleli tra la letteratura e altri campi quali la filosofia, le arti figurative, il teatro e il cinema.
Proposte di lavoro e Guide Le Proposte di lavoro e i Questionari di riepilogo sono stati in certa misura trasformati, in modo da fornire l'opportunità di allenare gli studenti alle prime prove del nuovo esame di Stato sin dal primo anno del triennio, per le tipologie analisi del testo e saggio breve (di argomento letterario). La Guida perl'insegnante è stata rinnovata, con suggerimenti per i piani di lavoro, test d'ingresso, ulteriori esercizi (nella forma consueta delle proposte di lavoro già presenti nell'opera, in quella organizzata sul modello dell'analisi richiesta dall'esame di Stato ed in quella di esercizi di identificazione). Una particolare novità è costituita da materiali di riflessione su un percorso di scrittura che comprende non solo le tipologie previste dall'esame (analisi del testo, saggio breve, articolo di giornale, intervista, lettera), ma anche suggerimenti sull'utilizzo didattico ad esempio della parafrasi, del riassunto, della recensione, nonché spunti finalizzati alla scrittura creativa. Un'ulteriore novità, infine, è la Guida alla scrittura, un volumetto con indicazioni operative per ivari tipi di scrittura, articolate in una breve parte teorica, in cui viene definito il genere di scrittura esaminato, ed una parte pratica in cui, attraverso alcune esemplificazioni, si mostra come procedere nel concreto. Ogni tipo di scrittura è poi corredato da proposte di lavoro.
| principi ispiratori: la centralità del testo Questa edizione modulare, pur nella sua diversa struttura, resta fedele ai principi che hanno ispirato le precedenti edizioni dell’opera. In primo luogo la centralità del testo: ormai nella didattica è ampiamente accolta l'idea che la conoscenza dell'oggetto letterario debba fondarsi su un rapporto diretto con esso, In modo che il discente possa acquisire su realtà concrete, non attraverso la mediazione di astratte sintesi, imetodi scientifici di ricerca, le capacità di osservazione, di analisi, di confronto e, non ultima fiPREFAZIONE
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Vv nalità, possa ricavare dalla lettura quel piacere che può stimolarlo ad accostarsi poi autonomamente all'opera intera, a cercare altri libri, a divenire insomma lettore abituale. Per questo il fulcro dell'opera continua ad essere costituito dalle ana/isi dei testi. Tali analisi non mirano a imporre una determinata interpretazione, ma solo a fornire esempi di applicazione dei metodi critici e, attraverso di essi, esempi di letture possibili. Per questo l'analisi è affrontata di regola con vari strumenti metodologici, storico-s0ciologici, formali e semiotici, simbolici, antropologici, psicanalitici, in modo da far vedere come ogni metodo permetta di portare alla luce diversi aspetti del testo. Là dove il testo offre l'opportunità, e lo stato delle indagini critiche lo consente, sono state anche proposte contrastanti interpretazioni a confronto. Oltre alla trasmissione degli strumenti, l'intento delle analisi è quello di fornire all’allievo il senso della problematicità dell'oggetto letterario, del fatto che tale oggetto può e deve essere affrontato da angolature diverse e che la lettura univoca è fatalmente inadeguata di fronte a una realtà complessa e polisemica quale è il testo letterario. Naturalmente, se le interpretazioni di un testo sono tendenzialmente illimitate, ciò non significa che ogn/ interpretazione sia valida: con la strumentazione offerta da quest'opera, l'allievo ha la possibilità di attrezzarsi anche pervagliare la validità e la sostenibilità delle varie affermazioni e pertrovare gli elementi che eventualmente le possano denunciare come inattendibili.
La centralità del lettore Gli esempi forniti dalle analisi dei testi possono poi essere utilizzati dallo studente come punto di partenza per una propria indagine personale. A tal fine rispondono le Proposte di lavoro, che costituiscono l'indispensabile prosecuzione e il naturale completamento delle analisi dei testi. | quesiti formulati in queste Proposte, ponendo dei problemi, mirano a indicare allo studente la strada per impostare personalmente l'indagine, utilizzando i metodi di cui si è impadronito grazie agli esempi di lettura forniti dalle analisi, senza che con questo venga predeterminato un punto d'arrivo, quindi con domande sempre aperte, mai a risposta chiusa. Si delinea così l'altro principio fondamentale che ispira l'opera: non solo la centralità del testo, ma, strettamente integrata ad essa, la centralità del lettore, il suo ruolo essenziale di interprete che attualizza le potenzialità di significato insite nell'opera. Perciò alle analisi e alle proposte di lavoro si affiancano le Guide all'analisi. sì tratta di questionari che si propongono l'obiettivo di sollecitare ulteriormente l'apporto attivo, personale e critico dello studente, sia individualmente sia all’interno di quella comunità interpretante che è la classe. A tal fine ivari quesiti di queste guide, come quelli delle proposte di lavoro, non implicano risposte uniche, date a priori — che riproporrebbero due aspetti negativi dell'insegnamento estremamente deleteri per la formazione dei giovani, il nozionismo fine a se stesso e il dogmatismo — ma sono domande problematiche, che possono avere diverse risposte e quindi sono intese solo a suscitare la libera riflessione e ad educare alla piena presa di responsabilità di un'interpretazione, che deve sempre essere fondata e argomentata. Se lo studente deve imparare a difendere le proprie interpretazioni, deve parimenti avvezzarsi a rispettare quelle altrui, pur sottoponendole a critica. Solo attraverso questo consapevole confronto può svilupparsi nei giovani il senso della convivenza civile. La differenza rispetto alle proposte di lavoro è che queste proseguono e completano un'analisi già data, mentre le guide all'analisi (insieme alle più limitate ma analoghe Guide all'analisi formale) offrono allo studente indicazioni su come possa costruirla lui stesso, senza appoggiarsi ad esempi predeterminati.
Il testo e la storia Se la lettura diretta del testo è un momento imprescindibile della didattica, il testo letterario non può essere considerato (come spesso è avvenuto da parte delle metodologie formalistiche e semiotiche) un'entità indipendente, autoriflessiva, slegata da ogni rapporto con altri livelli di realtà, ma si colloca in una dimensione storica, nasce nella storia e dalla storia. La storicità si può cogliere in primo luogo nei testi stessi, si manifesta concretamente nelle scelte tematiche e formali che lo scrittore compie in collegamento (per adesione o contrasto) con i problemi della sua epoca e con i codici culturali in essa dominanti. È questo il primo livello di storicità che emerge dalle analisi dei testi. Ma se la storia è ime
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plicita nel modo in cui uno scrittore usa una parola o uno stilema, o nella scelta di un tema particolare, tali elementi non sarebbero comprensibili se isolati dal contesto in cui nascono. | luoghi dove si delinea questo contesto sono diversi: 1) in primo luogo, ovviamente, l'opera in cui quegli elementi si inseriscono; 2) poi il “macrotesto” costituito dalle opere complessive dell'autore, nel processo di sviluppi, svolte, approdi che esse disegnano, nei vari momenti di una esperienza biografica e creativa; 3) il genere in cui l'opera singola si colloca, e di cui rispecchia, per affinità o per contrasto, icodici e i linguaggi, con tutti i rapporti intertestuali con altre opere appartenenti a quel genere o a generi diversi; 4) i grandi temi che le opere affrontano, e che connotano la cultura di un periodo o attraversano periodi diversi, affondando le radici nella mentalità, nelle idee, nell'immaginario; con questi temi, dalla storia “interna” alla pura dimensione letteraria, la storia delle forme, dei codici e dei rapporti intertestuali, sì è già passati alla storia “esterna”, che però con la prima intrattiene rapporti organici e ineludibili; 5) l'ultimo livello è quello della storia materiale, dei rapporti economici e sociali, delle istituzioni politiche, a cui la produzione letteraria è legata perché chi produce, lo scrittore, è un essere pienamente immerso nei processi materiali della storia. Come si vede le componenti del contesto rispondono alle cinque tipologie di unità didattiche in cui l'edizione modulare è articolata, l'incontro con la singola opera, il ritratto d'autore, il genere, il percorso tematico, il percorso storico-culturale. Ne discende che, qualunque sia l'unità prescelta, il momento centrale è pur sempre costituito dalla lettura di un testo. L'insegnante potrà partire de esso per poi allargare il discorso a ricostruire, in collegamento con altri testi, l'unità didattica nelle sue linee più generali; naturalmente però l'insegnante, a seconda delle sue preferenze e delle esigenze specifiche, potrà anche partire dal livello più generale dell'unità prescelta per poi scendere a verificarne le caratteristiche con la lettura dei testi. A noi sembra più produttiva la prima linea, però la presente opera non vuole imporre percorsi didattici rigidamente obbligati, che soffochino la libertà del docente e del discente, ma intende proporsi come una struttura aperta, duttile, capace di adattarsi ad esigenze diverse.
La critica In questa edizione modulare resta indispensabile la funzione della critica, presente sia come antologia essenziale di passi critici sia come breve storia della ricezione e della tradizione interpretativa. La scetta dei passi obbedisce allo stesso principio che informa le analisi dei testi: dare un'idea della pluralità dei metodi di indagine e della varietà delle interpretazioni possibili. Per questo vengono proposti passi che siano esemplificativi delle varie tendenze: la critica idealistica, quella stilistica, quella strutturale e semiotica, quella sociologica, quella simbolica, quella psicanalitica... Il fine è sempre quello di dare agli studenti strumenti per il confronto, la scelta personale dell'interpretazione, la discussione all'interno della comunità interpretante.
Teatro, cinema e arti figurative Un posto essenziale anche in questa edizione continua ad occupare l'apertura interdisciplinare a campi affini alla letteratura. In primo luogo al teatro, inteso come fatto scenico, nella sua dimensione di spettacolo e nei suoi codici specifici. Nei volumi dedicati a Percorsie strumenti è contenuta una vera e propria storia dello spettacolo teatrale, curata da uno specialista, il professor Gigi Livio, docente di Storia del Teatro all'Università, e articolata in una serie di sezioni dedicate ai momenti più significativi della scena italiana. Per il Novecento viene offerta anche una ricostruzione delle linee essenziali della storia del cinema— curata anche questa da uno specialista, il professor Dario Tomasi, docente di storia del cinema all'Università. Un'analoga attenzione è dedicata alle art/ figurative, con una serie di inserti, curati da Giovanni Solinas, che presentano un'essenziale storia dell’arte dal Medio Evo ad oggi e forniscono esempi di percorsi tematici, in collegamento con quelli proposti per itesti letterari (il tutto corredato da numerose riproduzioni a colori di pitture, sculture e opere architettoniche dell'arte europea). GLI AUTORI PREFAZIONE
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L'età postunitaria a
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ÎLLe strutture politiche, economiche e sociali dell’Italia postunitaria
Le strutture politiche:
Con l’unificazione, l’Italia divenne una monarchia costituzionale, regolata dallo Statuto albertino
lo Stato accentratore
del 1848. Il nuovo Stato era rigidamente accentratore: nonostante la grande varietà di tradizioni, costumi, linguaggi, condizioni economiche e sociali delle numerose province e regioni italiane, le autonomie locali erano praticamente inesistenti. A tutta l’Italia venne estesa la legislazione sabauda, per quanto riguarda l’amministrazione, l’apparato fiscale, la scuola, l’esercito. Il governo del paese era espressione di una ristrettissima minoranza: aveva il diritto di voto il 2% della popolazione, e si trattava in prevalenza di grandi proprietari terrieri. La gran maggioranza del popolo italiano restava esclusa dai diritti politici, non era in grado di incidere col voto nella vita politica della nazione. Un allarga-
Ilsuffragio censitario
mento della base elettorale si ebbe dopo l'avvento della Sinistra al potere (1876), ma senza sostan-
ziali cambiamenti nella struttura eminentemente elitaria del potere politico. Al suffragio universale (maschile) si arriverà solo mezzo secolo dopo l’unificazione, nel 1913.
Nelle strutture economiche, l’Italia all'indomani dell’unificazione era un paese ancora fortemente arretrato rispetto agli altri paesi europei come Inghilterra, Francia, Germania. Innanzitutto era lontana da una rivoluzione industriale paragonabile a quella già subita dalle nazioni più progredite. La clasLa politica se politica al potere nel primo quindicennio unitario, la Destra storica, erede del liberalismo cavouriadella Destra storica no, era ostile a uno sviluppo industriale italiano, poiché da un lato riteneva che l’Italia, essendo poveOstilità allo sviluppo ra di materie prime, non avesse i requisiti adatti, e dall’altro temeva che il sorgere dell’industria, creando industriale un proletariato di fabbrica, potesse generare enormi problemi sociali e innescare pericolose tensioni eversive, come insegnava l'esempio di altre nazioni europee. Preferì quindi assegnare all'Italia la funzione meno avanzata di paese agricolo-commerciale, ritenendola più consona alle sue risorse naturali e alle sue tradizioni culturali, e confidando che il conflitto borghesia-proletariato, centrale in tutta la storia contemporanea, se si fosse presentato come semplice rapporto paternalistico e tradizionale tra proprietari terrieri illuminati e contadini devoti, laboriosi e rispettosi, non avrebbe mai raggiunto livelli dirompenti. La Destra liberale era in effetti espressione della borghesia agraria, e compì scelte Illibero-scambismo politiche conformi ai suoi interessi: convinta assertrice del libero scambio, applicò a tutto il territorio nazionale le tenui tariffe doganali del Regno di Sardegna, per favorire l'esportazione di prodotti agricoli (vino, olio, agrumi, ecc.) e l'importazione dai paesi stranieri dei vari prodotti industriali di cui vi era necessità, in una specie di “divisione del lavoro” internazionale. Una politica di industrializzazione avrebbe invece avuto bisogno di tariffe doganali molto alte, per proteggere i prodotti industriali interni dalla concorrenza di quelli esteri, più a buon mercato, per i minori costi derivanti da un’organizzazione più avanzata della produzione. La scelta liberoscambista quindi non stimolò certo le industrie già esistenti, né favorì la nascita di nuove iniziative; anzi ebbe effetti disastrosi sulle industrie del Mezzogiorno, che sotto i Borboni erano fortemente protette dai dazi, e che furono rapidamente spazzate via dalla concorrenza internazionale nei primi anni dell’unità. L'Italia durante il quindicennio della DeL'industria stra (1861-76) era dunque ben lontana dal presentarsi come un paese industriale: le poche manifatLe strutture economiche
PERCORSI STORICO-CULTURALI
3 ture esistenti si collocavano specialmente nel settore tessile e alimentare, erano di modesta consi-
stenza, fortemente arretrate sul piano tecnico e organizzativo, spesso ancora legate strettamente all'agricoltura (specie l'industria della seta, dipendente dall’allevamento dei bachi), o di tipo quasi artigianale (l'industria meccanica). Mancava di conseguenza una vera e propria mentalità imprenditoriale e l'industriale si accontentava del mercato locale, mostrandosi diffidente nei confronti di audaci imprese e dell’impiego di grossi capitali, ed aveva anche scarso peso politico. In questo periodo la quota di partecipazione dell’industria alla formazione del prodotto lordo scende addirittura, in percentuale, dal 20% al 17%. Viceversa la politica liberoscambista incrementa lo sviluppo dei prodotti e delle L'agricoltura esportazioni agricole. Questo non vuol dire però che quella italiana sia divenuta un’agricoltura moderna. La situazione generale rimane fortemente arretrata, con metodi di coltura arcaici, specie nel Centro-Sud (colture estensive nei latifondi, assenza di macchine e concimi chimici), e con rapporti di produzione ancora di origine feudale (come la mezzadria). L'azienda agricola capitalistica è ancora Le opere pubbliche una rarità, e si trova solo in alcune zone della Valle padana. Un settore dell'economia molto attivo è invece quello della creazione di infrastrutture, ferrovie, strade, ponti, porti, opere pubbliche in genere, di cui la vita sociale del nuovo Stato ha estremo bisogno. Intorno a queste opere pubbliche, affidate in appalto a società private, fiorisce anche una fortissima speculazione (specie nel campo edilizio), in cui si lasciano trascinare le banche, con effetti talora disastrosi (una serie di fallimenti si ve-
rifica ad esempio nel 1873: che, non a caso, è anche l’anno della polemica verghiana diEva; cfr. Verga, T1).
Il quadro comincia a cambiare con la svolta segnata dall’avvento della Sinistra al potere (1876). La Sinistra (sempre liberale, ben inteso) coagula gli interessi di gruppi sociali diversi, tenuti sino allora ai margini dalla ristretta oligarchia che aveva monopolizzato il potere durante il periodo della Destra. Tra questi gruppi cominciano ad avere peso anche gli imprenditori industriali. Già nel 1874 era stata promossa un’inchiesta, per saggiare le tendenze e i bisogni di questo settore. E gli industriali premevano per l’istituzione di un protezionismo doganale che garantisse meglio i loro interessi. Non a caso la Sinistra, due anni dopo la sua ascesa al potere, promuove un primo inasprimento delle tariffe doganali (1878). È una tendenza che si andrà sempre più accentuando nel decennio successivo, Ilprotezionismo sino alla tariffa fortemente protezionistica che sarà instaurata nel 1887. Un impulso all’industrialize l'avvio zazione viene anche dalle scelte politiche della Sinistra: la quale, sentendo il fascino del modello prusall’industrializzazione siano (non si dimentichi che l’Italia, rovesciando le tradizionali alleanze risorgimentali, nel 1882 si era unita con Prussia e Austria nella Triplice Alleanza), inaugurò una politica di potenza, che spingeva necessariamente ad una corsa agli armamenti. Ciò portava a sua volta alla necessità di potenziare l'industria siderurgica, in modo che potesse fornire l’acciaio necessario alle navi da guerra e ai cannoni. In questo settore l'intervento dello Stato fu massiccio: esemplare il caso delle grandi acLa Sinistra
ciaierie di Terni, fondate nel 1884 con contributo dello Stato (sotto forma di anticipazioni, commesse
e prezzi di favore), le quali avevano soprattutto il compito di fornire corazze e proiettili alla marina militare. Sempre lo Stato venne in aiuto alle costruzioni navali con una legge del 1885, che stanziava per i cantieri cospicue sovvenzioni. L'industria meccanica in confronto a quella siderurgica era più arretrata: ma già nei primi anni Ottanta si producevano caldaie, macchinari, locomotive, come testi-
monia la grande esposizione tenuta a Milano nel 1881. Accanto a questi impulsi all’industrializzazione patrocinati dallo Stato, un altro fattore si aggiunLa crisi agraria ge a partire dal 1880: la crisi agraria. L'arrivo sui mercati europei di enormi quantità di grano americano a buon mercato fa crollare i prezzi. Le conseguenze sono molteplici: la concorrenza mette definitivamente in crisi sistemi agricoli arcaici e non competitivi, e determina la scomparsa rapida della piccola proprietà contadina. La crisi, quindi, sia pure a prezzo di costi umani e sociali atroci (fame, miseria, emigrazione) è un fattore che accelera la modernizzazione dell'agricoltura e la concentra-
zione capitalistica nelle campagne; non solo, ma spinge a investire molti capitali nell'industria, divenuta più redditizia del tradizionale investimento agricolo. E, sul piano sociale e politico, induce i grandi proprietari latifondisti a premere anch'essi nella direzione del protezionismo, per difendere i profitti minacciati dalla caduta dei prezzi del grano, e li spinge ad allearsi con gli industriali: si delinea così quel blocco agrario-industriale che caratterizzerà la classe dirigente italiana per tutto il corso della storia contemporanea. L'effetto di tutto ciò è però un ulteriore impoverimento del Mezzogiorno che, già privato delle primitive industrie dalla politica liberoscambista della Destra, si vede ora danneggiato dal protezionismo nell’esportazione di prodotti pregiati (vino, olio, agrumi), ed è costretto a comprare prodotti industriali a prezzi maggiori dal Nord, che nel frattempo si è andato industrializzando: il rapporto tra il Sud e il Nord si precisa sempre più come un rapporto di tipo coloniale, fondaI. 'ETÀ POSTUNITARIA
4 to sullo “scambio ineguale” (prodotti agricoli contro prodotti industriali). Si profila quindi nettamenla “questione
te, sin dai primi decenni dell’unità, la “questione meridionale”, quel divario nello sviluppo dell’eco-
meridionale’
nomia e della società civile tra il Nord e il Sud della penisola, che è uno dei più gravi problemi che affliggono ancora l’Italia attuale. Le trasformazioni della base economica generano naturalmente, seppur con lentezza, anche trasformazioni della struttura sociale italiana. Poiché sino all’età giolittiana, in cui si avrà il primo vero decollo industriale, l’Italia resta un paese fondamentalmente agricolo, la classe dirigente è prevalentemente composta da grandi possidenti agrari, in buona parte nobili. L'aristocrazia gode ancora di grande peso e prestigio sociale, fornendo modelli di comportamento anche ai ceti alto borghesi che si vanno formando. Ne è uno specchio la letteratura, in cui i nobili appaiono largamente protagonisti di romanzi, novelle, drammi, grazie al fascino che i loro stili di vita esercitano sul pubblico (e sugli stessi scrittori di origine borghese: tipico è il caso di D'Annunzio, proveniente dalla media proprietà pro-
l'aristocrazia
vinciale, i cui eroi sono aristocraticissimi). Accanto alla componente tradizionale dei nobili, nel ceto
dei grandi possidenti si collocano ormai molti borghesi, arricchitisi con l'acquisto di beni ecclesiastiLatta borghesia
ci e terreni demaniali o, in misura minore, dei beni della nobiltà decaduta e impoverita. Lo strato dell’alta borghesia comprende inoltre alti funzionari dello Stato e magistrati, banchieri e finanzieri, un numero esiguo di industriali. La figura del borghese moderno che più può impressionare l’opinione pubblica di questi anni non è tanto quella del “capitano d’industria”, dell’imprenditore audace che crea dal nulla colossi industriali, ma la figura dello speculatore, del finanziere senza scrupoli, al centro di un giro vertiginoso e spesso poco pulito di capitali, o arricchitosi grazie agli appalti di opere pubbliche che si moltiplicano in rispondenza alle esigenze del nuovo Stato. La crisî dei ceti medi Nel ceto medio è ancora prevalente la componente tradizionale: professionisti, commercianti, pic-
tradizionai
coli proprietari, artigiani. Ma è un ceto medio che entra ben presto in crisi, in conseguenza delle trasformazioni in atto. Specie i piccoli proprietari sono duramente colpiti dalla crisi agraria e dalla tendenza alla concentrazione capitalistica nelle campagne. Questa crisi dei ceti medi tradizionali è un dato da tener ben presente, perché ha grande incidenza sulla letteratura: molti scrittori infatti provengono da questo strato sociale, ne patiscono la decadenza e la riflettono nelle loro opere. Questa è la matrice di una tematica molto diffusa, il rimpianto del mondo del passato, in particolare di un mondo agrario, dipinto dalla nostalgia a colori idillici, che viene spazzato via dal progresso moderno. Pa-
Ilnuovo ceto medio
rallelamente a questa crisi si comincia invece ad assistere al delinearsi di un ceto medio nuovo, quel-
impiegato
lo impiegatizio, ingigantito dalle esigenze della pubblica amministrazione di un grande Stato accentratore, ma anche dallo sviluppo dei servizi indispensabili alla complessa società moderna. Si pongono già le basi, negli ultimi decenni dell'Ottocento, di quella società “di massa”, standardizzata e omologata, che trionferà nel Novecento col decollo industriale. Anche nell'immaginario comune il piccolo borghese assume di regola la fisionomia dell’impiegato, del travet, dal nome del protagonista di una famosa commedia di Bersezio. Iceti popolari I ceti popolari sono ancora composti prevalentemente da contadini. Gli operai, dato lo scarso sviluppo industriale, sono una minoranza, seppure in progressiva espansione. Le condizioni delle masse contadine, già miserevoli nell’Italia preunitaria, dopo l’unità peggiorano ulteriormente, anziché migliorare. Lo sviluppo economico avviene grazie alla «compressione dei consumi delle classi rurali, i cui redditi rimangono stazionari, se addirittura non scendono, mentre aumentano i prezzi dei generi alimentari» (R. Romeo, Storia della grande industria in Italia, Einaudi, Torino 1966, p. 187). A ciò si aggiunge la pesantissima pressione fiscale, imposta dal nuovo Stato per sanare il deficit di bilancio. Tale pressione grava soprattutto sui ceti inferiori tramite le imposte indirette, quale la tristemente famosa “tassa sul macinato”, che colpisce la base dell’alimentazione popolare, la farina, e genera di conseguenza forti tensioni sociali e disordini. Alle tasse si affianca la leva militare obbligatoria (ignota nei territori dell’ex Stato borbonico), che dura ben cinque anni, e sottrae braccia valide al lavoro
agricolo e alle altre attività di cui vivono i ceti popolari, come la pesca (si pensi alla partenza di ’Ntoni nei Malavoglia, da cui hanno inizio tutte le sventure della famiglia). Oltre che dalla miseria e dalla
fame, i contadini sono afflitti dalle malattie, dovute a denutrizione (basti pensare alla piaga della pellagra, malattia da avitaminosi), a scarsissima igiene e a mancanza di assistenza medica. A ciò si aggiunge la perdurante esclusione culturale: nonostante la creazione di uno Stato moderno, i ceti popolari continuano a vivere in modo non diverso che nell'Italia politicamente divisa del primo Ottocento. Anzi, le masse rurali, al Nord come al Sud, sono totalmente estranee al nuovo Stato unitario,
ne ignorano i princìpi ispiratori, non sanno neppure chi sia il re, o contro chi si combattono le guerre in cui sono chiamati a morire: è significativo l'episodio dei Malavoglia, in cui nel piccolo villaggio di PERCORSI STORICO-CULTURALI
3) pescatori siciliani giunge l’eco della battaglia di Lissa (1866), in cui muore Luca, come di un fatto favoloso, avvenuto non si sa dove e non si sa perché. I ceti popolari continuano a vivere in un’altra dimensione, estranea a quella della società civile, relegati in un orizzonte linguistico puramente dialettale e in una cultura tradizionale, folklorica, magica e primitiva (anche per questo aspetto i Ma/avoglia sono un documento indicativo; ma vi si può aggiungere tanta narrativa regionalistica del tempo, compreso il D'Annunzio giovane delle novelle “veriste”). Queste condizioni erano più gravi al Sud, data la situazione di maggiore arretratezza di quelle regioni, ma il quadro non è tanto differente anche per il Nord. Nonostante l’unificazione politica vi erano insomma due Italie, non solo in senso geografico, ma anche in senso sociale: una frattura netta, una vera barriera, separava i ceti superiori dotati di istruzione, di un reddito e di condizioni di vita civili, e le masse popolari. Qui ha le sue radici quel fenomeno doloroso e di grandiose proporzioni, che fu l’emigrazione all’estero in cerca di lavoro; fenomeno che interessò non solo il Sud, ma le masse proletarie di tutta la penisola. 3
MM A Le ideologie 2.1 Il campo culturale. Il Positivismo. Nonostante ritardi e limiti, l’Italia degli anni Settanta e Ottanta vedeva comunque gli inizi di uno sviluppo capitalistico moderno, che tendeva, come al suo sbocco inevitabile, all’industrializzazione. Se ai nostri occhi, col senno di poi, quei primi fenomeni della modernizzazione appaiono molto timidi e arretrati, con ben altra forza dirompente dovevano presentarsì agli occhi di chi viveva immerso fra essi e vi assisteva per la prima volta. Per questo le idee correnti fra scrittori e uomini di cultura di questi anni hanno sempre come termine di riferimento, esplicito o implicito, la nuova realtà economica e sociale che si va affermando; ed in rapporto ad essa vanno collocate per essere comprese. Schematizzando, si possono individuare tre tipi di atteggiamenti degli scrittori di fronte alla modernizzazione economica e sociale: 1) un atteggiamento apologetico, che inneggia ad essa come realizzazione del progresso; 2) un atteggiamento di rifiuto romantico, in nome dei valori del passato; 3) un atteggiamento che non esalta e non condanna, ma tende ad un lucido rapporto conoscitivo con quel processo, a indagarlo con rigore nei suoi meccanismi costitutivi, senza slanci verso il futuro né ripiegamenti nostalgici verso il passato. Il primo atteggiamento è proprio della cultura che diviene egemone in questo periodo, diffondendosi nell'opinione comune, tra le classi dirigenti, i ceti medi e persino i ceti popolari: il Positivismo. IlPositivismo La cultura positivistica, affermatasi prima in ambito europeo, nelle nazioni economicamente più avanzate come Inghilterra, Francia e Germania, nella seconda metà dell'Ottocento si impone anche in ItaLe basi: lia. Essa ha le sue basi, sul piano economico e sociale, nel balzo in avanti del capitalismo industriale
Gli intellettuali e la realtà moderna
ilcapitalismo industriale
che si verifica nel corso del secolo e nei profondi mutamenti delle strutture sociali, dei modi di vita,
delle mentalità che esso produce. Ma l'espansione della produzione e lo sfruttamento delle risorse naturali hanno bisogno dello studio scientifico della realtà e delle sue applicazioni tecnologiche: quinLe scoperte di presupposto essenziale della cultura positivistica sono anche le importanti scoperte scientifiche scientifiche che si verificano in questo periodo nel campo della termodinamica, dell’elettromagnetismo, della chie le applicazioni mica, della biologia, della fisiologia, nonché le applicazioni tecniche del vapore e dell’elettricità, che tecnologiche sembrano dare inizio ad un’era nuova, di prodigiose conquiste (rappresentate soprattutto da un mezzo di trasporto veloce come il treno, che nell'immaginario collettivo diviene facilmente il simbolo stesLa diffusione so della modernità). Un presupposto non meno importante è la sempre maggiore diffusione del sapedell'istruzione re e dell’istruzione, altro effetto dell’industrializzazione, che da un lato aumenta il benessere sociale e dall’altro esige maggiori conoscenze per il suo sviluppo. Questo insieme di fattori, la rapida espansione industriale e degli altri scambi, lo sviluppo della scienza e della tecnica, la diffusione della cultura su più larga scala, determina in ambito europeo un Lafiducia ottimistica clima di fiducia entusiastica nelle forze dell’uomo e nelle possibilità del sapere scientifico e tecnoloe ilculto della scienza gico. L'ottimismo si traduce sempre più in un vero e proprio culto della scienza e della tecnica. Se il e della tecnica Rinascimento aveva esaltato come ideale tipo d'uomo il filologo, l’Illuminismo il “filosofo”, il Romanticismo il poeta e l’artista, ora il Positivismo propone come figura mitica, oggetto di celebrazione ammirata, lo scienziato, a cui si affiancano le figure affini del medico, dell'ingegnere, del capitano d’industria (ma anche del maestro, visto come essenziale strumento di diffusione del sapere). Sono figure che sono state poste al centro dell'attenzione grazie agli scrittori, da Verne a Zola a De Amicis. I. L'ETÀ POSTUNITARIA
Ilmetodo della scienza è l'unico valido
Le leggi meccaniche e ifatti “positivi”
L'esaltazione positivistica della scienza posa su alcune convinzioni di base: 1) quella scientifica è l’unica conoscenza possibile e il metodo della scienza è l’unico metodo valido; pertanto il ricorso a princìpi che escludano il metodo scientifico non dà luogo a vera conoscenza. Di qui il rifiuto di ogni visione di tipo religioso, metafisico, idealistico, e la convinzione che tutto il reale sia un gioco di for-
ze materiali, fisiche, chimiche, biologiche, regolate da ferree leggi meccaniche e deterministiche, quelle appunto che possono essere spiegate con i princìpi scientifici e matematici. Il positivista quindi crede che ci si debba fondare solo sui fatti “positivi”, osservabili e dimostrabili sperimentalmente,
in contrapposizione a ciò che è astratto, metafisico, non direttamente sperimentale (donde appunto Ilmetodo il termine Positivismo usato a indicare questo periodo). 2) Il metodo della scienza, poiché è l’unico della scienza valido, va esteso a tutti i campi, compresi l’uomo e la società, anche a quelle realtà che si ritengono esteso alle realtà “spirituali”: nessun aspetto del reale deve sfuggire all’indagine scientifica, che si esercita allo stesspirituali so modo sui fenomeni naturali come sulla psicologia dell’uomo, sulle sue idee, sui suoi sentimenti, Scienza e dominio sui suoi comportamenti sociali, sui suoi prodotti culturali e artistici. 3) La scienza, dandoci gli strusul mondo menti per spiegare e conoscere il reale, ci consente anche di dominarlo, asservendolo ai bisogni dell’uomo. Di qui deriva la fede positivistica nel “progresso”, garantito appunto dalle conquiste scientifiche in ogni campo, che consentono di piegare la natura alla nostra volontà e di riorganizzare globalmente la società in modo più razionale e più giusto, assicurando all'umanità la liberazione dai mali fisici e dai mali sociali, lo sviluppo illimitato delle risorse e del benessere, la crescita continua della {lBallo Excelsior e l'ottimismo
progressista
civilizzazione. Una perfetta espressione di questo atteggiamento ottimistico fu il Ballo Excelsior, un balletto che trionfò alla Scala nel 1881 e che, attraverso varie figurazioni allegoriche, esaltava entusiasticamente la capacità dell’uomo di raggiungere conquiste sempre più alte sulla via del pro-
gresso. Non bisogna però credere che questa ideologia, pur egemone, dominasse interamente, senza residui, il quadro culturale. La storia della cultura e della società è sempre infinitamente complessa, e vede agitarsi le tendenze più contrastanti nello stesso periodo, nello stesso ambiente, a volte nella Carducci stessa persona. Un esponente tipico di questa fiducia positivistica nella forza del progresso è Cartra progressismo e nostalgia romantica
ducci. Ma in lui vi è anche una fortissima componente romantica, che si manifesta come disgusto e
paura per la modernizzazione, per lo squallore, la bruttezza, la mediocrità della nuova era, per l’affarismo, la corruzione, la caduta degli ideali, per il «tedio» esistenziale che ne deriva: per questo Car-
ducci rifiuta il presente e si rifugia in un sogno di eroismo e di bellezza proiettato nel passato, nel mondo antico, nel Medio Evo comunale, nel Rinascimento, nella Rivoluzione francese, nel Risorgimento. Carducci quindi, per la sua cultura di base laica, materialistica, positivistica, può essere assunto co-
me rappresentante del primo dei tre atteggiamenti sopra indicati nei confronti della modernità, mentre per queste forme di rifiuto romantico è un inconfondibile esponente della seconda. Come si vede, gli scrittori non si possono assegnare ad una tendenza in modo netto, univoco. Un discorso analogo La capigliatura si può fare per gli esponenti della Scapigliatura milanese. Anch’essi rivelano un atteggiamento ambivalente verso la modernità: da un lato vogliono farsene cantori, proponendosi come i poeti del «vero», dall’altro sono colmi di nostalgia per la bellezza del passato e provano orrore per l'avanzare del progresso che la distrugge. Il rappresentante più significativo del terzo atteggiamento è Verga. Ma anche in questo caso si diVerga tra nostalgia romantica e Verismo mostra come la realtà sia sempre più complessa di ogni schematizzazione di comodo. In Verga sopravvivono vistose componenti di anticapitalismo e antimodernismo romantici, che si manifestano nel vagheggiamento del mondo arcaico della campagna come sede di una genuinità e di una innocenza primordiali, come difesa dei valori che la modernità va distruggendo. Dall'altro lato, però, si afferma in lui una visione radicalmente naturalistica della realtà, che lo porta a studiare con rigore impassibile i meccanismi della «lotta per la vita» in tutti gli ambienti sociali, a porsi cioè di fronte alla modernizzazione con un atteggiamento esclusivamente conoscitivo, senza fare l’apologia del progresso ma anche senza indicare mitiche alternative ad esso nel passato. Nello studiare la storia, in particolare quella delle idee e della cultura, non bisogna quindi ragionare per schemi, contrapporre rigidamente tendenza a tendenza, Positivismo a Romanticismo, Romanticismo a Illuminismo, come se fossero blocchi monolitici. Al contrario, all’interno di ogni tendenza vanno sempre ricercati gli elementi contraddittori che la collegano alla tendenza opposta, e che non si possono distinguere con un taglio netto. Verismo, Positivismo e Romanticismo possono benissimo convivere nello stesso scrittore, nella stessa opera. Ciò è comprovato anche dalle tendenze filosofiche di questo periodo. Il Positivismo si afferma in Le tendenze filosofiche Italia grazie alla mediazione di un grande uomo di cultura di formazione idealistica e romantica, PERCORSI STORICO-CULTURALI
7 De Sanctis tra idealismo e realismo
Francesco De Sanctis (1817-1883). De Sanctis, pur rifiutando le implicazioni deterministiche e ma-
terialistiche dello scientismo positivista, invita allo studio scientifico dei fatti positivi e concreti come necessario correttivo dell’idealismo: si ricordino le ultime, celebri pagine della Storia della lette-
ratura italiana (cfr.
Il Neoclassicismo e il Romanticismo, T69). Afferma insomma il valore di
un mondo spirituale libero dalle leggi deterministiche della natura, ma propone una conciliazione tra «ideale» e «reale» attraverso l’uso di un metodo positivo nello studio dei fenomeni. In tal modo può giustificare teoricamente il realismo moderno, un’arte che si applica allo studio preciso di ciò che è, non alla raffigurazione di entità ideali, e a quest'arte, vista con comprensione e simpatia, dedica le ultime fatiche come critico (i saggi su Zola). Una tendenza a conciliare Positivismo e IdealiDe Meis
Villari e ilPositivismo come metodo di ricerca
smo si riscontra anche in Camillo De Meis (1817-1891), filosofo-scienziato, scrittore e studioso di
fisiologia, che influenzò uno dei più importanti scrittori e teorici del Verismo, Luigi Capuana (per altro debitore anche nei confronti dell'estetica e della critica desanctisiane). Parimenti, nel campo degli studi storici, Pasquale Villari (1826-1917) sostiene che occorre applicare a tali studi il metodo positivo, stando ai fatti, senza mescolare alla ricerca scientifica questioni metafisiche o morali. Se dunque è diffuso nell'opinione corrente di questo periodo un positivismo “volgare”, rozzamente deterministico e materialistico, che si riduce sostanzialmente a una nuova metafisica dogmatica, gli intellettuali più avvertiti lo vedono come semplice metodo per studiare anche i fenomeni sociali e culturali con quel rigore scientifico che dava ottimi frutti nelle scienze della natura, senza compromettere così in alcun modo il senso della storia e del libero svolgersi delle idee.
2.901campo politico. In campo politico, l’ideologia egemone resta quella del liberalismo, di eredità risorgimentale; ma finiscono per smussarsi, in questa età, le contrapposizioni tra liberalismo e democrazia. La Sinistra che giunse al potere nel ’76 era l’erede del Partito d'Azione e del mazzinianesimo, ma la sua politica, pur essendo più aperta socialmente di quella della Destra storica cavouriana, non si discostò molto dalle linee liberali. Il liberalismo postunitario fu di orientamento fortemente laico. Illaicismo Era un laicismo di matrice patriottica, nato come risposta all’atteggiamento duramente antirisorgimentale e antiliberale assunto dalla Chiesa prima e dopo l’unificazione (ancora nel 1864 Pio IX col Sillabo condannava tutte le idee moderne di libertà, eguaglianza e progresso). L'atteggiamento inIcattolici transigente della Chiesa verso il nuovo Stato impediva ai cattolici, che in un paese come il nostro, di antiche e radicate tradizioni cattoliche, erano una componente molto rilevante della popolazione, di partecipare alla vita politica, sia come eletti sia come elettori. Per cui, nel panorama delle ideologie e delle forze politiche italiane, i cattolici cominciarono ad essere una componente viva ed attiva solo agli inizi del Novecento, quando il non expedit della Chiesa cominciò ad attenuarsi. L'opposizione al liberalismo conservatore fu assunta da forme di radicalismo borghese chiassose
Itliberalismo
ma decisamente minoritarie, con scarsa incidenza reale. Negli anni Settanta cominciò a diffondersi L’anarchismo
Ilsocialismo
l'ideologia anarchica. Gli anarchici, guidati dal rivoluzionario russo Bakunin, tentarono anche di organizzare moti insurrezionali, come ad esempio nelle campagne emiliane nel 1874, ma tali tentativi fallirono sistematicamente per la scarsa adesione popolare e per la dura reazione dello Stato. Gli anarchici restarono attivi a lungo con forme di terrorismo, che sfociarono nell’assassinio del re Umberto I nel 1900. Ma l’anarchismo fu presto superato dal diffondersi del socialismo; e tra le varie tendenze socialiste assunse l'egemonia il marxismo, già presente in Italia negli anni Ottanta ad organizzare lotte operaie e contadine. Nel 1892 nacque il Partito Socialista Italiano, che si ispirava alle teorie e ai programmi di Marx. Nonostante l’arretratezza sociale ed economica, che per il momento non consentiva in Italia una forte espansione del socialismo (il quale necessitava di un’ampia base operaia, quindi dell'industria moderna: per questo il socialismo cominciò ad essere una forza nell’età giolittiana), si diffuse egualmente nell’opinione pubblica degli ultimi due decenni dell’Ottocento una paura del socialismo rivoluzionario. Ciò nasceva dal contraccolpo della Comune parigina del 1871, che con le sue devastazioni ed i suoi eccidi aveva traumatizzato la coscienza moderata dell’intera Europa. Il socialismo italiano, sin dal suo sorgere, fu profondamente influenzato dal Positivismo deterministico: il crollo del-capitalismo e il trionfo della nuova società erano visti come conseguenze naturali, inevitabili, dell'evoluzione della società. Ciò portava ad attenuare la spinta rivoluzionaria, e
favorì l’affermarsi di correnti di tipo riformistico, impersonate soprattutto da un leader come Filippo Turati. Alla svolta del secolo si assistette poi alla crisi del Positivismo come visione globale del mondo, e si affacciarono tendenze spiritualistiche e irrazionalistiche, che in campo politico diedero luogo a posizioni antidemocratiche e reazionarie, come vedremo. —7 x
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I. 'ETÀ POSTUNITARIA
ME Le istituzioni culturali 3.1 l'editoria. Dopo l’unità si sviluppano ulteriormente quei processi che erano iniziati nel primo Ottocento e che abbiamo analizzato nel volume [Percorsi e strumenti] Dal Barocco al Romanticismo, V, 8 7.1. Si presenta però un fatto nuovo, che ha un'importanza veramente discriminante rispetto al peIlmercato nazionale riodo precedente: con l’unificazione il mercato culturale assume dimensioni nazionali; non esistono dell'editoria più gli ostacoli costituiti dalle dogane dei singoli Stati e dalle censure poliziesche: i libri e i periodici possono ormai circolare liberamente. La dimensione nazionale del mercato dà un potente impulso all'industria editoriale: chi produce libri sa di poter contare su un numero di acquirenti ben più vasto. In termini assoluti è un mercato ancora molto ristretto, a paragone di quello attuale, se si pensa che il pubblico potenziale, quello cioè costituito da coloro che sono effettivamente in grado di leggere e scrivere, non supera all’atto dell'unità il 12% della popolazione. Comunque in termini relativi, rispetto ai vecchi Stati regionali, la situazione è enormemente cambiata. L'editoria si avvia davvero a essere Nascita dell'industria editoriale
un'industria nel senso moderno. Nascono editori che sono veri imprenditori, come Treves a Milano,
che diverrà il più importante d’Italia, pubblicando scrittori come Verga, Capuana, De Amicis e D’An-
nunzio, o Sommaruga a Roma, che gioca già con spregiudicate tecniche pubblicitarie, come avviene nel 1884 con 7 libro delle vergini di D'Annunzio, che reca in copertina l’immagine di tre fanciulle nude per stuzzicare la curiosità pruriginosa dei lettori, e che per questo fa scandalo (tanto che D’Annunzio stesso opportunisticamente ostenta reazioni moralistiche, dissociandosi dall’iniziativa dell’editore). La pubblicità comincia ad essere indispensabile per far conoscere e vendere la merce-libro. Per La pubblicità dei libri questo gli editori tendono a essere anche proprietari di giornali e periodici, per diffondere i loro prodotti con recensioni e annunci. Così Sommaruga è proprietario della «Cronaca bizantina», fondata nel 1881, a cui collaborano gli autori da lui pubblicati, e su cui compaiono gli annunci delle novità librarie della casa editrice. Treves a sua volta possiede «Il corriere di Milano» e un settimanale a larga diffusione, «L'illustrazione italiana». Ma vi sono case editrici che mirano a un pubblico più popolare, con romanzi d’appendice, avventurosi o sentimentali, e con opere di divulgazione varia. Tale è l’editore Sonzogno, che possiede anche un giornale, «Il secolo».
3.2 Il giornalismo. Il giornalismo in questi ultimi decenni del secolo assume ormai una fisionomia analoga a quella attuale. Vi sono giornali delle più varie tendenze, filogovernativa, conservatrice, liberale, radicale, cattolica, socialista. Compaiono anche supplementi dedicati alla cultura, a cui collaborano gli intellettuali più famosi e che assumono un ruolo culturale di primaria importanza: il «Fanfulla della domenica», nato nel 1879 e diretto da Ferdinando Martini, il «Capitan Fracassa» (1881-91) e «La
domenica del Fracassa» (1384-86), diretti da Giuseppe Chiarini. Tra le riviste di cultura, oltre alla già citata «Cronaca bizantina», va ricordata la «Nuova Antologia», nata a Firenze nel 1866, che riprende il titolo e la linea della rivista di Vieusseux (cfr. [Percorsi
e strumenti| Da/ Barocco al Romanticismo, V, $ 7.2), pubblicando articoli non solo di letteratura, ma di politica, economia, scienze. Su di essa Carducci pubblicò le Primavere elleniche, Verga Mastro-don
Gesualdo (1888), De Sanctis vari saggi critici. La rivista vive ancora oggi.
3.3 La scuola. Un dato nuovo nel panorama culturale dell’Italia postunitaria è l'introduzione dell’istruL'istruzione obbligatoria
La funzione della scuola
zione elementare obbligatoria. Il nuovo Stato estese dapprima a tutto il territorio nazionale la legislazione scolastica del Regno di Sardegna, fondata sulla legge Casati del 1859. Era una tipica manifestazione di quella tendenza accentratrice che fu propria delle classi dirigenti postrisorgimentali. Comunque segnò un relativo progresso perché in vari Stati, come in quello borbonico, non esisteva istruzione obbligatoria, e l’analfabetismo raggiungeva percentuali altissime (90% in Sicilia). Le scuole elementari erano affidate ai Comuni, che però non avevano sufficienti fondi per assicurarne il funzionamento. Anche la preparazione professionale di gran parte dei maestri era scadente: spesso erano dialettofoni, cioè non erano in grado di padroneggiare l'italiano. Una riforma fu avviata dalla Sinistra, con la legge Coppino del 1877, che istituiva l’istruzione elementare obbligatoria divisa in due cicli di due anni ciascuno. La funzione della scuola elementare era in primo luogo quella di fornire un minimo bagaglio culturale a tutti («leggere, scrivere e far di conto», come si diceva allora); ma, data l’arretratezza sociale, le sperequazioni tra regione e regione, le differenze di tradizioni, costumi, mentalità, linguaggi, la scuola aveva il compito di straordinaria importanza di amalgamare la popolazione italiana, facendo acquisire alle masse popolari, estranee allo Stato e ai suoi valori ispiratori, una co-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
9 scienza nazionale e civile. È una funzione che emerge chiarissima dal Cuore di De Amicis (1886), nella descrizione di una classe elementare torinese, in cui si mescolano alto borghesi, piccolo borghesi e proletari ai limiti dell’indigenza, che devono tutti assorbire dall’insegnamento certe virtù civili e l’amore della patria (cfr. |Generi] La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, A17 e TT31, 32, 33). Ilsistema scolastico
La disoccupazione intellettuale
Il sistema scolastico generale rispecchiava la struttura sociale del paese, ed era finalizzato alla sua riproduzione. La gran maggioranza della popolazione si fermava all’istruzione elementare (quando vi accedeva: l'evasione dall’obbligo era altissima); una parte raggiungeva un diploma di istruzione tecnica e andava a formare i ranghi intermedi della piccola borghesia. Un’élite molto ristretta, che usciva dai licei, arrivava alla laurea e andava a formare la classe dirigente. Già negli ultimi decenni del secolo era però visibile il fenomeno della disoccupazione intellettuale: il sistema produttivo arretrato non era in grado di assorbire tutti i diplomati e laureati prodotti da scuole tecniche, licei e università. Il fenomeno destava viva preoccupazione nella classe politica, come si desume dai dibattiti parlamentari: si temeva che i giovani intellettuali scontenti e frustrati nelle loro aspirazioni dessero sfogo alla loro rabbia ponendosi a capo dei movimenti di protesta popolari. E in effetti ciò avvenne: molti giovani piccolo borghesi, forniti di titolo di studio, si avvicinarono al socialismo o militarono decisa-
mente nelle sue file.) 3.4 Il teatro. Un’istituzione che ebbe un ruolo non secondario nel formare il sistema di valori basilari del-
la nuova classe dirigente borghese fu il teatro: un teatro realistico, che metteva in scena i problemi
centrali della borghesia e dibatteva i suoi princìpi etici e civili ([Generi] La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, III, $ 3).
EEE ‘%lPosizione sociale e ruolo degli intellettuali
Ilconflitto tra intellettuale
e società nell'Italia
postunitaria
Illetterato
e la realtà moderna
Ilmercato e la «lotta per la vita»
Illetterato che rifiuta ilmercato e quello che l'accetta
Si è visto come in Europa già ai primi dell'Ottocento, in conseguenza delle grandi trasformazioni economiche e sociali in atto, si delineasse una frattura tra l’intellettuale e la società, che poteva arrivare al più aspro conflitto (cfr. [Percorsi e strumenti] Dal Barocco al Romanticismo, V, $ 2.4). In Italia questa frattura non si era presentata, a causa dell’arretratezza dell’organizzazione economica e sociale, ma anche perché le lotte risorgimentali assicuravano ancora all’intellettuale un ruolo preminente, di guida ideologica dei processi, o addirittura un ruolo attivo, di dirigente politico e di combattente. Con la fine del periodo risorgimentale e con l’avvio di uno sviluppo moderno in Italia queste due condizioni vengono a mancare: e ciò segna un radicale mutamento di ruolo degli intellettuali. Si affaccia anche in Italia quel conflitto tra intellettuale e società che era l'elemento caratterizzante la cultura romantica europea già nella prima metà del secolo. Cominciano a comparire atteggiamenti di rivolta e di rifiuto dei valori borghesi, un senso di sconfitta e di frustrazione. Il fenomeno si affaccia con gli scapigliati, che inaugurano da noi stili di vita “maledetti”, sul modello di Baudelaire e di altri scrittori stranieri, e introducono tali tematiche nelle loro opere. Un contegno simile, di aspro rifiuto della civiltà moderna delle «banche» e delle «imprese industriali», si riscontra anche nel Verga giovane, vicino agli scapigliati milanesi. Ma anche il Carducci degli anni Sessanta-Settanta si scaglia violentemente contro l’Italia del suo tempo, contro lo spirito affaristico e la mediocrità borghese. Il letterato si sente spinto ai margini dai nuovi processi produttivi, che rendono sorpassata la funzione dell’umanista, privilegiando nuove figure più funzionali, scienziati, tecnici, specialisti di vario genere. Perciò ha paura della tecnica, che nega i valori umanistici tradizionali e tende a meccanizzare la vita dell’uomo. Ha orrore dello spirito affaristico, della razionalità produttiva e pianificatrice, anche perché vede che essa viene a investire direttamente la sua funzione e la sua stessa persona: lo scrittore è divenuto produttore di una merce per il mercato, perciò deve affrontare la concorrenza per raggiungere il successo. È il meccanismo della «lotta perla vita», che regola tutta la società, ed è duro e spietato. Scrive Verga a Capuana il 7 febbraio 1873: «Tu sai meglio di me che in questa via crucis ove ci siamo messi [la professione di scrittori], sparsa di triboli e di editori, bisogna starci, e andare innanzi col sacco vuoto e i piedi addolorati per contare tra gli ebrei erranti di cotesta fede, e che gli assenti hanno torto, e che la politica e le imprese industriali scopano la via ad ogni fine d'anno, senza contare i feriti e tenendo conto di morti i mancanti». L'avvento del mercato della produzione letteraria divide gli scrittori in due grandi campi: chi rifiuta disgustato il meccanismo, perseverando a seguire i propri obiettivi artistici senza curarsi dell’insuccesso di pubblico, o addirittura dando alle stampe libri in tirature limitatissime per pochi iniziati; I. L'ETÀ POSTUNITARIA
10
La fine dell'impegno
oppure chi accetta il mercato, adattandosi a scrivere per il pubblico, assecondandone i gusti in vista del successo e del benessere economico. È una distinzione mai esistita in precedenza, che fa la sua comparsa solo ora, nel mondo moderno. Alla prima categoria di scrittori appartiene Verga, che non rinuncia alle soluzioni formali che gli sembrano necessarie anche a prezzo del «fiasco» dei Malavoglia; alla seconda, nonostante l’ostentato disgusto estetizzante per il mercato, appartiene D'Annunzio, prolifico produttore di best-se/lers e abilissimo nel curare l’immagine e nel promuovere pubblicitariamente la vendita della sua merce letteraria. L'affacciarsi del conflitto tra gli artisti e la società segna la fine dell’impegno politico risorgimentale. Resta ancora qualche velleità di impegno tra gli scapigliati (come l’antimilitarismo di Tarchetti), ma in prevalenza gli scrittori si chiudono nel puro esercizio letterario fine a se stesso. Anche i veristi, con Verga in testa, rifiutano la subordinazione della letteratura a fini sociali, che era propria del naturalismo zoliano, e perseguono la pura riproduzione “scientifica” del vero nella forma letteraria. Nonostante l'avvento dell’industria editoriale e del mercato letterario, in Italia lo scrittore, salvo
Provenienza sociale
dell'intellettule
rare eccezioni, come D'Annunzio, non è ancora in grado di vivere con i proventi delle sue opere. Zola,
in un saggio del 1880, La letteratura e il denaro, saluta con favore la nuova condizione del mercato letterario, che consente allo scrittore di essere libero da condizionamenti di protettori e di mecenati; e
tale è appunto la situazione di Zola stesso, che vive agiatamente grazie alla sua sistematica produzione romanzesca (un romanzo all’anno) e al suo successo. Ma in Italia la situazione è arretrata rispetto a quella della Francia: lo scrittore deve ancora sostenersi con altre attività per vivere. Quasi scomparsa ormai è la figura dello scrittore di origine aristocratica che vive di rendita (come era Manzoni). Secondo studi statistici, all’inizio del Novecento essi sono non più del 20% del totale. Il 70% affianca all'attività di scrittore un impiego pubblico, in genere l’insegnamento (Carducci, Pascoli, Pirandello, ad esempio, sono professori universitari, e anche Svevo nei primi anni insegna in un istituto superiore per il commercio). Il 10% degli intellettuali trova sostentamento nell’industria editoriale, con collaborazioni a giornali, riviste o case editrici (cfr. S. Piccone Stella, Intellettuali e capitale, De Donato, Bari 1972).
Inuovi intellettuli
—Ma la figura dell’intellettuale umanista non è più quella dominante. Si affacciano nuove figure,
specialisti create dallo sviluppo della società moderna: il sociologo, il giurista, l'economista, il fisico, il chimico, il fisiologo, il patologo... Nasce, cioè, la figura dell’intellettuale specialista, soprattutto in campo scientifico. Anche ciò contribuisce alla crisi del ceto dei letterati umanisti tradizionali, a cui si accennava: il loro sapere non è più considerato i/ sapere per eccellenza, ma un tipo di sapere, e deve adeguarsi alle nuove esigenze della specializzazione e della divisione del lavoro. Tende a scomparire la figura dell’intellettuale eclettico, che si occupa ad alto livello di varie discipline, ad esempio poesia, filologia classica, storiografia, filosofia, diritto... Ora ciascuno coltiva un preciso campo specialistico. L'intellettuale Ma l’intellettuale umanista spesso non si rassegna alla declassazione del suo ruolo, e reagisce ri-
si attribuisce un ruolo vendicando ancora per sé la funzione di guida morale, intellettuale o civile della nazione. E può trovare rispondenza nelle esigenze del pubblico: tale è la posizione di Carducci, che da aspro polemista d’opposizione, giacobino e repubblicano, diviene il poeta ufficiale dell’Italia umbertina, il cantore dei valori ufficiali e delle glorie patrie. Così D'Annunzio si autoproclama vate di un’Italia risorta dalla mediocrità borghese, capace di imporre di nuovo il suo dominio imperiale sul mondo e di far rinascere la bellezza del passato (ma per decenni influenzerà più che altro il costume come “divo” più che come “vate”; le cose cambieranno con la guerra, che gli consentirà di assumere una funzione politica).
DORBII
La lingua
5,1 La lingua dell'uso comune. All’atto dell’unità erano ancora pochissimi coloro che erano in grado L'italiamo di usare la lingua nazionale. Il censimento del 1861 mise in luce che l’analfabetismo raggiungeva il non èlingua comune 78%, con punte minime del 50% in Piemonte e Lombardia, e punte massime del 90% nelle isole. Ma anche del restante 22% molti erano appena in grado di scrivere la propria firma e di decifrare un poco i caratteri a stampa. Non contando la Toscana e Roma, si può calcolare che solo lo 0,8% della popolazione fosse veramente in grado di parlare e scrivere l'italiano (circa 160.000 persone disperse in una massa di 20 milioni di individui); comprendendo anche la Toscana e Roma, dove le parlate locali erano molto vicine alla lingua comune nel lessico e nella fonologia, si raggiungeva il 2,5%, pari a 600.000 persone circa (T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1963). Il che si-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
11 gnifica che la lingua d’uso quotidiano, per la stragrande maggioranza della popolazione italiana, al momento dell’unificazione era ancora il dialetto locale. Anche i borghesi colti, e persino i letterati, nella vita quotidiana usavano normalmente il dialetto; e quando dovevano parlare in italiano, lo faceLa necessità vano con impaccio e scarsa sicurezza. Il problema dell’unificazione linguistica, che già era stato indell’unificazione dividuato dagli intellettuali del primo Ottocento, si poneva dunque come uno dei più urgenti. Nel nuolinguistica vo Stato l'unificazione politica ed economica richiedeva continui e intensi scambi fra tutte le regioni, ed una lingua comune che fosse veramente nell'uso dell’intera popolazione era un'esigenza imprescindibile. Il problema però non era solo come diffondere la lingua nazionale, bensì anche quale modello di lingua diffondere. Infatti la lingua italiana, essendo praticamente solo una lingua letteraria, era come La soluzione una lingua morta, era «povera» ed «incerta», come aveva ben indicato Manzoni sin dal 1821: non ofmanzoniana friva tutti i termini e i costrutti che servivano alla comunicazione globale, negli uffici, nelle scuole, nei mercati, nelle officine, nei laboratori scientifici, ecc., e non poteva fare riferimento a un “codice”
sicuro, fissato dall’uso, che garantisse la comprensione reciproca. L’autorevolezza di un intellettuale come Manzoni (grazie anche all'esempio concreto dei Promessi sposi) impose la sua soluzione che consisteva nell'adozione della lingua parlata dai fiorentini colti, diffusa attraverso un corpo di maestri addestrati all'uso del fiorentino e attraverso un vocabolario. Tale soluzione incontrò il favore della classe politica dello Stato unitario; ed effettivamente nelle scuole elementari si tentò di imporre il modello fiorentino, combattendo duramente l’uso dei dialetti. Il “manzonismo” linguistico ebbe un
certo seguito, cadendo spesso nel grottesco, nell’affettazione leziosa di usare vocaboli e modi di dire fiorentineggianti da parte di chi fiorentino non era. La soluzione manzoniana si rivelò però astratta e impraticabile nei fatti. Era una contraddizione voler imporre l’uso di una lingua viva tramite lo studio e le norme di un vocabolario: una lingua veramente viva non può essere imposta dall’alto, può nascere solo dall’uso concreto dei parlanti, e presuppone la partecipazione a momenti di vita collettiva, lavoro, studio, svago. Era questa l’obiezione Le critiche di Ascoli che alla soluzione manzoniana opponeva un grande linguista, Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907). Nel proemio all’«Archivio glottologico italiano» (1873) affermava che una vera lingua nazionale sarebbe potuta nascere solo dalla circolazione delle idee in una società civile viva e ricca di scambi. Ed in effetti è stata questa la via attraverso cui si è formata la lingua italiana che parliamo oggi. La scuola si offriva in teoria come lo strumento più adatto alla diffusione della lingua comune. Ma La funzione della scuola la realtà era ben diversa. Le leggi Casati (1859) e Coppino (1877) avevano fissato il principio delnella diffusione dell'italiano
l’obbligo dell’istruzione elementare. Ma le strutture erano carenti (aule, materiali didattici), il perso-
nale era spesso inadeguato (si dava il caso paradossale di maestri analfabeti, ereditati dall’amministrazione borbonica), e moltissimi bambini, in particolare nel Sud, evadevano l'obbligo, perché impegnati nei lavori dei campi e in attività varie e perché, nella situazione di profonda arretratezza delle masse popolari, non si comprendeva l’importanza dell'istruzione e non se ne avvertiva l'esigenza. Gli stessi ceti possidenti talora non favorivano l'istruzione dei contadini, nel timore che essa potesse renderli meno docili. La diffusione dell’italiano fu dunque un processo graduale, lento e difficile (tanto che non si può dire concluso nemmeno oggi). Insieme all’allargarsi dell’istruzione (nel 1901 la percentuale dell’aAltri fattori sociali nalfabetismo era già scesa al 48,7%), altri fattori sociali contribuirono all'affermazione della lingua nazionale: la coscrizione obbligatoria, che metteva i giovani a contatto con realtà regionali diverse; l’ampliarsi degli scambi sul mercato nazionale, che, per affari della più varia natura, obbligava persone di varie regioni a comunicare fra loro; l’estendersi della burocrazia, con cui prima o poi tutù avevano a che fare; l'emigrazione all’estero, che metteva gli analfabeti in contatto con società più evolute. Quando poi si avviò l’industrializzazione, cominciarono le migrazioni interne, che provocarono la mescolanza di persone delle più diverse provenienze regionali, che scoprirono così come fosse indispensabile avere uno strumento di comunicazione comune. La diffusione dei giornali e della stampa periodica ebbe anche incidenza, almeno per gli strati alfabetizzati, che erano comunque in crescita. Nel Novecento poi un fattore potente di unificazione linguistica saranno mass-media di capillare penetrazione come la radio, il cinema e, in anni più recenti, la televisione. Ilbilinguismo e gliitaliani regionali
Però, anche quando la lingua nazionale cominciava a essere parlata e compresa, resisteva una situazione di fondamentale bilinguismo: l'italiano era usato in determinate situazioni, ma il dialetto continuava ad essere la lingua della comunicazione quotidiana, familiare. L'italiano restava una lingua un po’ artificiale, e di regola assumeva la coloritura del dialetto locale, che era la vera lingua madre del parlante, quella in cui si trovava effettivamente a suo agio. Si formarono così varianti di italiano I. L'ETÀ POSTUNITARIA
12 regionale, che presentavano caratteristiche del dialetto nella sintassi, nei termini, soprattutto nella pronuncia. Il bilinguismo lingua nazionale-dialetto e le forme di italiano regionale sono realtà ancora largamente presenti oggi. 5.2 La lingua letteraria. Il diffondersi, seppur lento e limitato, della lingua nazionale nell’uso comune lanuova prosa ha riflessi sensibili sulla lingua letteraria, avvicinandola alla lingua parlata. Nella prosa cade in disuso il periodare ampio e solenne della tradizione classica (a cui già i romantici, e soprattutto Manzoni, avevano inferto colpi mortali, nella loro ricerca della «popolarità» e del «vero»). Si diffonde un modello di prosa più agile e rapido, di più immediata comunicazione, che è influenzato soprattutto dal linguaggio giornalistico. La sintassi si semplifica, tendono a scomparire le complesse architetture di subordinate, i periodi si fanno più brevi, prevale la coordinazione. Anche il lessico abbandona i termini arcaici e preziosi e si arricchisce di neologismi, che provengono dalle tecniche e dalle scienze naturali e sociali, oppure dal francese e dall'inglese. Spesso, nella prosa giornalistica e narrativa, ciò dà luogo ad un linguaggio sciatto ed approssimativo. Tuttavia, quali che siano i risultati estetici, il mutamento di indirizzo è di grande rilievo. Alcuni scrittori veristi, con Verga come maestro, nella loro
esigenza di aderire al vero senza filtri letterari, mirano a riprodurre una lingua parlata che, pur restando italiana, conservi la struttura sintattica e la “forma interna” (modi di dire, paragoni, metafore) del dialetto.
La poesia
Un discorso diverso vale per la poesia. Anche qui, in obbedienza ad una ricerca del «vero», vi è la tendenza all’uso di un linguaggio prosastico, che non disdegna termini umili e quotidiani, o addirittura, con intenti di provocazione, plebei. Ma le esperienze poetiche più significative di questa età, come quelle di Carducci e D'Annunzio, puntano al ricupero di un’aulicità classica. Troviamo così, nei loro versi, termini arcaici e rari, latinismi (clipeato, nauti, aulire, arbore), giri di frase ampi e complessi,
inversioni ardite alla latina. Una soluzione originale presenta invece Pascoli. La sua lingua è apparentemente semplice e umile, ma in realtà, se si guarda a fondo, appare composita ed estremamente preziosa, poiché unisce vocaboli dell’uso comune e termini vernacolari toscani (della Lucchesia, in genere), onomatopee, aulicismi e arcaismi, nonché una compiaciuta esibizione di termini botanici ed ornitologici.
PERCORSI STORICO-CULTURALI
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Il Il Decadentismo -
REESE
AL'origine del termine “decadentismo” Il 26 maggio 1883 sul periodico parigino «Le Chat Noir» («Il gatto nero») Paul Verlaine pubblicava un sonetto dal titolo Langueur (Languore), in cui affermava di identificarsi con l'atmosfera di stan-
La “decadenza”
chezza e di estenuazione spirituale dell'Impero romano alla fine della decadenza, ormai incapace di forti passioni e di azioni energiche, immerso nel vuoto e nella noia, inteso solo a raffinatissime quan-
to oziose esercitazioni letterarie (cfr.
La Scapigliatura, il Verismo, ilDecadentismo, T38). Il so-
netto interpretava uno stato d’animo diffuso nella cultura del tempo, il senso di disfacimento e di fine di tutta una civiltà, l’idea, assaporata con un voluttuoso compiacimento autodistruttivo, di un prossimo crollo, di un imminente cataclisma epocale, per cui effettivamente si avvertiva un’affinità con il periodo del tardo Impero romano e si esaltava la suprema raffinatezza ed eleganza di simili momenti in cui una civiltà allo stremo può esprimersi in forme quintessenziate e squisite. Queste idee erano proprie di circoli d'avanguardia, che si contrapponevano alla mentalità borghese e benpensante e ostentavano atteggiamenti bohémien e idee deliberatamente provocatorie, ispirandosi al modello “maledetto” di Baudelaire. La critica ufficiale, a designare atteggiamenti del genere, usò il termine “decadentismo”, in accezione negativa e spregiativa, ma quei gruppi intellettuali lo vollero assumere polemicamente, rovesciandone il senso a indicare un privilegio spirituale, e ne fecero una sorta di bandiera orgogliosamente esibita. Il movimento trovò il suo portavoce nel 1886 in un periodico, «Le Décadent» appunto, diretto da Periodici e manifesti Anatole Baju, ma altre riviste già dagli anni precedenti interpretavano le tendenze di quella che ormai aveva la fisionomia di una vera e propria scuola: «Lutèce» (dal 1883), la «Revue Indépendante» (1884), la «Revue Wagnérienne», il cui titolo rimandava ad un nume tutelare di questa cultura, il musicista tedesco Richard Wagner, «La Décadence artistique et littéraire». Su «Lutèce» nel 1883 Verlaine presentò le personalità più significative del gruppo in una serie intitolata Poétes maudits (Poeti maledetti), comprendente Tristan Corbière, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé, arricchita poi di una nuova serie nel 1887. Come un vero e proprio manifesto di queste tendenze si offrì il romanzo A rebours (Controcorrente) di Joris-Karl Huysmans (1884), che ebbe molta notorietà e fissò in un vero e proprio codice motivi e atteggiamenti del gruppo decadente (cfr. Generi] La Scapigliatura, il Verismo, ilDecadentismo, A25 e T45), esercitando forti suggestioni anche su scrittori di altri paesi, come D’'Annunzio, che vi si ispirò nel Piacere (1889), e Wilde, che vi fece diretto riferimento nel Ritratto di Dorian Gray (1891). Il termine “decadentismo”, quindi, originariamente indicava un determinato movimento letterario, Senso ristretto * e senso generale sorto in un dato ambiente, quello parigino durante gli anni Ottanta, con un preciso programma cultudel termine rale, espresso esplicitamente da manifesti, organi di stampa e altre pubblicazioni; ma, poiché in quel “decadentismo” movimento erano in germe tendenze che poi sarebbero state riprese o si sarebbero autonomamente sviluppate in altri contesti più vasti, la storiografia letteraria italiana, nel corso del Novecento, ha assunto il termine a designare un’intera corrente culturale, di dimensioni europee, che si colloca negli Il. IL DECADENTISMO
14 ultimi due decenni dell’Ottocento, con propaggini nel primo Novecento; taluni anzi hanno proposto di usare la formula a definire un intero periodo storico, che ingloba lo stesso Novecento. Come si vede, si ripropone per il Decadentismo il problema terminologico che già si era presentato a proposito del Romanticismo: il termine può avere un significato ristretto e specifico, a designare un movimento precisamente collocato nel tempo e nello spazio e con un programma definito, ma può anche assumere un significato più ampio e indicare un’intera corrente culturale o addirittura un intero periodo, nella complessità delle sue componenti. L'uso del termine in questa seconda accezione è diffuso però prevalentemente nella storiografia letteraria italiana, mentre in altri paesi sono preferite diverse denominazioni, come ad esempio «Simbolismo». Inteso nell’accezione più vasta, il Decadentismo appare come una somma di manifestazioni tra lo|denominatori comuni
ro anche assai differenti; al suo interno tuttavia si possono individuare dei denominatori comuni, che
autorizzano ad usare una formula unica e onnicomprensiva: su questa base, tenteremo nei paragrafi seguenti di tracciare un quadro descrittivo del fenomeno nel suo insieme. Naturalmente, come per ogni altro quadro generale di una corrente o di un periodo, occorrerà tenere presente che si tratta del
risultato di un processo di astrazione e di schematizzazione, che la realtà concreta è infinitamente più complessa e variegata, ricca di sfumature e anche di contraddizioni, e che la riduzione unitaria si giustifica solo nella prospettiva delle esigenze didattiche. Una volta descritto il fenomeno nelle sue componenti, potremo affrontare altri problemi: le sue coordinate storiche e le sue radici nel contesto sociale, il rapporto con altri momenti della storia culturale come il Romanticismo, il Naturalismo-Verismo e il Novecento.
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La visione del mondo decadente
Ilrifiuto del Positivismo
La base della visione del mondo decadente è un irrazionalismo misticheggiante, che riprende ed esaspera posizioni già largamente presenti nella cultura romantica della prima metà del secolo. Viene radicalmente rifiutata, dai gruppi di scrittori d'avanguardia di fine Ottocento, la visione positivistica, che costituisce il sostrato dell’opinione corrente “borghese” ed è ormai cristallizzata in luo-
ghi comuni: la convinzione che la realtà sia un complesso di fenomeni materiali, regolati da leggi ferree, meccaniche e deterministiche, che la scienza, una volta individuate tali leggi, possa garantire una conoscenza oggettiva e totale della realtà e, attraverso di essa, il dominio dell’uomo sul mondo, il progresso indefinito, il trionfo della civiltà sull’oscurantismo, la sconfitta di tutti i mali
che affliggono l'umanità. Il decadente ritiene al contrario che la ragione e la scienza non possano Ilmistero
Le «corrispondenze»
dare la vera conoscenza del reale, perché l’essenza di esso è al di là delle cose, misteriosa ed enig-
matica, per cui solo rinunciando all’abito razionale si può tentare di attingere all’ignoto. L'anima decadente è perciò sempre protesa verso il mistero che è dietro la realtà visibile, verso l’inconoscibile, in cerca di quegli stati di grazia in cui l'assoluto e l’ineffabile possano rivelarsi. Se per la visione comune le cose possiedono una loro oggettiva, solida individualità, che le isola le une dalle altre, per questa visione mistica tutti gli aspetti dell'essere sono legati tra loro da arcane analogie e corrispondenze, che sfuggono alla ragione e possono essere colte solo in un abbandono di empatia irrazionale. Ogni forma visibile perciò non è che un simbolo di qualcosa di più profondo che sta al di là di essa, e si collega con infinite altre realtà in una rete segreta, che solo la percezione dell’iniziato può individuare. È una visione che, sulla scorta delle teorie del mistico settecentesco Emanuel Swedenborg, postulanti la misteriosa unità del tutto, era già stata formulata da Baudelaire nel sonetto Corrispondenze dei Fiori del male (1857), un testo che costituiva un manifesto ante litteram delle nuo-
ve tendenze, e tale fu considerato dai decadenti: «La Natura è un tempio dove viventi colonne / lasciano talvolta uscire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli / che l’osservano con sguardi familiari. // Come lunghi echi che di lontano si confondono / in una tenebrosa e profonda unità, / vasta come la notte e come la chiarità, /i profumi, i colori e i suoni si rispondono».
Identità tra io e mondo
L'inconscio
La rete di corrispondenze coinvolge anche l’uomo: portando alle estreme conseguenze l’idealismo romantico, che negava consistenza autonoma alla realtà oggettiva, la visione decadente propone una sostanziale identità tra io e mondo, tra soggetto e oggetto, che si confondono in un’arcana unità. Una corrente profonda li unisce, al di sotto degli strati superficiali della realtà. L'unione avviene cioè sul piano dell'inconscio: in questa zona oscura l’individualità scompare e si fonde con un Tutto inconsapevole e immemoriale. La scoperta dell'inconscio è il dato fondamentale della cultura deca-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
15 dente, il suo nucleo più autentico. Era un continente che i romantici avevano avvistato, costeggiato ed esplorato in parte; ma è l’anima decadente che ora osa avventurarsi sino in fondo in questa zona tenebrosa, attratta da un fascino profondo, irresistibile. Senza la scoperta di questa dimensione non si capirebbe nulla delle concezioni del Decadentismo e dei suoi prodotti letterari, artistici, musica-
Gli stati abnormi "della coscienza come strumenti conoscitivi
li. Freud, a fine secolo (la sua prima opera capitale, l’Interpretazione dei sogni, è del 1899), comincerà a dare una sistemazione scientifica a questa conoscenza, ma secondo un impianto ancora positivistico, razionalistico: il suo fine è portare alla luce della coscienza l’inconscio, sottoporlo al dominio dell’io; i decadenti invece si lasciano voluttuosamente inghiottire dal vortice tenebroso, distruggendo ogni legame razionale, convinti che solo questo abbandono totale possa garantire un’esperienza ineffabile, la scoperta di una realtà più vera. Tuttavia Freud riconoscerà il suo debito nei confronti dei romantici e dei decadenti, e ammetterà di non aver effettivamente scoperto nulla di nuovo, ma di non aver fatto altro che dar veste scientifica a ciò che avevano prima di lui intuito i poeti e gli artisti. Se il mistero, l'essenza segreta della realtà, non può essere colto attraverso la ragione e la scienza, altri sono i mezzi mediante cui il decadente cerca di attingere ad esso. Innanzitutto come strumenti privilegiati del conoscere vengono indicati tutti gli stati abnormi e irrazionali dell’esistere: la malattia, la follia, la nevrosi, il delirio, il sogno e l'incubo, l’allucinazione. Questi stati di alterazione,
sottraendosi al controllo limitante e paralizzante della ragione, aprono al nostro sguardo interiore prospettive ignote, permettono di vedere, magari confusamente, il mistero che è al di là delle cose. Gli stati d'alterazione possono anche essere provocati artificialmente, attraverso l’uso dell’alcol, dell’assenzio o delle droghe, l’hashish, l’oppio o la morfina. È questo un motivo già presente in età romantica: Coleridge era schiavo dell'oppio, Thomas de Quincey aveva scritto le Confessioni di un opbiomane (1821), Baudelaire I paradisi artificiali (1861). La “cultura della droga”, destinata purtroppo ai noti sviluppi della nostra età, ha le sue radici in area romantico-decadente, in cui si ritiene che l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope potenzi all’infinito le facoltà umane, sottraendole allo squallido meccanismo delle abitudini quotidiane e ai vincoli mortificanti della ragione, spalanchi orizzonti ignoti e affascinanti, accresca a dismisura le facoltà conoscitive e fantastiche, provochi stati di estasi e permetta di entrare in contatto con l'assoluto, fornendo così stimoli inauditi alla creazione artistica. Rimbaud, in due lettere famose del 1871, scrive: «Ora io sprofondo il più possibile nella dissolutezza. Perché? Io voglio essere poeta, e mi adopero per divenire veggente [...]. Si tratta di giungere all’ignoto attraverso la sregolatezza di tutti i sensi»; «Affermo che occorre essere veggenti, rendersi veggenti. Il Poeta si trasforma in veggente attraverso una lunga, immensa e volontaria sregolatezza di tutti i sensi [...]. Perché così egli arriva all’ignoto!» (corsivi dell'autore). Vi sono poi peridecadenti altre forme di estasi che consentono questa esperienza dell'ignoto e del-
l'assoluto. Se io e mondo non sono in realtà distinti, l’io individuale può annullarsi nella vita del gran Tutto, confondersi nella vibrazione stessa della materia, farsi nuvola, filo d'erba, corso d’acqua, e, atIlpanismo
traverso questo annullamento, potenziare all’infinito la propria vita, renderla come divina: è quell'atteggiamento che è stato definito panismo (dal greco pan, tutto), e che ricorrerà particolarmente in D'Annunzio, come vedremo («Non ho più nome. / E sento che il mio volto / s’indora dell’oro / meri.
diano, / e che la mia bionda / barba riluce / come la paglia marina; / sento che il lido rigato / con sì delicato / lavoro dall’onda / e dal vento è come / il mio palato, è come / il cavo della mia mano / ove il tatto s’affina. // E la mia forza supina / si stampa nell’arena, diffondesi nel mare. / E il fiume è la mia vena, /il monte è la mia fronte, / la selva è la mia pube, / la nube è il mio sudore. / [...]/E la mia vita Le epifanie è divina»: Meriggio, da Alcyone, 1903). Un altro tipo di stato di grazia è costituito dalle epifanie, come, probabilmente per suggestione dannunziana (1 fuoco), le definisce il giovane James Joyce nello Stefano eroe, prima versione del suo romanzo autobiografico Portrait of the Artist as a Young Man (Ritrat-
to dell’artista da giovane, 1917, abitualmente tradotto come Dedalus): un particolare qualunque della realtà, che appare insignificante alla visione comune, si carica all’improvviso di una misteriosa intensità di significato, che affascina come un messaggio proveniente da un’altra dimensione, come rivelazione momentanea di un assoluto (ediphania in greco vuol dire apparizione, manifestazione, e nel linguaggio religioso il termine si attribuisce alle rivelazioni del dio). E un'esperienza che in forme analoghe ricorre anche nelle pagine di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust e di altri scrittori del
Novecento. Ad esempio nel secondo volume della Ricerca, All’Ombra delle fanciulle in fio-
re (1919-22), l’«io» che racconta, passando per una strada di campagna in Normandia, è colpito da tre alberi che segnano l'ingresso di un viale. Il narratore ha l'impressione di non vedere per la prima volta il loro disegno: i tre alberi gli lanciano come un misterioso messaggio, che egli non sa decifrare, ma Il. IL DECADENTISMO
16 che lo riempie di una profonda felicità. Ancora Cesare Pavese, che alla cultura decadente è legato per tanti fili, in Feria d'agosto (1947), in un passo significativamente intitolato Stato di grazia, confessa: «So di un uomo che una semplice finestra di scala, spalancata sul cielo vuoto, mette in stato di grazia»; e poco oltre: «Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista fami-
liare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica [...]. La visione s’accompagna al sospetto che queste non siano se non le quinte di una scena favolosa in attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia conoscono. Qualcosa di inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro [...]). L'uomo sa queste cose contemplando la vigna. E tutto l'accumulo, la lenta ricchezza di ricordi d’ogni sorta, non è nulla di fronte alla certezza di quest’estasi immemoriale».
“ÎLa poetica del Decadentismo Ilpoeta veggente
Tra i momenti privilegiati della conoscenza, per i decadenti, vi è soprattutto l’arte. Il poeta, il pittore, il musicista non sono solo abili artefici, capaci di adoperare magistralmente la parola, il colore, la nota, ma dei sacerdoti di un vero e proprio culto, dei «veggenti», capaci di spingere lo sguardo là dove l’uomo comune non vede nulla, di attingere a dimensioni nuove dell’essere, di rivelare l'assoluto. L'arte non è solo un’operazione intesa, attraverso il controllo razionale di certi strumenti espressivi, a produrre begli oggetti, che provochino sensazioni piacevoli, come pretendeva una secolare tradizione, ma voce del mistero che obbedisce a sollecitazioni profonde, suprema illuminazione (/Iluminazioni è significativamente il titolo di una raccolta di prose liriche di Rimbaud, scritte fra il 1873 e il
L'estetismo
1875). Per questo l’arte appare il valore più alto, che va collocato al di sopra di tutti gli altri, anzi, deve assorbirli tutti quanti in sé. Questo culto religioso dell’arte ha dato origine al fenomeno dell’estetismo. L’esteta è colui che assume come principio regolatore della sua vita non i valori morali, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ma solo il bello, ed esclusivamente in base ad esso agisce e giudica la realtà. Egli si colloca così al di là della morale comune, in una sfera di assoluta eccezionalità rispetto agli uomini mediocri. Gli atti quotidiani della sua vita sono trasformati in materiali per una vera e propria opera d’arte. Arte e vita per lui si confondono, nel senso che la seconda è assorbita interamente dalla prima. Tutta la realtà è da lui filtrata attraverso l’arte. Ogni aspetto che incontra, egli lo trasfigura sovrapponendo su di esso la memoria di un capolavoro artistico: se vede un bel viso, un bel paesaggio, immediatamente lo associa ad un viso, ad un paesaggio immortalato dal verso di un poeta, da una pittura insigne. Va costantemente alla ricerca di sensazioni rare e squisite, si circonda degli oggetti più preziosi, quadri, stoffe, gioielli, libri antichi, prova orrore per la banalità e la volgarità della gente comune, che resta sorda alla rivelazione del Bello, di questa vera e propria religione. Sono posizioni che vengono teorizzate originariamente in Inghilterra da John Ruskin e da Walter Pater, in Francia da Huysmans in Controcorrente, e che avranno poi la massima risonanza con Oscar Wilde e Gabriele D'Annunzio: naturalmente non solo attraverso le opere scritte, ma anche attraverso la vita stessa, che, secondo i princìpi professati, deve essere un’opera d’arte, un «vivere inimitabile» (come afferma D'Annunzio; Wilde, con un ben diverso senso ironico del paradosso, proclama invece: «Ho
messo l’arte nella mia vita, nelle mie opere solo il talento»). Ne consegue anche che il poeta rifiuta di farsi banditore di idealità morali e civili: l’arte rifugge dalla rappresentazione della realtà storica e sociale (che era una prerogativa del realismo ottocentesco) e si chiude in una squisita celebrazione di La poesia pura se stessa, depurandosi di tutti gli intenti pratici e utilitaristici; diviene cioè arte pura, poesia pura (un’eccezione, nel panorama decadente, è costituita dalle opere dannunziane del periodo superomistico, dopo il 1894, in cui l’arte diviene mezzo di propaganda ideologica). Se la poesia è veicolo di una rivelazione del mistero e dell’assoluto, la parola poetica non può più essere strumento di una comunicazione logica, razionale, ma si propone di agire su una zona più profonda e oscura, assumendo un valore puramente suggestivo ed evocativo. Si determina di conseguenza La rivoluzione una vera e propria rivoluzione del linguaggio poetico: se per tutta la tradizione precedente, dalla poedel linguaggio poetico sia classica a quella medievale, rinascimentale, barocca, neoclassica, in certa misura romantica (ma nel Romanticismo, specie in quello tedesco e inglese, vi erano già sensibili anticipazioni delle soluzioni decadenti), persisteva il nucleo di un determinato significato della parola, ora questo significato si fa labile, evanescente, o scompare del tutto, lasciando solo il suo alone suggestivo. Alle immagini nitide e distinte si sostituisce l’impreciso, il vago, l’indefinito, che solo è capace di evocare sen-
si ulteriori e misteriosi. E quanto proclama Verlaine nella sua Arte poetica (1882; cfr.
PERCORSI STORICO-CULTURALI
La
17 Scapigliatura, il Verismo, ilDecadentismo, T37), che già dal titolo dichiara la sua volontà di opporsi polemicamente alle poetiche classiche, quali quelle di Orazio o di Boileau: «È necessario poi che tu non scelga / le tue parole senza qualche svista: / nulla più caro della canzon grigia/ dove l’incerto si uniIlvalore suggestivo
sce al preciso» (traduzione di Clemente Fusero). La parola smarrisce la sua funzione di strumento co-
e magico della parola
municativo immediato e ricupera quella ancestrale di formula magica, capace di rivelare l’ignoto, di mettere in contatto con un arcano al di là delle cose. Ma se la poesia è pura suggestione irrazionale, segretamente allusiva al mistero, se è voce dell’inconoscibile e dell’ineffabile, se rinuncia alla comunicazione di un significato razionale, essa diL'oscurità enigmatica viene inevitabilmente oscura, al limite dell’incomprensibilità. Anche se il poeta vuole comunicare, lo fa in forme cifrate, allusive, enigmatiche, rivolte a pochi iniziati, perché solo gli iniziati sono in grado di accedere al mistero e di comprendere il suo linguaggio. In situazioni estreme la poesia diviene pura autocomunicazione, il poeta non parla ad altri che a se stesso. Si rivela di qui il carattere estremamente aristocratico dell’arte decadente, che rifiuta di rivolgersi al pubblico borghese, ritenuto mediocre e volgare, e si chiude nella torre d’avorio della sua suprema raffinatezza. La scelta Lareazione è inoltre motivata dall’imporsi della nascente cultura di massa, che offre al grande pubblico prodot-
alla cultura di massa ti fatti “in serie”, meccanicamente ripetitivi, come i romanzi d’appendice o i racconti ameni pubbli-
i
Le tecniche espressive:
cati su giornali e riviste per famiglie. Anche nelle arti figurative l'avvento della fotografia consente l’indefinita riproducibilità tecnica delle immagini, distruggendo l’unicità dell’opera d’arte. Per questo l'artista sente il bisogno di difendersi, di differenziarsi, e si rifugia nel linguaggio cifrato ed ermetico per salvare l’arte “vera”, l’“aura” divina che la circonda, e che la riproduzione meccanica destinata al mercato borghese sta compromettendo e cancellando. Si delinea quindi, in questo periodo, una frattura radicale tra artista e pubblico, tra intellettuale e società, frattura che esaspera all’estremo limite il conflitto già profilatosi in età romantica, agli albori del capitalismo industriale moderno, e che andrà esaminata più approfonditamente nelle sue specifiche radici sociali (rimandiamo per questo al $ 4). Vari sono i mezzi tecnici attraverso cui lo scrittore decadente (poeta o prosatore poco importa, poi-
lamusicaltà ché anche la prosa assume un carattere eminentemente lirico e fa propri gli squisiti artifici della poesia) ottiene questi effetti di segreta suggestione. Innanzitutto la musicalità: la parola vale non tanto quale significante logico, che richiama un preciso referente reale, ma quale pura fonicità, che si carica di valori magicamente evocativi e suscita echi profondi. Nella visione decadente la musica è la suprema fra le arti, proprio perché è la più indefinita, perché è svincolata da ogni significato logico e referenziale, dotata di misteriose facoltà suggestive, capace di agire sulle zone più oscure della psiche, di creare la comunione mistica con l’assoluto. Il teorico dell’estetismo inglese, Walter Pater, afferma che «tutte le arti tendono costantemente alla condizione della musica». Nell’anima decadente la musica provoca vere e proprie estasi, in cui sembra rivelarsi l’ineffabile. Le pagine degli scrittori di quest’età sono fitte di descrizioni assaporate di brani musicali: ne è un esempio eloquente l’opera dannunziana, ma si potrebbero citare pagine analoghe già in Baudelaire (a proposito di Wagner, che con la sua «melodia infinita» è il musicista che esercita il maggior fascino sulla sensibilità decadente), e, in pieno Novecento, nella Ricerca del tempo perduto di Proust (la «piccola frase» della sonata di Vinteuil che percorre le pagine proustiane come un /eitmotiv). La trasformazione della parola poetica in l'Arte poetica musica è esplicitamente teorizzata proprio in apertura della citata Arte poetica di Verlaine, che si può
di Verlaine a buon diritto considerare il “manifesto tecnico” della nuova letteratura decadente: «Musica, sovra
ogni cosa; / e perciò preferisci il ritmo impari, / più vago e più solubile nell'aria, senza nulla che pesi e che posi» (traduzione di Clemente Fusero). Questo programma è poi puntualmente applicato da Verlaine, la cui poesia è caratterizzata da una squisita musicalità; ma pura musica sono spesso i versi dannunziani, in cui non conta tanto il significato delle parole quanto il loro suono (ad esempio nella Sera fiesolana: «Dolci le mie parole ne la sera / ti sien come la pioggia che bruiva / tepida e fuggitiva, / commiato lacrimoso de la primavera, / su i gelsi e su gli olmi e su le viti / e sui pini dai novelli rosei diti /che giocano con l’aura che si perde, / e sul grano che non è biondo ancora / e non è verde...»). Lo stesso vale per Pascoli, le cui poesie offrono preziose ricerche foniche: un esempio da A/ba festiva, in Myricae, in cui le parole mirano a riprodurre la musica delle campane, nei loro timbri diversi, argentini o gravi: «Tra il cantico sonoro / il tuo tintinnio squilla, / voce argentina — Adoro, // adoro — Dilla, dilla, la nota d’oro — L'onda / pende dal ciel, tranquilla. // Ma voce più profonda / sotto l'amor rimbomba, / par che al desìo risponda: // la voce della tomba»: si può notare come a rendere la voce argentina della prima campana il poeta impieghi largamente vocali chiare e sottili come ia i, seguite dalla liquida /; a rendere invece il suono più grave della seconda, ricorra alle vocali cupe come la 0, seIl. IL DECADENTISMO
18 guite da nasale più dentale, nd, mb. Un andamento musicale possiede parimenti la prosa narrativa dei romanzi di D'Annunzio, non solo grazie al ritmo e alle cadenze delle frasi, ma anche all'uso di motivi conduttori che, secondo il modello di Wagner, ricorrono sistematicamente a sottolineare certi temi o certe situazioni. i In secondo luogo cadono nella poesia decadente i nessi sintattici tradizionali: la sintassi si fa vaga e imprecisa, altamente ambigua. In questi nessi ambivalenti anche le singole parole assumono sfuIllinguaggio mature o significati diversi da quelli comuni. Ma lo strumento forse più usato è quello metaforico, anametaforico logico. La metafora era una figura retorica ben conosciuta e ampiamente usata sin dalla poesia antica, ed era codificata nei trattati di retorica, ma nella poesia decadente essa non ha più nulla del tradizionale tropo, inteso come ornamento dell’espressione, ed appare ben diversa dalla stessa metafora barocca, che era un gioco ingegnoso, cioè ancora lucidamente regolato dall’intelligenza: la metafora decadente presuppone una concezione irrazionalistica, è l’espressione di una visione simbolica del mondo, dove ogni cosa rimanda ad altro, allude alla rete di segrete relazioni che uniscono le co-
se in un sistema di analogie universali: implica, insomma, la metafisica delle «corrispondenze», nel senso baudelairiano, carica le cose anche più comuni di sensi ulteriori, allusivi ad un misterioso “al
di là” del reale. Si prenda questo esempio da L'assiuolo di Pascoli (cfr.|Autori] Pascoli, T7): «Squas-
Ilsimbolo
La sinestesia
savano le cavallette / finissimi sistri d’argento / (tintinni a invisibili porte / che forse non s’aprono più?...)»: il suono argentino delle cavallette è accostato a quello dei sistri, antico strumento musicale egiziano; ma il tintinnio richiama quello di «invisibili porte», che sono quelle della morte, e difattii sistri erano sacri a Iside, il cui culto misterico prometteva la risurrezione dei defunti: si vede quindi come la metafora si carichi di sensi ulteriori, alluda ad arcane corrispondenze al di là del reale visibile. La metafora decadente, pertanto, non è regolata da un semplice rapporto di somiglianza tra due oggetti, come avveniva nella tradizione (si pensi al rapporto tra «occhi» e «lumi» nella poesia petrarchistica), ma istituisce legami impensati tra realtà fra loro remote, brucia gli anelli intermedi della catena analogica costringendo a voli vertiginosi. Non solo, ma il secondo termine di paragone, per così dire, resta spesso oscuro e misterioso. Si prenda ad esempio l’ultima immagine di Temporale di Pascoli: «... nero di pece, a monte, / stracci di nubi chiare: / tra il nero un casolare: / un’ala di gabbiano»: tra il bianco casolare che spicca nel nero del temporale e l’ala del gabbiano si crea un legame analogico improvviso, non mediato, che sconcerta a prima lettura, e dà l'impressione di sensi segreti che è impossibile precisare logicamente. In effetti il rapporto simbolico è diverso da quello allegorico, che era proprio del Medio Evo: l’allegoria postula un rapporto nettamente codificato tra significante e significato (ad esempio la lupa dantesca è l’avarizia), il simbolo invece è oscuro e misterioso, non codificabile in forma definitiva, allusivo, polisemico, cioè caricabile di vari sensi. Se l’allegoria si può tradurre perfettamente in termini concettuali, del simbolo non si possono dare equivalenti logici esaurienti, poiché esso lascia sempre un margine, un alone inafferrabile. Affine alla funzione della metafora è quella della sinestesia. Essa è una fusione di sensazioni, nel
senso che impressioni che colpiscono un senso evocano altre impressioni relative a sensi diversi: ad esempio una sensazione visiva, come un colore, suscita sensazioni uditive, o tattili, o olfattive. An-
che per questo aspetto Corrispondenze di Baudelaire, che già abbiamo citato per la visione simbolica, possiede un valore pionieristico: «Vi sono profumi freschi come carni di bambini, / dolci come oboi, verdi come le praterie». Così Rimbaud nel sonetto Vocali associa al suono delle varie vocali sensazioni cromatiche: «A nero, E bianco, I rosso, U verde, 0 blu. L'uso della sinestesia è largamente pre-
sente nei poeti decadenti: si può citare ad esempio l’esordio della Sera fiesolana di D'Annunzio: «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscìo che fan le foglie / del gelso...», dove la sensazione fonica (le parole, il fruscìo delle foglie) si associa a una sensazione tattile, di freschezza; o ancora La mia sera di Pascoli: «Don... Don... E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano / Dormi! bisbigliano, Dormi! / là, voci di tenebra azzurra», dove l'impressione coloristica della «tenebra azzurra» si identifica con la sensazione fonica, cioè il colore diviene una «voce». Anche la sinestesia, come
la metafora, rimanda a una rete simbolica sotterranea al reale e presuppone una segreta unità del tutto, una zona oscura dove le varie sensazioni e la realtà che le provocano si fondono in un complesso La fusione delle arti indistinto. Per afferrare questa analogia universale si tenta anche la fusione dei vari linguaggi artistici, al fine di ottenere con un'arte effetti che sono propri di arti diverse, suggestioni musicali con la parola, plastiche e visive con la musica. Il tentativo più significativo è quello operato da Wagner che, nelle sue opere liriche, mira alla fusione di Wort (la parola), Ton (la musica) e Drama (l’azione scenica), creando così l’«opera d’arte totale» (Gesamtkunstwerk), in cui si determina la fusione di tut-
te le arti.
PERCORSI STORICO-CULTURALI
19 MET‘! Temi e miti della letteratura decadente Data la complessità del fenomeno e l’estrema varietà di tendenze che si riscontrano al suo interno, fornire una sintesi esauriente delle tematiche del Decadentismo europeo è impresa impossibile. Cercheremo pertanto di individuare solo alcuni filoni particolarmente significativi, come premessa alla lettura diretta dei testi, in cui quei temi potranno essere colti nel loro concreto e specifico configurarsi. Si è visto come l'atmosfera dominante nell'età del Decadentismo sia uno stato d’animo di stanchezza e di estenuazione, derivante dal senso di disfacimento di una civiltà, che si avverte prossima
al crollo. Di qui, nella letteratura decadente europea, deriva l'ammirazione per le epoche di decadenza, come la grecità alessandrina, la tarda latinità imperiale, l’età bizantina, in cui l’esaurirsi delle fordi decadenza ze si traduce in estrema, squisita raffinatezza. I prodotti culturali di queste epoche sono sentiti come più affascinanti delle opere di età di pienezza e classicità, come un frutto in avanzata maturazione, ormai prossimo a marcire, possiede un sapore più ricco e succhi più abbondanti, o come un fiore prossimo ad appassire emana un profumo più voluttuoso. Un significativo esempio di tale atteggiamento è offerto da Controcorrente, in cui Huysmans antepone i poeti latini dell’età imperiale ai grandi classici, perché più ricchi di umori e sapori, che possono stuzzicare un palato ormai sazio. Al culto per la raffinatezza estenuata di tali epoche si unisce il vagheggiamento del lusso raro e prezioso e della lusPerversione suria, complicata da perversità e crudeltà. L'affascinato idoleggiamento delle più sottili perversioni, e crudeltà delle crudeltà più efferate e cerebrali percorre le pagine dei decadenti, da Huysmans a Wilde a D’Annunzio (ma già il Flaubert di Salammbò e della Tentazione di sant'Antonio aveva anticipato questo gusto). Si pensi, come esempio, alla scena della Nave dannunziana in cui Basiliola Faledra, in un empito di sadica ferocia, si compiace a saettare dall'alto i prigionieri rinchiusi in una fossa, mentre questi invocano voluttuosamente la morte da lei, o ad Anticlo, nell'omonimo poema conviviale di Pascoli, che, nella notte della caduta di Troia, prova il piacere di morire sotto gli occhi di Elena, la donna fatale che è stata la causa di tutte quelle stragi; e mentre Elena avanza impassibile tra gli incendi e il sangue, le fiamme guizzano più alte, le vene dei morenti spremono «un rivo più sottil». Giustamente è stato scritto che buona parte della letteratura decadente (come pure di quella romantica) si colloca
L'ammirazione
per le epoche
La sensibilità nevrastenica
La malattia
«all’insegna del Divin Marchese», è cioè segnata dal sadismo (cui dà il nome Sade, 1740-1814), con il suo complemento immancabile, il masochismo (che deriva il suo nome proprio da uno scrittore di questa età, Leopold von Sacher Masoch, 1836-1895). In queste fantasie perverse di lussuria e crudeltà raffinata si esprime la stanchezza di una fantasia sazia, blasé dalle orge romantiche di ideale e di sentimento, che ricerca il nuovo e l’inaudito per trovare ancora stimoli che le impediscano di cadere nell’inerzia e nella noia, e al tempo stesso si manifesta una sensibilità acutissima, esasperata, al limite della nevrastenia. La nevrosi è una costante che segna tutta la letteratura decadente, e spesso viene tematizzata direttamente in personaggi di romanzi, drammi, poesie (dal Des Esseintes di Huysmans al protagonista del Trionfo della morte di D'Annunzio ai nevrotici eroi sveviani), ma, al di là di questo, costituisce una vera e propria atmosfera che avvolge l’intera cultura di questa età, il punto da cui sembra che tutto il reale sia osservato. Accanto alla malattia nervosa, la malattia in genere è un altro gran tema decadente. Da un lato essa si pone come metafora di una condizione storica, di un momento di crisi profonda, di smarrimento delle certezze, di angoscia per il crollo, avvertito prossimo, di tutto un mondo: la letteratura decadente è “malata” quasi ad esprimere la “malattia” che corrode dalle fondamenta la civiltà e sembra spingerla verso una prossima fine. Dall'altro lato la malattia diviene condizione privilegiata, segno di nobiltà e di distinzione, di quella separatezza sprezzante verso la massa che contrassegna l’aristocraticismo degli intellettuali di questa età, appare come uno stato di grazia, come lo strumento conoscitivo per eccellenza. L'eroe delle Vergini delle rocce di D'Annunzio (1895), Claudio Cantelmo, nel suo
progetto superomistico è affascinato dall'antica villa in sfacelo in cui vive una famiglia della nobiltà borbonica devastata dalla decadenza genetica, dalla malattia e dalla follia, convinto che proprio dalla putredine possano scaturire i succhi vitali destinati ad alimentare una forza nuova, intatta e dominatrice. Per contro nella Coscienza di Zeno sveviana (1923) la malattia è vista come fonte di una com-
prensione più acuta della realtà, in contrapposizione alla salute, che non conosce se stessa (ma se il punto d’avvio di Svevo può essere individuato in un terreno decadente, la sua lucida consapevolezza ironica lo colloca già al di là del Decadentismo, come vedremo). Alla malattia umana si associa la malattia delle cose: il gusto decadente ama tutto ciò che è corrotto, impuro, putrescente. Per questo VeIl. IL DECADENTISMO
20 nezia, in cui si associano sfacelo e raffinatezza, putredine e bellezza aristocratica, è la città decadente per eccellenza, che esercita sugli scrittori un fascino inquietante (così è nel Fuoco di D'Annunzio, nella Morte a Venezia di Thomas Mann). La morte
La malattia e la corruzione affascinano i decadenti anche perché sono immagini della morte. La morte è in questo periodo un tema dominante, ossessivo. Percorre le pagine della letteratura decadente una voluttà morbosa di annientamento, un'attrazione irresistibile per il nulla. Se è vero quanto affermato da Freud, che due istinti ci guidano, Eros e Thanatos, l’istinto costruttore, di vita, e l’istinto distruttore, di morte, sembra che questa età veda il trionfo incontrastato della seconda pulsione, quella della morte. Già i titoli di molte opere pubblicate a cavallo fra i due secoli sono significativi: Trionfo della morte e Contemplazione della morte di D'Annunzio, Del sangue, della voluttà, della morte di Barrès,
Morte a Venezia di Mann. È come se tutta una generazione di scrittori vedesse rovesciarsi l'impulso alla vita nel suo contrario e fosse attratta morbosamente da un gorgo di tenebra, dal fascino dell’abisso. Una mentalità scientista e positivista potrebbe spiegare il fenomeno in termini di patologia, ma quando la patologia non è di un singolo, bensì di un’intera generazione di scrittori, evidentemente le spiegazioni “cliniche” sono insufficienti, o addirittura ridicole. Se c’è una malattia, essa non è del sin-
Ilvitalismo
golo individuo, ma della civiltà. Questa ossessiva presenza della morte, insieme ai suoi corollari della malattia e della decadenza, è evidentemente il simbolo di un dato epocale, di una condizione generale della società europea, trascrive metaforicamente la consapevolezza, più o meno chiara, di una crisi storica di eccezionale portata. Per ora ci limitiamo a registrare il fenomeno, rimandando al paragrafo successivo le ipotesi sulle sue cause. Sempre all’interno della stessa cultura, al fascino esercitato dalla malattia, dalla decadenza e dalla morte si contrappongono però tendenze opposte: il vitalismo, cioè l'esaltazione della pienezza vitale senza limiti e senza freni, che afferma se stessa al di là di ogni norma morale, la ricerca del godimento ebbro, “dionisiaco”, la celebrazione della forza barbarica, ferina, che impone il suo dominio sui
deboli e può così rigenerare un mondo esausto. Filosoficamente, se la voluttà di annientamento si pone sotto il segno delle teorie di Schopenhauer (che proprio negli ultimi decenni del secolo conoscono una straordinaria fortuna), il vitalismo vede il suo teorico in Nietzsche. Le due componenti opposte si delineano chiaramente sull’arco della produzione dannunziana: se fino al 1894 lo scrittore si proietta in personaggi deboli, perplessi, malati, sconfitti, come l’eroe del Trionfo della morte (1894, appunto), che chiude la sua esistenza con il suicidio e l’autoannientamento, da quel momento in avanti si fa Ilsuperomismo dannunziano
Ilrifluto aristocratico della normalità
Gli eroi decadenti: il“maledetto”
celebratore della forza vitale e dominatrice del «superuomo». In realtà sono atteggiamenti solo apparentemente in contraddizione: il culto della forza e della «vita», in D'Annunzio e nell’età decadente in
generale, non è che un modo per esorcizzare l’attrazione morbosa della morte, per cercare di sconfiggere un senso di stanchezza e di esaurimento che si affaccia nonostante ogni sforzo velleitario di tendere le energie verso mete sovrumane. Il vitalismo superomistico non è che l’altra faccia della malattia interiore, del disfacimento e degli impulsi autodistruttivi, o meglio la maschera che cerca inutilmente di occultarli. Anche in un altro senso l’estenuata morbosità e il vitalismo barbarico sono due facce della stessa realtà: entrambi sono il segno di un rifiuto aristocratico della normalità, di una ricerca esasperata del diverso, dell’abnorme, in polemica con la visione normale, benpensante, “borghese”, che l'artista ha in orrore. L'atteggiamento antiborghese, il conflitto con la società, che già erano propri del Romanticismo, ora si esasperano all’estremo. L'artista decadente si isola ferocemente dalla realtà contemporanea, orgoglioso della propria diversità, rovesciando in segni di nobiltà anche i propri tratti negativi, la propria nevrastenia e le proprie ossessioni. Accarezzare le perversioni del gusto e ricercare il corrotto e l’impuro, la malattia e il disfacimento, o per contro vagheggiare gli impulsi più barbarici e ferini, il gesto violento e crudele del dominatore che calpesta i deboli, sono due modi equivalenti per rifiutare i princìpi etici e i comportamenti dominanti nell’odiata società borghese, due forme di esasperato aristocraticismo intellettuale. Nascono di qui alcune figure ricorrenti nella letteratura decadente, che assumono spesso una dimensione mitica. Innanzitutto l'artista “maledetto”, che profana tutti i valori e le convenzioni della società, che sceglie deliberatamente, come per un gesto di supremo rifiuto, il male e l’abiezione, e si compiace di una vita misera, errabonda, sregolata, condotta sino all’estremo limite dell’autoannientamento attraverso il vizio della carne, l’uso dell’alcol e delle droghe. Già Baudelaire aveva offerto il prototipo di questo artista del rifiuto ed il suo modello era stato seguito da altri, come Verlaine (che sulle pagine della rivista «Lutèce» aveva appunto introdotto la formula «poeti maledetti») e Rimbaud. Questi atteggiamenti, oltre agli impulsi autodistruttivi e al fascino della morte, oltre al violento rifiu-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
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L'esteta
to della società borghese, testimoniano anche quella disposizione mistica che è costitutiva del Decadentismo: come sappiamo da Rimbaud, proprio attraverso la sistematica «sregolatezza» di tutti i sensi, tendendo la sensibilità al di là dei limiti umani, il poeta può trasformarsi in «veggente», può acquistare una vista più acuta, che è negata all’individuo comune e per bene, può spingere lo sguardo nell'assoluto e nel mistero. L'altra figura tipica è quella dell’esteta, consacrata dal Des Esseintes di Huysmans, dall’Andrea Sperelli di D'Annunzio, dal Dorian Gray di Wilde. È l’uomo che vuol trasformare la sua vita in opera d’arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello e andando costantemente alla ricerca di sensazioni squisite e piaceri raffinati, modellati sull'esempio delle grandi opere poetiche, pittoriche o musicali del passato (cfr. il paragrafo precedente). L’esteta ha orrore della vita comune, della volgarità borghese, di una società dominata dall’interesse materiale e dal profitto, dall’egualitarismo democratico, e si isola in una sdegnosa solitudine, circondato solo dalla bellezza e dall’arte. Il presente per
lui è il trionfo della bruttezza e dello squallore, ciò che è bello ed eletto può essere collocato solo nel passato, in età di suprema raffinatezza come quella greca o quella rinascimentale. I due tipi hanno una matrice comune, il rifiuto della normalità borghese, e di conseguenza si possono distinguere solo in astratto; nel concreto i loro tratti spesso si confondono, dando origine a figure ibride: il “maledetto” ha anch'egli il culto mistico dell’arte, ed esalta il male per il suo valore estetico, per la sua sublime e orrida bellezza; viceversa anche l’esteta rifiuta le norme morali e le convenzioni, e nella sua assoluta amoralità può con indifferenza giungere a commettere il male, a compiere crudeltà e delitti, può compiacersi di sprofondare nel vizio (ne sono un esempio proprio i citati Des Esseintes, Andrea Sperelli, Dorian Gray). Una terza figura fondamentale che ricorre, in forme diverse, nella letteratura decadente è quella L'«inetto a vivere» dell’«inetto a vivere»; una figura inaugurata dal protagonista delle Memorie del sottosuolo (1865) di Dostoievskij, che poi ritorna sotto varie vesti nelle pagine di Fogazzaro (Corrado Silla di Malombra), di D'Annunzio (Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte), di Svevo (Alfonso Nitti di Una vita, Emilio Brentani di Senilità; un discorso a parte merita Zeno, come vedremo a suo luogo), di Pirandello (Mat-
tia Pascal) e di tanti altri minori. L'inetto è escluso dalla vita, che pulsa intorno a lui e a cui egli non sa partecipare per mancanza di energie vitali, per una sottile malattia che corrode la sua volontà. Può solo rifugiarsi nelle sue fantasie, compensatrici di una realtà frustrante, vagheggiando in sterminati sogni l’azione da cui è escluso. Vorrebbe provare forti passioni, ma si sente inaridito, isterilito, impotente. Più che vivere, si osserva vivere. Ed è proprio la sua qualità di intellettuale, con l’eccesso del pensiero, il continuo osservarsi e studiarsi,
araggelare i suoi sentimenti, a bloccarne l’azione, ad iso-
larlo dalla vita che scorre fuori e lontano, irraggiungibile. L'ipertrofia della vita interiore diventa una forma di ossessione, viene a costituire una dimensione alternativa, parallela alla realtà vera, nella quale l’eroe si chiude interamente, perdendo i contatti con il mondo esterno, talora sprofondando in una lucida follia. Di contro a questi uomini deboli, malati, incapaci di vivere, nella letteratura decadente si profila La «donna fatale» un’immagine antitetica di donna: la «donna fatale», dominatrice del maschio fragile e sottomesso, lussuriosa e perversa, crudele torturatrice, maga ammaliatrice al cui fascino non si può sfuggire, che succhia le energie vitali dell’uomo come un vampiro, lo porta alla follia, alla perdizione, alla distruzione. Di simili eroine pullulano i romanzi e le opere teatrali di D'Annunzio, in cui la donna è costantemente la Nemica che si oppone ai sogni eroici dei protagonisti, ma la figura ricorre in tutta la letteratura europea del tempo, dalla Salomé di Wilde alla Lulu di Wedekind alla «Venere in pelliccia» di Masoch. Si verifica come un meccanismo di proiezione: la coscienza in crisi dell’uomo decadente, malato e debole, erige di fronte a sé la sua parte perduta, la sua forza dominatrice del reale, come una potenza esterna malefica e ostile, che lo insidia e lo minaccia, ed in cui si obiettivano le sue angosce e i suoi terrori. La «donna fatale» è quindi una figura che esprime conflitti profondi, e per questo appare l’equivalente dei “mostri” che emergono dagli incubi degli scrittori romantici: non per nulla assume tratti che sono propri di Satana, o caratteri vampireschi. L'inetto a vivere conosce una variante originale col «fanciullino» pascoliano: il rifiuto della condiIl«fanciullino» pascoliano zione adulta, della vita di relazione al di fuori del tiepido e protettivo «nido» familiare, il regredire a forme di emotività e sensibilità infantili, che si pongono in antitesi con una visione matura della realtà, si traducono in un atteggiamento di trepida indagine del mistero del mondo, di palpitante auscultazione delle voci che vengono da un misterioso “al di là” delle cose. Così la debolezza infantile si rovescia in privilegio conoscitivo: il «fanciullino» è portatore di una visione fresca e ingenua, che scopre le cose nella loro vergine essenza, liberandole dalle incrostazioni inerti di cui le hanno ricoperte le Il. IL DECADENTISMO
DE convenzioni della vita normale, “adulta”, e con uno slancio intuitivo, senza scendere tutti i gradini lo-
Ilsuperuomo dannunziano
gici del pensiero, conduce immediatamente nell’«abisso della verità». Il mito pascoliano del «fanciullino» esprime l'esigenza di una regressione a forme di coscienza primigenia, anteriori alla vita logica, quindi è anch’esso espressione dell’irrazionalismo e del fondamentale misticismo che sono propri delle concezioni decadenti. Alla crisi e alla malattia interiore, come si è visto, il Decadentismo può reagire appellandosi alla forza barbara e ferina. Da questa tendenza ha origine un’altra figura mitica, quella del superuomo, che D'Annunzio propone a partire dalle Vergini delle rocce (1895), manipolando a suo uso e consumo le teorie di Nietzsche. Il superuomo dannunziano vuole essere l’antitesi degli eroi deboli e inetti, perplessi e sconfitti dei primi romanzi, il Piacere e il Trionfo della morte: forte e sicuro, si muove verso la sua meta eroica senza essere contaminato da dubbi e debolezze. Anche la malattia, il disfacimento e la morte, anziché inghiottirlo nel loro vortice insidioso, non fanno che esaltare la sua forza: Claudio Cantelmo, l’eroe delle Vergini citate, va a cercare la donna atta a generare da lui il futuro Re di Roma in un’antica famiglia della nobiltà borbonica in decadenza, minata dalla malattia e dalla follia; Stelio
Effrena, l’eroe del Fuoco (1900), trae alimento proprio dalla visione di Venezia, decrepita e in sfacelo, per compiere la sua missione di riscattare le masse avvilite attraverso la bellezza e di creare un teatro nuovo, che compendi in sé tutti i valori della stirpe italica, come aveva fatto quello di Wagner Isignificati politici per le energie della nazione germanica. Il mito si carica di significati politici: il superuomo deve mirare alla rigenerazione dell’Italia, riportandola alla sua grandezza passata e ai suoi destini imperiali, e per questo deve imporre un saldo dominio all’interno della nazione, sconfiggendo le forze disgregatrici del parlamentarismo, del liberalismo, della democrazia, dell’egualitarismo, instaurando una
Ilvelleitarismo dannunziano:
ilsuperuomo e ilfascino della morte
dittatura di eletti e di forti, di nuovi «aristocrati», che sottomettano la «gran bestia», il popolo, trasformandolo in docile strumento delle conquiste imperiali. Solo così, rinnovata e rinvigorita al suo interno, l’Italia potrà lanciarsi verso il dominio del mondo, ridando vita alle glorie di Roma antica. Come si vede, il mito dannunziano del superuomo si poneva al servizio delle forze più reazionarie presenti in Italia in quel momento storico, in cui trionfavano il nazionalismo e l’imperialismo più aggressivi. Ma si è anche detto (e meglio lo vedremo leggendo i testi) che il superuomo non è che una maschera velleitaria, costruita da D'Annunzio per esorcizzare le forze oscure della disgregazione che urgono e affiorano prepotentemente dal profondo, il fascino della morte e del nulla. Per cui anche questi eroi, che pure dovrebbero essere sulla carta perfettamente padroni di sé, saldi e sicuri, sono in
realtà minati da segrete tendenze disgregatrici: la loro forza non si concreta mai veramente in azione, il gesto eroico è solo alluso, rimandato a un vago futuro, mai rappresentato in atto (avrebbe dovuto esserlo in opere successive, che però, significativamente, D'Annunzio non scrisse mai); le loro energie sono sempre succhiate vampirescamente da una Nemica, come la Foscarina del Fuoco, la Comnena della Gloria, la Basiliola della Nave, l’Isabella Inghirami del Forse che sì forse che no. Dietro il su-
peruomo è facile quindi scorgere pur sempre la fisionomia dell’eroe decadente, corroso dalla malattia interiore, inetto e impotente, che il velleitarismo dannunziano male riesce a mascherare. Caratteristica degli eroi decadenti è pertanto, di norma, una psicologia complicata, tortuosa, doLa psicologia complicata minata da spinte contraddittorie e ambivalenti. Tipici della letteratura decadente sono l’attenzione alle ambiguità della psiche, il proposito di spingere lo sguardo nel profondo, a cogliere gli impulsi più oscuri e inconfessabili. Nasce da questa disposizione una nuova struttura romanzesca: non più il romanzo realistico, che studia le psicologie individuali in rapporto a determinati ambienti sociali (a questo schema rispondeva ancora il romanzo naturalista di Zola), ma il romanzo psicologico, in cui la dimensione soggettiva viene prepotentemente in primo piano, oscurando quella sociale, ed è indagata nella sua assoluta autonomia, con un minuzioso indugio analitico nell’esplorare le sue tortuosità laIlromanzo psicologico birintiche. Colui che dalla Francia propone il modello di questo nuovo romanzo psicologico, in antitesi a quello naturalistico, è Paul Bourget (1852-1935), un romanziere che al tempo ebbe larghissima risonanza ed esercitò una forte influenza anche sul romanzo italiano: da lui trassero spunti sia D'Annunzio sia Svevo, nelle loro prime opere; ma suggestioni profonde i due scrittori ricavarono anche dal romanzo russo, in particolare da Dostoievskij. Più che D'Annunzio, che nei suoi romanzi tenta di dare vita a complesse costruzioni simboliche, è Svevo il vero promotore del romanzo psicologico in Italia, con Una vita e con Senilità, in cui con implacabile rigore porta alla luce tutte le ambiguità contraddittorie della psiche dei suoi eroi “inetti”, con intuizioni che anticipano, nel 1892 e nel 1898,
le scoperte prossime a venire della psicanalisi (la Coscienza di Zeno, che uscirà parecchi anni dopo, nel 1923, sarà ormai ben altra cosa). Per parte sua, invece, Pirandello conduce una critica corrosiva dell’unità dell’io, della coerenza della persona, da lui presentata come una costruzione fittizia, arti-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
25 ficiosa, sovrapposta all’esterno ad un fluire magmatico di stati psicologici privi di centro e di unità. L'io non esiste, per Pirandello, si frantuma in un'infinità mutevole di io diversi, a seconda dei mo-
menti e delle circostanze. E se Mattia Pascal resta ancora aggrappato ad un simulacro di identità, sforzandosi di costruirla artificialmente attraverso la maschera di Adriano Meis, Vitangelo Moscarda, l’eroe dell'ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila (1926), approda ad una definitiva consapevolezza, rifiuta l’io, rifiuta il proprio nome, che ne è il segno esteriore, e si perde nel fluire indistinto della «vita». Alle ambiguità dell’io, nei romanzi di Svevo e Pirandello si affianca l'ambiguità del reale oggettivo, che non è più visto da un punto di osservazione fisso e privilegiato, ma diviene cangiante, sfuggente, infinitamente aperto. Ma per questo aspetto siamo già fuori dell'orizzonte decadente: se in quella cultura dell’irrazionalismo i due scrittori hanno le loro radici, vanno poi ben oltre, avventurandosi
in terreni nuovi, che della cultura decadente possono ormai ritenersi il superamento.
IIEI.:7
Coordinate storiche e radici sociali del Decadentismo Dopo aver descritto il fenomeno del Decadentismo nella sua fisionomia generale, occorre ora definire i suoi rapporti con le altre grandi correnti culturali dell'Ottocento, il Romanticismo e il Naturalismo, e la sua collocazione rispetto ai processi della storia economica e sociale (spingeremo infine lo sguardo a esaminare i suoi legami con la nostra età, il Novecento).
5.1 Decadentismo e Romanticismo. Sul piano culturale, tra Romanticismo e Decadentismo non vi è Continuità rispetto al Romanticismo
soluzione di continuità. Gli storici della letteratura hanno persuasivamente sottolineato come quasi tutte le tendenze e le tematiche del Decadentismo (quelle che abbiamo sommariamente passato in rassegna nel paragrafo precedente) possano già trovare riscontri o anticipazioni nel clima romantico, in particolare nel Romanticismo tedesco e inglese. Pertanto il Decadentismo può a buon diritto essere ritenuto una seconda fase del Romanticismo (d’altronde sappiamo bene che le epoche storiche e le correnti culturali che ne sono espressione non sono separabili con barriere confinarie nette e definite, ma sono momenti di un fluire continuo, isolabili nel concreto del processo storico solo mediante
operazioni di astrazione). Certo, il Decadentismo ha una sua fisionomia specifica, che rimanda a un clima culturale e storico particolare, ma per massima parte i suoi aspetti salienti si individuano rispetto al Romanticismo più come svolgimenti, accentuazioni, esasperazioni che come novità assoluGli aspetti specifici: te. Gli aspetti che più propriamente caratterizzano il nuovo clima decadente di fine secolo potrebbeillanguore ro così schematizzarsi: sulla base di un comune irrazionalismo, del rifiuto della realtà e della fuga verso un “altrove” ideale e fantastico, l’età romantica si segnalava per il suo slancio entusiastico, per l’anelito all’infinita espansione dell’io, per le forme di ribellione eroica e titanica, che rivelavano una
vergine energia spirituale; il Decadentismo è invece contrassegnato, come si è visto, da un senso di stanchezza, estenuazione, languore, smarrimento, da un presentimento di fine e di sfacelo, che inibisce ogni slancio energico e induce a ripiegarsi nell'analisi inerte della propria “malattia” e debolezza (ma già nel Romanticismo erano presenti atteggiamenti vittimistici, una compiaciuta contemplazione della propria inutilità e sterilità, stati di cupa malinconia che inducevano a vagheggiare voluttuosamente la morte e producevano impulsi autodistruttivi e nichilistici). Ne discendono alcuni corollari: la letteratura del Romanticismo aveva ambizioni costruttive, mirava alle grandi sintesi esaustive,
alle vaste costruzioni concettuali e artistiche, che rispecchiassero la totalità; il “languore” decadente impedisce ormai queste ambizioni smisurate: non si punta più alla totalità, ma solo al frammento; il mondo non ha più centro, così come l’opera d’arte; il singolo particolare assume un valore assoluto, vale quanto l’insieme. Per questo la letteratura decadente tende a opere brevi, dense, quintessenziate, ama il frammento slegato da un tutto organico e nel frammento concentra tutta l’energia poetica. Ne deriva ancora che se lo slancio verso l’ideale consentiva agli scrittori romantici forme di impegno (magari solo negativo, attraverso la rivolta), la trattazione dei grandi problemi, la fiducia di Ilrifiuto poter incidere in qualche modo sulla realtà, l'artista decadente rifiuta invece ogni impegno, erige la di ogni impegno forma artistica a valore supremo e afferma il principio della poesia pura, non contaminata da interessi pratici, morali o politici. Questa chiusura gelosa nella forma porta il decadente ad esaltare l’artificio, la complicazione, ciò che è il prodotto di un lavoro squisito, cerebrale; al contrario, il Romanticismo esaltava la forza creatrice immediata del genio, poneva come valore supremo la “natura”, tutto ciò
Totalità e frammento
Il. IL DECADENTISMO
24 che è spontaneo e immediato. A queste tendenze sembra fare eccezione l’opera dannunziana della fa-
L'omogeneità dello sfondo socioeconomico
se superomistica, che presenta ancora una forte tensione ideale, uno slancio energico, ambizioni costruttive, una forma di impegno e una volontà di plasmare la realtà esterna: di conseguenza il superomismo dannunziano appare quasi come una variante esasperatamente irrazionalistica del titanismo romantico. Ma abbiamo più volte sottolineato che il contrasto è solo apparente, che lo slancio energico non è che un tentativo di mascherare l’estenuata debolezza dell'anima dannunziana, l’attrazione morbosa del disfacimento e della morte. La continuità fra Romanticismo e Decadentismo corrisponde alla sostanziale omogeneità nelle condizioni della vita materiale sull’arco del secolo: sul piano dell'assetto economico e sociale tra primo e secondo Ottocento non vi è frattura, ma sviluppo organico. La crisi della coscienza, il rifiuto della realtà, le tematiche negative, tutti i fattori che accomunano Romanticismo e Decadentismo, si possono quindi collegare a omogenee reazioni di poeti e artisti delle due età di fronte ai tratti più inquietanti del moderno assetto capitalistico e industriale, che già sin dagli inizi del secolo si profilava in forme evidenti: lo sconvolgimento delle forme di vita tradizionali prodotto dalla rivoluzione industriale, la rapidità vertiginosa delle trasformazioni, le crisi cicliche di sovrapproduzione che seminano rovina e miseria, la “reificazione”, cioè la riduzione dei rapporti umani a rapporti fra merci, i laceranti conflitti di classe che scaturiscono dalla presenza del proletariato operaio. Gli aspetti più specifici del clima decadente, il senso di esaurimento e di sconfitta, il fascino della malattia, la crisi della nozione di
individuo capace di dominare il reale, con la conseguente frantumazione dell’io e le sue complicazioni perverse, il soggettivismo esasperato e la chiusura alla realtà esterna, la fuga totale nell’irrazionalismo e nel misticismo, possono invece essere messi in relazione con gli sviluppi che caratterizzano particolarmente la situazione europea di fine secolo, che nell’età precedente potevano essere presenti, ma che solo ora si affacciano con violenza sconvolgente. Innanzitutto la grande industria, con
l’impiego massiccio delle macchine, la produzione su vasta scala, la razionalizzazione del processo Gli elementi specifici: produttivo, ha raggiunto dimensioni colossali. La fase originaria della concorrenza di varie forze ecoilcapitale nomiche sul mercato lascia il posto a tendenze alla concentrazione monopolistica. Il meccanismo promonopolistico duttivo si fa sempre più impersonale: l'individuo energico e creatore esaltato nel momento eroico e e la crisi dell'individuo pionieristico del capitalismo non conta più nulla, dinanzi ai giganteschi apparati impersonali dell’economia e della società non ha più spazio d’azione. Questa organizzazione produttiva dà anche origine alla società di massa, in cui gli individui perdono la loro fisionomia peculiare, si riducono a rotelle di un ingranaggio sempre più perfezionato che ne condiziona comportamenti, idee, scelte. La crisi dell'individuo che caratterizza la cultura decadente, il senso di una malattia che corrode l’io e lo spinge a rifiutare il mondo esterno chiudendosi gelosamente in se stesso, a fuggire verso i mondi arcani del mistero e dell’ineffabile oppure ad abbandonarsi agli impulsi nichilistici dell’autoannientamento, hanno con ogni evidenza le loro radici in questi processi. Si fa anche strada un senso di smarrimento e di impotenza dell’individuo di fronte ad una realtà complessa ed enigmatica, che incombe su di lui minacciando di schiacciarlo e il cui senso globale gli sfugge, un tema che comincia ad affacciarsi nella letteratura di fine Ottocento e che avrà poi larga diffusione nel Novecento. Il motivo è particolarmente sentito dagli intellettuali perché le trasformazioni sociali li investono La «perdita d’aureola» dell’intellettuale direttamente e violentemente. Nell’apparato industriale e finanziario monopolistico l’intellettuale umanista tradizionale non trova più posto, è spinto ai margini, si sente inutile e frustrato. I nuovi processi produttivi lo declassano anche materialmente, lo relegano a funzioni dequalificate, ripetitive, impiegatizie. L'artista si sente anch'egli ridotto ad un minimo, trascurabile ingranaggio della gigantesca società di massa, perde definitivamente quel privilegio materiale e spirituale di cui aveva goduto in precedenti età della storia. Proprio per questo reagisce disperatamente accentuando la sua diversità e la sua eccezionalità attraverso l’estetismo, il maledettismo, il superomismo, che possono essere letti come un tentativo di esorcizzare e mascherare una condizione avvilente di declassazione e di massificazione. Il fenomeno si era presentato sin dagli inizi dell’età del moderno capitalismo industriale, e gli scrittori più sensibili e acuti del Romanticismo lo avevano subito colto, riflettendolo in figure di eroi intellettuali deboli, smarriti, schiacciati dalla realtà, oppure, per reazione, titanicamente ribelli; ma ora, a fine secolo, esso si fa generale, assume proporzioni macroscopiche, che occupano interamente la scena letteraria. Il momento in cui il fenomeno affiora pienamente alla coscienza si può individuare in un poemetto in prosa dello Spleen di Parigi baudelairiano, che ne fissa
anche l’essenza in una formula felicemente pregnante: la «perdita d’aureola» (cfr.
Il Neo-
classicismo e il Romanticismo, T39). Stritolato da un apparato produttivo che appare come un mostro enigmatico, un potere arcano, disumanato e minaccioso, lo scrittore è poi preso da un altro ingra-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
25 naggio perverso: scrivere ormai può voler dire solo produrre per un mercato; l’opera d’arte si riduce sempre più a merce. L'artista allora, come si è visto, cerca di reagire rifiutando di rivolgersi al pubblico comune, individuando una cerchia ristrettissima di iniziati a cui indirizzare le sue opere e accentuando le caratteristiche ermetiche del suo linguaggio, nel tentativo di sottrarre la sua creazione al circuito del mercato, di salvarne l’“aura” ineffabile. Un terzo meccanismo minaccia ancora di schiacIlconffitto ciare lo scrittore, ed è il conflitto tra capitale e lavoro: da un lato il proletariato, sotto la spinta delle teorie marxiste, si pone sempre più in antagonismo nei confronti del capitale, dandosi una salda organizzazione, esasperando lo scontro con scioperi ad oltranza che paralizzano la produzione per lunghi periodi e con manifestazioni anche violente (puntualmente represse nel sangue) e puntando or-
Arte e mercato
mai al rovesciamento rivoluzionario dell’intero sistema; dall’altro la borghesia egemone, dinanzi a questa minaccia, si chiude in difesa dei propri interessi, abbandonando i princìpi liberali, democrati-
ci, razionalistici e progressisti che l'avevano ispirata nella sua fase di ascesa, sicché, a fine secolo, trionfano nel suo seno tendenze irrazionalistiche, autoritarie, ultrareazionarie, aggressive, che inducono all'uso dei mezzi più violenti per stroncare i conflitti di classe. Di fronte a questo scontro sempre più esasperato l’intellettuale si ritrae smarrito, spaventato: è estraneo sia agli interessi borghesi, che sente inconciliabilmente avversi a tutta la propria concezione della vita (fa sempre eccezione il superuomo dannunziano, che si autoerige a celebratore delle tendenze più reazionarie e autoritarie del grande capitale contemporaneo), sia a quelli del proletariato. La declassazione lo spinge sempre più vicino alla condizione proletaria, ma egli ne ha orrore e tende a difendersi dalla degradazione accentuando il suo aristocratico dispregio per le classi basse, rivendicando la sua superiorità spirituale e la sua ecezionalità. Tutti questi meccanismi inducono l’artista a ribadire il suo rifiuto e la sua fuga dalla realtà, che erano già eredità romantiche, a chiudersi sempre più gelosamente nell’io, a cercare un risarcimento alla sua impotenza e alla sua emarginazione nell’irrazionale e in un vago misticismo. Proiettando tutti questi fenomeni culturali sullo sfondo dei processi della società contemporanea, si ha chiara la percezione di come la “malattia” decadente sia il sintomo di una crisi epocale di eccezionale portata.
5.2 Decadentismo e Naturalismo. Esaminati i rapporti che si instaurano fra Decadentismo e Romanticismo, è necessario ora affrontare il nodo dei legami col Naturalismo-Positivismo. L’antitesi tra le
concezioni di fondo delle due correnti è evidente, e l'abbiamo già messa in rilievo; ma non bisogna cadere nell'errore, abbastanza diffuso nella storiografia letteraria, di considerare il Decadentismo come un fenomeno che venga dopo il Naturalismo, come un effetto del suo esaurimento e di un radicale mutamento delle condizioni oggettive, economico-sociali. Innanzitutto, come si è appena visto, molti aspetti del Decadentismo non sono fatti nuovi, che compaiano per la prima volta a fine secolo, ma sono solo l’accentuazione di motivi già presenti nel Romanticismo del primo Ottocento, in concomitanza con processi materiali già allora in atto; in secondo luogo Decadentismo e Naturalismo sono fenomeni culturali paralleli e compresenti lungo gli anni Settanta-Ottanta e per i primi anni Novanta; sodelle due correnti lo dalla metà di quel decennio il Naturalismo comincia a esaurirsi e le tendenze decadenti prendono il sopravvento, prolungandosi ancora in vari movimenti del Novecento. Le date sono eloquenti: nella Parigi che vedeva nascere i vari periodici portavoce del Decadentismo, «Le Chat Noir», «Lutèce», «Le Décadent», in cui operavano Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, Huysmans, insieme con i vari poeti simbolisti, erano ancora pienamente attivi gli scrittori naturalisti, Zola, Maupassant, Daudet. Il 1882, in cui esce l’Arfe poetica di Verlaine, manifesto del Decadentismo, è anche l’anno di Pot-bouille, uno dei romanzi più importanti e più caratteristici del naturalismo zoliano (ma la poesia verlainiana fu concepita ben prima, nel 1871: che è l’anno della Fortuna dei Rougon, il romanzo che apre il ciclo dei Rougon-Macquart); Languore di Verlaine è pubblicato nel 1883, lo stesso anno di A/ paradiso delle signore di Zola e di Una vita di Maupassant; Controcorrente di Huysmans, la “bibbia” del Decadentismo, è del 1884, ed insieme esce anche la zoliana Gioia di vivere; le Illuminazioni di Rimbaud sono pubblicate nel 1886, l’anno prima erano usciti Germinal di Zola, forse il più esemplare dei romanzi naturalisti, e BelAmi di Maupassant; e si tenga presente che il romanzo che chiude iRougon-Macquart, Il dottor Pascal, celebrazione dello scienziato positivista, è del 1893, mentre I! discepolo di Bourget, manifesto dell’antinaturalismo, è del 1889, e Laggiù di Huysmans, tutto incentrato sul motivo del satanismo, è del 1891. Lo stesso discorso si può fare per la letteratura italiana: negli anni Ottanta-Novanta, mentre scrivono D'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, i nostri più tipici autori decadenti, sono ancora in piena attività i veristi, Verga, Capuana, De Roberto. Il 1881 è l’anno in cui esce Malombra di Fogazzaro, uno dei primi testi intrisi di atmosfere tipicamente decadenti, in cui compare il personaggio dell’«inetto a Il. IL DECADENTISMO
26 vivere», ma è anche l’anno dei Malavoglia; nel 1889 è pubblicato il Piacere di D'Annunzio, ma anche il Gesualdo di Verga; il'91 è l’anno di Myricae di Pascoli, ma anche di Profumo di Capuana; nel 1894 escono sia il Trionfo della morte di D'Annunzio siaI viceré di De Roberto sia le Paesane, novelle esemplarmente veriste di Capuana. Non si può dire dunque che il Decadentismo sia il frutto di una situazione storica diversa e successiva rispetto a quella del Naturalismo-Verismo, l’effetto di una svolta dell’assetto sociale e culturale; le due correnti non possono considerarsi due momenti successivi nello sviluppo della storia letteraria, prodotti di contesti diversi, in modo tale che l’una nasca dalle ceneri dell’altra, ma appaiono tendenze parallele, in certo modo complementari, che nascono sul terreno delle stesse condizioni oggettive. I fenomeni sociali ed economici che abbiamo illustrato, e che possono illuminare il sorgere di certi atteggiamenti e di certi temi del Decadentismo, sono anche per buona misura lo sfondo della culLe due correnti tura del Naturalismo. Le opposte fisionomie delle due correnti si possono solo spiegare col fatto che sono espressione esse sono espressione di gruppi intellettuali diversi, che diversamente si collocano nei confronti di un di diversi gruppi medesimo contesto storico. Gli scrittori naturalisti sostanzialmente sono integrati nell'ordine borintellettuali ghese, ne accettano l’orizzonte culturale, costituito dal positivismo, dallo scientismo, dal materialismo, dalla fiducia nel progresso. Al massimo, come avviene per Zola, possono usare quegli strumenti per criticare gli aspetti più aberranti del sistema, ma non si pongono in alternativa radicale rispetto ad esso, ritengono pur sempre di poterlo riformare e migliorare. Tali posizioni divengono sempre più insostenibili man mano che si accentuano le trasformazioni della struttura socio-economica prima esaminate, la fiducia progressiva nella scienza si esaurisce nello scrittore, e ciò dà ragione dell’e-
saurirsi del Naturalismo e dell’affermarsi incontrastato delle tendenze del Decadentismo. Gli scrittori decadenti sono quelli che patiscono più profondamente le contraddizioni del sistema e i meccanismi di esclusione e di emarginazione, quindi rifiutano radicalmente l’ordine esistente con i loro atteggiamenti “maledetti” ed estetizzanti, uscendo totalmente dall’orizzonte culturale borghese con le loro scelte antimaterialiste ed antiscientiste, irrazionalistiche, misticheggianti. Anche in età romantica si sono incontrati fenomeni per certi versi omologhi, scrittori che rifiutano totalmente l’esistente, sce-
gliendo un radicale irrazionalismo, ed altri che sono più disposti ad accettare la realtà borghese, conservando l’eredità del razionalismo illuministico (i romantici italiani, ad esempio, con Manzoni in teRazionalismo e irrazionalismo
sta). Razionalismo ed irrazionalismo sono due atteggiamenti che accompagnano costantemente la storia della civiltà borghese contemporanea, due facce della stessa medaglia, due risposte diverse, date da intellettuali con diversa collocazione, alla stessa realtà. Il conflitto si era già presentato tra Illuminismo e Romanticismo, ed anche allora, a fine Settecento, le due tendenze erano state compresenti, vedendo negli stessi anni la battaglia peri “lumi” e fenomeni come Rousseau, Alfieri, lo Sturm und Drang, il wertherismo, la poesia ossianica; lo scontro si ripropone ora, a fine Ottocento, in un mutato
Mescolanza di tendenze naturalistiche e decadenti
Zola
Huysmans
clima storico, in forme ancor più evidenti (l'atteggiamento antiborghese dello scrittore decadente si va però affievolendo man mano che la borghesia egemone si allontana dalle sue posizioni positiviste e progressive ed è orientata ai miti dell’irrazionalismo, assumendo posizioni reazionarie, oscurantiste e imperialisticamente aggressive: allora anche l’intellettuale decadente, che rifiutava la visione positivista, può ritrovarsi in sintonia con l'orizzonte mentale della classe dominante e può quindi proporsi come suo portavoce e cantore: è il caso di D'Annunzio). Decadentismo e Naturalismo, poi, non sono solo per buona parte compresenti cronologicamente: al di là delle profonde differenze di visioni del mondo e di soluzioni letterarie che li dividono, e che risultano evidenti allo sguardo retrospettivo dello studioso, nell’immediatezza del fluire storico sono due tendenze che spesso appaiono mescolate fra di loro: aspetti decadenti sono ravvisabili in scrittori naturalisti e viceversa aspetti naturalistici sono presenti in quelli decadenti. Ad esempio nello scrittore più rappresentativo del Naturalismo, Zola, è facile riscontrare un vitalismo panico, una tendenza a costruire complesse simbologie (lo abbiamo verificato nel capitolo a lui relativo) ed inoltre il compiacimento per atmosfere malate, torbide e perverse, come l’incesto tra matrigna e figliastro nella Curée (1872), che si consuma sullo sfondo inquietante di una serra in cui prolifera una mostruosa e velenosa vegetazione esotica, sotto lo sguardo di una grande Sfinge di marmo nero; compare persino l’identificazione donna-fiore, uno dei motivi prediletti della letteratura decadente ispirata al gusto floreale dello stile liberty, che torna frequentemente in D'Annunzio e in Pascoli: «Nella sua veste di seta verde, il petto e il volto cosparsi di rossore, bagnata dalle gocce chiare dei suoi diamanti, sembrava un grande fiore, una delle Ninfee della vasca, languente per il calore». Viceversa Huysmans, auto-
re di quel vero e proprio codice del Decadentismo che è Controcorrente, esordisce come seguace di
Zola, collabora nel 1880 con un racconto alla raccolta delle Serate di Medan, manifesto del NaturaliPERCORSI STORICO-CULTURALI
24 smo, ed ancora in Laggiù (1891) proclama: «Occorrerebbe conservare la verità del documento, la precisione del particolare, la lingua corposa e nervosa del realismo, ma occorrerebbe anche divenire esploratori dell’anima e non voler spiegare il mistero con le malattie dei sensi; il romanzo, se fosse possi-
D'Annunzio
bile, dovrebbe dividersi al suo interno in due parti, comunque saldate o piuttosto fuse insieme, come lo sono nella vita, quella dell’anima e quella del corpo, ed occuparsi delle loro reciproche reazioni, dei loro conflitti, del loro accordo. Occorrerebbe, in una parola, seguire la grande via così profondamente tracciata da Zola, ma sarebbe anche necessario segnare nell’aria una direzione parallela, un’altra strada, raggiungere ciò che è al di qua e al di là, creare, insomma, un naturalismo spiritualista». Non si dimentichino poi gli esordi narrativi di D'Annunzio sotto la suggestione delle novelle verghiane in Terra vergine (1882), dove al bozzettismo regionalistico verista si mescola il compiacimento tutto de-
cadente e irrazionalistico di regredire in esseri primordiali al limite della ferinità. Per usare un paragone banale, il chimico coni suoi procedimenti analitici può dirci che nell'acqua di un fiume sono presenti in una certa proporzione atomi di idrogeno e di ossigeno, ma nella realtà concreta che sta sotto i nostri occhi idrogeno e ossigeno non sono distinguibili: dalla riva del fiume vediamo scorrere solo acqua. Nella concretezza del processo storico, insomma, non esiste il Decadentismo, come non esistono il Naturalismo, il Romanticismo, l’Illuminismo, e così via: esistono solo scrittori e opere che af-
frontano certi temi con certe soluzioni formali, con caratteristiche peculiari ma anche con affinità nei confronti di altri scrittori e di altre opere, poiché si collocano nello stesso ambiente e nello stesso moAstrattezza mento storico. Siamo noi che, mediante un’operazione di astrazione, ricaviamo dalla pluralità moltedelle categorie plice della realtà storica, sulla base di quelle differenze e di quelle affinità, categorie come Decadengenerali tismo e Naturalismo, per classificare e ordinare i fenomeni, per poterci muovere tra di essi senza smarrirci. Si tratta quindi di categorie indispensabili, sia nel lavoro storico sia in quello didattico, ma il loro uso deve sempre essere accompagnato, nel docente come nello studente, dalla consapevolezza che esse sono dei modelli astratti, e che quindi non devono essere imposte a forza sulla realtà, né devono essere trasformate in letti di Procuste. 5.3 Decadentismo e Novecento. Resta ancora da esaminare il rapporto che lega il Decadentismo al nostro secolo. Taluni hanno proposto di impiegare la categoria del Decadentismo a designare tutto è ]limiti cronologici quanto il Novecento, altri invece ritengono più legittimo limitarla solo ai fenomeni letterari di un periodo più ristretto, la fine secolo, con qualche propaggine nei primi del Novecento. È questo l’orientamento oggi prevalente, e ci trova sostanzialmente d’accordo. E vero che molte tendenze del Novecento hanno le radici in quel clima e sono legate ad esso da molti fili, come potremo verificare a suo luogo: il Crepuscolarismo, il Futurismo, avanguardie come Dadaismo e Surrealismo, la poesia ermetica. Ma questi fenomeni, sia pur nati dalla crisi epocale apertasi negli ultimi due decenni dell’Ottocento, si collocano in contesti ormai diversi (Crepuscolarismo e Futurismo nell’età giolittiana, alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Ermetismo nel periodo fascista...), fanno riferimento ad altre poetiche, ad altre visioni della realtà, ed approdano a diverse soluzioni formali. Raggruppare tendenze culturali così molteplici e difformi come quelle che occupano il XX secolo sotto l’unica etichetta del Decadentismo porterebbe a pericolose confusioni. Ci sembra opportuno quindi restringere l’uso della categoria a determinati fenomeni che si presentano a fine Ottocento: senso di esaurimento della civiltà, vagheggiamento della morte e di ciò che è malato, impuro e corrotto, senso del mistero, estetismo, maledettismo, superomismo, ecc. (per il XX secolo un’etichetta onnicomprensiva non è ancora
entrata nell'uso, tant'è vero che usiamo di solito il termine che designa semplicemente il contenitore cronologico, «Novecento», che non dice nulla sulla fisionomia specifica di ciò che vi è contenuto). |decadenti italiani
Per l’Italia, gli scrittori più rappresentativi del Decadentismo sono sicuramente D'Annunzio e Pascoli (Fogazzaro, che godette un tempo di grande fortuna e considerazione, oggi è irrimediabilmente relegato al rango di “minore”). Siamo perplessi a includere in questo ambito due autori come Svevo e Pirandello, che per certi aspetti hanno le loro radici in quel clima (l’irrazionalismo, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson e la filosofia della crisi del positivismo, l’attenzione concentrata sull’io e la per-
cezione della zona oscura dell’inconscio, il motivo della malattia, il fluire della «vita» che non tollera di essere racchiusa in «forme» rigide), ma poi se ne distaccano per una più lucida consapevolezza critica, per la proposizione di una visione del mondo più moderna, “aperta” e pluriprospettica. Una tradizione autorevole (pensiamo solo agli studi di Salinari, Miti e coscienza del Decadentismo italiano, 1960, e di De Castris, Il Decadentismo italiano. Svevo, Pirandello, D'Annunzio, 1974) ve li riconduce, e quin-
di ci uniformiamo ad una classificazione ormai consolidata, ma ci riserviamo di cogliere la specificità delle esperienze di quei due scrittori nei capitoli ad essi dedicati. Il. IL DECADENTISMO
28 Decadentismo
Un ultimo rilievo: il termine “decadentismo” ha avuto in origine un’accezione spregiativa, e l’ha
e decadenza
conservata in certe valutazioni critiche, come in quelle di Croce, che dava un giudizio moralmente negativo sulla “malattia” decadente, e di certe correnti della critica marxista, che vi individuavano l’e-
spressione della decadenza borghese. Oggi è ormai chiaro che il Decadentismo non ha implicato per nulla una decadenza della cultura e dei valori artistici, anzi, si è dimostrato un terreno assai fertile,
da cui sono scaturite opere di grande profondità e forza innovativa, nella visione del reale come nelle soluzioni formali. La “malattia” decadente, come già quella romantica (cfr. |Percorsi e strumenti Dal Barocco al Romanticismo, V) ha un alto valore conoscitivo, è lo strumento che consente agli scrittori, poiché si collocano in una posizione estraniata rispetto all’esistente, di andare a fondo nell’esplorare il campo di una crisi epocale, e permette loro di trovare le forme espressive più penetranti per renderla sulla pagina letteraria.
PERCORSI STORICO-CULTURALI
29
SE La situazione storica e sociale L'Italia primonovecentesca eredita per molti versi la situazione di fine Ottocento, anche se si accentuano alcune tendenze e linee di sviluppo; pur rimanendo un paese sostanzialmente agricolo, ad esempio, cominciano ad affermarsi le strutture di una economia più modernamente europea. Se è veLo sviluppo ro infatti che il «decennio 1880-1889 può generalmente considerarsi come una fase di intensificata dell'industria attività e di espansione per l'industria», occorre tuttavia riconoscere come solo «i quindici anni che vanno dal 1898 al 1913», dopo la grave crisi precedente, abbiano «segnato un’evoluzione di notevole momento dell'ambiente sociale, caratterizzata dal progredito spirito industriale che vi si manifesta» (R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Einaudi, Torino 1975). Due date particolarmente si-
Ilproletariato cittadino
L'emigrazione e ilproblema meridionale
La politica coloniale
La conquista della Libia
Lacrisi di fine Ottocento
gnificative, in questo senso, sono rappresentate dalla fondazione della FIAT, nel 1899, e dall’esposizione universale di Torino del 1911, in cui il cinquantenario dell’unità italiana veniva celebrato attraverso una rassegna delle conquiste del progresso scientifico e tecnologico. Lo sviluppo industriale comporta la costituzione di un proletariato cittadino, che, soprattutto a Torino (dove è sorta l’industria automobilistica), si avvia a diventare una forza sociale organizzata e consapevole, anche per l'impulso impresso dall’attività politica e sindacale da Antonio Gramsci (ma su questa figura torneremo più diffusamente nel $ 2.2 della sezione: Tra /e due guerre). Il fenomeno dell’inurbamento e l'abbandono delle campagne costituiscono i primi segni di una emigrazione interna. Resta comunque prevalente, assumendo proporzioni vistose e preoccupanti, il problema dell’emigrazione oltre confine, mentre si aggrava la questione meridionale, che determina nel Sud sacche profonde di sottosviluppo e di miseria (ma non meno gravi appaiono le condizioni di arretratezza di numerose aree contadine del Nord, e del Veneto in particolare, tenendo conto che l’insediamento industriale riguardava prevalentemente, sin da allora, il “triangolo” costituito da Milano, Torino e Genova). L'illusione di poter risolvere questi problemi alimenta le spinte di una politica coloniale, che era già stata avviata negli ultimi decenni dell'Ottocento con il tentativo di conquistare l’Abissinia; ma le speranze si erano miseramente infrante prima con la battaglia di Dogali (1837) e il massacro del contingente italiano, poi con la sconfitta di Adua (1896). Migliori risultati otterrà la ripresa dei tentativi coloniali agli inizi del nuovo secolo, quando l’Italia si impadronirà della Libia (1911-12). L'impresa fu caldeggiata e sostenuta dalla cultura nazionalistica e imperialistica (D'Annunzio scrisse, per l’occasione, le Canzoni della gesta d'oltremare e l’orazione Teneo te, Africa), oltre che da una parte di quella socialista, per la speranza di avviare a soluzione il problema dell’emigrazione. Ma la conquista rappresentò un successo più apparente e “di facciata” che una vera alternativa alla grave situazione sociale. Già negli ultimi anni dell'Ottocento la crisi economica aveva provocato, sia nelle città che nelle campagne, gravi tumulti, duramente repressi dalle forze dell'ordine. Nel 1898 i milanesi erano insorti per un nuovo aumento del costo della vita, ma le rivendicazioni erano state soffocate nel sangue dal generale Bava Beccaris, che aveva fatto puntare i cannoni sulla folla. Un drammatico resoconto di Il. IL PRIMO NOVECENTO
30 Valera
questi avvenimenti venne fornito dallo scrittore socialista Paolo Valera (1850-1926), nelle Terribili giornate del maggio ’98, scritto in parte “a caldo” e uscito in edizione definitiva nel 1913 (Valera è an-
che autore di opere sociologico-documentarie, come Milano sconosciuta, e di un romanzo, La folla, del 1901, che rappresenta l’ultimo frutto della poetica naturalistica, interessante anche perché è tra le poche opere italiane ambientate nel mondo cittadino, presentando, come protagonista collettivo, un La crisi agraria caseggiato popolare di Milano). Dopo gli scioperi nelle campagne settentrionali, come conseguenza della crisi agraria (raffigurati ad esempio nel romanzo Gian Pietro da Core di Gian Pietro Lucini, uscito in due diverse edizioni nel 1888 e nel 1895), c'erano state, in Sicilia, le agitazioni dei “fasci dei la-
voratori”, organizzazioni sindacali nate come protesta nei confronti delle intollerabili condizioni di viLa politica repressiva
ta nei latifondi e nelle miniere (1892-93). Questi e altri moti insurrezionali erano stati duramente repressi dai governi di fine Ottocento (presieduti da Francesco Crispi, Antonio di Rudinì e Luigi Pelloux),
che avevano esasperato le tensioni sociali del paese. |mutamenti di inizio secolo
Con l'assassinio di Umberto I, ucciso a Monza nel 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, e con l’elezione del nuovo re, Vittorio Emanuele III, la situazione mutò sensibilmente. La vittoria delle sini-
stre, nelle elezioni del medesimo anno, portò alla formazione di governi più moderati e liberali, come quelli di Giuseppe Saracco e di Giuseppe Zanardelli, che abolì le leggi restrittive nei confronti dei lavoratori. Ma il tentativo più impegnativo e consapevole di avviare a soluzione questi problemi venne Ilgoverno Giolitti portato avanti dal governo di Giovanni Giolitti, che, ricevuto l’incarico nel 1903, si fece promotore, in La politica senso progressista, di una più organica politica di equilibrio e di accordo fra le classi. Per attutire i di equilibrio contrasti, cercò di conciliare la borghesia liberale con i socialisti, inaugurando una concezione dello Stato come mediatore dei conflitti sociali e non come strumento di repressione poliziesca; di qui, anche, la scelta riformista della maggior parte dei socialisti, che abbandonarono i loro programmi di lotta politica. La legislazione sociale Ilmiglioramento delle condizioni economiche
Ben presto Giolitti attuò importanti provvedimenti di legislazione sociale a tutela dei lavoratori, con particolare riguardo al lavoro delle donne e dei minori, avviando anche una politica di risanamento e di attenta amministrazione. La favorevole situazione economica, che si era nel frattempo determinata, portò a un progresso dell'agricoltura e, soprattutto, dell’industria, in campo siderurgico, tessile e idroelettrico, con l'apertura di nuovi settori, come quello elettromeccanico e automobilistico, destinati ad assumere un'importanza crescente (oltre alla FIAT, sorsero ben presto una quarantina di fabbriche di automobili).
Modernità
L'Italia, per quanto riguarda in particolare l’ambiente cittadino, poteva così finalmente presentare, per così dire, il volto della modernità, rivelando le linee più marcate di un paesaggio industriale,
e paesaggio industriale
modificato dall’elettricità e dalle altre innovazioni tecniche. Un nuovo gusto della vita, favorito dal-
Le nuove espressioni artistiche
espressioni di tipo artistico-culturale: l'architettura, le decorazioni e l'arredamento in stile liberty (cfr. Percorsi e strumenti] Glossario); la réclame e la grafica pubblicitaria dei manifesti; il cabaret o spettacolo di varietà (cfr. Teatro 8). Nasce infine il cinematografo, che rappresenta un’innovazione fondamentale e ricca di sviluppi, in quanto le tradizionali prerogative del racconto letterario possono essere visualizzate e riprodotte tecnicamente (su questo problema, destinato a modificare radicalmente.i gusti del pubblico e il significato stesso dell'esperienza artistica, si veda il saggio ormai classico scritto nel 1936 da Walter Benjamin, L'opera d’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it., Einaudi, Torino 1972). Inventato in Francia dai fratelli Lumière (cfr. l’inserto dedicato alla Storia del linguaggio cinematografico), il cinema si affermò in Italia, a Torino, per opera soprattutto del regista e
l'aumento del benessere, caratterizzava presso le classi alte quella che venne appunto definita la be/le éboque, l’età dei divertimenti e del piacere. Anche la letteratura, come vedremo, assorbe a vari livelli questo spirito, mentre si affermano altre
La nascita del cinema
produttore Giovanni Pastrone (1882-1959), che tra l’altro diresse, nel 1914, il celebre film Cabiria,
con didascalie di Gabriele D'Annunzio (fra gli altri scrittori che si interessarono subito a questa forma espressiva ci furono anche Gozzano e Pirandello). Di fronte a tanto fervore e a questi successi, non vengono meno, però, i più annosi squilibri esistenti. Nonostante i provvedimenti che Giolitti cercò di adottare, finisce per aggravarsi la questione
Aggravarsi dei problemi sociali
meridionale; aumenta anche, di conseguenza, l'emigrazione, che coinvolse, nel periodo 1901-13, ben
Nazionalisti e socialisti
otto milioni di italiani, privi di mezzi di sussistenza e analfabeti, imbarcatisi per lo più verso le Americhe senza alcuna garanzia o tutela. La conquista della Libia, come si è detto, non risolse il problema, ma contribuì a deteriorare la situazione politica. Ripresero vigore le tendenze della destra e dei nazionalisti (riunitisi in partito nel 1910), mentre i socialisti, nel congresso di Reggio Emilia del 1912, espulsero i gruppi favorevoli all'impresa, confermando il loro tradizionale pacifismo; all’interno, tut-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
31 Ilsuffragio maschile universale IlPartito Cattolico
tavia, si fecero strada forti tendenze massimaliste, capeggiate dall’economista e studioso del pensiero marxiano Arturo Labriola (1873-1959), che spingevano all’opposizione e alla lotta. Nel 1912 inoltre Giolitti aveva varato la nuova legge elettorale, che istituiva il suffragio universale maschile, portando da tre milioni e mezzo a otto milioni il numero degli elettori, in gran parte favorevoli al Partito Socialista (gli operai delle città) e al Partito Cattolico (icontadini), fondato nel 1901, come movimento della Democrazia Cristiana, dal sacerdote Romolo Murri, con intenti di impegno socia-
le, in opposizione alla vecchia mentalità della Chiesa. La politica di equilibrio stava venendo meno e Giolitti, per fronteggiare la probabile avanzata dei socialisti, alle elezioni del 1913 si alleò con i cattoIl“patto Gentiloni” lici, stipulando il cosiddetto “patto Gentiloni”, dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica. Ma le forti resistenze opposte, dopo la riuscita dell'accordo, dagli elementi più conservatori indusLe dimissioni sero Giolitti a dimettersi dal nuovo governo, in attesa che si presentassero condizioni più favorevoli, di Giolitti per poter proseguire la sua politica liberale e riformista. Il precipitare degli avvenimenti internazionali, tuttavia, veniva a incidere profondamente sulla situazione italiana, mutandone il corso.
L'Europa si stava avviando verso il primo conflitto mondiale, che può essere considerato anche come uno dei possibili sbocchi dello sviluppo scientifico-industriale: le attrezzature dell’industria erano in parte finalizzate alla produzione di armamenti e alle esigenze belliche, alle quali verranno interamente convertite durante la guerra. Ma proprio la guerra, con le sue stragi e i suoi orrori, avrebbe inflitto un duro colpo al mito ottocentesco e positivistico della scienza, considerata come un fattore sicuro e inesauribile di progresso, destinato a risolvere i problemi dell’umanità. La fine delle ostilità restituiva un'Europa prostrata e impoverita, preda di squilibri e di conflitti ancora più profondi, che avrebbero favorito le tragiche conseguenze dei decenni successivi. L'ingresso dell’Italia nel conflitto avviene, nel 1915, non senza incertezze e contrasti, fra igruppi L'ingresso dell’Italia che ne proponevano la neutralità e quelli che spingevano invece all'intervento. Traineutralisti ci furono, oltre ai giolittiani, i cattolici e una parte cospicua dei socialisti. Più ampio e consistente il fronGli interventisti te degli interventisti, che comprendeva un arco variegato di tendenze: i nazionalisti, che ambivano a rilanciare il ruolo dell’Italia come potenza egemone; gli irredentisti, che aspiravano alla liberazione delle regioni ancora soggette all'Austria; una frangia dei socialisti, che, illudendosi sulla portata economica della guerra, si attendevano un miglioramento delle condizioni di vita del proletariato. Il fitto intreccio di queste motivazioni corrispondeva ad attese diverse: dall'idea, ancora risorgimentale, di un dovere da compiere, in una guerra che conducesse a compimento l’unità italiana, fino alla rivendicazione di una volontà di potenza imperialistica e sopraffattoria. All’affermarsi di una mentalità interventista avevano dato un contributo decisivo anche gli intelIlruolo degli intellettuali lettuali, come vedremo più da vicino nel $ 3.1: dai nazionalisti come Alfredo Oriani ed Enrico Corradini ai futuristi, che videro nella guerra la «sola igiene del mondo»; da chi, come D'Annunzio, si propose di far rivivere i miti della grandezza classica, adattandoli alle esigenze della modernità, a chi, La Prima guerra mondiale
più genericamente, vedeva nell’evento il sorgere di una nuova era.
L_z Lacrisi del Positivismo
Lateoria della relatività di Einstein
L'ideologia Mentre celebrai suoi trionfi nel campo delle realizzazioni scientifiche e industriali, il Positivismo, alla fine dell'Ottocento, entra in una fase di rapida involuzione, mostrando i suoi limiti e le crescenti difficoltà a venire incontro a più complesse richieste culturali. Nascono nuove esigenze intellettuali e spirituali, mentre si rivela sempre più insufficiente una visione della realtà limitata agli aspetti fenomenici e superficiali. Man mano le convinzioni e i postulati su cui si basava vengono contraddetti e smentiti. Con la teoria della relatività, annunciata per la prima volta nel 1905, Albert Einstein (1879-1955) dimostrava che anche la matematica e la geometria, considerate sino ad allora le più ri-
gorose e assolute discipline umane, si fondano su presupposti convenzionali e “relativi”. La scienza positivistica aveva cercato di studiare anche i problemi psicologici con criteri meccanicisti e quantitativi, nella convinzione diffusa che i fenomeni mentali e psichici obbedissero alle stesse leggi della La psicanalisi di Freud fisiologia. Con la psicanalisi, tra Otto e Novecento, Sigmund Freud (1856-1939) dimostrerà tutti i limiti delle vecchie concezioni psichiatriche e antropologiche, contrapponendo loro la sua teoria dell’inconscio, che indaga una psicologia del profondo ben altrimenti sottile e complessa. Sono riferimenti molto noti, persino banali se vogliamo, che non devono essere intesi in un senso rigido o deterministico, come fattori che favoriscano un improvviso mutamento delle concezioni menIll. IL PRIMO NOVECENTO
52 La concezione della realtà come fatto relativo
e complesso
Lafilosofia di Nietzsche
tali. Essi appartengono a un più generale quadro di rinnovamento, che investe, a tutti i livelli, i problemi della conoscenza e della coscienza, rivalutando il ruolo attivo del soggetto. Si può dire, per semplificare, che si passa progressivamente da una concezione della realtà come fatto oggettivo, semplice e lineare, a una diversa percezione della complessità del reale, dove entrano in gioco elementi molteplici, relativi e contraddittori, irriducibili a una visione schematica e quantitativa dell’esistenza (come si era illuso di poter fare il Positivismo, spiegando e controllando in questo modo l’intera realtà). Questo mutamento delle coordinate conoscitive riguardava l’immagine stessa dell’uomo nei confronti della società e della storia, coinvolgendo, con la concezione della vita, l’impostazione dei problemi culturali.
Si pensi al ruolo svolto da un filosofo come Friedrich Nietzsche (cfr.
La Scapigliatura, il
Verismo, il Decadentismo, A24), il cui pensiero era destinato ben presto a diffondersi anche in Italia, a partire dall'influenza esercitata su D'Annunzio. Ma la posizione nietzschiana risulta ben più radicale e rivoluzionaria rispetto alla ripresa dannunziana, che ne banalizzò e ne tradì la sostanza più auIlpensiero negativo tentica. Nietzsche ci offre uno straordinario esempio di quel pensiero negativo e asistematico che ha caratterizzato, fino ai nostri giorni, numerose manifestazioni della cultura novecentesca. La sua polemica contro l’ottimismo positivistico può ricordare quella del danese Sgren Kierkegaard (18131855), il padre dell’esistenzialismo, nei confronti di Friedrich Hegel (1770-1831) e del razionalismo
|nuovi indirizzi del pensiero
Bergson
Stirner
Sorel, James e Blondel L'attivismo come carattere
della modernità
Le contraddizioni della realtà italiana
romantico. Con un’ironia implacabile, Nietzsche rifiuta le certezze della filosofia ufficiale, respinge le facili e colpevoli illusioni, smaschera le falsità dell’ideologia borghese, rovesciando i valori e le consolazioni della morale convenzionale (la sua opera di demistificazione ha una forza d’urto non meno efficace di quella esercitata da Marx nei confronti della società capitalistica o da Freud nei confronti dell'immagine tradizionale dell’individuo). Rispetto all’egemonia positivistica del secondo Ottocento, la cultura italiana primonovecentesca comincia a recepire e ad assimilare altri indirizzi di pensiero e orientamenti nella ricerca, sul piano filosofico e conoscitivo. Accanto alla teoria del “superuomo”, ricavata da Nietzsche (spesso con arbitrarie semplificazioni), si possono ricordare il vitalismo e l’intuizionismo di Henri Bergson (18591941), che insiste su una concezione dinamica e in continuo divenire dell’esistenza (la vita è intesa come uno “slancio vitale”, una continua creazione che può essere rivelata dall’“intuizione”, non co-
nosciuta dalla scienza, che non riesce a cogliere nella sua interezza la realtà). La concezione nietzschiana conduce a riscoprire il pensiero di Max Stirner (1806-1856), che, nell’opera L'Unico e la sua proprietà, aveva teorizzato l’esistenza di una società anarchica, retta dall’arbitrio degli individui più egoisti e più forti. Altre tendenze variamente riconducibili a concezioni vitalistiche e dinamiche sono costituite dal sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel (1847-1922), dal pragmatismo di William James (1842-1910), dalla “filosofia dell’azione” di Maurice Blondel (1861-1949).
Gli stimoli che derivano da questi atteggiamenti insistono, in particolare, su un dinamismo e un attivismo che caratterizzano ampi settori della cultura del tempo. Un simile stato d'animo è strettamente legato al problema della modernità, all’esigenza di un rinnovamento che sappia cogliere e interpretare i fermenti del presente, in un senso più ampiamente europeo e internazionale. In una situazione per molti aspetti ancora arretrata come quella italiana, tuttavia, queste domande finivano per introdurre non pochi elementi di contraddizione e di debolezza. Non si può non notare, ad esempio, il contrasto fra l'esaltazione della “macchina” — da D'Annunzio a Mario Morasso e ai futuristi (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, M1) — e i ritardi effettivi dell’industrializzazione italiana rispetto a quella delle nazioni più forti e avanzate. L’ansia di rinnovamento nasce anche da questi ritardi oggettivi, dall’impazienza di colmare antiche lacune, che imprime, al di là di certi velleitarismi e dilettantismi, uno straordinario impulso all’azione culturale.
Non a caso il bisogno di trasformare radicalmente la cultura e la letteratura italiana è ampiamente diffuso presso la più giovane generazione degli intellettuali, che, soprattutto a Firenze, creano le e igiovani condizioni favorevoli per lanciare, anche attraverso la fondazione di alcune importanti riviste, le loro intellettuali idee e i loro programmi. Tra i fautori più attivi e intraprendenti del rinnovamento si devono ricordare
Ilproblema del rinnovamento
Giovanni Papini (1881-1956) e Giuseppe Prezzolini (1882-1982), che animano la stagione fioren-
Papini
tina nel periodo di prima della guerra. Dopo aver dato vita, nel 1900, a una associazione di “spiriti liberi”, caratterizzata da un programma anarchico e individualistico, entrambi fondarono e diressero, dal 1903, la rivista «Il Leonardo». Per conto suo Papini fu poi redattore del periodico nazionalista «Il Regno» e collaboratore della «Voce» prezzoliniana. Nel 1911 fondò con Giovanni Amendola «L'anima», di orientamento spiritualista, e nel 1913, con Ardengo Soffici, «Lacerba», organo del Futurismo fiorentino. Sono sufficienti queste in-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
33 dicazioni per comprendere il carattere irrequieto e spericolato della ricerca di Papini, nella molteplicità e mutevolezza dei suoi interessi filosofici e letterari. Dopo i “racconti metafisici” J/ tragico quotidiano (1903) e Il pilota cieco (1907), pubblicò in questo medesimo anno /l crepuscolo dei filosofi, polemizzando con l’intera filosofia da Kant a Nietzsche, fino a decretarne la morte. Nell’autobiografia Un uomo finito, del 1913, tracciò le linee di una crisi personale, sul piano esistenziale e religioso. Seguirono Cento pagine di poesia (1915) e Opera prima (1917), raccolte di prose poetiche e di versi. La Storia di Cristo (1921) sanzionò clamorosamente il passaggio dall’ateismo giovanile alla riscoperta della fede cattolica. Frutto di questa conversione furono, nei decenni successivi, alcune opere di argomento religioso e apologetico, caratterizzate spesso da uno spirito anticonformista ed eterodosso. Il
Prezzolni
persistente gusto della polemica e del paradosso non gli impedì di diventare, negli anni del fascismo, uno scrittore “ufficiale”: nel 1935 ottenne la cattedra di letteratura italiana nella prestigiosa Università di Bologna, dove avevano insegnato Carducci e Pascoli; due anni dopo venne nominato accademico d’Italia. —Ncn minori furono la versatilità intellettuale e l’impegno organizzativo profusi da Giuseppe Prezzolini, che fondò nel 1908 «La Voce», dirigendola pressoché ininterrottamente fino al 1914, pur tra
le difficoltà e i contrasti su cui torneremo fra breve. Anch’egli passò rapidamente attraverso le suggestioni dei vari movimenti filosofici e politico-culturali degli inizi del secolo, da Bergson a Sorel fino a Benedetto Croce (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A1), di cui interpretò l’idealismo in un senso militante e nazionalistico (fu, come del resto Papini, un acceso interventista). Fitta ma discontinua risulta la produzione saggistica, spesso pesantemente sentenziosa: fra gli interventi giovanili ricordiamo // linguaggio come causa d’errore (1904), La verità del pragmatismo (1904), Cos'è il modernismo? (1908), La teoria sindacalista (1909), Benedetto Croce
(1909). Nel dopoguerra oscillò fra le simpatie per Piero Gobetti (cfr.
La poesia, la saggistica
e la letteratura drammatica del Novecento, A23) e l'ammirazione per Mussolini, ma trascorse gli anni della dittatura negli Stati Uniti, dove insegnò presso la Columbia University, adoperandosi per la diffusione della cultura italiana. Oltre a scrivere opere varie, rivelò anche interessi critici e storico-eruditi: La cultura italiana (dal 1923), La vita di Niccolò Machiavelli fiorentino (1927), l'importante Repertorio bibliografico della storia e della critica della letteratura italiana (1936-46), Il tempo della «Voce» (1961), che presenta un carattere autobiografico e documentario. Rientrato in Italia (ma trasferitosi a Lugano), assunse un atteggiamento rigorosamente conservatore, che lo accompagnò fino alla fine. Letteratura e politica I progetti di una nuova letteratura risultano così strettamente collegati all'impegno per una battaglia culturale che intende promuovere il miglioramento e la trasformazione della società. Scrittori e intellettuali hanno di mira anche la realizzazione di particolari scopi politici, attribuendosi un preciso compito di intervento; si è potuto parlare, in proposito, di un «partito degli intellettuali», a conferma della volontà di un coinvolgimento globale. La scelta nasce, parallelamente, dal duro giudizio di condanna espresso contro la classe dirigente e le organizzazioni sociali, che induce gli intellettuali ad autocandidarsi non solo come coscienza, ma anche come forza alternativa. La discussione culturale e letteraria, in altri termini, concorre attivamente all’elaborazione e alla proposta delle ideolo-
Forti tendenze
gie, che alimentano la dialettica politica del tempo. Le tendenze prevalenti, germinate da un idealismo spesso individualistico o egocentrico, risultano
antiborghesi di tipo antidemocratico e antisocialista; il rifiuto dei valori borghesi, considerati meschini e sprege-
eantisociliste voli, finisce per portare alla richiesta di soluzioni forti e autoritarie, assai lontane dal “populismo” (cfr. [Percorsi e strumenti] Glossario) e dall’egualitarismo di molte correnti ottocentesche. Al loro posto
|
Ilculto dellaforza si afferma il culto dell’eroismo, che D'Annunzio interpreta sia nella prospettiva mondano-estetizzane dell’eroismo te del «vivere inimitabile», sia in quella bellica dello sprezzo del pericolo; lo stesso socialismo di Giovanni Pascoli non rinuncia all'avventura del colonialismo. Anche l’amore per la classicità, che accomuna sia pure in diversa misura gli ultimi illustri esponenti della tradizione letteraria (Carducci, PaIlmito diRoma scoli e D’Annunzio), finisce per riproporre quel mito della grandezza romana che il fascismo, dopo la guerra, riprenderà come uno dei motivi ispiratori della sua politica. L'ideologia nazionale, radicata nelle lotte risorgimentali per l'indipendenza e l’unità del paese, si involveva rapidamente in un acce' {lnazionalismo so nazionalismo, che, alleandosi con le ambizioni militariste, avrebbe spinto l’Italia a entrare nel conflitto mondiale. Per diffondere queste idee Enrico Corradini (1865-1931) fondava nel 1903 la rivista «Il Regno», coinvolgendo numerosi intellettuali, che daranno vita, nel 1910, all'Associazione nazionalistica; tra costoro esercitò notevole influsso il narratore e saggista Alfredo Oriani (1852-1909),
del quale Mussolini promuoverà poi l'edizione completa delle opere. g1g(g1(1(191119H99g91919g1919191911919g[[t{{îg{g#g#I#I[{[[1giic. LI erIIIIiàIIàIHIààIHHg9 —1101RsgpgpRiI _——————npDp uiIIIIIiiIiIiIiIRtEew Ill. IL PRIMO NOVECENTO
34 L'esaltazione
della guerra
Croce
Ilpensiero idealistico
L'esaltazione della macchina, parallelamente, si trasformava nella propaganda a favore della guerra, definita «sola igiene del mondo» da Marinetti e dai futuristi. Nei loro programmi, diffusi in famosi “manifesti”, convergono seduzioni vitalistiche e superomistiche, rivoluzionarie e irrazionalistiche, strettamente collegate al disprezzo nei confronti della borghesia e del governo parlamentare (la politica giolittiana, accusata di trasformismo e di gretto realismo, divenne il bersaglio preferito di molti intellettuali). Ancor più di altre tendenze il Futurismo, proponendosi come scopo la distruzione completa dei valori e delle istituzioni del passato, volle presentarsi come un progetto di rifondazione totale, nei vari campi dell’arte, del costume e della società. Contro queste posizioni estremistiche e irrazionali si schierò fermamente Benedetto Croce, che pure risulta il maggior responsabile del mutamento delle prospettive filosofiche e in senso lato ideologiche avvenuto nella cultura italiana del primo Novecento. Formatosi anch'egli alla scuola del Positivismo, Croce se ne staccò ben presto, rovesciandone le implicazioni e il metodo della ricerca. Ispirandosi alla filosofia dello spirito di Friedrich Hegel (1770-1831), ma anche recuperando la lezione di Giambattista Vico (1668-1744), Croce divenne il più autorevole esponente europeo della rinascita del pensiero idealistico. La sua riflessione, di tipo teorico e critico, si sviluppò nei più diversi ambiti della filosofia, della storia e della letteratura, esercitando un’influenza duratura ed egemonica
L'Estetica
L'autonomia dell’arte
Irapporti con la letteratura contemporanea
sulla cultura italiana novecentesca. Fondamentale, per quanto riguarda gli stessi orientamenti del gusto e l’impostazione del problema letterario, risulta la pubblicazione, nel 1902, della sua Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale. In questo testo Croce rifiutava ogni spiegazione dell’opera d’arte legata agli schemi positivistici, come prodotto di circostanze sociali e ambientali, storiche e biografiche. Da Francesco De Sanctis (il nostro più grande critico ottocentesco, cfr. Il Neoclassicismo e il Romanticismo, A42) riprendeva il concetto di “autonomia” dell’arte, rendendolo esclusivo e assoluto: la poesia veniva definita come intuizione pura, liricità ed espressione del sentimento. Era il riconoscimento della più completa libertà fantastica dell’arte, che non obbedisce ad altre leggi all'infuori di se stessa; in questo senso la teoria crociana sembrava autorizzare e confermare le nuove tendenze della letteratura, animate da un forte senso dell’originalità e dell’individualismo, insofferenti delle leggi imposte dalla tradizione. i Ma questo legame fra Croce e la ricerca letteraria contemporanea doveva rivelarsi ben presto, nella sostanza, come il frutto di un equivoco; e non pochi scrittori e intellettuali, anche quando guardavano a lui come a un maestro, finirono per sentirsi incompresi e traditi. Dopo un’iniziale apertura, già in un articolo del 1906 la produzione di Pascoli, D'Annunzio e Fogazzaro veniva accusata di «insincerità». L'ideale in fondo “classico” e olimpico di Croce (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T1) respinge le esperienze letterarie di tipo decadente e avanguardistico, ritenendole negative e “malate”; l'armonia da lui cercata nelle opere corrisponde a un’esigenza di equilibrio e di “sanità”, che non riesce a comprendere le istanze inquiete e problematiche espresse dalla letteratura della crisi contemporanea. Anche il suo pensiero, più in generale, si basava su un impianto saldamente razionale, estraneo ai facili entusiasmi, o alle seduzioni del rischio e dell’avventura.
ALe istituzioni culturali 3.1 Gli intellettuali e i programmi culturali. Il clima di rinnovamento, che caratterizza la cultura italiana primonovecentesca, sembra offrire nuove possibilità di intervento e di affermazione agli intellettuali. Accanto ai letterati ufficiali, dalla fama oramai consolidata (Carducci, Pascoli e, in un modo L'intellettuale protagonista
del tutto particolare, D'Annunzio), la generazione degli intellettuali più giovani, che provengono per lo più dalla piccola e media borghesia, vede nella cultura anche una possibilità di affermazione e di promozione sociale. Alla figura dello studioso tradizionale, stabilmente inserito nelle strutture del tessuto sociale, soprattutto attraverso la professione dell’insegnamento (Carducci e Pascoli erano professori universitari), si sostituisce quella di chi ambisce a diventare un protagonista della vita nazionale, in un momento di transizione in cui le idee e le proposte culturali possono incontrare facile ascolto e approvazione.
Ilbisogno di intervento
In questo impegno di svecchiamento, condotto a vari livelli, l’intellettuale cerca di ridefinire i suoi compiti e le sue funzioni, intervenendo sui più diversi aspetti della vita culturale e sociale. Uno stes-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
SI so bisogno di presenza e di partecipazione lo induce a fondare delle riviste, cui viene talora affiancata una più ampia attività editoriale (cfr. in questa stessa sezione il $ 3.2). Come organi di discussione e di proposta, le riviste svolgono un’intensa azione programmatica, teLe riviste e la loro azione sa ad affermare e a propagandare le nuove idee sulla letteratura. Mai come in questo periodo si era programmatica assistito a un infittirsi di programmi (e di proclami); questo fatto sottolinea l’importanza del dibattito artistico-culturale all’interno della società colta italiana, che viene continuamente sollecitata a prendere posizione, nel confronto-scontro fra innovatori e tradizionalisti. Il centro da cui si irradia Ilruolo di Firenze questa vicenda è costituito da Firenze, dove nascono le più importanti riviste del primo Novecento. Nel 1903 Enrico Corradini fondò «Il Regno», imprimendogli un indirizzo accesamente nazionali«ll Regno»
stico (cfr.
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T3), che si attenuò
solo negli ultimi tempi della rivista, passata tra il 1905 e il 1906 sotto la direzione di Aldemiro Campodonico. «Hermes»
«Leonardo»
«La Voce»
Tra il 1904 e il 1906 il critico (poi anche narratore) Giuseppe Antonio Borgese (cfr.
La
narrativa del Novecento, A9) diede vita alla rivista «Herme»», che, riferendosi soprattutto all'esperienza dannunziana, ma anche proponendosi di non accettarla supinamente, si prefisse uno scopo di rinnovamento letterario, sul piano della riflessione critica e dell’invenzione creativa. Un orientamento prevalentemente filosofico ebbe invece il «Leonardo» (1903-1907), fondato da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, che adottarono gli pseudonimi di Gian Falco e Giuliano il Sofista. Proponendosi un programma di svecchiamento culturale (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T2), che per la sua vivacità sollecitò l'interesse di Benedetto Croce, e recependo in un primo tempo, ecletticamente, le nuove tendenze dell’irrazionalismo (da Nietzsche a Bergson), la rivista si orientò ben presto verso lo studio e la proposta del pensiero pragmatista, desunto in particolare da William James. Cessò le pubblicazioni quando si diversificarono le scelte dei due direttori: Papini fu attratto dalle teorie spiritualistiche ed esoteriche; Prezzolini si propose di trovare un più stretto collegamento fra la ricerca filosofica e l'impegno intellettuale. Nel 1908 quest’ultimo fondò «La Voce», dirigendola fino al novembre del 1914, ad eccezione di alcuni mesi del 1912, quando la direzione venne assunta da Papini. Prezzolini, che volle farne la rivista dell’«idealismo militante», non le assegnò un programma preciso, ma la concepì piuttosto come una palestra di incontri e di discussioni, rispettosa delle individualità dei singoli collaboratori e delle loro diverse posizioni; l’elevata qualità del dibattito venne assicurata dalla partecipazione dei maggiori studiosi e intellettuali del tempo. Il ruolo di coordinatore, svolto efficacemente da Prezzolini, cercò tuttavia di non perdere di vista l'orientamento di fondo, che era quello di collegare strettamente il discorso culturale ai problemi politici e sociali della nazione (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T4), con un preciso impegno educativo: «La Voce» si occupò
assiduamente di argomenti politici e religiosi, dell'emigrazione, dell’analfabetismo e della scuola, della spedizione libica, dell’irredentismo. In questo contesto, però, gli interessi più specificamente letterari, pur molto vivi, rischiavano di essere trascurati e sacrificati, ponendosi come elemento di contraddizione, fonte di una ambiguità che caratterizza la complessa dialettica interna della rivista. Nel 1911 si staccò dal gruppo il socialista Gaetano Salvemini (1873-1957), che si era occupato Contraddizioni e divisioni soprattutto della “questione meridionale”, per dare vita a un giornale interamente politico, «L'Unità»; nel medesimo anno lo stesso fecero, per ragioni opposte, Papini e Giovanni Amendola (1882-1926), che fondarono «L'anima», per approfondire un’autonoma ricerca di tipo spiritualistico e religioso. Fra interessi politici e letterari, il gruppo della «Voce» finì per dividersi. Dopo un breve ritorno di Papini, Prezzolini impresse alla rivista un indirizzo decisamente antidemocratico e interventista, cercando nello stesso tempo di aumentare lo spazio riservato alla letteratura. Ma il compromesso non durò a lungo e il fondatore finì per cedere la direzione al critico Giuseppe De Robertis (1888-1963), che, dal novembre 1914 al dicembre 1916, diede alla rivista un taglio rigorosamente ed esclusivamente letteLa “Voce bianca” rario. È questa la cosiddetta “Voce bianca” (per il colore della copertina), che pubblicò, in forma antologica, testi creativi e critici, estranei a ogni altra implicazione di tipo sociale o etico-politico. Il ripiegamento può essere esemplificato dallo scritto Esame di coscienza di un letterato (cfr. |\Generi] La Serra boesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T6), in cui Renato Serra proclamò la sostanziale estraneità della letteratura rispetto alla guerra in corso; veniva così anticipata un’idea di letteratura come fatto essenzialmente stilistico e formale, che troverà qualche anno dopo la sua compiuta affermazione con «La Ronda». Staccatosi definitivamente dalla «Voce», e in aperta polemica con essa, Papini fondò con Ardengo
Soffici (cfr.
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A10) la rivista Il. IL PRIMO NOVECENTO
36 «Lacerba»
«Poesia»
«Lacerba», che divenne l’organo del Futurismo fiorentino, dominato dalla personalità di Aldo Palazzeschi (cfr. |\Generi| La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A6); il nome era ricavato dal titolo di un poema incompiuto di Cecco d’Ascoli (1267-1327), l’Acerba, nato come contrapposizione al disegno unitario della Commedia dantesca. Dapprima favorevole a Marinetti, la rivista giunse in seguito, sulle sue stesse pagine, ad una aperta rottura, rifiutando le componenti più estremistiche e rigidamente meccaniche della formulazione marinettiana (che venne indicata con il termine riduttivo e spregiativo di «marinettismo»). Anch’essa decisamente interventista, chiuse le pubblicazioni nel 1915, con l’entrata in guerra. Non molto dopo, ma senza alcun legame di continuità, nascerà «L'Italia futurista» (1916-1918), fondata da Bruno Corra e da Enrico Settimelli. Queste vicende occupano ampiamente la grande storia della cultura fiorentina primonovecentesca. AI di fuori, occorre ricordare almeno due altre riviste, che sono peraltro molto diverse fra di loro: «Poesia» (1905-09), fondata a Milano da Filippo Tommaso Marinetti (cfr. |Generi| La poesia, la saggisti-
ca e la letteratura drammatica del Novecento, A9), che vi pubblicò i testi dei nuovi poeti simbolisti, stranieri e italiani, preparando l’avvento del Futurismo; «La Critica» (1903-44), nata a Bari per opera di Benedetto Croce, che espresse i molteplici interessi del suo direttore, contribuendo a diffondere quel pensiero idealistico che influenzerà profondamente la cultura italiana fino al secondo dopoguerra. Si può dire che la formulazione di programmi risulti direttamente proporzionale alla volontà di inL'esigenza dei programmi novazione delle proposte avanzate. Nella misura in cui l’intellettuale si stacca dalla tradizione, è co«La Critica»
stretto, di volta in volta, a precisare, di fronte ai suoi interlocutori, le intenzioni e le finalità della sua
operazione. Particolarmente fitti e importanti sono, ad esempio, i manifesti del Futurismo (cfr.
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, I, $ 3), per la necessità di definire itermini di un distacco davvero totale e irriducibile rispetto alla posizione del passato. In questo ambito si spiega anche la tendenza, da parte degli intellettuali, a riunirsi in gruppi, che, La logica del gruppo al di là di considerazioni più specifiche, rappresentano una prima forma di aggregazione e di solida-
Ildistacco dalla cultura tradizionale
Critica accademica e militante
La recensione
rietà, rendendo più autorevoli le linee programmatiche e credibile la ricerca di più ampi consensi. Anche se fluido e mutevole, il gruppo permette di resistere più facilmente a opposizioni e contestazioni: si pensi alle “serate futuriste”, in cui Marinetti e seguaci, recitando i loro testi di fronte al pubblico, giungevano a provocare reazioni anche violente, degenerate spesso in vere e proprie risse. Si approfondisce anche, di conseguenza, la frattura fra le nuove tendenze della cultura e il sapere istituzionale. La scienza positivistica resiste più a lungo nelle sedi dell’istruzione universitaria: anche nei decenni successivi, soprattutto a Torino, resta attiva e dominante la scuola del “metodo sto-
rico”, con il suo organo prestigioso, il «Giornale storico della letteratura italiana», fondato nel 1883. Il rifiuto di occuparsi di autori viventi, da parte della rivista, ribadisce il disinteresse per la letteratura contemporanea, rendendo radicale il divario fra la critica accademica e la critica militante; quest'ultima resta appannaggio degli scrittori e degli intellettuali che partecipano attivamente, in prima persona, all'elaborazione dei programmi artistico-culturali. Assume particolare rilievo, in proposito, la forma della “recensione”, che discute, in modo animoso e spesso polemico, le opere appena pubblicate. Raccolti in alcuni casi in volume, questi interventi danno l’immagine del fervore intellettuale del tempo, scegliendo anche la letteratura come campo di scontro ideologico: si pensi alle Stroncature (1916) di Giovanni Papini e a Plausi e botte (1918) di Giovanni Boine, usciti entrambi presso le
edizioni della «Voce».
3.2 L'editoria e il giornalismo. L'aumento del benessere coincide anche con una crescita della domanCrescita della domanda culturale
Affinamento del prodotto letterario
da culturale e dei bisogni della lettura, che, pur rimanendo ancora un fatto limitato, sollecita nuovi
spazi di intervento. Da un lato persiste la funzione, anche pratica ed educativa, di una editoria di tipo popolare (rappresentata soprattutto dal milanese Sonzogno), mentre i giornali continuano a pubblicare sulle loro pagine le puntate dei romanzi d’appendice (ma il fenomeno si esaurirà negli anni del dopoguerra). D'altro lato l’industria editoriale tende ad affinare la qualità del prodotto letterario, venendo incontro ai gusti nuovi e più selettivi del lettore medio-alto. La preziosità del libro, nella sua veste editoriale, esalta il prestigio di un autore, come nel caso di D'Annunzio, i cui testi, per il successo incontrato, uscirono in edizioni riccamente illustrate e decorate nella copertina, nel frontespi-
zio e all’inizio dei capitoli. Si potrebbe ricostruire un'interessante vicenda del rapporto fra l’illustraLe illustrazioni liberty zione delle opere (il nome più prestigioso è quello di Adolfo De Karolis) e il decorativismo del liberty . (cfr. Glossario), che trova nell’espressione grafica (si pensi anche ai manifesti pubblicitari) un nuovo L'editore Treves
PERCORSI
STORICO
campo di applicazione industriale, trasformando anche il libro in un prodotto di lusso. Il maggiore editore italiano resta, a Milano, Emilio Treves, che pubblica, oltre agli stranieri, quasi tutti i più impor-
CULTURAI
37 Editoria di mercato
ededitoria militante
tanti scrittori italiani, con un programma di penetrazione commerciale a largo raggio: dalle opere amene e di successo a quelle artisticamente più impegnate ed elaborate. —‘Accantoall’editoria di mercato, che punta su autori dalla fama consolidata o su testi di più sicuro
consumo, cominciano ad aprirsi spazi significativi, anche se più ristretti, per un’editoria legata alle nuove tendenze della cultura militante. Le riviste, su cui ci siamo soffermati nel paragrafo precedente, affiancano spesso una vivace attività editoriale: dalle Edizioni di «Poesia», promosse da Marinetti, alla Libreria della «Voce», fondata da Prezzolini nel 1911, dove uscirono alcuni fra i testi più significativi della contemporanea letteratura italiana. Oltre a dirigere «La Critica», Benedetto Croce avviò
Miglioramento dei servizi giornalistici
e sostenne l'importante attività saggistica della casa editrice Laterza. Anche il giornalismo, oltre a migliorare e potenziare le strutture e i servizi dell’informazione, tende ad elevare la qualità del livello culturale. A Milano, verso la fine del secolo XIX, entra in crisi il maggiore organo della stampa democratico-popolare, «Il Secolo», che per primo aveva superato la ti-
Il«Corriere della Ser»
ratura delle 100.000 copie; si afferma così decisamente l'organo antagonista, il «Corriere della Sera»,
il quotidiano della media e dell’alta borghesia che è già, all’inizio del Novecento, il più importante e autorevole giornale italiano. Il «Corriere», che riceverà un grande impulso dalla direzione di Luigi Albertini (1871-1941), si assicura la collaborazione dei più prestigiosi scrittori italiani (da D'Annunzio La «terza pagina a Pirandello), continuando quella “politica” delle “grandi firme” che lo porterà ad avere la “terza pagina” più prestigiosa della stampa italiana (analoghi obiettivi verranno perseguiti da altri giornali, come «La Stampa» di Torino, «La Tribuna» di Roma e «Il Mattino» di Napoli). La stampa periodica —‘Anchela stampa periodica si propone di venire incontro alle esigenze sempre più differenziate del pubblico. Dal «Corriere della Sera» derivano tre importanti riviste: «La Lettura» (1901), diretta inizialmente da un letterato e commediografo di successo, Giuseppe Giacosa, che propone testi letterari e servizi di interesse culturale; la «Domenica del Corriere» (1899), settimanale di attualità con in-
i
Lacollaborazione
tenti divulgativi e ampiamente popolari, che diventerà famoso anche per le sue copertine illustrate; il «Corriere dei piccoli» (1909), destinato a un pubblico infantile e diffusissimo ancora nel secondo dopoguerra. Mentre Treves continua la pubblicazione dell’«Illustrazione italiana», con i reportages e i servizi che ne avevano fatto «il giornale di prestigio delle classi alte» (Dossena), si affermano le riviste di moda e di attualità destinate specificamente a un pubblico femminile (nel 1905 viene fondata «La donna»). —A@tutte queste riviste collaborano ampiamente gli scrittori del tempo (sullo stesso «Corriere dei pic-
degliscrittori coli», ad esempio, scriveranno fra gli altri Gozzano ed Elsa Morante), con una produzione che, oltre a tradursi anche in una fonte di guadagno economico, aumenta la diffusione e l’importanza della letteratura, anche come fatto di costume. Comincia a formarsi un concetto più moderno di pubblico, che
Ilconcetto di pubblico condiziona le caratteristiche del mercato editoriale. Il fenomeno acquista anche una particolare rileeLelettere di Serra vanza sociologica, che comincia a sollecitare l'interesse della critica: nel 1914 Renato Serra (cîr.
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A2) pubblica un volumetto, Le lettere, in cui prende in esame la produzione letteraria dell’anno precedente, distinta per generi: la lirica, la narrativa, la critica. Accanto agli scrittori più significativi compaiono anche gli autori abitualmente considerati minori, compresi quelli dei generi più popolari e di consumo. Ne risulta una specie di bilancio esemplare, che offre una fotografia articolata della letteratura italiana prima della guerra, in relazione alle sue principali tendenze e agli stessi gusti del pubblico.
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—————_—_=ee=--ae===" Ill. IL PRIMO NOVECENTO
Ni RENEELa realtà politico-sociale Nonostante le speranze che molte forze politiche (compresa la maggior parte degli intellettuali) avevano riposto nella guerra, ritenendola capace di rinnovare profondamente la società italiana, le condizioni del paese, alla fine del conflitto, non si possono certo considerare migliorate. Oltre all’enorme dispendio di energie materiali e produttive, distrutte negli anni dello sforzo bellico, altissimo Iproblemi era stato il costo delle vite umane. Non solo gli annosi problemi della società italiana non erano stadel dopoguerra ti risolti, ma si erano aggravati e ad essi se ne erano aggiunti dei nuovi. Già durante la guerra la classe operaia si era ribellata, chiedendo apertamente il ritorno alla pace; nél 1917 (in un momento di gravi difficoltà militari e anche per gli effetti indotti dalla Rivoluzione bolscevica in Russia) gli operai avevano proclamato scioperi e agitazioni. Si facevano sempre più forti le richieste per una radicale trasformazione dei rapporti di classe, con l'emergere delle spinte rivoluzionarie (nel 1920 le fabbriche verranno occupate e autogestite). Anche i nazionalisti non erano rimasti interamente soddisfatti dal nuovo assetto garantito dal trattato di pace di Versailles (1919), che, pur assegnando all’Italia il Trentino, l'Alto Adige, la Venezia Giulia, l’Istria, lasciava in sospeso alcune situazioni di confine; in
particolare Fiume, che verrà occupata nel 1919 da un manipolo di “legionari”, guidati da Gabriele D'Annunzio, e proclamata città aperta. Si apriva poi il problema dei reduci, che, rientrati alle loro case, incontravano spesso non poche difficoltà per il reinserimento nella vita civile e nel mondo del lavoro, anche a causa delle depauperate condizioni economiche. Di qui il malcontento e il desiderio di rivalsa di coloro (appartenenti soprattutto al ceto medio degli ex ufficiali e graduati) che si sentivano traditi e non adeguatamente ricompensati per i sacrifici affrontati. L'aggravarsi di questi ed altri problemi portava ad una esasperazione dei contrasti sociali, che i deL'esasperazione dei contrasti sociali boli governi succedutisi nel dopoguerra si dimostrarono incapaci di risolvere. A nulla valse il richiamo di Giovanni Giolitti, che rimase a capo del governo per pochi mesi (1920), senza avere la possibilità di riproporre quella politica di pacificazione e accordo fra le classi che aveva dato ottimi risultati in precedenza. A questa data la situazione politica si era oramai irrimediabilmente deteriorata, radicalizzandosi nel possibile scontro fra forze estreme, che il vuoto di potere venutosi a creare non fu in grado di evitare. I socialisti, sempre incerti fra riformismo e massimalismo, andarono incontro a una La fondazione nuova scissione, quando i marxisti più ortodossi, capeggiati da Gramsci, si allontanarono per dare videl Partito Comunista ta, con il congresso di Livorno del 1921, al Partito Comunista Italiano, caratterizzato da un programma più decisamente internazionalista e rivoluzionario. Mussolini
Dalle fila del socialismo proveniva anche Benito Mussolini, che tuttavia, dopo essere stato diret-
tore dell’«Avanti!», si era fatto fautore di una politica accesamente interventista e nazionalistica. Rimasto fedele a questi princìpi, che raccoglievano molte istanze della cultura irrazionalistica del primo Novecento, Mussolini interpretò confuse istanze “popolari” e “rivoluzionarie”, in cui si esprimevano soprattutto i malumori e le rivendicazioni della classe piccolo e medio-borghese, delusa, come
già si è accennato, dalla situazione politica ed economica del dopoguerra. In seguito, nella sua scaPERCORSI STORICO-CULTURALI
39 lata al potere, otterrà anche il favore della ricca borghesia agraria e di quella industriale, che si appoggiarono a lui per difendere i loro interessi corporativi di fronte ai pericoli e alle minacce di una rivoluzione comunista. Il corporativismo e l’interclassismo sono fra le componenti strutturali del regime mussoliniano, che perdeva così ben presto ogni caratteristica rivoluzionaria, salvo quelle che gli derivavano dalla conquista violenta del potere. L'ascesa del fascismo
Le tappe che portarono all'affermazione del fascismo, come partito unico detentore di un potere
dittatoriale, interamente concentrato nelle mani del Duce, sono ben note e non è quindi il caso di soffermarvisi più di tanto. Ci limitiamo qui a riepilogarne i punti essenziali. Dopo essersi dedicati fin dal 1919 ad azioni di violenza squadristica, con la “marcia su Roma” dell'ottobre 1922 i fascisti, convenuti da diverse parti d’Italia, occupano simbolicamente la capitale, senza che le forze governative oppongano resistenza. Nonostante l’esiguo numero di seggi da essi ottenuto nelle elezioni del 1921, il re, non riuscendo più a controllare la situazione, affida l’incarico di formare il nuovo governo a Mussolini. L'alleanza coni conservatori, e il successo elettorale del 1924, non comportano tuttavia un abbandono dei metodi intimidatori e illegali. Nel medesimo anno l'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, commissionato dallo stesso Mussolini, provoca un’ultima ondata di pubbliche riprovazioni e proteste, sotto la quale il fascismo sembra vacillare. Iparlamentari democratici manifestano il loro dissenso, ritirandosi sull’Aventino, ma non riescono ad esprimere una forza alternativa, capace concretamente di opporsi. Superato il momento di crisi, Mussolini prende in mano la situazione e consolida la sua posizione; con il discorso del 3 gennaio 1925, liquida definitivamente ogni forma di opposizione costituzionale e sancisce, di fatto, la fine della democrazia liberale (nel 1926 fu abolita la libertà di stampa e vennero sciolte le organizzazioni partitiche e sindacali). Da quel momento, per un ventennio, la storia politica dell’Italia si identifica completamente con La situazione socile quella del fascismo. La pace sociale si può dire finalmente raggiunta, con la rinuncia ad autonomi sforzi di espansione e di sviluppo delle classi sociali, alle quali è impedita ogni forma di rivendicazione e di dissenso (con l'abolizione del diritto di sciopero). Le tradizionali organizzazioni sindacali vengono sostituite dalle corporazioni (il nome deriva dalla storia dei Comuni medievali), che — riunendo ope-
rai e imprenditori — si occupano degli interessi dei lavoratori solo all’interno di una logica voluta e rigorosamente prestabilita dall’alto, come succede del resto per tutte le altre espressioni della vita politica e civile. Le scelte economiche e sociali presentano così un carattere strettamente dirigistico, che finisce per coincidere con gli interessi prevalenti dei grandi gruppi finanziari e industriali, particolarmente interessati, anche attraverso le riforme sociali, al mantenimento della situazione esistente.
Lescelte La favorevole congiuntura economica degli anni 1923-25 comporta una ripresa dello sviluppo indipolitica intema dustriale, che conduce l’Italia a un buon livello di competitività e, come conseguenza, a una rivalutazione della lira. Parallelamente vengono avviate importanti riforme agricole, come il risanamento delle zone costiere infestate dalla malaria (ad esempio la bonifica delle paludi pontine, con la fondazione della città di Latina), la creazione di opere idriche, l'aumento della meccanizzazione e della produzione agricola. Gli sforzi verranno intensificati dopo la crisi internazionale del 1929 (con il collasso dell'economia statunitense, che provoca il crollo della borsa di Wall Street). Per reagire alle difficoltà, Mussolini dichiara l’“autarchia” (le capacità dell’Italia di fare da sola) e ingaggia la “battaglia del grano” (facendosi fotografare, a torso nudo e con la falce in mano, mentre aiuta i mietitori). Anche in campo economico il capo del fascismo si proponeva di conciliare le due “anime” del regime, quella rustico-tradizionalista e quella modernista-industriale, che sul piano culturale avrebbero dato vita agli schieramenti di Strapaese e Stracittà (cfr. più avanti il $ 2.2). Intanto venivano anche appianati i contrasti religiosi con la stipulazione, nel 1929, dei Patti Lateranensi, che regolavano i rapporti fra Stato e Chiesa (con il riconoscimento del regime da parte del Vaticano). Lo scopo di Mussolini era quello di affermare l’immagine dell’Italia in campo internazionale, esaltandone il ruolo fra quello dei paesi più progrediti. L'esigenza di diffondere e reclamizzare i successi italiani indusse ad attribuire una particolare importanza alle attività ginnico-sportive, considerate come distintive del prestigio nazionale (oltre alle imprese ciclistiche di Costante Girardengo, Alfredo Binda, Learco Guerra e Gino Bartali, si ricordi che la nostra nazionale di calcio vinse due campionati del mondo consecuti. vi, nel 1934 e nel 1938). Il culto dello sport poteva essere facilmente strumentalizzato a favore di quei miti della razza lati| SR na che alimentavano la chiassosa retorica della propaganda di regime. L'idea nazionalistica che era alla base del programma mussoliniano aveva trovato facili ma del tutto improbabili analogie con la Ilmito di Roma potenza dell’antica Roma, di cui Mussolini si propose di emulare le sorti, riportando in vita le condizioni di quella remota grandezza e candidando l’Italia come unica e legittima erede. Un vuoto e ana-
Ci
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eo r_T_T_T_m_T6c IV. TRA LE DUE GUERRE
40 cronistico repertorio di termini classicheggianti costellava il formulario politico di questa retorica: dal nome di Duce (dal latino dux, condottiero, capo supremo), con cui Mussolini volle essere chiamato, al L'impresa coloniale
Hitler
sogno dell'Impero, che ammantò di un’effimera gloria le sue ambizioni di potenza. Il nazionalismo fascista trovava così il suo sbocco più logico in una politica imperialistica, che si espresse in una ripresa delle iniziative di conquista coloniale (in un momento, peraltro, in cui i grandi imperi si erano da tempo costituiti e non rimanevano che residue possibilità di annessioni, del tutto ininfluenti a modificare l’ago della bilancia dei rapporti di forza internazionali). Nel 1936 i soldati italiani riuscivano a conquistare l'Etiopia, portando a termine un’impresa fallita quarant'anni prima. Mussolini poteva così finalmente proclamare l'Impero, nominando Vittorio Emanuele III re d’Italia e imperatore dell’Africa orientale italiana. Contemporaneamente l’Italia si veniva accostando alla Germania, dove nel 1933 era stato eletto come cancelliere Adolph Hitler, trovando le condizioni favorevoli per realizzare i deliranti progetti della sua politica nazista (anche in Spagna, nel 1939, salirà al potere una dittatura, guidata da Francisco Franco, che aveva avuto ragione delle forze democratiche dopo una guerra civile feroce, cui ave-
vano partecipato anche contingenti volontari di diversa provenienza internazionale). L'involuzione della politica europea verso forme dittatoriali di estrema destra presentava profondi fattori di destabilizzazione. Il nazismo tedesco, in particolare, si caratterizzava per l’oltranzismo provocatorio delle sue scelte: dalle leggi razziali contro le minoranze etniche alla corsa frenetica agli armamenti, si acLa guerra celerava il cammino verso lo scoppio della seconda guerra mondiale e il genocidio ebraico. Mussolini non si schierò subito a fianco dell’alleato tedesco. Entrò in guerra un anno dopo, nel 1940, quando i travolgenti successi delle armate hitleriane sembravano prospettare una rapida soluzione del conflitto. Le cose andarono invece diversamente. Quando volsero al peggio e la sconfitta sembrò inevitabile, Mussolini venne deposto nel luglio del 1943. Riuscì a riparare a Salò, dove diede vita a un’effimera repubblica alleata dei tedeschi. L'Italia rimaneva divisa e iniziava la lotta partigiana, che si sarebbe conclusa solo con la fine del conflitto e la sconfitta del nazi-fascismo.
| sa
RISEERYA La cultura 2.1 La politica culturale del fascismo. Il venir meno delle libertà costituzionali era destinato a segnare profondamente gli sviluppi della cultura italiana, che il fascismo sottopose a un pesante controllo, subordinandola alle sue esigenze politiche. Lo scopo non era solo quello di stroncare ogni forma di aperto dissenso, ma anche quello di costruire una più solida base di consenso, coinvolgendo direttamenLe opposizioni te anche gli intellettuali. Dopo avere messo a tacere le opposizioni, che vivacemente cercarono di consono ridotte al silenzio trastare il fascismo fino alla metà degli anni Venti (in particolare l’azione irriducibile condotta fino all'ultimo da Gramsci e Gobetti), Mussolini riuscì ad isolare i pochi avversari che rimanevano (ad esempio Benedetto Croce), circondandosi per il resto di uomini fidati, cui furono delegate le più importanti mansioni culturali nella nuova organizzazione dello Stato. Ci occuperemo nel paragrafo successivo del ruolo degli intellettuali, e dei diversi atteggiamenti da loro assunti, che sono del resto strettamente legati alle diverse idee di letteratura consentita e praticata. Ci limitiamo qui a ricordare alcuni provvedimenti o indirizzi che impedirono drasticamente l’autonomia dell’espressione del pensiero e delle attività intellettuali. Ben presto, nel gennaio 1926, MusLa fine della libertà solini promulgò una legge che sopprimeva la libertà di stampa, per ottenere, attraverso un’informadi stampa zione regolata e pilotata, il controllo della pubblica opinione, fondamentale per la conservazione stessa del regime. Contro questo provvedimento, che colpiva alla radice i princìpi fondamentali della democrazia, si levarono inutilmente le voci degli ultimi oppositori (tra questi Piero Gobetti, che, in un estremo tentativo di difesa, propose la necessità di un parlare cifrato, che si dovesse leggere sotto le righe). Presiedendo la prima assemblea dei giornalisti fascisti, così Mussolini tentava di giustificare la sua operazione: In un regime totalitario, come deve essere necessariamente un regime sorto da una rivoluzione trionfante, la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime; in un regime unitario la stampa non può essere estranea a questa unità. Ecco perché tutta la stampa italiana è fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio. [...] Questa prima adunata dei giornalisti del Regime vuole essere premio e riconoscimento. Le vecchie accuse sulla soffocazione della libertà di stampa, da parte della tirannia fascista, non hanno più credito alcuno. La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. [...]
PERCORSI STORICO-CULTURALI
41 Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime. È libero perché nell’ambito delle leggi del Regime, può esercitare, e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione. Io contesto nella maniera più assoluta che la stampa italiana sia il regno della noia e della uniformità. Coloro che leggono i giornali stranieri di tutti i Paesi del Mondo, sanno quanto sia grigia, uniforme, stereotipata, fin nei dettagli, la loro stampa.
Non tutti i giornali erano stati ugualmente pronti ad allinearsi alle direttive fasciste, ma il processo venne ben presto compiuto. Mussolini appoggiò apertamente i quotidiani che fin dall'inizio si erano schierati a suo favore: è il caso della «Gazzetta del Popolo» di Torino, che assunse un’importanza crescente rispetto alla «Stampa», nei primi anni restia (sotto la direzione del giolittiano Alfredo Frassati) ad accettare il “verbo” mussoliniano. Anche il «Corriere della Sera» alimentò ancora per qualche tempo simpatie e tolleranze liberali, ma nel 1925 (con il passaggio della direzione da Luigi Albertini a Ugo Ojetti) l’ordine fascista poteva dirsi interamente raggiunto. Sin dal 1914 Mussolini aveva fondato il «Popolo d’Italia», che diventerà l’organo ufficiale del partito. Le nuove direttive permearono anche la stampa periodica esistente, mentre altre riviste vennero fondate con precisi scopi apologetici e propagandistici (fra le tante pubblicazioni si ricordi «L'Italia fascista»). Basandosi sulla ben noLa propaganda ta retorica dei discorsi di Mussolini, l’azione di propaganda, necessaria per conservare il consenso di massa alla politica del regime, si esercitò utilizzando anche i più recenti strumenti tecnologici, dal cinema alla radio. All’origine era l’opera di indottrinamento dei fanciulli e dei giovani, che venivano irreggimentati in frequenti e costanti manifestazioni di celebrazione e di consenso. Il processo di fascistizzazione coinvolgeva così i più diversi aspetti della vita e della cultura italiana, a partire dalla scuola, i cui programmi erano finalizzati a magnificare le sorti del fascismo e del La scuola suo fondatore, prospettando una visione acritica e unilaterale della realtà. Una più specifica riforma e la riforma Gentile dell’ordinamento scolastico venne varata nel 1923 dal più autorevole ideologo del regime, Giovanni L'asservimento dei giornali
Gentile, il filosofo che fu dal 1922 al 1924 ministro della Pubblica Istruzione. Questa riforma, che im-
poneva la scelta, dopo le scuole elementari, fra l'avviamento professionale (destinato esclusivamente all'esercizio di una professione) e la scuola media (aperta agli sviluppi successivi dell’insegnamento scolastico), obbediva ad una concezione umanistica e aristocratica, che riservava l’istruzione superiore e la formazione universitaria a un numero ristretto di studenti (l'ordinamento scolastico varato
La cultura universitaria
da Gentile, del resto, è rimasto in vita fino all’inizio degli anni Sessanta, quando venne creata la scuola media unificata, che garantisce a tutti i ragazzi la possibilità di proseguire gli studi). Ma soprattutto importa qui sottolineare che anche l’insegnamento, nel suo significato ideologico complessivo, venne interamente controllato dal regime, con l'imposizione di una rigida obbedienza alle sue direttive. Alla fine degli anni Venti si impose l'adozione del libro unico di testo nelle elementari e si pretese — il giuramento di fedeltà da parte di tutti gli insegnanti, che dovevano risultare iscritti al Partito Fascista. Il fascismo penetrò così facilmente anche nelle università, chiudendo tutti gli spazi di una riflessione critica e oppositiva: basti ricordare che la direzione della più prestigiosa rivista letteraria, il «Giornale storico della letteratura italiana», rimase affidata a un fedelissimo di Mussolini, Vittorio Cian (1862-1951), che detenne l’incarico per un ventennio. Il «Giornale storico» era stato e conti-
nuava ad essere l’organo del «metodo storico» e della critica positivistica, alla quale l'Estetica crociana aveva inferto un colpo durissimo; di qui le polemiche di Cian nei confronti di Benedetto Croce, che, sebbene isolato e privo di mansioni pubbliche, continuava a presentarsi, attraverso la sua figura morale e i libri che veniva via via pubblicando, come il più strenuo dissidente nei confronti del regime. Non solo ai vertici, ma anche alla base, il fascismo operava uno stretto controllo sui singoli, attraverso le varie associazioni in cui venivano raggruppati e irreggimentati i cittadini; in ambito accademico venne creata l'associazione dei GUF, Giovani Universitari Fascisti, che promosse iniziative
ginnico-sportive e culturali (peraltro di scarso rilievo), dando vita anche a riviste locali e ad altri organi di stampa. Nel 1929 venne fondata l'Accademia d’Italia, in cui Mussolini, per dare alla sua politica il lustro di L'Accademia d'Italia una prestigiosa ufficialità, si circondò dei più celebri uomini della cultura italiana: da scrittori come Pirandello, Bontempelli, Cecchi, Marinetti, ecc., fino a scienziati come Guglielmo Marconi ed Enrico Fermi, che, poco dopo aver ottenuto il Premio Nobel nel 1938, abbandonò l’Italia e si rifugiò negli Stati Uniti, per sfuggire alle persecuzioni razziali. Ultimo presidente dell’Accademia d’Italia fu nominaL'Enciclopedia to Giovanni Gentile, al quale era stato pure affidato, nel 1925, l’incarico di dirigere l’Enciclopedia itaitaliana
liana, che vide la luce, fra il 1929 e il 1937, presso l’istituto della casa editrice Treccani. Nell'allesti-
mento di quest'opera monumentale, che comprendeva 35 volumi, Gentile dimostrò una notevole
IV. TRA LE DUE GUERRE
42 energia e dette prova di un’intelligente apertura, invitando a collaborare anche studiosi non direttamente legati al fascismo, o che notoriamente non rivelavano alcuna propensione nei suoi confronti. Per il resto le attività editoriali e letterarie vennero sottoposte al controllo del Ministero della CulIlMinistero della Cultura Popolare tura Popolare, che fu presieduto, nel periodo più difficile della guerra, da Corrado Pavolini. I funzioIlcontrollo preventivo nari del Ministero, tra l’altro, avevano il compito di leggere preventivamente le opere proposte per la stampa, prima di autorizzarne la pubblicazione. Naturalmente sarebbero risultati improponibili scritti apertamente contrari alle direttive ufficiali, tali da mettere in discussione i fondamenti del regime, attraverso una critica serrata o una radicale opposizione. Il problema riguardava per lo più singoli punti o particolari interpretazioni, che potevano risultare più o meno controverse, richiedendo talora parziali revisioni o correzioni. Il giudizio, è ovvio, dipendeva anche dalla sensibilità e dalla tolleranza dei vari revisori, che, a loro volta, potevano esprimere posizioni diverse fra le tendenze, anche contrastanti, che si fronteggiavano all’interno del partito. I criteri di valutazione, in altri termini, non potevano obbedire a una normativa sicura (non poche opere, ad esempio, vennero censurate dopo che ne era stata approvata la pubblicazione). Entravano anche in gioco, non di rado, opportunità politiche contingenti, legate a momenti storici particolari, che potevano consigliare una maggiore o minore tolleranza; la censura divenne più rigida e sospettosa nell'ultimo decennio, per il complicarsi della situazione internazionale. Ricordiamo qui, brevemente, alcuni episodi, che videro coinvolti scrittori e opere di primo piano. Esempi di censura Dalla censura venne colpito, perisuoi contenuti sociali e politici, il romanzo di Carlo Bernari Tre ope-
rai (cfr.
La narrativa del Novecento, T16), del 1934, mentre nel 1936 fu sequestrato un nume-
ro di «Solaria» che comprendeva una puntata del Garofano rosso di Vittorini, con l'accusa di contenuti contrari alla morale (ma si volevano colpire, piuttosto, certe prese di posizione non più allineate dello scrittore). Nel 1938 la censura bloccò L'uomo è forte di Corrado Alvaro, il cui argomento — la minacciosa incombenza di un potere politico misterioso, che vede nei più segreti recessi della vita e della coscienza degli individui — poteva suggerire eventuali confronti con il totalitarismo del regime. Il romanzo poté uscire dopo pochi mesi con l’eliminazione di alcune frasi e con una premessa, in cui si affermava che il racconto era ambientato in Russia (si veda in proposito la nota introduttiva di Giuseppe Zaccaria all’edizione Bompiani, Milano 1984). Anche Moravia, in quegli anni, venne osteggiato, non solo perché era di origine ebraica, ma perché le sue opere, a partire dagli Indifferenti, erano considerate diseducative, non ispirate ai criteri secondo cui doveva modellarsi la vita fascista. Nella Mascherata (1941), inoltre, erano rappresentati gli intrighi di una dittatura che, sebbene collocata in un fantomatico paese sudamericano, ammetteva anch’essa una possibile lettura in chiave allegorica. Il romanzo, come accadde anche in altre circostanze, venne censurato dopo la pubblicazione, con il divieto di ristamparlo; è probabile però che, in questi casi, gli editori riuscissero a eludere i divieti delle autorità, continuando a far uscire i volumi senza ulteriori indicazioni.
La vicenda di Americana
Si trattava spesso di giungere a soluzioni di compromesso, talora attraverso lunghe trattative, che rendevano comunque incerta e difficile l’attività editoriale. Un caso davvero emblematico, anche per le ripercussioni sul piano ideologico delle scelte culturali, è costituito dalla complessa vicenda diAmericana (1942), la celebre antologia di scrittori statunitensi preparata da Elio Vittorini. L'opera, già interamente composta e impaginata, venne fermata e poté uscire solo dopo una estenuante trattativa
fra l'editore Valentino Bompiani e il ministro Pavolini, il quale sosteneva che non si potessero, in quel momento, «fare regali all'America». Il permesso della pubblicazione fu alla fine accordato, a condizione che venissero eliminate le introduzioni di Vittorini alle varie sezioni (lo spazio che rimaneva venne occupato da una scelta di giudizi critici) e che l'antologia fosse preceduta da una introduzione di Emilio Cecchi, gradito al regime (è evidente la distanza fra i testi dei due scrittori, che si possono leggere nell'ultima edizione di Americana, con introduzioni di Claudio Gorlier e Giuseppe Zaccaria, Bompiani, Milano 1984).
Se le difficoltà incontrate da Americana si spiegano anche con il clima oramai esasperato della guerra, c'è da dire che i presupposti risalivano ben più lontano, nella natura stessa del regime fascista e nel suo modo, accesamente nazionalistico e sciovinistico, di impostare i problemi culturali. Il culto
dell’italianità, di cui si era fatta espressione una rivista come «Il Selvaggio» (cfr.
La poesia, la
saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T44) e che, nonostante i tentativi di apertura, perDiffidenza Verso la cultura russa e statunitense
meava profondamente l'ideologia del fascismo, aveva indotto a guardare con sospetto le esperienze artistiche e intellettuali provenienti da altri paesi. Le diffidenze maggiori riguardavano la Russia e gli Stati Uniti, dove avevano raggiunto la loro maggiore potenza quei sistemi politici e socio-economici che il fascismo avversava fieramente: il comunismo e il capitalismo. Le esperienze letterarie e cultu-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
45 rali provenienti da questi Stati vennero guardate con diffidenza e riprovazione, come frutti di un’arte degenerata, capace di inquinare e di corrompere i genuini e sani costumi della nazione. Anche in questo caso il rifiuto non poteva essere assoluto, e, ad esempio, i grandi narratori russi e americani con-
tinuarono ad essere tradotti e pubblicati. Ma chi si occupava di questi argomenti, tendenzialmente ereticali, e soprattutto ne faceva la bandiera per un’azione di rinnovamento culturale, incontrava non poche difficoltà e veniva guardato con sospetto, anche perché rivelava comunque atteggiamenti di insofferenza e di insubordinazione; è il caso, oltre che di Vittorini, di Cesare Pavese e di Leone Ginzburg, attivi nell'ambiente antifascista torinese degli anni Trenta. Il cosiddetto “americanismo” costituisce un capitolo importante, per quanto riguarda l’insofferenza nei confronti delle direttive culturali volute dall’alto e l’esigenza di cercare soluzioni alternative, più libere e vitali. Così Pavese, nel 1947, rievocherà questa esperienza: Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere «la speranza del mondo», accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l'America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, fe-
conda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente [...]. Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l'America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti.
L'insofferenza
Nel suo estremismo nazionalistico e provinciale, il regime avversò anche alcune espressioni della
perl romanzo giallo moderna cultura di massa, come il romanzo giallo, un genere proveniente dagli Stati Uniti e dal mondo anglosassone. Non si trattò di una proibizione assoluta, tant'è vero che la Mondadori poté varare, nel 1929, la collana dei suoi “gialli” (è il nome dato in Italia al romanzo poliziesco, dal colore della copertina scelto per questa serie). Ma le parole di riprovazione e di condanna pronunciate in proposito da uomini di cultura e autorità governative non lasciano dubbi. Non a caso il nostro maggiore scrittore di romanzi polizieschi, Augusto De Angelis (1888-1944), venne addirittura aggredito e malmenato (si veda l'introduzione di Oreste Del Buono alla raccolta Il commissario De Vincenzi, Feltrinelli,
Milano 1963). Tra i pochi autori che si cimentarono in questo genere, il ligure Alessandro Varaldo (1876-1953) si propose allora di “italianizzarlo”, attraverso la figura di un investigatore che, oltre a catturare i colpevoli, forniva modelli pratici di comportamento fascista. Ma le intimidazioni e le aggressioni nei confronti degli scrittori potevano avere altre ragioni: è il caso di un autore di consumo come Guido Da Verona, che si era reso colpevole di aver dissacrato la tradizione del romanzo italiano, scrivendo una parodia irriverente e scetticamente demistificante dei Promessi sposi. Esasperazione
La difesa dell’italianità, man mano che ci si avvicinava agli anni del conflitto, si trasformava co-
dell'autarchia munque in una sempre più miope affermazione di autarchia, parallela a quella che il regime aveva pro-
=
culturale clamato in campo economico. Si determinava così un soffocante clima di caccia alle streghe, anche quando si trattasse di poveri e innocui fantasmi. Tra i provvedimenti presi e ampiamente discussi, a conferma della grettezza del dibattito culturale, che coinvolse in questo caso anche studiosi di prestigio, ci fu la lotta contro le parole straniere, di cui si propose l'abolizione e la sostituzione (anche nella toponomastica) con termini equivalenti nostrani.
2.2 Gli intellettuali, Nonostante il conformismo imposto dal fascismo alla vita culturale, le posizioni de| | | |
o
gli intellettuali finiranno per risultare assai differenziate e variegate, per la dialettica relativa al ruolo da giocare nei confronti del regime, e al posto da riservare alla letteratura. Prima di affrontare il problema del rapporto fra intellettuali e regime, è tuttavia necessario esaminarne le premesse, risalendo alla situazione determinatasi nell’immediato dopoguerra. La fine del conflitto, con i tanti problemi che lasciava irrisolti, sembrava fatta apposta per sollecitare una presenza attiva degli intellettuali, ponendoli di fronte alle responsabilità delle nuove esigenze storiche. Tra le personalità più rilevanti che risposero all’appello si devono ricordare quelle di Anto-
Cransci mio Gramsci e di Piero Gobetti (cfr.
i |
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del No-
vecento, A22 e A23), che diedero nuova vita alla figura dell’intellettuale impegnato, già delineatasi nei primi anni del Novecento. Gramsci proseguì il suo lavoro a favore della classe operaia, con lo scopo non solo di organizzarla politicamente, ma anche di dotarla di una nuova cultura, che la mettesse in condizione di sottrarsi al ruolo egemonico dell'ideologia borghese. Gramsci teorizza, dandone egli stesso l'esempio più alto, la figura dell’intellettuale organico, che viva a diretto contatto con i problemi della gente, collegando gli interessi culturali alla pratica e all’organizzazione del partito. Di qui anche l’intensa attività giornalistica, sui giornali da lui fondati e diretti, come il socialista «Grido del popolo» e il comunista «L'Ordine Nuovo», in cui, oltre ad elaborare le linee della strategia politica, si
IV.TRA LE DUE GUERRE
44 occupa di problemi artistici e culturali, a partire da quelle forme (la letteratura popolare e d’appendice, il teatro) che più da vicino interessano le classi subalterne, in una serrata polemica nei confronti
della cultura ideologicamente aristocratica e borghese. L'attività intellettuale di Gramsci risulta così strettamente legata alla prassi, che costituisce il punto di partenza della sua riflessione e, insieme, il punto d'arrivo della sua destinazione concreta e immediata. In questo senso il giornale rappresenta per lui il canale privilegiato dell’azione formativa e divulgativa, per l’incidenza quotidiana del suo impatto con i lettori; Gramsci non pubblicò nessun libro durante la sua vita, rifiutandosi anche, in carcere, di autorizzare una raccolta dei suoi scritti. Gobetti
Del tutto nuova risulta invece, all’indomani della guerra, la figura di Gobetti, che nel 1918, ancora studente liceale, pubblica una rivista, «Energie Nove», destinata ad attrarre l’attenzione dei mag-
giori intellettuali italiani, da Croce a Prezzolini, immettendosi nel vivo del dibattito culturale del tempo. Ispirandosi all'esempio della «Voce», Gobetti si fa carico di una profonda esigenza di rinnovamento spirituale, nel solco della tradizione idealistica primonovecentesca. Con la seconda rivista da lui fondata, la «Rivoluzione liberale», propugna un'alleanza fra le forze della borghesia liberale più aperte e la classe operaia, rilanciando il programma giolittiano in termini molto più avanzati, con lo scopo di contrastare le tendenze politiche conservatrici o reazionarie. Grande organizzatore di cultura, e suscitatore di energie intellettuali, Gobetti fondò anche una casa editrice, raccogliendo intorno a sé e alle sue iniziative non pochi fra i giovani scrittori e intellettuali più aperti e promettenti. I punti di convergenza che univano programmi pur molto diversi fra di loro, oltre alla stima reciproca per la serietà dell'impegno culturale, avvicinarono Gobetti a Gramsci, che gli offrì la rubrica delle recensioni teatrali sull’«Ordine Nuovo». Entrambi si trovarono poi in prima linea nel combattere una accanita battaglia contro l'affermazione del fascismo, di cui furono fra i più irriducibili avversari (tanto che il regime, per aver ragione del loro dissenso, fu costretto a ridurli al silenzio).
La parabola di Gramsci e Gobetti rappresenta anche, emblematicamente, l’inutilità degli sforzi compiuti per tenere in vita la libera dialettica del confronto culturale, rispetto alla chiusura sempre più netta degli orizzonti politici. L'affermazione del fascismo poté ben presto contare anche sul massiccio appoggio degli intellettuali, che si riconobbero nell’immediata adesione al regime dichiarata dal Gentile filosofo Giovanni Gentile, inizialmente amico e collaboratore di Croce (nella comune battaglia per l’affermazione dell’idealismo), dal quale si era successivamente staccato (per ragioni filosofiche, che si |manifesti pro sarebbero poi tradotte in una inconciliabile opposizione sul piano politico). Proprio Gentile fu il proe contro ilfascismo motore e l’estensore, nel 1925, del Manifesto degli intellettuali fascisti (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T41), con cui i numerosi firmatari garantivano l’approvazione dell'operato mussoliniano e il loro incondizionato appoggio al regime. Le forze liberali rispo-
sero con un Contromanifesto, o Manifesto degli intellettuali antifascisti (cfr.
La seconda presenza di Croce
La poesia, la saggistica
e la letteratura drammatica del Novecento, T42). L'iniziativa fece capo a Benedetto Croce e ad essa aderirono scrittori come Marino Moretti, Aldo Palazzeschi, Eugenio Montale, che vivranno poi appartati e isolati sotto il regime, senza incombenze pubbliche e prevalentemente dediti alla loro attività letteraria. È questo l’ultimo atto ufficiale e collettivo di resistenza nei confronti della dittatura, che avrebbe ben presto disperso e reso inoffensive le forze del dissenso. Significativo, al riguardo, è il destino di Benedetto Croce, che il fascismo non ebbe mai il coraggio di perseguitare o colpire direttamente, per l’altissimo prestigio della sua statura intellettuale. Croce poté così proseguire la sua attività di studioso, a patto che non interferisse direttamente su questioni di immediato carattere politico. La sua muta protesta restò così affidata ad alcune opere, dove si potevano leggere in trasparenza impliciti atti d'accusa nei confronti della situazione presente: la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e la Storia d'Europa del secolo XIX (1932), che contengono un’esaltazione dei valori liberali distrutti dal fascismo; la Storia dell'età barocca in Italia (1929), che è anche una condanna della corruzione e della
Motivazioni diverse dell'adesione al fascismo
degenerazione alla quale giunge fatalmente l'instaurazione di ogni forma di regime dispotico. L'adesione degli intellettuali al fascismo presenta, sul piano culturale, motivazioni diverse. Il che si spiega con le componenti eterogenee che confluirono nella realizzazione del progetto fascista, privo di una sostanziale originalità di pensiero e poi soprattutto attento a conciliare, opportunisticamente, componenti sociali e forze produttive diverse (gli agrari e gli industriali, ad esempio, come già si è detto). Queste “anime” molteplici potevano facilmente dar luogo a progetti culturali lontani fra di loro, addirittura antitetici, che presumevano, ciascuno per conto proprio, di interpretare lo spirito genuino del fascismo, la sua natura più autentica e innovatrice. Si tenga conto, infine, che le oscillazio-
ni stesse della politica del regime, e i conflitti interni fra i vari gruppi di potere, potevano facilmente
PERCORSI STORICO-CULTURALI
45 determinare incertezze e sbandamenti, dando luogo ad atteggiamenti critici, o “di fronda”, che, senza mettere in discussione il ruolo carismatico del fondatore del fascismo, colpivano particolari settori della burocrazia o del potere, accusandoli di involuzione e di deviazionismo. Anche le scelte culturali maturate via via all’interno del fascismo potevano essere considerate più o meno eretiche o sovversive, e questo per il paradosso di direttive politiche che, mentre pretendevano di controllarle completamente, non erano poi in grado di fissarne con coerente chiarezza i contenuti (di qui anche le difficoltà della censura, i cui giudizi rispecchiavano spesso le convinzioni personali o le tendenze di situazioni contingenti). Fin dall’inizio un cospicuo gruppo di scrittori, riunito intorno a una rivista come «Il Selvaggio» (cfr. Ilgruppo del «Selvaggio»
Bontempelli
Strapaese e Stracittà
Ilrapporto con la letteratura
La posizione di Ojetti
D'Annunzio
Marinetti
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T44), si propose di difende-
re ad oltranza l’anima rustica e provinciale della stirpe italica, ritenendo che di qui fossero derivate le energie più vitali e feconde del colpo di Stato fascista. L'abitudine chiassosa al sarcasmo anche volgare e all’insulto plebeo si trasformò spesso nei malumori e nei risentimenti di una fronda interna, quando questi intellettuali, di origine piccolo-borghese e provinciale, videro traditi i loro ideali dagli accordi che il regime non aveva difficoltà a stabilire con i gruppi del potere capitalistico e industriale. Contro queste posizioni si era ben presto pronunciato il raffinato e aristocratico Massimo Bontempelli, anch'egli di provata fede fascista, ma convinto che il fascismo dovesse fregiarsi e avvalersi di una cultura moderna e spregiudicata, tale da far competere l’Italia con i più evoluti paesi europei. Queste idee, come vedremo meglio nel $ 2.3, vennero soprattutto propugnate dalla rivista «900» (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T45) e dettero origine al movimento di Stracittà, così definito in opposizione al movimento antagonista di Strapaese. Le polemiche che ne seguirono alimentarono per qualche tempo il dibattito culturale, ma non riuscirono ad elevarne qualitativamente il livello; a parte qualche risultato singolarmente raggiunto (soprattutto per opera di Bontempelli, che era anche, rispetto agli avversari, lo scrittore più dotato), queste proposte non brillavano certo per originalità: nel primo caso si trattava del ritorno a una sorta di verismo provinciale e bozzettistico, di stampo ancora ottocentesco (non senza forme di arroganza becera e piazzaiola); nel secondo di una mediazione di esigenze di modernità, la cui poetica (quella del “realismo magico”) finì per valere solo per l’autore della sua proposta, ossia Bontempelli. La difficoltà di elaborare progetti culturali, che si riconoscessero inequivocabilmente con il marchio del fascismo, riguardava a maggior ragione l’idea della letteratura e la sua pratica concreta. Qui le differenze si fanno ancora più radicali, senza che sia assolutamente possibile stabilire — al di là di qualche generalissima linea di tendenza — un’omologia fra le ragioni che avevano ispirato l'adesione al fascismo e l’esercizio personale della scrittura (si parla qui, ovviamente, del processo dell’invenzione letteraria, non di scritti propagandistici o apologetici). Resta indicativa, al riguardo, la posizione sostenuta da Ugo Ojetti (1871-1946), scrittore e critico
frai più coinvolti nella politica culturale del regime (direttore del «Corriere della Sera» tra il 1925 e il 1927, fu Accademico d’Italia dal 1930). Fondando nel 1929 la rivista «Pegaso», che rifiutava gli opposti estremismi di Strapaese e Stracittà, Ojetti rese il dovuto omaggio a Mussolini, ringraziandolo pubblicamente, ma rifiutò l’idea di una letteratura “fascista”, auspicandone sì l'avvento, ma sostenendo che il rinnovamento non poteva avvenire senza una necessaria maturazione, per via di volontaristiche decisioni (anche in seguito la rivista, che avrebbe cessato le pubblicazioni nel 1933, accompagnerà, a qualche elogio del fascismo, un’attività letteraria, di tipo creativo e critico, del tutto indipendente ed estranea a tematiche di carattere politico). L'adesione al fascismo di alcuni fra i più noti scrittori del tempo obbedisce così a motivazioni diverse, e non sempre decifrabili con chiarezza (al di là delle ragioni opportunistiche o di convenienza). Non c’è dubbio che una figura come quella di Gabriele D'Annunzio poteva rappresentare un model. lo illustre, sia per il culto del gesto eroico manifestato in guerra e durante l'impresa di Fiume, sia per l’uso di una retorica nazionalistica e imperialistica, alla quale si ispirerà nei suoi discorsi lo stesso Mussolini (abbassandone ovviamente il livello e riducendolo ai più facili e martellanti effetti di una suggestione di massa). Ma, nonostante gli onori tributati, D'Annunzio finirà ben presto per essere accantonato (e per autoescludersi), trascorrendo l’ultimo periodo della sua vita nello splendido isolamento della sua villa di Gardone, da lui chiamata il Vittoriale degli Italiani. Nonostante la sua fede nazionalistica e totalitaria, contraddittorio resta comunque il rapporto sta-
bilito con il fascismo da Filippo Tommaso Marinetti (cfr.
La poesia, la saggistica e la lettera-
tura drammatica del Novecento, A9), proprio per l’inconciliabilità fra l'ordine politico imposto da MusIV. TRA LE DUE GUERRE
46 solini e il disordine programmatico su cui si basava invece il Futurismo. Dopo aver teorizzato la di-
struzione di tutte le accademie (cfr. (Generi] La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T18), Marinetti entrò nel 1929 nell'Accademia d’Italia, trasformandosi in un rappresentan-
Pirandello
Ungaretti e Cecchi
te di quell’ufficialità che tanto accanitamente aveva esecrato e combattuto. Nulla più che un alibi si rivela l'intenzione, da lui dichiarata, di voler trasformare in senso futurista le strutture e gli apparati del regime. Più problematica risulta senza dubbio l'adesione di Luigi Pirandello, che avvenne, con una dichiarazione ufficiale per certi aspetti clamorosa, dopo l'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, nel momento in cui il fascismo risultava fortemente indebolito di fronte alla pubblica opinione e sembrava fosse addirittura in procinto di cadere. Fu quindi un gesto anticonformistico e quasi provocatorio, dovuto alla consueta avversione nei confronti di una mentalità borghese considerata gretta e meschina. Resta comunque il fatto che Pirandello non muterà gli orientamenti della sua ricerca letteraria, che resta lontana da ogni forma di compromesso con le scelte politiche di quegli anni, irriducibile ai miti della propaganda del regime, in tutte le sue espressioni.
Ugualmente netta è la distanza fra le convinzioni fasciste di Giuseppe Ungaretti (cfr.
Un-
garetti) e il carattere del tutto apolitico della sua poesia, che poteva essere accusata, tutt'al più, di un esasperato individualismo, aristocraticamente chiuso nei confronti di ogni sensibilità sociale (in questa direzione si muovono i rilievi negativi contenuti nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci). Uno
stesso discorso si potrebbe fare per Emilio Cecchi (1884-1966), il massimo esponente della “prosa d’arte” (cfr. [Generi] La narrativa del Novecento, I), la quale poté fare il gioco del regime solo nella miGli intellettuali dell'ultima generazione
sura in cui si mantenne generalmente estranea a ogni presa di posizione di tipo apertamente politico. Altre sono le ragioni che indussero alcuni intellettuali dell’ultima generazione a sostenere inizialmente il fascismo (salvo poi a prenderne ben presto le distanze). Per costoro il movimento mussoliniano, nel suo spirito più autentico, sembrò coincidere con gli ardori della giovinezza, presentandosi come ancora ricco di potenzialità innovatrici, capaci di spazzare via i residui del conservatorismo borghese. In questo senso operarono scrittori come Romano Bilenchi, Vasco Pratolini ed Elio Vittorini, riuniti attorno alla rivista «Il Bargello» (1929-43), il settimanale della Federazione provinciale fascista fiorentina. L'equivoco rivoluzionario è documentato dal Garofano rosso di Vittorini, un roman-
Ilgruppo torinese
zo importante anche come testimonianza generazionale, sulle delusioni e aspirazioni dei giovani intellettuali, dove il fascismo è considerato una pura forma di ribellione antiborghese, sull'esempio di quella marxista che Rosa Luxemburg aveva cercato di realizzare in Germania. Un gruppo di intellettuali estranei o contrari al fascismo si venne invece costituendo a Torino, dove non si era del tutto spento il ricordo di Gramsci e Gobetti. La loro lezione venne per così dire proseguita da un professore del liceo D'Azeglio, Augusto Monti (1881-1966), studioso di problemi didattici e pedagogici, collaboratore della «Voce» e delle riviste di Gobetti (del quale era stato insegnante), oltre che autore di romanzi di impianto storico tradizionale (la trilogia della Storia di papà, 1929-35). Con lui si formarono alcuni giovani che, riuniti intorno alla rivista «La Cultura» e all’attività di una casa editrice esordiente, l’Einaudi, fecero della cultura uno strumento di ricerca autonoma e non allineata, per approdare poi a scelte di opposizione e di cospirazione politica (oltre all’editore Giulio Einaudi, si ricordino Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giulio Carlo Argan, Federico Chabod, Aldo Garosci).
Gli esuli: Silone e Lussu
Giustizia e Libertà
Altri intellettuali infine, troppo compromessi, erano stati costretti all’esilio, sia per evitare il carcere, sia per poter continuare la loro azione: è il caso di Ignazio Silone (cfr. La narrativa del Novecento, A11), che pubblicò all’estero, e in lingua straniera, i suoi primi romanzi. A Parigi uscì, nel 1933, Marcia su Roma e dintorni, polemico libro di memorie scritto da Emilio Lussu (1890-1975), cui seguì Un anno sull’altibiano (1938), rappresentazione umanamente sobria ed efficace dell’esperienza di combattente durante la prima guerra mondiale. Dopo aver fondato nel 1920 il Partito Sardo d’Azione e averlo rappresentato in Parlamento, Lussu fu perseguitato e condannato al confino a Lipari; di qui riuscì a fuggire in Francia, fondando nel 1929 il movimento antifascista Giustizia e Libertà con i fratelli Carlo e Nello Rosselli, nati nel 1899 e nel 1900, uccisi nel 1937 dai fascisti francesi, i cagoulards, per conto dei servizi dello spionaggio militare italiano.
2.3 Le riviste e le idee della letteratura. Anche nel periodo fra le due guerre la storia culturale appare fortemente caratterizzata dalla vicenda di alcune riviste, che discutono le scelte della letteratura «La Ronda»
e ne lanciano i programmi. Prima di tutte «La Ronda», che inizia le pubblicazioni nel 1919 per concluderle nel 1922 (ma un numero straordinario uscirà ancora nel 1923). Sorta a Roma, fu retta ini-
PERCORSI
STORICO-CULTURALI
47 zialmente da un comitato di redazione composto da Riccardo Bacchelli, Antonio Baldini, Bruno Ba-
rilli, Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, Lorenzo Montano e Aurelio E. Salfi; in seguito la direzione venne assunta dai soli Salfi e Cardarelli (cfr. |Generi| La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A26), che della rivista era stato il principale promotore e sostenitore. Ricollegandosi alla lezione della «Voce» cosiddetta “bianca”, diretta da Giuseppe De Robertis (cfr. Lo stile e l'ordine III, $ 3), «La Ronda» sostenne con estremo rigore l'autonomia della letteratura e l'assoluta premidella tradizione nenza dello stile sui contenuti. Il suo programma (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T43) respinge il coinvolgimento dello scrittore sul piano politico-sociale, tipico delle scelte culturali di inizio secolo, ma soprattutto rifiuta lo sperimentalismo delle avanguardie. Al loro “disordine”, come forma di contestazione di un intero sistema sociale e delle sue coordinate linguistico-ideologiche, viene opposto un “ordine” che si ispira ai valori della tradizione, con l’intenzione di riprendere il discorso letterario là dove i maggiori scrittori dell'Ottocento l'avevano condotto (i modelli proposti dai “rondisti” sono Manzoni per la prosa e Leopardi per la poesia). Da un lato «La Ronda» rifiuta l’irrazionalismo e le sue spericolate avventure, richiamandosi ai criteri (e ai princìpi formali) della chiarezza razionale; dall'altro il ritorno all'ordine, proposto per la letteratura, finiva per coincidere con il ritorno all'ordine che il fascismo stava imponendo alla società italiana. Non si vuole certo stabilire una dipendenza diretta fra questi due fenomeni. Resta il fatto che la figura di intellettuale, propugnata dalla «Ronda», era tale da non preoccupare assolutamente il regime, per il totale disinteresse nei confronti della realtà socio-politica. La risoluzione della scrittura in un prevalente esercizio di stile (oltre a mettere in secondo piano un genere aperto e problematico come il ro-
manzo), dava vita alla cosiddetta “prosa d’arte” (cfr.
La narrativa del Novecento, I), estenden-
do l'influenza della rivista ben oltre la sua effettiva durata. Un diretto rapporto con la politica, legato all'affermazione stessa del fascismo, viene rivendicato in-
«ll Selvaggio»
vece da «Il Selvaggio», la rivista fondata nel 1924 a Colle Val d'Elsa da Mino Maccari (1898-1989) e
trasferita poi nel 1927 a Firenze, che verrà stampata fino al 1943. Il suo fondatore, importante soprattutto come caricaturista (in questa veste darà il meglio di sé, ancora nel secondo dopoguerra), le impresse un taglio polemico e satirico, basato non solo sulla scrittura, ma sul disegno e sulla grafica, che fu particolarmente curata. «Il Selvaggio» intese ispirarsi alla tradizione nazionale (o meglio a quella di una presunta “italianità”), che veniva fatta coincidere con i valori della provincia e del mondo contadino, ritenuti i soli autentici o vitali, capaci di contrastare la corruzione dell’età presente e di pro-
muovere il suo rinnovamento (cfr.
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Nove-
cento, T44). L'avere identificato questi valori con lo spirito del nascente fascismo lo indusse ad aderire
«L'Italiano»
«900»
entusiasticamente al regime, salvo poi a dissentire sulle scelte diverse che il governo veniva compiendo. Di qui una fedeltà che non impedirà atteggiamenti di fronda e di dissenso, contro particolari settori dell’apparato statale, accusati di involuzione ideologica e burocratica, di culto delle apparenze. Dopo aver partecipato all’esperienza iniziale del «Selvaggio», lo scrittore e pittore Leo Longanesi (1905-1957) darà vita a Bologna, nel 1926, a «L’Italiano» (trasfereadolo poi a Roma), che ha come sottotitolo «Foglio mensile della rivoluzione fascista». Anch’egli sostenitore convinto di Mussolini, accorderà tuttavia ampio spazio a posizioni di sottile e tagliente ironia, tanto da far scrivere a Montale che la rivista pubblicò «quanto di meglio e di più audace la fronda fascista poté esprimere in quegli anni». Nel 1937 Longanesi fonderà «Omnibus», che si può considerare il primo rotocalco italiano di attualità (sarà soppresso due anni dopo dalla censura), costituendo poi, nel secondo dopoguerra, la casa editrice che porta il suo nome. Non stupisce quindi che a queste riviste abbiano collaborato anche intellettuali ed artisti estranei o avversi al regime fascista. A] «Selvaggio», in particolare, fece capo il cosiddetto movimento di Strapaese, che divise in quegli anni parte della cultura italiana. Ad esso si oppose infatti il movimento di Stracittà, che ebbe il suo organo nella rivista «900», fondata a Roma nel 1926 da Massimo Bontempelli e da Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Erich Suckert, 1898-1957). Quest'ultimo (giornalista e scrittore dagli umo-
ri vivacemente polemici, noto soprattutto per i romanzi Kaputt, 1944, e La pelle, 1949) se ne staccò tuttavia l’anno successivo, per passare allo schieramento opposto. La rivista uscì inizialmente in lingua francese, con il sottotitolo «Cahiers d’Italie et d'Europe», avvalendosi di un comitato di redazione in cui comparivano nomi prestigiosi della letteratura straniera (da James Joyce al russo Ilja Erenburg). Facendosi espressione soprattutto del pensiero di Bontempelli e della sua poetica del “realismo magico”, «900» si batté per una cultura modernamente europea, rifiutando il provincialismo ottocentesco ed entrando così inevitabilmente in polemica con «Il Selvaggio». Le sue aperture non fu-
rono senza efficacia su scrittori come Corrado Alvaro (cfr.
La narrativa del Novecento, A10), IV. TRA LE DUE GUERRE
48 che fu uno dei redattori, e Alberto Moravia (1907-1990), ma non riuscirono ad elevare veramente la
qualità del dibattito culturale, che si perdeva in sterili polemiche (nel 1932 Cesare Pavese definiva Strapaese e Stracittà come «una caricatura letteraria»). Se Bontempelli si era sforzato, con risultati piuttosto effimeri, di aprire la cultura dell’Italia fascista all'Europa, profondamente diverso era stato lo spirito del programma europeista avanzato da Pie-
ro Gobetti (cfr. all Baretti»
La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A23), nell’ul-
tima delle riviste da lui fondate. «Il Baretti» nasce a Torino nel 1924 (cesserà le pubblicazioni nel 1928,
sopravvivendo alla morte prematura del suo fondatore), con un preciso intento costruttivo e polemico: quello di trasferire il discorso politico (divenuto oramai impossibile) sul piano letterario, affidando ad esso le residue possibilità di condurre un'azione di resistenza nei confronti del regime e di rieducazione a quei valori delle libertà democratiche che venivano così brutalmente calpestati. Proprio il significato etico-politico e pedagogico attribuito alla cultura giustifica le scelte della rivista, che propone in primo luogo un ritorno alla serietà e alla ragione. Si spiegano così alcuni punti di contatto con Benedetto Croce e con il programma della «Ronda», anche se Gobetti rifiuta di risolvere la letteraturain un puro problema di stile, richiedendo una particolare attenzione pericontenuti delle tematiche La ragione affrontate. La ragione alla quale si richiama è quella che ha le sue radici nella volontà di riforme proilluministica pria dell'Illuminismo e nello spirito critico rappresentato da questo movimento di idee, contro ogni forma di chiusura e di dogmatismo. Ne consegue l'ampiezza delle coordinate europee entro cui si colloca l’azione della rivista, da opporre al nazionalismo fascista e al provincialismo in cui rischiava di arenarsi la cultura italiana (non a caso il titolo deriva dallo scrittore Giuseppe Baretti, nato a Torino nel 1719 e morto a Londra nel 1789, viaggiatore cosmopolita e illuminista dalla sferzante vena satirica). Ma la forza dell’iniziativa è anche nelle personalità che Gobetti, in una fase di grandi difficoltà, seppe ancora una volta raccogliere intorno alle sue proposte: ricordiamo Guglielmo Alberti, Arrigo Cajumi, Santino Caramella (che fu poi il direttore), Giacomo Debenedetti, Mario Fubini, Aldo Garosci,
«La Cultura»
«Primo tempo» e «La Libra»
Leone Ginzburg, Mario Gromo, Carlo Levi, Massimo Mila, Eugenio Montale, Augusto Monti, Natalino Sapegno, Sergio Solmi, Lionello Vincenti. Questa tradizione verrà ripresa qualche anno dopo dai giovani che, fra il 1933 e il 1935, si riuniranno presso la redazione della «Cultura», la rivista con cui Giulio Einaudi iniziò la sua attività editoriale. Ma non vanno dimenticate altre riviste meno note, alle quali va riconosciuto il merito di avere introdotto elementi di rilievo nel dibattito letterario: «Primo tempo» (1922), fondata a Torino da Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi, che vi esordirono come critici e ottennero importanti collaborazioni, oltre a pubblicare testi di Saba e Montale; «La Libra» (1928-30), che vide la luce a Novara per me-
rito del francesista Mario Bonfantini, di Enrico Emanuelli e di Mario Soldati, occupandosi in particolare dei problemi legati alla ripresa del romanzo (Soldati, nato a Torino nel 1906, esordì presso le edizioni della rivista con iracconti di Sa/mace, nel 1929; di lui si ricordino poi opere come America pri-
mo amore, La verità sul caso Motta e, nel secondo dopoguerra, Le lettere da Capri, Il vero Silvestri, Le due «Solaria»
città, L'attore, La sposa americana, ecc.). Un ruolo centrale, nella letteratura del ventennio, viene svolto dalla rivista fiorentina «Solaria», che
sin dal titolo (la congiunzione di elementi che simboleggiano la vastità degli orizzonti naturali) si propone come una ideale “repubblica delle lettere”, del tutto indipendente rispetto ai condizionamenti del potere politico. Fondata nel 1926 da Alberto Carocci (affiancato poi da Giansiro Ferrata e temporaneamente sostituito da Alessandro Bonsanti), uscì fino al 1936 (ma gli ultimi numeri, per i ritardi
e le interruzioni, portano la data del 1934). Nella presentazione dell'iniziativa (cfr.
La poesia,
la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T46), emerge un eclettismo destinato ad assu-
mere un carattere fortemente propulsivo e innovativo, dal momento che «Solaria» riuscì a riunire le forze più vive della letteratura del tempo, avviando un discorso ricco di molteplici prospettive. L’interesse per lo stile (che si richiama al rigore formale della «Ronda») non è disgiunto da una forte esigenza di moralità, di ascendenza per così dire gobettiana (a «Solaria» approdarono alcuni collaboraL'interesse tori del «Baretti», dopo che fallì il tentativo di fondere le due riviste). La rivista prestò particolare atper illinguaggio tenzione alla specificità dei linguaggi letterari, considerati come uno “spazio separato”, da esplorare e la responsabilità attraverso strumenti tecnici specialistici e particolarmente affinati (si pensi alle indagini condotte dal dello scrittore nostro maggiore critico stilistico, Gianfranco Contini); ma anche, soprattutto negli anni Trenta, rilanciò il problema della responsabilità storica dello scrittore, attirando su di sé l’attenzione sospettosa del regime, che ne mise sotto sequestro alcuni fascicoli. L'ospitalità accordata negli ultimi anni agli scrittori più giovani (Vittorini, Gadda, Moravia, Montale, ecc.) è quasi la conseguenza dell’interesse per altri autori italiani, che, per lo più ignorati o tra-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
49 scurati dalla critica ufficiale, «Solaria» ebbe il merito di valorizzare, sollecitando una considerazione più meditata e approfondita. Vere e proprie operazioni di scoperta e di rilancio si possono considerare i numeri unici dedicati a Umberto Saba (n. 5, 1928), Italo Svevo (nn. 3-4, 1929) e Federigo Tozzi Lo stile (nn. 5-6, 1930). L'interesse per lo stile era quindi parallelo a quello per le problematiche delle opee le problematiche re, come conferma, nell’introduzione già ricordata, il riferimento a Dostoievskij. Non a caso itre scrit-
tori indicati possono essere accomunati per l’importanza che assume, nelle loro opere, la tematica psicanalitica; si ricordi che a «Solaria» collaborano scrittori che si mostreranno particolarmente attenti a questo aspetto, come Gadda e Moravia, oltre a un critico come Giacomo Debenedetti, che si
può a pieno titolo ritenere il padre della critica psicanalitica italiana. Se si considera che la psicanalisi era completamente ignorata dalla cultura del regime, e che ancora nel secondo dopoguerra verrà misconosciuta e avversata, si può avere un’idea delle aperture promosse dalla rivista, che riguardano non un generico modernismo, ma una più intima coscienza (e desiderio di conoscenza) della mo-
dernità. L'apertura alle letterature straniere
Una stessa convinzione guida gli interessi nei confronti delle letterature straniere, che perdono ogni carattere di occasionalità e di settorialità, sforzandosi di cogliere lo spirito più autenticamente innovatore della ricerca letteraria contemporanea. Era, anche in questo caso, il rifiuto delle superficiali improvvisazioni e dei dilettantismi autarchici, a favore di un più libero aprirsi degli orizzonti intellettuali. Oltre a recensire con grande tempestività opere di Valéry, Gide, Malraux, Hemingway, ecc.,
la rivista pubblicò traduzioni di Rilke, Eliot e Joyce, approfondendo la conoscenza di Proust e di Kafka. Attraverso l’incontro con autori e testi decisivi della cultura novecentesca, si ponevano così le basi per un effettivo rinnovamento della cultura italiana. L'eclettismo di «Solaria» coincise con lo sperimentalismo di una ricerca che diventava anche laboratorio di idee, volto a saggiare diverse forme e possibilità espressive: dall’Ermetismo alla prosa lirica, fino a porre le premesse per una ripresa decisiva del romanzo. Sempre a Firenze, Alessandro Bonsanti fondava nel 1937 «Letteratura», che uscì irregolarmente «Letteratura» durante la guerra e nel primo dopoguerra (la prima serie finirà nel 1947). La rivista si può considerare l’erede di «Solaria» (in particolare della linea che privilegiava la ricerca creativa e i processi di elaborazione della scrittura), proprio per la sua strenua volontà di mantenere il discorso in un ambito rigorosamente letterario, sul piano di una produzione di testi pienamente inserita nella consapevolezza dei valori raggiunti dalla letteratura europea. Nel 1929 era nato a Firenze «Il Frontespizio», che durerà fino al 1940; dal 1930 viene stampato da «dl Frontespizio» Vallecchi, passando l’anno successivo sotto la direzione di Piero Bargellini (1897-1980). Legata al tradizionalismo cattolico della cultura fiorentina, la rivista ridiede voce alla generazione degli intellettuali primonovecenteschi (in particolare Papini, Soffici e Domenico Giuliotti, nato nel 1877 e morto nel 1956, fautore di una letteratura cristiana impetuosa e primitiva, che piacque a Gobetti), accogliendo in seguito le più moderne istanze di un cattolicesimo che si andava orientando verso le soluzioni dell’Ermetismo (nel 1936 vi uscì il saggio di Carlo Bo, Letteratura come vita, su cui cfr.|Generi| La «Campo di Marte»
«Corrente»
«Primato»
poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T47). L'incompatibilità di queste due anime determinò alla fine una crisi interna alla rivista e la nascita di «Campo di Marte» (1938-39), edita anch’essa da Enrico Vallecchi. Dopo essersi posta il problema del ruolo dell’artista, la rivista — redatta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini (1913-1994) — ha ospitato le prove dei nuovi narratori e, soprat-
tutto, degli ermetici, sui versanti della produzione poetica e della riflessione critica. Un'interessante appendice di questa vicenda può essere rintracciata nella rivista milanese «Corrente» (1938-40), che accolse i contributi dell’Ermetismo fiorentino all’interno di un più ampio dibattito filosofico-culturale, attento alle trasformazioni del gusto estetico (vi parteciparono filosofi come Antonio Banfi, Enzo Paci e Luciano Anceschi), oltre che polemicamente critico nei confronti del fascismo (che soppresse la rivista allo scoppio della guerra). L’ultimo e rilevante capitolo del rapporto fra le riviste culturali e la politica del regime è costituito da «Primato» (1940-43), fondata e diretta da Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti. Gerarca del regime, Bottai si era venuto orientando verso posizioni critiche, che si riflettono sulle pagine della rivista, rivolta soprattutto ai giovani e molto diffusa nelle scuole. Aperta alla collaborazione dei maggiori scrittori e intellettuali italiani, «Primato» finì per rappresentare la crisi della cultura fascista, accogliendo non pochi elementi di rottura e spunti di discussione approfonditi poi nel dopoguerra. Si tornò a parlare di libertà dell’arte, del ruolo degli intellettuali, dell'esigenza di una cultura sopranazionale, in un più autonomo e spregiudicato confronto di opinioni, che trovò espressione in alcuni vivaci dibattiti: ad esempio quello sull’Ermetismo, sui numeri 7-9 del 1940, o quello sull’esistenzialiIV. TRA LE DUE GUERRE
50 smo, a partire dal primo numero del 1943 (è stato ora raccolto in L’Esistenzialismo in Italia, a cura di B. Maiorca, Paravia, Torino 1993, pp. 87-162).
2.4 L'editoria. Per quanto riguarda l'editoria culturale, prosegue a Bari l’attività della Laterza, dove conEditoria di cultura e militante
tinua a pubblicare le sue opere Benedetto Croce, che ne sosterrà l’attività ancora nel secondo dopoguerra. Il rapporto editoria-cultura conserva uno dei suoi centri più importanti a Firenze, dove assume un particolare rilievo, nell’ambito della produzione saggistico-accademica, la casa editrice Sansoni (fondata nel 1874), che ha in Giovanni Gentile il suo consulente più autorevole. Molto forti restano
Editoria e riviste
in questa città i vincoli con la letteratura militante: la Vallecchi, dopo aver stampato alcune fra le più importanti riviste del primo Novecento (dal «Leonardo» a «Lacerba»), continua in questo vivace settore di attività, pubblicando (oltre al «Selvaggio») le riviste degli ermetici («Il Frontespizio», «Campo di Marte»), le loro opere e gli studi critici che accompagnano o fiancheggiano il movimento. Il rapporto fra le riviste e l’editoria resta un altro degli aspetti caratterizzanti. Ricollegandosi anche all'esempio di Piero Gobetti (presso le cui edizioni escono tra l’altro gli Ossi di sebpia di Montale), «Solaria» estende la sua ricerca letteraria sul versante librario, proponendo alcune fra le opere più significative di quegli anni: basti ricordare, oltre ai racconti di Alessandro Bonsanti e Arturo Loria, La madonna dei filosofi e Il castello di Udine di Carlo Emilio Gadda (1893-1973), Lavorare stanca di Cesare Pavese (1908-1950), Piccola borghesia di Elio Vittorini (1908-1966), la raccolta Preludio e fughe di Umberto Saba (cfr. \Autori| Saba).
L'Einaudi
La Mondadori
La Bompiani
L'influenza delle idee gobettiane è soprattutto persistente a Torino, dove sorgono alcune case editrici che svolgono un'azione anticonformistica, estranea e tendenzialmente polemica nei confronti delle direttive del regime: la Slavia, che pubblica traduzioni di autori russi, con la consulenza di Leone Ginzburg, e la Frassinelli, presso cui Pavese introduce gli scrittori americani. È in questo clima, e con il medesimo gruppo di collaboratori, che Giulio Einaudi fonda nel 1933 la casa editrice che porta il suo nome. Dopo aver esordito con la pubblicazione di una rivista («La Cultura»), il giovane editore avvia una serie di iniziative che, rafforzandosi via via, svolgeranno un ruolo decisivo per lo sviluppo della cultura italiana fino ai nostri giorni (si può dire che l’Einaudi abbia fatto conoscere in Italia molti dei testi capitali della cultura straniera). Sul piano della grande editoria di mercato si esaurisce la spinta della casa editrice Treves, che verrà assorbita, nel 1939, dalla Garzanti. Al suo posto si afferma la Mondadori, che, nata nel 1907, finirà
per pubblicare tutti imaggiori scrittori contemporanei, sia quelli consacrati dalla più alta tradizione ufficiale (da D'Annunzio a Pirandello), sia quelli che incontrano i maggiori consensi del pubblico. La Mondadori si pone a capo di un processo di trasformazione dell’editoria in senso modernamente industriale, che raggiungerà la sua più tipica espressione nel dopoguerra (un percorso analogo si può indicare anche per la Rizzoli, che vede la luce nel 1924 occupandosi della pubblicazione di periodici illustrati, per passare poi dal 1929 anche nel campo librario). In questo panorama un ruolo profondamente innovatore viene svolto dalla casa editrice fondata nel 1929 da Valentino Bompiani. In un mercato ormai saturo, egli ebbe il merito di puntare soprattutto sui nuovi narratori, raccogliendo ben presto intorno a sé molti fra gli scrittori più rappresentativi del Novecento: da Alvaro a Brancati, da Moravia a Savinio, da Vittorini a Zavattini (via via fino ai tempi
più recenti, con la pubblicazione del Nome della rosa di Umberto Eco). Bompiani si giovò della loro collaborazione anche per varare importanti collane («Idee nuove», «Pantheon», «Corona»), dando ampio spazio alla traduzione degli autori stranieri e in particolare degli americani, ad opera soprattutto di Vittorini, che lavorò all’interno della casa editrice fino al 1943. Al vertice di questi sforzi e di queste aperture si può collocare il progetto del Dizionario letterario delle opere, dei personaggi e degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature, che, dopo una lunga lavorazione, vedrà la luce nel dopoguerra (su queste vicende si può vedere G. Zaccaria, Introduzione a Caro Bompiani. Lettere con l'editore, Bompiani, Milano 1988).
PERCORSI STORICO-CULTURALI
51
Dal dopoguerra al giorni nostri RISE, FALe strutture politiche, economiche e sociali 1.111 quadro politico. Non è questa la sede per delineare una storia del secondo dopoguerra (né lo spa-
La costituzione repubblicana
Una repubblica democratica parlamentare
La legge elettorale proporzionale
zio ce lo consentirebbe); ci limiteremo pertanto a richiamare alcune linee essenziali del quadro politico, economico e sociale, quelle che possano risultare indispensabili per comprendere i fenomeni culturali e letterari. Il referendum del 2 giugno 1946 proponeva ai cittadini italiani (per la prima volta erano chiamate al voto anche le donne, in precedenza escluse) la scelta tra la monarchia e la repubblica: l’esito delle urne sancì per l’Italia, uscita da vent'anni di dittatura fascista e dall’esperienza traumatica della guerra, l'assetto repubblicano. La costituzione, elaborata da un'assemblea costituente ed entrata in vigore nel 1948, delineava gli ordinamenti di una repubblica democratica di tipo parlamentare. Tenuta ferma la classica divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), il potere esecutivo era affidato ad un consiglio dei ministri con a capo un presidente, nominato dal presidente della repubblica, che per governare aveva bisogno della “fiducia” politica del Parlamento (costituito da due rami, la Camera dei Deputati e il Senato), cioè del voto favorevole di una maggioranza. La legge elettorale con cui le camere erano elette era di tipo proporzionale, cioè ogni lista ottenevai seggi in proporzione ai voti ricevuti (in realtà il sistema per il Senato era uninominale, però, siccome il candidato per essere eletto necessitava di una percentuale molto alta di voti, di fatto anche in questo caso scattava il sistema proporzionale). Queste scelte furono operate dall'assemblea costituente con il proposito di garantire il massimo di democraticità all'ordinamento politico: la repubblica presidenziale (ad esempio di tipo statunitense) avrebbe consentito troppo potere ad un singolo, e ciò destava preoccupazione in chi aveva appena subito l’esperienza della dittatura; a sua volta il sistema proporzionale garantiva che tutte le forze politiche significative del paese fossero rappresentate nel Parlamento (mentre il sistema dei collegi uninominali, quale quello britannico, poteva escludere forze anche numericamente consistenti).
La costituzione repubblicana nasceva dall’incontro delle forze politiche che avevano combattuto il fascismo durante la Resistenza e che avevano trovato espressione nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Ma tra di esse, al di là dell’affermazione delle libertà democratiche, vi erano profonde Ilcompromesso divergenze di orientamento. La carta costituzionale fu un evidente compromesso tra istanze più mocostituzionale derate ed altre di sinistra: da un lato era sancito il principio (di ascendenza liberale) della proprietà tra istanze liberali privata e della libera iniziativa economica, dall’altro si rivendicavano princìpi di eguaglianza propri e democratiche della tradizione democratica ottocentesca, ed infine si proponevano esigenze sociali di tutela del lavoro che miravano a soddisfare le richieste delle forze socialiste e comuniste. Molti articoli della carta rimasero però petizioni di principio, senza trovare pratica attuazione, o trovandola solo a distanza di anni (come ad esempio l'ordinamento regionale). .£ La scena politica, nel corso del mezzo secolo che ci separa dalla fine della guerra, pur subendo inevitabili mutamenti è rimasta abbastanza stabile sino ai primi anni Novanta, conservando la presenza V. DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI
DZ Le forze politiche: la Democrazia Cristiana
Le correnti interne
continua di un certo numero di forze. Il partito di maggioranza relativa è stato costantemente la Democrazia Cristiana. Erede del Partito Popolare fondato da don Luigi Sturzo, si rifaceva alla dottrina sociale cattolica: accettazione dei princìpi del liberismo, ma corretti da istanze di solidarietà che venissero incontro ai bisogni dei ceti più deboli. Si trattava di un partito interclassista, che cioè non voleva rappresentare gli interessi di un solo ceto sociale ma contemperare esigenze diverse, creando un clima di collaborazione tra le varie classi, tra imprenditori e proprietari da un lato e lavoratori dall’altro; un partito quindi di massa, che si basava su una penetrazione capillare nel tessuto sociale. In realtà, nel corso della sua storia, la DC si è rivelata più che altro una coalizione di forze politiche diverse, che andavano da una destra conservatrice ad un centro moderato e ad una sinistra più aperta ad istanze sociali. Negli anni Quaranta e Cinquanta prevalsero gli orientamenti conservatori, mentre dai primi anni Sessanta la DC, alleandosi con il Partito Socialista, ha dato vita ad una serie di gover-
IlPartito Comunista
La svolta moderata
ni di centro-sinistra. Il secondo partito è stato costantemente quello comunista. Nato nel 1921 come partito rivoluzionario della classe operaia, di ispirazione leninista, nell'immediato dopoguerra si presentava ligio alle direttive dell’Unione Sovietica staliniana. In obbedienza alla politica di spartizione delle sfere d’influenza tra le due grandi potenze seguita da Stalin, e sotto la guida duttile e pragmatica di Palmiro Togliatti, rinunciava alla presa del potere attraverso l'insurrezione armata ed accettava le regole del gioco democratico. L'originaria fisionomia bolscevica e rivoluzionaria di fatto si è andata sempre più stemperando in posizioni di tipo riformistico, specie dopo la “destalinizzazione”, avviata da KhruSCiov nel 1956, sicché il PCI è arrivato a scelte come l’accettazione del Patto Atlantico e della NATO, come la proposta di un «compromesso storico» con la DC nel 1973, avanzata dal segretario Enrico Berlinguer sotto l'impressione del golpe militare in Cile, come l’appoggio a governi di solidarietà nazionale negli anni del terrorismo. Questa svolta moderata consentì al PCI forti successi elettorali nelle amministrative del 1975 e nelle politiche del 1976, senza però che gli fosse aperto l’accesso al governo; secondo alcune teorie, anzi, le origini bolsceviche hanno impedito al PCI di proporsi come forza di alternanza alla DC, in obbedienza alle regole classiche del bipartitismo. Lo sfaldamento del regime sovietico in URSS ha determinato una svolta nel partito, che nel 1990 si è dato una nuova organizzazione ed ha assunto un nuovo nome, Partito Democratico della Sinistra, abbandonando decisamente
La scissione
la matrice ideologica marxista. Ciò ha provocato una scissione alla sua sinistra, che ha dato vita ad
IlPartito d'Azione
una nuova formazione, il Partito della Rifondazione Comunista. Una funzione essenziale nella lotta antifascista ricoprì il Partito d'Azione, che aveva le radici nel liberalismo avanzato di Gobetti e nel liberalsocialismo dei fratelli Rosselli; ma questa formazione, che
IlPartito Socialista Italiano
contava tra le sue file il fior fiore dell’intellettualità italiana, masse e nelle elezioni del dopoguerra ebbe scarsissimo peso, in gioco è divenuta il Partito Socialista Italiano. Nato nel 1892 sta, negli anni del dopoguerra, sotto la guida di Pietro Nenni, guito alla denuncia dei crimini di Stalin da parte di KhruSCiov
non seppe trovare un aggancio con le finendo per dissolversi. La terza forza e originariamente di ispirazione marxifu alleato del PCI. Dopo il 1956, in see all’invasione sovietica dell'Ungheria,
si accentuarono al suo interno le spinte all'autonomia dai comunisti e le tendenze riformiste, sicché
nei primi anni Sessanta il PSI entrò nell’area governativa con il centro-sinistra. Una seconda svolta, nel 1976, si è avuta con l’avvento di un nuovo segretario, Bettino Craxi, che ha staccato definitivamente il partito da ogni legame con le posizioni della sinistra storica, proponendolo come portatore delle istanze della modernizzazione tecnologica, del dinamismo sociale e della libera iniziativa (dando però luogo, in tal modo, alle tendenze del “rampantismo”, cioè alla ricerca spregiudicata del potere e della ricchezza, che hanno finito per portare il partito in un vicolo cieco). Al di là di queste forze, tradizionalmente hanno avuto un ruolo sulla scena politicaicosiddetti “par|“partiti laici” minori titi laici” minori, partiti d'opinione, di scarsa consistenza elettorale ma indispensabili per la formazione di maggioranze parlamentari e di governi di coalizione: il Partito Socialdemocratico, nato nel 1947 da una scissione del PSI, il Partito Repubblicano, che si rifaceva alle tendenze mazziniane del Risorgimento, il Partito Liberale, legato invece alla tradizione liberale. Se i partiti che abbiamo sinoITMSI ra elencato si collegavano alla matrice antifascista da cui era nata la repubblica, il Movimento Sociale Italiano, nato nel 1946, si rifaceva invece apertamente all'esperienza fascista, sia pur adattandola ai IlPartito Radicale, tempi mutati. Altre forze poi sono nate nell'arco di questi decenni: il Partito Radicale, che si è proiVerdi, la Lega Nord posto la difesa di certi diritti civili con metodi di lotta non tradizionali (come ad esempio gli scioperi della fame di Marco Pannella), i Verdi, che hanno come obiettivo la tutela dell'ambiente, altre forma-
zioni minori della sinistra nate dal crogiolo del Sessantotto. In questi anni ha acquistato sempre maggior peso un movimento nuovo, la Lega Nord, scaturita originariamente da esigenze autonomistiche
PERCORSI STORICO-CULTURALI
DI
Lacorruzione
delle province più ricche del Nord, insofferenti della dipendenza (soprattutto fiscale) da Roma, ma che poi ha raccolto più vasti consensi, originati dall’indignazione dell’opinione pubblica per la corruzione dominante nel sistema politico. Il quadro che si è fin qui ricostruito è stato infatti investito da un vero e proprio ciclone nel 1992, quando è emerso in piena luce il sistema delle “tangenti” su cui si reggeva il finanziamento dei parti-
delsistema ti, fatto che ha indotto la magistratura a sottoporre ad indagine esponenti di spicco delle forze politi-
este ei che principali. Il sistema era già debole per la sua frammentazione, che non gli permetteva di esprimere governi stabili, per l'inerzia che aveva lasciato marcire i problemi (un debito pubblico astronomico, fonte di squilibrio nell'economia, l’inefficienza dei servizi pubblici, la criminalità mafiosa dilagante). La rivelazione della scandalosa rete di corruzione su cui il sistema si reggeva ha determinato un crollo d’“immagine” dei partiti, ed alcune elezioni amministrative nel corso del 1993 hanno fatto registrare un calo di voti impressionante delle forze di maggioranza. Sulla spinta di un referen-
Lanuova legge dum popolare, le Camere nell'estate dello stesso anno hanno approvato una nuova legge elettorale, elettorale di tipo prevalentemente uninominale maggioritario, con l’intento di rinnovare il quadro politico e di conferirgli maggiore stabilità. . Latrasformazione —A partire dalle elezioni politiche del 1994 il combinarsi della nuova legge elettorale con la crisi dei del quadro politico partiti determinata dalle inchieste della magistratura sulla corruzione ha progressivamente e radidal 199. calmente trasformato il quadro politico sopra delineato. I partiti che avevano costituito le maggioranze parlamentari dalla fine della guerra in poi hanno visto drasticamente ridotti i loro voti e si sono scissi in varie formazioni (ad esempio la DC), oppure sono scomparsi dalla scena politica, confluendo in altri raggruppamenti. All’inizio del 1994, alla vigilia delle elezioni, è nato un partito nuovo, Forza Italia Forza Italia, creato e capeggiato da un imprenditore di successo, Silvio Berlusconi, ed ispirato a concezioni liberistiche, ottenendo immediatamente larghi consensi da parte dell’elettorato moderato ed attirando esponenti dell’ex Dc, del PSI, del PLI. Il Movimento Sociale ha compiuto una svolta in senso liberale, abbandonando i diretti legami con il fascismo e provocando una scissione alla sua destra, Alleanza Nazionale ed ha assunto la denominazione di Alleanza Nazionale. Mentre la Lega Nord, imboccando la strada della secessione, è andata sempre più isolandosi, il sistema politico è venuto avvicinandosi agli scheIlbipolarismo mi del bipolarismo, tipico delle altre democrazie occidentali: da un lato si è collocato il Polo delle liPoloe Ulivo bertà, composto da Forza Italia, Alleanza Nazionale e Centro Cristiano Democratico (proveniente dall’ex DC), dall’altro l’ Ulivo, di cui sono entrati a far parte i Democratici di Sinistra, il Partito Popolare (nato anch’esso dalla scissione della DC), i Verdi e altre forze minori. L'Ulivo ha vinto le elezioni
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del 1996 ed è andato al governo con il sostegno esterno del Partito della Rifondazione Comunista, mentre il Polo si è attestato all'opposizione (tuttavia il sistema non si è rivelato stabile: dal 1998 due crisi hanno nuovamente modificato la coalizione di governo). Nel 2001 poi le elezioni politiche hanno riportato al potere il centrodestra, che ha ricuperato l'alleanza con la Lega Nord, tornata su posizioni federaliste.
1.2 Trasformazioni economiche e sociali. Il paese era uscito prostrato dalla guerra. I primi anni
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Lanenmnzon postbellici furono quindi segnati dal faticoso processo della “ricostruzione”: si trattava di ricostruire il tessuto urbano distrutto dai bombardamenti, ripristinare strade, ponti, ferrovie, riavviare la produzione industriale ed agricola, rimettere in piedii servizi essenziali, l’amministrazione pubblica, gli ospedali, le scuole, il sistema finanziario e creditizio. Il paese si riprese anche grazie ad un piano di massicci aiuti americani, il piano Marshall (l’Italia era un avamposto dell'Occidente ai confini con l'Est comunista, quindi la potenza USA aveva interesse a garantire la sua stabilità interna e la sua feGli'indirizzi liberisti deltà alle alleanze). La ricostruzione economica seguì indirizzi schiettamente liberisti: le forze produttive furono cioè lasciate libere di espandersi senza alcun intervento di regolamentazione e di programmazione statale. L'indirizzo liberista fu assunto dallo statista che in quegli anni reggeva il governo, il democristiano Alcide De Gasperi, su ispirazione di un economista liberale come Luigi Einaudi (che rivestì anche la carica di Presidente della Repubblica). Furono anni duri, di sacrifici e di miseria, soprattutto per i ceti più deboli, ma il paese, pur ferito profondamente dalla guerra, aveva ancora grandi risorse al suo interno, capacità di iniziativa e di lavoro. In quegli anni si verificò quindi un'accui L'accumulazione, mulazione che fu la premessa di un vero e proprio “decollo” economico successivo. Questa accumu-
premessa lazione fu favorita dal bassissimo costo della mano d’opera e dalla sua sovrabbondanza, che consen-
del ‘decolo’
t;rono alti profitti e misero a disposizione cospicui capitali per investimenti, rendendo altresì iprodotti italiani competitivi sui mercati esteri (che nel frattempo si andavano aprendo con la riduzione delle barriere doganali e la formazione di un “mercato comune europeo”). L'effetto di questo processo di
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V. DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI
DOH Ilboom degli anni Cinquanta
accumulazione si fece sentire a metà degli anni Cinquanta, quando cominciò a delinearsi un vero boom, cioè una crescita di eccezionale rapidità: ebbero avvio gli anni del cosiddetto “miracolo”, che determinò non solo nella vita economica, ma anche nella società, nel costume, nella mentalità degli italia-
ni trasformazioni radicali e profonde, da cui uscì un paese totalmente rinnovato. Sostanzialmente vi fu una nuova rivoluzione industriale: fra il 1958 e il 1963 la produzione di questo settore crebbe addirittura del 70%. L'Italia divenne esportatrice di prodotti industriali ad alto contenuto tecnologico: il valore delle esportazioni tra il '57 e il 61 raddoppiò. L'Italia insomma, che ancora nel ventennio faL'Italia diviene scista era un paese prevalentemente agricolo, divenne un paese industriale moderno, avvicinandosi un paese industriale al modello delle nazioni più avanzate dell'Occidente. Gli effetti sociali furono egualmente profondi: vi fu un massiccio trasferimento di lavoratori dall’agricoltura all'industria, con un conseguente spostamento dalle campagne alle città. Gli italiani dei ceti popolari e piccolo borghesi, abituati ad un’esiL'urbanesimo e il“benessere”
stenza caratterizzata dalla penuria, scoprirono il “benessere”, la possibilità di fruire di certi beni, il frigorifero, la lavatrice, la televisione (che iniziò le sue trasmissioni proprio a metà degli anni Cinquanta), l'automobile (in un decennio, tra il '52 ed il ’62, le auto circolanti passarono da 613.000 a
3.800.000), la vacanza al mare o in montagna. Si spendeva di più per l'alimentazione, l’abbigliamento, i divertimenti.
Ma l’euforia non lasciava vedere ai più i risvolti negativi del sistema (che pure furono subito individuati dagli uomini di cultura più avvertiti e più critici). In primo luogo il consumismo. I beni prodotti non servivano solo a soddisfare i bisogni reali: l'apparato industriale tecnologizzato ne produceva una massa tale che non poteva essere assorbita integralmente dal mercato, quindi dovevano essere creati bisogni artificiali, i cittadini dovevano essere spinti a comprare cose non necessarie; in secondo luogo essi erano costretti a cambiare continuamente i loro beni a causa del mutamento rapido e incesLo “spreco pianificato” sante dei modelli: il sistema della produzione e del consumo si reggeva cioè su uno “spreco pianificato”. Per indurre il consumatore a comprare, uno strumento potente era costituito dalla pubblicità, di cui la neonata televisione si offriva come veicolo principale. L'individuo era così privato di una fondamentale libertà di decisione e di scelta, veniva condizionato nel profondo, senza che se ne rendesse ben conto, riducendosi a docile strumento dell’apparato produttivo. Vari intellettuali del tempo, tra cui soprattutto Pasolini, misero in luce come ne derivasse un appiattimento dell’individualità e un ottundimento delle capacità critiche, un’alienazione della persona negli oggetti, nelle merci. Si sottoliL’omologazione neava inoltre che il consumismo determinava una generale omologazione di comportamenti, gusti, generale stili di vita, modi di pensare, e che tale omologazione svuotava e distruggeva un patrimonio culturale di antiche tradizioni, caratteristico delle varie zone del paese, in primo luogo nella civiltà contadiLa modernizzazione na, che venne spazzata via nel giro di pochi anni. È pur vero però che lo sviluppo portò ad una modei costumi dernizzazione dei costumi, che cominciarono a liberarsi di certe sovrastrutture arcaiche ancora gravanti sulla vita sociale italiana: la mentalità si fece più aperta, e se ne avvantaggiarono due settori della popolazione che tradizionalmente erano assoggettati al sistema patriarcale autoritario, le donne e i giovani (l'emancipazione fu favorita dalla scolarizzazione di massa, che, come vedremo più avanIrisvolti negativi: ilconsumismo
ti, innalzò sensibilmente il livello medio di istruzione). L'emigrazione interna
”
Ma il risvolto sociale più negativo del boom fu forse l'emigrazione interna. Lo sviluppo concentrato soprattutto nel Nord della penisola, e in particolare nel triangolo industriale costituito da Milano, Torino e Genova, aveva bisogno di una quantità enorme di manodopera: questa proveniva in buona parte dalle campagne delle stesse regioni settentrionali, ma in misura ben maggiore dal Sud. Nel giro di pochi anni masse imponenti di italiani delle regioni meridionali si trasferirono al Nord per cercare lavoro. Fu un distacco traumatico dal proprio paese, dai propri costumi, dalle proprie tradizioni, dal proprio dialetto. Gli immigrati, provenienti spesso da un mondo contadino ancora arcaico, si trovarono di colpo inseriti nel tessuto della metropoli industriale e dovettero affrontare non solo disagi materiali (in molti casi ad esempio dovettero ridursi a vivere in case malsane e cadenti), ma anche pa-
La crescita delle città industriali
Lo sviluppo della motorizzazione
tire difficoltà di adattamento a ritmi di vita e a mentalità diverse, andando incontro ad ostilità e incomprensioni. Le città industriali del Nord crebbero rapidamente e spropositatamente: nacquero in poco tempo sterminate e squallide periferie, frutto di colossali speculazioni edilizie. I servizi sociali, scuole, ospedali, trasporti erano carenti. Queste periferie invivibili creavano disadattamento ed emarginazione, specie nei giovani, determinando l’incremento della delinquenza e, in anni più recenti, la diffusione della droga, di cui la delinquenza si è alimentata. Il modello di sviluppo, incentrato soprattutto sull'industria dell'automobile, favorì la motorizzazione privata a scapito dei trasporti pubblici, con il risultato di un traffico caotico, di livelli altissimi di inquinamento atmosferico, di cui oggi
paghiamo le conseguenze. PERCORSI STORICO-CULTURALI
DI L'urbanesimo, il concentrarsi della popolazione nelle metropoli industriali (o comunque nei grandi centri), determinò lo spopolamento delle campagne, non solo al Sud, ma anche al Nord, il declino Ildislivello tra Nord e Sud,
la mafia
Ilciclo recessivo L'“autunno caldo” del’69 e la crisi degli anni Settanta
Ilnuovo consumismo
degli anni Ottanta
La fase post-industriale
di antichi centri abitati. Non solo, ma lo sviluppo accelerato del Nord accentuò il dislivello preesistente rispetto al Mezzogiorno: la “questione meridionale”, con il boom economico, lungi dal risolversi si aggravò. Nella disgregazione del tessuto sociale del Sud ha così avuto modo di accrescere la sua forza la criminalità organizzata, che è divenuta un vero e proprio potere parallelo, capace di penetrare in tutti i settori, di stringere collusioni anche col potere politico (locale e nazionale), dando luogo ai risultati che sono a tutti noti. A cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta si delineava in tal modo la fisionomia dell’Italia attuale, con tutti i suoi problemi e le sue contraddizioni. I governi di centrosinistra, a partire dal 1963, tentarono di avviare una programmazione economica che regolasse un processo economico selvaggio, mairisultati, per molti motivi, furono scarsi. Per di più sin dal 1964 il boom cominciò a segnare il passo, secondo l’andamento ciclico di sviluppo e recessione che è proprio di ogni economia di mercato. La crescita, che sembrava inarrestabile, perse colpi. Si determinarono tensioni sociali, che divennero forti soprattutto a partire dall'autunno del 1969, il cosiddetto “autunno caldo”, segnato da duri conflitti sindacali. Gli anni Settanta furono anni difficili, caratterizzati da un’inflazione galoppante, indotta dalla crisi petrolifera e dall'aumento vertiginoso dei prezzi del greggio. Parallelamente si registrò anche una grave crisi politica: furono gli anni delle stragi, della “strategia della tensione”, del terrorismo fLa congiuntura economica negativa cessò negli anni Ottanta che, in concomitanza con una situazione favorevole a livello internazionale, conobbero una fase di ripresa. Ad essa si associò un nuovo consumismo esasperato, caratterizzato dalla ricerca del successo, dell’affermazione individuale, della ricchezza ad ogni costo e con ogni mezzo, anche il più spregiudicato. Dopo la ventata di sinistra che si era avuta in conseguenza del Sessantotto, furono gli anni del “riflusso”, della crisi delle ideologie, della fine di un certo spirito di partecipazione e solidarietà sociale, e quindi si assistette ad un ritorno al privato, all’individualismo egoistico ed edonistico, con un conseguente impoverimento dei valori. Parallelamente anche l’Italia si avviava alla fase cosiddetta post-industriale: da un lato l’industria, ormai altamente tecnologizzata e automatizzata, impiegava un numero sempre minore di persone, attuando drastiche ristrutturazioni, dall'altro si aveva un'espansione enorme del settore ter-
Ilciclo recessivo degli anni Novanta
La riduzione del deficit e ilcontenimento dell'inflazione
L'Italia e la moneta unica
La globalizzazione e la disoccupazione
La recessione mondiale nel 2001
ziario, cioè dei servizi, come in tutti i paesi più avanzati. Procedeva intanto la rivoluzione informatica, che trasformava radicalmente il modo di lavorare, di comunicare, di pensare. Il ciclo economico è tornato negativo nei primi anni Novanta, in cui tutto l'Occidente industrializzato ha conosciuto una delle recessioni più gravi della sua storia. La congiuntura internazionale in Italia è stata aggravata dalle caratteristiche strutturali del sistema, soprattutto da un-debito pubblico folle che assorbiva risorse finanziarie impedendo investimenti produttivi. A causa della recessione la disoccupazione è cresciuta generando nuovamente forti tensioni sociali. D'altro lato lo Stato, per evitare la bancarotta, è stato costretto ad inasprire oltre il sopportabile la pressione fiscale con interventi straordinari. In conseguenza della crisi, della disoccupazione e di questa pressione fiscale il tenore di vita degli italiani si è abbassato sensibilmente. La caduta della domanda di beni e di servizi ha determinato un calo della produzione, e questa ha creato ulteriore disoccupazione, in un ciclo perverso. Nella seconda metà degli anni Novanta le linee della politica economica hanno perseguito essenzialmente gli obiettivi di una riduzione del deficit nel bilancio dello Stato e di un contenimento dell’inflazione. Queste esigenze si imponevano soprattutto perché l’Italia aveva aderito, con altri paesi dell’Unione Europea, al trattato di Maastricht, finalizzato alla creazione di una moneta unica europea, che esigeva stabilità finanziaria da parte dei partecipanti. I due obiettivi sono stati raggiunti dal governo di centro-sinistra presieduto da Romano Prodi e l’Italia nel 1998 è entrata a far parte dell’area dell’“euro” (che è divenuto moneta unica ufficiale dell’Unione Europea a partire dal 1° gennaio 2002). Nel frattempo, nonostante gli effetti restrittivi delle misure di risanamento, si è avviata anche
una certa ripresa della-crescita economica, non tale però da determinare una forte crescita dell’occupazione. La globalizzazione dell'economia, infatti, induce le imprese, per sostenere la concorrenza internazionale, a ridurre i costi, investendo in razionalizzazioni della produzione (come l’automazione) che, aumentando la produttività, diminuiscono la forza lavoro impiegata. Il problema della disoccupazione, drammatico soprattutto nel Sud e tra i giovani, è uno dei più gravi ed urgenti che l’Italia si trovi ad affrontare. Nel settembre del 2001 una tendenza mondiale alla recessione è stata aggravata dall’attentato terroristico al World Trade Center di New York e dalla guerra in Afghanistan, e le ripercussioni si sono fatte sentire anche sull'Italia, con un rallentamento della crescita prevista. V. DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI
56 L'immigrazione clandestina
NA
L'Italia di questi anni ha conosciuto un altro grave problema, la massiccia e inarrestabile immigrazione clandestina dai paesi dell'Est europeo, dell’Africa, dell'Asia, dell'America Latina. Le masse degli immigrati da un lato sono state vittime di forme vergognose di sfruttamento, dall’altro, com’era fatale, sono andate ad alimentare la delinquenza, dando quindi adito a tensioni sociali ed innescando fenomeni di xenofobia e razzismo in precedenza ignoti all'Italia. =}
Le istituzioni culturali
2.1 l'editoria. In questo dopoguerra proseguono la loro attività le più importanti case editrici nate fra le due guerre, alcune di grandi dimensioni e dall’organizzazione industriale, come Mondadori e Rizzoli, altre di dimensioni più artigianali, come Bompiani, Garzanti, Einaudi. Le case maggiori divengono dei maggiori veri e propri colossi dalla produzione estremamente differenziata, che va dalla narrativa italiana e e la diversificazione straniera ai classici, alla saggistica, ai manuali, alla letteratura di massa; al di là dei libri, la loro atdel prodotto tività si estende poi ai rotocalchi di informazione e popolari, ai quotidiani, ai fumetti. Con la recente acquisizione della Mondadori da parte della Fininvest si è venuta anzi a creare una vasta concentraLe case editrici
zione multimediale, che unisce libri, giornali, reti televisive, distribuzione cinematografica: in tal mo-
Le case editrici di cultura
do i vari prodotti possono godere di numerosi canali di promozione che si intersecano (in particolare quello più potente e a penetrazione più capillare, la televisione, può propagandare libri, riviste, film). Le grandi case editrici offrono così sul mercato una massa di prodotti dai livelli più diversi, dal saggio di elevato valore culturale al romanzo giallo o di spionaggio al rotocalco. Anzi, proprio i prodotti più commerciali consentono di tenere in piedi iniziative, come le collane di classici e di saggistica, che sono inevitabilmente in perdita. Una fisionomia culturale più definita possiedono le case editrici “medie”. Case come Einaudi, Garzanti, Bompiani hanno rivestito un ruolo centrale nella cultura italiana, diffondendo i libri che più hanno contato, nella narrativa come nella saggistica. Ad esse nel dopoguerra si sono aggiunte molte iniziative nuove. Citiamo ad esempio la Feltrinelli, nata nel 1955, che ha pubblicato grandi best-sellers come // Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o // dottor Zivago di Pasternak o Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez, ma è stata anche l’editrice della neo-avanguardia; la Adelphi, fondata nel 1962 da un transfuga della Einaudi, Luciano Foà, casa estremamente raffinata e di alto livello intellettuale,
che ha soprattutto contribuito a diffondere la cultura mitteleuropea, conquistando con il rigore delle sue scelte un vasto pubblico. Tutte le case editrici citate operano sia nel settore della narrativa sia in quello della saggistica; specializzate nella saggistica o nei classici sono invece case come Laterza, Il Mulino, Sansoni, La Nuova Italia, Mursia; altre, come Bulzoni o Liguori, si rivolgono ad un circuito
prevalentemente universitario. Un fenomeno interessante di questi anni, che testimonia la vitalità della cultura italiana nonostante i molti fattori avversi che ostacolano la diffusione del libro (cfr. il sucLe piccole case cessivo $ 2.2), è il sorgere di una miriade di piccole case editrici dalle iniziative coraggiose, che haneditrici no saputo scoprire e valorizzare autori o filoni letterari del passato raffinati ma dimenticati, o trascurati dall’editoria maggiore, oppure ancora proporre interessanti autori nuovi. Tra le tante ricordiamo almeno la Sellerio di Palermo, nata nel 1969, con la collaborazione di Leonardo Sciascia. Si tratta di
La tendenza alla concentrazione
|best-sellers
un’editoria fatta con passione e intelligenza, che si trova sempre sul filo della sopravvivenza per problemi di finanziamento e di distribuzione. Spesso queste piccole case editrici, pur conservando il loro “marchio”, sono costrette ad appoggiarsi alla rete distributiva delle maggiori, o sono a volte di fatto inglobate da esse. Anche nel settore editoriale si manifesta la tendenza alla concentrazione, tipica dell’industria moderna: per reggere alla sfida tecnologica e per resistere sul mercato le varie case sono costrette ad associarsi o a fondersi. Abbracciando con uno sguardo complessivo la politica editoriale italiana di questi decenni, due fenomeni soprattutto si impongono all'attenzione. Il primo è l’avvento dei best-se/lers, libri di successo che riescono a raggiungere un numero altissimo di copie vendute, dell’ordine delle centinaia di migliaia. Si tratta per lo più di romanzi, il genere più agevolmente letto e più gradito ai vari strati di pubblico: ricordiamo ancora Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, poi I/ giardino dei Finzi Contini di Bassani, Za ragazza di Bube di Cassola, Il dottor Zivago di Pasternak, Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez, La storia della Morante, L'insostenibile leggerezza dell'essere di Kundera, Il nome della rosa di Eco. Ma possono diventare best-se/lers libri di giornalisti famosi (Biagi, Bocca, Pansa), che trattano argo-
menti di stretta attualità, oppure una saggistica all’acqua di rose, che fornisce al pubblico rassicu-
CO-CULTURALI
37 ranti banalità. Le ragioni che fanno di un libro un best-seller sono spesso difficili da cogliere. Non è affatto detto che il libro in cima alle graduatorie delle vendite sia un’opera di puro consumo, che solle-
tichi spregiudicatamente i gusti più facili del pubblico: ne sono un esempio // nome della rosa di Eco, Diceria dell’untore di Bufalino, Le nozze di Cadmo e Armonia di Calasso, libri colti, raffinati, anche dif-
ficili a volte; e comunque, a partire dagli anni Sessanta, il best-seller si distingue per essere “di quaLeragioni lità”, cioè per avere una esteriore dignità letteraria. Ma sicuramente il successo non è mai casuale: il delsuccesso Jibro che vende, di qualunque livello e valore sia, tocca sempre qualche corda segreta del pubblico, dà corpo ad aspettative profonde. Concorre, certo, il lancio pubblicitario, ma non è determinante. // nome della rosa non uscì come best-seller annunciato, l'editore calcolava di venderne al massimo diecimila copie: in quel caso il successo è stato un meccanismo a valanga autoalimentatosi. In ogni caso lo studio delle ragioni di un clamoroso successo di vendite, condotto con gli strumenti della sociologia, della psicologia di massa, della psicanalisi, della semiotica, consente sempre una radiografia profonda della società e della mentalità di un determinato momento storico. Ildiffondersi —L’altro grande fenomeno che ha caratterizzato questi decenni è stato il diffondersi dei tascabili. Sin
dei tascabili dall’immediato dopoguerra esistevano collane che offrivano classici della letteratura mondiale di tutti i tempi a prezzi contenuti: la BUR, Biblioteca Universale Rizzoli (un volumetto singolo negli anni Cinquanta costava cinquanta lire!) e la BMM, Biblioteca Moderna Mondadori. Soprattutto la BUR ha offerto a generazioni di studenti la possibilità di formarsi una biblioteca, rivestendo una funzione culturale e sociale di inestimabile portata. Ma il vero boom dei libri economici si ha negli anni Sessanta, ed è legato al “benessere” e al diffondersi della scolarizzazione, che aumentano la domanda culturale. Si moltiplicano, in accanita concorrenza fra di loro, le collane di tascabili, che arrivano ad essere
vendute persino nelle edicole. La più diffusa è stata la collana degli «Oscar Mondadori», che offre, accanto a romanzi moderni italiani e stranieri, classici di ogni epoca, saggi, manuali; ma vanno ricordati i«Grandi libri» Garzanti, i «Tascabili Bompiani», l’«Universale Economica» Feltrinelli, la «Grande Universale» Mursia. Anche la gloriosa BUR negli anni Settanta si è riproposta in una nuova veste. Sono collane che offrono, a prezzi accessibili, testi accurati, con pregevoli apparati critici, dovuti a studiosi di prestigio. Ultimamente si è aggiunta un'iniziativa che ha raggiunto un successo strepitoso, Itascabili amille ire quella dei tascabili a mille lire, lanciati dalle edizioni di Stampa Alternativa e imitati dalla Newton Compton. È un prezzo incredibile, consentito solo da tirature altissime (ma anche da una veste grafica povera e da una cura dei testi non di prim'ordine). Un'altra iniziativa di larga diffusione è quella dei volumi a dispense, venduti nelle edicole, che offrono enciclopedie, manuali, classici. Lanascita In conclusione, si può dire che nel dopoguerra si sia veramente creata in Italia un'industria cultu-
dell'industria culturale rale, con il relativo mercato; il libro è diventato una merce in tutto e per tutto, nel bene come nel male: da un lato è infinitamente più accessibile a chiunque, ma dall'altro, dovendo sottostare alle leggi spietate del mercato, rischia sempre di scadere di qualità, o di snaturarsi del tutto, perdendo la sua fisionomia culturale. Resta da vedere in che misura il pubblico dei lettori italiani abbia risposto a questa “offerta” enormemente accresciuta.
2.2 Il pubblico. Il presentarsi di una serie di fattori, nel periodo che stiamo esaminando, ha creato le preIfattori diunpotenziale Gago ;
messe per un sensibile allargamento del pubblico rispetto al periodo fra le due guerre: la scolarizzazione di massa e l’alfabetizzazione quasi totale della popolazione; la maggiore disponibilità economica all’acquisto di libri da parte dei ceti medio-bassi, grazie al cresciuto tenore di vita; il maggior tempo libero, per la riduzione dell’orario di lavoro e la diffusione del fine settimana lungo; l’estendersi e la maggior penetrazione dei canali di promozione (basti pensare alla forza di persuasione della televisione). L'allargamento si è effettivamente verificato, ma non in misura così vistosa come sarebbe
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stato lecito aspettarsi. Gli italiani, pur con un tenore di vita pari o di poco inferiore a quello di altri Gliitaliani paesi industriali avanzati, leggono molto meno; e non solo i ceti inferiori, meno acculturati, ma anche
leggono pochi libri i ceti medio-alti, forniti magari di cultura universitaria. Le spiegazioni del fenomeno possono essere
molteplici: poiché in Italia un vero sviluppo in senso moderno si è verificato solo in anni recenti, gli italiani sono arrivati più tardi alla condizione di potenziali lettori, e quindi l'abitudine alla lettura non è una tradizione profondamente radicata nel costume; una parte di responsabilità è anche da attribuire alla scuola, che evidentemente non ha saputo stimolare il gusto della lettura (e qui può aver pesato la mancanza di una riforma della scuola superiore); inoltre imezzi di comunicazione di massa più diffusi, come la televisione, danno pochissimo spazio all’informazione sui libri (che non fanno au-
dience), anzi, proponendo prevalentemente spettacoli di intrattenimento, fanno concorrenza alla lettura; si è venuto così a creare un circolo perverso: siccome i lettori sono pochi, le trasmissioni sui lieeee e e e e ee e)
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V. DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI”
58 bri hanno poco spazio, ma poiché esse hanno poco spazio non contribuiscono ad incrementare il gusto di leggere (una situazione ben diversa presenta ad esempio la Francia, dove una trasmissione sui Ilpubblico dei lettori libri, Apostrophes, per anni ha richiamato milioni di spettatori). Di conseguenza il pubblico dei lettori abituali è limitato abituali resta in Italia abbastanza limitato. In molte case il libro è assente, un gran numero di persone non arriva a leggere un libro all'anno. Per molti, la lettura si limita a rotocalchi popolari o scandalistici, giornali sportivi, fumetti, romanzi rosa del tipo «Harmony» (che, oltre a presentare intrecci e personaggi stereotipati, usano un vocabolario poverissimo, di non più di cinquecento parole). Per restare nel campo dei libri, uno strumento per capire gli orientamenti e i gusti del pubblico è Le classifiche fornito dalle classifiche che compaiono settimanalmente sui supplementi letterari dei maggiori quodei libri più venduti tidiani (anche se i dati sono da prendere con cautela, poiché non vanno esenti dal sospetto di manipolazioni interessate: far comparire un titolo in cima alle classifiche èun mezzo sicuro per farlo venIgeneri più diffusi dere di più). Ovviamente, i libri più diffusi appartengono ai generi che più scopertamente puntano all’intrattenimento: polizieschi, spionaggio, avventura, fantascienza, brivido e mistero. Sono prodotti che possono anche essere abilmente confezionati, con tecniche narrative scaltrite, persino cOn sotti-
Il“best-seller
di qualità”
le intelligenza. In questo settore si ha un netto predominio della produzione straniera, americana, inglese, francese. In Italia lo scrittore è molto legato ad una tradizione umanistica, perciò disdegna di dedicarsi a generi scopertamente commerciali: anche se scrive opere in definitiva destinate al consumo, deve sempre ammantarsi dell’“aura” dello scrittore “vero”. Sul mercato compaiono così romanzi che si presentano non come onesti prodotti di intrattenimento, ma con ambizioni “letterarie”. È quello cheè stato definito il “best-seller di qualità”.”. In realtà la sostanza di queste opere è puramente commerciale, i personaggi sono stereotipati, i temi sono triti luoghi comuni, le trame banali, le tecniche narrative abusate, però il tutto assume l'aspetto esteriore del “letterario”. Il lettore che le compera crede in buona fede di leggere letteratura autentica (e magari l’autore stesso crede in buona fede di aver scritto un’opera letteraria). Sono casi ben diversi dalla produzione dichiaratamente di consumo di cui si parlava prima, che si presenta per quello che è (e talora rivela intelligenza, spirito, abilità letteraria ben maggiori). Si tratta di fenomeni che possono rientrare nella categoria del Kifsch o, per ricorrere ad un termine di significato analogo in uso negli Stati Uniti, del midcult. Questo tipo di prodotti raggiunge una fascia di pubblico nient’affatto sprovveduta, dotata di buona cultura. Una parte notevole della narrativa recente, di cui si occupano le recensioni dei giornali, appartiene a questa categoria. Le opere autenticamente letterarie, dotate di un impegno conoscitivo e problematico, con soluzio-
L'elite colta
ni narrative e stilistiche innovative, hanno di norma un pubblico ristretto, si rivolgono ad un'élite col-
Ilpredominio
ta. Ma i misteri del mercato producono a volte fenomeni sorprendenti: opere del genere possono conquistare il successo presso il grande pubblico, come nei casi già ricordati della Diceria dell’untore o delle Nozze di Cadmo e Armonia (il caso del Nome della rosa è un po’ diverso, in quanto il romanzo di Eco gioca scaltramente su due piani: pur essendo un'operazione sottilmente intellettualistica, usa gli strumenti comunicativi della letteratura di consumo, come il “giallo”). Le preferenze dei lettori vanno comunque in ogni caso, si tratti di letteratura “alta”, “media” o “bassa”, alla narrativa: il predominio del genere romanzo è ormai incontrastato. I lettori di poesia sono una minoranza esigua (si direbbe che coloro che scrivono versi siano in numero ben maggiore di coloro che li leggono, a giudicare dai manoscritti che inondano le case editrici). Anche la saggistica ha un pubblico strettamente specialistico: docenti, studenti, professionisti. L'unica forma di “saggistica” che ottiene un successo di massa è costituita dagli instant books dedicati a problemi di immediata attualità.
del romanzo
2.3 | giornali. Come il pubblico dei lettori di libri, resta ristretto in Italia quello dei giornali: i più diffusi, Ilpubblico ristretto dei giornali
L'“Indipendenza” dei mezzi di informazione
«Il Corriere della Sera» e «La Repubblica», stentano a toccare il milione di copie. In Inghilterra certi quotidiani raggiungono anche i quattro milioni: ma occorre precisare che si tratta di giornali di basso livello, che puntano esclusivamente sul pettegolezzo e lo scandalo: in confronto, perciò, i giornali italiani, per quanto poco diffusi, appaiono comunque di livello culturale molto più dignitoso. La tanto conclamata “indipendenza” degli organi di informazione, che dovrebbe essere uno dei pilastri del-
la vita democratica, è però più apparente che reale. I giornali sono per lo più di proprietà delle grandi forze industriali, o legati ai centri del potere politico, quindi sono inevitabilmente, in forma più o meno diretta, portavoce dei loro interessi. Spesso anzi si svolgono oscure manovre per il controllo di certe testate: controllo indispensabile per orientare l'opinione pubblica in determinate direzioni. Esemplare è stata negli anni Settanta la vicenda del «Corriere della Sera», al centro delle attenzioni della loggia massonica P2, in cui si raccoglievano poteri occulti e pericolosi per la stabilità democratica. È
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59 difficile perciò trovare sui giornali un'autentica informazione critica. Del resto le tecniche per indirizzare il lettore meno avvertito verso certe posizioni sono sottili: basta l'accostamento di due articoli nella stessa pagina, o l’uso di certe immagini abbinate a certi titoli, oppure, semplicemente, basta non dare la notizia, o relegarla in zone marginali. Il lettore più ingenuo è portato a prendere il “suo” giornale, quello che legge abitualmente, come la fonte della verità, senza mai metterlo in discussione, mentre sarebbe auspicabile leggerlo sempre criticamente, disponendo di strumenti di decodificazione scaltriti almeno quanto gli strumenti con cui viene trasmesso il messaggio. I giornali hanno sempre svolto, dalle origini, un'importante funzione culturale. Un tempo la “terza Le pagine culturali pagina” era abitualmente dedicata alla cultura, mentre ora i principali quotidiani dispongono di spazi appositi ben più ampi, in cui compaiono articoli di letteratura, arti, spettacolo, filosofia, scienze. Per acquistare prestigio, le varie testate si contendono le firme degli scrittori e degli studiosi più affermati. Alcuni giornali pubblicano anche supplementi specificamente dedicati ai libri e ai fatti culturali. Anche in questo settore ogni giornale ha una sua politica, che si manifesta nel privilegiare livelli più popolari o livelli più elitari di pubblico, nel dare più rilievo ad un indirizzo letterario e filosoLe recensioni fico o ad un altro. Le recensioni dei libri sono importanti per orientare i lettori e per decretare il successo di un’opera. Tale funzione di orientamento dovrebbe scaturire dal libero convincimento del recensore; in realtà anche il critico più indipendente subisce inevitabili condizionamenti, attraverso le sue relazioni personali, i legami con l'editoria (se è consulente della casa editrice che pubblica il liLe tecniche per indirizzare l'opinione
bro da recensire se la sentirà di stroncarlo, nel caso meriti la stroncatura?). Ciò significa che anche
le recensioni dei libri vanno sempre lette con spirito critico. 2.4 La televisione. Questo mezzo di comunicazione di massa per eccellenza si è imposto in Italia a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Il suo potere nell’influenzare opinioni, gusti, comportamenti, linguaggi è immenso, come ognuno può constatare nella sua esperienza quotidiana. Gli effetti che ha prodotto e produce possono essere positivi, ma anche estremamente pericolosi. È uno strumento di informazione alla portata di tutti, quindi costituisce un indispensabile mezzo di contatto col mondo: eventi che si verificano in luoghi lontanissimi possono essere conosciuti in tempo reale; l’informazione ha così raggiunto dimensioni planetarie, tutti sono in grado di sapere subito quanto avviene in ogni parte della terra (è il «villaggio globale» di cui parla McLuhan). Ciò ha mutato profondamente il rapporto degli uomini con la realtà, ha cambiato la loro nozione del mondo. Grandi masse di popolazione, che fino a qualche decennio fa erano escluse dalla storia (si pensi solo al modo in cui è visto il
Ilpotere della televisione; glieffetti positivi
fascismo dai «cafoni» in Fontamara di Silone), ora possono venire a contatto con essa. In secondo luo-
go la televisione ha dato un contributo decisivo all'affermazione della lingua nazionale, dalla cui conoscenza ampi settori della popolazione fino a non molto tempo fa erano esclusi, restando relegati in un universo soltanto dialettale. Ma i pericoli insiti nella televisione sono molti. Il messaggio televisivo, con il suo potere di suggestione, impone modelli, livella igusti individuali, genera conformismo, adeguazione passiva a certi standard di opinione e di comportamento, ottundendo lo spirito critico; arriva a divenire quasi una droga, specie per soggetti deboli come i bambini, provocando quel fenomeno che è stato definito teledipendenza; attraverso questa generale omologazione distrugge le diversità locali, cancella e svuota culture antiche; oltre a modi di pensare livellati impone una lingua stereotipata e povera; crea bisogni fittizi, soprattutto attraverso la martellante pubblicità, offrendosi come strumento ideale del consumismo. Non solo, ma entrare in contatto col mondo attraverso lo schermo televisivo abitua ad avere a che fare con immagini, anziché con oggetti reali, per cui alla lunga diviene difficile distinguere il simulacro dalla realtà: si scambiano le pure immagini per cose reali, ma viceversa si trattano le cose reali come immagini. La televisione poi ha immense possibilità di L'illusione manipolazione del reale. Essa dà l’impressione di assistere direttamente ai fatti: quale maggiore obietdell’obiettività tività di informazione si potrebbe auspicare? Ma questa non è che un'illusione: basta un certo mondell'immagine taggio delle immagini, che escluda certi fatti e ne alteri la successione temporale, oppure, nella ripresa diretta, basta inquadrare l’oggetto in un certo modo, esaltando un dettaglio od escludendone un altro, per dare una determinata interpretazione della realtà. Quindi, nella migliore delle ipotesi, ciò che lo schermo mostra non è mai un fatto, ma un’interpretazione soggettiva di esso (senza contare che l’immagine che ci appare può essere falsa, costruita).
Gli effetti negativi
Ilmonopolio televisivo di Stato
In Italia, dal suo sorgere, la televisione è stata monopolio di Stato, in quanto ritenuta servizio pub-
blico. Il che vuol dire che rispondeva agli orientamenti ideologici e ai gusti del partite di maggioranza: negli anni Cinquanta-Sessanta era una TV austera e morale, “per famiglie”, ossequiosa verso i valori correnti e le istituzioni. La censura era severa, e non solo nel tutelare il pudore, ma anche nell’eV. DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI
60 scludere ogni forma di scomodo dissenso. L'evoluzione del costume e degli equilibri politici ha portato a poco a poco ad una maggiore apertura, facilitata anche dalla comparsa di vari canali. Dal 1976, poi, una riforma ha consentito l’accesso al mezzo a più voci, espressioni di vari orientamenti ideoloLa “lottizzazione” gici presenti nella società; questo però ha dato origine ad un altro fenomeno negativo, la “lottizzazione”, cioè la spartizione dei canali fra itre partiti maggiori. Nel 1993 è stata introdotta una nuova riforma, con l'intento di ovviare a questa indebita “occupazione” del mezzo televisivo da parte delle forze politiche. Dalla fine degli anni Settanta si è anche verificato un fenomeno di grande rilievo: la fine del moLe televisioni private nopolio statale ed il sorgere di televisioni private, commerciali. Il fatto è stato salutato da molti con entusiasmo, come fonte di pluralismo democratico, di maggior libertà di espressione. Tuttavia, dovendosi sostenere con la pubblicità, le televisioni private hanno dovuto tener conto esclusivamente degli indici di ascolto, quindi hanno puntato a compiacere i gusti più corrivi del pubblico. Il livello culturale di tali televisioni pertanto non si può definire molto elevato; non solo, ma invece di idee nuove,
originali, anticonformiste, si è imposta una piattezza conformistica ancor peggiore che nella TV di Stato. Tutto ciò ha avuto contraccolpi sulla stessa RAI, costretta a inseguire le televisioni private sul loro terreno, per la conquista della mitica audience che consente la raccolta di redditizia pubblicità. Inoltre per anni le televisioni private, in assenza di una qualunque regolamentazione legislativa, hanno proliferato selvaggiamente. Solo di recente una legge ha tentato di mettere ordine, ma con esiti molto criticati. Nella selva di iniziative si sono poi avuti processi di concentrazione, che hanno dato origine a grandi network nazionali.
2.5 La scuola e l'università. Un fatto di capitale importanza, che ha inciso profondamente nella fisioLa scuola media unica
nomia culturale e sociale del paese, è stata l’istituzione della scuola media unica nel 1962. In precedenza l’istruzione secondaria di primo grado prevedeva, dopo la scuola elementare, due binari: la scuola media, erede del vecchio ginnasio, imperniata sul latino, dura e selettiva, che apriva le porte agli istituti superiori e di lì all'università, e l’“avviamento al lavoro”, che forniva una preparazione finalizzata all'inserimento immediato, a quattordici anni, nel mondo del lavoro, non consentendo il prose-
guimento degli studi (se non con esami integrativi). Anche se, secondo il dettato costituzionale, in linea di principio la via degli studi era aperta a tutti i «capaci e meritevoli», la biforcazione dell’istruzione media determinava un vero e proprio sbarramento peri ceti inferiori: poche erano le famiglie di ceti operai, contadini, artigiani, anche di alcuni strati piccolo borghesi impiegatizi, che potessero permettersi di mantenere i figli agli studi sino a diciannove o a ventiquattro anni. Pertanto il binario scuola media-liceo-università era di fatto riservato ai ceti superiori (con poche eccezioni), il binario “morUn'esigenza di democratizzare l'istruzione
to” dell'avviamento a quelli inferiori. La scuola rispecchiava e riproduceva le divisioni di classe esistenti nella società. L'istituzione della scuola media unica rispondeva invece ad un’esigenza di democratizzazione: il fine era fornire un’istruzione di base comune a tutti gli italiani, a qualunque ceto appartenessero. La riforma passò a larga maggioranza, ma non senza discussioni e polemiche, il cui centro era soprattutto l'insegnamento del latino. Chi restava più legato alla tradizione individuava nella lingua classica lo strumento formativo per eccellenza, irrinunciabile come base di qualunque indirizzo futuro di studi; altri invece vedevano nel latino solo uno strumento di selezione, una materia non
Ilrinnovamento
dei programmi e dei metodi
più adatta alla formazione di una cultura moderna. Fu adottata una soluzione di compromesso (rudimenti di lingua latina inseriti nel programma di italiano), ma di fatto nella media unica il latino perdette la sua centralità. La nuova scuola media sanciva anche l’obbligo dell’istruzione sino a quattordici anni, che esisteva già nell'ordinamento precedente, ma era spesso disatteso. Al rinnovamento delle strutture si accompagnava un rinnovamento dei programmi (furono inserite materie nuove, come le scienze, l'educazione tecnica ed artistica) e dei metodi (almeno nelle intenzioni): la scuola doveva essere finalizzata a rispondere ai bisogni degli allievi, non viceversa, come nella vecchia media: invece
di proporsi una selezione dei soli migliori, l'insegnamento doveva mirare a sviluppare le potenzialità intellettuali di tutti gli studenti, facendosi carico di ovviare a eventuali carenze e difficoltà. Non è possibile qui analizzare tutti gli effetti, positivi come negativi, che la media unica ha avuto sulla società e sulla cultura. Basti solo un’osservazione: la riforma è stata la premessa di una scolarizzazione di massa, che ha messo gran parte degli italiani (eccettuati i casi di evasione dell’obbligo) a contatto con certi strumenti culturali. Quanto poi la media unica abbia davvero realizzato l’obiettivo di fornire a tutti un livello base di istruzione è materia ancora aperta di discussione. La mancata riforma La riforma delle medie tuttavia non poteva funzionare senza una correlativa riforma delle scuole delle superiori superiori, in modo da creare un curriculum di studi coerente negli obiettivi e nei metodi. Della riforma
PERCORSI STORICO-CULTURALI
61 delle superiori si è discusso per decenni, senza mai giungere ad una realizzazione. La scuola superiore, quindi, ha continuato ad essere sostanzialmente quella delineata dalla riforma Gentile nel 1923; una scuola che concordemente è ritenuta vecchia, non più rispondente alle esigenze attuali. È un inLa bipartizione dirizzo di studi nettamente bipartito: da un lato i licei, che mirano a fornire una formazione generale, tra scuola formativa e professionalizzante
propedeutica agli studi universitari, sulla base di un modello culturale essenzialmente umanistico
(che vale anche per i licei scientifici, nonostante il peso maggiore che vi assume la matematica); dall’altro l'istruzione tecnica e magistrale, che dovrebbe essere immediatamente professionalizzante. Vi era originariamente anche qui, dunque, un binario “morto”, dal quale non si poteva accedere all’università (se non in forme molto limitate); dal 1969 però la distinzione è venuta a cadere, con la totale
liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie. La bipartizione, a parere degli esperti come dello stesso mondo imprenditoriale, non corrisponde più alle esigenze del mercato del lavoro, che richiede competenze duttili, adattabili ad affrontare i problemi più vari. In questa direzione dovrebbe andare la nuova superiore, secondo i progetti che sono stati elaborati negli ultimi anni (il governo di centrosinistra aveva varato una riforma globale dei cicli scolastici, ma il centrodestra andato al potere con le elezioni del 2001 l’ha immediatamente bloccata, sostituendola con un nuovo progetto che è in fase di definizione; mentre si sta avviando una riforma dell’università). L'ondata
della scolarizzazione di massa
Queste strutture vecchie sono state investite, a partire dalla metà degli anni Sessanta, dall’ondata di piena della scolarizzazione di massa, dai licenziati della nuova media che arrivavano ad iscriversi alle superiori. Era caduto lo sbarramento costituito dall’avviamento al lavoro e, contemporaneamente, il maggior livello di benessere consentiva ad un numero più ampio di famiglie di “investire” nell’istruzione dei figli. Nei licei e negli istituti si crearono subito problemi materiali: carenza di aule, di laboratori, di biblioteche, classi affollate all'inverosimile, con la necessità di doppi o tripli tur-
ni. Ma non furono forse questi i problemi più gravi. Un modello di istruzione elaborato quaranta anni prima per una ristretta élite veniva imposto a dei fruitori “di massa”, dalle provenienze sociali e culturali, dalle esigenze, dagli obiettivi molto diversi. Ciò ha dato origine a contraddizioni e a tensioni spesso insostenibili. Certi contenuti, certi metodi alla prova pratica dei fatti, nella nuova realtà, non funzionavano più, non riuscivano ad ottenere risultati formativi. Gli insegnanti hanno dovuto affrontare il compito di adattare modelli culturali obsoleti alle nuove esigenze della scuola di massa, senza il soccorso di efficaci indirizzi programmatici e di mezzi forniti dagli organi competenti, anzi, dovendo spesso lottare con normative paralizzanti e con ostacoli burocratici. La scolarizzazione di massa ha investito naturalmente anche l'università. Nel giro di poco tempo, L'università di massa a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, gli iscritti alle varie facoltà sono cresciuti in progressione esponenziale. Si sono riprodotti quindi, in misura forse più grave, i problemi vissuti dalla scuola superiore: corsi affollatissimi (mille studenti o più per un docente, in certi casi), carenze gravissime di spazi, impossibilità di frequentare laboratori, esercitazioni, biblioteche, con conseguente dequalificazione degli studi. Anche le università, e più sensibilmente le facoltà umanistiche, pativano l’arcaicità dei modelli culturali e dei piani di studio, non più commisurati alle esigenze della cultura attuale, l’inefficienza di metodi didattici superati e poco produttivi. A ciò si aggiungeva il fatto che, mentre un tempo il titolo universitario garantiva l’accesso a professioni e attività di prestigio, producendo un'’élite sociale, ora, poiché il mercato non riusciva ad assorbire i laureati, l'università generava feLa disoccupazione nomeni di disoccupazione intellettuale e si riduceva ad “area di parcheggio” per i futuri disoccupati intellettuale (per usare un'immagine che ha avuto molta fortuna). Queste condizioni furono, se non la causa, l’innesco della rivolta studentesca, che partì da alcune La contestazione studentesca università come quelle di Torino e Trento nel 1967 ed esplose a livello nazionale nel 1968, coinvolgendo poco dopo anche le medie superiori. La “contestazione” studentesca fu un fenomeno complesso, prodotto da molti fattori concomitanti. Volendo semplificare al massimo, a noi sembra di poterne indicare due principali. Lo sviluppo economico a cavallo degli anni Sessanta aveva prodotto una modernizzazione del costume, determinando un bisogno di libertà e di autonomia nei giovani, che tradizionalmente erano inquadrati in una disciplina rigida dalla famiglia e dalla scuola. Questi schemi autoritari apparivano ormai assurdi e intollerabili nella società industriale avanzata, e la rivolta studenIlrifiuto tesca fu l’espressione del loro rifiuto. Non a caso la parola d’ordine delle prime agitazioni studentesche dell'autoritarismo fu la lotta contro l’autoritarismo e la repressione, nella famiglia, nella scuola, nella società (significativo era lo slogan «vietato vietare»). In tal senso la contestazione fu una contraddizione interna al processo di crescita della società capitalistica moderna. Il secondo fattore, che venne a combinarsi col primo, fu l’esaurirsi del boom, proprio a metà degli anni Sessanta. Le speranze di un allargarsi illimitato delle risorse e del mercato del lavoro, che consentisse una promozione sociale di massa, si riveUn modello culturale si rivela superato
V.DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI
62 La prospettiva della disoccupazione
larono fallaci. Ai giovani universitari si prospettava già chiaramente la possibilità della disoccupazione o della sottoccupazione. La frustrazione di aspettative di ascesa sociale, sostengono i sociologi, genera usualmente fenomeni di radicalizzazione politica. La contestazione dell’autoritarismo così si politicizzò al massimo e si estese a coinvolgere il carattere classista della scuola, producendo il rifiuto
dei modelli culturali “borghesi”, poi si allargò ulteriormente, in una rapida spirale, al rifiuto del sistema sociale ed economico nella sua totalità. Ne scaturirono posizioni di esasperato ribellismo intellettuale. Non erano fenomeni nuovi, nella storia dell’età contemporanea: la radicalizzazione dei giovani
La radicalizzazione politica di massa
intellettuali in un momento di crisi si era già avuta agli inizi del secolo; la differenza era che nel ’68 il fenomeno assumeva vere proporzioni di massa e si collocava su uno scenario internazionale: esplosioni di rivolta giovanile si ebbero in varie parti del mondo, in contesti diversi e con diverse motivazioni, dagli Stati Uniti coinvolti nella guerra del Vietnam alla Cina della rivoluzione culturale maoista. Tutti questi fenomeni, grazie alla dimensione ormai planetaria dell’informazione, si influenzarono a vicenda, venendo a creare tra i giovani di tutto il mondo un’atmosfera comune, comportamenti, lin-
L'influenza del marxismo
|“gruppi”
extraparlamentari
guaggi, persino abbigliamenti simili. L'indirizzo ideologico della contestazione assunse talora tendenze irrazionalistiche (che si riassumevano perfettamente nello slogan del maggio francese, «l'immaginazione al potere»), ma in Italia trovò le sue basi soprattutto nel marxismo: un marxismo che voleva rifarsi alle origini, rifiutando il modello sovietico e italiano e l’esperienza dei partiti della sinistra storica, ritenuti burocratizzati e appiattiti su posizioni riformistiche e socialdemocratiche, e che guardava invece con molto interesse all'esempio della Cina di Mao (con fenomeni spesso di culto acritico). Ne nacquero tendenze estremistiche che si concretarono nei “gruppi”, formazioni politiche minoritarie che si opponevano da sinistra alla politica del Partito Comunista e rifiutavano il parlamentarismo. L'esplosione degli scioperi operai dell’“autunno caldo” del 1969 fornì poi agli studenti la prospettiva di un aggancio alle lotte della classe operaia. Non è possibile seguire qui gli sviluppi di questi gruppi politici, perché ciò ci porterebbe a ricostruire l’intera storia italiana degli anni Settanta e Ottanta; né è possibile tentare un bilancio, valutando tutti gli effetti della contestazione studentesca sulla scuola, sulla cultura, sulla società (occorrerebbero volumi interi). Ci limitiamo ad un’osservazione. Dopo una nuova fiammata di contestazione nel 1977,
Il“riflusso”
La scuola e le contraddizioni sociali
I
comincia il periodo del “riflusso”: i giovani si allontanano sempre più dalla politica, i loro interessi si concentrano solo sul privato, si diffondono atteggiamenti di conformismo e di edonismo spicciolo (gli abiti “griffati”, la moto, l’hi-fi, la discoteca e ilfast-food, il telefonino e i videogiochi). Però la scuola e l'università restano pur sempre un luogo dove le contraddizioni sociali sono più avvertibili e vengono più facilmente allo scoperto. Per questo, fenomeni di contestazione, in forme diverse e meno estremistiche, hanno continuato e continuano a manifestarsi, in occasione del presentarsi dei più vari problemi, non solo scolastici, come dimostra la serie di occupazioni delle scuole verificatesi in questi anni.
?lgli intellettuali La provenienza sociale
Intellettuali e industria culturale
La gran maggioranza degli intellettuali di questo periodo proviene dai ceti medi; pochissimi sono ormai gli aristocratici (ricordiamo il principe Tomasi di Lampedusa) e non numerosi quelli di famiglia proletaria (Vittorini figlio di un ferroviere, Pratolini figlio di operai). Ma più che la condizione di partenza è interessante esaminare quella d’arrivo. Un fattore decisivo a caratterizzare l’attività intellettuale della nostra epoca rispetto alla prima parte del Novecento è l’enorme diffusione dell’industria culturale: l’editoria, i giornali, la radiotelevisione, il cinema, la pubblicità. L’intellettuale, in un’alta
percentuale di casi, è impiegato in uno di questi settori: è redattore di una casa editrice, giornalista, funzionario della televisione, sceneggiatore o soggettista cinematografico, pubblicitario, a livelli più o meno alti di responsabilità, con mansioni subalterne o manageriali. Un cospicuo numero di scrittori è legato ad un’altra professione intellettuale, l'insegnamento (in prevalenza universitario, specie negli ultimi anni, che hanno visto uscire i romanzi dei docenti Umberto Eco, Maria Corti, Claudio Ma-
Tecnici scrittori
gris, Antonio Tabucchi e di altri ancora). Meno numerosi sono gli scrittori che provengono dalle professioni, medici, avvocati, ingegneri, dirigenti d’industria. Interessante è il caso di scrittori di formazione tecnico-scientifica o operanti nel settore industriale, come Gadda (ingegnere elettrotecnico), Primo Levi (chimico), Paolo Volponi (responsabile delle relazioni aziendali alla Olivetti e alla FIAT),
poiché si determina un fecondo incontro tra culture diverse. Il caso dello scrittore che vive semplicePERCORSI STORICO-CULTURALI
63 La rendita dei diritti d'autore
mente delle rendite assicurategli dai suoi libri non è frequente: le condizioni del mercato editoriale italiano non sono tali da consentire facilmente un guadagno adeguato. Ma comunque anche lo scrittore che gode di elevati diritti d'autore per i suoi romanzi di norma non rinuncia ad altre forme di lavoro intellettuale: Moravia collaborava a giornali e riviste, tenendo ad esempio una rubrica fissa di cinema sull’«Espresso», Calvino continuava l’attività di consulente editoriale e scriveva anch’egli sui giornali, Eco mantiene la sua professione di docente universitario e pubblica regolarmente sull’«Espresso». Negli anni della contestazione si è avuto il fiorire di una letteratura “selvaggia”, per cui all’espressione letteraria arrivavano anche non addetti ai lavori, operai, emarginati, ma si è trattato di un feno-
Scrittori non professionisti
Scrittori emercato
meno poco duraturo. Negli anni più recenti invece si è registrato l'approdo alla letteratura daparte di scrittori non professionisti: manager, giudici, attori, tecnici, che, magari in età già matura, e senza abbandonare il loro mestiere, si lanciano a scrivere romanzi, rubando per la scrittura il tempo al loro la-
voro non intellettuale. E peri pochi che arrivano alla pubblicazione, una massa enorme preme alle porte delle case editrici, sommergendole di manoscritti. L'accesso alla pubblicazione e al successo è più facile per chi già proviene da professioni intellettuali e dall’industria culturale, ma si può verificare il processo inverso, il successo letterario che garantisce l’ingresso nell’industria culturale, con posizioni di prestigio. La figura del letterato “povero” ed appartato è divenuta sempre più rara. Ormai lo scrittore è pienamente inserito nella struttura della produzione industriale, non può evitare di fare i conti col mercato: è una situazione comune a tutti i paesi del capitalismo avanzato. Un problema che è necessario porsi, e che lasciamo aperto alla riflessione del lettore, è l’effetto che questa situazione esercita sulla visione del reale degli scrittori e sulle stesse forme della scrittura letteraria.
BNSA 1dibattito delle idee Non è certo possibile qui ricostruire anche solo approssimativamente la mappa complessa delle idee che si sono avvicendate sulla scena culturale di questo cinquantennio, nel campo della teoria letteraria, della filosofia, della storiografia, delle scienze umane, della politica, dell'economia, della religione. Per i fini didattici che ci proponiamo ci limitiamo a fornire qualche essenziale indicazione orientativa su quelle idee che hanno avuto più diretti riflessi sulla produzione letteraria.
4.1 l'egemonia del marxismo. Almeno fino agli anni Cinquanta ha continuato ad esercitare un forte influsso sulla cultura italiana l’idealismo crociano. Ma l'orientamento ideologico che ormai, nell’immediato dopoguerra, si imponeva come egemonico era quello marxista. Intellettuali di provenienza Le istanze diversa, democratici “laici”, cattolici, perfino liberali fecero proprie le istanze dell’“impegno” e furodell'“impegno” no attratti dai partiti della sinistra, partecipando come militanti o semplici “compagni di strada” alla loro politica. L'egemonia sugli intellettuali fu favorita dal fatto che il marxismo italiano aveva subito fortemente l’influsso dell’idealismo crociano e si proponeva più che altro in chiave di storicismo, cioè come fiducia in un processo organico della storia secondo un disegno razionale indirizzato a determinati fini: era agevole perciò per gli intellettuali il passaggio dall'uno all’altro orientamento (non mancarono però all’interno del marxismo pensatori di indirizzo non storicistico come Galvano Della Marxismo Volpe). Ciò che distingueva un simile marxismo dall’idealismo crociano era solo un'attenzione più cone storicismo idealista creta, oltre che alla storia delle idee, a fattori materiali, la società, l'economia, nelle loro relazioni col pensiero e con la letteratura. Di provenienza crociana erano due intellettuali di grande prestigio ed influenza come Eugenio Garin, storico della filosofia, e Natalino Sapegno, storico della letteratura (sul cui manuale si formarono generazioni di studenti liceali). In chiave storicistica venne interpretato anche il pensiero di Antonio Gramsci, che si diffuse proprio nei primi anni del dopoguerra con la pubMarxismo e cultura borghese progressiva
Lo zdanovismo
blicazione dei suoi Quaderni del carcere (cfr. |Generi| La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, T62). Questa impostazione del marxismo tendeva ad attenuare il radicale atteggiamento
critico di quel pensiero nei confronti delle ideologie elaborate dalla borghesia, consentendo così di recuperare e di assimilare tutto un patrimonio culturale “progressivo” del pensiero e dell’arte borghese del passato. Il marxismo italiano si poneva cioè non in una posizione antagonistica, totalmente alternativa, rispetto alla cultura precedente, ma come suo naturale, “storico” sviluppo, come inveramento del meglio da essa prodotto. Grazie anche a questa eredità, nella nostra cultura, nonostante la stretta dipendenza del Partito Comunista Italiano dalle direttive di Mosca, non ebbe un peso determinante lo Zdanovismo. Andrej V. DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI
64 Ilrealismo socialista
A.Zdanov, dirigente del Partito Comunista Sovietico, era il responsabile della politica culturale staliniana, che imponeva alla letteratura il rigido canone del realismo socialista, secondo cui essa aveva il compito di accompagnare la costruzione del socialismo, celebrando le sue conquiste attraverso figure esemplari di eroi positivi. Così, mentre la rivoluzione bolscevica aveva originariamente fornito stimoli alle avanguardie nella poesia, nel cinema, nella pittura, il giro di vite conservatore impresso da Stalin aveva condannato ogni forma di avanguardia come arte degenerata. La “sana” cultura del socialismo reale doveva ispirarsi agli esempi più classici del realismo ottocentesco, ma quei modelli, ridotti al livello della propaganda, della celebrazione ufficiale, della pedagogia edificante, perdevano tutto il vigore originario e scadevano ad insopportabile oleografia. Nel Partito Comunista Italiano, anche se ci fu la tendenza a stabilire un controllo sulle manifestazioni della cultura, non si assistette a forme di così cieco dogmatismo. Alcuni intellettuali furono più ligi alle direttive del partito (magari in perfetta buona fede, per intima convinzione, come nel caso di Pratolini), altri invece si opposero ad una subordinazione della cultura alla politica, come Vittorini, rivendicando l'autonomia
della letteratura ed il valore culturalmente rivoluzionario delle avanguardie (cfr.
La poesia, la
saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, M4). Negli anni Cinquanta e Sessanta esercitò molta influenza in Italia l’elaborazione del marxismo of-
ferta da Gyòrgy Lukécs, filosofo e critico letterario ungherese (1885-1971). Al dogmatismo soffocante del “realismo socialista” LukAcs opponeva il principio del “realismo critico”. Il pensatore non subordinava rigidamente il valore letterario all'ideologia progressista veicolata dall'opera. Riprendendo La «vittoria spunti degli stessi padri del marxismo (Engels, in particolare), rivendicava la «vittoria del realismo»: del realismo» anche scrittori di orientamento reazionario potevano, nonostante la loro ideologia, grazie ad un rigoroso «rispecchiamento» della realtà, cogliere le tendenze essenziali e profonde del processo reale. Ad esempio Balzac, pur essendo monarchico legittimista, era riuscito a fornire il quadro più preciso della società francese della Restaurazione e a capire il valore delle forze borghesi, che avevano dalla loro parte il futuro. Il concetto di «realismo», in Lukacs, perdeva così ogni caratteristica dogmatica e si apriva ad accogliere tutte quelle manifestazioni dell’arte borghese che fossero capaci di individuare Il«tipico» le tendenze profonde della realtà. Fondamento di tale definizione del «realismo» era il concetto di «tipico», che, per Lukécs, consisteva in una rappresentazione degli aspetti individuali e concreti della realtà, capace però di elevarsi a delineare le tendenze generali di un dato contesto storico. Ilmarxismo negli anni Le teorie di Luk4cs andarono però incontro a molte critiche, soprattutto nel clima culturale creadella contestazione tosi col Sessantotto. La contestazione studentesca determinò una vigorosa ripresa del marxismo, ma in direzione diversa rispetto alla linea del Partito Comunista, anzi in aspra polemica con essa. Il tentativo di accogliere positivamente l’eredità del pensiero progressista borghese fu bollato come cedimento riformista; si cercò di riportare in luce il carattere di alternativa radicale posseduto dal pensiero marxista rispetto all’ideologia borghese, tornando alla lettura diretta dei testi originari di Marx, di Lenin; ma si recuperarono anche filoni storicamente “sconfitti” del marxismo, come il pensiero di Trotzkij o della Luxemburg. La società borghese veniva concepita come un sistema in sé compatto, monolitico e totalmente negativo, di cui non era possibile salvare alcun aspetto. Il compito della cultura di sinistra diveniva allora quello di condurre una critica a fondo di quel sistema, che doveva esercitarsi in primo luogo nello smascheramento delle sue mistificazioni ideologiche. Se il marxismo storicista postbellico accoglieva in sé l'essenza della tradizione umanistica, questa impostazione porta: va ad una “critica della letteratura”, vista come forma di sublimazione falsificante delle dure La scuola contraddizioni della realtà. Su queste posizioni esercitò un forte fascino il pensiero della scuola di Lukacs
di Francoforte
Ilprivilegiamento degli scrittori “negativi”
Francoforte, la «teoria critica» della società elaborata da Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) e da Max Horkheimer (1895-1973), ma in particolare il pensiero di Herbert Marcuse (1898-1979), che divenne la guida intellettuale della contestazione con il volume L'uomo a una dimensione (1964, tradotto in Italia nel 1967), una critica radicale della società industriale avanzata, definita come si-
stema totalitario celato sotto le apparenze della libertà, che annulla ogni forma di opposizione e di differenza. Altro pensatore e critico di grande rilievo legato alla scuola di Francoforte fu Walter Benjamin (1892-1940). Sul piano della critica letteraria l'apporto del pensiero “francofortese” indusse ad una valutazione positiva degli scrittori più “negativi” e critici, disorganici, in opposizione rispetto al proprio tempo, non importa se reazionari. Il valore conoscitivo delle loro opere si affermava, secondo questa impostazione, non nonostante la loro ideologia (come voleva Lukacs), ma proprio in conseguenza di essa: le posizioni sfasate rispetto all’esistente potevano costituire un punto di osservazione privilegiato, che consentiva maggiore penetrazione critica nel reale. Un esempio significativo di questa tendenza è sta-
PERCORSI STORICO-CULTURALI
65 La crisi del marxismo negli anni Ottanta
ta la rilettura di Verga operata negli anni Sessanta da Alberto Asor Rosa e Romano Luperini (cfr. la storia della critica in Verga), che vedevano proprio nelle posizioni di desolato pessimismo dello scrittore le radici della forza conoscitiva e critica della sua opera. Con il nuovo clima degli anni Ottanta, caratterizzato dal “riflusso”, dal ritorno al privato e dall’individualismo edonistico, dal riaffer-
marsi di teorie neoliberali in politica e in economia (gli anni del reaganismo, segnati dalla presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti), il marxismo nelle sue varie correnti ha perduto progressivamente la sua presa sul mondo intellettuale, lasciando il passo ad altre tendenze, l’erme-
L'esistenzialismo
neutica, il «pensiero debole», il decostruzionismo, a cui accenneremo più avanti. Un ulteriore fattore di crisi è stato poi il crollo dei regimi comunisti dell'Est. Un'influenza rilevante in Italia, nell'immediato dopoguerra, ha avuto l’esistenzialismo, che aveva il suo fondamento nella filosofia di Martin Heidegger (1899-1976) e di Karl Jaspers (1893-1969). Era un pensiero che, in opposizione alle costruzioni metafisiche della filosofia occidentale, quali il sistema dell’idealismo hegeliano, concentrava la sua attenzione sul singolo, nel suo esistere svincolato da un “essere” che gli potesse conferire un senso e un fondamento. Ne derivava l’angoscia dinanzi all’assurdo e alla mancanza di significato dell’esistenza, che si risolveva nella prospettiva di uno «scacco» definitivo. In Italia ebbe particolare risonanza, negli anni Quaranta-Cinquanta, l’intepretazione
che delle tematiche esistenzialiste diedero Jean-Paul Sartre e Albert Camus (cfr.
La narra-
tiva del Novecento, A16 e A17), i quali dalla coscienza dell'assurdo ricavavano l’esigenza dell’impegno politico come unico modo per dare un senso all’esistenza, attraverso la libera scelta umana. L'ideologia dell'impegno poteva così conciliarsi con il clima dominante, trovando un punto d’incontro con le istanze allora egemoniche del marxismo.
4.2 La diffusione delle scienze umane. Gli anni Sessanta, come segnarono per l’Italia una svolta fonIlfervore culturale
degli anni Sessanta
damentale sul piano della vita sociale ed economica, con l’ingresso nella modernità industriale e tecnologica e l'inserimento nel sistema del mercato mondiale, costituirono anche una svolta nella vita culturale. Furono anni di intenso fervore e di voraci curiosità, che determinarono un rapido allargamento degli orizzonti. C'era un bisogno diffuso di uscire dai limiti provinciali dell’Italia crociana, fascista e poi neorealista, di appropriarsi di tutte le sollecitazioni offerte dalla cultura d’oltralpe, di aggiornare i propri strumenti conoscitivi ed espressivi. Era uno slancio che dava anche origine a fenomeni di infatuazione acritica e snobistica (un documento interessante di questo clima è il romanzo
Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, 1963: cfr.
La narrativa del Novecento, T54), ma che co-
munque esprimeva un impulso positivo alla cultura italiana, immetteva in circolo stimoli vitali, stabiliva legami da cui la cultura di un paese moderno non poteva prescindere. Il settore su cui si proiettò più avidamente la ricerca fu quello delle “scienze umane”: la sociologia, Le “scienze umane” l'economia politica, la psicologia e la psicanalisi, l'antropologia culturale e l’etnologia, la linguistica, tutte discipline che nella cultura anglosassone, francese, tedesca avevano avuto ampi sviluppi ed avevano raggiunto importanti risultati, ma che dalla circolazione vitale nella cultura italiana erano rimaIlveto crociano ste di fatto escluse per i veti dell’idealismo crociano, che le considerava «pseudoscienze»: l’influenza e l’autarchismo determinante esercitata dal crocianesimo sugli intellettuali italiani aveva fatto sì che quegli studi fosfascista sero trascurati o addirittura ignorati (con il concorso dell’autarchia culturale imposta dal fascismo). L'egemonia marxista nei primi anni postbellici non aveva molto contribuito ad aprire gli orizzonti, data la diffidenza verso le discipline “borghesi” da parte della cultura comunista. Vi erano certo state iniziative pionieristiche che si erano avventurate ad esplorare quei territori estranei: valga per tutte quelLa collana etnologica fondata da Pavese
la di Cesare Pavese, che sin dal 1947 aveva fondato presso la casa editrice Einaudi una collana di stu-
di etnologici e religiosi, facendo tradurre opere che erano dei veri classici, come // ramo d'oro di James Frazer, e che avevano esercitato grande influenza sulle letterature europee (non si può leggere ad esempio La terra desolata di Eliot senza i parametri forniti dallo studio antropologico dei miti e dei rituali, 0 Thomas Mann ignorando i suoi rapporti con le ricerche sui miti di Karl Kerényi). Pavese stesso aveva nutrito di queste letture-la sua scrittura letteraria, come appare evidente già dal primo romanzo da lui
pubblicato, Paesi tuoi (1941; cfr. Scienze umane e industria editoriale
Pavese, T2). Negli anni Sessanta però l’interesse esce dal chiu-
so degli istituti universitari e delle ricerche benemerite di una minoranza di intellettuali, divenendo un fenomeno di massa. L'industria editoriale si lancia in un’impresa frenetica di traduzioni; quei libri penetrano soprattutto tra gli studenti, i giovani leggono avidamente opere di sociologia, economia, psicanalisi, antropologia culturale, linguistica. Certi concetti entrano nel patrimonio delle conoscenze correnti. La cultura italiana comincia a produrre in quei campi molti risultati di ricerche originali. La critica letteraria usa sempre più quegli strumenti, che vengono poi assorbiti dai testi scolastici. Nelle V. DAL DOPOGUERRA Al GIORNI NOSTRI
66 facoltà universitarie si moltiplicano le cattedre dedicate a quelle discipline. Si invoca una riforma che le introduca nella scuola media superiore, allargando un modello culturale angusto e antiquato, ma, come tutte le altre istanze innovative, anche questa resta lettera morta per la mancata riforma; ed an-
che in tal caso un patrimonio nuovo di sapere può entrare nella scuola solo grazie all'iniziativa individuale degli insegnanti, che forzando la gabbia dei programmi lo introducono attraverso il “cavallo di Troia” delle materie tradizionali, la letteratura, la filosofia, la storia e l'educazione civica. Tra queste discipline (i cui sviluppi non si possono certo seguire qui analiticamente), quella che suLa psicanalisi scita il maggior interesse di massa è forse la psicanalisi. Dalla cultura italiana fra le due guerre essa era stata fatta segno di disprezzo, sia da parte della cultura fascista ufficiale sia da parte degli stessi intellettuali. Solo pochi uomini di cultura più avvertiti (poeti come Saba, narratori come Svevo, Gadda o Moravia, critici come Giacomo Debenedetti) ne avevano colto le feconde potenzialità. Ora, a partire dagli anni Sessanta, la psicanalisi diventa persino una moda: i termini chiave, «rimozione», «comPsicanalisi e critica letteraria
plesso d’Edipo», «senso di colpa», «Io» e «Super-Io», ecc., entrano nel linguaggio comune, banalizzandosi. A livelli più seri, la psicanalisi diviene uno degli strumenti conoscitivi da cui non possono prescindere gli scrittori. Vi attinge anche la critica letteraria, che si ispira non solo al pensiero di Freud, ma anche a quello di Jung, attento soprattutto alle simbologie dell’inconscio collettivo, e a quello diJacques Lacan, che offre della psicanalisi un’interpretazione originale, assimilando suggerimenti dello strutturalismo (sul quale si veda, più avanti, il $ 4.3). Vengono anche elaborate sistematiche metodologie critiche che si fondano sulla psicanalisi, come quella di Francesco Orlando (n. 1934; Per una teoria
freudiana della letteratura, 1973), che vede nel linguaggio letterario il «ritorno del rimosso sociale», cioè l’affiorare di contenuti censurati dalle norme sociali dominanti (ne abbiamo utilizzati a suo tempo degli spunti leggendo la Gerusalemme liberata di Tasso).
4.3 Strutturalismo e semiotica. Agli anni Sessanta risale anche la diffusione dello strutturalismo, verificatasi prima in Francia ed estesasi subito dopo in Italia. Lo strutturalismo è essenzialmente un metodo di indagine, che è stato applicato a diverse discipline; ma, come ogni metodo, presuppone anche una determinata visione del mondo. I suoi fondamenti sono costituiti dalla linguistica strutturale elaLa linguistica borata dal ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913), il cui Corso di linguistica generale uscì postrutturale stumo nel 1916. La novità metodologica da lui introdotta consisteva nel fatto che la lingua non era di Saussure più studiata nella sua evoluzione storica, in senso cioè diacronico, ma come un insieme sincronico di unità base (i fonemi, i lessemi, i sintagmi), che vengono a comporre tra loro un sistema di rapporti funzionali (cfr. Glossario, voce sistema). Con questi presupposti vennero poi indagati altri fenomeni umani, oltre alla lingua: ad esempio le strutture sociali, le culture, i miti. Ad opera dell’antropologo
Lo strutturalismo
L'antropologia
francese Claude Lévi-Strauss (n. 1908), nacque l’antropologia strutturale, con il volume Le strutture
strutturale di Lévi-Strauss
elementari della parentela, 1949. Nelle società primitive i vari aspetti (riti, credenze, miti, rapporti sociali) erano studiati da Lévi-Strauss non più nella loro genesi, come avveniva tradizionalmente, ma nei rapporti funzionali che li legavano in un sistema. Al fondo dei vari fenomeni umani lo strutturalismo vedeva così delle strutture invarianti, indipendenti dal divenire storico, ma anche dalla consapevolezza, dalla volontà, dalle scelte programmatiche dell’uomo, del soggetto. Lo strutturalismo proponeva cioè una visione del mondo antistoricistica ed antiumanistica: secondo le sue concezioni, non è l’uomo che crea storicamente il suo mondo, ma l’uomo è “agito” da strutture profonde che non può controllare, è oggetto, non soggetto. Di qui scaturì anche una dura polemica tra Lévi-Strauss e Sartre, campione della tradizione umanistica della filosofia. Influenze strutturalistiche raggiunsero an-
Lacan Barthes
che la psicanalisi con Jacques Lacan (1901-1981), secondo il quale l’inconscio è strutturato come il linguaggio. Il metodo strutturalistico fu esteso ai fenomeni letterari, soprattutto grazie a Roland Barthes (1915-1980). Anche nel testo letterario venivano individuate strutture profonde indipendenti dalla volontà creativa dello scrittore. Si riteneva che il testo fosse retto dalle stesse leggi che regolano il
linguaggio: così si cercavano le unità minime che compongono il testo (come la linguistica fa coi fonemi della lingua). E come la linguistica dalle varie lingue individuali (gli atti di paro/e, nella terminologia di Saussure) ricompone, mediante un processo di astrazione, il modello generale della lingua (la langue, sempre nella terminologia saussuriana), così dalla pluralità dei testi si ricostruivano i modelli invarianti, che costituivano la struttura celata in ogni testo singolo. Su queste operazioni agiva La critica strutturalistica
anche l'insegnamento della Morfologia della fiaba (1928) di Vladimir Ja. Propp (1895-1970), che più volte abbiamo richiamato. La critica strutturalistica non considerava quindi il testo nella sua genesi storica, ma, prescindendo da ogni contesto esterno, si limitava a ricostruire l’organizzazione dei rap-
67 porti interni fra le unità costitutive, ai loro vari livelli, fonico, morfologico, lessicale, sintattico, reto-
lasemiotica Barthes
Lotman e Uspenskij
Eco
Sege
rico. Anche in questo caso l'oggetto dell'indagine, il testo letterario, veniva svincolato dai processi storici e dall’intervento di un soggetto creatore. —Daifondamenti teorici dello strutturalismo si è poi sviluppata una teoria generale dei segni, la semiologia (già prefigurata da Saussure), o, come i suoi esponenti hanno più recentemente preferito chiamarla, semiotica. Tra i primi ad elaborarla, negli stessi anni Sessanta, fu il già citato Roland Barthes, con gli Elementi di semiologia (1964, tradotto in italiano nel 1966), applicandola poi nel delineare il sistema di segni della moda (Sistema della moda, 1967, trad. it. 1977). Originale è la semiotica proposta dalla scuola di Tartu (Estonia) ad opera di Jurij Lotman (1922-1993) e Boris Uspenskij (n. 1923), che studiano soprattutto i modelli spaziali in cui si esprimono le culture, attraverso le opposizioni interno vs esterno, alto vs basso (sono categorie che abbiamo più volte impiegato nell’analisi dei testi). In Italia il teorico di maggior rilievo è Umberto Eco (n. 1932), che ha sistemato la disciplina in un Trattato di semiotica generale (1975). La semiotica ha trovato feconde applicazioni in quel particolare sistema di segni che è la letteratura. Lo studioso italiano più autorevole in questo campo è Cesare Segre (n. 1928), che abbiamo avuto modo più volte di citare e di antologizzare: inserendo la semiotica letteraria nella tradizione storicistica tipicamente italiana, il critico non si limita a studiare i si-
Lanarratologa
stemi di segni nella loro sincronicità, ma li segue anche nel loro divenire nel tempo, in connessione con i contesti storici. All’ambito della semiotica letteraria appartiene la narratologia, che è propria-
mente una semiotica del testo narrativo (vi abbiamo spesso fatto ricorso nelle analisi dei testi). All'orizzonte semiotico, ma con posizioni assolutamente originali, appartiene uno studioso come MiBachtin chail Bachtin (1895-1975), di cui abbiamo ampiamente usato le categorie in questa antologia, in particolare la nozione di «carnevalesco» e quella di «polifonia».
4.4 Tendenze più recenti: ermeneutica e decostruzionismo. Se il marxismo e lo strutturalismo hanl'ermeneutica Gadamer
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no costituito il clima dominante nella cultura italiana fino agli anni Settanta, dagli anni Ottanta l’orizzonte comune del dialogo culturale è stato offerto dall’ermeneutica. Si tratta di una corrente filosofica che trae origine dal pensiero di Martin Heidegger ed ha trovato il suo massimo esponente in un allievo di questi, Hans Georg Gadamer (n. 1900), autore del fondamentale Verità e metodo (1960). Mentre marxismo e strutturalismo erano accomunati, sia pur in forme diverse, dalla convinzione che
il processo conoscitivo fosse la ricerca di strutture di significato insite nell’oggetto stesso, e ritenevano possibile la loro messa in luce definitiva attraverso l'esattezza dei processi scientifici, l’ermeneutica pone l'accento sul momento soggettivo del conoscere, sull’interpretazione. La mente di chi conosce non è nella condizione della tabula rasa, ma è occupata da presupposizioni, «pre-comprensioni», «pre-giudizi», cioè da ipotesi preliminari sull’oggetto. Questa situazione però, secondo le prospettive ermeneutiche, lungi dal portare ad un relativismo anarchico, ad un soggettivismo del tutto arbitrario, obbliga l'interprete ad assumere coscienza dei suoi pregiudizi, a metterli costantemente alla prova e a correggerli a contatto con l'oggetto attraverso un serrato e ripetuto confronto con esso. Come ha scritto Sergio Moravia, si crea «un movimento di reciproca e progressiva sintonizzazione, correzione e approfondimento comprensivo tra soggetto e oggetto». Non solo, ma possiamo accingerci all’interpretazione di un oggetto solo tenendo conto della serie di interpretazioni già date su di esso, degli «effetti» da esso prodotti. Questo principio ermeneutico ha trovato un terreno di svilupLa«teoria po, nel campo della critica letteraria, nella «teoria della ricezione», elaborata in particolare da Hans della ricezione» Robert Jauss (n. 1921) e da Wolfgang Iser (n. 1926), che studia i testi appunto tenendo conto degli * «effetti» da essi determinati sui lettori, cioè della serie di modi in cui sono stati recepiti ed interpretati. L’ermeneutica esclude così un sapere totale, definitivo: il nostro sapere, secondo tale teoria, rimane sempre parziale, storicamente limitato ed aperto. In Italia uno sviluppo dell’ermeneutica che Il«pensiero debole» ha avuto molta diffusione è il cosiddetto «pensiero debole», il cui rappresentante più significativo è Gianni Vattimo (n. 1936): tale indirizzo, ricollegandosi al concetto nietzschiano di «morte di Dio», saluta con favore la fine delle ideologie, l’esaurirsi dei sistemi di pensiero “forti”, che pretendono di offrire un’interpretazione totalizzante e definitiva del reale, e ravvisa una condizione positiva proprio nella “debolezza” degli strumenti, che consente l'apertura, la duttilità, la disponibilità a cogliere il reale nelle sue irriducibili differenze. Ildecostruzionismo AI clima generale dell’ermeneutica può per certi aspetti essere collegato il decostruzionismo, una
e Derrida teoria elaborata dal filosofo francese Jacques Derrida (n. 1930), che ha trovato applicazione nella critica letteraria soprattutto nelle università statunitensi. Ma se l’ermeneutica, pur prospettando un sapere aperto, non si abbandona ad un’anarchia relativistica, il decostruzionismo propone invece la deyIvD))>>ÙEEENEENNNNNNNENENERIEEINIE —_—_————_EREeZECEMA Axy y«>-—
Campagna e città
88 Libertà
per accumulare proprietà. Anche nel mondo rurale, dunque, è esclusivo il dominio dei moventi economici, che cancellano ogni valore disinteressato ed ogni solidarietà umana. Così in Libertà
(cfr. Mastro-don Gesualdo
La scomparsa dell’idealizzazione romantica
Verga, T22) la rivolta dei contadini, nata da una condizione insostenibile di mise-
ria, dà luogo ad uno scatenamento irrefrenabile di istinti belluini, che ignorano ogni pietà umana e portano a commettere atrocità sanguinarie. Le Novelle rusticane aprono la strada al Mastro-don Gesualdo (cfr. TT24-26): nel protagonista gli impulsi generosi e i bisogni affettivi sono sempre soffocati dall’attenzione gelosa all'interesse, dal calcolo cinico, dal gesto privo di scrupoli. Nello scenario provinciale e rurale dell'ascesa di Gesualdo non c'è spazio alcuno per i «sentimenti miti, semplici». Gli aspetti di idealizzazione romantica della campagna che permanevano nei Malavoglia, attraverso la raffigurazione della famiglia protagonista, sono qui del tutto scomparsi e trionfa un lucido, rigoroso pessimismo.
La città La città e il moderno Case nuove di Boito
Se la campagna, dagli scrittori dell’Italia postunitaria, è generalmente mitizzata (con l’eccezione del Verga verista), la città è spesso presentata in una luce negativa: e il fatto non desta meraviglia, visto che la città è la sede per eccellenza della modernità e del progresso, per i quali gli artisti provano orrore, come si è visto (cfr. P3). In Case nuove di Arrigo Boito
(cfr.
La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, T7) la città è il luogo dove si sca-
tena l'avidità della «progenie dei lupi e delle scrofe», che senza alcuno scrupolo semina «strage e ruina» tra le vestigia del passato. La vecchia città ferita assume un profilo «scomposto e tetro» e al suo posto sorgono case che sono il trionfo del cattivo gusto, nel loro biancore Alla stazione di Carducci: lo spleen
«grave di fregi vieti». In A/la stazione in una mattina d’autunno (cfr.
Carducci, T14) di
Carducci la città nel suo squallore (i fanali che s’inseguono «accidiosi», «sbadigliando la luce sul fango», la cupezza della stazione ferroviaria) è il luogo dove grava lo spleen generato dalla civiltà moderna, che fa smarrire «il senso [...] de l'essere» e mortifica la vita, trasformandola in una sopravvivenza spettrale. In Nevicata (cfr. T15) la città, sepolta dalla neve che spegne la vita e le sue voci, assume un carattere funereo, diviene immagine della morte che chiama il poeta.
Nella piazza di San Petronio
La città del passato: bellezza ed eroismo
| sogni di Emma Bovary
La Parigi di Zola
Se la città appare in una luce positiva, è solo perché riesce a conservare intatta la fisionomia che le ha imposto il passato, un passato ben più degno e nobile del presente. È il caso di Ne/la piazza di San Petronio di Carducci (cfr. T11). Le moli dei palazzi bolognesi sono state innalzate dal «braccio clipeato de gli avi», che sapevano creare la bellezza ma anche imbracciare le armi per la guerra. Per questo la città che ii poeta contempla non è tanto quella del presente, quanto quella ricreata dalla sua fantasia che lo trasporta nel passato, una Bologna in cui dominavano gentili costumanze cortesi («le donne gentili danzavano in piazza») ed eroiche virtù guerriere («e co’ i re vinti i consoli tornavano»). Ma questa contemplazione è accompagnata dalla struggente consapevolezza del fatto che quel passato è irrimediabilmente perduto, e che il desiderio della «bellezza antica» è «vano». Oppure la città può essere vagheggiata, come meta di un sogno evasivo, da chi patisce la chiusura nell'ambiente soffocante della provincia. È il caso di Emma Bovary (cfr. La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, T13): la metropoli, nelle sue fantasticherie, diviene un mitico “altrove” in cui la vita è piena e splendida. Parigi in questo caso ha una funzione analoga a quella del Medio Evo cavalleresco o dei paesaggi esotici vagheggiati da Emma nelle sue réveries, nutrite dalle sue romantiche letture. La stessa Parigi, osservata dall’occhio implacabile del romanziere naturalista, Zola, che vuole studiare con rigore scientifico le malattie sociali, diviene invece un «buco immenso» che sembra poter essere inondato dal veleno dell'alcol,
capace di tutto corrompere (cfr. T20). È la città destinata a condurre all'estrema degradazione, con l’«ambiente impestato» dei suoi sobborghi, l’indifesa Gervaise, che viene dalla provincia. Ed è anche la città in cui può crescere la perversa corruzione delle classi alte, rappresentata dalla matrigna e dal figliastro incestuosi della Curée, ed emblematizzata dal proliferare mostruoso delle piante tropicali nella serra (cfr. T19).
Gesualdo e la città prigione
Nell'ottica di Verga, come si è già constatato, la città è il luogo dove dominano «passioni turbinose e incessanti» e «bisogni fittizi» (cfr. Verga, T4), che generano la malattia moderna dell'anima, le «irrequietudini del pensiero vagabondo» (cfr. T8). Per Gesualdo morente (cfr. T26) la città è come una prigione, uno spazio angusto e costrittivo, che lo soffoca, susci-
Dalla Scapigliatura al Verismo: PERCORSI 4
89 La città sterile
tando in lui la nostalgia degli spazi aperti della campagna («Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare {i solchi!... Oramai!... Oramai!...»). Ma la città è anche il luogo sterile e infecondo dello sperpero feudale, dove si consuma la ricchezza da lui accumulata e vengono divorate le «belle terre» che aveva acquistato palmo a palmo, le vaste tenute di terra fertile, ricche di frutti. Nell'immaginazione di Gesualdo la campagna si colora perciò miticamente, diviene la sede di una favolosa, epica fecondità e abbondanza («Delle fattorie, dei villaggi interi da fabbricare... delle terre da seminare, a perdita di vista... E un esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da intascare!»).
La città industriale |La città industriale moderna fa la sua comparsa, nei suoi aspetti più crudi, nelle pagine di Tem-
ee
in Tempi difficili |pi difficili di Dickens (cfr.
La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, T22): la città an-
di Dickens |nerita dall’eterno fumo delle ciminiere, ammorbata dagli scarichi delle fabbriche, rintronata dal rumore delle macchine. La sua stessa struttura urbanistica è la negazione della fantasia e della bellezza, il trionfo della monotonia che omologa e spersonalizza, annullando tutte le differenze individuali. Su questo sfondo deprimente la classe operaia sfruttata si degrada nell’ubriachezza e nella delinquenza.
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Campagna e città
90
La donna fatale
La paura della donna e l’indebolirsi dell'identità maschile
La crisi dell’individuo
La società massificata
| personaggi inetti
Nella letteratura della seconda metà dell'Ottocento si infittiscono le figure di donne fatali, perverse distruttrici di uomini, già comparse nella prima metà (cfr. il P4 in |Percorsi e strumenti Dal Barocco al Romanticismo), e il fenomeno si accentuerà ancora a fine secolo, soprattutto entro l’opera dannunziana. Il dato rivela nell’immaginario collettivo, a cui attinge la letteratura, una forma di paura per la donna, che determina la nascita di un fantasma ostile e minaccioso. L’esplodere di questo odio e di questa paura non può certo essere ritenuto casuale. Alle radici è facile scorgere un indebolimento dell'identità maschile, una crisi della nozione di uomo che si verifica in questo periodo e che è causata dal sommarsi di diversi fattori, tutti riconducibili alle radicali trasformazioni indotte dall’imporsi della modernità: in primo luogo il progressivo formarsi di un'organizzazione capitalistica avanzata, che esclude ormai sempre più l'individuo dalla direzione dei grandi processi produttivi, poiché l'individuo energico e creatore della prima fase concorrenziale del capitalismo tende ad essere sostituito da grandi apparati anonimi, impersonali; ad essi si affiancano poi apparati burocratici egualmente giganteschi e anonimi, dinanzi a cui il singolo si sente impotente e smarrito; a ciò si aggiunge ancora il fatto che il nuovo sistema economico in gestazione comincia a creare una società massificata, ridotta ad una pluralità appiattita, in cui l'individuo non conta più ma appare solo una minima rotella insignificante nel meccanismo. Per quanto riguarda il campo culturale occorre poi tener conto di quella crisi del ruolo intellettuale, su cui già abbiamo insistito (cfr. P2). La crisi della nozione tradizionale di uomo, quella di un uomo forte, virile, sicuro, capace di costruirsi con le proprie energie il proprio mondo e di dominarlo, si riflette in letteratura nel moltiplicarsi di personaggi deboli, insicuri, inetti a vivere, sconfitti, che vengono a popolare le pagine degli scrittori di questo periodo (a partire già dai protagonisti della letteratura scapigliata e dei primi romanzi di Verga, per arrivare a quelli del primo D'Annunzio, di Svevo, di Fogazzaro, di Pirandello, di Tozzi, come potremo vedere). L'uomo in crisi di identità avverte soprattutto nel-
L’emancipazione della donna
Una minaccia al potere maschile
Gli scapigliati
Fosca di Tarchetti
L'immagine della morte Il vampiro
Carducci
la donna il banco di prova di questa debolezza, di questa inadeguatezza alla realtà, e di qui nasce quel senso di paura che, nel gioco dell'immaginario letterario, dà vita a quelle figure femminili perverse, inquietanti e minacciose. Complementarmente, con lo sviluppo della modernità prende avvio il processo di emancipazione della donna, di affrancamento della sua secolare condizione di subalternità al maschio, attraverso la lotta per la conquista dei diritti civili e politici, del lavoro, dell'istruzione, più in generale della propria libertà. La donna quindi appare all’immaginario maschile nemica e pericolosa anche perché nella realtà effettiva, con la sua emancipazione, minaccia le basi tradizionali del potere e del privilegio maschile. Per questo viene sentita come un pericolo da una virilità già psicologicamente debole a causa dei processi sociali sopra elencati. Il motivo della donna fatale è trattato particolarmente dalla cultura scapigliata, vero crogiolo dei temi della nuova letteratura: e non a caso, perché gli scapigliati sono i primi a percepire, ancora ai loro albori, i processi in atto: Difatti, insieme con la donna fatale, compare anche, nelle loro pagine, la figura dell’uomo debole e perplesso, che ha perso la sua forza e la sua Sicurezza e si sente intimamente lacerato (come si è visto nel P2). Testimonianza significativa è
il romanzo Fosca di Tarchetti (cfr.
La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, T8).
Già il nome stesso dell'eroina è gravido di significato. Il suo aspetto fisico, poi, la «bruttezza orrenda», la magrezza scheletrita, i capelli e gli occhi nerissimi, possiedono qualcosa di inquietante, che genera spavento e orrore, evocando l’idea della morte. E veramente Fosca attira l’uomo nel gorgo della morte, proponendosi, con la propria sensibilità malata e con la propria voluttà nel torturare l'amante, nell’imporre il proprio dominio su di un essere totalmente soggiogato, come un vampiro che succhia inesorabilmente le energie vitali dell’uomo. Alla fine l'eroe, a causa di questo legame morboso, viene minato nella sua salute fisica e psichica, viene ridotto ad una larva: il vampiro gli ha trasmesso la sua stessa malattia. Persino il “classico” Carducci si lascia contagiare da questo mito tipicamente tardo-romantico e decadente (ma già questo indizio basterebbe a mettere in dubbio la categoria di “classici-
Dalla Scapigliatura al Verismo: PERCORSI 5
91 A proposito del processo Fadda: le romane antiche
La donna vampiro o tigre
smo” carducciano): la sadica ferocia con cui le antiche romane, in A proposito del processo
Fadda (cfr.
Carducci, T2), assaporano lo spettacolo di sangue e di morte nel circo ri-
chiama irresistibilmente l’immagine della donna fatale, che prova voluttà nel far soffrire e nel distruggere gli uomini (e non a caso quell'immagine campeggia sullo sfondo della Roma del basso impero, caratterizzata da scene di lusso, sangue e crudeltà, motivo caro alla cultura di fine secolo). Significativa è anche la cifra della «nera chioma», un attributo fisico che non può mancare (lo si è già notato nella Fosca di Tarchetti, e avremo modo di incontrarlo ancora); inoltre i «denti bianchi, affilati» che spiccano fra le «labbra rosse», contratte in un ghigno feroce alla vista del sangue, hanno qualcosa di vampiresco, o, se si preferisce, richiamano la belva feroce, il felino predatore.
Una componente tardo-romantica o decadente è riconoscibile persino nel modo in cui il prinZola, La Curée
Lussuria e vampirismo
cipe dei romanzieri naturalisti, Zola, raffigura la donna nella Curée (cfr.
La Scapigliatu-
ra, il Verismo, il Decadentismo, T19). In Renée, la giovane matrigna incestuosa che seduce il figliastro nel sensuale proliferare della vegetazione di una serra, compaiono i tratti tipici della donna fatale: la pieghevolezza crudele del felino («simile a una grande gatta dagli occhi fosforescenti»), che la rende simile alla statua della sfinge in marmo nero, il «mostro dalla testa di donna»; il dominio totale esercitato sull'uomo, un essere debole, indifeso e quasi femmineo nella sua fragilità, visto come «una preda arrovesciata sotto di lei»; la lussuria sfrenata e insaziabile, il gusto perverso dell'amore proibito, persino il vampirismo, che si concentra nel particolare della bocca avida, contemplata dal narratore con una sorta di fascinazione ipnotica («la sua bocca si apriva allora con il luccicore avido e sanguinante dell’ibisco della Cina...»). Non meraviglierà allora trovare la stessa figura mitica in Verga, anche se mascherata sotto le
Verga: La Lupa
vesti della contadina siciliana. Nella Lupa (cfr.
Verga, T10) compare parimenti una se-
rie di tratti tipici della donna fatale, seppur filtrati attraverso l'immaginario e i modi espressivi del narratore popolare, che si colloca all’interno stesso del mondo contadino: l'aspetto fisico (è alta, magra, bruna, pallida, con i grandi occhi «neri come il carbone» che spiccano sul palloLa belva divoratrice, il demonio lussurioso ti
re del viso), i rimandi alla belva feroce, divoratrice d'uomini (il soprannome, «la Lupa», le «labbra fresche fresche e rosse, che vi mangiavano», la notazione: «ella si spolpava i loro figlioli»), il carattere demoniaco («quegli occhi da satanasso», «è la tentazione dell’inferno», «prima che il diavolo tornasse a tentarlo»), la lussuria insaziabile, che non'si arresta dinanzi ad alcun divieto morale o interdetto sociale. E difatti quella voracità sessuale conduce veramente alla per-
dizione il giovane genero, spingendolo al gesto omicida al fine di liberarsi «dall’incantesimo».
La donna idealizzata
L’esorcizzazione della donna
inquietante Lezione d’anatomia di Boito
L'immagine idealizzata e il «vero»
Sublimazione della donna e cancellazione
del sesso
Accanto alle donne fatali, compaiono ancora spesso, nelle pagine degli scrittori di questa età, figure di donne idealizzate, proiezioni delle aspirazioni sublimanti dell’uomo. La presenza di queste figure sembra rispondere al bisogno di esorcizzare l’immagine inquietante della donna, generata dai processi di trasformazione sociale in atto, col richiamo a ruoli più tradizionali e rassicuranti per l'immaginario maschile. Un esempio eloquente è fornito dalla Lezione d'a-
natomia di Arrigo Boito (cfr.
La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, T6). La vi-
sta della giovane morta bionda e bella suscita subito nel poeta, come reazione allo squallore disumanizzante della sala anatomica, il bisogno di costruirsi l’immagine di una «fanciulla pia, / dolce, purissima, / fiore languente / di poésia» e di fantasticare sui «sogni estatici / invan sognati / da quella mesta», sui «teneri casi» passati sulla sua testa, sugli «eterei» mille universi delle sue speranze virginali. Però, come sappiamo, il poeta scapigliato, per quanto ne senta il fascino, rifiuta ormai le sublimazioni romantiche, per cui a quell'immagine idealizzata si compiace amaramente di contrapporre il «vero» nella sua brutalità, il fatto che la fanciulla non è affatto pura, ma reca in sé «un feto di trenta giorni». Tuttavia il meccanismo si può leggere anche in senso inverso. Le costruzioni sublimanti possono essere solo il tentativo fallimentare di cancellare il fatto che la donna è dotata del sesso e può valersene liberamente, cosa che con ogni evidenza turba la coscienza maschile, alla quale la libertà sessuale della donna appare come una minaccia ad un dominio secolare e incontrastato. Boito usa il «vero» per neutralizzare le illusioni romantiche o si aggrappa alle illusioni per esorcizzare il «vero» che gli fa paura? L’ambivalenza tra culto del «vero» e culto dell’«ideale» che connota l'atteggiamento del poeta autorizza entrambe le letture.
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Fig. 2 e Edouard Manet, Colazione sull'erba, Parigi, Musée d'Orsay, 1863
scrivere il lavoro delle classi popolari, aveva già introdotto anche la figura della donna lavoratrice. Ne è esempio significativo un quadro del 1857 di JeanFrancois Millet (1814-1875), Le spigolatrici (fig. 3). In esso la composizione estremamente rigorosa e di ascendenza classica, incentrata sulla diagonale che lega le tre donne e sulla simultaneità del
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Fig. 22 e Egon Schiele, L'abbraccio, Vienna, ÒOsterreichische Galerie; 1917 Fig. 23 e Oskar Kokoschka, La sposa del vento, Basilea, Kunstmuseum, 1914 7.
maggior grado di autoconsapevolezza con cui il nudo divenne espressione degli atteggiamenti della psiche. Gli artisti di Die Bricke, dal canto loro, avevano espresso una visione tragica e minacciosa della donna, disegnata in schemi aguzzi, dai pro-
fili induriti: come nei volti lugubremente imbellettati delle Cinque donne per la strada (fig. 24), di Kirchner, prostitute immerse nell’atmosfera torbida della sera cittadina. Siamo ben lontani dalla rappresentazione “selvaggia” del corpo femminile offerta dai Fauves: in chiave di provocazione erotica con André Derain (fig. 25): come impulso vitalistico in Matisse (fig. 26), che resta fedele per tutta la vita al nudo femminile, e ne fa un arabesco musicale nel tema della Danza (fig. 27), ripetuto tra il 1910 e il 1931.
nella Pubertà (fig. 20); egli introduce anche il nudo volutamente oltraggioso, blasfemo, di cui contamina l’immagine sacra della Madonna (fig. 21), rendendo provocatoriamente erotica colei che concepì senza rapporti ses-
suali (ed un feto compare sull'angolo in basso a destra del quadro). Si viene insomma delineando una linea vi-talistica del sesso che sconfina col senso della morte, e che sarà compiutamente espressa in clima espressionista
dai corpi spigolosi e dagli amplessi tormentati di Egon Schiele (1890-1918) (fig. 22) o da quelli densi di emergenze dall’inconscio di Oskar Kokoschka (1886-1980)
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Fig. 26 e Henri Matisse, La gioia di vivere, Mario dazione Barnes, 1905-6
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Fig. 24 e Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne per la strada, Colonia, Wallraf Richartz Museum, 1913
D'ARTE PERCO / Fig. 27 * Henri Matisse, La danza, San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage, 1910
Fig. 28 e Amedeo Modigliani, Nudo sdraiato a braccia aperte, Milano, Collezione Mattioli, 1917
Picasso e il nudo femminile. È questo artista nel Novecen-
to il cantore più intenso del corpo femminile. Nelle Demoiselles d’Avignon (cfr. fig.10) egli sconvolge la rappresentazione della figura e dello spazio. Se osserviamo le ragazze ritratte, infatti, possiamo notare che esse sono
date in volumi fortemente definiti, geometrizzati, così come lo spazio circostante, e n el contempo pressati sul piano della tela. Inoltre ne risu ta sconvolta la prospettiVa: se osserviamo la donna in basso a destra possiamo no are che essa è sì impostata di schiena, ma in modo del tutto innaturale ne intravediam o un seno, mentre la faccla è completamente girata ve rso di noi. Il disegno dei volti è tagliato con l’accetta e scurito, come fosse di quel legno nerastro con cui sono scolpite le maschere africane. L'espansione coloniale europea aveva portato in Eu-
ropa dall'Africa numerosi esemplari di scultura africana, che aveva destato notevole interesse tra gli artisti, specialmente per il modo netto ed essenziale con cui venivano tagliati i volumi del corpo umano, e per gli ovali allungati dei volti. La scultura definita ‘negroide” influenzò fortemente anche un pittore italiano stabilitosi a Parigi nel 1906, Amedeo Modigliani (1884-1920), che la combinò col ricordo dell’arte manierista italiana in una serie di nudi femminili che ri- Fig. 30 e Pablo Picasso, Donna con prendono la tipologia bambino, Parigi, Musée Picasso, del Nudo sdraiato (fig. 1961 28) con un rigore formale di estrema eleganza. Picasso rimarrà fedele per molti decenni al “rimescolamento” delle parti del corpo femminile, dal ritratto (fig. 29) alla scultura (fig. 30); ma aveva già dimostrato prima del Cubismo di essere un eccezionale disegnatore in senso tradizionale (fig. 31),
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Fig. 29 * Pabl (OM lery, 1937
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Fig. 31 e Pablo Picasso, La vita, Cleveland, Museum of Atr, 1903
Verso una donna “astratta”. Nell’ambito delle Avanguardie storiche la scultura cubista si segnala per la rappresentazione di una donna quasi astratta, ridotta alla composizione di pochi scarni volumi, come a volerne
trarre l'essenza formale e psicologica ad un tempo. Tra i maggiori scultori cubisti, Aleksandr Archipenko (1887-1964) unisce questa riduzione a for-
me essenziali con l’eleganza delle pose della statuaria classica (fig. 33). La donna tra le due guerre. La pa-
Fig. 32 e Pablo Picasso, Donne che rigi, Musée Picasso, 1922
ed al nudo si dedicherà per tutta la vita, sino ai disegni erotici dei suoi ultimi anni, dimostrando tra l’altro di essere il più abile a darne un’impostazione classica, come nei suoi nudi dei primi anni Venti, quando fu attratto
dalle forme monumentali della statuaria romana (fig. 32). Fig. 33 e Aleksandr Archipenko, Torso di donna, Mannheim (Germania), Stàdtische Kunsthalle, 1922
rentesi tra le due guerre vede un panorama variegato, che dal reacorrono sulla spiaggia, Palismo spinto al grottesco giunge al simbolismo onirico. In Germania la Neue Sachlickeit riprende con Otto Dix il tema della prostituta per simboleggiare col progressivo degrado fisico femminile le sperequazioni sociali: così nel Trittico della metropoli il riquadro al centro mostra la donna elegante e briosa del mondo dei ricchi, quello a destra la donna torbida della sessualità delle classi medie, quello di sinistra la donna oramai disfatta di un quartiere popolare e malfamato (fig. 34). l'apporto diretto di Freud domina il nudo femminile surrealista: emblematica è a tal proposito un’opera di Salvador Dalì (1904-1989), Sogno causato dal volo di un’ape (fig. 35). Lo spunto è reale. L'artista si accorge di essere stato punto dormendo da un’ape. Riporta allora con
Fig. 34 e Otto Dix, Trittico della metropoli, Stoccarda, Galerie der Stadt, 1927-28
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scrivere immediatamente ciò che passa per la testa, senza pensarvi, come nel metodo freudiano delle libere associazioni) i sogni con cui l’inconscio ha elaborato tale avvenimento. Egli si vede sotto le sembianze di Gala, la sua compagna e musa, distesa nuda su uno scoglio piatto; la donna viene punta da una baionetta, con evidente simbolismo sessuale. Due tigri (una salta fuori dalla bocca di un pesce) condensano l’aspetto aggressivo della sessualità, mentre sullo sfondo un elefante dalle zampe di
libellula cammina sull’acqua, sublimazione dell'amore spirituale che ha comunque le sue basi nel simbolo canonico della sessualità materna, l’acqua. La donna d'oggi. Dopo la Seconda guerra mondiale l’as-
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senza di figurazione professata dalle varie correnti dell’Astrattismo ha limitato la rappresentazione realistica della donna, che ha però avuto una significativa stagione con la Pop art e con l'Iperrealismo. Le espressioni più interessanti della femminilità sono date però da un pittore e da un fotografo. Balthus (19082001) (fig. 36) esplora nei suoi dipinti il mondo magico dell'adolescenza, descritto in un’atmosfera sospesa tra il sogno del futuro ed il timore di esso, della maturità a venire. Helmuth Newton (1920), virtuoso dell’uso della luce e dell'ombra, nelle sue fotografie ci mostra una donna attuale psicologicamente vero “sesso forte”: autonoma, decisa ed indipendente anche nella sua sessualità,
l’automatismo tipico dei surrealisti (che deriva dal procedimento della scrittura automatica, consistente nello
venata di un sottile erotismo a sfumature sadomasochistiche (fig. 37).
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Fig.36 © Balthus, Nudo allo specchio, coll. privata, 1981-83
Fig. 37 e Helmut Newton, Grace Jones e Dolph Lundgren, Los
Angeles, 1985
235
Giorgio Strehler
Su queste basi, in epoca fascista, si parla molto di Teatri stabili e di un teatro di Stato che mai si realizzerà: ora i tempi sono mutati e sono maturi perché il progetto dei Teatri stabili si affermi. Il primo di questi a essere istituito è il Piccolo di Milano. Principale animatore, Paolo Grassi, che ne sarà anche l'organizzatore. Grassi ha idee ben precise: per lui il teatro deve essere un «servizio pubblico» come la metropolitana, sono parole sue, «una necessità collettiva» e, pertanto, la municipalità avrebbe dovuto sovvenzionare il proprio teatro, come se fosse un’opera di servizio per i cittadini. Questo l’apporto di Grassi. Ma le idee teatrali dell’organizzatore non erano poi tali da garantire un esito particolare dal punto di vista artistico: e qui entra in scena Giorgio Strehler. Strehler, nel 1947 quando fu fondato il Piccolo, ha soltanto ventisei anni — è quindi molto più giovane di Visconti — ma ha già alle sue spalle diverse regie. La sua poetica teatrale è ormai formata e, anche se muterà, come è di tutte le cose nel tempo, è da quei presupposti iniziali che si deve partire per comprendere la sua importanza nel panorama del teatro, non solo italiano. Strehler, benché non provenga dall’Accademia, manifesta nei confronti del testo un notevole rispetto, tipico appunto della scuola fondata da d'Amico. Le sue chiavi interpretative comprendono sia il registro lirico che quello realistico. Il registro lirico, però, risulterà fondamentale in tutte le sue regie e attribuirà a questi lavori quella cifra caratteristica che è propria del suo modo di fare teatro. Ma ecco come Strehler stesso sintetizza, in un’intervista del 1955, la sua posizione sia nei con-
fronti del testo che in quelli del lirismo e del realismo:
In senso generale direi che non vorrei essere caratterizzato da uri modo o dall'altro. Io credo che occorra essere lirici o realistici a seconda del testo a cui ci si riferisce. Se in Bernarda Alba [di Garcîa Lorca] vi sono momenti lirici ed osservazione realistica, il
mio compito di interprete è quello di far apparire, nel loro equilibrio e nei loro rapporti, gli uni e l’altra. Cioè nello spettacolo si dovrebbero verificare la stessa fusione e lo stesso felice contrappunto che già esiste nel testo. Si tratta sempre del problema del- l’interpretazione in cui regista e attori sono soltanto delle particolarità. Problema e condizione dell’interprete che dovrebbe implicare una disponibilità continua ad accettare il teatro così com'è. Possibilità di lasciarsi accettare dal teatro (testo, personaggi) e di farsi annientare da esso. È implicita la pericolosità della posizione, soprattutto umana, dell'interprete. In questo senso è mio avviso che non si pratica impunemente il teatro, qualora esista davvero questo abbandono di sé che è, per me, la condizione fondamentale
dell’interprete non più demiurgo ma strumento della creazione. (Intervista a quattrocchi con Giorgio Strehler, in «Sipario», n. 116, 1955, p. 17)
Chiara, dunque, la posizione di Strehler, che nel dichiarare che l’interprete non deve più essere inteso come un «demiurgo» ma come uno «strumento della creazione» polemizza non solo col grande attore ma anche con Visconti. Queste parole di Strehler non vanno però prese alla lettera, dal momento che una certa capacità “demiurgica”, e cioè di colui che dà ordine allo spettacolo attraverso le sue capacità creative, gli deve essere riconosciuta: i suoi spettacoli sono tutti segnati ine-
Arlecchino servitore di due padroni
luttabilmente dalla sua cifra interpretativa. Fin dai primi anni di vita del Piccolo questa caratteristica salta agli occhi. Lo spettacolo inaugurale è L'albergo dei poveri di Maxim Gorkij cui seguono, tra gli altri, Il mago dei prodogi di Calderén de la Barca, Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni e I giganti della montagna di Pirandello. Sono tutti spettacoli che oscillano dal filone realistico (il testo di Gorkij) a quello fiabesco. Ma il testo forse più significativo di questo primo periodo è quell’Arlecchino servitore di due padroni che farà il giro del mondo con incredibile successo. È veramente curioso notare come un testo che risente ancora fortemente della poetica della Commedia dell'Arte divenga un trionfo del teatro di regia. Questo ci fa toccare con mano come il regista abbia ormai trionfato su tutti i codici dello spettacolo. Si sa, dal momento che ne abbiamo parlato a lungo quando ci siamo occupati della Commedia dell'Arte, che questo tipo di teatro si basava soprattutto sull’improvvisazione. Ora non c'è nulla di meno improvvisato del teatro di regia, come abbiamo visto finora. L'Arlecchino di Streh-
ler è un perfetto meccanismo ben congegnato, in cui si presenta la Commedia dell'Arte negandola: i personaggi si muovono e parlano con le movenze e le intonazioni con cui si suppone si muovessero e parlassero gli attori della Commedia dell’Arte. Lo spettacolo presenta così la Commedia dell’Arte, come Strehler pensa sia stata, deprivandola però di quella che era la sua grande forza e cioè IL SECONDO NOVECENTO
2536
Scena d'insieme dell'Opera da tre soldidiBrecht per la regia di Giorgio Strehler, 1956.
L'incontro con Brecht
proprio l’improvvisazione dell’attore. Ne risulta un’opera corale, assai piacevole e divertente, dove però la recitazione degli attori denuncia inevitabilmente il suo legame con quel linguaggio della naturalezza che è il linguaggio dominante a partire dall’epoca fascista in poi nel nostro teatro. Fondamentale per Strehler è l’incontro con Brecht. La prima regia strehleriana di Brecht è quella dell’Opera da tre soldi nell’anno teatrale 1955-56, preceduta da quella della Linea di condotta per la Scuola d’arte drammatica del Piccolo teatro dell’anno precedente (su Brecht cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A30). Dopo questa molte altre saranno le regie di Strehler sull'opera di Brecht e talmente esemplari da farlo considerare il regista brechtiano per eccellenza, non solo in Italia.
Ha giustamente osservato Meldolesi: «Gli aiuti fiabeschi in Brecht svolgevano un ruolo quasi opposto a quello previsto dalla regia critica strehleriana: Brecht si serviva della saggezza accumulata delle fiabe per poi distruggerne l'aura; Strehler invece partiva dall’aura. È interessante pensare che Strehler decidesse di tenersi a distanza, finché non fosse stato in grado lui di assimilare Brecht, e non
viceversa. Lo Strehler “maturo” non fece poi questo?» (C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze 1984, p. 346). Strehler, quindi, ingloba nella sua poetica tesa a un teatro di poesia, fiabesco, quel Brecht che, al contrario, strutturava i suoi testi al fine di opporsi a quel teatro per poter giungere a ottenere una visione “critica” da parte dello spettatore e non una fruizione “immedesimata”. Brecht è il grande nemico dell’immedesimazione: egli si inventa una teorica recitativa, quella dello straniamento, cui fornisce una struttura testuale, quella del «dramma
epico», che serva proprio a distruggere l’“illusione” negli spettatori e a fare ragionare questi su ciò che sta avvenendo in scena. L’attore, per Brecht, dovrà recitare sempre “presentando” il personaggio e non immedesimandosi in questo. Il dramma epico — cioè a struttura narrativa — permetterà a
questo attore “straniato” di recitare in quel modo. Allo scopo di negare allo spettatore l’identificazione col personaggio recitato da un attore, il dramma epico strania continuamente l’azione (cfr. sempre A30) con interruzioni della rappresentazione: canzoni, digressioni appunto “narrative”, ecc. Il modo in cui Strehler affronta Brecht è certo rispettoso di questa impostazione ma, come abbia-
mo appena letto, lo «assimila». Le regie brechtiane, ben lungi dal distruggere la magìa, la accentuano; e la fiaba, che Brecht usa per ottenerne degli effetti stranianti, nelle mani di Strehler dà luo-
go a un mondo fiabesco, perfettamente coerente al lirismo della poetica teatrale strehleriana. La stessa recitazione straniata è ottenuta da Strehler con un’accentuazione di determinati moduli reTEATRO 9
237 citativi che tendono, pur nel linguaggio della naturalezza, a spezzature e asprezze che però non giungono mai a far sì che l’attore “mostri” il personaggio, come vorrebbe Brecht, poiché il suo modulo recitativo rimane, appunto, liricheggiante.
2. PERSISTENZA DEL GRANDE ATTORE
*
Memo Benassi
Il periodo che inizia col 1945, come abbiamo appena visto, è quello del trionfo della regia. Tutte le attenzioni sono concentrate sul nuovo demiurgo dello spettacolo. La critica, che nell’epoca fra le due guerre aveva abituato i suoi lettori al racconto della trama del testo e ad alcuni accenni finali e sbrigativi sugli attori, ora, dopo l’eterna trama del testo, si occupa della regia: sempre finali e sbrigativi gli accenni agli attori. La saggistica segue l'esempio dato dalla critica giornalistica: molti sono gli studi sulla regia, mentre pochi quelli sull’attore. Anche il pubblico si adegua a questo modo di vedere il teatro e affolla più volentieri le sale quando lo spettacolo è garantito da un regista di fama. Malgrado tutto però il grande attore (che in quanto tale è sempre un po’ mattatore) è ancora ben vivo nel teatro italiano. Fra questi il più grande della generazione precedente la Seconda guerra mondiale è certamente Memo Benassi (1891-1957). Ma la sua grandezza appare in tutto il suo fulgore proprio in questo secondo dopoguerra. La sua carriera d’attore inizia durante la Prima guerra mondiale nella compagnia di Ermete Novelli. Nel 1921 è primo attor giovane nella compagnia di Eleonora Duse che quell’anno tornò alle scene dopo una lunga assenza. Dopo la morte della Duse formerà diverse compagnie (tra le altre quelle con Irma Gramatica, prima, e con Emma Gramatica poi) e reciterà sempre nelle parti di primo attore. Nel 1945 Benassi mette in scena un “suo” Amleto. Il capolavoro shakespeariano è considerato, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, il cavallo di battaglia di tutti i grandi attori e ciascuno di questi ne fa una propria personale creazione. Quella di Benassi si oppone a tutte le altre:
L’aver scoperto che al centro della tragedia in genere e perciò anche di questa [...] c'è sempre un eroe di misura e di proporzioni sopra l’umano, e l’aver puntato tutto su questa carta, ciò costituisce un merito più unico che raro. Tutte le moderne interpretazio-
ni di questo personaggio, anche grandi, anche grandissime, tendono a preoccuparsi di
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Scena d'insieme di Arlecchino servitore di due padroni per la regia di Giorgio Strehler.
IL SECONDO NOVECENTO
258 renderlo quanto più possibile vicino alla umanità comune, di vivisezionare e attualizzare la sua psicologia sacrificando l’eroe all'uomo, col risultato di minimizzare le sue proporzioni rendendo il personaggio sempre più “vero” e sempre più piccino [...]. Benassi ha proceduto al contrario: dove gli altri hanno messo questo gigante psicastenico sotto un microscopio egli ci ha puntato davanti un telescopio.
Interpretazione enorme, incontinente e forsennata, che si scuote dalla schiena ogni schema e ogni incrostazione romantica, veristica, intellettualistica e psicologica. Tutto nuovo, tutto diverso dagli altri, tutto e sempre un dito sopra le righe. (C. TERRON, Amleto al telescopio, in «La Lettura», 6 dicembre 1945, p. 13)
Questa recensione mette assai bene in rilievo l’eccezionalità della recitazione, e della concezione
del teatro, di Benassi. In lui tutto è portato al parossismo: in un periodo in cui la linea dominante del teatro di regia, che è quella di Strehler, tende a smorzare i toni ottenendo un effetto realistico-
fiabesco, Benassi reagisce proprio attraverso un’enfatizzazione della recitazione tipicamente anti-
naturalistica. A lui non interessa portare sulla scena un personaggio ma esprimere, attraverso un personaggio, i sentimenti e le passioni dell'umanità e, contemporaneamente, contrapporsi al teatro dei suoi tempi, realistico appunto, che egli rifiuta. Dotato di una sensibilità esasperata è passato alla storia anche per le sue intemperanze e per la sua indisciplina. La sua recitazione non era mai uguale sera per sera, ma variava a seconda del suo stato d’animo e del suo rapporto col pubblico. Nemico del teatro ripetitivo — e quindi dell’industrializzazione del teatro — egli era insensibile alla trama dell’opera che rappresentava e poteva certe sere, come fece, saltare ampi brani del testo, quando non anche un atto intero. Rimane nella memoria degli spettatori di allora una sera in cui iniziò l’ultimo atto di Hedda Gabler di Ibsen e giunse subito alla battuta finale: per qualche motivo, il grande attore non “sentiva” la serata. Questo modo di agire non poteva non contrastare con la tendenza dominante del tempo — e nostra ancora — che tende a uno spettacolo sempre uguale, dalla prima recita all'ultima, per le ragioni che già molte volte si sono dette. La sensibilità di Benassi era lontana da ciò che noi oggi definiamo «professionismo»: Benassi non era un professionista, era un poeta del teatro, e, come tale, seguiva il suo estro. Ma dire «poeta» può ingannare. Infatti il poeta vero e proprio, quello che scrive poesie, può ritornare sulla propria opera quante volte gli pare, finché ciò che ha scritto risulti tutto all’altezza della sua ispirazione. Questo vuol dire che lo scrittore — come il pittore, il musicista ecc. — distilla nel tempo i suoi lampi di illuminazione e li riunisce poi tutti insieme in un solo scritto. Quello che ci fa riconoscere una poesia come riuscita è proprio il fatto che non ha “cadute”, che tutto, in quel componimento, è teso e compatto, che ogni parte è all’altezza del tutto. Ma questo modo di procedere non è dato all’attore. Quando questi sia dotato di una forte sensibilità dovrà poi sempre fare i conti con la “prosasticità” di quel teatro che, non a caso, è definito “teatro di prosa” poiché si basa su una trama e su dei personaggi, e soprattutto col fatto di non poter tornare sulla propria opera che si realizza, lì e ora, sera per sera. Di qui il comportamento di Benassi: egli “fissa” i suoi lampi di illuminazione e poi abbandona tutto il resto o addirittura saltandolo o, per usare il gergo teatrale, “tirandolo via”, cioè recitandolo senza alcuna convinzione, ve-
locemente e in modo sciatto. Benassi diede vita a personaggi indimenticabili, se pure nel modo in cui s'è detto e cioè non impersonandoli: dal Tartufo di Molière, all’avaro di Goldoni, al Delfino
di Santa Giovanna di Shaw, che egli rese in modo tale da essere definito addirittura «delittuoso» da quel Silvio d'Amico che abbiamo visto per nulla tenero nei confronti
TEATRO9
Memo Benassi.
239 del grande attore. Benassi fu colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto a morte mentre preparava Re Lear di Shakespeare, un altro ruolo, come quello di Amleto, canonico per il grande attore non più giovane. Il teatro dialettale è una realtà italiana piuttosto forte. All'indomani dell'Unità (1861) coloro che
Il teatro dialettale
parlano italiano sono pochissimi: per lo più i cittadini del nuovo paese parlano il dialetto. Di qui la grande importanza che ha il teatro dialettale, che fiorisce un po’ in tutte le regioni. D'altro canto sappiamo che questa situazione si rifletteva già nelle maschere della Commedia dell'Arte: gli Zanni parlavano bergamasco, Pantalone e Arlecchino veneziano, il Dottore bolognese, Pulcinella napoletano. Ed è proprio in area napoletana che si registra la maggior persistenza del dialetto e che si sviluppano i maggiori fenomeni attorali: tra questi, a lasciar stare l’Ottocento, ricorderemo i maggiori che sono Raffaele Viviani, i De Filippo e Totò. Quest'ultimo costituisce un caso a parte, come vedremo. Raffaele Viviani (1888-1950) è certamente il più grande attore e scrittore napoletano di commedie della prima parte del secolo. Egli inizia la sua carriera nel varietà e passa in seguito al teatro di prosa. Nella sua autobiografia scrive:
Raffaele Viviani
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è vero che io fui un artista singolare, ma pur vero che ero un artista del varieté. E l'arte mia è germogliata la; là si è plasmata, là ho imparato le infinite magagne del palcoscenico e a conoscere il pubblico, a capire, leggendo nell’aria, fiutando nell'atmosfera, se il pubblico era preso oppure no. All’attore del varieté non occorre molto tempo per capire se piacerà: gli bastano le prime “battute”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Cappelli, Bologna 1928, p. 77)
Il suo passare dal varietà al teatro di prosa comporta anche un allargamento del circuito che da regionale diviene nazionale. Con questo non si vuole dire che Viviani sia stato il primo: basti pensare al siciliano Angelo Musco (1872-1937) che, oltre al proprio repertorio, era stato anche un interprete delle commedie “siciliane” di Pirandello (Pensaci, Giacomino!, Liolà, La giara, Il berretto a
sonagli). Ma Viviani portò nel teatro nazionale un’aria nuova, un modo diverso di concepire il teatro regionale. Questo era per lo più il luogo — a parte l’eccezione costituita dal repertorio pirandelliano di Musco — della farsa e del sentimentalismo. Viviani si pone come innovatore facendosi portatore di una poetica decisamente più asciutta e “crudele”, in cui il dialetto non è più usato in funzione di copioni strappalacrime (come accade per esempio, ancora oggi, nella sceneggiata napoletana) ma di testi che tendono a un certo realismo. Si può esemplificare su quello che da molti viene considerato come il suo capolavoro, Nterra ‘a Mmaculatella (1918) divenuto poi, nel processo di italianizzazione del dialetto, Scalo marittimo. In questo testo vive una Napoli sottoproletaria e infida, colta al momento della partenza di un piroscafo di emigranti. Il sentimentalismo proprio dei copioni in dialetto e di quel linguaggio scenico di maniera è bandito, almeno fino all’ultima scena: chi può inganna chi si lascia ingannare. Si tratta di una furiosa e beffarda guerra tra poveri, anzi poverissimi; compare anche un bellimbusto a fare da contrasto, e insieme da complemento, a
quell’umanità cenciosa e crudele. La recitazione di Viviani è fredda e distaccata, come di chi narra e espone una situazione di cui egli è parte, ma in cui non si immedesima.
Dialetto e linguaggio della naturalezza
Questa recitazione, così
nuova per il teatro napoletano, è però percorsa da una nota patetica che manca del tutto al totale distacco e alla crudeltà di Petrolini. Ma questo si capisce perché la recitazione dialettale — anche quando il dialetto non è più tale ma l’attore usa un italiano fortemente accentuato in senso dialettale — è una recitazione più «naturale» di quella in lingua. La lingua che viene usata sul palcoscenico è, infatti, una lingua artefatta, modellata sul fiorentino colto senza essere il fiorentino, dal momento che abbiamo anche degli attori dialettali fiorentini come quella Garibalda Niccòli (1863-1929), che conosce anche lei un notevole successo nel pri-
mo Novecento. Il dialetto, al contrario, è la lingua che si parla in quel periodo storico e che parla soprattutto il popolo. Di qui una certa artificialità nella recitazione degli attori “in lingua” e una maggior naturalezza in quella degli attori dialettali. Anche per questo motivo Petrolini non voleva appartenere al teatro dialettale, egli che aborriva il naturalismo, e diceva di non essere «romanesco» ma «romano» e cioè, data l’epoca e il culto di Roma proprio del fascismo, nazionale e anche sopranazionale, mondiale.
Il fascismo guarda in modo contraddittorio al teatro dialettale. Da una parte gli si oppone perché vede nel regionalismo una diminuzione di quella forza nazionale di cui è paladino; dall’altra però i critici del tempo, tutti tesi alla naturalezza, vedono negli attori dialettali proprio coloro che realizIL SECONDO NOVECENTO
240 zano, per i motivi detti prima, al massimo grado quella “naturalezza”. E il periodo tra le due guerre vedrà proprio l'affermarsi di attori dialettali come il veneziano Cesco Baseggio (1897-1971) e il genovese Gilberto Govi (1885-1966), oltre ai De Filippo che costituiscono il fenomeno forse maggiore di questo tipo di teatro. | De Filippo
I fratelli De Filippo sono tre: Titina (1898-1963), Eduardo (1900-1984) e Peppino (1903-1980).
Figli naturali di Eduardo Scarpetta (1859-1925), attore e scrittore drammatico napoletano, esordirono giovanissimi nella compagnia del padre. Dal 1929 al 1944 formarono la Compagnia del teatro umoristico. Nel 1944 Peppino si divise da Eduardo, mentre Titina continuò a lavorare con questultimo. La Compagnia del teatro umoristico recitava per lo più testi scritti dai tre fratelli; ma ben presto quelli di Eduardo si rivelarono i migliori, anche se i più importanti li scrisse nel secondo dopoguerra. La compagnia aveva due caratteristiche che andavano decisamente incontro ai gusti dell’epoca: la naturalezza della recitazione e la recitazione di complesso. Ecco una cronaca del 1932:
Contrariamente all’uso, è questa una compagnia dialettale senza mattatore: una formazione, modesta pel numero dei componenti, che vuole piacere pel suo assieme. Recitazione omogenea, fusa, senza sbalzi e pure movimentatissima, accorta e accurata, piacevole senza volgarità. In ogni lavoro i tre fratelli [...] hanno la loro parte, quella che può metterne in evidenza le doti; e, poi che non ci sono ruoli e gli attori non tentano di
sopraffarsi e non abusano di lazzi e soggetti e di quelle tirate a fin di strappare l’applauso [...], il diletto allo spettatore è accortamente distribuito. (E PETRICCIONE, Nuova generazione dialettale: i De Filippo, in «Comoedia», n. 6, 1932, p. 46)
Con questo non ci si stupisce del successo che da sempre arrise ai De Filippo, anche tenuto conto delle loro diverse personalità. Titina era un’attrice intensissima: la sua più alta realizzazione fu quella di Filumena Marturano (1946), commedia scritta per lei da Eduardo. La sua intensità si realizzava attraverso una recitazione scabra, ruvida, dura, priva di sentimentalismo, che proponeva, invece, una interpretazione vivissima dei grandi sentimenti, quale quello materno in Filumena Marturano. Peppino era il più comico dei tre. Ricco di doti naturali eccezionali, egli, da questo punto di vista, eccelleva anche sul fratello. Ma proprio il suo talento naturale lo portò spesso a strafare. Le commedie che scrisse — più di cinquanta — sono strettamente legate al suo personaggio. Inoltre una non vigile sapienza critica lo portò anche a cadute memorabili come quella maschera di Pappagone che creò per uno spettacolo televisivo e che non fa certo onore alla sua bravura d’attore. Più importante di tutti e tre i fratelli fu, dunque, Eduardo. In questo volume è presente nella parte letteraria per il posto che gli compete come forse il più grande scrittore di commedie di questi ultimi cinquant'anni (cfr. [Generi] La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento,
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Peppino, Titina e Eduardo De Filippo negli anni Trenta.
TEATRO 9
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241 A49, T94). Il suo modo di recitare era straordinario. La voce sembrava sgrondare da un rubinetto
rotto, i suoi gesti erano meccanici, il suo volto, scavato e triangolare, esprimeva sapientemente i va-
L'avanspettacolo
ri sentimenti, le sue movenze erano burattinesche; egli sapeva inoltre creare rapporti spaziali con gli altri attori di grande sapienza scenica, e usare le pause, ora brevi ora lunghe, in modo scaltrissimo, dal momento che risultavano sempre irrimediabilmente “giuste” e inesorabilmente “pertinenti”. In queste pause è presente quell’inesprimibile e quell’indicibile che è proprio del grande attore. Ma tutta questa sapienza attorica era però in qualche modo inficiata nella sua grandezza da un’eccessiva naturalezza, che lo deve far considerare lontano da attori antinaturalistici quali Petrolini e Totò e che sfumava spesso nel sentimentalismo: sentimentalismo (e populismo) che sono anche una caratteristica della sua produzione scritta. Abbiamo visto (cfr. Teatro 8, 8 2) come in epoca giolittiana si passi dal caffè-concerto alla rivista e abbiamo anche sottolineato come questo passaggio rappresenti uno dei momenti di industrializzazione dello spettacolo, dal momento che la rivista risulta più “regolare”, e quindi prevedibile e ripetibile, del caffè-concerto. Durante l'epoca fascista avviene uno strano processo che, in qualche modo, sembrerebbe proprio capovolgere quello precedente: nasce l’avanspettacolo, che fiorirà in tutti gli anni Trenta, nei Quaranta e giungerà fino agli anni Cinquanta. L’avanspettacolo è una rivistina che precede lo spettacolo cinematografico (di qui il nome) e dura un’ora 0 poco più: gli ingredienti sono gli stessi del caffè-concerto: ballerine, un comico, un cantante, ecc. La struttura « aperta» dell’avanspettacolo porta quest’ultimo a un più diretto rapporto con la storia, con la vita e, quindi, con l’attualità. La parodia, la macchietta, l’allusione a ciò che avviene fuori del teatro sono la base stessa della comicità così del caffè-concerto come dell’avanspettacolo. La rivista, al contrario, come
spettacolo ben confezionato, prevede una qualche forma di trama, un grande dispiego di lusso attraverso le scenografie e le ballerine, e degli sketch comici che si inquadrano nel tutto. Ovvio che il grande comico gode di una libertà assoluta nei confronti del copione; e Totò dirà che «Per un comico vero il copione non deve contare nulla» (testimonianza raccolta da Nello Ajello e riportata in F Faldini-G. Fofi, Totò: l’uomo e la maschera, Feltrinelli, Milano 1977, pi124).
Ma questo ritorno — auspice la diffusione del cinematografo — a una forma di spettacolo più “spontanea” e diretta è decisamente più apparente che reale. Infatti il grande successo della rivista sia prima che durante gli anni Trenta non è certo finito e gli spettacoli che precedono la proiezione dei film altro non sono che imitazioni povere e squallide della grande rivista. D’altro canto non è poi a dire che quel legame più diretto che il comico dell’avanspettacolo ha con la realtà porti a una critica di questa: non tutti sono Viviani o Petrolini. Anzi, al contrario, la norma è che in questo tipo di teatro, altissimamente commerciale (il suo bilancio, nel ’36, è decisamente superiore a quello della prosa e della lirica messi insieme; L. Ridenti, Avanspettacolo, in «Il Dramma»,
1 marzo 1936, p. 32),
ci sia una condiscendenza nei confronti di ciò che avviene fuori. Ecco che, per esempio, durante la guerra d'Africa, rivista e avanspettacolo fanno a gara a chi fosse più allineato, come dimostra una testimonianza di un critico dell’epoca:
Ricordiamo tutti le canzoni e le piccole riviste dal 1920 al 1922, con la clamorosa esaltazione del Fascismo. Né dimentichiamo che recentemente, in occasione dell’epica conquista dell’Abissinia, alcune persone di buona volontà hanno riesumato gli efficaci spunti di una graziosa Marcia per far cantare a tutta l’Italia quella spigliatissima Faccetta nera il cui ritornello è stato gioiosamente ripetuto sino all’entrata in Addis Abeba. (N. SANNIA, Il teatro di varietà, Arti Grafiche Trinacria, Roma
1938, p. 41)
Nell'insieme, dunque, il regime amava lo spettacolo “leggero” e ne scopriremo le ragioni, peraltro facilmente intuibili, leggendo un brano delle memorie di quello che fu il censore teatrale del fascismo, Leopoldo Zurlo. Questi era rigorosissimo col teatro di prosa e censurava inesorabilmente qualsiasi allusione men che rispettosa al fascismo; attento era anche a tutto ciò che riguardava la morale corrente, dimostrandosi di una pruderie decisamente accentuata. Per ciò che riguarda la rivista è, invece, particolarmente indulgente e ci dice chiaramente il perché:
Da questo rapporto [si tratta del rapporto che il censore compila per il Duce cui spetta l’ultima parola] esula come di dovere l'apprezzamento estetico; né l’austera censura può lodare un genere che, piccante contrasto, fa della morale sopra uno sfondo di roIL SECONDO NOVECENTO
ep see nudità; ma insomma Divertiti stasera [di Galdieri] non affatica lo spettatore, ne accarezza l’occhio con visioni fastose e belle creature vestite con una sobrietà che non
esclude l’artifizio, e infine la gaiezza ha pure la sua eleganza ed il riso la sua salubrità... (L. ZurLo, Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1952, p. 173)
E quale fosse questa «salubrità» l’aveva detto poche pagine prima riportando un altro suo “indulgente” rapporto:
— Masi dice lo stesso che l’olio è poco, che il sapone è scarso... — Bella novità, questo lo sanno già tutti e intanto l’autore sembra audace senza esserlo, non dice male del Governo, né peggiora le idee del pubblico. E nulla dispone meglio all’ottimismo del riso senza malizia.
(Op. cit., p. 164)
Come si vede tutto risulta chiaro e inequivocabile: va benissimo che si rida purché sia «senza malizia», così come va benissimo che si sembri audaci, ma «senza esserlo»; anzi audaci bisogna sem-
brarlo così il pubblico può sfogare col riso la sua tensione. In questi anni prima Viviani, poi Petrolini, poi i De Filippo lasciano il varietà per il teatro di prosa: ciascuno ha le sue ragioni, che sono poi quelle di una “promozione” artistica e sociale insieme, ma certo una ragione comune è anche costituita dal conformismo di questo tipo di teatro. Solo Petrolini fa eccezione dal momento che dichiara: «Interpreto lavori drammatici unicamente per mostrare che so interpretarli. Non perché io creda così di raggiungere più alte e più ardue vette dell’arte» (E. Petrolini, Abbasso Petrolini [1922], in Memorie, a cura di A. Calò, Edizioni del Ruzante, Venezia 1977, p. 148). Totò
E qui sta la grandezza di Totò (nome d’arte di Antonio De Curtis [1898-1967]), che invece in quel teatro rimase sempre, finché non trovò nel cinematografo anch'egli il modo di sottrarsi al conformismo della rivista degli anni Cinquanta. Il varietà e l’avanspettacolo permisero a Totò di raffinare la sua arte sapientissima d’attore fin dagli anni Venti, come dimostra una testimonianza di Sandro De Feo:
Continuò a compiere [quelle «operazioni»] fino agli anni più tardi, ma allora il corpo era giovane ed elastico, ed era ancora più viva e urgente la voglia di colpire, di strabiliare il suo pubblico, bisognava vederlo portare le braccia in su, piegando le mani verso gli omeri come una danzatrice sacra indiana, e poi cominciare a buttare il torso nella direzione opposta dell'addome e la testa in tutt'altra direzione rispetto al torso, e gli occhi storcersi nella direzione contraria a quella del capo, e la bazza per conto suo rispetto alla bocca, e il pomo d’Adamo correre in giro vorticosamente facendo correre la farfallina nera della cravatta. Era proprio allucinante Totò a ventisei o ventisette anni in quell’esercizio. La prima volta io ci rimasi persino un po’ male. Avevo visto tanti comici napoletani della grande tradizione [...], li avevo visti aver paura sul palcoscenico e tremare, perdere il colore, balbettare più o meno naturalisticamente com'è giusto che faccia un attore che vuol far ridere dando a intendere che ha paura. Totò non faceva nulla di tutto questo, non tremavano le mani, non tremava la voce e neppure il corpo, solo si spostava, si dislocava, si dissociava a quel modo. Eppure subito io capii [...] che di quel suo corpo prodigioso Totò si era servito per farmi ridere dandomi a intendere che aveva paura.
(riportato in Totò, a cura di G. Fofi, Samonà e Savelli, Roma 1972, pp. 161-162) —
In questa testimonianza rileviamo subito due elementi: l’antinaturalismo di Totò e la sua capacità di unire comico e tragico. Totò, infatti, ha paura e mostra la sua paura nel modo descritto che è anche presente in molte sue prestazioni cinematografiche. Il rapporto con lo spettatore però è, al solito, diverso tra il cinema e il teatro. Chi ha visto Totò in teatro sa bene che quello che si vede al cinema è una pallida immagine del grande Totò. Egli aveva bisogno del pubblico; anche lui, come Petrolini e probabilmente sulla scorta di quest'ultimo, eccelleva negli slittamenti. Rimane famoso nelle cronache del teatro il suo invito allo spettatore ritardatario — poi ripreso troppe volte da comici tanto inferiori a lui —: «Faccia pure con comodo, venga avanti, aspettavamo solo lei per incominciare».
TEATRO 9
243 Torniamo all’antinaturalismo di Totò.
Grazie a questo elemento, così importante per determinare la prestazione di un attore di questo periodo storico, e alla sua capacità di unire comico e tragico, egli si iscrive di diritto nel teatro del grottesco. Il tragico scaturisce dal comico, e viceversa:
il tutto espresso
in
modo antinaturalistico. I comici tradizionali napoletani cui si riferisce De Feo mostrano la paura in modo naturalistico: i segni della paura sono quelli che qualsiasi uomo, nella loro condizione,
mostrerebbe se avesse paura: al massimo l’attore connota questi gesti in mo-
do particolarmente teatrale attraverso l'amplificazione. Ma, facendo così, non
ne mette in mostra il ridicolo. Perché in ogni azione umana, come abbiamo letto sia in Pirandello che in Petrolini, comico e tragico sono congiunti. Un uo-
mo che ha paura farebbe veramente riTotò e Franca Faldini nell'ultima rappresentazione di A prescindere, 1956.
dere, se non intervenisse il sentimento
del contrario. La paura, così come era mostrata dai comici napoletani tradizionali, faceva ridere solamente perché era esagerata: quella mostrata da Totò fa ridere perché mostra il lato ridicolo presente in ogni situazione tragica, ineluttabilmente connesso con questa. Questo risultato, che fa tremare la terra sotto i piedi allo spettatore perché si sente anch'egli coinvolto nel grottesco, Totò lo ottiene con mezzi antinaturalistici, non creando un personaggio da recitare davanti al pubblico, ma mostrando a questo un Totò che ha paura, inverosimile, incredibile eppure efficacissimo. Un'altra caratteristica di Totò è quella costituita dalla sua “crudeltà”. Sia Viviani che Petrolini che Totò sono crudeli, prima di tutto con se stessi e poi con gli altri. Petrolini è crudele con tutti e le sue «macchiette» colpiscono sia Gastone che Giggi er Bullo, figura del sottoproletario romano. Anche in questo Totò è simile a Petrolini: basti pensare al famoso sketch del vagone letto (riportato nel film Totò a colori) in cui la messa in berlina, oltre che di se stesso, è rivolta all’«onorevole» Trombetta, prototipo di tutti coloro che nella vita vogliono far pesare la propria carica, e cioè l'apparenza, al di sopra di ciò che veramente sono. In altri casi la critica di Totò è rivolta ai poveracci, come è lui sul palcoscenico: e dalla messa in parodia dei due (lui e l’altro poveraccio) scaturisce una critica di tutta la società: e questa è una caratteristica, come abbiamo visto, del grande attore grottesco.
3. L'ATTORE DELLA NUOVA GENERAZIONE Vittorio Gassman
Tra Benassi, che è del 1891, e Gassman,
nato nel 1922, ci sono trentun’anni:
il tempo di una ge-
nerazione. Nella storia del teatro italiano degli ultimi due secoli è questo l'intervallo — quello che si suole convenzionalmente definire di una generazione — che passa tra il grande attore della vecchia generazione e quello della nuova. Non sempre l'intervallo di trent'anni è perfettamente rispettato (e vedremo che tra Gassman e Carmelo Bene passano solamente quindici anni); ma, anche in questo caso, le eccezioni confermano la regola. E Vittorio ranta e negli nuovamente da Federico
Gassman è senz'altro il grande attore della nuova generazione che nei tardi anni Quaanni Cinquanta propone una nuova figura d’attore, più o meno ironicamente definito «mattatore». D’altro canto Il mattatore è il titolo di un programma televisivo, scritto Zardi (1912-1971) che ebbe come protagonista Gassman, e Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso è il sottotitolo dell’autobiografia dell'attore: Un grande avvenire dietro le spalle. La definizione di mattatore spetta dunque di diritto a Gassman, visto che egli stesso se l’attribuisce. Ma di un mattatore particolare si tratta, dal momento che Gassman proviene dall Accademia e di quella scuola mantiene sempre saldi alcuni presupposti, come subito vedremo
244 Abbiamo letto (cfr. qui sopra il $ 1) la dichiarazione di Luchino Visconti a proposito della “ribellione” di un Gassman ventitreenne per la messinscena di Adamo. Se dobbiamo credere alle parole di Visconti, quella ribellione sarebbe rientrata e Gassman avrebbe fatto quello che il regista voleva. Ma le cose non dovevano poi stare proprio così se, soltanto tre anni dopo, nel 1949, dopo una diatriba a proposito dell’Oreste di Alfieri, l'attore avrebbe abbandonato per sempre il regista divenendo, da quel momento in poi, capocomico. E anche regista di tutti i suoi spettacoli futuri, dopo un primo momento di collaborazione con un altro allievo dell’Accademia, Luigi Squarzina (n. 1922).
Gassman risulta quindi, già prima dei suoi venticinque anni, dotato di una personalità d’attore notevolissima. Il suo modo di recitare si riallaccia direttamente non tanto alla generazione precedente, e cioè all’attore manierista, quanto a quella che viene prima ancora: il suo modello è il grande Zacconi (cfr. Teatro 7, $ 5). La sua recitazione, sorretta da eccezionali doti di voce e fisiche, è qua-
si all’opposto di quella di Benassi: portata agli eccessi, “magniloquente” nel senso etimologico del termine e cioè propria di chi parla in modo grande, alto. Una personalità così forte non poteva accordarsi col teatro di regia se non a costo di trasformare l’attore anche in regista. È lo stesso Gassman che, a posteriori (il libro da cui stiamo per citare è del 1982), ci dice che cosa, secondo lui, debba essere la regia:
Il regista è una guida all’interpretazione. Quindi, in certa misura, deve essere un critico, uno in grado di “leggere”, come oggi si dice, un testo drammatico, e di intuirne un significato traducibile in termini scenici. Poi deve accordare i vari elementi dello spettacolo, uno dei quali è la recitazione degli attori, perché concorrano a dare, nel modo più unitario possibile, quel significato, da lui intuito, alla rappresentazione. Ma non può, cioè non deve, andare oltre. L’accensione del sentimento, la deflagrazione che de-
riva dall'impatto tra finzione e verità, va lasciata all'attore. Gli si deve lasciare un margine di libertà, proprio per quel che riguarda la meccanica dei sentimenti; se questa è tutta guidata diventa fatalmente qualcosa di esteriore, di sovrapposto, e quindi di nessuna efficacia. (V. GASSMAN, Intervista sul teatro, a cura di L. Lucignani, Laterza,
Roma-Bari 1982, pp. 49-50)
Come si vede Gassman, a differenza del mattatore tradizionale, è disposto a riconoscere al regista quella funzione di critica del testo da mettere in scena che deriva dall’ideologia teatrale dell’Accademia. Ma, contrariamente a ciò che avviene regolarmente dal secondo dopoguerra a oggi, non è disposto a concedere al regista il “dominio” sugli attori. Chiarito all’attore il significato di un testo, il regista dovrebbe ritirarsi in buon ordine e lasciare all’attore il suo spazio, che è quello della «meccanica dei sentimenti». Come si vede, è un'idea di regia dimidiata che si contrappone a quella di Visconti come a quella di Strehler o, in anni più vicini a noi, di Luca Ronconi (n. 1933).
L'attore Gassman conoscerà negli anni Cinquanta numerosi e strepitosi successi tra cui spicca for-
se fra tutti quello di Amleto (1952), giunto a noi anche in un’edizione televisiva, più volte trasmessa, in cui la parte di re Claudio è recitata magistralmente da Benassi. Ma l'evento forse più importante nella carriera teatrale di Gassman è la fondazione di quel Teatro popolare italiano (TPI) che fu inaugurato nel 1960. Per questa impresa Gassman si associò a un grande organizzatore teatrale,
Giuseppe Erba: insieme fecero costruire una struttura monumentale che avrebbe dovuto essere viaggiante, come un tendone da circo, ma studiato con nuovi criteri tanto da permettere un palcoscenico amplissimo e tremila posti per gli spettatori. Gli intenti dell’operazione sono detti a chiare lettere nel manifesto programmatico pubblicato nel primo numero dei «Quaderni del Teatro popolare italiano»: Col «Teatro popolare italiano» ci siamo proposti innanzi tutto di creare un organi-
smo capace di rispondere alle vere necessità di una vita teatrale moderna nel nostro paese. Queste necessità sono, a nostro avviso, essenzialmente tre: 1) spettacoli di buona fattura tecnica e significativi per il contenuto; 2) condizioni economiche molto accessibili; 3) nessuna discriminazione nei confronti del pubblico di provincia rispetto a quello di Roma e Milano. TEATRO 9
245 In pratica questo significa riunire in un solo organismo due tipi di funzione, quelle proprie dei teatri stabili (per quanto riguarda la qualità delle rappresentazioni) e quelle proprie delle compagnie di giro (per quanto riguarda la possibilità di raggiungere i centri periferici). Il «Teatro popolare italiano», così com'è organizzato, dovrebbe poter soddisfare l’una e l’altra esigenza. (V. GASSMAN - L. LUcIGNANI, TPI, in «Quaderni del teatro popolare italiano», n. 1, p. 1)
Purtroppo, però, il tendone mastodontico si rivelò difficilmente agibile. Eretto una prima volta nel Parco dei daini a Villa Borghese a Roma (in quaranta giorni contro le quarantotto ore previste) sarebbe stato rimontato poi una sola volta a Milano, sempre nel 1960. Per lo spettacolo inaugurale fu scelto l’Adelchi di Manzoni, che venne poi portato in varie città d’Italia sotto il tendone di un circo tedesco affittato. A Milano, invece, la mastodontica struttura servì a presentare una novità ita-
liana, Un marziano a Roma, di Ennio Flaiano (1910-1972), che però cadde seppellita da un mare di fischi. Nel frattempo, durante l’estate, il TPI aveva rappresentato al teatro greco di Siracusa l’Orestiade di Eschilo tradotta in modo magistrale da Pasolini. Come si vede il repertorio del TPI era stato coerente con i principi cui sì ispirava Gassman: un classico italiano, un classico greco, tradotto
da uno scrittore contemporaneo, e una novità di uno scrittore italiano. Ma la grande avventura dell’attore solitario che, a differenza dei Teatri stabili, godeva di scarse sovvenzioni statali («Per l’im-
mane sforzo che facevamo, governo e ministero ci riconoscevano le stesse modeste sovvenzioni di una qualsiasi compagnia di giro: la verità è che, nel 1960, la semplice denominazione di Teatro Popolare destava sospetti e animosità politiche, cui si aggiungeva la scoperta ostilità delle istituzioni teatrali, dagli Stabili agli impresari delle sale»; V. Gassman, Un grande avvenire dietro le spalle, Longanesi, Milano 1981, p. 149), non poteva riuscire nell’epoca del trionfo della regia: e, infatti, fallì.
Ma, ancora una volta, si tratta di un fallimento grandioso in quel titanico ergersi di un attore contro il mondo teatrale dei suoi tempi: e, dunque, Gassman rimane come la figura di maggior spicco nel panorama teatrale di quegli anni. Abbiamo già accennato, parlando di Totò, al fatto che quella commistione dei generi che aveva permesso al grottesco di realizzarsi, in epoca fascista prima e poi negli anni Quaranta e Cinquanta, era venuta meno. Dopo il periodo del grottesco, infatti, che si chiude all’inizio degli anni Venti, il teatro di prosa ridiviene un territorio serioso dove non c’è spazio per il comico: e la commistione
di comico e tragico rimane appannaggio dei grandi attori “grotteschi”, Petrolini e Totò. Dario Fo
Ma a metà degli anni Cinquanta nuovi fermenti percorrono il teatro. Ecco che tre giovani attori, di diversa provenienza, si associano e
portano, nei teatri della prosa, la comicità pungente del varietà: Franco Parenti (1921-1989), Giustino Durano (n. 1923) e Dario Fo (n. 1926). I
loro spettacoli, il primo del 1953 e il secondo del 1954, si intitolano Il dito
nell’occhio e Sani da legare. Si tratta di una forma di rivista in cui non ci so-
no né il lusso proprio di quel genere di spettacolo né le ballerine, ma solamente
tre attori, con
caratteristiche
diverse, che prendono di mira i vizi e i costumi della società contemporanea. Parenti, che avrà poi una carrie-
ra di attore di prosa in compagnie sue e in quelle degli stabili, è “il serio” del gruppo; Durano, che non riuscirà più
a ripetere il successo di quelle due eccezionali rappresentazioni, è il più propriamente “comico” dei tre; Fo è,
invece, il mimo, anch’egli però comiVittorio Gassman e Rina Morelli nell'OrestediAlfieri per la regìa di Luchino Visconti, 1949.
co e brillante.
IL SECONDO NOVECENTO
246 Dopo le due riviste, che all’epoca vennero definite «da camera» per la povertà degli elementi e per la comicità pungente ma sommessa, Fo, che nel frattempo aveva sposato Franca Rame (n. 1929), formò compagnia in proprio. Inizia così il periodo in cui l’attore scrive testi su misura per sé e per
la Rame che porta nei teatri regolari. Si tratta di commedie “leggere” e “brillanti”, in cui la satira sociale e politica è sempre presente e permette a Fo di mettere in rilievo le sue caratteristiche d’attore. Queste qualità sono quelle di una grande duttilità di uso del corpo, capacità mimiche, mentre sempre più evidente si fa strada l’altra sua caratteristica, che è quella della «fabulazione». Per «fabulazione» s'intende il raccontare una storia; ed è proprio questo che, da un certo punto in avanti,
diventa una caratteristica di Fo. Studioso di cultura orale e popolare, egli porta sul palcoscenico il mondo dei fabulatori popolari che non sono attori professionisti, ma persone dotate di una particolare capacità di raccontare in pubblico storie strane e meravigliose. È in questo periodo che Fo inventa anche un linguaggio, che egli chiamerà gramelot, che si presta particolarmente a questo tipo di narrazione e che affonda le sue radici nella giulleria medievale. Il gramelot è uno strano e, in teatro, efficacissimo impasto di dialetto padano e di voci inventate dall’attore, di onomatopee, di sberleffi. Queste qualità portano Fo, che nel frattempo ha abbandonato il circuito normale del teatro per recitare nelle sedi delle associazioni di sinistra, a creare il suo capolavoro: siamo nel 1969 e il testo
è quel Mistero buffo che l’attore riprenderà poi spesso e che recita ancora oggi sempre con grande successo. In Mistero buffo Fo è l’unico a recitare: si tratta, quindi, di un monologo; ma è un mono-
logo particolare, in cui l’attore dà vita a più parti contemporaneamente, sempre giovandosi delle sue capacità mimiche e foniche. Il tema è quello delle storie della passione di Cristo viste da un’ottica popolare. Contemporaneamente a Mistero buffo Fo inizia a scrivere e a recitare con la sua compagnia diversi testi a sfondo politico. Benché egli non rinunci mai al grottesco, in questi spettacoli domina però
una vena moralistica e propagandistica che nuoce alla loro validità artistica. L’'intendimento di Fo è quello di portare sulla scena la realtà del momento storico in cui si svolge lo spettacolo e di giudicarla: ma l'operazione è troppo diretta e spesso sconfina nel comizio politico. Tutti i comici trovano un serbatoio inesauribile di comicità nella realtà che li circonda; ma solo i più bravi trascendono questo momento giungendo alle vette dell’arte. Il Nerone di Petrolini, per esempio, è certamente anche la parodia dei discorsi mussoliniani, ma è gustabile ancora oggi in tutta la sua freschezza proprio grazie a quella carica di grottesco che va ben al di là dei riferimenti contingenti e che ne fa un’opera di valore universale. Tuttavia, malgrado i suoi limiti, Fo, con Gassman, rappresenta la ribellione del grande attore nei confronti del teatro di regia. Con i registi egli è particolarmente severo. In un recente libro basato su una sua lunga intervista egli, dopo aver espresso un giudizio decisamente negativo su Ronconi, così risponde all’intervistatore che gli fa notare come i registi possano diminuire gli attori in favore di «qualcosa d’altro»:
Certo, ma a me non interessa, io odio quel qualcosa d’altro, lo detesto, perché è proprio l'opposto di quello che io intendo per teatro. Non dico che anche quello non sia teatro, ma per me è un teatro degenere, un teatro da sparare, da combattere fino in fondo, o peggio da ignorare. È un teatro senza denuncia, senza aggressività, senza parte, che non prende parte di niente, tremendamente estetico-edonistico. (D. Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, a cura di L. Allegri, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 62)
Il teatro per Fo, che in questo modo si colloca all’interno di un ben preciso percorso della nostra storia, è dunque l’attore: macchinerie, scenografie imponenti, utilizzazione parossistica degli altri codici dello spettacolo sono da combattere: l’attore con la sua voce e il suo corpo sono, per lui, lo spettacolo vero. Ma una contestazione ancora più dura al teatro di regia e al conseguente linguaggio della scena proprio dei Teatri stabili, incentrato sull’attore-maestranza, stava per nascere da parte di un attore e di un gruppo di attori, tutti giovanissimi, che appartengono alla generazione successiva a quella di Gassman e Fo: è venuto il tempo, nella storia del nostro teatro, di Carmelo Bene e del gruppo Quartucci.
TEATRO 9
247
4. IL TEATRO DI CONTRADDIZIONE Motivo
diuna definizione
Verso la fine degli anni Cinquanta si assiste alla crisi del Neorealismo, cioè di quella temperie culturale e artistica che, in opposizione alla cultura e all’arte del ventennio fascista, aveva visto nell'impegno dell’intellettuale l’asse portante della nuova cultura. Questo panorama è descritto, con l'ampiezza che merita, in [Generi] La narrativa del Novecento, II. Qui ba-
sterà dire che il linguaggio della scena non costituisce qualcosa di diverso nel panorama culturale di quegli anni. Anche se il Neorealismo non si attua in teatro attraverso testi veri e
propri, il linguaggio della scena di gran lunga vincente, quello di Strehler e dei suoi seguaci, è fortemente connotato da quella poetica. Ma, come in letteratura, questo linguaggio mostra ormai la corda e si dimostra assai più legato a moduli di evasione — lo stesso Brecht viene ridotto a qualcosa di molto piacevole per il pubblico — di quanto vorrebbe la poetica esplicita di coloro che lo praticano. In letteratura (il rimando è sempre a La narrativa del
Dario Fo.
Novecento, II) assistiamo a una ribellione che si organizza ben
presto secondo moduli dell'avanguardia storica: una rivista («Il Verri»), un gruppo (il Gruppo 63 e, prima, nel ’61, l'antologia dei Novissimi). Si lanciano proclami, si scrivono manifesti della nuova ar-
te che, come sappiamo, si propone un’opposizione diretta alla letteratura contemporanea. I nuovi scrittori avanzano essi stessi per il loro movimento la qualifica di neo-avanguardia, rivendicando così una certa continuità con l'avanguardia storica. In teatro le cose stanno in modo diverso. Non ci sono gruppi ma singole personalità che operano per conto proprio. Più tardi, nella seconda metà degli anni Sessanta, anche i teatranti di cui stiamo per occuparci verranno ritenuti appartenenti alla neo-avanguardia, ma questa etichetta sarà sempre rifiutata da quelli che maggiormente hanno operato, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, perché ritenuta troppo compromessa. Infatti, sulla scorta del successo (momentaneo) di Carmelo Bene e del gruppo Quartucci, molti teatranti si mettono al passo alla ricerca di qualcosa di nuovo a tutti i costi: e, più o meno correttamente, soltanto questi ultimi possono essere definiti come appartenenti alla neo-avanguardia teatrale. Bene e gli altri di cui stiamo per occuparci, al contrario, con le innovazioni a volte fortissime che apportano al linguaggio della scena, cercano di rifondare il teatro. La contrapposizione al mercato teatrale è netta: questi teatranti intendono proporre al mercato prodotti che non possano essere mercificati e pertanto non si riconoscono in quell’aspetto dell'avanguardia
che pretende il successo,
nel momento
«cinico» per dirla con Sanguineti (cfr. |Generi| La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A46): di qui la più precisa definizione di «teatro di contraddizione», anche se, come vedremo subito, nella
“contraddizione” non si risolve certamente tutta la loro operazione. Carmelo Bene
Carmelo Bene (n. 1937) è il primo e certamente il più importante tra i teatranti che si propongono quella che può essere definita una vera e propria rivoluzione teatrale degli anni Sessanta. Il suo esordio avviene nel 1959 con il Caligola di Camus con la regia di Alberto Ruggiero; l’anno dopo verrà Spettacolo Majakovskij di e con la regia di Bene stesso che, d’ora innanzi, sarà sempre il regista e quasi sempre l’autore dei testi dei suoi spettacoli; nel’61 Pinocchio e Amleto, ecc. Per comprendere la portata dell'operazione di Bene gioverà esemplificare. Il Pinocchio (di Collodi; adattamento e regia: Carmelo Bene; scene e costumi: Carmelo Bene) è, come abbiamo appena detto, del’61. E un te-
Carmelo Bene e Luigi Mezzanotte in Pinocchio, 1966. IL SECONDO NOVECENTO
248 sto che ha valenze plurime ma che mette molto bene in evidenza la critica al linguaggio della scena che costituisce il nerbo della proposta teatrale beniana. In quel testo spettacolare i ruoli sono perfettamente definiti e rimandano a ruoli del teatro del tempo: Geppetto è il padre; la Volpe è l’astuto insinuante-sgusciante-immondo;
la Fata turchina è la moglie-sorella-madre-amante;
Man-
giafuoco il burbero fino a un certo punto benefico; Lucignolo il freddo tentatore. Tutti costoro recitano in modo che è insieme la parodia dello straniamento “all'italiana” e l’unico tentativo di una recitazione che si rifà ai modelli brechtiani. Le frasi vengono spezzate, le sillabe accentuate, i gesti resi essenziali e un po’ meccanici: attraverso la parodia si giunge veramente a una estraniazione del-
l'attore dal personaggio, il personaggio viene “proposto”, come voleva Brecht, non “vissuto”: nessuna immedesimazione è possibile sia da parte dell’attore nel personaggio sia da parte dello spettatore nell’attore. Carmelo Bene è Pinocchio: la sua chiave recitativa è nettamente diversa da quella degli altri attori: egli porta all'eccesso l’immedesimazione interrompendola continuamente con gesti, movimenti, falsetti. Gli altri attori recitano, egli soffre lì, sulle assi del palcoscenico, l’impossibilità di proporre ancora dei sentimenti ormai resi impraticabili da un mondo che ha distrutto tutti i valori. Tuttavia Bene non recita solamente l'impossibilità (dei sentimenti, del tragico, ecc.), ma
mette in scena l’agonia dell’attore che non può nemmeno morire, come è previsto appunto dalla tragedia. Gassman può ancora recitare, con piena convinzione, la famosa battuta finale di Amleto: «Il resto è silenzio»; per contro Bene risolverà il suo Amleto rendendolo una furiosa lotta tra Amleto e il re che si contendono la scena e chiuderà il suo Macbeth con la battuta: «Incomincio / a essere stanco del sole». Essere stanchi del sole non vuol dire morire; al contrario vuol dire che è impossibile morire eroicamente, come, in fondo, fa ancora Amleto. Essere stanchi del sole vuol dire solamente
essere stanchi di vivere, di recitare visto che di teatro stiamo parlando. Torniamo ora a Pinocchio. Bene non si pone qui, come nelle altre opere che abbiamo citato, in una posizione di distacco critico gelido (questo lo fa fare agli altri attori): secondo una sua definizione, che ci riporta al grottesco, egli non è un cinico bensì uno stoico. La sua parodia non è mai solo parodia. Egli soffre veramente l’impossibilità di entrare all’interno di un universo stilistico tradizionale: la sua tensione, nel momento in cui denuncia le varie impossibilità del tragico, dei sentimenti, ecce-
tera, è verso qualcosa che ora non c’è nel teatro come nel mondo, verso qualcosa che dovrà pur esserci un giorno. Nel momento in cui recita questa impossibilità, questa sospensione di ogni possi-
bilità espressiva, egli se la prende anche con il suo spettacolo che non può che essere “critico” e non può essere proposto come una soluzione ai mali del teatro e del mondo, visto che questa soluzione non c'è. Solo a questo punto scatta in lui l’irrisione violenta: in un’epoca che non può tollerare la tragedia egli ride piangendo su questa impossibilità: e costruisce uno spettacolo che porta in sé la critica di se stesso, risolvendo tutto questo sul piano del linguaggio della scena. Esemplifichiamo ora su due battute chiave dello spettacolo. Ecco un brano della scena III della Prima parte di Pinocchio:
Tutta un tratto Geppetto si rizzò in piedi; e infilata la vecchia casacca difustagno, tutta toppe e rammendi, uscì correndo di casa. Poco dopo tornò: e aveva in mano l’abbecedario per ilfigliuolo, ma la casacca non l’aveva più. Il pover’uomo era in maniche di camicia e fuori PINOCCHIO
GEPPETTO PINOCCHIO GEPPETTO
nevicava. E la casacca, babbo?
L'ho venduta. Perché l’avete venduta? Perché mi faceva caldo. ... Saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso. (C. BENE, Pinocchio, in Pinocchio. Manon, Lerici, Milano 1964, pp. 24-25)
È una scena ben nota del Pinocchio di Collodi che Bene modifica solo leggermente: è una scena in cui i “buoni sentimenti”, in questo caso l’amore paterno, sono tutti lì, ben esposti. Una scena del genere potrebbe essere interpretata in diversi modi. Quello di Bene risulta esemplare del suo modo di fare teatro. Quando Geppetto esce, egli assume un’aria di disprezzo per lui e per se stesso e, contemporaneamente, di estremo imbarazzo: è solo, a proscenio, si tormenta le mani e le smorfie del suo viso rivelano questo tormento nel non poter scegliere tra disprezzo e imbarazzo. I suoi occhi TEATRO 9
DIO mostrano il suo stoico sopportare lo scontro degli opposti. Le quattro scarne battute del testo sono dette in modo esemplare: Geppetto scandisce, strania; ma lui, Pinocchio-Bene non può. Quell’«e»
(«E la casacca ...») che apre a un discorso di sentimenti veri, non gli viene fuori, lo ripete, lo contorce, con il suo caratteristico falsetto che “cita” Ruggeri, con ironia, e “assume”, almeno fino a un certo punto, Benassi e Petrolini. Quando finalmente riesce a dire tutta la battuta la dice con profon-
do orrore di se stesso (Pinocchio non può nutrire sentimenti nobili e l'attore Bene non li può recitare); e la cosa si ripete con «Perché l’avete venduta?». Ma Carmelo Bene è anche il regista in scena del suo spettacolo. E, in Pinocchio, Bene esprime questo suo ruolo, ruolo di sofferta demistificazione, sputando sui vari personaggi nei momenti in cui dicono battute più “compromesse” e cioè più legate a quei sentimenti impossibili da praticare 0ggi. Quando è in scena, egli sputa da vicino; quando scende in platea, “giudica” e con lunghe parabole, sputacchia un po’ tutti. Infine, non risparmia certo se stesso, sputando in aria dritto alla sua testa e ricevendosi anche lui-Pinocchio, il dovuto. In questo mondo, e in questo teatro, ci vuole di-
re Bene, non c'è scampo per nessuno: nemmeno per chi frequenta un linguaggio critico: siamo tutti compromessi. Con Bene arriviamo molto oltre l'impossibilità del tragico che è un tema costante del Decadentismo: egli ci propone la «sospensione» del tragico. Sostanzialmente vuole dire che oggi il tragico non è più soltanto impossibile, il che permetterebbe una recitazione sofferta ma “piena”, ma che proprio non c'è più, in quanto non c'è più la sua possibilità. Che è la grande tragedia dell’arte conIl gruppo Quartucci
temporanea. Il grande scrittore della sospensione del tragico è Samuel Beckett (cfr. (Generi] La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A31). Ed è proprio su questo scrittore che si appunta la ricerca del gruppo Quartucci. E qui bisogna affrontare una questione. Il teatro di contraddizione, lo abbiamo visto con Carmelo Bene, tra tutte le sue varie significazioni ha anche quella di
opporsi al teatro di regia così come si era venuto affermando nell'Italia del dopoguerra. Ora Carlo Quartucci (n. 1938) è un regista; ma di un regista particolare si tratta, un regista che sta dalla parte dell'attore. Per spiegare meglio: il regista demiurgo è, come abbiamo visto, quello che pretende di ridurre gli attori a
«maestranze» asservite ai suoi ordini; Quartucci, al contrario, parte dall’atto-
re, di cui rispetta in pieno la personalità, per costruire insieme a lui uno spettacolo unitario. Più che un regista, Quartucci è uno spettatore critico del lavoro degli attori del suo gruppo. Gli attori che recitano con Quartucci sono anch'essi di tipo particolare: tutti, dopo il 1966 (il “gruppo” si era costituito nel 1961) diverranno a loro volta capocomici, formeranno compagnia per
Se
gio:
SRTMIT DE Rino Sudano e Anna d’Offizi in /sette contro Tebe, 1974.
IL SECONDO NOVECENTO
conto proprio e saranno poi sempre i registi del proprio lavoro scrivendosi, quasi sempre, anche i testi. Questi attori-registi-autori sono: Leo De Berardinis (n. 1940), che formerà compagnia con Perla Peragallo (n. 1943); Rino Sudano (n. 1940), che si as-
socerà a Anna D’Offizi (1932-1994); Claudio Remondi (n. 1925), che si unirà a Riccardo Caporossi (n. 1947). La storia di queste compagnie è la storia del nostro teatro di contraddizione in questi ultimi venticinque anni.
Torniamo al “gruppo” e al modo come agiva nel periodo in cui visse e operò. L'autore guida è, come s'è detto, Beckett. Già nel 1960 Quartucci, col solo Remondi, aveva messo in scena Aspet-
tando Godot. Ma l'esplosione del gruppo si ebbe nel 1965, quando promosse il Festival di Prima porta (Roma) sulle rive del Tevere, recitando ancora Godot, poi Finale di partita e Atto senza parole II. Quartucci
Leo De Bernardis in Jhe connection, 198
ti t
e i suoi attori recitavano
Beckett in modo
decisamente estremizzato, portando il suo teatro dell'assurdo a denunciare l’assurdo del teatro. Una caratteristica di questi attori è che tutti, quali più quali meno, intendono svelare la miseria del teatro loro contemporaneo, portando avanti una poetica che, attraverso la denuncia di questa miseria, metta in scena la soffe-
renza per l'impossibilità dell’arte in un mondo che l’arte ha mercificato. Risulta chiaro come la poetica di Beckett — che questi attori leggono come un grande maestro di teatro e non solo come drammaturgo — si sposi strettamente con la loro. Anche nell’attività che seguirà lo scioglimento del gruppo De Berardinis metterà in luce delle straordinarie doti di attore grottesco, sempre in bilico tra il registro comico e quello tragico, dove il rifiuto di un mondo e di un’arte mercificata si realizza proprio attraverso il ghigno stravolto; Remondi ripeterà con estrema pazienza, la pazienza di chi sa che non c'é speranza in un avvenire diverso, la stilizzazione beckettiana dell’impossibilità ad agire; Sudano portera alle estreme conseguenze questa impossibilità ad agire e giungerà quasi all’afasia, a un teatro di parola, ma di una parola che non significa che ciò che significa, dibattendosi nel tentativo disperato di eliminare qualsiasi forma di metafora per interrompere definitivamente ogni tipo di coMNUunicazione,
La critica e il pubblico non sono stati certo teneri con questi “guastatori” del teatro: e, infatti, tranne De Berardinis, che ha in parte mutato registro dopo la separazione avvenuta alla fine degli anni Settanta da Perla Peragallo, sono oggi ridotti al silenzio o quasi. Malgrado ciò la loro esperienza rimane per lo storico del teatro, insieme a quella di Carmelo Bene, fondamentale per comprendere i meccanismi del teatro italiano contemporaneo.
5. CONCLUSIONE Questa breve storia del teatro italiano volge al termine. È chiaro che si tratta proprio di una storia breve dal momento che intende assolvere al compito di portare per la prima volta nelle scuole le problematiche del teatro non, o non solo, in quanto testo letterario ma in quanto teatro agito. Dal Medio Evo a oggi ci siamo pertanto occupati, in queste pagine, del linguaggio della scena. Ma, dicevamo, si tratta di una storia breve. Questo non ci permette l’esaustività soprattutto per ciò che ripuarda il teatro contemporaneo. La contemporaneità, lo si sa, non ha ancora passato al vaglio del tempo i valori messi in campo: una storia esaustiva del nostro teatro dal 45 a oggi pretenderebbe, sc pure breve, un numero di pagine equivalenti a quelle che abbiamo impiegato dal Medio Evo ai nostri giorni,
Per questo motivo,
nella sezione che ora chiudiamo
con brevi note informative, ab-
biamo preso in considerazione solamente ciò che oggi sembra più esemplare del nostro recentissimo passato, E per questo stesso motivo dedichiamo ancora alcune righe a un fenomeno in via di Jerzy
Grotowski
TEATRO 9
svolgimento che però si è molto diffuso nel teatro cosiddetto di sperimentazione: il «terzo teatro». Jerzy Grotowski (1933-1998) è un regista di origine polacca il cui lavoro è stato fortemente ca-
ratterizzatoda un interesse per il valore antropologico degli eventi rappresentativi. Riprendendo alcuni spunti gia presenti nella cultura europea, ma che devono più correttamente essere fatti risalire all'influenza di culture non occidentali, Grotowski ha contribuito in modo determinante a porre le fondamenta concettuali del modo di guardare al teatro a partire da un punto di vista
251 l'antropologia del teatro
antropologico. Secondo questa impostazione si tratta, di fronte a ciò che siamo soliti chiamare arte, di spostare l’attenzione dal dato estetico al dato antropologico. Questo vuol dire che, secondo Grotowski, bisogna guardare al complesso di forze, fisiche e spirituali, che ci portano a considerare l’opera d’arte, questa volta in quanto opera in via di costruzione, come a un'opera umana, portatrice di valori culturali propri dell’uomo («antropologia» è un termine di origine greca che, nella sua accezione più generica, possiamo definire come studio, logia, dell’uomo, anthropos, cfr. Glossario). Il punto di vista estetico guarda alla forma, allo stile e alla bellezza dell’opera d’arte: la guarda perciò in quanto un tutto compiuto. Il punto di vista antropologico guarda alle energie e ai valori umani in gioco nella produzione dell’opera d’arte: la guarda perciò nel suo formarsi, nel suo essere cioè un «processo». L’antropologia teatrale vorrebbe quindi opporre il «teatro processo» al «teatro prodotto», idealisticamente pensando di poter sfuggire così alla mercificazione («prodotto») dell’arte. In un suo libro Grotowski ha affermato che il teatro è «ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore» (J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970, p. 41). Teatro perciò, secondo il particolare punto di vista del regista polacco, non è tanto l’opera di fronte alla quale si pone lo spettatore, opera che quasi sempre tende a identificarsi con l’arte dell’attore, ma piuttosto quel particolare tipo di relazione che si instaura fra l’uomo spettatore e l’uomo attore quando sono uniti, fisicamente e mentalmente, da un evento rappresentativo. Dopo alcuni importanti spettacoli realizzati in Polonia, dove ha avuto sede il Teatro laboratorio da lui stesso fondato nel 1959, Grotowski ha ottenuto
Eugenio Barba eil«terzo teatro»
il riconoscimento internazionale nel 1966 a Parigi con lo spettacolo Il principe costante, che l’anno dopo ha portato anche in Italia, dove un suo seguace, Eugenio Barba (n. 1936), ne ha portato avanti il lavoro. L'importanza di Barba sta soprattutto nel fatto che a lui si deve l'elaborazione teorica del concetto di «terzo teatro» e l’organizzazione di un circuito internazionale che si rifà a questa definizione teorica. Il «terzo teatro», secondo Barba, non guarda né al teatro di tradizione né a quello dell’avanguardia, in quanto la loro contraddizione sarebbe tutta giocata su un piano estetico. In questo modo di porsi nei confronti del fenomeno spettacolare si sono riconosciuti molti piccoli gruppi, a partire dagli anni Settanta, dal momento che Barba ha elaborato un pensiero teatrale che pone come problema prioritario e imprescindibile quello delle relazioni umane e sociali interne al gruppo (il «terzo teatro» viene infatti anche chiamato «teatro di gruppo») e che guarda allo spettacolo come a un momento
in cui semplicemente viene a formarsi un gruppo più ampio comprendente an-
che gli spettatori. È chiaro che in questo caso l'interruzione della comunicazione portata avanti come atto di rifiuto del mercato da parte del nostro teatro di contraddizione non solo non viene presa in considerazione ma viene combattuta, in modo alla fine restaurativo delle regole del mercato, Conclusione
riproponendo la comunicazione come dato primario dell’arte teatrale. Il teatro oggi è in grave crisi. Non è la prima volta che, nel nostro secolo, questo avviene; ma, ora, gli elementi che alimentano questa crisi sono molti e profondi. Lo sviluppo del mezzo televisivo e la spettacolarizzazione di qualsiasi evento che ne consegue sono certamente i suoi elementi chiave. Il teatro, nella sua essenza, è sempre più fagocitato dallo spettacolo e non riesce a sottrarsi a questo. Nel 1989 Carmelo Bene ha, finora per l’ultima volta, compiuto il classico “giro” delle compagnie italiane con uno spettacolo, La cena delle beffe, fortemente connotato di disperazione: in quell'occasione, egli, l'attore, appariva immobilizzato su una sedia a rotelle e la sua voce veniva deformata da un microfono: denuncia patetica e disperata dell’impossibilità dell’arte dell’attore (e non solo) nel mondo in cui l’arte è divenuta mercato a tutti gli effetti. Questo spettacolo di Bene risulta emblematico di quello che sta succedendo. Ma poiché non si può far storia del presente, concluderemo notando semplicemente che la generazione degli attuali venti-trentenni è la prima generazione che non esprime più né un grande attore né un grande regista. Per rimanere al solo passato recentissimo, prima Gassman e poi Bene si erano rivelati come «signori della scena» ancora prima dei venticinque anni. La crisi, come si sa, è
generale e non riguarda solo il teatro ma tutte le arti. La prima e anche l’unica soluzione è quella di preparare una cultura teatrale che permetta allo spettatore di domani di accorgersi immediatamente dei fenomeni che si possono presentare in teatro in quanto autentici
e autenticamente innovati-
vi: e, ancora una volta, non si può che partire dalla scuola perché il futuro è, come ovvio, affidato a chi oggi studia la storia del passato per costruire, domani, una storia diversa.
IL SECONDO NOVECENTO
252 ® BIBLIOGRAFIA . Perle questioni generali si veda 7eatro8, Bibliografia, 88 1 e 8. Lo spettacolo contemporaneo è oggetto di innumerevoli studi: nell'impossibilità di riportare tutto ciò che è stato scritto e si scrive, la seguente bibliografia segnalerà solamente le opere che a noi sembrano più importanti e che possano servire allo studente per iniziare una ricerca sui vari argomenti trattati in questa sezione. . Per uno sguardo generale sul secondo Novecento: P. PuPPA, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Laterza, RomaBari 1990. . Sulla regia e su Giorgio Strehler: C. Metpotesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze 1984. Per Luchino Visconti: L. Visconti, // mio teatro, a cura di C. d'Amico de Carvalho e R. Renzi, 2 voll., Cappelli, Bologna 1979, Di Giorgio Strehler: G. STREHLER, Per un teatro umano, a cura di S. Kessler, Feltrinelli, Milano 1974. . SuMemo Benassi: G. Livio, L'attore moderno: frantumazione e alienazione del soggetto. Benassi e Pirandello, in Aa.Vv., La passione teatrale, Bulzoni, Roma 1997: ID., Schegge benassiane. Esperimenti cinematografici. “Il caso Haller” (1933), in «L'asino di B.», settembre 1998.
Su Eduardo De Filippo: A. BARSOTTI, (Introduzione a Eduardo, Laterza, Roma-Bari 1992. Di Eduardo è stata recentemente pubblicata tutta la produzione drammatica a cura di Anna Barsotti: E.DE Filippo, Cantata dei giorni dispari, 2 voll., Einaudi, Torino 1995 e Cantata dei giorni pari, Einaudi, Torino 1998. Su Peppino De Filippo: G.LUNETTA Savino, // buffone e il poveruomo. Il teatro di Peppino De Filippo, Dedalo, Bari 1990, con una breve ma intensa introduzione di Massimo Troisi. Su Totò: F. FaLdINI-G. Fori, Totò: l'uomo e la maschera, Fel-
TEATRO 9
trinelli, Milano 1977; per un'interpretazione critica della sua poetica d'attore: C. MeLpotesi, L'indipendenza prima di tutto. Il caso di Totò, in Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, Bulzoni, Roma 1987, pp. 17-55. Di Vittorio Gassman: V. Gassman, Un grande avvenire dietro le spalle. Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso, Longanesi, Milano 1981; Ib., /ntervista sul teatro, a cura di L. Lucignani, Laterza, Roma-Bari 1982. Di Dario Fo: D. Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, a cura di L. Allegri, Laterza, Roma-Bari 1990. La scrittura drammatica di Fo (che gli è val-
sa il Nobel per la letteratura) è pubblicata da Einaudi: Le commedie di Dario Fo, a cura di FRame, 6 voll., Einaudi, Torino 1974-1984. . Sul teatro di contraddizione: G. Livio, Minima theatralia. Un discorso sul teatro, Tirrenia Stampatori, Torino 1984.
Di Carmelo Bene: C. BENE, l'orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970; C. Bene-G. DeLeuze, Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978; C. BENE, La voce di Narciso, a cura di S. Colomba, il Saggiatore, Milano 1982; Ip., Sono apparso alla Madonna, Longanesi, Milano 1983; Ip., // teatro senza spettacolo, Marsilio, Venezia 1990 con interventi di autori vari. Ora queste opere e molte altre ancora (tra cui l'importante romanzo Nostra signora dei Turchi) sono state ripubblicate intere o in parte (ad eccezione di quella scritta con Deleuze) in: C. BENE, Opere con l'Autografia d'un ritratto, Bompiani, Milano 1995. Recentissimo: C. Bene-G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998. Su Leo De Berardinis: G. MANZELLA, La bellezza amara. Il teratro di Leo De Berardinis, Pratiche, Parma 1993. . Di Jerzy Grotowski: J. GrotozwSKI, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970. Di Eugenio Barba: E. BARBA, La corsa dei contrari, Feltrinelli, Milano 1981; su Eugenio Barba: // libro dell’Odin, a cura di F. Taviani, Feltrinelli, Milano 1975.
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253
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254
Momenti di storia
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1. LE ORIGINI: LUMIÈRE E MÉLIÈS Il cinema ha più di cent'anni. Esso infatti nasce alla fine del secolo XIX con l'invenzione del cinématographe dei fratelli Louis-Jean e Auguste Lumière (1864-1948 e 1862-1954), grazie al quale le immagini fotografiche potevano scorrere non solo a una velocità tale da dare l'illusione del movimento (cosa che, ad esempio, l'americano Thomas Alva Edison, 1847-1931, era già stato in grado di fare) ma essere anche proiettate su uno schermo davanti a più persone. Con le cinématographe a nascere non è così solo il cinema ma anche lo spettacolo cinematografico. La prima proiezione per un pubblico pagante avvenne il 28 dicembre 1895, a Parigi, presso il Gran Café del Boulevard des Capucines. In quell’occasione vennero proiettati alcuni film destinati a grande celebrità, come L’arrivo di un treno alla stazione (L’arrivée d’un train à la Ciotat), L'uscita degli operai dalle officine Lumière (La sortie des Usines Lumière), Il pasto di un bebè (Le déjeuner du bébé), Una partita a carte (Une
partie de cartes) ecc. Ciò che soprattutto determinò il successo di quei film fu proprio il loro fedele carattere di riproduzione della realtà in movimento. Nonostante la cattiva qualità di quelle immagini semoventi, la bidimensionalità, la presenza di una “cornice” che restringeva notevolmente il campo visivo e l'assenza del colore, quelle immagini suscitavano una straordinaria impressione di realtà. Come già dicono gli stessi titoli, i primi film dei Lumière riproducevano soprattutto scene di vita quotidiana: il pubblico dell’epoca poteva così vedersi rappresentato, con grande fedeltà, nei suoi riti di tutti i giorni. Il merito di quel cinema fu la sua capacità di trasformare la realtà in uno spettacolo.
L'arrivo di un treno alla stazione (Lumière, 1895, e la locandina pubblicitaria delle prime proiezioni dei film Lumière.
CINEMA
Parallela all’attività dei fratelli Lumière corre quella di Georges Méliès (1861-1938), prestigiatore e illusionista. Il cinema di Méliès appare, sotto certi aspetti, come qualcosa che è all’opposto di quello dei Lumière. Molto presto l’abile illusionista intuì le infinite possibilità del cinema di realizzare dei mondi impossibili, giocati sull'incredibile susseguirsi di una serie di eventi e situazioni di tipo fantastico. Da buon prestigiatore e uomo di teatro, mise a punto e perfezionò
una serie di trucchi — come quelli delle apparizioni, sparizioni, trasformazioni e sovrapposi-
zioni — che gli consentirono di dar vita a un cinema in cui era il fantastico, e non più la realtà, a diventare spettacolo. Al cinema dei Lumière si attribuiscono così le origini di tutto il cinema cosiddetto realista e di quello documentario, mentre a quello di Méliès la nascita del cinema fantastico. Questa opposizione è tuttavia meno esplicita di quel che potrebbe sembrare. Innanzitutto va detto come anche i Lumière girarono dei film alla Méliès e viceversa (è, ad esempio, già del 1895 La demolizione di un muro, La démolition d’un mur,
dove i Lumière ricorrono al trucco della proiezione all'incontrario per mostrare agli esterrefatti spettatori una parete abbattuta che si ricompone magicamente davanti ai loro occhi). Inoltre anche l’idea del cinema difinzione, che Méliès
porterà alle sue estreme conseguenze, trova già in un film di Lumière, per non parlare di quelli di Edison, una più che efficace concretizzazione. È il caso dell’Innaffiatore innaffiato (L’arroseur arrosé, 1895), che narra la storia, interpretata da due attori, di un monello che si diverte alle spal-
le di un giardiniere. Ma gli aspetti più interessanti del rapporto Lumière-Meliès vanno ricercati altrove: innanzitutto nella dialettica riproduzione-creazione. Ritorniamo per un attimo a L'uscita degli operai dalle officine Lumière. Vedendo il film si rimane colpiti dai vestiti indossati dai lavoratori che escono dalla fabbrica. Non si tratta certo di abiti quotidiani, bensì di indumenti indossati per l’occasione, forse forniti dagli stessi Lumière per permettere ai loro dipendenti, e alla propria officina, di offrire di sé una certa immagine. È evidente che quel giorno gli operai sapevano che sarebbero stati filmati. È così possibile sostenere che la cinepresa dei Lumière non riproducesse tanto la realtà in sé e per sé, bensì il suo particolare manifestar-
si nella consapevolezza di essere ripresa. La presenza della macchina cinema determinava una nuova natura della realtà riprodotta: gli uomini che si trovavano davanti ad essa agivano e davano di sé un'immagine dettata dalla sua presenza.
Alcuni fotogrammi tratti dal Viaggio sulla luna (Mélies, 1902).
MOMENTI DI STORIA DEL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
256 A tale fatto bisogna poi aggiungere come le pur elementari scelte degli operatori Lumière — la decisione riguardo al luogo in cui sistemare la cinecamera o quella concernente la durata della ripresa — determinavano una particolare rappresentazione della realtà rispetto ad una serie infinita
di altre possibilità. Il caso più evidente è quello dell’Arrivo di un treno alla stazione, dove la scelta dell’angolazione da cui riprendere — e quindi, in fase di proiezione, mostrare — l’evento rappresentato conferisce ad esso quella profondità e quel minaccioso avanzare del treno verso la macchina da presa che hanno contribuito non poco alla fama del film — leggenda vuole che molti spettatori fuggissero terrorizzati temendo che il treno potesse squarciare lo schermo e irrompere nella sala. Dal canto suo il cinema di Méliès non è tutto creazione filmica di mondi fantastici, ma anche semplice riproduzione di realtà che preesistono alla vera e propria ripresa filmica. Il fatto poi che queste realtà fossero il più delle volte scenografie costruite appositamente per essere filmate, non toglie né aggiunge nulla al carattere riproduttivo insito in qualsiasi atto di ripresa, che a firmarlo sia o meno Georges Meéliès. Il rapporto Lumière-Meliès rivela così quella che è una delle grandi verità del cinema: ogni atto di ripresa è sempre un atto di riproduzione e creazione. C'è poi un altro significativo punto d’incontro tra il cinema dei Lumière e quello di Méliès: quello del linguaggio cinematografico. Se analizziamo i loro primi film vediamo, pur con qualche eccezione, che sono tutti realizzati con un’unica inquadratura fissa e frontale. Il piano scelto è per lo più un campo medio, di solito un totale — ovvero un piano in cui sono presenti tutti i personaggi che prendono parte all’azione. Il tipo di spazio riprodotto è così molto simile a quello percepito dallo spettatore di teatro. Nessun movimento di macchina, se non quando la cinepresa è collocata su un mezzo mobile, nessun effetto di montaggio. Siamo di fronte a quello che si può definire “il grado zero del linguaggio cinematografico”, ovvero il semplice darsi di quelle condizioni minime affinché possa esistere un film, ma nulla di più. Anche quando Meliès optò per un cinema che raccontasse delle storie in qualche modo già articolate e compiute, il suo linguaggio non riuscì ad evolversi di molto. Prendiamo ad esempio Viaggio sulla luna (Le voyage dans la lune, 1902). Siamo di fronte a un racconto per immagini già decisamente ampio e ben strutturato. Un gruppo di scienziati si prepara per andare sulla luna. Dopo i tanti preparativi, ecco il fatidico momento del decollo, seguito dal viaggio e dall'arrivo a destinazione. Affaticati, i nostri eroi decidono saggiamente di concedersi alcune ore di riposo e, mentre dormono, stelle e pianeti, tutti antropomorfizzati, vengono a far loro visita. Un’impossibile nevicata sveglia il gruppo degli scienziati. Inizia l'esplorazione sotto la superficie lunare. Un ombrello, che uno dei viaggiatori pianta a terra, si trasforma in un enorme fungo. Ecco poi apparire i seleniti, gli
abitanti della luna, che catturano i terrestri e li conducono nella loro reggia che sembra essere quella di una tribù africana. Gli esploratori riescono tuttavia a liberarsi e fuggire. Raggiunta la loro astronave “scendono” fin sulla terra. Qui precipitano nel fondo del mare, ma riescono poi a risalire e a ricevere così i meritati festeggiamenti. Il tutto in pochi minuti di proiezione. Siamo già di fronte a una vera e propria narrazione, con tanto di esordio, intrigo, scioglimento ed epilogo e con una successione di diversi oggetti del desiderio (l’arrivo sulla luna, l'esplorazione, la difesa e la fuga dai seleniti, il rientro sulla terra). Ma da un punto di vista strettamente linguistico, dell’organizzazione discorsiva dei materiali della storia, i passi fatti in avanti sono pochissimi. È vero che è già presente l’uso del montaggio, ma solo nel passaggio da una scena all'altra, da un ambiente a quello successivo. Ogni episodio si compone infatti di una sola inquadratura, per lo più un campo totale. Nessun montaggio interno alle scene, nessun movimento di macchina. Ma anche nes-
suna idea, o quasi, dell’organizzazione drammatica dello spazio all’interno dell’inquadratura. Caratteristica del cinema delle origini è infatti quella di non pensare ancora alla costruzione di un’immagine che in qualche modo guidi lo sguardo dello spettatore verso quegli elementi narrativi — esistenti o eventi che siano — che giocano un maggior peso drammatico. Ne è un significativo esempio la scena del film — risolta anch’essa in un’unica inquadratura — in cui gli scienziati si riuniscono in una grande sala. Nell'ambito di questo piano, un ampio totale che rappresenta un gran numero di personaggi, lo sguardo dello spettatore, non aiutato dalla costruzione drammatica dello spazio, vaga incerto, incapace di soffermarsi su qualcuno o qualcosa, di appropriarsi di ciò che più conta fra le mille cose che accadono all’interno di quel piano. Siamo ancora al grado zero, o poco oltre, del linguaggio cinematografico. I Lumière e Méliès dovranno passare ad altri lo scettro che segna le tappe dell'evoluzione di tale linguaggio. CINEMA
257 2. IL CINEMA COME LINGUAGGIO: DA PORTER A GRIFFITH Già agli inizi del secolo XX, registi inglesi come Paul, Smith e Williamson avevano introdotto nei loro film figure quali il piano ravvicinato e il montaggio alternato, che contribuirono non poco a determinare l’evoluzione del linguaggio cinematografico; tuttavia l'intensità della loro esperienza fu di breve durata e il neonato cinema inglese non seppe mantenersi all'altezza di quel che i suoi inizi avevano lasciato sperare.
Negli Stati Uniti il progresso fu forse più lento, ma seppe continuare senza interruzioni sino al momento in cui il linguaggio del cinema acquisì quella che oggi consideriamo la sua piena maturità. Un regista a cui si attribuisce un ruolo di primo piano nell’evolversi di tale processo è Edwin Stratton Porter (1870-1941). In La vita di un pompiere americano (The Life of an American Fireman, 1902) è ad esempio rinvenibile uno dei primi casi di utilizzo del dettaglio in funzione drammatica. Il passaggio della storia dall’esordio all’intrigo è infatti segnato da un piano ravvicinato della campana d’allarme che dà il via all'operazione di soccorso dei pompieri. Tale inquadratura è il concreto esempio di come il cinema iniziasse ad acquisire coscienza del rapporto fra la posizione della macchina da presa e gli elementi rappresentati in funzione della loro importanza drammatica e narrativa. Si incomincia sostanzialmente ad andare ben oltre quell’esclusivo uso di campi medi e totali che caratterizzavano il cinema delle origini. Ancora più interessante è un successivo film di Porter: La grande rapina al treno (The Great Train Robbery, 1903). Possiamo in esso rin-
venire almeno tre aspetti essenziali nell’ambito di questa evoluzione del linguaggio cinematografico che stiamo tratteggiando: la presenza di movimenti di macchina, la costruzione drammatica dello spazio e l'utilizzo del mezzo primo piano. Procediamo con ordine. Nel corso di un’inquadratura che ci mostra i banditi mentre si allontanano con la refurtiva dal treno, una ancora incerta panoramica segue il movimento dei personaggi. Viene così stabilita quella che è forse la funzione prima dei movimenti di macchina: il poter tenere in campo uno o più personaggi nel corso dei loro spostamenti. Il cinema di fine secolo rispondeva a questa esigenza ricorrendo a campi di ripresa più ampi che potessero contenere nello spazio rappresentato i movimenti dei personaggi. L’uso dei movimenti di macchina
permette
invece di mantenere
la cine-
presa a una distanza relativamente ravvicinata all’azione, anche quando questa è in movimento, favorendo così una maggiore partecipazione emotiva
dello spettatore. Un'altra interessante inquadratura del film è quella in cui i banditi, con le pistole in pugno, stanno rapinando i viaggiatori, allineati lungo i binari. Uno di questi tenta di fuggire, correndo in diagonale verso la cinepresa. Un bandito lo vede e gli spara. L’inquadratura viene così a costruirsi su due
piani: uno più ravvicinato, in cui accade l’evento di maggior intensità drammatica, la morte di un uomo, e un altro più distanziato, dove trova spazio
ciò che è causa di quell’evento, il bandito che spara. La linea diagonale disegnata dall’uomo in fuga, oltre a conferire all’inquadratura una certa profondità e prospettiva, indica, nei suoi punti di partenza e d’arrivo, i due luoghi di maggior intensità drammatica che non possono non catturare lo sguardo di chi osserva.
Il cinema
comincia
così a
concepire il suo spazio come uno spazio che va costruito in rapporto al proprio destinatario naturale: lo spettatore.
La grande rapina al treno (Porter, 1903).
MOMENTI DI STORIA DEL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
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| grandiosi effetti scenografici usati da Griffith per La caduta di Babilonia di Intolerance (1916).
Ma l'aspetto di maggior fascino del film risiede in quell’inquadratura che ci mostra il capo dei banditi in mezzo primo piano sparare verso la macchina da presa. I cataloghi, che all’epoca presentavano il film agli esercenti, indicavano come quest'inquadratura potesse essere montata, indifferentemente, all’inizio o alla fine del film. Si potrebbe dire che qui Porter abbia fatto un passo indietro rispetto al suo film precedente, dove il piano ravvicinato della campana d’allarme traeva la propria forza espressiva dal suo essere collocato nel corso della narrazione e non prima o dopo essa. Il senso di un piano ravvicinato, come questo del bandito che spara, muta infatti radicalmente a seconda della sua collocazione all’interno di un determinato contesto narrativo. Come si può pensare di sistemarlo indifferentemente alla fine o all’inizio del film? E perché poi non nel corso di una sequenza, di particolare intensità drammatica, come quella della sparatoria? In realtà quel che Porter era in grado di fare con un oggetto non poteva ancora permetterselo con un volto umano. Se il cinema impiegò un certo numero di anni per arrivare a un’effettiva messa a punto delle proprie possibilità linguistico-narrative, non fu solo perché i registi dell’epoca tardarono a rendersi conto di tali possibilità o perché tecnicamente esse non erano ancora realizzabili. La realtà è che allora come oggi il cinema aveva le sue convenzioni da rispettare. Convenzioni certamente ancora deboli ma determinate da quella forma di spettacolo di cui il cinema era in qualche modo erede: il teatro. Ora, dal momento che lo spettatore teatrale era abituato a vedere tutti interi i personaggi di un dramma, non era così facile pensare di abituarlo alle sole «teste tagliate» — così come allora erano significativamente definiti i primi piani. L'immagine ravvicinata del volto del bandito nel corso della sparatoria avrebbe probabilmente scioccato gli spettatori di quel film, guastando irrimediabilmente la tensione drammatica che quella scena era riuscita a creare. Per questo quel primo piano lo si poteva utilizzare all’inizio o alla fine del film, negli unici due momenti in cui la sua apparizione non avrebbe interrotto la continuità della storia rappresentata.
CINEMA
259 Fu indubbiamente David Wark Griffith (1875-1948), nei suoi anni di lavoro alla Biograph (1908-12) e poi nei suoi grandi film, La nascita di una nazione (The Birth of aNation, 1915) e Into-
lerance (1916), ad avere il merito di utilizzare nel loro insieme le principali figure del linguaggio e del racconto cinematografico in funzione espressiva: la frammentazione di una scena in più inquadrature, la dilatazione e la concentrazione temporale, il montaggio alternato, il primo piano in funzione esplicitamente narrativa, lo sfruttamento delle possibilità espressive della cinepresa, la costruzione drammatica dei piani, i movimenti di macchina, le soggettive ecc. Con La nascita di una nazione e Intolerance Griffith riuscì a dimostrare le possibilità di articolare uno spettacolo complesso della durata di tre ore o più, che sviluppava una narrazione compiuta e di notevole complessità tematica, attraverso variegate soluzioni narrative in cui grandi eventi storici si alternavano a vicende individuali, vividamente rappresentate attraverso il ricorso a piani ravvicinati, che non erano più una trovata d’effetto alla Porter, ma un modo espressivo per comunicare i sentimenti di un personaggio in un ben determinato momento dell’evoluzione della storia. La nascita di una nazione, tratto da un romanzo razzista di Thomas Dixon e ambientato nell’epo-
:
ca della guerra di Secessione, contrappone l’immagine di un Nord violento e brutale a quella di un Sud patriarcale e idilliaco, descrive con partecipazione gli umili sforzi dell'esercito sudista, illustra l'esplosione del terrorismo nero e affida il salvataggio finale dei protagonisti al provvidenziale intervento del Ku Klux Klan. Questo grande e tendenzioso affresco storico si intreccia alle drammatiche vicende sentimentali di due coppie di giovani che la guerra inesorabilmente ha diviso. Il valore del film non sta ovviamente nei suoi contenuti, alquanto deplorevoli ma, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, nel modo in cui la storia è organizzata sul piano narrativo e linguistico. In particolare fece epoca l’uso del montaggio alternato, ovvero quella figura che mostra in successione alternata due serie di avvenimenti in modo da evidenziarne la simultaneità temporale e accrescerne il senso drammatico. Griffith ricorre più volte nel film a questa soluzione, ma il suo uso più intenso e spettacolare lo si ha quando egli arriva a connettere fra loro tre azioni di eguale portata drammatica: la bianca Elsie insidiata dal vicegovernatore mulatto Lynch, la famiglia dei Cameron che, rinchiusa in un casolare, cerca di resistere all’assalto dell’inferocita polizia di colore e
l’arrivo dei cavalieri della “croce di fuoco” che salveranno l’una e gli altri. Col montaggio alternato il cinema impara definitivamente a manipolare lo spazio e il tempo della storia narrata in uno spazio-tempo filmico, in grado non solo di mettere in rilievo i fatti essenziali dello sviluppo del racconto ma anche di introdurvi un ritmo del tutto nuovo che esercita un’indubbia fascinazione nei confronti dello spettatore. Ancora più complesso e ambizioso di La nascita di una nazione fu Intolerance, che Griffith girò anche per rispondere alle accuse di razzismo mossegli da più parti. Il film racconta quattro diversi episodi: la caduta di Babilonia, la passione di Cristo, il massacro di san Bartolomeo e una vicenda contemporanea dove elementi di ordine sociale (la disoccupazione, la miseria) si confondono con altri dal carattere apertamente melodrammatico (l’amore ostacolato, la redenzione dal male, il pentimento). Ad ognuno di questi episodi, caratterizzati da diverse forme d’intolleranza, Griffith contrappone un’immagine che fa da leit-motiv all'intero film, quella, dai caratteri fortemente pittorici, della donna che dondola una culla, simbolo della vita. L'aspetto più rilevante del film, che ricorre a soluzioni tecniche forse più spettacolari di quelle di La nascita di una nazione ma che su un piano strettamente linguistico non introduce particolari novità, è indubbiamente quello del montaggio che struttura il generale articolarsi dei diversi racconti. Questi infatti non si succedono l’uno all’altro come in un normale film ad episodi, ma, al contrario, si interrompono
vicendevolmente,
attraverso
un gioco di continue
sospensioni
e riprese, in un
crescendo quasi vertiginoso. Dopo aver dato un contributo fondamentale alla formazione di quei modelli di narrazione che diverranno imperanti nel cinema americano classico, Griffith si era forse spinto troppo oltre. Il montaggio di Intolerance, infatti, non era più concepito come qualcosa strettamente al servizio della storia e del racconto, come accadeva per il più classico montaggio alternato, bensì sembrava andare al di la di essi e farsi troppo protagonista, finendo addirittura con l’impedire ad ogni storia di proseguire ininterrotta verso il suo naturale epilogo. Forse fu questa una delle ragioni del clamoroso fallimento commerciale del film che segnò indelebilmente la carriera del suo autore.
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260 3. LA GRANDE STAGIONE DEL CINEMA MUTO EUROPEO 3.1. L’Espressionismo tedesco.
Nel 1919, Erich Pommer (1889-1966), un produttore te-
desco indipendente, decise di offrire un’opportunità a una sceneggiatura assai poco convenzio-
nale propostagli da Carl Mayer e Hans Janowitz. Pommer consultò tre pittori, Herman Warm, Walter Reimann e Walter Rorigh, i quali proposero di girare il film in modo espressionista. L’Espressionismo era un movimento d’avanguardia che aveva già ottenuto significativi risultati in pittura (a partire dal 1910) e si era rapidamente diffuso in ambiti teatrali, letterari e architettonici. Pommer pensò che poteva forse essere una buona occasione per lanciare il cinema tedesco sul piano internazionale. Tver pont sd I fatti dimostrarono che aveva ragione. Il Ge “hO da "GIN gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett a
i
3
Î
des Dr. Caligari, Wiene, 1919), fece sensazione in Francia, in America e in molti al-
tri paesi. Grazie al suo successo altri film ne seguirono, almeno in parte, le orme. Diversamente dall’Impressionismo francese, che, come vedremo, basava il suo sti-
Il manifesto pubblicitario del Gabinetto del dottor Caligari(Wiene, 1919).
le essenzialmente su elementi filmici e sul montaggio, l’Espressionismo tedesco lavorava sulla messa in scena che sottoponeva a forme di assoluto controllo. Le scenografie, di derivazione teatrale e pittorica, erano volutamente distorte e marcatamente irreali. Gli attori portavano un trucco pesante e sì muovevano in modo sinuoso, a volte con estrema lentezza, al-
tre con scatti improvvisi. Tutti gli elementi della messa in scena interagivano fra loro dando vita ad una composizione complessiva dell’immagine in cui i personaggi non erano semplicemente qualcosa che esisteva in un determinato ambiente, bensì un elemento visivo che si fondeva con esso, come
ad esempio testimonia quell’inquadratura di Cesare — un sonnambulo che, manovrato da un misterioso psichiatra, compie una serie di terribili omicidi — in cui il corpo dell’attore e le sue braccia e mani distese echeggiano graficamente i tronchi, i rami e le foglie degli alberi che lo circondano. In Caligari le soluzioni espressionistiche sono funzionali alla rappresentazione del distorto punto di vista di un folle: noi vediamo il mondo così come è lui a vederlo. Quando entra nella casa di
cura durante il suo inseguimento di Caligari, l’uomo si ferma per un attimo, guardandosi intorno, nel centro di un cortile da cui si irradiano delle linee bianche e nere che attraversano il pavimento salendo sin sulle mura: il mondo del film è letteralmente una proiezione della visione allucinata del personaggio. In seguito l’Espressionismo non dovette più ri-
correre alla prospettiva di personaggi allucinati per motivare le proprie scelte di messa in scena.
Esse vennero utilizzate, sebbene in modi meno radicali di quelli del film di Wiene, per creare scenari appropriati a storie fantastiche e dell’orrore (Nosferatu; Nosferatu, eine symphonie des Grauens,
Murnau,
1922), a vicende epiche (I ni-
belunghi; Die Nibelungen,
Lang,
1924) e a narra-
zioni fantascientifiche (Metropolis, Lang, 1927). Fu proprio Fritz Lang (1890-1976) a determinare un'importante svolta nell’ambito dello stile espressionista, attenuandone gli elementi puramente grafici, a favore di quelli plastici e architettonici.
CINEMA
Max Schreck nelle vesti di Nosferatu (Murnau, 1922).
261 La presenza di personaggi satanici, folli, pure incarnazioni del male che attraversano la gran parte delle storie del cinema espressionista, sono state lette, da Kracauer in particolare, come l’indi-
retta espressione del caos sociale e politico della Germania di quegli anni e come l’inconscia prefigurazione della tragedia del nazismo. Il progressivo aumento della diffusione del cinema americano nella Germania degli anni Venti, che introdusse nel mercato interno una concorrenza sino allora sconosciuta, i costi sempre più alti necessari alla realizzazione di sontuose scenografie, l'esodo progressivo di molti uomini di cinema verso Hollywood, che garantiva non solo migliori condizioni di produzione ma anche una realtà politica e sociale ben diversa da quella che si stava profilando in Germania, furono fra le cause della fine dell’Espressionismo. Alcune tracce di esso sono tuttavia ancora rinvenibili nei primi film di Lang degli anni Trenta e in molto cinema nero e dell’orrore americano di quello stesso periodo.
3.2. L’Impressionismo francese e il Surrealismo. A partire dalla fine della Prima guerra mondiale il mercato francese è interamente dominato dal cinema hollywoodiano. L'industria cinematografica tenta di reagire e apre così le porte a una nuova generazione di registi (Abel Gance, Louis Delluc, Germaine
Dulac, Marcel L’Herbier, Jean Epstein) che si battevano per sostenere l’artisti-
cità del cinema comparabile a quella della poesia, della pittura e specialmente della musica. Il cinema, dichiaravano essi, doveva affermarsi nella propria purezza liberandosi da ogni influenza nei confronti del teatro e della letteratura, sapere esprimere suggestioni e sensazioni, diventare un mezzo attraverso cui l’artista potesse liberare i propri sentimenti. L’emozione è così l'elemento centrale della loro estetica, l'interesse non è più concentrato sull’azione e il comportamento bensì sulla realtà interiore dei personaggi messi in scena. Ne consegue un modo di organizzare narrazione e rappresentazione assai lontano da quelle modalità che il cinema americano aveva ormai elaborato e si stavano imponendo un po’ ovunque. Il tempo e lo spazio del racconto sono continuamente manipolati, attraverso il ricorso ad immagini della memoria, sogni, fantasie, stati mentali. Un film come La sorridente signora Beudet (La souriante madame Beudet, Dulac, 1923), è quasi interamente costruito sui desideri e le fantasie della protagonista, che tenta così di sfuggire al proprio triste matrimonio.
I cineasti francesi degli anni Venti ricorsero a diverse tecniche cinematografiche per dar corpo agli stati d’animo dei loro personaggi: mascherini, sovrimpressioni, soggettive venivano usate con grande frequenza per rappresentarne ogni sentimento ed emozione. Di particolare importanza è il ri-
corso al montaggio ritmico, al fine di suggerire il modo in cui un personaggio avverte la realtà che lo circonda e gli eventi che vi si manifestano, istante per istante. Nei momenti di maggiore inten-
sità il ritmo si fa via via sempre più accelerato, come nella famosa sequenza di La ruota (La roue, Gance, 1923), dove lo scontro fra due treni è rappresentato da un montaggio di piani sempre più brevi che passano progressivamente da tredici a due fotogrammi per inquadratura. Il tentativo di usare il cinema per rappresentare le emozioni percettive di un personaggio costrinse
i registi dell’Impressionismo a dei veri e propri tour de force tecnici, in particolare per quel che riguardava l’uso dei movimenti di macchina, che vennero realizzati nei modi più svariati e acrobatici — per Napoleon (1927) Gance si fece preparare una cinepresa di dimensioni ridotte in modo da poter essere manovrata da un operatore che correva su dei pattini a rotelle. I grandi risultati ottenuti sul piano artistico dall’Impressionismo non riuscirono però che a coinvolgere un pubblico d'elite. I costi non indifferenti di molti dei loro film li costrinsero a cercare finanziamenti presso le grandi case di produzione, come accadde per Napoleone e Il denaro (Napoleon e L’argent, L’Herbier, 1929). Ma con l’avvento del
sonoro l’industria francese non era più disposta a spendere il suo denaro in progetti troppo rischiosi. Quella dell’Impressionismo francese rimane così un’esperienza che si conclude con la fine dell’epoca del muto. 3.3. Il Surrealismo. Contrariamente all’Impressionismo francese, il Surrealismo operò deci-
samente al di fuori del mondo dell’industria e del mercato cinematografici. Esso era saldamente le-
Nella Passione di Giovanna d'Arco (Dreyer, 1928) il ruolo dell'eroina francese fu interpretato da Renée Falconetti.
MOMENTI DI STORIA DEL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
262 gato al Surrealismo letterario, a quello pittorico e al lavoro teorico di Breton (cfr. La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, A19). La centralità dell'esperienza onirica, il privilegio accordato all’inconscio, il superamento del controllo della ragione e di ogni preoccupazione estetica e morale, l’affidarsi a una scrittura automatica che deliberatamente evitasse il ricorso ad ogni stile e forma razionali: sono questi alcuni dei princìpi base dell’intero movimento. Inizialmente il Surrealismo cinematografico è soprattutto un fatto spettatoriale, che intuisce gli stretti rapporti tra cinema e sogno, tra i meccanismi della visione filmica e quelli dell'inconscio: lo spettatore surrealista si lascia così sedurre da tutto quel cinema, non ha importanza se europeo o americano, di consumo o d’arte, che gioca sul desiderio, il fantastico, l’insolito e il paradossale (da
Chaplin a Nosferatu). Il primo tentativo di portare il Surrealismo sugli schermi fu quello di La conchiglia e il prete (La coquille et le clergyman, 1928) diretto da Germaine Dulac (1882-1942), a partire da un testo di An-
tonin Artaud. Il film non piacque tuttavia ai surrealisti, che ne rifiutarono l'eccessiva cura formale. I due film che così meglio ne esprimono le caratteristiche furono quelli girati da Luis Bufiuel (19001983): Un cane andaluso (Un chien andalou, 1928), in collaborazione con Dali, e L’età dell’oro (L’a-
ge d’or, 1930). In questi film è evidente il carattere apertamente antinarrativo del cinema surrealista, che attacca ogni forma di causalità: se la logica e la razionalità vanno superate anche ogni connessione causale fra gli eventi va negata. Al contrario, questi saranno giustapposti fra loro nei modi più arbitrari e scioccanti, secondo i suggerimenti dell’inconscio e senza controllo logico razionale: come nella celebre scena d’apertura di Un chien andalou, in cui un uomo taglia con un rasoio la pupilla di una donna, che non pensa affatto a protestare. Diversamente da quel che accadeva per il cinema impressionista, nel Surrealismo non esiste psicologia dei personaggi. Desiderio erotico, amour fou, estasi, violenza, gesti blasfemi, umorismo nero sono i materiali che i surrealisti organizzano nei loro film, la cui forma libera e aperta, fondata
su uno stile assai eclettico, dove tutto poteva essere accettato o rifiutato, avrebbe dovuto permettere allo spettatore di fare emergere i suoi impulsi più nascosti. 3.4. Il cinema sovietico.
I cineasti che fecero grande il cinema sovietico degli anni Venti, da
EjzenStejn a Pudovkin, da Vertov a Dovzenko, per non citarne che alcuni, non avevano avuto nes-
sun rapporto col cinema pre-rivoluzionario e tutti, o quasi, provenivano da altri ambiti. La loro formazione cinematografica avvenne nel bel mezzo dei fermenti della Rivoluzione. La nazionalizzazione dell’industria, avvenuta nel 1923, diede a molti di loro la concreta possibilità di fare del ci-
nema. Dal momento che Lenin aveva ben intuito le straordinarie possibilità propagandistiche e di educazione del nuovo mezzo, i primi film incoraggiati dal governo furono documentari e cinegiornali come i Kino-Pravda (Cinema-Verità) diretti da Dziga Vertov (1896-1954), che rimangono, in-
sieme al suo L’uomo con la macchina da presa (1929), l'esempio insuperabile di un cinema gio-
cato su uno stretto rapporto tra la natura documentaria delle riprese dal vero e l’artificialità del montaggio che organizzava fra loro materiali diversi in vista di ben precise finalità. Ma presto seguirono i film di finzione come Sciopero (1924) e La corazzata Potémkin (1926), entrambi
di Sergej Michailovié EjzenStejn (1898-1948), che, insieme a La
madre (1925) di Vsevolod Pudovkin (1893-1953), attirarono
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Una delle scene più drammatiche della Corazzata Potémkin di EjzenStejn (1926), quando i Cosacchi aprirono il fuoco sulla folla riunitasi sulla scalinata del porto di Odessa in segno di solidarietà verso l'equipaggio della corazzata.
CINEMA
l’attenzione di molti paesi su quel che stava accadendo nel cinema ; sovietico. da Di: ) Gli scritti teorici e la pratica cinematografica di questi registi
erano interamente basati sul montaggio. Per essi un film non esisteva nelle sue singole inquadrature, ma solo nella loro com-
binazione in un intero. Fu soprattutto il lavoro di EjzenStejn a dare forma concreta a una tale ipotesi. Per il cineasta sovietico,
che contrariamente a Vertov sosteneva la necessità di un cinema di finzione, recitato e messo
in scena, la riproduzione filmi-
ca della realtà non aveva in sé nessun particolare interesse. Ciò che conta è il senso che da essa si trae attraverso la sua interpre-
tazione. Il cinema non deve così limitarsi a riprodurre il reale, ma, costituendosi come un diOttobre (EjzenStejn, 1927). scorso articolato, esprimere di esso un giudizio ideologico. Il montaggio è proprio lo strumento col quale catturare questo senso, esprimere questo giudizio, costruire questo discorso.
Ejzenstejn pensava alla funzione semantica del montaggio soprattutto attraverso l’idea del conflitto. Dallo “scontro” fra due inquadrature è possibile costruire un significato che non ha, al limite, niente a che vedere con quello proprio a ciascuno dei due piani presi in sé e per sé. Il montaggio si afferma dunque come il principio centrale di tutta la produzione del senso, come bene testimonia la sequenza di Ottobre (1928) dell'ingresso di Kerenskij nella sala degli zar. A una serie di inquadrature centrali, quelle dello stesso Kerenskij, si alternano dei piani il cui senso si dà solo nel loro rapportarsi all'immagine del protagonista. O meglio il senso di entrambe le serie di inquadrature nasce solo dal loro reciproco confronto-scontro. Da una parte ecco Kerenskij, dall’altra i simboli dello zarismo, gli ammiccamenti dei funzionari di palazzo, gli ufficiali dalle pose statuarie ad indicare in Kerenskij stesso il continuatore della politica degli zar — quanto il giudizio politico sull’uomo sia corretto o meno è un fatto estraneo a ciò di cui qui ci occupiamo. La dialettica poi che si
instaura fra le inquadrature di Kerenskij e quelle di un pavone meccanico che apre la propria ruota sembra voler indicare il compiacersi del primo ministro nel momento del suo ingresso nella sala del trono. Un compiacersi che esprime un rapporto col potere non propriamente in sintonia con le utopie rivoluzionarie della Russia di quegli anni. Significativo poi, nell’epilogo della sequenza, l’uso del montaggio in funzione di dilatazione temporale e accentuazione semantica: il fatidico momento dell’apertura delle porte della sala del trono è infatti ripetuto per ben quattro inquadrature riprese ognuna da una diversa angolazione e distanza. Sebbene molte delle ipotesi di Ejzenstejn non siano sopravvissute al loro geniale ideatore e non sia nata, per ragioni molteplici, una vera e propria scuola ejzenStejniana, l’idea di un montaggio givcato esplicitamente sulla costruzione del senso, dalla funzione connotativa, non è morta col suo più
accanito fautore, ma se ne possono ritrovare esempi, anche se difficilmente altrettanto arditi, in film di ogni paese e di ogni epoca. Assieme all’uso del montaggio, un’altra importante caratteristica del cinema sovietico degli anni Venti fu il rifiuto della psicologia individuale, che perdeva il suo ruolo di motore del racconto a vantaggio di forze sociali di ben più ampia natura. Di qui anche un certo discredito per la figura dell'attore, a cui si preferì il cosiddetto tipo, le cui caratteristiche esteriori dovevano immediatamente rappresentare il ruolo sociale del personaggio interpretato. Il declino della straordinaria stagione del cinema rivoluzionario sovietico non fu tanto dovuto, come accadde per gli altri movimenti d’avanguardia in Francia e Germania, a fattori industriali ed economici.
Al contrario, ciò che ne determinò
l'epilogo fu l'intervento del governo
che accusò
zenstejn e gli altri cineasti di un approccio al cinema eccessivamente formale ed elitario
Ej-
264 4. IL CINEMA AMERICANO CLASSICO Il cinema americano classico assume la sua forma definitiva con l’avvento del sonoro alla fine degli anni Venti e proseguirà inalterato la sua strada sino al volgere degli anni Cinquanta, quando la diffusione della TV appare ormai un fenomeno inarrestabile e, contemporaneamente, una nuova sensibilità sociale, quella che porterà alla contestazione degli anni Sessanta, finirà col modificarne radicalmente alcune caratteristiche di fondo. Quella che è stata chiamata “l’età d’oro di Hollywood” è innanzitutto un vero e proprio sistema definibile sulla base di alcune caratteristiche ben precise: lo studio system, lo star system, la pratica dei generi e il découpage classico. Già nel corso degli anni Venti il sistema produttivo dell’industria cinematografica americana era caratterizzato da un modello a “integrazione verticale”, dove poche compagnie si imponevano sul mercato grazie al rigido controllo di tutti e tre i settori dell'economia cinematografica: la produzione, la distribuzione e l'esercizio. Ognuna di queste grandi compagnie produceva cioè i propri film e ne organizzava la distribuzione in circuiti di sale che possedeva o teneva sotto contratto. La realizzazione di ogni singolo film era strutturata su una rigida e ben definita divisione del lavoro, che assegnava a ciascuno i propri compiti e, soprattutto, definiva rigorosamente i limiti di competenza di ognuno. Il regista, salvo rare eccezioni, si trovava così a dover rispettare alla lettera la sceneggiatura che la sua casa di produzione gli forniva, senza la possibilità di apportare qualsivoglia mutamento se non dietro autorizzazione. Una volta terminate le riprese il suo compito si esauriva e il film passava in sala di montaggio senza che egli potesse più intervenire sul destino dell’opera. La parola definitiva, per ognuna delle fasi della realizzazione del film (scelta del soggetto, stesura della sceneggiatura, definizione del budget, scelta del cast, riprese, montaggio ed edizione finale), spettava al produttore o ai suoi delegati, che si facevano garanti che la versione ultima di ogni film fosse il più vicino possibile a quella ipotizzata in fase di ideazione. In quanto merce, e senza voler attribuire particolari connotazioni negative a tale termine, il film aveva bisogno di un'immagine che lo lanciasse sul mercato e gli consentisse di guadagnare i favori del pubblico. Tale immagine fu innanzitutto quella del divo, alle cui doti di fascinazione naturali si aggiungeva un’attenta campagna promozionale, sostenuta ad arte attraverso i diversi mezzi d’informazione disponibili. Compito del divo era quello di riuscire a rimanere sempre se stesso, proponendosi così tramite un'immediata riconoscibilità che rispondesse alle attese del pubblico, pur interpretando personaggi diversi in diversi contesti. Humphrey Bogart, ad esempio, dava così vita, in quasi tutti i suoi film, al tipo del good-bad boy (il ragazzo buono-cattivo), il duro dal cuore tenero che dietro un’apparenza di cinismo nascondeva profondi e autentici sentimenti umani. Allo stesso modo Marilyn Monroe incarnava costantemente il ruolo di una ragazza svampita, ingenua e sempre pronta a fare la scelta sbagliata ogni volta che veniva lasciata a se stessa. Nel suo essere oggetto privilegiato dello sguardo dello spettatore e motore primo dei meccanismi di proiezione e identificazione, il divo giocava una funzione essenziale nel fare del cinema una macchina per sognare, rispondendo così perfettamente a quei compiti a cui era chiamato nei difficili anni che seguirono la Grande crisi, quando l’ingresso in una sala cinematografica era per molti l’unico modo di evadere da una realtà ogni giorno sempre più incerta. Strettamente connessa allo studio e star system era poi la politica dei generi. Proprio in quanto vera e propria industria, il cinema americano aveva
bisogno di una rigorosa pianificazione della propria produzione sulla base di un sistema standardizzato. La politica dei generi rispondeva pienamente a questa esigenza. Ogni genere, infatti, si caratterizzava per il suo costituirsi a partire da un insieme di regole ben precise che consentiva tan-
to una più efficiente organizzazione del lavoro attraverso il ricorso a personale specializzato — non solo di tecnici e maestranze,
ma anche di veri e
propri collaboratori artistici: dai registi agli attori — quanto la possibilità di soddisfare i diversi gusti Una riunione di boss mafiosi nel Piccolo Cesare (Le Roy, 1930).
CINEMA
del pubblico offrendogli dei prodotti che poteva-
no essere acquistati a colpo sicuro senza correre il rischio di sentirsi poi
delusi — chi andava a vedere un western sapeva già prima di entrare in sala quel che, nella sostanza, avreb-
be finito col vedere. Ogni casa di produzione si muoveva lungo due direzioni: da una parte tendeva a realizzare film di generi diversi in modo da poter abbracciare il pubblico più ampio possibile, dall’altra tendeva a distinguersi dalle altre compagnie di produzione specializzandosi in un genere particolare (i musical della MGM, gli horror della Universal, GGOOÌ
La stretta connessione che esiste tra generi e divismo è evidente proprio a partire da quel carattere dello star system a cui abbiamo già accennato. Così come la star ha il compito Ombre rosse (Ford, 1939). di essere sempre se stessa pur nell’ambito dei diversi personaggi che di volta in volta interpreta, anche il genere deve fondarsi su elementi che lo rendono immediatamente riconoscibile pur in manifestazioni che sono, oggettivamente, l’una diversa dall’altra: due film western non potranno mai ovviamente essere identici fra loro. In sostanza tanto il divismo quanto il genere si caratterizzano per quella dimensione di diversoesempre uguale che è uno degli elementi fondanti l'industria cinematografica americana e, più in generale, l'industria culturale. Il quarto e ultimo elemento caratterizzante l’età dell’oro del cinema hollywoodiano è quello del découpage classico. Col termine découpage si intende semplicemente quella pratica di frazionamento, in funzione drammatica, dell’unità spaziale di una determinata scena operata dal montaggio tramite la successione di diverse inquadrature. L’aggettivo classico denota quel particolare uso del découpage che ha trovato la sua espressione più matura nel cinema americano. Tutti sanno come que-
sto cinema mirasse al massimo di identificazione possibile tra personaggio e spettatore, giocando sull’equivoco tra realtà rappresentata e realtà tout court. Lo spettatore che il cinema americano voleva era uno spettatore che dimenticasse, nella sostanza, di essere in una sala cinematografica e di
>
stare guardando un film. Uno spettatore che si cullasse nell’illusione che quelle immagini che vedeva proiettate davanti a sé non fossero cinema ma qualcosa che accadeva realmente lì e in quel momento davanti ai suoi occhi. Affinché ciò potesse accadere il lavoro di scrittura del film doveva essere il più mascherato possibile. È questo che si intende quando si parla di cinema della trasparenza 0 di montaggio invisibile. Il montaggio del decoupage classico, del cinema della trasparenza è, nella sua forma pura, il montaggio più discreto che sia dato immaginare. Esso si costituisce a partire dal principio della continuità, il cui fine primario è quello di controllare la forza potenzialmente disgregatrice del montaggio, per dar vita a uno scorrevole flusso di immagini da un’inquadraturaa un’altra. A questo riguardo un ruolo essenziale è giocato dal raccordo. Compito del raccordo è infatti quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l’altro in maniera che ogni mutamento di inquadratura si dia nel modo meno evidente possibile. Fra i principali tipi di raccordo ricordia-
. mo: — il raccordo di sguardo: un’inquadratura ci mostra un personaggio che guarda qualcosa, l’inquadratura successiva ci mostra questo qualcosa; — il raccordo sul movimento: un gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda;
- il raccordo sull’asse: due momenti successivi di un evento sono mostrati in due inquadrature, la seconda delle quali è ripresa sullo stesso asse della prima, ma più vicina 0 lontana di questa in rapporto al soggetto ripreso. »——— lllUTITItTÙTTIT9T9AOOU ——————— rr —m—nmn—n——1‘—’n—1#112 e 00n0mn6 MOMENTI DI STORIA DEL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
266 Che l’avvento del sonoro abbia giocato un ruolo essenziale in questa rincorsa alla continuità è tutto sommato evidente. Il permanere infatti di qualsivoglia componente sonora — sia essa musica, rumore o voce — nel passaggio da un’inquadratura a un’altra è un elemento che indubbiamente contribuisce a legare fra loro queste diverse immagini e ad attenuare così la funzione potenzialmente disgregatrice del montaggio. L’invisibilità del montaggio è poi anche garantita dalla sua subordinazione alle esigenze del racconto. Il frazionamento che il découpage opera di ogni singola scena sarà infatti motivato da esigenze drammatiche ben precise: ogni piano ravvici-
Greta Garbo nel ruolo di Ninotchka (Lubitsch, 1939).
nato servirà a mettere in evidenza un personaggio
o unoggetto ogni qual volta lo sviluppo narrativo della sequenza in questione lo richieda, ogni ritorno a piani d’insieme sarà funzionale alla rappresentazione di ciò che ha modificato una certa situazione complessiva (ad esempio l’arrivo di un nuovo personaggio) e di cui lo spettatore deve subito essere informato. Alla base del découpage classico troviamo infine il sistema dello spazio a 180°. Il modo più semplice per spiegare tale sistema è quello di ricorrere all'esempio del campo e contro campo, cioè a quel tipo di montaggio che rappresenta il dialogo di due personaggi attraverso i modi dell’alternanza. Tale figura si caratterizza per il suo stabilire, sin dall’inquadratura d’avvio, un al di qua e un al di là dei personaggi. La macchina da presa, sia quando inquadra i due personaggi insieme, sia quando ne inquadra uno solo, si porrà sempre al di qua di quella linea immaginaria che unisce i due dialoganti, limitandosi così ad usare uno spazio di soli 180°. In questo modo, quando ognuno dei due personaggi sarà inquadrato singolarmente, se lo sguardo del primo è rivolto verso destra, quello del secondo sarà rivolto verso sinistra, dando allo spettatore l'impressione che i due, parlandosi, si guardino. Se tale regola venisse infranta, se cioè si attuasse lo scavalcamento di campo, tramite uno “sba-
gliato” posizionamento della macchina da presa oltre la linea immaginaria che unisce i due personaggi, questi finirebbero per guardare non più l’uno verso l’altro, bensì tutti e due nella stessa direzione, creando un certo spaesamento nello spettatore. L’uso dello spazio a 180° è un principio operante non solo nell’ambito delle scene di dialogo ma in qualsiasi altra scena o sequenza che sia parte di un film a découpage classico. È proprio l’uso dello spazio a 180° a determinare l’esistenza di altri tre raccordi chiave del cinema classico: — il raccordo di posizione: due personaggi ripre-
si uno a destra e l’altro a sinistra in un’inquadratura, dovranno mantenere la stessa posizione nella successiva;
— il raccordo di direzio-
ne: un personaggio che esce di campo a destra in un’inquadratura, dovrà rientrare
da sinistra
in
quella successiva; — il raccordo di direzione di sguardi: nel corso del dialogo fra due personaggi, la macchina da presa sarà sempre
posi-
zionata in modo tale da far sì che, quando ognu-
CINEMA
Donne di lusso (Berkeley, 1935).
267 no dei due personaggi viene inquadrato singolarmente, il suo sguardo si rivolga verso l’altro personaggio. Riepilogando: il découpage classico tramite i raccordi che gli sono propri e l’uso dello spazio a 180° tende a nascondere gli effetti disgreganti del montaggio, a creare la maggior fluidità possibile nel passaggio da un piano a un altro, a porre in evidenza gli elementi di maggior peso drammatico, a dar vita a una rappresentazione dello spazio più chiara possibile in modo tale che lo spettatore sappia sempre dove i diversi personaggi si trovano anche quando questi non sono inquadrati. Il mistero del falco (The Maltese Falcon, Huston, 1941), è, a tutti gli effetti, un film assai rappre-
sentativo del cinema americano classico. È il prodotto di una grande compagnia, la Warner Bros., contribuisce al lancio di un divo, Humphrey Bogart, di cui stabilisce una serie di tratti che permarranno nelle sue successive interpretazioni, e si colloca all’interno di un genere ben preciso, quello del film noir, di cui rappresenta una tendenza altrettanto ben definita, quella della detective story all'americana che si oppone alla scuola inglese. Mentre quest’ultima, sul modello di Conan Doyle, privilegia il detective che risolve attraverso le proprie capacità di ragionamento gli intricati casi che gli si presentano, la scuola americana pone al centro del proprio intreccio l’azione, tramite la figura di un detective che, pistola in pugno, attraversa una serie di minacce e imboscate per arrivare, quasi per caso, alla soluzione del problema che spesso finisce col rivelare aspetti marci e corrotti del mondo che lo circonda. Tratto da un romanzo di Dashiell Hammett, Il mistero del falco è uno dei film più noti di questo sottogenere del noir, di cui ripropone t6poi e archetipi su diversi livelli: d’intreccio (l'indagine, la scoperta del colpevole), di narrazione (la suspense, il sostanziale restringimento del punto di vista narrativo sull’azione del protagonista), filmici (l’illuminazione a forti contrasti, il montaggio serrato nelle scene d’azione) e tematici (il detective come ultimo eroe romantico in un mondo asservito alla logica del denaro, l'ambiguità di tutto e di tutti coloro che lo circondano). Se analizzassimo con un po’ d’attenzione una qualsiasi delle sequenze su cui il film si struttura, scopriremmo come esse rispettino assai fedelmente i princìpi prima indicati del découpage classico. Prendiamo ad esempio l’esordio del film. Dopo alcune immagini introduttive sulla città di San Francisco, entriamo nello studio di Spade (Bogart). La macchina da presa ce lo mostra seduto alla scrivania mentre si sta preparando una sigaretta. L'ingresso della segretaria impone il passaggio da un piano ravvicinato di Spade a uno d’insieme dei due personaggi, che ci mostra il posto che essi occupano nell’ufficio e stabilisce quella linea immaginaria che li unisce e rispetto alla quale la macchina da presa rimarrà per tutta la scena rigorosamente al di qua. Il piano d’insieme è poi frantumato in due inquadrature ravvicinate (campo e controcampo) di ognuno dei due personaggi, raccordate fra loro secondo la logica dei raccordi di sguardo. L'arrivo nell’ufficio di un terzo personaggio, Brigid, determinerà il ritorno a un nuovo piano d’insieme, che sarà a sua volta seguito da piani più ravvicinati. Il passaggio da un piano d’insieme alla sua frantumazione attraverso piani più ravvicinati, per ritornare poi a un piano d’insieme ogni qualvolta gli sviluppi dell’azione lo richiedono, è un procedimento tipico del cinema classico teso a far sì che lo spettatore possa seguire nel più agevole dei modi quanto sta accadendo. L’avvicinarsi della donna alla scrivania di Spade è ripreso da due inquadrature diverse attraverso un raccordo di movimento che permette così di stabilire fra i due piani un rapporto di continuità. Il dialogo fra i diversi personaggi è per lo più affidato ai raccordi di sguardo. Il campo e controcampo enfatizza il racconto di Brigid e la reazione di Spade: quando, ad esempio, le parole della donna si fanno più interessanti si passa da dei piani a due (Brigid e Spade) a dei piani a un solo personaggio (Brigid o Spade), invitando lo spettatore a interrogarsi sulla veridicità delle parole della donna e sul fatto che Spade possa crederle o meno. È proprio attraverso l’uso di un simile montaggio che l’autore di un film a découpage classico può controllare, sulla base delle esigenze del racconto, la visione dello spettatore, decidendo che co-
sa, come, quando e per quanto tempo questi deb-
ba vedere quel che gli è mostrato.
Humphrey Bogart nell'Ammutinamento del Caine
(Omytrik, 1954).
MOMENTI DI STORIA DEL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
268 9. LA “RIVOLUZIONE” DI QUARTO POTERE Gili storici del cinema sono tutti concordi nell’attribuire a Quarto potere (Citizen Kane, Welles, 1941), un ruolo di radicale rin-
novamento dei modelli di organizzazione testuale del découpage classico. Tale rinnovamento, una rivoluzione secondo alcuni, avvenne principalmente attra-
verso l’uso di due profondità di campo e quenza. Entrambe le rappresentavano una
figure: la il piano sefigure non novità as-
soluta, dal momento che esse era-
no già rinvenibili in certo cinema muto e nell’opera di registi dallo stile assai personale come Jean Renoir o Kenji Mizoguchi, tuttavia Orson Welles (1915-1985) fu Orson Welles.
il primo ad usarle in modo così sistematico e consapevole. Il piano sequenza è un’inquadratura che da sola svolge le funzioni di una scena. Se una scena rappresenta un determinato episodio attraverso la successione di più inquadrature, il piano sequenza compie la stessa operazione ma tramite un’unica inquadratura. La profondità di campo è quell’articolazione dell’inquadratura in più piani, dove ciò che sta sullo sfondo non è più flou, come accadeva nel cinema classico degli anni Trenta, bensì a fuoco tanto quanto quel che è in primo piano. Piano sequenza e profondità di campo rappresentano così delle modalità espressive che si allontanano dai presupposti di fondo che regolano il découpage classico. Quest'ultimo imponeva sempre allo spettatore l'oggetto della sua visione, potremmo dire che ognuna delle sue inquadrature corrispondeva sempre a una e a una sola informazione (il primo piano del volto di un personaggio ci comunica il suo stato d’animo o ci avverte dell'importanza delle sue parole, il passaggio a un piano d’insieme può informarci dell’arrivo di un nuovo personaggio). Al contrario piano sequenza e profondità di campo sono inquadrature che, almeno nei casi più significativi, si caratterizzano per offrire contemporaneamente più informazioni: più cose di eguale importanza sono, nello stesso momento, presenti nell’inquadratura. Non è più il film a imporre un proprio découpage uguale per tutti, ma è lo spettatore, ogni singolo spettatore, a farsi il proprio découpage, a prestare attenzione a
questo o a quel particolare, recuperando una libertà di sguardo, pur oggettivamente limitata dai confini dell’inquadratura, che il cinema a découpage classico gli aveva negato. Piano sequenza e profondità di campo sono così accomunati dal loro proporre un nuovo tipo di montaggio: non più un montaggio di inquadrature, ma un montaggio interno all'immagine stessa, giocato sulla messa in relazione spaziale di due o più elementi compresenti nell’ambito di un’inquadratura. L’uso sistematico della profondità di campo e, anche se in modo meno insistito, del piano sequenza, o almeno di lunghe inquadrature (long take) che esplicitano in modo evidente il rifiuto di ricorrere a forme tradizionali di montaggio, hanno fatto di Quarto potere un film che ha sancito una svolta radicale nell’ambito della storia delle forme e degli stili del linguaggio filmico, destinata ad avere una notevole influenza nel cinema a venire. Non che questo sostituirà al découpage classico — ancora oggi la forma di rappresentazione dominante — piano sequenza e profondità di campo, ma darà vita a modi d’espressione più aperti e meno vincolati alle rigide regole del cinema classico. Di Quarto potere, che ricostruisce attraverso una serie di testimonianze la vita di Charles Foster
Kane, un grande magnate della stampa americana, vediamo in particolare due significative inquadratare. Una donna, stesa sul suo letto, ha appena tentato di suicidarsi, ingerendo una grande quantità di sonnifero. Il marito, accortosi che qualcosa di strano è accaduto, bussa alla stanza della moglie. Dal
CINEMA
269
Quarto potere (Welles, 1941).
momento che nessuno risponde, l’uomo sfonda la porta, entra nella camera e raggiunge il letto della donna. Attraverso il découpage classico questa scena si sarebbe costruita tramite il montaggio di diverse inquadrature: i dettagli del flacone di sonnifero, i primi piani del volto della moglie, quelli del marito, i piani d’insieme della stanza, ecc. Welles gira al contrario l’intera scena in un’unica in-
quadratura costruita su tre diversi livelli di profondità: in primo piano il flacone del sonnifero, dietro esso il volto della donna, sullo sfondo, perfettamente a fuoco, la porta che di lì a qualche istan-
te verrà abbattuta dall'uomo. Viene in questo modo sostituito al montaggio propriamente detto, il montaggio interno, tramite la messa in profondità di quegli elementi diegetici che costituiscono il fulcro dell’azione. Siamo così in sostanza più liberi di decidere che cosa guardare — il sonnifero, la donna, il marito, l’immagine nel suo complesso, ecc. — e per quanto tempo guardarlo di quel che invece non lo saremmo nell’ambito di una scena a découpage classico. La seconda inquadratura che prendiamo in esame, non propriamente un piano sequenza, bensì un long take, è quella in cui i genitori di Kane decidono di affidare il figlio a un tutore. Vediamo il piccolo Kane giocare in mezzo alla neve. Un movimento di macchina indietro scopre i genitori del bambino che alla finestra lo stanno osservando. Nel suo svilupparsi, attraverso i movimenti della cinepresa e quelli dei personaggi, l'inquadratura finisce con l’articolarsi su tre piani distinti, che ne strutturano la profondità: sullo sfondo, oltre la finestra, c'è il bambino
che gioca all’aria aperta, in
mezzo il padre e in primo piano la madre e il tutore. Siamo di fronte a un altro esempio evidente di montaggio interno, dove l’uso della profondità di campo stabilisce una relazione fra i tre diversi elementi in gioco che, in un film fondato sul découpage classico, sarebbero stati rappresentati da un montaggio di inquadrature. Con la differenza che qui è proprio lo spettatore a potersi ritagliare, in relativa libertà, il proprio découpage (nessuno in sostanza ci impedisce di continuare a guardare il bambino, che entra ed esce dinamicamente di campo sullo sfondo, mentre, ad esempio, prestiamo attenzione alle parole della madre). Da sottolineare anche come l’articolazione formale dell’inquadratura su tre livelli di profondità risponda a una logica narrativo-drammatica ben precisa: ogni livello infatti è occupato da uno o due personaggi che giocano un ruolo diverso nell’ambito della situazione complessiva: il bambino, sullo sfondo, vittima ignara di un disegno altrui, il padre che cerca debolmente di opporsi a tale disegno, la madre e il tutore, infine, veri artefici di quanto sta accadendo.
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IL NEOREALISMO Si è soliti considerare con Roma
città aperta (Rossellini, 1945) il momento d’avvio del cinema neorealista, di quella tendenza presto
definita come “scuola italiana” che suscitò grande eco in tutto il mondo e contribuì non poco a orienta-
re nuovi sviluppi dell’estetica del film che portarono poi al fenomeno del nuovo cinema degli anni Sessanta. Insieme a Roma città aperta, film come Paisa (1946) sempre di Roberto Rossellini (1906-1977), Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica (1901-1974) e Cesare Za-
vattini (1902-1989), La terra trema Aldo Fabrizi, magistrale interprete di Roma città aperta (Rossellini, 1945).
(1948) di Luchino Visconti (1906-
1976) e altri diretti da De Santis, Zampa, Lattuada, contribuirono, sebbene in modi e forme assai diversi fra loro, a definire un nuo-
vo modo di fare cinema lontano dagli studi e dalle modalità di rappresentazione dominanti, girato per le strade e in ambienti reali, senza l’uso di attori professionisti, con l’idea di riuscire a rappresentare la realtà senza manipolarla — così come aveva proposto Rossellini in un suo famoso slogan. Certo non tutti i film citati si adeguano perfettamente a questi modelli, anche Roma città aperta contiene almeno una sequenza, quella in cui il prete interpretato da Aldo Fabrizi deve nascondere delle armi mentre i fascisti si stanno avvicinando salendo le scale, realizzata attraverso quel montag-
PTGAR nua ro MOOR - MARIA MICHI
ZZZZA7Oi ROSSELLINI 4
HARRIET WHITE RENZO AVANZO -—Foduzione QELCARA BIL TUBBS - DALE EDMONDS CIGOLANI
La locandina pubblicitaria di Pa/sà (Rossellini, 1946)
Distribuzione Metro GolduynMayer SAI.
gio alternato che rappresenta una delle forme di drammatizzazione più tipiche del découpage classico. Del resto lo stesso Aldo Fabrizi, così come
Anna Magnani, erano certamente tutto meno che
attori non professionisti. Sta di fatto che con la “scuola italiana” nasce comunque un nuovo modo di concepire il cinema caratterizzato complessivamente dagli elementi prima indicati. Un nuovo modo che ebbe soprattutto il merito di saper rappresentare con grande autenticità il disperato paesaggio sociale, prima ancora che politico, della tragica realtà italiana che usciva dal fascismo, viveva l’esperienza dell’occupazione tedesca e iniziava fra mille contraddizioni la propria ricostruzione resa difficile da un’endemica arretratezza. :
Fu proprio questo impeto
verso il sociale che determinò, nel clima di gene-
rale restaurazione politica successivo alle elezioni del 1948, i duri attacchi governativi nei confronti dell’ala più radicale del movimento — Andreotti fu molto polemico in quegli anni con l'Umberto D. (1952) di De Sica — che finirono col sancirne l’epilogo. La terra trema (Visconti, 1948). Sebbene il Neorealismo abbia rappresentato una radicale novità nel panorama del cinema italiano, la storiografia più aggiornata non dimentica tuttavia come già negli anni del fascismo il cinema non vivesse solo di “telefoni bianchi” — così come erano chiamate le commedie dell’epoca — e che certi richiami al quotidiano, al regionale, al paesano, alla difesa di un cinema nazionale, popolare e realista fossero già presenti nel dibattito culturale interno al fascismo, in particolare nei suoi ultimi anni. Così non solo film come La nave bianca (1941), L’uomo della croce (1943) di Rossellini e Ossessione (1943) di Visconti, possono essere con-
siderati a tutti gli effetti film anticipatori dello stile e della poetica del Neorealismo, ma anche certe opere di Blasetti e Camerini, indiscussi registi di primo piano del fascismo, presentano scorci di un realtà “umile” e “dimessa” per certi versi anticipatrice di ciò che avverrà nel cinema del dopoguerra. Un altro importante elemento di cui è necessario tener conto è come certe scelte di fondo del Neorealismo più radicale, il rifiuto degli attori professionisti e, soprattutto, la scelta di girare in ambienti reali, erano dovute non solo, o forse non tanto, a una consapevole scelta espressiva ma anche al di-
sastroso stato dell’industria cinematografica italiana e dei suoi studi di Cinecittà, gravemente danneggiati dal conflitto. In quello che oggi definiamo Neorealismo convivono in realtà diverse tendenze, legate a poetiche d’autore e di genere differenti. Sebbene l’elemento di partenza sia sempre strettamente connesso a dati cronachistici e documentari, esso può essere elaborato in modo diverso a seconda dei
casi. Rossellini privilegia il dato interiore e la reazione morale, De Sica e Zavattini i toni dimessi e crepuscolari, talvolta patetici, talvolta grotteschi, Visconti dà libero sfogo alla sua arte della messa in scena rifacendosi alla tradizione letteraria, musicale, pittorica e teatrale. Per non parlare poi dei rapporti col cinema americano
di genere (De Santis, Lattuada), del “Neorealismo
rosa” (Ca-
stellani, Comencini) e di quello melodrammatico (Matarazzo). In sostanza il fenomeno neorealista appare nel suo complesso come un insieme assai composito, che tuttavia testimonia così anche dell’esigenza di aprire la cultura del paese a quei nuovi orizzonti — Ossessione è ad esempio tratto da un romanzo dell'americano James Cain — che per troppo tempo il fascismo aveva pre-
cluso. La scelta, o la necessità, di girare in ambienti reali ebbe non poche conseguenze sullo stile del cinema neorealista. Inquadrature e movimenti di macchina appaiono molto più improvvisati e disponibili al caso di quanto ciò non accade nel cinema tradizionale. La volontà di maggiore aderenza al reale comporta un uso meno accentuato del montaggio, la cui funzione primaria, pur con tutte le sue eccezioni, diventa quella di raccordare semplicemente fra loro le inquadrature, nel tentativo
MOMENTI DI STORIA DEL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
272 di dar vita a un tempo filmico più vicino al tempo della realtà. L’illuminazione non è più usata per fini di intensificazione drammatica e gli ambienti rappresentati appaiono così in tutta la loro naturale desolazione. Su un piano narrativo i nessi causali si allentano e i film si fanno più disponibili ad eventi casuali, come
nel famoso
incontro
del
protagonista di Ladri di biciclette con un gruppo di preti, che non ha nessuna funzionalità nello sviluppo della narrazione. Ancora più radicale, da questo punto di vista, un film come Paisà, co-
struito su cinque diversi episodi, in cui spesso non ci vengono mostrati gli esiti di un certo evento, le conseguenze di Ladri di biciclette(De Sica, 1948).
una determinata causa. La voluta ambiguità dei più radicali film neorealisti rinuncia a un’istanza narrante onnisciente, fatto che si traduce in finali a volte aperti, i quali piuttosto che concludere una storia, ne lasciano sospesi gli esiti e li aprono a diverse possibili alternative opponendosi radicalmente ai modelli del cinema classico. Un film come Ladri di biciclette evidenzia bene alcune delle principali caratteristiche del Neorealismo così come alcune delle sue contraddizioni. Il film nasce dalla feconda collaborazione fra De Sica e Zavattini (iniziata con I bambini ci guardano, 1943, e proseguita con Sciuscià, 1946, Miracolo a Milano, 1951, e Umberto D., 1952). Alla base del film l’idea del pedinamento, che avrà pur con tut-
ti gli inevitabili sviluppi una profonda influenza nel cinema moderno, come testimonia ad esempio gran parte dell’opera di Wenders. Il film di De Sica e Zavattini non è infatti che la storia di un uomo alla ricerca, insieme al figlioletto, della bicicletta che gli è stata rubata, lungo vie, piazze, mer-
cati, case, circoli, uffici, trattorie della Roma popolare del dopoguerra. A questo errare del personaggio è totalmente subordinata la macchina da presa, che lo segue talvolta da vicino per isolarne il dramma, talvolta da lontano per collocare la sua realtà individuale in un contesto più ampio di cui egli è parte. Proprio l’insistita presenza di questi ampi punti di vista, una delle caratteristiche essenziali del film, che collocano i personaggi nel loro ambiente e fanno risaltare il contesto così come è, senza smontarlo, selezionarlo, gerarchizzarlo, fa di Ladri di biciclette un film molto lontano
da certe modalità di rappresentazione tipiche del cinema a découpage classico. Il montaggio, più che creare effetti drammatici, si limita a mettere le inquadrature in fila l’una dopo l’altra, in un tentativo di rispettare la reale durata degli eventi rappresentati. La stessa presenza nel film di una storia narrata (il lavoro trovato, il furto subìto, la vana ricerca, il tentato furto finale) è in realtà subordinata a una volontà quasi documentaria di rappresentazione di una Roma che non è semplice cor-
nice, ma a tutti gli effetti protagonista del film. Allo stesso modo, Antonio Ricci, il protagonista (interpretato, come
il figlio, da un attore non professionista),
è continuamente
rapportato — evidente-
mente dai campi lunghi di cui abbiamo già detto ma anche dall’uso del montaggio — all'ambiente che lo circonda e alla massa di cui è parte. Il suo destino, la sua storia, la sua tragedia perdono così la propria individualità per diventare emblema di una realtà collettiva. La stessa funzione è ripresa sul piano della struttura della storia: l’intrigo del film inizia, dopo un breve esordio in cui Ricci trova lavoro come attacchino, con il furto della bicicletta che impedisce all’uomo di continuare il suo lavoro. A rubargliela è stato un disgraziato, un poveraccio come lo stesso Ricci. Non riuscendo a ritrovare la propria bicicletta Ricci perderà il suo lavoro. L’unica possibilità che gli rimane è fare anche lui quel che l’altro poveraccio ha fatto. Il furto non è più un atto di scelta individuale, ma una costrizione determinata da un ben preciso contesto sociale. Pedinamento, uso di attori non professionisti, privilegio dei campi lunghi, utilizzo del montaggio in semplice funzione di raccordo, parziale rispetto del tempo reale, contestualizzazione del personaggio e dell’azione in un orizzonte sociale ben determinato, subordinazione del racconto a una volontà quasi documentaria, disponibilità all'evento casuale: sono queste alcune delle caratteristiche più radicali del film che fanno di Ladri di biciclette una delle opere più rappresentative del Neo-
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realismo. Tuttavia sono in esso presenti, come del resto in tutto il movimento, anche degli aspetti contraddittori, ben testimoniati, ad esempio, dalla sequenza finale. Qui l’istanza narrante, nascosta e subordinata per quasi tutto il resto del film all’azione del protagonista che veniva semplicemente pedinato, finisce con l’assumere un ruolo di primo piano. La sua funzione diventa quella di drammatizzare l'epilogo, affermando la soggettività dei protagonisti e cercando di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Padre e figlio giungono, ormai stanchi e privi di speranza, nei pressi dello stadio, dove sono parcheggiate le biciclette dei tifosi. Poco più in là, appoggiata a un muro, una bicicletta isolata. L'istanza narrante ricorre qui a una delle soluzioni più tipiche del cinema a découpage classico, alternando le inquadrature oggettive dell’uomo affranto alle sue soggettive della facciata dello stadio, delle centinaia di biciclette parcheggiate davanti e di quella bicicletta sola che sembra essere lì proprio perché lui la prenda. Non possono non scattare tutti quei meccanismi di proiezione e identificazione su cui il cinema americano classico, grazie anche a un uso del montaggio analogo a quello qui presente, ha fondato la sua storia e la sua stessa ragione d’esistenza. Come del resto gli stessi meccanismi saranno riattivati poco dopo, quando il montaggio alternerà le immagini degli uomini che spingono e insultano il padre scoperto nel tentativo di furto a quelle del bambino che inorridito assiste inizialmente impotente alla scena. In entrambi i casi l’istanza narrante del film sceglie, attraverso l’uso del montaggio, di porre in primo piano la soggettività dei personaggi, di spingere lo spettatore a viverne in prima persona i sentimenti di fatica, dolore e umiliazione in piena sintonia con lo spirito del cinema classico.
I. LA NOUVELLE VAGUE Nel corso degli anni Cinquanta un gruppo di giovani critici cinematografici — Truffaut, Rivette, Rohmer, Godard, Chabrol si era raccolto intorno alla rivista «Cahiers du Cinéma» («Quaderni di cinema»), e al suo direttore spirituale André Bazin, e aveva incominciato ad attaccare duramente il
cosiddetto “cinema di qualità” francese, accusandolo di essere eccessivamente letterario e incapace di esprimersi in termini autenticamente cinematografici. Del cinema del loro paese, essi salvavano solo quegli autori che, come Renoir, Bresson e Tati, si erano mossi lungo percorsi lontani da quel cinema di sceneggiatura allora imperante. Soprattutto, questi giovani critici iniziarono un sistematico recupero critico dell’opera di registi del cinema hollywoodiano, come Hawks, Preminger, Fuller, Minnelli, Ray e Hitchcock, considerati tutt'al più, sino a quel momento, come bravi artigia-
ni. Truffaut, Godard e i loro amici diedero così vita a quella che fu definita la «politica degli autori», tesa a dimostrare come i registi appena citati — ed altri via via studiati — seppero imporre il marchio della loro personalità ai film che avevano realizzato, nonostante le rigide imposizioni del si-
stema produttivo hollywoodiano, le ferree regole del découpage classico, i codici standardizzati del cinema di genere. Quello che veniva proposto era un modo nuovo di vedere il cinema, in cui la figura dell’autore emergeva non tanto dalle dichiarazioni programmatiche presenti nella sua opera, fossero esse di tipo etico o ideologico, quanto dalla sua capacità di esprimersi in termini autenticamente cinematografici. Parallelamente erano quelli gli anni in cui si diffondevano, a livello teorico, alcuni modi nuovi di
intendere il cinema. Bazin attaccava i modelli del cinema sovietico rivoluzionario e del découpage classico, colpevoli di instaurare un rapporto di coercizione con lo spettatore che avrebbe potuto cessare solo con un nuovo tipo di cinema in grado di essere fedele alla sua più autentica vocazione realistica, un cinema che si liberasse dalle pratiche manipolatorie del montaggio, per affidarsi invece a figure come quelle del piano sequenza e della profondità di campo. Astruc — nel suo celebre saggio Nascita di una nuova avanguardia: la cinepresa stilografica (Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra stylo, 1948) — si faceva sostenitore di un cinema personale, in grado di poter esprimere la soggettività dei suoi autori, dove la macchina da presa doveva essere utilizzata con la stessa imme-
diatezza e spontaneità con la quale uno scrittore usa la sua penna stilografica. L'immissione sul mercato di nuove cineprese-assai leggere e maneggevoli sembrava davvero poter rendere reali le profezie di Astruc. Il clima culturale dell’epoca non poteva che trovare uno sbocco in una nuova generazione di cineasti che avrebbe di lì a poco sovvertito cinquant'anni di storia del cinema. Alcuni dei giovani critici dei «Cahiers» iniziarono, facendosi prestare dei soldi dai loro amici e utilizzando quelli che possedevano, a girare alcuni cortometraggi, sino all’arrivo di quel 1959 che può essere considerato l’anno del riconoscimento ufficiale della Nouvelle vague (Nuova ondata), con la conquista del premio gg
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274 per la miglior regia che I quattrocento colpi (Les quatre cents coups) di Francois Truffaut (19321984) ottenne al Festival di Cannes. L’anno prima
Claude Chabrol (n. 1930) aveva esordito con Le beau Serge, nel ’57, insieme al film di Truffaut, esce
anche Il segno del leone (Le signe du lion) di Eric Rohmer (n. 1920) e l’anno successivo è la volta di
Parigi ci appartiene (Paris nous appartient) di Jacques Rivette (n. 1928) e, soprattutto, di Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle) di Jean-Luc Godard (n. 1930), il film che suscitò più scalpore. I
cinque registi citati lavorarono tutti negli anni successivi con grande intensità, realizzando ben 32
film fra il ’59 e il’66 (Godard e Chabrol ne giraroLe beau Serge (Chabrol, 1957).
no addirittura
11 a testa). Nonostante gli intenti
dissacratori di quel cinema, l'industria francese, duramente provata dalla diffusione della televisione, non reagì in modo negativo. La politica dei bassi costi, la rapidità delle riprese, l’aria di novità che in quelle opere circolava poteva essere un buon antidoto alle difficoltà del momento. Anche se i principali registi della Nouvelle vague avevano dato vita a loro case di produzione, l’industria cinematografica francese si assunse spesso l’onere di distribuire i loro film e talvolta di parteciparvi anche sul piano della produzione. Ma quali erano gli elementi di novità della Nouvelle vague? Innanzitutto ci si ritrova di fronte a una generazione di registi che del cinema e della sua storia conosce tutto, dove i limiti fra attività critica, riflessione teorica e pratica registica tendono a scomparire (in precedenza il fenomeno si era verificato solo nell’ambito del cinema rivoluzionario sovietico). Lo sguardo che quei film gettano sulla realtà, il modo in cui essa viene organizzata e diventa cinema, appare caratterizzato da una leggerezza, spontaneità e casualità che non aveva sino allora avuto precedenti. Come già era accaduto per il Neorealismo — i registi della Nouvelle vague amavano soprattutto Rossellini — le riprese in studio vengono sistematicamente sostituite da quelle in ambienti reali. All’illuminazione artificiale si preferisce quella naturale. I dialoghi sono spesso improvvisati. I movimenti di macchina vengono usati con grande frequenza, anche per girare delle scene di dialogo in alternativa al modello del campo/controcampo. Le panoramiche si spingono sino a ruotare su se stesse disegnando angoli a 360°, anche se il movimento di macchina più frequente è quello di seguire a lungo due personaggi che dialogano mentre camminano per strada. Alle elaborate attrezzature del cinema degli studi si preferiscono mezzi leggeri e più flessibili, come ad esempio le cineprese portatili, che gli operatori sono in grado di usare con grande maneggevolezza e in modo spregiudicato: un lungo movimento di macchina a seguire il protagonista di Fino all’ultimo respiro è stato realizzato da un operatore che teneva fra le mani la cinepresa seduto su di una sedia a rotelle che un suo collaboratore spingeva. Frequente è il ricorso ai piani sequenza e ai long take realizzati in modo molto meno costruito di quanto accadeva in Welles e ampiamente disponibili all’irruzione del caso: alcune inquadrature girate all’aperto finiscono ad esempio col comprendere gli sguardi incuriositi di passanti casuali, che certamente comparse non sono. Non mancano poi espliciti gesti di rottura, violazioni di alcuni dei tabù chiave del cinema americano classico, come testimonia ad esempio l’uso dello sguardo in macchina e dell’interpellazione diretta dello spettatore da parte di un personaggio: come ad esempio si diverte a fare il Belmondo di Fino all’ultimo respiro. Quest'atteggiamento ironico nei confronti del mezzo cinematografico — quello della Nouvelle vague è cinema tanto quanto è meta-cinema, cioè cinema che parla di se stesso — è evidente anche nel frequente ricorso alle citazioni, tanto delle opere dei maestri del cinema che quei registi più amavano, quanto dei loro stessi film. Sul piano narrativo, i film della Nouvelle vague rifiutano la stretta causalità che governava il cinema classico, dando vita a una narrazione giocata sul casuale, l’imprevisto, il gratuito, il paradossale. In Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, Truffaut, 1960), un personaggio esclama: «Possa mia madre morire se io non dico la verità», ed ecco seguire l’immagine di un’anziana donna che cade improvvisamente a terra. La prima sequenza dello stesso film è costruita su un dialogo di due personaggi, in cui uno di essi si sofferma a lungo sui suoi problemi coniugali che tuttavia non avranno nessun peso nello sviluppo del racconto. Molti dei protagonisti dei film della Nouvelle vague man-
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cano di un qualsivoglia fine intorno a cui la storia possa costruirsi. La gran parte di loro si limita ad andare di qua e di là, facendo quel che di volta in volta il caso gli fa fare, passando gran parte del tempo a chiacchierare, bere o andare al cinema. Alcune delle loro azioni, spesso le più importanti, appaiono gratuite e prive di reali motivazioni. Il montaggio non obbedisce assolutamente ai princìpi della continuità, giocando, al contrario, su stacchi assai bruschi, raccordi volutamente sbagliati che non possono non disorientare lo spettatore. I finali, per concludere, sono quasi sempre aperti, incerti, ambigui e talvolta ironici. Il giovane protagonista di I quattrocento colpi fugge da un riformatorio e raggiunge correndo il mare. L'ultima inquadratura ferma l’immagine sul viso perplesso del personaggio senza che nulla ci venga più detto dell’esito della fuga e del destino del giovane. È certo che al di là di alcuni tratti accomunanti ognuno dei maggiori registi della Nouvelle vague si è caratterizzato per una propria poetica e un proprio stile personali. Godard, fra tutti il più radicale, anche politicamente, ha portato alle estreme conseguenze la sua critica all’illusionismo cinematografico. Truffaut ha privilegiato temi autobiografici, soffermandosi, con misurata eleganza, su motivi come quelli dell'amore, dell'adolescenza e del rapporto fra arte e vita. Alain Resnais (n. 1922), che a differenza degli altri non proviene dall’attività critica dei «Cahiers», darà vita in film come Hiroshima mon amour (1960) e L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad, 1961), scrit-
ti il primo da Marguerite Duras e il secondo da Robbe-Grillet, a un cinema assai originale sul piano dello stile, dove il tempo del racconto, attraverso un montaggio molto ardito, diventa un tempo tutto interiore giocato sulla memoria, il ricordo e l'incertezza fra realtà e immaginazione. La Nouvelle vague francese non rappresenta in realtà che il fenomeno più appariscente di un generale rinnovamento che in forme assai diverse attraversa gran parte delle cinematografie degli anni Sessanta: da quella americana a quella italiana, da quella dei paesi dell’Est europeo sino a quella giapponese e latino americana. Tutte queste “nuove ondate”, pur nelle loro specificità che notevolmente le differenziano, trovano i loro tratti accomunanti nel rifiuto dell’intreccio romanzesco tra-
dizionale, nell’assunzione di procedimenti di messa in-scena e regia “antinaturalistici”, nell’affermazione della soggettività dell'autore, nel ricorso a una pratica semantica e ideologica più sfumata e indiretta di quella che caratterizzava il cinema precedente, nella ricerca di nuove soluzioni produttive e di distribuzione.
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I quattrocento colpi (Truffaut, 1959).
MOMENTI DI STORIA DEL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
276 Questa è la mia vita (Vivre sa vie, Godard, 1962)
è un film che bene rappresenta molte delle caratteristiche di fondo della Nouvelle vague, del suo modo nuovo e spontaneo di fare cinema al di fuori dei modelli di rappresentazione dominanti. Nel raccontare la storia di una giovane donna che decide di prostituirsi e finisce col rimanere uccisa durante uno scontro fra bande rivali, Godard ri-
corre con molta frequenza all’utilizzo di piani sequenza, che gli permettono di dar maggior peso al momento “caldo” delle riprese, rispetto a quello “freddo” del montaggio, conferendo così agli eventi rappresentati una maggiore freschezza e spontaneità, una più efficace resa dell’immediato e del casuale. Allo stesso modo il racconto non procede sugli artificiali modelli della narrazione classica, privilegiando a un concatenamento consequenziale una più semplice e spontanea successione di eventi. Il film si limita così a rappresentare alcuni momenti della vita e della realtà quotidiana della protagonista, a offrircene determinati scorci, rifiutando ogni idea di organicità dell’opera, dando vita a un movimento per così dire centrifugo, dove ogni elemento del film sembra voler rinviare a qualcos'altro che non è dentro il film, ma fuori da esso. In questo senso si possono leggere le diverse citazioni presenti in Questa è la mia vita, che vanno da La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer a Il ritratto ovale di Poe, passando attraL’anno scorso aMarienbad(Resnais, 1961).
verso il romanzo sentimentale e la cartellonistica
pubblicitaria. Assai significativo anche l’uso della parola scritta che diventa una delle materie d’espressione dominanti il film — attraverso didascalie, sottotitoli e scritte diegetiche di varia natura — che se da un lato tematizzano il rapporto fra parola e immagine, dall’altra conferiscono al film un sapore esplicitamente brechtiano, caratterizzato dalle forme dello straniamento e dal rifiuto dei codici illusionistici del cinema classico. Già assai significative sono le immagini che accompagnano e intervallano i titoli di testa del film: le tre inquadrature ravvicinate di Nanà, che ce ne mostrano il volto di fronte, poi il profilo destro e infine quello sinistro, esplicitano l’intento più antropologico che narrativo del film. Lo stesso Godard ebbe del resto a dire: «Io non invento niente, compilo dei prospetti. Dico ecco come si compone una donna e la mostro a pezzi staccati». La sequenza d’esordio, poi, potrebbe essere letta come un vero e proprio manifesto della volontà della Nouvelle vague di rompere con gli schemi tradizionali. Il dialogo in un bar fra Nanà, la protagonista, e il suo ex-fidanzato è ripreso in modo tale da negarci l’immagine dei volti dei due personaggi di cui invece non vediamo che le nuche. E evidente così il rifiuto dei più consueti modi di drammatizzazione,
che proprio all’espressività del volto dell’atto-
re affidano
un
compito di primo
piano.
Non solo,
ma la scelta di disporre i due attori di spalle alla macchina da presa, contraddice anche quel prin cipio essenziale
del
punto di vista che presentata sia
i personaggi cinepresa
cinema classico che fa sì che il ci viene offerto della realtà rap
sempre il più efficace. In tale cinema
sono disposti davanti all'occhio della
così
da poter
agire
nel
modo
che è più
L'attrice francese Jeanne Moreau in Jules e Jim(Truffaut, 1962).
La cinese (Godard, 1967).
Jean-Paul Belmondo nel ruolo del protagonista nel Bandito delle ore
undici (Godard, 1965).
funzionale allo spettatore. Al contrario, nel cinema di Godard, i personaggi non fanno che vivere la loro vita e mostrarcene frammenti casuali, che noi possiamo cogliere solo da un punto di vista altrettanto casuale, quello di un osservatore non privilegiato bensì qualsiasi, che, come nel caso della scena in questione, si trovi ad esempio alle spalle dei due personaggi. Questa casualità si ritrova anche nella scelta di avviare la sequenza a discussione già inoltrata, di ricorrere a dialoghi chiaramente improvvisati, nel riferirsi dei personaggi a fatti e situazioni che non avranno poi particolare peso
nello sviluppo del racconto, nel creare effetti di disturbo attraverso l’andirivieni dei baristi di cui, contrariamente a quel che accade per i due personaggi principali, vediamo gli “inutili” volti. Ma non è solo questa scena d’esordio ad evidenziare la volontà di Godard di allontanarsi dai modi di rappresentazione propri del cinema classico. Quasi tutte le numerose scene di dialogo del film testimoniano, ad esempio, un esplicito rifiuto della tecnica del campo e controcampo, a cui si sostituiscono dei movimenti di macchina, talvolta laterali, talvolta in profondità, dei lunghi piani fissi, degli anomali utilizzi del fuori campo — come quando nel corso di una conversazione la macchina da presa rimane sempre su un personaggio senza mai mostrarci l’altro. È in sostanza come se
Godard ci dicesse : «Sino adesso il cinema ci ha mostrato sempre allo stesso modo il dialogo fra due persone. Proviamo a vedere se esistono altre possibilità». Questa stessa vocazione sperimentale e di rottura è in opera anche su altri livelli, come nell’uso del montaggio che rifiuta i dettami della continuità, mostrandoci ad esempio in due inquadrature, l'una immediatamente successiva all’altra, lo stesso personaggio in due pose nettamente diverse fra loro. Altrettanto trasgressiva è quell’inquadratura in cui Nanà e un suo amico escono di campo passando l’uno a destra e l’altro a sinistra della macchina da presa, finendo così col rivelarne implicitamente la presenza. Entrambi i procedimenti sono chiaramente tesi a conferire al film una dimensione straniante.
L’epilogo di Questa è la mia vita è infine un capolavoro di ironia e antidrammaticità. In un unico piano sequenza lo scontro fra le due bande e la morte di Nanà sono ripresi attraverso una serie di movimenti di macchina laterali che si limitano a seguire pigramente l’andirivieni dei personaggi senza mai mettere in evidenza, come sarebbe accaduto invece in un film a découpage classico, la figura della protagonista e il suo tragico destino. Niente ci spinge così a identificarci con essa, a vivere i “suoi” sentimenti. L'andamento straniante dell'intera sequenza è inoltre rafforzato dalla paradossalità dell’intera situazione: la gratuità assoluta della morte della donna, il gangster che si è dimenticato di caricare la pistola, il caffè davanti a cui si svolge la scena il cui nome è significativamente quello di «Caffè degli studi» (cinematografici, ovviamente). rggrrgoorrrrrrrrrr———r —_rTCC_o(_cry =—..,r, P