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Italian Pages 347 [366] Year 1996
0 1996. Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1996
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Nicolao Merker
IL SOCIALISMO VIETATO Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti
Laterza
Allgemeiner Deutscher Gewerkscbaftsbund (Confederazione generde tedesca dei sindacati) Allgemeine Elektnlzitits—Gesellscbafl (Società generale di elettricitì) AuS-R'a'te Arbeiten undSoldatenrite (Consigli degli operai e soldati) Bureau socialiste internal:le (Ufficio socialista internazionale) Deutsche Demokratiscbe Partei (Partito democratico tedesco) Deutsche Densobratisabe Republik (Repubblica democratica tedesca) General/commission der Gewerksabnfi'en Deutscblands (Commissione generale dei sindaati della Germania) gemeinwirtscbafilùbe Anstalten (imprese a economia collettiva) Interessengemeinscbafl (Comunità d’interesai) Kommum'stiscbe Partei Deutschlaan (Partito comunista della GesAnca
mania)
NSDAP
Pcd'l Psr
SAP!)
SAPDÒ SDAPÒ
SPD
SPO USPD
Zentrum
Kommumlstimbe Partei Deutscbò'sterreicbs (Partito comuniau dell’Austria tedesca) Kommuns'stz'scbe Parte:" Òsterreicbs (Partito comunista dell’Ausuia) Knegsrobstoflabtes'lung (Sezione per le materie prime belliche) Mebrbeitlù‘be Sonhldemobratùcbe Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico maggioritario della Germania) Nationalsozz'alistxlvdve deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalaodalista tedesco dei lavoratori) Partito comunista d'Italia Partito socialista italiano Sonhlishlccbe Arbeiterpcrtei Deutschland: (Partito operaio socialista della Germania) Sozùldemokratiscbe Arbeiterpertei Deutsd1-Òsterreicbs (Partito opemio :ocialdemocratico dell’Austria tedesca) Sozialdernokratiscbe deutsabe Arbeiterpartei Òsteneiabs (Partito opemio socialdemocratioo tedesco dell’Alma-ia) Soùldenrakratxlscbe Partet' Deutscbe (Partito sodaldunocmtico della Germania) Sonbldernokratiscbe Parter' Òsteneiabs (Partito socialdemocratico dell'Arma-ia)
Unabbingige Sozùwldemokratxlscbe ParteiDeulscblands (Partito sodalclemocratico indipendente della Germania) Deutsche Zenhurnspartei (Partito tedesco di centro)
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Capitolo primo
UN ILLUMINISMO SOCIALISTA
1.1.Il 1889 e l'autorità ‘morale’
La Prima Internazionale aveva avuto, nel 1864, un atto di nascita certo. La Seconda Internazionale non lo ebbe. Solo retrospettivamente lo si è voluto vedere nel congresso che circa quat— trocmto delegati di movimenti operai socialdemocratici di ventidue paesi tennero a Parigi nelluglio del 1889.Engels, dopo la morte di Marx il mentore dei partiti socialisti, aveva avuto seri dubbi sull’utilità di ricostituire qualcosa che potesse anche solo vagamente assomigliare alla «vecchia Internazionale con un comitato centrale» (20 luglio 1891, a Laura Lafargue, la figlia di Marx [OME, IL: 140]): e non solo perché ciò avrebbe tradito le intenzioni dell’amico che già nel 1872 aveva sottolineato che l’autorità»
di quello che era stato allora il ‘Consiglio generale’ non poteva che essere «unicamente morale», fondata cioè sulla «solidarietà» come unico «principio fondamentale dell’Internazionale» [OS: 936-37].
Adesso si aggiungeva l’esistenza di forti partiti operai cresciuti in situazioni nazionali troppo diverse per poter esser sottoposti a direttive centralizzate, «Il movimento è troppo grande e troppo potente» così Engels a Laura Lafargue il 17 agosto 1891 [OME, II.: 148] «perché si possa comprimerlo in simili vincoli». In Engels non era una novità. Nell’85, a conclusione del lungo saggio Per la ston'a della Lega dei comunisti, aveva drasticamente ridimensionato persino perilavoratoritedeschi il ruolodi un loro partito politico: «il semplice legame, che si comprende da sé, tra compagni di classe della stessa opinione è sufficiente - senza tutti gli statuti, le istanze dirigenti, le risoluzioni e tutte le altre forme immaginabili a scuoteretutto ilReichtedesco» [Engels 1885/08:
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1098]. Aveva considerato un ancora maggiore intralcio la creazione di un’Intcrnazionale: anche a livello internazionale basta «il
semplice sentimento di solidarietà, basato sulla convinzione dell’i— dentità della situazione di classe», a «creare e tenere insieme tra gli operai di tutti i paesi e di tutte le lingue uno stesso grande partito del proletariato» [iviz 1098-99]. Ma veramente un ‘partito’, nel senso proprio del termine? Dalle premesse non sembrava o, almeno, Engels non pensava di certo a un ‘partito’ nell’accezione usuale: sebbene ciò non gli impedisse di dare robusti suggerimenti ai partiti operai esistenti, a cominciare dal suo intervento (Per la critica del progetto di programma del partito soa'aldemocratz'co, giugno-luglio 1891) nei dibattiti precongressuali delle assise di Erfurt dell’SPD o Sozùtldemo/eratiscbe Partez' Deutschlands, il ‘partito socialdemocratico della Germania’ Praticamente dai tempi del Mamfesto delpartito comunista del 1848 egli aveva rifiutato (insieme a Marx) di farsi coinvolgere in questioni organizzative. A Bebel, che dopo la morte di Marx lo invitava a trasferirsi sul continente, risponderà il 30 aprile 1883 [MEW, XXXVI. 21] che nonera «un pazzo»: perché ciò lo avrebbe costretto a invischiarsi nella vita di partito, offuscandogli «la chiara visione delle faccende». Per sua dichiarata scelta rimase dunque un ‘teorico’ A prima vista sembrerebbe sorgere una contraddizione tra il partito—‘coscienza’ per il quale si dichiarò nella lettera a Bebel, e il partito-‘organizzazione’ ch’egli guardava con un certo distacco. Non era forse precisamente il partito—‘organizzazione‘, cioè il partito politico della classe operaia, lo strumento per eccellenza di cui (proprio con statuti, gruppo dirigente ecc.) sin dai tempi del Ma— m'festo il proletariato si sarebbe dovuto servire per la presa del potere? Senonché nel Mamfesto ciò era molto più implicito che esplicito. Esplicita a parte il fatto che la stessa parola ‘partito’ aveva nel ’48 un’accezione bendiversa da quella che acquisterà in seguito era invece un’altra considerazione. Ovvero che la pearliarità — dei comunisti consistesse soltanto nell’avere essi «un vantaggio sulla restante massa del proletariato perché conoscono le condizioni, l’andamento ei risultati generali del movimento proletario» [Marx-Engels 1848/0ME,VI. 498]. Ilpartito dei ‘comunisti’ era dunque in certo qual modo una lega di ‘intellettuali’, purché s’intendesse per ‘intellettuale’ chiun—
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que, in primo luogo naturalmente l’operaio acculturato, avesse appreso con appropriati strumenti concettuali la storia e l’andamento del «movimento proletario». Che dopo, durante il successivo quarantennio, si fosse prepotentemente affacciata nel movimento operaio l’istanza di un partito-‘organizzazione’ fu una necessità im— posta dalla realtà storica dei fatti. Latensione tra un partito concepito come collettiva ‘coscienza’ teorica e morale e l’idea invece di un partito-‘organizzazione’ segnerà comunque buona parte della storia del movimento operaio nell’epoca secondinternazionalista. La Seconda Internazionale non ebbe del resto nessun organo permanente di_direzione. I] BSI, il Bureau soa'aliste
international che il congresso di Parigi creò'nel 1900, fu un semplice ufficio d’informazione, con due delegati per ogni paese. Ma allora, con gli aspetti organizzativi così in secondo piano, in che modo si sareb— be potuta promuovere l’istanza invece principale, marx-engelsiana, di far vivere e crescere anzitutto il fondamentale «sentimento di solidarietà», di una solidarietà di classe? 1.2. «Portare la scienza in mezzo al popolo»
L’obiettivo, ben si vede, da strettamente politico diventava più largamente culturale. Ed era soprattutto culturale la rivista mensile cheisocialdemocratici tedeschi avevano dal 1883. Sul futuro di essa, nel pieno della legislazione antisocialista bisma'rckiana, forse avrebbero scommesso in pochi. La stampava a Stoccarda l’edito— re Dietz con perenni difficoltà finanziarie; e l’allora trentenne Kautsky la dirigeva dall’esilio, pritna da Zurigo, poi dall’85 al ’90 da Londra, anche lui tra i novecento dirigenti socialdemocratici (trai quali pure Bernstein, a Londra dal 1888) ai quali la legge antisocialista del 1878 aveva vietato il domicilioin Germania. La testata, «Die Neue Zeit», «L’Epoca nuova», recava nelle prime annate, a mascheramento verso la censura, l’anodino sottotitolo di «Rivista di vita spirituale e pubblica». Nell’ottobre del ’90 — caduto Bismarck e tornato alla legalità il partito socialdemocratico — il sottotitolo cambiò in quello di «Settimanale della Socialdemocrazia tedesca». All’atto di trasformarsi in settimanale la «Neue Zeit» stava già svolgendo un ruolo assai più ampio di quello di una rivista cultu5
rale di un solo partito della neonata Internazionale. Nell’83 il suo scopo immediato era stato quello «di diffondere, all’interno dei li— min' imposti dalla legge antisocialista, un rischiaramento metodico sull’essenza delle nostre lotte di classe» [Kautsky 1905: VII]; ma poiché lo strumento del rischiaramento era il marxismo, quest’ultimo sarebbe diventato il «fondamento teorico» che la rivista mediò all’«inteta socialdemocrazia internazionale» [iviz XII]. Quale poi realmente fosse il ‘marxismo’ della rivista è, si capisce, tutt’altro discorso. La «Neue Zeit» fu comunque sin dall’inizio una voce tanto più autorevole in quanto non aveva alle spalle né l’apparato di un partito (con l’SPD ancora in clandestinità), né un’organizzazione internazionale (con l’Internazionale di là da venire e nei cui confronti, del resto, anche successivamente ipartiti membri rimarranno ben autonomi). Non fu mai un giornale di massa, tant’è vero che sino alla grande guerra gli abbonati annui restarono in media sotto i4000. Kautsky auspicava come lettore-tipo «un proletario che partecipa attivamente alle lotte di classe del proprio tempo e in esse e per mezzo di esse si è acculturato, e il quale ha imparato a pensare autonomamente e a sciogliersi dalla tradizione degli avi» [Kautsky 1960: 366]. Ma le lamentele dell’editore Dietz per la difficoltà di lettura di certi articoli soprattutto delle prime annate fanno ritenere che iveri lettori oltre naturalmente a parecchi intellettuali borghesi, tra cui ad es. Max Weber che si abbonò negli anni No-
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— fossero prevalentemente operai con qualifica professionale e funzionari e dirigenti delle organizzazioni socialdemocratiche. Il binomio socialismo-cultura rappresenta un capitolo importantissimo nella storia della socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento. Lo caratterizzano il motto baconiano «sapere è potere, potere è sapere» adottato sin dal 1872 daWilhelm Liebknecht,ilfondatore del partito, in un suo celebre discorso all’Associazione o— peraia di cultura di Dresda; nonché il corollario, sempre di Liebknecht, che «la socialdemocrazia è nel senso più eminente della parola ilpartito della cultura»: sicché, se «il tempio della cultura è una muraglia chiuso al popolo el’accesso alla cultura sbarrato dastrumento cinese», allora l’«agitazione politica e sociale» è lo per abbattere la muraglia e conquistare «la chiave del tempio» [W. Liebknecht 1872/1920: 50]. Nell’articolo di presentazione della «Neue Zeit» aveva perciò dichiarato che «l’alfa e l’omega del no-
vanta
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stro
programma è portare la scienza, il sapere in mezzo al popo—
lo», onde l’obiettivo doveva anche essere un’unificazione delle scienze, una coniugazione delle «scienze naturali» con le scienze della società [W. Liebknecht 1883: 1-8]. Kautsky a più riprese evocò iltermine illuministico di «rischiaramento», Auflclà'rung, per definire la politica culturale della rivista. L’aveva fatto già nella lettera con cuiI’ll ottobre 1882 informò Engels del progetto di fondazione. non solo «noi vogliamo popolarizzare il sapere, illuminare [auflelà'ren] l’operaioIn modo che possa in ogni momento esser giustificato rispetto alla scienza», ma anche «trattare tutte le scienze, nonché l’arte e tutto ciò che è di pubblico interesse», e «far scrivere in ogni settore soltanto gli specialisti» [Engels 1955: 64]. La scelta delle parole non era casuale. Durante la sua formazione intellettuale Kautsky aveva assorbito parecchio neoilluminismo dalla Storia della civilta‘ in Inghilterra (1857) del liberal-progressista vittoriano Thomas Henry Buckle, apparsa in traduzione tedesca nel 1859-61. Il modulo divenne quello illuministico classico: a una ‘rivoluzione spirituale’ condotta nel nome delle scienze naturalisarebbe seguito con necessità au— tomatica il“ rovesciamento sociale e politico. Nel primo più ampio saggio di Kautsky, La questione sociale dal punto di mista di un lavoratore della mente [1875], la terminologia illuminista è inequivocabile. Con la «fiaccola della conoscenza» occorre condurre l’umanità «dai labirinti dell’ignoranza alla luce, alla libertà, al benessere», indicare «al popolo la via ch’essa deve seguire per liberare se stesso dalla penuria e dalla miseria»; e ciò perché un «rovesciamento» è reso necessario dal fatto che gli esistenti rapporti sociali si sono palesati di ostacolo agli attuali sviluppi della scienza e ai nuovi modi di produzione. La «salvezza dell’umanità» dipendeva così per Kautsky dalla duplice ricetta di «attmrsi incrollabilmente alla scienza» e di «tenere sempre desta la coscienza di classe»: ancora dunque l’endiadi di cultura e socialismo, ma in una coloritura chiaramente neoilluminista. Sul peso che la ripresa di temi illuministici (o almeno scientisti) aveva nella cultura socialista ci informa un’attendibile fonte non socialdemocratica. Si tratta del pastore protestante Paul Gòhre. Dal resoconto dei tre mesi da lui passati nel ’90 come operaio in una fabbrica di Chemnitz per studiare le condizioni dei lavoratori emergono vivide pennellate su come la cultura socialdemocratìca 7
agiva in concreto. Essa «ha saputo cogliere la sete di sapere che viene dal basso, e da vent’anni si è adoperata per soddisfarla con un lavoro sistematico su grande scala». Ha «creato una letteratura popolare» ed ha «audacemente volgarizzato la scienza moderna», spazzando via «tutta la vecchia educazione e cultura, il cristianesimo e la Bibbia» [Gòhre 1891, in Kuczynski 1983: 236-371. Di quel quadro, che avrebbe fatto balzare di gioia qualunque encyclopédzlste dei lumi francesi, l’onesto parroco ovviamente inorridiva. Ma per ironia della sorte — o, meglio, per la capacità d’attrazione politico-sociale che quella cultura socialista esercitava — Gòhre stesso aderirà nel ’99 aH’SPD, diventandone nel 1903 deputato al Reichstag. Le motivazioni della sua scelta, esposte nel 1900 a un’assemblea di socialdemocratici a Chemnitz, circolarono in un opuscolo di mezzo milione di copie. L’adesione fu essenzialmente culturale: avvenne perché la socialdemocrazia «ha saputo spiritualizzare, approfondire e mobilitare l’usualrnente assai basso concetto di rivoluzione» [Gòhre 1900: 11].
1.3. Un'«Encyclopédù» socialista
Ilritratto della pubblicistica socialdemocratìca fatto da Gòhre si attaglia benissimo anche alla «Neue Zeit». Alla rivista Kautsky aveva assegnato sin dalla fondazione l’obiettivo di esprimere sì «la tendenza del nostro partito», ma mascherata nei confronti della censura «mediante una massima varietà di contenuti» [Kautsky 1960: 524]. L’insistenza sulla varietà dei contenuti era però genuino enciclopedismo illuministico, e per di più un ‘rischiaramento’ nient’affatto soltanto teorico, perché la rivista era insieme «l’organo di un determinato indirizzo scientifico» e «l’organo di un determinato partito» [Kautsky 1905: XIII]. Anche a Engels questo duplice aspetto era parso ilpunto su cui insistere. La «Neue Zeit», diceva perciò, è una posizione che «dobbiamo tenere a ogni costo» (22 giugno 1885, a Bebe] [Bebel 1965: 228]), «una posizione di potere che vale la pena di tenere fino all’ultimo», anche perché la casa editrice di Dietz «da ora in poi diventa nella vita del partito una leva ancora più importante che ai tempi dell’oppressione», cioè del Sazialistengesetz (11 aprile 1890, 8
a Kautsky ormai trasferitosi da Londra a Stoccarda [OME, XLVHI. 401-2]). Nell’indirizzo scientifico che Kautsky patrocinava per la «Neue Zeit» confluirono, oltre al marxismo, parecchie altre cose. E come ciò si conciliasse con la linea del partito è un quesito che accompagna l’intera storia secondintemazionalista della socialdemocrazia. Di assodato c’è che la congiunzione di ‘cultura’ e ‘socialismo’ (o di «cultura» e «marxismo» come voleva Kautsky) ebbe a veicolo un’intenzionale impostazione enciclopedica dei contenuti. Sarebbe poi spettato a chi si diceva marxista sbrogliare la matassa di come i moduli (filosofici, storiografici, scientifici, sociologici, tecnologici) della cultura laica moderna ben rappresentata nella «Neue Zeit» potessero combaciare con il socialismo (o magari con il marxismo). Accanto alla rivista esisteva d’altronde un’altra sorta di ‘enciclopedia’, chiamata in vita nel 1886 da Dietz con il nome di «Bi— blioteca internazionale». Si rivolgeva, «oltre che prevalentemente alle classi lavoratrici, pure a chi ha poco tempo per leggere le opere originali dei grandi pionieri nel campo delle scienze naturali e sociali» (così Dietz a Kautsky, 15 maggio 1886 [IISG, NK, D VIII: 1081). Il progetto prevedeva agili volumetti sui «teorici socialisti» da Tommaso Moro, Miintzer e Campanella sino a Fourier, Saint Simon, Owen, Weitling e Marx. Iltraguardo era di fare sia della «Biblioteca internazionale»che della «NeueZeit» un «punto diraccoltadei piùsignificativi marxi— sti di tuttii paesi» [Kautsky 1913: 6]. Ma intanto ilgrande successo editoriale della collana, che consentì a Dietz di appianare ilcronico disavanzo economico della rivista, fu dovuto anzitutto al suo carattere di enciclopedia popolare. Paul Kampffmeyer, collabora— tore della «Neue Zeit» sin dal 1887, osservò che «quel che Diderot e d’Alembert erano stati per l"Enciclopedia’ francese del XVIII secolo, lo sono stati Marx ed Engels per la ‘Biblioteca internazionale’»: nel senso che «chi vuole studiare ilnuovo indirizzo del socialismo nato dallo spirito di Marx, dovrà esaminare a fondo le pubblicazioni di economia, di politica e di storia della ‘Biblioteca internazionale’» [Kampfimeyer 1922:4-5]. L’esempio più significativo di una Encyclopédù socialista resta però certamente quello della «Neue Zeit», interessantissimo soprattutto perché dall’obbligo che la rivista ebbe di confrontarsi
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con il succedersi ravvicinato dei fatti, si può valutare se effettivariuscita a congiungere la cultura e teoria socialista con la prassi quotidiana del movimento operaio. Il metodo l’aveva ribadito Kautsky: mente essa sia
Teoria e prassi devono necessariamente integrarsi, venir costruite in vicendevole correlazione. Dannoso è soltanto che i metodi dell’una vengano trasferiti sull’altra. Se le nette cesure della teoria si trasferiscono nella prassi politica, allora il partito verrà trasformato in una sequela di sette; se al contrario si vuol far valere in sede di teoria l’attività sintetizzante del politico pratico, allora si approda a teorie estanporanee, confutate da ogni cambiamento di congiuntura, e a un eclettismo che appiattisce tutto. [Kautsky 1905: IX]
A navigare tra Scilla e Cariddi, tra i principi della teoria e la prassi politica, ci si erano provati già icirca novanta collaboratori che nei sette anni sino al 1890 scrissero tra articoli, brevi ‘notizie’ e recensioni - circa quattrocentocinquanta contributi. La parte del leone era toccata a Kautsky che spesso, soprattutto agli inizi, dovette intervenire d’urgenza con scritti suoi affinché l’uno o l’altro fascicolo potesse materialmente uscire. Il quadro cambiò con l’assurgere della rivista a portavoce ideale della Seconda Internazionale. Quando nel 1905 uscì l’indice delle prime venti annate commissionato dalla direzione del partito a Emanuel Wurm (e ne seguiranno poi altri due), il numero dei collaboratori che vi compaiono con nome e cognome era balzato a più di cinquecentocinquanta; ele quattro sezioni fisse della rivista — cioè gli articoli, le ‘notizie’, le recensioni e il ‘feuilleton’ letterario arrivavano complessivamente a circa quattromila contributi. Kautsky [1905: III] si compiacque che la «NeueZeit» fosse diventata una vera e pro— pria «biblioteca», in cui «sono rappresentati tutti iportavoce del moderno socialismo scientifico». Insomma l’enciclopedismo socialista era diventato una precisa politica culturale. Nel 1914, quando esce il terzo degli indici di Wurm, il con— suntivo di trent’anni della «Neue Zeit» risulta eccezionale. Ai numeri della rivista prima mensili e poi settimanali, ognuno una sorta di dispensa di una vera e propria enciclopedia, aveva collaborato oltre un migliaio di autori con scritti da loro firmati. Sommando questi scritn' ai contributi anonimi o pseudonimi o soltanto si-
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glad, nonché ai ‘feuilletons’ della letteratura d’intrattenimento, le cose pubblicate erano oltre ottomila. 1.4.Igrandi temi teorici della «Neue Zeit»
È ovvio che negli indici di Wurm vi fosse un buon numero di temi obbligati, comuni a tutte le armate. Non potevano mancare voci come ‘Socialdemocrazia-Socialismo’ (la più cospicua, con decine di sottodivisioni tra cui anche rubrichesulla vita dei partiti so— cialisti, sui loro congressi e su quelli dell’Internazionale); o ‘Lavori e professioni’ (con una quarantina di sottogruppi); e poi ‘Capi-
talismo’, ‘Economia politica borghese’, ‘Scioperi’, ‘Sindacati’, ‘Elezioni’, ‘Reicb tedesco’; e, naturalmente, ‘Filosofia’, ‘Storia’, ‘Scienze naturali’, ‘Tecnica’ Ma già all’interno di queste voci-pilota, e di altre tematicamente collegate, sono alcuni particolari a ri— velare qualcosa di più sia sull’orientamento della rivista, sia sugli spostamenti d’accento, cioè sull’adeguarsi della teoria ai cambiamenti che via via avvenivano nelmondo sia dei fatti che delle idee. ‘Socialdemocrazia—Socialismo’fu unavoce doveicambiamenti si sedimentarono con rapidità. Nell’indice per il 1883-1902 essa aveva registrato diciotto scritti sul tema ‘anarchismo’, sette sul ‘socialismo di Stato’ e diciotto su ‘utopia e Stato del futuro’. Negli indici per il 1902-07 e 1907-12, quando per un movimento operaio ormai bene insediato nell’arena politica stavano diventando ar— cheologia ivirulenti dibattiti sull’anarchismo, questo troverà posto ancora in soli nove titoli complessivi, più o meno a livello di echi storici, o semmai come un fenomeno che interessa paesi non proprio all’altezza dello sviluppo moderno, come ad es. la Spagna [Cunow 1902 a]. Il tema ‘socialismo di Stato’, piatto ideologico forte nell’epoca bismarckiana e al quale non era stata insensibile la corrente lassalliana della socialdemocrazia tedesca, scomparve quasi del tutto dopo la fine di Bismarck; e pure l’idea di uno ‘Sta— to del futuro’ come ‘utopia’ regredì dopo ilforte ruolo assunto dal partito nella società civile e nella politica del presente. Nell’indice del 1907-12 anche le questioni del revisionismo e riformismo di matrice bernsteiniana si sono ormai liberate dall’impatto della politica quotidiana. Adesso, nei ventisette scritti che se ne occupano, la discussione sembra acquistare una pro11
spettiva teorica più ampia, non di tattica immediata ma di strategia complessiva del movimento socialista: compresa quella - da discutere sì, ma appunto in una prospettiva dilungo periodo del— le strade politiche che alla socialdemocrazia si sarebbero eventualmente potute aprire con la partecipazione a governi ‘borghesi’ La cosa, allora, andò sotto l’anodina etichetta di ‘ministerialismo’ e sembrò — tranne il fatto che nel 1899 c’era stata in Francia la partecipazione del socialista ‘ministeriale’ Millerand al governo Waldeck-Rousseau — una disquisizione accademica, di dottrina. Con ben altro peso la questione tornerà alla ribalta un ventennio dopo, in occasione dei governi di coalizione con presenza socialdemocratica negli anni della repubblica di Weimar e della repubblica in Austria. Altro tema era il ‘marxismo’, che però figurava soltanto all’interno della voce ‘Socialdemocrazia-Socialismo’ Può sembrare strano che negli indicidi una rivista da Kautsky pur definita un organo del marxismo, al ‘marxismo’ non sia poi toccata una voce specifica, bensì una cinquantina di titoli elencati invece in una voce assai più generale. Ma la cosa si spiega con l’assunto teorico secondo cui il marxismo ele scienze (della natura e della società) o si compenetravano a vicenda, o perdevano entrambi di significato. Sul versante politico-pratico ciò favoriva, tutto sommato, un atteggiamento pluralistico. Dalla voce ‘Socialdemocrazia-Sociali— smo’ il militante poteva desumere che il marxismo era, in fin dei conti, soltanto uno degli indirizzidel socialismo moderno, in competizione tra loro. Al marxismo come teoria ne veniva l’indubbio incentivo a uscire da ricette dottrinarie e a confrontarsi con un mondo dove ifatti e le idee cambiavano con sconcertante rapidità. Nella «Neue Zeit» queste istanze di apertura vi furono. Sulla ‘crisi del marxismo’ c’era, a firma di Labriola [1899], una polemica recensione a Masaryk (apparsa poco prima sulla «Rivista italiana di sociologia.» con iltitolo A proposito della crisi del marxismo). Sul rapporto marxismo-antropologia intervennero Cunow [1903] e il medico e filosofo kantianeggiante Woltmann [1903]; sul tema di un’etica marxista Kautsky [1906 a] e, in risposta, l’austromarxista Otto Bauer [1906]; su un’auspicabile integrazione di materialismo storico ed elemento «psicologico» l’austromarxista Max Adler [1907]; sul binomio di marxismo e concezione materialistica della storia il pubblicista Mehring [1894]. 12
L’equiparazione di marxismo e concezione materialistica della storia fu emblematica. Significò in primo luogo che si volle acquisire ilmarxismo all’ambito generale delle scienze della storia e considerare il materialismo storico come una delle loro componenti. Non è perciò casuale che nei tre indici di Wurm neanche la ‘concezione materialistica della storia’ fosse una voce autonoma, bensi, con una settantina di titoli, una sottodivisione della più generalevoce ‘Storia’ Si pensava insomma che ilmaterialismo storico dovesse misurarsi conirisultati conseguiti da altre scienze storico-sociali quali la sociologia, l’etnologia, la sociopsicologia. Non è fortuito che a partire dal 1907 entri nella «NeueZeit» apprmto un tema completamente inedito: cioè la ‘Sociologia’ che, sebbene con striminziti quattro titoli, vi acquista comunque il rilievo di una vo— ce autonoma.
Questi spostamenti d’accento già vi sono nell’articolo di Cu-
now [1894] su materialismo storico ed emo-sociologia; e in quel— lo teorico più generale di Kautsky [1896] che almeno si confrontò, sia pur contestandola, con la teoria dell’sdmpulso psicologico» me-
diante la quale il socialista fabiano inglese Belfort-Bax voleva integrare la spiegazione materialistica della storia. Vi si aggiungeranno le considerazioni di Eckstein [1909] e Cunow [1911 a] sul rapporto tra il materialismo storico e la sociologia; ele discussioni di Mehring con il giornalista e compagno di partito Thalheimer [Thalheimer 1909; Mehring 1909 a] sulla questione di come
un"integrazione’ del materialismo storico fosse da intendere. A Mehring la cultura socialista era già stata debitrice - per la sua Leggenda di Lessing apparsa in prima stesura sulla «NeueZeit» [Mehring 1892] — del miglior risultato che l’applicazione della concezione materialistica a una ricerca storiografica avesse fino ad allora avuto. La Lessing-Legende circolerà di li a poco come libro di oltre cinquecento pagine e di buona tiratura. L’autore vi aggiunse un’appendice proprio sul materialismo storico [Mehring 1893].La toglierà nella secondaedizione non perché, diceva, «non potrei più difenderne ilcontenuto», ma perché, al contrario, «quel contenuto è ormai diventato patrimonio comune di quanti hanno la forza e la volontà di occuparsi seriamente del materialismo storico» [Mehring 1906/1952: 21]. Insomma quel campo sembrava ormai dissodato. Altra questione è, si capisce, se la gamma delle applicazioni e rivisitazioni della concezione materialistica della 13
— inclusa la revisione che ne auspicò Bernstein [1898 a; 1899/1974] - avesse portato davvero a risultati convincenti. In— tanto resta però il fatto che dai dibattiti sulla «Neue Zeit» scaturì, in proposito, una stagione di interessanti tentativi teorici. A prima vista quasi insignificanti, in realtà molto emblematici, furono taluni spostamenti d’accento in ambiti come ‘Scienze naturali’ e ‘Filosofia’ Rispecchiaronoi cambiamenti che via via erano intervenutinella fungibilità di certi patrimoniidealiaifini della cul— tura socialista. A cavallo di secolo la politica culturale socialista era agganciata a un neoilluminismo in cui confluivano temi positivistici. Ciò aveva imposto negli indici dal 1883 al 1907 la voce specifica ‘Darwinismo’ (con una trentina di titoli); e dal 1883 al 1902 la voce ancora più mirata di ‘Darwinismo e socialismo’ (con nove titoli). L’indice del 1907-12 non le reca più, rinviando per il darwinismo semplicemente alla più generale voce ‘Scienze naturali’ E se nel 1883-1907 - rispecchiando il dibattito di fine secolo sui rapporti tra socialismo e kantismo giocato su temi dell’etica — la voce ‘Etica’ campeggiava ancora con bentrentasette titoli, essa nel 1907 12 è scomparsa e l’etica diventa soltanto una tra le rubriche della voce ‘Filosofia’ Erano segni dei tempi puntualmente avvertiti. storia
1.5. La «NeueZeit» al passo con l’epoca nuova?
A fine Ottocento, di contro e accanto al capitalismo classico della libera concorrenza, era balzato alla ribalta il capitalismo dei monopoli, avviato sulla strada dell’imperialismo. Chissà se il capitalismo di nuova connotazione sarebbe riuscito in qualche modo ad autoregolamentarsi, a governare le periodiche crisi economiche? Un buon oggetto di studio della concentrazione dei capitali sembrarono gli Stati Uniti, perché forse proprio lì stavano emergendo le linee di sviluppo del nuovo capitalismo moderno. Ap— punto in quest’ottica iltema ‘America’ fu una costante della «Neue Zeit». E su che cosa fosse poi l"imperialismo’ nacquero controversie tutt’altro che accademiche perché coinvolgevano le pro— spettive concrete del movimento socialista. Le novità dell’epoca non erano però solo queste. In parecchi paesi, acuita proprio dai contraddittori sviluppi del capitalismo, 14
era balzata sul proscenio la ‘quesdone nazionale’ (una voce regi-
strata per la primavolta nell’indice 1907-12 della rivista, ma già con
diciassette titoli). Questione nazionale e questione dell’imperialismo s’intrecciavano poi con quella del colonialismo. Emergeva
cioè il problema dell’indipendenza nazionale dei paesi colonizzati (e la voce ‘Politica coloniale’ recò sino al 1912 cinquantatre titoli). Almeno in Germania si stava infine aprendo la questione del ‘passaggio al socialismo’ in un paese di capitalismo avanzato. Interagivano tre ordini di fatti. Il primo, cioè la fisionomia del capitalismo, nonera affatto univoco, poiché accanto al dinamismo della concentrazione interna dei capitali e della loro espansione imperialistico—finanziaria (e militarista) verso l’estemo, coesistevano larghe sacche di veterocapitalismo animate da altri interessi. Ilsecondo rompicapo era la situazione delle campagne, complicatissima ovunque (e non solamente nel contesto tedesco). La ‘questione agraria’ fu una voce costante della «Neue Zeit». Ma dalle trasformazioni del capitalismo veniva investito pure il ceto medio, al quale la rivista dedicò crescente attenzione: dal 1902-07 con la vo— ce specifica ‘Ceto medio’, e dal 1907-12 con le voci complementari ‘Burocrazia’ e ‘Impiegati’ Ilterzo termine del problema erano itrionfi elettorali della so— cialdemocrazia, di difficile lettura perché furono una sorpresa per tutti. L’SPD, primo partito già nel 1890 con oltre 1.400.000 voti (epperò, a causa del meccanismo elettorale, soltanto inadeguati 35 seggi al Reichstag), sarà in testa anche nel 1912, ultime elezioni del Reichstag anteguerra, con 4.250.000 voti e 110seggi. La grande incognita era che cosa potesse e dovesse fare un partito socialista in tale nuova congiuntura. Delle trasformazioni del capitalismo la «Neue Zeit» riuscì sostanzialmente a dare conto.Iconnotati nuovi di esso erano stati registrati sin dal 1883 con la voce ‘Cartelli’, alla quale nel 1907-12 si aggiungeranno i ‘Monopoli’ e, come altro connotato del capitali-
le ‘Banche’. Per quanto riguarda il fenomeno dell"imperialismo’ è poi vero si che soltanto nell’indice del 1907 12 comparve in proposito la voce specifica, con ventuno titoli concentrati soprattutto negli armi 1910-12; ma sulla sostanza di quel nuovo corso del capitalismo erano emerse indicazioni già assai prima che iltermine ricevesse la sua specifica accezione moderna con l’economista liberal-progressista inglese John Atkinson Hobson
smo finanziario,
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(nel suo L’imperialismo, del 1902), ed entrasse poi in circolazione
soprattutto con Ilcapitale finanziario (1910)
dell’austromarxista Rudolf Hilferding. Sull’imperialismo moderno era affiorato qualcosa già quando Kautsky [1886] aveva messo in correlazione cose apparentemente così lontane tra loro come il proletariato europeo e le ferrovie cinesi finanziate dal capitale occidentale. La parola ‘imperialismo’ ebbe poi un dichiarato uso moderno tanto in Max Beer [1897; 1901, 1902], eccellente corrispondente da Londra della «Neue Zeit»; quanto in Cunow [1900] che esplicitamente correlè l’imperialismo alla politica commerciale delle grandi potenze capitalistiche.
Proprio gli anni 1897-1900 avevano del resto svelato ai socialisti tedeschi parecchie cose, in primo luogo sull’imperialismo di casa loro. C’era stata nel novembre del ’97, sferzata dall’ironia di Mehring [1897], la spedizione della squadra navale che occupò la città cinese di Tsingtao. L’obiettivo non era un insediamento coloniale di vecchio tipo, come fantasticavano iveterosciovinisti, ma ben altro: cioè la penetrazione di capitali in Cina, come si vide con il trattato cino-tedesco del ’98 che apri alla Germania la costruzione di due di quelle ‘ferrovie cinesi’ che avevano già destato l’interesse di Kautsky. Nel 1900-1901iconnotati dell’irnperialismo verranno disegnati in maniera paradigmatica dalla spedizione punitiva internazionale a comando tedesco contro la Cina. Peri veterosciovinisti te— deschi fu un’ulteriore ubriacatura che saldò imperialismo, militarismo e ormai anche ideologia razzista quando Guglielmo II, nel passare in rassegna ireparti che s’imbarcavano, pronunciò quello che passò alla storia come il ‘discorso degli Unni’, in buona sostanza un incitamento al genocidio. Ma se quello era l’epifenome— no, dietro stava l’essenza del capitale finanziario. Dalledenunce di Mehdng [1900] emergeva che la convergenza di capitalismo sviluppato, imperialismo e militarismo era già diventata evidente. Sul versante dell’avanzata elettorale socialdemocratica le cose apparivano più ingarbugliate. Quella forza, si pensava, sarebbe stata decisiva in due casi: qualora la convergenza di imperialismo e militarismo (la voce ‘Militarismo’ fu una costante dal 1883, con oltre un centinaio di titoli) avesse nell’immediato trascinato le na— zioni alla guerra; e poi naturalmente per la conquista del potere so16
cialista come più generale obiettivo strategico. Ma, in entrambii casi, come si sarebbero potute mobilitare le masse in concreto? Facendo leva sulle istituzioni della democrazia parlamentare (e ‘Parlamentarismo’ e ‘Democrazia’ furono appunto nuove voci, rispettivamente dal 1902 e dal 1907)? Oppure chiamando le masse all’azione extraparlamentare, a quello ‘sciopero generale’ politico che la voce ‘Sciopero’ aveva registrato assai presto, a cominciare da un lungo articolo dell’esule socialdemocratico russo Parvus [1896]?
Il dilemma riguardava grandi numeri. Nell’Europa che sarebbe stata il teatro o del socialismo o della guerra, ipartiti socialisti avevano alla vigilia del 1914 circa due milionidi aderenti e dodici milioni di elettori. Nel ’14 non busserà alle porre la presa del potere, ma scoppierà la guerra mondiale; e dinanzi a quegli eventi la Seconda Internazionale si trovò totalmente sguarnita. Eppure la cultura socialista, impersonata in primo luogo dalla pubblicistica dell’SPD, aveva fatto delsuo meglio nell’elaboraremodelli teorico-concettuali di rilievo in almeno tre ambiti, tali da coprire, si pensava, ogni e qualsiasi evenienza. C’era stata in primo luogo la rivisitazione, da un 'punto di vista socialista, delle scienze (naturali e sociali) e della tecnica; e un aggancio alla filosofia moderna non indifferenziato ma assai selettivo. Un secondo obiettivo fu la definizione ed esposizione della concezione materialisticadella storia e l’applicazione del metodo materialistico all’indagine dei fenomeni culturali, sociali e politici del passato; nonché l’operazione teorica di divulgare tesi basilari del ‘socialismo scientifico’ e di difenderle dai ‘critici borghesi’ La terza caratteristica fu l’elaborazione di orientamenti teorico-pratici da applicare alle ormai innumerevolianalisi empiriche imposte dalla realtà sociale del presente.
Nota bibliografica 1.1. Su Engels ‘mentore politico della socialdemocrazia tedesca’: Mehringer [1973]. Sulla Seconda Internazionale: Cole [1956/ 1972], Droz [1974]. D’interesse sulla socialdemocrazia tedesca: Droz [1974 a, il pe— riodo 1875-1914], Hedwig Wachenheim [1967' 210—601, una do-
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cumentazione arricchita da esperienze personali dell’autrice che militò nell’SPD sin da prima del 1914]. 1.2. Sulla formazione giovanile neoilluministica di Kautsky: Holzheuer [1972: 15-19]. Sulla figura e attività complessiva di Kautsky nel marxismo della Seconda Internazionale: Benedikt Kautsky [1954], Matthias [1957/ 1971], Blumenberg [1960, una
bibliografia completa degli scritti di Kautsky], Waldenberg [1972/1980], Salvadori [1976], Steenson [1978], Hiinlich [1981], Gilcher-Holtey [1986], Gronow [1986]. Kuczynski [1983] reca testi sulla politica culturale di Wilhelm Liebknecht (229-32) e sull’atteggiamento di Gòhre (232-41) verso la cultura socialdemocratica. ‘
1.3. Sulla Neue Zeit (per la quale mancano tuttora studi comples-
sivi): Kampffmeyer [1924], Ragionieri [1972 a; 1972 b], Steenson [1978: 85-93], Knoch [1985, in ottica ‘marxista-leninista’], Gilcher-Holtey [1986: 24-58].
1.4. Per un panorama dei temi del primo trentennio della Neue Zeit & insostituibile Wurm [1905, 1908, 1914].
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cumentazione arricchita da esperienze personali dell’autrice che militò nell’SPD sin da prima del 1914]. 1.2. Sulla formazione giovanile neoilluministica di Kautsky: Holzheuer [1972: 15-19]. Sulla figura e attività complessiva di Kautsky nel marxismo della Seconda Internazionale: Benedikt Kautsky [1954], Matthias [1957/ 1971], Blumenberg [1960, una
bibliografia completa degli scritti di Kautsky], Waldenberg [1972/1980], Salvadori [1976], Steenson [1978], Hiinlich [1981], Gilcher-Holtey [1986], Gronow [1986]. Kuczynski [1983] reca testi sulla politica culturale di Wilhelm Liebknecht (229-32) e sull’atteggiamento di Gòhre (232-41) verso la cultura socialdemocratica. ‘
1.3. Sulla Neue Zeit (per la quale mancano tuttora studi comples-
sivi): Kampffmeyer [1924], Ragionieri [1972 a; 1972 b], Steenson [1978: 85-93], Knoch [1985, in ottica ‘marxista-leninista’], Gilcher-Holtey [1986: 24-58].
1.4. Per un panorama dei temi del primo trentennio della Neue Zeit & insostituibile Wurm [1905, 1908, 1914].
Capitolo secondo
LE ARMI DELLA CULTURA
2.1. La ‘seconda cultura’
Ai militanti di base del partito e dei sindacati arrivavano supporti teorici diversi da quelli di cui finivano ilettori della «Neue Zeit», in un certo senso gli ‘intellettuali’ del movimento. Arrivava—
no da altra stampa periodica e quotidiana, ma soprattutto attraverso le iniziative culturali (gruppi filarrnonici, corali e teatrali, biblioteche e associazioni) promosse dalle attivissime organizzazio-
ni socialdemocratiche. Ilprocesso di genesi di quella che Kuczynski [1983: 228-59] registra come una «seconda cultura», alternativa a quella delle classi dominanti, toccò in primo luogo gli operai di fabbrica e gli artigiani. Restarono fuori, e non a caso, i contadini. La loro vita era «mangiare, dormire e lavorare, 0 al massimo sfogliare il giornalucolo locale, unico nutrimento spirituale che avessero»: come ricordava Bromme [1904: 222], un contadino turingio diventato metalmeccanico socialdemocratico a Gera. Infabbrica la situazione era diversa, malgrado la monotonia del lavoro meccanico. Questa, come ricorda un tessitore di Forst in Lusazia, spesso gli consentiva «di soddisfare l’intimo bisogno di spaziare in forse stravaganti pensieri», a costo talvolta di far scattare il congegno di bloc-
perché «di nuovo ero stato mentalmente assente» e «il mio pensiero stava forse percorrendo i sentieri dell’astronomia» [in Levenstein 1909: 90]. Moltistimoli a ripensare alle scienze naturalianche sul posto di lavoro venivano all’operaio dalla rete di comitati culturali loeali e biblioteche gestita dal partito. Nelle ‘biblioteche operaie’ (più di un migliaio nel 1912 e dislocate in oltre settecento piccoli e grandi centri) c’era tanta divulgaco del telaio
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zione di temi naturalistico-evoluzionistici: dal More' 0 Darwin di Dodd-Port a Forza e mat—m'a di Ludwig Biìchner e Gli enigmi dell’universo di Haeckel. Un’intera generazione di militanti ne ricavò «un nuovo vangelo che spazzava via totalmente la vecchia fede», sino a convincersi che «altro non si dovesse fare che rendere accessibili quei libri all’uomo libero da pregiudizi, onde immetterlo nella medesima disposizione d’animo»: come dirà di sé il deputato socialdemocratico Wilhelm Keil [1947, I: 80].Iconvincimenti illuministici (che cioè bastasse rendere «accessibili i libri») non erano dunque soltanto della più elitaria «Neue Zeit». All’acculturazione di base contribuivano poi dal 1891 la Arbeiterbildangsrcbule, una scuola per lavoratori creata dal partito a Berlino; e dal 1906 la Parteiscbule, la scuola centrale di partito dove insegnavano prestigiosi nomi della sinistra del partito come Mehring, il sindacalista Hermann Duncker e Rosa Luxemburg, la quale ebbe un ruolo di primo piano nell’impostazione teorica dei corsi Chi aveva frequentato quelle scuole diffondeva il suo nuovo sapere nella rete dei comitati culturali locali, stimolati e patrocinati dalla commissione centrale di cultura.del partito creata nel 1905. Non soltanto di formazione culturale scientifica si occupava la commissione centrale, ma anche di guidate alla fruizione del grande teatro di prosa e operistico. Ne fu testimone Engels che, di passaggio a Berlino nel 1893 ed enormemente colpito dalla passione con cui il pubblico operaio viveva l’esperienza teatrale, ne riferì in una lettera a Laura Lafargue del 18 settembre [OME, L: 135]. Nessuna di queste attività culturali organizzate avrebbe però retto senza un retroterra ideologico legato al vissuto quotidiano. Vi apparteneva anche - come testimonia ad esempio il metalmeccanico Bromme [1904: 24-25,286-871 — la maturazione delle co— scienze femminili, la trasformazione delle donne da anonime lavo— ratrici a domicilio a operaie sindacalizzate, la pianificazione famigliare con l’introduzione di metodi contraccettivi. Né di trattazioni su un razionale regime di vita era avara la rivista di Kautsky, che a problemi medico-sanitari dedicò sino al 1912 oltre cinquecento titoli. Tra i collaboratori medici della «Neue Zeit» spiccò per ca— pacità divulgative la ‘Dr. med.’ inglese (e naturalizzata tedesca) Adams-Lehmann, autrice negli anni Novanta anche di un fortunatissimo Libro della donna. Era (così il sottotitolo) un «prontuario medico per la donna nella famiglia», riccamente illustrato, che 20
propagandava un «regime di vita che noi, in base a un consolidato sapere scientifico, abbiamo rivendicato per tutti gli esseri umani» [Adams 1897,II:641]. Siamo, palesemente, in quell’ottica dell’illuminismo socialista che ispira tutti gli elaboratori e operatori della ‘seconda cultura’ Questa trovava incentivi in tutte le forme di vita associata, dai discorsi conicompagni durante il cammino verso la fabbrica sino alle serate in cui si frequentavano le società di ginnastica ele corali operaie oppure si facevano lunghe visite in casa dei vicini. E poiché le leggi restrittive sul diritto di associazione colpivano anche il diritto di riunirsi in osterie e trattorie, si comprende l’accanimento con cui le organizzazioni socialdemocratiche di partito e sindacali perseguissero il costoso obiettivo di proprie ‘case del popolo’ Le riunioni erano però, in fondo, soltanto qualcosa di accessorio. La linfa vera della coscienza politico-culturale nasceva da altre personalissime radici. Spesso su un lavoratore ancora irnpolitico agiva l’influenza carismatica del vecchio artigiano socialdemocratico che, pur sfruttando sino all’osso il proprio garzone nella logica del profitto, gli faceva però anche finalmente «mangiare pane e carne a sazietà» e, da vecchio combattente dei mod del ’48, lo istruiva sul «fanatismo delle religioni» e sulla «vera religione in senso libertario, cioè ilsocialismo»: come, nella sua autobiografia, dirà del suo padrone un garzone di mugnaio del Palatinato [in Levenstein 1909: 108—9]. Da quel che il garzone del Palatinato, il metalmeccanico di Gera e iltessitore lusaziano apprendevano dai libri, udivanonelle riunioni e sperimentavano nella vita quotidiana, venivano altrettanti stimoli ad amalgamare le esperienze personali dentro più generali parametri di riflessione. Ilgrado di funzionalità dei parametri era tutt’altro discorso. Nel partito destò qualche disagio l’alto indice di prestito, nelle biblioteche, dell’anticlericalissimo Speccbzb del prete (1845) di Corvin-Wiersbitzki: una popolarità però spiegabilissima in lettori che tenevano caro il retroterra di critica antireligiosa mediato loro da gente della vecchia guardia socialism e poi su quel patrimonio innestavano successive letture di materialismo naturalistico. La critica della religione fu certamente uno strumento immediato di emancipazione: ma lo Speccbtb del prete non va confuso con gli articoli della «Neue Zeit» dove l’approccio al 21
fenomeno religioso avvenne con parametri di certamente varia tenuta, ma sempre intenzionalmente scientifici. Se il darwinista Ludwig Biichner [1883] accentuava ancora i motivi naturalistici dell’origine della religione,isuccessivi stimoli provenienti dall’emologia e dal saggio di Engels [1894] sul proto— cristianesimo daranno invece luogo a impostazioni largamente storico-sociologiche. Ne sono esempio le ricerche di mitologia comparata fatte da Paul Lafargue, il genero di Marx, a proposito del dogma cattolico dell"immacolata concezione’ e il suo saggio sulla genesi della fede religiosa [Lafargue 1893; 1905]; poi gli studi di storia delle religioni di Cunow [1910; 1911] e, sulla linea di Engels, il libro sull’origine del cristianesimo di Kautsky [1908]. Anchele critiche degli aspetti ‘superstiziosi’ della fede religiosa non erano di vecchia impronta razionalistico—illuminista, bensì, come ad es. nell’articolo di Max Hirsch [1906] sulla religiosità per più versi mitico-fantastica delle genti di miniera, coinvolgevano ormai parametri sociologici e storico-culturali. Dal problema della religione così impostato discese il corolla— rio, questo si di buona matrice illuministica, che gli atteggiamenti di fede religiosa (0, rispettivamente, di irreligiosità) dovessero considerarsi una questione esclusivamente personale e individuale: «laicità della scuola» e «religione affare privato» erano affermazioni già del programma di Erfurt (1891) del partito. Implicavano che le idee religiose fossero irrilevantianche per la militanza nel partito. Taluni moduli religiosi vivi da sempre nei ceti subalterni ven— nero peraltro sia ereditati che trasvalutati dai militanti socialisti. Si ebbero divulgazioni delle idee socialiste intenzionalmente intitolate ‘catechismi’ (come ad es. il Catedn'smo soa'aldemocratico peril popolo lavoratore redatto nel 1893 dal collaboratore della «Neue Zeit» Knorr) proprio perché la forma catechistica era familiare ai lettori; dai quali, inoltre, la stampa di partito veniva vista volentieri alla stregua di un vero e proprio vangelo religioso; e la vecchia ripudiata religione ebbe spesso un suo surrogato nei vividi mondi futuri laici (epperò anche modernamente tecnologici) descritti da un certo socialismo. Stavano qui le radici della fortuna che ebbe nelle biblioteche lo Sguardo dalfuturo del social-utopista Edward Bellamy (tradotto in tedesco subito dopo l'edizione americana del 22
1888), tanta da indurre lo stesso Kautsky [1889] a parlarne sulla «Neue Zeit». Bellamy si contendeva gli indicidi prestito con La donna e il50a'alisrno di Bebel [1879], stampato a causa del Sozzblzktengereîz con un fittizio luogo d’edizione svizzero, e sino al ’90 venduto sottobanco, tra sequestri e proibizioni. Che cosa attirava in quel testo di oltre cinquecento pagine, arrivato nel 1910 alla cinquantesima edizione, in assoluto il libro socialista più diffuso in Germania, e letto dall’affascinato diciannovenne Keil [1947, I. 104] come «un programma, anzi un vangelo»? L’ideale dell’emancipazione fem— minile esplicitamente collegato al socialismo e all’etica socialista toccava ovvie corde di sensibilità. Ma le toccavano anche i temi utopici della proiezione delle aspettative verso il radioso futuro della società socialista: la quale nel contempo era però vista come nient’affatto un remoto luogo ideale, bensì una tangibilissima necessità scientificamente ineluttabile e concretamente realizzabile.
2.2. La questione degli intellettuali
L’esistenza della ‘seconda cultura’ apriva quesiti sulla collocazione sociale e sulla funzione culturale degli intellettuali di mestiere, laureati o Akaderniker, liberi professionisti, insegnanti nelle scuole, docenti d’università. L’ampio saggio di KautskyIcontrasti di classe del 1789, pubblicato sulla «Neue Zeit» per il centenario della Rivoluzionefrancese, si era soffermato sulla funzione degli intellettuali borghesi nell’epoca d’oro della loro classe. Non immediatamente partecipi del processo produttivo,quindi meno condi— zionati dagli interessi materiali momentanei dei borghesi filistei e delle «cricchedi capitalisti», essi sono in grado di capire meglio gli interessi permanenti e più generali della classe sociale a cui appar— tengono: è il motivo per cui all’«intellettualità borghese» era spettato un ruolo-guida nel processo diconsolidamento del potere della borghesia tra il Sette e l’Ottocento [Kautsky 1889 a: 107—8]. Adesso però, a fine Ottocento, proprio le trasformazioni sociologiche avvenute nel ceto degli intellettuali avevano complicato fortemente le cose. Bebel [1883] e soprattutto Lafargue nellungo saggio Ilproletariato del lavoro manuale e del lavoro mentale [1887] argomentavano che la sovraproduzione d’intellettualità in 23
Germania avrebbe portato a una sorta di ‘esercito di riserva’ degli intellettualisimile al cosiddetto esercito di riserva proletario (i disoccupati o sottoccupati, gradita massa di manovra per il capita— le), dunque quasi a un’analogia di situazione traIntelligenz e proletariato. . Questo nuovo fenomeno, a detta di Kautsky nel suo lungo articolo sociologico-politico L’intellettualità e la socialdemocrazia, costituiva uno dei problemi maggiori che occorreva ormai «studiare e additare ai combattenti pratici» [Kautsky 1895: 11]. Gli strati sociali intermedi ricevettero qui un’attenzione che non c’era
nella nuda e cruda dicotomia borghesia—proletariato del Manifesto marx—cngelsiano, dove gli intellettuali figuravano semplicemente come «operai salariati» della borghesia. Oltre ai liberi professionisti, meno interessanti dal punto di vista ideologico perché provenienti dai ceti medidivecchio tipo e quindi già in partenza diideologia tradizionale, il nuovo ceto annoverava anche operai che, stipendiati dal capitale come funzionari per scopi esecutivi, finivano per condividere quasi automaticamente l’ideologia capitalistica. Per Kautsky [1895: 46 sgg., 74 sgg.] occorreva dunque distinguere attentamente un «proletariato dell’intellettualità» (i quadri subalterni nelle amministrazioni statali e comunali, nelle imprese, ferrovie, poste e cancellerie) e un’«aristocrazia dell’intellettualità» (medici, avvocati, docenti di scuole secondarie e di università, in— gegneri, chimici, dirigenti amministrativi). Per il partito e i suoi teorici nevennero due ordini di conseguenze. Anzitutto vi fu nella Neue Zeit un infittirsi di studi sociologici sulle differenziatissime componenti del nuovo ceto: dai maestri elementari, «paria della società moderna» [Jordson 1891], sino ai professori universitari [Riihle 1902], passando per gli impiegati e illoro multiforme sfruttamento [P Lange 1908]. Ne venne anche, spostando lo sguardo sull’istituzione dove lavoravano i‘paria’, la demolizione di una delle leggende della Germania bismarckiana, cioè la bontà del sistema scolastico: contro il quale addensò denunce ildirettore della Parteisa5ule Heinrich Schulz» [1899; 1904]. L’altro tema riguardavaicompiti pratici del partito verso quel nuovo ceto medio: ardui perché gli strumenti di propaganda con cui, forse, si poteva conquistare il kautskiano «proletariato dell’intellettualità», non valevano di certo nei confronti dell’aristocrazia intellettuale che non ha motivi materiali per essere rivolu24
zionaria. Invece singoli suoi membri — così Kautsky [1895: 74, 44] — si sarebbero potutiguadagnare alla causa del movimento operaio facendo loro «capire la legittimità storica dei fini del proletariato militante, la necessità della vittoria di esso»: un argomento consono a qu "aristocrazia’ grazie al più vasto orizzonte culturale ch’essa ha, e alla sua capacità di muoversi nelle regioni del pensiero astratto. D’altronde anche tra l’aristocrazia intellettuale potrà
fare «apertamente» il passo verso la socialdemocrazia solo chi ha una «posizione economica indipendente» (ad es. i medici, e tra i collaboratori della «Neue Zeit» ve ne erano parecchi), perché «non siamo interessati a esistenze fallite, e non abbiamo perciò motivo di desiderare che questi seguaci segreti si compromettano senza necessità» [Kautsky 1895: 78]. Palesi o segreti che fossero, una qualità i seguaci avrebbero avuto in comune, quella di esser armati si di tutti gli strumenti tecnici della scienza borghese, ma di adoperarli in un’ottica proletaria: come inAccademici e proletariribadirà Kautsky [1901: 89—90]. Già, perché il socialismo era comunque una scienza mediata dagli intellettuali, da portare nella lotta proletaria dall’esterno. Quest’idea dell’educazione dall’esterno, di genuino neoilluminismo socialista, fu in Kautsky un criterio costante, ribadito in una lettera del 25 ottobre 1901 all’amico Victor Adler, segretario del partito socialdemocratìco austriaco: «la situazione di classe del proletariato produce una volontà socialista, non una conoscenza socialista», la quale ultima non può che venir «portata alle masse dall’esterno» [V. Adler 1954: 375]. Si trattò di una concezione elitaria del ruolo dell’intellettuale socialista? Sì e no. Si, se si bada ai tratti di ‘genio’ che Kautsky [1896: 656] attribuiva a chi compie l'educazione politica del proletariato: «menti elette [...] vengono spinte a sviluppare e propugnare nuove intuizioni, nuovi ideali etici e giuridici e di organizzazione della società». No, se si rammenta che grazie agli strumenti dell’attività culturale teorica e pratica messi in circolazione dal partito quegli ideali erano resi accessibili a ogni militante. L’intellettuale e il proletario sono a uguale titolo icostruttori dei nuovi valori morali che al proletariato fanno avvertire con maggiore forza l’oppressione di classe e perciò ne accelerano l’emancipazione sociale e politica. Kautsky già nel suo commentò del 1892 al programma di 25
Erfurt — un libro che con le sue traduzioni in sedici lingue (com— preso yiddish e finlandese) era un emblema della capadtà d’irradiazione del partito tedesco — aveva sottolineato la funzione del partito come essenzialmente nient’altro che quella parte del «pro— letariato militante» che ha «um chiara coscienza dei suoi compiti storid» [Kautsky 1892/1971: 187]: insomma una sorta di intellettuale collettivo. Era, in buona sostanza, un forte appello all’autonomia della teoria (e dell’intellettuale). Già un lungo articolo di Kautsky dell’86 sul Marx della Miseria dellafilosofia e del Capitale aveva spiegato ilprimato della «conoscenza teorica», e dunque l’abissale differenza tra un movimento operaio che «conosce chiaramente e ha sempre davanti agli occhi la propria meta», o al contrario «si lascia trasdnare dalle situazioni e cambia strada a seconda delle esigenze quotidiane» [Kautsky 1886 a: 165]. La puntualizzazione serviva anche a sfatare il pregiudizio che la teoria socialista fosse appannaggio esoterico di taluni pochi intellettuali e priva d’impor— tanza per la politica pratica. —e moneta problema che riguardasse solo Kautsky Ma la teoria— in spinta per creare chiarezza? Qui enquali direzioni —travano in gioco si sarebbeposizione su epistemologia, darwinile prese di smo e scienze storico—sodali, nonché la discussione sulle valenze epistemologiche della concezione materialisticadella storia. Paral— lelamente si trattava di definire lo statuto teorico-pratico del sodalismo e del marxismo, nonché i compiti del partito e dell'azione politica. Erano questioni tutte interconnesse; ma a quelle dell’epistemologia e del materialismo storico spettò un ruolo primario. 2.3. Epistemologia, darwinismo e le ‘due scienze’
Nei militanti le letture di divulgazione naturalistica si accompagnavano al desiderio di un onnirisolutivo quadro sdentifico del
mondo. Dall’America, dov’era emigrato, lo riassumeva il pubblidsta Eugen Dietzgen in una lettera a Kautsky dell’11 settembre 1909. Occorreva una supersdenza che risolvesse «tutti gli enigmi», e trattasse letteralmente tutto: dal «rapporto tra forma e contenuto, apparenza ed essenza, potere e diritto, individuo-società— natura» alla «trasformazione della religione in una concezione del 26
mondo coerente e sistematica, cioè unitaria ovvero monistica» [[[SG, NK 1909: 227]. Per il Dietzgen del 1909 - che si riallacciava a tardi scritti del padre, il filosofo operaio e autodidatta Joseph Dietzgen — la nuova concezione risolutiva avrebbe dovuto abbandonare il «marxi— smo ristretto» e approdare al «dietzgenismo», un marxismo al— largato» che sintetizzasse apporti di Marx, di Kant e del fenomenismo gnoseologico e antimetafisico di Mach. Di maggior portata che non quel progetto di superscienza furono nel movimento operaio i tentativi di combinare darwinismo e marxismo: dove però non si trattava soltanto di Darwin e di Marx, bensì del rapporto complessivo tra le scienze naturali ele scienze storico-sodali. Per apprezzare Darwin sembrava sufficiente il parallelismo tra Darwin e Marx tracciato da Engels nell’orazione funebre per l’amico. Kautsky aveva poi incontrato il darwinismo nel 1875, attraverso la traduzione tedesca dell’Origine dell’uomo, e gli era parso «una rivelazione» [Kautsky 1960: 212]. Inoltre egli stesso si era ingegnato assai presto ad assegnare al darwinismo una validità che dalle scienze naturali si estendeva sino all’economia politica e alle dottrine morali [Kautsky 1883: 73]. A un teorico come Cunow qualche sospetto di ordine più epistemologico sulla presunta vicinanza di darwinismo e marxismo venne quando Kautsky, nel ’90, sconfessò proprio quell’accostamento da lui stesso tanto propagandato: quando cioè, rilevando nell’articolo Socialismo e darwinismo chele scienze naturali e le scienze socio-economiche lavorano con leggi epistemiche diverse, aveva concluso lapidariamente che sodalismo e darwinismo «non hanno niente a che fare 1’una con l’altro» [Kautsky 1890: 53]. Dunque così poco dopo in Darwinismo e marxismo,un articolo occasionato dal socialdarwinismo di Enrico Ferri e dalla drcolazione di idee sodaldarwiniste nel partito socialista italiano — le lotte sodali non si possono equiparare alla lotta biologica per l’esistenza, ola società a una sorta di organismo vivente, perché il metodo di «trasferire automaticamente nella sodetà le leggi naturali» [Kautsky 1895 a: 710] semplicemente ignora la spedficità delle leggi storico-sodali. E Cunow, similmente, ammonirà che «uguali istituzioni e uguali concetti giuridid e morali» sono il prodotto non delle «eterne leggi di natura» postulate dai sodaldarwinisti, bensì di un determinato uguale sviluppo economico [Cunow 1896: 427]. Kautsky, dopo la
—
27
svolta del ’90, continuerà a ribadire la netta distinzione tra organismo naturale e sociale: voler spiegare un qualsiasi fenomeno proprio della società, per esempio un fenomeno politico, partendo dalle leggi dell’organismo animale è non meno privo di senso che il voler derivare caratteristiche dell’organismo animale, come movimento autonomo e coscienza, dalle leggi dell’esistenza vegetale. [Kautsky 1906/1975: 78-79]
Nella tarda Concezione materialistica della storia dirà poi, per fugare ogni equivoco terminologico, che «l’organizzazione sociale non dobbiamo chiamarla affatto un organismo» [Kautsky 1927,I
264].
Se questi testi kautskiani ridimensionano alquanto la diffusa tesi di un Kautsky totalmente o almeno prevalentemente ‘social— darwinista', né essi néipassi di Cunow illuminano però il quesito vero, doè ilben altrimenti complesso problema del rapporto logico-strutturale tra idue tipi di scienza. ]] nocdolo stava infatti nella circostanza che, ferma restando ovviamente la diversa specifidtà dei procedimenti tecnici delle due scienze, qualcosa in comune doveva pur esserci nel loro metodo logico. La prefazione al primo libro del Capitale, un testo marxiano di certo non ignoto ai teorici
sodaldetnocratid, aveva sottolineato che lo sviluppo della formazione economica della sodetà doveva venir visto come un processo di storia naturale. A chi indagaifenomeni della società per scoprire la legge del mutamento di un «organismo sodale dato», così ancora Marx nel poscritto del 1873 alla seconda edizione, «impor1 dati di fatto vengano indagati nel modo più ta soltanto che [...] esatto possibile, e che costituiscano realmente differenti momenti di sviluppo l’uno in confronto dell’altro» [Marx 1867/1989:43]. Pur venendo qui descritta un’indagine spedficamente storicosodale,e dunque sempre l’esperienza («i dati di fatto») a far da fondamento al metodo: una base che le scienze storico-sodali hanno dunque certamente in comune con le scienze naturali. Edrca il termine ‘organismo’ usato per la società, Marx si era cautelato contro equivoci biologistid col predsare che il suo metodo non era quel «materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali, che esclude ilprocesso storico» [Marx 1867/1989:415]. le due scienze sembrano dunque avere in comune tanto la hase di partenza, perché entrambe muovono dai dati di fatto esperi28
ti, quanto l’istanza di ricostruire quest’ultimi «nel modo più esat— possibile». Il loro rapporto pare poi rispettoso di quella specificità in più (il «processo storico») alla quale devono badare le scienze sodali quando esse ricostruisconoifatti. Sorprende perciò che Mehring abbia potuto dire - nella sua postfazione a un saggio to
dell’austromarxista e docente di fisica Friedrich Adler su ‘Mac/:ismo’ e concezione materialistica della storia — che Marx ed Engels hanno drasticamente «separato il materialismo storico dal materialismo delle scienze naturali» e considerato il metodo d’indagine di quest’ultime come «interamente diverso» dal metodo delle scienze sociali [F. Adler 1910: 683]. Insomma, una volta sgombrato il campo dalle piattezze biologistiche del socialdarwinismo, esso restò sorprendentemente vuoto: mancando idee costruttive sulle questioni logico-epistemologiche contenute nel rapporto tra le due scienze, mancò anche un’epistemologia all’altezza della situazione.
Su iniziativa di Kautsky la «Neue Zeit» aveva si pubblicato nel 1903 la fino ad allora sconosciuta Introduzione marxiana del 1857 a Per la m'tica dell’economia politica del ’59. Ma quello scritto, pur squisitamente metodologico, non stimolò nessuna vera ricerca sul marxismo come metodo di una scienza sperimentale della società, nessuno specifico studio degli aspetti essenziali che invece si sarebbero dovuti approfondire: ovvero la comune base epistemica delle ‘due scienze’, poi le differenziazioni tecniche che esistono sì
nel percorso dei loro metodi, ma che vanno correlate sempre a quella base comune. Valga il caso dell’austromarxista Otto Bauer. Le sue idee sulla nazione (vedi 6.2), concepita da lui come un insieme di elementi sia naturalistico-biologici che sociologici, egli le definirà sì una «combinazione tra i metodi di Marx e di Darwin» [Bauer 1909: 201], ma precisando che l’esservi in Marx e Darwin un circolo funzionale tra l’esperienza del molteplice e la riduzione di esso a leggi, indica un’unità di metodo, non un’unità di contenuti delle due scienze. Sicché, ben specifici essendo quest’ultimi, sarebbe miopia epistemica vedere nella concezione materialistica della storia una pretesa mecessaria conseguenza della dottrina della discendenza» darwiniana, o voler putacaso «confutare Marx con argomenti tratti dall’arsenale di Darwin» [ivi: 197]. Ma neanche in Bauer c’era29
no indicazioni operative su come il metodo unitario agisse poi nei
confronti dei diversificati oggetti di contenuto. Ilproblema,preliminare a ogni indagine sul rapporto tra ledue scienze, di come avvenga in esse il passaggio dall’osservazione dei dati alla formulazione di teorie, non emerse nemmeno in Friedrich Adler che dal suo aggancio a Mach (il quale dal 1895 insegnava filosofia all’ateneo viennese e aveva affrontato quei temi epistemologici) avrebbe pur dovuto esser indotto al quesito, logico—metodologico, di come nelle due scienze il nesso induzione—deduzione si configuri con lati sia differenziati sia anche comuni. La teoria, sia nel campo sociale che in quello naturale, venne da lui impoverita a semplice «descrizione diespen'enze che sono statefatte nelpassato» [F. Adler 1909/1918: 195]. Fu del resto una vera fortuna che per la costruzione di una sintetizzante superscienza mancassero in def'mitiva sia gli architetti che i mattoni epistemici. Ciò tra l’altro evitò che troppe fantasie sorgessero da affrettate interpretazioni dell’Anti-Dzîbn'ng engelsiano come un sistema di scienza totale offerto al movimento ope— raio. Illibro, uscito nel 1878 contro il positivista Eugen Diihring, ebbe un’eco tale che dalla recezione dell’Anti-Diibring si fa datare l’inizio di una scuola marxista in Germania. Kautsky [1895 a: 716] diceva che l'impatto di quell’opera «può misurarlo del tutto sol— tanto chi lo ha vissuto». Finalmente sembrava esserci un ‘manuale del socialismo’ con un’esposizione sistematica dei principi teorici, illuminata dai risultatidella scienza moderna. In realtà Engels, proprio perché convinto della bontà delle scienze particolari, aveva sottolineato come fosse in sé contraddittoria l’idea di un sistema definitivo che concludesse ogni conoscenza della natura e della storia, e inammissibile perciò la costruzione di una superscienza che trattasse del nesso di tutte le cose del mondo [Engels 1878/OME,XXV: 24-25, 36]. Tra le poche voci socialiste che colsero il monito engelsiano spiccarono Labriola e Mehring. In Dimm-rendodisodalismo efilosofia Labriola definì «insupe— rato» l’Anti-Dù'bring per due ragioni: come un’utilissima «medicina mentis» (il che era appunto uno degli obiettivi di Engels) per chi «di solito si volge [...] con criteri assai vaghi a ciò che generi— camente ha il nome di socialismo»; ma soprattutto perché come suo «effetto vero» quel libro insegna ai socialisti «attitudini critiche» [Labriola 1898/1968:203]. Eciò non solo per metterli in gra30
do dicombattere qualsiasi altra cosa, analoga al diihringhismo, che «imbarazzi od inficii il socialismo in nome di tante sociologie pullulanti d’ogni parte» [ibid]; bensì anche per capire, seguendo il dettato engelsiano, come il marxismo appunto non fosse una superscienza che fornisce «risposte a tuttiiquesiti che la scienza storica e la scienza sociale possano mai offrire nella loro vastità e varietà empirica, o una soluzione sommaria dei problemi pratici d’ogni tempo e d’ogni luogo» [ivi: 183]. Mehring fu, tra itedeschi, l’unico che pubblicamente apprez— zasse in Labriola un teorico di spirito affine. Ne scrisse il necrologio, dichiarò che Labriola era stato sottovalutato, ed esplicitò ai compagni dell’SPD «il rimprovero sussurrato a bassa voce di non aver sempre riconosciuto le suequalità come egli in ogni tempo ha riconosciuto quelle del socialismo tedesco» [Mehring 1904: 585]. Tradusse infine nel 1909, con una sua introduzione, il primo dei saggi labriolani sul materialismo storico, In memoria del Manifesto dei Comunisti. E proprio Mehring, nella postfazione al saggio di Friedrich Adler, apprezzò l’assenza in Marx ed Engels di una metateoria o «teoria della teoria»: essi hanno «raggiunto iloro imponenti risultati soltanto nel cimento delloro metodo scientifico con la materia storica», senza alcun interesse per la «costruzione di un"unitaria immagine complessiva del mondo’» [F. Adler 1910:
685-871.
La debolezza delle riflessioni sull’epistemologia ingenerò nel socialismo secondinternazionalista un deficit di atteggiamento sperimentale e, come rovescio della medaglia, un surplus di volontarismo. La carenza di sperimentalismo ebbe due radici. Fu anzitutto l’instaurazione di una netta dicotomia tra scienze naturali e storico-sociali ad ostacolare la comprensione che anche in quest’ultime, se scienze sono, l’apertura all"esperimento’ doveva giocare un ruolo: ovviamente in una maniera diversa, ma questa andava appunto indagata. In secondo luogo la mancata riflessione sullo sperimentalismo impedì di capire che — a intenderlo correttamente come una correlazione di induzione e deduzione esso — anche nelle scienze storico-sodali non contraddice affatto al carattere di ‘necessità’ che ma teoria possiede. Questa rimane ‘necessaria’ - di una necessità per così dire ‘contingente’, della quale uno scienziato della natura non si meraviglierebbe affatto - fino al momento in cui all’interno dei dati osservati non avvenga un mu31
tamento non già del tale o talaltro singolo dato
casuale, bensì del nucleo dei dati diagnosticamente essenziali, dal quale storicamente la teoria ha preso le mosse. La carenza di sperimentalismo è emblematica in Kautsky. Egli ripeteva si che la concezione materialistica della storia è una «scienza dell’esperienza». Ma si trattava di una ben strana ‘esperienza’ se poi l’affare della scienza era soltanto quello di «separare il tipico dall’accidentale, l’universale dal particolare, le cause di fondo da quelle occasionali.» [1896 a: 260], insomma di «fare astrazione da tutti ifenomeni perturbativi, se essa vuole poter indagare le leggi che stanno a fondamento dei fenomeni» [1899: 51]. Che cosa succede infatti alla teoria quando compaiono «fenomeni perturbativi» non accidentali, cioètali che il loro accadere imprevisto sia esso stesso «tipico», ossia diagnosticarnente indicativo di fatti nuovi, diversi da quelli su cui la teoria si è finora esercitata? Se l’atteggiarnento sperimentale viene di fatto eluso perché pro— grammaticamente si tiene a distanza l’eventualità di dati comunque «perturbativi», allora di fronte al loro insorgere la teoria resta disarmata. A chi poi sembrava attento sì ai mutamenti dei dati empirici, ma faceva dipendere la bontà di una teoria soltanto dalla sua ri— spondenza immediata a quei cambiamenti, e non anche da altre sue tendenziali capacità di previsione, poteva accadere quel che successe nel 1901 a Bernstein. In una conferenza su Come è possibile ilsodalismo scientifico? tenuta all"Associazione sodo-politica studentesca’ berlinese all’indomani del suo rientro in Germania, egli escludeva che ilsodalismo contenesse una qualsiasi «necessità conforme a leggi» [Bernstein 1901.46] perché la «sua caratteristica» di basarsi, a suo dire, soltanto su «un ordinamento sociale futuro» lo sottrarrebbe «a un’esposizione rigorosamente scientifica» [ivi: 35]. Sicché allora la «realizzazione di quanto si ritiene giusto e funzionale» dipenderebbe, in chiave neokantianeggiante, unicamente dal «volere e agire» [ivi:48]. Sembrò una posizione fatta apposta per attirarsi accuse di volontarismo e soggettivismo. Parecchi anni dopo, in una conferenza del 1913 al club ‘Galilei’ di Budapest, il discorso di Bernstein sulla teoria sarà notevolmente diverso, perché ne sottolineerà invece esplicitamente ilruolo positivo. Nel senso che il marxismo teorico gli apparirà valido a patto che se ne accentuasse e ricuperasse illato duttile, tale cioè da po32
integrato «tramite nuove ricerche e in base allo sviluppo avvenuto nel frattempo» [Bernstein 1913/1923: 181]. società della Pure nel Bernstein budapestino rimasero comunque in ombra i motivi di struttura categoriale, di dinamica epistemologica, che rendono duttile e non dogmatica unateoria scientifica (com’era appunto, secondo lui, il marxismo non scolastico ch’egli difendeva). Ma anche chi diceva di avere idee chiarissime sulla subordinazione del marxismo al criterio della prassi, non era affatto immune da corollari totalmente contraddittori. La validità del criterio della prassi per le scienze sociali era stata ad es. sottolineata dal Lenin di Materialismo ed empinbcriticismo, il quale dichiarava che il criterio sperimentale, applicato alla teoria di Marx, non farebbe che confermarla tutta e per intero: sicché «per la via tracciata dalla teoria di Marx ci avvidnererno sempre più alla verità obiettiva (senza mai esaurirla); per qualsiasi altra via giungeremo invece soltanto alla confusione e alla menzogna» [Lenin 1909/OL,XIV' 139]. L’elogio degli esiti totalmente conferrnativi e positivi (e per di più gratificanti moralmente, contro la ‘menzogna’!) che si avreb— bero quando si applica anche al marxismo la cartina di tornasole della prassi, è qui speculare agli esiti invece prevalentemente negativi e deludenti che erano stati registrati dal Bernstein della conferenza del 1901. Sul piano epistemologico è infatti contrario all’invocato criterio della prassi sia che la prassi debba tutto confermare in blocco, sia ch’essa debba tutto confutare: perché una simile tesi introduce totalizzazioni da cui proprio quel criterio deve guardarsi assolutamente e per definizione. Ma si sa pure quanto sul Maten'alismo ed empirzbcn'ticismo leniniano, come del testo su quasi tutti gli scrittiteorici diambito secondintemazionalista, premessero in primo luogo problemi non di scienza, bensì di battaglia politico-pratica e di partito. Maggiori aperture ebbe la riflessione epistemologica in autori a inizio di secolo meno coinvolti nella politica pratica. L’austromarxista Max Adler, recensendo il Capitalismo moderno di Som— bart (1902), tentò di chiarire la differenza essenziale tra teoria ed empiria («voler assimilare la teoria all’empiria storica significhe— rebbe semplicemente rinunciare ai connotati della teoria» [M Adler 1903:560]), ma insieme anche le esigenze di duttilità della teoria («la determinatezza da individuare nel mutamento empirico dell’accadere storico deve mostrarsi tanto aperta alla variabilità
ter esser
33
quanto lo è il mutamento stesso» [ivi: 5541). Successivamente, nel lungo saggio Causalità e teleologia [1904] apparso nei «Marx-Studien», vide il rapporto tra scienze naturali e sociali come una loro reciproea integrazione. Tra le due scienze esistono certamente divergenze legate alle loro rispettive tecniche; ma in un certo senso sarebbero anche, grazie alloro comune fondamento d’esperienza, una scienza unica la cui struttura logica emerge nelle scienze naturali con maggiore evidenza. Proprio la dottrina marxiana avrebbe consentito che ilconcetto di scienza formatosi conimetodidella conoscenza della natura potesse, malgrado le diverse peculiarità tecniche, venir applicato anche alle scienze dell’uomo. Merito di Adler è di non aver inferito dall’unità basilare delle due scienze nessun aprioristico monismo, né ontologico né epistemologico. È stato notato che «la parola d’ordine alla quale gli au— stromarxisti si sentono legati, quella cioè di fare sociologia al modo di una scienza naturale, essi la separano nettamente dalla massima di fare sociologia come una scienza naturale» [Mozetiè 1987: 49], sicché al di là del comune orientamento di metodo restano intatte nei due campi sia le peculiarità di contenuto, sia la specificità che il concetto di normatività ha nell’una e nell’altra sfera. Si arenò invece Max Adler davanti alla questione conclusiva, d’importanza capitale: ovvero quali fossero i criteri con cui controllare seuna teoria abbia effettivamente offerto un’esatta valutazione dei dati empirici fattuali. Non sfiorandolo nemmeno in sede di scienze naturali l’idea dell’esperimento come criterio della prassi, egli nel saggio del 1904 approdò al criterio di far dipendere la cogenza di una teoria da una sorta di interna coerenza formale di essa: un po’ poco, dopo gli spunti interessanti che trasparivano dalle posizioni di partenza.
2.4. La discussione sulla concezione materialistica della storia
Insieme al diffondersi del marxismo prese corpo la convinzione che la concezione materialistica della storia ne fosse il nucleo certrale: e ciò indipendentemente che del marxismosi avesse un’i— dea rigida o elastica. La tesi del ‘revisionista’ Bernstein [1899/
1974: 30], secondo cui il materialismo storico è «l’elemento più importante che sta a fondamento del marxismo», verrà citata con 34
approvazione da Kautsky [1899 a: 4] che passava per marxista ortodosso. Le fonti da cui veniva desunta quella teoria della storia erano in primo luogoilavori di Engels. Dall’82 esisteva l’edizione tedesca del fortunatissimo opuscolo L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, tratto dall’AntiDù'bn'ng. Lo si poteva leggere come un compendio materialistico— storico della storia moderna dal XVI secolo in poi. Nell’84 si era aggiunta l’0n'gine dellafamiglia, della proprietà privata e della Stato che stimolò sulla «Neue Zeit» - soprattutto con Lafargue [1886; 1893; 1905] e Cunow [1889; 1897; 1910; 1911] - studi di protostoria, etnologia, mitologia comparata e storia della cultura e della religione che si protrassero per oltre unventennio. Ilmotivo per cui «tantiscrittori e ricercatori socialdemocratici attribuiscono un così grande valore alla protostoria» [Kautsky 1894: 250] derivava dal supporto che appunto quel campo sembrava fornire alla spiegazione materialistico—storica dei fatti sociali. Nella prefazione all’Origine della famiglia Engels aveva descritto una sfera che rispetto all’economia ha una relativa autonomia ed è costituita da quegli «elementi sociali» e «istituzioni so— ciali» che sono la famiglia, i vincoli di parentela ecc. [Engels 1884/1986: 33]. Di lì a poco il Ludwig Feuerbacb caratterizzava i nessi della storia come qualcosa di ben più complicato di un agire deternninistico dei fatti materiali sulle idee; In qualsiasi modo si svolga la storia degli uomini, sono gli uomini che perseguendo ognuno isuoi propri fini consapevolmente voluti, fanno, la e sono precisamentei risultatidi queste numerose volontà operanti in diverse direzioni [...], che costituiscono la storia [...]. Tutto ciò che mette in movimento gli uomini deve passare attraverso illoro cervello; ma la forma che esso assume nel loro cervello dipende molto dalle circostanze. [Engels 1888/1985: 63-64, 66]
Otto Bauer dirà analogamente, un ventennio dopo, che «nes-
suna nuova rappresentazione entra nella coscienza dall’esterno senza subire mutamenti, bensì dalla coscienza, al contrario, viene
incorporata, elaborata, digerita, insomma viene appercepita» [Bauer 1907/0BW,I: 112]. Engels aveva dunque irndicato un pro-
blema reale. Insomma il canone della concezione materialistica della storia «non è la coscienza degli uomini che determina il loro esonde — 35
sere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la coscienza» (come era detto in un celebre luogo marxiano del ’59 [Marx 1859/0ME, XXX. 298]) resta sostanzialmente muto se non si indagano poiimodi specifici con cui l’«essere sociale» (ovvero la marxiana «base» o «struttura») agisce sulla coscienza. Secondo la terminologia marxiana la ‘struttura’ di una società è co—
—
stituita essenzialmente dalla produzione dei beni economici. La quale però già in quanto tale non può essere una semplice rece— zione passiva della realtà materiale naturale perché nel ‘produrre’ è già coinvolto un patrimonio teorico-pratico di abilità, raziocinio, intuito, progettazione, spirito organizzativo che al produttore, foss’anche soltanto il cacciatore tribale, è stato trasmesso da generazioni di uomini pensanti e agenti. Dunque già nella produzione, fulcro e compendio dell’essere sociale, la struttura e il sovrastrutturale patrimonio culturale, l"essere sociale’ e la ‘coscienza’, non sono dicotonnicamente scindibili ma interagiscono. Non molti si rendevano conto di queste implicazioni quando, a cominciare dagli anni Novanta, nacque sulla «Neue Zeit» il lun— go dibattito sul problema del determinismo. Le avvertirono Belfort-Bax, Zetterbaum e Max Adler, icui interventi, al di là dell’uso di termini psicologistici poco felici, toccavano un problema di fondo proprio perché finirono per vertere sulla natura ci "essere sociale’
Belfort-Bax [1896: 175] propose una «concezione sintetica della storia» che correggesse l’economicismo dei «marxisti estremi», la loro «nmilaterale visione della storia».I«fattori principali» sono, a pari titolo, le condizioni economiche e l’«impulso psicologico» (come egli chiamavaleidee e illoro ruolonella vita sociale), ed entrambi concorrono in azione reciproca allo «sviluppo complessivo concreto» [Belfort-Bax 1897' 685]. Questa sua «concezione sintetica» rimase però una semplice formula, cui tolse credito l’immediata stroncatura che ne fece Kautsky sia nella polemica contro l"impulso psicologico’ [1896], sia nel lungo articolo Che cosa può e vuolefare la concezione materialistica della storia? [1896 a]. Zetterbaum e Max Adler considerarono l’antinomia di essere sociale e coscienza un falso problema. A proposito dell"essere sociale’ bastava infatn' porre mente che la nozione di ‘struttura economica’ e di ‘eletnento materiale’ non ha niente a che fare con il concetto di materia usato dalle scienze naturali [Zetterbaum 1903: 36
403]. Nella ‘struttura’, a intenderla correttamente, l’«elemento materiale non è più nulla di casale, bensì qualcosa di umano, quin-
di necessariamente qualcosa di già spirituale», sicché l’elemento materialedi cui si parla in sede di scienza della società «sta sin dall’inizio nella medesima sfera dell’elemento ‘ideale’, ovvero nella sfera psichica»: cosi Max Adler [1907' 54] nel suo saggio sull’elemento psichico-formale nel materialismo storico. Insomma già nell’essere sociale c’è una simbiosi di materiale e spirituale perché persino «materialissimidati di fatto», come iberidi consumo nellaloro qualità di merci eimezzi di produzione, sono infin dei conti peculiari creazioni e prodotti dell’inventiva umana [Zetterbaum 1903: 403]; e la stessa struttura economica è essenzialmente il «modo di apparire storico» della «peculiarissima natura psichicoformale dell’uomo» [M. Adler 1907' 60]. E allora in linea di principio neanche il problema dell’agire etico, dell’agire volontario, costituirebbe più una difficoltà. Nella sua polemica contro l’«impulso psicologico» Kautsky aveva fatto in realtà un discorso contraddittorio. Osservò in generale che l’evoluzione economica ha un fondamentale «ruolo di guida» [1896 a: 266], ma che d’altro lato la coscienza «non segue immediatamente lo sviluppo economico, bensì persiste cristallizzata nelle vecchie forme ancora lungo tempo dopo la scomparsa delle condizioni economiche e sociali che hanno creato quelle forme» [1896: 655]. E qui si affacciava indubbiamente un problema rea— le, quello del diverso ritmo di sviluppo delle ‘sovrastrutture’ rispetto alle ‘strutture’. L"essere sociale’ di un’epoca giunge alla coscienza attraverso una griglia i cui funzionamenti di per sé frenano il ricambio delle idee e perciò sono spesso un veicolo di conservatorismo. È costituita in buona parte da un patrimonio ideo— logico di modelli concettuali già fissato nella generale sfera della coscienza sociale dell’epoca, e il quale poi, ulteriormente complicandosi, viene recepito dagli individui secondo imodi della personale formazione e situazione di ognuno. Ma da tutto ciò, a rigore, avrebbe semmai dovuto scaturire in Kautsky un’accresciuta attenzione proprio verso l’elemento ‘psicologico’ e la molteplicità delle sue manifestazioni particolari. Invece egli giunse alla stupefacente conclusione che il materialismo storico non può, anzi non deve, recare luce sulla «maniera particolare [...] in cui in particolari condizioni si è svolto lo sviluppo 37
storico» [1896 a: 237]. Era un assioma in netta contraddizione, oltre tutto, con taluni suoi lavori di ricerca materialistico-storica concreta, come ad es. quelli sull’utopia di Tommaso Moro [1888]
e sui contrasti di classe nel 1789 francese [1889 a]. Inoltre proprio nel bel mezzo di ricerche specifiche gli accadde di sottolineare l’autonomia della ‘sovastruttura’ e, dunque, la necessità delle analisi particolari: e ciò perché ogni modo di produzione non dipende semplicemente da determinati utensili, da determinati rapporti sociali, bensì anche da un determinato contenuto conosdn'vo e da una determinata facoltà conosdtiva, da una determinata concezione della successione di causa e di effetto, da una determinata logica, insomma da un determinato modo di pensare. [1906/-
1975: 151-521
In Lafargue, Cunow e Mehringil criterio materialistico-storico era stato invece sin dall’inizio più aperto: e per Lafargue [1904: 782] esplicitamente non un assioma, ma «soltanto uno strumento d’indagine». Lo aveva applicato, tra l’altro, nel saggio La lingua francese prima e dopo la Rivoluzione che, pubblicato infrancese nel ’94, tradotto in tedesco da Kautsky nel 1912 per la collana dei
Quaderni della «Neue Zeit», fu in assoluto il primo studio marxi-
sta nel campo della linguistica Era guidato si dal criterio che «per
spiegarsi ifenomeni linguistici occorre conoscere e comprendere ifenomeni sociali e politid di cui essi sono la risultante» [Lafargue 1894/1973: 76], ma anche dalla convinzione che né gli uni né gli altri si spiegano senza la componente della creatività umana depositata nella trama complessiva del tessuto culturale. Per Cunow, che sobriamente vedeva nel materialismo storico nient’altro che una teoria sodologica dei «nessi causali tra ifeno— meni materiali e ideali della vita sociale considerata nella sua evo— luzione storica» [Cunow 1899: 591], valevano corollari consoni a ogni scienza sodologica non speculativa. E ciò perchéinessi causali vanno indagati all’interno dell’«insieme complessivo dei feno— meni sodali di un’epoca»: sicché occorre appunto un’estrema attenzione perle sfumature locali, le caratteristiche particolari e peculiari, perché solo queste rendono comprensibile l’insieme «nelle sue sottigliezze più fini» [Cunow 1894: 598—991. Per quanto riguarda infine Mehring, egli temeva l’economidsmo come la peste. E sì vero che nella Leggenda di Lessing, di fron38
te
alle deformanti lenti ideologiche (bismarckiano-nazionalisti-
che), aveva voluto anzitutto rimettere la storia tedesca ‘sul suo piede economico’ Ma premurandosi anche di predsare che nulla ciò aveva da spartire con il determinismo econonnidstico:
Quando mai il materialismo storico ha contestato che un momento
storico, una volta messo al mondo da altre cause, in ultima analisi economiche, non reagisca poi a sua volta sul proprio ambiente e anzi sulle sue proprie cause? [Mehring 1894: 175]
Erano quasi testualmente le parole di una lettera scrittain il 14 luglio 1893 da Engels [OME, L: 111], per elogiare la Leggenda di Lessing. Non fu l’unica missiva del patriarca Engels su questioni delmaterialismo storico. Ne scrisse negli anni Novanta anche ajoseph Bloch, redattore della rivista «Sozialistischer Akademiker», all’econorrnista sodaldemocratico Conrad Schmidt e a Walter Bor— gius, e a fine secolo quelle lettere, pubblicate in varie sedi, erano tutte in circolazione. La loro importanza non stava soltanto nella valorizzazione dell"azione redproca’, cioè dell’intervento dinamico-attivo umano sull’ambiente sociale: al quale proposito valeva comunque l’autocritica di Engels, ovvero che «non sempre», di fronte alla necessità di difendere il «fattore economico» negato dagli avversari, v’era stato «il tempo, illuogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione redproca» (a Bloch il21 settembre 1890 [OME, XLVIII: 494]). 01tre a dò lelettere ammonivano soprattutto come riassunse Meh— ring [1899: 152] — che «davanti alla questione effettiva che tutte le rappresentazioni ideologiche discendono dal rispettivo fondamento economico, non si deve trascurare la questione formale del modo in cui questa scaturigine avviene». Indicatodallo stesso Engels, si apriva insomma il compito di dmerntarsi davvero con il mondo delle ‘sovrastrutture’, attivamente presenti tra quelle che nella lettera a Bloch egli chiamava le«innumerevoli forze che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelong di forze, da cui scaturisce una risultante - l’avvenimento storico» [OME, XLVIII: 493]. La ricerca sulla complessità delle forze motrici della storia si stava peraltro sviluppando anche indipendentemente dalle lettere engelsiane. Vi si era adoperato Plechanov, padre del marxismo 39
russo in forzato esilio in Svizzera dal 1880 e collaboratore della «Neue Zeit» dal 1890. Negli scritti Sulla questione dello sviluppo della concezione manistica della storia (1895) e Sulla questione del ruolo della personalità nella storia (1898) egli rifiutò la contrapposizione di struttura e sovrastruttura, puntualizzando che l’una e l’altra, l’economia e la «psicologia» (ovvero l’insieme di «abitudini, costumi, sentimenti, opirnioni, tendenze e ideali»), sono i«due latidi un unico e medesimo fenomeno, quello dell’umana ‘produzione di vita’» [Plechanov 1895/1956: 191]. Soprattutto vi furono però nel 1895-98 itre saggi di Labriola sulla concezione materialistica della storia, indubbiamente la teorizzazione filosofica del materialismo storico più alta che si fosse avuta in epoca secondin-
temazionalista. Ai sodalisti tedeschi, si sa, Labriola rimase largamente ignoto. Soprattutto il secondo saggio (Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, 1896) e il terzo (Disconendo disocialismo e difilosofi'a, 1898), se fossero stati conosciuti, avrebbero probabilmente susdtato accuse analoghe a quelle mosse dai marxisti ortodossi a chi sosteneva che la concezione materialistica della storia dovesse tener conto del ‘prindpio psicologico’ ovvero riconoscere larghe valenze autonome agli ambiti sovrastrutturali. Nell’argomentare il rifiuto del determinismo economico, Labriola dedicò infatti 1m’attenta riflessione proprio al tema della ‘psicologia sociale’, spiegando come ogni fatto dell’«anatomia economica» fosse «preceduto, accompagrnato e seguito da determinate forme di cosdenza» [Labriola 1896/1968: 85]: onde la storia delle forme della coscienza acquistava pari dignità di quella dell’economia. Teni bollati dall’ortodossia marxista come assolute negatività filosofiche vennero da lui rimessi in circolazione: a comindare dalla nozione di metafisica riguardo alla quale egli distingueva tra un uso deteriore, idealistico-speculativo del termine, e un significato invece positivo, di «dottrina generale della conoscenza o delle forme fon— damentali-del pensiero» [1898: 209]. Infine l’attenzione per l’ambito delle sovrastrutture gli consentì buone considerazioni sugli atteggiamenti di sperimentalismo da tenere anche nella teoria e prassi sodo-politica, defirnite come «la dura prova di una costante osservazione e di un adattamento da tentar di continuo» [1898: 271]. Di tutto ciò era del resto convinto già da quando, in una famosa lettera a Engels del 13 giugrno 1894 sulla ‘dialettica’, aveva defini40
to la «dottrina delle forme della conoscenza» come una «cosdenza forrnale del pensare» in costante relazione «con l’esperienza e
con la osservazione» [Labriola 1949: 149].
La linea che in sede di interpretazione del materialismo storico va da Belfort-Bu, Zetterbaum e Max Adler sino a Plechanov e Labriola, e che si trovò confortata dall’interesse che c’era nelle lettere del tardo Engels per le indagini sulle forme della cosdenza, indica che a fine secolo la concezione materialistica era essa stessa in evoluzione. Ne veniva il ragionevole corollario che «chi oggi applica la teoria materialistica della storia ha l’obbligo di applicarla nella sua forma più sviluppata e non in quella prinnitiva» [Bemstein 1899/1974:34]; e ch’essa dunque «può essere oggi ancora va— lida solo nellasuddetta dimensione allargata», per Bernstein quella tardo-engelsiana «dell’azione reciproca tra le forze materiali e quelle ideologiche» [ivi: 39]. Gli effetti si vedranno soprattutto nell’austromarxismo (vedi 11.1); ma anche isocialisti neokantiani erano della partita. Vorlànder non pensava di certo a un materialismo storico deterministico quando dichiarava [1911/1975: 251] che «la concezione ‘materialistica’ della storia, irntesa come pura teoria della storia, è conciliabile con ogni altra filosofia che si basi su un fondamento scientifico».
Nota bibliografica 2.1. Su genesi e sviluppi della ‘seconda cultura’: Kuczynski [1983, capp. V e VI] Su quel che leggevano i lavoratori: Steinberg '[1967/1979: 173-96], Abrams [1992]. Per la politica culturale socialdemocratica: Christ [1975], Eley [1991 b: 279-92, il ruolo che ebbero per la ‘seconda cultura’ le organizzazioni periferiche dell’SPD e dei sindacati]. La cultura ‘dal basso’ e l’attenzione dell’SPD per l’educazione letteraria: Pforte [1979], Miinchow [1981]. 22. Sulla concezione kautskiana dell’irntellettuale: Holzheuer [1972: 74-83], Gilcher-Holtey [1986: 252-621, Gronow [1986: 39 sgg.]. Sul ruolo degli ‘accadenid’ nel partito: Auernlneirner
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[1985]. Del dibattito sugli intellettuali nella «Neue Zeit» si è oc-
cupato Knoch [1985: 115-21].
2.3. Sul ‘dietzgenismo’: Huck [1979]. Sul darwinismo nel movimento operaio: Gerratana [1972 a], Ragionieri [1972 a: 84—91], Steinberg [1967/ 1979: 53-77], Holzheuer [1972: 19-25, il darwinismo in Kautsky]. Sull’Anti-Dtibring: Gerratana [1972 b], Zannino [1983, gli echi ele interpretazioni]. Su Mehring: Schleifstein [1959], e le introd. di Ragionieri a edd. ital. di scritti di Mehring [Mehring 1910/1973, 1897 a/ 1974, 1918/1976]. Su Friedrich Adler: Julius Braunthal [1965]. Ardelt [1984], nonché l’introd. di Enzo Colletti a F. Adler 1967/1972 e di Antimo Negri a F. Adler 1918 a/ 1978. Su Max Adler. Heintel [1967], Zanardo [1974 a: 140-57], Radnaro [1976; 1979], Pfabigan [1982], Mozetit': [1987' passim, il_pensiero epistemologico e
sodologico]. Su Labriola: Gerratana [1972 c], Ragionieri [1972 b, la scarsa risonanza di Labriola nell’SPD], Garin [1983' 92-175], Siciliani De Cunnis [1994].
2.4. Della discussione sul materialismo storico nell’SPD dopo il congresso di Erfurt si è occupato Weiss [1965].
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[1985]. Del dibattito sugli intellettuali nella «Neue Zeit» si è oc-
cupato Knoch [1985: 115-21].
2.3. Sul ‘dietzgenismo’: Huck [1979]. Sul darwinismo nel movimento operaio: Gerratana [1972 a], Ragionieri [1972 a: 84—91], Steinberg [1967/ 1979: 53-77], Holzheuer [1972: 19-25, il darwinismo in Kautsky]. Sull’Anti-Dtibring: Gerratana [1972 b], Zannino [1983, gli echi ele interpretazioni]. Su Mehring: Schleifstein [1959], e le introd. di Ragionieri a edd. ital. di scritti di Mehring [Mehring 1910/1973, 1897 a/ 1974, 1918/1976]. Su Friedrich Adler: Julius Braunthal [1965]. Ardelt [1984], nonché l’introd. di Enzo Colletti a F. Adler 1967/1972 e di Antimo Negri a F. Adler 1918 a/ 1978. Su Max Adler. Heintel [1967], Zanardo [1974 a: 140-57], Radnaro [1976; 1979], Pfabigan [1982], Mozetit': [1987' passim, il_pensiero epistemologico e
sodologico]. Su Labriola: Gerratana [1972 c], Ragionieri [1972 b, la scarsa risonanza di Labriola nell’SPD], Garin [1983' 92-175], Siciliani De Cunnis [1994].
2.4. Della discussione sul materialismo storico nell’SPD dopo il congresso di Erfurt si è occupato Weiss [1965].
Capitolo terzo
FILOSOFIA, SOCIALISMO, PARTITO
3.1. Etica contro dialettica
Nella sua introduzione alla quinta edizione (1896) della Storia del materialismo (1866) di F. A. Lange, il neokantiano Cohen [1896/1975: 62] dichiarava che «Kant [...] è ilvero ed effettivo,/ondatore del socialismo tedesco» perché è all’innperativo categorico kantiano di considerare l’uomo sempre un ‘fine’ e mai un ‘mezzo’ che occorre appellarsi contro lo sfruttamento capitalistico che de— grada il lavoratore a ‘merce’ Il recupero di Kant al sodalismo aveva dei precedenti. Sulla «Revue socialiste» del ‘possibilista’ Benoît Malon — il quale postulava un ‘sodalismo integrale’, non di un partito ma dell’umanità intera - era stato pubblicato nel 1892 un saggio dal titolo Les origines du socialisme allemand, traduzione francese di un testo singolare. Si trattava della tesi in latino (De primis socialismi lineamentis apud Lutherum, Kant, Fic/ite et Hegel) con cui]eanJaurès, il fumro grande nome dei sodalisti francesi, si era addottorato a Tolosa nel ’91. Kant, egli diceva, «si avvicina alsodalismo nelle sue trattazioni sullo Stato e la proprietà», ed «ha conciliato individualismo e sodalismo» perché «la ‘libertà’ da lui definita non è un muoversi arbitrario della volontà, bensì è determinata per mezzo della ragione e deldovere» Uaurès 1891/1974:61]. Nelsodalismo di cui Kant veniva proclamato padre, fece il suo ingresso l’etica e uscirono di scena Hegel e la ‘dialettiea’, due punti di riferimento che nella filosofia sodaldernnocratica marxista erano stati chiari solo in apparenza, e in realtà pieni zeppi di nodi irrisolti. Per penna di Marx si sapeva dal poscritto alla seconda edizione (1873) del primo libro del Capitale che il suo metodo dia-
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lettico era «direttamente l’opposto» di quello hegeliana, e che «il lato mistificatore della dialettica hegeliana»egli l'aveva sottoposto a critica negli anni Quaranta. Da quel poscritto si apprendeva però anche che di fronte a chi stava trattando Hegel come un «cane morto», Marx se ne era professato scolaro e aveva considerato la dialettica un’arma rivoluzionaria purché dalla «forma mistificata» la si fosse ricondotta alla sua «forma razionale» [Marx 1867/1989: 44—45].
Dalla prefazione alla seconda edizione (1885) dell’Anti-Drîb-
ring si ricavava poi che un irntento di quel libro era stato appunto di liberare le leggi dialettiche dalla forma mistica hegeliana per renderle «chiaramente comprensibili in tutta la loro semplidtà e universale validità» [Engels 1878/OME, XXV: 9]. Iltrattato sulla dialettica buona, da Marx non fornito, sembrava dunque esserci. Proprio perché «gli uomini hanno pensato dialetticamente molto tempo prima di sapere che cosa fosse la dialettica» [ivi: 136], Engels attaccava Diihring che l’aveva definita «robacda misteriosa» e «delirio febbrile».
Su filosofia, dialettica e Hegel le fonti erano queste. Chi tra i marxisti ortodossi le utilizzò meglio, ne ricavò un marxismo a forte copertura hegeliana. È il caso di Plechanov, da Kautsky defirnito in una lettera a Bernstein del 5 ottobre 1896 «il nostro filosofo, probabilmente l’unico di noi che abbia studiato Hegel» [IISG, NK 1896: 150]. E stato Hegel, cosi Plechanov [1891. 2791 nella «Neue Zeit», a formulare nella sua Logica quel rapporto dialetti— co di quantità e qualità per cui «ilgraduale mutamento», quantitativo, «deve necessariamente condurre a un salto», qualitativo. Nell’ottica plechanoviana il marxismo è una concezione del mondo totalizzante, la quale oltre a economia, teoria politica della sodetà e materialismo storico comprende anche la dialettica sotto forma di ‘materialismo dialettico’ (termine messo in circolazione proprio da Plechanov). ]] ‘salto dialettico’ qualitativo rappresentava, se applicato alla politica, la giustificazione logica e ontologica della totale aprioristica necessità del rovesciamento rivoluzionario, della presa del potere da parte del proletariato. Dagli elogi alla dialettica (hegeliana) traspariva uno Hegel già letto come un quasi-Marx, un quasi-materialista, perché «in Hegel il movimento storico non viene affatto dedotto dalle idee degli uomini, dalla lorofi'losofia» [Plechanov 1895/1956: 306]. Se dunque 44
il marxismo non farebbe che esplicitare quel che in Hegel era un materialismo nascosto, cioè quel che già in Hegel (ma senza ch’egli ne fosse consapevole) aveva i connotati sostanziali di una dialettica materialistica, allora neanche sorprende che nell’interpretazione plechanoviana il fulcro teorico del marxismo fosse non il materialismo storico, bensì il materialismo dialettico in veste di filosofia totalizzante: o insomma «il materialismo dialettz'co è lo sviluppo più alto della concezione materialistica della ston'a» [ivi: 304]. Queste posizionidi Plechanov vennero poi confermate dai suoi articoli, sulla «Neue Zeit», di critica c0ntro l’antidialettico Bernstein [Plechanov 1898] e di polemica contro Conrad Schnnidt [Plechanov 1898 a] che aveva interessi neokantiarni in gnoseologia. E ci si può immaginare quanto il monismo hegelo-marxista di Plechanov facesse gongolare, confortandoli nelle loro posizioni antimarxiane, quegli accademici di estrazione culturale evoluzionistica, empiristico—positivista e neokantiana che, pur non alieni di per sé al sodalismo, consideravano però Marx un cattivo hegeliano ‘rovesdato’ che semplicemente ha rienpito lo schema della dialettica di Hegel con un altro contenuto. A Rudolf Stamrnler, neokantiano all’università di Halle, pre— meva rimarcare per il sodalismo, di contro alla «metafisica materialistica» dell’economidsmo, la preminenza etico—idealistica dei fini, dell’attività soggettiva, della sodetà come comunità di libere volontà nella quale «ciascuno fa suoi gli scopi che sono oggettiva— mente giustificati dagli altri» [Stammler 1896: 575]. Per Vorlànder, che formulò per il sodalismo etico la parola d’ordine «‘avan— ti con Kant." sulla via della comprensione unitaria del divenire sodale e degli scopi en'co-sociali» [Vorliinder 1900/1975: 120]la dialettica hegeliana era una stravaganza speculativa, buona solo ad annebbiare il sano irntelletto umano: come dirà a Vienna in una conferenza del 1904 su Marx e Kant. All’interno del partito le discussioni sulla dialettica e sul socialismo etico erano dianibe solo in superfide teoriche. Dietro urgevano quesiti di azione politica e di come condurla. Lo si vide con Ipresupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia di Bernstein, il suo libro del 1899 in cui confluirono temi da lui trattati sulla «Neue Zeit» già nella serie di articoli Problemi del socialismo del 1895-98. Il capitolo su marxismo e dialettica hegeliana» denundava il 45
«grande inganno della dialettica hegeliana», cioè ilfatto «che essa non ha mai interamente torto», che essa «non si contraddice ap— punto perché per essa ogni cosa ha in sé la propria contraddizione» [Bernstein 1899/1974: 70]. Formule come «la confluenza reciproca degli opposti, il capovolgimento della quantità in qualità» o «altre speciosità dialettiche» annacquano il netto «si, si» e «no, no» in un indistinto «sì, no» e «no, si» [ivi: 57]: ovvero impediscono di decidere sui termini concreti di un problema, di tenerli fermi. Sicché contro il gergo esoterico «che cerca di annidarsi nel movimento operaio trovando un comodo sostegno nella dialettica hegeliana», ben venga «un Kant che chiami una volta per tutte in giudizio lo scolasticismo tradizionale e lo sottoponga al vaglio rigoroso della critica» [ivi: 265]. E un altro ‘ritorno a Kant’, stavolta al Kant dell’etica, sarebbe stato benefico, «in una certa misura», persino per la teoria del sodalismo in generale, dato che il terreno materiale (economia, produzione ecc.) da cui il socialismo marxista prende le mosse è anche «provvisto sin dall’inizio di un elemento sociale o etico [...], onde gli è altresì immanente l’idealità nel senso etico del termine»: come Bernstein [1898 a: 230] aveva detto un anno prima in un articolo della «Neue Zeit» sul «mo— mento realistico e ideologico nel sodalismo». Dai quesiti sulla natura d "essere sociale’ (vedi 2.4), che si rivelava sempre di più uno snodo concettuale decisivo, partiva dunque pure la strada verso l’edca. Fin qui il versante teorico. Il risvolto politico dei Presupposti c’era già nella parte sulla dialettica. Sin dal 1848 Marx ed Engels avrebbero sopravalutato la «forza creatrice della violenza rivolu-— zionaria ai fini della trasformazione socialista della società moder— na» [Bernstein 1899/1974: 65] e sottovalutato la situazione storico-reale delle classi. Ciò sarebbe dipeso in parte da un’«autosuggestione storica» di matrice blanquista, ma soprattutto da «un’an— ticipazione puramente speculativa» degli eventi, nella quale incorsero per aver frettolosamente applicato ai fatti sodali la fascinosa dottrina hegeliana dei ‘salti’ Quell’aspettativa della palingenesi ri— voluzionaria fu già nel ’48 contraddetta dalla durezza dei fatti: tanto meno poteva, per Bernstein, avere una riuscita cinquant’anni dopo, in una realtà enormemente più complessa. Nel marxismo è insomma la dialettica hegeliana a esser responsabile della creazione di «visionari» che profetizzano cambiamenti epocali a rapida 46
scadenza, è essa «l’elemento infida della dottrina marxista, l’insidia che intralcia ogni considerazione coerente delle cose» [ivi: 58]. Parecchi anni dopo, nella già menzionata conferenza di Budapest (vedi 2.3), Bernstein in verità farà una sorta di autocritica. Non gli parrà più così certo che la dialettica hegeliana avesse avuto tanta influenza «sulla formazione della teoria marxiana» [Bernstein 1913/1923: 164]. Quel tipo di dialettica avrebbe, semmai, influenzato soltanto il metodo dell’esposizione, perché invece «per quel che riguarda l’elaborazione del principio di fondo della teoria, la filosofia hegeliana ha straordinariamente poco in comune con il marxismo: Hegel deduce infatti l’idea dello sviluppo dalla dialettica del concetto, mentre Marx fa al contrario scaturire la sua teoria dello sviluppo dalle cose, dalle condizioni reali» [Bernstein 1913/1923: 165]. Nel 1913 Bernstein si riallineerà dunque sostanzialmente alle tesi canoniche engelsiane sul rapporto Hegel-Marx (che vedremo tra poco). Ma intanto, negli anni dei Presupposti, fu l’idea di un presunto hegelismo di Marx a confortarlo nella protesta politica contro chi, ammalato di dialettica, indica all’emancipazione operaia la ‘formula fissa’ della palingenesi tramite la violenza rivoluzionaria. Nella prefazione alla riedizione del 1908 del libro precisò «che il diritto storico elo scopo della grande lotta di emancipazione della classe operaia non sono legati a nessuna formula fissa, ma sono determinati dalle condizioni di esistenza storiche e dal bisogni economici, politicied etici di questa classe che da quelle condizioni scaturiscono» [Bernstein 1899/1974: 23]. In questa chiave va anche letta la celebre frase di Bernstein [1898] sul socialismo come soltanto ‘movimento’, contenuta in un articolo della Nene Zeit: dove, dopo aver dichiarato di nutrire scarso interesse per lacosiddetta «meta finale del sodalismo», egli aveva apprmto affermato che «questa meta, quale essa sia, per me è nulla, mentre il movimento è tutto». La frase gli fu rinfacciata come un rifiuto del socialismo. In realtà significava soltanto il rifiuto di una concezione aprioristica del sodalismo, cioè del socialismo come una ‘meta’ prefissata rispetto al movimento concreto delle cose e alla quale ilmovimento reale si sarebbe dunque dovuto sem— plicemente adeguare. Proclamare la priorità del ‘movimento’ era un modo di sottrarsi a una visione dogmatica dei ‘fini’ e alla trasformazione del marxismo in teleologia. 47
3 2. Problemifilosofici irrisolti
Nei marxisti ortodossi le indagini critiche sulla dialettica e sull’etica suscitarono forti diffidenze. Iconfini entro cui muoversi non li aveva forse già fissati l’Anti-Dùbring? Le tre leggi della dialettica che operano nella natura (l’—«unità degli opposti», la «conversione della quantità in qualità», la «negazione della negazione») dominano anche nella storia l’«apparente accidentalità degli awenimenti» [Engels 1878/OME, XXV: 9]. E a chi per il mondo morale pretende «princìpi permanenti che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli», va ricordato che «ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo» [ivi: 90]. Ilsillogismo degli ortodossi era elementare: se l’edificio così congegnato «può chiamarsi a pieno diritto la filosofia del proletariato» - come, postulando una «filosofia classista», diceva l’astronomo olandese e antirevisionista di sinistra Pannekoek [1905: 608] allora chi aveva da ridire su qualcuno dei pilastri, sulla dialettica o sul-
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l’etica così concepite, finiva automaticamente tra i traditori del proletariato. Kautsky si salvò dall’anatema per aver opposto a Bernstein almeno un grido d’allarme: «che cosa resta del marxismo, se gli si toglie la dialettica che è stata il suo ‘migliore stmmento di lavoro’, la sua ‘arma più affilata’?» [Kautsky 1899 b: 39]. Dal punto di vista teorico la faccenda restò però in uno stallo completo: né le affermazioni di Bernstein contro la dialettica, né quelle di Kautsky a favore, avevano alle spalle una vera fondazione teoretica. Kautsky aveva dalla sua l’attenuante di non esser portato a speculazioni filosofiche. Sul neokandsmo non nutriva preconcetti, né lo riteneva incompatibile con il marxismo. A Plechanov, che certamente ne inorridì, confidò in una lettera del 1898: «La filosofia non è mai stata ilmio forte; e sebbene io stia interamente dalla parte del materialismo dialettico, credo però che il punto di vista economico e storico sia conciliabile, alla peggio, anche con il neokan— tismo» [Kautsky 1925:2]. Era un buon atteggiamento antidogmatico, confermato dalla posizione di pluralismo assunta in ma risposta del 26 marzo 1909 a un operaio georgiano, profugo a Zurigo, che gli chiedeva lumi sul machismo: 48
Lei chiede se Mach è un marxista. Dipende da quel che si intende per marxismo. Con marxismo non intendo nessuna filosofia, bensì una scienza d’esperienza, una particolare concezione della società. È una concezione che certo non si concilia con una filosofia idealistica, ma non è inconciliabile con la gnoseologia machiana [...]. Marx non ha una filosofia, ma ha anmmciato la fine di ogni filosofia. [Kautsky 1909 a: 452]
Insomma ognuno adoperiiprincipi filosofici come meglio crede, purché antimetafisici. Kautsky aggiunse (e si rammenti che è l’anno del Materialismo ed empiriocritirismo di Lenin, cioè della polemica antimachista politico-partitica) chei compagni russi dovrebbero capire che «il machismo è una questione privata» e smetterla di caricare di significati politici le opinioni filosofiche dei singoli. Che d’altronde una filosofia ‘marxista’ non potesse esserci per il semplice motivo che il marxismo non è una ‘filosofia’, era un’idea non soltanto di Kautsky: anche Mehring - che sappiamo awerso a un’interpretazione del marxismo come immagine complessiva del mondo - proprio nei suoi interventi sul machismo si dichiarò convinto che Marx avesse espresso, appunto, la «fine della filosofia» [Mehring 1909: 174]. C’è quindi da dubitare che per un Kautsky così poco filosofo imacigni della ‘dialettica’ e del ‘materialismo dialettico’ gettati contro Bernstein significassero veramente qualcosa. Nel partito prevaleva l’idea che gli scontri sulla dialettica non portassero a nulla. Nel settembre del ’99 Victor Adler ricevette una lettera dalla Germania. Vi si auspicava che Kautsky e Bern— stein si elidessero a vicenda perché così - in un partito libero da ogni discendente ideale dei «due Padri della Chiesa» Marx ed Engels - finalmente «noi potremmo litigare soltanto sulla ‘tattica’» [V. Adler 1954: 323]. Un mese dopo, al congresso di Hannover ddl’SPD, l’autore della lettera ironizzò sul «metodo dialettico, o come si chiama tutta questa roba», dove il bianco è nero e il nero è bianco «e poi nella superiore unità si sviluppa un miscuglio grigio da far strabuzzare gli occhi» [P-I-Iannover 1899: 208] La lettera e l’intervento al congresso non erano del primo venuto, ma di Ignaz Auer, segretario del partito dalla caduta del Sozialistengeseîz fino alla morte, nel 1907. D’altra parte però un problema della ‘dialettica’ esisteva davvero, al di là dello scolasticismo delle formule che facevano inorridire Auer e gli ‘antidialettici’. Neanche a occuparsi soltanto del49
la‘tattica’ (quella che solamenteinteressava Auer) bastano infatti criteri di pura e semplice ‘esclusione’: i quali cioè, come i bernsteiniani «sì-sl» e «no-no», fissino un dato di fatto o un momento di esso soltanto con ilsepararlo da altri dati, o da altri e diversi momenti di quel dato. Altrettanto essenziali sono i connotati di‘inclusione’,espriinibili putacaso con un ‘non più’ e un ‘non ancora’ quando un fenomeno sta perdendo una determinata caratteristica ma non ne ha ancora compiutamente acquisito un’altra; o con un ‘tanto-quanto’ o con un ‘si, ma (per certi aspetti) anche no’, quando dati che si escludono se presi ognuno per sé, sono tuttavia compresenti entrambi in un determinato fenomeno. Alla correlazione tra il procedimento definitorio per esclusio— ne e il procedimento definitorio per inclusione si poteva, volendo, anche dare il nome di dialettica. Ma proprio il nome, finché non era chiarita una questione di sostanza, suscitava perplessità. Labriola aveva ad esempio proposto, nella lettera a Engels del 13 giugno 1894, che di «metodo dialettico» non si parlasse più affatto, bensì, perché termine meno equivoco e più appropriato alla sostanza del pensiero mandano, di «metodo genetico» [Labriola 1949: 147].
L’irrisolta difficoltà stava infatti nel quesito se, oltre alla terminologia, si potesse trasportare nella dottrina socialista anche l’intero funzionamento concettuale che la dialettica aveva avuto in Hegel, o insomma andare al di là di quell’occasionale civettare «con il modo di esprimersi» di Hegel che Marx [1867/ 1989:4445] ammise per sé medesimo nel poscritto del ’73 al Capitale. Engels aveva dato lumi solo fino a un certo punto. C’era la sua pro— testa contro «lo sproposito di identificare la dialettica marxiana con la dialettica hegeliana» [Engels 1878/OME, XXV: 118]: e sembrava un monito a non adoperare la dialettica nella forma datale da Hegel. Ma allora in quale modo nuovo (‘materialistico’ evidentemente, non ‘idealistico’) avrebbero agito le tre leggi della dialettica che Engels aveva canonizzato? Egli si era soffermato di più sulla terza di esse, la cosiddetta «negazione della negazione», implicando essa niente di meno che il socialismo. Infatti nel processo storico dell"accumulazione originaria’ descritto da Marx nel Capitale, la proprietà individuale fondata sul lavoro personale appariva ‘negata’ dalla proprietà privata capitalistica; questa a sua volta avrebbe poi fatalmente gene50
rato la propria negazione, ossia il possesso collettivo dei mezzi di
produzione prodotn' dal lavoro: sicché l’esito finale, cioè il sociali—
smo, era stato chiamato da Marx «la negazione della negazione» [Marx 1867/1989: 826]. Grazie all’incluttabilità naturale del processo che Marx sottolineava, pareva un esito paragonabile a quell’altra ‘negazione della negazione’, appartenente al campo dei fe-
nomeni della natura, che nell’AntiDii/sring Engels [1878/OME, XXV' 130] esemplificò con il processo biologico del «chicco d’orzo»: dove la pianta d’orzo è la «negazione del chicco», cioè del seme, mentre la maturazione dei tanti nuovi chicchi nella spiga, con conseguente morte dello stelo, è una prodigiosamente arricchita «negazione della negazione». Engels se la cavò spiegando che Marx, quando caratterizzò il cammino del capitalismo al socialismo «come negazione della negazione», non intendeva affatto dimostrare «per questa via» che esso è «un processo storicamente necessario», o che «la negazione della negazione debba qui far da levatrice, estraendo l’avvenire dal grembo del passato, o che [...] ci si debba, sul credito accordato alla negazione della negazione, lasciar convincere della necessità della proprietà comune del suolo e del capitale» [ivi: 128]. Di qualunque processo formulabile in via «estremamente generale» come ‘negazione della negazione’, in realtà non si dice «assolutamente niente dicendo che & negazione della negaziono>, niente che ne riguardi il «particolare processo di sviluppo», perché
altrimenti «affermerei solo l’assurdo che il processo biologico di una spiga d’orzo sia [...] anche, ahimè!,socialismo»: insomma formulatalmente generica parrebbe la ‘negazione della negazione’ da nonesser applicabile a nulla di concreto, visto che «ogni genere di cose ha una sua maniera peculiare di essere negata in modo che ne risulti uno sviluppo, e la stessa cosa si ha per ogni genere di idee e di concetti» [Engels 1878/OME, XXV: 136-37]. Neanche dal— l’Anti-Drîbring risultavaperò che cosa, una volta dichiarato che non era hegeliana, fosse in concreto una dialettica ‘materialistica’ Veniva ripetuto di continuo ch’essa era indispensabile, ma quale ne fosse lo strumentario logico-cognitivo (da supporre dunque tanto ‘dialettico’ quanto ‘materialistico’) non emergeva mai. Dire con Engels che la dialettica è la «scienza delle leggi generalidel movimento e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero» [1878/OME, XXV‘ 135], epperò non spiegare 51
poi con quali specifici strumenti logico-tecnici la versione materialistica della dialettica raccordi il lato formale generale ai contenuti particolari della materialità (e viceversa), portò in definitiva a un pessimo risultato. Contribuì a confermare gli antidialettici nella convinzione che, non differenziandosi la dialettica ‘materialistica’ da quella hegeliana se non a parole, in pratica qualunque ‘dia— lettica’ alla fin fine si identificava con Hegel, cioè con una logia ch’essi già per conto loro rsspingevano come inefficace. Con una dialettica presentata come ‘materialistica’ ma vuota di attua— zioni cognitive concrete, non c’era di che dirimere lo stallo che contrapponeva gli antidialettici ai dialettico—materialisti. Il problema trasparirà nella raccolta di studi di Max Adler del 1913 su materialismo storico e dialettica. Tentando di ridefinire la ‘dialettica’ inquanto tale, egli vi ripubblicò anche ilsaggio del 1907
sull’«elemento psichico-female». Premettendo (e l’avevano detto anche altri) che «ilmarxismo nonè una concezione complessiva del mondo né la sua dialettica una particolare teoria della conoscenza» [M. Adler 1913/1974: 37], egli protestò soprattutto, con simpatie neokantiane, contro l’ontologizzazione della dialettica. Dire engelsianamente «che il pensare è dialettico perché dialettico sarebbe l’essere delle cose, è un’affermazione palesemente non dialettica ma metafisica» [ivi: 79], equivarrebbe semplicemente a sostituire la metafisica idealistica di Hegel con una metafisica materialistica. Le cosiddette ‘leggi della dialettica’ quali la ‘negazione della negazione’ o il rovesciarsi della quantità in qualità — nient’altro esprimono che «un’opposizione delle determinazioni nel processo del pensiero» [ivi: 34]. La dialettica è soltanto una faccenda del pensiero, utilissima a rettificare gli «errori connaturati al pensiero logico» (owero alla vecchia logica delle astrazioni rigide),ma nonpiù di questo [ivi: 99-100]. Si capisce quante accuse di ‘soggettivismo’ gnoseologico queste posizioni si attirassero. Nel campo dell’etica lostallo era altrettale. ]] pendolo oscillava tra il postulato esplicitamente kantiano di Woltmann [1900/1975: 154-55], ovvero che il «fondamento infinito della legge morale» è un’assoluta «libertà del volere», onde «la fondazione critica della morale non ha niente a che fare con la ricerca delle condizioni esterne della sua origine e del suo sviluppo», e il contrapposto assioma di Kautsky [1906/1975: 163] che escludeva «una moralità fuori del tempo e dello spazio, un metro indipendente dai mute-
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voli rapporti sociali, in baseal quale si possa misurare la morale di ogni sodetà e classe». Contro la presunta aternporalità kantiana delle norme morali o, per converso, contro ilpresunto ‘socialismo’ di Kant, ebbe naturalmente buon gioco Mehring quando mostrò la contraddizione, in Kant, tra il postulato universalistica dell’«uomo come fine e mai puramente come un mezzo», e ilclassismo della sua etica statuale che a seconda della posizione sodo-economica dei membri dello Stato li aveva discriminati in ‘cittadini’ (attivi) e in meri ‘consodati’ (passivi): onde con le formule della morale kantiana «è possibile combinare ogni genere di ozioso gioco intellettuale [...], ma è un manifesto nonsenso ilvolerne derivare storicamente o logicamente ilsocialismo» [Mehring 1900 a/ 1975' 126]. Più arduo appariva un altro quesito, al quale era però essenzia. le rispondere ove un’indagine sull’etica volesse fare passi in avanti: ovvero se, pur non perdendo di vista icondizionamenti del contesto storico-culturale in senso lato (compreso quindi il referente sodale), un imperativo morale universale potesse comunque esistere e avere validità vincolante. La risposta di Kautsky [1906/1975: 133] — che doè la norma etica è sempre limitata ai membri di una determinata collettività, ovvero che «le virtù sodali, la solidarietà, lo spirito di sacrificio, l’amore per la verità, ecc., valgono soltanto per il compagno, non per imembri di un’altra organizzazione sociale» - si prestava a obiezioni. Otto Bauer, recensendo la kautskiana Etica e concezione mate. riah'stùa della storia, costruì un apologo: un lavoratore disoccupato da mesi, minacciato di sfratto e con moglie e figli ammalati, riceve l’offerta di fare il crumiro durante uno sdopero e chiede consigli a un amico socialista; a costui, chelo esorta alla solidarietà pro— letaria nella lotta di classe, dice di saper bene che tradire icompagni è immorale, ma che altrettanto immorale è far soffrire la propria famiglia; e dall’amico si congeda deluso, perchéle prediche sul proletariato portatore di una morale superiore, o sull’induttabile necessità del sodalismo di là da venire, non gli hanno risolto affatto il proprio dilemma personale [Bauerz 1906/0BW, VII: 870 sgg.]. Insomma: a fondare il ‘dovere’ come obbligazione — questo il senso dell’apologo — non basta quell’«istinto sodale» della solidarietà di classe che Kautsky aveva considerato una radice addirittura naturalisfica dell’etica. Ciò era sembrato palese già a chi, tra i sodalisti neokann'ani 53
propensi a un’integrazione di marxismo e kantismo, pensava che anche per una fondazione sodalista dell’etica si dovesse sondare se a costituire il centro di riferimento dell’agire morale non fosse comunque una qualche sorta di soggettività ‘trascendentale’ o struttura coscienziale generale. Fu la strada di Conrad Schmidt e di Franz Staudinger. Schmidt, collaboratore della «Neue Zeit» dal 1889 al 1907, pubblicò i suoi scritti di etica nei «Sozialistische Monatshefte», i «Quaderni mensili sodalisti» fondati-nel 1897 e che divennero la rivista degli intellettuali ‘revisionisti’. A essa passò anche Staudinger (o ‘Sadi Gunter’ come spesso firmava in anagramma), pure lui un ex collaboratore della «NeueZeit». L’istanza kantiana centrale - ovvero la «coscienza della necessità» di un «ordine» che nelle azioni freni con la ragione la «famiglia ribelle dei desideri» [Gunter 1901/1975: 163] gli parve attuale più che mai nei moderni as— setti democratid dove gli uomini già per il «solo fatto di parteci— pare alla legislazione» e di avere «l’obbligo di collaborare alla formazione dell’ordinamento» [ibid.] sono costretti a cercare norme non particolaristiche ma generali. Proprio perciò lo spirito tuttora valido di Kant va sceverato dalla lettera. La ricaduta di Kant nella metafisica dipese dal fatto che il carattere necessariamente ‘astratto’ della «legge morale fondamentale» egli l’ha «resa autonomo, come un prindpio del volere sussistente per sé e in se stesso sufficiente», separando «violentemente l’ideale e la vita, la legge e la realtà effettuale», e così precludendosi la possibilità di inddere sulla realtà etica concreta [Gunter 1901/1975: 166-671. Su quei limiti dell’etica kantiana, ma individuando modi per uscirne e tuttavia mantenere la cogenza dell’obbligazione, insisté Conrad Schmidt in due saggi del 1900, per penetrazione filosofi— ca senz’altro icontributi migliori di quella discussione sull’etica. Il carattere di obbligatorietà dell’«agire conforme alla legge» è in Kant un’ipostasi formalistica, una «determinazione puramente logica», incapace dunque di costituire «un motivo determinante della coscienza» perché priva del necessario «rapporto con qualche bene positivo che debba esser appunto conseguito mediante questo agire conforme alla legge» [Schmidt 1900 a/ 1975: 158]. Ilmovente reale, quello che appunto consente all’uomo di universalizzare una massima di azione, sta invece nelfatto di esser egli un ente sodale e di avvertire quindi la «convenienza dell’azione 54
per la comunità sociale» [Schmidt 1900/1975: 143]. Parrebbe una conclusione analoga a quella kautskiana degli «istinti sodali», se non fosse per la differenza essenziale che in Kautsky l’universalità vincolante della norma è ristretta all’etica di un determinato gruppo 0 di una singola classe sodale, mentre in Schmidt tale universalità (pur sempre storico-relativa, nel senso di non esser metafisica ma, come egli la definiva, «terrena») concerne invece la sfera della sodetà civilenel suo complesso, della socialità ingenerale. Vi era palese l’istanza che il sodalismo dovesse farsi carico di un sistema dei doveri e diritti nel quale anche un non sodalista potes-
se riconoscersi.
Alla strada segnalata da Schmidt — importante perché vi affiorava l’idea di un trascendentalismo etico come apriori sociale in senso ampio, che avrebbe forse potuto rimuovere la contrapposizione tra puri ‘naturalisti’ e puri ‘trascendentalisti’ non arrise fortuna. Soprattutto la ostacolarono, da sinistra, le invettive di natura politica messe in campo da Plechanov contro il neokantismo già nel 1898—99. Vigeva in esse il dogma del carattere direttamente classista di ogni e qualsiasi filosofia. Avendo «la borghesia un predso interesse nel promuovere la filosofia kantiana poiché spera di trovarvi una sorta di oppio' per addormentare ilproletariato» [Plechanov 1899: 613], proprio perdò chiunque riconoscesse una qualsiasi legittimità ai quesiti kantiani era automaticamente un nemico del proletariato. Così anche in etica, come nel campo della dialettica, l’indagine filosofica restò bloccata dalle redproche accuse politiche. Tuttavia le ricerche, pur interrotte, ebbero un tisultato di non poco conto. Fecero drcolare uno spirito di resistenza ai dettami dogmatid, stimolarono sia il riesame critico di posizioni della cultura filosofica accademica, sia dibattiti tra i so— cialdemocratici 'filosofi’. L’impronta di discussione critica prevaleva nella maggior parte degli oltre duecento scritti filosofici tra saggi, schede e recensioni -— che apparvero sulla «Neue Zeit» del 1883-1912. Coprivano unarco tematico amplissimo che andava da discussioni sulla filosofia greca in ottica materialistico-storica [Stillich 1898, Kautsky onn1es 1897, 1898] a ricerche su Hobbes politico [T Cunow 1897 a]; da studi di Mehring su Locke [1904 b], sul sodalismo di Fichte [1905], su Feuerbach [1904 a] e sul Nietzsche antisocialista [1897 b], a saggi di Beer su Spencer [1904] e sui fondamenti eti-
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co-giusnaturalistici del sodalismo [1911]. Orientamenti critid provenivano anche dalle sistematiche notizie e rassegne che dal 1903 la rivista pubblicava sui classici della filosofia che via via usdvano nella ‘Biblioteca filosofica’ dell’editore Meiner e sulle novità librarie della letteratura filosofica in genere. Ne vennero in definitiva informazioni molto pluralistiche, grazie alle quali gli scritti dei custodi dell’ortodossia sortirono spesso l’effetto di susdtare, nel lettore, simpatie proprio per l’avversario contro cui polemizzavano. Dal proprio punto di vista ortodosso aveva perciò ragione l’allarmato Plechanov a scrivere a Kautsky il 24 dicembre 1898 che i lettori della «Neue Zeit» «non si interessano di filosofia»(e intendeva una filosofia con l’etichetta ‘marxista’), e che dunque «bisogna costringerli a interessarsene» [in Za— nardo 1974 a: 116]; o Lenin a lamentare (in una lettera a Gorkij del 13 febbraio 1908) che la rivista «non è mai stata un’accesa seguace del materialismo filosofico» ed «ha verso la filosofia un atteggiamento di indifferenza» [in Knoch 1985: 84]. Il marxismo come sistema filosofico onnirisolutivo costituiva insomma, tra gli intellettuali della «Neue Zeit», soltanto una delle varianti possibili del marxismo, non condivisa neppure da tutti gli ‘ortodossi’ (da Kautsky solo in parte, da Lafargue e Mehring per nulla). Accanto a essa altre strade, di marxismo critico-aperto e per così dire sperimentale, sembravano praticabili. Non era affatto scontato, in questa seconda prospettiva, che ilmarxismo (ma qua— le poi, tra quelli possibili?) fosse l’ultima e definitiva parola del so-
dalismo.
3.3. Socialismo e marxismo
Non risale a Marx e a Engels la paternità di un ‘marxismo’ income una dottrina a cui nel nome di Marx il movimento sodalista dovesse conformarsi. Dirsi ‘marxisti’ significava per molti legarsi a un nome, considerarsi seguaci di una setta e prendere per dogma l’intera opera del capo della setta. Difronte a questi atteggiamenti, diffusi soprattutto nel partito francese, Marx come Engels ricordò in una lettera del 27 agosto 1890 a Lafargue soleva dire: «tutto quello che so, è che non sono marxista, io» [OME, XLVIII: 478].
teso
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Quel che idue autori proponevano al movimento sodalista si configurava sin dall’inizio come una sorta di constatazione ogget— tiva del processo delle cose, non legata al nome di nessun ‘fondatore’ Marx amava ricordare che già l’entrata sua e di Engels «nella sodetà segreta dei comunisti era avvenuta all’esplidta condizione che dagli statuti fosse espunta ogni cosa che incentivasse ilfetidsmo dell’autorità» (lettera al giornalista sodaldemocratico Wilhelm Elos, 10 novembre 1877 [MEW, XXXIV: 308‘]), owero il richiamo a personali idee di qualcuno da accogliere come dogmi. Né la cosa sorprende da parte di chi in una coeva lettera al sociologo e pubblidsta russo Michailovskij predsava di non aver mai diffuso «una teoria di filosofia della storia che riguardasse un pro— cesso evolutivo universale prescritto come necessità di destino a tutti ipopoli, indipendentemente dalle drcostanze storiche in cui essi si trovano» [MEW, XIX. 111]. Da parte di Engels, e proprio per quei motivi culturali antiautoritari, itermini «marxismo» e «marxisti»venivano adoperati tra ironiche virgolette nella sua polemica contro i«diihringhiani» e la «Dùhringmania». Nel giro di un decennio persero le virgolette sia in Kautsky che nella «Neue Zeit». Adesso «scuola marxista», «forze marxiste», «terreno del marxismo» diventarono locuzioni del tutto positive nelle lettere di Kautsky del 1883-85 al lassalliano Franke], a Bebel e a Engels e negli articoli della rivista. ]] marxismo verine peraltro equiparato non tanto a una ‘filosofia’ (un versante dove, si è visto, le resistenze erano molte e giustificate), quanto invece, essenzialmente, alla concezione materialistica della storia e alla teoria marxiana del valore. Furono questi due punti di riferimento ad agire nella prima lunga campagna teorica dei marxisti della «Neue Zeit», quella del 1884-91contro icosiddetti ‘sodalisti della cattedra’ (come li chiamavano spregiativamente iliberali e iconservatori): ovvero il sodalista giuridico austriaco Anton Menger, gli economisti Brentano e Schfiffle, e il loro progenitore, l’economista Rodbertus. Nei confronti di costoro, intellettuali non pregiudizialmente antisodalisti, l’accento sul marxismo come endiadi di materialismo storico e di analisi del capitalismo servì a sfoltire, almeno, le caotiche definizioni del sodalismo che drcolavano, quelle per cui è diventato di moda chiamare sodalismo le tendenze più disparate, pur-
ché ostili al ‘manchesterismo’: dunque non soltanto latendenza sodalde— 57
mocratica, ma anche l’indirizzo agrario, protezionistico, burocratico-monopolistico, e, persino, quello militaristico. [Kautsky 1884: 389]
Contro tali confusioni Kautsky intendeva rimettere la ‘questio-
ne sociale’ su un terreno marxiano, e arrivò qui a formulazioni che
divennero un filo conduttore per il marxismo secondinternazionalista:
Ciò che noi chiamiamo questione sodale non nasce dalla circostanza cheilsalariononcrescenellastessanfisuradelprofittoedellarendita, bensì nasce dalla trasformazione dei rapporti di produzione la quale si compie con necessità naturale.Ifattori di questa trasformazione sono da un lato lo sviluppo tecnico e la concentrazione dei capitali, per cui ilmodo di produzione si configura sempre di più come sociale; e dall’altro lato l’accresciuta concentrazione dei lavoratori salariati. [Kautsky 1885: 102-3]
Per chi considerava la teoria socialista una scienza d’esperien— za ne discendeva - come Kautsky ricordò a Schìffle che accusava la socialdemocrazia di «mancanza di prospettive» che le prospettive sarebbero venute da sé non appena si fosse conosciuto il
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dei fatti: onde l’unica vera «premessa indispensabile per capire il socialismo» è l’«approfondita conoscenza dell’esistente modo di produzione» [Kautsky 1885 a: 195], perchè dove questa conoscenza manca, un movimento socialista «cade nell’utopismo dottrinario oppure in un opportunismo che raccatta le proprie
terreno
idee momentanee e la loro fondazione ‘scientifica’ dove le trova e dove sono più a buon mercato» [Kautsky 1886 a: 165]. Ilvero punto da tener fermo, e dove si giuoca tutta la partita, è insomma l’analisi del modo di produzione capitalistico così come esso esiste in concreto: e dunque un’analisi ovviamente da integrare, rispetto a Marx, con idati che scaturiscono dai nuovifenomeni dello sviluppo capitalistico. Sarebbe stato un marxismo duttile, purché lo si fosse fatto funzionare al meglio sui due terreni caratterizzanti, la concezione della storia e l’economia. Quanto la riduzione del marxismo a questi due cardini fosse condivisa anche da chi non apparteneva ai dottrinari ‘ortodossi’, emerge dal caso di Bernstein e Hilferding. A proposito di quali mai temi Bernstein diceva di voler sondare (lettera a Bebel, 20 ottobre 1898 [in V. Adler 1954: 260]) «do58
ve Marx ha ragione e dove no»? Nei Presupposti erano essenzial— mente una volta espunto ilmarxismo come filosofia ovvero ‘dialettica’ - iltema del materialismo storico (da recepire nella sua più matura forma tardoengelsiana) e quello dello sviluppo economico
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della sodetà moderna. A proposito di quest’ultimo, certo, per Bernstein si doveva andare oltre le analisi di Marx. La pur geniale «chiave logica» marxiana delvalore-lavoro — che aveva consentito «una scoperta e descrizione del congegno dell’economia capitalistica di cui finora nessuno ha uguagliato la profondità, la coerenza e la lucidità» — oggi non basta più perché «a partire da un certo punto essa ha fatto difetto» [Bernstein 1899/1974: 83]. Non per colpa di Marx, però. Ma sostanzialmente a causa dell’inedito dato di fatto, nuovo rispetto ai tempi di Marx, che la struttura della società, invece di «essersi semplificata [...], si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi, sia per quanto concerne le attività professionali» [ivi: 91—92]. L’analisi dell’esistente modo di produzione restò dunque pure per Bernstein un presupposto-cardine di ogni socialismo. Anche per lo Hilferding della prefazione al Capitale finanziario, pubblicato nei «Marx-Studien» del 1910, il marxismo non è connotato da nessuna ‘filosofia’ perché è «solo una teoria delle leggi del divenire della sodetà»; e dunque — essendo il marzu'smo solo una teoria accanto ad altre ed avendo il sodalismo un ovvio lato pratico oltre che teorico è «concezione errata, anche se diffusa intra et extra muro:, identificare senz’altro marxismo e socialismo» [Hilferding 1910/1961. 6]. Per Hilferding significò che, se il marxismo è una teoria generale applicata alla concreta epoca storica dei produttori di merci e ai rapporti sociali che vi vigono, la bontà della teoria dipende dalla misura in cui, lavorando coniparametri ch’essa indica, trovino spiegazione le novità che riguardo sia alla produzione che ai rapporti sociali si manifestano via via nello sviluppo del capitalismo. ]] cardine ditutto è dunque un’altra volta l’analisi socio—economica, per la quale, come in quella prefazione Hilferding sottolineava, è commque attrezzato meglio chi ha assimilato le leggi dinamiche della società formulate dal marxismo. Ed era da qui, dal punto fermo dell’analisi economica, owe— ro da quel che suggerivano i dati del capitalismo sviluppato, che discendeva anche per Hilferding la possibilità per il movimento socialista di agire sul sistema del capitalismo dall’interno, con pro-
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grammi gradualistici sorretti dallo strumento delle organizzazioni
di classe e del parlamentarismo a suffragio universale. Negli anni della Terza Internazionale circolò la tesi, da parte tanto di comunisti come Korsch [1923] quanto poi dei ‘marxisti'leninisti’, che nella Seconda Internazionale la ‘degenerazione’ del marxismo e il conseguente ‘tradimento’ del socialismo sarebbero dipesi, essenzialmente, dal misconoscimento del nucleo filosofico del marxismo, ovvero della dialettica materialistica, fondamento pienamente autosufficiente di esso e non bisognoso di nessuna ‘integrazione’ In realtà, se risultati positivi sortirono dalle analisi socialdemocratiche sul capitalismo avanzato, questi si ebbero nell’esatta misura in cui le cose vennero indagate prescindendo dal marxismo come filosofia: ciò vale sia per l’individuazione dei caratteri nuovi del capitalismo (finanziario e imperialistico) che per la questione agraria, sia per lo studio delle modificazioni avvenu— te nella composizione delle classi sociali (ad es. il ruolo dei nuovi ceti medi) che per la questione nazionale. Inoltre l’aver concentrato i capisaldi del marxismo nella teoria del valore e nella concezione materialistica della storia consentì aiteorici tedeschi un atteggiamento di notevole elasticità nei confronti delle forme e dei contenuti che la teoria marxista ass1mse nei vari paesi. Kautsky, recensendo uno scritto del socialista francese Paul Louis sulle «tappe del socialismo», dichiarò che, fermi restando quei due capisaldi, poi però «il marxismo assume in ciascun paese caratteristiche particolari», sicché «quello russo, inglese, francese nonsono in nessun caso la semplice copia del marxismo tedesco», ma, a buon diritto, «differenti correnti spirituali» [Kautsky 1905 b: 599]. Qui c’è l’idea che siano legittimi più marxismi, che insomma il ‘marxismo’ non possa essere una dottrina unica che bastasse puramente applicare; ed è da ritenere che Kautsky lo pensasse già da tempo, perché non sembra casuale che Labriola proprio a lui partecipasse in una lettera del 23 marzo 1896 la convinzione che il marxismo dovesse venir sempre assimilato «secondo l’angolo vi— suale del cervello nazionale» [Labriola 1960:294]. Suona infine da conferma quel che Kautsky dirà molto dopo, con rm’apertura pluralistiea adesso del tutto esplicita, all’inizio del ponderoso trattato La concezione maten'alùtx'ca della storia: «Tutti noi abbiamo imparato da Marx, ci appoggiamo sulla sua ricerca e sulle sue idee. Ma queste idee, come anche la realtà, ognuno le vede con isuoi propri 60
peculiari occhi», sicché vi sono, tutti ben legittimi, «diversi modi di interpretare il marxismo» [Kautsky 1927, I. 16]. A parole questi reiterati accenti sul marxismo come ‘scienza d’esperienza’ erano ottimi. Nella sostanza valevano poco perché scarsissima, se non assente, era la ricaduta dei dati d’analisi su un marxismo di cui pur così spesso si sottolineava il fondamento d’esperienza. La carenza di sperimentalismo epistemico già menzionata (vedi 2.3) caratterizzata dalla mancanza tanto di una rifles— — sione sui principi di una scienza sperimentale della società, quanto di una utilizzazione dei dati per controllare la funzionalità delle astrazioni, e dunque dal conseguente impoverimento del criterio della prassi restrinse il campo a un’alternativa tra due opzioni antitetiche ugualmente sterili. L’una esprimeva, con il Bernstein del 1901 (vedi 2.3), la diffidenza verso qualunque teoria che desse lumi al socialismo perché del futuro non può esservi ‘scienza’ e il marxismo, se seienza è, lo era stato di un assetto socio-economico troppo diverso da quello presente. Nell’altra, con Kautsky, l’antidogmatico awern'mento che il marxismo ha come suo connotato essenziale di «non fornire nessuna soluzione definitiva» [Kautsky 1899: 32], coesisteva tranquillamente con un criterio della prassi molto spurio, secondo il quale la prassi confermerebbe il marxismo totalmente e in blocco. Era l’assioma - espresso ad es. da Kautsky [1899 c: VIII] nella prefazione alla Questione agraria, dunque oltre tutto a proposito di un campo infinitamente controverso per cui «nella dottri— na marxista si possono rilevare errori riguardo a risultati singoli», mentre invece l’edificio complessivo è «incrollabile». Se nel caso di Bernstein il rischio era che semplicemente si abbandonasse il versante della teoria, nell’altro il pericolo era più sofisticato, endogeno, perché la contraddizione tra l'avvertimento antidogmatico e l’assioma della totalizzante ‘incrollabilità’ minava la teoria nelle fondamenta.
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3.4. Ilpartr'to «? la politica ]] conflitto tra l’accezione ‘ristretta’ o rigidamente ‘ortodossa’ del marxismo e quella ‘ampliata’ o ‘integrata’ con altre chiavi di lettura dei fenomeni sodali si espresse in opposte scelte politiche
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sin dagli anni della Bemrteindebatte, la battaglia condotta nel partito contro il revisionismo bernsteiniano; e accompagnerà via via la decisiva questione della ‘via al potere’, owero della teoria e prassi della rivoluzione. Intanto però, prima ancora di quelle opzioni, era l’idea stessa di partito e di impegno politico a costituire un fortissimo modello culturale specifico che influiva direttamente sul modo in cui venivano fruite le altre idee-modello della ‘seconda
cultura’
La vita organizzativa dell’SPD dipendeva dalle leggi del Reich sull’associazionismo. Alle organizzazioni periferiche erano vietati per leggeirapporti diretti con la direzione del partito, sicché questivenivano mantenuti tramite fiduciari eletti localmente, che però non potevano né avere contatti tra di loro né convocare essi le riunioni locali; e quest’ultime dovevano comunque esser pubbliche. Alle organizzazioni di base ne venne una notevole autonomia. Il pluralismo di voci era poi accresciuto dal fatto che accanto alle sezioni del partito agivano quasi ovunqueicomitati elettorali socialdemocratici, e ciò perché per legge la campagna per le elezioni veniva svolta non dai partiti,ma da appositi comitati elettorali: il che fu tra l’altro uno dei motivi del ruolo preponderante che sino al 1918 ebbero nell’SPDimembri del gruppo parlamentare. Soprattuttoicomitati elettorali, come testimonia ilpastore protestante Gòhre, diventarono una vivacissima capillare scuola di politica, con discussioni che
dalle otto di sera fino, di solito, quasi a mezzanotte si prolungavano tra
gente già stanca delle fatiche della giornata [...]. Inesse l’operaio che simpatizza con la socialdemocrazia viene costantemente e impercettibilmen-
te indottrinato finché il suo animo e la sua mente non sbocciano nel pen-
siero socialista di partito. [Gòhre 1891; cfr. Kuczynski 1983: 285-86]
In realtà, sappiamo, questo ‘pensiero socialista di partito’ non fu né univoco né monolitico. Che le idee avessero, tutte, un’ampia possibilità di esprimersi non dispiaceva neanche al mentore Engels. All’amico socialista Sorge, emigrato negli Stati Uniti ai tempi della Prima Internazionale, dichiarò in una lettera del 9 agosto 1890 che «il più grande partito del Reich non può tirare avanti senza che tutte le sfumature al suo interno si esprimano pienamente» [OME, XLVIII: 469].
Ognuna delle correnti interne del partito, che fosse ‘ortodossa’ 62
o ‘revisionista’ o una combinazione di entrambe, disegnava visio—
ni d’insieme che investivano l’intera società. Nel programma ap— provato al congresso di Erfurt le differenziate prospettive potevano riconoscersi un po’ tutte, e appunto perciò fu un congresso del consenso. Sullo sviluppo della sodetà la carta di Erfurt aveva fissato sì una meta, «la trasformazione della produzione di merci in produzione socialista, compiuta da e per la società», e come condizione per quest’obiettivo aveva indicato alla classe operaia il «possesso del potere politico». Ma su come prendere ilpotere non faceva parola.Idieci punti politici generali per l’azione nel Reich (eisuccessivi cinque a specifica «difesa ddla classe operaia») elencati come rivendicazioni immediate - e che andavano dal suffragio universale in tutti itipi di elezione fino a un sistema fiscale basato sui redditi, e dalla giornata di otto ore fino alla regolamentazione
delle condizioni di lavoro — erano semplicemente di buon riformismo. Proprio perciò su quel programma i revisionisti nulla ebbero da ridire. Nel decennale del congresso Bernstein dichiarerà: «Circa il programma sono complessivamente d’accordo sulla sua parte pratica, e non mi importa se in quella teorica c’è magari una qualche affermazione che non combacia più con la mia concezione dello sviluppo» [Bernstein 1901a/1904: 20]. Con i quindici punti di Erfurt il partito creò il terreno d’incontro con i sindacati. Si erano ricostituiti con oltre 200.000 aderenti all’indomani della caduta del Sozialistengesetz che aveva colpito pure loro, e dal novembre 1890 erano unificati nella Gene—
ral/commission der Gewerkschaften Deutschland: (CGD), la ‘Com— missione generale dei sindacatidella Germania’ presieduta da Carl Legien. Un appello di essa del ’91 precisava che mentre il partito «unita a una modificazione dell’attuale assetto sociale», isindacati, «poiché le leggi ci pongono qui dei limiti, stanno nelle loro aspirazioni sul terreno dell’odierna sodetà borghese» [in Grebing 1970: IOD-01]. Su quel terreno si muovevano però sostanzialmente anehe iquindici punti del programma di Erfurt, sicché le tattiche insomma coincidevano. La coincidenza non dispiacque né ai lavoratori sindacalizzati (che furono 680.000 nel 1900 e oltre due milioni e mezzo nel 1913), né alla maggioranza operaia dei 384.000 iscritti al partito del 1906 e del milione del 1914. La loro aspirazione prevalente come risulta dalle testimonianze raccoltenel 1912 da Levenstein
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era una «rivoluzione sodale per via evoluzionistica» sulla quale qualche intervistato, come ad es. un trentatreenne minatore slesiano, affermava di avere non una vaga speranza ma un «sapere certo», [Levenstein 1912; in Grebing 1970: 98]. E già Gòhre, una generazione prima, si era sentito dire durante la sua esperienza in fabbrica che «noi lavoratori siamo troppo istruiti per volere una ri— voluzione, vogliamo raggiungere il nostro scopo per via pacifica, già oggi per quanto è possibile e il resto per inostri discendenfi» [Gòhre 1891, in Grebing 1970: 99].
Intorno aH’SPD del 1890-1914 circola uno stereotipo: owero che il solido funzionamento dell’organizzazione, fiore all’occhiello dei socialdemocratici tedeschi e mito per gli altri partiti dell’Internazionale, sarebbe stato il surrogato della rivoluzione che non si faceva, lo strumento sempre più affinato che però non si adoperava mai per lo scopo a cui era destinato. Coltivare l’organizzazio— ne come un fine a se stesso sarebbe stato.anm' secondo un’accusa di parte leninista e terzinternazionalista - un disegno scientemente perseguito per occultare il fatto che la ‘rivoluzione’ non si voleva affatto. Ora: se ilmarxismo secondinternazionalista, incluso quello ‘ortodosso’ kautskiano, aveva chiara una cosa, era che una rivoluzione non si può mai ‘fare’ nel senso di inventarla, o di prescriverla al movimento operaio come una meta di cui si preveda magari anche l’anno e il giorno. Nel 1909, a conclusione del suo saggio più organico di teoria politica, la via alpotere, Kautsky scriveva: «Mai è stato più difficile di oggi predire le forme e il ritmo dello sviluppo futuro, dato che tuttiifattori da considerare sono, ad eccezione del proletariato, indeterminati e non calcolabili» [Knutsky 1909/1974: 172].Neveniva che «fino a quando la grande lotta de— cisiva tra proletariato e reazione non si è conclusa» (e non poten— dosi né sapere quando e in quali forme ciò avverrà, né fare le rivoluzioni a piacere), «l’attività pratica del nostro partito resta incentrata sul risahiaramento e sufl’organùzazione del proletariato» [Kautsky 1898 a: 299]. L’accento posto sull’organizzazione esprimeva dunque anzitutto un rifiuto della concezione avveniristico—profetica della rivoluzione. Ma non solo di questo si trattava. C’è un altro aspetto, che va collocato in primo piano perché atteneva a quotidiane espe-
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rienze esistmziali dei militanti. Dimenticarlo falserebbe qualun— que visuale e ricostruzione storica di quel periodo. L’‘organizzazione’ fu davvero un surrogato, ma non della ‘rivoluziohe’ (la quale, si è visto, poteva anche concepir3i, e quella concezione prevaleva, come un processo di trasformazione graduale). Era nell’immediato della loro vita di tutti igiorni che ilavoratori vedevano nel partito e nel sindacato quel grande sogget— to collettivo il quale surrogava alla discriminazione che nella so— cietà guglielmina essi subivano come individui singoli. Le orga-
nizzazioni operaie prefiguravanoil socialismo futuro soprattutto perchéin esse ilavoratori trovavano quotidianamente riconosciu— te l’uguaglianza e la solidarietà e la dignità umana che altrove ve— trivano loro negate. In questa funzione assolta hic et nunc dal partito stava la fonte del patriottismo d’organizzazione descritto da
Kautsky:
Ilproletariovede la propria felicità non nella grandezza e potenza della sua personalità individuale, bensì nella grandezza e potenza dell’organizzazione a cui appartiene [.…] Ma‘organizzazione’ non significa altro che subordinazione del singolo a un insieme, limitazione della sua libertà personale. [Kautsky 1905 a: 345] Erano le considerazioni di un teorico. Dai militanti l"organiz— zazione non era vissuta affatto come una limitazione dello sviluppo individuale e della ‘libertà personale’, perché era al contrario proprio l"organizzazione’ che rendeva loro possibile il soddisfacimento di bisogni vitali. Il partito era il luogo dove nasceva una coscienza sociale collettiva proiettata verso il futuro (nel senso che «noi lavoratori, che apparteniarno alla socialdemocrazia, siamo ipionieri di un’epoca nuova», come dicevano molte delle testimonianze raccolte da Gòhre e Levenstein). Questa coscienza consentiva di superare la rassegnazione e mancanza di speranza, rendeva più tollerabile l’abisso oggettivo tra lavoratori e membri delle altre classi, sprigionava energie individuali (di cui idibattiti raccontati da Gòhre sono solo uno tra innumerevoli esempi) per le quali non vi sarebbe altrimenti stato nessun luogo d’esplicazione. Le idee di Kautsky sull’ethos di classe (vedi 3.2) non erano costruite a tavolino. Avevano il loro retroterra concreto nella somma di tutti questi aspetti etico-culturali che sostanziavano il partito e che, traducendosi in
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comportamenti morali quotidiani, esercitavano un’ovvia influenza determinante anche sulla ricezione degli altri modellidella ‘secon-
da cultura’
Nota bibliografica 3.1. Sul ‘socialismo etico’ e il rapporto tra marxismo e neokanti— smo: Vorlànder [1900; 1906], Zanardo [1974 a], Steinberg [1967/ 1979: 130-46]. Sul revisionismo: Rikli [1936], H. Frei [1979], Dorpalen [1988: 263-71, un panorama della storiografia dell’ex DDR sull’SPD di fine Ottocento]. Su Bernstein: Gay [1954], Angel [1961], Steinberg [1967/1979: IIS—30], Holzheuer [1972: 53-63], Col. letti [1974], Zanardo [1974 &: 117-29, il Bernstein filosofo], H. Hirsch [1977], Heimann-Meyer [1978], Fetscher [1979], Carsten [1993].
3 .2. Su Kautsky filosofo: Vorlèinder [1924]. Su Auer e il revisionismo ‘antidialettico’: Steinberg [1967/ 1979: 152-70]. 3.3. Su diffusione e significati del mandsmo e socialismo tra fine Ottocento e inizio Novecento: Zanardo [1974 a: 73 -89], G.Haupt [1978], Andreucci [1979]. Su Hilferding: Gottschalch [1962]. Sull’antirevisionismo di
Korsch:Zanardo [1974 b: 242—601.
3.4. Sulla politicizzazione dei lavoratori: Grebing [1970: 94-120],
Kuczynski [1983: 260-312].
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comportamenti morali quotidiani, esercitavano un’ovvia influenza determinante anche sulla ricezione degli altri modellidella ‘seconda cultura’
Nota bibliografica 3.1. Sul ‘socialismo etico’ e il rapporto tra marxismo e neokantismo: Vorliinder [1900; 1906], Zanardo [1974 a], Steinberg [1967/ 1979: 130-461. Sul revisionismo: Rikli [1936], H. Frei [1979], Dorpalen [1988: 263-71, un panorama della storiografia dell’ex DDR sull’SPD di fine Ottocento]. Su Bernstein: Gay [1954], Angel [1961], Steinberg [1967/1979: IIS-30], Holzheuer [1972: 53-63], Colletti [1974], Zanardo [1974 &: 117-29, il Bernstein filosofo], H. Hirsch [1977], Heimann-Meyer [1978], Fetscher [1979], Carsten [1993].
3 .2. Su Kautsky filosofo: Vorlà'nder [1924]. Su Auer e il revisionismo ‘antidialettico’: Steinberg [1967/1979: 152-70]. 3.3. Su diffusione e significati del marxismo e socialismo tra fine Ottocento e inizio Novecento: Zanardo [1974 a: 73 -89], G.Haupt [1978], Andreucci [1979].
Su Hilferding: Gottschalch [1962]. Sull’aniirevisionismo di Korsch: Zanardo [1974 b: 242-60].
3.4. Sulla politicizzazione dei lavoratori: Grebing [1970: 94—120],
Kuczynski [1983: 260-312].
Capitolo quarto
l NODI DEL CAPITALISMO
4.1. Capitalismo e proletariato
La storia del consolidarsi della Germania come grande paese capitalistico è scritta nelle statistiche. Per l’arco 1880-1910 indicano un paradigna da manuale: cioè un tasso d’incremento quasi doppio nelle attività industriali rispetto all’agricoltura, e un concentrarsi sia delle fabbriche che della popolazione nelle metropoli, le città di oltre centomila abitanti, dove risiedeva, secondo il censimento del 1895, quasi la metà della popolazione industriale attiva.
Se nel 1880 la Germania aveva partecipato al commercio mondiale per 6 miliardi di marchi, nel 1910 lo farà per quasi 16 e mezzo, anche qui ormai al secondo posto dopo i20 e mezzo dell’Inghilterra. Ilmade in Germany, marchio imposto nell’87 dalla Gran Bretagna per controllare le importazioni tedesche, inonda adesso imercati, sinonimo di prodotti di alta qualità e prezzo competitivo. L’impetuosa ascesa capitalistica - sotto il motto: «nello sviluppo economico la Germania deve recuperare al massimo», come disse il direttore della Deutsche Bank Karl Helfferich [1914: 7] si accompagnò all’ingigantirsi delle metropoli, dovuto anche alle migrazioni stagionali dalle campagne che per qualche mese all’anno tramutavano braccianti agricoli e contadini poveri in proletari di fabbrica. Da parte socialdemocratica si lamentava quanto fosse difficile organizzarli sindacalmente. Dal 1860 alla vigilia della grande guerra ilflusso migratorio interno fu «il più grande movimento di masse della storia tedesca» [Kuczynski 1983: 176]. Coinvolse venti milioni di persone, dalle campagne verso le città, ma soprattutto dall’est prussiano (e li il 67
vuoto veniva riempito da stagionali polacchi) verso ovest, e via via
verso la proletarizzazione nei quartieri dormitorio dei centri industriali della Renania e Vestfalia. «La necessità di guadagnarsi il pane fa del proletario un nomade, costretto a rincorrere ilsalario senza posa da un quartiere all’altro, da una città all’altra» scriveva Clara Zetkin nel 1901 sulla sua rivista socialdemocratica femminile «Die Gleichheit» [in Kuczynski 1983: 201]. Icarri dei traslochi erano una costante del panorama urbano. Nel 1910 si ebbero a Berlino, su 1,9 milioni di abitanti, 715.000 traslochi.
Movimento demografico, flussi migratori, proletarizzazione di masse sradicare dalle loro origini e alla ricerca di una nuova identità culturale e ideologica, furono fenomeni attentamente recepiti dalla «Neue Zeit». Si poteva constatare come il comune processo di proletarizzazione promuovesse di per sé una coesione tra individui di eterogenea provenienza, una loro saldatura in classe; e inoltre conferrnasse l’idea marxiana che la struttura sociale moderna è essenzialmente tripolare, owero — come ripeté Kautsky [1903: 242] — si lascia «ridurre in ultima analisi a tre grandi classi», i lavoratori salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari. Senonché Kautsky colse anche l’incidenza di uno specifico fenomeno nuovo che sempre di più — analogamente a quanto era emerso nelle discussioni sul ‘ceto medio’ intellettuale (vedi 2.2) — stava connotando il capitalismo sviluppato: cioè l’esistenza di numerose «classi intermedie e secondarieicui interessi non coincidono interamente con quelli di nessuna delle tre grandi classi» [ihid.]. Nel Capitale marziano la classe era stata definita in base all’i— dentità delle fonti di reddito [Marx 1894/1989 b: 1003—4]. Per Kautsky [1903: 241] si aggiunse anche «la comunanza degli interessi e la comunanza della contrapposizione alle altre classi». Nella teoria kautskiana della sodetà la lettura fortemente oggettivistica anche dei connotati aggiuntivi (quali la «comunanza degli interessi» ecc.), visti pur’essi in stretta dipendenza dalla sfera strutturale della produzione, portò a esiti discutibili nell’ambito delle ricerche ‘sovrastrutturali’- ad es. a un’etica fondata quasi solamente su va— lori normativi classisti (vedi 3.2). Invece nelle analisi sociologiche, condotte dalla «Neue Zeit» sulle condizioni di vita dei lavoratori, la natura oggettivistica dei parametri consentì risultafi di rilievo. L’indagine privilegiò il proletariato industriale perché nei suoi confronti era di facilissima applicazione il paradigna diagnostico 68
del possesso dei mezzi di produzione;il quale entro certi limitifunzionò, vedremo, anche a proposito della questione agraria. Gli studi sulla classe lavoratrice (non soltanto tedesca, il che rese possibile utilissimi raffronti) erano nella «Neue Zeit» ben più numero— si di quelli sulle classi dominanti. Negli indici 1883-1912 voci come ‘Lavoratori’, ‘Lavoro femminile’, ‘Artigianato’, ‘Contadini’, ‘Braccianti agricoli’, e altre più specifiche su praticamente tutti i mestieri recano oltre milletrecento titoli, di contro ai poco più di trecento per voci come ‘Capitalismo’, ‘Cartelli’, ‘Crisi’ e altre affini. Comunque idati sulla situazione dei lavoratori gettavano luce, indirettamente, anche sulle trasformazioni in atto nell’economia capitalistica. La degradazione di masse di lavoratori a meri ‘accessori della macchina’ continuò a essere un fenomeno classico (anzi «la dequalificazione del lavoro è uno dei più importanti effetti delle modificazioni delle forze produttive», scriveva Otto Bauer [1906 a: 645]). Ma, per un altro verso, dalla razionalizzazione e tecnologizzazione del processo lavorativo, e dal crescente ruolo degli impiegati tecnici, emergevano nuovi dati e quesiti riguardo sia alla tenuta del sistema che alla natura del nuovo proletariato. La disoccupazione si confermava un’altra costante. Ma l’espulsione di forze-lavoro dal grande sistema produttivo aveva adesso conseguenze sodali inedite. Essa portò alla nascita di strati nuovi di lavoratori intermedi. Erano coloro che come unica alternativa al perduto lavoro salariato dovevano costruirsi faticosamente una propria piccola azienda, precaria sin dall’inizio. «Il proprietario della nuova piccola azienda si colloca aldi sotto del salariato; è più indifeso, il suo livello di vita è spesso inferiore, il suo tempo di lavoro viene prolungato, la sua donna e i suoi figli vengono maggiormente sfruttati», rilevava Kautsky [1892/1971: 31] nella prefazione alla quinta edizione (1904) del suo commento al programma di Erfurt. A ciò si aggiungeva la ripresa della vecchia industria a domicilio, ovvero «la forma più antica, e insieme più arretrata del modo di produzione capitalistico» [Mehring 1897 a/1974, I:49]. Questo residuo arcaico, sopravvissuto soprattutto in Slesia e Sassonia, ebbe adesso una stagione di ritorno nei rami della tessitura, dell’abbigliamento, del tabacco, dei giocattoli. Insomma l’impren— ditore, quando gli conveniva, smetteva volentieri «l’abito della moderna industria di fabbrica per rimettersi la logora giacca pa69
triarcale dell’industria a domicilio» [Schoenlank 1888: 120-21]. La convivenza di abito moderno e vecchia giacca, di razionalizzata modernità di fabbrica e sacche arcaiche, stava a indicare quanto fosse densa di contraddizioni la dinamica del capitalismo cele-' brata dalle statistiche. 4.2.Inuovi voltidel capitale
Non dalle pericolanti microimprese né dal lavoro a domicilio usciva quel che contava davvero,imilioni ditonnellate di ferro, acciaio e carbone, e i prodotti elettrotecnici e chimici della branca più giovane e aggressiva dell’economia. Artefici ne erano forme nuove di concentrazione del capitale e di gestione della produzione, i cartelli. Essi ebbero i loro aedi. Con la “carteflizzàzione — di-
ceva il liberal-nazionale Schmoller [1892: 476] — «il capitale gradualmente abbandona la sua posizione di dominio; diventa quel che per natura deve essere, cioè un elemento di servizio [...]; e il profitto dell'imprenditore si trasforma sempre di più in una sorta di sua retribuzione per un lavoro altamente qualificato». Immagini di concordia sociale e benessere universale sono associate ai car-
telli, descritti come «giusti organi di una forma superiore di economia politica socializzata, genuini strumenti di una guida centrale della produzione» che devono venir concordemente promossi dalle «forze migliori del mondo degli affari» e dai «capi più illuminati dei lavoratori» [Schmoller 1900: 452]. L’ex pastore protestante di idee liberal-sociali Friedrich Naumann — fondatore nel ’96 del ‘Partito nazional-sociale’ e dal 1907 deputato dell’Unione liberale’ — poneva nel saggio Lo Stato industriale (1909) il quesito di quale avrebbe potuto essere, in prospettiva, l’atteggiamento della socialdemocrazia verso uno ‘Stato industriale’ la cui anima erano ormai, innegabilmente, i cartelli delle «incisive grandi industria. Gli sanbrò «non impossibile che la socialdemocrazia si decida per isignori dell’industria contro il padronato agrario, purché essa abbia la garanzia che negli esiti pratici complessiviquelli siano migliori di questo»; e auspicava che sotto il motto «pane a buon prezzo e libero diritto di coalizione per i lavoratori», si costituisse una «teinporanea unione» tra imprenditori e operai, analoga a quella «che in Inghilterra è durata 70
circa sessant’anni» [in Steitz 19851379]. L’auspicio nonera del tutin aria, se si tien conto che proprio nel dibattito so— daldemocratico su riformismo e revisionismo la posizione da assumere verso icartelli costituiva un nodo di fondo. Dal Capitale marxiana, che erauna descrizione del capitalismo classico, ben poco si poteva desumere circa queste specifiche forme moderne di concentrazione: c’erano solamente alcuni accenni su tendenze, individuabili già a metà Ottocento, che riguardavano le società per azioni [Marx 1867/1989: 375,688; 1885/1989 a: 242, 374; 1894/1989 b: 518, 522]. E all’epoca del congresso di E… non si conoscevano ovviamente le glosse di cui Engels correderà
to campata
l’edizione (1894) del terzo libro del Capitale da lui curata, dove spiegherà che il discorso marxiana sulle sodetà azionarie si attagliava a quello moderno (ormai da fare) su cartelli, trust e mono-
Kautsky conosceva però il manoscritto della critica engelsiana al progetto del programma erfurtiano, la quale lamentava tra l’altro proprio l’assenza, nel progetto, di riferimenti alle sodetà azionarie e soprattutto ai trust, riguardo ai quali non si può più parlare, come un tempo a proposito dei capitalisti singoli, di «produzio— ne privata» e «neppure di assenza di un piano» [Engels 1891/OS: 1170]. Nessuno dei suggerimenti entrò nel programma che continuò a condannare forme vecchie di accumulazione; ma diventò adesso convinzione di Kautsky [1891: 784] che cartelli e trust erano fenomeni, ormai, «di una fase nuova del modo di produzione capitalistico». L’idea non ebbe strada facile. Al congresso di Francoforte del ’94 dove tra ipunti all’ordine del giorno pur c’era il problema delle nuove «organizzazioni del grande capitale nello sviluppo economico» - non stimolò nessun dibattito la relazione del deputato e futuro riformista Max Schippel, che da un lato definiva i monopoli «una naturale conseguenza dello sviluppo del modo di produzione capitalistico», e dall’altro valutava le loro connaturate contraddizioni come «un passo verso la realizzazione del sodalismo» [P-Frankfurt 1894: 161]. Comtmque era significativo, almeno, che nella cartellizzaziòne si vedesse non un puro e semplice rimedio stumentale contro sovraproduzione e abbassamento dei prezziin periodi di crisi, bensì una fase economica strutturalmente nuova e duratura. Prosegui in questa direzione Kautsky [1899: 79], quando ca-
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ratterizzò la «monopolizzazione di intere branche dell’industria» come una tendenza di sviluppo che «sempre di più domina l’intera vita economica e anche politica delle nazioni capitalistiche». L’interesse costante della «NeueZeit» per gli Stati Uniti fu del resto dovuto anche al fatto che li, quasi come in un grande laboratorio, iprocessi di concentrazione del capitalismo avanzato agivano da tempo: e lidescrisse ad esempio Beer [1899]. Cunow [1904: 300] individuerà l’evolversi dei cartellida consorzi di imprese concorrenti a stabili «organizzazioni per il potenziamento del profitto del capitale». Hilferding [1903] rileverà che nella prospettiva di un «potere organizzato del capitale» sarà proprio l’enorme con— flittualità che ne deriva — cioè da un lato uno sfruttamento accentuato e dall’altro il «serrato contrapporsi dell’organizzazione della classe operaia all’organizzazione della classe capitalîsîa»f[iviz 275] — a fare di questo tipo di capitalismo «il gradino che direttamente precede la sodetà socialista» [ivi:"28fl. Dunque davvero nient’altro nel capitalismo sviluppato e ‘organizzato’ se non un suo essere, in virtù di leggi naturali dello svi— luppo economico-storico, il mero inconsapevole preparatore dell’imminente grande palingenesi sodalista? E c’è poi davvero l’endiadi di un capitale sempre più concentrato e di uno sfruttamento sempre più ampio? Nacque da qui il contrasto tra gli ‘ortodossi’ e la linea dei ‘revisionisti’ che valutava le nuove forme del capitalismo in tutt’altra ottica. Nei bemsteiniani Presupposti del socialismo l’istanza di un marxismo da sottoporre a ‘revisione’ poggiava sulla tesi che certe analisi socio-economiche marxiane (e manciate) non corrispondevano più all’evoluzione reale della sodetà. Bernstein [1899/1974: 86] si chiedeva: «maggiore concentrazione dei capitali, maggiore concentrazione delle imprese, elevato saggio di sfruttamento. È tutto vero questo? Si e no». Ilquadro, se non falso, gli appariva in— completo perché privo di due cose: di una riflessione su un dato di fatto per Bernstein decisivo, e di un’ipotesi che di fronte alla.fe— nomenologia delle crisi ormai s’imponeva. Il dato di fatto era che con le sodetà per azioni il capitale non già si concentrava, ma si frazionava tra migliaia di azionisti. Owe— ro — di contro alla «superstizione socialista» (ma «il movimento socialista è già sopravissuto a molte superstizioni») per cui c’è «concentrazione del possesso o, se si vuole [...], assorbimento del plus-
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valore da parte di un gruppo sempre più ristretto di mammut capitalistici» — si può constatare statisticamente che «il numero dei possidenti aumenta [...] in senso assoluto e in senso relativo» [Bernstein 1899/1974: 91]. L’ipotesi mirava a spiegare invece le ‘capacità di adattamento dell’economia moderna" è difficilmente contestabile «in linea di principio» chei cartelli possano, almeno, «esercitare un’azione modificatrice sulla natura e sulla frequenza delle crisi» [ivi: 128]. L’enorme aumento della ricchezza degli Sta— ti industriali, l’elasticità del sistema creditizio moderno, la nascita dei cartelli industriali e dunque le aumentate possibilità di compensazione dein squilibri fanno insomma «considerare improbabile, almeno per un periodo abbastanza lungo, la possibilità di crisi economiche generali del tipo delle precedenti» [ivi: 117]. Né gli ‘ortodossi’ né la ‘bernsteineria’ da loro vituperata girmsero a fine Ottocento a un convincente disegno complessivo dei nuovi volti del capitale, e salvo poche eccezioni stentarono a delinearlo anche dopo. Su entrambe le posizioni gravava il comune difetto epistemico del divorzio tra ilgenerale e il particolare, dell’assolutizzazione, di volta involta, o del generale o del particolare. Gli ‘ortodossi’ si attenevano a quel che aveva detto Engels nelle sue note al terzo librodel Capitale. Cartelli e trust non gli parevano di natura qualitativa tale da incidere sul corollario decisivo del quadro generale, ovvero sulla vecchia tesi taumaturgia della grande crisi e del grande collasso del sistema. Gli sembravano, al più, un espediente congiunturale senza effetti duraturi [in Marx 1894/1989 b: 158]. In Bernstein che qualche inedita caratteristica del capitalismo sviluppato l’aveva colta, tanto da poter giustamente dire che «ben lungi dall’essersi semplificata rispetto a quella precedente, la struttura della sodetà si è in larga misura graduata e differenziata» [Bernstein 1899/1974: 91-92] - qualcuno dei nuoviconnotati particolari veniva invece immediatamente potenziato a parametro universale, come nella tesi dell’aumento dei possasori di capitale o nelle previsioni sulle capacità endogene dei cartelli a parare le crisi. Per un altro verso era di per sé legittimo, di fronte al panorama della ripresa economica di fine secolo, l’invito di Bernstein [1899/1974: 130-31] ad analizzare inpositivo le possibilità dei car— telli e dei trust, anziché far profezie sulla loro ‘impotenza’, e persino non immotivata l’idea che non esistesse più una ragione sufficiente per prevedere crisi in base a motivi «puramente economici».
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Èvero che a parziale smentita e gli antibernsteiniani ne gongolarono — si ebbero subito, con la consueta accoppiata di sovraproduzione-recessione, le crisi europee del 1900—1903 e poi, nel 1907, la crisi negli Stati Uniti con ripercussioni europee. Ma non perciò si sfasciò il capitalismo, né tanto meno (contro Engels) le crisi travolsero i cartelli, perché anzi portarono a una loro ulteriore con— centrazione (in Germania ad es. di quelli elettrotecnici e chimici). Nei Presupposti non affiorarono ilegami tra questo particolare tipo di capitalismo e la politica mondiale, il nesso su cui altri teorici socialdernocratici basarono la nozione moderna di imperialismo. Anche quando, un anno dopo, Bernstein nell’articolo Soa'aldemocrazia e imperialismo [1900] pur avvertì che «indubbiamente noi siamo in un’epoca di spinta imperialistica», gli interessarono dell’imperialismo soltanto gli epifenomeni politici. Una connessione tra capitalismo organizzato, capitale finanziario e Weltpoliti/c di nuovo tipo verrà da lui tracciata solo molto più tardi [1911]. 4.3. L’imperialismo: un oggetto misterioso?
Non c’era nessuna tradizione marxista a indicare come il capitalismo di nuovo modello funzionasse in concreto.Isocialisti della Seconda Internazionale dovettero scoprirlo da soli. Qualcosa si poteva ricavare da due autori non socialisti, ma al socialismo non ostili: l’economista Rudolf Meyer e il radical-liberale ingleseJohn Hobson. Di Meyer — filosocialista e antibismarckiano (tanto che, processato per offese a Bismarck in seguito a un suo librodel 1877 contro la corruzione politica governativa, era dovuto riparare in Austria) c’era uno studio sul capitalismo fin de siècle [Meyer 1893] che diede occasione a un ampio articolo-recensione di Kautsky [1893 a].Ilibri di Hobson sull’evoluzione del capitalismo moderno [1894] e sull’imperialismo [1902] influenzeranno il pensie— rosocialistaalungo,elogiatiancoradaLeninneisuoistudidel 1914-17 sull’imperialismo. Meyer aveva intuito le potenzialità del capitalismo dei cartelli, e per Hobsonerano le nuove forme di concentrazione del capitale a costituire l’essenziale base economica delle tendenze imperialistiche, innescate da quei capitali che alla ricerca di investimenti redditizi vengono esportati fuori dalla madrepatria (per Hobson soprattutto fuori d’Europa).
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Pur senza mai riuscire a superare Francia e Gran Bretagna, la Germania aveva quintuplicato i suoi investimenti all’estero tra il 1880 e il 1914, grazie al supporto del grande capitale bancario. Se in epoca bismarckiana le banche erano state semplici fornitrici di credito alle industrie, adesso il loro potenziato ruolo di detentrici di capitale le rendeva protagoniste. Neldecennio 1900-1910il ca— pitale delle sei maggiori banche del Reich — concentrate a Berlino e ognuna con funzioni di banca centrale verso istituti bancari minori— crebbe da 8,5 a oltre 13 miliardidi marchi: cioè all’83 % dell’intero capitale bancario tedesco, con presenza reciproca di banchieri nei consigli d’amrninistrazione dei cartelli e di industriali negli organi direttivi delle banche. Erano ormai quest’ultime a determinare per le industrie le direttrici degli investimenti esteri. Icapitali viaggiavano non tanto verso lecolonie del Reich,troppo poche e povere per ricavarne profitti economici immediati, quanto invece verso investimenti all’estero velocemente produttivi: per costruire cioè ferrovie, schiudere fonti di materie prime, aprire fabbriche. Costituì un esempio da manuale la penetrazione nel Vicino Oriente. La Deutsche Bank berlinese, dopo aver fornito nel 1903 i capitali per la costruzione della ferrovia di Bagdad, impose all’impero ottomano di acquistare in Germania il materiale necessario e di affidare a ditte tedesche le manutenzioni maggiori; creò inoltre una rete di indotti che aprì la porta alle merci made in Germany, e chiuse così il cerchio per cui l’esportazione di capitali alimentava nuove produzioni di merci e dunque anche nuovi capitali nella madrepatria. Inoltre alla penetrazione economica seguì subito una sorta di protettorato militare tedesco sull’impero ottomano. «L’esportazione di capitali è unmezzo per ifini della politica estera» spiegherà l’economista e deputato libera-
le Schulze-Gaevernitz [1915: 165], sostenendo durante la guerra le ambizioni germanico-imperiali di una grande Mitteleuropa tedesca dal Baltico al Golfo Persico. Si investiva peraltro anche in paesi non esplicitamente sofloponibili a simili mire: i grandi cartelli elettrotecnici, direttamente o tramite filiali italiane e in con— correnza con consorzi francesi e belgi, costruivano ad es. infrastrutture di servizi (tram e rete elettrica) in città siciliane, e già nel 1898 il console francese di Messina lamentava che «i tedeschi diventano sempre più ingombranti nei centri commerciali e industriali della penisola e della stessa Sicilia» [in Hermer 1978: 125]. 75
L’equazione imperialismo-capitalefinanziario maturò neiteorici socialdemocratici via via ch’essi si liberavano dell’idea che l’im— perialismo fosse semplicemente sinonimo di grande dominio coloniale. Si dice spesso che Kautsky (e una fonte sono le critiche ri— voltegli da Lenin) abbia avuto dell’irnperialismo una concezione solamente politica. None esatto, o almeno non nella misura in cui è diventato un luogo comune. E sì vero chein Kautsky persiste la tendenza a equiparare imperialismo e politica coloniale (ancora nel 1909 una sua definizione era: «l’annessione di un territorio d’oltremare al territorio dello Stato, ilcosiddetto imperialà_mo» [Kautsky 1909/1974: 1131); né egli ha mai fornito una presentazione sistematica del nesso tra capitale cartellizzato, capitale finanziario e imperialismo. Ma sparse intuizioni vi furono in lui sin dal 1900. La compenetrazione tra alta finanza e industria, l’ambito na— zionale che diventa troppo stretto per ilbisogno di espansione del capitale accumulato, sono temi che compaiono in un articolo [Kautsky 1900] contro il riformista Schippel che al Reichstag aveva considerato benevolmente la Flottenvorlage, il progetto di legge del 1900 sul riarmo navale patrocinato dal segretario di Stato per la marina Tnpitz, che portava da 2 a 3 il precedente rapporto dil a 2 tra navi da guerra tedeschee inglesi. Esul Vorwà'rts di quel— l’anno egli faceva a proposito della «politica mondiale» di Germania e Inghilterra la constatazione che accanto all’esportazione di merci nasce l’esportazione di capitali; non si tratta più solo di garantire uno sbocco alla crescente eccedenza di merci, ma anche di aprire mercati nuovi, nuovi campi di attività al crescente aumento dei capitali. [Kautsky 1900 a: Il]
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Più tardi sebbene il contesto del discorso rimanesse sempre la questione dell'atteggiamento socialista verso la politica coloniale l’abbinamento tra espansionismo imperialistico e capitale finanziario sembra acquisito nell’affermazione che ormai «i capitalisti non esportano iloro prodotti come merce da vendere all’estero, bensì come capitale per lo sfruttamento dell’estero» [Kautsky 1907: 39]. In questa valutazione del capitale finanziario Kautsky concorderà del resto con Hilferding,il cui Capitalefinanziario del 1910 egli commenterà in un lungo saggio su Capitalefinanziario e crisi accostando per importanza quell’opera dell’austromarxista a
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Marx e chiamandola addirittura il «quarto volume del Capitale» [Kautsky 1911. 883]. Chiedersi se il libro di Hilferdingabbia contratto debiti verso Kautsky, o se e quanto Kautsky nelle sue successive valutazioni dell’irnperialismo sia stato invece influenzato da Hilferding, è quesito variamente dibattuto e senza apprezzabile soluzione. Hilferding, durante la lunga gestazione dell’opera alla quale lavorò sin dagli inizi del secolo, fu ovviamente a conoscenza delle formulazioni di Kautsky. Ma il fatto vero è che parecchie idee che si trovano nell’uno e nell’altro erano in realtà un patrimonio anche di altri marxisti coevi, e circolavano già negli anni tra idue seco-
li, naturalmente formulate con parecchia diversità di ottiche e accenti. Un sentore delle trasformazioni che nell’evoluzione del capitalismo avvengono in senso imperialistico vi fu ad es. in Parvus [1901; 1901 a], sebbene egli, come molti, ne vedesse gli effetti prevalentemente soltanto nel sistema coloniale (come ad es. nel suo libro La politica coloniale e ilcrollo [1907]). A Mehring interessarono maggiormente, nei suoi articoli per la «Neue Zeit», le ripercussioni che l'edmperialismo musso-tedesco» ebbe sull’ideologia delle classi dominanti, nonché irapporti di contrasto e di connubio tra industriali e ]anleer agrari che accompagnavano quell’ideologia. Definizioni dell’imperialismo che precorsero davvero quelle di Hilferding risalgono semmai al giornalista e deputato Ledebour, a Beer e a Otto Bauer. Ledebour, del centro--sinistra del partito nella costellazione delle correnti, già al congresso di Magonza del 1900 usò la formula, più tardi destinata a celebrità con Lenin, del— l’imperialismo come «ultimo stadio del capitalismo» [P—Mainz 1900: 167]. A Beer riuscì nel 1902 dal suo osservatorio di corrispondente della «Neue Zeit» a Londra, da dove aveva già mandato ottime analisi degli specifici fenomeni dell’imperialisrno inglese - una formulazione precisa:
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Le caratteristiche economiche di questo periodo sono: a) il migrare dei capitali verso paesi stranieri meno sviluppati, e il ritorno verso la madrepatria di dividendi e interessi [...]; b) il dominio crescente della finanza sulla produzione; c) il raccogliersi della produzione in sindacati e trust; d) la ricerca febbrile di consumatori; e) l’inizio di un’attenzione teorica per l’importanza del mercato interno. [Beer 1902: 389-90]
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Bauer, analizzando nel 1907 i nodi della questione nazionale, già adoperava la nozione del «doppio effetto», ovvero dei due circuiti che hanno luogo quando paesi sottosviluppati vengono sottoposti a sfruttamento da parte di un paese a capitalismo avanzato: vale a dire l’effetto ‘indiretto’ (onde gli investimenti finanziari all’estero si traducono in «un’accresciuta possibilità di sbocco per l’industria del paese dominante»), e quello ‘diretto’ che, con un’a— zione di ritorno, crea «nello stesso paese dominante nuove ere d’investimento per ilcapitale e accresciuta possibilità di sboc per tutte le industrie». Inoltrela crescita di prezzi, salari e profitti he consegue alla' diminuzione dei capitali immobilizzati consoli i consensi ideologici all’apansionismo: a larghi strati dell’opinione pubblica «la politicaespansionistica-capitalistica appare come un interesse economico generale» [Bauer 1907/OBM I:469-70]. Le riflessioni di Hilferding si impemieranno anzitutto sul nes— so tra capitale industriale e finanziario; e poi sul fatto che l’«aspirazione a una politica espansionistica», quella «di assicurare alla propria nazione il dominio sul mondo [...], è ora un’inderogabile necessità economica, perché rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale finanziario, diminuzione della sua capacità concorrenziale e, come ultimo effetto, subordinazione del territorioeconomico rimasto più piccolo a quello più esteso» [Hilferding 1910/1961. 441]. Insomma \
l’esportazione di capitale è condizione di una rapida espansione del capitalismo. Tale espansione è socialmente indispensabile per la conservazione della sodetà capitalistica, ed economicamente necessaria per la difesa e, in certi periodi, anche per l’aumento del saggio di profitto. [ivi: 484]
Le indicazioni ch’egli ne trasse per la strategia del movimento operaio in periodo di imperialismo non verranno ovviamente condivise dai bolscevichi Lenin e Bucharin, soprattutto dopo il 1914 che parve aver scompaginato per intero il patrimonio teorico secondinternazionalista. Il credito che al Capitalefinanziario venne dall’essere stato il «più sistematico e coerente studio che nel periodo della Seconda Internazionalesisia avuto dell’evoluzione storica del capitalismo» [Gronow 1986: 19] è tuttavia misurabile dal fatto che Lenin nell’opuscolo L’imperialismofase suprema del ca-
pitalismo (1917) riconobbe Hilferding almeno come apprezzabi78
lissima fonte di dati e di teoria, e Bucharinnel suo Imperialismo ed economia mondiale, libro coevo e approvato da Lenin, additò Hilferding addirittura come un modello di capacità d’analisi. ]] quesito di fondo, che implicava, come vedremo, scelte decisive per la strategia del movimento operaio, era quanto fosse destinato a durare il processo di espansione del capitale. Nessun limite ‘assoluto’ alla cartellizzazione e quindi all’espansione del capitale esisteva per Hilferding, tanto che teoricamente si poteva secondo lui ipotizzare un processo che a livello economico sarebbe giunto sino alla formazione di un unico «cartello generale» mondiale. Molto tempo prima l’aveva già pensato Kautsky [1899 d: I],
sebbene gli sembrasse dubbia — come poi anche a Hilferding — la fattibilità pratica di un simile cartello, troppo insidiato dalle contraddizioni e antinomie ch’essa produrrebbe nella sodetà civile. Sull’esito del processo non affioravano comunque previsioni, salvo naturalmente quella, concettualmente genericissima ma sempre ripetuta (e non solo da Hilferding e Kautsky), che alla fase imperialistica del capitalismo sarebbe seguito il ‘socialismo’ Tre anni dopo il libro hilferdinghiano sarà Rosa Luxemburg, docente di economia politica alla Parteischule di Berlino, a pubblicare un’opera di quasi 450 pagine intitolata L’accamulazione del capitale e intesa, così il sottotitolo, come un «contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo». La Luxemburg, tutt’al contrario di Hilferding, prevedeva (e dettagliatamente descriveva) un tracollo dell’espansionismo capitalistico per saturazione e conseguente implosione, se già non anticipato prima da una rivoluzione proletaria internazionale. Il paradigma era rigido: «l’accumulazione capitalistica esige come ambiente per il suo sviluppo formazioni sodali non-capitalistiche, procede innanzi in un continuo ricambio organico con esse, può esistere solo finché trova intorno a sé quell’ambiente»; e «per il capitale l’ambiente sociale non-capitalistico che assorbe isuoi prodotti e gli fornisce elemen— ti produttivi e forze di lavoro» è il«mercato esterno» [Luxemburg 1913/1980: 361-62]. Insomma: l’arresto e la fine del capitalismo avvengono quando, non essendovi più paesi sottosviluppati da rendere capitalistici, la produzione del plusvalore allargato per ciò stesso automaticamente si blocca. A parte ilfatto che l’accento cadeva di nuovo sulle aree agrarie e coloniali come unica vera riserva del plusvalore allargato 79
(una tesi anche di Kautsky, e che ricomparirà in qualcuna delle vere e proprie mitologie so ‘ ' e che accompagnarono le discussioni sul colonialismo). mancava questo schema di mercato mondiale un elemento essenziale. Restava fuori la penetrazione intensiva, qualitativamente nuova, che al vitalissimo capitale industrial-finanziario stava ormai consentendo, e sempre più la cosa si sarebbe confertnata infuturo, di espandersi benissimoanche in aree che secondo il paradigma puramente quantitativo avrebbero dovuto es—
sere sature di capitalismo da tempo. Contro il paradigma quantita— tivo - avvertibile già in articoli scritti dalla Luxemburg per la «Leipziger Volkszeitung» del 1898 e poi raccolti nell’opuscolo RJde sociale o rivoluzione? [1899] ebbe ragione Bernstein [1899/1974: 124] quando osservò, giustamente collegando tra loro l’elemento intensivo ed estensivo, che nessun limite «può esser stabilito a priori […] per questa espansione intensiva del mercato mondiale, che va di pari passo con la sua estensione geografica».
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4.4. Ilrompicapo agrario
Icapitali non si materializzarono soltanto in acciaio e carbone, sulla ferrovia di Bagdad e né soltanto, dalla fine dell’Ottocento, penetrarono in America latina e in Cina (e persino nei capitalistici Stati Uniti) con le più varie simbiosi di industria e finanza, finalizzate soprattutto a concessioni ferrovia— rie. Cambiamenti di fondo essi stavano innescando, in patria, nell’economia rurale. Lo indicavanoidati del censimento del ’95. Il numero delle macchine agricole, raddoppiate dalle 458.000 del 1882 alle 913.000 del 1895, segnalava vistosamente che per la conduzione delle aziende occorrevano capitali. V1 si erano quasi
non soltanto viaggiarono
quintuplicate le costose macchine a vapore (aratri, trebbiatrici, ferrovie décauville) e già cominciava la loro sostituzione con macchine a motore elettrico. Ma non ne venne affatto quel che ci si aspettava. Non vi fu una diminuzione quantitativa delle aziende, una loro metamorfosi in poche macroaziende di robusto capitale. Al contrario: nel periodo 1882-1895 non solo il numero delle aziende crebbe in assoluto del 5,3 %, ma aumentarono del 16,6% anche ipoderi piccolissimi (fino a un ettaro) e medio-piccoli (da cinque a venti ettari). 80
Non era forse una promessa di buon futuro per l’azienda piccola e medio-grande? Non era financo una smentita di qud che indicava la situazione agraria degli Stati Uniti, paese a capitalismo avanzato, dove pareva che nei rami decisivi, nella cerealicoltura e nell’allevamento, la strada fosse quella della grande azienda capitalistica meccanizzata? 0 verso quest’ultima, malgrado le apparenze in contrario, ci si incamminava anche in Germania? A voler interrogare la dottrina c’era il saggio di Engels del ’94 sulla questione contadina in Francia e Germania. Vi si dava per scontato che la grande proprietà e la «conduzione agricola moderna» hanno «completamente soppiantato il contadino indipendente» [Engels 1894 a/OS: 1215]; e si suggerivano soprattutto
modi politico-pratici per guadagnare alla causa socialista il «contadino destinato al tramonto», il «futuro proletario». Engels aveva sottolineato anche la complessità della situazione nelle campagne, dovuta alle tante forme di rapporti socio-economici che vi coesistevano. Ma ciò già si sapeva. Sulla «Neue Zeit» già Schippel [1892: 52] — discutendo di uno studio sui braccianti agricoli fatto dai ‘socialisti della cattedra’ del Verein fù'r Sozialpolitile, l"Associazione per una politica sociale’ fondata nel 1872 da Schmoller — aveva puntualizzato che per capire le campagne occorreva analizzare «il modo di conduzione dell’azienda, il rapporto che la produzione ha con il consumo del produttore e con il mercato, la relazione tta possesso e lavoro», perché soltanto così dalla grande quantità di strutture sociali del contado si potevano enucleare «forme tipiche». Ipiccoli e piccolissimi contadini (e dal ’95 al 1907 saranno proprio le microaziende, abbarbicate a mezzo ettaro e presenti soprattutto nelle regioni centrali e occidentali, ad aumentare maggiormente, da 1,85 a 2,08 milioni) erano schiacciati - come rilevavano ad es. Kautsky [1885 b] e Parvus [1895] - da un superlavoro senza limiti, segnato da un tenore di vita inferiore a quello di un operaio di fabbrica. Indebitati sino al collo verso usurai e istituti bancari, dovevano, per procurarsi il denaro contante indispensabile in un’economia di mercato, vendere laloro forza-lavoro come giornalieri presso proprietari più grandi o ricorrere a occupazioni ausiliarie (all’industria a domicilio o all’ingaggio temporaneo in fabbrica); e finivano così nel circolo vizioso di trascurare il pode81
re e danneggiare nuovamente se stessi. Sicché-il moltiplicarsi delle piccole azielnde era il moltiplicarsi di una miseria endemica. In base a queste analisi si polanizzò già a metà degli anni Novanta contro latesi dei futuri ‘revisionisti’ sulla validità sociale ed economica delle ”piccole imprese rurali, elogiate pure da economisti borghesiiquali dicevano, come ad es. Hecht [1895: 69], che «il contadino del XVIII secolo, conisuoi otto-dieci ettari di terra, era un contadino e un lavoratore manuale; mentre il minuscolo contadino del XIX secolo, coni suoi uno—due ettari, è un lavoratore intellettuale, un imprenditore, un commerciante». Altre fonti borghesi convennero invece che solo ignorando lo sperpero di forzalavoro e di energie vitali del piccolo agricoltore si potevano «ottenere cifre che dimostrino la superiorità della piccola azienda nei confronti dell’azienda media e grande, e' la sua capacità di sostenere la concorrenza con quest’ultime»: come riconobbe Huschke [1902: 126] in suoi studi su costi d’esercizio e produttività. La diatriba se ilfuturo sarebbe spettato alle piccole o alle grandiaziende — dove la vitalità delle piccole era sostenuta da Bernstein [1899/1974: 106—10] e dal socialista austriaco Hertz [1899], nonché da Eduard David soprattutto nellibro Socialismo e agricoltura [1903], una voluminosa elaborazione di saggi precedenti accompagnò tutte le vicende del programma agrario dell’SPD. Culminò con le 450 pagine della Questione agraria (1899) di Kautsky, salutata dagli ‘antirevisionisti’ come «l’avvenimento più notevole della più recente letteratura economica dopo il terzo volume del Capitale» (l’apprezzamento era di Lenin [1899: 951). Pu di certo il meglio che, insieme al Capitalefinanziario di Hilferding, la Seconda Internazionale avesse prodotto in sede di economia. Kautsky vi ebbe chiare due cose: in primo luogo che l’econo— mia rurale è priva della semplicità di situazioni che c’è nell’industria, e invece piena di innumerevoli tendenze e controtendenze che vi agiscono in maniera trasversale; e in secondo luogo che l’agricoltura andava comunque vista nel suo nesso complessivo con l’economia capitalistica. Infatti proprio «nelle campagne la vita economica, che finora ha seguito con rigida uniformità un binario perennemente immutato, è pervenuta a una situazione di rivoluzionamenti continui, situazione tipica del modo di produzione capitalistico» [Kautsky 1899 c: 289]. Ai rivoluzionamenti appartengono tanto le vicende contrad-
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dittorie della piccola produzione, quanto, soprattutto, il fatto che la differenziazione qualitativa tra le tecniche applicate nella piccola e nella grande produzione fa di quest’ultima il polo del progresso tecnico e quindi della produttività intensiva, capitalistica: il censimento del ’95 dava una presenza di macchine nel 2% delle aziende sino a due ettari, ma nel 94,4% delle aziende di cento e più ettari. Un altro fenomeno era l’esistenza tra agricoltura e industria di un’inedita osmosi, ricca di effetti socio-economici su vasta scala: «la trebbiatrice continuerà il suo lavoro rivoluzionario» sia espellendo dalle campagne la forza-lavoro rurale che poi si inurba, sia incentivando ulteriori sviluppi dell’industria delle macchine agricole [Kautsky 1899 c: 41]. Ingenerale è stata appunto l’industria a creare le condizioni tecniche e scienfifiche della nuova agricoltura razionale, e stata precisamente essa a rivoluzionare l’agricoltura per mezzo delle macchine e dei fertilizzanti artificiali, per mezzo del microscopio e del laboratorio chimico, promuovendo così la superiorità tecnica della grande produzione capitalistica sulla piccola produzione contadina. [1899 c: 292]
A suggerire queste tesi non era uno schema di dogmatismo marxista (putacaso l’assioma di una ‘ineluttabilità’ dello sviluppo verso assetti rurali capitalistici e poi macrocapitalistici, dedotta da premesse dottrinarie). Agiva una sobria valutazione di dati, ben presente del resto anche in chi, da parte borghese, scorgeva nel «sistema delle macchine», soprattutto nella sostituzione della forzavapore con i motori elettrici, la molla tecnica per «la trasformazione dell’agricoltura da vecchia manifattura in grande produzione moderna» [Pringsheim 1900:414]. Anche gli agrari di irnprenditorialità borghese vedevano nella saldatura tra industria e agricolturala vera forza propulsiva che avrebbe risollevato le sorti delle campagne. 4.5. Alcuni corollari
La situazione delle classi lavoratrici nel capitalismo sviluppato, l’imperialismo figlio del capitale finanziario,irivoluzionamenti capitalistici dell’agricoltura: per tutte e tre le questioni era decisiva 83
l’ottica con cui si guardavano idati. Pur tanto diversi da quelli su cui aveva lavorato Marx, continuavano a rinviare al quesito di fondo, che cosa cioè se ne potesse desumere circa la fine più o meno prossima del capitalismo. Predominava la convinzione chei dati indicassero tm capitalismo ‘agonizzante’, ‘morente’, in ogni caso in declino. Wilhelm Liebknecht [1900: 3] espresse un’idea diffusa quando disse dell’Ottocento che quel «secolo della borghesia» era «la testimonianza non solo dell’ascesa e dello sviluppo di essa, ma anche della sua caduta e del suo tramonto». Si pensava che la concentrazione del capitale non avrebbe retto — neanche nell’ipotesi puramente teorica del costituirsi di un ‘cartello generale’ mondiale — al contrasto con le classi lavoratrici ch’esso generava. Le vi— cende del legame tra capitale e imperialismo venivano lette come se si trattasse di una fase oltre la quale il capitalismo non poteva andare, di un suo capolinea senza alternative: sebbene il Kautsky degli anni dal 1907 in avanti non ne fosse poi sicurissimo (come vedremo: 7.2, 8.2). La situazione delle campagne, con il ruolo decisivo ivi assegnato alla grande produzione capitalistica, pareva confermare ”ugualmente che tutto era pronto a ribaltarsinel socialismo. A proposito delle macroaziende con masse di braccianti (come era il caso soprattutto nell’oltre Elba), Engels [1894a/08:1234—35], aveva sottolineato che «la trasformazione della conduzione capitalistica in conduzione sociale è qui già del tutto pronta e può esser effettuata dalla notte al mattino», proprio come sarebbe avvenuto per le fabbriche dei magnati dell’acciaio. O insomma per la presa del potere «i latifondi e igrandi feudi costituiscono per noi un appiglio migliore chele piccole proprietà contadine, nella stessa misura in cui nell’industria le grandi fabbriche sono più adatte a ciò delle piccole imprese artigianali» (a Rudolf Meyer, 19 luglio 1893 [OME, L: 1161). Ma anche indipendentemente da Engels l’analogia tra latifondo e grande fabbrica fece sì che sulla «Neue Zeit» del 1883-1912 quasi due terzi delle analisi agrarie riguardassero le grandi aziende e il loro proletariato agricolo: peraltro molto più stratificato di quello di fabbrica perché oltre ai salariati giornalieri privi di tutela giuridica, esso a est dell’Elba comprendeva ancora figure feudali come i servi di masseria, o semifeudali come gli Instleute, contadini a contratto semestrale pagati in natura. 84
Le premesse del socialismo parevano esserci ovunque, nell’industria come nell’agricoltura: Aumento del proletariato, della concentrazione del capitale e della so— vraproduzione, sono questi gli elementi che spingono verso il socialismo [...]. Se il numero dei proletari diminuisce, se ilcapitale non giunge al dominio della produzione, se ilmercato è capace di un’espansione indànita, che ne è allora del sodalismo? su
Lo scriveva Kautsky [1899 d: I] contro Bernstein che proprio quelle contro-ipotesi insisteva. Altrettale era l’allarme della
Luxemburg [1899/SL: 70-71]: «il socialismo cessa di essere ob— biettx'vamente necessanb» se si ammette «che lo sviluppo capitalistico non procede verso la propria fine». Se i cartelli, le sodetà azionarie, il sistema creditizio, cioè le forme che caratterizzano il capitalismo moderno, sono altresì strumenti in grado di evitare un crollo del sistema capitalistico, di mantenerlo in vita, di eliminarne dunque le contraddizioni, [...] allora il sodalismo cessa di essere una necessità storica ed è tutto ciò che si vuole, ma non una conseguenza dello sviluppo materiale della società. [Luxemburg 1899/SL: 72-73]
A parte la diffidenza verso ifatti che qui traspariva, la paura ch’essi potessero smentire la teoria, c’era nel discorso una difficoltà di fondo non risolta. Riguardava proprio il nesso tra lo «sviluppo materiale della società» e l’idea di socialismo, un collegamento che come disegno complessivo non riuscì né alla Seconda Internazionale né alla socialdemocrazia tedesca. A nessuno nell’SPD — né ai teorici kautskiani di ‘centro’, né alla cosiddetta ‘destra revisioni— sta’, né al gruppo che con la Luxemburg prefigurò quella ‘sinistra radicale’ che sfocerà poi nel partito comunista — riuscì l'operazione essenziale: cioè una teoria dello ‘sviluppo materiale’ che di questo correlasse tuttiifattori e aspetti. Forse nessun periodo della storia del movimento operaio co— nobbe una maggiore ricchezza di analisi socio—economiche settoriali. Esse finirono regolarmente per fare da supporto a tesi che proclamavano come decisivo non l’insieme degli aspetti rilevati, bensì l’uno o l’altro aspetto particolare, assolutizzato di volta in volta a unica forza propulsiva. Ognuna delle tesi amava bollare la tesi opposta di tradimento ‘opportunistico-riformista’ (come si di-
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ceva da sinistra) o di ‘dogmatismo’ (come si diceva da destra). ]]
clima accusatorio si impregnò di acredini moralistiche: le quali continueranno con vigore nel periodo terzinternazionalista, quando di regola si bollerà retrospettivamente l’intera Seconda Internazionale come un covo di ‘rinnegati’ e ‘opportunisti’, scientemente dediti a sabotare il socialismo.
Di solito nelle critiche e anticritiche, a considerare ognuna per sé, qualcosa di vero c’era: proprio perché ognrma metteva in luce l’unilateralità della tesi opposta. Era facile contestare che le società azionarie celebrate da Bernstein fossero quel grande esempio di capillare diffusione di capitale e proprietà che l’autore riteneva: e ciò perché «la crescita del numero degli azionisti non dimostra che cresce ilnumero dei possidenti, ma solamente che nella società capitalistica la forma azionaria diventa sempre più la forma dominante del possesso» [Kautsky 1899: 100]. E presumere che un più alto numero di piccoli azionisti potesse esercitare un'influenza determinante sugli scopi d’impiego del capitale nominalmente frazionato sarebbe, in buona sostanza, come credere che a stabilire le
forme d’investimento del capitale bancario fosse la massa dei piccoli risparmiatori [Kautsky 1899 e: 472-771. D’altra parte i tanti che Bernstein chiamava ‘abbienti’ perché possessori di azioni, l’incremento numerico delle piccole imprese industriali, il moltiplicarsi delle piccole aziende rurali erano reali dati di fatto. Persino a concedere che non modificassero sostanzialmente la tendenza verso la grande concentrazione capitalistica, essi mostravano un ceto medioche si sentiva legato soggettivamente alle sorti del capitale, non del proletariato, e l’esistenza di un indotto economico funzionale direttamente o indirettamente al grande capitale che loalimentava. La rete dell’indotto fungeva ancheda serbatoio di consenso, in pratica divoti, racchiudeva cioè una forte sostanza ideologica la cui presenza nonera dicerto esorcizzabilecol cancellare quei fatti dal novero delle realtà che contano. Lo si vide in particolare nella questione agraria, la quale venne alla ribalta nel partito per l’insistenza dei socialdemocratici della Baviera, terra di piccola e media proprietà contadina. Sostenevano con il deputato al Reichstag e ‘revisionista’ Georg Vollmar che «non dobbiamo presentarci a mani vuote alla popolazione agrico— la, ma offrire tm sostegno autentico ai suoi interessi» (così il suo intervento al congresso di Francoforte del ’94 [P-Franlrfurt 1894: 86
146]).Ifautori di una politica per ipiccoli e medicontadini potevano richiamarsi persino all’autorità di Engels, owero alla sua re— gola tattica che «più grande è il numero dei contadini a cui noi risparmiarno l’effettiva proletarizzazione e che possiamo conquistare già come contadini, e più rapidamente e facilmente si attuerà la trasformazione della sodetà» [Engels 1894 a/OS:1232]. Engels pensava a un’azione del partito per associare ipiccoli e medi pro-
prietari in cooperative, le quali ai vantaggi della grande produzio-
ne avrebbero unito il carattere non capitalistico della conduzione. Tra i ‘revisionisti’ bemsteiniani in sintonia con quel che scriveva l’economista e socialista liberale Oppenheimer [1896] — l’i-
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dea delle cooperative agricole ebbe notevole circolazione, ma non riuscì a entrare nel programma agrario del partito. Continuò a prevalere la tesi di Kautsky [1899 c: 318], cioè che «la socialdemo— crazia non può tutelare interessi proletari che ostacolano lo sviluppo sociale». In altre parole: poiché la strada dello «sviluppo sociale» è la «proletarizzazione», non la si intralci, si lasciche le classi a essa destinate la percorrano sino in fondo. Delle cooperative agricole, o anche di altre cooperative di piccoli produttori, si riparli semmai in una futura epoca socialista, perché nell’attuale contesto esse altro non diventerebbero che un oggettivo supporto del capitalismo: così Kautsky ancora nella Questione agraria, in passi all’epoca molto lodati da Lenin [1899/OL, IV: 97, 100; 1900/OL, IV: 121-221. Tutto ciò avrebbe avuto poca importanza se nella tendenza degli ‘ortodossi’ a espungere dal quadro generale ifatti che con esso non combaciavano, e dei ‘revisionisti’ a celebrare quei fatti come totalmente superiori al contesto, si fosse trattato soltanto di un’ac— cademica sordità alla ‘dialettica’ plurivoca dei fatti reali, al loro essere un insieme non rigido ma storicamente mutevole. Il guaio, a puntuale rivalsa della prassi su teorie indurire, fu che gli effetti incrociati delle cristallizzate unilateralità teoriche privarono la socialdemocrazia di una politica propositiva nei confronti sia dei contadini che del ceto medio. Più tardi, grazie anche a teorizzazioni più duttili che riusciranno a Kautsky, si arriverà a qualche correzione di rotta e & tentare il recupero di una possibilità di alleanze con quegli strati sociali. Ma il tempo si rivelò scaduto. Non si poté, quando già s’avvicinavano inembi della grande guerra, im— provvisare ciò che non era stato fatto prima. 87
Ancora nelleelezioni del 1912 si continuò a pagare l’assenza di una politica agraria socialista. Non arrivarono frutti nemmeno la dove si era concentrata la maggiore propaganda, cioè tra il proletariato agricolo.Imagri tre seggi (su 110) che provennero da circoscrizioni rurali il partito non li conquistò con il bracciantato dei latifondi prussiani, bensì con l’elettorato dei dintorni delle città, composto di contadini che erano anche operai stagionali di
fabbrica.
Nota bibliografica 4.1. Su migrazione interna, urbanizzazione e movimenti demografici: Kuczynski [1983: 176-205], Steitz [1985: 475-533]. Le tendenze di sviluppo della Germania dal 1890: Craig [1978/1983, I: 245-366], Merker [1993: 325-531, Dorpalen [1988: 238-307, sulla storiografia della ex DDR in proposito]. Sul nomadismo proletario: H. Braun [1886], Ostwald [1900]. Sulle migrazioni stagionali: Karski [1901, i lavoratori polacchi] , M. Grunwald [1907]. L’industrializzazione in Germania: Holthaus [1980]. La vita quotidiana dei lavoratori: Kuczynski [1971], Mfihlberg [1983]. Sull’industria a domicilio: Mehring [1897 a/ 1974, 1: 49-54], Zetterbaum [1902].
4.2. Sulla cartellizzazione: Ierusalimskij [1951/ 1956, I: 4246], Kuczynski [1962; 1983:28-33], Eley [1991a: 83-96]. Isocialistisui monopoli: Vogel [1897, l’industria chimica], Hilferding [1908, le crisi economiche agli inizi del Novecento], Heinig [1912, l’industria elettrotecnica], Kònig [1958, l’SPD sui monopoli sino al congresso di Francoforte]
4.3. Su capitale finanziario ed espansione internazionale dei cartelli: Ierusalimski [1951/ 1956, I: 47-58], K. Grunwald [1975, gli strumenti finanziari della penetrazione tedesca verso l’est]. Sulla ferrovia di Bagdad: Radek [1911], Ierusalimskij [1951/1956, Il. ZOO-20],Manzenreiter [1982]. Sulla presenza militaretedesca nell’impero ottomano: Trumpener [1975]. 88
Sull’imperialismo tedesco prima del 1914: Dorpalen [1988: 271—79, gli studi al riguardo nella ex DDR], Carocci [1989: 11120], Geiss [1991].Isocialisti sull’irnperialismo: Schròder [1973], H-.H Paul [1978], Monteleone [1974], Andreucci [1988, per l’ambito della socialdemocrazia tedesca]; Kraus [1978: 59-128, le concezioni di Kautsky, Hilferding e Lenin]. Su Hilferding: Pietranera [1961], Minoru [1974, bibliografia
degli scritti]. Su Rosa Luxemburg: Paul Fròlich [1939/ 1969], Nettl [1966/ 1970].
4.4. Sulla produttività agricola dopo l’introduzione delle macchinea vapore edelettriche: Bernstein [1893], Bensing [1897], Pringsheim [1900], Kautsky [1901 a] Sul modello americano di agricoltura: Franz [1895; 1901], Eckstein [1912]. Kautsky aveva scritto assai presto [1885 b; 1893 b; 1895 b] sull’anacronismo socio-economico della piccola proprietà contadina. La sua Questione agraria, criticata da David [1899] e altri, venne difesa da Lenin [1900, 1901]. 4.5. Sul proletariato agricolo: Schippel [1891; 1892; 1893], Hofer [1902], O. Braun [1906].Idibattiti della socialdemocrazia tedesca e internazionale sulla questione agraria: Bernstein [1894 a], H. G. Lehmann [1970], Hussain-Tribe [1981]. La questione delle cooperative agricole: in senso kautskiano Parvus [1894], in senso ‘revisionista’ Vandervelde [1908].
Capitolo quinto LA QUESTIONE COLONIALE
5.1. Le colonie e ilproletariato
Arthur Rosenberg, comunista eterodosso degli anni di Weimar, nella sua Storia della repubblica tedesca redatta durante l’emigrazione antifascista cosi descrisse l’SPD di prima del 1914: Ilfunzionario medio sodaldemocratico non ebbe mai alcun reale in— per i problemi della politica estera, del militarismo, della scuola, della giustizia, dell’economia in generale e in particolare per la questione agraria. Egli non pensò mai che sarebbe venuto il giorno in cui tutti quesu' problemi sarebbero diventati di decisiva importanza per la socialdemocrazia e si occupò soltanto di ciò che si riferiva in senso stretto agli interessi professionali e corporativi dell’operaio industriale. [Rosmberg teresse
1935/1972: 13]
Ilpasso, spesso citato, non convince. Ditutti quei temi la stampa socialdemocratica era zeppa, dalla «Neue Zeit» al «Vorwiirts», il quotidiano del partito, sino ad autorevoli giornali regionali come la «Leipziger Volkszeitung», la «Bremer Biirger-Zeitung», lo «Hamburger Echo». La politica estera o ‘politica mondiale’ come ormai si diceva percependone l’ampiezza, campeggiò in almeno tre congressi Magonza (1900), Essen (1907) e Chemnitz (1912) — oltreché via via negli appelli agli elettori per le elezioni del Reichstag. Al tempo delle elezioni del 1907 ilpaese stava vivendo un’euforia colonialista. Corpi di spedizione erano appena venuti a capo della grande rivolta arabo-indigena del 1905-06 nell’Africa orientale tedesca. E nell’Africa tedesca del sudovest dove la lunga in-
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surrezione (1904-07) delle tribù herero e nama—ottentotte era stata stroncata con un vero e proprio genocidio igiacimenti di dia-
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manti e rame scoperti nel 1906 parevano finalmente smentire le
denunce socialdemocratiche dell’improduttività delle colonie (una faccenda di «datteri secchi», secondo il sarcastico Mehring [1906 a]). Intanto però solamente il Togo, la più piccola delle co— lonie africane, aveva un bilancio in pareggio. Le altre campavano con sovvenzioni annuali del Reich al quale, inoltre, la sola repressione delle rivolte era costata 83 ,5 milioni di marchi. Ma la propaganda prometteva l’imminente fiorire di una «truova Germania nell’Africa occidentale» e dividendi per centinaia di milioni di marchi a chi investisse capitali nell’Africa del sudovest [in Steitz 1985: 349-63]. La pubblicistica filogovernativa descriveva le colonie come portatrici di lavoro e benessere per «molti milioni di operai dell’industria», e definiva perciò «il movimento coloniale tedesco una questione nazionale di primissimo rango» [in Fenske 1982: 24647]. Chi ne dubitava, e insieme stigmatizzava (come i socialdemocratici) le atrocità militari nell’Africa del sudovest, diventava automan'camente reo di Reicbsfex'ndlicbkeit, di antinazio— nale ‘ostilità verso il Reicb’. Nelle elezioni del 1907 — elezioni ‘ottentotte’ come le chiamarono i socialisti per il clima di boris nazionalistico-colonialista in cui si svolsero l’SPD perse il 2,7% di voti, con un calo dei seggi (per effetto del ballottaggio) da 81 a 43: il che non lasciava indifferente nessuno, neanche il funzionario medio sodaldemocratico. Più calzante, a questo punto, diventa chiedersi di quali argomenti sulla questione coloniale i militanti disponessero, quali idee potessero desumere dalle copiose informazioni e discussioni che sul tema circolavano nel partito. Itesti canonici del marxismo non soccorrevano affatto. Quel che si leggeva nel Mamfesto («il bisogno di sbocchi sempre più estesi per isuoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre» [OME, VI: 489]) poteva lasciar supporre che le colonie fossero, in fondo, una faccenda puramente borghese. Quanto questa convinzione fosse diffusa tra i lavoratori si può capire da una lettera di Engels del 12 settembre 1882 a Kautsky che gli aveva chiesto che cosa gli operai inglesi pensassero della questione coloniale. Engels rispose: «esattamente quel che ne pensa la borghesia» [Engels 1955: 63]. Infinenel Capitale si denunciavano si gli
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orrori e genocidi del «sistema coloniale», ma nelle forme in cui essi avevano accompagnato «l’aurora dell’era della produzione capitalistiea» [Marx 1867/1989: 813]; e ildiscorso si spostava poi su— bito dai colonizzati ai colonizzatori, «liberi immigrati» che occupano una «terra vergine» [ivi: 827]. Negli anni Ottanta e Novanta Engels toccò la questione coloniale in lettere a Bernstein, Bebel e Kautsky che anche su ciò volevano lumi. Ilsucco delle risposte era che ci si doveva occupare solo di quei problemi coloniali che fossero direttamente connessi, nel senso di favorirla, con la futura rivoluzione proletaria in Occidente (a Bernstein, 22 febbraio 1882 [Bernstein 1970: 31]). Accattivanti scenari sembravano per esempio emergere dal cammino
del capitalismo coloniale che nella sua nuova veste di imperialismo finanziario penetrava in Cina, ultimo grande mercato disponibile e quindi anche «ultima valvola di sicurezza della sovraproduzione» (Engels a Bebel, 18 marzo 1886 [Bebel 1965: 2671): dopo, il capitalismo si sarebbe per forza avvitato su se stesso e avviato verso la propria fine.Iprodotti dell’industria moderna immessi in Cina avrebbero ivi rovinato le vecchie comunità rurali, masse di con— tadini cinesi sarebbero emigrate verso il mercato del lavoro nei paesi capitalistici e vi avrebbero gettato il caos: «È di nuovo la splendida ironia della storia: alla produzione capitalistica rata ancora da conquistare soltanto la Cina, e nel momento in cui final— mente la conquista, rende impossibile se stessa nella propria patria» (Engels a Kautsky, 23 settembre 1894 [OME, L: 3291). La Cina che propizia ilcollasso del capitalismo diventò un’idea fissa, una componente della teoria ortodossa del ‘crollo’ Nella «Neue Zeit» il tema ‘cinese’ fu ricorrente, abbinato con l’interes— se per gli investimenti di capitale in Estremo Oriente. Ne scrissero Kautsky [1886], Cunow [1897 b; 1900 a; 1902], Eckstein [1903] e Mehring [1904 c]. Con la nascita di un capitalismo autoctono in Giappone, poi, che vorrà ovviamente sbarrare la porta ai capitali stranieri, «suonerà per ilcapitalismo europeo l’ora mortale» (così Kautsky in una nota redazionale all’articolo di Cunow del 1897 sull’Asia orientale). La tesi del ‘crollo’ determinato dalla saturazione capitalistica dei paesi arretrati tomò infine, sappiamo (vedi 4.3), nella Luxemburg dell’Accumulazz'one del capitale.
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5.2. Colonie si, colonie no
Ma non doveva allora un socialista affezionato allo scenario del ‘crollo’ gioire di ogni nuova colonia, apprezzare e favorire l’inesorabile proletarizzazione che il capitalismo espansionistica impone ai paesi arretrati? L’ala revisionistica dell’SPD invitò gli ‘ortodossi’ a questa coerenza, nel contempo rarnmentando loro, all’indomani
delle ‘elezioni ottentotte’, che però proprio l’astrattezza di quello schema deterministico ad essi caro aveva impedito l’elaborazione di una politica coloniale in positivo, e provocato infine l’insucces— so elettorale. E se invece non si credeva che il capitalismo sarebbe crollato per mancanza di espansione, o almeno non si credeva a un collasso in tempi brevi? Non vi credevano i‘revisionisti’, e Bernstein già prima dei suoi Presupposti aveva espresso la convinzione che la società borghese è ancora capace di un’espansione considerevole, e [..] all’interno di questa sodetà la produzione e gli affari potrebbero vivere diverse trasformazioni prima ch’essa ‘crolli’ completamente. [Bernstein [1898: 551]
Neanche in tal caso sarebbe stata però procrastinabile una politica coloniale in positivo; anzi, dati i tempi lunghi in gioco, diventava vieppiù necessario spiegare che cosa i colonizzatori stessero a fare nei territori oltremare occupati con violenza o raggiri, e quale fosse li, in definitiva, la funzione della cosiddetta ‘civiltà europea’ Che si trattasse di un’encomiabile opera umanitaria lo leggeva— no gli operai sulla stampa d’mtrattenimento. Da quando «il cinque luglio 1884 ilvessillo tedesco furasato nel Togo», terra senza leggi e dall’«ordinamento statuale a infimo livello», tutto è cambiato; adesso itedeschi, missionari di cultura» e portatori di «una nuova vita», mitigano le barbarie della faida, appianano le ostilità interuibali, stroncano il commercio degli schiavi, e da «sciamani bianchi» si conquistano l’animo della gente: così osannava [Anonimo 1889] un articolo della «Gartenlaube», «Il bersò», un perio— dico vagamente liberaleggiante e di grande diffusione popolare. Gustav Frenssen nel suo fortunatissimo romanzo La spedizione di Peter Moore verso ilsudovest (1906), venduto in mezzo milione di 93
copie, magnificava la repressione nell’Africa sudoccidentale come un’opera dinobile civilizzazione. E tutta nel segno della civiltà (oltreché come base del futuro grande «impero tropicale» tedesco destinato a durare «per secoli») verrà presentata la colonizzazione dell’Africa orientale negli scritti dell’artefice di essa, l’awenturiero Carl Peters [1912].
La critica socialista puntò, si capisce, anche contro la gestione delle colonie da parte di simili personaggi. Nell’opuscolo Sodalisrno epolitica coloniale Kautsky denunciava ilfatto che «tuttalafeccia, tutta la gente che in Europa non è buona a nulla, è invece ritenuta idonea a civilizzare iselvaggi»; e si appellava invece al «metodo della civilizzazione pacifica» affidata a veri «maestri» che trasformino gli indigeni «da sudditi timidi, scontrosi e ostili in amici lieti e fiduciosi» [Kautsky 1907/1977: 135]. Eil pragmatico Bebel nonaveva forse affermato, al congresso di Essen, che condurre una politica coloniale «non è di per sé un delitto, potendo essa, in determinate circostanze, essere un’attività civilizzatrice», e che dunque importava «soltanto come la si conduce» [P-Essen 1907:272]? Da parte di Kautsky e Bebel si trattò del tentativo di acquietare il diverbio sulla questione coloniale scoppiato tra la sinistra e l’ala riformista nei due congressi del 1907, del partito a Essen e dell’Internazionale a Stoccarda. In quest’ultimo la sinistra — con ilpolacco Karski (cioè Marchlewski) e i tedeschi Ledebour e Wurm, amico della Luxemburg aveva chiesto l’abolizione pura e semplice delle colonie, perché a nessun popolo è lecito opprimere un altro. I‘revisionisti’ (tra cui David e Bernstein, e l’olandese Van Ko], un ingegnere che aveva lavorato a Giava) pensavano invece a riforme in favore di indigeni tutelati da un diritto coloniale internazionale, e ciò perché l"idea colonizzatrice’ come spiegava David— non pareva disgiungibile dall’obiettivo universale di civiltà perseguito dal movimento socialista Bernstein aveva postoilproblema già un decennio prima. Inun articolo sulla «Neue Zeit» aveva chiamato una «sopravvivenza di romanticismo» il ritenere che ogni lotta di popolazioni indigene contro i colonizzatori fosse di per sé una salutare lotta di ‘emancipazione’; e aveva invitato ad andar piano con l’assunto che isocialisti dovessero in ogni caso «prestare aiuto ai selvaggi nelle loro lotte contro l’avanzare della civiltà capitalistica»: perché allora bi—
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sognerebbe anche prestarlo alle tribù africane in difesa di quel loro ‘diritto’ al commercio degli schiavi «che può esser impedito soltanto dalle nazioni europee civili» [Bernstein 1896: 109-10]. Analoga convinzione verrà da lui espressa sia nei Presupposti («si può riconoscere soltanto un diritto condizionato dei selvaggi su territori da essi occupati», avendo «la civiltà superiore qui, in ultima analisi, anche un diritto superiore» [Bernstein 1899/1974: 218]), sia sui «Sozialistische Monatshefte» nell’articolo Ilsocialismo e la questione coloniale [1900 a]. David, a Stoccarda, fu polemicamente provocatorio verso la sinistra: volete restituire le colo— nie agli indigeni? ebbene, allora in quei territori vedrete uionfare la barbarie. Nella diatriba giocavano principi di filosofia della storia. Lo scontro fu tra chi pensava che dell’evoluzione socio—economica non si potesse saltare nessuna tappa e che le condizioni del maturare del socialismo nascessero dalle fasi mature e sviluppate dell’economia capitalistica (compresa quindi la colonizzazione e l’introduzione del capitalismo nei territori d’oltremare), e chi invece, come la sinistra, ipotizzava per i paesi coloniali o comunque arretrati un’emancipazione che non passasse necessariamente attra— verso l’affermarsi in essi del capitalismo. Intutta l’Internazionale la convinzione più diffusa era la prima, sostanzialmente una filosofia della storia in continuità con le idee liberal-democratiche e illuministiche sul progresso. Lo testimo— niano ad es. le posizioni di Labriola. A metà degli anni Ottanta, alla vigilia del suo passaggio dal democraticismo radicale al socialismo, aveva dato una risposta emblematica (riferita da Croce [1918: 60-61]) a uno studente che gli chiedeva lumi su come «educare moralmente un papuano». «Provvisoriamente», spiegò, «lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vede— re se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra». La storia deve insomma compiere il suo corso. Quindici anni dopo, per il Labriola ormai socialista, era legge della storia che comunque «il sistema capitalisti— co-borghese deve pervadere ed investire l’orbe terraqueo»: ragion per cui egli ribadiva di non soffrire di «anticolonite cronica, che in alcuni diventa cretinismo organico» [Labriola 1900/1970: 462]. Anche la mediazione tentata nell’SPD da Kautsky, e incentrata
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sull’appello neoilluminisu'co a un’opera di ‘educazione’ verso ipopoli primitivi, partiva dalla convinzione — ispirata comunque da considerazioni oggettive, non moralistiche che di fronte alla civiltà capitalistico-borghese ilsistema di vita precapitalistico di popolazioni arretrate non aveva prospettiva. «Non vince l’uomo mi gliere, il più forte, il più intelligente, ma il sistema di produzione più elevato», aveva constatato [1885 c: 113] in una sua lunga analisi della situazione degli indiani d’America: ovvero appartiene all’ineluttabile avanzare della storia che un sistema economico superiore si faccia strada a spese di assetti socio—economici arcaici. A parte rare eccezioni — come appunto l’articolo sugli aborigeni americani dove affioravano riferimenti etnografici la discus— sione sul destino delle aree precapitalistiche fu una tipica querelle allemande grondante di chiose intorno a passi marxiani e di filosofemi sull’inevitabilità o meno che la sequenza degli stadi di sviluppo toccasse a tutti ipopoli e paesi. Forse sarebbe approdata a qualcosa di più se neldibattito sulle colonie vi fosse stata una presenza reale dell’oggetto. Ma il partito non aveva una conoscenza diretta nemmeno dei possedimenti colonialitedeschi. Utilizzava le informazioni ufficiali, e nessuno si era mai recato oltremare per inchieste sul campo. Del resto non aveva sortito risultati apprezzabili neanche la ri-' soluzione sulla questione coloniale adottata nel 1900 dal congresso di Parigi ddl’lntemazionale. Vi si diceva che occorreva fare «quanto necessario per formare nelle colonie partiti socialisti che mantengano uno stretto collegamento con la madrepatria, e per rendere più saldi i rapporti tra i partiti socialisti delle diverse colonie» [C-Paris 1900: 26]: e fu un’istanza comunque importantis— sima come segnale di internazionalismo. Ma nei territori di più lunga tradizione coloniale, cioè nell’Indonesia olandese e nell’In— dia britannica, nacque poi tutt’al più qualche embrione di orga— nizzazione sindacale. E nel caso dell’SPD la solidarietà verso gli indigeni dell’Africa tedesca non si tradusse mai in contatti con quelle popolazioni. Bebel in un discorso al Reichstag del marzo 1904 aveva espresso bensì comprensione per le ragioni degli herero, ma definendoli un popolo di comunque bassissimo livello di civiltà. Se l’obiettivo era di innalzare quel livello, allora non bastavano certo le pure
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e semplici ricette teoriche, né quella riformistica di un capitalismo coloniale beneficamente regolato, né quella kautskiana di una neoilluministica educazione al progresso. Per un programma che
inserisse positivamente questi principi nella prassi amministrativa delle colonie ci sarebbe voluta una ‘cultura coloniale’ socialista che mancava vistosamente. Contro la ricetta, poi, dell’abbandono delle colonie e dell’autodeterminazione per gli indigeni (di un’«Africa agli africani» parlava la «Leipziger Volkszeitung» nell’aprile 1906) pesarono le obiezioni [Kautsky 1908 a] che nell’Africa tedesca — così enormemente arretrata rispetto, ad es., all’India britannica era la struttura socio—economica arcaica e l’assenza di un ceto medio indigeno a rendere utopistica la possibilità di un auto-
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governo democratico.
Erano dunque finite soltanto in un vicolo cieco le grandi discussioni sulla questione coloniale? Certamente si per quanto ri-
guardava le colonie come oggetto specifico del contendere, dal momento che l’intero problema coloniale venne sostanzialmente rinviato a tempi fixturi, cioè all’avvento più o meno lontanodel socialismo nella madrepatria. Notevoli risultati si ebbero invece su due altri piani, uno di politica immediata el’altro di portata teorica non piccola, sebbene indiretta. NelReichilpartito si mobilitò controifenomeni collaterali più vistosi del colonialismo, cioè il militarismo e il navalismo. Individuò come bersaglio principale, perché più gravido di connotati reazionari, il connubio che in quei fenomeni si manifestava tra il protem'onismo monopolistico e lo junkerismo agrario. Da tempo la parte che vi giocava il colonialismo era stata sottolineata da Kautsky [1898 b], e vi insisté costantemente Mehring. La mobilitazione politico-pratica contro il blocco reazionario fu un risultato immediato della questione coloniale. Dallediscussioni sui temi coloniali scaturì però anche, indirettammte, una conseguenza di portata teorica.Itemi coloniali finirono per stimolare risposte sul tema della transizione alsocialismo. Fu discutendo il nesso tra politica coloniale e interessi dei lavoratori (Bauer [1905], Kautsky [1907 a]) che agli autori balenò l’idea che forse lo stesso capitalismo potesse avere uno sviluppo diverso dal percorso monopolistico di rapina, e che di quest’eventuale variante di cammino si doveva tener conto. L’ipotesi di un possibile capitalismo non monopolistico influenzò poi l’intera questione di 97
come uscire in senso socialista dall’assetto capitalistico (vedi 7.12), nonché, infine, il problema della guerra (vedi 8.2).
5.3. Colonialisrno e questione nazionale
Nella cultura demografica dell’epoca, borghese o socialista ch’essa fosse, circolava l’idea, di comune radice antimalthusiana, che la vitalità di una nazione e la crescita della sua popolazione fossero cose del tutto sinonime. Corollario ne era che all’espandersi della popolazione occorressero spazi. Gli economisti e demografi liberal-nazionali (ad es. Schmoller) sottolineavano che nell’espam sione si manifesta un’intrinseca positiva forza nazionale dei ‘popoli di cultura’ capaci, «nel sentimento della propria forza, di estendersi, allargare i confini, sottomettere paesi stranieri, farsi largo con migrazioni, conquista, colonizzazione, emigrazione» [Schmoller 1900: 172]. Quei popoli sono le mazioni forti e sane, in ascesa» [ivi: 182]: come appmto la Germania, chiamata a «un cospicuo deflusso di popolazione possibilmente verso le proprie colonie» [ivi: 187]. Anche nell’Internazionale socialista c’era chi guardava le cose Né si trattava soltanto di ‘revisionisti’ come Van quest'ottica. in congresso di Stoccarda definì le colonie uno sbocco naKol, che al turale per la «sovrapopolazione in Europa». Labriola, ad es., non si poteva accusare di ‘revisionismo’ Eppure anche lui aveva detto a inizio di secolo che «da noi si protesta sempre contro le espansioni, mentre mandiamo in tutto il mondo le forze vive dei nostri lavoratori in servizio del capitale straniero» [Labriola 1901/1970: 473]. E il 13 aprile 1902, intervistato sulle mire coloniali italiane su Tripoli, darà di esse una versione ‘socialista’, imperniata sulla poh'tùa della popolazione, per cui l’Italia anziché vedere disperse le sue energie demografiche in tutte le parti del mondo, [...] possa invece sta— bilmente trasferirle in una regione non lontana come la Tripolitania, dove [...] ilavoratori [...] non sarebbero più emigrati, una volta che andrebbero a popolare una nuova patria [labriola 1902/1970: 498-991
Ancor meno sospettabile di ‘revisionismo’ era Engels. Epperò sulla colonizzazione dell’Eritrea, un decennio prima, aveva preso 98
un’analoga posizione a proposito di una lettera di Labriola pubblicata dal Messaggero del 15 marzo 1890. Scrivendo il 30 marzo a Pasquale Martignetti, il socialista beneventano traduttore di suoi scritti, Engels osservava, richiamando tra l’altro il capitolo sulla ‘teoria della colonizzazione moderna’ nel Capitale marxiana, che dal governo italiano occorreva esigere, come voleva anche Labriola, ch’essa nelle colonie assegni la proprietà della terra da coltivare'in proprio ai piccoli contadini, e non a singoli monopolistio a società [.]. Noi socialisti possiamo quindi appoggiare in piena coscienza l’introduzione della piccola proprietà contadina nelle colonie già fondate [...], anche esigendo dal governo l’assicurazione che icontadini emigrati nelle colonie abbiano gli stessi vantaggi che essi cercano e, in genere, trovano a Buenos Aires. [OME, XLVlII: 392]
Un insediamento coloniale di questo tipo riuscì (ma in scarsissima misura) unicamente all’Olanda, grazie però soprattutto allo statuto di autonomia delle isole di Giava e Madura che non dipendevano direttamente dalla madrepatria: nei quali territori però —- pur ispirandosi Van Kol proprio a quell’esperienza nei suoi interventi al congresso di Stoccarda — i65.000 europei residenti del 1905 costituivano comunque solo lo 0,2% della popolazione. Nelle colonie italiane e tedesche, magnificate come grandi sbocchi per la ‘popolazione eccedente’, le cifre degli europei erano risibili. La colonizzazione italiana dell’Eritrea era parsa a un certo punto addirittura ‘socialista’ perché l’iniziale progetto governativo aveva limitato le concessioni di terra a trenta ettari per famiglia e impedito così la formazione di latifondi. Ma dal ’93 al ’96 vi era arrivata soltanto una trentina di famiglie rurali, e anche in seguito gli insediamenti restarono magri. Difronte a ciò stavano oltre 412.000 ettari indemaniati: cioè quasi due terzi della superficie coltivabile semplicemente strappati agli eritrei, un furto dissennato, fonte di
endemiche rivolte indigene. Nelle colonie tedesche non andava meglio. Delle settantotto maggiori società che nel 1908vi promuovevano attività economiche, solo cinque operavano per insediare coloni nell’Africa del sudovest, col misero risultato che itedeschi, toltiimilitari e compreso il personale amministrativo, nonvi superarono mai le quattromila persone. Aveva insomma ragione Liebknecht a dire già in un discorso 99
parlamentare del 20 giugno 1899 che, se positiva sembrava una politica coloniale che, in altra epoca, «ha creato insediamenti umani in interi continenti come l'America e l’Australia, conquistandoli al progresso umano e alla civiltà», per una tale politica «i tempi sono ormai passati» [S-Reichstag 1899: 2707]. Nella diatriba sull’utilità demografica della colonizzazione si erano scontrati sulla «Neue Zeit» sin dagli anni Ottanta Kautsky e l’africanista Ewald Paul [1883]. A costui, che difendeva le colonie come sbocco per l’emigrazione, Kautsky [1883 a] aveva mosso un’obiezione di fondo: soprattutto per la Germania nessuna ‘colonia di lavoro', ovvero di insediamento ex novo per emigrati, avrebbe ammortizzato le altissime spese (che perciò sarebbe stato più proficuo devolvere all’innalzamento del tenore di vita della popolazione metropolitana); e se dunque restava soltanto la più realistica alternativa di creare ‘colonie di sfruttamento’, ovvero di «rendere schiave intere popolazioni a vantaggio di pochi», ciò non poteva esser di certo una mira socialdemocratica. Quel che, a differenza che nei «tempi passati» evocati da Liebknecht, veniva adesso emergendo con le ‘colonie di sfrutta— mento’ era l’esistenza di un nesso oggettivo tra questione coloniale e questione nazionale. Nonerano forse ‘nazioni’, in un certo senso, gli herero e nama dell’Africa del sudovest derubati della loro terra? 0 non lo erano forse gli eritrei nei cui confronti non reggeva nemmeno l’assioma della civiltà inferiore? Qui come all’indomani di un viaggio d’inchiesta del ’91 balenò al deputato liberale Ferdinando Martini, futuro primo governatore civile (1898) della colonia si trattava «non di tribù selvagge e idolatre, bensì di un popolo cristiano da secoli, la cui compagine politica è secolare» [in Del Boca 1976: 455]. È ovvio che in linea generale erano vincolanti per isocialisti i criteri espressi da Engels a Kautsky già indue letteredel 7 febbraio e 12 settembre 1882: ovvero che «un movimento internazionale del proletariato è possibile soltanto tra nazioni indipendenti» [Engels 1955:51], e che dunque «ilproletariatovittorioso non può imporre la felicità a nessun popolo senza perciò minare la sua stessa vittoria» [ivi: 63]. Molto più problematico si rivelò, abbiamo appena visto, stabilire se nelle terre coloniali esistessero ‘nazioni’, che cosa ivi fossero le ‘nazioni’ e illoro l'urello di sviluppo, o anzi a quali parametri (alla cultura europeo—industriale o a qualcosa di al-
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tro?) quello sviluppo andasse commisurato, e a quale storia futuraesse potessero quindi aspirare (conilrompicapo, dunque, se dovessero passare 0 no attraverso la fase capitalistica). Quando confessava a Engels i’ll maggio 1882 che tutto era tanto difficile per-
ché, «credo,inostri princìpi valgono incondizionatamente soltanper i popoli del nostro ambito di civiltà» [Engels 1955: 56] Kautskyesprimeva una preoccupazione di non poco conto. Certo è che nei fautori socialisti della politica coloniale giocò un fortissimo ruolola convinzione dell’incondizionata superiorità etico--civile dei paesi industriali borghesi. Labriola ad es. riteneva che la gara conquistatrice delle colonie, oltre a esser di vantaggio ai lavoratori perché andrebbero a popolare quelle terre, è comunque «cempre legittima là dove non sono nazionalità vitali» [Labriola 1897/1970:433]. Equivaleva a dire, con sofisma eurocentrico, che le popolazioni che si lasciavano colonizzare non erano vitali proprio perché venivano colonizzare, e che dunque la colonizzazione sarebbe stata un bene anche per loro perché le avrebbe vitalizzate e perché il papuano avrebbe ricevuto finalmente un’educazione morale: dopodiché mancava però (come pure presso i camarades d’Allemagne di affine orientamento) quel che invece sarebbe stato necessario, owero progetti e disegni concreti di un’amministrazione coloniale ‘socialista’. Tutto ciò (e fu molto) che la socialdemocrazia riusci a produrre sulla questione nazionale riguardò in effettii‘popoli di cultura’, le nazioni acculturate come le si intendeva allora, cioè diradici storiche europee. Si può discutere se ciò non sia dipeso da una lacu— na nel pensiero di Engels: owero dall’esser mancato— nell’Engels pur autore dell’Origine dellafamiglia, della proprieta‘ privata e dello Stato, nell’Engels pur ricchissimo di notazionisui precapitalistici popoli primitivi— un trasferimento di queste notazioni dal piano storico-etnologico a quello politico moderno. Restailfatto del— l’orizzonte sostanzialmente eurocentrico, misurato sulla civiltà capitalistica, entro cui nelsocialismo secondintemazionalista si svolsero le discussioni su nazione e nazionalità. L’unico vero dibattito su una questione che si rivelò chiaramente nazionale, epperò nel contempo concerneva un ambito coloniale, riguardò i contrasti anglo-boeri in Sudafrica, culminati nella guerra del 1899-1902. Ma significativamente vi era in gioco un rapporto non tra colonizza— tori e colonizzati, bensi tra due nazioni ugualmente colonizzatrici.
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Si sa quanto a fine Ottocento incise sull’opinione pubblica tedesca la frenesia filoboera alimentata dal governo in funzione antibritannica. La pubblicistica insisteva sul ‘vincolo di stirpe’ con i boeri (come fece ad es. il giurista di idee vò'lkiscb, etna-populiste, Gerstenhauer [1899]), e si diffondeva sulla forte presenza nel Transvaal anche di coloni tedeschi, iquali effettivamente, assommando al 27 % del mezzo milione di bianchi ivi insediati, erano l’unico cospicuo nucleo di tedeschi in terre coloniali (ma non in una colonia del Reich, a scemo della propaganda sulla ‘Nuova Germania’ in terra d’Africa). E di quella gente legata alla terra veniva magnificata soprattutto la presunta superiorità morale sul popolo di mercanti della perfida Albione. A un certo punto — con il famoso telegramma che nel febbraio del ’96 Guglielmo IIspedì a Kriiger, presidente della repubblica boera del Transvaal, di congratulazioni per la sua resistenza antibritannica — aveva persino preso forma l’avventuroso progetto di una sorta di protettorato tedesco su quello Stato. Il disegno svanì perché Kriiger, pur apprezzando ilsupporto diplomatico, nonvoile fanti di marina del Reid; a casa sua; e, soprattutto, perché la flotta tedesca non era ancora attrezzata a uno scontro in mare con l’Inghilterra. L’umiliazione di aver dovuto segnare il passo ridiede fiato ai fautori del riarmo navale, rincuorati dalla promessa dell’imperatore al segretario di Stato agli esteri Biilow,nell’ottobre 1899,che «quando laflotta sarà pronta,io parlerò un’altro linguaggio» [inIerusalimskij 1951/1956, Il: 244]. Comunque sin dall’inizio della guerra anglo-boera ilsostegno ai ‘fratelli di sangue’ non fu affidato soltanto alla propaganda della ‘Lega pantedesca’ animata dalcolonialista Peters. Più di un piroscafo tedesco sospettato di contrabbandodi armi venne fermato in mare da navi da guerra inglesi, e in Germania la cosa diedeulteriore esca alle invettive antibritanniche. La discussione socialista sulla ‘nazione’ boera fu influenzata da questo contesto, nel senso che non mancarono nell’SPD le posizionifiloboere, sostenute dalla sinistra. Avevano però motivazioniben diverse dagli orpelli ideologiciguglielmini. Si inserivano in un discorso generale sulle nazioni che non le considerava come organi— smi biologico-naturali in senso vitalistico, né dunque governate da ascese anime dei popoli e della razza, quelle di cui neisuoi Fondamentideldia'annovesimo secolo parlava l’oriundo inglese e naturalizzato tedesco Chamberlain [1899], genero di Richard Wagner.I 102
socialisti le consideravano anzitutto come compagini storico—sociologiche. Sicché era alla storia passata di esse e alle prospettive di quella futura che andavano commisurate le analisi sulla loro ‘vitalità’. E qui però si ripresentava in pieno ilnodo teorico, — cioè quali connotati concreti e specifici dovesse avere l’idea di nazione.
Nota bibliografica 5.1. Le colonie tedesche: Schinzinger [1984, la loro scarsa redditività]; Sudholt [1975] e Drechsler [1984] sulla politica verso gli indigeni e le rivolte. I capitali tedeschi in Cina: Ierusalimskii [1951/1956, Il: 3-82], SChrecker [1971].
5.2. Sull’ideologia colonialista: Biittner—Loth [1981]. Sulla questione coloniale nell’SPD: Andreucci [1988]. 5.3. Sui coloniitalianiin Eritrea: Del Boca [1976: 479, 517-18, 520, 614].
Gli attriti anglo-tedeschi in Sudafrica: Bixler [1932], Ierusalimskij [1951/1956, I: 117-70, gli insediamenti tedesco—boeri nel Transvaal].
Capitolo sesto
QUESTIONE NAZIONALE E QUESTIONE EBRAICA
6.1. ‘Nazioni senza storia’ e principio di nazionalità.
Chi tra i socialisti parlava in favore della nazione boera, si fa— ceva paladino di una nazione piccola, a prescindere dalla collocazione geografica coloniale di essa. E qui le posizioni non combaciavano più con la tradizione soprattutto engelsiana, di un Engels convinto che la liberazione del proletariato potesse realizzarsi soltanto nelle ‘grandi nazioni storiche’, e che perciò solo queste fossero compagini storicamente vitali. piccole nazionalità, tagliate fuori dal processo di assorbimento in grandi compagini omoge— nee, gli parevano un ricettacolo di arretratezza sociale e reazione politica, fonte di intralci per il movimento operaio. Lo ribadirà in una lettera del 22-25 febbraio 1882 a Bernstein, a proposito delle simpatie dei socialdemocratici tedeschi (e di Bernstein stesso, all’epoca) perle guerriglie di popolo nella Bosnia-Erzegovina occupata quattro anni prima dall’Austria con un vero e proprio colpo di mano colonialista in piena Europa. Diceva di essersi liberato da un pezzo della simpatia per tutte le nazionalità «oppresse», inizialmente nutrita da lui come da tutti «nella misura in cui siamo passati attraverso il liberalismo». Se in nome di un’indipendenza concepita come diritto al furto di bestiame e a rapine «qualche erzegovino vuole innescare una guerra mondialeche costerebbe mil— le volte più uomini di quanti popolano l’intera Erzegovina, ciò nul— la ha a che fare con la politica del proletariato». E concludeva dichiarando «anacronistica l’esistenza di questi popoli primitivi in mezzo all’Europa» [Bernstein 1970: 80-83]. Isocialisti ne trassero lezione. All’epoca della guerra angloboera Bernstein [1901 b] spiegò che con la loro economia arretra-
Le
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ta, in parte ancora schiavista, gli
Afii/eaander erano fuori del cam-
mino della storia. E sull’oggettività delle leggi storiche richiamò l’attenzione Labriola [1901 a/ 1968: 343] chiedendosi nel suo corso di filosofia della storia del 1901all’ateneo romano che cosa fosse mai «questa guerra del Transwaal, questo ultimo atto di resistenza dei costumi e delle libertà endemiche contro l’universali— smo inglese, quest’ultima obiezione armata delvillano contro ilcapitale invadente». La risposta era implicita: si trattava di una battaglia di retroguardia che il boero, il «buri» (che «vuol dire villano», precisava Labriola) conduce contro il corso della storia.
Eppure c’era un’altra faccia della questione, dove la filosofia della storia e dei grandi nessi serviva a poco. L’erzegovino razziatore o il ‘burivillano’, fuori dalla strada maestra della storia finché si vuole, non perciò sentivano il vincolo della loro erzegovinità e boerità meno di quanto awertisse la propria nazionalità un tedesco o un inglese. Per iboeri lo sottolineò Kautsky [1900 b: 587], cogliendo la cosa come un dato di fatto, da valutare senza schemi dottrinari. Ciò indica per un verso l’elasticità con cui, di fronte a inediti dati di fatto, si riuscì nella socialdemocrazia a ridimensionare la tradizione marxiana (o in questo caso engelsiana) a proposito della questione nazionale; e inoltre conferma quanti stimoli venissero all’impostazione del problema nazionale dalla questione coloniale, e nella fattispecie dall’intuizione, nata a Kautsky riguardo ai boeri, su come l’idea di nazionalità e di indipendenza nazionale fosse ben forte anche in paesi che pur venivano considerati fuori della storia perché agrari e precapitalistici. Itedeschi potevano del resto constatare proprio a casa loro come popolazioni rurali ‘arretrate’, quando venivano conglobate in uno Stato più sviluppato epperò nazionalmente allotrio, gli si opponessero precisamente in nome del principio di nazionalità. Lo si vide a partire dagli anni Ottanta nelle due province polacche della Prussia, la Posnania e la Prussia occidentale. Friedrich Ratzel, teorico di una variante razzista della geopolitica, segnalò nel 1901 come «massimo pericolo» per la Germania la «migrazione dell’est verso l’ovest», e per bloccarla propose un’unione economica a egemonia tedesca di tutti gli Stati «a ovest della Vistola» [in Schultz 1991: 56]. Anche per i liberal-nazionali, ad es. per Schmoller [1900: 147]. «la penetrazione di certe razze inferiori, al giorno d’oggi ad esempio quella dei cinesi in America e degli sla105
vi nella Germania orientale, resta un pericolo per il modo di vive— re,icostumi e il tipo razziale delle razze superiori, soprattutto se l’afflusso di sangue estraneo è troppo forte». L’«afflusso di sangue estraneo» stava nel fatto che in quelle due province della Prussia itedeschi erano in minoranza, in Posnania settecentomila nel 1880 contro un milione di polacchi.Iquali continuavano a crescere perché altri connazionali, attirati dal miraggio di migliori possibilità di lavoro, immigravano dalle terre polacche di dominio russo e austriaco; mentre la contemporanea grande migrazione interna (vedi 4.1.) verso le aree industriali della Renania assottigliava il numero dei tedeschi. Le contromisure governative erano state drastiche, culminando nella soppressione
della lingua polacca anche nell’insegnamento della religione, e nell’istituzione di un ‘fondo di insediamento’, gestito da banche e ‘società di colonizzazione interna’, a favore di ‘contadini e operai tedeschi’ per l’acquisto di poderi polacchi. Irisultati pratici della ‘colonizzazione interna’ furono scarsi, ma assolutamente devastanti le loro ripercussioni sui rapporti tra le due nazionalità. Degradati e discriminati, i polacchi delle due province trovarono laloro coesione nel principio della comune nazionalità, saldato a quello della comune religione cattolica. Diventò una coesione interclassista, palese nell’ondata degli scioperi scolastici del 1901-07 (di eco internazionale imba'razzantissima per la Germania) contro la soppressione del polacco nell’insegnarnento della religione.Iguasti della Polenpolitik musso-tedesca vencostantemente nero denunciati dalla «Neue Zeit»; e nel Reichstag da Ledebour, l’esperto sodaldemocratico per le minoranze nazio— nali. Ma intanto proprio la difesa cheipolacchi facevano della loro nazionalità smentiva la tesi che le nazioni arretrate fossero prive di vitalità perché retroguardie della storia. Urge-va perciò tro— vare risposte che affrancassero la questione nazionale dagli sche— mi soprattutto engelsiani. In Engels aveva agito la riduzione della nazionalità a nazione— Stato, con in primo piano le grandi nazioni di attuale o ricostituibile forte statualità. Ancora nel ‘66 un principio di nazionalità diverso dalla statualità gli pareva «un’assurdità, rivestita di panni popolari, per gettare polvere negli occhi dei sempliciotti» [1866/ OME, XX. 158]. Certo, tra le nazioni grandi aveva incluso anche 106
la Polonia. Ma unicamente perché ciò serviva alla lotta socialista contro il dispotismo zarista. Privatamente aveva confidato a Marx in una lettera del 23 maggio 1851 che «non si può indicare un solo momento in cui la Polonia abbia rappresentato con successo il progresso, anche contro la stessa Russia, 0 che abbia fatto qualcosa d’importanza storica» [OME, XXXVIII: 290]. E la mancanza di vitalità sarebbe dimostrata dal fatto che mentre «un quarto della Polonia parla lituano, un quarto ruteno, una piccola parte una specie di russo, e la parte propriamente polacca è germanizzata per un buon terzo», non è invece mai avvenuto l’inverso, owero la Polonia «non ha mai saputo nazionalizzare elementi stranieri», mai assimilarli [ihid.]. Del resto sin dai tempi del Manifesto l’intero tema della questione nazionale si era trovato retrocesso in Marx ed Engels a un rango del tutto secondario rispetto all’unica istanza essenziale, la liberazione sociale del proletariato, tranne nei casi in cui la que— stione nazionale poteva venir funzionalizzata a un obiettivo dilotta socio-politica proletaria (ad es. come arma antizarista nel caso polacco). Al di là di ciò, Engels anche in seguito parlerà della questione nazionale con un sostanziale fastidio. L’acuirsi di essa in Austria gli parve essenzialmente una faccenda delle «classi dominan— ti dei vari territori della Corona», una «cieca disputa di nazionalità» (a Victor Adler, 26 giugno 1891 [OME, IL: 122]), solamente un contrasto «dei vari nobili e borghesi tra loro» (ad Adler, 11ottobre 1893 [OME, L: 151]). E del problema nazionale che più direttamente toccava la Germania, quello dell’Alsazia-Lorena, ci si doveva occupare soltanto perché quel pomo della discordia poteva innescare una guerra tra Francia e Germania, cioè una sciagura per il proletariato di entrambiipaesi. Engels certo non ne traeva stimoli per ricerche teoriche sulla questione nazionale, perché ogni buon socialista doveva pur sapere che «una questione alsa— ziana—lorenese infine non esisterebbe tra una Francia e una Germania entrambe socialiste» (a Bebel, 24-26 ottobre 1891 [OME, D..: 194]). Le più significative tra leelaborazioni socialdemocratiche, pur convinte che ilvero scioglimento anche del problema nazionale si sarebbe avuto unicamente nella società socialista, non sospesero però il giudizio in attesa di tale lontano futuro. 107
6.2. Che cosa è una nazione?
Le analisi migliori provennero dalla socialdemocrazia di area tedesca. Le fornirono Kautsky e gli austromarxisti Renner e Otto
Bauer. Ilcammino di Kautsky, da quando nell’87 scrisse per la «Neue Zeit» il saggio La nazionalita‘ moderna, fu quello di un confronto critico con le posizioni di Engels. Conveniva con Engels che la forma classica dello Stato moderno fosse la nazione-Stato, e che per una società civile di piccola nazionalità etnico—linguistica, etero— glotta rispetto a una vicina nazione più grande, è economicamente vantaggioso confluire in quest’ultima e parlarne la lingua… Le Iin— gue nazionali di piccolo ambito «saranno sempre più riservate all’uso domestico e anche allora tenderanno a svolgere una funzione di vecchio mobile di famiglia conservato con venerazione, ma privo ormai di una vera utilità pratica» [Kautsky 1887/1982:135]. Eppure il discepolo sembrò avvertire che in questo schema economicistico (engelsiana) qualcosa non funzionava, che il presunto tacitarsi delle piccole aree etnico-linguistiche dentro la pur più vantaggiosa grande unità statuale alloglotta non era scontato. Cosa dire infatti di fronte all’innegabile realtà di sentimenti nazionali che si prolungavano vivacemente dal passato nel presente, quasi come «una forza motrice che agisce in modo indipendente, senza nessi con lo sviluppo economico, in alcuni casi anzi di ostacolo a esso» [Kautsky 1887/1982: 134]? La conclusione - di fatto ‘revisionistica’ perché riapriva tutto il problema — fu che «non è giunta ancora a compimento né la formazione degli Stati nazionali, né quella delle stesse nazioni» [ivi: 133]:dove non più la ristretta idea di nazione-Stato conduceva qui il gioco, bensì appunto quella più articolata e plurivoca di ‘nazionalità’ La lezione era venuta al praghese Kautsky dalla sua patria d’origine, lo Stato asburgico plurinazionale (e multilingue). È con l’occhio a quella realtà che Kautsky intervenne nel ’96 sul caso polacco. Constatando ilfallimento sia della germanizzazione che della russificazione della Polonia, dunque la fallacia del «preteso legame ‘organico’ della Polonia con i suoi vicini», rilevò (diversamente da Engels) quanta forza vi avesse invece il principio di nazionalità che si esprime nella comunità linguistica. Quest’ultima costituisce il «legame più solido nella lotta pratica», tanto che in 108
ognuno dei tre tronconi statuali della Polonia (quello russo, germanico e asburgico) persino i socialisti hanno più legami con i «compagni polacchi» che con i «compagni non polacchi» [Kautsky 1896 b/1982: 139]. Sulla natura di un sentimento così forte da oscurare financo I’internazionalismo di classe c’era dunque da in-
terrogarsi dawèro: visto soprattutto che a seconda di quel che sulla questione nazionale diceva la teoria variavano poi le ricette po—
litico-pratiche. Inparticolare su quest’ultime aveva riflettuto Renner nella quarantina di pagine del suo Stato e nazione del febbraio 1899, alla vigilia del congresso di Briìnn della socialdemocrazia austriaca. Pubblicato con lo pseudonimo di ‘Synopticus’ [Renner 1899],1’0puscolo conteneva sì qualche eco dei filosofemi speculativi idealistici (soprattutto di Fichte e Wilhelm von Humboldt) sul ‘mistero della nazionalità’; ma vi agivano anche influenze del pensiero costituzionalistico liberale e soprattutto, mutuata dal giurista e so— ciologo austriaco Gumplowicz, l’idea che il miglior connotato distintivo della nazionalità è quello linguistico—culturale, basato sulla ‘lingua d’uso’ che una nazionalità parla. La nazionalità non è dunque legata a un territorio; e la via d’uscita dal groviglio dei con— flitti nazionali nell’impero asburgico era per Renner [1899: 19-20] il «principio di personalità» linguistico-culturale, principio che fondamentalmente costituisce la nazione e in base al quale occorre riconoscere a ogni cittadino, ovunque egli risieda, il diritto di scegliere la propria nazionalità di appartenenza . Ilprogramma di Brùnn si esercitò pertanto in ingegnerie costi— tuzionali. Si pronunciò per la trasformazione dell’Austria «in uno Stato federale democratico delle nazionalità» dove non vige nessuna lingua di Stato, ma «un parlamento dell’impero stabilirà in quale misura sia necessaria una lingua generale di comunicazione»;e dove «in luogo dei territori storici della Corona verranno creati corpi di autogestione delimitati nazionalmente, la cui legislazione e amministrazione sarà opera di camere nazionali a suffragio universale e diretto» [C-Bri'rnn 1899: 104]. Era un faticoso compromesso tra il federalismo territoriale e l’idea della nazionalità come qualcosa di extraterritoriale e ‘personale' Anche in seguito, in due scritti del 1901-02 pubblicati con lo pseudonimo di Rudolf Springer, Renner demandò la soluzione della ‘questione austriaca’ a un costruendo nuovo «sistema di rap109
presentanza degli interessi» [Renner 1901],da basare però sempre sul principio che «la nazionalità non ha un rapporto essenziale con il territorio, ma è un legame autonomo di persone», inteso come un «sistema di autonomie nazionali» essenzialmente culturali [Renner 1902: 15]: la nazione, insomma, «è un’unione di persone che pensano nello stesso modo e parlano nello stesso modo, una comunità culturale di gruppi di contemporanei non legata alla ‘ter— ra’» [ivi: 35]. E in seguito, pur ritenendo pienamente attuabile quel «puro principio di personalità» soltanto «in un assetto sociadove non esistono proprietariprivati», egli rileverà però la necessità di «ripiegare su misure più realizzabili entro ilcontesto dello Stato al fine di proteggere le nazionalità» [Renner 1908: 164]. Ciò significava che la questione nazionale si apriva verso un revisionismo pragmatico di adattamento ai contesti nazionali differenziati e concreti; ma anche ch’essa si liberava dal dogma secon— do cui nella futura società sodalista le particolarità nazionali (adesso viste come essenzialmente culturali) si sarebbero indebolite e alla fine estinte. La revisione di quel dogma aveva costituito il punto d’appro— do, nel 1907, del celebre libro La questione delle nazionalità e la socialdemocrazia dell’allora venticinquenne Otto Bauer: un’opera cresciutain a 576 affascinanti pagine dopo l'iniziale modesta intenzione, comunicata a Kautsky il 26 gennaio 1906, di voler sernplicemente scrivere «qualche articolo o un opuscolo sui grattacapi nazionali» [IISG, NK, KD II: 472]. La società socialista — questa la tesi non comporterà affatto un appiattimento delle differenziazioni nazionali: '
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Le nazioni saranno unite nel comune dominio della natura, ma l’in-' sieme è articolato in comunità nazionali, ognuna chiamata a uno sviluppo autonomo della propria cultura nazionale e a un libero godimento di essa: questo è ilprincipio nazionale del sodalismo. [Bauer 1907/0BW,I: 570]
La nazione ha infatti peculiarità strutturalmente più profonde di quelle di qualunque classe sociale. La classe imprime ai propri membri una «comunanza di carattere» dovuta al fatto ch’essi cooperano tra loro secondo una «regolamentazione esterna», imposta da un assetto transeunte della società. La nazione è invece una comunanza di carattere che nasce 110
da una più duratura «comunanza di destino», owero da una plurisecolare sorte storica che la totalità dei membri ha condiviso e che sulla loro coscienza collettiva si è impressa «attraverso una co— stante interrelazione e azione reciproca tra individui» [Bauer 1907/0BW,I: 172]. Sono rapporti nei quali il patrimonio biologi— co naturale s’intreccia con la prodrm'one di determinati beni culturali e la loro trasmissione ai discendenti mediante l’educazione, il costume, il diritto e la dinamica delle interrelazioni umane [..] Se dunque consideriamo la nazione una volta come comunità di natura e un’altra volta come comunità di cultura, non fissiamo affatto due cause diverse che determinano il carattere dell’uomo, bensì due mezzi diversi tramite cui sul carattere dei discendenti agisce la causa unitaria, owero le condizioni entro cui iprogenitori hanno condotto la lotta per l’esistenza. [1907/0BW, ]: 90-91]
Il rilievo dato alla compresenza dei fattori sia naturali che culturali e sociali dentro l’ambito della «lotta per l’esistenza» riflette il modoin cui Bauer rileggeva la concezione materialistica della storia. Del resto — così nella prefazione alla Nationalitrîtenfrage [1907/OBM I: 49] egli intendeva «verificare in un campo nuovo», quello dei problemi nazionali, precisamente il «metodo mandano dell’indagine sociale»: ma deputato dalle incrostazioni economicistiche, deterministico-positivistiche, e integrato con stimoli di neokantismo. «All’epoca ero sotto l’incantesimo della filosofia di Immanuel Kant», racconterà nella prefazione alla seconda edizione [Bauer 1924/0BW, I: 53]; ma proprio quegli stimoli lo aiutarono a meglio valutare gli aspetti di autonomia della coscien— za (in questo caso quella nazionale), cioè intanto a sfuggire alla ri— duzione di essa vuoi a epifenomeno di una mera matrice economica, vuoi a immediata espressione delvecchio ‘principio di territorialità’ Non gli piacque perciò il quesito, aprioristico, se fosse maggiormente determinante laclasse o la nazionalità. Gli parve «ozioso chiedersi se la comunità di carattere della classe sia più intensa della comunità di carattere nazionale,o viceversa», perché «per misurare l’intensità di simili comunità manca un criterio oggettivo» [1907/0BW, 1:71]: nel scarso che, semmai, un criterio funzionale può scaturire solo, di volta in volta, dai contesti storici specifici. L’impostazione insieme socio-antropologica e storico-culturale ri-
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dimensionò il ‘principio di territorialità’ da elemento indispensabile per l'esistenza di una nazionalità a connotato secondario, diventando invece primario l’elemento culturale. È ovvio che Bauer apprezzasse dunque l’ingegneria costituzionale delle autonomie culturali proposta dall’amico Renner. Perché non tentare, scriveva, una specie di «catasto nazionale» non legato ai confini territoriali delle nazionalità, il quale conferisca ai membri di esse, ovunque si trovino, lo status di una «corporazione di diritto pubblico» analogo a quello delle comunità religiose [1907/0BW, I.404]? Il veicolo di trasmissione sia dei valori culturali che di quelli connessi alla produzione e riproduzione dei beni materiali è in— dubbiamente la lingua della nazionalità. Ma anche del linguaggio Bauer diede, come della nazione, una spiegazione fimzionalistica, non sostanzialistica. Esso «è niente di più che uno strumento dell’azione reciproca» tra uomini in comunità, sebbene «sempre e ovunque uno strumento indispensabile» [1907/0BW,I. 187].Certamente «senza comunanza di linguaggio non c’è nemmeno una comunità di cultura, quindi neanche una nazione» [ivi: 191]: ma nel senso che la lingua è soltanto uno tra imolti indizi ‘nazionali’, non sufficiente se isolato dagli altri. Nella prefazione alla seconda edizione del libro tornerà a ribadire [1924/0BW, I. 61-66] le sue idee sulla ‘comunità linguistica’ avendo proprio esse, già all’indomani della Nanbnalità‘tenfrage, incontrato il dissenso di Kautsky. Nell’opuscolo Nazzbnalità e intemazzbnalz'tà Kautsky accusava Bauer di non aver tenuto «alcun conto della lingua come caratte— ristica decisiva della nazione» [Kautsky 1908 b / 1973: 114]; e insisteva invece sulla lingua come il più reale carattere nazionale immediatamente individuabile. Ma l’insistenza sulla tangibile immediatezza naturale, per così dire ‘materialistica’, del connotato linguistico poco aiutava a rispondere al quesito sollevato da Bauer [1907/0BW, I: 69]: È la comunanza di lingua che unifica in nazione gli uomini? Eppure inglesi e irlandesi, danesi e norvegesi, serbi e croati parlano la stessa lingua, ma non perciò sono un unico popolo; gli ebrei non hanno una lingua comune, eppure sono malgrado ciò una nazione.
Bauer proprio perciò - come sulla «Neue Zeit» aveva subito ri-
sposto a Kautsky nelle Osservazioni sulla questione delle mazzotta-
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lità postulava la necessità che si guardasse alla comunità linguistica come a una sorta di «‘forma fenomenica’ di formazioni sociali più complesse che, come direbbe Marx, ‘stanno dietro’ e in questa ‘vengono ad apparire’, ossia ne rendono possibile, esse soltanto, la comprensione» [Bauer 1908: 795]. Si può discutere se di queste «formazioni sociali più complesse» - cioè la produzione e riproduzione della vita materiale e spirituale entro la plurivoca storia di un ‘destino comune’ — Bauer abbia dato una ricostruzione convincente. L’impostazione di metodo, espressa nel concetto euristico di «comunità di destino», ebbe in ogni caso ilmerito di sciogliersi dall’apriorismo dei principi monocausali e di aprirsi a un’ampia gamma di cause convergenti e interagenti. Del resto - e qui sta il punto interessante — in Nazionalità e internazionah'ta‘ lo stesso Kautky ammise, tra le righe, che in determinati contesti storici (ma allora perché, si potrebbe osservare contro quel Kautsky, non optare esplicitamente per la pluralità delle concause storiche che dai contesti emergono?) l’estensione della ‘comunità di cultura’ nazionale (ma allora non forse analoga in ciò alla baueriana ‘comunità di destino?) è più ampia della sem— plice comunità linguistica territoriale. Infine: se Kautsky nella risposta a Bauer del 1908 voleva adottare per la questione nazionale un concetto di cultura che fosse nazionale nella forma e internazionale (cioè socialista) nel contenuto, non è che Bauer, pur accentuando di più l’elemento nazionale, avesse battuto una strada molto diversa. Aveva pensato semplicemente che l’apertura internazionalista dovesse presupporre una finalmente compiuta ap-
propriazione della cultura nazionale da parte delle classi lavoratrici. La meta era comunque l’internazionalismo [Bauer 1907/0BW, I: 622]. Il confronto delle rispettive posizioni sembra insomma suggerire che tra Bauer e Kautsky, pur nelle evidenti diversità di accento, esisteva alla fin fine una convergenza di fondo più sostanziale di quanto entrambi ritenessero.
6.3. Ilrisveglio delle ‘aazionisenza storia’ In Austria il progetto socialista dei diritti delle nazionalità era stato concepito per un’evoluzione giuridico-culturale di lungo pe— 113
riodo, la quale avvenisse entro favorevoli condizioni di democrazia parlamentare. Con la sua Natzbnalità‘tenfiage Bauer si era poi proposto, in particolare, un doppio scopo politico: di persuadere le due grandi nazionalità storiche della monarchia asburgica, itedeschi e i magiari, che le insopprimibili istanze di uguaglianza avanzate dalle nazionalità slave si sarebbero potute soddisfare solo con una riforma di fondo dell’esistente; e di ammonire però gli slavi — quasi in analogia alla lettera di Engels a Bernstein del 1882 sulla questione bosniaca che puntare per la soluzione dei loro problemi su una deflagrazione generale, su una guerra europea, sarebbe stato un disastro per tutti. Tra il 1905 e il 1907 le novità sia internazionali che austriache erano sembrate promettenti per una politica di integrazione delle nazionalità. Gli effetti della rivoluzione del 1905 in Russia avrebbero, si confidava, sottratto le nazionalità slave “senza storia’ alla lunga mano del panslavismo russo reazionario. In Austria il suffragio universale maschile, varato nel gennaio 1907,aveva fatto diventare in maggio la socialdemocrazia, con oltre un milione di vo— ti, ilsecondo partito nella Camera dei deputati, il ramo elettivo del Reicbsrat. Parevano aprirsi tempi ltmghi di democrazia parlamentare, imigliori per affrontare in una prospettiva di buone riforme pragmatiche anche la questione nazionale. La storia nonli concesse. InRussia lo scioglimento della Duma (1907) affossò gli esiti parlamentari della rivoluzione. Nella mo'narchia asburgica il 1908 vide tumulti contro la nazionalità tedesca in tutta la Boemia; e in ottobre non solo naufragò in Ungheria l’ipotesi del suffragio universale (considerato dalle classi dominanti magiare uno strumento di cui avrebbero approfittato le minoranze slave), ma contemporaneamente l’annessione della Bosnia—Erzegovina alla Corona riaccese micce nella polveriera balcanica. Nel 1909la scissione separatista dei sindacati cechi dal granbo dell’unità sindacale inferse un grave colpo alla struttura fede— rale, plurinazionale e unitaria della socialdemocrazia austriaca. Nelle ‘nazioni senza storia’ della fascia slava, dalla Polonia ai Balcani, la questione nazionale rappresentava per molti versi un’altra faccia della questione sociale. Sul mercato della forza-lavoro il proletario polacco dell’oltre Elba prussiano e il lavoratore ceco a Vienna erano destinati a uno sfruttamento maggiore e a un salario minore rispetto agli operai tedeschi.Iquali, forti di robu-
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ste organizzazioni sindacali e di una più alta acculturazione, vedevano nel polacco e nel ceco uno sgradito concorrente che con le sue ‘minori pretese’ minacciava il loro posto di lavoro. E per quel
che riguardava gli slavi balcanici, dopo l’indipendenza elargita lo-
ro dai calcoli dinastici del Congresso di Berlino del 1878, la pen-
tola del risveglio nazionale esplose verso sogni nazionalistici di ‘Grande Serbia’ e ‘Grande Bulgaria’, che quelle nazioni, prive di basi strutturali autoctone, potevano accarezzare solamente se beneficiavano del sostegno zarista. Dunque pericolosi sciovinismi nei risvegli nazionali balcanici; poiirrequiete minoranze slave nell’impero asburgico, e nazionalità oppresse in Russia, alle quali tutte cominciò a sorridere un’inedi— ta parola d’ordine disgregatrice, quella del diritto delle nazioni all’autodeterminazione; infine, come se non bastasse, la stessa solidarietà di classe tra lavoratori minata in Austria e Germania da contrasti etnico-sociali: di fronte al potenziarsi a vicenda di tutti questi fattori le risposte improntate ai tempi lunghi dell’educazione democratico—culturale divennero anacronistiche nel giro di mesi. Bauer, descrivendo nella Nationalitfitenfrage il «risveglio delle nazioni senza storia» come uno dei fenomeni cruciali dell’evoluzione economica e sociale moderna, ne aveva intuito il potenziale dirompente. Più tardi dirà che nell’inverno 1908-09, col venir meno di «tutte le speranze in una rivoluzione dall'alto che risolvesse ilproblema austroungarico delle nazionalità» [Bauer 1924/0BW, I: 51], la corsa verso l’esplosione era diventata inarrestabile. Icompromessi di Briinn tra principio territoriale e principio ‘personale’ erano sembrati un’ipotesi utilizzabile anche per inuovi Stati balcanici nei quali — come Engels [1866/0ME, XX. 159] icasticamente descriveva l’Europa orientale un millennio di in— vasioni asiatiche aveva lasciato «dietro di sé quel mucchietto di macerie di nazioni mescolate tra loro, che ancor oggi gli stessi etnologi riescono a stento a decifrare, e in cui il turco, il magiaro, il finnico, il rumeno, l’ebreo e una dozzina drea di stirpi slave sono mescolate in un’immensa confusione». Ma di una cauta navigazione pragmatica tra territorialità e autonomia ‘personale’ non sapevano che farsene le nazioni balcaniche bruscamente risvegliate e tese subito a vigorosi arrotondamenti territoriali. Ai socialisti balcanici bisognava dunque indicare almeno una strategia che evitasse guerre fratricide. Lo tentò
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Kautsky in fitti carteggi con dirigenti slavi meridionali; nonché in un articolo del dicembre 1908, ai bulgari, sui «compiti nazionali dei socialisti tra gli slavi balcanici» [Kautsky 1908 c / 1986]. ]] pro— getto basilare di Briinn soccorreva ancora, adesso però in versio-
ne decisamente territoriale, con una repubblica federativa delle nazioni balcaniche come obiettivo. Di positivo c’era che si prendevano qui le mosse dalla realtà dei nazionalismi non per esorcizzarli in nome di un internazionalismo aprioristico, ma per trovare
strade alla solidarietà socialista internazionale dentro il contesto delle situazioni nazionali. In generale la Seconda Internazionale soffrì della mancata elaborazione di strumenti epistemici duttili, di moduli concettuali adatti a uno sperimentalismo pragmatico (vedi 2.3; 3.3). Le ricerche di Kautsky e degli austromarxisti sui problemi nazionali costituirono un’eccezione, avvantaggiata probabilmente dalla circo— stanza che in quel campo il ‘marxismo’ era meno codificato che in altri. La costituirono almeno nel senso di aver quei teorici esplicitamente tentato di modellareicriteri sui fatti e nonviceversa, ilche consentì di avere meno remore nel riprendere il discorso da capo quando un’ipotesi teorica si rivelava impraticabile perché con— \ traddetta dalla durezza delle cose. Tragicamente impigliata in apriorismi rimase invece la sinistra dell’Internazionale. Fu il caso di Pannekoek e del dirigente della socialdemocrazia boema Joseph Strasser, entrambi concordi, ancora praticamente alla vigilia della grande guerra, nel ritenere le nazioni un prodotto esclusivamente dello «sviluppo economico» e il loro mantenimento «un’utopia reazionaria» [Strasser 1912/1982: 182], la quale nel futuro economico socialista si sarebbe dissolta come neve al sole [Panneltoek 1912/1982: 190].Aver esorcizzato il concetto di ‘nazione’ asserendone semplicemente la negatività assiologica rese alla sinistra enormemente più sconcertante gli eventi del 1914, così carichi di fanatismi nazionali. Fu il destino anche di Rosa Luxemburg, pur più analitica e attenta nelle sue considerazioni sulla questione nazionale. Delincudo il programma di Briinn un apprezzabile tentativo di risolvere il problema praticamente e «non con una formula metafisica» [1908/SL: 265], aveva polemizzato contro la parola d’ordine del «diritto delle nazioni all’autodeterminazione» lanciata dal partito sodaldemocratico russo perch’essa avrebbe portato, con la polve-
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rizzazione dei grandi Stati plurinazionali, a un regresso reazionario «dallivello di grande capitalismo a quello dei piccoli Stati me-
dievali» [ivi: 291]. Ma queste considerazioni erano poi incastonate in una filippica contro ogni e qualsiasi proclamazione sia dei «diritti nazionali» che dei «diritti dell’uomo e del cittadino» sanciti con la Rivoluzio— ne francese, gli unie gli altri una semplice «retorica metafisica» [ivi: 273], una cattiva astrazione borghese. Le nazioni in quanto tali sono trascurabili epifenomeni, esistono legittimamente solo le «classi con interessi e ‘diritti’ antagonistici» [ivi: 297]: e dunque la socialdemocrazia tradisce «la sua vocazione più vera» se in qualsivoglia forma si occupa di diritti nazionali [ivi: 314]. Nell’agosto del ’14 la ‘nazione’, dottrinariamente rimossa, si rivelò più dura degli ‘interessi di classe’ Vale per tutta la sinistra ultrainternazionalista quel che della Luxemburg disse il suo biografo: cioè ch’ella, in quell’agosto, «ebbe la sensazione che tutta una parte della sua con— cezione filosofica fosse andata in pezzi» [Nettl 1966/1970,Il:443]. 6.4. la questione ebraica
Le teorie austromarxiste sulla nazione potevano funzionare an— che per la questione ebraica: cioè riguardo a genti che come sottolineava Bauer in un passo già ricordato «sonouna nazione» comunque, ancorché prive di territorialità perché sparse-tra nazionalità eterogenee, e persino prive di una lingua comune perché la loro lingua è di regola quella dei cosiddetti ‘popoli ospitanti’ L’uso dello yiddish, l’idioma ebraico di origini medievali esistente in Europa, diminuiva di regola in proporzione alla crescita delle condizioni minime di inseribilità degli ebrei nella società ci— vile ‘ospitante’ Nel 1890 pressoché tuttii370.000 ebrei censiti in Prussia risultavano di lingua madre tedesca, mentre esattamente l’inverso succedeva in Russia, dove nel censimento del ’97 il 97% degli ebrei si dichiarò di lingua yùldiltb poiché la persistenza dell’idioma era qui dovuta a fattori esterni, alla barrieramaterialedelle mura dei ghetti e alla coesione tra perseguitati creata dai pogrom antisemiti che nella Russia meridionale, tra il 1881 e il 1903-05, gettarono nel terrore e nell’esilio centinaia di migliaia di persone. Alla mancanza di territorio e lingua suppliva l’identità cultura-
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le ancorata nella religione, nonché negli usi e costumi codificati dal talmud, la raccolta dei tradizionali precetti soprattutto giuridici; e anche per inon credenti esisteva la coscienza di un’affinità di de— stino modellata da una plurisecolare storia di vicissitudini comuni a un popolo discriminato e perseguitato. Ma quali prospettive aveva, in mezzo a eterogenei ‘popoli ospitanti’, una nazionalità priva di territorio e lingua? Sarebbe andata verso un’integrazione nella società ospitante, eventualmente con una perdita dell’identità culturale o viceversa con forme di mantenimento di essa? Oppure, tutt’al contrario, si doveva mirare alla non assimilazione e alla separatezza, a una in sé conchiusa identità pura, e al limite a una purezza di sangue e di razza? Era un quesito che a fine Ottocento coinvolgeva in Russia oltre cinque milioni e mezzo di ebrei (il 4% della popolazione), nel— la monarchia asburgica quasi due milioni (il 4,5%), in Germania oltre mezzo milione (un po’ più dell’l%). Ovunque il dato costante era stato, dal Settecento illuministico in poi, l’aspirazione degli ebrei a una parità di diritti civili e politici che facilitasse l’as— similazione: ostacolata in Russia da centinaia di leggi discriminative, possibile invece in Austria e in Germania dove gli ostacoli giuridici formali erano caduti sin dagli anni Sessanta dell’Ottocento. Soprattutto in Germania l’integrazione si accompagnò a una
veloce assimilazione della cultura della nazione ospitante, a una laicizzazionedella coscienza sociale ebraica, a una contrazione del— lo yiddish e delle pratiche cultuali che, come il riposo del sabato, avevano determinato per secoli una cesura tra le attività economiche degli ebrei e dei non ebrei. Per qualità delle merci, dei servizi e delle tecniche di vendita (creazione dei grandi magazzini negli anni Ottanta, uso della pubblicità, vendite per catalogo) le relazioni tra commercianti ebrei e consumatori non ebrei divennero bilateralmente vantaggiose. Altrettanto significativa fu l’attività dei grandi imprenditori ebrei che immisero dinamismo e spirito d’iniziativa nel capitalismo tedesco il quale probabilmente non avrebbe avuto, altrimenti, isuoi stupefacenti sviluppi. L’inserimento nella società civile sembrava dunque fattual— mente riuscito, spesso pure con il mantenimento dell’identità religiosa. A] di là della parificazione giuridica si ebbero anche attestati pubblici dell’integrazione. Non c’era soltanto la spregiudicatezza di Bismarck al quale ifornitori militari ebrei servivano e che per118
ciò magnificava l’utilità per la Germania di un incontro tra lo «stallone tedesco» e la «giumenta ebrea». Il titolo di Kommerzienrat, l’ambita onorificenza di ‘consigliere di commercio’ che veniva conferita a persone di spicco della vita economica, toccò per circa il 20% a ebrei. E che in un’ottica di sviluppo delle forze produttive capitalistiche, e dunque a vantaggio della nazione, «l’ebreo, se non esistesse, bisognerebbe inventarlo», era ad es. un’emblemati— ca convinzione di Sombart [1903/ 1919: 112] che pur non aveva per gli ebrei nessuna simpatia. Che cosa significò allora il virulento antisemitismo ideologico che dagli anni Ottanta in poi inondò l’intera area tedesca? Esso di— ventò una bussola per la ‘Lega pantedesca’ nata nel 1890; nonché per due formazioni di massa di destra fondate nel ’93, la ‘Lega degli agricoltori’ con quasi trecentomila piccoli e medi contadini, e l"Associazione tedesco—nazionale dei commessi di commercio’ di circa centomila aderenti. Un partito politico di antisemitismo pro— grammatico, il ‘Partito popolare antisemita’, crebbe nel giro di tre anni (1890-93) da cinque a sedici deputati al Reichstag ; al Ra's/nsrat austriaco del ’91 erano dichiaratamente antisemiti tredici dei trentasette deputati della Bassa Austria; e dal 1897 al 1910 fu sindaco di Vienna l’antisemita (oltreché fondatore del partito cristiano-sociale austriaco) Karl Lueger, che significativamente verrà ce— lebrato da Hitler [1925/1941: 59] come «il più possente borgomastro tedesco di tuttii tempi». Nella Germania postrmitaria già con Adolf Stoecker — un predicatore di corte evangelico che nel 1878 fondò a contraltare del— la socialdemocrazia un partito ‘cristiano sociale’ del piccolo ceto medio era subentrato al tradizionale antisemitismo d’impronta religiosa un antisemitismo a spettro ideologico-politico più inquietante. Non più soltanto anticristiani sono igiudei, ma - come dirà Stoecker in un discorso del ’79 di vastissima eco — è all’intima «essenza germanica» ch’essi, corpo estraneo e non integrabile, oppongono il loro «tetragono sernitismo». ]] termine ‘antisemitismo’ in accezione politica ampia, coniato intorno all’80 dal pubblicista arnburghe'se Marr, circolò rapidamente grazie ai Quaderni antisemiti di costui, ed entrò nelle sigle di movimenti e partiti di destra. Nell’89 il ‘Partito antisemita tedesco-sociale’ utilizzò nel suo programma di fondazione un concetto etnico-razziale della nazione nel quale all’assioma della na-
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tura bio-fisica di essa si aggiunse una professione di fede
che pospirito: e e sangue razza di religione, l’unità di di di stulava dove il ‘sangue’ era quello germanico e lo ‘spirito’ quello cristiano. In nome di quest’ideologia il fronte dei conservatori collegò con successo tre bersagli: il giudaismo perché corpo razzialmente inquinatore, il liberalismo perché bassamente cosmopolitico nella sua affermazione di transnazionali diritti umani universali, e la socialdemocrazia perché propagandava un aberrante internazionalismo pregno di rivoluzione sociale. «Ebrei, liberalismo, socialdemocrazia» era la triade dei nemici mortalidescritta dal pubblicista conservatore Langbehn nel libro Rembrandt come educatore (1890) che ebbe in un anno trenta edizioni, con 60.000 copie vendute. Tanto peggio, si capisce, se un ebreo era anche liberale. Contro i Loewe, industriali di simpatie liberali di sinistra, il preside di ginnasio Ahlwardt, leader dal '90 del ‘Partito popolare antisemita’, scatenò nel ’92 l’accusa, per lui finita male, in tribunale, di fabbricare a sabotaggio della Germania fucili difettosi (i cosiddetti ‘schioppi giudaici’). Più accattivanti per la subcultura deilettori di ceto medio, perché sorrette da una dozzinale filosofia della storia, furono le correlazioni tra antiliberalismo e antigiudaismo razziale che Chamberlain, non a caso elogiato dal lettore di ceto medio Hitler [1925/ 1941. 296], istituì nei suoi Fondamenti del diciannovesimo secolo. Ebraismo e liberalismo sono da respingere a pari titolo perch’essi esaltano l’arbitrio individuale egoistico: ilquale è una «rap— presentazione tipicamente giudaica» [Chamberlain 1899: 243], mascherata da ingannevole universalismo giusnaturalistico in quella «carta straccia parlamentare» che è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 [ivi: 337]. Contro l’antinazionalismo liberale e l’internazionalismo sodalista livellatore inuovi princìpi-guida dovevano perciò essere «la coscienza della razza e il sentimento nazionale, nonché la gelosa conservazione dei diritti della personalità» [ivi: 684]: ma della «personalità» improntata appunto ai valori razziali, dunque anzitutto quella dei tedeschi, appartenenti «a quel gruppo di genti massimamente dotate che sono gli ariani» [ivi: 503]. A minacciar— li non è soltanto l’ebreo bio-fisico, perché anche «tutto ciò che procede dallo spirito giudaico corrode e corrompe il meglio che v’è in noi» [ivi: 935]. Infatti «non occorre possedere un autentico 120
naso ittita per essere ebrei [...]; si può diventare rapidamente ebrei anche senza essere israeliti; a qualcuno basta coltivare assidui rapporti eon ebrei, leggere giornali giudaiei, abituarsi alla concezione di vita, alla letteratura e al teatro giudaici» [ivi: 45758]. Non restava che propagandare la necessità di far vincere con
ogni mezzo l’universalità del bene, depositata nella germanieità. Il ‘Partito riformatore tedesco-sociale’, fondato nel 1894, adottò nel suo congresso del ’99 una risoluzione che suona ominosa, se si pensa al destino che toccò agli ebrei europei quarant’anni dopo: La questione ebraica diventerà probabilmente nel ventesimo secolo
una questione mondiale, e come tale verrà risolta [...] definitivamente mediante un isolamento completo e (se la legittima difesa lo impone) una Enale distruzione degli ebrei [...]. Uno dei primi passi nelle misure legisla-
tive contro gli ebrei sarà di stabilire chi dinnanzi alla legge debba valere come ebreo, e di stabilire che è la discendmza, ed essa soltanto, a determinare l’appartenenza al giudaismo. [in Sehònbrunn 1980: 839]
La proposta della discriminazione non giunse sino al Reichstag che già nell’80 aveva respinto un’analoga petizione intesa a istituire un controllo anagrafico degli ebrei. Ma intanto circolava nero su bianco che la «legittima difesa» della purezza razziale poteva benissimo giungere sino alla «finale distruzione degli ebrei». 6.5. Ebrei e socialisti
La pericolosità dell’antisemitismo stava nella presa che su strati non piccoli di contadini, ceto medio impiegatizio e artigiani proletarizzati aveva avuto sin dagli anni Settanta il connubio tra anti-
giudaismo e parole d’ordine di populismo sociale. Del terremoto finanziario che nel 1873 scosse la Germania dei capitani d’industria e speculatori di borsa e fu prodromo ddla lunga ‘Grande Depressione’ economica, il pubblicista cattolico Glagau [1876: XXV] aveva subito incolpato gli ebrei: «gli speculatori di borsa sono per nove decimi ebrei o ebrei battezzati». La Lega degli agricoltori si atteggiava a baluardo contro il «grande capitale internazionale» e l’dntemazionale dell’oro» identificati nell’—«ebreo rigonfio di mammona». 121
In quelle parole d’ordine riviveva la critica anticapitalistica condotta in nome di valori preindustriali, in Germania particolar— mente tenace. Già il Mamfesto marx-engelsiano l’aveva messa in berlina come un miscuglio di «socialismo feudale» e «socialismo cristiano». Ma adesso c’era qualcosa di più. Trasferire sul capitalistai connotati dell’ebreo sviava da un’analisi oggettiva del capitalismo.Irisentimenti andavano, in forma emozionale, verso ilfalso bersaglio di una figura di capitalista tanto piùfittizia quanto, in apparenza, più individuabile e persino somaticamente tangibile. E in proporzione cresceva il capillare antisemitismo populistico quando a ceti di politicizzazione rozza ogni eventuale naso adunco incontrato per strada segnalava l’incamazione di un capitalista.
L’endiadi ebraismo-capitalismo penetrò perfino nel più politicizzato SPD, almeno a livello di pubblicazioni locali e tra gli iscritti di base. Costoro certamente non la desunsero dallo scritto giovanile di Marx del 1844 sulla questione ebraica, rimesso in circolazione soltanto nel 1902 da Mehring e testo, peraltro, di non facile decifrazione. In realtà era semplicemente dalla sodetà civile che provenivano sia quel binomio, sia anche altri luoghi comuni dell’antisemitismo popolare presenti nella stampa d’intrattenimento socialdemocratica, inclusele vignette sul naso degli ebrei e magari anche sulla loro dubbia moralità. Idirigenti del partito dovevano dunque, intanto, ricondurrenel verso giusto il confuso anticapitalismo antiebraico di chi, come ad es. «il contadino che va in rovina» e l’«artigiano urbano», giunge «alla socialdemocrazia solo per la via traversa dell’antisemitisrno» (Engels a Rudolf Meyer, 19luglio 1893 [OME, L: 117]). Inoltreoccorreva cbiarire in modo storico—oggettivo la genesi e natura dell’antisemitismo, e perciò respingere tentazioni di un’alleanza con gli antisemiti populisti contro il capitale. Base di partenza diventò la risoluzione adottata dal congresso di Colonia del ’93: L’ann'semitismo nasce dal malcontento di determinati strati borghesi che si sentono appressi dallo sviluppo capitalistico [...]. Da questa sua origine l’antisemitismo è costretto a rivendicazioni che sono in contrasto con le leggi di sviluppo sia economiche che politiche della sodetà borghese [...]. Gli strati dei piccoli borghesi e piccoli contadini aizzati dal— l’antisemitismo controicapitalisti ebrei devono arrivare a capire che illoro nemico non è soltanto il capitalista ebreo, ma laclasse dei capitalisti in
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generale, e che solo la realizzazione del socialismo può liberarli dalla loro miseria. [P-Kòln 1893: 23-24]
Una presa di coscienza di tal genere era precisamente quel che lun/cer agrari, lietissimi di un antisemitismo di demagogia anticapitalistica da strumentalizzare per i propri interessi feudali, ma terrorizzati ch’esso sfuggisse loro di mano e l’«adesione di tanti nullatenenti a questo movimento» finisse per «rivolgersi contro la proprietà in quanto—tale» o insomma diventasse «una variante della socialdemocrazia»: come formulò la cosa un agrario della Prussia orientale, il conte Mirbach-Sorquitten [in W. Frank 1928: 304]. Nel partito tedesco e austriaco l’integrazione degli ebrei fu anzitutto un dato di fatto, a cominciare da molti dirigenti. Kautsky discendeva da ebrei praghesi convertiti al cattolicesimo. Rosa Luxemburg veniva da una famiglia ebrea della Galizia. Ebrei erano Bernstein, nonchéigiornalisti Joseph Bloch dei «Sozialistische Monatshefte» e Gradnauer, redattore politico del «Vorwiirts»; lo erano Arons che si occupava per il partito di diritto elettorale, e poi il responsabile dell’organizzazione giovanile Frank e degli enti locali Heimann, oltreché una dozzina dei deputati al Reichstag del 1912. Nel partito austriaco Bauer era di una famiglia di ebrei boemi. Da una famiglia ebrea di Praga, convertita al cattolicesimo negli anni Ottanta, venivano i due Adler padre e figlio, Victor e Friedrich, segretari del partito rispettivamente dal 1905 e dal 1911, ed anche il loro omonimo Max Adler era ebreo. La presenza di ebrei nelle organizzazioni socialdemocratiche non dipese soltanto dall’avvio motivo che tra 1.124.000 ebrei in Austria e 607.000 in Germania (secondoirispettivi censimenti del 1900 e del 1905) dovevano pur esserci anche dei socialisti. Ragioni di fondo stavano nel fascino che avevano le idee di pacifismo e antisciovinismo, di solidarietà internazionalista e di ripudio dell’antisemitismo, insomma i cardini della Seconda Internazionale. In Germania poi gli ebrei, che nella loro battaglia per l’emancipazione e integrazione erano stati da sempre vicini al movimento liberale, si sentirono traditi via via che iliberali accedevano a collaborare con l’autoritarismo bismarckiano e poi guglielmino. Per quanto riguarda infine il processo quotidiano di integrazione all’interno del partito un contributo rilevante lo svolse la «Neue paventavano gli
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Zeit». Gli scritti che vi apparvero sul tema ‘ebrei’ e ‘ann'semin'smo’ assolsero il proprio ruolo non tanto per il numero (comunque una settantina, nel trentennio 1883-1912), quanto per la gamma di informazioni che mediarono, culturali oltreché politiche. C'era naturalmente la denuncia dei pogrom e delle persecuzioni antiebraiche in Russia (Kautsky [1903 a], Medern [1910]); c’era il sarcasmo di Mehring [1892 a] sugli ‘schioppi giudaici’ di Ahlwardt; e c’erano articoli sull’antisemitismo come arma ideolo— gica dei conservatori (Schippel [1893 a]) e sui suoi molteplici sviluppi (Scheidemann [1906]). Altri interventi contribuirono all’avvicinamento tra non ebrei ed ebrei perché stimolavano riflessioni sulle esperienze storiche degli ebrei e su come le vicende della società civile ebraica non fossero affatto sottratte alle generali leggi di sviluppo della sodetà umana. Mettevano l’ebraismo in una luce non biologico-razziale ma storico-sociale (Kautsky [1890 a; 1914l), toglievano l’alone misterico a pratiche rituali ebraiche come la circoncisione col darne un’analisi socio-antropologica (Lafargue [1888]); soprattutto mostravano che anche presso gli ebrei, come in ogni altro popolo, la dinamica della lotta di classe ha agito dall’antichità (Beer [1892]) sino a oggi (Zetterbaum [1893]). Nella socialdemocrazia tedesca e austriaca l’integrazione politico—culturale tra ebrei e non ebrei rispecchiava una sodetà civile in cui da alcuni decenni l’antiebraismo aveva cessato di avere codificazione giuridica. Ma costituiva l’assimilazione-integrazione m’istanza trasferibile a realtà dove invece le discriminazioni giuridiche vigevano ancora fortemente, come nell’impero zarista e nella sua appendice polacca? La risposta tendeva a essere positiva. ]] Bund— la ‘Lega’ dei lavoratori ebrei socialisti fondata nell’a— gosto del ’97 a Vilna e affiliata all’Internazionale dieci anni dopo elaborò un programma attagliato precisamente a una nazionalità oppressa la quale si risveglia alla storia: all’ovvia rivendicazionedei civili e politici per gli ebrei si accompagnò cioè anche quel— la del riconoscimento legale dello yiddish e del diritto a un sistema scolastico in quella lingua. Nel 1901il congresso del Bundpropose la trasformazione della Russia in una «federazione delle nazionalità», ognuna con «piena autonomia nazionale» indipendentemente dai territori ch’essa abita: adottando dunque una combinazione tra il ‘principio di personalità’ di Renner e la risoluzione federalista del congresso sodaldemocratico di Briìnn. Sorprendentemente vicina a Otto Bauer, ancorché raggiunta indipendente124
mente da lui, fu l’idea di nazione in Medem, il carismatico leader
bmdista lettone, che in un opuscolo del 1906 sulla questione nazionale e la socialdemocrazia chiamò nazione l’insieme di tutti gli individuiche appartengono a un dato gruppo storico-culturale indipendentemente dal territorio d’insediamento. L’approdo fu dunque un’assimilazione interetnica in senso lato culturale, simile a quella che Bauer (cfr. 6.1) ipotizzava pure per la futura sodetà socialista. Del resto un libero federalismo delle diverse nazionalità nient’altro implicava, alla fin fine, se non un’osmosi e integrazione tra differenze etniche e culturali. È comunque significativo che le migliori risposte secondintemazionaliste alla questione nazionale - quelle che insomma non la liquidavano come un’eresia ‘borghese’ — andassero complessivamente tutte verso una prospettiva d’integrazione tra le nazionalità: un’integrazione che avrà si, si diceva, il proprio sviluppo e perfezionamento soltanto nel futuro socialista, ma la cui preparazione appariva un compito già di oggi. In tale direzione andavano sostanzialmente anche quelle soluzioni (ad es. di Kautsky) che rispetto all’autonomia culturale extraterritoriale privilegiavano la territorialità. L’obiettivo, a prescindere dalle soluzioni tecniche ipotizzate, era in ogni caso una politica di osmosi tra le nazionalità in Europa. Si spiega con ciò la freddezza che circolò nell’Internazionale e nel Bundverso il progetto sionista di Herzl, cioè la migrazione degli ebrei in un loro Stato nazionale territoriale. Non in Palestina, non (come criticava la «Neue Zeit») con l’«utopia sionistico-socialista» e sostanzialmente ‘borghese’ di una sovranità nazionale separata, bensì in Russia e Polonia, in Rutenia e Galizia, in Germania e in Austria l’ebreo ha da conquistare la propria emancipazione. Andavano in questa direzione le voci bundiste che la «Neue Zeit» regolarmente ospitava, e le quali [ad es. JA 1905] suffragavano con analisi giuridico-economiche la necessità dell’emancipazione e integrazione.
Nota bibliografica 6.1. Su movimenti nazionali e nazioni ‘senza storia’ nei giudizi di Marx ed Engels: Herod [1976], Rosdolsky [1979]. Sul coloniali-
125
smo austriaco in Bosnia-Erzegovina: Topalowitsch [1911]. Sulla germanizzazione delle province prusso-polacche: Karski [1898; 1910], Mehring [1902; 1906 b], Bruhns [1908], Wehler [1971: 103-99]. Sul pangermanesirno continentale: Dralle [1991: 19299], Schultz [1991: 40—71].
6.2. Sulla questione nazionale nei dibattiti socialisti: Wehler [1962; 1971] Mommsen [1979; 1979 a]. Sul problema delle nazionalità in Austria: Mommsen [1963], Kann [1964], Waldenberg [1992/1994: 23-100]. Per le idee di Renner e Bauer sulla nazione: Agnelli [1969; 1973], Leichter [1970: 57-77], Blum [1985: 31-71, 88-108], Konrad [1985], Nimni [1985].
6.3. Sui dissidi nazionali nel movimento socialista austriaco: Lòw [1984].
6.4. Sugli ebrei nell’epoca guglielmina: Mosse-Paucker [1976], W. E. Mosse [1987/ 1990]. Sull’antisemitismo moderno in Germania e Austria: G. L. Mosse [1964/ 1991. 163-248],Pulzer [1964], Greive [1983],] Schmidt [1988, Il: 217-27, su Chamberlain], Mohler [1989: 215-19, 334—38], Lichtblau [1994].
6.5. Su socialismo e problema ebraico: Massara [1972], Leuschen— Seppel [1978], Finzi [198]. 897-918]. Sull’assimilazione degli ebrei in Germania e Austria-Ungheria: Wistrich [1982].
Capitolo settimo
LO STATO DEL FUTURO
7.1. Un ‘grande crollo' oppure no?
Di fronte alle crisi economiche cicliche, Marx ed Engels ave— vano via via inseguito il miraggio della crisi definitiva. La spiavano
nella crisi commerciale inglese del 1855, poi nella crisi economica mondiale del ’57, poi sperarono (Marx a Engels, 11gennaio 1860 [OME, XLI. 6]) nell’«imminente crollo nell’Europa centrale». Se dopo il ’68 le crisi sembrano recedere, ciò è dipeso — dicevano — dall’estendersi del mercato mondiale; ma il processo di espansione, una volta saturatosi, si capovolgerà in «una crisi gigantesca» [Engels 1892: 331]. E forse la crisi mondiale sfocerà negli altri due eventi profetizzati da Engels il 14 giugno 1890 a Schliiter, un socialista emigrato in America: «siamo spinti abbastanza rapidamente 0 verso la guerra mondiale o verso la rivoluzione mondiale - o verso entrambe» [OME, LXVIII: 445]. La predizione del grande crollo del sistema borghese circolava nei congressi dell’Internazionale e nei partiti socialisti. Bebe], al congresso di Erfurt, l’annunciò come imminente con toni da profeta biblico. La risoluzione del congresso internazionale di Londra del ’96 esortava gli operai a imparare la gestione della produzione, ché tra breve sarebbe toccata a loro. Lo stesso Bernstein, poco prima di cambiare idea sull’induttabilità delle crisi, leggeva tutti gli avvenimenti dell’economia mondiale in chiave di «crollo del vecchio sistema», preannunciato putacaso dalle ripercussioni dei giacimenti auriferi della «nuova California» sudafricana, disgregatrici del mercato capitalistico [Bernstein 1895' 56-57]. Quando nel ’98 egli si distanziò bruscamente dall’ottica catastrofista, fu il suo 127
smo austriaco in Bosnia-Erzegovina: Topalowitsch [1911]. Sulla germanizzazione delle province prusso-polacche: Karski [1898; 1910], Mehring [1902; 1906 b], Bruhns [1908], Wehler [1971: 103-99]. Sul pangermanesimo continentale: Dralle [1991: 19299], Schultz [1991: 40—71].
6.2. Sulla questione nazionale nei dibattiti socialisti: Wehler [1962; 1971] Mommsen [1979; 1979 a]. Sul problema delle nazionalità in Austria: Mommsen [1963], Kann [1964], Waldenberg [1992/1994: 23-100]. Per le idee di Renner e Bauer sulla nazione: Agnelli [1969; 1973], Leichter [1970: 57-77], Blum [1985: 31-71, 88-108], Konrad [1985], Nimni [1985].
6.3. Sui dissidi nazionali nel movimento socialista austriaco: Lòw [1984].
6.4. Sugli ebrei nell’epoca guglielmina: Mosse-Paucker [1976], W. E. Mosse [1987/ 1990]. Sull’antisemitismo moderno in Germania e Austria: G. L. Mosse [1964/ 1991. 163-248] ,Pulzer [1964], Greive [1983],] Schmidt [1988, Il: 217-27, su Chamberlain], Mohler [1989: 215-19, 334—38], Lichtblau [1994].
6.5. Su socialismo e problema ebraico: Massara [1972], Leuschen— Seppel [1978], Finzi [198]. 897-918]. Sull’assimilazione degli ebrei in Germania e Austria-Ungheria: Wistrich [1982].
Capitolo settimo
LO STATO DEL FUTURO
7.1. Un ‘grande crollo' oppure no?
Di fronte alle crisi economiche cicliche, Marx ed Engels ave— vano via via inseguito il miraggio della crisi definitiva. La spiavano
nella crisi commerciale inglese del 1855, poi nella crisi economica mondiale del ’57, poi sperarono (Marx a Engels, 11gennaio 1860 [OME, XLI. 6]) nell’«imminente crollo nell’Europa centrale». Se dopo il ’68 le crisi sembrano recedere, ciò è dipeso — dicevano — dall’estendersi del mercato mondiale; ma il processo di espansione, una volta saturatosi, si capovolgerà in «una crisi gigantesca» [Engels 1892: 331]. E forse la crisi mondiale sfocerà negli altri due eventi profetizzati da Engels il 14 giugno 1890 a Schliiter, un socialista emigrato in America: «siamo spinti abbastanza rapidamente 0 verso la guerra mondiale o verso la rivoluzione mondiale - o verso entrambe» [OME, LXVIII: 445]. La predizione del grande crollo del sistema borghese circolava nei congressi dell’Internazionale e nei partiti socialisti. Bebe], al congresso di Erfurt, l’annunciò come imminente con toni da profeta biblico. La risoluzione del congresso internazionale di Londra del ’96 esortava gli operai a imparare la gestione della produzione, ché tra breve sarebbe toccata a loro. Lo stesso Bernstein, poco prima di cambiare idea sull’induttabilità delle crisi, leggeva tutti gli avvenimenti dell’economia mondiale in chiave di «crollo del vecchio sistema», preannunciato putacaso dalle ripercussioni dei giacimenti auriferi della «nuova California» sudafricana, disgregatrici del mercato capitalistico [Bernstein 1895' 56-57]. Quando nel ’98 egli si distanziò bruscamente dall’ottica catastrofista, fu il suo 127
abbandono della vulgata sul capitalismo morente a far scoppiare il dibattito sul revisionismo. Tra il 1898 e il 1900 Bernstein segnalò irischi dei «teoremi tradizionali» del ‘croH0" «decretare la sparizione del capitalismo» in virtù di presunti responsi della storia, porterebbe la socialdemocrazia a una «colossale sconfitta» [Bernstein 1898: 554]. La tesi fu ripresa nella lettera-scandalo ch’egli indirizzò dall’esilio londinese al congresso socialdemocratico di Stoccarda del ’98: Io mi sono opposto all’idea che noi siamo alla vigilia di un imminen—
te crollo della società borghese, e che la sodaldemocrazia debba
definire
e quindifar dipendere la sua tattica dalla prospettiva di una tale imminente catastrofe sociale generale [...]. A mio giudizio, ai fini di un successo duraturo c’è più garanzia nell’avanzamento costante che non nelle possibilità offerte da una catastrofe. [Bernstein 1899/1974: 3-4, 6]
—
Quindi come emergeva anche dalla polemica, nei Presupposti, contro gli apriorismi della dialettica (vedi 3.1) gli sembrava dogmatismo concettuale di pericolosissime conseguenze politico-
—
pratiche l’atteggiamento di chi, avendo l’idea fissa del «mondo borghese in agonia», è poi «facilmente condotto a vedere in ogni atto di esso soltanto segni di morte» [Bernstein 1900: 239]. Era facile ribattere che, se Marx ed Engels pur speravano nelcrisi, non perciò avevano basato sul millenarismo teleologico del le grande crollo le loro analisi economiche, e nemmeno (le due cose essendo strettamente connesse) su una teoria altrettanto apodittica del crescente immiserimento delle masse. Fu quanto obiettò Kautsky, contestando anzitutto che la politica dei partiti socialisti fosse orientata sul ‘crollo’ [Kautsky 1899 d: I]. Ma in ogni caso la legge delle crisi, peraltro circoscritta in Marx alla dinamica del capitalismo classico, non pareva potenziabile a modello assoluto. Appariva aperta a modifiche come ogni altra legge scientifica, non diversamente da quella del pauperismo crescente che, pur definita da Marx una «legge assolata, generale dell’accumulazione capitalistica», ebbe in lui l’immediata correzione limitativa che «come tutte le altre leggi essa è modificata nel corso della propria attuazione da molteplici circostanze» [Marx 1867/1989: 705]. Le «circostanze» furono nella Germania del 1870-1900 un au— mento costante dei salari e la riduzione della giornata lavorativa. Peri ‘revisionisti’ fu un argomento contro la fraseologia dell’im128
miserimento (contenuta ad es. nel programma di Erfurt). Del regià Engels nelle sue critiche a quel programma (ma la «Neue Zeit» le pubblicherà soltanto nel 1901) aveva rilevato l’errore di prendere il «crescere della miseria» come una formula apodittica, poiché ciò che aumenta non è affatto la ‘miseria’ come tale, quanto invece l’«incertezza dell'esistenza» [Engels 1891/OS: 1170]. E Bernstein, analogamente, ricordava a Kautsky il 25 giugno 1891 che «noi facciamo un uso veramente eccessivo della parola ‘miseria’ e ci esponiamo al pericolo di esser confutati dalla storia» [11— SG, NK, D V- 163]. Peraltro anche gli antirevisionisti sapevano che nel capitalismo sviluppato la miseria puramente fisica in ge— nerale non aumenta, e talora anzi regredisce. Perciò Kautsky [1899z118] e Cunow [1898: 402] introdussero la nozione di «immiserimento sociale», la quale significava che quel che via via stava aumentando era, più propriamente, il divario di cultura e tenore di vita trale classi, e dunque la conflittualità sociale. All’epoca circolarono solamente le implicazioni più immediate questa tesi. L’accento sull’esclusione del proletariato dalla cul— di tura rispecchiava le istanze illuministico-socialiste connesse alla ‘seconda cultura’ L’irnmiserimento come abbrutimento morale veniva denunciato nei tanti articoli della «Neue Zeit» su prostituzione, miseria delle abitazioni, alcolismo. E al congresso di Lubecca del 1901 era opinione pure di Bebel che la ‘teoria dell’irnpoverimento’, lungi dal chiamare in causa un immiserimento assoluto, esprimesse semplicemente la più generale crescita della distanza tra classe operaia e capitalisti, la quale non regredisce nemmeno nel capitalismo sviluppato [P-Liibeck 1901:164]. Che non di una pauperizzazione in termini classici si trattasse, pareva confermato dal Marx del Capitale [Marx 1867/1989: 571]. D’altra sto
-
parte e lo rilevò Kautsky contro illibroIlsocialismo moderno nel
suo svil po storico (1906) del ‘marxista legale’ russo Tugan-Baraeiniano e critico della teoria dell’imrniserimento il novskii, semplice aumento dei salari in un regime di capitalismo sviluppato non garantisce, di per sé, una sicurezza di vita all’operaio [Kautsky 1908 d: 550].
—
Interessante dal punto di vista teorico è che nelle formulazioni di Kautsky e Cunow sull’aimmiserimento sociale» si stava affac— ciando in germe il concetto di alienazione; veniva insomma in lu— ce l’esistenza estraneata vissuta dalle classi lavoratrici in forme as— 129
sai molteplici, a cominciare dall’oggettivamente reificata ‘insicurezza’ che ne domina la vita e che Engels aveva rimarcato nel ’91. Si sa che la nozione di alienazione in senso marxiano non appar-
all’orizzonte secondinternazionalista perché nulla si conosceva dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 in cui Marx ne trattava; ma se di essa si volesse scrivere una storia, quelle formulazioni vi entrerebbero di diritto. Fu invece del tutto spuria e un cortocircuito concettuale l’idea che dal verificarsi o meno di una crisi generale del capitalismo dipendesse la validità del marxismo, e fosse dunque uno spregevole apostata chi sul tracollo insinuava dubbi revisionistici. L’abbaglio nacque dalla carenza già rilevata di strumenti epistemici duttili (vedi 2.3, 3.3, 4.2). Sia agli ‘ortodossi’ che ai ‘revisionisti’ restò sostanzialmente oscuro quel che la scientificità di una teoria propriamente significasse. Rimase celato l’elemento che fonda la funzionalità dinamica di un sistema concettuale, una volta che quest’ultimo venga riconosciuto come un sistema ‘aperto’ La stare o cadere della sua funzionalità non dipende dalla congruità (o incongruità) che nuovi dati sopraggiunti hanno con il sistema; bensi dalla capacità intrinseca, cioè scientifica, del sistema di rimodellare costruttivamente le ipotesi a seconda dei dati di fatto. Il rimo— dellamento è doppiamente importante quando un sistema vuole essere conoscenza per la prassi: perché in esso non un soddisfaci— mento accademico di istanze conoscitive è allora in gioco, bensì l’uso operativo, politico-pratico delle ipotesi rimodellate. Circolò ben poco l’idea che se le crisi non portavano ilcapitalismo alla tomba, ciò era un fatto oggettivo che non poteva ascriversi a colpa di chi come putacaso Bernstein nell’articolo Sull’essen— za delsocialismo [1899 a] — sottolineava le capacità di adattamento del capitalismo e dunque ammoniva che, avendoverosimilmente le crisi future un volto diverso dalle vecchie, era fuorviante assegnare loro una funzione di preparazione al mitico crollo generale. La Luxemburg [1899/SL: 73] riassunse efficacemente il dilemma degli ortodossi della sinistra, che era anche il suo:
tenne
—
o ha ragione il revisionismo a proposito del corso dello sviluppo capitalistico, e la trasformazione socialista della società diventa un’utopia; o ilsocialismo non è un’utopia e allora non può essere valida la teoria degli ‘stru-
menti di adattamento’ That is the question, questo è il problema.
130
Ilpunto debole del dilemma stava nell’assunto di partenza: ov-
vero che il socialismo e la sua attuazione fossero qualcosa di pre—
determinato a cui la mutevole realtà dei fatti doveva attenersi. Sicché, quando i fatti non combaciavano con l’idea, si condannava, non potendo gli ortodossi mettere in dubbio l’idea, chi aveva messo in rilievo quel tale o talaltra fatto che con l’idea non combaciava. Se al conclamato carattere ‘aperto’ del sodalismo scientifico si fosse tenuto dawero fede, l’approccio avrebbe dovuto essere anzitutto un’analisi che appurasse se e come funzionavano ivitupe— rati ‘strumenti di adattamento’ del capitalismo alle crisi, e poi sola in un secondo tempo, in base a quel che dall’analisi emergeva, un discorso sulle opzioni socialiste. Era quasi totalmente assente quella che Labriola, attentissima al metodo marxiana e certamente non un revisionista, chiamava «la nazione prosaica del processo storico-sociale» [Labriola 1896/1968: 174], quella per cui il futuro non può costituire il criterio pratico di chi deve agire nel presente [ivi: 271]. Persino se, scriveva a inizio di secolo, l’ordine attuale della società civile d’Europa col predominio della classe borghese si perpetuasse ancora per secoli, ciò per nulla contradirebbe al materialismo storico, perché tale perpetuarsi dimostrerebbe soltanto che la società della concorrenza può vivere ancora. E vero che Bebel, alcuni anni fa, prometteva una repubblica sociale in Germania per l’anno 1910; ma io, oltre che io non so se Bebel coglionasse il prossimo, è certo che al Bebel non ho mai offerto una cattedra di Filosofia della storia. [Labriola 1902 a/ 1968: 335]
Chi ha una «nozione prosaica» della storia non s’inventa dunque agonie del capitalismo. Se il capitalismo non muore nei termi— ni e modi prefissati dai futurologi, ciò semplicemente significa che è una formazione sociale non ancora esaurita. Labriola, si vede, non aveva dimenticato il monito che proprio in questo senso già Marx aveva fatto nella prefazione a Per la critica dell’economia po— litica [1859/0ME, XXX: 299]. Ipassi labriolanisulla vitalità del capitalismo e sui visionari dell’avvenire stavano in appunti per un corso di filosofia della storia all’università di Roma, usciti postumi nel 1906. Se li si fosse conosciuti prima, e se in generale Labriola fosse stato conosciuto di più
nella socialdemocrazia tedesca, forse insieme alla Bernstein-De131
hattesarebbe potuta nascere, e per analoghi motivi, anche una Lahriola-Dehatte. 7.2. La ‘n'voluzione di maggioran2a'
NeH’SPDfurono i‘centristi’ ad avvicinarsi in qualche modo alla ‘nozione prosaica’ auspicata da Labriola. Per Cunow [1900 b]i nuovi aspetti del capitalismo, finché funzionano, si traducono in segni di vitalità. Kautsky, da parte sua, contrapponeva alla bancarotta del capitalismo un altro possibile scenario, quello di una maturazione graduale versa il socialismo quando uno Stato capitalistica moderno — sia pure nell’ottica dei suoi propri interessi, cioè per aumentare la propria produttività, ricchezza sociale e capacità di concorrenza — non opprime le classi lavoratrici, bensì cerca di promuovere il più possibile lo sviluppo economico, di elevare intellettualmente e fisicamente il suo proletariato [...]. Allora crescono la produttività del lavoro, la ricchezza sodale, la forza e reputazione dello Stato nel mondo, ma conternparaneamente crescono all’interno della Stato la forza e reputazione del proletariato, e matura rapidamenteilseme del socialismo. [Kautsky 1907 a: Ill]
Non è prevedibile quale delle due strade riserbi il futuro, né dunque quali aspetti avrà la rivoluzione socialista: «Sulla rivoluzione del futuro possiamo dire con sicurezza una sola cosa: cioè che sarà diversa da come i precursori di essa e chiunque di noi l’hanno immaginata o immaginano, sia che si chiamino Engels o Bernstein» [Kautsky 1899 b: 43]. Già, ma Engels come l’aveva immaginata? In una lettera a La— fargue del 3 novembre 1892 diceva che «l’era delle barricate e dei tumulti di strada è passata per sempre [...]. Quindi siamo obbli— gati a trovare una nuova tattica rivoluzionaria» [OME, [L: 523]. Ma rinunciare alle barricate e procedere sulla strada dell’azione legale, parlamentare, avrebbe avuto un carattere soltanto tattico e temporaneo, a implicava una revisione globale del concetto stesso di rivoluzione? Se in océasiane del successo elettorale socialdernocratico del ’90, e poi dell’abrogazione del Sozialistengesetz, Engels [1890/ 132
MEW, XXII: 10] aveva visto la legalità come una scelta soltanto tattica, pochi mesi dopo, nell’intervento sul progetto di programma di Erfurt, l’opzione della legalità gli apparve invece una strategia globale, una «via pacifica» e costituzionale, fondata sul consenso della « maggioranza del popolo» [Engels 1891/OS: 1174]. Nel ’95, nella sua introduzione (pubblicata in aprile sulla «Neue Zeit») alla ristampa delle Latte diclasse in Francia dal 1848al 1850 di Marx,iconcetti di ‘maggioranza’ e di ‘consenso di maggioranza’ diventeranno poi il fulcro addirittura di un’autacritica del modo in cui per decenni luie Marx avevano inteso la rivoluzione. Era stato un errore, dal 1848 alla Comune di Parigi, affidare la speranza a «colpi di sorpresa» a anche a «una sala grande battaglia», con lotta di strada e barricate. «La storia ha dato torto a noi e a quelli che pensavano in modo analogo» [Engels 1895/0ME, X. 647], perché è tramontato il tempo di rivoluzioni «fatte da piccole minoranze coscienti alla testa delle masse incoscienti», e a una «trasformazione completa» dell’assetto sociale devono ormai «partecipare le masse stesse» con coscienza e consenso [ivi: 655].
Nel dare alle stampe l’Introduzione, Engels aveva espunta un paio di accenni che non escludevano «eventuali futuri combattimenti di strada» [ivi: 653]. L’aveva fatto su pressioni della direzione dell’S'PD, preoccupata che un’immagine non totalmente legalitaria del partito potesse innescare una riedizionedella legge contro isocialisti. In una lettera a Richard Fischer, che di quella preoccupazione era stato portavoce, Engels aveva peraltro escluso «che voi abbiate intenzione di darvi anima e corpo all’assoluta legalità, alla legalità in ogni circostanza, alla legalità anche nei confronti delle leggi infrante da chi le ha fatte, in breve alla politica del porger la guancia sinistra a chi abbia colpito la destra» [OME, L: 457]. La precisazione rispecchiava la novità dell’impostazione. Infatti - così nell’Introcluzione del ’95 - l’«efficace utilizzazione del suffragio universale» [Engels 1895/0ME, X: 652] da parte del movimento socialista ha impresso un vero e proprio cambiamento qualitativo di segno agli istituti di democrazia rappresentativa di origine borghese. Adesso, per ironia della storia, sono ipartiti dell’ordine a trovare laloro rovina nell’ordinamento legale ch’essi stessi hanno creato, a dover gridare disperatamente (con il legittimista conservatore Odilon Barret all’epoca della monarchia fran133
cese di luglio) «la légalité nous tue» [ivi: 658]. Ma se essi, di fronte a una legalità che li ‘uccide’ perché reca successi alle masse lavoratrici, attenteranno alla sovranità popolare con il colpo di Sta— to, allora e solo in quel caso (peraltro secondo Engels pressoché inevitabile), sarà contro iviolatori della legalità democratica che il proletariato farà valere la propria forza in armi. Tentativi di rottu-
ra della legalità vi erano stati in Germania appena sei mesi prima, con un disegno di legge governativo dell’ottobre 1894 ‘concer-
nente modifiche e integrazioni del codice penale, del codice militare e della legge sulla stampa’, il quale, se fosse passato al Reich-
stag, avrebbe irnbavagliatoipartiti di opposizione e messo a segno,
di fatto, un colpo di Stato. E quanta tentazione di colpi autoritari continuasse a esserci emerse dal telegramma di Guglielmo II al cancelliere Hohenlohe-Schillingsfiirst, all’indomani della caduta del progetto: «non ci restano dunque che gli idrann' dei pompieri per icasi ordinari, e le granate a mitraglia come rimedio estremo» [in Engelberg 1979: 372]. La novità delle posizioni engelsiane del ’95 stava nell’idea dell’insurrsm'one come risposta alla violazione della legalità. Nel contesta di una legalità in cui«noi prosperiamo che è un piacere» [Engels 1895/0ME, X. 658], il «diritto alla rivoluzione» — un diritto irrinunciabile, perché «il solo vero ‘diritto storico’» [ivi: 656] — diventava né più né meno che l’inviolabile classico ‘diritto alla resistenza’ Che si trattasse di una trascrizione non semplicemente tecnico—tattica, ma meditatamente strategica, è mostrato dall’insistenza di Engels sui caratteri della legalità democratica. V1 si era soffermato già nel ’91, descrivendola come una decentrata democrazia di base, con «amministrazione completamente autonoma nelle province, nei distretti e neicomuni da parte di impiegati eletti con suffragio universale» e «abolizione di ogni autorità locale e provinciale nominata dallo Stato» [Engels 1891/OS: 1177]. Adesso ribadiva la cosa, aggiungendovi un paragone storico. Conquistare nelle elezioni (del Reichstag, delle Diete dei singoli Stati, dei municipi) la maggior parte dei ceti medi, dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini sino a diventare nel paese la forza decisiva, mantenere «ininterrotto il ritmo di questo aumento, sino a che essa sopraffaccia da sé l’attuale sistema di governo, tale è ilnostra compito fondamentale» [Engels 1895/0ME, X: 657]. In ciò i socialisti, così il paragone storico, sono simili agli antichi cristia134
ni, cioè a un altro «pericolosa partita sovversivo» [ivi: 659] che, gradualmente cresciuto a maggioranza e permeando dall’interno l’intero tessuto delle istituzioni (compreso l’esercito), sopraffece pur’esso il vecchio impero romano quasi ‘da sé’, con la sola potenza del numero e delle idee.
7.3. La legalità istituzionale
Per l’SPD era vitale in primo luogo il ritorno, nel ’90, alla situazione di partito legale. Il cambio di nome del partito nell’ottobre di quell’anno, da Sozialistische Arbeiterpartei Deutschlands (SAPD) in Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD), mirava anche a un cambiamento di immagine pubblica: stava a significare da un lato finalità non più angustamente operaiste, e dall’altro l’intento di condurre ormai la battaglia all’interno della legalità e con imezzi della democrazia. Serronché proprio la legalità istituzionale in cui isocialisti si facevano adesso «i muscoli forti e le guance fio— renti» [Engels 1895/0ME, X: 658], aveva aspetti talmente ibridi che neanche gli esperti di diritto pubblico riuscivano a chiarirla. L’impero, proclamato il 18 gennaio 1871nella Sala degli specchidiVersailles a suprema umiliazione della Francia sconfitta, non ebbe mai una carta costituzionale. Nel Reich, una confederazione di venticinque Stati sovrani, ciascuno di essi conservava il proprio ordinamento interno o ‘diritto particolare’ Soprattutto nel campo delle libertà civili e politiche ciò ebbe conseguenze pesanti, aggravate dal fatto che non esisteva nessuna dichiarazione federale dei
diritti fondamentali alla quale appellarsi. IlReichstag, la ‘Dieta dell’impero’ eletta ogni quinquennio con sistema maggioritario uninominale a doppio turno e suffragio universale diretto e segreto, era un clamoroso esempio di parlamen— tarismo manco. A condurre gli affari di governo nonera una cornpagine ministeriale collegiale e di fiducia parlamentare, bensì, coadiuvato da nrinistri-frmzionari, un cancelliere di nomina imperiale e obbligatoriamente prussiano, il quale rispondeva unicamente alla suprema Kommandogewalt’ o ‘autorità di comanda’ dell’imperatore. E l’organo di iniziativa legislativa primsiria non era comunqueilReichstag, bensì, presieduto dal cancelliere, ilBundesrat 0 ‘Consiglio federale’ composto da delegati dei governi dei singo135
li Stati. Liebknecht, disegnando in un discorso parlamentare del ‘96 l’arretratezza costituzionale tedesca dovuta all’istituzionale sudditanza dell’assemblea al volere dell’imperatore, concluse: «in Inghilterra,se ilparlamento decide qualcosa contro ilgoverno, deve andarsene il governo, in Germania, al contrario, è il Reichstag che se ne deve andare» [S-Reichstag 1896:3684-86]. Bersaglio delle critiche socialdemocratiche era cioè anzitutto il fatto che le istituzioni non possedessero nemmeno ancora un compiuto carattere liberal—borghese. La letteratura sulla Seconda Internazionale si è poco occupata dei tentativi socialisti di teoria costituzional-parlamentare che si ebbero dagli anni Novanta in poi. Eppure (sebbene tutt’altro che sistematici) essi furono, accanto a quelli sul capitalismo sviluppato e sulla questione nazionale, il terzo ambito in cui la socialdemocrazia tedesca produsse comunque spunti di rilievo: a patto, naturalmente, di cercarli dove effettivamente si trovavano. Cioè in quei socialisti che, o per la loro partecipazione diretta agli istituti rappresentativi o perché di questi davano in linea di massima una valutazione positiva, seppero lavorare su dati concreti. Sui compiti del partito nelle istituzioni vennero, sino al 1914, risposte sostanzialmente convergenti da un arco che dai ‘riformisti’ (Vollmar, il giurista e deputato Wolfgang Heine, David, Bernstein, il deputata Quemel, ilpittore e giornalista Wilhelm Kalb) andava ai ‘centristi’ (Wilhelm Liebknecht, Bebel, Kautsky, Singer) e in qualche misura persino a esponenti della sinistra sia moderata (ad es. Ledebour) che radicale (come Karl Liebknecht, ilfiglio di Wilhelm). Idea comune era che compito dei socialisti fosse non di affossare lo Stato di diritto e le sue espressioni (parlamento ecc.), bensì di operare per la «conquista di un regime compiutamente parlamentare» [Kautsky 1893 c: 119] di contro al costituzionalismo di facciata che fa comodo soltanto alle classi dominanti. Sotto l’aspetto teorico significò rimettere sul tappeto il rapporto tra liberalismo e socialismo. Qualcosa si poteva ricavare dal tardo Engels, che in una lettera a Bebel del 18-21ottobre 1893 aveva detto che «ciò che iliberali furono prima del 1848, noi lo siamo ora», con l’indicazione operativa del doversi raggiungere «conquiste liberali, aumento del potere politico degli operai, estensione della loro libertà di movimento» [OME, L: 158]. E già a proposito del progetto di pro— 136
gramma di Erfurt aveva sottolineato [1891/OS: 1175] che al posi giungeva «soltanto sotto la forma della repubblica democratica»; anzi che importava non tanto la forma istituzionale (repubblica o monarchia),quanto invece ilgrado di forza della «rap-
tere
presentanza popolare».
Nel partito maturò cosi la convinzione che il sistema parla-
mentare rappresentativo e uno Stato di diritto a legalità democra-
tico-costituzionale fossero l’eredità assiologioamente valida del liberalismo: nel senso che lo Stato, purché fondato su un diritto non particolaristico, è insomma, e anzitutto da un punto di vista tecnico, un necessario principio di organizzazione anche per futuri assetti sociali non borghesi. L’aveva sostenuto Kautsky già nel suo commento al programma di Erfurt: Dove il proletariato prende parte come classe cosciente alle lotte per il parlamento (soprattutto le lotte elettorali) e nel parlamento, anche il parlamentarismo comincia a mutare le proprie caratteristiche primitive. Gessa di essere un puro strumento di dominio della borghesia. [Kautsky 1892/1971: 1781
Circa le funzioni di un «autentico regime parlamentare», Kautsky [1893 c: 118] aveva rilevato che «può essere uno strumento tanto della dittatura del proletariato, quanto lo è della dittatura della borghesia». Al di là della semplicistica equiparazione di ogni e qualsiasi tipo di governo a una ‘dittatura’ classista, era di notevole portata l’idea che gli strumenti parlamentari potessero esser validi indipendentemente da questa o quella basesociale. La cosa, a pensarla sino in fondo, implicava infatti che si sottoponesse a revisione il concetto stesso del dominio politico di classe come ‘dittatina" un esito a cui, peraltro, Kautsky più tardi giungerà. Analoghe idee sul valore generale del parlamentarismo in uno Stato moderno esprimeva anche Bernstein: ad esempio nella sua prefazione all’edizione tedesca (1912) del libro Socialismo e governo del fabiano inglese Mac Donald. È un’ulteriore riprova che alcune nozioni portanti erano comuni a parecchie correnti del partito. Dietro stava in Bernstein, ma anche in Kautsky la convinzione che del liberalismo come «movimento storico universale» il socialismo fosse in ogni caso l’erede legittimo dal punto di vista sia cronologico che ideale [Bernstein 1899/1974: 191]. Quanto circolasse nel movimento operaio internazionale l’idea
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che la politica socialista dovesse raccogliere l’eredità delle istanze democratico-liberali (come a dire della stagione rivoluzionariadel-
la borghesia), si può constatare in Labriola. Fu un suo convincimento costante: da quando, socialista premarxista, dichiarava che da parte socialista «non si rigettano le libertà politiche, ma si vuole completarle», e che le «nuove forme» si sarebbero innestate «sul comune tronco delle istituzioni liberali» [Labriola 1889/1970: 175, 176-77], sino a quando, marxista, porrà al socialismo italiano non già l’utopistico compito di «leva per rovesciare il mondo capitalistico», bensì quello, più realisticamente attuabile, di «costringereirappresentanti del governo alle riforme economiche un'li per tutti» [1900/1970: 463-64]. Ilgradualismo che si esprimeva in queste posizioni era tutt’uno, essendone ilversante politico, con isarcastici rifiuti (vedi 7.1) del miraggio del grande crollo. L’ ottici: in cui l’SPD si considerava prosecutore del retaggio li— berale emerse su due versanti, entrambi caratterizzati da una concezione positiva dello Stato: quello della battaglia per un parlamentarisma compiuto, e quello delle codificazioni, ovvero strumenti operativi giuridici per calare nella società civile leistanze dello Stato di diritto. L’affermazione delle prerogative del par— lamento si esprimeva nelle proposte di legge sulla «responsabilità ministeriale» redatte da Wolfgang Heine (1900, 1905, 1908), le qualicontenevano ilprincipio che ilcancellieree responsabile dinnanzi al Reichstag. Ledebourchiariva che per estendere1poteri del parlamento l’SPD non pensava aHatto a scorciatoie rivoluzionarie, bensì alla sola via delle modifiche costituzionali [S-Reichstag 1912: 1657-59]. E quanto il partito si attenesse alla prassi parlamentare si vide nel caso del minuscolo principato di Schwarzburg-Rudolstadt, nella cui Dieta l’SPD deteneva nove dei sedici seggi e isocialisti lavoravano costruttivamente persino in questioni di appannaggio del principe. Toccò a Karl Liebknecht spiegare che ciò rientrava perfettamente nello spirito costituzionalistico socialdemocratico [S-Reichstag 1912 a: 3714]. La difesa dello Stato di diritto era in primo luogo una questio— ne di principio, come confermarono i dibattiti parlamentari, dal gennaio al giugno 1896, sul progetto, finalmente, di un codice civile valido per tutto ilReich. Commissioni di esperti vi avevano la— vorato per oltre un ventennio, e sin dall’inizio ideputati socialisti l’avevano salutato come un elemento di progresso, di cui semmai 138
era da deprecare il ritardo. Precisando che non avrebbero avanza«richieste particolarmente socialdemocratiche» (così Stadtbagen [S-Reichstag 1896 a: 749]), dichiararono la disponibilità del gruppo, e nelle cinquantatré sedute della commissione parlamen— tare idue rappresentanti socialisti, Stadthagen e Frohme, furono infatti attivissimi. È ovvio che si battessero per prospettive favore-
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voli ai lavoratori, per l'eliminazione di anacronismi da vecchio regime rafforzati dalla disparità giurisprudenziale nei singoli Stati, per l’elaborazione di norme contrattuali generali, a tutela soprattutto di categorie particolarmente mal protette, e per una ristrutturazione moderna e liberale del diritto di famiglia in difesa e garanzia dei diritti individuali. Ciò avrebbe ad es. impedito, si presumeva, sentenze come quella di una pretura prussiana che nel ’94 aveva tolto la patria potestà a un genitore con la motivazione che faceva diventare «antinazionale, ateo e depravato» il figlio sedi— cenne consentendogli di frequentare un circolo di ginnastica socialdemocratico. Isocialisti non si rinchiusero però mai in un orizzonte di tatticismo classista. Sicuramente non nascevano immediati vantaggi ‘proletari’ dalla parità dei sessi nel diritto di famiglia sostenuta in aula da Bebel con l’autorevolezza di chi aveva scritto La donna e il sodalismo; e neppure dalle clausole progressiste su cui l’SPD insisteva a proposito di divorzio e diritto patrimoniale dei coniugi. Quel che agiva da parte socialista era lo spirito di uno Stato di di— ritto liberale. Seguendo le proposte socialiste, alla fin fine sempre respinte, si potrebbe ricostruire un vero e proprio codice di diritto civile ‘socialdemocratioo’, con i connotati, semplicemente, di quel che l’SPD si attendeva da una legislazione liberal-progressista. ]] testo del codice (entrato in vigore il 1° gennaio 1900) deluse quelle aspettative. Dalle norme-quadro pericontratti di lavoro rimasero esclusi domestici, dipendenti pubblici, lavoratori a domi— cilio e braccianti agicoli, rinviati al disomogeneo ‘diritto particolare’ dei singoli Stati o, peggio, alla prassi e consuetudine. Le associazioni religiose, politiche e politico-sodali (compresi dunque i sindacati) non vennero riconosciute come associazioni pubbliche; e la cosa verrà poi codificata nella pessima ‘legge imperiale’ del 1908 sul diritto di associazione e riunione che introdurrà anche altre restrizioni, come il divieto per i minori di diciott’anni di iscriversi ai sindacati e di partecipare a riunioni pubbliche, nonché 139
l’obbligo che queste si tenessero solamente in lingua tedesca. Tale cosiddetto ‘paragrafo linguistico’ - fortemente osteggiato dai socialdemocratici — diventerà un ulteriore strumento di discrimina-zione contro la minoranza polacca che nella Prussia del 1908 era diventata ormai, con i suoi quattro milioni, il 10% della popolazione. Per quanto riguardava infine il diritto di coalizione perilavoratori, il codice lasciò vigere il ‘diritto particolare’ che ad es. in Prussia vietava dal 1854 qualunque forma di organizzazione ai lavoratori agricoli. Se la socialdemocrazia aveva in mente di arrivare a un codice che facesse da surrogato all’inesistente dichiarazione federale dei diritti fondamentali, quell’esito non si realizzò. Di fronte a ciò, e di fronte soprattutto ai connotati classisti del codice, è comprensibile che Bebel insistesse, vincendo non poche resistenze del gruppo parlamentare, sull’inevitabilità del finale vo— to contrario da parte dell’SPD (i cui voti, del resto, non sarebbero stati comunque determinanti). Emblematica ne era però la motivazione:
Lasocialdemocraziasièsforzatadiconfigurarequestaleggecomela
si sarebbe dovuta fare secondo le vedute dei rappresentanti più progressisti della borghesia [.]. Se la socialdemocrazia non è riuscita a imporre quel che la nostra epoca richiede, ciòe awenuto perché è stata abbandonata precisamentedachi aveva primadi altriil dovere dilottareperun buon codice civile. [Bebe] 1896: 585]
Dunque proprio il calunniato ‘partito dei nemici del Reicb’
aveva desiderato semplicemente di modellare il codice in un modo più liberale di quanto non erano disposti a fare gli stessi liberali. Quel desiderio tomò alla ribalta, undecennio dopo, nei di-
battitiintorno al diritto penale. Non avvennero dalla tribuna parlamentare. Solo alla vigilia del conflitto mondiale (sicché nel ’14 verranno prontamente accantonati) giunsero a qualche consistenza iprogetti governativi di rifor— mare ildiritto penale e di procedurapenale rimasto fermo al 1871, nonché al ‘diritto particolare’ dei singoli Stati che, al solito, gli vigeva-accanto. L’SPD denunciò costantemente lo documentano una cinquantina di titoli della «Neue Zeit» del 1885-1912 e soprattuttoilavoridel congresso di Mannheimdel 1906 -— la «vuota giaculatoria dello Stato tedesco di diritto» [Mehring 1895: 706] che si esprimeva anche in quella legislazione. Le argomentazioni 140
tecniche provennero da un agguerrito manipolo di avvocati penalisti: Wolfgang Heine che collaborava ai «Sozialistische Monatshefte», Hugo Heinemann che insegnava diritto penale alla scuola centrale del partito e illustrò sulla «Neue Zeit» [1908] iproblemi del processo penale, Colm e Karl Liebknecht che erano consiglieri comunali a Berlino, Haase e Frank che lo erano rispettivamente a Kònigsberg e a Mannheim. Ibersagli furono, in particolare, la mancanza di uno babeas corpus [Frank 1905], onde le carcerazione preventive potevano durare anche dieci volte più della pena poi comminata, e la manipolazione delle leggi al fine di colpire politicamente il partito d’opposizione. A Haase [1906], nella sua relazionesul diritto penale al congresso di Marmheirn, non fu difficile documentare le manipolazioni, visto che alla Corte suprema di-Lipsia si dichiarava espli— citamente che, non essendoci più contro i socialisti le leggi eccezionali, bisognava appunto combatterli con un’attenta e capillare manipolazione» di quelle ordinarie.Irisultati furono nel 18901912 condanne a socialdemocratici per 164 anni di lavori forzati, 1.244 anni di carcere e 557.481 marchi di ammende. Si capisce come di fronte a ciò l’SPD insistesse sulla tutela e ga— ranzia della libertà di opinione, quindi in generale sull’inammissibilità di un diritto penale a uso politico. Ma lo faceva appunto in nome dello Stato di diritto in generale, e non soltanto quando venivano colpiti interessi immediati del movimento operaio. Le osservazioni socialiste sulla riforma del diritto penale implicavano d’altra parte un problema teorico globale, quello dell’equilibrio tra la certezza oggettiva del diritto e l’istanza che nella sentenza si tenesse però conto della situazione sociale concreta in cui il reato è avvenuto: «chi si appropria di un bene altrui perché spinto dall’estremo bisogno di conservare a sé o ai congiunti la sopravvivenza, deve restare immune da pena», spiegava Haase [1906: 376] ai delegati di Mannheim. Se per un verso si pensava a una dimensione di equità sociale da introdurre con la depenalizzazione di talune azioni che andavano tuttavia ben fissate e stabilite, dall’altro un allargamento della codificazione prescrittiva formale era immaginato come uno strumento tecnico per difendere l’universalità della norma giuridica dai pericolosi scivolamenti verso uno Stato non di diritto, bensì di polizia. Allo stesso modo, insomma, come l’ampliamento 141
dei poteri costituzionali del parlamento avrebbe dovuto neutraliz-
zare la Komrnandogewalt dell’imperatore.
7.4. Lo ‘Stato delfuturo’ ele difficoltà della teoria politica Icriteri dello Stato di diritto venivano dunque assunti dai socialisti come una sorta di apriori storico-empirico: cioè vincolanti sì, ma non incondizionati, non sciolti dalla realtà storica all’interno della quale, soltanto, essi sono normativi. Poiché la realtà dei contenuti è storica, ovvero concretamente fluida, le norme valgono in proporzione alla loro capacità di fungere da contenitori altrettanto elastici, non prefissati in maniera apodittica. Lo si vide a proposito della questione istituzionale. A1 congresso di Amsterdam dell’Internazionale (1904), ]aurès accusò di impotenza l’SPD perché, con i suoi tre milioni di voti, non aveva proposto al congresso di Dresda del 1903 l’instaurazione della repubblica. «Avremmo forse dovuto mobilitare quei tre milioni e portarli davanti alla reggia per deporre l’imperatore?» fu l’ironica risposta di Bebel [in Hirsch 1968:216], dettata non da Realpolitih tattica ma da qualcosa di più serio. Ciò che importava dawero, al di là della forma istituzionale, era infatti di imporre quei contenuti civili e politici sostanziali che in Svizzera, Francia e Stati Uniti erano prassi costituzionale da tempo: come ilsuffragio universale uguale e diretto per tutti gli or— gani rappresentativi, ilpieno diritto di associazione e coalizione, la non-discriminazione dei socialisn' nell’amministrazione e nell’esercito. Durante la cosiddetta Monarchie-Debatte, il dibattito del gennaio 1903 al Reichstag sulla questione istituzionale, gli oratori socialisti sostenevano (e lo ribadirà il congresso di Dresda) che non la forma istituzionale monarchica o repubblicana contava, bensì la sostanza: e questa consisteva nella necessità di trasformare in regime parlamentare, foss’anche monarchico, un regime autoritario personale. Al parlamentarismo mirava anche la direzione del partito. In un lungo saggio di Gradnauer [1909] sulle battaglie costituzionalistiche in Germania, nel quale si esprimevano le posizioni della direzione,idisegni di legge socialdemocratici per la re— sponsabilità ministeriale venivano definiti il più coerente e giusto tentativo di imporre la monarchia parlamentare.
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Iconcetti definitori generali (Stato di diritto, monarchia, re-
pubblica, parlamentarismo, codificazione ecc.) sono dunque degli apriori “normativi nei quali la specificazione delle categorie predicative proviene dichiaratamente dalla contestualizzazione storica, ossia dal lato dell’empiria storico-reale. La storicizzazione fu in generale perseguita consapevolmente. Era dettata da un patrimonio di sapere acquisito nella quotidianità delle esperienze socialdemocratiche: le quali dall’attività nel partito, nei sindacati, nel movimento cooperativo e nella stampa andavano sino all’impegno nel Reichstag, nelle Diete e nei consigli comunali, o magari alla sperimentazione del giure sulla propria pelle neitribunali e nelle carceri. Vale la pena di rilevare quest’aderenza al reale nelle questioni giuspolitiche, perché si tratta di un ambito da aggiungere ai pochissimi (un altro, si è visto, era la questione nazionale) in cui un’attenta ricezione dei dati di fatto poteva essere la premessa per adeguare la teoria alle cose. Apriorismi naturalmente non mancarono, ma quel correttivo comunque agiva. Un’indiretta conferma di quest’ atteggiamento verso il reale emerge dalla cautela con cui proprio in ambito giuspolitico si evitavano pronunciamenti generici, sciolti dal supporto dei dati d’esperienza. Questa cautela era stata anche uno degli aspetti — tuttavia non così limpido come a prima vista sembrerebbe — del dibattito al Reichstag del gennaio-febbraio 1893 sullo Zukunftsstaat, lo ‘Stato del futuro’, nato dalla provocatoria domanda dei partiti di centrodestra ai socialisti, di dire una buonavolta come irnmaginassero lo "Stato sodaldemocratico’ La cosa emblematica non fu tanto che Bebel definisse improponibile la domanda (il socialismo ha a proprio fine ultimo non una forma di Stato bensì l’abolizione dello Stato), quanto ch’egli rifiutasse di descrivere dettagliatamente un assetto socio-politico futuro. E ciò con l’ argomento di metodo che «noi siamo un partito il quale impara costantemente, si trova costantemente in un processo di muta spirituale, e non ha la pretesa che un’asserzione fatta oggi e oggi ritenuta giusta, debba sussiste re indubitabilmente e infallibilmente per tutta l’eternità» [ZS 1893:21]. La cautela metodologica venne ribadita da Frohrne [ivi: 92-93]:
Quel che voi chiamate lo Stato sodaldemocratico del futuro è una cosa che semplicemente non può esserci e non ci sarà. Quel che noi difen143
diamo è il prodotto di uno sviluppo che avviene per necessità naturale.
Difendiamo di volta in volta la tappa prossima dello sviluppo, la prossi-
ma tappa dello sviluppo organico, niente di più e niente di meno.
Ma per un partito di massa, forte dal 1890 della maggioranza relativa in voti, si apriva qui un rischio serio. Poteva mai un pardto che si candida a partito di maggioranza assoluta «conquistare la fiducia della maggioranza della nazione se non dice chiaramente su ogni singola questione pratica come intenderà esercitare di fatto il potere che quella maggioranza deve conferirgli?». Era, in un articolo sul parlamentarismo nei «Sozialistische Monatshefte» del 1908 [in Fenske 1982: 276], la preoccupazione del liberale di sinistra Maurenbrecher che per alcuni anni (1903-16) aveva aderito all'SPD. In realtàipresupposti di una cultura di governo esistevano sin dai tempi delle leggi antisocialiste, quando, messo al bando il partito, era rimasto come unica voce della socialdemocrazia il gruppo parlamentare. Poi, dopo il ’90, quella cultura venne prodotta di fatto, quotidianamente, dalle decine di migliaia dimembridel partito attivi negli organismi statuali: cioè nel Reichstag, nelle Diete dei singoli Stati, nei consigli comunali, nelle magistrature del lavoro e negli uffici per il collocamento, per l’assistenza ai disoccupati e per le previdenze sociali. Ciò che mancò fu l’inserimento organico di quelle esperienze in una complessiva teoria di governo. Lo ostacolò un convergere di remore dottrinali e carenze epistemico-concettuali. L’elaborazione di una teoria di governo non veniva di certo favorita dall’abito di prendere come punto di riferimento per iproblemi del presente l'eldorado socialista del—futuro dove ogni problema avrebbe trovato automatica soluzione. Insomma, perché occuparsi tanto dello Stato se la meta socialista ultima è l’abolizione dello Stato, o rompersi la testa sulla questione istituzionale vistoche—cosìEngelsaLafargueil6marzo1894—peril«futuro dominio del proletariato» fare la repubblica in Germania sarà questione di ventiquattro ore [OME, L: 240]? Nel rifiuto di disegnare scenari per i quali non esistono dati di esperienza, giocava poi, al di là dell’antiapriorismo proclamato, un apriorismo nascosto: ovvero la convinzione che la validità teorica e pratica di un progetto derivasse unicamente dall’aver esso conglobato la totalità de— 144
finitiva dei dati. Il che, si sa, è consono a una rivelazione metafisica, non a un progetto scientifico. Emergeva dunque un’altra volta, come già in altri casi (vedi 2.3, 3.3, 4.2, 4.5), la carenza di spirito sperimentale dovuta alla man— cata definizione di strumenti epistemici funzionali. La teoria-ipo stasi, dove l’architettura concettuale sistemica ha una posizione di privilegio rispetto ai fatti, non era stata sostituita sul serio (al di là di asserzioni verbali) dall’idea, scientifica, della teoria-ipotesi dove ifatti interagiscono con un modello teorico duttile. Per un modello duttile“, che consideri se stesso un universale empirico—storico e quindi epistemicamente provvisorio, non sussistono difficoltà di principio a delineare con idati disponibili un quadro provvisorio di ognuna delle «tappe dello sviluppo organico» (come le aveva chiamate Frohme), salvo a rettificare e completare quel quadro via via che affluiscono nuovi dati. Semmai la difficoltà si sposta su un altro piano: quello di individuare dati che indichino tendenze generali, proprie di un’intera fase storica più o meno ampia, e sceverarli dalle fatticità di più corto respiro. Anche qui, naturalmente, si richiede la duttilità di rimettere in questione la scelta e aggiustare iltiro ove fatticità scartate si rivelassero, alla prova dei fatti appunto, meno contingenti e secondarie di quanto sembravano. Sul terreno della politica vi fu insomma ilparadosso di una cultura di governo robusta nella prassi, ma non tradotta in parametri teorici.I‘revisionisti’ ne trassero stimolo per far proseguire il par— tito sulla strada degli strumenti politici, quella «in cui, dappertutto, i rappresentanti della socialdemocrazia si pongono praticamente sul terreno dell’azione parlamentare, della rappresentanza proporzionale e della legislazione pubblica» [Bernstein 1899/ 1974: 189]. Chi, come ad esempio Kolb, aveva avuto esperienze di politica comunale e di deputato regionale nella Dieta del Baden, denuncerà ancora nel 1910, con accenti simili a quelli di Mantenbrecher,iguasti prodotti dalla mancanza di un programma politico propositivo generale: «La tattica ‘radicale’ dell’opposizione negativa può esser seguita senza danno da una setta politica, ma non, alla lunga, da un partito dietro al quale c’è un esercito dimilioni di elettori che non possono né ”vogliono aspettare che arrivi la ‘costruzione’ della sodetà sodalista» [in Fenske 1982:298]. Senonché via via che nel revisionismo si rafforzò l’istanza di contenuti propositivi, vi si affievolì però la nozione che anche gli 145
strumenti giuridico-parlamentari su cui far leva avevano una stadi universali empirico-storici, sempre relativi dunque a fasi ben determinate del quadro storico-sociale complessivo. Ne venne la tendenza ad assolutizzare la loro forma storica particolare, a vedere nella loro concrezione attuale uno strumento tecnico-formale buono indistintamente per tutte le stagioni politiche. La protesta contro l’ipostatizzazione del parlamentarismo nella sua forma contingente fu certamente trai motivi delle critiche che Kautsky muoveva (vedi 1.3) a chi, per difetto di elaborazione teorica, non aveva capito l’importanza delle connessioni complessive tra idati di fatto e gli obiettivi. L’accento stava sulla necessità di «indagare ogni nesso sino alle sue più lontane ramificazioni» e di «mettere ogni dato di fatto in correlazione con la globalità della visione del mondo», era insomma rivolto contro il pragmatico che non penetra «nelle connessioni generali» e non riflette «sino infondo sui concetti politici che via via emergono in primo piano» [Kautsky 1905: VIII-IX]. Ma l’ampiezza di orizzonte teorico qui invocata perché ritenuta scientificamente risolutiva, era poi subito inficiata in Kautsky e nei teorici ‘centristi’ dalla continua oscillazione tra la privilegiata idea del marxismo come dottrina sistemicamente definitiva ele scarse aperture a un marxismo come teoria— ipotesi. Quanto ciò fosse di ostacolo alla teoria, quanto le remore verso l’apertura del marxismo finissero per complicare tut1i iproblemi di tattica e strategia, si vide nelle ripercussioni che ebbe sul partito un evento inatteso come la rivoluzione russa del 1905. tuto
7.5. Quale via alpotere?
Sulla strada della legalità istituzionale c’erano come immedia-
to ostacolo iprofondi difetti del sistema elettorale
Ilmosaico delle legislazioni particolari dei singoli Stati andava dal suffragio universale per la Dieta del Wùrrtemberg al sistema eclatantemente illiberale del voto a ‘tre classi’ in Prussia (e sino al 1909 anche in Sassonia), passando per svariate altre forme di diritto elettorale censitario. Il sistema prussiano toccava tre quarti della Germania e trentasette dei sessanta milioni di sudditi del Reicb.Anche nelle elezioni nazionali ilsuffragio formalmente universale pativa disuguaglianze per il fatto che le circoscrizioni uni146
nominali continuavano a rimanere quelle del 1871: con tutti gli squilibri tra collegio elettorale e numero di elettori che ciò comportava soprattutto dopo il grande fenomeno (vedi 4.1) delle migrazioni interne. Sino al 1903 la segretezza del voto era pressoché vanificata dall’inesistenza di cabine nei seggi e di schede elettorali ufficiali. E restava l’alta soglia dei venticinque anni d’età per poter votare, nonché l’esclusione dal voto per le donne, imilitari e iti— tolari di sussidi di povertà. Ora ilsuffragio universale generalizzato, uguale e segreto era sì l’obiettivo dei partiti socialisti anche negli altri paesi dell’Europa centro-occidentale che contavano, ma pure lì ci si chiedeva se non sarebbe stato possibile ottenere la giustizia elettorale mediante pressioni extraparlamentari di massa. Con scioperi generali politici ci avevano provato senza successo, tra il 1902 e il 1904,isocialisti in Svezia, Olanda, Italia e soprattutto in Belgio. Dal congresso di Amsterdam dell’Internazionale, dove la questione dello sciopero politico di massa venne discussa, uscì una cauta risoluzione (lo sciopero politico di massa unicamente come mezzo estremo per «ottenere mutamenti sociali significativi, oppure respingere attentati reazionari contro idiritti dei lavoratori») la quale non piacque affatto alla sinistra radicale dell’SPD che consideravalo sciopero generale come l’antidoto per eccellenza al parlamentarismo riformista, anzi l’unico strumento veramente rivoluzionario. La rivoluzione di vecchio segno e sogno che lo Engels del ’95, trascrivendo la nozione di rivoluzione in diritto di resistenza, aveva abbandonato come programma propositivo e considerato semmai soltanto un estremo mezzo in risposta a diritti conculcati sembrava ridiven— tare la chiave d’oro: con il corollario del parlamentarismo come espediente soltanto tattico in attesa del grande sovvertimento, insomma con un regresso alle idee professate da Engels prima dell’autocritica del concetto quarantottesco di rivoluzione. Di lì a poco la bontà delle vecchie tesi parve confermata dalla rivoluzione del 1905 in Russia. Quando questa scoppiò si trovavano in sdopero per rivendicazioni salariali oltre duecentomila minatori della Ruhr. Non scaturiva forse un «identico insegnamento storico» da queste «due sollevazioni di massa proletarie, che di punto in bianco hanno riportato alla superficie le forze rivoluzionarie elementari attive nell’intimo della società moderna» [Luxemburg 1905/SL: 235-36],non vi si era forse «incarnato ilverbo», ov-
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vero il genuino «spirito marxiana [...] che con la necessità di una legge di natura presto o tardi riporterà la palma» [ivi: 244]? Lo
«spirito marxiana» evocato era quello delle barricate del ’48. Alla lotta contro ilregime zarista venne inGermania ilsostegno di affollate manifestazioni operaie e la solidarietà tangibile di oltre trecentomila marchi raccolti per le vittime della rivoluzione. Indicembre Mehring [1905 a: 441] paragonerà il 1905 a quelle date che nella storia mondiale segnano l’inizio di una nuova epoca dell’umanità. E Clara Zetkin al congresso di]ena indicava come segno indubitabile di tale epoca il crescente acutizzarsi della lotta di classe, chiedendosi pure se al di là degli strumenti della lotta sindacale e parlamentare già sperimentati non esistessero, in determinate situazioni eccezionali, anche altri mezzi di lotta [P-Jena 1905: 323]. Tomè così alla ribalta lo sciopero generale come arma politica di massa, terreno di coltura dello spirito rivoluzionario, palestra di addestramento per trascinare «nellalottaipiù larghi strati del pro— letariato» [Luxemburg 1906/SL:253]: uno sciopero — come ilmodello russo dettava all’olandese Henriette Roland-Holst [1906]
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che avrebbe infine scardinato l’apparato di potere dello Stato anche in Occidente. Niente di tutto ciò combaciava con la via parlamentare tracciata dal programma di Erfurt. Alloro congresso di Colonia del maggio 1905 i sindacati si erano perciò dichiarati as— solutamente contrari a che lo sciopero politico di massa venisse codificato come una strada imperativa, e la sinistra li aveva accusati ditradimento e burocratismo. Bebel in settembre, al congresso ie— nese, escogitò una via d'uscita. La risoluzione ch’egli propose e che fu approvata dalla stragrande maggioranza dei delegati, collocava lo sciopero generale all’interno della prospettiva parlamenta— re, definendolo uno dei più idonei mezzi di difesa contro gli attentati ai diritti politici democratici ["F-Jena 1905: 145]. Era la linea del congresso dell’Internazionale di Amsterdam; e, andando più indietro, quella dell’Engels del ’95 e dell’azione di massa come arma di resistenza alle illegalità della classe dominante. Ma adesso, in contrapposizione al paragone russo su cui insisteva l’estrema sinistra, con l’aggiunta di una considerazione di orcognitivo. con la puntualizzazione che quel paragone Ovvero dine non reggeva perché viziato di apriorismo: aprioristico essendo un abito mentale che da fatticità empirico—storiche disomogenee (il dispotismo zarista e la legalità costituzionale comunque esistente 148
in Germania) estrapola, chiamandolo sciopero rivoluzionario, un modulo universale che dunque godrebbe di validità in virtù propria invece di riceverla dal contesto. È il vizio di apriorismo — così Eisner [1905] criticando idee chelaRoland-Holst nutriva da anni a portare a una concezione «se non utopica, certamente speculativa» dello sciopero generale, nella quale, venendo uno tra i possibili strumenti della lotta di classe ipostatizzato a strumento assoluto, si «volatilizza» ogni volta il contesto specifico; inoltre, poiché quella concezione si accompagnava di solito alla teoria parimenti aprioristica del ‘crollo’, la politica parlamentare dei partiti operai sarebbe stata svilita a mero ingrediente di opportunità provvisoria, priva di sostanza rivoluzionaria se questa veniva fatta risiedere nel miraggio di una conflagrazione generale in cui con—
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fluissero contemporaneamente il ‘crollo’ e il Generalrtreik. Kautsky [1904] in un lungo saggio sui problemi generali della rivoluzione aveva avvertito, già un anno prima dello scoppio della rivoluzione in Russia, che lìin nessun caso essa sarebbe potuta ap— prodare di punto in bianco a un regime socialista perché a ciò le condizioni economiche del paese non erano affatto mature. E Bebel, sottolineando nella sua relazione sullo sciopero politico di massa al congresso di Mannheim del 1906 la diversità dei contesti storico-reali, ribadiva che proprio in ragione di essi il discorso politico in Germania non poteva essere omologo a quello russo: «da noi non si pone la questione di mutare l’intera sovrastruttura po— litica della società borghese» [P-Mannheim 1906: 232]. Traiteorici ‘centristi’ le finalità parlamentari dello sciopero politico vennero sottolineate in particolare da Hilferding [1905]. Il quale del resto aveva ammonito già prima a non considerare lo sciopero un’arma per «putsch pseudorivoluzionari», bensì uno strumento per «proteggere la marcia in avanti del proletariato da intralciche a essa venissero imposti con la forza» [Hilferding 1903 a: 141]. Anche Kautsky daffermerà ancora nel ’13, contro la Luxemburg, il precipuo carattere democratico-parlamentare dello sdopero di massa, arma difensiva contro pericoli autoritari e offensiva per dernocran'zzare la Prussia [Kautsky 1913 a: 567]. E analoghe idee sulla connessione tra azione di massa e azione parlamentare c’erano persino nella sinistra moderata. Al congresso di Jena del ’13 Ledebour dirà che «parlamentarismo e sciopero di massa, rettamente intesi, non sono in contraddizione ma devono 149
integrarsi avicenda» [P-Jena 1913:307]. Bernstein [1906] dal can-
to suo chiamava «romanticismo rivoluzionario» l’atteggiamento di
chi, violando i contesti storico-specifici, ipostatìzzava l’azione extraparlamentare: la quale, semmai, è un’arma per imporre un assetto liberal-democratico in una realtà nazionale di Stato assolutistico e società civile disgregata, ma neanche lì, e dunque tanto meno nelle realtà costituzionali occidentali, può essere uno strumen— to immediato di socialismo. II‘romanticismo’ dei dottrinari del grande sciopero uscì confermato dal fatto che la parte più politicizzata delle masse, ch’essi evocavano e invocavano come protagoniste di quell’evento decisivo, ne aveva, al contrario, un’idea assai più sobria, circoscritta a un generale contesto parlamentare. Da quel che nei loro scritti sostenevanoisocialrivoluzionari a cominciare dalla Luxemburg e poi sino ai terzinternazionalisti — si ricava l’impressione che negli anni intorno al 1905 le organizzazioni di base del partito, anelanti di muovereverso ilgrande sciopero rivoluzionario, fossero state sern— plicernente tradite dagli «avvocati parlamentari» (così la Luxemburg a Jena [P-Jena 1905: 320]). Ma nell’ondata degli scioperi salariali del biennio 1905-06 messi in atto da più di ottocentomila operai per oltre tredici milioni e mezzo di giornate lavorative, era in realtà soltanto la «Leipziger Volkszeitung», il quotidiano della sinistra, a vedere i prodromi dell’imminente sciopero generale e dunque della presa del potere. Quando infatti, dopo un anno di simili azioni di massa, diciassette organizzazioni regionali del parti— to presentarono al congresso di Mannheim le loro risoluzioni su]lo sciopero politico,quattordici erano fermamente sulla posizione che tale sciopero era soltanto un’arma per difendere ed estendere diritn' politici liberal-democratici o, come adesso specificavano, per imporre il suffragio universale e uguale nei singoli Stati del Reich. Ilbersaglio principale era ovviamente ilsistema elettorale prussiano; e che in Prussia lo sciopero di massa fosse una buona arma di pressione per conquistare la giustizia elettoralelo pensavano anchei riformisti. Bernstein al congresso di Brema del 1904, pur rilevando come fosse finita l’epoca delle barricate, aveva però aggiunto che per quanto riguardava l’azione extraparlamentare l’unico mezzo di lotta restava lo sciopero politico di massa: «se abbiamo il dovere di mettere in guardia i nostri compagni dal ro—
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manticismo, non dobbiamo però cadere nell’eccesso opposto», nel rifiuto drastico di quel tipo di sciopero [P-Bremen 1904: 1934]. E proprio dalla constatazione dell’«esistenza soltanto precaria» che ha in Germania il suffragio universale inferi poi- nelle ‘dodici tesi’ in appendice al suo scritto del 1905 sullo sciopero politico di massa - l’«ineludibile necessità» di definire quest’ultimo come «arma di lotta delle classi popolari per la difesa di diritti minacciati e per la conquista di diritti a esse costantemente preclusi» [Bemstein 1905/1977' 162]. Che intorno all’obiettivo della giustizia elettorale — per il quale si mobilitarono decine di migliaia di operai negli scioperi di Am— burgo, Assia, Sassonia e Prussia tra il 1906 e il 1910 — non si coagulasse nessuna tattica d’insieme, cioè nessun progetto che facesse concretamente pemo sulla giustizia politica e in funzione di questa costruisse un nesso teorico tra azione parlamentare ed ex— traparlamentare, dipese largamente, un’altra volta, dai difetti concettuali della teoria. Su di essa non fecero una vera presa néisegmenti di positiva prassi parlamentare socialista, né gli spunti di riflessione sullo Stato di diritto che vennero da quella prassi, né l’inedito fatto di scioperi politiciextraparlamentari con finalità parlamentari, owero le tre novità importanti del quadro post-erfurtiano. Su una teoria che non aveva risolto il proprio rapporto con ifatti, quelle novità non ebbero ricadute organiche. Avrebbero potuto averle se prassi, spunti e fatti si fossero incontrati nella costruzione di una teoria dello Stato. Ma questa, a parte sporadiche suggestioni a proposito della questione nazionale, restò fuori dell’orizzonte sia dei teorici ‘centristi’ che dei ‘riformisti’ Nei primi facevano remora leideesullo Stato concepito come un insieme di connotati soltanto ed immediatamente classisti, nei secondi giocavano le diffidenze verso ogni ‘teoria’, da loro equiparata sempre e comunque aldeteriore marxismo—sistema. Né potevano esservi interessi positivi per lo Stato nella sinistra radicale, bloccata da una concezione prevalentemente economicistica della storia. La sinistra, si sa, accusava il partito di non voler ‘fate la rivoluzione’ Ora, che la ‘rivoluzione’ come obiettivo generico fosse una nozione cognitivamente vuota (e di solito disastrosa per la prassi) perché nient’altro che un’idea ipostatizzata, Kautsky ave— va mille ragioni a ricordarlo ogni qualvolta gli capitava l’occasione, e soprattutto quando nella Via alpotere del 1909 ribadì che «le 151
rivoluzioni non possono esser fatte a piacere, [...] esse sorgono necessariamente in circostanze date e sono impossibili finché queste circostanze, che si sviluppano soltanto a poco a poco, non sono presenti» [Kautsky 1909/1974: 8]. Ma se c’era una rivoluzione le cui «circostanze» erano già sviluppate ottimamente tanto nella realtà delle cose quanto (con le manifestazioni per il suffragio a testimoniarlo) nella coscienza di massa, questa era precisamente la rivoluzione parlamentaristica. A condizione naturalmente di riconoscerne sul serio il carattere rivoluzionario, di pensare sino in fondo le implicazioni teoriche e
pratiche che aveva l’autocritica engelsiana della rivoluzionedi vecchia maniera, di trarne anche tutte le conseguenze operative, e dunque di capire anzitutto il nesso positivo tra il lavoro all’interno delle istituzioni rappresentative e l’azione extraparlamentare finalizzata al compimento dello Stato di diritto. Quei fili tuttavia non si lasciavano afferrare senza una teoria positiva dello Stato, e questa non c’era, né vi surrogava la kautskiana Via al potere che pur sin dal sottotitolo («considerazioni politiche sul maturare verso la rivoluzione») ambiva a ridefinire globalmente (alla luce dei nuovi fatti tra cui il 1905 russo) le premesse della «rivoluzione sodale verso la quale ci muoviamo» [Kautsky 1909/1974: 7]. Kautsky rilevava che non funziona la tesi della «maturazione economica graduale dello Stato del futuro» quando poiisuoi so— stenitori, per determinismo economicistico coniugato con vecchio utopismo, si oppongono alla lotta politica [1909/1974: 13]. Ma ugualmente sbaglia chi dalla constatazione cheilavoratori fonda no cooperative e sindacati e sono presenti negli organi rappresentativi istituzionali inferisce— almodo di Maurenbrecher contro cui Kautsky già un anno prima [1908 e] aveva anticipato temi della Via alpotere- che il processo di «maturazione della sodetà socialista» fosse sostanzialmente «pacifico e indolore» [1909/1974: 36]. Al contrario: in misura assai più grande che nonin passato «siamo en— trati adesso in un periodo di lotte per la direzione dello Stato e per il potere politico» [ivi: 85], caratterizzato in Germania dal grande sviluppo industriale, dalla conseguente enorme crescita e solidità organizzativa del proletariato, e ora anche dalle ripercussioni di massa degli eventi russi. Questi «elementi rivoluzionari» oggettivi, che di per sé «sono all’inizio rivoluzionari soltanto inpotenza» [ivi: 100], sarebbero diventati operanti se li si incanalava verso gli sco152
pi della democrazia e della soppressione del militarismo, mete conseguibili però soltanto se il proletariato arrivava a una posizione dominante nello Stato [ivi: 140]; e per conquistarla occorrevano battaglie per la compiutezza dei diritti politici: owero «per la democrazia nel Reich, ma anche nei singoli Stati e in particolare in Prussia e in Sassonia» [ivi: 169].
Il peso che Kautsky con una mano attribuiva alla battaglia legalitaria (cioè che proprio in essa dovevano coagularsi ifermenti rivoluzionari), glielo toglieva però con l’altra. Il concetto della legalità costituzionale non fu da lui mai inteso come un inedito universale empirico-storico emerso da mutate circostanze, e che adesso conteneva la vera sostanza rivoluzionaria. Per illustrare le novità Kautsky mobilitò come base teorica, in lunghe citazioni, ilsuo vecchio articolo [Kautsky 1893] sul Catechismo sodaldemocratico di Ludwig Knorr, dove però aveva presentato la via legalitaria (seguendo lo Engels del ’90) come soltanto un momento tattico in attesa della decisiva ‘rivoluzione sociale’ sulla quale peraltro (e giustamente) non si poteva profetizzare nulla. Prevaleva dunque l’idea di una cesura tra l’azione politica e il rivoluzionamento sociale vero e proprio. Kautsky livide come due momenti di una successione rigidamente seriale: in Germania il proletariato doveva cioè prima adempiere il «compito storico» della borghesia conquistando la democrazia parlamentare, o per così dire l’«attuale Stato inglese», e solo successivamente mirare a quel che in tm irnprecisabile futuro sarebbe stato ilsocialismo e lo «Stato proletario» (a Bernstein, 18 febbraio 1898 [IISG, NK C: 180]).Idue momenn' avevano in comune soltanto la lunga durata e l’imprevedibilità dei contenuti: la rivoluzione politica può «durare decenni, con vari cambiamenti [...] le cui forme e la cui durata sono tuttora imprevedibili» [1909/1974: 85], ma anche il successivo rivoluzionamento sociale è «un processo che può durare decenni» e dunque non consente di «almanaccare ricette per la tavola calda del futuro» [Kautsky 1902 a: 64-67]. Né la presa del potere politico né la rivoluzione sociale si potevano d’altra partefare con colpi di mano e barricate. ma solo con un proletariato che fosse «forza abbastanza grande e compatta da poter trascinare con sé, in circostanze favorevoli, la maggioranza della nazione» [Kautsky 1909/1974: 12]. Vigeva dunque l’idea engelsiana del 1895,della ‘rivoluzione dimaggioranza’ Quelche però in153
deboliva tutta la prospettiva era la dicotomia tra la fase ‘politica’ e quella ‘sociale’, la loro separazione tabellare, soprattutto di fronte alla ormai riconosciuta lunga gradualità dientrambiiprocessi. Ovvero mancava il riconoscimento che in un contesto generale di capitalismo avanzato, e ancora di più in quello specifico te— desco, la battaglia politica per l’attuazione dello Stato di diritto si configurava come già essa stessa in osmosi con la lotta sociale. In primo luogo perché sul terreno (politico) di una battaglia per la democratizzazione dello Stato si sarebbe potuto effettivamente conquistare, a determinate condizioni, il consenso della ‘maggioranza della nazione’ e ciò sarebbe stato, insieme, anche uno straordinario risultato sociale, però ovviamente conseguibile solo a patto di lavorare con coerenza per favorire in ogni maniera quel consenso. In secondo luogo le tappe stesse della costruzione del consenso politico erano suscettibili di convertirsi di fatto — come in certa misura emergeva dai risultati della politica del partito nella Germania centro-meridionale - non soltanto in una marcia d’avvicinamento verso futuri obiettivi di carattere specificamente :ociale, bensì già in un loro graduale raggiungimento.
Nota bibliografica 7.1. Sul problema delle crisi: Parvus [1907, di attesa del crollo]; invece Cunow [1898], Kautsky [1902; 1908 d], Bauer [1904] più possibilisti sulle capacità del capitalismo. Sugli effetti negativi della ‘teoria del crollo’: Walther [1981]. 72. Sulla ‘rivoluzione’ nel tardo Engels: Steinberg [1971], Mergner [1973: 15759], Mehringer [1973:40471. Negt [1979; 11017, 138-42]. Il Reich come Stato di polizia: Wittwer [1983].
7.3. La struttura del Reich ei problemi politici: Molt [1963: 18-70, 326—55], Grol‘r [1973: 21-31], Domann [1974: 4-44], Craig [1978/1983, I. 48-72], Engelberg [1979: 19-31]; Ribhegge [1989: 121-40].
Sulle idee costituzionalistiche della socialdemocrazia: Grosse: 154
[1970], Domann [1974], Hall [1977' 41-116], Steinbach [1983]. Ilproblema delle codificazioni: Martiny [1976: 55—71, 151-66].
7.4. Sulla questione monarchia-repubblica: Domann [1974: 196228]. Ildibattito sullo ‘Stato del futuro" Boll [1980: 47-53]. Sull’SPD nelle istituzioni locali e comunali: Franzen [1987].
.,
7.5. Sui sistemi elettorali in Germania: Molt [1963: 64-70], Misch [1974: 129—73].
Idibattiti sullo sciopero generale: Kautsky [1914 a: 9-108], Schorske [1955: 28-58],] Braunthal [1961, I. 291-304]. Sulle ripercussioni del 1905 russo: L6sche [1967: 22-65].
Capitolo ottavo
I CANNONI D’AGOSTO
8.1.Isoa'aldemocratici e l’«unica marra reazionaria»
Ancora alla vigilia del congresso di Erfurt un abbozzo di programma elaborato dalla redazione della «Neue Zeit», e ristampato sul «Vorwà'rts» del 6 ottobre 1891, esprimeva la convinzione che di fronte ai socialisti vi fosse, sempre e ovunque, soltanto un’«unica massa reazionaria». Engels l’aveva bollata come idea
«completamente falsa» perché, seguendola, «l’intera nazionesi dividerebbe in una maggioranza di reazionari e una minoranza di impotenti» (a Kautsky, 14 ott. 1891 [OME, IL: 184]). Ma, soprattutto, l’assioma della ‘massa reazionaria’ avrebbe precluso alla socialdemocrazia qualsiasi politica di alleanze. In un abbozzo di lettera (18- dic. 1889) al socialista danese Gerson Trier, Engels dichiarava ch’egli, in Germania, si alleerebbe senz’altro con «chi combattesse effettivamente per l’abolizione del maggiorascato e di altri residui feudali, della burocrazia, dei dazi protettivi, della legge contro isocialisti, delle limitazioni al diritto di riunione e di associazione» [OME, XLVIII: 347]. C’era l’aggiunta, ovvia in Engels, del limite assoluto che le alleanze incontrano, ovvero che non venisse messo in discussione il «carattere di classe proletario» del partito [ivi: 348]. Ma il successo elettorale del ’90 (e degli anni successivi), poi il naufragio della legge antisocialista, poi l’inedita ‘rivoluzione di maggioranza’ intuita da Engels nel ’95 non dovevano forse far riconsiderare proprio la natura ‘proletaria di classe’ del partito? Se la strada è la legalità democratica, con pari accento sul sostantivo e l’aggettivo, se qualunque disegno di rivoluzione sociale futura & condizionato dalla presenza del partito come protagoni156
sta politico dentro le istituzioni, allora il partito non è più soltanto il portavoce di interessi ‘proletari’, non dà voce soltanto all’an-
titesi di classe tra capitale e lavoro salariato, o all’«abisso tra pos-
sidenti e nullatenenti» come la tradizione socialista induceva a semplificare le cose nel programma di Erfurt. L’antitesi diventa quella tra il puro e semplice conservatorismo da un lato, e gli interessi del progresso generale, in ugual misura politico e sociale. Precisamente ciò irnplicavano, a ragionarle sino in fondo, la teoria della ‘rivoluzione di maggioranza’ e l’eredità del liberalismo progressista assrmta per proprie dichiarazioni dalla socialdemocrazia. Ma in quest’ottica irapporti con gli altri partiti non potevano più avere la mera strumentalità tattica che emergeva dalla lettera di Engels a Trier. Nelle celebri Glossa marginali al programma di Gotha (1875) Marx, a proposito della frase di quel programma secondo la quale il partito «persegue con tutti imezzi legali lo Stato libero e la società socialista», aveva contestato che si potesse mai immaginare uno «Stato libero», essendo lo Stato sempre uno strumento della. classe dominante; e in sede di prassi politica aveva sottolineato l’illusorietà di «mezzi legali» nella Germania bismarckiana. Il fatto che adesso i ‘mezzi legali’ si rivelavano tutt’altro che un’illusione cambiò radicalmente i termini del problema. Per effetto della partecipazione socialdemocratica agli organi di rappresentanza la nozione di ‘Stato libero’ si trasformò da vago verbalismo in qualcosa di molto preciso, cioè nella reale prospettiva di uno Stato senza discriminazioni politico-giuridiche di classe; e dove queste esistevano e si riflettevano nel sistema elettorale e nella codificazione, la socialdemocrazia era impegnata a eliminarle. Ipunti di politica interna elencati nel programma di Erfurt, sostanzialmente irnpemiati sulla rivendicazione di uno Stato di di— ritto ad apertura sociale, poco differivano da quelli di un demo— craticismo liberal-progressista, o «radicalismo borghese» come più tardi preferirà chiamarlo Bernstein [1915]. Richieste analoghe (compiuta attuazione dell’assetto parlamentare, estensione del suffragio universale ai singoli Stati, libertà di associazione, laicità della scuola, legislazione del lavoro, non-discriminazione dei lavo—, ratori, riforma del sistema fiscale e giudiziario) comparivano an— che nei partiti e movimenti del' progressismo borghese: con dichiarazioni che andavano dal programma del 1884 del ‘Partito li157
berale tedesco’ fino a quer del ‘Partito nazional-liberale’ nel 1907, e del ‘Partito popolare progressista’ nel 1910. Ma se ifatti s’incaricavano di smentire la leggenda dell’«unica massa reazionaria», che cosa impediva di percorrere insieme ai borghesi non reazionari la strada di uno Stato di diritto ad apertura sociale?Isocialisti sapevano benissimo da quante crepe fosse segnata l’alleanza tra la «casta monarchico-burocratica-terriera» da un lato, e dall’altro la «borghesia industriale che giorno dopo giorno, ora dopo ora, vede danneggiatiisuoi interessi materiali da questi elementi antiquati» (Engels a Bebel, 19 febbr. 1892 [OME, IL: 2901). Ciò che all’SPD impedì di volgere a proprio favore quel contrasto fu l’idea ch’esso fosse un mero epifenomeno di quelle contraddizioni interne del capitalismo che avrebbero portato alla meta socialista inevitabilmente, per legge storica: «è nostro interesse, fino a quando non possiamo fare noi attivamente storia, che lo sviluppo storico non si arresti, e per questo abbiamo bisogno delle beghe interne dei partiti borghesi» (così Engels a Bebel, 8 marzo 1892 [OME, IL: 302-31). Dall’assioma dello «sviluppo storico» discendevano le convinzioni sul pauperizzarsi delle masse, sul proletarizzarsi del ceto medio e sull’immiserirsi dei piccoli imprenditori e dei contadini. Ma come si faceva a guadagnare ilconsenso di quei ceti, necessario per la ‘rivoluzione di maggioranza’, se si predicava loro che per legge storica dovevano intanto pauperizzarsi, proletarizzarsi, immiserirsi, e se la linea della socialdemocrazia rimaneva soltanto quella, passiva e attendista, di sfruttare le «beghe interne dei partiti borghesi»? In realtà nel confrontarsi con iborghe'si liberal-progressisti non premeva ai socialisti individuare possibili punti d’incontro nel presente, perché la vera convergenza sarebbe avvenuta automaticamente nel futuro, grazie alla futura proletarizzazione del piccolo borghese; premeva _invece, per amore della dottrina, sottolineare puntigliosamente le divergenze qui e ora. Kautsky, molto attento alle differenziazioni sociologiche che stavano awenendo all’interno della borghesia, vedeva sì che accanto al blocco di ]an/eer agrari, grande industria e alta finanza, «gente che grida per avere una politicaimperialistica di conquista, di riarmo e di guerra, e insieme leggi eccezionali contro le organizzazioni operaie e una soppressione deldiritto elettorale perila— 158
voratori», esisteva anche un’altra borghesia. Ma escludeva apoditticamente che con essa fosse possibile una politica delle alleanze: C’è un intero strato di elementi borghesi, grande e crescente, che da quella gente si sente minacciato non meno che dal proletariato in ascesa Sono piccoli industriali, artigiani, commercianti, infine il cosiddetto ‘nuovo ceto medio’ [...] costituito dall’esercito degli impiegati e funzionari pubblici e privati, dei liberi intellettuali di ogni genere, comeimedici ecc. Ma non c’è da aspettarsi affatto, come qua e la si pensa, che questi elementi di opposizione diventino, per la loro ostilità verso itrust, alleati del proletariato o addirittura socialisti. [Kautsky 1911 a: 798]
Queste considerazioni, fatte in occasione del congresso di]—ana del 1911, compendiavano una dottrina ufficiale che sin dagli anni Novanta aveva respinto, in tutti i congressi, le aperture verso il progressisimo borghese tentate dai socialdemocratici della Germania centro-meridionale. Vollmar, deputato bavarese al Reich:tag, aveva proposto nel ’91 una politica di «mano tesa» e conseguenti convergenze parlamentari [Vollmar 1891: 3-6]. Alla Dieta dell’Assia nello stesso annoi socialdemocratici votarono a favore del bilancio nel quale erano riusciti a introdurre principi di equità fiscale. Seguirono le approvazioni dei bilanci in Baviera (1894, 1908), e nel Baden (1894, 1910) dove la maggioranza era formata da un blocco che comprendeva nazional-liberali, progressisti e socialdemocratici. Di fronte a congressi infuriati contro i ‘tradimenti’ del dogma della non-collaborazione con iborghesi, i riformisti contrattaccarono, denunciando la «manifesta pazzia» di non approvare, «per mantenere un rigido principio», bilanciche avevano recepito una serie di proposte sodali dell’SPD (così il deputato bavarese Grillenberger [P-Franltfurt 1894: 121]), ma soprattutto invitando il partito alla coerenza nell’opzione parlamentare. Se dawero - così Frank contro le incoerenze contenute nei dogmi della sinistra — «per la classe operaia oppressa e rivoluzionaria il parlamento può servire soltanto come tribuna di agitazioni e propaganda», allora, «a tirarne tutte le conseguenze, avreste avuto torto_marcio a espellere dal partito gli marco-socialisti» [P-Niirnberg 1908: 319]. Ilproblema della confluenza dei voti socialisti con quelli ‘borghesi’ esisteva anche per altri partiti dell’Inter-nazionale. Non si trattava soltanto del caso Millerand (vedi 1.4), che si poteva liqui159
dare come velleitarismo individuale di un socialista che si illudeva di fare qualcosa «dasolo al governo» [Labriola 1899 a/ 1970:449]. Ma sarebbe stata velleitarismo anche una partecipazione socialista generale a maggioranze che sostenessero ministeri democraticoborghesi? Ad es. in Italia — come constatava Labriola [1901 b/1970: 477] — il ministero liberale Zanardelli-Giolitti (1901) tentava una politica sociale finalmente moderna, con «viva resistenza da parte dei conservatori». Nei confronti di un tale governo — egli ammoniva [ivi: 480—811 — nessun «contegno di freddezza semiostile» poteva esserci in un «partito socialista ragionevole», il quale anzi avrebbe dovuto appoggiare quel ministero sia in parlamento che nel paese. Per capire quest’inedito compito socialista imposto dai fatti sarebbe però stato necessario — così ancora Labriola [ivi: 481-821 con il suo spirito scientifico che conosciamo (vedi 2.3 -4) — abbandonare i dogmi della dottrina e lavorare con l’unico metodo che appunto consente di afferrare ifatti nella loro peculiarità, cioè quello empirico-storico ch’egli chiamava «metodo intuitivo». Ilproblema del metodo, delle categorie conoscitive, si ripresentava insomma ogni qualvolta arrivavano al pettine le questioni politiche di fondo. Proprio l’opzione parlamentare, la quale non può fare a meno di alleanze, richiedeva ad es. che venisse ridefinita la natura stessa del partito. Alcuni riformisti (ad es. David) avanzavano solo la ge— nerica istanza di trasformare l’SPD da mero partito operaio in un più ampio ‘parn'to popolare’; e il leader nazional-sociale Theodor Barth sul suo settimanale «Die Nation» constatava specularmente che «non occorre molto acume per capire che un partito che voglia poggiare esclusivamente sul proletariato non arriverà mai al potere» [Barth 1898: 3 1].A tentare un approccio più articolato fu
Bernstein. Proprio quando si procede sulla strada parlamentare e igrandi partiti vivono nella consapevolezza di poter in ogni momento andare al governo, in essi «lo spirito di partito e di classe si modifica verso la tendenza a una universalità nazionale» [Bernstein 1906 b: 20]: e ciò implicava che la socialdemocrazia costruisse un rapporto non estrinseca e non strumentale con la democrazia parlamentare. Inoltre c’era il dato di fatto che dalle elezioni del 1903 in avanti un quarto dei voti socialdemocratici proveniva ormai da elettori non operai, in gran parte di ceto medio, epperò non certo 160
assimilabili a una ‘massa reazionaria’ Ma il carattere classista del partito si sarebbe poi veramente cancellato con la mutazione in un ‘partito popolare’ imposta dalle metamorfosi sociologiche dell’e— lettorato e dall’opzione parlamentare? Bernstein era convinto ch’esso si sarebbe conservato, ma in una forma diversa, adeguata alle nuove circostanze storiche: Una coerente accentuazione del pensiero riformistico non porta af— fatto a cancellare il carattere della socialdemocrazia come partito della classe operaia [.]. Politica della classe operaia non vuol dire contrapporsi in assoluto agli interessi di tutte le altre classi. Significainvece libertà dagli specificiinteressi particolaristici di tutte le altre classi. La socialdemocrazia [...] può perciò diventare‘partito popolare’ soltanto nella misura in cuiilavoratoridiventano nel popolo quell’elemento decisivo intorno a cui, perché a esso essenzialmente appartenenti, si raggruppano altri strati popolari. [Bernstein 1909/1976: 131]
L’edificazione di un’egemonia socialdemocratica, perché di
questo si trattava, sarebbe stata dunque possibile soltanto sulla ba-
se di un riformismo inteso come idea aggregatrice di molte forze.
Nel Baden della grande coalizione un’egernonia socialdemocrati-
ca in quel senso era certo di là da venire, ma ai riformisti sembrò quella la via da tentare: possibilmente come modello da trasferire su scala nazionale con un ‘blocco da Bebel a Bassermann’, capo— gruppo dei nazional-liberali al Reichstag. Ma su questa strada sia
l’SPD che il liberalismo di sinistra ammucchiarono ostacoli alla fin fine insormontabili. Quali mai prospettive potevano aprirsi ad alleanze parlamen— tari quando la dottrina ufficiale del partito affermava ad es. con Kautsky [1909/1974: 14-15, 171] — che in nessun caso, neanche in una futura compiuta parlamenm1izzazione con responsabilità del cancelliere verso il Reichstag, lasocialdemocrazia avrebbe partecipato a coalizioni di governo con la borghesia? Malgrado qualche cautela kautskiana, il feticcio d "unica massa reazionaria’ con— trapposta all’SPD sopravviveva insomma tenace, e non soltanto nella sinistra dove la Luxemburg [1910/SL: 354] era convinta che «tutta la borghesia, piccola inclusa», stesse «come un’unica falange dietro il governo». Al congresso di Magdeburgo vi indulgeva in sostanza anche Bebel, dichiarando «legge politica» il fatto che
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quandodestraesinistrasialleanoperdelasinistraevincelade161
[P-Magdeburg 1910: 252], e dunque di nuovo etichettando globalmente come pura e semplice ‘destra’ tutto ciò che non era socialista. Chiusure esattamente speculari predominavano nei partiti liberali. Le raccontò Maurenbrecher quando, deluso, lasciò nel 1903 i nazional-sociali per entrare nell’SPD: «Volevamo formare un partito socialista concorrenziale, rappresentare un’altra sfumatura del socialismo, trapiantare in Germania il modello millerandiano. Abbiamo sperimentato cheinostriiscritti erano di altro av— viso. Ci applaudivano soltanto se nelle riunioni polemizzavamo contro isocialdemocratici» [Maurenbrecher 1903]. Per un verso ifeticci ideologici portarono l’SPD a un’«astinenza ministeriale» piena di rischi per la democrazia [Quessel 1913]; e sull’altro versante la miopia antisocialista dei liberal-democratici si rinfocolava ogni qualvolta nell’SPDi riformisti subivano sconfitte. Sicché il dialogo si limitò a pochi esitanti accordi elettorali tattici, cui peraltro si attenevano scrupolosamente solo isocialdemocratici. Ma poi, avessero anche funzionato bene gli accordi e fossero cresciuti i seggi socialisti, per quale politica socialdemocratica a lungo termine quei suffragi si sarebbero potuti spendere? Né Bebel né Kautsky né la direzione del partito si erano mai chiesti quali forme di potere politico concreto sarebbero potute nascere dai successi elettorali.Iriformisti non erano certo una spa— ruta pattuglia, come dimostrò il fatto che, in un dibattito promosso alla scuola di partito nel 1910—11 da=Mehring e dalla Luxemburg nella speranza di sentire accuse di fuoco contro il revisionismo, gli allievi difesero vigorosamente le posizioni riformiste deplorando che non fossero più incisive, tali da rompere l’isolamento del partito. Senonché ai riformisti, pur tanto convinti della necessità di convergenze politiche con illiberalismo le quali noncancellassero però la fisionomia socialista del partito, mancava, per produrre proposte operative, una generale teoria riformistiea del— lo Stato su cui orientarle. Nel 1912ipartiti della sinistra (con 110 socialdemocratici, 44 nazional-liberali e 42 popolari progressisti) ebbero per la prima volta nella storia parlamentare del Reich una maggioranza numerica, sia pure di risicati tre seggi. Si sarebbe trattato di aggregare queste forze intorno a un progetto comune. L’SPD, esso stesso un caleidoscopio di posizioni diverse, non possedeva gli strumenti
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teorici per farlo: a sostituirli non bastava né il tatticismo politicotecnico imparato nelle commissioni del Reichstag, né un puro e semplice trasferimento su scala nazionale del sapere pragmatico acquisito nelle Diete e nelle amministrazioni comunali La sordità verso una cultura complessiva di governo non era d’altronde una carenza soltanto del partito tedesco. Labriola [1901 c/1970: 482-83] aveva denunciato l’«immaturità intellettuale» che in Italia affliggeva un partito socialista il quale, piuttosto che «preordinate gli studi e gl’indirizzi delle leggi da fare» in appoggio al governo Zanardelli-Giolitti, e stimolare nel movimento operaio il senso della «stabilità legale e istituzionale» (come a dire, dunque, il senso di uno Stato di diritto a contenuti sociali), si rimetteva al puro e semplice «giuoco degli eventi futuri», a miraggi che esentassero dalla necessità di pensare al governo hic et nunc. 8.2. Ilproblema della guerra
Un altro scoglio nei rapporti con la borghesia liberale, in realtà il maggiore, era l’idea del Machtstaat, dello ‘Stato di potenza’, esi— bits da tutti i programmi dei nazional-liberali e dei nazional-so— ciali: e dunque politiea di armamento, prosecuzione della politica coloniale e, come quei programmi pure dicevano, «sostegno alla germanieità dell’est contro il pericolo nazional-polacco». Non a caso l’accordo elettorale del 1912 si fece con ipopolari progressisti, l’unica formazione liberale il cui programma .costitutivo del ’10, riecheggiando quello del vecchio partito popolare, non evo— cava lo Stato di potenza e l’espansione coloniale, ma chiedeva la ri— duzione delle spese militarial minimo, la trasformazione delle forze armate in un «effettivo esercito popolare» e l’istituzione di «organismi internazionali di arbitrato per la composizione pacifica dei conflitti» [in Fenske 1982: 292-94]. L’istanza di un esercito popolare come antidoto al militarismo era un punto fermo dei socialisti, ribadito anche nel congresso di fondazione della Seconda Internazionale. Aveva ripreso la questione Engels prospettando la sostituzione degli eserciti permanenti con «ilsistema della milizia» [1893 / OS: 1187], ne avevano poi dibattuto Kautsky, Schippel e Bebel sulla «Neue Zeit» del 1898-1900, e dalla sinistra dell’SPD l’«armamento popolare» verrà 163
considerato una sorta di scuola propedeutica per la presa rivoluzionaria del potere: come emerge ad es. in Mehring [1913]. E que— st’ultimo corollario era ovviamente inaccettabile per iliberalprogressisti. Più condivisibili potevano essere le diflerenziazioni introdotte nel concetto di imperialismo dai ‘centristi’, in particolare da Kaut— sky al quale era balenata l’ipotesi di un’evoluzione ddl’imperialismo non necessariamente violenta (vedi 5.2, 7.2). Forse si sarebbe esteso alla politica estera quel fenomeno del «reciproco accordo» che medianteicartelli e itrust ha arginato l’«illimitata lotta di tutti contro tutti»: forse «ciò che da due decenni vale in misura crescente per il rapporto delle aziende tra loro, comincia a diventare vero per il rapporto degli Stati capitalistici tra loro» [Kautsky 1912: 107]. Egli inoltre ammoniva che a definire l’intero imperia— lismo secondo il modulo della sinistra radicale, cioè come soltanto espansione violenta, militarismo e guerra mondiale, si sarebbe fatto il gioco appunto dei bellicisti; mentre c’era, di contro, il dato di fatto essenzialissimo per coinvolgere nella battaglia antimilitarista anche la borghesia che dalla variante guerrafondaia dell’impedalismo sono colpiti pure gli interessi vitali di una larga «massa di possidenti» [1912 a: 853]. Se la sinistra radicale vedeva solamente la drastica alternativa tra guerra mondiale imperialistica e socialismo, proprio quegliinteressi borghesi suggerivano invece la possibilità che socialisti e non socialisti convergessero in un movimento generale per il disarmo che non avesse necessariamente il socialismo come sbocco. Non era stato già Engels [1893/OS: 1185-87] a prospettare che «il disarmo, e con ciò la garanzia della pace, è possibile», e che lo sarebbe stato mediante ac— cordi internazionali di riduzione della ferma militare, di cui precisamente la Germania avrebbe dovuto farsi promotrice? Le linee della strategia kautskiana erano affiorare a tratti financo nel composito mosaico della sinistra, accompagnate pure lì da considerazioni sulla non omogeneità del capitalismo. Ledebour
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[1911], relatore delle proposte socialiste sul disarmo al Reidntag, rilevava che all’interno del capitalismoiproduttori di beni di con— sumo per il mercato interno erano interessati più ad accordi tra gli Stati che all’espansionismo imperialistico. Persino Parvus [1911. 119 sgg.] giudicava plausibile un progetto di pace mondiale capitalistica: la quale sarebbe sì un «dominio mondialedel capitale sui
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popoli con l’aiuto del potere statale», ma certo disinnescherebbe la conflagrazione. La prospettiva socialista del ‘progetto mondiale’ coincideva con quella del pacifismo borghese che da tempo insisteva sulla creazione di strumenti di diritto internazionale per bandire la guerra. A Bertha von Suttner — autrice del romanzo bestseller Giù le armi! (1889) e insignita del premio Nobel per la pace nel 1905 - proprio Nobel aveva prospettato nel 1893 che «se nella Triplice fossero riuniti tutti gli Stati invece di tre, la pace sarebbe assicurata per secoli» [in Bock 1989: 42]. Alfred Fried poneva a «fondamento del pacifismo rivoluzionario» (titolo di un suo scritto del 1908) un grande cartello internazionale di Stati; e l’intero movimento pacifista borghese, nei suoi congressi internazionali seguiti a quello istitutivo (Parigi, 1889), contrapponeva alla Macbtpolitik statuale la forza del diritto. L’obiettivo era utopico. In primo luogo mancava ovunque, in ogni realtà nazionale, un blocco coeso di forze capace di imporre ai governi una rinuncia pregiudiziale alla guerra. E ciò valeva in particolare per la Germania dove il Reichstag. anche nell’ipotesi del tutto fantasiosa di una sua compattezza antibellica, non aveva istituzionalmente voce in capitolo in tema di politica estera. L’SPD confidava di agire con la sua potenza di grande partito di massa nelle tre direzioni indicate dal congresso di Chemnitz del 1912: cioè riduzione degli armamenti sotto controllo internazionale, ripristino della ‘libertà mondiale di commercio’, e rafforzamento delle organizzazioni proletarie in funzione antiimperialisti— ca. Dalla risoluzione di Chemnitz sull’imperialisrno emerse anche la convinzione generale — osteggiata solamente dal fossili ideologici della sinistra — che la guerra nonera una scorciatoia verso il socialismo, bensìla più grave minaccia per larivoluzione sociale. Già il tardo Engels aveva osservato che una guerra mondiale avrebbe sì scosso il sistema capitalistico al punto da rendere impossibile il ripristino del «vecchio ordine delle cose», ma che non perciò la strada per il socialismo è la guerra, troppo rischiosa rispetto al «sicuro trionfo nella pace» [Engels 1891 a/MEW, XXII: 256]. Kautsky aveva sviluppato questa linea, definendo la guerra «il più irrazionale dei mezzi» per giungere al potere: essa avrebbe prodotto tali e tante distruzioni che se poi ne fosse scaturita una rivoluzio165
ne, questa sarebbe stata «pesantemente gravata da compiti che non le sono peculiari» [Kautsky 1902 a, 1:54]. Optare per l’engelsiano ‘trionfo nella pace’, e dunque scommettere sul fatto che la crescita e coesione della forza nazionaledel partito, sia parlamentare che di massa, sarebbe bastata a frenare
l’imperialismo aggressivo, richiedeva però che l’azione parlamentare e l’azione di massa venissero coordinate tra loro, proprio co— me con qualche barlume teorico e alcuni successi pratici si era ten. tato nel movimento per la democratizzazione della Prussia. A Karl Liebknecht, della sinistra, la campagna per il disarmo fatta nel 1911-12 appariva benissimo collegabile con scioperi di massa per la questione elettorale prussiana. E anche al riformista Frank il nesso sembrava intuitivo, perché se si voleva una revisione in sen— so pacifista del diritto internazionale ne era precondizione un compiuto parlamentarismo sia a liver di Reichstag che nei singoli Stati e nei municipi: sicché scioperi di massa concentrati sull’obiettivo della riforma elettorale avrebbero favorito anche la distensione internazionale. Rimasero purtroppo intuizioni isolate, ignorate dal partito che non fece nulla per unite in una strategia. complessiva la democratizzazione interna del paese, la parlamentarizzazione dell’assetto istituzionale e gli obiettivi di una politica estera di pace. Dalle risoluzioni di Chemnitz non traspariva la sensazione di una grande guerra imminente. Sull’enorme salto di qualità che la tecnologia aveva prodotto nel potenziale distruttivo non esisteva— no dubbi. Lo aveva sottolineato Engels nello scritto del ’93 sul disarmo europeo. ]] romanzo della Suttner recava apocalittici scenari di bombardamenti aerei, guerra sottomarina e cameficine prodotte dalle nuove armi a tiro rapido; e la «Neue Zeit» recava articoli sui rivoluzionamentidella tecnologia bellica e sull’impiego dell’arma aerea. Parallelamente circolava però la convinzione (si poteva indovinarla persino in Engels) che la deterrenza reciproca, indotta dalla tecnologia, avrebbe finito per tenere il militarismo sotto controllo.- E poi: una guerra mondiale non era forse resa ancora più improbabile dalla stessa" complessità strutturale della società industriale e dall’interdipendenza economica tra le nazioni il capitalismo sviluppato? «Tutte le nazioni civili sono interessate in pari grado a mantenere la pace e a salvaguardare il loro commercio estero», perché «una rete sempre più fitta di relazioni di ogni 166
genere, industriali, commerciali, scientifiche ecc. [...] avvolge il mondo civilizzato»: era una tesi di Bernstein [1906 a: 9-10], ma pure dei pacifisti borghesi. Da parte socialdemocratica si aggiungeva la considerazione che davanti agli esiti aleatori di una guerra mondiale igoverni sarebbero stati pazzi quanto isocialisti a puntare tutto su quella carta, e per di più con il rischio di trovarsi poi una rivoluzione in casa.
L’idea della ‘rete di relazioni’ circolava anche tra imilitari. Nel 1909 l’ex capo di stato maggiore conte Schlieffen teorizzava che le guerre lunghe sono «impossibili in un’epoca in cui l’esistenza delle nazioni si basa su una continuità ininterrotta del commercio e dell’industria» [in Kondylis 1988: 120].Alla necessità di una guerra breve, di pochi mesi, aveva mirato perciò il suo famoso piano, del 1905, per una campagna-lampo in Occidente che sfruttasse il fattore-sorpresa di una violazione tedesca della neutralità del Belgio. Sopravviveva anche, in quel piano, la concezione ottocentesca del primato delle azioni di rapido movimento, esclusivamente tecnico-militari, modellata soprattutto sulla guerra franco-prussiana del 1870. L’idea di una lunga ‘guerra totale’, sofferta dall’intera na-
zione, esulava dall’orizzonte dei vecchi generali. Invece i socialdemocratici quell’idea l’avevano. La guerra, se fosse scoppiata, sarebbe stata «bancarotta di massa, miseria di massa, disoccupazione di massa., carestia di massa», ammonì Bebel in un memorabile discorso al Reichstag del 9 novembre 1911 [S-Reichstag 1911:7730]. Sebbene le risoluzionidei congressi dell’Intemazionale e la propaganda antibellica dell’SPD continuassero a ripetere che l’energia del proletariato avrebbe neutralizzato ogni pericolo, Bebel era totalmente pessimista sulla capacità effettiva delle forze di pace di scongiurare la catastrofe. L’ostacolo continuava a essere il parlamentarismo dimidiato. Davanti all’impotenza del Reichstag di influire sulla politica estera, Bebel finì per riporre le sue speranze nella flotta britannica. Ilriarmo navale dell’Inghilterra, com’egli spiegò al console inglese a Zurigo in colloqui segreti del 1910-13, avrebbe forse prodotto nelReich l’auspicata spinta verso un’alleanza parlamentare che andasse dai liberal»democratici ai socialisti e dunque verso una politica estera di pace. Era un’ipotesi totalmente irrealistica. Dalla crescita della Home Fleet scaturì in Germania soltanto un’esasperazione del mi-
litarismo.
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agosto tedesco 8.3. Ha
Sisa che il4 agosto 1914 l’SPD, il più grande dei partiti dell’Internazionale, votò in parlamentoi cinque miliardi dei crediti di guerra Il segretario dei socialisti austriaci Friedrich Adler, tracc1ando nel gennaio 1915 un consuntivo di quello che l’agosto del ’14 aveva significato per la socialdemocrazia tedesca, leimputerà soprattutto una totale impreparazione teorica sulla guerra. Adler vide bene che il difetto di fondo stava nel non aver chiarito il concetto di rivoluzione. La socialdemocrazia aveva immaginato un più o meno stretto legame tra guerra mondiale e rivoluzione sociale, ma non esaminò mai come si sarebbe dovuta comportare se la guerra mondiale l’avesse sorpresa prima che i' tempifossero per leimaturi [...]. Quando il terreno consueto vacillò sotto ipiedi ci si trovò impreparati. Si accolsero parole d’ordine borghesi senza, per lo più, nemmeno il tentativo di accordarle coniprincipi socialisti [...]. La socialdemocrazia tedesca ha tanto parlato di imperialismo, ma nel discutere il proprio comportamento in caso di guerra non ha mai preso veramente in considerazione la guerra dell’impenizlxltmo come oggi la sperimentiamo. Aveva messo in conto, per così dire, soltanto guerre più ingenue. [F. Adler 1915/1918: 12-13]
La critica è qui molto più articolata rispetto a quel che poi di— venterà un dogma per tutta la vulgata terzinternazionalista: owero che, approvando icrediti militari,idirigenti dell’Internazionale e dell’SPD in particolare avrebbero perpetrato semplicemente un infame tradimento nei confronti di masse operaie prontissime a marciare contro la guerra se solo quel voltafaccia non vi fosse stato. Icongressi dell’Internazionale — sino a quello del 1912 nella cattedrale di Basilea con ‘la guerra alla guerra’ come unico punto all’ordine del giorno - avevano diffuso risoluzioni che impegnava-
noipartitimembrianonvotarecreditimilitatiea«fareditutto per impedire lo scoppio della guerra applicandoimezzi ritenuti più efficaci» [C-Basel 1912: 23]. Esulava comunque dai compiti istituzionali dell’Internazionaleimporre ricette vincolanti, quali ad es. gli adoperi di massa rivoluzionari che Nieuwenhuis aveva invocato a nome della sinistra già ai congressi di Bruxelles (1891) e Zurigo (1893). Per l’SPD era stato chiaro sin dal congresso internazionale di Stoccarda che «le azioni della classe operaia contro il militarismo, per loro natura diverse da paese a paese per spazio e 168
racchiuse dall’Internazionale in forme rigide» [C-Sruttgarr 1907: 66]. Restava l’emendamento della sini— stra, introdottonella risoluzionedi quel congresso da Martov e Lenin e dalla Luxemburg: ovvero che si dovesse «sfruttare la crisi economica e politica provocata dalla guerra per scuotere il popo— lo e così accelerare la rimozione del dominio di classe capitalisti-
tempo, non possono venir
co» [ibid.].
Ma indicare come rimedio alla guerra la rivoluzione sociale vo— leva dire che dal fronte antimilirarista rimaneva automaticamente escluso chiunque sul modo di ‘rimuovere’ il sistema capitalistico avesse idee di altro genere, non rivoluzionarie. In secondo luogo, con quali azioni concrete si sarebbe poi potuto, a guerra scoppiata, «scuotere il popolo»? Davvero con lo sciopero generale, con una resistenza passiva e attiva che dal rifiuto della chiamata alle armi giungesse magari fino a sabotare trasporti e comunicazioni? Quest’eventualità era stata prevista dalle autorità militari che es. ad neldistretto militare di Miinster, che comprendeva anche la roccaforte operaia della Ruhr, fissarono nel 1910 una serie di mi— sure repressive e preventive. Trapelate al congresso di Magdeburgo di quell’anno, indussero Kautsky [1911 b: 104] a chiamare lo ‘sciopero militare’ un’«eroica pazzia»; e il realistico Bebel a spiegarne l’irnpraticabilità al congresso di]ena dell’11. La chiamata alle armi vuol dire che «milionidilavoratorilasciano famiglie le qualinon hanno più da mangiare e di che vivere [...]. Cosa credete che succederebbe allora? Le grida delle masse non sarebbero per uno sciopero generale, ma per lavoro e pane, così starebbero allora le cose» [P-Jena 1911. 346-47]. Quel che Bebel non immaginava fu che tre anni dopo, nell’estate del ’14, non solo le masse non pensarono affatto a uno scio« pero militare, ma affollarono gli uffici di reclutamento. Tutte marciarono insieme ai governi dei loro paesi che propagandavano la guerra come totalizzante interesse della nazione. La sottovalutazione del sentimento di solidarietà nazionale e in generale dell’idea di nazione si rivelò all’improvviso il grande buco nero nella teoria dell’Intemazionale, non colmabile dalle voci sostanzialmente isolate di Renner, Otto Bauer o Kautsky. La scintilla della guerra, si pensava, sarebbe semmai scoccata dalle riva— lità coloniali o dalle crisi economiche capitalistiche. Ad accender— la fu invece un problema nazionale, per girmta balcanico, cioè uno 169
dei più complicati, in incubazione da decenni. Ma nessun con— gresso internazionale aveva mai messo all’ordine del giorno la que.stione nazionale, trattandosi di qualcosa che secondo l’internazio— nalismo ortodosso non doveva, in fondo, neppure esistere. H «Vorwìirts» per quasi tuttto il luglio del ‘14 non seppe se incolpare del nembo bellico il nazionalismo grande-serbo o l’austrounga-
rico ‘partito della guerra’, ispiratore sui muri di Vienna delle scritte Alle Serben miissen sterben, ‘tuttiiserbi devono morire’ Il buco della teoria si riempì, per contrappasso, dei fattori emozionali più caotici. In Germania trionfava quello del ‘pericolo cosacco’, condiviso dai socialdemocratici che nello zarismo avevano visto da sempre la minaccia più grave per il socialismo. La necessità, per i partiti operai dell’Europa occidentale, di una guerra per la vita e per la morte contro lo zarismo, portatore di servaggio, distruzione e imbarbarimento, era stata affermata spesso da Engels [1890 a/MEW, XXII: 13; 1891 a/MEW, XXII: 253], convinto che «se la Russia vince siamo schiacciati», e che dunque, «se la Russia dà inizio alla guerra, ci batteremo contro i russi e i loro alleati, chiunque essi siano» (a Bebel, ottobre 1891 [OME, [L: 194]). E in Bebel era l’incubo dell’invasione da est a parlare quando nel 1904 — in un memorabile discorso parlamentare di cui l’SPD si farà forte dieci anni dopo - dichiarò che di fronte a un pericolo che minacciasse l’esistenza della Germania e dunque l’esistenza del socialismo, i socialdemocratici sarebbero stati i primi a difendere la terra tedesca [S-Reichstag 1904: 1588]. Dal congresso internazionale di Basilea del ’12 l’annienta-
mento
dello zarismo verrà poi indicato all’intera Internazionale
come «uno dei compiti preminenti».
Nel ’14 il cancelliere Bethmann costruì sui consolidati sentimenti anrizaristi dei socialdemocratici la sua accorta regia. La mobilitazione tedesca e la dichiarazione di guerra alla Russia vennero
presentate come la legittima difesa della pacifica Germania contro un aggressore di cui già per conto loroisocialisti inorridivano. Nel—
la dichiarazione di voto socialdemocratica per icrediti [S-Reichsrag 1914: 8-9], preventivamente concordata con il cancelliere, il nocciolofu che «per ilnostro popolo, e ilsuo futuro dilibertà, mol— to 0 tutto è in gioco con una vittoria del dispotismo russo che si è già macchiato del sangue dei migliori del popolo suo». 170
8.4. la tregua nellafortezza
Concertata con Bethmann—Hollweg era stata anche l’allocuzio— ne che il 3. agosto, giorno della mobilitazione, Guglielmo II pro— nunciò dal balcone della reggia berlinese:
Quando viene la battaglia i partiti non esistono più! Qualcuno dei partiti ha attaccato anche me. Ma era in tempo di pace. Oggi glielo perdono di tutto cuore! Ogg' io non conosco più nessun partita, e nemmeno confessioni religiose. Oggi tutti noi siamo fratelli tedeschi, solo ed esclusivamente fratelli tedeschi. [in Bihl 1991: 49] Fu un enorme sollievo per i socialdemocratici, non più discriminati dunque, non più reietti e demonizzati, ma riconosciuti anch’essi, finalmente, parte integrale della nazione. La formula magica «non conosco più nessun partito, conosco soltanto tedeschi», ripetuta da Guglielmo 11 anche nel discorso dell’indomani al Reichstag, parve ai socialdemocratici segnare la fi— ne del loro ghetto e confermare la bontà del voto per i crediti di guerra ch’essi daranno nel pomeriggio. «La fiamma del comune pericolo e del comune destino» rievocherà nelle sue memorie Carl Severing [1950: I, 198], ministro sodaldemocratico degli in— temi in Prussia negli anni di Weimar — «consumò in un attimo tutte le scorie dell’incomprensione e della diffidenza». Non lo comprovava forse la lettera con cui il ministro prussiano della guerra comunicava il31 agosto alla redazione del «Vorwiirts» che era revocato il divieto ministeriale del 1894 diintrodurre stampa socialdemocratica nelle caserme? La revoca, certo, era subordinata alla premessa che «non si pubblichino articoli atti a pregiudicare lo spirito unitario dell’esercito» [in Bihl 1991. 60], ma su ciò con— cordava anche il partito. Non si trattava forse di una giusta guerra di difesa nazionale contro una gigantesca aggressione? Persino la sinistra non aveva dubitato che nel luglio del ’14 il Reich, sia pure per calcolo tattico, avesse intenzioni pacifiche. Ancora il 30 luglio la Luxemburg [1914] scriveva che «se ci si chiede se ilgoverno tedesco è pronto a fare la guerra, si può motivatamente rispondere di no», perché «peri dirigenti senza cervello della politica nazionale qualunque prospettiva è oggi più rosea di quella di accollarsi, per amore della barba asburgica, tutti gli orrori e rischi della
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171
guerra con la Russia e la Francia 0, alla fin fine, addirittura con
l’Inghilterra». Per la sinistra, che dinnanzi agli eventi era, forse, disarmata teoricamente e politicamente più ancora delle altre componenti del partito, la dichiarazione di guerra e ilvoto dei crediti giunsero poi come due mazzate. La Luxemburg confessò di esser stata vicina al suicidio. Lo sconsolato incontro di Mehring, Marchlewski, del redattore del «Vorwàrts» Ernst Meyer e dei sindacalisti Duncker, Eberlein e Pieck, in casa Luxemburg la sera del 4 agosto per decidere il da farsi, approdò all’invio di trecento telegrammi a funzionari localidel partito considerati di opposizione, per invitarli a una riunione di protesta contro ilvoto del 4 agosto. L’unica risposta fu una lettera di Clara Zetkin, la quale diceva che un’azione di protesta non sarebbe stata capita dalle masse perché «siamo totalmente isolati, sospesi in aria, piccoli e impotenti» [in Kuczynski 1983: 455-561. Nel partito predominava l’idea della difesa nazionale, del resto l’unica che, data la censura militare ormai in vigore, potesse circolare senza inconvenienti sulla stampa socialdemocratica; e non fare mostra di sentimenti patriottici sarebbe stato un suicidio del partito. Lo ricordò rerrospettivamente David [1915: 7]: «Un partito che lotta per conquistarsi l’animo del popolo non può sradicarsi nazionalmente. Non può starsene spettatore passivo nelle ore
del destino, quando la nazione combatte contro la minaccia alla propria esistenza».
Nella fortezza assediata dovevano dunque tacere iconflitti che potevano minarne la saldezza; e poiché nella guarnigione era aranch’esso andava preservato da disssensi ruolato anche il
partito,
interni.Icongressi annuali furono sospesi sine die. Se ne ebbe uno soltanto nell’ottobre del 1917,imposto dall’evento traumatico della scissione del partito. Isindacati d’ispirazione socialdemocratica avevano offerto il Burgfrieden, la ‘tregua nella fortezza’, addirittura in anticipo sul voto parlamentare del partito. Già il 2 agosto una conferenza di rappresentanti della CGD, la ‘Commissione generale dei sindacati della Germania’, deliberò di sospendere scioperi e vertenze salariali in corso, e di creare insieme agli organi governativi un ufficio centrale di mediazione delle vertenze di lavoro che consentisse un buon funzionamento dell’economia di guerra. E 6 agosto un ap-
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pello congiunto del partito e della GGD invitò a organizzare centri socialdemocratici d’informazione e assistenza, presidiati da molto personale femminile, che collaborassero con le amministrazioni comunali nella distribuzione di sussidi alle famiglie dei richiamati e nel calmiere dei generi alimentari. Nei primi tre mesi di guerra e sino a quando non funzionatono gli organi assistenziali statali e comunali, quasi 16 milioni dimarchi degli 88 esistenti nelle casse del sindacato vennero spesi per scopi assistenziali di emergenza. Ma la socialdemocrazia, quali contropartite si aspettava? Anzitutto la realizzazione dei due vecchi sogni di politica interna, la parlamentarizzazione del Reich e la democratizzazione della Prussia. Dopo la guerra, così David [1915: 21], non potrà non esservi un «diritto uguale nell’impero, in ognuno dei singoli Stati e nei comuni». E Frank, che si arruolò volontario e cadde in Lorena in settembre, scriveva il27 agosto dal fronte che «per il diritto elettora— le prussiano noi invece di uno sciopero generale facciamo una guerra» [in Miller 1974: 72]. C’era la diffusa convinzione che hastasse conseguire il certificato di patriottismo per poi esibirlo in politica interna dopo la guerra. Vennero qui al pettine tutti i nodi non solo del deficit democratico del Reich, ma anche delle idee socialiste in proposito. Credere che potesse scioglierli la guerra era l’illusione di un partito nel quale non era mai venuta alla ribalta la necessità di occuparsi sul serio dei nodi politico-nazionali e politico-statuali della Germania: e quindi non era stata mai elaborata una teoria e prassi del potere politico per l’attualissimo presente invece che per un lontano futuro. Ilvero problema nazionale, cioè quello della democrazia, era rimasto sempre a margine dell’altro, quello della lotta di classe e della ‘liberazione del popolo lavorarore’ Nella politica del partito era sempre mancata una vera attenzione per mete politiche nazionali in senso ampio, cioè comuni a più classisociali. Nelle sue spregiudicate analisi sul 1914 Friedrich Adler [1915/1918: 10-11] rilevò anche questo difetto. ]] tema della solidarietà nazionale si era imposto all’improvviso, stimolato da eventi esterni. La teoria socialista non aveva previsto tale eventualità. Anche quest’altro vuoto della teoria si riempì di un contenuto spurio, ossia dell’acritica accettazione del puro fatto empirico che una solidarietà nazionale bellica si era creata: senza riflettere che essa, per le circostanze incontrollate che la produssero, fu la peggiore possibile. 173
La socialdemocrazia non era attrezzata a lavorare con l’idea di una solidarietà nazionale da legare hic et nunc alla democrazia politica. Mancava una teoria socialista positiva dello Stato, e perciò
l’SPD annaspò nella palude degli equivoci proprio mentre nella Germania ufficiale, dietro la maschera della solidarietà nazionale, tutto andava in una direzione esattamente contraria al parlamentarismo e alla democratizzazione. L’entratain vigore della vecchia legge prussiana del 1851 sullo stato d’assedio trasferìinpieni poteri ai comandi militari territoriali, altrettante dittature sedicesimo che regolamentavano il rifornimento alimentare, le riunioni pubbliche e la censura sulla stampa. ParallelamenteilReichstag abdicò a se stesso delegando il 4 agosto i poteri legislativi straordinari al Bundesrat per tutta la durata della guerra. Ne usciranno, sino al novembredel 1918, oltre ottocento leggi fuori dal controllo parlamentare.
Mentre in qualche modo i partiti socialisti inglese e francese svolsero bene o male un’opposizione parlamentare pur dopo l’agosto (e sebbene in Francia l’ideologia dell’union sacrée fosse esplosa con virulenza esattamente speculare al Burg/'rieden), la maggioranza dell’SPD rimase invece irretita in una tregua politicosociale che in realtà significava tutto fuorché esercizio di democrazia. L’illusione che il risultato potesse essere alla fine una democratizzazione del Reich non derivò affatto (come suonerà l’accusa da sinistra) dall’essersi lasodaldemocrazia affidata troppo alla via parlamentare. Nacque dal suo parlamentarismo troppo va— go, dalle esitazioni a elaborare e perseguire un complessivo e forte progetto politico-istituzionale di chiara democrazia parlamentare. La frase di Gugliemo IIsul non esservi più partiti in lotta, ri— petuta con giubilo dai socialisti, era profondamenteantidemocratica. Significava, in buona sostanza, che la Germania poteva finalmente fare a meno dei partiti e dei parlamenti, e che per il bene della nazione occorreva un governo aurocratico, anzi, meglio ancora, un autocrare solo. 85. Lo spirito del 1914
L’imperatore era personalmente certo di esser stato designato da Dio a carismatico timoniere che da solo, con «lavoro e fatica 174
provvede a condurre popolo e Reich verso «giorni splendenti»: come amava ripetere neisuoi pomposi discorsi. E un arco di opinione pubblica che dal partito tedesco-conservatore degli agrari d’oltre Elba giungeva sino a frange dei nazional-liberali, plaudiva a un capo che salvasse la Germania dalla infida democrazia. Nel 1892 il giurista Rudolf Sohm, studioso di diritto ecclesiastico e uno degli estensori del codice civile, aveva anche trovato un nome per quel capo carismatico: doveva essere un Fù'hrer, in analogia con ireggitori delle comunità protocristiane. Non lo bramavano soltanto gli ideologi del redivivo (o mai defunto) populismo romantico, imperniato sul concetto della nazione come organica comunità di stirpe nel cui condottiero si concentrano, potenziati dal suo genio, tutti imistici valori del connubio etnico-razziale di ‘terra e sangue’ A fine Ottocento persino il nient’affatto arcaico Max Weber aveva pensato a un capo carismatico, augurandosi di vederlo impersonato dal nazional-sociale Naumann che esaltava «l’impulso del popolo tedesco a estendere la propria influenza all’intero globo terrestre» [Naumann 1897' 5]. Ed è noto quanto tra ifilologi classici — ad es. con Wilamowitz e Pòhlmann — le figure di Alessandro Magno 0 di Pericle venissero attualizzate a precursori dell’auspicato Fzìhrer moderno. Nel vitalismo neoromantico l’idea che l’essenza della nazione fosse vò'l/eisch, etnico-razziale, di stirpe, si sposava benissimo con quella del condottiero geniale. Aveva proweduto Chamberlain a spiegare da dove il Fiihrer traeva la sua autorità: èla razza che
senza fine»,
gli dona facoltà straordinarie, direi quasi sopranaturali [...]; e se per caso quest’uomo di alto lignaggio razziale è anche dotato di inusuali talenti, ecco allora chela sua appartenenza alla razza loirrobustisce ed eleva da ogni lato, ed egli diventa un genio che sovrasta l’intera umanità [...]; da isolato singolo individuo diventa la vivente somma di innumerevoli anime di pari orientamento. [Chamberlain 1899: 272]
E in quel quadro, poiché solamente la razza germanica ha la forza di creare una nuova civiltà non materialistica bensì altamente spirituale, spetterà ai tedeschi, in quanto «popolo che ha maggiormente conservato la propria germanicità», di «rappresentare l’Europa nelle lotte razziali e continentali del futuro» [Moeller van den Bruck 1907‘ 17]. Per la riuscita della missione occorreva che alla dispersione ver175
so ifalsi valori materiali subentrasse una concentrazione di mente e animo sui valori veri, quelli dell’interiorità: insomma, per andare al sodo, andava costruito un saldo ‘fronte interno’ A far serrare le file degli spiriti aiutarono pomposi filosoferni. Dall’università di Jena li diffuse il vitalista Rudolf Eucken. Il suo libro Per l’adunata deglispiriti proclamava che contro le nefandezze del 1789,del
liberalismo e della democrazia, occorreva tornare alla peculiarità vera e profonda della filosofia tedesca, appunto allo spirituale re— gno dell’interiorità [Eucken 1913: 130-31]. Peri Vò'lkz'sche, gli emieo-popdari, come profetizzava uno di
loro nei primi mesi del ’14, il veicolo della missione mondiale dei tedeschi sarebbe stato, per ineluttabile «legge causale della storia mondiale», una guerra globale [Kemmerich 1914,II: 188]. Non ne dubitavano né Guglielmo ]] né i militari ideologicamente più aggiornati. L’uno annotava nel ’12 che nella guerra a venire si sarebbe trattato «non di un grosso problema politico, ma di una questione razziale [...], dell’essere o non essere della razza germanica in Europa»; e Helmuth Moltke, nipote dell’artefice delle guerre bismarckiane e capo di stato maggiore dal 1906, scriveva nel ’13 al collega austriaco Conrad von Hòtzendorf che la prossima guerra europea sarebbe stata «tra germanismo e slavismo» e avrebbe coinvolto «tutti gli Stati che sono portatori della civiltà spirituale germanica» [in F. Fischer 1961/1965: 33]. Moltke aveva anche sotto— lineato, come ingrediente indispensabile all’immagine della spiritualità germanica, che «l’attacco deve v'enire dain slavi», ovvero che si dovesse far apparire la Germania come la vittima aggredita: una manovra, si sa, che ebbe pieno successo. Le carte della partita ideologica stavano dunque tutte sul tavoi lo: valori di interiorità dei tedeschi, la germanicità minacciata nella sua stessa esistenza oltreché nella sua missione mondiale, il ca— po salvifico che, con l’aiuto del patriottismo nazional-razziale, avrebbe risolto ogni cosa; e a reggere il tutto c’erano presunte leggi di filosofia della storia. Dopo l’agosto del ’14 iprofessori tedeschi proclamarono, come con commozione speculativa disse il fi— losofo fichtiano Riehl [1914: 17], che nel popolo tedesco si manifestava la «verità e realtà di una sovraindividuale potenza spirituale».Imetafisici valori interiori servirono anche ad ammonire che «se soccombiamo, allora insieme alla creatività dell’essenza tedesca scende nella tomba la speranza in un sublime e benefico futu176
ro di pace dell’umanità» [Bischoff 1914: 33]; mentre, «se vinciamo, non vinciamo solo per noi, ma anche per l’umanità» [Meineclte 1914]. Nell’ottobre del ’14, in una Dichiarazione deiprofer— sori universitari del Reich tedesco edita dal pubblicista uò'lkisch
Dietrich Schàfer, oltre tremila firmatari propagandarono la loro convinzione che la salvezza dell’intera cultura d’Europa dipendesse dalla vittoria del «concorde libero popolo tedesco» [Schàfer
1914: 1]. Non era una novità né l’ideologia nazionalistica, né che cesarisrno ed evocazione di minacce esterne fossero frmzionali a una politica interna antisocialista. Già Otto Bauer [1907/DEVI, I: 55051] sapeva che «quanto più la socialdemocrazia cresce, tanto più aumenta il pericolo che leclassi dominanti del Reich applichino la
vecchia tattica del cesarismo che vuole prevenire con complicazioni esteme la minaccia di una rivoluzione interna»; e nel Capitale finanziario Hilferding aveva attirato l’attenzione sul fatto che l’imperialismo ha in generale successo nel presentare la propria politica come quella dell’intera nazione. Sembrò che in tema di culto della gerarchia la borghesia tedesca non avesse aspettato altro che la guerra per dichiarare apertamente la propria disponibilità a un ordinamento totalitario. Questa albergava persino in partiti di consolidata rispettabilità parlamentare: la «Germania», giornale berlinese del Zentrum cattolico, spiegherà il 23 dicembre 1916 che la «sottomissione della massa al genio», al potere di un capo carismatico, è la «vera democrazia di un popolo diventato maturo e veggente nell’ora del bisogno» [in Grosser 1970:,140]. La cosa nuova fu la rapidità con cui in quel magma si tuffatono sia autori di grido vicini alla socialdemocrazia, sia intellettuali operai. Ilfilosocialista Gerhart Hauptmann, scendendo in campo «contro le menzogne» diffuse dai nemici della Germania, celebrò in Guglielmo II «il supremo signore della guerra», sia pure nell’obbligata versione dell’imperatore paladino della pace, e dichiarò che la guerra si faceva «per la libertà tedesca, per la vita della famiglia tedesca, per l’arte tedesca, per la scienza tedesca, per il progresso tedesco» [Hauptmann 1914]. Poeti operai gridavano che «Dio ci chiama perché la Germa— nia deve vivere», e nell’imperatore esaltavano il Fù'hrer, guida di «milioni di mani, cuori, cervelli, spiriti»: come il cattolico renano Lersch rispettivamente nell’Addio delsoldato scritto il giorno del— 177
la mobilitazione, e nella Grandefi4cina quando la guerra già si era abbarbicata nelle trincee; e in ogni caso esultavano (come il viennese Petzold in Heimat) perché al proletario, «a lungo ignaro di ciò che è patria», questa è stata di colpo rivelata dalla guerra. Pre— meva, dietro, un patriottismo operaio che a Berlino imbandierava i quartieri proletari quando c’erano bollettini di vittorie al fronte, e dilagava nei fogli socialdemocratici di provincia con gli stereotipi della missione bellico-culturale della Germania. La ‘seconda cultura’, socialista, aveva ragàunto risultati di massa in quasi tuttii campi, tranne in quello, si vide nell’agosto del ’14, della pedagogia politica. All’opinione pubblica dei compagni socialdemocratici e degli elettori erano arrivati tròppo pochi lumi sul ruoloche nella comunità nazionale spettava al cittadino, sui diritti e doveri dell’esercizio democratico della soVranità. Le ricerche sul problema ‘nazione’ e sul problema ‘Stato’ avevano costituito già di per sé un settore abbastanza appartato della teoria socialista (vedi 6.2, 6.3). Sarebbe stato essenziale ampliarlo a un discorso di operatività politico-pratica di massa, il quale chiarisse le idee sulla comunità nazionale in concreto, cioè su come agire dentro il sentire nazionale. Ma lo avevano impedito due dogmi invali— cabili: cioè l’imperativo del carattere soltanto internazionalistico del movimento operaio e l’assioma che la futura ‘rivoluzione sociale’ avrebbe automan'amente sciolto tutti inodi del presente. La priorità data all’intemazionalismo dimenticava che l’internazionalità è di per sé un’idea astratta, l’idea di un luogo spazial— mente non definito, di un non-luogo, insomma un’idea da di di fe— sta. Mentre la comunità nazionale è una tangibilissima realtà quo— tidiana. La realtà nazionale tedesca era poi particolarmente gravata da contraddizioni antiche, da sopravvivenze arcaiche, da strut— ture politiche premoderne e dalle loro corrisponderà ideologie. Che queste catene si trattasse di rimuovere era certamente chiaro a un partito che si sentiva chiamato dalle leggi della storia ad adempiere l’eredità del liberalismo. Ma vigeva anche la parallela convinzione che il compimento di tale eredità sarebbe stato non tanto la realizzazione della mancata rivoluzione liberal-democratica, quanto la futura svolta totale costituita dalla rivoluzione socialista:icui tempi si ritenevano in generale calcolabili e imminenti Invece della rivoluzione scoppiò la guerra che presentò brutalmente il conto dei ritardi della teoria. Qualcuno rimase nel deser178
to a predicare la rivoluzione come rimedio universale. Altri, pari-
mentimale attrezzati a chiarire intermini moderniil problema della comunità nazionale, vennero sommersi dal rifinire dell’ideologia nazionalista verso incantesimi arcaici, i cui aggiornati lustrini culturali facevano però balenare modernissime sintesi di solidarietà comunitaria e compattezza tribale. Vi fu chi scambiò quei vecchi lucori per la realizzazione, nientedimeno, del socialismo.
Nota bibliografica 8.1. Sul parlamentarismo sodaldemocratico nei singoli Stati del Reich: Hedwig Wachenheim [1967: 458-94]. Sul problema delle alleanze con i liberali di sinistra: Miller [1964: 268-79], Elm [1968], Grosser [1970: 19-49], Diiding [1972, per gli anni 18961903], Groh [1973: 161-84], Domann [1974: 215-251, Misch [1974: 140-45].
82. Sul militarismo, i suoi presupposti socio-economici, la sua ideologia: Eckart Kehr [1930: 291-342; 1932/1965], Stark [1981. 3-124, la stampa], Hòhn [19632 140-47], Kuczynski [1983' 31334], Rohkriirner [1990, le associazioni patriottico-militari], Kondylis [1988: le concezioni ottocentesche sulla guerra (118-29) e le idee di Marx ed Engels (146-234)]. Sull’antimilitarismo socialista prima del ’14: Wachenheim [1967: 531-46], SChròder [1968], Groh [19732 ZIO—64, 331-54, 423-54], Bley [1975], Hall [1977' 116—42], Boll [1980: 9-86], Andreucci [1988: 239-751, Dorpalen [1988: 279-84, un quadro degli studi sul tema nella ex DDR]. Sul pacifismo borghese: Eisenbeiss [1980: 33-103, 188-226], Grossi [1994].
8.3 L’Intemazionale alla vigilia e all’inizio della guerra: Karl Griinberg [1915], Haupt [1965/1967], Blànsdorf [1979], Klàr [1981].
L’SPD nell’agosto del ’14: Drachkovitch [1953' 286-305], Kuczynslci [1957], Wachenheim [1967‘ 584-601], Groh [1973: 179
577-616, 675-727], Miller [1974: 31-74], Boll [1980: 87-94], Dorpalen [1988: 284-90, un panorama degli studi della ex DDR] 8.4. Il Burgfi-ieden ele sue ripercussioni: Feldman [1966: 27-40], Blìnsdofl’ [1979], Boll [1980: 95-117], Klir [1981], Krusc [1994].
8.5. Genesi e sviluppi dello ‘spirito del 1914’: H. Liibbe [1963: 173-238], G. L. Mosse [1964/1991. 163-248], Schallenberger [1964: 51-162], Bleuel [1968: 72—93], Bòhmr: [1975], Koester [1977], Vom Brucb [1982], ]. Schmidt [1988, II. ISO-93, la Filhrer-Ideologie in epoca guglielmina].
Capitolo nono
NELLA TEMPESTA
9.1. La guerra come sodalismo
In settembre la guerra si era interrata nelle trincee, esattamente quel che, in precedenza, lo stato maggiore aveva considerato un
disastro per la Germania. La retorica della difesa del focolare e della cultura non reggeva più davanti ai costi in uomini e materiale di un’imprevista gigantesca guerra di logoramento. Occorreva assegnare al conflitto un valore positivo in sé, mostrare soprattutto ai milioni di operai mobilitati al fronte e in patria ch’esso corrispondeva alle loro più intime aspirazioni di cambiamento della socretà.
Vi provvidero le cosiddette ‘idee del 1914’: nate in realtà non nel ’14, bensì un anno dopo, quando la guerra ebbe cambiato volto. A coniare il termine fu il filosofo hegeliano Johann Plenge in sue ‘conferenze di guerra’ all’università di Miìnster. Vi si diceva che la concentrazione, imposta dalla guerra, «di tutte le energie economiche e statuali in un nuovo intero» era precisamente il «nuovo socialismo», di genuina marca tedesca…- e anzi l’unico vero socialismo perché «la Germania è stata nel regno delle idee la più convinta portatrice di tuttiisogni socialisti, e nel regno della realtà la più forte costruttrice dell’economia politica massimamente organizzata» [Plenge 1915: 187-88].Inunlibrodel ’16 Plenge, sin dal titolo, contrapponeva poi «1789 e 1914, anni simbolici nella storia dello spirito politico», spiegando come allo spirito ‘socialista’ del ’14 spettasse la vittoria sulle idee individualistiche e capitalistico-plutocratiche del 1789. La «rivoluzione tedesca del 1914, una rivoluzione che nel XX secolo edifica e rinsalda tutte le forze statuali di contro alla distruttiva rivoluzione li181
577-616, 675-727], Miller [1974: 31-74], Boll [1980: 87-94], Dorpalen [1988: 284-90, un panorama degli studi della ex DDR] 8.4. Il Burgfi-ieden ele sue ripercussioni: Feldman [1966: 27-40], Blìnsdofl’ [1979], Boll [1980: 95-117], Klir [1981], Krusc [1994].
8.5. Genesi e sviluppi dello ‘spirito del 1914’: H. Liibbe [1963: 173-238], G. L. Mosse [1964/1991. 163-248], Schallenberger [1964: 51-162], Bleuel [1968: 72—93], Bòhmr: [1975], Koester [1977], Vom Brucb [1982], ]. Schmidt [1988, II. ISO-93, la Filhrer-Ideologie in epoca guglielmina].
Capitolo nono
NELLA TEMPESTA
9.1. La guerra come sodalismo
In settembre la guerra si era interrata nelle trincee, esattamente quel che, in precedenza, lo stato maggiore aveva considerato un
disastro per la Germania. La retorica della difesa del focolare e della cultura non reggeva più davanti ai costi in uomini e materiale di un’imprevista gigantesca guerra di logoramento. Occorreva assegnare al conflitto un valore positivo in sé, mostrare soprattutto ai milioni di operai mobilitati al fronte e in patria ch’esso corrispondeva alle loro più intime aspirazioni di cambiamento della socretà.
Vi provvidero le cosiddette ‘idee del 1914’: nate in realtà non nel ’14, bensì un anno dopo, quando la guerra ebbe cambiato volto. A coniare il termine fu il filosofo hegeliano Johann Plenge in sue ‘conferenze di guerra’ all’università di Miìnster. Vi si diceva che la concentrazione, imposta dalla guerra, «di tutte le energie economiche e statuali in un nuovo intero» era precisamente il «nuovo socialismo», di genuina marca tedesca…- e anzi l’unico vero socialismo perché «la Germania è stata nel regno delle idee la più convinta portatrice di tuttiisogni socialisti, e nel regno della realtà la più forte costruttrice dell’economia politica massimamente organizzata» [Plenge 1915: 187-88].Inunlibrodel ’16 Plenge, sin dal titolo, contrapponeva poi «1789 e 1914, anni simbolici nella storia dello spirito politico», spiegando come allo spirito ‘socialista’ del ’14 spettasse la vittoria sulle idee individualistiche e capitalistico-plutocratiche del 1789. La «rivoluzione tedesca del 1914, una rivoluzione che nel XX secolo edifica e rinsalda tutte le forze statuali di contro alla distruttiva rivoluzione li181
bertaria del XVHI secolo» [Plenge 1916: 15], va collocata «dentro la linea ascendente del socialismo» [ivi: 84]. Nel disprezzo per l’89 Plenge si trovò in buona compagnia, ad es. in quella di Sombart per il quale le idee del 1789 erano «meri ideali mercantili», buoni appunto per popoli di «mercanti» come gli inglesi, ma totalmente inadatte a fondare «l’idealismo eroico» connaturato invece ai tedeschi [Sombart 1915:113]. Nel socialismo nazionale di Plenge c’era però qualcosa di più, owero l’idea di organizzazione. «La basilare coscienza socialista è sinonimo di coscienza dell’organizzazione», l’«organizzazione è socialismo» [Plenge 1916: 121, 18]. Fu la ricetta per ammaliare lavoratori che ben sapevano di aver sempre avuto nell’organizzazione lo strumento più importante delle loro lotte. Estrapolato dal contesto storico del movimento operaio, ilconcetto di organizzazione fungeva adesso da contenitore genericissimo, riempine di qualunque contenuto empirico. Lo rilevò Friedrich Adler, una delle poche voci socialiste serie che si levarono contro le ‘idee del 1914’: Ci insegnano una nuova idea metafisica dell’organizzazione. Essa non è più un anello intermedio, uno strumento costruito da individui per individui, bensi acquista valore supremo unicamente in virtù del proprio essere [...]. L’organizzazione come scopo a sé diventa così l’idea su cui concordano i burocrati di tutte le classi e di ogni specie. [F. Adler 1916/1918: 108]
Con Plenge e altri la nuda e cruda empiria bellica aveva trovato la propria sublimazione filosofica. A ogni fatto presiedeva adesso un'allettante categoria universale. Il Burgfiieden personificava lo spirito comunitario germanico. Nella disciplina militare e nella preziosissima KRA la Kn'egsrohstoflahteilung 0 ‘Sezione per le materie prime belliche’, istituita nell’agosto 1914 presso il mini— stero prussiano della guerra e diretta dai capaci funzionari della AEG Walter Rathenau e Wchard von Moellendorf — s’incarnava lo spirito organizzativo sinonimo di socialismo. Nella guerra di trincea si manifestava l’esaltante rivoluzione socialista mondiale chela Germania stava attuando. Sebbene anche nei paesi dell’Intesa l’intervento dello Stato sull’economia venisse talora gabellato alla classe operaia per socialismo, gli abbellimenti filosofici furono una specialità dei professori tedeschi.
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Idee analoghe circolavano anche nella socialdemocrazia. Peri sindacati era pragmatico ‘socialismo’ persino la legge del dicembre 1916 sul servizio ausiliario, imposto a tutti gli uomini abili dai diciassette ai sessant’anni non arruolati nell’esercito. Legien esaltò al Reichstag la legge come un «dispiegarsi della piena forza popolare al servizio della nazione» [in Steitz 1993: 49], ottenuto grazie al principio di una cogestione operaia per cui (così l’art. 12 della legge) comitati elettivi di lavoratori in ogni azienda di più di cinquanta dipendenti avrebbero dovuto «promuovere la buona armonia tra ilavoratori ei datori di lavoro».Icomitati erano senza dubbio un’innovazione giuridica di rilievo, la quale fungerà poi da base alla legislazione sui consigli di fabbrica nella repubblica di Weimar. Ma intanto, con l’esecuzione del servizio ausiliario demandata ai comandi militari territoriali, icomitati cogestivano un regime di caserma ammantato di interclassismo. Sicché iltitolo dei volantini di protesta della sinistra, «La Germania, una prigione totale!», coglieva sostanzialmente nel segno; e Haase, al Reichstag, denunciò a ragione che si trattava di una vera e propria «legge eccezionale contro ilavoratori» [in Steitz 1993: 51]. Agli occhi della sinistra le idee dell’SPD sulla guerra come socialismo rappresentavano tanto più un’infame abiura, in quanto a propagandarle era gente una volta anch’essa di sinistra come Lensch, Cunow e il giornalista Haenisch,iquali dall’estate del ’15 le diffondevano con la loro rivista «Die Glocke», «La Campana», sowenzionata dal gdvemo e diretta da Parvus, un altro ex della sinistra. In realtà dicevano di seguire un insegnamento addirittura mandano, cioè quello di adeguare la teoria ai fatti nuovi. Badate alla realtà - così Cunow [1915: 16] — significa «per ogni dottrina scientifica della società, non solamente per quella manciata», escludere congetture su «possibili direzioni diverse dello sviluppo delle cose», e invece tener fermo «semplicemente a'òche è, ovvero quel che nasce da premesse storicamente date ed effettivamente giunge a esistenza, cioè si afferma nel corso dello sviluppo. Ciò che nel processo di sviluppo acquista figura e vita è storicamente necessario». Era, enunciata con qualche ambizione filosofica pseudohegeliana, la teorizzazione della bontà dell’esistente perché puramente esistente. In realtà dalla gamma dei molti fatti venne trascelto uno solo, la guerra, ed elevato a panacea, con un riduzionismo 183
pari a quello con cui la sinistra radicale proponeva come rimedio universale la rivoluzione classista. Epperò con il vantaggio per il gruppo Lensch—Cunow-Haenisch che la ‘guerra’ era diventata un ‘fatto’ realissimo, e suscettibile persino di trasvalutazioni sodalistiche, mentre la ‘rivoluzione’ classista era rimasta nel limbo del-
le fantasie. Ildifetto stava insomma un’altra volta nell’insufficiente elaborazione del rapporto teoria—fatti, nella riduzione dei fatti plurivoci alla presunta dinamica univoca di un fatto solo, potenziato a elemento dirimente di tutti gli altri. Da consolidate esperienze di un venticinquennio di azione socialdemocratica discendeva certamente che «il metodo della nostra lotta così Haenischnel ’14 — diventato un altro, quello di trasformare lo Stato classista dall’in— terno» [in Sigel 1976: 38]. Ma non ne discendeva affatto che l’unico univoco ‘fatto’ a cui adesso ispirarsi, perché unico lineare adempimento di quel ‘metodo’, fosse la particolarissima maniera in cui il partito aveva recepito il Burgfrieden: cioè abdicando all’opposizione parlamentare, accettando l’ulteriore svuotamento del Reichstag, rinviando la democratizzazione del paese a chissà quando, e intanto dando supporto allo sciovinismo e alla Machtpolitik bellica. Fummo, questi, precisamente gli argomenti adoperati sulla «Neue Zeit» da Kautsky [1915] contro la politica del ‘vol— tar pagina’, quella per cui il partito scivolava verso destra. Dal cortocircuito teorico in cui s’impigliò il gruppo della «Glocke» discendevano corollari analoghi alle idee di Plenge, con il quale del resto Haenisch coltivava buoni rapporti. La guerra è «la rivoluzione tedesca» [Lensch 1916: IV]. Essa segna «la graduale ascesa di una società socialista, cioè di una società organizzata compiutamente e in modo sistematico nell’interesse della totalità collettiva, dove il lavoro è divenuto un’istanza del diritto sia statuale che etico» [ivi:183].Cunow [1916], con meno afflato, vedeva in tutto ciò semplicemente una sozz'alxlstische Realpolitile, lontana da ogni «utopismo». 9.2. «Da Amburgo a Bagdad»
La nuova mappa del mondo che doveva risultare dalla guerra fu propagandata con dovizia di mezzi dall’editoria dei pantede184
schi. Il libro di Julius Lehmann [1917] sugli obiettivi geopolitici, che ebbe una capillare circolazione anche nell’esercito, raggiungerà le 225.000 copie, dotate di un policromo atlante delle annessioni. La mappa aveva radici lontane. Attraverso igeografi Ratzel e Partsch a inizio di secolo, e Kirchhoff e Hermann Wagner negli anni Ottanta, si poteva risalire all’espansionistica Mitteleuropa germanica tracciata a metà Ottocento da Georg Funke,fautore di una ‘nuova strada mondiale’ lungo cui ‘la vita tedesca’ avrebbe dovuto scorrere ‘dal Mare del Nordalle foci dell’Eufrate’ Alla vigilia della guerra gli esiti di un conflitto che si pensava breve sorridevano anche agli industriali, come emerge ad es. dalle memorie di Hugenberg [1927' 205], il direttore delle fabbriche Krupp; ed il20 giugno 1914 il quotidiano «Die Post», organo dei pantedeschi e dell’industria pesante, scriveva che se ai tedeschi viene negata anche la più piccola possibilità di soddisfare la natu— rale e necessaria spinta all’espansione, «verrà l’immancabile momento in cui a metterci la spada in mano saranno gli altri, e allora guai ai vintil». A guerra scoppiata quei toni passammo in sordina perché avrebbero indebolito la tesi della difesa dall’aggressione. Riemersero allorché a un’opinione pubblica sconcertata dal durare dell’infemo si trattò di far balenare annessioni via via sempre più ricche che compensassero isacrifici. Ma quando nel dicembre del ’15 la rinomata rivista borghese «Sùddeutsche Monatshefte» dichiarava che a compenso dei sacrifici isoldati delle trincee «si aspettano dalla pace [...] ‘garanzie reali’, ovvero si aspettano territori, genti e possesso» (come sottolineò F. Adler [1916 a/1918: 79] nel recensire quel fascicolo), ciò semplicemente rendeva palese quanto la borghesia avesse ormai voltato le spalle alla propria stagione democratico-pmgressista, ovvero ai principi dell’89 che tas— sativamente vietavano ogni e qualsiasi guerra di conquista. Ipiù estremisti erano stati gli oltre 1.300 firmatari di un manifeste del luglio 1915 che in sintonia con la ‘Lega pantedesca’ chiedeva a ovest annessioni che sarebbero dovute andare dai giaci— menti minerari belgi alla costa atlantica, a est un sistema di Stati aggregati alla Germania, e poi un grande impero coloniale che comprendesse tutta l'Africa centrale e l’Egitto.Ifirmatari erano liberi professionisti, teologi, insegnanti, artisti, e oltre trecento docenti universitari tra cui l’antichista Wilamowitz. Gli intellettuali più moderati, una minoranza, si accontentavano di dirottare il 185
pangermanismo verso est, verso territori polacchi, baltici e russi da trasformare in Stati vassalli: lo diceva un loro contromanifesto, firmato da 141 docenti, trai quali gli storici Delbriick e Dove,ifisici Einstein e Planck,isociologi e filosofi Tònnies, Troeltsch e Max
Weber. E cosa ne pensavanoisocialdemocratici, quelli del gruppo par— lamentare e della maggioranza del partito? Intanto non mancava nemmeno qui l’inquinamento vò'l/ciscb, cioè l’idea della nazione come popolo-stirpe. C’era chi a sostegno della tesi della guerra difensiva si appellava al ‘popolo’ affinché impedisse che «a est e a ovest gli vengano strappate grandi parti del suo Vol/estan», della sua etnicità [Lensch 1915: 15]. Del resto nella socialdemocrazia non mancavano idee su un socialismo nazionale di stirpe, presentato come una comunità popolare solidaristica, di carattere essenzialmente etnico-razziale. Erano state portate in dote dalla Heimatbewegung, il ‘movimento patrio’ di esaltazione dei valori arcaico-rurali, quando negli anni 1911-13, soprattutto in aree sot— tosviluppate della Sassonia, alcune frange di esso avevano aderito aH’SPD. L’ingrediente viilkùcb non va sottovalutato. Era una componente ideologica essenziale dello Stato di potenza. Una volta sot— toscritta a occhi chiusi la tesi della guerra difensiva e data l’adesione al Burgfvieden, le idee dell’SPD sugli obiettivi della guerra scivolarono automaticamente dalla difesa all’espansionismo, con un conseguente prevaricare del Macbtstaat sui principi dell’89. Per David [1915 a: 24-25] la guerra nazionale dischiudeva la «possibilità di estendere l’arena della nostra attività economica in corrispondenza con il nostro incremento demografico». E un opuscolo del deputato Lensch su L’operaio e le colonie tedesche, diffuso gratis da una casa editrice paragovernativa, fece concorrenza al libro del pantedesco Lehmannnella lista delle pubblicazioni utilizzate dall’esercito peri corsi di educazione patriottica. Vi si spiegava che al «futuro della Germania come potenza mondiale [...] serve la creazione di un impero coloniale vitale» [Lensch 1917: 5]. Avrebbe dovuto estendersi fino alla Persia e all’Afganistan per colpire l’Inghilterra capitalista e plutocratica a est di Suez, cioè la dove «realmente batte ilcuore del gigantesco impero britannico»: come Lensch [1918] ripeté ancora sei mesi prima del crollo della Germania. 11nuovo sistema, imperniato su un’Europa centrale a 186
guida tedesca, sarebbe stato caratterizzato da una nuova idea di in— ternazionalità, superiore a quella del vecchio intemazionalismo, impotente e fallito. Sorgeranno — così Haenisch nell’indicare un programma di lavoroper la Rerkbs/eonferenz del partito che ebbe luogo a Berlino nel settembre del ’16 — nuovi grandi complessi economici supemazionali, egemonizzati da una Germania il cui nuovo grido nazionale dev’essere «Da Amburgo fino a Bagdad!» [in Sigel 1976: 1501. Contro tutto ciò la sinistra socialista produsse, più che argomentazioni, indignate accuse di ‘socialsciovinismo’, ‘socialimperialismo’ e ‘socialcolonialismo’ Radek parlava sì (ad es. sulla «Berner Tagwacht» del 21 aprile 1915) della necessità di risposte chiare di fronte al nascere di una «nuova ideologia dell’impen'alzlsrno operaio». Ma la risposta ‘chiara’ era sostanzialmente una serie di insulti; e le argomentazioni, quando c’erano, vertevano sulla degenerazione moralc dei capi del partito e del sindacato, sulla loro vocazione al tradimento favorita dalla presenza nella manodopera industriale di un"aristocrazia operaia’ che in cambio di miglioramenti del salario e delle condizionidi vita avrebbe svenduto lo spirito di classe. Questa doppia tesi diventerà un dogma nella letteratura ‘marxista-leninista’ dopo la codificazione che nel 1920 ne diede Lenin in L’estremismo, malattia infantile del comunismo. Già ai tempi di Radek la semplificazione moralistica non scalfi itermini veri del problema. Nell’ideologia ‘socialimperialista’ agivano elementi di fondo non esorcizzabili né con il moralismo, né equiparando semplicementei‘socialimperialisti’ ai ‘revisionisti’ da sempre odiati, e ai ‘centristi’ accusati di pensare alla praticabilità di una democrazia parlamentare in epoca imperialistica. Nei ‘socialimperialisti’ c’era sopratutto la mancanza di ideechiare su quel che in epoca moderna significava ‘rivoluzione’ La rivoluzione socialista veniva considerata come un’epocale svolta palingenetica tanto dai ‘socialsciovinìsti’, quanto dalla sinistra antiriformista dalla quale del resto Lensch e Haenisch provenivano. Anche i ‘socialsciovinisti’ assegnavano a quella svolta i connotati di violenza radicale propri delveterorivoluzionarismo. Solo che per lorola palingenesi era già in atto, era il socialismo di guerra della Germania assurta a comunità di popolo. Lensch — che nel febbraio del ’17 si dichiarò favorevole (insieme ai deputati socialdemocratici Quessel e Cohen-Reuss) alla ripresa della guerra sottomarina illimitata per187
ché in una rivoluzione tutti imezzi sono leciti — dirà in ottobre al congresso di Wiirzburg che la guerra è appunto una rivoluzione e come tale non tollera né «frasi sentimentali» né «l’ottica della cro— cerossina» [P-Wiirzburg 1917' 359]. E dunque, se la Germania in guerra è rivoluzionaria e socialista, perché escludere annessioni e conquiste che trasformino quella rivoluzione in un evento mondiale? Di per sé queste posizioni non potevano neppur sorprendere. Come ebbe a rilevare Eckart Kehr, l’enfant prodige della storiografia di Weimar, il socialismo era concettualmente attrezzato financo a disegnare un ‘imperialismo rosa" nel senso che del modo in cui lo sviluppo industriale e l’economia industriale si coagulano in una forte compagine statale la socialdemocrazia «non rifiutava ilcontenuto, bensì solo la forma capitalisn'ea»; e, anzi, «approvava persino la politica di potenza nella sua forma capitalistica, quando questa significava un allontanamento dal feudalesimo in direzione del sodalismo» [Kehr 1930: 338-39]. Bastava dare alla guerra connotati rivoluzionari antifeudali (perché guerra contro la Russia) e addirittura anticapitalistici (perché contro l’Inghilterra), e la Macbtpolitik tedesca finiva per coincidere con il benefico socialismo. Certo, quella politica non presentava un volto propriamente democratica. Né all’interno, con il Reichstag ridotto a una macchina di assenso, né all’esterno, con la violazione della neutralità belga come primissimo atto della guerra. Ma la legalità liberal-de— mocratica esulava comunque dall’orizzonte di chi condannava i principi dell’89 perché individualistico-borghesi, fosse costui della sinistra radicale oppure un ‘socialsciovinista’ Uno di costoro, il giornalista Heilmann, in seguito collaboratore della «Glocke», non aveva forse ricordato a Bernstein sin dalsettembre del ’14 che l’invasione del Belgio era assolqute giustificata perché «il bene della democrazia non vale la vita di 300.000 soldati tedeschi» [in Gay 1954: 345]?
Del resto proprio sulla questione della detnocrazia era poi avvenuta la rottura di Bernstein con i«Sozialislische Monatshefte»
allineati sul Burgfn'eden. In un articolo di fine settembre del ’14 egli aveva denunciato l’illegittimità di un governo che imbavaglia l’informazione e la critica, cosa mai accaduta in Inghilterra neanche in tempo di guerra. Ildirettore Joseph Bloch rifiutò l’articolo 188
e Bernstein, in dicembre, uscì dalla rivista. Ma nel partito erano pochissimi ad avere sulla questione tedesca come problema di democrazia le idee, almeno, del vituperato revisionista. Quattro an-
nidopo, nelle vicende della rivoluzionedelnovembre 1918,fu l’intera nazione a dover scontare iritardi qui accumulati dalla social-
democrazia.
9.3. Le sorprese del ’17
Della micidialemiscela costituita da una guerra rivelatasidi aggressione e logoramento, e dal Burgfiieden che non appianò, ma acuì le ingiustizie sociali, si rese conto nell’SPD soltanto una minoranza: come si vide nelle ricorrentivotazioni al Reidntag per il rinnovo dei crediti di guerra (cresciuti nel frattempo a una dozzina di miliardi).
Nel dicembre del ’14 aveva votato contro soltanto Karl Liebknecht, dell’estrema sinistra. Nel marzo del ’15 destò invece clamore che ma trentina di deputati (tra cui Bernstein, Haase e Ledebour) abbandonasse l’aula per non partecipare alla votazione. Bernstein e Haase spiegarono la loro protesta nel manifesto L’imperativo del momento che, diffuso il 19 giugno 1915 dalla «Leipziger Volkszeitung» (e costando al giornale una settimana di divieto di uscita), segnò la ritrovata amicizia tra Bernstein e Kautsky che ne fu il terzo firmatario. ]] 24 marzo del ’16 Haase in una seduta tempestosa del Reichstag, interrotto e zittito dalla maggioranza del proprio gruppo parlamentare, denunciò il carattere imperialistico della guerra. La espulsem dal gruppo; ma altri diciassette ne uscìrono per solidarità, tra cui Bernstein, e con il nome di Sozialde— moleratiscbe Arbeitsgemeinscbafl, ‘Gmppo di lavoro sodaldemocratico’ (al quale in seguito aderirono anche non-parlamentari, tra cui Kautsky), fondarono in quello stesso giorno una frazione parlamentare socialista autonoma che in un appello ai compagni di partito sottolineava come non di una «rottura della disciplina e lealtà» si fosse trattato, bensì di una «fedeltà ai principi del partito e alle risoluzioni dei suoi congressi e dei congressi internazionali» [in Bihl 1991: 183]. Di lì a un anno la rottura con la vecchia socialdemocrazia divenne invece del tutto tangibile: a gennaio del ’17 con l’espulsio189
ne dei dissidenti dalle organizzazioni territoriali dell’SPD, e tra il 6 e l’8 aprile con la fondazione a Gotha da parte di centoquaran-
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delegati del ‘Gruppo di lavoro’ e dell’opposizione interna dell’SPD, e sull’onda delle ripercussioni della rivoluzione russa di febbraio dell’Unahhà'ngige Sozùldemo/eratziche Partei Deutschlands (USPD), il ‘Partito sodaldemocratico indipendente della Germania’ Già quel nome proclamava, in polemica con un SPD a tutti gli effetti governativo, che adesso esisteva finalmente un par— tito socialista ‘indipendente’ dal governo. La sua linea così il documento di fondazione [in Bihl 1991. 266] era appunto l’«op— posizione di principio contro il sistema di governo dominante, contro la politica di guerra del Reich e la politica condotta sulla scia del governo dalla direzione di un partito che di socialdemocratico ha soltanto il nome». Entro un anno crebbe a centomila iscritti, coniparlamentari Haase, Dittmann e Ledebour nel gruppo dirigente. Kautsky, pur sino all’ultimo riluttante alla scissione, ne redasse il manifesto che esprimeva un «entusiastico omaggio» ai «proletari di Russia» della rivoluzione di febbraio [Kautsky 1917 a]). La cosa gli costò la direzione della «Neue Zeit», dove venne rimpiazzato da Cunow. Al nuovo partito - per distinguersi dal quale la vecchia socialdemocrazia chiamò se stessa anche Mehrheitliche Sozialdemokratische Partei Deutschland: (MSPD) 0 ‘Partito sodaldemocratico maggioritario della Germania’ — aderì subito, pur con autonomia di posizioni, il gruppuscolo degli intemazionalisti rivoluzionari, poi diventati ‘spartachisti’: i quali, coagulati intorno alla Luxemburg, a Mehring, Marchlewski, Liebknecht, Thalheimer, Brandler e Clara Zetkin, avevano sin dal ’14 svolto contro la guerra un’attiva propaganda che poi incrementarono con un loro bollettino d’informazione, lo «Spartakus» appunto. Lo scisma del ’17 sand semplicemente una situazione di fatto. Già a metà agosto del ’14 il deputato e membro della Commissione generale dei sindacati Robert Schmidt aveva dichiarato che se la sinistra continuava a «disturbare» si sarebbe dovuto dare un taglio netto, e «allora il piccolo gruppo dei dottrinari radicali potrà mettersi a fareinsieme agli marco-socialisti una setta dottrina-ia internazionaledi ideologi»: come nel suo diario degli anni di guerra annotò David [1966: 17]. Senonché al congresso di Jena del 1913 quel «piccolo gruppo» era stato un buon terzo del partito. E
tatre
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nella primavera del ’15, dopo otto mesi di guerra e di Burgfrt'eden, imilitantidi base non si stupivano affatto che ormai nell’SPD «coesistono due distinti partiti socialdemocratici belli e pronti»: come riferisce Wilhelm Eildermann [1972: 155], allora giovane socialista a Brema.
A rivelarsi quotidianamente una colossale mistificazione fu so-
prattutto la conclamata solidarietà nazionale. Sin dall’inizio del ’15 e poi sempre di più,ilcontrasto tra la ‘fame organizzata’ delle mas-
se eiprofitti di guerra degli industriali d’assalto e degli speculatori riportava la lotta di classe alla sua forma primordiale di contrasto tra poveri e ricchi. «La lotta di classe — così Rosenberg [1928/1947' 90] che aveva fatto esperienza diretta di quegli anni«assunse in Germania, nonostante la tregua interna, la forma più terribile che si possa immaginare, cioè quella della lotta per iltozzo di pane». In tale quadro, dove tragedie del fronte e dramma interno si sommavano, non sorprende che il proletariato tedesco salutasse la rivoluzione russa del febbraio 1917 anzitutto come una promessa di pace. Il comitato centrale dell’SPD, ansioso di non perdere consensi dopo la scissione, ne prese spunto per dichiarare il 19 aprile che in Germania si doveva spingere il governo a promuovere negoziati per una pace senza annessioni. Ilproblema, naturalmente, era quello degli strumenti. In Russia la svolta era avvenuta con l’abbattimento rivoluzionario dell’autocrazia e l’abdicazione dello zar. E in Germania? La gente del vecchio regime constatava con orrore come il 4 aprile Loebell, ministro degli interni in Prussia — che l’«effetto addirittura ine—
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briante» del febbraio russo era dovuto al fatto che erano «state adempiute lì, di colpo, tutte le istanze liberali, mentre qui in Germania è da anni che idemocratici tentano invano di imporre i lo— ro desideri» [in Bartel 1958: 427]. Ma, a parte l’ebbrezza, che cosa potevano e volevano realmente fare i democratici tedeschi? L’MSPD, bloccato dall’ideologia della ‘tregua interna’, si limitò ad accodarsi su posizioni subalterne a cautissime manovre dei liberalie del Zentrum, tese a ritagliare al Reichstag un qualche spazio d’iniziativa parlamentare per la pace. Scheidemann, il capogruppo degli ottantanove deputati rimasti all’SPD dopo la scissione, ebbe un bel dire nelle sue memorie che «nel corso del 1917 si sarebbe dovuto porre fine alla guerra a qualunque condizione se si voleva preservare la Germania almeno dal crollo completo» [Scheide191
mann 1928: I, 385]. ]] fatto è che MSPD, liberali e Zentrum, qualunque cosa dicessero in pubblico per non perdere consensi, in realtà non furono nemmeno sfiorati dall’idea di una pace ‘a qualunque condizione’ Forse avrebbero potuto evitare al paese il disastro finale se avessero optato per una parlamentarizzazione rapida e radicale e, soprattutto, fossero stati liberi dalla sudditanza ai militari e dalle illusionidella Machtpoliti/e. Ma queste continuarono a coltivarle sino alla tarda estate del ’18. Entrambe le anime dell’USPD, sia la parlamentare che la spartachista, erano almeno immuni da infezioni scioviniste: ma lontanissime anch’esse dall’avere strumenti per uscire dalla guerra. Nel
bollettino d’informazione dell’USPD berlinese dell’8 aprile l’ala parlamentarista dichiarava sì che «noi abbiamo a che fare con condizioni diverse da quelle russe, sicché la battaglia per la nostra libertà interna deve assumere altre forme», cioè appunto forme par— lamentari [in Bartel 1958:429-30]; ma nulla si diceva su come queste, in concreto, avrebbero potuto essere. Di contro gli «Spartakusbriefe» 0 «Lettere di Spartaco», che erano dal ’16 l’organo clandestino degli spartachisti, proclamavano nell’agosto 1917 che «le rivoluzioni non si fanno nei parlamenti [...], si fanno solo nelle strade e ad opera delle masse popolari operaie» [in Bartel 1958: 449]: e dunque - analogamente a quel che voleva nel 1905 la sinistra radicale a proposito dello sciopero di massa si sarebbe do— vuto seguire in tutto il modello russo. Se quello era l’animo degli spartachisti dopo febbraio, si può immaginare illoro entusiasmo dinnanzi alla rivoluzione d’ottobre. Certamente anche - come diceva un loro volantino [in Bartel 1958: 466] — perché essa accelera «la fine del massacro dei popoli», ma in primo luogo perché rappresenta l’«inizio della realizza— zione del sodalismo». Sulla «Leipziger Volkszeitung», il tradizionale foglio della sinistra, gli elogi della rivoluzione d’ottobre implicavano già la sovversione in patria: «è svanito l’idillico sogno della rivoluzione come opera di tutti gli strati sodali», e ormai la democrazia rivoluzionaria ha davanti a sé «una dura guerra civile» (Clara Zetkin, 30 novembre). L’ottobre sovietico parve un invito a dimenticare l’Engels del ’95 e a tornare alle tesi del Manifesto. In realtà le ‘masse’, destinatarie di tali appelli, nonsi chiedevano affatto se quella apertasi in Russia fosse la via al socialismo, bensi se dal «decreto sulla pace» emanato l’8 novembre dal governo 192
degli operai e contadini sarebbe sortita una pace generale o, almeno, una pace separata a est. Dal «Vorwàrts» del 9 novembre avevano saputo, contestualmente alla notizia della vittoria bolscevica, che Lenin voleva l'armistizio e la pace subito; dagli articoli di fondo ad es. di Carl Severing sulla «Bielefelder Volkswacht» del novembre e dicembre apprendevano che ileninisti erano «i portatori dell’idea della pace». Insomma, tranne che sul fronte degli spartachisti, era questo il vero diffuso interesse, non quello per il potere socialista. E se proprio ci si voleva chiedere se l’ottobre sovietico segnasse o no la via maestra al socialismo, c’erano subito le riflessioni di Kautsky [1917 b] suggeritein dagli eventi russi: ovvero che un vero assetto socialista può nascere soltanto da condizioni capitalistico-industriali altamente sviluppate, e quindi non in Russia; e che dunque, non potendo quella rivoluzione costituire un modello per la Germania, il proletariato tedesco doveva batte— re tutt’altra strada, quella di democratizzare a fondo il Reich. 9.4. Nodiche non si sciolgono
Insomma: non sarebbe stato meglio pensare alla parlamentarizzazione della Germania prima che alla rivolum'one sodalista? Era un vecchio dilemma, presente già nelle battaglie costituzionalistiche degli anni Novanta, poi nei dibattiti sulla monarchia e sul codice civile e penale, poi ancora nel movimento per la riforma elettorale prussiana, infine nell’istanza, riproposta nuovamente in piena guerra da Bernstein [1916] che il Reichstag avesse poteri di
controllo sulla politica estera. Le prospettive della democratizzazione, profilatesi con il suc— cesso elettorale socialista del 1912, si erano trovate subito soffocate dal Burgfrieden e dalla militarizzazione del paese. Sembrarono riemergere con l’inatteso cosiddetto ‘messaggio di Pasqua’ di Guglielmo Il (1917) che prometteva l’abolizione, a guerra conclusa, del sistema elettorale per ceti in Prussia, perché ormai anacronistico «dopo l’opera immane dell’intero popolo in questa terribile guerra» [in Bihl 1991: 265]. Ma mentre l’SPD si illuse che fosse un’apertura parlamentaristiea, i liberal-conservatori ne avevano invece capitobenissimo il senso: owero che forse le paventate agitazioni di massa contro guerra e vecchio regime si sarebbero po193
fortunosamente neutralizzare — così nel giugno del ’17 Delbriick a von Valentini, capo del gabinetto di Guglielmo II per gli affari civili - con delle «concessioni alla democrazia», cioè introducendo in Prussia il suffragio universale che, pur di per sé riprovevole, «è per noi in questo momento uno strumento di salvezza» [in Stern 1959: IV/2, 571-72]. L’SPD, che aveva accantonato a dopo la guerra qualunque po— litica per la democratizzazione del Reich ed era stato preso alla sprovvista dall’idea del riaprirsi della parlamentarizzazione, nulla di nuovo seppe esprimere in proposito al congresso di Wiìrzburg. Le genericità di Scheidemann sul parlamento che deve controllare governo e cancelliere [P-Wiirzburg 1917' 410], avrebbero potuto esser datate benissimo a prima del ’14. Un’autonoma teoria socialista dello Stato era sempre mancata. Tanto più mancava adesso, dopo l’immissione di dosi massicce di Burgfrieden nell’i— deologia del partito. L’esito naturale della ‘tregua interna’ sembrava essere la partecipazione al governo. Questa, in forma minimale, era del resto già avvenuta nel luglio del ’17, con la nomina di August Miiller, sindacalista e collaboratore dei «Sozialistische Monatshefte» e della «Glocke», a sottosegretario all’Ufficio per l’alimentazione. Costui peraltro disprezzava totalmente il parlamentarismo. Lo definiva un impaccio borghese e «manchesterista», un ostacolo a quella presunta bellissima trasformazione socialista dell’economia che nell’-«interesse proletario di classe» era già avvenuta con il magnifico socialismo di guerra; e proclamava infine che si doveva «rinunciare o alla socializzazione dell’economia o al sistema parlamentare» [A. Miiller 1917]. Da simili sottosegretari ilgoverno non aveva ovviamente da temere nessun’opera di democratizzazione. E d’altronde la stessa cooptazione di un socialista nel governo fu puramente strumentale. Serviva a continuare meglio la guerra e l’economia di guerra, come ammetteva con l’abituale franchezza Delbriick in una minuta di lettera dell’autunno 1917 al diplomatico prussiano Eulenburg, amico di Guglielmo II:« noiper vincere la guerra non possiamo fare a meno dell’aiuto della sinistra, anchedella socialdemocrazia che del resto mostra di esservi ben disposta» [in D6ring 1975:45]. La partecipazione deH’MSPD al governo fu dunque una collusione con
tute
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forze dichiaratamente antisocialiste, e ciò avrà pesantissime ripercussioni sulle vicende della rivoluzione tedesca del ’18. NeH’USPD stava invece emergendo, in contrasto con gli spartachisti, la linea dei ‘centristi’ che insistevano sulla percorribilità di una via parlamentare la quale fosse però fondatamente socialista, tutt’altra dunque dal governativismo del vecchio SPD. «Noi siamo democratici. Non solo socialisti, ma anche democratici. Noi cerchiamo diintrodurrela democrazia nello Stato e nella società», diceva Ledebour a nome dei ‘centristi’ al congresso di fondazione del partito [in Eichhorn 1921: 52-53]. Ma a ciò non seguirono né elaborazioni teoriche di un’alternativa socialista epperò democratico-politica al sistema parlamentare classico, né progetti tecnici di riforma dell’assetto del Reich. Pesava in particolare il quesito se una democrazia politica e sociale fosse fattibile nell’epoca dell’imperialismo. Su un capitalismo-imperialismo non necessariamente aggressivo, dunque non necessariamente incompatibile con forme politiche di democrazia, c’erano state, si sa, talune idee di Kautsky (vedi 4.3, 7.2, 82). Durante la guerra le aveva ampliate, a cominciare dal saggio L’imperialismo pubblicato sulla «Neue Zeit» alla fine di agosto del ’14. Vi si leggeva che una necessità economica di proseguire la gara del riarmo non vi sarebbe stata dopo la guerra neanche dal punto di vista della stessa classe dei capitalisti, che dai conflitti trai capitalismi nazionali avrebbe anzi avuto tutto da perdere. Sicché ogni capitalista di vedute moderne avrebbe dovuto piuttosto gridare ai suoi simili: «capitalisti di tutti i paesi, unitevi!», e dalla guerra mondiale delle potenze imperialistiche sarebbe potuta nascere una lega delle nazioni la quale ponesse fine alla corsa agli armamenti [Kautsky 1914 b: 920-211. In un contesto di «ultraimperialismo» come lo definì Kautsky, di un imperialismo che evolve a connotati che sono cioè ‘al di là’ di quelli classici, il proletariato avrà un inedito doppio compito. Da un lato così Kautsky in Stato nazionale, Stato imperialistico e Lega degli Stati del 1915 — dovrà, in collegamento con quelle tra le forze capitalistiche che sono a ciò ugualmente interessate, promuovere un sistema internazionale di «democrazia delle nazioni» 0 «Lega di Stati» basato sul principio che «lo status quo non venga mutato senza il consenso delle popolazioni coinvolte» [Kautsky 1915 a: 14]; dall’altro dovrà, all’interno degli ambiti nazionali, co-
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stringereicapitalisti a gestire gli affari «non più conimetodi troppo comodi e facili dell’imperialismo, bensì con quelli della democrazia e dellibero scambio,iquali richiedono si un’inventiva maggiore ma aprono al progresso economico lestrade più ampie, e insieme irrobusn'scono ilproletariato materialmente, spiritualmente
e politicamente» [ivi: 80]. Erano, ripetute un anno dopo anche sulla «Neue Zeit» nell’ab ticolo la guerra impenhlirtica [1916], considerazioni suggestive, ma di intrinseca debolezza pratica. In che modo infatti gli stru-
menti della «democrazia moderna» evocati — cioè «il parlamentarismo, la stampa e le grandi organizzazioni di partito che abbracciano l’intero ambito dello Stato» [Kautsky, 1915 a: 8] — sarebbero serviti concretamente per uscire intanto dall’imperialismo bru— tale del presente? E, poi, con quali forze si sarebbe potuto nella Germania del 1915 passare dall’oggi al domani dal parlamentari— smo di facciata a una democrazia istituzionalmente reale? Anche le lezioni tenute da Bernstein [1919 a] alla Arba'terbildungsscbule di Berlino nell’inverno 1917-18 sulle prospettive storiche del diritto internazionale, accattivanti per la loro chiarezza e incentrate sulla democrazia come precondizione di qualunque futuro di pace, erano altrettanto carenti di indicazioni operative. In realtà l’importanza delle considerazioni di Kautsky sulla democrazia stava altrove, stava nel binomio democrazia—socialismo che gli si andava ormai nettamente definendo. Commentando la rivoluzione russa di febbraio spiegava che di due cose il proletariato ha urgentemente bisogno, di democran'a e di socialismo. Di democrazia, ovvero di ampiezza di libertà e di diritti politici, onde l’assetto dello Stato e l’apparato amministrativo si trasformino in semplici strumenti della massa del popolo. E poi di socialismo, owero di una produzione— insieme statale, comunale e cooperativistica— per i bisogni della società [..…] Una produzione sociale senza democrazia di— venterebbe la più pesante delle catene. Una dunocrazia smza socialismo lascerebbe immutata la dipendenza economica del proletariato. [Kautsky 1917: 11-12]
Queste formulazioni implicavano chedei tre obiettivinel 1917— 18 contigui e intrecciati (pace, istituzioni democratiche da realiz— zare, socialismo), il terzo obiettivo aveva a sua precondizione il raggiungimento dei primi due. Nemmeno in Kautsky il discorso 196
verté mai sulla fattibilità pratica, ma almeno in merito alle priorità teoriche v’era una chiarezza che mancò aH’USPD come partito.
Al congresso di Gotha Haase aveva indicato agli ‘indipendenti’ un compito primario: «unirsi per condurre con vigore e forza la lotta di classe» [in Eichhorn 1921. 39]. Ma per raggiungere quale obiettivo immediato? Davvero il sodalismo? Haase aveva accuratamente taciuto, a differenza degli spartachisti iquali, soprattutto dopo l’ottobre russo, proclamavano chei guerrafondai si sarebbero arresi alla pace soltanto con lo scoppio, in Germania, di una rivoluzione socialista dimodello sovietico. Era però una parola d’ordine senza nessun vantaggio per la politica pratica, e ciò per ilmotivo semplicissimo che le ‘masse’ sempre evocate non avevano affatto l’obiettivo del socialismo. Non lo ebbero nei grandi scioperi dell’inverno 191718 attuati al di fuori dei sindacati fermi al Burgfi1'eden, né precedentemente, nell’agosto del ’17, v’era stato ‘socialismo’ nell’ammutinamento dei marinai della base navale di Kiel, subito duramente represso.Imarinai e gli operai chiedevano unicamente la fine della carneficina e ildiritto democratico del suffragio universale generalizzato. 9.5. ‘Dopo ildiluvio, soltanto noi’
Nella propaganda intorno alle idee bolsceviche, favorevole o contraria ch’essa fosse, giocò nella Germania del 1917-18 un fattore specifico. Cioè il contatto che con il ‘bolscevismo’ c’era nei territori occupati a est, dove l’esercito aveva conseguito vittorie adeguate agli obiettivi del pangecmanismo continentale. Nel ’17 i fanti tedeschi fraternizzavano in trincea con i russi che grazie ai ‘soviet dei soldati’ erano animati da una forte speranza di pace, mentre per ilcomando dello scacchiere orientale si trattò invece di approfittare della situazione per strappare quanti più territori pos— sibile alla neonata repubblica sovietica e aggregarli sotto varie forme al progetto ‘Grande Germania’, abbellendo la cosa col presentarla come una liberazione dallo ‘zarismo’ di nuovo conio, quello bolscevico. Durante l’estate del ’18 aiutò a depredare l’est anche l’MSPD che in solidarietà con il Reich aveva collaborato alla ratifica parlamentare del trattato di Brest con l’astenersi nella votazione, men197
tre gli ‘indipendenti’ votarono in blocco contro quello che un lo-
ro volantino definiva lo «stupro della Russia». In settembre il deputato maggioritario Keil si recò per conto del governo a perora-
re sentimenti filogermanici e antibol$cevichi presso i socialdemocratici dell’Ucraina, adesso neoindipendente ma presidiata da
300.000 soldati tedeschi che invece sarebbero stati preziosissimi
sul fronte occidentale. Alla pubblicistica sul bolscevismo prodot-
che
ta nel 1917-18 dall’M5PD va perciò fatta la tara le vicende russe vi vennero trattate in gran parte nell’ottica dei disegni geopoli-
tici tedeschi. Sul «Vorwàrts» David [1917] si augurò che dall’armistizio a est del dicembre 1917 procedesse un grande patto di alleanza con la «democrazia russa», il quale avrebbe portato la Germania a rapide vittorie militari su tutti ifronti. Blos [1918], sulla «Neue Zeit» di Cunow, vide nel «nuovo Stato russo» un aiuto contro l’«imperialismo» (quello dell’Intesa, si capisce, essendo escluso che la Germania del socialismo di guerra potesse essere imperialista!) L’unico sbaglio dei bolscevichi- si leggeva qua e là nella NeueZeit — è il loro insistere sull’autodeterminazione dei popoli, essendo questa praticabile soltanto quando il capitalismo sarà stato sconfitto e sostituito dal socialismo in tutto il mondo (cioè in un futuro praticamente neanche immaginabile). Il rinvio sine die dell’autodeterminazione corrispondeva all’allarme, neH’MSPD, che l’idea dell’autodecisione finisse per investire invece qui e ora la questio-
ne dell’Alsazia-Lorena e l’intero problema delle nazionalità negli
imperi centrali. L’MSPD denunciò ovviamente ibolscevichi come violatori dellegalità la democratica quando il 19 gennaio 1918 fecero sciogliere dall’esercito l’Assemblea costituente appena eletta; ma si trattò spesso delle stesse voci (ad es. Elos [1918a]) che nell’altra ottica, quella geopolitica, avevano tenuto nei confronti della rivoluzione sovietica un atteggiamento molto morbido fino a quando era sembrato ch’essa facilitasse in qualche modo le mire del Reich a est. Sicché c’era il sospetto che l’improvviso irrigidimento sulla ‘democrazia’ nascondesse l’irritazione per le resistenze bolsceviche al trattato di Brest. La discussione teorica vera sul bolscevismo si svolse nell’USPD, non neH’MSPD. Il problema del rapporto tra socialismo e democrazia vi riaffiorò intermini che ilmovimento operaio aveva acqui198
sito da tempo e che all’inizio della guerra erano stati ribaditi quando i socialisti dell’opposizione si pronunciamno per il recupero delle istanze liberal-democratiche, dei ‘princìpi del 1789’ Adesso vi furono nuovi sviluppi. Con la. rivoluzione sovietica e poi, in particolare, con lo scioglimento dell’Assemblea costituente russa il 19 gennaio 1918, balzò in primo piano un quesito eHettivo, d’impat— to insieme teorico e pratico: cioè quale fosse (o potesse essere) in concreto la forma
socialista della democrazia. Il ruolo principale
nel dibattito spettò all’opuscolo La dittatura delproletariato scritto nell’estate del ’18 da Kautsky, anzi dal «rinnegato Kautsky» come lo marchiò in ottobre Leninsin dal titolo (La rivoluzione proletaria e ilrinnegato Kautsky) della sua velenosa stroncatura. Riguardo alla rivoluzione in generale tomò alla ribalta il dilemma, emerso già a proposito dei problemi coloniali (vedi 5.2), circa le condizioni storicamente necessarie per la transizione al socialismo: se insomma il processo di sviluppo economico-sociale potesse venir abbreviato saltandone singole tappe. A Kautsky già scettico sulla cosa tanto all’epoca dei dibattiti coloniali quanto poi nel novembre del ’17 - gli accorciamenti apparvero, vedendone adesso in atto i tentativi, una pericolosissima illusione. Nel voler instaurare per decreto il socialismo e togliere per decreto fasi dello sviluppo, ibolscevichi assomigliano a «una donna incinta che fa i salti più pazzi onde abbreviare la durata della gravidanza che la irnpazientisce e provocare un parto immaturo. Di regola il pro— dotto di un simile procedere è un bambino senza prospettive di vita» [Kautsky 1918: 43]. Se le ‘prospettive di vita’ si riassumevano nelsocialismo coniugato con la democrazia, allora i bolscevichi le avevano compromesse tutte con l’affossamento dell’Assemblea costituente. Le invettive di Lenin («il rinnegato Bernstein sembra un cucciolo accanto al rinnegato Kautsky» [Lenin 1918 a/OL, XXVIII: 246]) bersagliarono un Kautsky che avrebbe preso «dal marxismo solo ciò che è accettabile per iliberali, per la borghesia», e trascurato di chiedersi «democrazia per quale classe?» [ivi: 247, 254]. In realtà Kautsky non confondeva affatto democrazia borghe-
—
se e democrazia socialista, «uguaglianza formale» e «uguaglianza effettiva» come Lenin [ivi: 257] gli rimproverava. Stava solamente tentando di formulare il quesito in termini meno appiattiti sul veteromarxismo, cioè introducendo iltema della possibile sinergia
199
democrazia classista proletaria e strumenti politici di eredità democratico-liberale. Cominciò col proporre una definizione storico-dinamica della democrazia: «Noi non condividiamo l’illusione democratico-borghese secondo cui il proletariato, una volta conquistata la democrazia, sarebbe già di per sé in possesso di tutti isuoi diritti [...]. La battaglia proletaria di emancipazione non cessa con la democrazia, essa soltanto assume altre forme» [Kautsky 1915a: 11]. La forma politica borghese non veniva dunque celebrata affatto come l’assoluto apice di un processo; né la celebrava in quegli anni Bernstein, il ‘rinnegato cucciolo’, sapendo anch’egli che «il diritto di voto democratico non basta affatto a fondere popolo e
tra
Stato» [Bernstein 1917' 59]. Lo sviluppo storico delle istituzioni politiche doveva, sia pur riconoscendo alle forme borghesi un valore imprescindibile, inverarsi comuque con ‘altre forme’ Ma queste erano appunto diverse dalla ‘dittatura del proletariato’ che Lenin [1918a/0L, XXVIII: 252] definiva «un milione di volte più democratica di ogni democrazia borghese». Kautsky concedeva ai bolscevichiche la loro politica fosse in larga misura imposta dalla situazione contingente della Russia. Ma negava che da quegli eventi eccezionali essi potessero legittimamente «fabbricare una nuova teoria che, come pretendono, abbia validità universale» [Kautsky 1918: 60]. Lenin, puntualmente, replicò che «diventadi giorno in giorno più chiaro alle masse proletarie di tutto ilmondo che ilbolscevismoha additato la via giusta per scampare agli orrori della guerra e dell’in1peria1ismo, che il bolscevismo è valido come modello di tattica per tutti» [CL, XXVIII: 2971. Fu una diatriba rimarchevole per l’ostinazione a voler ricavare da testi marxiani ed engelsiani del 1848 o dell’epoca della Comune di Parigi indicazioni tattico-strategiche per situazioni del tutto diverse, di settanta o cinquanta anni dopo. In Kautsky traspariva almeno, con vantaggio su Lenin, una fonte più aggiornata, cioè l’Engels del 1891-95 e la teoria della rivoluzione come diritto di resistenza (vedi 7.2). Egli ribadì dunque che la violenza proletaria è legittima soltanto in risposta a una violenza che miri a «sopprimere la democrazia». Criticando ifatti del gennaio 1918 in Russia, spiegò che «un regime che sa di avere l’appoggio delle masse farà uso della violenza solo per difendere la democrazia, non già per 200
sopprimerla. Esso conunetterebbe un vero e proprio suicidio, se volesse distruggere il suo fondamento più stabile, il suffragio universale, sorgente profonda di un grande prestigio morale» [Kautsky 1918: 22]. Se insomma, per una serie di circostanze fortuite, capita al proletariatodi giungere al potere come minoranza, esso distruggerebbe rivoluzione e democrazia se poi governasse senza la maggioranza: il richiamo era ancora al marxismo, ma — con evidente utilizzazione di tesi tardoengelsiane - a un marxismo che concilia la ‘dit— tatura del proletariato’ con la democrazia. Iltardo Engels sembrava infatti non lasciare dubbi su quale fosse la forma che il potere operaio avrebbe assunto in un’epoca di capitalismo sviluppato: «il nostro partito e la classe operaia possono giungere al potere soltanto sotto la forma della repubblica democratica. Anzi, questa è la forma specifica per ladittatura del proletariato, come ha già dimostrato la grande Rivoluzione francese» [Engels 1891/OS: 1175]. In quell’Engels, se le parole hanno un senso, repubblica de— mocratica e ‘dittatura del proletariato’ coincidevano; e le implicazioni della complessiva autocritica engelsiana delveterorivoluzionarismo (7.2) sembravano confermare la cosa. Lenin, in Stato e rivoluzione, diede di quel passo un’interpretazione totalmente diversa. La funzione della repubblica democratica sarebbe quella, soltanto tattica, di essere l’immediata porta d’accesso alla dittatura del proletariato: owero «la repubblica democratica è la via più breve che conduce alla dittatura del proletariato» [Lenin 1918/OL, XXV: 419], quest’ultima intesa dun— que come l’esito di una sorta di ‘seconda rivoluzione’ (nel senso di «prossima tappa della rivoluzione»: così Lenin nel marzo del ’17, nella quinta delle Lettere da lontano) che avrebbe rapidamente superato, scardinandola, la ‘repubbliea democratica’ Ildivario tra le dueinterpretazioni racchiude, in nucleo, l’intero contrasto tra socialismo democratico (tardoengelsiane,in un certo senso) e bol— scevismo. Intanto però, nell’estate del ’18, quel che contava era di capire quale linea un movimento operaio frastornato e disorientato avrebbe potuto adottare in Germania durante e soprattutto dopo
il diluvio della sconfitta militare che stava per colpire il paese. Il collasso del sistema borghese aveva rappresentato per generazioni di socialisti un punto di riferimento enormemente importante. 201
«Dopo il diluvio veniamo noi, soltanto noi» era una frase diffusa. Esprimeva la convinzione che dopo il dissolvimento di una borghesia che oltre al potere avrebbe anche perduto ogni prestigio morale, sarebbero stati soltanto ilavoratori a instaurare la nuova società. Ildiluvio così spesso evocato veniva adesso nella forma totalmente inaspettata di una sconfitta militare dopo quattro anni di carneficina. E ilmovimento operaio, con quali barche avrebbe navigato nella tempesta? Con la nave della rivoluzione socialista, rispondevano gli spartachisti. L’avrebbero costruita le masse dei grandi scioperi del gennaio 1918 e anche in Germania sarebbe stata varata dai Rate, dai ‘Consigli’, gli omologhi dei soviet russi. Non vi si erano forse già ispirati gli scioperanti a gennaio, eleggendo a Berlino un consiglio operaio formato dai revolutionà're Ohleute, i ‘fiduciari rivoluzionari’ dei metalmeccanici? Certo, gli organizzatori di quegli scioperi erano stati ficcati in compagnie di disciplina dell’esercito, con impresso sui loro documenti il timbro ‘B 18’, ‘Berlino 1918’, a segnalarli come sowersivi. Ma andaronoal fronte - come racconterà uno di loro, Richard Miiller [1924, I: 110] - con l’idea precisa di fare propaganda nell’esercito «perché abbiamo bisogno di armi e solo la rivoluzione ci porta salvezza». Un appello spartachista del marzo 1918 incitò quindi alla creazione di Arbeiter- und Soldatenrà'te (Auf-Rate) 0 ‘Consigli degli operai e soldati’, all’arma— mento degli operai e all’uso della violenza contro chi non seguisse le direttive dei Consigli; e un volantino dell’estate diffuse la parola d’ordine bolscevica «tutto il potere ai Consigli operai». Dietro stava un cortocircuito'teorico analogo a quello del 19041906 a proposito dello sciopero politico di massa (vedi 7.5). Da singoli fatti interpretati secondo una prospettiva desiderata si deduceva la realizzabilità della prospettiva. In realtà né la nave della rivoluzione era al varo, néisuoi ipotetici comandanti avevano un equipaggio. Il Consiglio berlinese dei ‘fiduciari’ non si era ispirato a nessuna meta socialista, aveva semplicemento organizzato esso uno sciopero al qualeisindacati si opponevano. A masse esauste dalla guerra, soltanto desiderose ch’essa finisse, appariva fuori di ogni senso comune imbarcarsi nell’ulteriore awentura di ‘rovesciare il governo imperialistico’ come incitavano ivolantini. E l’e— sasperazione degli Obleute, finiti nelle trincee, non trovò nemmeno lì molta risonanza in un momento in cui le offensive tedesche 202
della primavera-estate promettevano addirittura un insperato ra— pidissimo Siegfrieden, una pace ottenuta con la vittoria. Quando all’illusione subentrò a metà agosto la rotta inarrestabile sul fronte occidentale, furono le cose a fare la ‘rivoluzione’, non già le masse ad essa totalmente impreparate; ma neppure, altrettanto privi di bussole, la fecero idue partiti socialisti e igruppuscoli della sini— stra estrema.
Nota bibliografica 9.1. La Germania in guerra: Arthur Rosenberg [1928/ 1947: 73272], Kehr [1932/1965], Cole [1958/1976: 115-49], Ryder [1967: 8-187], Bieber [1981], Merker [1993: 355-841.
La stampa socialdemocratica durante la guerra: Koszyk [1958: 16-111]. Sul ‘socialismo di guerra’: Feldman [1966: 41-96, 197348]. Sulla destra socialdemocratica: David [1966, il suo diario di guerra], Sigel [1976]. 9. 2. Sugli obiettivi di guerra tedeschi: F.Fischer [1961/ 1965],
Martin [1989: 38—44]. Ilsupporto degli intellettuali: Bleuel [1968: 72—93], Dòring [1975: 21-56], Schultz [1991: 40-61-]. Il ‘socialirnperialismo’ e ‘socialcolonialismo’: Sigel [1976: 6673, 14350]; in ottiCa ‘marxista-leninista’: Bartel [1958: 352—71] e Fricke [1975; 1975 a]. 9.3. Sul movimento per la pace: Boll [1980: 191-252, il movimen— di massa], Eisenbeiss [1980: 104-72, 22754, il pacifismo bor-
to
ghese]. Sull’opposizione di sinistra alla guerra: Drahn-Leonhard [1920], Bartel [1958: 189-298], Feldman [1966: 301-48], Lòsche [1967‘ 73-81], Wilhelm Eildermann [1972: 57-371, il diario di guerra], Bock [1993:57-861.8u11’8PD fino al ’17' Miller [1974: 75178],Schorske [1955]. SuH’USPD: Prager [1922], Ryder [1967: 84110], Krause [1975], Morgan [1975]. Le ripercussioni della rivoluzione russa: Lòsche [1967' la rivoluzione di febbraio (84-99) e di ottobre (103-63)l; Bartel [1958: 203
424-576] e Stern [1959] in ottica ‘marxista-leninista’; Dorpalen [1988: 302-13, la storiografia della ex DDR sul tema].
9.4. Sul nesso tra democratizzazione interna e questione della pace e sulla contraddittorietà della politica socialdemocratica: Miller [1974: 179-395].Ribhegge [1988]. Dorpalen [1988:290—971 dà un
quadro della storiografia della ex DDR su Burgfn'eden, ‘capitalismo di Stato’ durante la guerra e obiettivi bellici. Su Kautsky nel 1914-18: Waldenng [1972/1980: 682-829], Kraus [1978: 163-73], Steenson [1978: 181-211], Gronow [1986: 84-96].
9.5. Sull’estensibilità del sovietismo: Nerd [1966/1970, Il: 25371], Lòsche [l967' 113-48], Waldenberg [1972/1980: SOS-25], Miller [1974: 351—57].
Capitolo decimo
GLI EQUIVOCI DI WEIMAR
10.1. Una strana rivoluzione
Nell'ottobre del ’18, frutto di una di quelle ‘rivoluzioni dall’alto’ che nella storia tedesca sono ricche di effetti perversi, cadde in grembo alla socialdemocrazia un’inattesa parlamentarizzazione delReich. A esigerla era stato il comando supremo, perché serviva che a chiedere l’armistizio fosse una presentabile monarchia costituzionale. Un’ordinanza imperiale del 28 ottobre sancì pertanto che ilgoverno potesse operare soltanto con la fiducia del Reichstag e che ratifiche parlamentari occorressero anche in tema di trattati internazionali e per delibere sullo stato di guerra; entrò in porto persino la riforma elettorale prussiana. Era quel che idemocratici avevano inutilmente reclamato da mezzo secolo. Sul nuovo governo, presieduto dal principe Massimiliano del Baden e al quale parteciparono per l’SPD Scheidemann e il sindacalista Gustav Bauer, gravò ilfatto che la parlamentarizzazione della Germania fu il risultato non di una lotta combattuta dalReichstag, ma di un provvedimento preso dall’alto, e preso allo scopo di accollare la gestione della sconfitta militare a un governo parlamentare creato
all’ultimo
momento.
Significava dunque
poter
proporre all’opinione pubblica l’immagine di un esercito invitto, tradito dalle infide retrovie. Ciò rientrava nella Dolchstosslegende,
la leggenda della pugnalata alla schiena inferta all’esercito dai sov-
versivi, messa in circolazione sin dai tempi della rivolta dei marinai del’ 17 e degli adoperi del’ 18,ampiamente utilizzata dalla destra e poi dal nazismo. La verità del crollo tedesco era tutt’altra. Consisteva riassumerà efficacemente l’antimilitarista e pacifista d’ispi— razione cristiana FriedrichWilhelm Foerster [1919: 20], costretto
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424-576] e Stern [1959] in ottica ‘marxista-leninista’; Dorpalen [1988: 302-13, la storiografia della ex DDR sul tema].
9.4. Sul nesso tra democratizzazione interna e questione della pace e sulla contraddittorietà della politica socialdemocratica: Miller [1974: 179-395].Ribhegge [1988]. Dorpalen [1988:290—971 dà un
quadro della storiografia della ex DDR su Burgfn'eden, ‘capitalismo di Stato’ durante la guerra e obiettivi bellici. Su Kautsky nel 1914-18: Waldenng [1972/1980: 682-829], Kraus [1978: 163-73], Steenson [1978: 181-211], Gronow [1986: 84-96].
9.5. Sull’estensibilità del sovietismo: Nerd [1966/1970, Il: 25371], Lòsche [l967' 113-48], Waldenberg [1972/1980: SOS-25], Miller [1974: 351—57].
Capitolo decimo
GLI EQUIVOCI DI WEIMAR
10.1. Una strana rivoluzione
Nell'ottobre del ’18, frutto di una di quelle ‘rivoluzioni dall’alto’ che nella storia tedesca sono ricche di effetti perversi, cadde in grembo alla socialdemocrazia un’inattesa parlamentarizzazione delReich. A esigerla era stato il comando supremo, perché serviva che a chiedere l’armistizio fosse una presentabile monarchia costituzionale. Un’ordinanza imperiale del 28 ottobre sancì pertanto che ilgoverno potesse operare soltanto con la fiducia del Reichstag e che ratifiche parlamentari occorressero anche in tema di trattati internazionali e per delibere sullo stato di guerra; entrò in porto persino la riforma elettorale prussiana. Era quel che idemocratici avevano inutilmente reclamato da mezzo secolo. Sul nuovo governo, presieduto dal principe Massimiliano del Baden e al quale parteciparono per l’SPD Scheidemann e il sindacalista Gustav Bauer, gravò ilfatto che la parlamentarizzazione della Germania fu il risultato non di una lotta combattuta dalReichstag, ma di un provvedimento preso dall’alto, e preso allo scopo di accollare la gestione della sconfitta militare a un governo parlamentare creato
all’ultimo
momento.
Significava dunque
poter
proporre all’opinione pubblica l’immagine di un esercito invitto, tradito dalle infide retrovie. Ciò rientrava nella Dolchstosslegende,
la leggenda della pugnalata alla schiena inferta all’esercito dai sov-
versivi, messa in circolazione sin dai tempi della rivolta dei marinai del’ 17 e degli adoperi del’ 18,ampiamente utilizzata dalla destra e poi dal nazismo. La verità del crollo tedesco era tutt’altra. Consisteva riassumerà efficacemente l’antimilitarista e pacifista d’ispi— razione cristiana FriedrichWilhelm Foerster [1919: 20], costretto
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per le sue idee a lasciare nel ’17 la cattedra di pedagogia a Monaco e a riparare a Zurigo nell’elementare errore di calcolo in cui erano incorsi sin dal ’14 gli ideologi «del sangue e del ferro»: cioè di aver trascurato l’inezia che «il resto del mondo poteva disporre di più sangue e ferro che non gli imperi centrali». L’irnmagine di una Germania brulicante di spartachisti e ‘fiduciati rivoluzionari’ era amorevolmente coltivata dal comando supremo per mascherare la disfatta. Non aveva il minimo riscontro reale. Certo, il 7 ottobre una conferenza illegale dello Sparta/eushuncl aveva incitato il ‘proletariato tedesco’ a richiamarsi al programma rivoluzionario del partito comunista del 1848, a proclamare la ‘repubblica socialista tedesca’ solidale con la repubblica sovietica russa, e a «scatenare la lotta del proletariato mondiale contro la borghesia mondiale» [in Ruge 1978: 58]. Gli organi di tale repubblica avrebbero dovuto essere i ‘Consigli degli operai e soldati’ Ma fu una parola d’ordine così fuori tempo, col suo richiamo al ’48, da trovare seguito solo tra i gruppuscoli che si rac—
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coglievano intorno ai “fiduciari rivoluzionari’ berlinesi Richard Miiller ed Emil Barth. Il ‘proletariato tedesco’, esausto da oltre quattro anni di guerra, non si sognava di scatenare alcunché, tanto meno una ‘lotta mondiale’L NeH’USPD, il partito pur di maggiore seguito a sinistra, Haase, Hilferding e Dittmann avevano impedito che una dichiarazione prograrnmatica del settembre 1918 contenesse la rivendicazione della ‘dittatura del proletariato’; si pensava non tanto a una sou'alistische Republik (tranne che nella frangia spartachista), quanto invece a una soziale Republik. Non era una sottigliezza terminologica, ma una questione strategica, per la quale ci si poteva appoggiare al Kautsky delle Osservazioni soa'aldemocratiche sull’economia di transizione, scritte nella primavera. Riecheggiando la preoccupazione espressa in Riforma sociale e rivoluzione sociale del 1902 drea l’intrinseca debolezza di una rivoluzione socialista gravata sul nascere dall’eredità di una guerra (vedi 8.2), egli precisava adesso che una transizione al socialismo sarebbe stata praticabile soltanto molto tempo dopo il passaggio dall’economia di guerra all’economia di pace: «non dev’essere obiettivo delle nostre aspirazioni arrivare al potere nelle condizionidi un’economia incorso di riconversione» [Kautsky 1918a: 165]. Ma se alla fine della guerra non c’era la rivoluzione socialista subi206
Kautsky che la democrazia pogiorno invece vi sarebbe stata, non litica, quella che all’ordine del to fattibile, ciò non significava per
dovesse diventare uno strumento di trasformazione sociale. Nella prima settimana di novembre del ’18 una rivoluzione vi fu dawero. Gli AuS-Ra"te — un incubo per l’MSPD che li considerava bolscevismo dittatoriale — dilagarono in Germania cominciando con l’ammutinamento dei marinai a Kiel contro l’uscita in alto mare della flotta. Solo che, a smentita sia dello spettro bolscevico che della propaganda spartachista, non volevano affatto la dittatura del proletariato. In un certo senso fu, paradossalmente, una rivoluzione legalitaria. Gli insorti di Kiel non si sentivano per nulla dei sovversivi, bensì esecutori della linea di un governo che già aveva chiesto all’Intesa un immediato am1istizio.IRa"te cornparvero a macchia di leopardo in tutto il paese; e a Monaco un ‘Consiglio provvisorio’ di ‘operai, soldati e contadini’, animato dal dirigente dell’USPD Eisner, destituì il 7 novembre la dinastia dei Wfittelsbach e proclamò la repubblica bavarese. Di rivendicazioni ‘socialiste’ non v’era ombra. Agli AuS-Rà'te premeva anzitutto che proprio ilnuovo assetto democratico-parlamentare operasse alla svelta, perché ciò significava armistizio e pa— ce. Ma ci si poteva fidare di un Reichstag che in settimane cruciali per il destino del paese fu tra ottobre e novembre quasi sempre in vacanza? Se questi erano gli effetti della ‘parlamentarizzazione dall’alto’, non si doveva forse proprio perciò tentare invece la democratizzazione dal basso?IRate, in sostanza, divennero l’espressione caotica e confusa di questo tentativo, ossia dell’istanza di fare la democrazia sul serio. Ma di farla intanto, ecco ilpunto, con finalità democratico—liberali: le quali - con un’omogeneità dei programmi tanto più sorprendente perchéiRa"te non avevano tra loro nessun collegamento comprendevano anzitutto una parlamentarizzazione efficace a livello nazionale e regionale, poi la destituzione dell’imperatore e delle dinastie dei singoli Stati perché simboli della nefasta autocrazia, il ridimensionamento delle alte gerarchie clell’esercito perché artefici del militarismo, l’epurazione dei quadri reazionari della burocrazia perché strumenti dell’autoritarismo. Erano mete radicali si, ma di un radicalismo liberale in senso quasi classico: espressione cioè di una sodetà civile (in proposito si potrebbe ricordare ilLockedel Secondo trattato sulgoverno) che col proclamare contro autocrau' e guerrafondai i diritti libertari
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dell’individuo si riprende l’autorità sottrattale e insedia nuovi ma— gistrati… Maieuta del novembre tedesco non fu nessuno dei due partiti socialisti, bensì la massa degli individui,isoldati nella fattispecie, sacrificati a un Molochche in quattro anni aveva voluto ol-
due milioni di caduti e il doppio di feriti. È un aspetto essen— ziale di quella rivoluzione, e spiega la facilità con cui pressoché ovunque, senza incontrareserie resistenze,iRita s’insediarono come organi di quasi ovvia legittimità. Aver scambiato i ‘Consigli’ tedeschi per un movimento di sovversione bolscevica fu l’errore macroscopico di una socialdemocrazia a cui sin dai dibattiti del 1904-06 sullo sciopero politico (vedi 7.5) erano mancate idee chiare su come movimenti extraparlamentari di massa potessero rapportarsi in positivo alla legalità democratico—parlamentare, sino addirittura a sostenerla e promuoverla. IlBurgfrzèden aveva fatto il reato, riducendo la democratizzazione, nella migliore delle ipotesi, a una sorta di graziosa concessione dall’alto; e rafforzando l’abbaglio che ogni cosa non fondata sull’ordine costituito fosse pura sowersione. I]9 novembre ilcancellierato passò da Massimiliano del Baden al presidente dell’MSPD Friedrich Ebert: il quale precisò subito di non volere nessuna rivoluzione sociale; perché anzi la odiava «come il peccato» [in Max von Baden 1927' 599]. All’una di pome— riggio Scheidemann, da un balcone del palazzo del Reicbstag, improvvisò dinnanzi a una folla entusiasta la proclamazione della ‘tepubblica tedesca’ Ildiscorso — come egli spiegherà [Scheidemann 1928, II: 310] - avrebbe dovuto neutralizzare un’analoga iniziativa degli spartachisti: iquali tre ore dopo, adunati davanti alla vicina reggia imperiale, si sentirono comunque annunciare da Karl Liebknecht la nascita, invece, della ‘libera repubblica sodalista di Germania’ Inquei fatti si sommarono, tra cancelleria e piazza della reggia, tutte le carenze della cultura politica della sinistra. L’onore di Ebert per la “rivoluzione sociale’ segnava ilpersistere dell’idea, alimentata e rafforzata specularmente dalla propaganda spartachista, secondo cui ogni vera rivoluzione si sarebbe dovuta svolgere per forza secondo le ricette comuniste dell’areaico 1848, aggiornate dalla prassi bolscevica russa del 1905 e 1917 Istanze sodali erano ovviamente presenti nell’inatteso movimento consiliare tedesco, ma all’inizio nient’affatto definite e, soprattutto, affidate comun-
tre
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que a strumenti politici sostanzialmente liberal-democratici. Dal disorientamento con cui lavecchia socialdemocrazia vi reagì, dalla sua incapacità di analizzare natura e dinamiche del movimento, emerge quanto il partito scontasse adesso la mancanza di una teoria sulla rivoluzionesociale per paesi di alto sviluppo capitalistico, cioè sulle connessioni tra mete sociali e rivoluzione liberal-democrat1ca.
Qualche intuizione circa le vere novità del novembre tedesco vi fu nell’ala parlamentarista dell’U8PD. Bernstein, nella conferenza berlinese Cbe cos’è il sodalismo? del dicembre 1918, respinse come antistoriche le posizioni di chi voleva forzare il movimento consiliare a esiti non solo immediatamente socialisti, ma da conse— guire per giunta con una rivoluzione sociale di schema antiquato. Vedeva invece gli esiti veri del novembre nel crollo della monar-
chia e del militarismo e nella democrazia del m1ffragio universale finalmente generalizzato: questo nuovo quadro democratico-repubblicano avrebbe dettato imodi della rivoluzione sociale, inediti e non schematizzabili. Era «totale immaturità d’interpretazione» ritenere che Marx avesse mai «pensato alla rivoluzione socialista come a un atto che si compie letteralmente in un ristretto arco di tempo [...]. La società attuale è troppo multiforme per realizzare queste cose d’un colpo [...], essa è un organismo troppo vitale, non un morto meccanismo da cambiare a piacere come e quando si voglia» [Bernstein 1919/1976: 165]. Sicché, di fronte al fatto (ammesso dallo stesso Liebknecht nel quotidiano spartachista «Die Rote Fahne» del 19 novembre) che nel movimento consiliare le idee prevalenti erano soltanto antimilitariste piuttosto che socialiste, c’era secondo Bernstein da chiedersi se proclamare la ‘repubblica socialista’ non fosse adesso qualcosa di più pericoloso di un semplice prosieguo del vecchio ‘romanticismo rivoluzionario’ chele frange radicalicoltivavano sin dai dibattiti sullo sciopero generale. Nel contesto del novembre, quando si sarebbe trattato di coagulare il massimo di consensi intorno alla transizione verso un ordinamento democratico-progressista, quella proclamazione non poteva che «portare drittialla controrivoluzione» [Bernstein 1921a: 34]: nel senso che, fornendo un corpo reale allo spettro bolscevico, essa distrusse proprio quei consensi. Persino l’ala operaista dell’USPD mostrò allarme per le conseguenze della pura e semplice «ginnastica rivoluzionaria» 209
spartachista, come la definì nelle sue memorie Richard Miiller [1925: 87]. L’antibolscevismo diventerà uno dei più forti ostacoli ideologici all’evoluzione democratico—socialista della Germania. La ‘ginnastica rivoluzionaria’ lo irrobustì attivamente. 10.2. Quale repubblica?
Implosa l’autocrazia monarchica, tutto dipese dalla capacità dei due partiti socialisti (e del KPD, il ‘Partito comunista della Germania’, fondato a capodanno del ’19 dagli spartachisti dell’USPD) di capire quel che voleva la sodetà civile stremata dalla guerra. L’ansia di prospettive urgeva in ogni ceto, in chiunque dalla guerra o dalla perdita dellavoro e della sicurezza aveva avuto sconvolti i progetti di vita, e nel crollo del vecchio regime annaspava disorientato. Ciò apriva, accanto all’irnpellenza di ripristinare ele— mentari norrne di vita civile, una sfida ben più ampia: owero la necessità d’irnpostare un progetto di pedagogia politica collettiva sia per far accettare ilnuovo ordine istituzionale, sia per far capire che si poteva funzionalizzarlo a ineditisbocchi sociali. Se qualcosa occorreva alla sinistra, era un programma basato su realistiche concomitanze di interessi tra iceti popolari e gli altri ceti della società; ovvero dunque, per la sinistra stessa, un’identità più vasta di quella di ognuna delle sue componenti. Se certezze erano da fornire in vista di prospettive di governo, dovevano scaturire da una visione dell’interesse generale;e non già, per nessuno dei partiti di tradizione ed eredità socialiste, dal rinchiudersi in una difesa dei propri interessi settoriali. Un superamento dell’identità di parte v’era stato ogni qualvolta il movimento operaio tedesco, senza con ciò rinnegare la propria natura socialista, aveva giocato la carta del recupero e della rifunzionalizzazione dell’eredità democratico-liberale. Daitempi sia della ‘rivoluzione di maggioranza’ (vedi 7.2) del tardo Engels che della politica parlamentaristica dell’anteguerra il movimento operaio aveva raccolto1suoi frutti migliori ogni qualvolta le sue gambe storiche, quella socialista e quella democratico-progressista, si erano mosse in sincronia. Adesso, forse, sarebbe stato possibile ricollegarsi a quelle esperienze positive, ma a patto di fareiconti con la disastrosa adesione del vecchio SPD alla guerra. Qualcosa sulla 210
necessità di trasformare il partito da aggregatore di consensi settoriali di classe in una sorta di ponte tra l’intera sodetà civile e le istituzioni politiche era balenato a suo tempo nelle sparse intuizioni, di Bernstein e altri, sul tema del ‘partito popolare’ (vedi8.1); ma poi, nel ’14,1’SPD si era mutato nel ‘partito popolare’ peggiore possibile, con lo sciovinismo come infimo denominatore comune. Il peso di quegli atti gravò sulle sorti della repubblica nell’esatta misura in cui mancò la resa dei conti con essi. L’unica vera cesura politico-democratica con il passato si ebbe 10 il novembre, quando un'entusiastica assemblea dei Rà‘te berlinesi ratificò la nascita del governo provvisorio repubblicano 0 ‘Consiglio dei commissari del popolo’, costituito pariteticamente da MSPD e USPD. Ilgoverno dei‘commissari’sottolineò nel suo appello del 12 novembre ‘al popolo tedesco’ la propria composizione «interamente socialista» e promise di «realizzare il programma sodalista» [in Ritter-Miller 1968: 96]. In realtà era soltanto un buon programma di rivoluzione democratico-progressista. Conteneva la garanzia completa di tutte le libertà civili, ilgeneralizzato suffragio universale a sistema proporzionale con cui eleggere anche una futura Assemblea costituente nazionale, e poi le otto ore lavorative, l’assistenza ai disoccupati, e l’abolizione delle vecchie dispotiche leggi su domestici e bracciantato rurale e del jugulatorio ‘servizio ausiliario’ del 1916 (vedi 9.1). Più inlà, con un appello del 13 novembre, si spinse ilgoverno, anch’esso socialista, dello ‘Stato libero’ di Prussia dichiarato una «componente pienamente democratica dell’unitaria repubblica popolare»: si mirava, qui, alla socializzazione delle grandi aziende
industriali e agricole che avrebbe modernizzata l’economia, alla trasformazione della giurisprudenza «nello spirito della democrazia e delsocialismo» e a una riforma tributaria «secondoiprincipi della più rigorosa giustizia sociale» [in Ritter-Miller 1968: 97-98]. Ilproblema più spinoso fu la socializzazione, perch’essa avrebcomportato be l’immissione di principi socialisti in una realtà produttiva complessivamente capitalistica, e dunque presupponeva proprio quel che mancava, cioè nozioni possibilmente chiare sulla transizione al postcapitalismo. Rite e spartachisti la vedevano facilissima, purché la si volesse. Un appello dei Rà'te berlinesi del 10 novembre ‘al popolo lavoratore’ diceva che la «struttura sociale della Germania e il grado di maturità della sua organizzazione 211
economica e politica» avrebbero consentito una «rapida socializzazione dei mezzi di produzione capitalistici senza grande sconquasso» [in Ritter-Miller 1968: 90]. L’impazimza volontaristica sorvolava sul problema dei costi socio-economici per strutture produttive che dovevano anzitutto uscire dall’economia di guerra, e sulla situazione generale di un paese in pieno collasso alimentare. Né ci s’interrogava sulla necessità di costruire, per un’operazione di tale portata, condizioni di consenso generale da parte di una sodetà civile le cui aspirazioni erano ben più complicate di quanto idesideri della sinistra radicale le presentassero. La Germania aveva ancora da digerire, in primo luogo, la rivoluzione de—
mocratico-borghese. Ilvolontarismo, soprattutto, semplificò con disinvoltura ilquesito circa ifondamenti di legittimità che abilitassero un organo di governo a decretare una totale trasformazione delle strutture produttive o a prendere comunque decisioni vitali per la totalità dei cittadini. Dal fatto che con il movimento consiliare la sodetà civile pareva aver riguadagnato la propria sovranità si inferiva che a impersonarla totalmente e senza residui fossero adesso soltanto i Rà'te. Non era solamente il comitato esecutivo dei Rita più forti, quelli di Berlino, a ripetere in ogni riunione che «il nuovo potere statuale si è incarnato nell’organizzazione rivoluzionaria dei Consigli degli operai e soldati» [in Ritter-Miller 1968: 102]. Lo si di— chiarava anche nell’USPD e da parte dei suoi rappresentanti nel governo, per non dire degli spartachisti. Ma far coincidereiKite con la sovranità complessiva non avrebbe forse vanificato proprio l’istanza della sovranità generale della sodetà civile, insediandone cioè come portatori soltanto particolari raggruppamenti di classe? Che la democrazia vigesse unicamente quando il suo soggetto collettivo è la totalità dei cittadini, e che dunque iRite, organi di lotta che danno voce a settori singoli della sodetà civile, non poteva— no essere corpi politici permanenti, organismi statuali, fu l’istanza ribadita in entrambiipartiti socialdemocratici dai parlamentaristi (e nell’USPD ad esempio da Kautsky [1918 b]). Nelprimo congresso nazionale dei Kite (16-21dicembre 1918) raggiunse si con 400 voti contro 50 la faticosa formula di compromesso che il congresso, in quanto «rappresentante dell’intero potere politico», trasferiva «ilpotere legislativo ed esecutiva ai Consiglio dei commissari del popolo sino a diversa regolamentazione da 212
parte dell’Assemblea nazionale» [in Ritter—Miller 1968: 141]. Per gli spartachisti (che avevano votato contro) già la sola idea di un’Assemblea nazionale equivaleva a un tradimento del socialismo, come tuonava «Die Rote Fahne» del 17 dicembre nell’articolo di fondo, non firmato, della Luxemburg. La quale già un mese prima aveva sentenziato che «chirmque si aggrappi oggi all’Assemblea nazionale fa consapevolmente o inconsapevolmente regredire la rivoluzione alla fase storica della rivoluzione borghese; ed è un agente camuffato della borghesia e un inconsapevole ideologo della piccola borghesia» [Luxemburg 1918]. Tanto nello Sparta/eurbund (che di lì a poco diventò KPD) quanto in qualcuno della sinistra operaia dell’U8PD (come Merges e il ‘fiduciario rivoluzionario’ Dìumig) vigeva l’astigmatismo storico di confondere il novembre 1918 con una rivoluzione ‘proletaria’, e di prendersela perciò con chiunque avvertisse invece in visione più ortottica che «la situazione economica e la struttura sociale della Germania rendevano impossibile la sua immediata trasformazione in uno Stato interamente socialista»: come più tardi dirà ad es. Bernstein [1921 a' 197]. A un suo coevo opuscolo che dal fallimento della rivoluzione parigina del ’48 traeva insegnamenti per il presente, Bernstein [1921] premise poi come motto un passo della prefazione alla Storia della Comune di Parigi del comunardo e socialista francese Lissagaray: «Chi racconta false leggende rivoluzionarie al popolo e scientemente o per ignoranza lo illude con ditirambisulla storia, è colpevole quanto ilgeografo che di— segna carte sbagliate per inaviganti». Poiché la rivoluzione del ’18 fu un evento essenzialmente democratico-borghese è fuorviante la tesi, cara alla sinistra radicale già nel periodo di Weimar, della rivoluzione sodalista abortita a causa del ‘tradimento socialdemocratic0’ C’è da chiedersi tutt-’al— tra cosa: owero se il governo dei ‘commissari’ sia stato all’altezza del contenuto effettivo del suo programma del 12 novembre, quello appunto di una repubblica democratico—borghese progressista. L’attuazione del programma fu pesantemente ostacolata dal retaggio degli anni di guerra: a cominciare dalla sudditanza del governo provvisorio al vecchio apparato militare, sancita il 10 novembre da un patto con il comando dell’esercito, per cui il governo avrebbe combattuto «il radicalismo e il bolscevismo», e l’esercito avrebbe appoggiato ilcancelliere «per impedire l’estendersi in
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Germania del bolscevismo terroristico» [in Ritter-Miller 1968: 91, 93]. Così l’apparato militare, ovvero uno Stato nello Stato che sin
dai tempi della Prussia fridericiana prevaricava sulla collettività, si trovò paradossalmente potenziato a garante dello Stato medesimo. Tutto il contrario, insomma, di quel che Troeltsch, dalle file del liberal-progressista DDP, auspicava in novembre, nella prima delle sue Lettere dello spettatore. Owero che anzitutto si facesse chiarezza «su quel che è finito e liquidato in ogni caso e a prescindere da ogni eventualità futura. Lo è il militarismo, l’edificio dello Stato e della società costruito sul vecchio assetto militare prussiano e sullo spirito a esso corrispondente» [Troeltsch 1924: 4]. Ora al comando supremo l’accordo con Ebert servì precisamente a traghettare il militarismo verso tempi più propizi a una piena ricostituzione delle sue posizioni di potere. Lo confermano le memorie del generale Greener, succeduto nel ’18 a Ludendorff nella carica di ‘primo quartiermastro generale’: «Con la nostra azione speravamo di riguadagnare all’esercito e al corpo degli ufficiali una parte del potere nel nuovo Stato. Se ciò riusciva, il migliore e più forte elemento del vecchio prussianismo sarebbe stato recuperato per la nuova Germania, ad onta della rivoluzione» [in Ritter-Miller 1968: 92]. L’incapacità dineutralizzarenelledecisive prime settimane della repubblica ivecchi centri di potere derivò dal non avere isocialisti mai avuto un progetto organico di Stato democratico, e dal-
l’ascrsi l’MSPD allineato a tutte le mistificazioni sul Burgfrieden e sulla guerra. Quale distacco dall’ideologia guglielmina poteva mai impersonare un Ebert che il 10 dicembre 1918 salutò ireggimenti in rientro a Berlino come eroi «non sconfitti da alcun nemico», che avevano «protetto la patria dall’invasione straniera» e salvato il paese «da devastazione e distruzione» [in Ritter-Miller 1968: 127]? Per un verso l’MSPD aveva accettato tutte le stereotipe immagini del ‘nernico che sta a sinistra’ fabbricate nel Reich durante la guerra; e dall’altro non aveva idee su come dare contenuti sociali a uno Stato democratico-liberale. Se queste vi fossero state, e intorno ad esse fosse cominciata subito una convincente pedago— gia politica, probabilmente lo stesso fantasma bolscevico si sarebbe, nella reale situazione tedesca} dissolto prima ancora di giungere alle sue sporadiche epperò devastantimaterializzazioni. Ma una tale cultura di governo i ‘commissari del popolo’ non l’avevano 214
perché nei loro luoghi d’apprendistato, cioè nel partito e nel sindacato, semplicemente non era mai stata di casa. Nell’autunno-inverno 1918-19 la corsa al compromesso con le forze conservatrici borghesi non era aEatto l’unica soluzione per sfuggire alla ‘dittatura rossa’. Una democratizzazione dell’esercito e della pubblica amministrazione, nonché una politica volta a socializzare almeno qualche grande struttura produttiva e a istituzionalizzare iRite come organi economici di controllo, sarebbero state strade percorribili: purché sorrette da un chiaro progetto. Per ridimensionare in particolare il potere degli alti comandi militari esistevano condizioni addirittura favorevoli, essendo l’esercito che rifluiva in patria tutt’altro che benevolo verso lavecchia disciplina autoritaria. Lamentò l’assenza ditali opzioni già Bernstein [1923: 132-33]; e nelle memorie di Julius Leber, deputato socialista al parlamento repubblicano e poi vittima del nazismo, c’è l’amara constatazione che di fronte al compito storico della «nuova comunità tedesca da costruire» idirigenti del movimento operaio «non sapevano bene né quel che dovevano né quel che volevano fare» [Leber 1952: 202]. 10.3. Socialismo e democrazia politica
L’Assemblea costituente convocata a Weimar,icui 423 membri vennero eletti il 19 gennaio 1919,fu preceduta e accompagnata da sanguinose vicende insurrezionali comuniste che nella società civile produssero tragiche spaccature e impressero il segno a tutta la successiva storia della repubblica. Tra leoltre duemila vittime vi fu— rono in gennaio Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, trucidati da militari di destra a Berlino; e in febbraio ilpremier bavarese Eisner ucciso in un attentato a Monaco, dove in aprile verrà proclamata una repubblica consiliare repressa nel sangue un mese dopo. A stroncare questi sussulti provvidero principalmente i Frei/corps, ‘corpi franchi’ paramilitari di destra a cui si appoggiò Noske, dal febbraio del ’19 ministro dell’M8PD per l’esercito. Furono igermi da cui nacquero iveri pericoli per la repubblica, soprattutto perchéiFreikorps potenziarono l’ideologia di destra del nuovo esercito regolare che, ricostituito come Reicbswebr nel marzo del ’19, da essi attinse quadri e truppa. Un anno dopo furono 215
reparti di un esercito nostalgico di impero a sostenere il colpo di Stato antirepubblieano di Kapp, un burocrate della Prussia orientale autoproclamatosi ‘cancelliere del Reich’, fallito poi grazie a uno sciopero generale di quasi 12 milioni di lavoratori che rimase l’unico episodio di efficace difesa delle libertà avutosi nella storia
della repubblica. Di miraggi che piegavano la realtà all’ideologia si erano nutriti i progetti comunisti non soloin Germania. Nell’ala massimalista del partito socialista italiano fu emblematico il caso di Gramsci, nei cui scritti del 1918—21 la difficilissima situazione dei socialisti occidentali del dopoguerra venne ridotta sostanzialmente all’uru co tema del dover essi instaurare ovunque la ‘dittatura del proletariato’ (da lui ritenuta imminente financo in Inghilterra [1918/1984: 439]). L’insurrezione comunista berlinese del gennaio 1919 gli sembrò il grande tentativo (persino «fornito di probabilità di successo»!) di saldare la rivoluzione russa a un esito rivoluzionario addirittura dell’intera crisi europea postbellica [1921/1972, I:406]; e lo sciopero che contro ilputsch di Kapp era stato reso possibile grazie al coagularsi di un almeno momentaneo consenso unitario alla repubblica, gli parve indicare, al contrario, che dopo la deprecabile «parentesi democratica» dell’insediamento del parlamento la rivoluzione tedesca stava finalmente riprendendo il suo «ritmo di violenza», quello del ’19, ma in condizioni «enormemente più favorevoli» [1920/1972, I: 313-141. Era— no, tali e quali, i castelli in aria che costruiva il KPD. Dichiaratamente poi per il Gramsci di quegli anni le rivoluzioni di modello sovietico non scaturivano in Occidente da nessuna necessità nazionale. Del tutto irrilevante gli sembrò ad es. che in Italia occorressero, per la rivoluzione, «ragioni inerenti al processo di sviluppo dell’apparato di produzione nazionale»:la si sarebbe dovuta fare semplicemente «per ragioni internazionali» [1919/1972, I: 265], owero perché serviva primariamente alla causa del socialismo mondiale. Nella Germania del 1919 toccò ai socialisti dell’SPD la responsabilità di aver saputo soltanto reprimere manu militarile fantasie spartachistico-comuniste invece di contrapporre a esse un progetto politico; ai radicali di sinistra dell’USPD di aver abdicato a una politica di governo perché dal governo essi uscirono onde preservare l’aureola di duri e puri awersari dello Stato capitalistico; e agli 216
spartachisti-comunisti di essersi isolatidalla società civile in nome di ideevecchie di settant’anni. Engels — così la Luxemburg al congresso di fondazione del KPD - si era trasformato oggettivamente in un padre del cattivo-riformismo perché aveva criticato le rivo— luzioni di strada come un’illusione. Adesso invece, grazie al cielo, «siamo di nuovo con Marx, sotto la sua bandiera», di nuovo «in mezzo a una rivoluzione di strada», proprio come nel 1848 [Luxemburg 1919/SL: 659, 656]. E se in quel congresso una minoranza (tra cui la Luxemburg, Liebknecht e Paul Levi) si oppose alla decisione di non partecipare alle elezioni della Costituente, fu per la preoccupazione soltanto tattica che in quel momento la non partecipazione avrebbe nuociuto al partito; perchéinvece la dottrina, cioè il ripudio di qualunque strada parlamentare, era chiara da tempo: «per il socialismo o contro il socialismo, owero contro l’Assemblea nazionale o a favore di essa, una terza via non esiste», aveva asserito la Luxemburg [1918 a] già in novembre. La Costituzione adottata dall’Assemblea nazionale entrò invi— gore I’ll agosto 1919 e non fu, si capisce, ‘socialista’ Non lo sarebbe stata nemmeno se nell’Assemblea i due partiti operai invece del 45,5% avessero avuto la maggioranza, e se avessero votato unanimi (mentre l’USPD, denunciando il carattere non socialista della Costituzione, aveva invce votato contro insiemeai partiti della destra ai quali invece essa sembrò poco meno che bolscevica). Non avrebbe potuto esser ‘socialista’ a nessun titolo. Anzitutto perché — come ripeteva in quei mesi Kautsky - nessuna maggioranza può instaurare nessun socialismo dall’oggi al domani; e inoltre perché il confine tra capitalismo e socialismo è storicamente mobile, come sottolineerà Bernstein [1923: 144] citando con approvazione Edmund Fischer, per lunghi anni deputato socialista di un distretto industriale sassone, che aveva concluso così una sua ricerca sul socialismo moderno: Non esiste un confine dove finisca la società borghese e cominci quella socialista. Noiviviamo nella cosiddetta società borghese, nella quale si sviluppano istituzioni socialiste. Quando queste hanno raggiunto un certo livello oppure sono divartate prevalenti, allora si potrà dire: viviamo in una società sodalista. [Edm. Fischer 1918: 552]
A differenza di una rivoluzione politica, che ha tempi brevi, la ‘rivoluzione sociale’, notava Kautsky [1919: 13-14], è invece 217
una mutazione di fondo dell’intero edificio sociale, provocata dalla creazione di un nuovo modo di produzione. È un processo di lunga lena, può durare decenni, e la sua conclusione non può venir segnata da paletti fissi [...]. È massimo interesse dei sostenitori della rivoluzione sodale ch’essa venga affidata all’efficacia della democrazia, owero che in ogni momento essa non vada più in la di quanto la maggioranza delle masse popolari è disposta adandare. Al di là di quel punto la rivoluzione sociale [...] non troverebbe le condizioni necessarie per creare qualcosa di duraturo.
E ciò appunto perché la democrazia, soprattutto quando sono da affrontareigrandi rivolgimenti sociali, comporta «per ogni partito e indirizzo» la necessità di «guadagnarsi l’animo del popolo», cioè di crearsi il consenso: «Nella democrazia ogni partito si rivolge infatti alla totalità della popolazione. Ognuno dei partiti sostie— ne determinati interessi di classe, ma è costretto a mettere in primo piano quei lati di essi che collimano con gli interessi generali dell’intera collettività» [Kautsky 1919 a: 118]. Ora proprio in tema di «interessi generali», la Costituzione giustapponeva istanze assai eterogenee. Quale ponte poteva mai esserci tra la «libertà di commercio e d’industria», la «libertà contrattuale» e la proprietà privata garantite dagli articoli 151-53, e dall’altro lato la prerogativa dello Stato (art. 156) di «trasferire in proprietà collettiva le imprese economiche private suscettibili di socializzazione», di «disciplinare secondo iprincipi di un’economia socializzata la produzione, la fabbricazione e la distribuzione», e di «disporre la compartecipazione dei datori e prestatori di lavoro» all’amministrazione delle aziende? E se l’art. 165 dava al movimento consiliare addirittura una sorta di ancoraggio costituzionale, non era poi affatto perspicuo come questa vera e propria rappresentanza politzbo-drlclasse si sarebbe potuta coordinare alla rappresentanza non classista, bensì politico-generale su cui la co— stituzione liberal-democratica si reggeva. Che d’altra parte la preminenza dovesse spettare alla sovranità popolare rappresentata inmaniera politico-generale era per Kautsky e Bernstein un dato ormai acquisito. Anche riguardo agli interessi specifici dei salariati vale — così Kautsky [1919 a: 151] che iRa"te esprimono, al massimo, istanze particolari degli operai dell’industria, mentre gli interessi dei salariati nella loro totalità trovano rappresentanza nel parlamento. L’allargamento del corpo elettorale fa cambiare (così Bernstein [1923: 881) il «carattere so-
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cio-politico» e il «contenuto sodale» dello Stato, il quale perde il suo tradizionale connotato di «strumento delle classi alte e dei ceti alti» perché assume lo storicamente inedito carattere di uno «Stato del popolo che ad opera della grande maggioranza popolare viene costituito grazie al suffragio universale e uguale». In realtà era proprio la presenza nella Costituzione di principi giuridici sia privatistici che ‘collettivistici’ a offrire inedite possibilità di ingegneria socio-economica: a patto però che sin dall’inizio si fossero sfruttate a fondo sia la novità storica positiva di quella doppia natura (espressa nel fatto, per usare la formula del giurista socialdemocratica Hermann Heller [1925], che adesso, costituzionalmente riconosciute, vi sono «due nazioni in una nazione sola», la nazione del ‘capitale’ e la nazione del ‘lavoro’), sia le convergenze tra forze politiche democratiche ch’essa consentiva. Al progetto di Costituzione elaborato dal governo aveva contribuito in maniera determinante, come ministro degli interni dal febbraio 1919, il giurista Hugo Preuss del DDP. Circolava in quel partito — sostenuta da Friedrich Naumann e dalle Lettere della rpettatore di Troeltsch — l'idea chei principi costituzionali dovessero contenere una sorta di conciliazione tra capitalismo e sodalismo. Neldi-
cembre del ’18 ilgiurista Richard Thoma spiegava in un’assemblea del partito che ai passati dogmatismi che discettavano sulle «autorità .storiche» ed assegnavano il dominio o unicamente alla borghesia o unicamente al proletariato, doveva subentrare quel gioco delle maggioranze variabili che nella «democrazia pura» è il più adatto a realizzare gli «ideali della giustizia sociale» [in Dòring 1975: 160]. Per un altro esponente del DDP, l’ex ‘socialista della cattedra’ Brentano [1923], il sistema democratico si reggeva tecnicamente su una dottrina dei ‘limiti’- nel senso che, acclarata l’impossibilità storica di «bloccarelalotta che una classe in ascesa conduce per i propri interessi», pure ileader della classe avversa devono saper «contenere le proprie istanze entro quei limiti che non si possono oltrepassare senza rischi per il bene comune». Una dottrina dei ‘limiti’ compariva anche in qualcuno dei politologi socialdemocratici che adesso si trovarono davanti al compito immane (e alla fin fine impossibile) di recuperare nel giro di mesi un ritardo pluridecennale di elaborazioni teoriche socialiste sullo Stato. Nelle file dell’SPD c’era tra costoro — oltre ai giuristi Landauer, Heller e Radbruch, ministro della giustizia nel 1923 — 219
anche Hilferding che, riconfluito nell’SPD dopo il ’22, dirigerà dal 1924 al 1932 la rivista «Die Gesellschaft», «La Società», il più importante periodico socialdemocrafico degli anni di Weimar e per molti versi l’erede della «Neue Zeit» cessata nell’agosto del ’23. Nell’editoriale di nascita (aprile 1924) della rivista, Hilferding [1924: 13] scriveva: «Serve un’approfondita dottrina funzionale dello Stato democratico, la quale analizzi il nesso e le correlazioni di tuttiifattori politicamente determinanti e così, tramite quel che è essenziale nella politica, chiarisca l’essenza dello Stato». Dopo decenni di apriorismi ideologici sullo Stato, l’approccio di metodo era finalmente di tipo induttivo: a una non fissa ma storicamente duttile nozione («essenza») di Stato si arriva con l’ana lisi dei fattori politici che sono di volta in volta a esso ‘essenziali’ in concreto, vale a dire secondo il modo in cui via via essi operano nei contesti storico-specifici. Limiti imperativi vengono ai programmi dei partiti socialisti non dalle astrazioni dottrinarie, ma dalla tecnicità storica degli strumenti democratico- arlamentari, cioè dalla dialettica di mag— gioranza e opposizione. la‘mutazione della politica’ descritta da Hilferding [1922]:
Quel che non basta più è la mera propaganda, la pura posizione di bandiera. Diventa necessario che si indichi la strada pratica, il prossimo passo ravvicinato, il compito immediato, che si metta in primo piano ciò che è da fare subito, conquistando la maggioranza da soli o insieme ad alleati per realizzare come partito di governo quel che si è chiesto come opposizione. Ciò retroagisce sulla natura stessa dell’opposizione. Essa deve tener presente che potrà venir chiamatain ogni momento alla realizzazione del proprio programma; il quale deve perciò restare entro iconfini dell’immediata amabilità
Questi chiarimenti sul programma di governo, ripresi da Hilferding anche nei suoi interventi al congresso di Kiel (1927) dell’SPD, si potrebbero leggere come vere e proprie norme di attuazione tecnica del trinomio democrazia-socialismo-consenso che Kautsky e Bernstein andavano postulando nei loro scritti di quegli anni. L’insistere di Hilferdingsul «prossimo passo ravvicinato», sulla legislazione minuta piuttosto che sulle prospettive globali, sembra congruente con il monito sia di Kautsky a non oltrepassare mai le soglie di consenso della maggioranza, sia di Bernstein [1919/1976: 162] agli entusiasti delle rapide socializzazioni a ogni 220
costo, owero che «in ma buona legge sulle fabbriche può esservi
più socialismo che non nella statizzazione di centinaia di imprese
e aziende».
Leistanze didiritto sociale affiancate nella Costituzione a quelle privatistiche potevano avere la fimzione di ammortizzatori giuridici dei contrasti sociali. Ma solo a condizione ch’esse permeassero con certezza formale l’intero tessuto della sodetà civile e i gangli dell’amministrazione: «solamente il formalismo giuridico può proteggere la classe oppressa contro gli atti arbitrari di una legislazione e giustizia esercitate dagli awersari di classe», osservava Radbruch [1929: 77]. Solamente sulla base della certezza giuridica formale sarebbe stata fattibile — così Heller [1929/1971] - la tappa successiva di ampliare lo Stato di diritto ‘formale’ a Stato di diritto ‘materiale’, cioè di allargare ilconcetto di Stato di diritto alla sfera dell"ordinamento del lavoro e dei beni’ Quel che sin dall’inizio rese la repubblica fragile sul piano del diritto reale fu precisamente il mancato adeguamento dell’ordinamento giuridico ai principi sodali costituzionali. Né c’era da at— tendersi una collaborazione dei giudici, altro ‘corpo separato’ dello Stato al pari dei militari, e anzi consacrato come tale dagli articoli 102-108 della Costituzione. Nominatia vita, non controllati da nessun organo istituzionale, neanche diloro pari, per tradizione ed estrazione sociale filomonarchici o comunque simpatizzanti con i partiti della destra e con il vecchio ordine, erano in maggioranza ostili come del restoimilitari — alla repubblica che pur li stipendiava. Il che, tra l’altro, conferma che anche l’assioma dell’indipendenza del giudice va visto non in astratto ma nei contesti politico—storici. In un contesto di democrazia debole quell’assioma si riempi di contenuti scopertamente di parte, nel senso che la giustizia veniva amministrata regolarmente contro la sinistra e in favore della destra. Mancando l’edificazione di un capillare diritto-democraticosociale nei rami dell’amministrazione, il quale si sarebbe potuto costruire soltanto se vi fosse stata la volontà e capacità politica di tagliare iponti con il vecchio regime nei gangli decisivi dell’ordinamento militare e amministrativo, la Costituzione rimase un in— sieme di enunciati più o meno buoni, talora ottimi, ma tutti infi— ciati dalla mancanza di strumenti operativi oltreché, soprattutto, di un progetto complessivo di repubblica democratica efficiente.
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10.4. Tra capitalismo organizzato e 'bolscevismo'
Con la Costituzione, a determinate condizioni, si sarebbe po-
tuta fare persino una politica socialista. Una sola cosa non si pote-
va, da socialisti: cioè proseguire semplicemente sulla
strada dell’accordo stipulato nel novembre del ’18 tra la grande industria e la Confederazione dei sindacad socialdemocratici. E non perché in quell’accorclo mancassero clausole buone (la libertà di coalizione, il riconoscimento delle otto ore lavorative, le contrattazioni collettive con i sindacati come controparte legale), ma perché il suo spirito era il consociativismo degli anni di guerra, il Burgfrieden traghettato nella repubblica. Quando, nelle trattative, il rappresentante sindacale Legien aveva spiegato che il socialismo, certo, «è la meta finale, ma occorreranno molti decenni perch’essa si realizzi» [in Feldman 1966: 525], ciò suonava al padronato come una garanzia che i rivolgimenti sociali, grazie al cielo, sparivano dall’ordine del giorno. Che l’obiettivo del movimento operaio non dovesse essere una politica consociativa, bensì un’imposizione di regole al capitalismo, fu la convinzione di chi — come Hilferding nell’SPD e gli economisti Naphtali e Alfred Braunthal neH’ADGB, la Confederazione deisindacati ridisegno negli anni Venti iltema del capitalismo sviluppato o, come si diceva allora, ‘organizzato’ La crisi economica postbellica si stava riassorbendo (nel ’28 industria e agricoltura riacquisteranno i livelli del 1914), la concentrazione di capitali ebbe a emblema la gigantesca sodetà per azioni IG Farbenindustrie (1925) nell’industria chimica, le grandi imprese razionalizzavano e automatizzavano la produzione (con conseguente aumento dei ‘colletti bianchi’), e dal 1924 crebbero ancheisalari (ma pure idisoccupati che la razionalizzazione espelleva dalle fabbri— che, e che nel ’26 balzarono a oltre due milioni). Ilsucco era che la naturastessa del capitalismo organizzato imponeva che non esso governasse la politica, ma fosse questa a governarlo. La premessa sembrava stare negli articoli della Costituzione sulla democrazia economica e nella capillare presenza di lavoratori negli organi rappresentativi politici a tutti ilivelli. Nella sua relazione al congresso di Kiel del ’27,Icompiti della socialdemocrazia nella repubblica, Hilferding osservava che per imetodi produttivi razionali che sono propri del capitalismo organizzato,
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esso significa di fatto la sostituzione del principio capitalistico della libera concorrenza con il principio socialista della produzione
pianificata. Sicché l’obiettivo dell’attuale generazione è di
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trasformare con l’aiuto dello Stato e della consapevole regolamentazione sociale - l’economia organizzata e diretta da capitalisti in un’economia diretta dallo Stato democratico [...]. Dobbiamo far penetrare in ogni cer— vello operaio che ilsalario settimanale è un salario politico, che è dalla forza della rappresentanza parlamentare della classe operaia, dalla forza della sua organizzazione e dai rapporti sociali di forza fuori del parlamento che dipende come il salario si configura alla fine della settimana. [Hilferding 1927: 169—70]
Come ciò dovesse tradursi nell’azione quotidiana del partito
era stato spiegato da Hilferding [1924: 6-7] già nel suo articolo di apertura della rivista «Die Gesellschaft»: «democrazia di fabbrica,
consigli aziendali, controllo della produzione a tuttiilivelli sino alla conquista della vera e propria democrazia economica: questi diventano i contenuti della politica delle organizzazioni operaie». Alle quali, proprio perché diventassero capaci d’imporre la democrazia economiCa, veniva p0sto da Hilferding [ivi: 3-4] il compito di una grande politica culturale, tesa ad appropriarsi dell’istruzione, del sapere e della cultura, nonché a sviluppare quella coscienza di responsabilità che abilita i produttori a partecipare in grado crescente alla direzione della produzione. L’epoca deltardo capitalismo apparirà agli storici come l’epoca del ‘presocialismo’ [Naphtali 1928: 31], grazie appunto allo Stato che dal movimento operaio «viene spinto sempre di più a intervenire in maniera regolativa sull’intera organizzazione dell’economia» [A. Braunthal 1930: 233]. A fronte del peso teorico delle discussioni su una democrazia economica sorretta dall’intervento dello Stato, e ipotizzata come una sorta di graduale scivolamento verso il socialismo, sorprende quanto poco il tema della democrazia economica e degli strumenti costituzionali per conquistarla abbia inciso sulla politica quotidiana del partito. Nei due nuovi programmi che a distanza di trent’anni da quello di Erfurt (e quale trentennio!) l’SPD approvò nei congressi di Gòrlitz (1921) e Heidelberg (1925) comparve si l’istanza che lo Stato esercitasse un controllo sul «possesso capitalistico dei mezzi di produzione» (Gòrlitz), dunque sui «cartelli e trust del capitale» 223
(Heidelberg). E c’era anche il «progressivo potenziamento delle aziende statali, regionali o di proprietà di enn' pubblici sotto un’amministrazione democratica che ne eviti la burocratizzazione» (Gòrlitz), nonché lo «sviluppo del sistema economico dei consigli per attuare il diritto di partecipazione della classe operaia all’organizzazione dell’economia» (Heidelberg). Ma si dimenticava che tali istanze stavano già negli articoli 156 e 165 della Costituzione; e che per il partito si sarebbe trattato, né più né meno, che di premere per la loro attuazione. La cosa avrebbe potuto (e dovuto) riguardare anzitutto ilnodo delle socializzazioni. La commissione insediata nel novembre del ’18 — composta da socialisti (tra cui Kautsky che la presiedeva) e da sindacalisti, nonché da economisti borghesi (tra cui l’austriaco Schumpeter) aveva partorito come unica timida proposta, nel gennaio del ’19, la socializzazione con indennizzo delle miniere di carbone, bloccata poi dalla mancata maggioranza socialista all’Assemblea nazionale. Anche su altre inadempienze e involuzioni si sarebbe potuto far leva, quali le ‘otto ore’ che non avevano ricevuto sanzione legislativa, eiconsigli di fabbrica che non ebbero il controllo sulla produzione aziendale. Ma poggiare risolutamente il programma sul «significato sociale dei diritti fondamentali nella Costituzione di Weimar» (come suggeriva ad es. il giovane politologo socialista Franz Neumann [1930]), avrebbe comportato per l’SPD la necessità di chiarire a se stesso il suo modo di intendersi come partito e di intendere ilproprio ruolo nei governi di coalizione. Solo un partito ampliato a ‘partito popolare’ avrebbe potuto propagandare un socialismo a partire dalla Costituzione, mettendoin primo piano interessi generali non già futuri, ma concretamente attuali e, soprattutto, da proporre non a particolari settori della società civile ma alla tota— lità del corpo comune nazionale. E un’ottica di rigido classismo ‘proletario’ non era forse comunque perdente a fronte dei sopraggiunti mutamenti sociologici? Gli operai erano meno della metà dei trentadue milioni di salariati del censimento del 1925. La Berlino della fine degli anni Venti contava più di un milione tra impiegati e lavoratori autonomi di fronte a uno scarso milione di salariati operai. Soltanto per quattro brevi anni, con ilprogramma di Gòrlitz in cui trasparivano idee di Bernstein, l’SPD tentò di definirsi sempli-
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cemente un ‘partito del popolo lavoratore, in città e in campagna’, con la ‘lotta per la democrazia e il socialismo’ come obiettivo comune: da perseguire si diceva al congresso - con un’incondin'onata apertura a governi di coalizione (purché nello spirito della C0stituzione) per stimolare un «assetto politico sano», cioè una «collaborazione nello Stato e per lo Stato» [P-Gòrlitz 1921. 147]. All’idea di un ‘partito di tutto il popolo’ non arrise fortuna. Fecero
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velo ivecchi dogmi, dei tempi del congresso di Erfurt, sulla necessaria riduzionedei contadini e degli artigiani a proletari (vedi 4. 45), dogmi che peraltro condussero a singolari aporie. Kautsky nel libro La rivoluzioneproletaria e ilsuo programma — una sorta di sintesi di quel che era avvenuto dall’anteguerra in poi — ribadiva che la piccola azienda era avviata al declino [Kautsky 1922: 27], e denunciava i contadini e mastri artigiani come ipiù accaniiì nemici della lotta di classe [ivi: 40]. Nel contempo diceva però che la politicadel proletariato sarebbe stata fatta sempre di più con governi di coalizione [ivi: 105] proprio perché andava abbandonata la vecchia concezione di considerare tuttiinon proletari come un’unica massa reazionaria [ivi: 102]. La contraddizione era evidente. Nel programma di Heidelberg, che durò poi formalmente sino al congresso di Bad Godesberg del 1959, la dizione di ‘partito del popolo lavoratore’ scomparve, e tornarono vecchi toni da programma di Erfurt soprattutto nella riaffermazione del rigido bipolarismo di borghesia e proletari. Qualcuno rifiutò quel dualismo: oltre a Hilferding anche ilgiurista Erik Nòlting perché, diceva, «lo spazio politico brulica di una varietà di strati e figure intermedi che noi dobbiamo conquismre. Sono1contadini,gliimpiegati, il nuovo ceto medio e il vecchio ceto degli artigiani, nient’affatto elimi— nati dalla concorrenza [...] Abbiamo bisogno di parole d’ordine nuove. Non potete andare nelle campagne e dire ai contadini: noi aboliamo Dio e socializziamo la vostra proprietà» [P-Heidelberg 1925: 290]. Ma al congresso questi moniti, collegati appunto al problema di un più largo ‘partito popolare’, non ebbero eco alcuna. La questione del ‘partito di tutto ilpopolo’ riemerse per unmo— mento in seguito alle ricerche dell’economista e sociologo socialista Lederer alla fine degli anni Venti. Soprattutto il «moltiplicarsi degli strati capitalistici intermedi», del terziario a ogni livello sino al personale tecnico, induceva a concludere non solo chela sodetà
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moderna era lontanissima dal suddividersi in poche e omogenee grandi classi [Lederer 1929/1979: 180], ma che proprio i mutamenti sociologici imponevano di cambiare «nell’Europa centrale l’idea stessa di socialismo», dovendo questa restare «legatissima alla realtà concreta come lo sono tutti i sistemi di idee sociali» [ivi: 185]. Al congresso di Lipsia del 1931, quando la crisi della repubblica si toccava ormai con mano, vi fu chi esplicitamente, come il deputato bavarese Hoegner, ne giudicò in gran parte responsabile una socialdemocrazia a cui gli schemi antiquati del suo essere-par— tito avevano impedito strategie forse vincenti: sin dal 1918 «l’idea di un puro partito di classe è stata collocata al di sopra dell’idea di un partito popolare. È stato uno sbaglio» [P-Leipzig 1931: 56]. Nel ’18 una mutazione dell’SPD a grande partito popolare avrebbe potuto, probabilmente, conseguire obiettivi politici importanti. Purché però la mutazione fosse stata accompagnata da un generale chiarimento teorico circa la nozione di rivoluzione sociale in epoca moderna. Ma a tentare il chiarimento furono poche voci sostanzialmente isolate. In particolare sarebbe stata necessaria una realistica presa d’atto che il contesto tedesco consentiva una sola e unica cosa, e già questa difficilissima: owero (come nel ’20 ebbe a dire Hilferding all’austromarxista Julius Braunthal) «per intanto una democrazia capitalistica, sino alla prossima occasione» [in] Braunthal 1948, 11: 480]. Le croniche incertezze sulla propria identità e quindi sul proprio ruolo resero il partito debole e vulnerabile in tutte le coali— zioni che pure si ebbero tra il ’19 e il ’30. Non a caso qualche interessante tentativo di definire il ruolo dei socialisti nei governi di coalizione si ebbe soltanto nel congresso di Gòrlitz, l’unico del periodo di Weimar che su figura e funzione dell’SPD avanzasse suggerimenti all’altezza delle nuove situazioni. Venne ad es. respinta l’idea che «la socialdemocrazia possa entrare in un governo unicamente per sostenere determinate rivendicazioni e poi uscirne quando le motivazioni immediate non sussistono più» [P-Gòrlitz 1921. 146]. Ciò richiedeva però che l’endiadi democrazia-socialismo venisse finalmente affrontata con l’accento sul primo termine del binomio, cioè sulla democratizzazione del paese come produttrice di socialismo invece che sul futuribile socialismo come (for— se) produttore di democrazia. Ma nessun vero seguito ebbe la linea di Gòrlitz, peraltro né facile né attuabile in tempi brevi. 226
Di contro era di vantaggioso semplicismo l’obiettivo intorno a cui il KPD e un turbinio di formazioni minori e minime raccoglievano circa il 13% di quel 37% di voti che la sinistra ebbe in media nelle elezioni dal 1924 al 1932: era, puramente, l’insurrezione di massa contro la ‘dittatura della borghesia’, per instaurare poi il socialismo mediante la ‘dittatura del proletariato’ Sul presuppo— sto che di volta in volta si fosse alla vigilia di quella generale presa rivoluzionaria del potere, il KPD dal 1919 al 1923 sostenne o provocò moti insurrezionali che costarono centinaia di vittime. Anco— ra nel ’29, dopo una sanguinosa repressione della manifestazione del 1° maggio a Berlino dove i lavoratori sarebbero dovuti scendere in strada «per una Germania sovietica, per il bolscevismo» («Die Rote Fahne», 13 aprile 1929), lo strabiliante bilancio fu che il partito «è per la prima volta vicinissimo a conquistare la maggioranza dei lavoratori tedeschi» («Die Rote Fahne», 24 maggio 1929). E il 1° luglio 1931la rivista «Der Klassenkampf», organo di un gruppuscolo dell’estrema sinistra, incitava a condurre la lotta per il potere con tutti imezzi e con parole d’ordine socialiste, e a «mostrare alle masse assetate di speranza che il socialismo è l’unica salvezza e via d’uscita dalla crisi». Quale credibilità poteva avere una simile parola d’ordine quando, con le elezioni del 1930, il secondo partito di massa dopo la socialdemocrazia erano ormai i
nazionalsocialisti dell’NSDAP? Nell’estrema sinistra circolava l’idea che si dovesse fare l’Opposizione (possibilmente armata) contro la repubblica perché ‘ditratura della borghesia’ Da parte di un buon terzo dell’elettorato di sinistra venne dunque negato il sostegno a una repubblica che sin dalla sua nascita era stata insidiata dall’ideologia e dalla forza reale degli aspiranti dittatori veri,irevanscisti del vecchio regime. Se dalla ‘teologia comunista’, ammonì nel ’32 la rivista di Hilferding, «il dilemma viene formulato come ‘dittatura della borghesia o dittatura del proletariato’, allora su una simile impostazione si può, oggi, costruire soltanto una strategia della sconfitta» [Pacch-
1932: 342]. La sconfitta non di questa o quella parte del movimento operaio tedesco, bensì, insieme a esso, della democrazia in Germania - venne un anno dopo. Analoghe cause avevano minato un decennio prima le capacità di resistenza al fascismo in Italia, dove l’ostacolo istituzionale più forte al suo affermarsi era l’assetto demoter
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cratico-parlamentare.Iriformisti del PSInonavevano però mai sa-
puto elaborare una politica di coerente democrazia parlamentare socialista, e dunque su quel versante nessun muro poterono approntare. Né lo eresse la sinistra rivoluzionaria il cui conclamato obiettivo era stato sin dal dopoguerra di esautorare e distruggere
il parlamento. Gramsci, all’epoca, indicava all’—«avanguardia cosciente del proletariato» il compito di partecipare alle elezioni per poi «immobilizzare il Parlamento», impedirne il funzionamento e mobilitare, «fuori e contro il Parlamento» descritto sempre come uno strumento della «dittatura borghese», il «sistema dei Consigli» che è il prodromo della dittatura del proletariato [Gramsci 1919: 265-66]. In Italiala tragedia era dunque annunciata da tempo, ma altrettanto in Germania. 10.5.Ilnaufragio annunciato
Nel lessico della repubblica trionfavano gli ossimori. A cominciare dall’art. 1 della Costituzione, il quale recitava che «il Reich tedesco è una repubblica»: dove l’equivoco lemma Reich (tanto ‘impero’ quanto ‘ambito di sovranità’) suggeriva anzitutto che il Reich era primariamente un ente metastorico—metafisico (e chi volesse leggervi ‘impero’ facesse pure) e la sua forma istituzionale un mero accessorio. E infatti il generale von Seeckt, che sino al ’26 fu a capo di forze armate che istituzionalmenteavrebbero dovuto tutelare proprio l’ordinamento nato nel ’18, si dissociava esplicitamente dalla repubblica in nome del Reich, che contiene «qualcosa di sovrasensibile», di «molto più alto e diverso» che non «la forma statuale di oggi» [Seeckt 1929: 11]. In nessrmo degli articoli della Costituzione compariva la paro— la ‘repubblica’ Davanti ai nomi di tutte le istituzioni figurava invece il rassicurante prefisso ‘Reich’ Il parlamento continuò imperterrito a chiamarsi Reichstag come ai vecchi tempi. Analoghe orge il prefisso celebrò nell’ambito legislativo e amministrafivo. L’immaginario collettivo ne ricavò l’idea di una solida continuità con il passato. Il rimor di repubblica, palese nel non aver voluto renderla vis‘ibile’, inceppò sin dall’inizio qualsiasi pedagogia politica repubblicana. È solo una mezza verità quella di Severing [1950.11z374] cheimputa all’assenza di una tradizione democra228
tica il fatto che le «innovazioni» costituzionali «provocarono disorientamento» invece di operare «in senso educativo». Il guaio era che l’opera di ovviare al ‘disorientamento’ venne manifestamente accantonata da chi avrebbe dovuto potevano mai avere gli ossimori?
farla. Che ‘senso educativo’
La continuità non era peraltro un fantasma. Non stava soltansin dall’inizio, nell’acquiescenza del governo provvisorio ai quadn' dell’esercito e della vecchia burocrazia o nel tono dell’ac— cordo sindacale con gli industriali. C’era ben di più. Nella figura del capo dello Stato, nel Rerbhsprà'sident eletto a suffragio universale, la Costituzione inventò un surrogato di imperatore, con prerogative uguali a quelle che Guglielmo IIaveva esercitato nel vecchio regime soltanto di fatto e senza base costituzionale (vedi 7.3 ). e che adesso vennero tranquillamente codificate. Conseniiranno al presidente Hindenburg di insediare nel gennaio del ’33 il cancelliere Hitler, sebbene altre soluzioni parlamentari fossero state possibili, e poi a Hitler di far firmare a Hindenburg il decreto di sospensione dei diritti costituzionali: il tutto, si badi, nella più piena legalità formale. E sei mesi prima, nelluglio 1932,il cancelliere von Papen, cattolico-conservatore e filomonarchico, aveva eliminato con un similare colpo di Stato ‘legale’ il governo socialdemocratico della Prussia presieduto da Otto Braun: cioè in virtù, semplicemente, di decreti d’emergenza di Hindenburg che nominarono Papen commissario del Reich per la Prussia e imposero lo stato d’assedio a Berlino e al Brandeburgo. A differenza che all’epoca del putsch di Kapp non si ebbero né scioperi generali né altro da parte di lavoratori squassati dalla crisi economica. Hindenburg era diventato Reichspra“sident nel ’25 solo perché ilpartito comunista, intestardito sul proprio candidato Thiilmann, presidente del partito, aveva fatto disperdere all’elettorato di sinistra quasi due milioni di voti. Alla destra, che sul feldmaresciallo aveva puntato compatta, parve arrivato un imperatore quasi vero. ‘Padre della patria’, ‘immagine di vigoroso germanesimo’, ‘germanico re militare’ lo acclamava nelle università la sciovinistica Unione tedesca degli studenti. Le radici erano profonde, individuate già nel ’19 dallo scrittore democratico di sinistra Tucholsky:
to,
Noi non viviamo in una repubblica. Viviamo in un impero impedito, inun imperoilcui capo supremo si è momentaneamente assentato. La pie-
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na simpatia dei cosiddetti ceti colti va al monarca cacciato e fuggito: se tor— nasse oggi, imbmdierebbero le finestre. [Tucholsky 1919/1975,Il:90]
Iprofessori, già maieuti dello ‘spirito del 1914’, poi indignati firmatari nel ’19 di manifesti ‘tedesco-nazionali’ contro chiunque osasse parlare di responsabilità tedesche nella guerra e assidui compilatori di testi per le scuole intrisi di nostalgie imperiali, col— tivavano adesso più che maiilmito di un salvifico Fàhrer che traesse il popolo germanico dalla cloaca della democrazia. Essendo questo Stato così a]ena il filosofo Max Wundt [1920: 130, 142] - «uno Stato antitedesco-da cima a fondo [...], il popolo, quando l'acqua ci arriva alla gola, capirà di non poter vivere di chiacchiere, e reclamerà ad alta voce un salvatore della cui forte mano unicamente si fida». «Abbiamo bisogno di un grande Sigfrido, ma il suo awento non deve tardare», si leggeva il 15 febbraio 1923 sul— la «Deutsche Hochschulzeitung», il giornale delle università. Lo auspicava il rettore Pfeilschifter di Monaco, nell’anniversario della fondazione del Reich del 1871, assiduamente celebrato nelle università e nell’esercito. L’unico latobuono della Costituzione essendo ilpresidenzialismo, era questo che andava sviluppato sino a far coincidere Fù'hrer, Reich e popolo. Andava liquidato tutto ilresto, cioè il ciarpame liberal-democratico delle ‘idecdel 1789’ contro cuiiprofessori avevano già inveito a suo tempo (vedi 9.1). Tanto più che nel mistico connubio di Fiihrer e Valle - analogo a quello di nazione e popolo lavoratore nel ‘socialismo di guerra’ 0 ‘socialismo tedesco’ - avrebbero trovato miracolosa soluzione anche tuttii problemi sociali. L’ideologo vòlleisch Moeller van den Bruck [1923] trovò per il futuro nuovo ordine, se nonicontenuti che rimasero celati da nebulosa retorica, almeno il nome: sarebbe stato un fatidico ‘Terzo Reich’, dopo quello medievale e l’impero bismarckiano-guglielmi— no. Quel che assolutamente occorreva escludere erano le categorie razionali. Lo teorizzò, imbevutodella mistica di guerra, lo scrittore ErnstJiinger [1925: 165]: «Dobbiamodiventar capaci di una sorta di demagogia dall'alto, di agire sulla massa in quel preciso momento in cui nel fuoco di grandi e inattesieventi essa ha raggiunto quel grado di duttilità e dissolvimentoche consente diplasmarlanonpiù con rigorosi raziocini bensì soltanto con sentimenti». Rintuzzare queste posizioni in cui si sintetizzava l’ideologia
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che la storiografia ha chiamato di ‘rivoluzione conservatrice’ avrebbe dovuto essere l’ufficio naturaledei liberal-democraticidel DDP. Ma nella Germania del sottosviluppo liberale leloro ideesulla democrazia erano ben singolari. Preuss già durante la guerra aveva elaborato una sua ricetta nient’affatto parlamentare: ossia uno ‘Stato popolare’ guidato da un’élite autoritaria, il quale amalgamasse i risultati migliori dell’individualismo liberale, dell’ordinamento conservatore e della solidarietà sodalista [Preuss 1915].Nel ’20 gli intellettuali del DDP proposero addirittura di riesumare il ‘principio tedesco originario dell’imperatore elettivo’, nella figura di un Rez'chspra'kident eletto a vita e affiancato da un parlamento dalle cui competenze andava rigorosamente escluso, come ai bei tempi guglielmini, ilvoto di fiducia al governo. E secondo una lettera di Brentano del 10 febbraio 1929 all’economista liberale Bonn, la democrazia avrebbe nelle moderne sodetà industriali una tendenza naturale «a concentrarsi in un singolo uomo» [in Dòring 1975: 252]. Non mancarono poi, sia nel Brentano pubblicista politico che in altri liberal-democratici, le complementari elucubrazioni metafisiche Su come il fenomeno del Ffihrer carismatico e dei suoi gregari derivasse addirittura da una metastorica legge naturale. Ora però proprio queste stesse cose le diceva già bene la vecchia destra tedesco-nazionale, e ancora meglio la nuova destra del populismo nazista. Nel movimento nazionalsocialista, spiegava un suo ideologo, «parla la voce del popolo che non vuole governare, ma esser governato da condottieri che gli siano razzialmente affini» [Giinther 1932: 216]. Perché dunque il ceto medio borghese degli impiegati, funzionari e piccoli proprietari — nazionalisti da sempre per remote radici, frustrati adesso dal tracollo della grande Germania ch’essi imputavano alla democrazia parlamentare, e infine schiacciati dalla drammatica inflazione del 1922-23 e poi dalla grande crisi del ’29 — avrebbe dovuto dare isuoi voti al DDP e non invece, come puntualmente avvenne, alla destra che sbandierava l’obiettivo della ‘rivoluzionc nazionale’? Da parte dei nazionalsocialisti dell’NSDAP si aggiungeva poi la seducente promessa che con loro,Arbeiterparta', ‘partito dei lavoratori’, quella ‘rivoluzione’, oltreché'compiutamente tedesco-nazionale, sarebbe stata altresì sodale, ‘nazional-roa'ah'sta’ appunto. Così si accaparrarono anche una consistente base operaia, e scal231
zarono le destre tradizionali. Si trattò di un «partito popolare con pancia di ceto medio» [Falter 1991. 13],cioè fu ‘popolare’ nel senso che divenne il collettore polin'co della pervasiva brama di andare ‘via da Weimar’ L’SPD da tempo non aveva più opzioni convincenti, a presa di massa, per contrastare icorpi separati dello Stato che sabotavano la repubblica dall’interno, e i partiti della destra che l’assalivano
frontalmente. Le carte favorevoli che si sarebbero potute giocare nel biennio costituente del 1918-20 non si ripresentarono mai più; e sulle mosse sbagliate nel giocarle (nonché sulle omissioni) aveva pesato sin da allora la quasi rassegnata acquiescenza alle animosità del revanscismo. La ‘sindrome di Versailles’ arrivò a infiammare l’intera opinione pubblica, contagiando trasversalmente tutti i partiti. All’inizio non era stata affatto una cosa scontata. Nel giugno del ’19 il liberal-nazionale Naumann si sdegnava di come la gente, immemore dei ‘valori morali tedeschi’, preferisse l’assoluto bisogno di tranquillità, di alimentazione e di lavoro» alla resistenza contro l’«inaudita pace impostagli» [in U. Heinemann 1983: 255]. Ci volle una propaganda capillare con forti sostegni governativi per condensare isentimenti anti-Versailles in una sindrome collettiva di revanscismo. L’SPD non ebbe né il coraggio né la forza di opporvisi apertamente: avrebbe significato, anzitutto, dover fare dawero l’autocritica delle scelte dell’agosto del ’14. Tra i corollari dell’acquiescenza vi fu, il 1° marzo 1919 all’Assemblea nazionale, l’incredibile voto dell’MSPD affinché, sia pure sotto forma di mandato della Società delle nazioni, la Germania riottenesse le colonie. Se ne dissociò soltanto Henke [V-Weimar 1919: 414], in nome del tradi— zionale anticolonialismo della socialdemocrazia. Alla fine degli anni di Weimar la tentazione di rincorrere la destra sul terreno del nazionalismo fu tale che anche il KPD, con una «Dichiarazione programmatica per la liberazionenazionale e sociale del popolo tedesco» («Die Rote Fahne», 24 agosto 1930), scese in campo contro la ‘predatoria pace di Versailles’, contro il pagamento delle riparazioni di guerra, e persino in difesa nazionalistica della germanicità dei contadini sudtirolesi. Ilpunto d’approdo della rinascita nazionale sarebbe stato una ‘Germania sovietica’, con «la possibilità, per iterritori abitati da gente tedesca e che lo desiderassero», di una loro annessione a quella Germania: insomma un disegno 232
dove la confusione d’idee appariva totale, pari forse solamente a quella dell’elettorato che forniva ivoti. Nelle elezioni del settem— bre 1930 il KPD aumentò isuoi voti del 30% e gridò al successo. L'NSDAP li aumentò del 700%. Impressiona nel movimento operaio del tramonto della repubblica la coazione a ripetere parole d’ordine inattuali. L’SPD oscillò tra rassegnazione e improvvisi ritorni di fiamma. Da un lato si diceva che in quegli anni non erano fattibili in Germania conquiste socio-politiche (così il deputato Sollmann al congresso di Lipsia [P-Leipzig 1931: 111]) perché qualunque lotta sociale avrebbe vieppiù spinto la borghesia verso ilfascismo. Dall’altro ancora nell’agosto del ’32 vennero presentati al Reichstag disegni di legge per un esproprio delle grandi aziende iquali neanche nella situazione postrivoluzionaria del ’19 erano andati in porto. E Friedrich Stampfer chiese una socializzazione dell’industria pesante e della grande proprietà terriera persino ancora in un’assemblea congressuale dell’SPD berlinese del 4 febbraio 1933 Avrebbe potuto e dovuto essere la linea da seguire durante tutti gli anni Venti: quella cioè di appoggiarsi alla carta costituzionale per promuoverne al massimo le istanze sodali Era pura follia proporla adesso: con Hitler cancelliere dal 30 gennaio, e un Reichstag annichilito dai ricorrenti decren' presidenziali d’emergenza e nel quale, su 608 deputati,i121socialdemocratici erano rimasti praticamenteisolidifensori della Costituzione repubblicava. Regnavano anche altre illusioni: anzitutto che il nazismo — considerato un movimento nongià organico a specifiche varianti tedesche del capitalismo, ma semplicemente costituito da «piccoli borghesi declassati» [Hilferding 1932: 8] — sarebbe durato al potere ben poco. Nei suoi confronti «le grandi forze anonime del capitalismo avanzato svilupperanno quasi automaticamente la loro resistenza passiva», spiegava «Die Gesellschaft» per penna del pubblicista ed esule russo Schifrin [1931. 410]; e, per penna di Hilferding [1933], che perciò ilvero pericolo per la Germania non eranoinazisti, bensìicomunisti. Kautsky, dal suo osservatorio austriaco (si era trasferito a Vienna nel ’24), vedeva nei movimenti fa— scisti in Germania, Italia e Austria fuggevoli aberrazioni, legate alla congiuntura della crisi economica. Il 15 marzo 1933 scrisse a Otto Bauer che in Germania la dittatura sarebbe fallita «nei prossimi mesi» [IISG, NK, C: 67]. Due settimane prima erano caduti i di233
ritti costituzionali, fatti sospendere da Hitler con uno dei famigerati decreti presidenziali di emergenza consentiti dalla Costituzione weimarese. Non pochi mesi durò la soppressione dell'ordinamento costituzionale, bensì dodici anni.
Nota bibliografica 10.1. La rivoluzione del 1918: Bernstein [1921], R. Muller [1924; 1925], Rosenberg [1928/1947' 227-72], Feldman [1966: 459518], Ryder [1967: IID-64], Ritter—Miller [1968: 21-87, documenti dell’ottobre-novembre], Morgan [1975: 80-117], Bieber [1981: 527-91], Dorpalen [1988: 313-24, sulle posizioni della storiografia della ex DDR]. Sull’esercito nella crisi di ottobre-novembre: Schiiddekopf [1955: 9-28], E. H. Schmidt [1981]. Sulla leggenda
della ‘pugnalata alla schiena" U. Heinemann [1983].
‘
10.2. Sulla repubblica di Weimar: Rosenberg [1935/1972], Schul-
ze [1982/1987], Miiller-Staff [1985, le dottrine dello Stato], Dorpalen [1988: 324-92, la storiografia della DDR sul tema], Martin [1989: 48-148], Merker [1993: 385-420], Steitz [1993, documenti socio-economici]. H.A. Winkler [1993]. Il problema dei militari. Schiìddekopf [1955], Schmìdeke [1966], Hi'rrten [1977; 1979]. I] triennio 1918-21/22: Ryder [1967' 188-278], Ritter-Miller [1968: 88-374, documenti fino al gennaio del ’19], Matthias [1970], Miller [1978: 71443], Hijck [1980], Lehncn [1983, il di-
battito socialista sull’ordinamento repubblicano], Dorpalen [1988: 32446, la storiografia della ex DDR sulle crisi del 1919-23]. Sulla socializzazione: Heinrich Stròbel [1921], Weissel [1976: 112-39, 252-60]. 10.3. Sul movimento operaio socialista: Cole [1958/1976: 150-93; 1958 a/ 1972:20344; 1960/1973: 38-73], Grebing [1970: 154-98]. Droz [1978 a], Luthardt [1978]. Su teoria e prassi politica dell’SPD: Koszyk [1958: 112-218, la stampa], Martiny [1976:197—222, le concezioni giuridiche], F. Ritter [1981], Euchner [1982, l’idea di Stato], Ffrlberth [1984, la politica comunale]; Luthardt [1986, il costituzionalismo sodalista],
234
Fowkes [1989, sul dilemma ‘difesa della democrazia o avanzata verso il socialismo’], Walter [1990, gli intellettuali socialisti]. Su Eisner e la repubblica bavarese: W.G.Zimmermann [1953], Schmolze [1969], F. Eisner [1979]. Su Hermann Heller: Albrecht [1983], Miiller—Staff [1984]. 10.4. Sul ‘capitalismo organizzato“ Kehr [1932 a], Gottschalch [1962; 149—267], Feldman-Homburg [1977: 48-186], Altvater [1980], Grebing [1982], Lòsche [1982], Navy [1982], Kònke
[1987], Dorpalen [1988: 346-58, la storiografia della DDR al ri— guardo]. SuH’SPD come ‘partito popolare’: Kremendahl [1982]. LòscheWalter [1992: 1-76]; Sulle formazioni a sinistra dell’SPD: U. Heinemann [1978] e Merchav [1979] sul socialismo di sinistra; Schiiddekopf [1960, sulla galassia intorno al KPD], P Lfibbe [1982, i rapporti SPDKPD]; H.M. Bock [1993, gli marco-sindacalisti]. 10.5. Gli intellettuali e la repubblica: Schallenberger [1964: 163235], Bleuel [1968: 94—26]; Tòpner [1970]. Sul liberalismo di sinistra: H. Hirsd1 [1972], Schustereit [1975], Dòring [1975: 57231], Abraham [1989]. Su genesi e sviluppo del nazionalsocialismo: Falter [1991, 1991 a], Giles [1985: 3—100, il nazismo e gli studenti],] Schmidt [1988, II: 194-207,227-37, l’ideologia del Fiihrer]; Breuer [1993:48—114] e Zollitsch [1990] sul nazionalsocialismo tra gli operai dopo il ’28; Dobkowski-Wallimann [1989: 21-264, le interpretazioni socialiste e comuniste del fascismo e nazismo]; Pyta [1989] e Harsch [1993] sull’SPD di fronte al nazismo. Sul crollo della repubblica: Kehr [1930 a; 1932 a]; Schmid— dekopf [1955] sulla Reichswehr antirepubblicana; Sontheimer [1962, sull’ideologia antidemocratica], Grebing [1970: 199-213], Rusconi [1979], G. A. Ritter [1980: 85-94, la crisi dello Stato sociale], Weber [1982, KPD contro SPD nel 1929-33]; Dorpalen [1988: 35892, la storiografia della DDR],Gossweiler [1989] e Linton [1989] sul convergere di cause socio- economiche e politiche. Sullo status delle indagini: Gcssner [1988], Kershaw [1990].
Capitolo undicesimo
IL SOCIALISMO IN IDIOMA VIENNESE
11.1.Alla n'cerca di nuove categorie
Engels rimaseentusiasta del movimento operaio austriaco visitando Vìenna nella tarda estate del ’93. In Austria, scrisse poi a Victor Adler l’11 ottobre, un partito operaio che [...] abbia la forza di volontà sufficiente e inoltre iltemperamento vivace, ecdtabile, dovuto alla felice mescolanza di razze celto—germano—slava con prevalenza dell’elemento tedesco, per ottenere dei risultati straordinari non deve far altro che raggiungere l’abilità sufficiente, [...] in quanto tutto ciò che il partitooperaio austriaco vuole e può volere, non è altro che quanto viene parimenti richiesto dal crescente sviluppo economico del paese. [OME, L: 152]
Dunque un’Austria moderna tutta da costruire; e il partito come volano della modernizzazione, in sintonia con le esigenze oggettive del paese. Se quello era il quadro, se per lamodemizzazione si volevano (dovevano) conquistare consensi, occorreva in primo luogo mobilitarsi per una riforma elettorale. Soltanto ottenendo e aumentando seggi al Rabbsrat il partito avrebbe potuto am— pliare la sua sfera d’influenza in un paese, ricordava Engels il3 no— vembre 1893 a Kautsky, di prevalente economia agricola, scarsa urbanizzazione, conflitti di nazionalità. e con «isocialisti nemmeno il 10% della popolazione complessiva» [OME, L: 181]. Guai a farsi tentare quindi dalle false scorciatoie, care alle teste calde, ad es. dal «potere magico che la parola d’ordine dello sciopero gene— rale esercita sulle masse viennesi», e che Victor Adler fa benissimo a contrastare: gli operai viennesi «devono aspettare fino a che non 236
ricevano, mediante il suffragio universale, il mezzo per contare se stessi e iloro amici in provincia» [ivi: 180]. Anche nei consigli ai compagni austriaci permanevano le ambiguità (vedi 7.2) circa la via democratico-istituzionale. Insomma: serve essa soltanto per ‘contare le forze’ in attesa della grande rivoluzione socialista, o è al contrario la strada maestra per il proletariato nell’epoca moderna? Maintanto la via legale, almeno come tattica imposta dalla necessità storica, ebbe pure qui il crisma del mentore. Del resto già il primo vero congresso della sodaldemocrazia austriaca (che a Hainfeld tra dicembre 1888 e gennaio 1889, fortemente voluto da Victor Adler, unificò preesistenti tronconi socialisti) aveva vincolato il partito a servirsi sempre di «mezzi rispondenti alla naturale coscienza del diritto in seno al popolo» (e le riserve sul parlamentarismo, definito all’epoca «una forma moderna del dominio di classe», verranno poi cancellate dal congresso di Vienna del 1901). L’azione del partito ne ricevette impronte di socialismo giuridico evidenti nei primi scritti di Renner,il quale sottolineava ad es. la «funzione sociale degli istituti giuridici, in particolare della proprietà» come suonava il titolo di un suo studio pubblicato con lo pseudonimo di Josef Kamer [Renner 1904], e considerava la soluzione della questione nazionale un problema essenzialmente di diritto amministrativo (vedi 6.2). Così come su basi sostanzialmente di ingegneria giuridica fu impostata la questione nazionale dai socialdemocratici in tutto il ventennio dal congresso di Brùnn al crollo della monarchia. Ispirarsi al marxismo significava anche per isocialdemocratici austriaci condividere la concezione materialistica della Storia. Ma già nel fatto di assegnare un ruolo così forte agli strumenti giuri— dici era implicito che all’interno dell’ottica materialistico-storica l’attenzione venisse rivolta soprattutto all’ambito delle cosiddette ‘sovrastrutture’- non solo giuridiche (owero il diritto, lo Stato, insomma le manifestazioni istituzionali del gime), ma anche filosofiche e storico-culturali in genere. Il giovane Bauer [1908/0BW, VII: 939] parlava del materialismo storico come di una ‘dottrina sociale delle forme’, chiamata cioè a connettere tra loro «tuttiifenomeni della coscienza umana» non solo riguardo al loro contenuto, ma soprattutto secondo «le forme peculiari in cui questo contenuto si presenta».
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Nc derivò una forte attenzione per il rapporto del marxismo con le altre correnti scientifiche e culturali. Ne è documento la premessa redazionale alla prima annata dei «Marx-Studien», la rivista ‘per la teoria e la politica del socialismo scientifico’ promossa nel 1904 da Max Adler e Hilferding, chela diressero, e da Renner. Premesso che il marxismo non doveva essere un sistema rigido, si auspicava che «awenga ovunque il consapevole raccordo dei risultati concettuali e metodici marxisti con l’intera vita spirituale moderna, ossia con il contenuto del lavoro filosofico e di scienza del-
la sodetà che si è avuto nel nostro tempo» Le categorie del marxismo richiedono insomma una sorta di verifica sperimentale attraverso il confronto con altri canoni di indagine: saranno infatti «mantenute attive nella loro perdurante efficacia, e considerate dunque nell’ottica di un loro sviluppo, solamente fino a quando ciò risulti funzionale» [MS, I, 1904: VII-VIII].
Con quali altri moduli il marxismo venisse collegato si è in parDebiti kantiani affioravano nelle critiche di Max Ad— ler alle versioni economicistiche delmaterialismo storico (vedi2.4) e all'ontologizzazione della dialettica (vedi 32), nonché nel Bauer delle ricerche sulla questione nazionale (vedi 6.2) o delle dispute del 1909 con Kautsky sull’etica (vedi 3.2); e c’erano suggestioni machianenel giovane FriedrichAdler che nel 1909scriveva di epistemologia (vedi 2.3) dopo aver conseguito la libera docenza in Bsica teorica e sperimentale all’università di Zurigo. Dalla sua cattedra viennese Mach esercitò sugli intellettuali socialisti un fascino duraturo, e non soltanto per le sue aperte simpatie personali per il movimento operaio. A Kautsky non sembrò affatto scandaloso che si potesse essere insieme marxisti e machisti (vedi 3.2). Il rifiuto dell’idea di sistema da parte di Mach, e il suo programma di una scienza della natura che mantenesse una distanza critica dagli oggetti della caotica esperienza immediata, parvero a Friedrich Adler addirittura ottime integrazioni della polemica di Engels contro il«vecchio metodo metafisico della ricerca» [F. Adler 1907: 623] e contro il vecchio materialismo meccanicistico. Mach insomma era un antidoto contro il materialismo metafisico: ne convenivano non solo Friedrich Adler, ma, tra isocialdemocratici austriaci, anche il musicologo DavidBach [1899] che scriveva di materialismo storico e teoria della scienza; e poi Eck-
te già visto.
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stein [1909 a] nel suo articolo sul metodo dell’economia politica, lo storico e sociologo Ludo Hartmann, e, in seguito, pure il cofondatore delcircolo di Vienna Otto Neurath, nonché lo stesso Bauer. Sul versante gnoseologico significava fondare la conoscenza non su teorie del rispecchiamento passivo, bensì su elaborazioni attive del materiale d’esperienza, su costruttivistici interventi della coscienza che riplasma i dati di fatto con suoi autonomi strumenti, in vista di propri progetti e fini… Negli anni Venti, rifacendosi esplicitamente a una tesi di fondo della Meccanica nelsuo sviluppo storico (1883) di Mach, Bauer spiegava: Ogni scienza ricostruisce i fatti nel pensiero. Ma nessuna può ricostruirli così come sono; li deve semplificare, tipizzare, simbolizzare. Perciò le nozioni di ogni scienza, comprese quelle della scienza naturale esatta, sono sempre soltanto approssimazioni ai fatti. Ilgrado di approssimazione di cuiilricercatoresi accontenta, dipende di volta involta dallo scopo della sua ricerca. «Quando - dice Mach- rimodelliamoifatti nel pensiero, non ne facciamo mai una copia vera e propria, ma li rimodelliamo solamente secondo illatoche è importante per noi. Noi abbiamo uno scopo che in maniera immediata oppure mediata è nato da un interesse pratico». [Bauer 1924 a/OBW, IX. 63]
Il nesso qui istituito tra la realtà d’esperienza e il binomio teoria-prassi risulta emblematico soprattutto a considerarne il contesto. Non si trovava infatti in uno scritto di teoria della conoscenza, bensì in un celebre articolo politico del 1924, L’equilibrio delle forze diclasse, dedicato a bilanci e prospettive di quella che a Bauer appariva ormai come l’estremamente specifica questione della ‘rivoluzione in Occidente’, o della ‘rivoluzione lenta’ come anche la
chiamava. Nei socialisti austriaci, come dopo il 1918 tra i tedeschi soprattutto con Bernstein e Kautsky, stava dunque ricomparendo un problema che nella dottrina di prima del ’14 era stato sempre trascurato: cioè il quesito sui tempi della storia, su quale fosse la velocità di cambiamento delle realtà socio-politiche. La risposta optava adesso per la lentezza e gradualità dei processi di trasformazione. Nellibro La rivoluzione austn'aca, ampio panorama storicocritico che partiva dal suffragio universale del 1907, Bauer concludeva che in analogia alla «lunga successione di processi rivolu— zionari» avutisi nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, an239
che quello dal capitalismo al socialismo vedrà «una lunga catena di forme statuali e sociali di transizione» [Bauer 1923/0BW, II: 865]. Altrove paragonava l’«autentico lavoro rivoluzionario» al graduale «lavoro minuto» delle ere geologiche, alle «piccole rivoluzioni all’interno degli atomi» da cui poi scaturiscono i grandi sconvolgimenti [Bauer 1928/0BW, III: 588]. Le conclusioni sull’allungamento e sulla gradualità dei tempi storici derivavanoin primo luogo dal riconosdmento della ormai radicale diversità delle rivoluzioni rispetto allo schema che Marx aveva dedotto dalle rivoluzioni del XVIII e XIX secolo [Bauer 1923 a/OBW, IX:51]. Ein secondo luogo dalla convinzione, a dò collegata, che l’elemento permanentemente valido del marxismo altro non dovesse essere che una scienza della società concepita come una progrediente «raccolta, organizzazione ed elaborazione di esperienze» [ivi: 49]. «Nessuno oggi si sognerebbe d’imparare la fisica su un manuale del 1847 o del 1867», nemmeno limitatamente a fenomeni che da allora non hanno subito variazioni: e ciò perché cambia comunque il nostro modo d’interpretarli. Tanto più assurdo sarebbe se nello studio della sodetà ci si dovesse «fermare a nozioni del 1847 e del 1867»— dunque fuor di metafora al Marx del Manifesto e del Capitale «quando da allora le esperienze elaborate dalla conoscenza storico—economica si sono sviluppate e arricchite a dismisura» [ivi: 50]. A un certo punto Bauer aveva anche indicato su che cosa una aggiornata teoria marxista della conoscenza dovesse reggersi; e in quell’occasione le pur apprezzabili gnoseologie di Mach, Avenarius, Poincaré e]ames gli erano sembrate apporti insufficienti. La gnoseologia marxista, ancora tutta da fare, avrebbe dovuto invece
—
indicare in dettaglio il procedimento, il processo spirituale con cui, n'amite il modello del proprio lavoro e dell’assetto socialein cui vivono o verso il quale tendonoi loro sforzi, gli uomini costruiscono la propria immagine del mondo a seconda delle esigenze dettate dallelorolotte economiche e sodali, politiche e nazionali. [Bauer 1924 b/OBW, II: 933]
Erano considerazioni appena abbozzate, contenute in una sorta di storia delle idee filosofiche dell’epoca moderna, L’immagine
del mondo delcapitalismo, scritta durantela prigionia di guerra del 1914-17 in Siberia… Se ne ricava che le rappresentazioni e idee ver— rebbero costruite dalla coscienza con moduli sui quali influisce in 240
modo determinante l’attività pratica (il ‘lavoro’, l"assetto sociale’ ecc.), insomma la rete delle relazioni interindividuali. E ciò attesta una certa vicinanza filosofica tra Bauer e Max Adler già all’epoca della redazione del manoscritto siberiano: dato che Adler, per illustrare la genesi della conoscenza, aveva cercato sin da Causalità e teleologia di integrare il trascendentalismo kantiano con la no-
zione del ‘carattere sociale’ della coscienza. La «cosdenza in generale», egli diceva, ha il suo «fondamento psicologico-storico» nel fatto che il contenuto dell’io individuale è «in millemodi condizionato, formato e legato da altri contenuti individuali» [M. Adler 1904/1976: 167]. Nel saggio L’elemento psichico—formale nel materialismo storico [1907] aveva poi visto nella
‘socialità dell’elemento psichico’ la radice della formulabilità e generalizzabilità dei concetti. Le definizioni dell"elemento sodaltrascendentale’ si andarono via via perfezionando, sino agli enun— ciati della parte filosofico-teorica del libro La concezione della Sta— to nel marxismo. Dove riassumeva che «l’uomo, già prima di ogni socializzazione storico-economica, è socializzato nel suo essere spirituale, nella sua coscienza teorica. Ed egli trova nel processo storico-sodale soltanto ciò che egli è già in sé nel suo soggetto trascendentale: l’insuperabile relazionalità ad altri soggetti, uguali per essenza, e l’unificazione con essi» [M. Adler 1922/1979: 24]. Sulla novità filosofica dell"apriori sociale’ che per Adler fu il tema teorico centrale, ripreso anche nel suo ultimo libro, L'enigma della societa‘ [1936] — Bauer insistette nel suo necrologio per Adler [Bauer 1937]. Dove gli parve che da quell"apriori sociale generale’ avrebbe potuto scaturire una gnoseologia marxista se si fosse riuscid a specificarlo in differenziati ‘apriori sociali particolari’, di ogni epoca sociale, ordinamento sodale e classe sociale. una ricerca che Bauer non proseguì, e che aveva risvolti spinosi:si ricordila sua polemica del 1909 controisostenitori, tra cui Kautsky, proprio di quell"apriori sodale particolare’ che era secondo costoro l’imperativo morale classista (vedi 3.2). Lavorare comunque su spunti e suggestioni di disparata provenienza, purché funzionali alla ricerca, corrispondeva a un’impostazione che Bauer aveva adottato già a inizio di secolo:
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progri
Il nostro interesse filosofico è stato innescato prindpalmente da preoccupazioni metodologiche. Perciò abbiamo liberato la nostra scien-
241
za da ogni collegamento con un sistema filosofico. Le nostre concezioni della storia e dell’economia ci sembrano conciliabili con le più disparate concezioni di teoria della conoscenza epperò anche altrettanto indipendenti da esse. [Bauer 1908 a: 541]
Bauer si riferiva a se stesso e al gruppo dei giovani intellettuali socialisti suoi coetanei. Nei confronti del marxismo era un atteggiamento dichiaratamente laico, tanto più interessante perch’esso certamente traspariva anche nei corsi che il gruppo teneva alla scuola di partito a Vienna: dove ad es. nel 1907-09 Bauer insegnò economia politica, Renner teoria dello Stato e Max Adler teoria della sodetà. Vent’anni dopo, Bauer descrisse nell’articolo Austromarxismo le caratteristiche di quei giovani intellettuali che, intorno al 1907, il socialista ed economista americano Louis Boudin aveva battezzato ‘austrian Marxists’ (donde poi appunto ‘austromarxisti’). Erano (oltre a Bauer stesso) Max e Friedrich Adler, Renner, Hilferding ed Eckstein, accomunati tutn' dalla «peculiarità dellorolavoro scientifico», owero dall’esigenza sì «di fare iconti con le correnti filosofiche moderne», epperò di farli in difesa del marxismo [Bauer 1927/0BW, VIII. 11]; e fuin un laboratorio difficilissimo, nella «vecchia Austria scossa dalla letta delle nazionalità», che «tutti quanti dovetteroimparare ad applicare la concezione marxista della storia a fenomeni molto complicati che si sarebbero fatti beffe di qualsiasi applicazione superficiale e schematica del metodo marxiano» [ivi: 1,1-12]. L’apprendistato lasciò un’impronta anche in chi svolgerà poi la propria attività non in Austria, ma in Germania, nelle file dell’SPD: come Hilferding (redattore del «Vorwàrts» berlinese già dal 1905) ed Eckstein (dal 1910 redattore della «Neue Zeit» e docente alla scuola di partito di Berlino). Si compendiava nell’istanza che la teoria dovesse imparare dall’esperienza, dal protocollo dei fatti che dovevano venir recepiti in tuttiiloro elementi, visibili e meno visibili, permanenti e nuovi, statici e dinamici. L’esigenza di acquisire dati di fatto nuovi e promuovere la più ampia gamma di scienze del ‘sociale’ fece sì che gli austromarxisti Max Adler, Ludo Hartmann e Renner figurassero tra ifondatori della Società sociologica nata a Vienna nel 1907 Grazie a questa basedi metodo l’austromarxismo diede alla Se242
conda Internazionale,nell’arco di un trentennio a partire dal 1907, le opere teorico-storiche di maggiore originalità: cioè le indagini di Bauer sulla questione nazionale, il Capitale finanziario di Hilfer— ding, altri lavori di Bauer (di storia agraria dell’Austria [1925], di storia del capitalismo e del socialismo tra le due guerre [1931, 1936],e di economia politica [1956]). nonché gli studi di Max Adler sul marxismo e lo Stato [1922] e sulla concezione materialistica della storia [1930, 1932]. Quanto in Bauer avesse agito il binomio esperienza-teoria è confermato dalle sue lezioni di Introduzione all’economia politica tenute nel 1927-28 all’università operaia di Vienna e pubblicate postume in base ai quaderni degli uditori. Presentavano un approccio inedito. Diversamente dalla corrente letteratura socialista che si era sempre interessata più alla teoria del valore e del lavoro, al primo librodel Capitale insomma, che non alla dottrina del mercato (e dei prezzi e della circolazione monetaria), Bauer adottò la strada inversa. Trattò cioè prima la dottrina del mercato e solo in seguito quella del lavoro, perché gli parve «funzionale rifarsi alle esperienze della vita quotidiana» [Bauer 1956/0BW, IV: 718]. A giudicare dall’impostazione complemiva delle lezioni era però qualcosa di più di un semplice accorgimento didattico. Marx aveva detto chiaramente, nella sua Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica (1859), che il valore non vive fuori del mercato:ilvalore di scambio, apparentemente la più semplice categoria economica, in realtà presuppone «una popolazione che produce in rapporti determinati>g, insomma presuppone le relazionalità storico—concrete del mercato, così come ogni astrazione generale presuppone a proprio retroterra una «ricca totalità di molte determinazioni e relazioni», un «insieme concreto, vivente, già dato» [Marx 1857/OME,XXIX. 34]. E Bauer naturalmente sapeva di quel testo, pubblicato sulla «NeueZeit» nel 1903.A1la luce di esso l’opzione metodologica di cominciare con l"insieme concreto’ del mercato piuttosto che con l’astratto ‘valore’ non era, in fondo, niente di strano. C’era però un’altra faccia della questione, più emblematica. La critica marxiana dell’economia politica aveva voluto esser funzionale al movimento operaio. Comindare in quella fase storica del socialismo con la teoria del valore e del valore-lavoro aveva consentito subito di toccare la radice dello sfruttamento capitalistico 243
alla prassi, alla denuncia sociale. Del tutto diversa appariva la situazione del movimento operaio nell’Europa centrale dopo il 1918,con partiti socialisti che non solo cominciavano a essere gestori politici di repubbliche democratiche, ma godevano di un’autorevolezza potenzialmente sufficiente a tentare persino socializzazioni dell’economia.Iproblemi in primo piano erano adesso altri, precisamente quelli del mercato (dei prezzi, della politica monetaria, dell’inflazione e deflazione, del controllo delle crisi), owero di come governare il mercato. Ma se erano queste le nuove esperienze, esperienze di un inte— ro periodo storico, non occorreva allora ribadire ancora una volta il peso che nel nesso teoria-prassi hanno precisamenteifatti (nuovi) e la prassi (nuova)?
e di applicare immediatamente la teoria
Per noila cosa importante in economia resta sempre ilguardare e l’osservare, il conoscere con esattezza idati di fatto fornitici dalla storia economica, dalla descrizione economica, dalla statistica economica. Le leggi non possono sostituire le osservazioni, esse semplicemente le facilitano e fadlitano la comprensione ddle cose osservate[…]. Chi.si muove soltanto nella teoria senza vedere la realtà, non giunge a una vera conoscenza. [Bauer 1956/0BW, IV: 898]
Se le cose stavano così, occorreva allora scegliere un approccio che mirasse appunto subito al centro della problematica nuova, cioè alla sfera generale del mercato, per poi da lì procedere all’esposizione della categoria del valore e, dopo questo giro, giungere infine a una dottrina del mercato arricchita dall’analisi di quei presupposti. Che la teoria dovesse orientarsi sulla prassi, che dal riferimento alla prassi scaturissero imetodi, che di essi la prassi comprovasse la validità, e che solo tenendo conto di dò si potessero costruire buone e specifiche tecniche operative, l’avevano suggerito a Bauer sia Marx che Mach.
112. Nazione e nazionalismo ]] dilemma vero che assillò la socialdemocrazia austriaca dal congresso di Briinn al dissolvimento della monarchia non fu la via verso il socialismo, ma la questione delle nazionalità. Sin dalle bat-
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taglie per il suffragio universale si sapeva che al socialismo si sarebbe giunti conimezzi parlamentari. L’unica grande azione rivoluzionaria di massa decisa dal partito era stata non a caso lo sciopero generale politico del 25 novembre 1905 per la riforma elettorale, che aveva portato nelle strade di Vienna 250.000 manifestanti, e decine di migliaia a Praga, Cracovia, Trieste. Da allora l’orientamento parlamentare restò costante. Il mensile «Der Kampf» scriveva di ‘educazione parlamentare’ Bauer [1908 b: 487-881 spiegava che la socializzazione dei mezzi di pro— duzione non poteva che esser guidata dai rappresentanti dell’inte— ra società, ovvero da quel corpo parlamentare che sarebbe risultato dalla «conquista proletaria» del parlamento. E, sempre per sottolineare l’opzione parlamentare, Friedrich Adler [1911/1918: 175] scriverà che «noi non crediamo che l’azione diretta possa essere laforma duratura con cui il proletariato ottiene le sue vittorie. L’insurrezione permanente è non solo la più irrazionale delle forme d’azione, ma un’istanza assolutamente non recepine da parte di nessuna classe». Se alla base di questo discorso stava il fatto che un forte movimento operaio ormai esisteva, e si trattava perciò soltanto di scegliere le tattiche e strategie più adatte, ben maggiori dilemmi presentava invece la questione nazionale, perché dal modo in cui la si affrontava poteva dipendere l’esistenza stessa del movimento. Non si sarebbe esso addirittura disgregata e scisso se il paese avesse perso il suo carattere di vasta e coesa territorialità economico— produttiva?> La questione nazionale venne dunque guardata nel— l’ottica delle potenzialità che sarebbero derivate al movimento operaio da questa o quella soluzione di essa. Fu in generale positivo che il partito assumesse la questione nazionale come un punto essenziale della politica sodalista, ma il buon esito dipendeva moltissimo dal prevalere nelle teorie sulla nazionalità di certi ac— centi piuttosto che di altri. Renner aveva citato nel suo Stato e nazione, condividendola, una tesi del Gumplowicz di Razza e Stato (1875): ovvero che «il più alto sentire nazionale, il quale presuppone un certo grado di cultura, resta sempre e ovunque estraneo alla massa incolta», alberga insomma «solamente tra i ceti medi colti, mentre la massa comune ne segue soltanto la scia» [Renner 1899: 9]. Via via aveva poi identificato il ‘ceto medio colto’ con itedescofoni, e la ‘massa 245
comune’ con le genti di altra lingua., onde già per semplice opportunità linguistica la nazionalità tedesca avrebbe dovuto assumere nell’impero una posizione dominante [Renner 1908]. Un anno do‘po, in un commento all’annessione della Bosnia intitolato Simpatie e antipatie [1909], le ‘simpatie’ erano per la politica annessionistica: con essa anche la Bosnia avrebbe finalmente goduto ibenefici della superiore cultura tedesca. Dallo sciovinismo culturale traspariva l’idea di una mistica superiorità dei caratteri nazionali germanici. Avrebbe dovuto esserne immune Bauer, la cui Questione delle nazionalita‘ voleva, come egli sintetizzò retrospettivamente, «togliere al carattere nazionale la parvenza sostanzialistica, mostrando che ogni carattere nazionale è nient’altro che un condensato di trascorsi processi storici il quale viene di nuovo modificato da processi storici successivi» [Bauer 1924/0BW,I. 57]. Questo postulato metodologico avrebbe dovuto «dissipare l’ingannevole parvenza della sostanzialità della nazione, parvenza che sta a fondamento di ogni concezione nazionalistica della storia» [ivi 60—61]. Eppure anche Bauer, già all’indomani della sua Nationalità'tenfiage, parlava con accenti del tutto positivi di Grosso"sterreicb, di una ‘Grande Austria’ alla quale sarebbe dovuta spettare un’influenza egemonica sull’Europa orientale e balcanica proprio in quanto impersonava la superiore cultura tedesca [Bauer 1908 c]. Fu una palese violazione del principio metodologico. Nellibro del 1907 la celebrazione dei valori culturali tedeschi era stata certamente forte, ma ora scivolava verso il dogma dell’indiscussa superiorità dell’elemento nazionale tedesco sulle altre nazionalità dell’Austria. Può allora meravigliare che quelle minoranze desse— ro assai presto alla politica socialdemocratica delle nazionalità il sarcastico nome di Burgsoziahkrnur, di un ‘socialismo di palazzo’ dove dietro grandi frasi di fratellanza tra ipopoli dell’impero si na— scondeva un germanismo egemone? Ovviamente le cose non mi-
gliorarono con l’ubriacarura patriottico-asburgica del ’14 e l’entusiasmo per la ‘fedeltà nibelungica’ tra Germania e Austria, che il giornale del partito, la «Arbeiter—Zeitung» di Austerlitz, riecheggiò con toni di sciovinismo pantedesco. Dietro a essi stava un fatto ideologico che avrà parecchi inquietanti sviluppi, owero la con— vinzione diffusa nei dirigenti socialdemocratici, praticamente dall’epoca del congresso di Briinn, che per storia e destino i tede246
:ofoni dell’Austria fossero parte integrante della ‘nazione gerranrca’ Negli scritti di Renner del periodo bellico il risvolto nazional:desco si ampliò a un disegno affine a quello del gruppo Cunow.enz-Haenisch in Germania (vedi 9.1-2), con l’ideologia del soialismo di guerra potenziata da Renner (e da Cunow) addirittura . “marxismo di guerra’, e sostenuta dall’abbaglio che i provvedinenti dirigistici dell’economia bellica avessero un carattere sociaista. Il socialismo di Stato venne difeso da Renner con argomenazioni insieme ‘proletarie’ e di Macbtstaat, come quelle del suo inervento al congresso dell’SDAPÒ del 1917 Se è un «imperativo >mletario» che lo Stato debba garantire le otto ore, razionalizzare .a produzione, promuovere ottimali condizioni di vita ecc., allora !«precisamente per fare tutto ciò che lo Stato dev’essere ricco e forte», insomma uno Stato di potenza [C-Wen 1917: 121-22]. A ciò si aggiungeva l’immagine mistico-metafisica della nazione, proprio quella ‘parvenza sostanzialistica’ che Bauer denuncerà nel ’24. La nazione è un’entità metafisica che viene prima dello Stato e c’è dopo lo Stato, e «le decisive forze causali del divenire nazionale e della vita nazionale stanno fuori dello Stato, fuori dell’arbitrio politico» [Renner 1915], perché sono anzi esse le ascose creatrici di ogni ordinamento politico. Sicché alla nazione tedesca, più grande delle altre per la sua superiore cultura, sarebbe spettato di realizzare anche uno Stato più grande, lo «Stato sovranazionale» della Mitteleuropa a conduzione germanica [Renner 1915 a] In Germania erano le tesi di Naumann, di Lensch, di Haenisch. Persino un biografo così apologetico come Hannak [1965: 224] ammette che quelle convinzioni di Renner erano «diabolicamente vicine all’ideologia dell’imperialismo». In quegli scritti, raccolti poi nellibro Marxismo, guerra e Internazionale (1917), si parlava anche di una futura nuova Internazionale socialista, in veste di Stati Uniti d’Europa o addirittura di ‘In— ternazionale mondiale’, che sarebbe stata realizzata dal corso della storia «metà con la violenza, metà con accordi pacifici» [Renner 1917 280]. Era una prospettiva anch’essa vicina all’imperialismo ‘sociale’ celebrato da Haenisch e Lenz (vedi 9.2). In Renner e soci la sinistra dell’SDAPÒ vide operare «il criterio che ha le sue massime conseguenze nefaste nel nuovo nazionalismo [...],ovvero nella convinzione che l’idea della nazione debba, se non è possibile di247
dispiegarsi ancbe a spese delle nazioni che ci stanno di [M. fronte» Adler 1915:27]. Se gli imperialisti sociali predicavano versamente,
che tutte le classi unite nell’alleanza del Burg/Haden avrebbero avuto un «possente interesse allo sfruttamento economico di po— poli e paesi stranieri» [ivi: 34], andava allora anzitutto smaschera— to quel compromesso interclassista; e contro inazionalismi espansionistici bisognava poi sottolineare che «il sodalismo di dopo la guerra o sarà pacifismo internazionale organizzato, o non sarà» [ivi: 62].
La sinistra (di cui Bauer diventerà il leader dopo il suo rientro nel 1917 dalla prigionia di guerrainRussia) siera coagulatagiànell’autunno del ’14 intorno a Friedrich e Max Adler, al segretario dell’Internazionale giovanile Robert Danneberg, e a Terese Schle— singer e Gabriele Proft del movimento socialista femminile. Nel ’15 contava un centinaio di buoni propagandisti, e faceva leva sul risentimento popolare verso la vera e propria dittatura militare instaurata in Austria all’indomani del famigerato ultimatumalla Serbia. In misura ancora maggiore che in Germania l’amministrazione civile era stata esautorata subito dalle autorità militari, le quali soprattutto nelle regioni a maggioranza etnica non tedesca si comportarono come se fossero in terra nemica. L’involuzione autoritaria produsse perciò automaticamente anche il riacutizzarsi delle crisi nazionali. In quel contesto segnò un tornante il clamoroso attentato di Friedrich Adler al premier conte Stùrgkh, simbolo del regime autoritario, ch’egli uccise a revolverate il 21 ottobre 1916; e più ancora contò la sua celebre autodifesa al processo,nella primavera del ’17 Spiegò ilsuo gesto come espressione del diritto-dovere di resi— stenza che chiunque ha verso gli autori di un colpo di Stato come quello che si era avuto nel luglio del ’14 con la soppressione delle garanzie costituzionali. Sicché con la sua azione dimostrativa aveva voluto creare la premessa psicologica di future azioni di massa in un paese dove per prima cosa bisognava ancora fare la rivoluzione nei confronti dell’assolutismo [F. Adler 1967/1972: 147-48]. Sarebbe stata anzitutto una «lotta per la Costituzione» [ivi: 148], per instaurare «uno Stato federale democratico delle nazionalita‘» [ivi: 114] e così portare a soluzione anche la questione nazionale. Di lì a pochi mesi la sinistra del partito dovette invece rendersi conto, soprattutto dopo le ripercussioni della rivoluzione sovie248
tica d’ottobre, che tutte le idee sulle nazionalità sarebbero state soppiantate da quella dell’autodeterminazione. Tuttavia, in omaggio all’assioma secondo cui il socialismo sarebbe potuto scaturire soltanto da compagini economico-sociali molto ampie, si sperava che qualche legame tra le nazionalità potesse ancora venir conser— vato. Nel gennaio del ’18, mentre imponenti scioperi contro la guerra scuotevano Vienna, un Programma della sinistra per le nazionalità presentato da Bauer a rappresentanti della sinistra so-
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cialista austrotedesca, ceca e polacca, e da costoro accettato - affidava sì il destino di ogni nazionalità alle decisioni della sua futu— ra assemblea nazionale costituente, ma anche impegnava lesocialdemocrazie nazionali ad «adoperarsi afiinché gli affari economici delle nazioni restassero in comune» [in Neck 1968: 45]. Senonché alla fine di ottobre le assemblee nazionali decretaro— no la totale indipendenza dei rispettivi paesi, e di cose in comune non restò proprio nulla. Ai sei milioni e mezzo di tedescofoni rimase drea un terzo della vecchia Austria, poco industrializzato, di agricoltura povera e tagliato fuori dai suoi tradizionali mercati. Il dogma dell’impossibilità del sodalismo in un paese di piccole dimensioni gettò la socialdemocrazia austrotedesca nell’angoscia. All’assemblea costituente provvisoria formata dai deputati tedescofoni delle elezioni del 1911 e riunita a Vienna il 21 ottobre 1918 — Victor Adler dichiarò perciò che se fosse fallita la creazione di un’associazione conipopolivicini,isocialdemocratici avrebbero contribuito a far nascere una nuova ‘Austria tedesca’ repub— blicana, da annettere «al Reich tedesco come uno Stato federato speciale» [in Neck 1968:79-80].Il 12 novembre 19181"Austriatedesca’, con Renner cancelliere provvisorio, verrà proclamata repubblica democratica e parte integrante della Repubblica germa— nica con modalità di unione da stabilire. Cosìl’Anscblass, l’annessione, era diventata programma di go— verno di una socialdemocrazia che nello sfacelo del vecchio Stato era rimasta l’unica forza capillarmente organizzata e perciò capace di gestire la nascita della repubblica. Dall’angosciaisodaldemocratici (con il partito ribattezzato SAPDÒ o Sozzhldemokratimbe Arbeiterpartei Deutscbòsterreicbs, ‘Partito operaio socialdemocratico dell’Austria tedesca’) passarono all’euforia anche perché intanto, proprio alla vigilia di quella proclamazione, in Germania si era insediato il governo socialista così a lungo auspicato dalle so-
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cialdemocrazie di entrambiipaesi. Bauer, ministro degli esteri della neonata repubblica, esultò nella primavera del ’19: «L’annessio— ne alla Germania ci apre dunque la via al sodalismo. È la precondizione perla realizzazionedel socialismo. Perciò qui da noi la lotta per il socialismo deve venir condotta come una lotta per l’annessione alla Germania» [Bauer 1919/0BW, H: 131]. L’Anscbluss alla Germania come via al socialismo fu una parola d’ordine piena di risvolti infidi, che mise su tutte le successive opzioni del partito un sigillo equivoco, a cominciare dal fatto che la prassi si trovò adesso in contrasto con tutta la precedente teoria sulla questione nazionale. L’annessi0nismo dava per ovvia un’identità nazionale di tede— schi e austriaci nient’affatto scontata: a meno di non prendere a unico (e semplicistico) segno di una nazione la lingua, trascurandone la storia. Tra idue paesi non esisteva una ‘comunanza di destino’ nel senso della definizione che Bauer aveva dato della na— zione (vedi 62), cioè un’omogeneità storica delle radici e poi, soprattutto, degli sviluppi socio-economici e culturali. Per secoli Germania e Austria avevano avuto, al contrario, destini e sviluppi diversissimi e spesso in aspro conflitto. Che austriaci e tedeschi dovessero costituire una sola nazione era stata in Austria un miraggio di minoranze di intellettuali: in— tellettuali liberali che si riferivano al progetto ‘grande-tedesco’ del parlamento di Francoforte del 1848, e intellettualitedesco—nazionali la cui immagine della nazione mescolava irrazionalismi vitali— stici e biologismi etnico-razziali. Non era un’idea che elettrizzasse la gente, come Bauer stesso ammise retrospettivamente nel libro del 1923 sulla ‘rivoluzione austriaca’ In favore dell’Anscbluss socialista, di un socialismo austriaco affidato al decisivo aiuto del grande fratello sodaldemocratico germanico, fu necessaria un’intensissima propaganda. La scorciatoia miracolosa fallì peraltro sul nascere. Ilgoverno Ebert, già disorientato su come avrebbe dovuto essere il socialismo in Germania, non ebbe alcuna voglia di accollarsi anche i problemi di quello austriaco. E il trattato di St. Germain del ’19 vietò poi espressamente qualunque unione tra Anania e Germania. Vretò pure la dizione Deutscbò‘sterreicb, ‘Austria tedesca’, che perciò scomparve anche dai nomi dei partiti, sicché ilpartito sodaldemocratico e il partito comunista diventarono il ‘Partito sodaldemocratico dell’Austria’ e il ‘Partito comunista 250
dell’Austria’ (SP0 e KPÒ, Sozùzldemoleratiscbe Partei Òsterreid;s e Kommunistiscbe Partei Òsterreiebs). Mai danni erano ormai fatti. La socialdemocrazia austrotedesca abdicò allo strumento del sentimento nazionale proprio quando per la costruzione dell’assetto socialista sarebbe stata necessaria una larghissima, maggioritaria adesione di cittadini, la quale avrebbe potuto trarre alimento da un orgoglioso senso di statualità nazionale specificamente austriaca. Con ladottrina dell’Anscbluss veniva inoltre ribaditala leggenda delle insufficienti risorse naturali, economiche e spirituali, insomma del paese troppo piccolo per grandi cambiamenti sociali. Fu anche questa sfiducia verso la realizzabilità di strategie statuali globali a far profondere tante energie in modelli di sodalismo municipale, locale: splendidi nel loro genere peraltro, come quello celebre della ‘Vienna rossa’ del quindicennio 1919-33, ma del tutto squilibrati rispetto alla situazione complessiva del paese. Infine, indipendentemente dalle sue intenzioni democratiche, l’annessionismo del ’18 facilitò la strada a esiti di ben altra inquietante natura. L’idea dell’Anscbluss aveva la struttura delle ipostasi: immagine e involucro prevaricavano cioè sui contenuti, questi a loro volta comparivano nella veste più generica possibile, e infine anche l’involucro era costruito su premesse accettate alla cieca (nella fattispecie la presunta inesistenza di una ‘nazione’ o ‘nazio— nalità’ austriaca). Perciò quell’idea produsse rapidamente mostri. Nel febbraio 1930 Renner scriveva: «Siamo una grande stirpe della grande nazione tedesca, niente di più ma anche niente di meno. Non siamo una nazione a sé, non lo siamo mai stati e non lo potremo mai diventare [...]. Quel che in futuro noi saremo nel mondo, lo possiamo essere solamente nel quadro dell’appartenenza alla nostra nazione germanica» [Renner 1930: 52]. Nella Germania invocata come la ‘nostra nazione’, i nazisti conquisteranno qualche mese dopo 130 seggi al Reichstag, diven— tando il secondo partito dopo l’SPD. ]] risultato-della confusione ideologica fu nel marzo del ’38 un’Austria che si fece inglobare con giubilo nella Germania hitleriana. Certo, dopo l’avvento del nazismo l’SPÒ aveva provveduto a cancellare dal suo programma la rivendicazione dell’annessione, ma l’innamoramento per la dottrina dell’Anscblass rimase tenace. Bauer ancora dopo il fatale marzo continuò a negare, dal suo esilio in Cecoslovacchia, che l’Austria potesse avere suoi propri specifici caratteri nazionali; Renner votò 251
un convintissimo ‘sì’ nel plebiscito del 10 aprile con cui i nazisti vollero dare all’annessione una parvenza legale; ed entrambi, Renner e Bauer, dissero che votare ‘si’ era un dovere per ogni social-
democratico.
11.3.Ilproblema dello Stato e la democrazia sociale
L’Austria del ’18 presentava uno scenario analogo a quello te— desco: grandi scioperi contro la guerra, costituzione di ‘consigli operai’, poi la disfatta totale al fronte, infine la proclamazione della repubblica. Ma con due differenze essenziali: le truppe che rifluivano in patria assomigliavano a una massa di sbandati più che a un esercito; e il movimento socialista era compatto, non aveva subito scissioni a sinistra come in Germania. Nel ’18 la stragrande maggioranza della socialdemocrazia austriaca era già su posizioni generalmente di sinistra, analoghe a quelle dei socialisti ‘indipendenti’ tedeschi; e gli stessi moderati -come Renner, Austerlitz e Seitz, uno dei copresidenti dell’assemblea nazionale provvisoria — erano più a sinistra della maggioranza dei dirigenti dell’SPD. Nei ‘Consigli degli operai e soldati’, il cui comitato esecutivo nazionale era presieduto da Friedrich Adler, prevaleva una linea di sinistra non difforme da quella complessiva della socialdemocrazia. Nessun nome socialdemocratica di rilievo vi fu perciò tra i cinquanta fondatori, il 3 novembre 1918, del KPDÒ (Kommunistiscbe Partei Deutscbòsterreicbs), il ‘Partito comunista dell’Austria tedesca’, che durante tutta la prima repubblica condurrà un’esistenza marginale, priva di chiari programmi per la rivoluzione e per dopo. Isocialdemocratici, almeno, s’interrogavano sulle condizioni realisticamente necessarie perché una ‘rivoluzione’ potesse riuscire; e mettevano al primo punto che non la si sarebbe potuta comunque fare senza 0 contro l’esercito. Difronte al dissolversi delle vecchie strutture militari si trattò quindi - così]ulius Braunthal [1948, I:430], uno degli artefici dell’impresa — «di costruire ex novo una forza armata repubblicana, di formula essenzialmente con soldati socialdemocratici e di insediare nostri fiduciari nei postichiave». Ne risultò una Volkswebr o ‘forza popolare di difesa’ che 252
a differenza della Reicbswebr di Weimar fu fedele alla repubblica per effettiva convinzione. A quale repubblica tuttavia? Ovvero: come doveva essere il nuovo Stato, quali mete doveva avere?Isocialdemocratici furono entusiastici repubblicani subito, sebbene prima del ’18 l’SDAPÒ non avesse mai sollevato la questione istituzionale; e la prostrazio— ne finale del vecchio regime era poi stata tale da suggerire anche alla borghesia che con la repubblica qualcosa sarebbe cambiato in meglio. Insomma, a differenza di quanto accadeva in Germania, la repubblica godeva di un credito che sarebbe stato criminale dissipare con azioni avventate. Sicuramente molti tra le centinaia di migliaia dimilitari smobilitati e di disoccupati accarezzavano ilsogno di ‘fare come in Russia’- immaginando che una repubblica d’impronta socialista, una dittatura del proletariato governata dai Rii— te, avrebbe risolto d’incanto ogni problema. Gli sporadici tumul-
ti che quella speranza produsse furono ben poca cosa al confronto di quel che stava succedendo in Germania. L’Austria non aveva spartachisti, e non vi furono tentativi di una presa ‘sovietica’ del potere nemmeno quando, nella cruciale primavera-estate del ’19, il paese si trovò stretto tra le due repubbliche consiliari dell’Un-
gheria di Béla Kun e della Baviera. Ai “rivoluzionari romantici’ (come li chiamava Julius Braunthal) quella stagione era parsa piena di radiose promesse geopolitiche: se l’Austria avesse seguito la strada della Baviera e dell’Ungheria, si sarebbe creata in mezzo all’Europa una solida fascia bolscevica, di irresistibile attrazione per il proletariato di Berlino, Praga e Roma, e con esito ultimo un gigantesco blocco di Stati socialisti dal Reno al Pacifico. Tutto, dicevano, dipendeva dalla rivoluzione in Austria. Le obiezioni dei socialdemocratici non segnalarono soltanto, con sano realismo, che al primo accenno di una presa ‘sovieu'ca’ del potere la piccola Austria sarebbe stata strangolata economicamente, nonché occupata con una passeggiata militare dalle potenze dell’Intesa. Al di là di ciòla polemica con i‘romantici’ spinse a quesiti sulnatura la dello Stato e sul suo rapporto con la democrazia sociale. Ai propagandisti della dittatura del proletariato si rispose che «c’è un’altra via al potere, più sicura e più indolore, la via della democrazia» [Bauer 1919 a/OBW, II: 150]; ma gli austromarxisti sapevano anche quante lacune isocialisti avessero in generale da col‘
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mare circa ladottrina dello Stato. Scriveva Renner [1929: 123],ancora dieci antri dopo:
Le possibilità dello Stato, owero le possibilità della socializzazione politica, nonsono state ancora indagate con metodo. Richiedono [...] che si capisca la natura e la funzione dello Stato e deldiritto.Anche qui la teoria ha prodotto ancora ben poco, a parte infinite ripetizioni di singole citazioni di Marx e uno sconfinato scolasticismo concettuale. Di più: una rappresmtazione dogmatica e totalmente adialettica dello Stato mette a repentaglio la prassi e la spinge verso catastrofiche strade false.
Infine per Hilferding, l’austromarxista emigrato in Germania, il problema stava nei termini da luiindicati nell’editoriale d’aper— tura della rivista «Die Gesellschaft»: dove parlava appunto della necessità di unanuova ‘dottrina funzionale dello Stato’ (vedi 10.3). Per quanto riguarda le teorie austromarxiste sullo Stato è in— valso di collocare Renner a destra perché in lui prevalevano istanze giuridico-formali, e Max Adler pronunciatamente a sinistra per i contenuti socio-economici ch’egli immise nelle categorie politiche. In realtà le cose sono assai più complesse. Le premesse della teoria di Renner risalgono al saggio del 1904 sulla funzione sociale degli istituti giuridici, dove egli sviluppò il concetto della correlazione storica tra diritto ed economia al punto di attribuire al diritto un’efficacia di causazione delle situazioni sociali pari a quella che è propria dell’economia. Durante la guerra si aggiunse poi la tesi che lo Stato, penetrando «fin dentro iltessuto cellulare dell’economia privata» [Renner 1917: 12], diventa Stato di tutta la comunità in virtù dei propri interventi giuridici; i quali alla fin fine avrebbero altresì prodotto il socialismo. Perciò Renner dichiarerà all’Assemblea provvisoria,I’ll novembre 1918, che anche in un assetto repubblicano «la vita normale dello Stato continuerà,icambiamenti politicinonsaranno determinati da eruzioni sodali che tutti noi sentiamo essere intollerabili in questo momento», e insomma l’ordine sarebbe stato mantenuto anche al prezzo di «bruschi contraccolpi sulla vita sodale» [in Blum 1985: 240]. Quei ‘contraccolpi’, che unanno dopo si ebbero dawero, furono dovuti precisamente a strumenti giuridici, quelli della legislazione sociale del primo governo repubblicano. Insomma: l’accento posto da Renner sugli strumenti giuspolitici non significava affatto che venissero trascurate le trasforma254
zioni sociali; così come Max Adler, pur ponendo l’accento sui contenuti socio-economici dello Stato, non ignorava affatto illato giuridico-formale. Alle strutture formali riservava anzi un’attenzione tale da dire che in generale «uno studio obiettivo sul significato au— tentico dei concetti attualmente controversi nel campo socialista dimostrerà forse come molte contraddizioni apparentemente insuperabili in realtà non esistano affatto» [M. Adler 1919/1970: 7]. Stabilire il ‘significato autentico’ dei concetti voleva dire determinarli storicamente, e così toglierli dal limbo delle genericità. Vo—
leva dire lavorare sul binomio contenuto-forma di un concetto; e a proposito delle astrazioni incentrate però l’attenzione sulla natura formalestorica della loro struttura e sulla loro funzione pre—
cipua, quella di rendere la conoscenza storicamente determinata. Perciò in sede di teoria politica Adler precisò anzitutto, riguardo al prohlerna della democrazia, che «nel sistema concettuale del marxismo questo concetto è sempre un concetto storico, per cui occorre sempre domandare: di quale democrazia propriamente si parla?» [M. Adler 1922/1979: 100]. E propose, poiché «la parola
democrazia indica un concetto polisenso», dichiarire, «una volta per tutte, che, quando si parla di democrazia all’interno di una so— cietà di classe, s’intende con ciò soltanto la democrazia politica [...]; e che, invece, quando si parla di democrazia all’interno di uno Stato non di classe, s’intende la democrazia sociale [...], che ancora non esiste, ma dev’essere conquistata» [ivi: 106]. La netta distinzione tra democrazia ‘politica’ (liberale, giuridico-formale) e futura democrazia ‘sociale’ (socialista, sostanziale) venne mobilitata da Adler contro Kelsen, sostenitore dell’apparato statuale (e del diritto) come una forma ‘tecnico-sociale’ suscettibile di qualunque contenuto, anche di essere lo strumento per eliminare lo sfruttamento sociale. Nell’autunno del ’18 Kelsenaveva confortato Renner nell’idea che il cambiamento istituzionale dovesse, all’inizio, venir limitato alla sfera strettamente giuridica. Se, dirà egli in seguito, si voleva chiamare ‘rivoluzione’ le vicende dell’ottobre-novembre, si sarebbe dovuto definirla una rivoluzio— ne puramente «giuridica» che rompe sila «continuità del diritto» [Kelsen 1919, I: 10], ma solo per quanto riguarda i contenuti: mentre non la rompe sul piano formale, perché larivoluzione sernplicemente dà forma giuridica a contenuti diversi dai precedenti. A un certo punto però neanche inAdler la cesura tra le due for— 255
me di democrazia appariva poi così rigida. Infatti, riconoscendo egli che nel momento di nascita della democrazia politica (com’era ilcaso nel novembre del ’18) la democrazia sociale appunto ‘ancora non esiste’, tutto il discorso veniva a vertere anche qui sullo strumento più idoneo a instaurarla. Adler escluse che in Austria potesse esserlo la ‘dittatura del proletariato’, perché dove la «maturazione rivoluzionaria delle masse» non è ancora avvenuta, dove cioè una buona metà della popolazione attiva, ossiaicontadini, ha ancora una paura folle del socialismo, «non si può sostituire la mancanza di maturità economica e politica aon la dittatura»: farlo, equivarrebbe anzi a «un abbandono totale del contenuto morale e culturale delsocialismo» [M.Adler 1919/1970:51-52]. Nonladittatura del proletariato parve ad Adler lo strumento adatto, bensì l’estensione e il potenziamento dei consigli operai peri quali chie— deva perciò un riconoscimento giuridico e una regolamentazione costituzionale. Ma quando a conclusione del suo pamphlet Democrazia e sistema consiliare inneggiava al «trasferimento di tutto il potere ai consigli operai» [M. Adler 1919/1970: 109], ciò saldava un perfetto circolo vizioso: perché mai quella metà di popolazione che aborriva il socialismo perché lo equiparava alla dittatura del proletariato, avrebbe dovuto simpatizzare con un governo dei consigli ch’essa scambiava per un’emanazione del sovietismo dittatoriale russo? E per quanto riguarda l’essenza politica della demo— crazia, cioè le regole della rappresentanza, sorgevano lemedesime difficoltà che l’ipotesi di un governo consiliare stava suscitando in Germania (vedi 10.3), tutte legate alla scarsa attitudine dei consigli a essere organi generali di governo data la loro rappresentatività dichiaratamente solo settoriale, di classe. Se però il punto in ultima analisi decisivo (e riconosciuto come tale anche dalla sinistra) era la maturazione economica e politica delle ‘masse’, laloroeducazione a una modernità sociale, allora circa la strada verso ilsodalismo nonerano da buttareneanche leidee di Renner,ilvituperato sodalista di destra. Egli auspicava, è ovvio, presenze socialiste nel governo; ve ne furono, in posti-chiave, in quello daluipresieduto nel’19.Ma soprattutto sosteneva che si dovessero costruire posizioni di egemonia radicate nella sodetà civile, articolate in un tessuto capillare di associazionismo democratico che da imprese economiche (owero banche gestite dai sindaca-
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ti, cooperative di consumo, cooperative edilizie) andasse sino a organizzazioni sportive e del tempo libero, culturali, ecc. Avrebbero costituito una sorta di‘contropotere’ sostanziale, una forza di pressione nei confronti sia dei centri economici del ca-
pedagogiche
pitalismo che delle istituzioni della democrazia politica formale. La legislazione sociale del 1918-20 diventò la più avanzata dei paesi capitalistici, andando dall’introduzione delle otto ore lavorative e da molti provvedimenti a tutela dei socialmente deboli sino alla creazione dei delegati d’azienda (iBetriebsrà'te) e delle ‘Camere dei lavoratori’ come organi rappresentativi istituzionali di operai e impiegati. V1 si aggiunse la costituzione di otto gemez'nwirtrcbafilùbeAnstalten (gwA) o ‘imprese a economia collettiva’, amministrate pariteticamente da Stato, consigli d’azienda e rappresentanti dei consumatori: che era precisamente la ricetta patrocinata per lasocializzazione da Bauer [1919],e in Germania sostanzialmente anche da Kautsky [ad es.1919 b]. Bauer [1923/ OBW, II: 719] le esaltò come «cellule germinali di economia collettiva [...] che, se riescono a sviluppare una sufficiente energia di crescita, possono gradualmente guadagnare spazio a spese dell’industria capitalistica e compenetrarla». La profezia non si avverò, ma per motivi politici. Economicamente le gwA ressero bene, fino a quando nel ’34 non le soppresse il governo clerico—fascista di Dollfuss. La realtà sociale creata da quella legislazione rendeva fattualmente astratto qualunque discorso sulla separazione drastica di democrazia politica e sociale. Dal ‘significato autentico dei concetti’ postulato da Adler e caratterizzato dalla storicità dei dati di fatto, emergeva che la democrazia politica aveva fornito strumenti alla democrazia sociale qui e ora. Attendersi la democrazia sodale soltanto come uno stadio che sarebbec0minciato in un qualche imprecisato futuro, significava negare aprioristicamente ai ri— sultati della (sia pur ancora parziale) legislazione sociale la possibilità di retroagire sul contesto socio-economico generale e sulla stessa democrazia politica. La difficoltà di capire l’osmosi tra democrazia politica e democrazia sociale o, pur se a tratti la si intuiva, di trarne però le conseguenze operative, accompagnò tanto levicende del socialismo austriaco quanto quelle della socialdemocrazia di Weimar. Ilconnotato di fondo del 1918-19 era stato anche in Austria che la demo257
crazia politiea aveva introdotto misure le quali contenevano elementi di socialismo pur essendo situate all’interno di un ordinamento capitalistico. Ne tenne conto in qualche modo Bauer, quando negli scritti dei primi anni Venti ripeteva che la rivoluzione politica, date certe condizioni, poteva essere qualcosa di istantaneo (comeilnovembredel ’18), mentre per ilgraduale compimento dei rivolgimenti socialisarebbero potuti occorrere interi decenni. Dalla tesi traspariva che nella realtà delle cose non esisteva cesura trai rivolgimenti politici e le conquiste sociali che a quelli sarebbero succedute. Di per sé non era una teoria nuova. A Weimar dicevano cose. simili Bernstein,i‘centristi’ Kautsky e Hilferding, giuristi
come Landauer, Heller e Radbruch, sindacalisti come Naphtali e Alfred Braunthal. La peculiarità austriaca fu che l’idea di un programma di democrazia sociale agganciato via via alle potenzialità della democrazia politica, onde dunque la democrazia politica esistente andava dapprima rigorosamente garantita e poi ampliata, diventò patrimonio teorico generalizzato del partito. Restarono esigua minoranza coloro che — come icomunisti, e per qualche aspetto Max Adler recriminavano perché la ‘rivoluzione austriaca’ non si era data subito uno statuto di rivoluzione socialista. D’altra parte,se si era persuasi dell’efficacia di una teoria la quale commisurava gli obiettivi di democrazia sodale alla tenuta e agli sviluppi della democrazia politica, si sarebbe trattato di elaborare su tale base l’intera gamma delle azioni politico-pratiche. Fu quello, alla fine, lo scoglio che anche il socialismo austriaco non riuscì a doppiare. Alle condizioni storiche del paese, oggettivamente cri— tiche, si aggiunse la mancanza di una sperimentazione duttile delle teorie, dunque soprattutto di una capacità di elastiche approssimazioni alle premesse e di (eventuali) veloci revisioni delle ipotesi. L’austromarxismo, si è visto, aveva elaborato criteri di metodo complessivamente giudiziosi. All’atto pratico non valsero a molto.
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11.4. Verso la tragedia del '34
L’elettorato socialista si manteneva dal ’19 in poi sostanzialmente stabile, favorito dalla bassa e perciò solida proporzione tra
i membri del partito e gli elettori (nel 1930 rispettivamente 700.000 e un milione e mezzo). Un altro indizio della solidità era 258
l’egemonia socialdemocratica tra i lavoratori sindacalizzati. Sembrò a portata di mano la meta profetizzata da Bauer [1924c/OBW, II. 960] nell’opuscolo La lotta per ilpotere: «tra pochi anni, come dimostrano inumeri, potremo raggiungere la maggioranza con la scheda elettorale e così conquistare il potere nella repubblica, il dominio sulla repubblica». Avvenne l’esatto contrario nel marzo del ’33: il cancelliere cristiano-sociale Dollfuss abolì le funzioni del.parlamento, governò con decreti legge, sciolse il partito comunista e diede inizio a quel che fu chiamato l"austrofascismo’. Nel febbraio del ’34 verranno sciolti l’SPÒ e gli altri partiti rimasti, sostituiti in maggio dal ‘Fron— te patriottico’, un movimento corporativo-totalitario di destra in sintonia con l’ideologia della Heimwebr Quest’ultima, una sorta di milizia locale di ‘difesa del focolare’ diffusa dagli anni Venti in tutto il paese, si proponeva di ripulire l’Austria dai ‘veleni dell'Internazionale marxista’, abolire ipartiti e instaurare una ‘comunità di popolo’ gerarchico—autoritaria. Nell’Europa centro-occidentale nessuno dei disegni socialisti del ’18 si era avverato. Erano falliti tutti, non importa se di ‘sinistra’, come l’esperimento ungherese e bavarese del ’19 e l’occupazione delle fabbriche in Italia nel ’20, o di ‘destra’ come fu la strada tentata in Germania dall’SPD, quella dell’ostinata moderazione, dei patteggiamenti e della disponibilità alle più svariate coalizioni. Bauer ne trasse motivo, dall’esilio in Cecoslovacchia, per una considerazione generale: «In Austria abbiamo tentato una via di mezzo tra due estremi, quello italo-ungherese e quello tedesco, e siamo stati ugualmente battuti. Le sconfitte della classe operaia han— no evidentemente un’origine più profonda che non la tattica dei partiti di questa classe, e più profonda, evidentemente, anche dei singoli errori tattici» [Bauer 1934/0BW, DI: 990]. Bauer non andò oltre questa constatazione, la quale peraltro sintetizza bene l’intero dilemma della fattibilità del socialismoin Occidente. In quello stesso scritto disse anche che il principale et-;g rore dell’SPò sarebbe stato di non aver risposto al colpo di S ,7 del ’33 con una mobilitazione generale e lo sciopero di massa.-"=. . ' così, precisamente, fece di nuovo regredire tutto il discorso ., " tribe di tattica. . ' La questione di fondo era benaltra. Quei tre disegni .- '_ versi ma ugualmente falliti, avevano avuto un obiettivo «': "
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era sempre trattato di conquistare il «dominio sulla repubblica», sia pure «con la scheda elettorale» come diceva Bauer nel ’24. Peraltro ognuno dei progetti richiedeva la creazione di ampi consensi; e ciò non già per la pura e semplice instaurazione del potere che poteva esser facilitata da circostanze fortuite, quanto invece per farlo durare. E doveva durare a lungo, visto che secondo la più accreditata tra le ipotesi ci sarebbero voluti decenni per trasformare l’avvenuta rivoluzione politica in rivoluzione sociale. Ma quale ampiezza di consensi si sarebbe mai potuta creare intorno a una concezione del potere come ‘dominio su’ qualche cosa, come politica esercitata contro un’altra parte, sia pure (si pensava) alla fin fine minoritaria? Agli occhi dell’opinione pubblica la concezione del potere come contrapposizione frontale sembrava trasparire da ogni atto della politica socialdemocratica, a cominciare dalla creazione, nel ’23, del Repubb'kanircber Schutzbund 0 ‘Lega repubblicana di difesa’, una milizia armata del partito per controbilanciare il peso di un esercito e di una gendarmeria e polizia sempre più permeabili alle idee di destra della Heimwebr A ragione o a torto l’impressione di una politica del dominio veniva indotta pure dal caso di Vienna, da sempre città a fortissima concentrazione operaia e dove adesso un adulto su cinque era membro del partito sodaldemocratico e il 75% della gente aveva votato per isocialisti alle elezioni comunali del ’23. Un grandioso programma di urbanistica popolare, una fitta rete di servizi di quartiere di ogni genere, e un’efficace legge per la protezione degli inquilini fecero sì che da: rote Wien, ‘la Vienna rossa’, acquistasse fama internazionale come modello di un socialismo realizzato. Agli occhi dei contadini e della gente delle vallate alpine Vienna rappresentava invece la sentina di tutti ipeccati di questa terra: e del resto, si poteva forse dubitarne se anche monsignor Sei-
pel, leader dei cristiano-sociali, predicava chei socialdemocratici
erano sicuramente ‘nemici di Gesù Cristo’?
Secondo i socialdetnocratici il modello-Vienna si sarebbe doestendere a tutto il paese. Fallita nel ’19 la realizzazione del socialismo mediante l’annessione alla Germania, l’unica alternativa parve quella di annettere, per così dire, l’Austria retrograda alla sua progredita capitale socialista. L’opzione instaurò una frattura insanabile tra i centri urbani di egemonia socialdemocratica, Vienna in primo luogo, e la provincia profondamente influenzata
vuto
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dai cristiano-sodali. Era tragica illusione pensare che il modello viennese, a generalizzarlo e imporlo, avrebbe prodotto consensi. L’idea di un dominio come dominio di classe e perdò di contrapposizione frontale degli schieramenti, era sottesa anche alla decisione dell’SPò, già nel ’20, di non partecipare più a nessuna coalizione di governo se non, come nel 1918-19, da posizioni di fortissima maggioranza nel paese. Eppure non si erano avuti esin' politid nemmeno allora. Certo v’era stata la bella legislazione sodale, ma trasformazioni di struttura, come la socializzazione dell’industria pesante, non erano riuscite né qui né in Germania. Di nessun plusprodotto così Bauer al congresso deH’SAPDÒ del ’19 ci si può appropriare con la sodalizzazione se il plusprodotto non esiste: «Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è di incrementare la produzione affinché, intanto, un plusprodotto venga a esistenza. Con la mera appropriazione non si combina oggi un bel niente» [Bauer 1919 b/OBW, V 175].
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E quali crediti finanziari, di necessità vitale, l’Intesa avrebbe mai concesso a paesi dove vi fossero state espropriazioni delle imprese e socializzazioni? Bauer ammise ilfallimento in una sua conferenza dell’agosto 1920:
Non potevamo fare le socializzazioni perché non potevamo rompere il legame con l’estero [...]. La nostra bilanda commerciale era passiva, ci mancava la valuta estera per procurarci pane e carbone [...]. Azioni austriache venivano costantemente acquistate da capitalisti stranieri. Se ciò non fosse accaduto, oggi nessuno di noi vivrebbe [...]. Abbiamo dovuto lasdare che le nostre fabbriche passassero nelle mani di capitalisti stra-
nieri. [in Euchner 1985: 39]
Ma allora la carenza di fondo, insieme tattica e strategica, non fu forse di aver lavorato con opzioni di cui si poteva già sospettare, e in parte addirittura era chiarissimo, che non avrebbero funzionato? Ci si batté per la socializzazione sapendo di non poterla fare, cisi batté per un’estensione del modello-Vienna sapendo che la provinda era contraria. Si mirò in sostanza a sovracaricare di elementi e connotati socialisti una sodetà civile che, a parte qualche centro urbano, nel suo complesso e a causa della storia, tradizione e natura sodale delle sue componenti, non poteva reggere quel carico perché lo sentiva estraneo. Il rifiuto, infine, di partecipare a governi di coalizione mise a 261
nudo l’eclatante contraddizione tra quel che gli austromarxisti dicevano nella teoria, ovvero che la rivoluzione sodale, proprio perché processo molto lungo e graduale, non la si sarebbe potuta fare assolutamente da soli, e quel che il partito faceva poi nella prassi quando si attestava, come se nullanel frattempo fosse cambiato, sul vecchio assioma dell’assoluta non-collaborazione con i ‘nemici di classe’ Non è privo di senso chiedersi se una disponibilità a coalizioni avrebbe evitato alla socialdemocrazia la disfatta del ’34 e all’Austria la fine della democrazia. Nel clima di schieramenti muro contro muro creatosi dopo il 1920, poteva bastare una qualsiasi scintilla a propagare incendi: nel luglio del ’27, a Vienna, una dimostrazione della sinistra degenerò nel ‘venerdì di sangue’ che costò ottantanove morti e quasi un migliaio di feriti, una strage per la quale si potevano trovare dei precedenti soltanto nel 1848. Il rafforzamento delle destre che ne seguì, indusse financo Seipel a prospettare, nel ’31, l’idea di un governo di ‘concentrazione na— zionale’ a partecipazione socialdemocratica. L’SPÒ rifiutò, né ebbero eco le posizioni di chi al congresso del partito nel novembre 1931considerò un simile governo — come ad es. Ellenbogen [1981: 31] «lo strumento più forte ed efficace per minare le radici del fascismo». Il partito si autoescluse così per gli anni a venire dalla possibilità di influire in positivo sulla politica del paese. Vennero adesso al pettine le conseguenze di quel che si era omesso di fare nel 1918-20: ovvero di chiarirein primo luogo che, proprio per la lunghezza dei tempi necessari alla preparazione del sodalismo, occorreva che un sistema delle regole democratiche e un esercito fedele alla democrazia venissero costruiti per se stessi, non come strumenti della lotta della classe lavoratrice contro le al— tre classi. La costruzione di luoghi (Vienna) e organizzazioni (lo Scbutzbund) concepiti essenzialmente come contropoteri finì per indebolire anziché rafforzare la prospettiva sodalista. Quanto più il compito di fare la futura rivoluzione veniva delegato a strumenti particolari, tanto più passava in secondo piano la necessità del consenso generale; e gli stessi strumenti particolari, non sorretti dal consenso, perdevano efficada in proporzione. Riguardo allo Scbutzbund puntualizzò la cosa il generale sodaldemocratico Theodor Kòmer, uno dei costruttori della Volkswebr del ’18. Nei Principi sull’uso della violenza e sulla guerra civile, un memoriale indirizzato dopo il luglio del ’27 alla direzione
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del partito, egli rilevò, in consonanza con l’Engels del 1895 (vedi 7.2), che nessun popolo in armi può realmente vincere contro l’esercito in scontri frontali; e perciò andava certamente esclusa la trasformazione dello Schutzbund in una sorta di esercito parallelo: Un addestramento di esso al combattimento regolare non è cosa attuabile [...]. Occorre invece risvegliare, conglobare e organizzare tutte le energie che sono latenti nelle masse, analizzare ogni possibile scenario e su esso esercitarsi, al fine di acquisire autonomia, autoconsapevolezza, capacità d’iniziativa, e dunque sicurezza in situazioni di guerra civile e di combattimento. [in Leser 1968: 487]
Ma era un’impostazione che, semmai, avrebbe potuto funzionare a una sola condizione: ove cioè sin dall’immediato dopoguerrale ‘energie delle masse’ fossero state anzitutto mobilitare a totale presidio del sistema democratico in primissimo luogo, e per ilsocialismo solo dopo. Solamente se disponeva di un tale retroterra ideologico l’SPO avrebbe potuto nel marzo del tutelare ilparlamento con tutti imezzi, compreso lo Sabutzbund che avrebbe cosi dato prova della sua ragione istituzionale, di arma della legalità repubblicana contro colpi di Stato. A Ernst Fischer, su posizioni di sinistra nel partito, parve retrospettivamente che «nel marzo del ’33 la violenza sarebbe stata non soltanto giustificata ma indispen-
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sabile, esistendo un’altissima probabilità che lo sciopero generale e l’insurrezione armata avrebbero risparmiato all’Austria la ditta— tura di una minoranza ottusa e violenta» [E. Fischer 1966z‘284]. È da aggiungere che se la difesa della democrazia fosse fallita, il partito avrebbe almen'o dimostrato con ifatti di essere il paladino dei diritti di tutti, non di una parte. Ma perché questo scenario s’instaurasse, avrebbe dovuto essere diverso l’atteggiamento verso lo Stato repubblicano e verso l’intero problema del ‘dominio’ Un anno dopo, il 12 febbraio del ’34, lo Schutzbund (nel frattempo messo fuori legge) diventò a Linz, Vienna, Graz e Steyr l’anima dell’insurrezione operaia contro ilregime di Dollfuss. Le possibilità di vittoria erano inesistenti già in partenza. Agli occhi dell'opinione pubblica non socialista fu semplicemente la condannabile rivolta di una formazione militare di partito ormai dichiarata illegale. Né la classe operaia squassata dalla grande crisi economica era in condizione di sostenere icombattenti con scioperi generali, che d’altronde la tattica puramente militare dello Scbubeund 263
non prevedeva nemmeno. Una settimana di violentissimi scontri con esercito e polizia bastò a confermare ilteorema di Kòmer sull’insostenibilità di insurrezioni proletarie di tipo militare. Le vittime dei combattimenti casa per casa nei quartieri operai e delle re-
pressioni furono centinaia. Idirigenti che riuscirono a riparare in Cecoslovacchia costruirono assai presto una mitologia delle giornate di febbraio, incentrata sull’emismo dei combattenti e sulla salvezza dell’onore del partito. Lo fecero per ragioni del tutto comprensibili, dovendo in primo luogo rintuzzare le accuse della pubblicistica terzinternazionalista, le quali imputavano la sconfitta alla politica riformistica dell’SPò, ditradimento della classe operaia. Mentre secondo un bilancio tracciato nel ’36 da Bauer il partito austriaco avrebbe invece lasciato l’ottima eredità di un vero ‘socialismo integrale' perché «al riformismo socialista noi abbiamo consegnato la grande impresa della Vienna rosa, al socialismo rivoluzionario l’azione eroica dell’insurrezione di febbraio» [Bauer 1936/0BW, IV‘ 326]. Con il tentativo di resistenza armata al fascismo isocialisti austriaci acquistarono una statura morale maggiore che non i loro compagni tedeschi. Il che però non cambia la realtà delle cose: quella cioè che ifatti della storia hanno sequenze spesso prevedibili, le quali non concedono sconti a carenze e omissioni. Il febbraio del”34 rappresentò iltermine di una strada senza uscita non per eccesso di riformismo, ma per riformismo concepito male e speso male, privo del colpo d’ala che lo innalzasse a sinonimo della ‘rivoluzione’ in tempi moderni.Irisultatinudi e crudi furono un partito socialista dissolto,icui membri ripararono nell’esilio o nel— la clandestinità; e nel maggio del ’34 una nuova Costituzione il cui preambolo recitava che «nel nome di Dio onnipotente, fonte della giustizia e della legge, il popolo austriaco riceve questa Costituzione di uno Stato che è cristiano, germanico, federale e a base corporativa». Era, con lessico da Santa Alleanza, una sintesi di fascismo italiano e passatismo cattolico austriaco. 115. Una ‘una via’ al roa'ah'smo?
Secondo il Bauer del ’36 lasocialdemocrazia austriaca avrebbe dunque conciliato ‘riformismo socialista’ e ‘socialismo rivoluzio264
nario“ ovvero i due estremi su cui si erano collocati nel dopoguerra rispettivamente l’Internazionale socialista (il cui processo di ricostituzione era cominciato con una conferenza a Berna nel febbraio 1919) e l’Internazionale comunista (o Terza Internazionale) fondata a Mosca nel marzo dello stesso anno. Gli austriaci (con Bauer e FriedrichAdler soprattutto) furono poi tra ipromotori a Vienna, nel febbraio del ’21, di una conferenza dei partiti socialisti ditredici paesi la quale voleva porsicome un ‘centro marxi— sta’ tra idue estremi, animato da uno spirito rivoluzionario si,ma commisurato alle condizioni concrete di ogni singolo paese. Dalla conferenza uscì una Dichiarazione sui metodi e l’organizzazione della lotta diclasse dove si diceva che nessuno schema on-
nivalido poteva venir prescritto alle forme della lotta di classe. Esse, al contrario,
dipendono dal momento storico [...], dalle particolari condizioni economiche, sodali e culturali del paese, dai rapporti di forza tra le classi e dalle relazioni internazionali con gli altri paesi; negli Stati industrializzati sono diverse che negli Stati agrari, e negli Stati vincitori che dominano il mondo sono diverse che nei paesi da asi assoggettati e sfruttati. [in ]. Braunthal 1961/1974,Il:253-54]
Non contò nulla che queste tesi fossero di ineccepibile ragionevolezza teorica. Coperta di contumelie dai terzinternazionalisti che con Radek [1921] la ridicolizzarono come ‘Internazionale due e mezzo’, l’Internazionale viennese durò appena due anni. Fu, come ebbe a dire Cole [1958/1976: 380-81], «troppo sensata» in un’epoca in cui la classe lavoratrice «in genere voleva udire non il buon senso, bensì un appello alle sue simpatie emotive». La ‘Due e mezzo’ confluì nell’Internazionale socialista dei lavoratori, quel— la ‘riformista’, non appena questa venne definitivamente fondata nel maggio del ’23 ad Amburgo. Resterebbe da chiedersi quale funzionalità reale abbiano avuto quelle Internazionali. La vecchia Seconda Internazionale aveva giocato sino al 1914 un ruolo indubbiamente importante. A ben vedere, però, più per il prestigio ch’essa diede al movimento operaio e l’impressione che fece sull’avversario di classe. Ilpeso effettivo ipartiti socialisti l’avevano sempre avuto indipendentemente dall’Internazionale, cioè se sapevano costruirselo nelle varie realtà nazionali. Ciò fu vero a maggior ragione dopo il ’18, con la diver-
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sità delle situazioni nazionali ingigantita dagli esiti della guerra Sicché nelle vicende dei partiti aggregati alla rifondata Internazio nale socialista valse la semplice regola che si svilupparono meglic quelli che seppero svolgere la propria azione con maggiore aderenza alle condizioni del loro paese. Ipartiti dell’Internazionalr comunista, di contro, si trovammo inceppati dal dover applicare direttive indicate da un centro e imposte come tassative. Iltentativo di Bauer di costruire un ponte tra le due concezioni del socialismo va visto sullo sfondo dello scontro ideologico frontale tra le due Internazionali, il quale, si sa, recò sciagura non solo a entrambe le parti, ma alle sorti della democrazia in tutta l’Europa centrale. Perché il tentativo riuscisse sarebbe stato necessario superare almeno tre schemi di vecchia visione dicotomi— ca: ovvero che potessero esservi nella sodetà civile soltanto due blocchifrontalmente contrapposti (conisocialisti fronteggiati dalla famosa ‘unica massa reazionaria’), chei ceti medi appartenessero organicamente alla ‘massa reazionaria’, e che lo Stato fosse qualcosa su cui, dopo essersene ‘impossessati’, si dovesse esercitare il
‘dominio’
]] punto più cruciale in assoluto si rivelò anche nel dopoguerra il rapporto con iceti medi. Demonizzarli come un serbatoio di vo-
ti reazionari significava precludersi qualsiasi politica di conquista del loro consenso. Che in Germaniaipartiti socialisti non si fossero adoperati a ogni costo, dopo il 1918,a guadagnareiconsensi del— la borghesia progressista e l’appoggio del ceto medio impoverito venne giudicato dal filosofo comunista eterodosso Ernst Bloch [1935: 68] l’errore tattico più grave, dal quale dipesero in buona parte le possibilita stesse di ascesa del nazismo. InAustria si trattava principalmente dei piccoli e medi contadini, tradizionalmente conservatori e cattolici, che durante idecisivi primi anni della ‘tivolum'one’ rimasero consegnati all’influenza esclusiva dell’ideolo— gia delle Heimwebren e del partito cristiano-sociale di Seipel. Inseguito sarà sempre quest’eredità del disinteresse verso ilceto medio a ripercuotersi negativamente anche sulle analisi socialiste del fascismo. Tranne qualche intuizione di Ellenbogen [1932] sul ca— rattere rotalmente eclettico dell’ideologia fascista, o di‘ Bauer [1936/0BW, IV: 137-50] sui processi sodali che generarono il fascismo, mancò una comprensione complessiva di esso come fenomeno di massa imperniato sui ceti medi piccolo-borghesi e rurali.
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Una correzione di rotta sui ceti medi e sulla dottrina dei blocchi contrapposti venne tentata nel 1925-26. Il congresso di Vienna del ’25 affrontò finalmente la questione contadina, deliberando un notevole programma agrario che Bauer illustrò ai delegati sostanzialmente attingendo al suo libro La lotta per il bosco e ilpascolo [1925], frutto dei suoi studi di storia e politica agrarie. Te— nendo adesso conto della mentalità individualistiea contadina, il congresso respinse ogni idea di togliere o intaccare la proprietà privata fondiaria. Ma i ritardi storici si scontano sempre. Da un programma del genere sarebbero probabilmente venuti buoni esiti se fosse stato concepito quando isocialisti stavano ancora al governo. Avrebbe forse potuto, allora, fugare sospetti e paure. Nel ’25 l’effetto fu nullo, nonostante la vivace propaganda in cui s’impegnò il partito.
Il nuovo programma generale dell’SPO elaborato al congresso di Linz del ’26, presentò poi, finalmente, un abbozzo di teoria della democrazia, nato anch’esso abbondantemente in ritardo sulla prassi effettiva del partito. Renner osservò che «a noi socialdemocratici austriaci è capitato un grosso infortunio. Abbiamo infatti conquistato un belpo' di democrazia, senza però saper bene di che cosa si trattasse. Di essa abbiamo conquistato tutto,fiaorcbé ilconcetto» [C-Linz 1926: 295].
Era la pura verità. Mai la socialdemocrazia austriaca aveva fornito una definizione teorica della via democratica; e solo ora, con il congresso di Linz, fu avvertita la necessità di riprendere sul movimento operaio e la legalità democratica un discorso che sostanzialmente era stato cominciato trent’anni primada Engels (vedi 72). Conquista ed esercizio del potere politico sarebbero avvenuti, diceva il programma, «nelle forme della democrazia e con tutte le garanzie della democrazia» [Linz 1926: 1024]. L’uso della violenza sarebbe rimasto limitato a un unico caso, esclusivamente difensivo. In una situazione di ‘equilibrio tra le forze di classe’ - come l’avevano descritta]. Braunthal [1922] e Bauer, cioè caratterizzata dal fatto che «né il partito operaio néipartiti borghesi possono da soli governare lo Stato con forme parlamentari» [Bauer 1924 a/OBW, DC 66] - la borghesia «avrà la tentazione di rovesciare la repubblica democratica, di instaurare una dittatura monarchica o fascista non appena ilsuffragio universale minaccerà di affidare lo Stato alla classe lavoratrice o glielo avrà affidato dawero» [Linz 267
1926: 1023]. Solamente in questo caso «la classe lavoratrice sarà costretta a vincere la reazione della borghesia conimezzi della dit— tatura» [ivi: 1024].
Era la trasvalutazione in senso socialista di quel diritto di resi-
stenza che agli albori rivoluzionaridella propria storia la borghesia stessa aveva postulato; e, come allora, lo si prendeva in consi-
derazione soltanto come l’estremo dei rimedi, quando ogni insie—
me dinormali regole politico-civili fosse fallito. Perciò Bauer, con-
tro
chi vedeva nella riaffermazione della via democratica pacifica
«una questione esclusivamente di tattica» (come diceva Max Adler per la sinistra [C-Linz 1926: 290]), allargò il tuna, nei suoi interventi al congresso, a un assunto democratico di principio che poneva stretti vincoli alla politica del partito: «Noi non vogliamo instaurare un dominio violento sugli altri, perché siamo consape-
voli che il mantenimento delle piene libertà democratiche salvaguarda inprimo luogo ilproletariato stesso dal pericolo che un dominio esercitato in suo nome diventi un dominio sul proletariato» [Bauer 1926/0BW7, V' 413]. Si sapeva benissimo a che cosa Bauer alludesse. Aver trasformato il dominio del proletariato nel dominio di un partito sul proletariato era una delle accuse che la socialdemocrazia rivolge— va da tempo al bolscevismo. Sicché da quella formulazione traspariva altrettanto che, seppure l’austromarxismo dichiarasse la propria equidistanza tra sodalismo rivoluzionario (o bolscevismo) e riformismo sodalista, era senz’altro palese la sua vicinanza a quest’ultimo. Nell’articolo Austromarletmo del ’27, Bauer definì poi austromarxista l’intero programma di Linz, sussumendo dunque sotto l’austromarxismo anche la grande aspettativa strategica che aveva mimare quel congresso: owero che, come egli aveva detto ai de— legati, la «conquista del potere politico» sarebbe stata «non più un sogno per tempi lontani, bensì il compito storico di questa attuale generazione della classe operaia» [C-Linz 1926:401]. Ilritorno alle vecchie ottiche della meta ravvicinata e da toccare con mano spiazzò naturalmente, in proporzione, l’idea (diben altro spessore storico) della gradualità. Non solo, ma ravvivò pure l’altrettanto funesta idea che la ‘conquista’ del potere venisse decisa in un unico grande momento finale, insomma puntando tutto su un’unica carta: con buona pace, dunque, di quella metafora sul ‘lavo268
ro minuto’ delle ‘ere geologiche’ (vedi 11.1) che aveva pur sinterizzato riflessioni notevolissime dell’austromarxismo. In quell’attica l’eventualità di dover salvare la democrazia con la violenza rischiava di venir trasvalutata in positivo, cioè come un evento da cui sarebbe prodigiosamente sorto addirittura l’assetto politico so— cialista. La «storia mondiale», disse Bauer al congresso, «può metterci in una situazione dove contro il nostro desiderio siamo costretti alla violenza, dove non abbiamo altra scelta che tra sottomissione al totale servaggio e la vittoria anche con mezzi extrademocratici» [C-Linz 1926: 313]. Qui la «vittoria» non era però il semplice ristabilimento delle regole democratiche. Era la vittoria non già sulla borghesia golpista, bensì sulla borghesia tout court. Cacciata dalla porta grazie al la dottrina delle trasformazioni sociali graduali, la concezione dei blocchi contrapposti rientrò dalla finestra non appena al concetto della violenza difensiva si accompagnò l’idea che quella violenza potesse (o dovesse) essere anche la prima tappa (offensiva) del potere socialista.
L’isolamento dall’opinione pubblica che ciò costò agli insorti socialisti del ’34 si è già visto. Ma anche dopo, con ilnazismo consolidato a Berlino e l’austrofascismo a Vienna, si continuò ostinatamente a dire che l’abbattimento di quelle dittature sarebbe coinciso con la rivoluzione socialista. Nel suo libro Tra due guerre mortdiali? del ’36 Bauer pensava che le ‘masse’ avrebbero senz’altro approfittato della prossima guerra mondiale per far crollare sì il nazismo, ma anche,insieme, per ‘abbattere il capitalismò’ A parte l’arcaicità, simile alle fantasie che la sinistra radicale coltivava nel 1917-18, la previsione non poteva certamente piacere agli antifa— scisti non socialisfl', e dunque non facilitava affatto il costituirsi di un fronte comune contro il nazismo. Era peraltro un’idea generalmente diffusa anche tra socialisti di sinistra e comunisti di altri paesi. Gramsci ad esempio, osservando in una relazione dell’ll agosto 1926 al comitato centrale del PCd’I che il «passaggio dal fascismo alla dittatura del proletariato» forse non sarebbe stato «immediato» ma preceduto da un qualche «governo di coalizione», appunto perciò invitava a predisporre però «il maggior possibile numero di condizioni favorevoli» affinché quell’«intermazo democratico» fosse comunque brevissimo [Gramsci 1926/1972, I. 684-85]. Quale larga unità antifascista si poteva mai costruire 269
se per il dopo-fascismo veniva prospettato un assetto democratico-parlamentare soltanto per sopprimerlo ilpiù rapidamente pos-
sibile? Per quanto riguarda l’austromarxismo, emerge che in definitiva neanch’esso aveva dunque saputo risolvere il problema del rapporto con le istituzioni liberal-democratiche. Rimase fuori dell’orizzonte teorico il riconoscimento del loro valore non tanto assiologico e morale, quanto anzitutto tecnico-funzionale, il loro reggersi su norme utili non a questo o quel settore e gruppo sociale particolare, ma alla generalità dei settori e gruppi della sodetà civile. Salvo rare eccezioni, vi fu una singolare incapacità (analoga d’altronde a quella dei socialdemocratici di Weimar) di far emergere dai meccanismi istituzionali liberal-democratici le loro potenzialità di strumenti per la trasformazione sociale. 0 meglio: prevalse la tendenza a sfruttare le possibilità parlamentari in negativo, ad es. come strumenti per bloccare leggi con un ricorso sistematico all’ostruzionismo, piuttosto che in positivo, per promuovere leggi migliori. D’altra parte la scelta di una prassi parlamentare propositiva avrebbe realmente potuto esplicarsi solo in collegamento con una generale disponibilità a eventuali coalizioni di governo: la quale, si sa, era cessata bruscamente dopo il 1920. L’austromarxista Ellenbogen, che alla prassi parlamentare pro— positiva dedicò invece grande attenzione e costituì dunque una delle poche eccezioni di cui si diceva, riconobbe retrospettivamente che adoperando l’aula parlamentare quasi esclusivamente come luogo di ostruzionismo «abbiamo noistessi minato presso il popolo l’autorità del parlamento e il senso della democrazia parlamentare» [Ellenbogen 1980: 1100]. Un’altra eccezione era stata Renner, che da sempre aveva insistito sul valore delle regole parlamentari, sottolineando come in democrazia ogni maggioranza si regga su un compromesso con la minoranza, alla quale però la maggioranza deve rendere il compromesso almeno passivamente accettabile [Renner 1901]. Su questa linea di concepire il parlamento come una sorta di camera di compensazione delle tensioni sociali si erano collocati anche Bernstein nel saggio del 1906 sulla politica fiscale del Reich (vedi8.1) e Hilferdingnel suo articolo del 1922 sugli inattesi nuovi ‘cambiamenti della politica’ (vedi 10.3). In entrambi c’era il monito a considerare che la minoranza parlamentare doveva costantemente lavorare come una potenziale for270
za di governo, una potenziale maggioranza, e dunque con programmi e comportamenti a ciò adeguati. Kelsen, nel quale non mancavano consonanze con il versante renneriano dell’austromarxismo, descrisse poi nel ’25 con molta nettezza ilmodo in cuiirapporti di forza sociali si rispecchiano nel parlamento, e quindi gli aspetti di primaria funzione sociale che quest’istituto politico viene ad assumere:
Se cerchiamo un’espressione dei rapporti di forza sociali effettivi, allora la ‘vera’ manifestazione dell’attuale sodetà scissa sostanzialmente in due classi è precisamente la forma democratico-parlamentare dello Stato con il suo principio di maggioranza-minoranza che costituisce essenzial— mente un binomio. E se c’è una forma grazie alla quale quest’immane contrasto - di cui ci si può lamentare, ma che non si può seriamente negare — può venir superato senza percorrere la strada rivoluzionaria sanguinosa, ma conciliandolo in modo pacifico e graduale, questa è per l’ap— punto la democrazia parlamentare. [Kelsen 1925: 27]
Nell’Austria così ricca di confusioni ideologiche, e a fronte di un movimento socialista così incapace di attuare nella prassi quella costruzione globale del consenso che i socialisti pur ritenevano indispensabile, l’impostazione di Kelsen aveva il merito della
chiarezza. Le cose insomma erano due ed essenziali. Anzitutto icontrasti di classe della società moderna andavano constatati senza remore, il connotato classista di essa essendo nient’altro che un dato di fatto. In secondo luogo, se non si poteva seguire la strada delle rivoluzioni di vecchio modello (la cui praticabilità gli stessi socialisti escludevano), bisognava optare compiutamente per il parlamentarismo, cioè vederlo come uno strumento valido anche per le tra— sformazioni sociali. Un discorso consequenziale avrebbe dovuto spingere precisamente verso una valorizzazione della democrazia in quel senso, soprattutto perché erano ben presenti nell’austromarxismo le premesse teoriche della gradualità e del consenso; e queste avrebbero avuto la migliore delle appIiCazioni se ci si fosse decisi a valutare le potenzialità sociali della democrazia parlameni tare non in astratto, bensì in dettaglio, come uno sfaccettato struf mentario tecnico-pratico. Sarebbe stata un’esplorazione di terre vergini, ma con alle spalle un laboratorio di categorie messe in tiere dall’austromarxismo proprio in vista di tale esplorazione di11. 1) “in
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La ‘terza via' tra il rivoluzionarismo di vecchia maniera e un riformismo senza strategie non avrebbe in tal caso avuto gli esiti che ebbe: ovvero non sarebbe diventata, come fu, un’operazione eclettica che attingeva un po’ all’uno e un po' all’altro. Avrebbe potuto essere un’opzione avvincente per approdare, esplicitamente, a un parlamentarismo coniugato con la solidarietà sociale; ma coniugato in modo pratico-tecnico, e soprattutto in maniera appetibile, cioè collegando ogni argomentazione a interessi popolari concreti, sia immediatiche più lontani. Tanto inAustria quanto in Germania quest’approdo restò irraggiungibile ai socialisti tra le due guerre, come lo era stato periloro compagni della generazione precedente.
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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 1996 Poligrafico Dehoniano - Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-5034-X ISBN 88-420-5034-2
PREFAZIONE
Perché occuparsi della socialdemocrazia di area tedesca dallo scorcio dell’Ottocento sino alla finis Austria: del 1933-38? Vi sono tre ordini di motivi.
—
1. L’implosione dei sistemi socio-politici dell’Europa orientale precipitosamente etichettati come ‘socialismo realizzato’ ha riproposto, di riflesso,ilquesito sulle prospettive del socialismo in Occidente, in aree di capitalismo avanzato. Era stato il problema per eccellenza della Seconda Intemazionale, all’epoca in cui ilcapitalismo stava assumendo connotati tendenzialmente affini a quelli odierni. Sino al 1914 il modello teorico di socialismo in Occidente che circolò nell’Internazionale coincideva largamente con quello immaginato dai camarades d’Allemagne Ciò che di teoria socialista si scriveva tra Otto e Novecento sulle riviste socialiste francesi e italiane non differiva da quel che si leggeva nella pubblicistica socialdemocratica tedesca, se non per il fatto che in quest’ultima, di regola, lo si trovava detto prima e meglio. Fuori dell’area tedesca la teoria era poco di casa. L’unica eccezione fu Antonio Labriola, in Italia. La sua opera di marxista riguardò però, essenzialmente, soltanto la concezione materialistica della storia, alla quale peraltroisuoi saggi del 189597 recarono apporti assai più stimolanti e originali di quelli di al— tri coevi teorici del marxismo. Circa le prospettive concrete del movimento operaio in epoca di capitalismo sviluppato isuoi scritti contengono invece solo cenni episodici, sebbene interessanti se li si collega ai dibattiti che nella socialdemocrazia soprattutto te-
tanto
V
desca vi furono, tra Otto e Novecento, sul revisionismo bemsteiniano e sulla questione coloniale. Nel socialismo italiano di prima del 1914 mancò un disegno complessivo (paragonabile a quello pur pieno dilirniti tentato dalla socialdemocrazia tedesca) che indicasse attendibili possibilità di azione dentro un assetto socio-politico di capitalismo moderno. Né le cose andarono meglio durante e dopo la grande guerra. L’idea di contribuire in positivo a una democratizzazione capillare della società, di operare per una legislazione progressista e di utilizzare il parlamento per ampie riforme sociali restò fuori dell'orizzonte della teoria: la quale dunque — a differenza di quanto era accaduto almeno tra alcuni teorici ‘centristi’ nell’SPD e tra gli austromarxisti — non colse levalenze rivoluzionarie che un coerente riformismo socialistamoderno potevaavere. Conilcongresso di Bolognadel 1919 il PSI si dichiarò per il rivoluzionarismo di vecchio tipo, della lotta violenta, che nell’SPD d’anteguerra era stato sostenuto soltanto dal radicalismodi sinistra minoritario,e dopo il’17 soltantoda una parte dell’USPD e dagli spartachisti e comunisti entusiasti della rivoluzione sovietica. Agli istituti giuspolitici esistenti («Stato, comuni, amministrazioni pubbliche»), definiti meri «strumenti di oppressione e disfruttamento deldominio borghese»,iqualidunque «non possono in alcun modo esser trasformati in strumenti di liberazione del proletariato», il programma di Bologna contrapponeva «nuoviorgani proletari (consigli di operai e contadini, consigli dell’economia popolare ecc.)» come «strumenti della violenta lotta di liberazione» che sarebbe dovuta sfociare nella«dittaturadi tutto il proletariato». Il partito restò immobilizzato dal dissidio tra rifor— misti incapaci di un riformismo serio e chi voleva invece in Occidente una rivoluzione dimodello sovietico. La visione veterorivoluzionaria prevaleva pure negli scritti del 1917-20 di Gramsci, nonché nel gruppo dirigente del PCd’I dopo il 1921. L’ann'parlamentarismo che la sostanziava finì per ripercuotersi negativamente sulla capacità di resistenza al fascismo negli anni 1922-26. Le riflessioni teoriche nuove di Gramsci sul legame tra elementi democratici e socialisti nella storia nazionale, e sulla rivoluzione come qualcosa di molto diverso da una ‘conqui— sta del potere’, appartengono ai quaderni scritti dal 1929 in carcere. Ma queste elaborazioni, comparabili a talune dell’austromandsmo e collegabili anche alle tesi deltardo Engels sulla “rivoluzione VI
di maggioranza’, giocarono nella sinistra italiana un ruolo politico e culturale soltanto quando diventarono note, cioè dopo il 1945. Sicché le vicende del socialismo italiano dall’Ottocento agli anni dopo la grande guerra confermano anch’esse che per trovare elaborazioni teoriche sul socialismo nell’epoca del tardocapitalismo, e indicazioni corrispondenti per la prassi, occorre ancora far capo ai partiti socialdemocratici tedesco e austriaco di allora. 2. Eppure, si sa, quei partiti non arrivarono mai alla meta sodalista, neanche quando in Germania e Austria, tra il ’18 e il ’19, si tro« varono a governare. Però vi giunse altrettanto poco anche chi muoveva loro l’accusa di aver tradito il socialismo: i comunisti e socialisti rivoluzionari non vi arrivarono né con le repubbliche consiliari di Baviera e di Ungheria nel ’19, né con l’occupazione delle fabbriche in Italia nel ’20. In Germania e Austria isocialdemocratici erano diventati assai presto il primo partito per numero di voti. Ma era un partito di maggioranza relativa, circondato dalla aonventia ad excludendurn costruita dal blocco delle forze conservatrici. Certamente dunque i divieti al socialismo provenivano anzitutto da fattori esterni al movimento operaio. Ciò ha spesso fatto dimenticare che impedimenti altrettanto gravi derivarono ai partiti socialisti dalla loro cronica difficoltà di elaborare una teoria socio-politica complessiva del tardocapitalismo, e di proporre programmi che avessero il consenso non solo delle masse lavoratrici ma della maggioranza della gente. Gli impedimenti oggettivi esterni si sommarono in un circolo vizioso con quelli soggettivi, interni alla teoria e alla prassi del movimento. Si sarebbe potuto romperlo se si fosse anzitutto agito dal lato della soggettività, cioè sugli ostacoli che venivano dalle carenze della teoria. Ma ciò non avvenne. Mancò di regola, o si rivelò insufficiente, la capacità di adeguare la teoria-ereditata da Marx al cambiamento delle situazioni e dei fatti. Non cessa di stupire la lentezza dei tempi di reazione dinnanzi a dati nuovi, e ciò pur disponendo isocialisti di strumenti teorici potenzialmente di tutto rispetto, certamente non inferiori alle armi concettuali degli awersari.Isocialdemocratici tedeschi e austriad si professavano marxisti; e alla funzionalità del marxismo VII
come strumento d’indagine socio-economica difficilmente potevano venire lezioni da sociologie che o erano figlie di filosofie vitalistico-speculative oppure procedevano con mero empirismo in-
duttivo. I socialdemocratici all’incirca sapevano che cosa rendesse ‘scientifico’ il ‘socialismo scientifico’. Ciò a cui invece quasi mai arrivarono (onde certe eccezioni sono tanto più importanti) fu l’abito scientifico concreto, fatto di ipotesi diversificate e aperte, cau— tela nel valutare il corso dei processi storici, duttilità se gli enunciativenivano smentiti da disprove fattuali. Quell'insieme di regole avrebbe forse evitato che tante volte il movimento operaio fosse sconfitto, oltreché da forze esterne, anche dalla mancanza di co— raggio nell’innovare la teoria e adoperare la teoria innovata. 3 Ifatti, si sa, vanno raccontati secondo la loro genesi da fatti pre— cedenti: perché ciò che accade ha in se stesso le ragioni del suo accadere. Diverso è invece il discorso quando si voglia valutare retrospettivamente un’eredità teorico-pratica: quando cioè, alla luce di trascorse esperienze storiche di un movimento, si voglia tentare un elenco delle strade vietate, dei vicoli ciechi da cui, possibilmente, preservare teoria e prassi future. D’altra parte, poiché nessuna situazione storica è mai identica a una precedente, non si sa neanche mai, nei casi concreti, che cosa esattamente si possa imparare dal passato, quale dei molteplici antecedenti possa, forse, produrre suggerimenti in positivo. Altro è il caso dei suggerimenti in negativo. Quando nella storia di un movimento si sono accumulate opzioni diesito regolarmente negativo, questa serie equivale a queifatticontraddittoriiche nelmetodo sperimentale dii-provano un’ipotesi, ediquali, come è noto, pesano molto di più dei fatti che la confermano. Quandoi‘fatticontraddittorii’ si accumulano, l’itinerario che liproduceva escluso dal novero delle strade percorribili. Gli esiti gettano luce sugli errori fatti lungo il cammino. La de'bacle socialdemocratica dell’agosto 1914 rinvia a decenni di carenze teoriche e pratiche. La presa nazista del potere nel 1933 implica anche gli errori commessi dai partiti operai durante e dopo la ‘rivoluzione tedesca’ del 1918.A Vienna è iltragico febbraio del ’34 a squadernare ilimiti dell’austromarxismo. La concatenazione VI]]
tra gli antecedenti eiloro conseguenti fa però emergere anche quel
che in sede di teoria il socialismo secondinternazionalista intuì di positivo, ma non seppe né sviluppare né tradurre in prassi. Tra Otto e Novecento una delle grandi esigenze fu quella di salvaguardare le norme dello Stato di diritto aggiornandone però contenuti e forme: cioè integrando il registro dei diritti individuali con il principio che il singolo è anche titolare di diritti sociali, e facendo in modo che il nuovo catalogo, con la giustizia sociale recepita come un diritto dell'individuo, venisse poi garantito con gli strumenti di una democrazia che nel sistema del bilanciamento dei poteri poggiasse su una voce giuspolitica permanente dei cittadini. Fu merito storico del socialismo secondinternazionalista aver intuito che occorreva far incontrare le due anime complementari della democrazia moderna, l’individuale e la sociale; e che in un sistema moderno di libertà i diritti politici e i diritti sociali sono tutt’uno. Ma non seppe trarne le conseguenze di strategia politica, né fu capace di mobilitare verso quella direzione isupporti teorici di cui pur disponeva. Già nel vecchio Reich tedesco l’SPD avrebbe potuto, sin dal successo elettorale del 1890e dal congresso di Erfurt del 1891,mirare anzitutto a proposte legislative antimonopolistiche, a pressioni durature per la riforma dei codici, a costanti battaglie per una reale separazione dei poteri e per strumenti di controllo sull’esecutivo. Avrebbe potuto essere un"officina di governo’ intorno a cui aggregare ceti borghesi liberali. Le cose pur fatte in questa direzione restarono soverchiate dal miraggio dello ‘Stato del futuro’, compiutamente socialista e considerato dietro l’angolo. Le parole
d’ordine o volavano dritte verso quell’avvenire socialista non precisabile; oppure, quando esse (e talora con intuizioni ottime) riguardavano il presente, non recavano le istruzioni per l’uso, lo strumentario pratico per il qui e l’ora. Dopo il 1918 la mancanza d’idee dei partiti socialisti tedesco e austriaco sulle possibilità dell’ordinamento democratico—repub— blicano derivarono anche dal fatto che in precedenza non era mai stata posta veramente all’ordine del giorno la questione di che cosa si potesse fare in positivo con gli strumenti dello Stato esistente. Stentò a prendere piede la nozione che un patrimonio essenziale per la sinistra fosse la legalità democratica. La difesa della leIX
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P-Jena 1913
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Wundt, Max 1920 Vom Geist unserer Zeit, Lehmann, Miìnchen. (10) Wurm, Emanuel 1905 General-Register des Inhalts der ]ahrgà'nge 1883 bis 1902 der «Neuer: Zeit», bestehend in einem Autoren-Verzeichnis und einem Sachregister nebst Stichwort-Anzeiger, Singer, Stutt— M- (1) 1908 Zweiter General-Register des Inhalts der ]ahrgà'nge 1903 bis 1907 der «Neuer: Zeit», bestehendin einem Autoren-Vetzeichnis und einem Sachregister nebst thhwort-Anzeiger, sowie einemalphabetischen Verzeichnis derRezensionen, Singer, Stutt'
gart. (1) Drittes General-Register des Inhalts der ]ahrgà'nge 1908 bis 1912 der «Neuen Zeit», bestehend in einem Autoren-Verzeich nis und einem Sacbregister nebst Stichwort-Anzeiger, sowie einem alphabetischen Veneichnis der Rezensionen, Dietz, StuttW- (1)
1914
Zanardo, Aldo
Filosofia e sodalismo, Editori Riuniti, Roma. (2) Maru'smo e neokantismo in Germania fra Ottocento e Nove—
1974 1974a
cento (1960), in Id. 1974: 73-164. (2, 3) Zannino, Franco (a cura) L’Anti-Dfibring. Afi‘errnazzbne o deformazione del 1983 marxismo?, intr. di Oskar Negt, Angeli, Milano. (2) Zeman, Zbynelr A…B. 1961 The Break-up of the Habsburg Empire 1914—1918. A Study in NationalandSocial Revolution, Oxford Press, London. (1I) Zetterbaum, Max 1893 Klassengegensà'tze beiden Iuden, NZ, XI/2, 1892-93: 4, 36. (6) 1902 Zur Fragedes Minimallohns, NZ,XX/l, 1901—02: 675, 718. (4) 1903 Zur matenahstischen Geschrbbtsaufiassung, NZ, XXI/2, 1903: 399, 498, 524. (2) Zimmermann, Werner Gabriel 1953 Bayern und das Reich 1918—1923. Der bayerisdre Fo"deralismus zwischen Revolution und Reaktion, Pflaum, Miìnchen. (10) Zollitsch, Wolfgang 1990 Arbeiter noire/ten Weltwirtschaftsknlre und Nationalsozialismus. Ein Beitrag.zur Sozialgeschichte der ]ahre 1928 bis 1936, Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen. (10)
-
ZS 1893
Der sonhldemokratische Zukunftsstaat vor dem deutschen Reichstag. Won/aut der Reden vom 31. ]anuar bis 7 Februar 1893 nach dem stenographischen Bericht des Drucksachenmaterials des Reichstags, Lucas, Elberfeld. (7)
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INDICI
Wundt, Max 1920 Vom Geist unserer Zeit, Lehmann, Munchen. (10) Wurm, Emanuel 1905 General-Register des Inhalts der ]ahrgà'nge 1883 bis 1902 der «Neuen Zeit», bestehend in einem Autoren-Verzeichnis und einem Sachregister nebst Stichwort-Anzeiger, Singer, Stutt— gart- (1) Zweites GeneralRegister des Inhalts der Iahrga"nge 1903 bis 1907 der «Neuer: Zeit», bestehendin einem Autoren-Verzeichnis und einem Sacbregister nebst Stichwort-Anzeiger, sowie einem alphabetischen Verzeichnis der Rezensionen,Singer, Stuttgart. (1) Drittes General-Register des Inhalts der ]ahrgà'nge 1908 bis 1912 der «Neuen Zeit», bestehend in einem Autoren-Verzeichnis und einem Saahregister nebst Stiahwort-Anzeiger; sowie einem alphabetischen Verzeichnis der Rezensionen, Dietz, StuttW- (1)
1908
1914
Zanardo, Aldo
Filosofia e socialismo, Editori Riuniti, Roma. (2) Marxismo e neokantismo in Germania fra Ottocento e Novecento (1960), in Id. 1974: 73—164. (2, 3) Zannino, Franco (a cura) L’Anti-Drîhring. Affermazione o deformazione del 1983 marxismo?, intr. di Oskar Negt, Angeli, Milano. (2) Zeman, Zbynelr AD. 1961 The Break-up of the Habsburg Empire 1914-1918. A Study in NationalandSocial Revolution, Oxford Press, London. (1l) Zetterbaum, Max 1893 Klassengegensà'tze beiden ]uden, NZ,Xl/2, 1892-93:4, 36. (6) 1902 Zur Frage des Minimallohns, NZ, XX/l, 1901-02: 675, 718. (4) 1903 Zur materialistitchen Geschiohtsauflassung, NZ, XXI/2, 1903: 399, 498. 524. (2) Zimmermann, Werner Gabriel 1953 Bayern und das Reich 1918-1923. Der bayen'sche Fòderalismus zwischen Revolution und Reaktion, Pflaum, Mfmcben. (10) Zollitsch, Wolfgang 1990 Arbeiter zwitchen Weltwùtschaftsknke und Nationalsozùlismus. Ein Beitragzur Sozùlgesahrthte der ]ahre 1928 bis 1936, Vandenhoeclt & Ruprecht, Gòttingen. (10) 1974 1974a
-
ZS 1893
Der son'aldemokratische Zukunftsstaat vor dem deutschen Reichstag. Wortlaut der Reden vom 31. ]anuar bis 7 Februar 1893 naob dem stenographischen Bericht des Drucksachenmaterials des Reichstags, Lucas, Elberfeld. (7)
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INDICI
Indice dei nomi*
Adams, Hope Bridges (1855-1916), 20—1.
Adams-Lehmann v. Adams, Hope Bridges. Adler, Friedrich Wolfgang (Fritz) (1879-1960), 29-31. 42, 123, 168, 173, 182, 185, 238, 242, 245. 248, 265, 271.
Adia, Max (1873-1937), 12,334, 36-
37, 41-2, 52, 123, 238, 241-3, 248, 254-8, 268, 271. Adler, Victor (1852-1918), 25, 49, 107. 123.236-7. 249. Ahlwardt, Hermann (1846-1914). 120, 124. Alessandro Magno (356-323 a.C.). 175. Arona, Martin Leo (1860-1919). 123. Auer, Ignaz (1846—1907). 49-50, 66. Austerlitz, Friedrich (Fritz) (18621931),252.
Avenarius, Richard (1843-96). 240.
Bach, Davidjosef (n. 1874), 238.
Bacone [Bacon, Francis] (1561-1626), 6 Barra,Camille-Hyac'nthe0dilnn (17911873). 133.
Barth, Emil (1879-1941), 206. Barth, Theodor (1849-1909), 160. Bassermann, Ernst (1854-1917). 161.
Bauer, Gustav Adolf (1870-1944), 205. Bauer, Otto (1882-1938), 12, 29, 35, 53, 69,77, 97, 108,1105,117,123126, 154, 169, 177, 233, 237-44, 246—52, 257—61, 264-9, 271. Bebel, Ferdinand August (18401913), 4, 8, 23. 57-8, 92, 94, 107, 127, 129, 131, 136, 139-40, 142-3, 148-9, 158, 161-3, 167, 169-70. Beer, Max (18644943), 16,55, 72, 77, 124. Belfort-Barr, Ernest (1854-1926), 13. 36,41. Bellamy, Edward (1850-98), 22—3. Herning, Franz (n. 1870), 89. Bernstein, Eduard (1850—1932), x, 5, 14, 324, 41, 44-9, 58-9, 61, 63, 66, 724, 80, 82, 85-6, 89, 924, 104, 114, 123, 127-30, 132, 136-7, 150, 157, 160-1, 167, 188-9, 193, 196, 199-200, 209, 211, 213, 217-8, 220, 224, 233, 239, 258, 270.
Bethtnmn-Hollweg, Theobald von (1856-1921),170—1.
Bischofi, Dietrich (n 1866). 175. Bismarck, Ottovon (1815—98),5, 11, 74,118.
Blanqui,louis-Augur. (1805-81),46. Bloch, Erna (1885-1977), 123, 266. Bloch,]…(1871-1936), 39, 188. Blus, Wilhelm (1849-1927). 58. 198.
* Comprende solamente esponenti del movitnmto operuio e autori e perso« naggi storici.
Bonn, MoritzJulius (1873-1965). 230. Borgius, Walter (n. 1870), 39. Boudin, Louis Boudianoff (n. 1874), 242. Brandler, Heinrich (1887-1967), 190. Braun, Heinrit:h (1854-1927), 88. Braun, Otto (1872-1955), 229. Bratmthal, Alfred (1897-1980), 222. Bratmthal, Julius (1891—1972), 226, 252-3, 258, 267 Brentano, Lujo (LudwigJosef) (18441931), 57, 219, 231. Bromme, Moritz William Theodor (n. 1873), 19-20. Bri'1gel, Ludwig (n. 1866). 271. Bruhns,Julius (1860-1927). 125.
Bucharin. Nikolaj Ivanovic
94-5, 136, 160, 172—3, 186, 190, 198, 202. Delhn'ìck, Hans (1848-1929). 186. 194. Diderot, Denis (1713-84), 9. Dietz, Johann Heinrich Wilhelm (1843-1922). 5, 6, 8-9. Dietzgen, B… (1862-1930), 26-7 Dietzgen,Josef (1828—88), 27 Dittmann, Wilhelm Friedrich Carl (1874-1954). 190. 206. Dollfuss, Engelbert (1892-1934), 257, 259, 263. Dove, Alfred (1844-1916), 186. Diihring, Eugen Karl (1833-1921),44.
Duncker, Hermann Ludwig Rudolf (1874-1960), 20, 172.
(1888-
1938), 78-9.
Bòchner, Ludwig (1824—99). 20. 22. Buckle, Thomas Henry (1821—62). 7 Bîilow, Bernhard von (1849-1929),
Eberlein, Hugo Max Albert (1887-
1944), 172. Enert, Friedrich (1871-1925), 208.
102.
214,250.
Eckstein, Gtutav (1875-1916), 13. 89, 92, 238, 242. Eichhorn, Emil (1863-1925), 194, 196. Eildermann, Wilhelm (n. 1897), 191,
Campanella, Tommaso (15684639). 9.
Chamberlain, Houston Stewart (18551927). 102, 120. Cohen, Hermann (1842-1918), 43. Cohen-Raus, Max Emanuel (1876— 1963). 187 Cohn, Oskar (1869-1934). 141. Conrad von Hiitzendorf, Franz (18521925), 175. Corvh-Wiasbiuki, Otto von (1812— 1886). 21. Croce, Benedetto (1866-1952) 95. Cunow, Heinrich Wilhelm Karl (1862- 1936), 12-,3 22, 27-8, 35, 38, 72, 92, 129, 132. 154, 1834, 190,
198.247
D’Alembert, Jean—Baptiste Le Rond (1717-83), 9. Danneberg, Robert (1885-1942). 248. 271. Darwin,CharlesRobert (1809-82).27. 29. Diurnig Ernst (18661922). 213. David, Eduard (1863-1930), 82, 89,
202. Eirutein, Albert (18791955). 186. Emet, Kurt (1867-1919).149,215, 234.
Ellenbogen, Wilhelm (1863-1947). 26.2, 266, 270.
Engels, Friedrich (1820-95).V1,3,7-9, 17,20, 22, 27. 29-31, 35, 39-41, 44, 46, 49—51, 56-7, 62, 73-4,81, 84, 87, 91-2, 98-101, 106-8, 114—5, 122, 127-30, 132-4, 136, 144, 147-8. 154, 156—8, 1634, 166, 170, 178, 192, 200-1, 210, 217. 236, 263. 267. Bucken, Rudolf Chrbtof (1846-1926), 176. Eulenburg, Philipp von (1847-1921). 194.
Ferri, Enrico (1856-1929). 24. Feuerbach, Ludwig (1804-72), 55. Fichte, Johann Gottlieb (1762-1814). 55, 109. F'ncher, Edmund (18644925). 217.
340
Fischer, Ernst (1899-1972). 263. Fischer, Richard (1855-1926), 133. Foerster, Friedrich Wilhelm (18691966). 205. Fourier,Frangeis-Maric-Charla (1772— 1837). 9.
Frank, Ludwig (1874-1914), 123, 141, 173.
Léo (1844-96). 57 Frankel, Franz,Jakob L. (18461902), 89. Frenssen, Gustav (1863-1945), 93. Fried, Alfred Hermann (1864-1921).
165. Frohme, Karl Franz Egon (1850— 1933). 138. 143. Fròlich, Paul (1884—1953). 88. Funke, Georg Ludwig Wilhelm, 185.
Gerstenhauer, Max Robert (18731940). 102.
Giolitti, Giovanni (1842-1928). 160. 163. Glagau, Otto (1834-92). 121. G6hre, Psul (18644928). 78, 18, 62, 64-5. Gradnauer, Georg (18664946). 123, 142. Gramsci, Antonio (1891—1937). VI, 216.228,269.
Griflenbergfl. Karl (1848-97). 159.
Groener, Wilhelm (1867-1929), 214. Gnirrber;, Karl (1861—1940), 178.
Grunwald. Max (1873-1926), 88.
Hauptmann, Gerhart (1862-1946), 177 Hecht, Moritz (n. 1869), 82. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich (1770-1831), 435. 47, 50, 52. Heilmann, Ernst (1881-1940), 188. Heine, Wolfgang (1861-1944), 136, 138, 141. Heinemann, Hugo (1863-1919), 141. Heinig, Kurt (1886-1956), 88. Helffu’icl't, Karl (1872-1924). 67 Heller, Hermann (1891-1933). 219, 221, 234, 258. Henke, Alfred (1868-1946). 232. Hertz, Friedrich Orto (1878-1964). 82. Herzl, Theodor (1860-1904). 125. Hilferding, Rudolf(l877—l94l). X, 16, 58-9, 66, 72, 76-9, 82, 88, 149, 177, 206, 220. 222-3. 25-7, 233, 238. 242-3, 254, 258, 270.
Hindenburg, Paul von Bcneckendorff und von (1847-1934), 229. Hirsch, Max (1853—1909), 22. Hitler, Adolf (1889-1945), 119-20, 229. 233-4. Hobbes, Thomas (1588-1679). 55. Hobson, John Atkinson (1858-1940),15. 74. Hoegner, Wilhelm (1887-1980). 226. Hofer, Adolf(n. 1868), 89. Hohenlohe-Schillingsfiirst, Chlodwig zu (1819-1901), 134.
Guglielmo II di Germrnia (18591941), 16. 134. 171, 174, 176-7,
Hugcnberg, Alfred (1865-1951), 185. Humboldt,Wilhelm von (1767-1835).
Gumplowicz, Ludwig (1838-1909).
Huschlre, Leo (n. 1873), 82.
193-4,229.
109, 245. Gunter, Sadi [pseud. di Staudinger. Franz],54. G&nther, Gerhard (n. 1889), 230.
Hanc, Hugo (1863-1919), 141, 183, 189-90, 197,206. Haeckel, Ernst (1834-1919). 20. Haenisch, Konrud (1876-1925), 183184, 187, 247 Hartmann, Ludo Moritz (1865-1924). 239, 242.
109.
James, William (1842-1910). 240.
Jaurù.Jun (1859-1914). 43. 142. ]ordson, Ralf,24. Jfinset. Em (n. 1895).230.
Km:;nfineyer. Paul (1864-1945), 9, (17241804),27, 43, Kaht,1mmanuel 456.524.111.
Kapp, wolfgang (1858-1922), 216, 229.
di Ulianov, Nikolai llijèl brand. (1870-1924). 33. 49. Vlaàmir
Lenin,
Karsln', Jan [premi di Marchlewslri,
Julian Balthazar], 88, 94,125. Kautsky, Benedikt (1894-1960). 18. Kautsky, Karl (1854-1938). x. 510,
56, 74, 76-9,82,87—9, 187, 193, 199201. Lunch, Paul (1873-1926), 1834.186187,247 Lersch, Heinrich (1889-1936), 176.
12-3, 16, 18,20, 22-30, 32, 35-8,42, 44, 48-9, 52-3, 55-8, 60-1, 64-6, 6869, 71, 74, 767, 79-82, 84—5, 87-9, 91-2, 94-5, 97,100-1,105, 108,110, 112-3, 116, 123-5, 128-9, 132, 136137, 146, 149, 151-4, 158, 161-5, 169, 184, 189-90, 193, 195-6, 199200, 203, 206-7, 212, 217-8, 220, 224, 233, 236, 238-9, 241, 257-8. Kehr,Edun (1902-33), 178, 188,202, 234. Keil, Wilhelm (1870-1968), 20, 23, 198. Kelsen, Hans (1881-1973). 255, 271. Kunmerich, Max (|:. 1876), 175. (1838-1907), 185. Kirchhofi, Alfred22, Knorr, Ludwig, 153.
Lasing, Gotthold Ephraim (1729— 1781)- 38-9. Levemtein. Adolf, 63, 65. Levi, Paul (1883-1930). 217 Liebknecht, Karl Paul Augur: Fried-
rich (1871-1919), 136, 138, 141, 166, 189-90,208-9, 215, 217
Liebknecht, Wilhelm Philipp Martin (1826-1900), 6, 18,84, 99-100. 136. Lissagaray, Prosper-Olivier (18391901). 213.
Kolb, Wilhelm (1870-1918). 136, 145. Kòrner, Theodor (1873-1957). 262, 264, 271. Korsch, Karl (1886-1961). 60, 66. Krîigu, Stephanus Johannes Paulus
(1825-1904), 102. Krupp, Alfred Friedrich (1854-1902). 184
Locke,John (1632-1704), 55. 207 Loebell, Friedrich Wilhelm von (1855-1931). 91. Loewe, famiglia, 120. Louis, Paul (1872-1955). 60. Ludmdorfl, Ericb (1865-1937). 214. luegcr, Karl (1814-1910), 119. Luthu, Martin (1483-1545). 43. Luxemburg, Rosa (1875-1919). 20. 79-80, 85, 88, 92, 94, 116-7, 123, 130, 150, 162, 169, 171-2, 190,215, 217
1m,8&a(1886-1937).253.
Labriola, Antonio (1843-1904), V, 12, 30-1, 40-2, 50, 94, 98-9, 101, 105, 131-2, 138. Lafargue, Laura (1845-1911), 3,20.
Lafargue. Paul (1842-1911). 2-3, 35. 38, 56, 132, 144. Landauer, Carl (n. 1891), 219, 258. Langbehn,Julius (1851-1907). 120. Lange, Friedrich Albert (1828-75).43. Lange, Pini (1880-1951). 24. lamelle, Ferdinand (1825-64), Il. Leber,Julius (1891-1945). 215. Ledebour, Georg Theodor (1850-
1947), 77, 94, 106, 136, 138, 149, 189-90, 195. Lederer, Emil (1882-1939). 224-5. Lehmann, Julius Friedrich (18641935). 185.
Mac Donald, Janna Ramsay (18661937), 137
Mach, Ernst (1838-1916), 27, 30, 49, 238-40, 244. Malan, Benoît (1841-93), 43. Marchlewski, Julian Balthasar (1866-
1925),94, 172,190. Marr,Wilhelm (1819- 1904).119. Martignetti, Puquale (1844-1920).
Martini, 100.
Ferdinando (1841-1928).
Martov, Julii Oaipovié Tsederbaum (1873-1923). 169. Marx,.Kad (1818-83), VII, 34, 9, 22, 26-9, 33, 43-7, 49-51, 56-60, 77, 84, 107. 113, 122, 127-31, 133, 157, 178,209, 217, 240.
342
Masarylt, Tomis Garrign: (18501937). 12.
Mashniliano (Max) del Bada (18671929), 205, 208.
Maurenbrecher, Max (1874-1930). 144-5, 152, 162.
Medem, Vladimir Davidoviè (18801923). 125. Mehring, Franz Erdmann (18461919), 123, 16, 20, 29-31, 38-9, 42,
49, 53, 55-6, 77, 88, 91-2, 97, 122, 124-5, 148, 162, 164, 172, 190. Meineclte, Friedrich (1862-1954).
175-6. Meiner, Arthur (1865-1952), 56. Menger, Anton (1841-1906), 57 Mergu,August (18704945). 213. Meyer, Ernst (1887-1930). 172. Meyer, Rudolf Hermann (1839-99). 74, 84, 122. Michajlovskij, Nikolai Konstantinoviè (1842-1904), 57 Millerand, Édenne-Alarandre (18591943), 12, 59. Mirbach-Sorq1ùtthulius von (18391921). 123. Modlendorf. Wichard von (18811937). 182.
Moeller van den Bruck, Arthur (1876-
1925), 230. Moltke, Helmuth von (1848-1916).
176. Moro, Tommaso [More, Thomas] (1478-1535). 9. 38. Midler, August (11. 1873), 194. Muller, Richard (n. 1880), 202, 206, 210, 233. Miintzer, Thomas (1485/90-1525), 9.
Naphtali, Fritz (1888-1961), 222, 258 Naumann, Friedrich (1860-1919). 70, 175,219, 232, 247
Neumann, Franz (n. 1904), 224. Neurath, Otto (1882-1945), 239.
'
Nietzsche, Friedrich Wilhelm (184419W). 55. Nieuwenhuis, Domela Ferdinand
(1846-1919). 168. Nobel, Alfred (1833-96). 164.
Nòlling, Erik (1892-1953). 225. Noske, Gustav (1868-1946), 215.
Oppenheimcr, Franz (18644943), 87 Ostwald, Hans (1873-1940), 88. Owen, Robert (1771-1858). 9. Paechter, Heinz (n. 1907), 226. Pannelroek, Antonie (1873—1960), 48, 116.
Pausch,Joseph (1851—1925), 85. Parvus [prend di Helphand, Aleksandri, 17, 77} 81, 89, 154, 164. Paul, Ewald (n. 1863), 100. Pericle (500 ca.-429 a.C.), 175. Peters, Carl (1856-1918), 94, 102. Petzold, Alfons (1882-1923). 178. Pfeilschifter, Georg (n. 1870),230. Pieclr, Wilhelm Friedrich Reinhold (1876-1960), 172. Planck, Max (1858-1947). 186. Plechanov, Georgij Valurlinoviè (18561918), 39, 41, 44-5, 48, 55-6. Plenge, Johann (1874-1963), 181-2, 184. Pòhlmann, Robert von (1852—1914). 175. Poincaré,
Jules-Henri
(1854-1912),
240.
Prager, Eugen (n. 1876). 202. Preuss, Hugo (1860-1925), 219, 231. Pringsheim, Otto (n. 1860), 89. Proft, Gahride (1879-1971). 248.
Quessel. Ludwig (1872-1931), 136. 187
Radbruch, Guan (1878-1949). 219, 211258. Radek, Kad (prend. di Sobd50n, Ka,
.611 (1883-1939).38.265. Rathmm.Wrirer (1867-1922). 182. RatzeL Friedrich (1844-1904). 105. .
185. Renner, Karl (1870-1950). 108-9, 112, 124, 126, 169.237-8,242, 245.247, 249, 251—2, 254-6, 267, 270-1. Riehl, Alois (1844-1924). 176.
Rodhenm-Jagetzow,
Johann
Stadrhagm, Arthur (1857-1917), 138. Starnmler, Rudolf (1856-1938), 45. Stampfer, Friedrich (1874-1957). 233. Staudinger, Franz (1849-1921). 54. Stillich, Otto, 55. Stoecker, Adolf (1835-1909). 119. Strasser,Joseph (1870-1935), 116.
Karl
(1805-1875).57 Roland-Holu van der Schalk, Henriette (1869-1952), 148-9. , Arthur (1889-1943). 90, 191,202,233.
Riìhle, Otto Karl Heinrich (1874-
Suîr8kh. Kati von (1859-1916), 248.
1943).24.
Suttner, Bertha von (1834-1914). 165—
Saint-Simon, Claude-Henri de Rouvroy de (1760-1825). 9. Schìfer, Dietrich (1845-1929). 177 Schiffle, Albert Friedrich Eberhard (1831-1903). 57-8.
166.
Thalheimer, Augur (1884-1948). 13, 190. 'Ihilmann, Ernst (1886-1944), 229. Thoma, Richard (n. 1874),219. 'Iirpitz, Alfred von (1849-1930). 76. T6nnies, Ferdirund (1855-1936). 186. Topalowitsch, Zivko (n. 1886). 125. Trier, Gerson (n. 1851), 156-7 Tmaltsch. Ernst (1865-1923). 186.
Scheidunann, Philipp (1865-1939). 124, 191, 194,205, 208. (1901-50), 233. Schifrin, Alexander Schippel, Max (1859-1928), 71, 76, 81, 89, 124, 162. Schlesinger, Therese [n. Eckstein] (1863-1940). 248. SchlieEar, Alfred von (1833-1913). 167 Schh‘itet, Hermann (n. 1919), 127 Schmidt, Conrad (1865-1932), 39, 45, 54-5. Schmidt, Robert (1864-1943). 190. Schmoller, Gustav von (1838-1917). 70. 81, 98, 105. 127 Bruno (1859-1901). Schomlank, Schulz, A..;rnr Heinrich (1872-1932).
214, 219.
Tucholsky, Kurt (1890-1935). 229. Tugm-Baranovskij, Michail Ivancwié (1865-1919). 129.
Valentini, Rudolf von (1855-1925). 194. Vandervelde, Emile (1866-1938). 89. Van Koi, Hendrik (1852—1925). 94. 98-9.
Gerhart von
Vogel, Heinrich (1834-98). 88. Vollmar, Georg Heinrich von (1850—
Schumpeter, Joseph Alois (1883-
Vorlinder, Karl (1860-1928), 41, 45.
24. Schulze-Grevernitz, (1864-1943). 75.
1922), 86, 136, 159.
1950). 224.
Seeckt, Hana von (1866-1936). 228. Seipel. Ignaz (1876-1932), 260, 266. Seitz, Karl (1869-1950). 252. Severing, Carl (1875-1952), 171, 193, 228. Singer, Paul (1844—1911). 136.
Sohm, Rudolf (1841-1917), 175. Sollmann, Wilhelm (1881-1951), 233. Sombart, Werner (1863-1941). 33, 119. Sorge, Friedrich Adolph (1828-1906).
Spence, Herbert (1820-1903), 55.
66.
Wachmheim, Hedwig (1891-1969).
17, 178. Wagner, Hermann (1840-1929). 185. Wagner, Richard (1813-1883). 102. Wakleck-Rourseau,PierreMarieRmé (1846-1904). 12. Weber, Max (18644920), 6, 175, 186.
We'rling, Christian Wilhelm (18081871). 9.
Wilarnowitz-Moellendorf, Ulrich von (1848-1931), 175, 185.
344
Wolnnann, Ludwig (1871-1907). 12, 52. Wundt,Max(lB79-l963).230. Wurm, Emanuel (1857-1920), 10-1, 13, 18, 94.
Zanardelli, Giuseppe (1826-1903). 160, 163. Zetkin, Clara (1857-1933), 68, 148, 172.190,192.
Zetterbaum, Max, 36, 41,88, 124.