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Italian Pages 153 Year 1976
Umberto Cerroni
IL RAPPORTO UOMO-DONNA NELLA CIVILTÀ BORGHESE Editori Riuniti, Roma 1976 Seconda edizione riveduta e corretta: aprile 1976
PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE Il rapido successo di questo volumetto mi pare una significativa conferma dell’interesse esistente ormai in Italia per una tematica delicata come quella attinente al rapporto uomo-donna, al concetto di famiglia, al concetto di eros. Si tratta di un interesse consolidatosi sull’onda di importanti processi di ammodernamento sociale, di fronte ai quali è a lungo tardata una analisi scientifica. Per questo il campo è stato facilmente occupato e tenuto a lungo da formule riduttive, da interpretazioni generiche improvvisate, da impostazioni unilaterali. Per quanto concerne questa mia ricerca è forse opportuno ricordare che essa si avviò in pubblico nel 1964 con una relazione sul concetto di famiglia svolta ad un convegno di studiosi e politici marxisti. Il testo di tale relazione fu poi la base di un saggio entrato a far parte del mio volume “La libertà dei moderni”. Ad esso si rifà, concettualmente, la prima parte del presente volume che ne sviluppa però ampiamente il raggio dell’indagine storica. L’interesse alla problematica della famiglia e ai suoi rapporti con lo sviluppo economico-sociale si puntualizzò successivamente nello studio della correlazione tra famiglia e capitalismo evoluto, fissato nella seconda parte del volume. Tutta la ricerca subì poi una svolta verso l’analisi del livello spirituale del rapporto uomo-donna, un livello ingiustamente e significativamente trascurato dagli studi contemporanei in generale e non solo da quelli marxisti. Da questa terza parte dell’indagine, che prende come terreno di sperimentazione la poesia d’amore, è nata una riflessione più generale sui fondamenti di un’estetica materialista, cioè di una teoria del sensibile, capace di articolarsi anche in un’etica materialista e cioè in una teoria del comportamento morale socializzato. Lo svolgimento della ricerca è stato dunque tale da coinvolgermi in studi tradizionalmente assai distanti fra di loro (dal diritto all’economia, alla letteratura, alla filosofia). In un periodo in cui molto si parla di interdisciplinarità, spero che la varietà dei campi che sono
stati accostati non mi sarà rimproverata, tanto più che la scelta mi è stata rigorosamente imposta da organiche necessità di coerenza teorica. Vorrei infine ricordare che il presente volume si è avvantaggiato di fecondi contatti intellettuali stabiliti in occasione di lezioni tenute all’Istituto Gramsci di Roma e al Centro Labriola di Napoli. U. C. Roma, marzo 1976.
Parte prima IL CONCETTO DI FAMIGLIA E IL RAPPORTO UOMO-DONNA 1. PREMESSA Vorrei fare una breve premessa per sottolineare il rilievo che il problema in esame ha assunto nella tematica contemporanea e particolarmente nella cultura marxista, e vorrei in pari tempo riassumere rapidamente le tesi che poi svilupperò analiticamente. Quanto alla rilevanza del problema mi pare che abbiamo un’occasione politica che ce la suggerisce, e sarà sufficiente ricordare come lo stesso risultato del referendum sul divorzio dimostri per un verso la grande maturità civile e morale del nostro paese, e quindi la prontezza ad affrontare i grandi problemi di una morale moderna, e per un altro verso la rigorosa necessità per la cultura marxista di cancellare una grave lacuna, durata troppo a lungo e ormai intollerabile, affrontando il problema del rapporto uomo-donna al livello teorico. Quanto alle tesi che svilupperò eccole rapidamente. 1. Il differenziarsi (utilissimo) degli studi moderni ha gravemente manomesso l’unità del problema che comprende la dialettica degli affetti e la dialettica degli istituti familiari. Per certi aspetti il tema dell’eros e quello della famiglia sono diventati oggetto di discipline completamente separate. Per una esemplificazione l’eros sembra riserva di caccia degli psicanalisti, la famiglia riserva di caccia dei giuristi e dei sociologi. Ciò è stato al tempo stesso causa e risultato di gravi squilibri nella ricostruzione scientifica tenuto conto del fatto che proprio la trattazione separata ha acuito ulteriormente interpretazioni separatistiche e unilaterali. 2. Ciò non significa affatto che nello svolgimento storico reale non si debba analizzare con grande attenzione la differente composizione
della tematica etico-spirituale e di quella economico-giuridica. Al contrario, si tratta proprio di esaminare l’intero arco del problema per poter cogliere le curvature differenti che ciascun suo elemento presenta storicamente, e ricostruire così adeguatamente le connessioni che collegano ciascun elemento all’impianto materiale della società. Si tratta in realtà di evitare che una trattazione separata devasti l’unità del problema e riduca la dialettica degli affetti a inerte cascame della configurazione socioeconomica dell’istituto familiare, legittimando cosi, per altro verso, l’idea, peregrina certo ma diffusa, che la storia sia soltanto storia di istituti e rapporti materiali, non anche storia di soggetti e di rapporti spirituali. Conseguenze del genere sono emerse tanto da trattazioni di impianto speculativo quanto da trattazioni di impianto empiristico e economicistico, e quindi anche da trattazioni di cattivo materialismo storico. E la convergenza è molto significativa. 3. Molte delle confusioni e degli squilibri su accennati sembrano scaturire dalla scarsa cautela spesso dimostrata nella costruzione dei concetti attorno a cui si discute, soprattutto il concetto di famiglia e il concetto di amore, o di eros, o di affetto. Si tratta di concetti dei quali raramente si impiantano con rigore le coordinate storiche e sui quali si tende troppo spesso a ragionare per via puramente speculativa, oppure con una ottica esclusivamente empirica. Ciò induce quasi fatalmente a conferire alle nozioni di famiglia e di amore o eros significati ora troppo angusti. Ora una genericità che mal nasconde l’intrusione surrettizia di categorie moderne, ora un’angolazione esclusivistica, riduttivistica. Così, il concetto di famiglia tende a coordinarsi, al di sopra del tempo, alla configurazione che l’istituto ha assunto nel mondo moderno, col progressivo restringersi alle relazioni di coniugio e di filiazione (la famiglia nucleare), e il concetto di amore tende a disarticolare le due componenti polarizzandosi verso due nozioni
limite, l’amor romantico platonizzante in senso proprio, o amor platonico, e erotismo o desiderio sessuale preminente. Se le cautele linguistiche possono servire, e servono naturalmente, se il significante allude davvero a un significato, cioè a un discrimine teorico, propongo di adoperare piuttosto i termini specifici, sia pure convenzionati, che non quelli generici. Il termine famiglia coniugale o nucleare o monogamico-giuridica per connotare la famiglia moderna, e il termine eros per connotare il rapporto di amore tipico degli uomini - uomini donne - moderni. Sarà così più facile evitare che elementi permanenti ma secondari giungano a prevalere nella costruzione dell’indagine, inducendo a credere per esempio che la persistenza della funzione di allevamento dei figli in tutte le epoche faccia della famiglia, sempre e dovunque, un istituto di protezione dei figli. Basti pensare, in contrario, alla ferocia dello “ius vitae et necis” nella società antica e in quella medievale. O che la persistenza del desiderio sessuale in tutte le epoche faccia del rapporto d’amore un rapporto riducibile in via esclusiva alla dimensione del sesso, il che è falso. 4. Rapporti sessuali, rapporti di filiazione, rapporti di tutela, di allevamento e di educazione sono sempre coesistiti nella organizzazione familiare, ma non la spiegano, perché né tali rapporti si esaurivano mai nella organizzazione familiare, né mai questa vi si è esaurita. Occorre riprendere dunque l’analisi tenendo distinti i rapporti affettivi dai rapporti istituzionali. Su questa linea è da concludere che l’organizzazione domestica è piuttosto collegata alla struttura generale dell’economia sociale che costituisce per così dire il residuato storico della dissoluzione progressiva del gruppo primario nel quadro di una società che va tendenzialmente verso l’atomismo individualista. 5. Se ne deduce che la trasformazione sociale dell’economia dovrebbe procedere verso la consumazione definitiva dei residuati dell’economia di gruppo in quanto economia domestica. Tale tendenza è del resto palese nel mondo contemporaneo. È pertanto
da concludere che la erosione della comunità domestica è ben altra cosa della lamentata dissoluzione del mondo degli affetti. È invece la dissoluzione di un tipo marginale di organizzazione economica e, per quel che gli affetti vi si collegano, la dissoluzione dei presupposti storici della regolazione giuridica coattiva dei rapporti affettivi fra gli uomini e le donne. I marxisti hanno finora mancato di risalire per così dire dalle rilevazioni economiche alla delineazione di queste tendenze sociali irreversibili, e in particolare hanno mancato di mostrare l’apertura che su questo piano offre la prospettiva, sia pure lontanissima, di una nuova società in cui la organizzazione sociale dei lavori e delle funzioni domestiche predispone il deperimento del diritto anche nella sfera privata e non solo nella sfera pubblica o politica, e quindi la libera espansione della dialettica degli affetti. 6. Questa dialettica degli affetti è tutt’altro che indifferente, dunque, al tipo di organizzazione storico-sociale della vita di relazione, come sostengono gli spiritualisti. Ed è errato ragionare come se un medesimo eterno mondo spirituale degli affetti - e questo non è un ragionamento tipico degli spiritualisti - si sia a volta a volta adattato a differenti istituti di organizzazione familiare storico-sociale. È vero piuttosto che ogni tipo fondamentale di organizzazione storicosociale ha espresso contemporaneamente istituti familiari peculiari, e peculiari figure dell’eros. La geniale tesi engelsiana di un eros antico, o mero desiderio sessuale, completamente diverso dall’eros moderno, o amorpassione, o amor soggettivo, o amor consensuale, è ormai confermata sia da altre fondamentali testimonianze (Hegel e Stendhal, vedremo) sia dalle concrete analisi dei testi letterari poetici disponibili. Quest’ultimo gruppo di considerazioni, quello della dimostrazione analitica su testi poetici, merita di essere particolarmente approfondito, sia perché la tematica spirituale è stata troppo a lungo
trascurata tra i marxisti, sia perché senza questo recupero è impossibile liberarsi dal riduzionismo economistico della questione familiare e dalla deformazione sessualistica della questione femminile. 7. La tesi conclusiva di questo mio discorso è che una società lacerata dalla divisione in classi non riesce a soddisfare la necessità di gestione sociale degli istituti connessi con la vita individuale privata, e li deve affidare a una ristretta, angusta e artigianale organizzazione domestica (o alla speculazione dell’impresa commerciale e industriale): organizzazione domestica alla cui esistenza è anche affidata la trasmissione certa dei patrimoni e degli status giuridici personali. Su queste funzioni sociali disorganizzate viene innestata in maniera coatta, perché giuridico significa coatto, la regolazione degli affetti, che ne restano gravemente vincolati e condizionati. L’emancipazione sociale, dunque, diventa condizione della stessa emancipazione degli affetti. Non di meno la stessa emancipazione sociale riceve carica e slancio dall’ansia di liberazione degli affetti. Questa diviene infatti parte essenziale e ormai costitutiva di una rivoluzione intellettuale e morale che voglia promuovere, stimolare una rivoluzione politico-sociale radicale. In questo quadro si inserisce la questione femminile. Non già come questione esclusiva e corporativa delle donne, ma come specifica questione di una sezione del genere umano, la cui oppressione ha reso drammatico e doloroso il rapporto “generale” dell’uomo con la donna, e cioè il rapporto stesso del genere con sé. Così la questione femminile chiede soluzione per costruire a pieno arco e su nuove basi umanizzate e spiritualmente ricche il moderno eros, nel quale si realizza, come diceva Marx, il primo rapporto umano con la natura. Queste sono le tesi che cercherò di dimostrare. Il primo argomento che dovrei dunque affrontare è quello definitorio.
2. IL CONCETTO DI FAMIGLIA Che cos’è la famiglia? e che cos’è l’amore? I marxisti sono vaccinati contro queste discettazioni sul generico. Tali sono da definire le discettazioni sulle definizioni generali e astoriche. E se scendiamo alla considerazione del problema definitorio è per mostrare la inconsistenza e la impossibilità scientifica di affrontare questo come altri problemi eminentemente storici con preliminari definizioni di carattere extrastorico, cioè anticipate rispetto all’indagine che ancora è tutta da compiere. Se prendete il testo di un giurista la definizione della famiglia che troverete sarà poco diversa da questa del Messineo (1): «Famiglia in senso stretto è il complesso di due o più individui viventi, legati tra loro da un vincolo collettivo reciproco e invisibile di coniugio o di parentela o di affinità e costituente un tutto unitario». Nulla da obiettare se questa viene presa come definizione della famiglia moderna. Ma il grave è che, poiché queste definizioni vengono proiettate al di sopra della storia, la conseguenza cui subito si arriva è duplice. Da una parte una definizione che è fatalmente modellata sull’istituto moderno non vi può spiegare la peculiarità dell’istituto antico (per esempio non vi può spiegare come mai oltre ai coniugi e ai figli nella famiglia romana vi erano gli schiavi). Per un altro verso, proprio perché la definizione si modella su tutte le epoche storiche, deve includere anche la famiglia moderna, più sviluppata, e cioè deve contenere elementi tipici della famiglia moderna come il coniugio e la filiazione, che tipici non erano nella famiglia premoderna. Quindi, mentre non viene spiegata la peculiarità dell’impianto storicosociale dell’antico istituto familiare, l’istituto familiare moderno diventa il supporto della definizione generale di famiglia, e quindi anche il modello storicamente immodificabile: il parametro teorico di orientamento del problema e anche l’approdo storico «definitivo» della organizzazione istituzionale dei rapporti fra gli uomini e le donne.
Si combinano una incapacità esplicativa del passato, una larvata, implicita apologia del presente, una sostanziale chiusura verso l’avvenire. Diceva Engels: «La parola famiglia non esprime originariamente l’ideale del filisteo d’oggigiorno, fatto di sentimentalismo e di discordie domestiche» (2). La famiglia era un’altra cosa, suggerisce dunque Engels. E persino Lévi-Strauss - per fare un salto in un’altra direzione teorica - fuoruscendo per un istante dal suo strutturalismo ha affermazioni di questo genere: «Per tutta quanta l’umanità il requisito assoluto per la costituzione di una famiglia è la preliminare esistenza di altre due fami glie, una che fornisca l’uomo e l’altra che fornisca la donna, i quali con il loro matrimonio danno luogo a una terza, e così via. In altri termini ciò che rende l’uomo differente dall’animale è il fatto che nell’umanità non ci potrebbe essere famiglia senza società» (3). Che non è certo una scoperta originale, ma è comunque una pietra tombale sulla idea secolare che ha prevalso fino al ‘700, secondo cui non la famiglia è una articolazione della società, ma al contrario la società è una articolazione della famiglia. Si tratta di una tesi che proviene da Aristotele (la “polis” come insieme di famiglie), è mediata dal cristianesimo medievale e recepita dal giusnaturalismo moderno e vive ancora nel giusnaturalismo cattolico e in certe falde persino della sociologia moderna.
3. L’IPOTESI DI ENGELS Dobbiamo dunque respingere come scientificamente arbitraria e falsante questa nozione generica e non più soltanto generale di famiglia. E dobbiamo prendere come punto di orientamento l’ipotesi alternativa che Engels ci propone quando scrive: «Lo sviluppo della famiglia nella storia primitiva consiste nel costante restringersi della cerchia che originariamente abbracciava tutta la tribù» (4). Questa affermazione di Engels è stata comprovata da numerosi altri studiosi da Tönnies a Max Weber a Durkheim. È ormai consolidata l’idea che la famiglia nucleare o coniugale o atomistica sia il residuato di un processo di restringimento del gruppo primario, e corrispondentemente sia il residuato di un più vasto processo di progressiva separazione della sfera pubblica dalle sfere private. Il gruppo primario perde le funzioni pubbliche che si assommano in un potere politico autonomo e separato dalle relazioni sociali private, che si disinteressa delle relazioni interne al gruppo che vanno atomizzandosi. Da una parte, dunque, abbiamo un processo di accentramento del potere nella sfera pubblica-astratta; dall’altra la dissoluzione del carattere pubblico delle sfere individuali-concrete e l’atomizzazione degli individui. Gli individui, infine, si presentano nella società borghese come autentici Robinson, slegati da ogni diretto rapporto fra di loro e connessi soltanto dal movimento delle cose. Per verificare l’ipotesi di Engels abbiamo in Italia una miniera, anche se una miniera da esplorare con grande cautela perché fa parte della zona più antica della nostra storia passata: il diritto romano antico. Ora, sebbene negli studi romanistici non vi sia unanimità sul problema della struttura della famiglia romana antica e sul processo di dissoluzione del gruppo primario, tuttavia pare ormai accertato
che l’opinione prevalente e più autorevole ha accolto l’ipotesi di Engels senza nemmeno conoscerla (o citarla). In Italia essa è stata recepita e sviluppata soprattutto da Pietro Bonfante.
4. LA «FAMILIA» ROMANA Ma incominciamo da una precisazione sulla nozione stessa di «diritto di famiglia». Scrive Volterra, nella voce “Famiglia” dell‘“Enciclopedia del diritto”: «Non risulta che i giuristi romani abbiano concepito un diritto di famiglia nel senso di compiere una trattazione sistematica della struttura e della organizzazione del gruppo designato con questo nome». Perché mai? Perché mai i giuristi romani così fini nelle esercitazioni giuridiche non hanno mai dato una sistemazione organica al diritto di famiglia? Difetto del genio giuridico di Roma? Ovviamente no. Difetto di oggetto: non esisteva un oggetto autonomo denominabile diritto di famiglia. Non esisteva una branca autonoma riconducibile ai rapporti che oggi cataloghiamo sotto la nozione di diritto di famiglia. Aggiunge Volterra che una simile concezione unificante dei rapporti giuridici familiari nasce col codice teodosiano, e soprattutto con la codificazione giustinianea, e si collega al passaggio dalla nozione di matrimonio come atto a quella di matrimonio come rapporto. Cioè alla costruzione di un rapporto di famiglia fondato sull’atto consensuale del matrimonio ma non esaurito in esso. Punto di partenza è il matrimonio, e perciò scompare ogni altro titolo di ingresso nella famiglia che non sia il matrimonio o ciò che dal matrimonio deriva; fine, quindi, progressiva della inerenza dello schiavo alla famiglia. Così il matrimonio diviene la piattaforma su cui si costruisce un rapporto continuato che impianta relazioni del tutto nuove fra gli uomini. È significativo che la definizione della famiglia di un grande giurista come Ulpiano suoni in questo modo: “iure proprio familiam dicimus plures personas quae sub unius potestate aut natura aut iure
subiectae sunt”. Dunque, in senso giuridico proprio chiamiamo famiglia più persone che sono sottoposte alla potestà di un solo o per natura o per diritto. Che cosa significa “natura aut iure”? Evidentemente la natura dev’essere intesa in un significato molto ampio, comprensivo per esempio della nascita come schiavo. Se il figlio della schiava nasce schiavo, come dicevano i giuristi romani, e se lo schiavo fa parte della famiglia, il figlio della schiava nasce naturalmente membro della famiglia. Non è dunque soltanto il figlio del figlio che nasce nella famiglia, ma anche il figlio dello schiavo. Si inerisce naturalmente alla famiglia anche come schiavi, non soltanto come figli. E “iure” che cosa significa? Il titolo giuridico di ingresso nella famiglia romana non è soltanto il matrimonio; del resto il matrimonio nel mondo romano è un rito sì, ma non è una cerimonia giuridica specifica. Si entra nel coniugio non con quello che noi chiamiamo il matrimonio, ma con uno strumento giuridico che permette di subordinare la donna al capofamiglia. Non c’è un titolo equivalente al matrimonio moderno. Ci sono strumenti giuridici che i giuristi propongono per introdurre la donna nella famiglia. E questo è tanto vero che la moglie entra nella famiglia a titolo di figlia: “filiae loco” dicono i giuristi romani. La moglie entra sotto la potestà del capofamiglia non in quanto moglie (“uxor”), ma a titolo giuridico di figlia. Che cosa può significare tutto questo? Aggiungete poi che l’adozione e l’arrogazione sono strumenti giuridici che nel mondo antico, romano, hanno un significato non equivalente a quello dell’adozione moderna, hanno significati completamente diversi e che alludono ai rapporti fra “gentes”, fra tribù, che sono rapporti di natura politica, se intendiamo per natura politica qualcosa che attiene non in sé e per sé allo Stato come è configurato modernamente, ma ai rapporti fra enti - diremmo oggi - sovrani, a sfere, a organizzazioni gentilizie o familiari in senso lato fra loro indipendenti e sovrane.
Tutti gli strumenti giuridici che servono a introdurre qualcun altro nella sfera di questa sovranità hanno una medesima conseguenza giuridica: di sottoporre colui che entra nella famiglia alla potestà pubblica, totale, integrale del capofamiglia: una potestà che surroga tutti i titoli giuridici soggettivi a cui oggi noi siamo abituati, da quelli penali a quelli patrimoniali, a quelli civili. La storia più interessante da farsi nella famiglia romana è forse quella dei peculi. Vi risalta la impossibilità originaria della gestione di un patrimonio personale da parte del figlio, anche quando è maggiorenne, e la fatica storica e teorica attraverso cui si sono inventate da parte dei giuristi romani forme di peculio, e cioè forme - per così dire - di autorizzazione giuridica di sfere patrimoniali autonome da affidare in singole situazioni a membri della famiglia. Si tratta di una concezione che non può nascere se non là dove la sovranità accentrata nel capofamiglia impedisce, frena, per ora, la differenziazione delle situazioni soggettive. Nel mondo antico l’individuo sta nel gruppo, ebbe a dire Taine, come l’ape dentro l’alveare. È parte integrante del gruppo, fino al punto di non possedere una sua soggettività giuridica. La sua soggettività è soltanto un pallido riflesso della soggettività del gruppo, e il gruppo si soggettiva soltanto nel “pater familias”, che non significa padre di famiglia, che è un titolo di sovranità. Cerchiamo qualche altra testimonianza. Prendiamo un altro studioso, francese questa volta, Charmont. Scrive Charmont (5): «La città primitiva non è che una confederazione di famiglie, e la legge non è che un trattato, un modus vivendi tra le varie famiglie. Distaccandosi dalla “gens” di cui faceva parte, il cliente si privava del solo mezzo che aveva di partecipare alla vita sociale. Membro di una “gens” egli aveva un patrono che lo difendeva giudizialmente, come individuo non era nulla. Cliente ieri, plebeo oggi restava senza diritto così come senza dei, destituito della protezione degli dei e degli uomini non era che un paria». E ancora: «Organizzata dal diritto e distinta dalla parentela, la famiglia costituisce un gruppo compatto, una società
che comprende varie generazioni di figli e di schiavi sottomessi all’autorità del padre. Si può dire che questa autorità si esercita all’incirca nello stesso modo sulle due categorie di soggetti, in altri termini non c’è differenza essenziale tra la potestà paterna e la potestà dominicale», cioè tra una potestà eminentemente privata, diremmo oggi, e una potestà eminentemente pubblica: termini che ovviamente non possiamo usare per il mondo antico perché c’è una completa indistinzione di privato e pubblico. Il “pater familias” esercita una potestà tanto privata quanto pubblica, dunque è impossibile una distinzione tra pubblico e privato. «Così sui figli e sugli schiavi l’autorità del padre è perpetua, si esercita ugualmente sui discendenti degli uni e degli altri, essa conferisce sulla persona un diritto illimitato di vendita e di vita e di morte. Schiavo e figlio sono per il padre strumenti di acquisto, non possono avere nessun bene personale. C’è per la famiglia un solo patrimonio, ed esso è amministrato sotto il controllo del “pater”.» Passeranno dei secoli e ancora un giurista come Bartolo da Sassoferrato scriverà: “Familia accipitur in iure pro substantia”: nel diritto la famiglia significa patrimonio, unità patrimoniale. «Tutto il progresso - conclude Charmont - è dunque costituito» e questo mi sembra molto importante ai fini della nostra verifica «nel trasportare, secondo l’espressione di monsieur Labbé, la capacità giuridica dal gruppo all’individuo.» Naturalmente non si trattò, aggiungiamo, di un puro provvedimento giuridico, ma di un processo giuridico che presuppone processi sociali. E cercheremo di ricordare qualche esempio: la tendenza alla diminuzione dei poteri del padre sulla persona della moglie e del figlio, la repressione di abusi e di crudeltà, con il cristianesimo, la progressiva limitazione dell’intervento patrio nella gestione delle attività commerciali del figlio, la disintegrazione patrimoniale della famiglia, oltre ché, ovviamente, la liberazione degli schiavi, lo sviluppo del sistema dei peculi, il controllo sull’amministrazione del patrimonio familiare, i limiti alla libertà di testare.
L’antica famiglia era dunque - ci suggerisce Charmont - un organismo politico, non era un organismo privato. Essendo un organismo eminentemente politico, il suo cemento non poteva non essere che politico. Non poteva essere quello che invece mette in luce la definizione moderna, e cioè il rapporto affettivo, di coniugio o di filiazione. Comprendeva anche questo, ma non si esauriva in questo, né questo era l’elemento determinante (6). Del resto che la famiglia antica sia soprattutto un modulo di organizzazione politica è comprovato anche dal fatto che la famiglia resta, almeno fino a Locke, vedremo, il simbolo e il modello del buon governo politico. Si può ben dire che la tipica struttura moderna della famiglia si sviluppa parallelamente al logorarsi del modello familiare nella vita pubblica. La famiglia si rifonde e si ricostituisce su strutture di tipo affettivo e patrimoniale individuali nella stessa misura in cui il potere pubblico si emancipa dal modello familistico tradizionale, dal patriarcalismo. Ma procediamo con ordine. Consideriamo un altro giurista, il Betti, il quale è su posizioni abbastanza critiche nei confronti della tesi di Engels ripresa in Italia da Bonfante. Dice dunque Betti (7) che nell’antica Roma «la familia - (e usa il termine latino “familia”, per non confonderla con la famiglia moderna) - serba ancora la sua piena autonomia di fronte alla “civitas”, e la fisionomia caratteristica di un organismo sociale saldamente unitario, tenuto insieme dal vincolo di subordinazione alla potestà di un capo». E ancora: «La famiglia romana nel suo tipo genuino, che appare tanto meglio scolpito quanto più si risale indietro nel tempo, è un organismo sociale radicalmente diverso da quello che oggi si designa col nome di famiglia». Infatti, aggiungeremo, il vincolo organico che determina l’appartenenza dei singoli al gruppo familiare
non consiste o non si esaurisce nella comune discendenza, ma consiste nella comune soggezione alla potestà di un capo: il rapporto non si fonda su una relazione sessuale ma su una relazione politico-economica di dipendenza. Dice ancora Betti: «Anche le funzioni della famiglia romana vanno ben oltre le finalità di protezione, mantenimento e educazione della prole proprie di un consorzio domestico. Sono funzioni di disciplina all’interno e di difesa verso l’esterno». Lo “ius vitae et necis” è uno strumento di difesa contro la possibilità del tradimento, contro il disordine politico all’interno della famiglia. È una misura, diremmo oggi, di ordine pubblico, non di regolazione privata delle autonomie private perché la famiglia - dice ancora Betti - è una «comunità politica» che assorbe l’individuo. «Per il romano - aggiunge Betti come per l’uomo antico in generale il gruppo sociale cui si appartiene è tutto. L’individuo singolo fuori del gruppo non ha valore. Ciò che si è lo si è solo in quanto membri di una comunità politica.» E veniamo a Bonfante. Scrive Bonfante: «Quella che dicesi familia, organismo ben distinto dalla società domestica cui ha finito con il dare il nome, è il più ristretto dei gruppi politici, cioè dei consorzi di ordine e di difesa nell’età primitiva. A questo gruppo si appartiene per gli stessi titoli onde si appartiene a una qualunque comunità politica» (8). E altrove: «La famiglia romana in senso proprio […] è un gruppo di persone congiunte tra loro puramente e semplicemente dall’autorità che l’una di esse, il “paterfamilias”, esercita su tutte le altre per fini che trascendono l’ordine domestico. Nella sua funzione stessa, benché diminuita ed alterata dalla involuzione storica, essa ci si rivela nata per iscopi d’ordine e di difesa: il che vuol dire come un organismo politico. Invero gli uffici e i poteri del “paterfamilias” anche in epoca storica sono inconcepibili come uffici e poteri di carattere domestico. Ma è soprattutto la struttura della famiglia, cioè il modo con cui vi si entra e se n’esce e il fondamento potestativo dell’ammissione e dell’esclusione che dimostrano ad evidenza la genesi e la finalità primitiva della famiglia» (9). Solo il modello modernistico che privilegia il rapporto di coniugio e di filiazione ci fa perdere di vista questo fatto. In effetti il numero degli schiavi era
molto superiore al numero dei figli e delle mogli, e la famiglia appariva come un organismo politico popolato da sudditi, non da figli, non da mogli. È solo sostanzialmente col cristianesimo che l’ingresso nella famiglia si specifica con forme e riti differenti: battesimo per i figli, matrimonio dei coniugi, cui tien dietro una articolata regolazione giuridica. A Roma riti diversi non v’erano. Dicevo prima che “adoptio, arrogatio, conventio in manum” per la moglie hanno le stesse conseguenze, sostanzialmente. Diverso è lo strumento giuridico in rapporto al tipo di soggetto che entra nella famiglia. Per la moglie si adoprerà la “conventio in manum”, per un altro l‘“arrogatio”, per un altro l‘“adoptio”, ma le conseguenze sono le stesse. E perché erano diversi gli strumenti? Erano diversi perché il riferimento ai singoli soggetti era subito un riferimento a un gruppo, quindi erano diversi i modi in cui bisognava rapportare il gruppo con gli altri gruppi, ma le conseguenze per l’individuo, quale che fosse lo strumento giuridico di ingresso, erano le stesse. Divenivano tutti sudditi del “paterfamilias”, in quanto “personae alieni iuris” (soggette alla “potestas” altrui): divenivano insomma “figli”. Scrive Bonfante: «”filiusfamilias” non altrimenti che “paterfamilias” non è, giuridicamente almeno, termine di parentela. “Filiusfamilias” si dice il nipote, l’estraneo adottato, la moglie o la nuora assoggettate alla potestà del “paterfamilias”» sicché «il “filiusfamilias” può esser marito e padre e non solo maggiore di età, ma ben innanzi negli anni» (10). Anche l’uscita dalla famiglia è analoga alla uscita dalla “civitas”. È una “capitis deminutio”, è una perdita dei diritti. Non c’è una distinzione fra la capacità pubblica e la capacità privata. Scrive Bonfante: «La parola “pater” non indica un rapporto di generazione, ma si richiama […] al senso originario di signore o
sovrano». Di fatto «il “paterfamilias” può non avere né moglie né figliuoli» (11). Il “paterfamilias” del resto era capo politico, giudice, sacerdote. Ulpiano lo definisce così: “Paterfamilias est qui in domo dominium habet” (12). Anche fuori di Roma si trova un segno di questo genere. Le leggi di Manu dettavano: «Anche se sprovvisto di virtù, anche se bramoso di piacere e senza qualità di marito deve essere adorato come un dio da una moglie fedele». Come un dio! Si noti in particolare che a Roma non tutti hanno lo “ius connubii”, ne sono esclusi gli stranieri, i peregrini, i plebei. Perché? Perché è una capacità pubblica. Lo “ius connubii” è una capacità di fondare un nucleo politico; per questo ne sono esclusi lo straniero, il peregrino, il plebeo, almeno fino alla Lex Canuleia del 445 a.C., gli impuberi, gli evirati, gli schiavi, i militari, le donne di teatro. Strane esclusioni per motivi o naturali o fisici o morali che la comunità stabilisce, o esclusioni a fini di prevenzione pubblica nella costruzione di organismi che sono giudicati pubblici. E in relazione al fatto che non tutti hanno lo “ius connubii” è interessante notare che il concubinato non era affatto punito. È solo col cristianesimo che l’adulterio e il concubinato diventano dei peccati e quindi dei reati. Solo nella tarda evoluzione romana si avvertono queste modificazioni, nel quadro della decomposizione del mondo pagano e sotto i primi influssi cristiani. Sentiamo un altro studioso, sempre a proposito del mondo quiritario, del mondo romano antico: Solari, filosofo del diritto. Scrive Solari: «La famiglia quiritaria è un organismo d’ordine e di difesa, ha il suo culto, il suo governo, la sua giustizia criminale; in essa come nello Stato l’assoggettamento è perfetto e l’uscirne è come uscire dalla “civitas”, una “deminutio capitis”. Il testamento
quiritario è il mezzo con cui si trasmetteva l’autorità di capo di famiglia. La proprietà è la sovranità del “pater” nella sua applicazione territoriale» (13). Solari aggiunge poi che l’intero diritto privato - come aveva già notato Bonfante - nell’età quiritaria era il diritto dei “patres familias”, non era il diritto degli individui, dei soggetti, nozione tutta moderna. Il cosiddetto diritto privato era soltanto il diritto non afferente ai poteri statuali, quindi il diritto inerente agli organismi primari e a chi ne aveva la sovranità e la direzione. Era cioè il diritto dei “patresfamilias”; non era il diritto dei singoli componenti il gruppo, ma dei gruppi. Aggiunge Solari: «Solo quando venne meno la funzione pubblica della famiglia e della proprietà i rapporti domestici e patrimoniali non più limitati ai “patres” ma estesi ai “cives” apparvero come rapporti privati sorgenti tra cittadini considerati nella loro personalità individuale, fuori da qualsiasi rapporto con lo Stato». Si può concludere, sviluppando questa intuizione di Solari: che praticamente, sotto il profilo che ci interessa, siamo di fronte allo svilupparsi di una dialettica che sul piano della soggettività conduce dalla soggettività del “pater” alla soggettività del “civis”, per sboccare nella soggettività dell‘“homo”. La soggettività inerisce prima soltanto ai “patres familias”, poi a tutti coloro che hanno i diritti pubblici, ai “cives” per spettare quindi a tutti gli uomini, e infine agli uomini e alle donne. Come si vede comincia a delinearsi una verifica analitica significativa. Si ha infatti la connotazione specifica della famiglia romana come un gruppo primario completamente diverso da quello moderno, fondato sulla preminenza di elementi pubblici, non esaurito negli aspetti sessuali e coniugali. Storicamente si registra una tendenza alla ulteriore progressiva disarticolazione del gruppo, alla emersione dei soggetti privati, alla loro parificazione tendenziale almeno sul piano giuridico, e a quella universalizzazione della
soggettività individuale, che sarà il grande acquisto del mondo borghese moderno.
5. LA FAMIGLIA NEL MEDIOEVO Questo processo di frantumazione del gruppo e di atomizzazione, responsabilizzazione e soggettivazione giuridico-politica, sociale, e spirituale degli individui lo vedremo attraverso il Medioevo. Nel Medioevo, si può dire, modificazioni significative non ce ne sono, almeno fin dopo il Mille. È attorno al Mille che comincia qualche cosa di molto importante. Ma fino al Mille le testimonianze degli studiosi ne cito tre - sembrano identificare un processo di rallentamento, o per lo meno di stagnazione del processo che indicavo, della frantumazione individualistica del gruppo. Scrive Gaudemet, per esempio: «Il legame familiare può essere considerato come l’origine della comunità medievale, ne rimarrà lo specchio, ma il suo ruolo non sarà sempre decisivo» (14). L’organizzazione familiare in senso proprio non funziona nemmeno nel Medioevo. Bloch (15): «Mettere il matrimonio al centro del gruppo familiare significherebbe senza dubbio deformare di molto la realtà dell’età feudale». Stone (16) «In sostanza il matrimonio non era un’unione personale per la soddisfazione di esigenze psicologiche e fisiologiche, ma un meccanismo istituzionale per assicurare la continuità della famiglia e la salvaguardia delle proprietà». Engels ha una definizione molto precisa: «Per il cavaliere, o il barone, come per il principe stesso, il matrimonio è un atto politico, un’occasione per accrescere la sua potenza con nuove alleanze; è l’interesse della casa a decidere, e non il piacere dell’individuo» (17). Del resto, negli organismi politici non è ancora oggi un atto politico? Il matrimonio fra i re e i capi di Stato non è un atto politico? Proiettiamo questo residuato storico nelle lontane brume del passato: il rapporto fra gruppi familiari sovrani era un rapporto di tipo
politico. Più angusto, più modesto, più ristretto, con minore cerimoniale. La trattativa del matrimonio era una trattativa politica in cui il consenso degli individui non entrava per niente, o molto marginalmente. Tutta la letteratura poetica medievale - e Engels cita alcuni esempi molto belli - è piena di richieste da parte del re padre di sacrifici alla figlia o al figlio perché sposi una persona con la quale non avrebbe avuto nessun desiderio di convivere. Oppure di testimonianze da parte del figlio o della figlia che per devozione al padre farà anche questo sacrificio, di sposare Tizio o Caio. E vedremo che Engels, non casualmente, cita come l’embrione della poesia d’amore le “Cantigas de amigos”, i canti degli adulteri. In un matrimonio non consensuale ma politico l’adulterio era la rivendicazione del rapporto schietto degli affetti. È comprensibilissimo che l’ispirazione poetica potesse nascere soltanto in questa occasione, non per il gusto di esaltare in sé e per sé l’adulterio, ma perché l’adulterio era il rapporto affettivo reale, mentre il rapporto giuridico ufficiale era un rapporto politico in cui gli affetti non contavano niente. Nel complesso il mondo medievale continua la tradizione della grande famiglia antica immergendola in un patriarcalismo che trova i suoi punti di riferimento teorico nel cristianesimo. La famiglia si prospetta come un istituto nel quale il sacramento-diritto legittima e riscatta la sensibilità del sesso colpita, come tutto l’universo laico, da disprezzo. Per questo suo tratto sacrale la famiglia si pone come modello generale di ogni vita collettiva. Ma torniamo alla nostra dimostrazione analitica della erosione della famiglia antica. Questa erosione si manifesta tanto nella pratica, progressiva separazione fra funzioni pubbliche e funzioni private, quanto nella progressiva contrapposizione dello Stato alla vecchia famiglia e cioè nello svincolamento della comunità politica dal modello della comunità familiare. Si può ben dire che su questi due processi, pratico-istituzionale l’uno e teorico l’altro, matura la dissoluzione dell’ancien régime e la
nascita del mondo moderno. Essenziale nodo di questa maturazione è costituito dalla messa in crisi del patriarcalismo e dalla fondazione di una relazione completamente nuova fra i rapporti privati e i rapporti pubblici, resa necessaria ma anche possibile dalla nascita dei grandi Stati nazionali moderni basati sulla investitura laica della sovranità.
6. LOCKE E LA CRITICA DEL PATRIARCALISMO Praticamente è con Locke che avviene una grande rivoluzione nella teoria della famiglia e del suo rapporto con lo Stato. Naturalmente non è Locke che sposta il mondo; Locke registra lo spostamento del mondo. Come altri teorici e scrittori prendiamo anche Locke come una spia del suo tempo. L’opera principale di Locke, per quello che ci interessa, è costituita dai “Due trattati sul governo”. Il primo trattato è una polemica contro il “Patriarca” di Filmer, l’ultimo grande testo che esalta la tradizione patriarcale tanto nelle sue configurazioni private, diremmo oggi, quanto come modello di gestione pubblica del governo. Il secondo trattato è il tentativo di sbozzare una costruzione teorica diversa soprattutto del governo pubblico, ma anche del rapporto familiare. Quali rapporti dovranno esistere fra le famiglie e lo Stato una volta che debba dissolversi - questo è il quesito di Locke - la famiglia di tipo patriarcale e un tipo di regime pubblico modellato sul patriarcalismo? È un quesito oggi per noi insignificante, ma per il tempo di Locke straordinario. Tanto è vero che Locke deve discutere con la Bibbia alla mano. C’è qualcosa di patetico nella lotta che tanto lui come altri del suo tempo, Sidney per esempio, conducono, testi biblici alla mano, per dimostrare che non è vero che il potere del patriarca antico comportava un potere pubblico perpetuo sui figli, né che il potere patriarcale debba essere per forza l’unico modo di gestire la città e il governo pubblico. L’argomentazione di Locke - questo è molto importante - muove dunque da una tendenziale separazione tra famiglia e società politica. Locke tende a configurare la famiglia come una società esclusivamente naturale-privata, come una società non politica, e lo Stato come un governo non-patriarcale e cioè come una sfera soltanto politica. È fondamentale tener d’occhio questo tema perché Locke si presenta così come il primo grande teorizzatore della distinzione tra società civile e Stato. La società civile, in particolare la
famiglia - famiglia e società civile marciano insieme - è per Locke una cosa diversa dalla società politica. È una società non politica, dunque naturale. La società politica è una società che invece non ha nulla a che fare con le determinazioni naturali e sociali, è eminentemente politica. La società politica è lo Stato, esclusivamente la sfera dello Stato, tutto il resto, società civile e famiglia, appartiene al mondo della natura e lo Stato viene costruito per Locke con l’obbligo di garantire appunto i diritti di natura, quei diritti che ruotano attorno alla vita familiare e della società civile. Dunque, il presupposto storico-teorico è proprio la distinzione fra società civile e famiglia da una parte e Stato politico rappresentativo garantista dall’altra. Dietro alle lambiccate, per noi stranissime argomentazioni che Locke adopera attorno alla Bibbia, fermenta una tematica che è a ridosso immediato della problematica politica moderna. È interessante notare che Locke attacca l’identificazione famigliagoverno che proveniva da Aristotele asserendo che il potere familiare non è potere assoluto e monarchico. Locke richiama, per esempio, il comandamento «onora il padre e la madre» ma in questi termini: 1) Se la famiglia è retta da “due” persone, perché portarla a modello della monarchia assoluta? In questa prima geniale tesi indirettamente si contesta, da una parte, l’assoggettamento pratico della donna nella famiglia, e dall’altra si teorizza la impossibilità di ricavare dalla famiglia un modulo politico per la gestione della comunità pubblica. 2) Se il potere familiare non è un potere assoluto e monarchico, e se dunque perfino nella famiglia c’è qualche cosa di non assoluto e non patriarcale, questo è un motivo di più per dire che il potere politico non può essere un potere né patriarcale, né domestico, né familiare. Cioè tutta la tradizione dell’identificazione famiglia-governo viene infilzata con una stessa argomentazione. La famiglia patriarcale deve essere cambiata e il governo politico non può imitare niente
della tradizione patriarcale. È un’altra cosa, tutta da inventare: dovrà diventare il governo costituzionale, rappresentativo, del tutto diverso dalla tradizione pubblicistica antica. La politica è la sfera della libera volontà contrattuale. Dice Locke: «Il comando di Dio non conferisce al padre né sovranità né supremazia» (18). E aggiunge che si tratta di un potere da condividere con la madre: il potere dei genitori risiede «non in una, ma congiuntamente in due persone» (19). Tutti infatti sono eguali, salve le differenze naturali: sui figli - scrive Locke - i genitori hanno «una specie di governo e giurisdizione, quando essi vengono al mondo e per qualche tempo dopo, ma soltanto temporanea» (20) cui vengono sottratti dall’età e obbligatorio nell’età dei lumi - dalla ragione. «Il potere, dunque, che i genitori hanno sui figli deriva da quel potere che incombe su di essi di prendersi cura della loro prole durante l’imperfetto stato di fanciullezza, ma quando giunge allo stato che ha reso il padre uomo libero anche il figlio è un uomo libero» (21). È davvero stupenda questa rivendicazione della eguaglianza e della libertà dei figli non appena abbiano toccato l’età della ragione, ragione in nome della quale lo stesso padre ha invocato la libertà per sé di fronte all’autorità pubblica! Se la ragione ha reso libero il padre, renderà libero anche il figlio: libertà pubbliche e libertà private avanzano di pari passo sotto la protezione della ragione. L’acquisto dei lumi rende liberi - ragiona Locke - perché «nasciamo liberi in quanto nasciamo ragionevoli anche se non abbiamo subito l’esercizio della libertà e della ragione» (22). Dunque, il potere che il padre ha sui figli è piuttosto un dovere (un onere diremmo oggi) imposto all’uomo come ad altre creature di conservare la propria prole sino a che non sia capace di provvedere a se stessa (un «aiuto alla debolezza e all’imperfezione»). Infine «la libertà dell’uomo e la libertà di agire secondo la propria volontà sono dunque fondate sul fatto che egli ha la ragione. Il
comando del padre sui figli non è che temporaneo e non si estende alla loro vita e proprietà». Le vite e gli averi sono invece incoercibili, le proprietà sono individuali (non più di gruppo) sicché il potere di comandare finisce con la minorità perché allora subentra il rispetto. Il padre - dice Locke - non ha in mano a lo scettro o il potere sovrano d’impero» (23). Con Locke la rivoluzione borghese se non è compiuta è già teoricamente annunciata a tutto arco: responsabilità individuale, universale eguaglianza tendenziale della soggettività giuridica dovremo fare ancora parecchia strada per trovare l’eguaglianza reale - responsabilità civile e penale personale, funzione emancipatrice della ragione, laicizzazione del comportamento umano. I criteri regolativi della condotta umana stanno nei lumi, non stanno nel puro comando di Dio. Il mondo laico della borghesia è sorto. Le due sfere della città moderna, quella privata e quella pubblica, sono ben sbozzate adesso. La dissoluzione del gruppo primario fa emergere gli individui come privati, come enti separati definiti individualmente di fronte a un potere pubblico che è completamente sganciato dalle determinazioni sociali e naturali. Questo è infatti un potere rappresentativo-elettivo che nulla ha di naturale e nulla ha di sociale: non si diventa deputati perché si è proprietari; occorre invece l’investitura popolare. Tanto nella carriera privata quanto nella carriera pubblica l’eroe borghese è il “self-made man”, l’uomo che si fa da solo: ognuno, non soltanto i soldati di Napoleone, porta nello zaino il bastone di maresciallo. Potere privato (familiare) e potere pubblico sono dunque separati. Leggiamo ancora Locke: «Ma questi due poteri, il politico e il paterno sono così perfettamente distinti e separati, sono fondati su basi così diverse, e menano a fini così diversi che ogni suddito che sia padre ha sui propri figli lo stesso potere che il principe ha sui suoi figli, e
ogni principe che abbia genitori deve ad essi lo stesso rispetto e la stessa obbedienza che l’ultimo dei suoi sudditi deve ai suoi. Perciò il potere paterno non può contenere parte alcuna e grado alcuno di quella sorta di dominio che un principe o un magistrato ha sui sudditi» (24). La distinzione tra il mondo pubblico e il mondo privato, tra l’organizzazione politica e l’organizzazione sociale diviene dunque radicale. La divisione del mondo moderno è fatta. Ora infatti vi è società politica soltanto là ove ciascuno dei membri ha rinunciato al proprio potere naturale e lo ha rimesso nelle mani della comunità. Dunque la comunità non ha più nessun aggancio naturale; non è un organismo ma un contratto, una decisione volontaria: è la volontà popolare. È evocato ovviamente Rousseau.
7. ROUSSEAU In Rousseau troviamo una singolare linea teorica. Per un verso infatti egli porta avanti questo discorso modernista, per un altro lo blocca a causa del suo misoginismo. «Per legge di natura - scrive Rousseau (25) - il padre è il padrone del figlio solo finché il suo aiuto gli è necessario, mentre dopo diventano uguali; allora il figlio, completamente indipendente dal padre, gli deve solo rispetto, e non ubbidienza: infatti la riconoscenza è certo un dovere che bisogna adempiere, ma non un diritto che si possa esigere. Invece di dire che la società civile deriva dal potere paterno, bisognava dire al contrario che proprio da essa questo potere ricava la sua forza principale: un individuo non fu riconosciuto da molti come padre se non quando essi restarono riuniti intorno a lui.» Ormai la deduzione tradizionale del potere pubblico dal modello familiare è teoricamente distrutta. Adesso non c’è più nulla in comune tra il mondo della famiglia e il mondo dello Stato. Ecco ancora un testo di Rousseau (26): «La più antica di tutte le società, e la sola naturale è quella della famiglia: sebbene i figli restino legati al padre solo per quel tempo in cui hanno bisogno di lui per la propria conservazione. Non appena questo bisogno cessa, il legame naturale si scioglie. Sciolti i figli esentati dall’ubbidienza che dovevano al padre, sciolti i padri dalle cure che dovevano ai figli, rientrano tutti ugualmente nell’indipendenza. Se essi continuano a restare uniti, ciò non avviene più naturalmente, ma volontariamente; e la stessa famiglia non si mantiene che per convenzione». Dunque, la famiglia che era l’organismo naturale per eccellenza, adesso si conserva soltanto per convenzione: non è più affidata a leggi eterne di natura ma alla prosecuzione volontaria di un rapporto convenzionale. Viene in questione proprio la struttura fondamentale della famiglia. Si aprirà presto - siamo alla vigilia della rivoluzione francese - il problema della eguaglianza di tutti i figli, nascano dentro o fuori dei rapporti giuridici matrimoniali.
La messa in questione del rapporto familiare come rapporto di natura evoca la possibilità che organizzazioni extrafamiliari generino figli di pari diritto. L’universalizzazione dei diritti si sta completando. L’uomo - dice ancora Rousseau - non appena raggiunta l’età della ragione, poiché egli solo è giudice dei mezzi adatti alla propria conservazione, diventa perciò padrone di se stesso (27).
8. KANT È Kant che enuclea tutte le conseguenze della equiparazione formale di tutti gli uomini e di tutte le donne, ma di una equiparazione soltanto formale. Vorrei sottolineare che l’espressione “soltanto formale” non comporta di svalutare l’operazione teorica di Kant, come spesso si fa. In realtà bisogna sottolineare l’importanza di questa universalizzazione del riconoscimento giuridico formale di tutte le soggettività. Senza il riconoscimento universale delle soggettività neppure l’emancipazione pratica reale sarebbe concepibile. Guai peraltro a ritenere che quella che Marx chiamerà l’emancipazione umana o sociale possa essere considerata come un’operazione appendicolare rispetto alla proclamazione della universale eguaglianza formale di tutti, o come una operazione sostitutiva da compiersi sopprimendo l’eguaglianza formale di tutti. L’eguaglianza sociale, per così dire, è non già l’ultimo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma il primo articolo di una “nuova” Dichiarazione dei diritti dei lavoratori. A rigore è una dichiarazione di “critica del diritto”, una dichiarazione dei limiti del diritto e di rinnovamento “ab imis” degli istituti teorici e pratici espressi dalla borghesia moderna. È del resto significativo che uno dei problemi su cui riflette Kant è quello della possibilità di far coesistere la formale eguaglianza di tutti con la loro pratica diseguaglianza. Questo problema si può leggere in due modi. Oggi noi lo leggiamo in questa maniera: «Se siamo tutti eguali formalmente perché in pratica dobbiamo essere diseguali?» La diseguaglianza pratica è percepita oggi come un che di negativo. Ma per l’osservatore teorico del ‘700 il problema si leggeva capovolto: «Pur proclamando l’eguaglianza formale di tutti come è possibile ignorare che alcuni uomini hanno di fatto la preminenza su altri?».
L’unica difficoltà teorica doveva essere quella della necessità di esercitare un dominio sull’altro uomo senza lederne la eguaglianza formale e cioè la libertà giuridica di autodeterminazione. Kant risolse genialmente questa difficoltà quando sbozzò l’idea del “diritto personale di natura reale”. Questo diritto - scrive Kant - «consiste nel possedere un oggetto esterno come “una cosa” e nell’usarne come “una persona”» (28) e si applica in due campi fondamentalmente: nel rapporto familiare (uomo-donna, padre-figlio) e nel rapporto di lavoro (proprietario-operaio salariato). In tutti e due questi casi si ha un rapporto fra eguali, perché formalmente tutti gli uomini, in quanto dotati di lumi, hanno diritto allo stesso trattamento umano. Non è possibile ridurre in schiavitù nessuno, nessuno può vendere se stesso se non a tempo determinato. Tuttavia deve essere possibile riconoscere la diversità delle operazioni pratiche, apparentemente motivata dalla diversità di talento. Ora il diritto personale di natura reale serve a Kant a risolvere questo problema: basta infatti che io tratti l’altro come un uomo da un punto di vista formale, che lo giudichi come un soggetto a me pari e riconosca sostanzialmente l’autonomia della sua volontà perché io possa poi operare nella pratica servendomi del suo corpo e della sua attività come di una cosa. È il caso, innanzi tutto, del rapporto matrimoniale. Il matrimonio è infatti un rapporto tra soggetti formalmente eguali, che si posseggono l’un l’altro come cose per libera decisione di ciascuno. Per Kant nell’atto sessuale «l’uomo riduce se stesso ad una cosa» perché instaura un rapporto naturalistico di godimento, «il che è contrario al diritto dell’umanità che risiede nella sua propria persona» in quanto soggetto spirituale. Aggiunge Kant che questo rapporto dell’uomo a se stesso (e all’altro uomo) come natura è possibile alla sola condizione di una reciproca deliberazione dei due soggetti.
Così, infatti, è salva l’autonomia dei due soggetti, la loro personalità formale, nonostante la loro degradazione naturalistica. Kant delinea in tal modo con grande lucidità teorica la dinamica concettuale del rapporto uomo-uomo-natura come si stabilisce nel mondo borghese moderno trasvalutando l’eredità cristiana con la nozione del matrimonio inteso come reciproco vincolo monogamico. L’unica eguaglianza possibile di fronte alla vita pratica è quella della comune perdizione, sanzionata dal vincolo giuridico del matrimonio monogamico. In una concezione mercantile del mondo lo scambio riscatta l’alienazione di se stesso. Per una tale concezione diviene altresì configurabile un diritto del coniuge al corpo dell’altro coniuge e perciò un diritto al possesso perpetuo e alla indissolubilità del vincolo. Poiché il rapporto dell’uomo all’altro uomo (alla donna) non è concepito come un rapporto inclusivo di elementi naturali (il senso è degradazione!), il rapporto naturale all’altro uomo appare come rapporto ad un mero oggetto e perciò come rapporto di possesso e dominio. Del resto, con lo schema del diritto personale di natura reale è possibile salvare tanto la formale eguaglianza di tutti quanto la loro universale diseguaglianza pratica. Così Kant afferma che il dominio dell’uomo sulla donna «si fonda soltanto sulla superiorità naturale delle facoltà dell’uomo su quelle della donna» sicché esso può essere addirittura dedotto dal loro “comune” interesse familiare e dalla loro stessa eguaglianza «relativamente al fine» senza ledere, dunque, la loro formale parità (29). Quanto ai figli, pur essendo delle «persone», sono essi stessi configurabili come cose in possesso dei genitori, e quindi se i figli fuggono i genitori possono riprenderli «come animali domestici scappati e tenerli rinchiusi» come pollastri. In genere i commentatori della teoria matrimoniale e familiare di Kant hanno sempre dato scarso peso a queste posizioni, e hanno persino
spacciato Kant come un vecchio misogino che per inesperienza d’amore ha trattato male le donne e i figli. È un modo di avvilire il genio di Kant, a mio avviso. In realtà egli definisce teoricamente l’unico modo in cui è possibile, nella società borghese moderna, comporre l’antitesi tra il trattamento formalmente uguale o giuridicamente pari di tutti e la concreta diseguaglianza degli uomini. Poiché la formale soggettività giuridica è anteposta alla eguaglianza sociale empirica, questa prevaricazione iniziale del diritto sul fatto si deve trasporre in un meccanismo di arbitrario potenziamento giuridico di talune condizioni empiriche. Così, Kant tratta in modo completamente diverso matrimonio e concubinato, figli legittimi e figli naturali fino a limiti davvero sorprendenti e tuttavia non privi di una interna logicità. Scrive Kant a proposito del figlio naturale, per esempio: «Il bimbo venuto al mondo all’infuori del matrimonio è all’infuori della legge (perché la legge è il matrimonio), e per conseguenza è anche all’infuori della protezione della legge. Egli si è per così dire insinuato nella società civile (come una merce proibita), in modo che questa può ignorare la sua esistenza e in conseguenza anche la sua distruzione (poiché legittimamente egli non avrebbe dovuto esistere in questo mondo)» (30). Dunque, sebbene il matrimonio trovi la sua razionalità nella relazione naturale-sessuale e perciò anche nella generazione, questa diviene impossibile al di fuori del matrimonio e il figlio naturale diviene per Kant, propriamente, un figlio innaturale. Se in genere il figlio è riducibile a cosa in possesso dei genitori, il figlio naturale è addirittura una cosa proibita in quanto nato fuori della legge. Per questo motivo Kant legittima teoricamente l’infanticidio per causa d’onore! Il figlio naturale, infatti, non doveva venire al mondo perché il mondo è un mondo giuridico, sebbene le relazioni giuridiche esistano per render possibile la convivenza mondana. Essendo la natura configurata arbitrariamente come razionalità giuridica, la violazione del diritto viene configurata come comportamento innaturale.
La categoria del diritto personale di natura reale è dunque lo strumento teorico con cui Kant cerca di risolvere il dualismo moderno tra livello sensibile e livello razionale, smembrati e contrapposti tanto dai rapporti sociali pratici quanto dalle rappresentazioni idealistiche della vita e del mondo. Come nel mondo medievale il problema centrale era di saldare in unità il mondo terrestre finito e il mondo infinito dello spirito (le «due città»), così Kant ripropone in termini laici, secolarizzati, moderni, ma equivalenti, un nesso soltanto spirituale di unificazione del sensibile e del razionale. Ma, ciò facendo, egli torna a postulare un dualismo antico in forme moderne: il dualismo anima-corpo nella forma della titolarità giuridica (soggettiva, razionale, formale) del corpo, nella forma della contrapposizione - insomma - tra sensibilità e ragione. Questa impostazione di Kant è non solo un geniale tentativo di saldare i dualismi del mondo borghese moderno, ma è soprattutto storicamente feconda in quanto prepara l’eversione di se stessa e predispone gli strumenti teorici per un’analisi completamente diversa del mondo borghese. Tanto nel rapporto sessuale così disprezzato quanto nel rapporto di lavoro salariato, Kant non può infatti negare l’esistenza del sensibile (e questo si capisce: nemmeno San Tommaso negava l’esistenza del sensibile), e neppure la necessità di recuperare surrettiziamente quella sfera dell’empirico sensibile da cui aveva fatto astrazione nella costruzione puramente razionale delle sue categorie. Insomma, dopo aver presentato il rapporto sessuale come degradazione inumana, pura animalità, avremmo dovuto aspettarci l’esaltazione della vita monastica, come in fondo il mondo medievale ancora faceva, del celibato e della castità. Kant avverte invece la insopprimibilità dell’istanza sensibile. Ma questa riassunzione dell’elemento sensibile avviene in istituti ambigui e sotto la tutela della formalizzazione giuridica, cui deve poi far riscontro la coattività giuridica. Kant deve ancora procedere
dogmaticamente nella fondazione razionalistica di istituti e rapporti che hanno invece una radice storico-sensibile e dedurre intellettualmente ciò che il processo storico sta per esprimere nella pratica sotto la determinazione di necessità sociali. Con la formula giuridico-formale del diritto personale di natura reale Kant cerca di dare sistemazione teorica al rapporto del lavoro salariato ma non crea certamente questo rapporto per il solo fatto che ne dà un inquadramento teorico. Al contrario, Kant deve proporsi questa soluzione teorica perché il problema è storicamente già posto. Non è infatti la teoria di diritto personale di natura reale che crea i proprietari e gli operai dipendenti; al contrario, è l’esistenza storica di proprietari e di operai dipendenti che propone a Kant il problema nuovo della eguaglianza formale degli uomini, anche se la soluzione kantiana di tale problema viene poi a costituire una dimensione essenziale del rapporto sociale nuovo.
9. HEGEL E FEUERBACH Hegel riconosce il libero consenso come fondamento del rapporto uomo-donna ma concepisce poi il matrimonio come reciproca autolimitazione che deriva dalla responsabilità soggettiva, ma che è implicitamente postulata dalla impossibilità sociale di gestire in modo diverso sia le proprietà individuali che i figli (31). Quanto alla differenza dei sessi Hegel la vede come una differenza della determinazione intellettuale ed etica, cioè come una qualità naturale che è già ricca di qualità storico-morali. Per Hegel infatti «la determinatezza naturale dei due sessi riceve, dalla sua propria razionalità, significato intellettuale ed etico» (32). Qui «razionale» è ancora la natura, ma una natura che è già carica di storia sicché la divisione “naturale” dei sessi trapassa subito in divisione di funzioni sociali e poiché le funzioni sociali di cui si parla sono le funzioni di una società che ha raggiunto il vertice della sua evoluzione storica (si pensi alla grande costruzione dello Stato hegeliano) si tratta di funzioni sociali immodificabili in quanto dedotte come istanze etiche. Ai caratteri naturali dei sessi Hegel attribuisce così funzioni sociali storicamente prodotte e conferisce alle funzioni sociali (che dovrebbero essere delle variabili storiche) determinazioni naturalistiche. L’esempio più significativo lo si ha nel rapporto famiglia-proprietà. Scrive Hegel: «La famiglia come persona ha la sua realtà esterna in una proprietà nella quale essa ha l’esistenza della sua personalità sostanziale soltanto in quanto la ha in beni» (33). Dunque la famiglia si eticizza e si personifica, ma ciò comporta un’autolimitazione dei soggetti in un soggetto formale nuovo che, come tutti i soggetti formali deve darsi un corpo esterno: la proprietà. Dunque la proprietà è la realizzazione della famiglia. Qui si avverte, trasvalutato, il riconoscimento implicito di quella tesi che Engels renderà poi in maniera demistificante affermando che la famiglia monogamica è una funzione storica della proprietà privata. Sebbene cambi l’ordine dei segni (e ovviamente ciò non è certo privo di significati!), famiglia monogamico-giuridica e proprietà
privata si coniugano tra loro. Ma il grande merito di Hegel è di aver dato un contributo teorico decisivo alla identificazione dei connotati spirituali del rapporto uomo-donna e cioè dell’eros moderno. Una prima formulazione dei caratteri distintivi dell’eros moderno era rintracciabile, per la verità, già nel “Discorso sull’origine dell’ineguaglianza” di Rousseau che distingue nell’amore un lato morale e un lato fisico. Scriveva Rousseau (34): «Il lato fisico è quel desiderio generale che spinge un sesso a unirsi all’altro. Il lato morale è ciò che determina questo desiderio e lo fissa su un solo oggetto, in modo esclusivo, o almeno con un più alto grado di energia nei confronti di questo oggetto preferito». Il «lato morale dell’amore» era poi definito da Rousseau come «un sentimento artificioso, nato dalla pratica della società», cioè come un elemento “storico”. Veniva così implicitamente postulata una variabilità storica dell’eros in ragione di condizioni storiche e in particolare veniva così implicitamente contraddetta la tesi eticizzante della monogamia come amore esclusivo. Ma Rousseau aveva altresì messo in luce ché l’eros moderno, proprio in quanto “amore che si spiritualizza” è ben altro che puro sesso. Scriveva, per esempio, Rousseau: «Limitati al solo lato fisico dell’amore e abbastanza felici da ignorare quelle preferenze che ne stimolano il sentimento e ne aumentano le difficoltà, gli uomini [allo stato originario] devono sentire più raramente e con minor vivacità gli ardori del temperamento e di conseguenza avere tra loro liti più rare e meno crudeli (35). L’immaginazione, che fa tante stragi tra noi, non parla a cuori selvaggi: ciascuno aspetta tranquillamente l’impulso della natura, si abbandona ad esso senza scelte, con più piacere che furore, e una volta soddisfatto il bisogno, ogni desiderio è spento». Concludeva Rousseau: «È dunque incontestabile che anche l’amore, come tutte le altre passioni, ha acquistato solo nella
società quell’ardore impetuoso che lo rende così spesso funesto agli uomini; e rappresentare i selvaggi che si sgozzano continuamente tra loro per appagare la loro brutalità è tanto più ridicolo in quanto questa opinione è nettamente contraria all’esperienza». Hegel segue la stessa linea di ragionamento e cioè accetta l’idea che l’eros moderno sia segnato profondamente dalla spiritualità e si distingua perciò dalla pura sessualità dell’eros antico in quanto storicamente più ricco. Cominciamo con la definizione dell’amore che dà Hegel: «L’autentica essenza dell’amore consiste nel rifiutare la coscienza di sé, nel dimenticarsi in un altro io epperò in questa stessa dissoluzione e in questo oblio nel trovare se stesso e possedersi», che è un modo straordinario di rendere le caratteristiche differenziali dell’eros moderno rispetto all’eros antico. Cioè, l’eros moderno è il tentativo di costruire una comunità binaria nella quale io mi perdo in te e proprio perdendomi in te mi ritrovo e mi riconquisto, cioè mi plasmo al di fuori del mio limite, ampliandomi ed espandendomi. Questa espansione comunitaria (un pensiero inesistente nel mondo antico, straordinariamente ricco e, vedremo, straordinariamente presente nella problematica culturale e letteraria in particolare del mondo moderno) viene bloccata soltanto dalla sua istituzionalizzazione familiare che, come si è visto, comporta una autolimitazione di responsabilità. Aggiungiamo qualche altra nota sull’amore in Hegel. Dice Hegel: «Nell’amore il separato è ancora ma non più come separato». L’eros moderno è il tentativo di costruire una piccola comunità là dove la grande comunità è dissolta; il mondo in cui viviamo è un mondo di solitari separati e la comunità binaria del sesso è una sorta di surrogato della grande comunità, il che non significa affatto che sia “soltanto” un surrogato della grande comunità, ma che sulla comunità sessuale naturale, che era l’unica immaginabile nel mondo antico, si innesta questa nuova problematica storica.
Tutto ciò non viene rilevato da Hegel in maniera esplicita. Egli sottolinea però i “limiti” dell’amore e scrive, per esempio: «L’amore è solo il sentimento personale del soggetto singolo, che si mostra pieno non degli interessi eterni e del contenuto oggettivo dell’esistenza umana, la famiglia, i fini politici, la patria, i doveri della professione, del proprio ceto, della libertà, della religiosità ma solo del proprio io, che vuole riaccogliere il sentimento riflesso da un altro io» (36). In questo peculiare linguaggio Hegel indica chiaramente tanto la insurrogabilità della grande comunità ad opera della piccola comunità, quanto le tensioni interne che questo limite dell’eros porta con sé e le tensioni esterne che l’eros stesso può subire nel mondo moderno in relazione alla particolare configurazione spirituale che il soggetto individuale può assumere per rapporto alla struttura della società. L’eros moderno si collega così alla elaborazione spirituale della moderna soggettività e alle sue vicende eminentemente storiche e sociali, non esauribili, cioè, nella pura sensibilità del sesso. Feuerbach andrà più avanti ancora. Nel suo naturalismo antropologico («il senso è l’organo dell’assoluto») egli riesce a vedere l’essenzialità della comunione e della comunicazione per la determinazione della stessa soggettività individuale e riesce anche a vedere la coessenzialità del sensibile. Sotto il primo profilo Feuerbach trova che «l’amore può radicarsi soltanto nella unità del genere» e sotto il secondo profilo scrive: «L’uomo non si distingue dalle bestie soltanto per il pensiero. La differenza dalle bestie è data piuttosto dalla sua essenza considerata nella sua totalità. […] I sensi delle bestie sono assai più acuti che quelli degli uomini, ma lo sono soltanto in riferimento a cose determinate che stanno in un rapporto necessario con i bisogni dell’animale; e sono più acuti proprio a causa di questa loro determinazione, e di questa loro esclusiva limitazione ad alcunché di determinato. L’uomo non ha l’odorato di un cane da caccia o di un corvo; ma ciò dipende dal fatto che il suo odorato è un senso che si estende ad ogni genere di odori, ed è perciò un senso libero, un senso indifferente di fronte a
odori particolari. Ma allorquando un senso oltrepassa i limiti della particolarità e spezza il vincolo che lo lega al bisogno, si eleva ad un significato, ad una dignità autonoma, teoretica: il senso universale è l’intelletto, l’universale sensibilità è lo spirito» (37). L’universalizzazione della sensibilità sessuale è appunto la sua spiritualizzazione, ma non alla maniera tradizionale della sublimazione soppressiva del sensibile, bensì alla maniera nuova della assunzione del sensibile a elemento strutturante della razionalità, e perciò anche della assunzione della comunità mondana a elemento strutturante della comunità spirituale.
10. KIERKEGAARD E MARX Tutti questi temi di riflessione sul sensibile si catalizzano singolarmente verso la metà degli anni quaranta del diciannovesimo secolo. I concetti suesposti di Feuerbach risalgono al 1844, anno di stesura dei “Princìpi della filosofia dell’avvenire”. Nello stesso anno Marx stila i suoi “Manoscritti economico-filosofici” e Kierkegaard pubblica “Il concetto dell’angoscia”, dopo aver scritto nel 1843 il “Diario del seduttore” che è da considerarsi una rielaborazione dell‘“Erlebnisdrang” di Don Giovanni. In Kierkegaard il rapporto uomo-donna assume un valore emblematico: diviene chiaramente rappresentativo ed espressivo dell’intero rapporto uomo-natura. Vedremo che questa stessa posizione teorica assumerà anche Marx, ma in Kierkegaard questo rapporto fra l’uomo e la donna si configura immediatamente come un rapporto fra spirito e materia, fra soggetto e oggetto senza nessuna ricostituzione dell’eguaglianza del genere umano con se stesso. Alla base della concezione di Kierkegaard, cioè, c’è un irrigidimento naturalistico delle differenze storicamente prodottesi fra l’uomo e la donna a cui mette capo una visione spiritualistica e specialmente estetistica della vita, che recepisce e trasvaluta la cristiana configurazione demoniaca e peccaminosa della sessualità. Il «vivere poeticamente», ch’è l’aspirazione suprema dell’esteta, si traduce infatti nel disprezzo di ogni elemento sensibile della vita. La pratica del sensibile, nel quadro di questi presupposti, non può non decadere nel demoniaco e cioè nella consapevole sovversione del rapporto che viene adesso esplicitamente «usato» strumentalmente per i superiori fini del soggetto spirituale. Allora il rapporto naturale si carica di «allusioni» spirituali, di cui prende in qualche modo consapevolezza anche la vittima. Non siamo lontani dall’universo di Sade. Poiché lo «spirito poetico» viene aggiunto alla realtà dal soggetto spirituale dominatore, anche la donna, che pur lo chiama «mio assassino», ne percepisce il magismo e gli si dà, d’altra parte l’uomo che pur fruisce del suo
vantaggio «spirituale» diviene consapevole del suo carattere artefatto e simulatorio. Per il seduttore kierkegaardiano «una fanciulla non dovrebbe essere interessante giacché l’interessante presuppone una meditazione su se stessi, e la fanciulla non deve meditare su se stessa» giacché suo tipico carattere è di essere natura, antitesi dello spirito che «rappresenta la negazione di tutta la sua esistenza femminile». Su queste basi si configura una romantica mitologia della donna che contrappunta una romantica concezione generale della natura. La natura si deve presentare nella donna con i suoi tipici caratteri di verginità, innocenza, grazia: «è la pura verginità che designa la donna come essere che esiste per un altro essere», così come la natura in quanto è vergine mostra di essere destinata alla civilizzazione umana - è un pensiero di ascendenza kantiana - così la verginità dimostra e realizza il suo esser per l’uomo. Come puro frammento della natura, anche la donna esiste soltanto in quanto è in attesa dello spirito, dell’opera civilizzatrice dell’uomo. La stessa spiritualizzazione della donna non può essere che opera dell’uomo, ed assumere un carattere sconsacratore perché «se nell’uomo l’innocenza è un momento negativo, nella donna è l’essenza della vita» e perciò «non appena una fanciulla si è concessa completamente, tutto è finito». Scrive ancora Kierkegaard: «Questa essenza della donna (la parola esistenza dice già troppo, giacché ella di per se stessa non esiste) viene indicata giustamente come Grazia, espressione questa che ci ricorda la vita vegetativa; ella è come un fiore, piace dire ai poeti, e perfino quel che in lei c’è di spirituale ha alcunché di vegetativo. Ella rientra nei limiti della natura ed è perciò libera soltanto esteticamente. In senso più profondo, è liberata soltanto per mezzo dell’uomo […]» (38), il quale è evidentemente puro spirito! Così il rapporto uomo-donna si pone come rapporto diseguale, fra soggettività e oggettività, fra storia (spirituale) e natura (astorica).
Nel “Concetto dell’angoscia” Kierkegaard giunge a dire che «il silenzio si addice alla donna; non è soltanto la sapienza più alta della donna, ma anche la sua bellezza»: la donna è, oltreché saggia, bella quando tace: è infatti priva di ragione, è un oggetto. Dunque soltanto in quanto oggetto la donna è se stessa e come tale è apprezzabile per la civiltà, e per l’uomo in particolare. Del resto, si legge altrove, «l’innocenza è ignoranza» (39). Quanto all’atto sessuale, esso diviene il rapporto con cui lo spirito feconda la materia. Ne deriva che per un verso «la donna tocca il suo vertice nella procreazione», dall’altra, però, l’amore stesso è un limite proprio perché è amor sessuale nel quale non è sopprimibile il momento sensibile. In quel rapporto, insomma, la materia si solleva alla spiritualità, ma lo spirito decade a materialità. Qui scoppia l’antinomia dell’amore: di un rapporto inevitabilmente sensuale anche quando (e forse soprattutto quando) viene spiritualizzato (Marx definirà l’amore «un materialista non cristiano»). Kierkegaard non riesce a liberarsi di questa antinomia. Deve così escludere che di per sé la sessualità sia peccaminosità, tuttavia deve poi considerare che la peccaminosità della specie umana infetta anche il sesso, sebbene - si è visto - l’uomo sia spirito! Nel complesso, al di sotto di una vera e propria mistificazione teorica, Kierkegaard ci fornisce un geniale riconoscimento tanto dell’antinomia d’amore, quanto della connessione che v’è tra storia della grande comunità e storia della piccola comunità. Naturalmente si tratta nel primo caso di una antinomia irrisolta e nel secondo di una connessione letta in negativo. Anche Kierkegaard paga dunque un prezzo al disprezzo che egli dimostra per il sensibile: non riesce a restaurare la mediazione storica che pur esiste fra sensibilità e spiritualità tanto nella piccola come nella grande comunità (40). Sarà questa, appunto, l’impresa di Marx. Per Marx il rapporto uomodonna non scade a mero rapporto “naturalistico” (maschio-femmina)
proprio perché esso è osservato attraverso la dimensione della storia, mentre il tema della spiritualità non viene mai contrapposto a quello della materialità del godimento. Pertanto proprio questo livello sensibile del rapporto giunge a caricarsi di possibilità prospettiche nelle quali si realizza compiutamente il rapporto storico del genere. E per lo stesso motivo, allora, il rapporto uomo-donna giunge ad essere immediatamente rappresentativo del generale rapporto dell’uomo all’altro uomo in quanto inteso come rapporto non meramente spirituale ma come rapporto incardinato sulla sensibilità. Così, infine, il rapporto dell’uomo alla donna diviene il misuratore di tutta la civiltà nello specifico senso che esso è il primo rapporto naturale del genere umano e il primo rapporto umano della sensibilità naturale. Ma ecco la celebre pagina di Marx sul rapporto uomo-donna: «Nel rapporto verso la “donna”, preda sottomessa alla libidine della comunità, è espressa la smisurata degradazione in cui l’uomo si trova ad esistere di fronte a se stesso; ché il segreto di tale rapporto si esprime “non ambiguamente”, ma risolutamente, “manifestamente”, scopertamente, nel rapporto dell‘“uomo” [singolo] alla “donna” [singola] e nel modo in cui è compreso l‘“immediato, naturale”, rapporto generico. Il rapporto immediato, naturale, necessario, dell’uomo all’uomo è il “rapporto” dell‘“uomo” alla “donna”. In questo rapporto generico-“naturale” il rapporto dell’uomo alla natura è immediatamente il suo rapporto all’altro uomo, come il rapporto dell’uomo all’uomo è immediatamente il suo rapporto alla natura, la sua propria determinazione “naturale”. In questo rapporto “appare”, dunque, “sensibilmente”, e ridotto ad un “fatto” intuitivo, che, nell’uomo, l’essenza umana è divenuta natura, e che la natura è divenuta l’umana essenza dell’uomo. Da questo rapporto si può, dunque, giudicare ogni grado di civiltà dell’uomo. Dal carattere di questo rapporto consegue quanto l’uomo è divenuto e si è colto come “ente generico”, come “uomo”. Il rapporto dell’uomo alla donna è “il più naturale” rapporto dell’uomo all’uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento “naturale” dell’uomo è
divenuto “umano”, ossia fino a che punto la sua “umana” essenza gli è diventata esistenza “naturale”, fino a che punto la sua umana natura gli è diventata naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il “bisogno” dell’uomo è divenuto “umano” bisogno; fino a che punto, dunque, l‘“altro” uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità» (41). Su un versante teorico completamente diverso da quello di Kierkegaard Marx delinea qui, oltre tutto, una concezione della donna come autentica ed eguale alterità dell’uomo entro il comune genere nonché una concezione del rapporto tra l’uomo e la donna come un rapporto che ha “necessità” della soggettività oltre che della sensibilità, e cioè di una ragionevolezza capace di mediare il sensibile. Tramonta, con l’idea della donna-oggetto anche l’idea dell’amore-passione o amore che è soggettivo in quanto “meramente” fantastico, sganciato dalla sensibilità, la quale soltanto in maniera disordinata e casuale viene poi ad essere immessa nel circuito della «passione» d’amore, caricata ormai dei segni drammaticamente negativi che questa ha storicamente assorbito dal mondo sociale in cui nasce il soggetto appassionato.
Parte seconda COMUNITÀ DOMESTICA E SOCIETÀ CAPITALISTICA 11. TRE TENDENZE Si può legittimamente affermare che con questa polemica del tutto indiretta tra Kierkegaard e Marx si chiude, nella teoria della famiglia e del rapporto uomo-donna, tutta un’epoca. Dall’opera complessiva di Marx e dalla critica positivista della tradizione speculativa nasce una prospettiva d’indagine del tutto nuova nella quale l’impianto storico-analitico prevale nettamente. Di questa nuova prospettiva, entro cui mette radice la più moderna sociologia della famiglia, sono molto rappresentative le seguenti opere: “Primitive marriage” di J. F. McLennan (1865), “The origin of civilization” di J. Lubbok (1870), “Origines de la famille” di Giraud-Teulon (1874), “Ancient Society” di L. H. Morgan e “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di F. Engels (1884). Specialmente le ultime due opere segnano una svolta radicale nello studio della famiglia: la prima per la limpidezza delle ipotesi proposte e delle argomentazioni prodotte, la seconda per le conclusioni storicomaterialistiche cui arriva e per le indicazioni geniali che fornisce anche in ordine - vedremo - al problema dell’eros moderno. Tramontato l’impianto esclusivamente o prevalentemente speculativo della discussione sulla famiglia e sul rapporto uomodonna, l’indagine si sgancia definitivamente dal confronto condizionante con la tradizione religiosa e si concentra sull’analisi delle istituzioni e dei rapporti moderni, rovesciando progressivamente anche in questo campo la relazione passatopresente. Naturalmente si tratta di una tendenza, ma che si dimostra assolutamente predominante. Sebbene non possa considerarsi del tutto risolta la contrapposizione tra la concezione naturalistica e la concezione storico-funzionale
della famiglia, è certo che quest’ultima ha guadagnato moltissime posizioni (1). A ciò ha senza dubbio contribuito in larga misura non soltanto il progresso teorico dell’indagine, ma anche la circostanza che quest’ultimo secolo ha comportato una serie imponente di modificazioni sociali, giuridiche e psicologiche dell’istituto familiare facilitando così e stimolando le rilevazioni critiche e una visione dinamica e funzionale della famiglia. Né si è trattato di fenomeni di pura e semplice variazione istituzionale che si limitano ad aumentarne la fenomenologia sottoposta all’osservazione senza porre in risalto nuove tendenze e regolarità. Al contrario, via via che il processo di sviluppo socio-economico ha investito più profondamente i paesi evoluti, nuove tendenze e regolarità nelle variazioni concernenti l’istituto familiare si sono manifestate e consolidate, per modo che è oggi possibile un discorso generale sulle correlazioni esistenti tra la industrializzazione e le modificazioni della famiglia. Per altro verso, ampliatosi il campo della fenomenologia familiare in una società industriale fino a raggiungere importanti punti limite di sovversione o trasformazione profonda degli istituti recepiti, sta forse diventando possibile anche un discorso più sistematico sulle tendenze di fondo che caratterizzano la vita della famiglia nella transizione da una società sottosviluppata ad una società industriale. Volendo accennare uno schema di queste tendenze, senza altra pretesa che di formulare ipotesi che si cercherà di motivare in seguito, potremmo fissare questi tre punti: 1) Tendenza al completamento della «contrazione» della famiglia fino al limite della cosiddetta «famiglia nucleare» coniugale; 2) Tendenza alla «riduzione» delle funzioni socio-economiche della famiglia fino al limite della cosiddetta comunità di puro sostentamento; 3) Tendenza alla atomizzazione individuale dello stesso nucleo familiare sotto diversi profili (economico, giuridico, etico, psicologico). Su queste tre tendenze concentreremo la riflessione.
12. LA «CONTRAZIONE» DELLA FAMIGLIA Pare accertato ormai che è stato Henry Sumner Maine (2) a indicare una vera e propria tendenza della famiglia moderna a contrarsi nelle sue strutture giuridiche, economiche, etiche e psicologiche al più ristretto ambito delle relazioni del coniugio e della filiazione. L’angolo d’osservazione del Maine non era però tanto l’osservazione della società moderna per sé presa, bensì la comparazione storica generale tra la famiglia antica e la famiglia moderna o, più esattamente ancora, tra la società antica fondata sulla unità familiare (di gruppo) e la società moderna fondata sulla unità individuale. Dopo Maine fu Spencer (3) a sottolineare questa tendenziale contrazione della famiglia moderna e a darle un rilievo sociologico generale. E fu Spencer a porre nel 1877 un quesito che tuttora ci interessa: «V’è un limite alla disintegrazione della famiglia?» (4). Spencer constatava che «nelle nazioni più progredite si è già da tempo completato il processo, che ha dissolto i maggiori aggregati familiari, eliminando la tribù e la gente, e lasciando solo la famiglia vera e propria; ed hanno già avuto luogo disintegrazioni parziali anche di questa» (5). Inquadrando - come si addiceva ad un positivista - questa tendenza storica in una visione evoluzionistica e naturalistica, Spencer si imbatteva in una sorta di paradosso: mentre nella scala naturale delle specie il complicarsi e rafforzarsi dei vincoli di sangue (e dei connessi legami di solidarietà e cooperazione) procedevano di pari passo con l’evolversi generale delle specie, la tendenza alla «disintegrazione» moderna della famiglia poteva essere interpretata come un segno di progresso? Da questo interrogativo, che maturava - ovviamente - entro una cultura imbevuta non soltanto della mitologia del perfezionamento delle specie ma anche della mitologia del progresso unilineare, Spencer traeva motivo per ragionamenti e giudizi assai discutibili. Ma non è questo che qui interessa, bensì il fatto abbastanza singolare per un evoluzionista che Spencer concludesse prevedendo «un movimento di ritorno» che riportasse il fenomeno nel quadro biologico evoluzionista, articolato al livello dell’uomo dai due princìpi della
«generosità» nella famiglia e della «giustizia» nella società. Scriveva infatti, al termine del capitolo nono dei suoi “Princìpi di sociologia”: «Tuttavia, ricordando le leggi generali della vita, e osservando il contrasto essenziale tra il principio della vita familiare e quello della vita sociale, ci persuadiamo che la disintegrazione della famiglia fino a questo grado [cioè fino alla sostituzione del legame familiare col legame sociale] è eccessiva, e sarà seguita poi da una reintegrazione parziale» (6). È a Durkheim che si deve la formulazione più limpida e radicale di una vera e propria tendenza della famiglia moderna a «contrarsi». Nella “Divisione del lavoro sociale” del 1893 Durkheim mette in chiaro che si tratta di una tendenza collegata non già a regolarità generiche della evoluzione umana e tanto meno biologica, bensì ad alcuni caratteri specifici della società industriale. L’analisi di Durkheim è particolarmente interessante perché si fonda su una messa a contrasto della società agricola e della società industriale: nella prima la famiglia (e il villaggio) è l’«organo immediato» e unico, nella seconda essa «è sempre più astratta nel sistema degli organi sociali» (7). Sulla linea già accennata dal Maine del passaggio da una società «istituzionale» a una società «contrattuale», Durkheim fissa il principio generale che «la storia della famiglia, a cominciare dalle sue origini, è […] un movimento ininterrotto di dissociazione» (8) nel corso del quale le diverse funzioni si articolano secondo il criterio della divisione del lavoro finché il diffondersi della divisione del lavoro e dello scambio spezza la «autonomia» del gruppo familiare-agricolo e immerge i singoli individui nella circolazione intensa della società industriale-contrattuale: alla «organizzazione segmentaria» propria della società agricola subentra la «organizzazione professionale» propria della società industriale, al «sistema alveolare» di una vita sociale intersegmentaria subentra un «sistema organico» in cui la reciproca dipendenza degli organi «fa sì che ciò che colpisce l’uno ne colpisce altri, e perciò ogni mutamento di una certa gravità assume un interesse generale» (9). La «contrazione» della famiglia viene insomma a contrappuntare come
una macroscopica conseguenza istituzionale l’avvento di una relazione sociale che rapporta fondamentalmente non più i gruppi autoorganizzati nell’ambito di una ristretta comunità domestica di produzione-consumo, bensì i singoli individui che restano sempre più immersi in una interconnessione universale mediata e limitata dalla divisione del lavoro e dallo scambio contrattuale (10). Si potrebbe anche dire - con una espressione impiegata da Marx (11) che la moderna società industriale-capitalistica è sostanzialmente la prima effettiva relazione interamente sociale, nella quale il ricambio dell’individuo con la natura non è più mediato dal ristretto ambito della comunità di gruppo, ma da un generale ricambio interindividuale, da una universale mobilità sociale. Se queste rilevazioni di tendenza sono esatte, molti dei caratteri propri della famiglia moderna attengono non alla storia della famiglia come tale, ma alla storia della società moderna, in una misura che sembra letteralmente rovesciare la precedente tendenza storica, quando - al contrario - taluni fondamentali caratteri della vita sociale erano (o meglio, apparivano) come derivati dalla struttura e dalla vita familiare. Anche ad un primo sguardo, infatti, la vita familiare moderna sembra progressivamente «contaminata» dall’atomismo individualistico, dalla pratica e dallo spirito della weberiana «calcolabilità», dalla difficile «comunicabilità», dalla dissoluzione morale dei legami autoritari tradizionali, dal difficilmente rimovibile «autoisolamento», dalla costante rivendicazione della «parità» e in sostanza da tutti quegli elementi che nell’insieme caratterizzano la tipica «crisi» della società moderna. Sospendiamo per ora il giudizio e la valutazione etico-sociale del fenomeno e cerchiamo piuttosto di verificare la bontà dell’ipotesi finora formulata con argomenti di dettaglio relativi ad alcuni caratteri propri della famiglia in una società già investita da un alto tasso e ritmo di industrializzazione. La “contrazione del personale familiare” all’ambito dei coniugi e dei figli è un carattere certamente eminente della famiglia
contemporanea (12) che vede dissolversi non soltanto l’unità spaziale della «grande famiglia» patriarcale, ma anche l’unità morale e sentimentale del generico vincolo di sangue a vantaggio del vincolo fissato dal coniugio e dalla generazione immediata. Naturalmente questa tendenza, che è di per sé difficilmente confutabile, può sollevare un plausibile argomento di ritorsione: se è vero che la famiglia si contrae, è pur vero che sopravvive un «campo minimo» di unità familiare costituito appunto dal vincolo «essenziale» di coniugio e di generazione e cioè un vincolo di sangue. Ma non mancano obiezioni possibili a questo argomento. In primo luogo occorre sottolineare che quel campo minimo non è contrassegnato eminentemente dal vincolo di sangue, ma da quel vincolo di sangue che è “legalmente” stabilito: non da un qualsiasi coniugio o una qualsiasi effettiva filiazione, ma da quel coniugio e quella filiazione che, per mezzo di un formulario legale, trovano un riconoscimento giuridico. Il rilievo è assai importante perché induce a spostare l’attenzione verso un elemento generalmente trascurato o, quanto meno, sottaciuto nell’analisi della famiglia moderna, e cioè la regolazione giuridica dello status familiare. Si tratta di un elemento che evidenzia nella struttura della famiglia moderna l’esigenza della certezza del vincolo - e di una certezza, si badi, assolutamente formale, cui può anche non corrispondere lo stato di fatto (l’effettivo “consortium vitae” nel matrimonio o l’effettiva generazione nel rapporto di filiazione). Se ciò è vero, si può affermare che la regolazione moderna dell’istituto familiare sembra soprattutto coordinata con la necessità di dare uno statuto certo alla condizione individuale delle persone fisiche così come le formalità previste dal diritto per la costituzione delle persone giuridiche si coordina con la necessità di dare uno statuto certo alla loro vita e attività (13). Da questo punto di vista si può con fondatezza collegare il processo di contrazione della famiglia con i fenomeni di individualizzazione generale delle attività pratiche aventi rilevanza sociale, vale a dire con fenomeni quali la individualizzazione della responsabilità civile e penale, della capacità giuridica, della stessa capacità politica (14). Fenomeni, questi, che nella società moderna sembrano imporsi con tanta maggior forza quanto più si diffondono e divengono universali i
riconoscimenti dei diritti (e degli obblighi) “per tutti gli individui” (15). La fine, del resto, della responsabilità solidale del gruppo o della capacità giuridica e politica limitata al capo-gruppo si svolge parallelamente al processo di contrazione della famiglia. Che l’esigenza della certezza giuridica del gruppo e dei rapporti sia in stretto legame con la progressiva dissoluzione del gruppo e con la progressiva individualizzazione delle attività e delle responsabilità pare altresì provato dal fatto che la contrazione della famiglia procede di pari passo con la contrazione dei poteri che lo stesso capo della famiglia esercita all’interno della famiglia: basti ricordare la fine della tutela maritale, l’alleggerirsi progressivo del regime delle autorizzazioni maritali e paterne, il restringimento dei poteri giuridici sui figli che vanno acquistando la loro precoce autonomia soprattutto nel campo delle attività lavorative (possibilità di essere soggetto di un contratto di lavoro) e della costituzione di nuove famiglie (precoce capacità matrimoniale e soprattutto emancipazione legale mediante il matrimonio). Per tutti questi aspetti il fenomeno della contrazione della famiglia non dovrebbe essere messo in rapporto - come spesso accade - con un generico decadere dei vincoli di sangue nella società infinitamente mobile che nasce con le strutture economiche industriali moderne (16), quanto piuttosto con i processi di atomizzazione individuale delle attività economiche da cui quella società propriamente nasce come «società civile», le cui unità costitutive - gli individui - non presentano più al livello delle loro attività di produzione e sussistenza collegamenti o vincoli di gruppo di natura politica. In definitiva, il processo di contrazione della famiglia è uno dei fenomeni che si collegano alla dissoluzione generale della società di tipo feudale fondata sulla vincolazione politica di gruppo e quindi sugli “Stände” o «classi chiuse». Proprio per questo la contrazione della famiglia, che si avvia certamente già all’inizio della rivoluzione industriale, va accentuandosi con la transizione di una società ancora agricolo-industriale a una società industriale-agricola.
Alcuni aspetti della contrazione della famiglia meritano di essere particolarmente sottolineati. In primo luogo è da dire che un’altra prova della connessione causale tra tale fenomeno e l’atomizzazione individualistica della società industriale è data dal progressivo intervento della regolazione giuridica in campi prima pressoché rimessi alle autonomie dei gruppi familiari e anche dal continuo sovrapporsi di «riforme» giuridiche che mirano a mettere quella regolazione in sintonia con la progressiva emersione della società industriale «pura». Ma un secondo importante aspetto è poi dato dal fatto che la suddetta contrazione - definibile come «quantitativa» - si va accompagnando ad una contrazione definibile come «qualitativa», cioè a forme di articolazione interna dell’istituto familiare che danno spazio sempre maggiore al dinamismo individuale. Alcuni di questi fenomeni sono stati già indicati, ma qui dobbiamo alludere principalmente al diffondersi dell’istituto dello scioglimento del matrimonio e specialmente all’istituto-limite del divorzio consensuale. Una analisi storica può facilmente provare due dati di fatto: che la risolubilità del vincolo matrimoniale - nelle forme giuridiche moderne - si afferma nelle società che per prime si industrializzano e che va poi estendendosi in tutta l’area dei paesi coinvolti nel processo di industrializzazione. Senza voler escludere importanti concause di natura etico-religiosa (la cui presenza storica, del resto, potrebbe trovare una spiegazione sociologica) si può anche qui affermare che la maggiore mobilità del vincolo matrimoniale è in stretta relazione con i processi di individualizzazione già ricordati, rispetto ai quali la regolazione giuridica non può limitarsi a stabilire una volta per sempre un crisma di certezza meramente formale e deve invece articolare meccanismi capaci di adeguare lo statuto legale allo statuto reale delle unità familiari. È certamente vero che in questo campo assumono notevole peso elementi di costume e di etica sociale, e tuttavia è difficile escludere che questi stessi elementi sono messi in movimento da processi attinenti alla dinamica produttiva: è comunque un fatto - constatabile per esempio anche in Italia - che il problema del divorzio è andato acquistando rilevanza nella coscienza pubblica e privata proprio con il completarsi della
trasformazione industriale della nostra economia e che appunto nell’ultimo decennio quella rilevanza è cresciuta assai più che nel cinquantennio precedente (17). Un altro caratteristico aspetto del processo di contrazione della famiglia è facilmente rilevabile sul piano della composizione numerica. Sembra possibile stabilire una tendenza generale alla diminuzione non soltanto del raggio di presa stabile della famiglia a cavallo delle varie generazioni (18), ma anche del numero che in assoluto la costituisce a causa della diminuzione drastica del numero dei figli. Il fenomeno è molto importante per una valutazione sociologica, specialmente là dove - come in Italia - non si registra affatto una diminuzione assoluta della popolazione. Assistiamo qui a una singolare differenziazione della società industriale rispetto alla società preindustriale: mentre la popolazione assoluta non tende necessariamente a diminuire e talvolta anzi tende ad aumentare, si moltiplicano le unità familiari e diminuisce la loro composizione numerica. Sparisce non soltanto la famiglia patriarcale di largo raggio che mantiene associate più generazioni, ma sparisce anche quel particolare tipo di famiglia patriarcale che è la famiglia numerosa. Operano certamente, anche qui, varie concause come l’aumento del peso costituito dal figlio in una società che esige sempre più elevati livelli di prestazioni per l’individuo e specialmente per il bambino (istruzione, igiene, cure mediche, dieta razionale), ma queste stesse motivazioni sono in diretto rapporto con l’evolversi del livello di vita nella società industriale e, soprattutto, con la progressiva perdita di valore dell’uomo come forza-lavoro di fronte al crescente processo di meccanizzazione (che, si badi, investe anche le campagne, campo principale di formazione della antica famiglia numerosa), nonché con la mobilità della stessa forza-lavoro indotta a rapidi spostamenti dai processi di industrializzazione e di complicazione della vita sociale (emigrazione interna ed esterna, urbanizzazione, spostamento dal luogo d’origine su un’area almeno nazionale in relazione alle attività economiche, impiegatizie, professionali). Come la «ricchezza di
manodopera» cessa di costituire di per sé una «ricchezza» via via che il lavoro umano può essere sostituito dalla macchina, così il numero dei figli cessa di rappresentare una prospettiva di effettivo aiuto per la famiglia: la stessa facilitazione giuridica dell’autonomia individuale stimola e rende possibile un precoce svincolamento dei figli dalla famiglia e un loro inserimento autonomo nella vita produttiva moderna che può portarli a centinaia di chilometri dai genitori. Il fenomeno è sociologicamente trasparente in un paese come l’Italia ove non soltanto l’aumento assoluto della popolazione è netto e costante e dove tuttavia diminuiscono le famiglie numerose, ma dove è chiaramente individuabile il processo di transizione per la struttura ancora fondamentalmente duale dell’economia. Si può infatti rilevare che le famiglie numerose abbondano nel Sud sottosviluppato (o in aree sottosviluppate del Nord come il Veneto) e anche che esse vanno diminuendo nelle aree sviluppate dello stesso Sud (19). Un terzo aspetto caratteristico della famiglia «nucleare» è la progressiva diminuzione del peso anche morale dei vincoli di sangue. Come ha scritto Ralph Linton «in genere l’abitante della città riconosce i legami di parentela solo con l’invio delle cartoline di Natale e con l’occasionale offerta d’ospitalità al parente in visita» (20). Il fenomeno è assai più che un puro sintomo di una diversa valutazione sociale del vincolo di sangue. Esso incide su un telaio assai ampio di rapporti che vanno dalla fine della tradizionale «omertà familiare» nel procacciamento di vantaggi economici e sociali, al decadere di forme un tempo importanti di controllo sociale esercitate dal parentado e di forme di solidarietà parentale criminosa («vendetta di famiglia»). Al limite - un limite, certo, ancora tutto teorico - il fenomeno si inquadra in un singolare processo di decadimento di un vincolo di sangue ancor più generale come è quello della solidarietà «paesana», del regionalismo e addirittura del nazionalismo. Per ciò che questo processo interessa il nostro tema è da rilevare il diffondersi (relativo) dei matrimoni «geograficamente»
misti, che scavalcano vecchie remore all’esogamia («Moglie e buoi dei paesi tuoi») abbattendo le frontiere psicologiche regionali e nazionali. L’unificazione socio-economica che accompagna la mobilità sociale e spaziale nonché lo svincolo dell’individuo dai controlli sociali di tipo patriarcale (parentado, vicinato, compaesani) è chiaramente un frutto della industrializzazione e della connessa nascita di mercati almeno nazionali. Negativamente sono rilevanti anche altri fatti come il prevalere - di fronte ai vincoli di sangue - di vincoli di natura squisitamente sociale ed economica come la ricerca di un lavoro redditizio, la evasione fiscale, la solidarietà o affinità professionale e persino politica. Si può concludere che nella società industriale la famiglia tende non solo a contrarsi come famiglia nucleare (coniugi + figli minori), ma anche a rendere più mobili le sue stesse articolazioni interne e, infine, a isolarsi rispetto ai tradizionali controlli sociali. Essa emerge, insomma, come unità minimizzata sia dal punto di vista delle generazioni che racchiude, sia dal punto di vista della dislocazione territoriale, sia dal punto di vista della durata temporale dell’effettivo rapporto di coabitazione e di solidarietà operativa, sia infine relativamente ai suoi punti di riferimento per le valutazioni sociali. Essa si cala sempre più in quel tipico anonimato moderno che è la città industriale, in cui la densità sociale intensa, il forte impegno di tempo nel lavoro o nelle attività extrafamiliari (scuola, attività sindacali, politiche, culturali, istruzione, svaghi, impegni sociali) tendono ad accentuare ancor più l’isolamento della famiglia come tale e a proiettarne i componenti in reti fittissime di rapporti esclusivamente sociali. La famiglia diventa «un’isola posta nel flusso della dinamica sociale» (21). Esistono controtendenze? Certamente. Basterà ricordare qualche elemento di costume come il «ritorno al paese» non solo dell’emigrato, ma del paesano inurbato, frastornato dalla vita di città, oppure come la sempre più diffusa pratica delle vacanze in paese o dell’acquisto di una casa per le vacanze, oppure come certe resistenti forme di solidarietà parentale (ospitalità, vacanze in
comune, favori). Si tratta però di elementi che operano saltuariamente nella vita della famiglia nucleare e sempre più saltuariamente: comunque in forma nettamente subordinata rispetto ai fondamentali vincoli di natura sociale e principalmente del lavoro. Nel complesso il peso di queste tendenze si fa sempre più marginale nel quadro della vita familiare, assorbita progressivamente dal tessuto anonimo dei rapporti sociali. Tutto ciò non può non indurre contraccolpi pesanti nella struttura morale e psicologica dei rapporti di famiglia. Ma, prima di valutarli, conviene esaminare la seconda tendenza che abbiamo enucleato.
13. LA RIDUZIONE DELLE FUNZIONI SOCIOECONOMICHE DELLA FAMIGLIA Anche la riduzione delle funzioni socio-economiche della famiglia nella società industriale è un fenomeno tendenziale rilevato da tempo e con una notevole convergenza di giudizi. Il primo ad aver dato una motivazione organica del fenomeno è stato quasi certamente Max Weber che in questo senso appunto ha parlato di «dissoluzione della comunità domestica». Vale la pena di citare un passo significativo di “Economia e società”, nel quale fra l’altro, vengono congiuntamente rilevate sia la riduzione delle funzioni socio-economiche della famiglia, sia la sua riduzione alla famiglia «nucleare», sia il suo coinvolgimento e la sua subordinazione alle relazioni sociali ed economiche moderne. Scrive dunque Weber: «Dopo che in epoche primitive - e quindi di agricoltura relativamente povera di strumenti - l’accumulazione del lavoro era stata l’unico mezzo di potenziamento del reddito, e l’ambito delle comunità domestiche aveva attraversato un periodo di accrescimento, lo sviluppo storico ha provocato in generale, con il progredire del guadagno individualizzato, la costante diminuzione di tale ambito, finché la famiglia di genitori e figli rappresenta la sua dimensione normale. In questo senso ha agito la sensibile modificazione della posizione funzionale della comunità domestica, la quale si è spostata in modo tale che per il singolo diventa sempre minore lo stimolo a sottomettersi a una grande casa di tipo comunistico. A parte il fatto che la garanzia della sicurezza non gli viene più prestata dalla casa e dal gruppo parentale, ma dal gruppo istituzionale del potere politico, la ‘casa’ e la ‘professione’ si sono separate anche localmente; e la casa non è più sede di produzione comune, bensì luogo di comune consumo» (22). In seguito queste constatazioni si sono andate moltiplicando e si sono particolarmente messi in luce i seguenti dati: a) la industrializzazione disgrega l’artigianato e l’agricoltura patriarcale, tipici luoghi di formazione della famiglia-unità produttiva, b) la crescente divisione e specializzazione del lavoro proietta i membri della famiglia verso attività spesso assai
divergenti e non-complementari (23), c) il diffondersi della istruzione accresce - in condizioni date - la capacità e scelta precoce da parte dei figli di una professione in base a preferenze e vocazioni individuali su cui il peso dell’autorità paterna va diminuendo, d) il diffondersi del rapporto salariale come rapporto tipico della massa lavoratrice consente in linea di massima la suddetta precocità di scelta e al tempo stesso la proiezione esterna della vita produttiva dei membri della famiglia, e) la concentrazione e cartellizzazione dell’industria e del commercio promuovono processi analoghi anche nella famiglia del ceto medio tradizionale (bottegai che liquidano l’azienda familiare per lavorare come rappresentanti di grandi ditte o come commessi o esperti di grandi magazzini presenti ormai anche nelle città medie e piccole) (24), f) la separazione più radicale dalla terra da parte degli inurbati, per un verso, e, per un altro, la meccanizzazione dell’agricoltura sovvertono completamente l’antico, tipico focolare di campagna che sopravvive ancora per qualche tempo nella transizione alla società industriale e spezzano anche certi più tenui legami che aggregavano la famiglia in sede produttiva (orticoltura, piccolo allevamento, eccetera). Ma questi fenomeni sono ancora essenzialmente esterni alle mura domestiche tra cui penetrano soltanto indirettamente. Altri ve ne sono, invece, che svuotano per così dire dall’interno tipiche attività socio-economiche della famiglia. I principali sono i seguenti: a) crescente occupazione produttiva della donna, b) sviluppo di attività sociali gestite dallo Stato, c) meccanizzazione e socializzazione di molti servizi domestici. Vale la pena di considerarli partitamente. L’occupazione extradomestica delle donne pare sempre più un fenomeno essenziale nel determinare variazioni della struttura familiare (25). Innanzi tutto essa crea un vuoto domestico di eccezionale portata, aprendo il problema della cura dei figli come quello dei lavori domestici. In secondo luogo esso sradica definitivamente ogni ulteriore possibilità di lavoro produttivo, sia pure collaterale, condotto
in casa (salvi i casi abbastanza atipici di taluni lavori a domicilio o quelli, probabilmente transitori e saltuari, del “part time”). In terzo luogo induce progressivamente le unità familiari a ricercare «succedanei» del lavoro femminile domestico con un ulteriore processo di disintegrazione della tradizionale “privacy” o della non meno tradizionale «intimità» domestica: è il caso delle «donne di servizio», delle nonne, degli elettrodomestici, delle ditte addette alle pulizie, delle “baby sitters”, dei pasti fuori casa (nelle mense o nelle «tavole calde»). La casa cessa di essere qualcosa di diverso da un dormitorio. Si tratta di un fenomeno che non è stato ancora sufficientemente analizzato nelle conseguenze sconvolgenti che determina soprattutto nelle famiglie dei lavoratori manuali, generalmente stanziate nelle lontane periferie delle città e sprovviste di mezzi per procurare adeguati «succedanei». Non pochi dei traumi psicologici della famiglia lavoratrice trovano probabilmente la loro matrice in questo fenomeno. In quarto luogo il processo di disintegrazione dell’unità familiare si accentua aumentando il tempo di separazione tanto tra i coniugi quanto tra padri e figli, fino a casilimite, non più rari, di vera e propria separazione dal tetto domestico per giorni, settimane o mesi (è il caso dell’emigrante, ma anche di una serie di funzionari statali, professori, artisti, eccetera). Una prima, ma insufficiente, controtendenza per tamponare il vuoto domestico causato dalla occupazione femminile è certamente la redistribuzione del lavoro domestico tra i coniugi (26). Una seconda controtendenza è del tutto «naturale»: consiste nella diminuzione della natalità e nell’aumento delle separazioni legali. Ma si tratta di fenomeni che sostanzialmente si concludono con una ulteriore ripercussione sulla stabilità del nucleo familiare, in un processo a catena. L’intervento dello Stato nei servizi sociali che interessano in qualche modo la famiglia tende esso stesso a risolversi in un ulteriore processo di erosione dell’unità della famiglia. Il diffondersi della istruzione obbligatoria (e il suo estendersi nel tempo), l’organizzazione di asili di infanzia e di asili-nido, la generalizzazione
dell’assistenza sanitaria e del pensionamento sono tutti fenomeni che si inseriscono positivamente nella crescita del livello di vita e di sicurezza dell’uomo moderno e nondimeno essi tendono a promuovere una maggiore autonomia dei membri della famiglia accentuando la separazione tra vecchi e giovani, tra coniugi, tra padri e figli (27). Il processo di «surrogazione» delle funzioni familiari sconfina, infine, nella vera e propria industria: la confezione di alimenti conservati, la organizzazione industriale della preparazione dei pasti, dei lavori di pulizia domestica, persino della fornitura di custodia a tempo per i figli piccoli si affiancano vittoriosamente alla già imponente irruzione in casa degli elettrodomestici (28). Anche fisicamente la sede domestica viene coinvolta quotidianamente nella vita industriale. Non soltanto la famiglia cessa di essere una unità produttiva, non soltanto si limita ad essere una unità di consumo, ma diviene, addirittura, un importante settore del mercato (29). Se nella società industriale è dapprima la famiglia a stimolare con le sue oggettive carenze l’intervento dell’industria, è poi l’industria a stimolare il processo di assorbimento sociale della famiglia moltiplicando ritrovati «succedanei». V’è di più: gran parte della «civiltà dei consumi» propria di una società industriale evoluta pare fondarsi proprio sulla stimolazione di standards attinenti alla vita familiare (abitazione, arredamento, abbigliamento, automobili, vacanze, turismo, mobili), cui non corrisponde un adeguato sviluppo degli investimenti pubblici (tipico è il caso della scuola) (30). Trasformata in un mercato di consumo la casa resta pur sempre una cellula privata che deve fronteggiare i crescenti bisogni con un bilancio privato che per la generalità delle famiglie lavoratrici diviene sempre più un cruccio drammatico. La crescente dinamica della vita sociale impedisce o frena la diminuzione o il contenimento dei consumi sia per il consolidarsi degli standard raggiunti nella psicologia individuale e familiare, sia per la pressione di motivi di prestigio sociale, sicché la logica della vita familiare più modesta,
che un tempo si arroccava sulla trincea del «risparmio» se non proprio dell’avarizia, cade in balìa della corsa ad un aumento delle entrate erodendo ulteriormente il tempo domestico e il tempo libero. Anche per questo aspetto la famiglia non costituisce più un «rifugio» rispetto alla logica della vita sociale, né un settore (l’unico, magari) controllabile della propria esistenza. Per di più essa resta, invece, l’unico settore nel cui interno si allentano i controlli sociali sulla condotta e sulla psicologia individuale, in cui si scaricano le tensioni accumulate in una giornata di lavoro sempre più pesante. La “privacy” rischia di diventare soltanto la camera di sfogo degli squilibri indotti dalla tumultuosa vita moderna. Ma qui accostiamo la terza tendenza che abbiamo indicata come tendenza all’atomizzazione individuale, con il suo seguito di anomia e alienazione.
14. ATOMIZZAZIONE E CONFORMISMO I processi che accentuano l’erosione del gruppo familiare al livello della vita economica hanno ben presto una traduzione politicogiuridica e psicologica: una società in sviluppo non può tollerare a lungo squilibri istituzionali che frenano la crescenza. Tuttavia le controspinte di origine tradizionalista sono, specie in società che si industrializzano tardi, assai forti. Per questo il problema degli istituti familiari diviene un importante terreno di scontro. Questo aspetto, in questa sede, ci interessa però meno delle turbe psico-sociali. Il processo di adattamento, in questo caso, è favorito dal contemporaneo sviluppo di moderne tecniche educative di massa (cinema, radio, televisione, fumetti, giornali, eccetera) e dalla rapida incidenza che vengono ad assumere nella formazione del costume le giovani generazioni, meno legate ai modelli passati. Da questo punto di vista può addirittura dirsi - come ha scritto Riesman - che sono i figli ad allevare i padri (31). D’altra parte proprio perché le variazioni della vita familiare avvengono sempre più sotto la pressione di fenomeni sociali (ed economici) il processo di adattamento è promosso dall’intera vita di relazione. I sovvertimenti della vita sociale sono ingenti e non è possibile qui esaminarli. Basti accennare schematicamente all’avvento della «società» dei consumi, alla tumultuosa avanzata tecnologica, allo sviluppo dei servizi ternari e quaternari, alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, alla diffusione della scolarità e della cultura di massa in genere, alla diffusione dell’automobile, all’intensificarsi parossistico dell’urbanesimo, al razionalizzarsi di molti settori della vita (alimentazione, igiene, sanità, uso del tempo libero, eccetera). Quali sono le reazioni fondamentali che - nel quadro dell’industrializzazione accelerata - si determinano nella vita familiare? Alcune le abbiamo indicate di passaggio, altre verranno segnalate in seguito. Qui ci preme identificare i caratteri salienti della variazione. Sulla base delle indagini sociologiche è possibile dire che fondamentalmente la famiglia perde il suo ruolo trainante nel
processo di adattamento sociale dell’individuo. L’atomismo delle relazioni, la razionalizzazione utilitaristica dei rapporti e delle condotte, la dispersione dei membri della famiglia per un tempo crescente (sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nei mezzi pubblici durante i viaggi quotidiani), diminuiscono progressivamente l’incidenza educativa della famiglia oltre che la compattezza generale del nucleo. Ciò è stato acutamente e brillantemente riassunto dal Riesman nella tesi del passaggio dall’individuo autodiretto all’individuo eterodiretto (32). I modelli di vita dei coniugi come dei figli si foggiano sempre più fuori del nucleo familiare, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nel «gruppo dei pari» in un processo di osmosi delle esperienze sociali che è modellato progressivamente dagli strumenti tipici dell’anonimato moderno: la moda, la pubblicità, i mezzi di comunicazione di massa, il mercato dei consumi. Non soltanto ciò mina l’intimità dei rapporti di famiglia ma vi introduce addirittura elementi di sconnessione e di eversione: sempre più i singoli membri - compresi i bambini - trovano nella famiglia non già il luogo di costruzione e di recezione dei modelli di vita, ma invece il terreno di confronto o scontro di modelli esterni o addirittura il banco di paragone (afflittivo per di più) rispetto agli standard massimi assimilati al di fuori. La «strategia del successo» che nella società soppianta la «strategia della rinuncia» (33) e del sacrificio viene a scontrarsi con le dimensioni «reali» della vita familiare che operano come mezzi frenanti nella espansione delle acquisizioni. I legami familiari tendono così a profilarsi come vincoli e pesi che fruttano soltanto frustrazioni e rinunce. Lo svincolamento individuale della pratica personale vi trova una controspinta che ha scarsa forza di persuasione e di attrazione. Anche quando il processo di adattamento sociale della famiglia va avanti, anzi proprio nella misura in cui va avanti, esso mette a nudo una quantità eterogenea di componenti psicologiche che si traduce inevitabilmente in una maggiore possibilità di frizione, la cui risoluzione pacifica passa spesso sotto il segno dell’autoritarismo. Il caso limite è costituito, paradossalmente, dai criteri stessi della «approvazione» familiare, giacché questa approvazione tende a costruirsi non già sul metro del vecchio autoritarismo personalistico del padre o del coniuge
«oppressivo» bensì sul metro della approvazione sociale e cioè del successo sociale. Come dice il Riesman «l’approvazione stessa, indipendentemente dal suo contenuto, diventa quasi l’unico bene non equivoco di questa situazione: si fa bene quando si è approvati. Così, tutto il potere, non semplicemente qualche potere, è nelle mani del gruppo approvante, effettivo o immaginario» (34). L’indifferenza ai contenuti, il formalismo delle relazioni, trova qui una base importante e la vita familiare, già fisicamente e economicamente svuotata, si assottiglia nei suoi valori formativi. Da questo punto di vista non pare esatto rivendicare alla famiglia un ruolo di «difesa» nei confronti del conformismo sociale dilagante (35). Al contrario nella media - essa diviene il luogo tipico di legittimazione autorevole dei modelli conformistici della società. L’invasione della T.V. rappresenta certamente l’ultimo e più imponente elemento di trasformazione della famiglia in capillare articolazione della «socializzazione» dei modelli di comportamento (36). Sembra dunque legittimo richiamare l’attenzione sulla necessità di incidere sul tessuto delle relazioni sociali per consolidare la struttura dei rapporti affettivi. Adorno e Horkheimer hanno esattamente individuato l’esistenza di una «duplice dinamica sociale» che si esercita sull’individuo moderno, ridotto ad «atomo sociale» dalla società industriale evoluta. Essi scrivono: «Da una parte la crescente socializzazione la ‘razionalizzazione’ e ‘integrazione’ di tutti i rapporti umani nella società di scambio pienamente sviluppata - tende a comprimere e negare il più possibile l’elemento, irrazionale e naturale-spontaneo dal punto di vista della società, dell’ordinamento familiare. Dall’altra, lo squilibrio tra l’individuo e le potenze totalitarie della società si acuisce in modo tale da indurre il primo a cercar spesso una sorta di riparo ritraendosi in microassociazioni, come appunto la famiglia, la cui persistenza autonoma appare inconciliabile con lo sviluppo generale; per cui la tendenza di sviluppo che mette in forse la famiglia sembra darle, almeno temporaneamente, nuovo sostegno. Ma, contemporaneamente, la famiglia è attaccata anche dall’interno: progressiva socializzazione significa registrazione e controllo
sempre più integrale degli istinti, ma le rinunce che ne derivano non vanno senza attriti, e gli impulsi repressi possono reagire a loro volta distruttivamente contro la famiglia. Questa si trova oggi, per così dire, tra i due fuochi del progresso dell’incivilimento e delle controtendenze irrazionali che esso mette in moto» (37). Riassumiamo schematicamente le motivazioni sociali più rilevanti delle turbe della famiglia: a) i rapporti generali della famiglia tendono a complicarsi con il restringersi del raggio di convivenza della «famiglia nucleare» che fronteggia, con un numero ridotto di membri, problemi di organizzazione e di bilancio sempre più complessi e situazioni psicologiche assai diversificate; b) i rapporti coniugali sono esposti al duplice urto dell’allontanamento della donna dal lavoro domestico e della divaricazione delle forme di adattamento sociale e di lavoro; c) i rapporti con i vecchi sono istituzionalmente allentati dalla fine della coabitazione e dall’avvento di forme di assistenza sociale; d) i rapporti con i figli sono istituzionalmente allentati dal «vuoto domestico», dall’espansione del tempo scolastico e educativo, dalla eterodirezione del fanciullo. In queste condizioni quale pertinenza può assumere l’interrogativo circa la possibilità che la famiglia costituisca il rifugio e la difesa dal conformismo sociale? Non si sostiene affatto che nella società evoluta diminuisca il bisogno della «presenza degli affetti». Al contrario, si afferma la istituzionale impossibilità della famiglia moderna di risolvere il compito elettivo che le si attribuisce. Il problema centrale sollevato dalla crisi della famiglia non è tanto quello di come recuperare ad essa ciò che va perdendo, ma di approfondire l’indagine sulle cause di questo spossessamento sociale delle funzioni anche più delicate della famiglia e rilevare gli scompensi che gli istituti sociali «succedanei» manifestano. Ora, pare che lo scompenso fondamentale sia dato dal fatto che quei succedanei sociali non sono, propriamente, articolazioni di una sociale consapevolezza. È bensì vero che alcuni di essi sono creati e gestiti dallo Stato (scuola, previdenza, assistenza), ma proprio
questi istituti rivelano, nel periodo della crescenza, la loro inadeguatezza e burocratizzazione con improvvisi e impreveduti scoppi. Più rapidi nell’adeguamento sono certamente gli istituti esterni alla famiglia che rientrano nel quadro delle attività private, ma qui appunto si manifesta una contraddizione gravissima giacché le funzioni di cui la famiglia viene spossessata in nome di una razionalità sociale si trovano affidate a istituti privatistici dominati dai criteri usuali dell’industria e del commercio privati, e cioè dalla legge del profitto. Così mentre si apre il vuoto familiare, i riempitivi pubblici si rivelano inadeguati o burocratizzati e quelli privati collidono radicalmente con i fini specifici della vita e della gestione familiare. È in questa drammatica situazione che vengono a maturare soprattutto le turbe delle nuove generazioni messe di fronte al vecchio autoritarismo familistico oppure al vuoto domestico e in tutti e due i casi al formalismo e alla educazione stereotipa. La fenomenologia dei risultati è nota: aumento della delinquenza minorile, ribellismo anarchico, cinismo, utilitarismo. Di fronte ad essi sarebbe parimenti errato un atteggiamento di demagogica indulgenza e un atteggiamento di superficiale e ingiusta accusa delle nuove generazioni. In realtà queste manifestano nei modi che sono loro consentiti dalla educazione sociale una accusa bruciante al dissesto della società industriale che cresce sul metro esclusivo delle valutazioni «denarose». In definitiva può dirsi che il conformismo spersonalizzante e quindi anche desocializzante che tende a plasmare l’individuo eterodiretto non è che il rovescio (talvolta sorprendente) della struttura individualistica, privatistica, «separata» che i rapporti sociali accentuano nel periodo della crescita industriale (38). L’illusione che questa crescita quantitativa riesca da sé a risolvere con il «benessere» il problema degli uomini moderni, alimentata da tutti i pori della vita sociale contemporanea, va riesaminata a fondo anche in rapporto alla vita familiare. Sotto questo profilo, però, occorre guardarsi - penso - anche da un altro pericolo, derivante da semplicismo. Dal pericolo, cioè, di
scambiare per nemico essenziale della civiltà l’aumento oggettivo della ricchezza, pericolo che viene alimentato - per un comprensibile processo di ripulsa - da forme di rifiuto della socialità, oppure dalla illusione di poter costruire cellule catacombali, separate negli «interstizi» della società, oppure infine da forme di acritica esaltazione della povertà (39). Il problema vero sta in realtà - a mio avviso - nel subordinare la critica della «abbondanza» alla critica delle strutture sociali in cui si realizza e che, per essere strutture essenzialmente privatistiche, sono - in quanto solo teoricamente aperte a tutti - illusorie e - in quanto concretamente attinte da alcuni esclusive e antisociali. Al fondo, la critica deve colpire tanto il carattere non paritario della fruizione della ricchezza socialmente prodotta, quanto il carattere privato della sua produzione. Per il primo aspetto è possibile apprezzare il peso grave che esercita sulla vita familiare l’impossibilità concreta di realizzare i modelli conformistici che la invadono. Per il secondo aspetto è possibile rendersi conto del fatto che proprio l’impostazione privatistica della produzione industriale moderna giunta a dimensioni gigantesche riesce ormai a varcare la frontiera degli affetti e a ridurre i nuclei familiari a punti di vendita di un anonimo mercato delle cose e delle preferenze.
15. SESSO, GENERAZIONE, SOSTENTAMENTO Da un punto di vista funzionale, dunque, la famiglia tende nella evoluzione della società industriale a perdere tutte le molteplici caratteristiche che risultano estranee alla relazione sessualegenerativa e al compito del sostentamento dei figli minori: tanto le funzioni di mutua assistenza generale di un largo parentado quanto le funzioni produttive, tanto le funzioni di conservazione e trasmissione di modelli tradizionali di comportamento quanto le funzioni di vera e propria educazione e socializzazione. Ma le stesse funzioni che sopravvivono accennano a notevoli trasformazioni. Quanto alla relazione sessuale-generativa le variazioni più rilevanti sembrano le seguenti. Innanzi tutto la accentuata mobilitazione delle relazioni interindividuali sottolinea la consensualità del vincolo coniugale, sia nel momento della sua instaurazione, sia nelle prospettive della sua risoluzione. L’incidenza di interventi esterni alla coppia si fa sempre minore nella scelta coniugale e nella decisione matrimoniale. Viene così evidenziata con forza la responsabilità degli individui nella istituzione dei nuovi nuclei familiari. Sotto questo profilo tendono a scomparire i matrimoni predisposti dai genitori o addirittura da interi nuclei familiari, si risolvono le superstiti tradizioni endogamiche, si disperdono le valutazioni estranee alla problematica individuale nella progettazione dei matrimoni. Ciò non significa certo che scompaiano completamente i cosiddetti matrimoni di convenienza o di interesse, ma che anche la convenienza e l’interesse ricevono una valutazione sempre più strettamente personale. Da questo particolare punto di osservazione si scopre la scarsa razionalità di un basso limite legale per la capacità matrimoniale, quale quello stabilito in condizioni sociali assai diverse, caratterizzate da una larga e durevole solidarietà della famiglia a largo raggio e dall’intervento dei genitori nella scelta coniugale. Questa individualizzazione della scelta e della responsabilità nella gestione della famiglia tende a porre in rilievo anche l’elemento dell’amore consensuale come fondamento del vincolo matrimoniale, non nel senso che esso risulti praticamente
eminente, ma nel senso che esso figuri “formalmente” come la motivazione essenziale. È da qui che prende avvio la diffusione dell’istituto del divorzio e della risoluzione consensuale (40). L’effetto pratico, peraltro, - in presenza di remore giuridiche - si manifesta soprattutto nel moltiplicarsi delle rotture matrimoniali (giuridiche o extragiuridiche) e nelle cosiddette «famiglie illegittime». Altro effetto collaterale è dato dalla minore incidenza della trasmissione ereditaria dei patrimoni non già perché questa non continui a verificarsi o non corrisponda a reali necessità sociali, ma perché la prevalenza crescente delle proprietà mobiliari tende a svuotare l’istituzione formale di erede e la stessa disposizione testamentaria volontaria (41). La trasmissione dei patrimoni, del resto, trova ormai negli istituti della successione legittima e della riserva legale un meccanismo pressoché automatico che, mentre soddisfa le necessità sociali di certezza e regolarità delle successioni, allenta l’incidenza della volontà del “de cuius” nella sistemazione “post mortem” dei suoi beni. Si tratta di un meccanismo giuridico che in certo modo viene a incontrarsi anche con una evidente tendenza della coscienza individuale moderna a valutare l’esistenza assai più sotto il profilo della “meditatio vitae”, e anzi della fruizione della vita, che non della “meditatio mortis”. Il processo di «disinteressamento» del “de cuius” è anche favorito dal diffondersi del sistema previdenziale e assicurativo, dall’aumento e dalla precocità dell’occupazione tanto tra le donne quanto tra i giovani. Tutto ciò tende anche a sdrammatizzare, per così dire, il problema della filiazione: la preoccupazione dell’individuo non è più tanto quella di assicurare la continuità della famiglia intesa come complesso ancestrale di valori, quanto quella di «retribuire» chi ha direttamente ed effettivamente «riempito» la propria esistenza. Su ciò incide anche il mutamento notevole del controllo sociale divenuto sempre più autonomo rispetto ai legami formali e sempre più anonimo. Potrebbe dirsi che la dimensione temporale della famiglia si contrae essa stessa all’ambito della generazione diretta di primo grado e per di più alla generazione effettiva. Ciò viene evidenziato sia dal già ricordato aumento dei cosiddetti figli «illegittimi» sia dal diminuire
delle disposizioni testamentarie. Aumentano invece gli investimenti per l’esistenza e si contrae quindi la tradizione del risparmio familiare nelle sue varie destinazioni (dote, legati, successione in generale). Anche qui non è difficile cogliere la presenza di caratteri propri della società industriale, quali quelli attinenti alla diminuzione delle rendite e dei valori fondiari (specie rurali), alla mobilità produttiva delle proprietà, alla prevalenza della proprietà mobiliare. Non si vuol certo dire che l’individuo moderno sia richiamato dalla società industriale a forme più «reali» (meno «formali») di sistemazione familiare giacché la regolazione formale continua ad avere un peso rilevante, ma che gli squilibri della vita moderna proiettano continuamente l’individuo alla ricerca di una microassociazione capace di dargli la quiete e il riposo negatogli dalla tumultuosa vita industriale. È tuttavia non meno vero che questa tendenza si manifesta assai più in un crescente mutamento dei sondaggi e dei tentativi, che in un reale approdo satisfattivo (42). Su questo aspetto della vita proietta la sua ombra anche il grosso problema del sesso che nell’età contemporanea costituisce probabilmente una delle «scoperte» più rilevanti dal punto di vista psicologico. All’età dell’etica familiare e familistica, caratterizzata da un alto grado di contenimento formale e di repressione legale dei comportamenti sessuali, subentra un’epoca in cui i criteri di valutazione etica si individualizzano (rispetto al gruppo familiare) e si socializzano conformandosi a modelli costruiti non già nei ristretti ambiti del gruppo di sangue, bensì negli ambienti anonimi della metropoli dominata dai mezzi di comunicazione di massa. In corrispondenza con tutto ciò il problema sessuale perde progressivamente la cortina di «pudore» e di silenzio che gli era stata costruita attorno. Questa tendenza, che sul piano culturale è documentata dall’imponente successo di Freud e della psicoanalisi, è alimentata fondamentalmente dalla brama e dall’ansia esistenziale, oltre che da una sorta di rivalsa verso le superstiti repressioni formalizzate dall’etica tradizionale. Certo si è che il sesso viene oggi ad occupare nella vita moderna un posto assai
importante: il Riesman (43) lo definisce «l’ultima frontiera». In una società industriale evoluta molti elementi oggettivi concorrono a stimolare lo scavalcamento di questa frontiera: «in questa fase scrive Riesman - non c’è solo un aumento del tempo libero, ma il lavoro stesso diventa per molti meno interessante e meno esigente; l’aumento del controllo e della suddivisione dei compiti meccanicizza il processo industriale anche oltre le realizzazioni della fase della crescita di transizione. Più di prima, col declino della mentalità della vocazione o dell’impegno, il sesso permea la coscienza nel corso del giorno e non solo del tempo concesso al divertimento. Esso è visto come un bene di consumo non solo dalle vecchie classi in ozio, ma anche dalle moderne masse oziose». In una società in cui l’anonimato modella non solo condotte stereotipe, ma anche individui fungibili e spersonalizzati «il sesso […] fornisce una forma di difesa contro la minaccia della totale indifferenza. Questa è una delle ragioni per cui tanta eccitazione è incanalata, dalla persona eterodiretta, verso il sesso. Egli [l’individuo eterodiretto] guarda a questo per assicurarsi di esser vivo». Ricerca, cioè, una assicurazione che gli è costantemente negata dal rapporto sociale persino nel caso del successo, che si verifica pur sempre entro il quadro di una struttura gerarchica spersonalizzata e spersonalizzante, di rapporti burocratizzati e formalizzati dal denaro, generatori piuttosto di noia, indifferenza, cinismo che non di autentica, immediata, diretta soddisfazione esistenziale. L’industria avverte questa dimensione nuova del sesso e il dilagare della pornografia letteraria, cinematografica, teatrale, eccetera è essenzialmente un fenomeno di espansione sollecitata dei consumi in un campo che rappresenta un mercato nuovo, sicuro e stabile. Tanto più sorprende - sia detto di passaggio - che a taluni critici della società industriale privatistica la pura e semplice rottura delle remore sessuali possa apparire come un decisivo atto di eversione delle
strutture sociali repressive (44): di fatto è la stessa società industriale privatistica che sollecita la cosiddetta «rivoluzione sessuale» mondanizzando i rapporti sessuali, mercantilizzandoli. D’altra parte non meno dello sport o della canzonetta l’attività e l’interessamento sessuale illimitati sembrano rientrare nel quadro delle alternative evasive che vengono offerte, sempre entro il campo di azione dello sfruttamento privatistico, all’individuo rispetto ai problemi attinenti alla sua reale condizione di inserimento umano nel tessuto sociale. Se si accetta il giudizio del Riesman secondo cui nella sessualità l’individuo eterodiretto e cioè spersonalizzato cerca di avvertire la propria presenza vitale, bisogna concludere che in essa, in realtà, egli si ritrova di nuovo un oggetto in balìa del mercantilismo trionfante nella società. Neppure nella naturalità della sua vita biologica egli riesce a sentirsi un ente umanamente personale. Nella famiglia, certo, il rapporto coniugale sembra apparentemente meno insidiato dall’invadenza mercantile, ma esso è premuto da quelle altre componenti dell’eterodirezione che abbiamo già menzionato e la cui conclusione è proprio di erodere in ultima analisi l’umanità sopravvivente del rapporto uomo-donna. In particolare, una fonte di urti psicologici gravi diviene nella famiglia moderna anche il rapporto coi figli e la «contesa» per la loro educazione. Rotto il vecchio equilibrio della madre «angelo del focolare» e del padre onnipresente e decisiva autorità con l’aprirsi del «vuoto domestico», la direzione del fanciullo passa in altre mani. Per un verso il fanciullo avverte maggiormente la carenza degli affetti trovandosi esposto a forze esterne che premono su di lui con la rozzezza di un rapporto soltanto mercantile (donne di servizio, mercato infantile) o con una disposizione anonima e spesso formalistica (scuola), per un altro avverte maggiormente nel «vuoto domestico» la distanza dei genitori, che è sempre meno colmata dalla forza propria della educazione tradizionale. Si mette in moto un duplice processo di «dispersione» psicologica del nucleo familiare: i genitori sentono che i figli sono sempre meno i «loro» figli (fino alle drammatiche scoperte
del figlio «delinquente») e i figli sentono sempre meno che i genitori sono i «loro» genitori. Il solco fra le generazioni si approfondisce e non è più segnato soltanto dalle consuete divergenze mentalipsicologiche, bensì da vere e proprie istituzioni (il lavoro per i genitori, la scuola, il «gruppo dei pari» per i figli). Così le differenze si cristallizzano e stabiliscono una atmosfera di reciproca incomunicabilità (45). Spesso il collegamento viene ridotto ai puri mezzi di sostentamento che risultano troppo grandi per la borsa del genitore premuto dalle nuove necessità della società dei consumi, e troppo modesti («lesinati») per i giovani che già divengono «produttori di consumo» nel giro del «mercato giovanile». Da qui l’accentuarsi dello «svincolamento» psicologico delle generazioni e il costituirsi di parametri di giudizio stereotipati e meramente negativi: per i genitori i figli sono «troppo esigenti» o «ribelli» o «anarchici» o «fannulloni», per i figli i genitori sono troppo «vecchi», autoritari, formalisti, attaccati al denaro. Naturalmente si tratta di generalizzazioni che vanno delimitate in ordine ai diversi gruppi sociali, alle condizioni ambientali, ai luoghi in cui vivono le famiglie e tuttavia esse non sembrano mai perdere del tutto il loro significato: fissano una tendenza che trova conferme esemplari - e sia pure al limite - nei singolari casi delle «comunità giovanili» in cui precocemente i giovani si separano dalla famiglia, del precoce avvio al lavoro, della «fuga» da casa, dell’associazionismo studentesco, del diffuso ribellismo giovanile nelle università. Si possono variamente giudicare questi fenomeni, nondimeno essi vanno principalmente esaminati come spie di un dissesto sociale diffuso, prima ancora che come contrassegni di mentalità individuali o isolabili. Dunque, l’erosione delle funzioni della famiglia tende a ridurla a un formale luogo di convivenza per il sostentamento e cioè tende a sottolineare il carattere socialmente coatto del legame. Convivere è il risultato di un legame formale e continuare a convivere risulta oltre che un «peso», un vincolo autoritario imposto dalle forme stabilite dalla società: un fenomeno di conformismo. È forse per questo che il tema dominante di tutto uno strato delle giovani generazioni diviene
l’anticonformismo, che si palesa nella ribellione ai modi tradizionali di vivere, di convivere, di amare, di vestire, persino di alimentarsi. Non siamo di fronte ad un ritorno dello spirito “bohémien” della “belle époque” e neppure alla recrudescenza di un tradizionale separatismo giovanile. Qualitativamente il fenomeno presenta caratteristiche nuove, date dalla accresciuta consapevolezza critica dei giovani e soprattutto dalla carica sociale e addirittura politica che essi pongono nella loro rivolta, nonché dalla correlazione (positiva o negativa) che si stabilisce nei giovani con la nuova «civiltà dei consumi». Quanto più cresce il livello di mercantilizzazione delle relazioni sociali, quanto più si aggrava l’eteronomia della educazione e la spersonalizzazione anonima che ne deriva, pare che l’individuo eterodiretto giunga ad un bivio chiarificatore: egli avverte con crescente consapevolezza che deve scegliere tra una deliberata carriera di «arrampicatore» sociale, cinico e magari spietato, pronto a valutare ogni condotta «in contanti» e una deliberata «contestazione globale». La società gli si prospetta a forti tinte di chiaro e di scuro e le luci come le ombre si esaltano. Declinano, così, le «mezze misure» e i compromessi provvisori; del pari si riducono allora gli spazi per le meditazioni, le esitazioni, le evasioni puramente individuali: tutto ciò appare alla nuova mentalità pragmatica e socializzata il residuo di un romanticismo di bassa lega che si accoppia alla minorità intellettuale e sociale. Questa maggiore consapevolezza delle scelte è alimentata dalla più intensa circolazione sociale, dai viaggi, dai mezzi di comunicazione di massa, dalla tecnologia invadente e sempre rinnovantesi, dal carattere «globale» dei rischi individuali, sociali e politici, dal rimpicciolirsi, infine, della nicchia individuale in una età che annuncia imprese cosmiche portentose e mezzi di distruzione totale dell’umanità. Chi accetta l’individualismo e la sua carriera deve trarne tutte le conseguenze non meno di chi rifiuta il conformismo e l’adattamento mercantile. Qualche studioso ha affermato che così si aprono prospettive drammatiche. C’è del vero, ma sarebbe errato giudicare il dramma soltanto nelle sue componenti negative. Non v’è soltanto maggior
spazio per il trionfo di una «personalità autoritaria» e di una «società unidimensionale». V’è anche maggior spazio per una presa di coscienza collettiva della necessità di ricostituire la società a misura dell’uomo. E anche se questa prevalenza «sociale» del problema (adeguata del resto alla maggiore diffusione e penetrazione dei processi sociali entro i recinti individuali e familiari) può lasciar temere un crollo generale di valori, la «crisi» può sollecitare una revisione approfondita delle radici sociali dello squilibrio in cui entrano l’individuo e la famiglia con l’industrializzazione accelerata della nostra epoca tecnologica. È inutile divagare in previsione di prospettiva, giacché i destini della nostra società restano in gran parte consegnati alla consapevolezza critica sperimentale che sapremo assumere di fronte alla loro storica configurazione. È però forse possibile concludere che proprio questa radicale crisi che investe i più reconditi ambulacri della vita personale (gli affetti, la famiglia, la casa) può suscitare quella consapevolezza, e può sospingere l’individuo moderno al di là delle due frontiere più semplici e anche meno produttive che si prospettano nei problemi dell’etica familiare: al di là della pura «nostalgia» restauratrice che maschera, dietro l’apparente rigorismo, un formalismo autoritario e una completa indifferenza ai problemi nuovi; al di là del puro spirito di distruzione che coopera alla eliminazione dei vecchi istituti e dei vecchi valori senza coordinarla ad una prospettiva positiva e ricostruttiva. Entrambe le posizioni, in fondo, si muovono sul terreno di una concezione tradizionale del rapporto famiglia-società, vedono infatti nella famiglia la reale cellula costitutiva della società, anziché vedere in essa una articolazione storica di un tipo storico di società. E così come per gli uni il problema centrale diviene la repressione delle nuove istanze per recuperare (e anzi imporre) un vecchio equilibrio familistico che non può ricostituirsi, per gli altri si tratta di aggredire i sopravviventi vincoli repressivi e autoritari che oggi ingabbiano la vita affettiva, generativa e sessuale nel presupposto che essi costituiscano i vincoli fondamentali di cui è tramato il tessuto sociale moderno. Probabilmente la razionalizzazione sociale dei nostri rapporti pratici
generali (sulla quale il discorso è ovviamente aperto) è il solo strumento capace di affrontare con mezzi radicali la stessa crisi radicale della famiglia. Soltanto il superamento della privatizzazione dominante delle forme pratiche della nostra esistenza sociale e la loro ricomposizione comunitaria e programmata su basi partecipative può lasciar sperare in una convivenza umana capace di sdrammatizzare la nostra vita pratica, assediata dall’isolamento, dalla gara per il successo esclusivista e per la ricchezza individualizzata ancorché socialmente prodotta, dal formalismo, dal conformismo, dall’anonimato, dalla diseguaglianza cronica nelle componenti più essenziali della esistenza e della stessa sopravvivenza. Se una simile speranza è lecita, lecito è pensare alla possibilità di espansione dei mezzi atti a surrogare socialmente il sostentamento privato dei minori (di tutti i fanciulli su cui con maggiore brutalità si riversa il peso disumano della moderna diseguaglianza economica), di dirigere su basi sociali e partecipative gli istituti che surrogano le funzioni familiari in una società altamente industrializzata (scuola, enti assistenziali e previdenziali, enti di distribuzione dei beni di consumo, enti turistici, industria alimentare, industria edilizia per abitazioni, rete delle mense e degli asili). Su una tale piattaforma dovrebbero poggiare, per risultare stabili e davvero risanatrici, le riforme giuridiche dell’istituto familiare (risolubilità consensuale del vincolo con garanzia per il rapporto di filiazione, comunione coniugale dei beni in costanza di matrimonio, parificazione dei figli «legittimi» e «illegittimi», parificazione dell’uomo e della donna). Per quanto impegnativa possa sembrare l’impresa di coordinare il riassetto dei rapporti familiari al riassetto dei rapporti sociali, non pare che esistano alternative soddisfacenti nell’ambito di provvedimenti puramente giuridici. Posto che il processo di crisi della famiglia sia indotto dal più generale processo di disgregazione individualistica della società moderna, è incidendo su questo che si può con qualche fondatezza operare per disalienare i rapporti familiari in cui esso si riversa.
Resta pertanto fondata questa indicazione di Engels: «Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l’unità economica della società. L’amministrazione domestica privata si trasforma in un’industria sociale. La cura e l’educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi» (46).
Parte terza IDEA DELL’EROS MODERNO 16. LA DIALETTICA DEGLI AFFETTI Il tema conclusivo di questa ricerca concerne il problema dell’eros, e cioè del livello storicamente variabile che il commercio sessuale uomo-donna raggiunge. Si tratta di un livello che progressivamente sale dal piano sensibile al piano intellettuale e che incrocia poi forme di istituzionalizzazione giuridica della convivenza «familiare» assai diverse (come si è già visto) e condizionate dalla organizzazione socio-economica. Qui interessa soprattutto notare che se la problematica sessuale non esaurisce affatto il rapporto uomo-donna, anche se si tratta di una problematica fondamentale, neppure la problematica istituzionale e socio-economica copre l’intera area di quel rapporto. Questi due elementi - sesso e istituzione - non riescono neppure a fornire spiegazioni pertinenti e sufficienti in ordine alla problematica spirituale dell’amore, cui ci riferiamo specificamente impiegando il termine “eros”, per connotare quello che si può definire il terzo livello del rapporto uomo-donna. Con questa formulazione siamo già in polemica con le concezioni pansessualistiche che, da Freud in poi, tendono a estrapolare dalla tematica sessuale criteri di interpretazione generale dell’intero rapporto uomo-donna e perciò dell’intera tematica sociale e spirituale. Ma siamo anche in polemica con quelle concezioni sociologistiche (spesso alimentate da una interpretazione volgare del marxismo) che con pari dogmatismo tendono ad appiattire il rapporto uomo-donna negli schemi del rapporto economico-sociale ignorando la specificità della problematica sessuale e di quella spirituale. Riteniamo invece pienamente possibile una spiegazione storicomaterialistica del rapporto uomo-donna che individui e connetta in un quadro integrato o coordinato i tre livelli di cui si parla e cioè il rapporto che si stabilisce tra uomini e donne entro contesti storici nei
quali la relazione naturale suscitata dall’insopprimibile “istinto” viene modellata dalle istituzioni espresse da un tipo determinato di convivenza sociale e quasi sempre in esse costretto, nel mentre questo stesso tipo sociale elabora moduli spirituali che affinano e differenziano nella storia diverse configurazioni complessive del rapporto di amore. Possiamo anche riassumere questo ragionamento affermando, in via analitica, che possiamo distinguere tre oggetti di indagine specifici entro il quadro complesso del rapporto uomo-donna: la “dialettica dei sessi”, su cui fisiologia e patologia medica nonché l’apparato scientifico della psicoanalisi esercitano un legittimo dominio conoscitivo in ordine allo specifico istintuale-naturale; la “dialettica delle istituzioni”, su cui acquista significato prioritario (non però esaustivo) l’indagine socio-economica, che è poi tenuta a ulteriori, più specifiche analisi (specialmente giuridiche) per fissare le differenti figure storiche della convivenza domestica; la “dialettica degli affetti”, su cui l’intera scienza sociale è chiamata a indagare e specialmente la filosofia per rilevare le differenti figure storiche assunte dal livello spirituale del rapporto uomo-donna. Questi tre oggetti sono specificamente analizzabili attraverso la fenomenologia dei comportamenti sessuali, la fenomenologia delle istituzioni domestiche e, infine, la fenomenologia culturale e specialmente artistico-letteraria, nella quale si deposita, appunto, l’attività intellettuale. Si è già visto quanto sia essenziale una distinzione logica di questi tre campi di indagine, tenuto conto del fatto che ad essa corrisponde una distinzione storica sempre più netta che giunge a configurare un atteggiamento-limite del rapporto uomo-donna: un rapporto sessuale integrato nell’istituto della famiglia monogamica «legittima» e nel mondo culturale dell’amore passione, retto e dominato dal criterio della consensualità e reciprocità d’amore. Ma questo modello esemplare del rapporto espresso dalla civiltà borghese moderna risulta intimamente contraddittorio in ragione del fatto che la
sessualità è essenzialmente poliedrica e che l’organizzazione giuridico-monogamica della famiglia si impianta perciò in forme coattive talché la sistemazione giuridico-monogamica appare piuttosto dettata dalla necessità di una regolazione certa degli status personali e dei regimi patrimoniali in una società caratterizzata dalla irresponsabilità collettiva per i minori e per i vecchi perché fondata sul «rendimento» (sul profitto capitalistico) e sulla appropriazione privata della ricchezza. Si può dunque affermare non soltanto che l’istituto domesticofamiliare varia col variare dei tipi di organizzazione sociale, ma che ciascun tipo sociale esprime, oltre che specifiche orme di aggregazione domestica, anche specifici tipi di relazioni spirituali uomo-donna modellati dalle specifiche condizioni e istituzioni nelle quali essi vivono. D’altra parte è da rilevare che l’evoluzione storica che ha condotto alla gestione monogamico-giuridica del rapporto uomo-donna manifesta due contrastanti tendenze: una tendenza ad affermare il carattere consensuale e reciproco dell’eros e perciò il suo carattere sostanzialmente libero e incoercibile che postula l’eguaglianza dei soggetti, la mobilità del rapporto e la sua incondizionatezza; e un’altra tendenza a rinchiudere questo dinamismo nell’istituzione della famiglia giuridico-monogamica che nega o comunque limita gravemente tanto la consensualità quanto la reciprocità del rapporto d’amore, quanto infine la sua mobilità in nome della certezza giuridica degli status personali e patrimoniali. Si tratta di due tendenze che emergono con pari forza dalla civiltà borghese moderna e che non possono non entrare in grave collisione accelerando la crisi della famiglia. Quanto alla prima tendenza, essa è suscitata dalla emersione pubblica del fatto sessuale e dell’eros nella vita moderna. È merito di Freud aver individuato questa centralità del sesso e dei connessi rapporti, anche se le sue conclusioni invertono radicalmente il rapporto di causalità con il tessuto della società borghese e anche
se l’eros, ridotto ad alcune figure sessuali-istintuali, viene da Freud costruito come un fenomeno metastorico. Il punto di partenza corretto è invece quello del recupero della storicità dell’eros sia nel senso della sua scansione storica, sia nel senso della sua crescita intellettuale e della sua complicazione psicologica attraverso la storia. Da questo punto di vista aveva ragione Voltaire quando diceva che «gli uomini hanno perfezionato anche l’amore» (1). Sebbene, come rapporto impiantato sull’istinto sessuale, il rapporto d’amore sia un fenomeno generale della natura, esso si presenta poi anche, infatti, come uno specifico prodotto della civiltà umana. Sul piano scientifico, pertanto, il problema centrale diviene quello di identificare le regolarità storiche di quel «perfezionamento» civile dell’eros in correlazione col modificarsi dei rapporti sociali e con il variare dei tipi storico-sociali di organizzazione umana. Pare, dunque, necessario estrapolare e elaborare come criterio d’indagine la scomposizione storico-analitica dell’eros, inclusa in questa affermazione di Stendhal: «Eloisa vi parla dell’amore, un vanesio vi parla del suo amore. Sentite come le due cose non hanno in comune che il nome? È come l’amore per i concerti e l’amore per la musica» (2). Bisogna, cioè, costruire un criterio di storicizzazione dell’eros che consenta di evitare i discorsi generici su un preteso concetto assoluto d’amore, che si ridurrebbe al banale appiattimento di tutte le differenze storico-culturali. Allora potrebbe apparire lecito cogliere in ogni epoca soltanto ciò che è comune e cioè, appunto, il generico sicché, rileggendo la poesia d’amore del Dolce Stil Novo, si potrebbe ritenere (come è accaduto) di essere in presenza della «eterna fenomenologia della passione amorosa da Saffo a Neruda». Una simile genericità risulta culturalmente insignificante perché non ci spiega nessuno dei tratti specifici che costituiscono la “storica” fenomenologia dell’eros e non suggerisce alcuna significativa ipotesi di lavoro neppure nello specifico letterario e artistico. Su tali basi
riuscirebbe altresì impossibile spiegare il “fatto” che la poesia borghese moderna sia in gran parte poesia d’amore.
17. STORICITÀ DELL’EROS Esaminiamo invece una geniale ipotesi di Engels sulla storicità dell’eros, che trova conferme molto significative in Hegel e in Stendhal, oltre che - come accennato precedentemente - in Rousseau. Scrive Engels: «Prima del Medioevo non si può parlare di amore sessuale individuale. Che bellezza personale, rapporti di familiarità, inclinazioni concordanti, eccetera, in persone di sessi diversi, abbiano svegliato il desiderio di rapporti sessuali, che per gli uomini e per le donne non fosse totalmente indifferente la scelta della persona con cui intrattenersi molto intimamente, è cosa ovvia. Ma da qui al nostro amore sessuale vi è ancora infinitamente da camminare. In tutta quanta l’antichità i matrimoni erano conclusi dai genitori per gli interessati, e questi li accettavano in buona pace. Quel poco di amor coniugale che l’antichità conobbe non è forse inclinazione soggettiva, ma dovere oggettivo, non motivo ma correlativo del matrimonio. Relazioni in senso moderno si affermano nell’antichità solo al di fuori della società ufficiale […]. I pastori dei quali Teocrito e Mosco ci cantano le gioie e le pene d’amore, il Dafni e la Cloe di Longo sono semplici schiavi che non hanno alcuna parte nello Stato, nel raggio d’azione del cittadino libero. Tranne che tra gli schiavi però noi troviamo il commercio amoroso soltanto come prodotto di decomposizione del mondo antico ormai al tramonto e con donne che, del pari, vivono al di fuori della società ufficiale, con etere, quindi con straniere, o con liberte; e questo accadeva ad Atene alla vigilia del suo tramonto e a Roma all’epoca dei Cesari. Se c’erano, in realtà, commerci amorosi tra liberi cittadini e cittadine erano sempre di carattere adulterino. E per il classico poeta dall’amore dell’antichità, per il vecchio Anacreonte l’amore sessuale in senso nostro era cosa di così poco conto che per lui era indifferente persino il sesso dell’essere amato.
Il nostro amore sessuale differisce in modo sostanziale - conclude Engels - dal semplice desiderio sessuale, dall’eros degli antichi» (3). Dunque Engels qui distingue nettamente l’eros moderno dall’eros antico. Eros antico significa, possiamo ben dire, l’eros preborghese, proprio di tutte le «formazioni precapitalistiche», per adottare la terminologia di Marx. Quali sono i caratteri differenziali dell’eros moderno per Engels? Innanzi tutto la consensualità e la corresponsione amorosa. Da qui la tendenza alla costruzione di matrimoni decisi dai coniugi stessi e non più dai loro genitori. E da qui anche la tendenza alla parificazione dei due soggetti e quindi all’eguagliamento formale della donna, mentre - nota Engels - «nell’eros degli antichi non le si chiede spesso neppure il consenso» (4). La mancanza della corresponsione amorosa nel matrimonio domina ancora per intero nel Medioevo: «La conclusione del matrimonio fino alla fine del Medioevo, rimase nella infinita maggioranza dei casi quello che era stato fin dal principio, cioè un affare che non veniva deciso dagli interessati» (5). I poemi epici medievali (e Engels ne cita alcuni) sono pieni di testimonianze in questo senso (6). Un secondo carattere differenziale dell’eros moderno è indicato da Engels nella maggiore intensità e durata del rapporto. Si tratta di un carattere altrettanto importante perché su di esso si impianta la divaricazione fra problematica sessuale e problematica amorosa, divaricazione che - se non significa ovviamente separazione completa - comporta peraltro che l’eros moderno presenti un tasso di spiritualità, per così dire, assai più elevato dell’eros antico. Da questo punto di vista si può ben dire che il desiderio-godimento (sensibile) non identifica compiutamente e non esaurisce affatto il moderno rapporto d’amore: questo tende progressivamente à scavalcarlo.
«Amare e godere - ha scritto Sade - sono due cose molto differenti. La prova è che si ama tutti i giorni senza godere, e che ancor più spesso si gode senza amare.» Giacomo Casanova ha addirittura affermato sul finir della vita che «il vero amore è quello a cui è estraneo il godimento». Ma non si tratta, ovviamente, di decidere qui il primato della “libido” o dell‘“eros” nell’amore. Si tratta piuttosto di prendere atto del processo di progressiva complicazione spirituale che ha il rapporto d’amore moderno rispetto alla civiltà premoderna. L’ipotesi di Engels della scansione storica dell’eros trova una significativa conferma in Rousseau, Hegel e Stendhal. Nel roussoiano “Discorso sull’origine dell’ineguaglianza” troviamo la prima formulazione dei caratteri distintivi dell’eros moderno e la sua prima netta contrapposizione al mero desiderio sessuale. Rousseau, infatti, distingue nel sentimento dell’amore un lato morale e un lato fisico e il «lato morale» è costantemente in crescita: è un elemento storico. Esso consiste essenzialmente in un ardore impetuoso ed è forse ancora inteso come mero sfogo passionale, ma vi confluisce già - con l’immaginazione - quella fantasia che è non solo una costruzione storica, ma una costruzione sociale o meglio una escogitazione privata a partire da esperienze pubbliche. Perché mai, infatti, solo nella società, come dice Rousseau, l’amore ha acquistato i caratteri di un «ardore impetuoso» se non per il fatto che sulla «immaginazione» privata ha influito il particolare atteggiarsi della comunità pubblica? Se questo non fosse, non si potrebbe distinguere nettamente l’eros del selvaggio dall’eros dell’uomo civilizzato moderno. E soprattutto non sarebbe distinguibile l’eros degli antichi dall’eros dei moderni. Dopo la constatazione del carattere eminentemente storico dell’eros e dopo la conseguente rilevazione della differenza radicale tra l’eros umano e la sessualità pura e semplice, il secondo passo importante e necessario è quello della periodizzazione storica dell’eros
civilizzato e cioè della comprensione dei caratteri peculiari che nel variare dell’organizzazione sociale umana involgono la perdurante sessualità naturale dell’uomo. Naturalmente non si deve perdere di vista questa perdurante sessualità naturale dell’uomo (qui sta il grande merito storico di Freud), ma sarebbe del tutto errato trascurare le varianti storico-sociali che, per cosi dire, la realizzano. Qui è Hegel a darci un orientamento molto importante. Nella sua “Estetica”, infatti, egli delinea in maniera lucidissima la grande distinzione fra eros antico e eros moderno fondandola sul carattere esclusivamente sensibile del primo e sul carattere appassionato dell’eros moderno. «Nell’arte classica - scrive Hegel - l’amore non si trova in tale intimità di sentimento [come nell’arte romantica moderna] e in generale si presenta solo come un momento subordinato per la manifestazione, oppure solo per il lato del godimento sensibile. In Omero o l’amore non ha nessuna grande importanza oppure appare sotto la forma più dignitosa: quale matrimonio nella cerchia della vita domestica, come nella figura di Penelope, quale affanno di sposa e di madre, come in Andromaca, o in altri rapporti etici. Il vincolo, invece, che lega Paride ad Elena è riconosciuto come immorale e come causa degli errori e delle miserie della guerra di Troia; l’amore di Achille per Briseide ha ben poca profondità di sentimento e di interiorità perché Briseide è una schiava di cui l’eroe dispone a suo piacere. Nelle odi di Saffo il linguaggio dell’amore si potenzia certo ad ispirazione lirica, ma in esso si esprime più il furtivo e divorante ardore del sangue che l’intimità del cuore e dell’animo soggettivo. Per un altro aspetto nelle piccole e graziose odi di Anacreonte l’amore è un godimento sereno universale che, privo di sofferenze infinite e privo anche di questo dominio sull’intera esistenza o della pia dedizione di un animo oppresso, pieno di languore e silenzio, si svolge invece lietamente al godimento immediato come a cosa schietta. […] Egualmente, l’alta tragedia antica ignora la passione dell’amore nel suo significato romantico Particolarmente in Eschilo e in Sofocle la passione d’amore non pretende per sé nessun interesse essenziale. […] Se
Euripide tratta l’amore, nella “Fedra” per esempio, con un pathos già più essenziale, anche qui esso appare come una colpevole deviazione del sangue, come passione dei sensi suscitata da Venere che vuol perdere Ippolito perché questi non intende sacrificare a lei. […] Lo stesso avviene nella poesia romana in cui l’amore appare, dopo la caduto della repubblica e l’allentarsi della vita etica, più o meno come un godimento sensuale. Invece Petrarca, benché egli ritenesse i suoi sonetti come un gioco e sperasse fama dai suoi poemi ed opere in latino, è divenuto immortale proprio per questo amore della fantasia che sotto il cielo italiano si è affratellato con la religione nel fervore artistico del cuore. Anche l’elevazione di Dante è partita dal suo amore per Beatrice, che si è in lui trasfigurato in amore religioso» (7). Quanto a Stendhal, egli ci fornisce in primo luogo un’altra conferma relativa alla storicità dell’eros, assai simile a quella di Rousseau. Scrive infatti Stendhal: «L’amore è il miracolo della civiltà. Presso i popoli selvaggi o troppo barbari non si trova che il più grossolano amore fisico» (8). E, inoltre, con specifico riferimento alla valutazione della poesia d’amore greca, ci dà una ulteriore convalida del criterio proposto da Engels e da Hegel scrivendo: «Saffo non vide nell’amore che il delirio dei sensi o il piacere fisico sublimato dalla cristallizzazione. Anacreonte vi cercò un divertimento per i sensi e per la mente. Si viveva in antico con troppo scarsa sicurezza per avere la possibilità di provare l’amore passione» (9).
18. EROS E SOGGETTIVITÀ Da questi convergenti giudizi possiamo ricavare alcune conclusioni. In primo luogo troviamo convalidato il giudizio di Engels sulla storicità dell’eros (10). In secondo luogo l’eros moderno sembra differenziarsi essenzialmente per una maggiore carica soggettiva e intensità spirituale che si innesta al desiderio sessuale. In terzo luogo, l’eros moderno tende ad autonomizzarsi rispetto ai ruoli e alle istituzioni mentre l’eros antico viene rappresentato dai poeti o sotto il profilo della «dignità» e cioè del ruolo sociale (Penelope sposa fedele, Andromaca madre eletta, Briseide schiava fedele) oppure come semplice godimento sensibile nelle elementari variazioni della serenità idilliaca o della crapula: Tibullo o Petronio. Manca comunque l’enfasi drammatica tipica dell’amore moderno: l’unico elemento di drammatizzazione deriva dall’eventuale contrasto incontrato nell’impianto del rapporto d’amore: si tratti di un contrasto esterno (amor coatto, amore adulterino) o di un contrasto interno (mancata corresponsione d’amore). Questo elemento di drammatizzazione è ben reso dal celebre verso di Catullo, “Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris / Nescio, sed fieri sentio et excrucior” [“Odio e amo. Perché lo faccia forse domandi / Non so, ma sento che è così e me ne cruccio”]. Anche l’eros antico è, ovviamente, ricerca della corresponsione amorosa, ma la sua drammaticità non scavalca il caso del semplice rifiuto d’amore, sicché di per sé l’amore corrisposto è tutt’altro che drammatico e la ricerca stessa dell’amore tutt’altro che drammatica. Che cosa c’è di comune con la rappresentazione tormentata dell’amore moderno (dello stesso amor corrisposto) e con l‘“Erlebnisdrang” di Don Giovanni (un mito, si noti, esclusivamente moderno)? (11). Soltanto la mancata corresponsione amorosa, invece, motiva il verso di Properzio “Durius in terris nihil est quod vivat amante” [“Nulla v’è sulla terra che abbia vita più dura di chi ama] (12).
Hegel indicava la soggettività come componente essenziale della civiltà moderna e quindi anche dell’eros moderno. Naturalmente si tratta di una soggettività di cui bisognerà precisare i connotati. Ma è intanto possibile affermare che, di fatto, nessun titolo sembra più adatto al capitolo primo della moderna lirica d’amore dello stupendo verso con cui si apre una delle canzoni del “Convivio” dantesco: “Amor che nella mente mi ragiona” (13), nel quale, appunto, si fa evidente la peculiarità dell’eros moderno come eros promosso dalla soggettività riflettente. L’amore non soltanto supera il puro desiderio sessuale, ma si configura come assillo mentale, cruccio intellettuale che viene dilatato su tutte le dimensioni dell’esistenza. L’amoresoggettività è essenzialmente proiezione esterna del dramma interiore dell’uomo moderno analizzato intellettualmente, concentrazione su una puntualità esteriore di una condizione drammatica di manchevolezza. Guinizelli scrive: “né fé amor / anti che gentil core / né gentil cor anti che amor natura”. Evidentemente il desiderio sensibile-naturale è qui già intimamente collegato con la soggettività elaborata, di cui la «cortesia d’amore» è appunto manifestazione. Dante stesso conferma questo intimo collegamento ormai consolidatosi fra desiderio sensibile e soggettività civilizzata con l’analogo verso “Amor e ‘l cor gentil sono una cosa”. Ora, questo processo di soggettivazione intellettuale dell’amore non è un fatto isolato: si collega al processo storico di generale crescita della soggettività proprio della civiltà borghese moderna. L’attenzione va dunque portata sulle radici storico-sociali della crescita della soggettività e non v’è dubbio che questa crescita si presenta sia come progressivo eguagliamento formale di tutti, sia come progressiva dissoluzione dei vincoli formali che caratterizzavano i corpi chiusi in cui si articolava la vecchia società preborghese.
Dunque, la formazione della soggettività come puntualità autonoma di tutti è contemporaneamente estensione e approfondimento della intellettualizzazione della vita di ciascuno e decomposizione di ogni residua comunità interpersonale. Nella nuova società la fine degli antichi vincoli formali significa al tempo stesso che ogni mediazione interindividuale è ormai affidata esclusivamente alla mediazione delle cose: alla reificazione delle persone corrisponde la personificazione delle cose (Marx). Ma in un tale quadro di relazioni l’emersione della soggettività non può non essere anche avvertimento della solitudine, drammatizzazione di ogni corda dell’esistenza individuale ormai resecata da tutti i collegamenti formali con l’alterità umana. Questa fenomenologia storico-sociale si riflette con evidenza tanto in filosofia quanto in letteratura e in arte nei processi di scomposizione formale della soggettività (si pensi alla kantiana “critica della ragione” nella quale si assesta la teoria filosofica del soggetto moderno), nella drammatizzazione della psicologia individuale (il romanzo psicologico è tipico della letteratura borghese), nella scomposizione delle stesse forme in arte (si pensi alla pittura del ‘900). La poesia d’amore rispecchia fedelmente questa fenomenologia nella misura in cui ricava il suo pathos non più dalle vicende interne al rapporto d’amore, ma - al contrario - dalla commisurazione della vicenda amorosa alla generale vicenda della vita. Una società di solitari Robinson come è la società borghese non può non esprimere come primo tema della soggettività il tema della inquietudine di fronte all’alterità assente e quindi il connesso tema della ricerca e ricostruzione di una comunità. Ma questo secondo tema risulta sostanzialmente insolubile nella misura in cui ritrovare la società significa soltanto incontrare nuovamente la solitudine. L’unico piano su cui un collegamento interpersonale appare possibile diviene dunque quello sessuale: su questo piano si canalizzano perciò tutte le speranze della ricerca e tutte le sofferenze dello smarrimento soggettivo. Diderot ha scritto: «L’amore è una passione
che io apprezzo più per i dolori di cui ci consola che per i piaceri che ci offre». E Proust, con maggiore drammaticità: «Com’è possibile desiderare di vivere, come si può fare un sol movimento per preservarsi dalla morte, in un mondo nel quale l’amore non ha altro incentivo che la menzogna e consiste esclusivamente nel bisogno che le nostre sofferenze siano placate dallo stesso essere che ne è la causa?» (14). Ciò che, infatti, appare rilevante non è soltanto che nella piccola comunità naturale si cerchi un surrogato della grande comunità assente, ma che proprio per questa carenza comunitaria su scala sociale-generale diviene impossibile e si falsa anche la piccola comunità naturale: perché, ovviamente, essa non esiste come comunità meramente naturale ma è invece, essa stessa, articolazione della società umana ad un suo determinato sviluppo storico. Qui sta la motivazione profonda della lievitazione intellettuale dell’eros moderno, della irruzione della fantasia e dell’immaginazione (Rousseau) nel rapporto d’amore, della fine del godimento sereno del sensibile, della intonazione «passionale» dell’amore moderno (Hegel) e della sua fondamentale struttura melanconica. Nato dall’inquietudine, vive nell’inquietudine.
19. PROBLEMATICITÀ DEL RAPPORTO D’AMORE Il fatto che il rapporto uomo-donna sia, come ben vide Marx, il primo rapporto dell’uomo alla natura lo rende, ovviamente, il primo rapporto di alterità nella vita, la prima esigenza di relazione. Ma questa prima relazione esteriore e naturale è, si badi, una relazione con un altro membro del genere umano sicché, se per un primo aspetto il rapporto uomo-donna appare ed è un essenziale rapporto naturalistico (eguale per urgenza al bisogno del cibo, per certi aspetti), esso si instaura con un altro membro del genere umano e cioè non già con la natura “come tale”, bensì con l’uomo stesso. Ma per un secondo aspetto questo rapporto fra l’uomo e la donna, che è un rapporto storico-umano eminentemente spiritualizzabile, ha come sottofondo un richiamo naturalistico. Se ne deve dedurre tanto l’urgenza naturalistica e l’indilazionabilità dell’elemento naturalistico incarnato nelle differenze di sesso, quanto la ineliminabile connessione che con tale elemento presenta la natura umana e storica del rapporto: l’essere tanto l’uomo quanto la donna membri di un tipo storico di società. Rilevazioni come queste non necessariamente nascono soltanto da una analisi di tipo marxista. E qui c’è forse la migliore prova della solidità di questa ipotesi. Ecco, per esempio, che cosa scrive Karl Barth: «Occorre affermare tanto la distinzione che la relazione [nel rapporto uomo-donna]: l’uomo è necessariamente e senza riserve maschio “oppure” femmina, ma, proprio per questa ragione, è altrettanto necessariamente e totalmente maschio e femmina. Egli non può emanciparsi dalla “distinzione” e cercare di essere semplicemente ‘uomo’ al di là della sua determinazione sessuale. Ma, d’altra parte, egli non può nemmeno emanciparsi dalla “relazione”, cioè cercare di essere soltanto uomo, senza la donna, o soltanto donna senza l’uomo. Proprio ciò che è specifico dell’uomo lo riferisce alla donna, e proprio ciò che è specifico della donna lo riferisce all’uomo. […]
Nessun’altra “distinzione” va tanto in profondità quanto quella che separa l’uomo dalla donna. E nessun’altra relazione è tanto ovvia e naturale e universale, quanto questa che ha la sua forza proprio nella diversità che è la sua premessa. Come la donna per l’uomo, così l’uomo per la donna è l’altro, ma proprio in questa diversità è il “compagno” di umanità» (15). Mentre, dunque, la comunanza del genere si articola non più soltanto al livello della vita sociale-intellettuale, ma anche a livello naturale, la relazione naturale stessa rivela ora l’uomo a se stesso, alla propria medesimezza umana. Su questa base è possibile cogliere la pregnanza storico-intellettuale che deve presentare la poesia d’amore in una società dissociata come quella borghese. È, per esempio, proprio la poesia d’amore che, presentando la donna fuori dei suoi ruoli sociali, come donna e cioè come termine laico di una passione umana, la individua come alterità umana dell’uomo e per ciò stesso deve eguagliarla all’uomo (16). “Tu es la ressemblance” dice Eluard alla donna: tu sei la somiglianza proprio nella diversità che ti caratterizza sicché nella tua specificità differenziale tu sei come me membro del genere umano: sei dunque alterità-medesimezza, natura e storia. Ma questo riconoscimento dell’impasto storico-naturale che costituisce la materia reale del rapporto d’amore ci confronta subito con la sua problematicità. Si tratta infatti di un impasto difficile da modellare, così come in genere è difficile mediare senso e ragione. E la difficoltà della mediazione significa continua possibilità di uno slittamento del rapporto: ora verso il sensismo naturalistico ora verso l’intellettualismo platonizzante (romantico, in senso stretto). E poiché questa scissione tra empirismo e razionalismo è un carattere costitutivo della civiltà borghese moderna, non soltanto il rapporto d’amore ne viene investito - oltre che nella pratica esistenziale - nella stessa rappresentazione intellettuale e artistica, ma, per la sua urgenza esistenziale diviene - come si è già
accennato - un esemplare terreno di confronto. Proprio per questo, appunto, quel rapporto è così centrale nell’arte e nella letteratura e, quel che più conta, così problematico e anfibologico. Problematicità e anfibologia significano essenzialmente coloritura drammatica dell’eros moderno, sua composizione inquieta e allusiva di disagi indotti dall’esterno del rapporto, di dissesti storici e addirittura cosmici. La stessa trasfigurazione poetica della donna è un indice significativo di questa struttura dell’eros moderno, vedremo. Ma ecco, intanto, qualche caso molto significativo della generale drammaticità del rapporto d’amore (corrisposto!) in quanto rivelatrice di un più generale dramma storico (e cioè differenziale) dell’uomo moderno. Già Cavalcanti rappresenta efficacemente la situazione polivalente dell’amore con questi versi: “L’anima mia dolente e paurosa piange ne li sospir che nel cor trova sì che bagnati di pianto escon fore. Allor par che ne la mente piova una figura di donna pensosa che venga per veder morir lo core”. Cino da Pistoia ci dà addirittura una significativa definizione di questo amore: “Amore è uno spirito ch’ancide” e “Amore non si po’ sentir se non amaro”. Dante non è da meno: “Ovunque io sento amore […] ovunque io sento amaro”. Petrarca ci rende in questo modo l’ambiguità d’amore: “Pascomi di dolor, piangendo rido, egualmente mi spiace morte e vita. In questo stato son, donna, per vui”. Giordano Bruno così parla del suo amore: “Cara, suave ed onorata piaga del più bel dardo che mai scelse Amore”. E così ragiona su di esso: “Dolce mio duol, novo nel mondo e raro quando del peso tuo girò mai scarco s’il rimedio m’è noia, e’l mal diletto?” Certo, espressioni in qualche modo analoghe possono ritrovarsi anche in qualche poeta antico. Anche da Saffo Amore è definito “dolce amara indomabile belva”. Tuttavia il referente di
questa ambiguità dell’eros è nell’antichità esclusivamente la pena d’amore propriamente detta e di un tale rinvio si può anche trovare una ricca esemplificazione nella poesia moderna (specie in quella classicheggiante. Confronta, per tutti, Foscolo: “Gioia promette, e manda pianto amore”). Ma nella poesia moderna - e specialmente nella grande poesia delle grandi letterature moderne, ove con maggior forza e ricchezza si rispecchia il mondo inquieto della borghesia moderna - le allusioni sono di ben altro tipo e si innestano anche formalmente a moduli molto cifrati come questo di Eluard: “Quei tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo Nel vuoto dei vetri grevi di silenzio e D’ombre ove a mani nude cerco ogni tuo riflesso, Chimerica è la forma del tuo cuore E al mio desiderio perduto il tuo amore somiglia” (17). Qui la cifra può trovare una chiave di lettura soltanto fuori del rapporto d’amore come, del resto, impone la stessa lettera del testo: perché mai la chioma della donna amata acquisterebbe colori splendidi e profumati come arance se non per contrasto col vuoto del moderno mondo mercificato che riduce ogni spiritualità a silenzio gelido e tagliente come vetro? E la forma del cuore amato perché mai sarebbe chimerica se non perché allusiva di un altro sogno così come l’amore dell’altro somiglia al mio sogno perduto? Qui il rapporto d’amore è una provetta nella quale colano distillati assai diversi ed estrinseci, stimolando reazioni che possiamo ben definire di cointeressamento degli amanti ai problemi generali degli uomini. E ciò proprio perché il rapporto d’amore appare ed è il solo rapporto umano in una società disumanata che vive di separazione. Ma, d’altra parte, proprio perché il rapporto d’amore è non solo una comunità ristretta, ma una comunità privata e parziale, esso risulta dopo tutto - soltanto un punto di transito, non un approdo per la carriera drammatica dello spirito moderno. Ecco, allora, la conclusione non meramente delusa ma propriamente tragica di Baudelaire: […] “Ho cercato nell’amore il gran sonno dell’oblio.
Ma l’amore per me non è nient’altro che un materasso d’aghi su cui dare da bere a queste femmine crudeli!” (18) E ancora: “Sopra l’isola tua, o Venere, non ho trovato che una forca, ritta, simbolica, ed appesa la mia immagine! - Ah, Signore, concedimi la forza e il coraggio perché possa il corpo senza disgusto contemplarmi e il cuore!” (19) È ben per questo che la bellezza stessa, per Baudelaire e per l’anima moderna, inverte i suoi valori. Si rilegga “L’Inno alla Bellezza” di Baudelaire: “Tu vieni dal profondo cielo o sorgi dall’abisso, o Beltà? Versa il tuo sguardo infernale e divino, mescolati, il beneficio e il crimine e per questo al vino ti potrei rassomigliare” (20). Così, per Baudelaire (e per altri poeti) la dissoluzione dell’Amore diviene la dissoluzione dell’umanità: “L’Amour est assis sur le crâne de l’humanité” (21).
20. INVERSIONE E ANGOSCIA L’amore si fa, dunque, angoscioso: è esso stesso l’angoscia; quasi ripetendo Giordano Bruno, Leopardi definisce il suo amore «il mio caro dolore» e scrive «e veggo bene che l’amore dev’essere cosa amarissima, e che io purtroppo […] ne sarò sempre schiavo». E si tratta di una schiavitù, dunque, che non ha più nulla della serenità propria del godimento sensibile. Rousseau stesso confessa che «quando ne ebbi una [donna] i miei sensi furono tranquilli, ma il mio cuore non lo fu mai: il bisogno d’amore mi distruggeva, anche nel godimento pieno» (22). L’inversione del rapporto d’amore, la deformazione del suo tessuto sensibile, non è dunque affatto «perversione» dei sensi, è piuttosto ed essenzialmente registrazione nei sensi di una inversione che nasce fuori del livello naturale-sensibile: nella società e nella sua storia. Sicché, prima ancora di essere filtrata nei sensi, quella inversione deve passare attraverso la mente e la psicologia dell’individuo come, del resto, avviene per tutte le proiezioni dell’eros moderno. Proust dice di Albertine che «era quasi l’ombra del mio amore» (23) e spiega che «il mio amore, più che un amore per lei era un amore in me» (24). Può sembrare, a un osservatore superficiale e partigiano, che qui siamo di fronte ad un fenomeno di «mascolinismo». In realtà il problema è un altro, giacché se è vero che sempre pesa la condizione subordinata in cui la donna è stata posta, è poi anche vero che questo è un dato sociologico che non spiega la specificità dell’elemento poetico e artistico. Tanto è vero che anche la rappresentazione dell’amor femminile può trovare eco e spazio nel poeta e anche in questo caso riscontriamo gli stessi tratti alienati dell’eros moderno. Ecco, per esempio, una rappresentazione della donna amante in Rilke: “Che cosa sono, distesa sotto questa infinità, profumando come un prato, qua e là sospinta, chiamando e tremando insieme,
che qualcuno accolga il mio grido e destinata a perdermi in un altro” (25). Ed ecco, sempre di Rilke, una plastica figurazione dell’eros femminile nel quadro di una ascesa poetica del senso alla spiritualità descritta nel “Canto delle donne al Poeta”: “Ciò ch’era in una bestia sangue e tenebra in noi crebbe ad anima e come anima grida. E grida a te… Con noi trapassa l’infinito, ma tu resta, o Bocca, che ascoltiamo, tu resta, tu che parli di noi” (26). È per questo complesso processo di alterazione del rapporto sensibile e per la carica drammatica che esso assume che John Donne, il grande poeta metafisico dell’amore, lo definisce «una medicina che cura il dolore con più dolore» e parla del ragno-amore (“the spiderlove”). Il rapporto si instaura, insomma, tra l’uomo e la donna entro quelli che Rimbaud ha significativamente chiamati i «deserti dell’amore», talché il confine stesso tra piacere e dolore scompare: “Amo e voglio impallidire; amo e voglio soffrire” (De Musset) (27). “Ed io non so chi voglio amare se non il mio dolore” (Penna). L’inversione, così tipica della società borghese, diviene un connotato specifico dell’eros moderno e sia al livello sensibile sia al livello spirituale. Così l’età moderna vede una rinascita dell’omosessualità in una chiave assai diversa da quella antica (28). Basti ricordare i “Sonetti” di Shakespeare e la prima parte del proustiano “Sodoma e Gomorra” (ove la rilevanza esemplare degli «uomini-donna» - come li chiama Proust - in quanto frustrati protagonisti del dramma umano assimilati agli ebrei è ben resa dall’idea che «non c’erano anormali quando l’omosessualità era la norma, né anti-cristiani prima della venuta di Cristo» (29) l’invertito è ora espressione esemplare di una inversione indotta!).
Quanto all’inversione spirituale, e cioè all’intima, strutturale problematicità della passione d’amore, ecco una testimonianza di Jiménez: “Nel nostro amore, la pena e la gioia si accendono e si spengono, come, a primavera, la mattina e la sera. Oh, soave scontro dolce dell’ombra e della luce, della luce e dell’ombra - né luce del tutto né ombra del tutto -, belle loro due, come quelle due simulacro di lotte, uguali nella disfatta e nel trionfo! Amore; crepuscolo, aurora di primavera!” (30) Proprio per questa generale fluidità, invertibilità e reversibilità del rapporto d’amore ormai reso rappresentativo della generale ambiguità della vita moderna è possibile leggervi i fondamentali segni di questa ambiguità: l’angoscia della solitudine e la speranza della comunità, il bene e il male, il piacere e il dolore, la morte e la vita. In una società di solitari com’è tipicamente la società borghese atomizzata, che qualcuno ha definito una “societé en poussière”, la solitudine è un sentimento primario e la speranza della comunità, di una qualsiasi comunità e almeno della comunità con l’altro sesso, è un elemento fondativo della psicologia individuale. Ha scritto John Donne: «quando l’amore una con l’altra / anima due anime / quella più ricca anima che sgorga / vince le manchevolezze della solitudine» (31). E Rousseau: «Appena l’uomo ha bisogno di una compagna non è più un essere isolato, il suo cuore non è più solo. Tutte le sue relazioni con la sua specie, tutte le affezioni della sua anima, nascono con quella. La sua prima passione fa ben presto fermentare le altre» (32). La vita in coppia è, insomma, tanto fuoriuscita dalla solitudine sociale quanto sua impreveduta riscoperta, come ha notato Enzo Paci: «Il chiudersi dei due ognuno in se stesso, o l’obliarsi dell’uno nell’altro, diventano, ancora una volta, solitudine» (33). Ecco, del resto, qualche testo esemplare della poesia d’amore moderna: “Solitudine, ed è il mondo con noi, solitudine, e siamo insieme soli?” (Jiménez) (34).
“Sei venuta tu si è ridesto allora il fuoco L’ombra ha ceduto il gelo di quaggiù s’è incrinato E la terra s’è coperta Della tua chiara carne e mi sono sentito leggero Sei venuta tu era vinta la solitudine Ora aveva una guida sulla terra ora sapevo Dirigermi sapevo me smisurato esistere Avanzavo vincevo più tempo più spazio Andavo verso di te io andavo Senza fine verso la luce La luce aveva un corpo la speranza Tendeva la sua vela Sul sonno a rivoli i sogni e la notte Prometteva all’aurora pupille confidenti I raggi delle tue braccia schiudevano La nebbia la tua bocca era una goccia Delle prime rugiade Lungo il riposo attonito la stanchezza spariva E adoravo l’amore come ai miei primi giorni” (Eluard) (35). “E la crudele solitudine che in sé ciascuno scopre, se ama, ora tomba infinita, da te mi divide per sempre” (Ungaretti) (36). E, ovviamente, questo rapporto ambiguo con la solitudine è anche un ambiguo rapporto con il mondo e con il suo tedio: “Con l’iride mi disse: «Io sarò la pienezza delle tue ore inerti, risalirò con fervore il tuo tedio, darò spuma al tuo dubbio»” (Jiménez) (37). “Col nuovo mattino Il mondo mi bacia sulla tua bocca, donna” (Jiménez) (38). E si vedano, infine questi versi di Nazim Hikmet (39): I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi verrà giorno, mia rosa, verrà giorno che gli uomini si guarderanno l’un l’altro fraternamente con i tuoi occhi, amor mio, si guarderanno con i tuoi occhi”. Qui il tema della speranza di una universale rifondazione comunitaria del mondo pone bene in luce il collegamento storico fra piccola e grande comunità. Sono versi, questi, che rispondono al quesito insito in questi altri, egualmente significativi: “Dove finisce la notte dove comincia la città? dove finisce la città dove cominci tu? dove comincio e finisco io stesso?” (40) Ma va sottolineato che il fondamentale carattere storico e sociale che sottende il moderno rapporto d’amore non comporta affatto una sua chiusura rispetto ai
grandi temi universali: contro una simile interpretazione che appiattisce con cattivo sociologismo la moderna poesia d’amore è necessario invece restituire al rapporto d’amore rappresentato dai poeti moderni la sua apertura poetica che corrisponde, si è già visto, ad una singolare apertura storico-sociale. Proprio la peculiarità dell’eros moderno ne fa un ponte (naturalmente in cifra) verso i temi supremi della vita e della morte che proprio nella lirica d’amore si intrecciano nella tipica ambiguità della società e della civiltà borghese. È infatti proprio l’ambiguità dell’amore moderno che, intrecciando tutti i temi della moderna esistenza dispersa in una società di solitari, suscita in pari tempo il problema della vita e quello della morte. Così, per un verso l’amore appare al poeta la vita stessa (S. Penna: “vivere è per amare qualche cosa”), per un altro, come ha scritto Stendhal, «il vero amore fa abituale il pensiero della morte, facile, immune da paure, un semplice termine di paragone, il prezzo che si pagherebbe per molte cose» (41). L’associazione amore-morte diviene un topos della poesia moderna: “Tu dei amar la morte per piacer di lei” (Frescobaldi). “Per cui morir d’amor mi sarìa vita” (Guinizzelli). “Che per amor morir già no li dole” (Cino da Pistoia). “Nascosa morte porto in mia possanza e tale inimistate aggio col core che sempre di battaglia me menaccia; e chi ne vol aver ferma certanza riguardimi, se sa legger d’amore, ch’i porto morte scritta ne la faccia” (Guinizzelli). L’immagine amore-morte non conosce forse migliore rappresentazione poetica di quella che ci offrono questi due versi di Petrarca: “Morte bella parea nel suo bel viso; E dolce incominciò farsi la morte”. Si tratta di un’immagine che troverà un singolare equivalente (peggiorativo) in questo verso di Baudelaire, il poeta «dannato» della modernità: “La Débauche et la Mort sont deux aimables filles” (42). Ma già Leopardi aveva ammonito: “Fratelli, a un
tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte” (43). Un terzo equivalente modernissimo, infine, mi pare il celebre verso di Pavese “verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Pavese, in proposito, è un testimone assai probante: “sei la vita e la morte” dice alla donna (44) e la disegna, ora nella luce della vita, ora nella notte presaga della morte: “Lo spiraglio dell’alba respira con la tua bocca in fondo alle vie vuote. Luce grigia i tuoi occhi, dolci gocce dell’alba sulle colline scure. Il tuo passo e il tuo fiato come il vento dell’alba sommergono le cose. La città abbrividisce, odorano le pietre - sei la vita, il risveglio. Stella sperduta nella luce dell’alba, cigolìo della brezza, tepore, respiro -ù è finita la notte. Sei la luce e il mattino” (45). E poi: “Anche la notte ti somiglia, la notte remota che piange muta, dentro il mare profondo, e le stelle passano stanche” (46). Ma se questa ambiguità conferisce all’eros moderno una assai ricca valenza di significati, ne fa poi anche uno specchio dell’inquietudine e del dissesto esistenziale dell’individuo, anziché un luogo di appagamento e di incontro. Per questo esso appare al poeta principalmente come una proiezione di se stesso sotto il profilo della tristezza derivante da una solitudine sostanzialmente inguaribile. Scrive Proust: «il nostro amore esiste in funzione della nostra tristezza, […] il nostro amore è forse la nostra stessa tristezza e […] il suo oggetto è solo in parte la tal fanciulla dai capelli neri» (47). È ben per questa allusività ad altro che il rapporto d’amore può subire l’effrazione (come l’ha brillantemente chiamata Bataille) (48) dell’erotismo e addirittura del sadomasochismo. Tanto nel primo quanto nel secondo caso non siamo infatti di fronte a mere
deformazioni patologiche della sensibilità, ma ad autentiche costruzioni intellettuali capaci di destrutturare la sensibilità sessuale. I casi più macroscopici sono quelli del libertinismo settecentesco che trionfano nella rilettura razionalistica e faustiana del mito di Don Giovanni e nella esplosione nichilista di Sade (49). Al limite, allora, l’amore che tanto Hegel quanto Stendhal hanno definito il «fiore della vita» diviene, in quanto più immediata manifestazione naturale di una vita ormai disumanata, un precipitato di negatività, effetto e al contempo causa di una universale effrazione cui l’individuo spera di sottrarsi facendosene protagonista attivo-esclusivo: negando cioè individualisticamente il mondo individualistico che lo deforma. Scrive Baudelaire: «La voluttà unica e suprema dell’amore risiede nella certezza di operare il male». Il suicidio per amore rappresenta molto bene il limite estremo di questo mondo psicologico rovesciato: da Werther a Ortis a Pavese. Ha scritto Pavese: «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla» (50). Così, intriso degli umori inquieti e sostanzialmente scettici della solitudine borghese il rapporto stesso d’amore si rivela fragile, improbabile, provvisorio, addirittura impossibile: “Ci vogliono voci forti ugole di ferro, oggi, per dire una sola sommessa parola d’amore” (N. Risi). L’amore, anche l’amor sensibile, rovina con l’intero mondo storico degli uomini in cui un qualsiasi rapporto con l’altro uomo è chimerico come in questi versi misticheggianti: “Dalla terra volano via gli eventi, le dolci passioni escono dai corpi spenti, la povertà, le illusioni, i sorrisi profondi delle umane consolazioni. Noi non amiamo che quella vanità che ci addolora, vi porta di ora in ora leggere come un lume che non si può tenere ma solo morirne. Come cere colano intorno le stagioni, e noi andiamo con la volontà
di Dio dentro al cuore per le strade nel lieve afrore delle vostre stanze socchiuse, nell’ombra che sommerge le vostre pupille deluse. Lasciate il vostro peso alla terra il nome dentro il nostro cuore e volate via, quaggiù non è vostro l’amore” (M. Luzi, “Canto notturno per le ragazze fiorentine”) (51). Conclusivamente, sarà utile notare la necessità di una radicale correzione dell’ottica con cui viene spesso osservata la poesia d’amore. Mentre essa non può certo essere definita come rappresentazione artistica di un fenomeno eterno e metastorico, come inclinano a fare i critici formalisti e i filologi «puri» - non può poi neppure essere giudicata come «poesia di evasione» nel semplicistico significato di una (inesistente e impossibile) poesia di pura fuga dalla società e dalla storia. Al contrario, proprio perché la poesia d’amore non è rappresentazione artistica di una fenomenologia eterna ed immodificabile, vi si può rintracciare l’eco dei problemi storici di cui vivono gli individui. Come si è appunto cercato di fare.
21. IL PROBLEMA DELLA DONNA Le ipotesi che abbiamo cercato di convalidare non possono essere inficiate neppure da certe pur rilevanti obiezioni frequentemente sollevate in ordine alla patente diseguaglianza che caratterizza la donna nelle società divise in classi e specialmente nella società borghese capitalistica. Nella sostanza, infatti, queste obiezioni si riducono (alla pari delle obiezioni sempliciste di un certo sociologismo economicistico) a chiedere un restringimento dell’indagine sull’eros all’indagine sulla condizione subordinata della donna e, al più, sulla rappresentazione «mascolina» che della donna avrebbero fornito la letteratura e l’arte. In realtà, ogni considerazione relativa alla condizione sociale della donna, pur presentando una sua specifica e innegabile rilevanza, viene a incidere assai poco nella qualità del rapporto d’amore o, comunque, non ne costituisce il determinante principale. Ne è prova convincente il fatto che ogni discorso impostato sulla priorità assoluta della condizione sociale della donna deve di necessità metter capo ad accantonare o porre in secondo piano l’essenziale problema della trasformazione dei rapporti sociali esistenti e, con ciò stesso, deve postulare la possibilità di una riforma del rapporto uomo-donna “entro” i presenti rapporti sociali. In secondo luogo, poi, per la medesima logica che attribuisce valore primario alla condizione dei sessi piuttosto che del genere umano nel suo insieme storico, la problematica del rapporto uomo-donna tende ad essere confinata nell’ambito della sessualità. Su questo piano ogni femminismo cade sotto la tutela del pansessualismo e dello psicologismo. Un femminismo realmente inteso ad ottenere tanto il riscatto e la reale eguaglianza della donna quanto il riscatto del suo stesso rapporto con l’uomo non può dunque partire se non dalla priorità logica del rapporto sociale sul rapporto uomo-donna e quindi anche da una configurazione storica dei problemi dei due sessi, tale da incorporare la tematica dell’eros.
Anche sotto questo profilo può tornare assai utile una riflessione sulla produzione letteraria e artistica nella quale la problematica femminile non si è affatto riflessa nella indifferenziata ed esclusivistica luce del mascolinismo come da qualche parte si sostiene (affermazioni come queste sono manifestazioni patenti di un letale riduzionismo sociologico dell’arte). È per esempio molto importante, anche in questo campo, rilevare le differenze notevoli che la rappresentazione della donna ha trovato nelle differenti epoche (una ulteriore prova, questa, del carattere storicamente determinato che assume, in correlazione ai rapporti sociali esistenti, il ruolo stesso della donna). Anche se, infatti, nel variare delle singole situazioni storico-sociali la condizione della donna è rimasta una condizione di subordinazione, la rilevazione delle differenze consente di fissare una criteriologia delle valutazioni. Per scendere al concreto basterà notare che una critica della odierna condizione della donna nella società borghese-capitalistica non può assolutamente prescindere dalla considerazione della differenza profonda (anche se non radicale) che quella condizione presenta rispetto alle società premoderne. Tale differenza si radica essenzialmente su quella specifica caratteristica, già considerata, della società borghese consistente nell’eguagliamento formale della soggettività umana. Tale eguagliamento, va detto, non sale subito per la donna - a tutti i livelli formali, ma solo lentamente e con ritardo spesso molto grave nei confronti dell’uomo. Nondimeno (e senza minimamente sottovalutare questo aspetto del problema) sarebbe assai errato obliterare, in forza di questo limite grave della condizione borghese, il progresso che essa ha presentato rispetto ad una epoca di radicale discriminazione anche formale della donna. La tematica dell’eguaglianza formale - persino nei confini ristretti che essa conosce nella società borghese - costituisce infatti non tanto e non soltanto la premessa storica di un ulteriore progresso dell’emancipazione femminile (e della emancipazione sociale generale), ma soprattutto una premessa teorica essenziale per costruire parametri significativi e orientativi sul problema della donna. Per rendersene conto basterà riflettere sullo sforzo teorico
che ha rappresentato per la coscienza teorica il superamento di una concezione discriminatrice della donna strettamente collegata a una concezione imbevuta di determinismo naturalistico. La discriminazione della donna è certamente radicata (e mediata) nei ruoli sociali che l’organizzazione socio-produttiva le ha finora affidato. Tuttavia la configurazione di questi ruoli su basi di determinismo naturalistico (sesso «debole», maternità, allevamento dei figli, cura della casa, eccetera) è essa stessa il portato di un tipo di organizzazione socio-produttiva ancora basato su un’immediata prevalenza dell’elemento naturale, e cioè su un ancora scarso sviluppo (ed emancipazione) del genere umano dai suoi cordoni ombelicali con la natura. Come nota Marx, se la moderna organizzazione produttiva capitalistica basata sul lavoro salariato presuppone il «lavoro libero e lo scambio di questo lavoro libero con denaro allo scopo di riprodurre e valorizzare il denaro, di essere consumato dal denaro come valore d’uso non destinato al godimento ma al denaro, un altro presupposto è la separazione del lavoro libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione - ossia dal mezzo di lavoro e dal materiale di lavoro»: appunto da un collegamento “immediato” con la natura, e specialmente «il distacco del lavoratore della terra quale suo laboratorio naturale» (52). Le società precapitalistiche, dunque, sono tutte fondate - a differenza della società capitalistica - sul primato immediato del raccordo naturalistico fra l’uomo e la natura (non conoscono ancora se non assai limitatamente la produzione per la produzione, lo scambio generalizzato, la divisione particellare del lavoro, il lavoro astratto, il valore d’uso che si fa valere solo attraverso il valore di scambio). Di questa immediatezza reca un contrassegno anche il rapporto uomo-donna, non ancora socialmente (culturalmente) elaborato: le differenze sessuali si traducono subito in differenze di ruolo sociale e queste sembrano funzionare come differenze sessuali.
Nella società capitalistica, ove il commercio delle cose si presenta come commercio di equivalenti, il commercio degli uomini si presenta come commercio di enti formalmente eguali. E sebbene si tratti di una tendenza che emerge dai rapporti economici, essa va trasmettendosi progressivamente a tutte le altre sfere: il processo di eguagliamento formale della donna all’uomo si inquadra appunto in questa espansione dell’eguagliamento dei soggetti. In via di principio, pertanto, la parità formale fra uomo e donna non è affatto inconcepibile nella società borghese (come non lo è la parità formale fra operaio salariato e capitalista). Si tratta di una parità, del resto, che su taluni piani e specialmente in quelli più direttamente collegati alla specificità del rapporto d’amore in quanto rapporto nonistituzionalizzato va manifestandosi abbastanza presto nella storia moderna. La mutata concezione della donna e dell’intervento femminile nel rapporto d’amore che già si annuncia con il Dolce Stil Novo ne è un documento molto evidente. Più lentamente il processo si svolge sul piano della concezione generale della donna e cioè sul piano della universale parificazione dei membri del genere umano come tali: tuttavia la diffusione del cristianesimo e specialmente della sua variante protestante è già la diffusione di quella parificazione universale. La donna, pur restando istituzionalmente subordinata e strettamente condizionata dalla cura dei ruoli domestici, non è più un semplice “oikurema” (come la definiva Euripide) e cioè un custode della casa (vocabolo, per di più, di genere neutro in greco!): è totalmente parificata all’uomo come figlia di Dio nonostante le persistenti differenze dei ruoli sociali (53). Il contrasto fra eguagliamento formale della donna e sua subordinazione reale, che costituisce il vero e caratteristico tratto differenziale della condizione femminile nella società borghese, si presenta esso stesso come un elemento interno del più generale contrasto fra eguaglianza formale e diseguaglianza sociale che domina il mondo borghese. Tenerlo presente non significa affatto risucchiare il problema della donna entro il problema più generale della condizione del lavoratore nella società capitalistica, ma cogliere invece del problema della donna quel profilo caratteristico, specifico,
differenziale e determinante che gli è conferito dal suo collegamento con il tessuto storico-sociale proprio della moderna società borghese. E significa, quindi anche, ricavare da questo collegamento i parametri fondamentali di interpretazione, valutazione e trasformazione delle situazioni. Ora, il contrasto che dicevamo fra eguagliamento formale e diseguaglianza reale resta a lungo oscurato dal fatto che il processo di diffusione dell’eguaglianza formale a livello giuridico-istituzionale è assai lento, ma che quel contrasto e non la pura e semplice discriminazione della donna costituisca il punto focale del problema è documentato dal fatto innegabile della progressiva diffusione di quella eguaglianza formale con lo svilupparsi della società capitalistica. Ciò pone in luce l’erroneità della tesi secondo cui, essendo la discriminazione formale della donna l’elemento caratteristico, la società moderna sarebbe da concepirsi piuttosto come una società mascolina che come una società capitalistica e che, insomma, la problematica del sesso sarebbe logicamente prioritaria rispetto ad ogni altra. Questa conclusione, inoltre, induce per un verso a rilevare nell’intera storia della civiltà soltanto le discriminazioni formali della donna (non anche discriminazioni d’altro tipo, fondate, per esempio, sul contrasto eguaglianza formale-diseguaglianza sociale), e per un altro a operare una riduzione della tematica del rapporto uomodonna a mera tematica sessualistica. Scompare allora, per esempio, quella tematica spirituale dell’eros che costituisce invece il nucleo più significativo e affinato del rapporto uomo-donna. La conclusione ultima è che, in tal modo, la problematica femminista viene rinchiusa entro confini «corporativi» sessuali e viene perciò anchilosata rispetto alle dimensioni generali che presenta invece quel rapporto come rapporto non soltanto naturale-sensibile ma anche storico-spirituale, che costituisce, quindi, la dimensione più naturale (immediata) del rapporto storico dell’uomo o, se si vuole, la dimensione più naturale (immediata) del rapporto del genere umano
in quanto è storia: come rapporto di interazione con se stesso in quanto natura. Una diversa angolazione della «questione femminile» (come tentiamo di fare) consente invece di graduare con oculatezza l’incidenza dell’elemento sessuale-naturale e di quello storico-sociale recuperando sia la priorità del tema sociale sia la rilevanza del tema spirituale (dell’eros); nei quali temi - si badi - si risale dalla critica della subordinazione sociale della donna alla critica del dissesto in cui cade con il rapporto d’amore la stessa correlazione della donna con l’uomo e dell’uomo con la donna: di quel dissesto che trova certo un elemento assai importante nella condizione subordinata della donna, ma che grava poi questa condizione del più generale dissesto di ogni individuo moderno come tale. Accade invece che per il tipico errore ottico causato dalla sconoscenza dell’esatta eziologia del problema, il dissesto specifico della donna viene facilmente presentato come il dissesto generale dell’individuo moderno o che, più spesso, questo dissesto generale viene scaricato - al livello spirituale - in una rappresentazione disperata dello stesso rapporto d’amore e in una rappresentazione demoniaca della donna. Nel primo caso il primato conferito al tema naturale-sensibile svaluta il tema storico-sociale ma proprio così perviene a una configurazione riduzionistica della sensibilità umana come mera sessualità. Nel secondo caso, per vie assai diverse, si giunge a un risultato analogo di lacerazione e addirittura soppressione dell’elemento naturale che inquadra la sensibilità storica degli uomini. Al limite di queste due concezioni troviamo la teorizzazione della omosessualità come sessualità autonoma di un autonomo genere femminile, oppure la compressione moralistica dello stesso rapporto naturalistico dell’uomo con la donna. «La donna - ha scritto Baudelaire - è naturale, cioè abominevole» e Leopardi (il cantore di Silvia!) ha denominato le donne «le bestie femminine».
Una impostazione articolata del problema della donna mette capo, conclusivamente, a postulare la priorità logica dell’emancipazione sociale rinunciando peraltro rigorosamente a considerare come rinviabile in un qualsiasi modo il problema del formale eguagliamento della donna all’uomo o culturalmente irrilevante il problema dei rapporti sessuali e spirituali tra l’uomo e la donna. Insomma l’emancipazione femminile diviene uno specifico aspetto della più generale emancipazione sociale e soltanto in relazione a questa può acquisire concrete “chances” di realizzazione. Per altro verso, in forza della sua specifica natura, quella emancipazione non è affatto il meccanico risultato della emancipazione sociale e resta uno specifico problema della stessa società socialista. Sulla base di queste considerazione si può ben affermare che il problema della emancipazione femminile è un problema che coinvolge l’intera società e che cointeressa l’intero genere umano in quanto problema di concreta interazione umana del rapporto uomodonna. Di questo generale coinvolgimento umano nel problema della donna rendono testimonianza tutti i grandi spiriti, uomini o donne che siano, a smentita della pretesa incapacità del maschio di comprendere in quanto tale i problemi della donna. I casi di Fourier, Marx, Engels, Lenin sono esemplari. Ma non meno significativi sono i casi dei grandi poeti: […] “voi che siete piene di grida, ora di pianti, voi che l’anima mia inseguì dentro il vostro inferno, povere sorelle, vi amo e vi compiango insieme per i vostri dolori cupi, per le seti inestinte e le urne d’amore di cui son pieni i vostri grandi cuori!” (Baudelaire) (54) Non è Rimbaud che ha scritto che l’emancipazione si avrà «quando verrà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando essa vivrà per se stessa e attraverso se stessa, dopo che l’uomo - finora abominevole - le avrà restituita la libertà?» Ove, naturalmente, si tratta di intendere «l’uomo» come la nozione storica dell’organizzazione sociale.
22. LA COAZIONE GIURIDICA Portare il fuoco della attenzione critica sulle strutture sociali non significa certo - si è già detto - assorbire i problemi spirituali in quelli economici. E così non può neppure significare lasciare in ombra come quasi sempre è stato fatto - l’estrema rilevanza delle istituzioni giuridiche. Nella prima parte di questa ricerca si è motivata una distinzione concettuale fra famiglia e rapporto uomo-donna mettendosi così in chiaro che l’istituzione giuridica della famiglia (cui si ricollegano meccanismi di regolazione, controllo e coazione giuridica) trova il suo principale fondamento nella necessità di determinare con certezza gli status delle persone e delle proprietà e quindi la responsabilità per i soggetti deboli e per la dinamica dei patrimoni (55). Questa motivazione spiega perché, ad esempio, in una serie di paesi la tematica del divorzio e cioè della libera scomposizione e ricomposizione di un legame realmente fondato sulla reciprocità d’amore si sia diffusa assai lentamente e perché questa diffusione sia stata più rapida ove più rapido è stato il passaggio a forme evolute di capitalismo, basate sul prevalere della proprietà mobiliare e su una grande mobilità delle persone. L’assetto della famiglia nucleare nei paesi industrializzati tende oggi a fondarsi sulla monogamia giuridica scomponibile (mediante il divorzio). Questo è dunque il modello che occorre principalmente discutere, reagendo alle diffuse tendenze che sollecitano piuttosto verso la critica di una scarsamente determinata «repressione sessuale». Naturalmente non nego affatto la gravità e rilevanza che assumono oggi le turbe della sessualità indotte dai moderni rapporti sociali alienati. Nego peraltro che l’elemento chiave per una critica dell’assetto che la sessualità riceve nella società borghese sia identificabile in una generica «repressione sessuale». In realtà la società borghese evoluta tende a smantellare le residue forme di compressione e repressione dell’attività sessuale e la sollecita addirittura per molti aspetti come attestano i fenomeni di
liberalizzazione delle censure letterarie e artistiche e la industrializzazione del «mercato del sesso». La stessa etica borghese ha progressivamente abbandonato i toni «austeri» di ispirazione squisitamente moralistica (Kant) o salutistica (B. Franklin) (56) accettando anche l’idea di rapporti plurimi. Già Stendhal scriveva che «nulla impedisce che una donna sia amata da due uomini o un uomo da due donne» e prima di lui Sade, con pungente paradossalità, aveva affermato che «l’adulterio […] non è che l’acquisto di un diritto di natura» (57). Tracce vistose di una critica addirittura scetticheggiante del matrimonio e della famiglia sono rintracciabili in tutta la letteratura moderna e contemporanea. Non mancano neppure tentativi anche consistenti di instaurare pratiche convivenze “extra-legem” e addirittura convivenze in «comuni». Ciò che però sorprende in questo quadro è che ogni formula che esuli dalla monogamia giuridica può bensì essere tollerata ed anche ammessa senza censure morali, ma non può ottenere la tutela del diritto. La logica dell’ordinamento giuridico moderno resta infatti quella della identificazione carta e stabile del rapporto uomo-donna. L’incertezza del rapporto risultante dalla pluralità contestuale del rapporto stesso è giuridicamente intollerabile: spesso soltanto giuridicamente! Proprio la divergenza fra le valutazioni morali e le valutazioni giuridiche scopre una profonda contraddizione nell’odierno ordinamento del rapporto uomo-donna nel senso che, evidentemente, la valutazione giuridica, essendo più direttamente collegata con la determinazione delle pratiche responsabilità personali e patrimoniali, non può tener dietro alla valutazione morale in ordine alla quale, invece, la cultura borghese è assai meno «puritana» di quanto solitamente si afferma. La depenalizzazione di molti comportamenti un tempo considerati «devianti» (omosessualità, adulterio, concubinato, pornografia, eccetera) e la progressiva liberalizzazione delle valutazioni censorie delle offese al pudore (basti pensare ai casi esemplari di Lawrence, Miller e Joyce)
attestano che il punto di arroccamento della civiltà borghese non è affatto quello moralistico del contenimento effettivo del rapporto sessuale ma è piuttosto quello della monogamia giuridica e cioè di una organizzazione del rapporto sessuale disciplinata pubblicamente in tutti i suoi elementi essenziali e in tutte le sue principali conseguenze, al di fuori della quale nessuna protezione sociale viene garantita. Vengono così in chiaro i seguenti punti: 1) La organizzazione monogamica del rapporto uomo-donna trova motivazione nella necessità di una certezza negli status delle persone e delle proprietà; 2) tale certezza viene garantita dalla regolazione giuridica e dalla denegazione di tutela ai rapporti non formalizzati di fronte al diritto; 3) la variazione dello status è possibile nella società borghese evoluta purché si accompagni a un formale atto giuridico. Se ne conclude che l’organizzazione giuridico-monogamica non è affatto dettata dalla dialettica degli affetti, bensì dalla dialettica della società civile borghese bisognosa di certezze giuridicamente garantite. La dialettica degli affetti entra perciò necessariamente in contrasto con la dialettica della società civile sicché l’uomo (la donna) moderno si trova costantemente al bivio di una scelta fra l’affetto e la sicurezza (giuridica). Nulla di più logico, perciò, che l’affetto si ribalti in insicurezza e la sicurezza in affetto e cioè che per l’uno o per l’altro aspetto la dialettica degli affetti risulti sottoposta ad una violenta coazione sociale che opera direttamente attraverso il diritto e indirettamente attraverso i meccanismi psicologici. Occorre infine notare che la monogamia entro cui vengono compressi i rapporti intersessuali socialmente riconosciuti deriva dalla problematica giuridica della responsabilità personale e patrimoniale il suo carattere mascolino, nel senso che la struttura delle relazioni sociali esige come centro di imputabilità giuridica un soggetto economicamente forte e cioè, appunto, l’uomo. Non per nulla il diffondersi del divorzio si collega, oltre tutto, alla più vasta occupazione femminile nei paesi più evoluti. La stessa correlazione
si riscontra anche nella parificazione dei due soggetti entro la famiglia, dalla quale discende una eguaglianza di doveri patrimoniali. Al fondo di questa singolare condizione delle relazioni affettive sta la singolare condizione delle relazioni socio-produttive basate sul cinismo del rendimento, della calcolabilità e della irresponsabilità sociale per i soggetti più deboli. A questo cinismo dei rapporti oggettivi corrisponde il formalismo dei rapporti soggettivi in un complessivo quadro di ipocrisia che tutti i grandi spiriti hanno denunciato. Già Andrea Cappellano, uno dei primi trattatisti dell’amore scriveva che «allegare il matrimonio non è scusa legittima per l’amore» anticipando di secoli il grido di Majakovskij: “Per me l’amore / non si misura con le nozze. / Ha cessato di amarmi? / È svanita”. Ronsard intuiva addirittura in questi versi singolari la gravità della coazione sociale sugli affetti: “E noi, all’ombra dell’onore tradiamo per paura la felicità; son più felici gli uccelli che innamorati fanno l’amore senza costrizione” (58). Shakespeare mostra Giulietta assai più affezionata alla balia che alla madre, la quale non ricorda più l’età della figlia (59). Sempre Shakespeare costruisce la tragedia di Re Lear sull’usura a cui i vincoli di sangue sono sottoposti ad opera della corsa al potere e al successo. Il Persiano di Montesquieu conclude che il matrimonio europeo è «qualche cosa di misterioso che non arrivo a capire» (60). Stendhal afferma polemicamente che «non ci sono unioni più legittime di quelle governate da una vera passione» (61). Stuart Mill scrive che «il matrimonio è la sola vera schiavitù che la legge conosca» (62). Ibsen intesse molti dei suoi drammi sull’ipocrisia dei rapporti sessuali formalizzati (63). Proust e Joyce hanno battute di una ironia feroce come queste: «le supponevo tutti i difetti, salvo quello di avere una famiglia» (64); «sappiamo da autorevolissima fonte che i peggiori nemici di un uomo sono i suoi familiari stessi» (65); «solo i poeti di famiglia hanno vita di famiglia» (66); «un padre è un male
necessario» (67). La sposa, in una poesia di Jahier, così si esprime: “Oh, se non mi avessi sposata / almeno sarebbe durato l’amore” (68). Proprio l’ipocrisia oggettiva, tessuta cioè dal contrasto fra la formalità - fissità - coattività della regolazione giuridica e l’informalità - fluidità libertà della vita affettiva rende particolarmente drammatica la condizione degli affetti e li involge entro una rete di “ipocrisie soggettive” sicché fanno ad un tempo nodo le necessità economiche di una organizzazione domestico-artigianale della vita privata, la finzione e coazione del diritto che domanda certezze formali e formali responsabilità e l’etica cristiana che apporta specificamente l’antica istanza della compressione dei sensi. Ne risulta un quadro stravolto dei sentimenti dell’uomo moderno sottoposti alla tirannia di rapporti sociali anonimi e implacabili che per di più si vestono di un vistoso panneggio culturale. Ce n’è abbastanza per motivare l’interrogativo di Eluard: «Per quanto tempo ancora bisognerà urlare, agitarsi, piangere prima che le figure dell’amore divengano le figure della felicità, della libertà?» (69). E per motivare questo verso-proclama di Jiménez: “Me parto en mundos de amor” (mi scompongo in mondi di amore). Se, come sembra, la regolazione giuridica del rapporto uomo-donna è la spia più autentica del carattere socialmente determinato e alienato che esso presenta nella società borghese, pare corretto innestare il problema generale della liberazione dell’eros alle stesse istanze che in ordine alla liberazione della convivenza motivano la prospettiva del «deperimento del diritto» e cioè la prospettiva della costruzione di una società in cui la consapevole gestione diretta di tutti i rapporti interindividuali si manifesta nella «superfluità» della regolazione giuridico-coattiva. Come, insomma, l’instaurarsi di rapporti economici capitalistici determina al tempo stesso il costituirsi di uno Stato politico separato e, contestualmente, di una sfera di regolazione giuridica dei comportamenti pubblici e privati, così il processo di socializzazione di quei rapporti dovrebbe
progressivamente comportare con il «riassorbimento» della regolazione politico-giuridica l’affievolirsi della necessità di una disciplina formale-coattiva (com’è appunto la disciplina giuridica) di tutti i rapporti umani e cioè tanto del diritto pubblico quanto del diritto privato: in definitiva la fine stessa dell’antitesi privato-pubblico in cui si cristallizza la spaccatura fra individuo e comunità. Sebbene, dunque, la tradizione marxista abbia poco sottolineato la rilevanza che è da attribuire anche al deperimento del diritto privato (ha infatti preferito, per esigenze politiche, sottolineare la prospettiva del deperimento del diritto pubblico e anzi, più genericamente, dello Stato) sembra oggi importante - di fronte alle contraddizioni e alle crisi constatabili complessivamente attorno al rapporto uomo-donna - sottolineare la tematica della marxiana sostituzione di una autentica comunità alla presente società capitalistica. In definitiva, una comunità realmente capace di autogestirsi senza la mediazione della politica e del diritto sarebbe appunto una comunità in cui la stessa dialettica degli affetti si libera dai condizionamenti della dialettica delle proprietà e anche dalle responsabilità indotte (e perciò fittizie) dalla necessità di una gestione privatistica dei soggetti deboli (minori, vecchi, invalidi, malati… donne). Questa liberazione dell’eros, si badi, sarebbe ben altro che una rozza comunità sessuale, ma una comunità, invece, capace per un verso di recuperare il godimento sensibile sul piano «lineare» e armonico della civiltà classica, e per un altro di fruire integralmente della universalizzazione borghese della soggettività formalerazionale.
23. PER UN’ETICA MATERIALISTICA Dall’analisi finora condotta possiamo concludere che la figura del moderno eros reca segni precisi della sua correlazione con la società moderna borghese e perciò di una sostanziale ristrettezza e angustia. Si tratta di ristrettezza e angustia che non sono soltanto connesse, si badi, alla costatazione già fatta che il moderno rapporto d’amore si configura come una piccola comunità tendenzialmente sostitutiva e perciò anche esclusiva nei confronti della grande comunità. Tale costatazione deve essere approfondita e si deve, in particolare, cogliere un altro elemento generalmente trascurato; la tendenziale contrapposizione fra piccola e grande comunità non ha infatti soltanto un significato che potremmo definire socio-politico, e cioè un significato di separazione-fuga dalla società. Se tutto restasse fermo a questo livello, il postulato della ricomposizione comunitaria della società potrebbe avere un valore forse altrettanto sostitutivo e potrebbe proporre, per così dire, la fondazione di un’etica rigorista e ascetica altrettanto dogmatica e astratta: di un’altra etica sublimatrice. In realtà, quella contrapposizione stessa dovrebbe essere distrutta per conferire allo stesso rapporto d’amore un profilo diverso, tale da riscattare l’eros moderno dai connotati negativi che fino a qui abbiamo messo in luce. Su questa linea interpretativa del problema, per esempio, si riesce a capire che una differente compagine sociale come quella greca non riusciva soltanto a evitare la contrapposizione fra piccola e grande comunità, ma riusciva altresì ad evitare la drammatizzazione o deformazione negativa del godimento sensibile. D’altra parte, in una ricostruzione comunitaria del rapporto sociale capace di eliminare tale drammatizzazione quel godimento dovrebbe essere recuperato ad un più alto livello di razionalizzazione in modo da non disperdere e anzi «utilizzare» il positivo significato della
personalizzazione-soggettivazione e dell’eguagliamento formale dell’uomo e della donna. Cerchiamo intanto di documentare meglio l‘“insoddisfazione” per il moderno eros ovvero i limiti dell’amor-passione. Hegel ha reso tale insoddisfazione in questi termini: «L’amore è solo il sentimento “personale” del soggetto singolo, che si mostra pieno non degli interessi eterni e del contenuto oggettivo dell’esistenza umana, la famiglia, i fini politici, la patria, i doveri della professione, del proprio ceto, della libertà, della religiosità ma solo del proprio io, che vuole riaccogliere il sentimento riflesso da un altro io» (70). Qui, dunque, mette radici ciò che Hegel denomina valore «esclusivo» dell’amore, il «lato di freddezza» che egli vi coglie. Si tratta di una concezione che traspare largamente (forse troppo largamente e cioè senza significative differenziazioni) in tutte le riflessioni sul rapporto d’amore. Dante ha reso magistralmente questo limite dell’amore nella figura di Ulisse (71). “Né dolcezza di figlio, né la pietà del vecchio padre, né il debito amore lo qual dovea Penelope far lieta vincer poteron dentro a me l’ardore che io ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”. Il rilievo della tendenziale contrapposizione della piccola alla grande comunità comporta che si metta a fuoco la struttura egotistica (a due!) della piccola comunità. In questo senso si dovrebbe convenire con Lautréamont, per il quale non soltanto «nulla è più imperfetto dell’egoismo a due» ma addirittura «l’amore di una donna è incompatibile con l’amore dell’umanità» (72). Ma il punto essenziale sembra divenire, invece, la possibilità (necessità) di non rovesciare sul mondo intero lo scetticismo che da un tipo di società è stato trasmesso alla piccola comunità. Come, invece, suggeriscono questi versi sintomatici di Sbarbaro (73):
“Estrema delusione degli amanti invano mescolarono le vite s’anche il bene superstite, i ricordi son mani che non giungono a toccarsi. Ognuno resta con la sua perduta felicità, un po’ stupito e solo pel mondo vuoto di significato”. Ad evitare questa reversione, però, non è di per sé sufficiente la modifica del rapporto sociale e politico esistente. Decisivo appare, nel quadro di questa pur essenziale trasformazione, il radicale riassesto della stessa piccola comunità dal punto di vista della sua struttura socioeconomica, così come dal punto di vista del suo impianto di mera passione «esclusiva». Nel primo senso diviene fondamentale - come si è visto nella seconda parte - la socializzazione di una serie di servizi attualmente svolti dalla piccola comunità e specialmente dei servizi cosiddetti domestici (74). Nel secondo senso appare molto importante la ulteriore crescita intellettuale dei soggetti (degli uomini e delle donne) in forme tali da «includere» nell’orizzonte della «felicità» privata elementi di uno spirito comunitario e cioè di una più alta coscienza teorica generale. Insomma, un’autentica ricostruzione etico-sociale deve render possibile un rapporto uomo-donna riequilibrato e tale da ricostituire la «linearità» del godimento sensibile propria della civiltà greca attraverso non già la negazione della intensificazione soggettiva apportata dalla civiltà borghese, ma proprio attraverso il suo potenziamento fino alla più ampia espansione sia del controllo razionale sulla sensibilità, sia dell’orizzonte spirituale dell’appassionamento (75). Il punto chiave di questa ricostruzione spirituale del rapporto diviene dunque un modo nuovo di rapportare il sensibile all’intellettuale e, reciprocamente, l’intellettuale al sensibile. Merita cioè di essere criticato sia il tradizionale amor platonico rinnovato dalla variante romantica del trascendimentotrasfigurazione del sensibile, sia l’estetizzante (e cinica) dissoluzione
del tessuto intellettuale del rapporto da cui nascono le prospettive della riduzione oggettivistica del sesso a mera sfera di assoggettamento e plagio, oppure dello stravolgimento del complesso rapporto spirituale fra l’uomo e la donna a semplice giuoco in cui si presume possibile il recupero di una natura extrastorica ed extrasociale. Sade, Freud, Marcuse segnano in proposito tre modelli che, in modi diversi, rappresentano abbastanza bene le deformazioni derivanti da un certo nichilismo spirituale: sostanziale negazione di un rapporto “intero”, riduzione pansessualistica della esistenza e della psicologia umana, dissaldamento intellettualistico della comunità privata (natura) dalla comunità pubblica (storia). A ben vedere in tutte e tre le direzioni si disperde la concretezza sociale dell’individuo. Si comprende, così, che il problema etico si riassume nella capacità di una mediazione di sensibilità e intelligenza, che è poi una mediazione adeguata al carattere emblematico o generale che il rapporto uomo-donna possiede in quanto più immediato rapporto naturale dell’uomo a se stesso e più immediato rapporto sociale alla natura. Nasce così la esemplare problematica della mediazione dei “propri” sensi con la “propria” ragione come sensi-storia e come ragionestoria. Come infatti il mio rapporto “sensibile” ad un altro membro del genere umano (la donna) si configura come rapporto ad un altro soggetto “ragionevole”, così per la forza stessa dell’attrazione sensibile è mediata l’altrui soggettività in quanto “altra da me” e perciò autonoma. Ma come questa trattazione razionale di un ente naturalmente diverso da me si impianta sulla attrazione irrinunciabile del senso (come diceva Hume, una passione si scaccia soltanto con un’altra passione), questo è in pari tempo riconosciuto e sollevato, cioè mediato intellettualmente e soddisfatto a questo specifico livello della storia che comprende me e l’altro da me in una medesima eppur articolata unità.
Si coglie a questo punto quanto sia vera la definizione poetica che John Donne dà dell’amore come «il sottile nodo che ci rende umani» giacché esso non solo rivela ma invera e incarna nella pratica dell’esistenza la correlazione natura-storia che caratterizza “tanto” la società “quanto” l’individuo, l’intreccio fra sensibile e spirituale che nel genere umano si riproietta e si riproduce nella successione fisica delle generazioni e che, invece, nell’individuo incontra la cesura senza scampo della morte fisica. A questo livello viene interamente recuperata, come necessaria articolazione e fecondazione intellettuale, la dimensione storica del senso in maniera non diversa da ciò che accade in ogni altro campo di una estetica materialistica coerente nel quadro complessivo di una nuova teoria del gusto entro cui non ci sia più frattura fra immediatezza o particolarità del godimento e significatività universale del comportamento umano. Anche, dunque, per quello specifico (e indubbio!) “oggetto” del nostro appassionamento sensibile che è l’altro sesso in quanto natura diviene vero che «l’uomo non si perde nel suo oggetto solo se questo gli diventa “umano” o uomo oggettivo» (76) e cioè oggettivazione naturale di una soggettività storicamente con lui concresciuta. Ma non in un significato spiritualizzante (platonizzante) che induce a scostare, disprezzare e perciò occultare il senso stesso, bensì in un significato storico-razionalizzante che potenzia il mio soggettivo godimento attraverso il mio comportamento verso l’oggetto perché solleva (umanizza) il livello stesso dell’oggetto a soggetto. Qui, insomma, “possedere significa riconoscere e viceversa”, e perciò come ogni passione anche il fisico possesso diventa un «patire umanamente inteso» (77) e cioè complessiva «auto-fruizione dell’uomo» (78) quale è resa concettualmente e praticamente possibile dalla restaurata fruizione sociale del prodotto sociale. La soppressione dei cardini proprietari e privatistici della società borghese non solo rende possibile praticamente, ma disvela anche teoricamente i meccanismi generali di una esistenza comunitaria più elevata ed espansa, al punto che diviene ora praticamente vero che non solo nel pensiero, ma bensì con “tutti” i sensi, l’uomo si afferma […] nel mondo
oggettivo» (79) distruggendo la matrice di ogni frustrazione e limitazione storicamente non-ragionevole. Nella stessa apprensione sensibile degli oggetti l’uomo si afferma sulla natura e perciò nell’apprensione sensibile dell’altro sesso come parte riconosciuta e soggettivata del suo stesso genere egli si solleva al di sopra della natura in quanto ente sensibile-razionale, proprio perché anche in questo caso è vero che «le fruizioni umane diventano dei “sensi” capaci» che «sono in parte sviluppati e in parte prodotti» (80) e che una sensibilità più ricca di quella generalmente rintracciabile in natura è proprio la natura “umana” in quanto capace di crescere storicamente, di umanizzarsi. Se «il “senso” costretto al rozzo bisogno pratico ha anche soltanto una sensibilità limitata» (81) una sensibilità non-limitata diviene possibile solo con lo sganciamento del senso dal rozzo bisogno pratico. In tal modo, mentre il mio senso si oggettiva, il suo oggetto si umanizza e per due distinti processi va doppiamente arricchendosi il godimento stesso, che scavalca il semplice desiderio-bisogno fisico e incontra per i suoi quesiti spirituali un oggetto umanizzato e perciò “capace di rispondere”. Ma ora si vede anche bene che tutto questo ricco progresso dei soggetti umani persino nella loro sensibilità fisica può essere possibile solo in una organizzazione sociale nella quale «il bisogno dell‘“uomo come uomo” divenga bisogno» (82) e sia perciò chiusa per sempre la tradizione della fruizione egotistica del mondo in tutte le sue proiezioni. In essa mutano ormai di significato le cardinali categorie storiche dell‘“essere attraverso l’avere” (83), che si rovesciano invece nelle categorie di un “avere attraverso l’essere”, grazie al fatto che la mia reale ricchezza è mediata ormai proprio anche dall’altrui esistenza. In una tale “comunità” è subito vero che persino il mio godimento dipende dall’altrui godimento in una reciprocità nella quale ciascuno è nello stesso tempo mezzo e scopo perché «raggiunge il suo scopo solo in quanto diviene mezzo, e diventa mezzo solo in quanto si pone come scopo a se stesso sicché ciascuno si pone come essere per un altro in quanto è essere per sé e l’altro si pone come essere per lui, in quanto è essere per sé» (84).
Sorge dunque ciò che Marx chiamò «il bisogno umano ricco» e cioè il bisogno di una personalità individuale dotata di aspirazioni universali, capace di comprendere l’Altro al suo più alto livello e perciò di godere anche questo più alto livello dell’Altro. Così l’individuo tanto più si personalizza quanto più si genericizza (si oggettiva) e viceversa, sviluppando in se stesso come individuo la «capacità della specie uomo» (Marx). Cade con l’antitesi natura-società anche l’antitesi senso-ragione ché anzi il “senso riconosciuto” potenzia la soggettività come il “ragionevole riconoscimento” dell’altrui soggettività potenzia il godimento sensibile. La fine di queste antitesi si affianca alla fine degli altri dualismi (anima-corpo, cultura-lavoro, intellettuali-semplici, governantigovernati, eccetera) e anche nel rapporto uomo-donna la ricchezza civile o multiformità storica del genere umano diviene non soltanto fine (esposto nell’assolutizzazione a restare astratto) ma anche mezzo per la crescita dell’individuo. Un’etica materialistica sconfigge e supera tanto l’etica del sacrificio quanto l’etica dell’egotismo. Essa assume per soggetto un individuo storicamente ricco che, proprio perciò, è anche «bisognoso di una totalità di manifestazioni umane» (Marx): anche di manifestazioni fisiche e spirituali di amore umano. Su questa linea Lenin ha potuto affermare che «il comunismo deve apportare non l’ascetismo ma la gioia di vivere e il benessere fisico dovuti anche alla pienezza dell’amore».
NOTE Note alla Parte prima. Il concetto di famiglia e il rapporto
N. 1. F. Messineo, “Manuale di diritto civile e commerciale”, Milano 1952, v. 2, 1, p. 27. N. 2. F. Engels, “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, Roma, 1971, p. 85. N. 3. C. Lévi-Strauss, “La famiglia”, in “Razze e storia e altri studi di antropologia”, Torino 1967, p.p. 167-8. N. 4. F. Engels, “L’origine della famiglia, ecc.”, cit., p. 85. N. 5. J. Charmont, “Le droit et l’esprit démocratique”, Montpellier, 1908, p.p. 39 e segg. N. 6. Il rilievo vale anche per il mondo greco. Ecco, in proposito, un significativo passo del grecista Finley: «Né il greco né il latino hanno un termine di cui ci si possa servire per esprimere il significato moderno più comune di ‘famiglia’, come si intende ad esempio quando si dice ‘passerò il Natale con la mia famiglia’. In latino, “familia” aveva una gamma di significati notevolmente estesa: indicava tutte le persone libere o no, sottoposte all’autorità del “pater familias”, il capo di casa oppure tutti i discendenti da un antenato comune, oppure ancora tutte le proprietà di un dato individuo; o semplicemente tutti i servi d’una persona (ad esempio la “familia Caesaris” comprendeva tutti gli schiavi personali e i liberti al servizio dell’imperatore, non la moglie e i figli di quest’ultimo). Come nel termine greco “oikos” vi era una accentuazione dell’aspetto relativo alle proprietà, nessuno sentì mai la necessità di creare un nome specifico per il concetto più circoscritto che il nostro termine ‘famiglia’ richiama. Il “pater familias” non era il padre biologico, ma l’autorità che dominava sulla casa, un’autorità che il
diritto romano suddivideva in tre elementi (li riassumo schematicamente): “potestas”, cioè il potere sui figli (inclusi quelli adottivi), i figli dei figli e gli schiavi; “manus”, cioè il potere sulla propria moglie e sulle mogli dei figli, e “dominium”, cioè il potere sulle proprietà. […] È la stessa classificazione tripartita sulla quale era stato costruito l‘“Oikonomikos” di Senofonte […]» (M. I. Finley, “L’economia degli antichi e dei moderni”, Bari, 1974, p.p. 5-6). N. 7. E. Betti, “Istituzioni di diritto romano”, Padova, 1947, v. 1, p.p. 48 e segg. N. 8. P. Bonfante, “Storia del diritto romano”, Roma, 1934, p. 70. N. 9. P. Bonfante, “Corso di diritto romano”, v. 1, “Diritto di famiglia”, Milano, 1963, p. 7. N. 10. P. Bonfante, op. cit., p. 13. I figli in senso proprio sono denominati “liberi” perché, a differenza degli schiavi, diventeranno liberi. N. 11. P. Bonfante, op. cit., p. 12. N. 12. Paterfamilias è colui che nella casa detiene il dominio. N. 13. G. Solari, “Individualismo e diritto privato”, Torino, 1959, p. 52. Opera insomma nel mondo romano «la ferrea concezione […] che nega ai discendenti, finché viva l’ascendente maschio, ogni capacità di possedere ed acquistare, e livella in qualche modo figli e schiavi, uomini e cose, nella uniforme sottoposizione alla volontà del capo» (V. Arangio-Ruiz, “Istituzioni di diritto romano”, Napoli 1960, p. 426). N. 14. J. Gaudemet, “La comunità familiare”, in A. Manoukian, “Famiglia e matrimonio nel capitalismo europeo”, Bologna, 1974, p. 80. N. 15. M. Bloch, “I vincoli del sangue”, in A. Manoukian, op. cit., p. 71 .
N. 16. L. Stone, “Il matrimonio aristocratico”, in A. Manoukian, op. cit., p. 167. N. 17. F. Engels, “L’origine della famiglia, ecc.”, cit., p. 105. E confronta C. S. Lewis, “L’allegoria d’amore. Saggio sulla tradizione medievale”, Torino, 1969, p.p. 15 e segg. N. 18. J. Locke, “Due trattati sul governo”, Torino, 1948, p. 129. N. 19. Ivi, p. 275. N. 20. Ivi, p. 276. N. 21. Ivi, p. 278. N. 22. Ivi, p. 280. N. 23. Ivi, p. 287. N. 24. Ivi, p. 288. N. 25. J.J. Rousseau, “Sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini”, Roma, 1968, p. 151. N. 26. J.J. Rousseau, “Il contratto sociale”, Torino, 1945, p. 9. N. 27. Ivi. N. 28. I. Kant. “Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto”, Torino, 1956, p. 458. N. 29. I. Kant, op. cit., p. 461. N. 30. Ivi, p. 526. N. 31. Confronta G. G. F. Hegel, “Lineamenti di filosofia del diritto”, Bari, 1954 p. 150. La preminente qualifica etica del rapporto è puntualmente smentita dalla affermazione successiva (p. 155) che
«la famiglia, come persona, ha la sua realtà esterna in una proprietà». Vedi più avanti. N. 32. Ivi, p. 153. N. 33. Ivi, p. 155. N. 34. J.J. Rousseau, “Sull’origine, ecc.”, cit. p. 126. N. 35. Ivi. N. 36. G. G. F. Hegel, “Estetica”, Torino, 1967, p. 635. A p. 636 Hegel parla di un valore esclusivo dell’amore e a p. 637 di un suo «lato di freddezza». N. 37. L. Feuerbach, “Princìpi della filosofia dell’avvenire”, Torino, 1946, p. 137. N. 38. S. Kierkegaard, “Diario del seduttore”, Milano, 1974, passim. N. 39. S. Kierkegaard, “Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale” Firenze, 1965, p.p. 45 e 50. N. 40. Si veda invece la fine osservazione di Leonardo sul contrasto (non però opposizione!) che v’è tra la laidezza (così si esprime Leonardo) dell’atto sessuale e i vezzi dell’amore: geniale indicazione della impotenza di ogni trattazione dualistica di sensibilità e spiritualità nell’eros. N. 41. K. Marx, “Opere filosofiche giovanili”, Roma, 1963, p.p. 224225. Note alla Parte seconda. Comunità domestica e società capitalistica
N. 1. Su ciò confronta A. Ardigò, “Sociologia della famiglia”, in “Questioni di sociologia”, Brescia, 1966, v. 1, p.p. 581-680.
Naturalmente, a fianco dei due principali indirizzi naturalistico e storico-funzionale ve ne sono altri e specialmente quello psicanalitico; pare però che il contrasto di fondo sia ancora tra le due impostazioni di cui si parla nel testo. Si deve anche aggiungere che via via che l’indirizzo storico-funzionale è andato prevalendo, esso è andato sempre più differenziandosi. Direi che vi sono oggi tre tipi di interpretazione storica generale: quella materialistico-storica (Marx, Engels), quella storicista-relativista (Besta), quella sociologico funzionale (Tönnies, Durkheim, Weber, Parsons). Non è possibile, qui, approfondire l’indagine sul dissenso teorico che oppone queste interpretazioni. N. 2. H. Sumner Maine, “Ancient Law”, London, 1909, specie p.p. 172 segg. Qualche sporadica ma essenziale indicazione nello stesso senso era già stata data da K. Marx. Engels (“L’origine, ecc.”) aveva rilevato che «lo sviluppo della famiglia nella storia primitiva consiste […] nel costante restringersi della cerchia che originariamente abbracciava tutte le tribù». N. 3. H. Spencer, “Princìpi di sociologia”, Torino, 1967, v. 1, parte terza (“Le relazioni domestiche”). Importante, in proposito, la stringente polemica con Spencer condotta da E. Durkheim, “La divisione del lavoro sociale”, Milano, 1962. N. 4. H. Spencer, op. cit., p. 797. N. 5. Ivi. N. 6. Ivi, p. 804. E confronta anche p. 709. N. 7. E. Durkheim, op cit., p. 218. Su una linea analoga si muove anche Tönnies nella sua opera “Gemeinschaft und Gesellschaft”. N. 8. E. Durkheim, op. cit., p. 139. N. 9. Ivi, p. 218.
N. 10. Scrive Durkheim (op. cit., p.p. 23-24): «Finché l’industria è esclusivamente agricola, essa ha nella famiglia e nel villaggio - che è pur esso soltanto una specie di grande famiglia - il suo organo immediato, l’unico del quale ha bisogno. Dato che lo scambio non è sviluppato - o lo è molto poco - la vita dell’agricoltore è tale che egli non ha bisogno di uscire dalla cerchia familiare. L’attività economica non ha nessuna ripercussione al di fuori delle mura domestiche, e la famiglia non ha bisogno di altri per regolarla, fungendo in tal modo essa stessa da un gruppo professionale. Ma tutto muta dal momento in cui i mestieri cominciano ad esistere; infatti, per vivere del proprio mestiere, bisogna avere dei clienti e bisogna uscirne anche per entrare in relazione con i concorrenti, lottare contro di essi, mettersi d’accordo con essi. Del resto i mestieri suppongono più o meno direttamente le città e le città si sono sempre formate - ed hanno reclutato i loro abitanti - facendo uso di immigrati, cioè di individui che hanno abbandonato il loro ambiente natale. In tal modo si costituiva una nuova forma di attività che non poteva più essere contenuta nei vecchi quadri familiari». Anche altri sociologi hanno successivamente insistito soprattutto sul fenomeno dello scambio, che è senza dubbio un contrassegno eminente dell’economia e della società moderna. Minore, invece, è stata l’attenzione al fenomeno del rapporto salariale industriale, che è tipico ed esclusivo della società moderna. N. 11. Confronta K. Marx, “Opere filosofiche giovanili”, cit., p.p. 94 e segg. N. 12. Anche chi contesta che si tratti di una legge di tendenza come K. König, “Alte Probleme und neue Fragen in der Familiensoziologie”, in “Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie”, 1, 1966 - ammette, comunque, che la «famiglia nucleare» è ormai divenuta predominante nelle civiltà industriali. Insiste particolarmente sulla «contrazione» della famiglia, ma principalmente sul piano psicologico T. Parsons, “La struttura sociale della famiglia”, in R. N. Anshen (a cura), “La famiglia, la funzione e il
suo destino”, Milano, 1955, p.p. 209-244. Il Parsons nota che «l’isolamento strutturale della singola famiglia coniugale […] è il carattere più distintivo del sistema di parentela americano, ed è alla base della massima parte dei suoi peculiari problemi funzionali e dinamici» (p. 218). Ma si tratta di una caratteristica eminente di tutte le società altamente industrializzate: confronta A. Kharcev, “Alcune tendenze dell’evoluzione della famiglia nell’URSS e nei paesi capitalisti: saggio di uno studio comparato”, in “La sociologia sovietica”, Roma, 1967, p.p. 315-328. E si veda, per contrasto, la tenace sopravvivenza della «famiglia unita» in India, specie nelle campagne. Come rileva Mandelbaum «perfino nelle famiglie musulmane urbane e occidentalizzate, i tipi di relazione interpersonale fissati dalla famiglia unita non sono del tutto ignorati, e il modello ortodosso della famiglia unita fedele alle norme della sacra scrittura esercita ancora la sua influenza in ogni parte dell’India» (D. G. Mandelbaum, “La famiglia in India”, in Anshen, “La famiglia, la sua funzione e il suo destino”, cit., p. 117). N. 13. È certo per questo motivo che tanto rilievo viene assumendo anche in Italia il problema del divorzio e quello della parificazione dei figli legittimi e illegittimi. Già Engels notava che la famiglia monogamica moderna «è fondata sul dominio dell’uomo, con l’esplicito scopo di procreare figli di paternità incontestata, e tale paternità è richiesta poiché questi figli, in quanto eredi naturali, devono entrare un giorno in possesso del patrimonio paterno» (F. Engels, “L’origine della famiglia, ecc.”, cit., p. 89): la certezza dello status delle persone deve unirsi alla certezza dello status delle proprietà, e delle responsabilità. Confronta anche M. Weber, “Economia e società”, Milano, 1961, 2, p.p. 86 segg. N. 14. Non deve abbagliare il dilagante fenomeno moderno delle società commerciali, ove la responsabilità solidale del gruppo opera nella presupposta e completa separazione delle sfere private dei singoli membri. Come nota il Weber (op. cit., 2, p. 85) «La realizzazione più razionale del principio della personalità giuridica dei gruppi si ha nella completa separazione della sfera giuridica dei
membri rispetto ad una sfera giuridica del gruppo, costituita separatamente». Da questo punto di vista la responsabilità di gruppo moderna suppone la completa dissoluzione di quella antica e la piena emersione del soggetto privato separato e autonomo. V’è qui un vero e proprio parallelismo con il fenomeno dello Stato politico moderno che viene in essere nella sua figura astratta (personalità giuridica dello Stato) proprio quando si completa l’autonomizzazione della società civile dei privati dà ogni diretta coercizione politica. N. 15. Weber pone questo processo di isolamento e emersione dell’individuo in relazione soprattutto allo svilupparsi dell’economia monetaria che egli considera, peraltro, come il frutto di una «scelta» razionale umana, come una soluzione tecnica adottata dal razionalismo moderno sorretto dallo spirito della «calcolabilità» del rapporto mezzi-fini. Diversa è la spiegazione di Marx che vede l’economia monetaria come organico e logico sviluppo della dinamica stessa dell’economia di scambio (confronta la dialettica del valore nel primo libro del “Capitale”). Scrive in proposito Marx: «Nei rapporti di denaro, nel sistema di scambio sviluppato (e questa parvenza seduce la democrazia) i vincoli di dipendenza personale, le differenze di sangue, di educazione, eccetera in effetti sono saltati, sono spezzati (i vincoli si presentano per lo meno tutti come rapporti tra persone) e gli individui sembrano entrare in un contatto reciproco libero e indipendente (questa indipendenza che in se stessa è soltanto e andrebbe detta più esattamente indifferenza) e scambiare in questa libertà, ma tali essi sembrano soltanto a chi astrae dalle condizioni, dalle condizioni di esistenza nelle quali questi individui entrano in contatto (ove queste condizioni sono a loro volta indipendenti dagli individui, e sebbene prodotte dalla società, si presentano per così dire come condizioni di natura, ossia incontrollabili da parte degli individui). […] gli individui sono ora dominati da astrazioni, mentre prima essi dipendevano l’uno dall’altro. L’astrazione o l’idea non è però altro che l’espressione teoretica di quei rapporti materiali che li dominano» (K. Marx, “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, cit., p.p. 106-107). La precisazione, che qui facciamo marginalmente, è
essenziale per distinguere le due analisi - di Weber e Marx - tanto della economia monetaria quanto delle modificazioni che essa induce sugli istituti. N. 16. Legge invece in quel senso tale fenomeno R. N. Anshen, “La famiglia in transizione”, in “La famiglia, ecc.”, cit., p.p. 13-29, ove si lamenta che «l’importanza eccessiva data all’individuo isolato è la tragedia dell’uomo moderno, che conduce inevitabilmente alla dissoluzione dell’unità e dell’integrità della famiglia». Se il giudizio di fondo può ovviamente essere condiviso, il problema chiave è di accertare se non sia invece il processo oggettivo di dissoluzione dell’unità della famiglia, determinato dalle nuove condizioni socioeconomiche, a generare l’isolamento dell’individuo. Le due diverse soluzioni che possono prospettarsi sono radicalmente divergenti: nel primo caso si torna a «sognare» la restaurazione dei vecchi «valori» scomparsi, nel secondo si tenta di modellare un rapporto umano consapevole sulla base delle nuove condizioni. N. 17. Notiamo, di passaggio, che per tutto ciò che si è detto il problema del divorzio, ancorché essenziale, non pare il centro della «crisi» della famiglia, la quale rimanda i suoi interni scompensi agli scompensi generali della società industriale capitalistica. N. 18. È importante notare che questa tendenza alla contrazione della famiglia si verifica nelle società industriali evolute indipendentemente dalle loro diversità di impianto sociale: «La percentuale dei novelli sposi che vivono coi genitori dell’uno o dell’altro coniuge è più o meno la stessa nelle grandi città sovietiche e in quelle americane» (A. Kharcev, op. cit., p. 324). N. 19. L’incremento demografico italiano era determinato, alla fine del 1966, per il 53,4% dal Meridione che detiene soltanto il 36,3% di tutta la popolazione italiana residente. Il dato non viene alterato dalla minore mortalità nel Sud, dal momento che è invece più alta che nel Nord la mortalità infantile (465 bambini su 10.000 morti contro 272 nel Nord). Altro dato notevole è quello relativo all’aumento della
nuzialità negli anni del “boom” economico (1961-63); in seguito il tasso della nuzialità per 1000 abitanti è diminuito da 8,2 (1963) a 8 (1964), 7,6 (1965), 7,2 (1966). N. 20. R. Linton, “La storia naturale della famiglia”, in Anshen, “La famiglia, ecc.”, cit., p. 47. N. 21. M. Horkheimer - Th. Adorno, “Lezioni di sociologia”, Torino, 1966 p. 148. Va dunque perdendo valore l’affermazione del Parsons (op. cit., p. 217) secondo cui «l’isolamento della famiglia coniugale americana è in forte contrasto con la situazione comune nella struttura storica della società europea». Farebbe eccezione la famiglia sovietica se fosse comprovata l’affermazione del Kharcev (op. cit., p. 325) secondo cui «quella sovietica è una famiglia coniugale più che una ‘famiglia nucleare’; essa conserva e mantiene strette relazioni economiche e morali con le famiglie ad essa apparentate». N. 22. M. Weber, “Economia e società”, cit., 2, p. 383. Per i fenomeni di sopravvivenza della famiglia come unità produttiva sono sintomatici i casi delle aree arretrate nell’ambito dei paesi sviluppati a struttura economica duale. Si veda il caso tipico della Sardegna ove «il nucleo familiare si presenta ancora con la fisionomia di ‘impresa produttiva’ (e cioè unità solidaristica di tutti i membri, rivolta alla produzione dei beni necessari alla loro sussistenza)» (L. Pinna, “Un’ipotesi antropologica per la conoscenza della Sardegna”, in “Ichnusa”, 1961, n. 40, p. 27). Confronta anche T. Usai, “I fattori culturali del sottosviluppo (Critica di alcune ipotesi teoretiche sulla società sarda)” in “Autonomia Cronache”, 1968, n. 1, p.p. 55-78, nonché - per il Sud continentale - E. C. Banfield, “Una comunità del Mezzogiorno”, Bologna, 1961. N. 23. Il Parsons parla in proposito - legittimamente - di un primato della struttura professionale nella società americana. Il rilievo può essere generalizzato per tutte le società industrializzate (confronta T. Parsons, op. cit., p. 234). Occorre però ripetere sul Parsons la
riserva già fatta circa l’impostazione spiccatamente psicologica e comportamentistica della sua indagine della stratificazione sociale moderna e dei ruoli sociali. N. 24. Si veda in proposito l’acuta e brillante analisi di Ch. Wright Mills, “Colletti bianchi”, Torino, 1966. N. 25. L’andamento dell’occupazione femminile subisce spinte e controspinte assai diverse e si presenta come un fenomeno molto complesso che sarebbe semplicistico porre in rapporto soltanto con l’emancipazione della donna. In realtà pesano su di esso, oltre agli elementi generali che influiscono sulla occupazione in generale, fatti sociali disparati che vanno dalle modificazioni tecnologiche alla variazione del rapporto agricoltura-industria, dalla emigrazione maschile alle politiche di promozione o di contenimento dell’inserimento produttivo della donna. Così, in Italia nel cinquantennio 1901-1951 l’occupazione femminile è diminuita in cifra assoluta, ma la diminuzione si è registrata quasi esclusivamente nell’agricoltura in connessione con la generale occupazione agricola di un periodo di trasformazione industriale, mentre è rimasta pressoché stazionaria l’occupazione femminile nell’industria, nonostante le remore opposte dalla politica del fascismo alla occupazione femminile. Lo sviluppo economico e tecnologico del dopoguerra ha risospinto avanti l’occupazione femminile e specialmente in agricoltura ove la semplificazione del lavoro determinata dalla nuova tecnologia e l’emigrazione hanno fatto della donna la forza di lavoro fondamentale: così tra il 1954 e il 1960, mentre l’occupazione agricola calava di ben 689 mila unità, l’occupazione agricola femminile aumentava di ben 391 mila unità. Nell’industria su 1.669.000 unità lavorative in più ben 400 mila sono donne. Negli altri settori le donne coprono 438 mila unità su 1.256.000 unità in più. Se ne può concludere che in sei anni più della metà delle nuove unità lavorative è costituita da donne. Confronta G. Cesareo, “La condizione femminile”, Milano, 1963, p.p. 116-117, che sottolinea una tendenza specifica dell’occupazione femminile, quella cioè di costituire un serbatoio di riserva per «la rapida sostituzione di
manodopera maschile» nei settori investiti da particolari processi economici o tecnologici (tra cui tipico quello agricolo). Reciprocamente, bisogna aggiungere, l’occupazione femminile è la prima a subire i contraccolpi del ristagno economico, della crisi e della espulsione tecnologica della manodopera. È certo anche per questo che l’occupazione femminile tende a orientarsi verso determinate attività meno soggette a quelle influenze (servizi sanitari, scolastici, agricoltura, piccolo allevamento, artigianato, commercio al minuto, pubblico impiego, lavori di pulizia, di segreteria, eccetera). La tendenza all’aumento del lavoro extradomestico della donna pare comunque irreversibile, come è rilevabile nel lungo periodo: le donne occupate nell’industria erano in Italia 1.173.000 nel 1921 e sono passate a 1.315.000 nel 1936 e a 1.654.000 nel 1966. Semmai il grosso problema sociale che si prospetta è quello della eliminazione del carattere «servente» che la manodopera femminile presenta nei confronti di quella maschile. N. 26. Il fenomeno è ben rilevabile in paesi che hanno vissuto un forte sviluppo industriale concentrato nel tempo: così, nell’URSS il tempo di lavoro domestico femminile che nel 1924 superava di 2,8 volte quello maschile, nel 1965 lo superava soltanto di 1,6. Confronta G. V. Osipov - S. F. Frolov, “Vnerabocee vremja i ego ispol’zovanie”, in “Sociologija v S.S.S.R.”, Mosca, 1966, v. 2, p. 238. N. 27. Constatazioni analoghe in G. Cesareo, op. cit., p.p. 96 segg. N. 28. Non stiamo qui giudicando negativamente il fenomeno della organizzazione industriale dei servizi familiari, ma solo l’incidenza erosiva che esso presenta sulla tradizionale vita familiare specie in un periodo di transizione. Sul piano economico il fenomeno è altamente positivo giacché promuove un risparmio cospicuo di tempo disperso in lavori improduttivi. Studi condotti sul bilancio del tempo nelle famiglie sovietiche hanno rilevato che, di fatto, circa il 40% del tempo di lavoro domestico è assorbito dai lavori di bucato, stiratura, pulizia degli appartamenti e degli abiti (confronta N. Tatarinova, “Les femmes en URSS”, Mosca s.d., p. 114). Il problema
è ovviamente importante anche sul piano sociologico, costituendo il lavoro domestico un settore gravoso di attività che blocca lo sviluppo della personalità della donna. Solo apparentemente esso verrebbe risolto da un «ritorno» della donna alla casa (un ritorno del resto impossibile) o da una maggior diffusione delle macchine domestiche (il cui costo, del resto, complica il bilancio familiare e respinge di nuovo la donna fuori casa in cerca di guadagni supplementari). Anche qui il problema appare come una componente di una questione sociale più generale. Si vedano le interessanti considerazioni che svolge in proposito G. Cesareo, op. cit. cap. 2. N. 29. Il caso forse più significativo della riduzione della famiglia a settore del mercato è quello del cosiddetto «mercato infantile», che vede nei paesi evoluti uno sviluppo davvero sensazionale. Con la sua costituzione entrano in funzione meccanismi di «persuasione» della famiglia attraverso i figli che rappresentano uno dei canali di eversione del vecchio rapporto tra figli e genitori. Confronta D. Riesman, “La folla solitaria”, Bologna, 1967, p.p. 62 e segg. N. 30. Alla espansione assoluta della spesa pubblica non corrisponde una eguale espansione delle spese per assistenza sociale e per servizi sociali in genere. Per quanto riguarda la sicurezza sociale confronta i significativi dati riportati in G. Di Marino, “La sicurezza sociale nella lotta per le riforme di struttura”, in “Critica marxista”, 1969, n. 3, p.p. 64-80: l’A. conclude la sua analisi della politica previdenziale affermando che «lo Stato in sostanza si fa finanziare dai fondi dei lavoratori, e non basta: fa finanziare ad esempio gli enti locali, che contraggono con gli istituti di previdenza dei dipendenti degli enti locali mutui che spesso servono poi a pagare gli stipendi e i contributi per i dipendenti stessi». N. 31. D. Riesman, “La folla solitaria”, cit., p.p. 62 e segg. N. 32. Ivi, p.p. 24 e segg. N. 33. Ivi, p. 63.
N. 34. Ivi, p. 62. N. 35. Su ciò confronta G. Cesareo, op. cit., p.p. 95 e segg. N. 36. È stato notato da più parti - persino da architetti! - che la T.V. è divenuta il centro fisico della casa, tiene il posto che un tempo teneva il caminetto. N. 37. M. Horkheimer, Th. Adorno, “Lezioni di sociologia”, cit., p. 148. N. 38. M. Horkheimer -Th. Adorno, op. cit., p. 94: «Gli uomini non si fanno massa per semplice quantità numerica, ma sotto l’azione di condizioni sociali determinate, tra le quali rientra tanto il comportamento autoritario del capo o di altre figure paterne, quanto l’identificazione col capo». E ancora p. 96: «La massa è un prodotto sociale - non un’invariante naturale. […] Essa dà agli individui un illusorio senso di prossimità e unione: ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli». N. 39. Prospettive di questo tipo emergono da analisi come quella di Marcuse. Sebbene tale analisi colga non pochi aspetti reali della condizione individuale della società industriale evoluta, essa inclina a rovesciare il nesso causale degli scompensi individuali attribuendoli primariamente alla repressione degli istinti. In relazione alla famiglia si veda, comunque, ciò che Marcuse scrive in “Eros e civiltà”, Torino, 1964, p.p. 79 e segg. N. 40. Scrive il Linton: «Probabilmente ci sono oggi altrettanti matrimoni felici quanti ce ne sono stati in passato, e la sola differenza è che i coniugi infelici sono oggi in una miglior posizione per porvi rimedio. Un matrimonio che non soddisfa le esigenze dei contraenti è antifunzionale, e in un mondo moderno non c’è ragione di insistere sulla sua continuazione» (R. Linton, “La storia naturale della famiglia”, in R. N. Anshen, “La famiglia, ecc.”, cit., p. 53).
N. 41. Afferma il Linton (op. cit., p. 51) che «la cosa migliore è forse riconoscere francamente che la funzione fondamentale della famiglia è oggi quella di soddisfare le esigenze psicologiche degli individui che stringono la relazione matrimoniale». L’affermazione potrebbe essere condivisa in linea generale, ma occorre tener conto che sulla soddisfazione di quelle esigenze pesano i gravi scompensi psichici e le nevrosi della civiltà industriale nonché le complicazioni, già accennate, connesse con l’impianto della casa e della gestione familiare. N. 42. D. Riesman, op. cit., p.p. 178 e segg. N. 43. Il caso più appariscente (e probabilmente anche il più serio) è quello di W. Reich, “La rivoluzione sessuale”, Milano, 1963, per il quale il carattere eversivo della condotta sessuale antirepressiva discende dalla constatazione (che non condividiamo) secondo cui «la repressione della vita sessuale infantile e adolescente è il meccanismo fondamentale per mezzo del quale si producono le strutture caratteriali capaci di tollerare la servitù politica ideologica ed economica». N. 44. Risulta quanto meno inesatta per la società industriale evoluta l’opinione del Merton che «la famiglia è il principale mezzo di trasmissione dei modelli di civiltà», (R. K. Merton, “Struttura sociale e anomia: revisione e ampliamenti”, in R. N. Anshen, “La famiglia, ecc.”, cit., p. 271). Pregevoli, peraltro, sono molte altre rilevazioni contenute nel citato saggio del Merton. La constatazione del Merton secondo cui «la famiglia trasmette per lo più gli aspetti della civiltà propri allo stato sociale e all’ambiente a cui appartengono i genitori: è cioè un meccanismo per disciplinare il fanciullo secondo le mete culturali e i costumi caratteristici di un gruppo ristretto» contrasta con la crescente eterodirezione della famiglia e dei suoi membri e quindi con lo slargamento e la moltiplicazione dei gruppi entro i quali si realizza la trasmissione dei modelli.
N. 45. Confronta in particolare M. Horkheimer, “L’autoritarismo e la famiglia d’oggi”, in R. N. Anshen, “La famiglia, ecc.”, cit., p.p. 349366. Importante, per molti aspetti, è anche E. Fromm, “Fuga dalla libertà”, Milano, 1968. Da vedere è anche J. Piaget, “Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia”, Torino, 1967. Rapidi ma essenziali giudizi sulla moderna «espansione del sesso» stanno in L. Mumford, “La condizione dell’uomo, Milano”, 1967. N. 46. F. Engels, “L’origine, ecc.”, cit., p. 103. Note alla Parte terza. Idea dell’eros moderno
N. 1. Voltaire, “Scritti filosofici”, Bari, 1962, v. 2, p. 13. N. 2. Stendhal, “L’amore”, cit., p. 238. N. 3. F. Engels, “L’origine, ecc.”, cit., p.p. 103-104. N. 4. Ivi, p. 104. N. 5. Ivi, p. 105. N. 6. Confronta ivi, p.p. 104 e segg. È questo il motivo per cui, secondo Engels, «la prima forma dell’amore sessuale che appare nella storia come passione, e passione che spetta ad ogni individuo (per lo meno delle classi dominanti), come la forma più alta dell’istinto sessuale […], l’amore cavalleresco del Medioevo, non fu affatto un amore coniugale». Engels ricorda, in proposito, che il tema dell’adulterio (e cioè dell’amor-passione non coatto!) compare nelle “albe” provenzali e nei “Tagelieder” tedeschi. N. 7. G. G. F. Hegel, “Estetica”, Torino, 1967, p. 631. N. 8. Stendhal, “L’amore”, Milano, 1973, p. 93. N. 9. Ivi, p. 236. Per “cristallizzazione” Stendhal intende quella «opera della mente, che da qualunque occasione trae la scoperta di
nuove perfezioni dell’oggetto amato»: qualcosa, dunque, che resta all’interno della problematica puramente sensibile e che non somiglia affatto alla “fantasia” di Rousseau o alla “passione” di Hegel, tanto è vero che anche Stendhal distingue poi un amor-passione, proprio dei moderni. N. 10. Il tema della storicità è presente anche in H. Schelsly, “Soziologie der Sexualität”, Hamburg, 1955. N. 11. Su questo mito di Don Giovanni che si sviluppa a partire dal diciassettesimo secolo è da vedere G. Macchia, “Vita avventura e morte di Don Giovanni”, Bari, 1966. Si ricordi che Bernard Shaw definì Don Giovanni cugino di Faust. N. 12. (Nulla v’è sulla terra che abbia vita più dura di chi ama.) «Nella letteratura antica di rado l’amore si innalza al di sopra di una giocosa sensualità o di una consolazione domestica» (C. S. Lewis, “L’allegoria d’amore”, Torino, 1969, p. 6). Aggiunge Lewis (op. cit., p. 11): «L’amore nel nostro senso della parola è assente nella letteratura delle Età oscure come in quella dell’antichità classica». N. 13. E confronta Dino Frescobaldi: Amor che ne la mente mi favella. N. 14. M. Proust, “La prigioniera”, Milano, 1970. N. 15. K. Barth, “Dogmatica ecclesiale”. Antologia a cura di H. Golwitzer Bologna, 1968, p.p. 228-229. N. 16. Ha scritto acutamente la Heller che «senza l’uguaglianza ideale l’amore moderno, l’amore passione non sarebbe esistito» (A. Heller, “Per una teoria marxista del valore”, Roma, 1974, p. 226). N. 17. P. Eluard, “Poesie”, Torino, 1966, trad. di F. Fortini. (Ta chevelure d’oranges dans le vide du monde / Dans le vide des vitres lourdes de silence / Et d’ombre où mes mains nues cherchent tous tes reflets / La forme de ton coeur est chimérique / Et ton amour
ressemble à mon désir perdu.) Molto significativi (e belli) mi paiono anche questi versi di Montale: Fosse tua vita quella che mi tiene / sulle soglie e potrei prestarti un volto, / vaneggiarti figura. Ma non è, / non è così. Il polipo che insinua / tentacoli d’inchiostro tra gli scogli / può servirsi di te. Tu gli appartieni / e non lo sai. Sei lui, ti credi te (“La Bufera e altro”). N. 18. Da “La Fontaine de sang”, in Ch. Baudelaire, “I fiori del male”, Milano 19685, trad. di L. De Nardis. (J’ai cherché dans l’amour un sommeil oublieux; / Mais l’amour n’est pour moi qu’un matelas d’aiguilles / Fait pour donner à boire a ces cruelles filles.) N. 19. Da “Un voyage a Cythère”, in op. cit. (Dans ton île, ô Vénus!, je n’ai trouvé debout / Qu’un gibet symbolique où pendait mon image… / Ah! Seigneur! Donnez-moi la force et le courage / De contempler mon coeur et mon corps sans dégoût!). N. 20. Da “Hymne à la Beauté”, in op. cit., (Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de l’abîme, / O Beauté? ton regard, infernal et divin, / Verse confusément le bienfait et le crime, / Et l’on peut pour cela le comparer au vin. / Tu contiens dans ton oeil le couchant et l’aurore […]). N. 21. Confronta “L’Amour et le Crâne”. N. 22. J. J. Rousseau, “Confessioni”, 5. N. 23. M. Proust, “Albertina scomparsa”, Milano, 1970, p. 117. Ed ecco il logico risvolto di inversione che deriva da questa proiezione ideale: «Una parte di me stesso a cui l’altra voleva congiungersi era in Albertine» (M. Proust, “Sodoma e Gomorra”, Milano, 1970, p. 139). N. 24. Ivi, p. 141. E confronta p. 91: «a partire da una certa età i nostri amori, le nostre amanti sono figli della nostra angoscia». N. 25. “Die Liebende”, trad. mia. (Was bin ich unter diese / Unendlichkeit gelegt, / duftend wie ein Wiese, / hin und her bewegt, /
rufend zugleich und bange, / dass einer den Ruf vernimmt, / und zum Untergange in einem ander, bestimmt.) N. 26. “Gesang der Frauen an den Dichter”, trad. mia (Was Blut und Dunkel war in eine Tier, / das wuchs in uns zur Seele an und schreit / als Seele weiter. Und es schreit nach dir. / … Mit uns geht das Unendliche vorbei. / Du aber sei, du Mund, dass wir es hören, / du aber, du UnsSagender: du sei.) N. 27. J’aime et je veux pâlir; j’aime et je veux souffrir (da “Nuit d’âout”). N. 28. Il ritorno della omosessualità sembra da collegare anziché con l’antica linearità del godimento sensibile di ogni bellezza piuttosto con l’alterazione caratteriale indotta dalla nevrosi moderna, come prova la sua diffusione specialmente nelle società capitalistiche evolute. Kinsey attesta che il 50% dei maschi americani possono qualificarsi omosessuali. Sul problema si vedano le considerazioni di H. Schelsky (op. cit.) e di A. Kardiner (“Sex and Morality”, New York, 1954) il quale parla addirittura, in relazione al maschio, di una «fuga dalla mascolinità» stimolata da fattori sociali. N. 29. M. Proust, “Sodoma e Gomorra”, Milano, 1970, p. 24. N. 30. “Ristagno”, da “Amore e poesia ogni giorno”, in J. R. Jiménez, “Poesie d’amore”, Roma, 1971, trad. di C. Rendina. (En nuestro amor, la pena y la alegria / se enciendén y se apagan, / come, en la primavera, / la mariana y la tarde. / ¡Oh suave riña dulce / de la sombra y la luz, / de la luz y la sombra, / -ni luz de todo, / ni sombra por completo-, / bellas las dos, como las dos; / simulacro de luchas, / iguales en derrota y en triunfo! / ¡Amor; anochecer, aurora / de primavera!) N. 31. “Estasi”. N. 32. J. J. Rousseau, “Emilio”, in “Opere”, Firenze, 1972, p. 495. N. 33. E. Paci, “Diario fenomenologico”, Milano, 1961, p. 23. E confronta p. 95 in altra direzione: «L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro».
N. 34. “La compagnia”, in “La stagione totale”, trad. di F. Tentori Moltalto. (Soledad, y está el mundo con nosotros, / soledad, y estás tù con migo solos?) N. 35. Da “La mort l’amour la vie”, in op. cit., trad. di F. Fortini. (Tu es venue le feu s’est alors ranimé / L’ombre a cédé le froid d’en bas s’est étoilé / Et la terre s’est recouverte / De ta chair claire et je me suis senti léger / Tu es venue la solitude était vaincue / J’avais un guide sur la terre je savais / Me diriger je me savais démesuré / J’avançais je gagnais de l’espace et du temps / J’allais vers toi sans fin vers la lumière / La vie avait un corps l’espoir tendait sa voile / Le sommeil ruisselait de rêves et la nuit / Promettait à l’aurore des regards confiants / Les rayons de tes bras entr’ouvraient le brouillard / Ta bouche était mouillée des premières rosées / Le repos ébloui remplaçait la fatigue / Et j’adorais l’amour comme à mes premiers jours.) N. 36. Da “Canto” (1932). N. 37. “Dal profondo”, in “La stagione totale”, cit. (Me dijo con su iris: / «seré la plenitud / de tus horas medianas, / subiré con hervor tu hastìo, / daré a tu duda espuma».) N. 38. Da “La fusione” (Al almanecer / el mundo me besa / en tu boca mujer.), in “La stagione totale”, cit. N. 39. N. Hikmet, “Poesie d’amore”, Milano, 1969, trad. di J. Lussu. N. 40. Ivi. N. 41. Stendhal, “L’amore”, cit., p. 238. N. 42. Da “Les deux bonnes Soeurs”. N. 43. Da “Amore e morte”. N. 44. Da “You, wind of March”, in C. Pavese, “Lavorare stanca”, Torino, 1968. N. 45. Da “In the morning you always come back”, in op. cit. N. 46. Da “The night you slept”, in op cit.
N. 47. M. Proust, “La prigioniera”, cit., p. 88. N. 48. G. Bataille, “L’erotismo”, Milano, 1972, p. 25. N. 49. Quanto al libertinismo va notato che l’indubbia carica ribellista e anticonformista è controbilanciata dal pessimismo e addirittura dallo scetticismo nei confronti di una ricostruzione storica positiva dei rapporti. Esemplare, in questo senso, mi sembrano “Les liaisons dangereuses” di Choderlos de Laclos. Quanto poi a Sade l’anticonformismo non ha sbocco migliore: travolge il rapporto uomodonna a rapporto carnefice-vittima e lo spezza proprio come “rapporto”. Ha scritto giustamente Bataille: «Sade “parla”, ma parla in nome della vita silenziosa, in nome di una perfetta solitudine, inevitabilmente muta. L’uomo solo di cui egli è il portavoce non tiene conto in nessuna misura dei suoi simili: è, nella sua solitudine, un essere sovrano, che non dà mai spiegazioni, che non deve rendere conto di nulla a nessuno» (G. Bataille, “L’erotismo”, cit., p. 200). N. 50. C. Pavese, “Il mestiere di vivere”, Torino, 1968, p. 357. N. 51. Allora, con singolare e rivelatrice inversione non soltanto la donna in generale, ma particolarmente la giovane donna e la stessa giovinezza, potente incarnazione del piacere sensibile che attiva il rapporto sessuale divengono immagini del dolore: «Giovinetta, giovinetta… / la tua forma mortale si ripete / in altri corpi in altre carezze e sulla terra dovunque / la triste realtà d’una fanciulla» (M. Luzi). «Voi siete la tepida figura del nostro dolore… / E nelle vostre tepide calde mani odora / tutta la fuggevole / corona delle nostre passioni; mentre ognuna / porta il dolore della giovinezza» (M. Luzi). N. 52. K. Marx, “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, cit., v. 2, p. 95. Di seguito Marx nota che quel collegamento immediato con la natura è alla base della «unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali», della primitiva proprietà della terra e della costituzione di una «comunità naturale» (la famiglia originaria di tipo tribale) (confronta op. cit., p. 96).
N. 53. Per una interessante delineazione della figura della donna nel cristianesimo medievale congiuntamente al tema dell’eros occorrerà sempre riconsiderare le lettere d’amore tra Abelardo e Eloisa; anche se si tratta di punti di osservazione tutt’altro che ufficiali. Le opinioni di Abelardo costituiscono un momento importante nella evoluzione della idea cattolica della donna. Solo lentamente il cattolicesimo si libera di una concezione sostanzialmente negativa della donna. Tertulliano la definiva «porta dell’inferno», Paolo di Tarso ne teorizzava la soggezione assoluta all’uomo (come la Chiesa a Cristo) e la confinava nella incultura; Sant’Agostino affermava che «è nell’ordine della natura che la donna sia al servizio dell’uomo». Questa tradizione resiste in una certa cultura cattolica dell’età moderna (Rosmini ritiene che «la donna è verso l’uomo ciò che il vegetale è verso l’animale»). N. 54. Da “Femmes damnées”, in op. it., (Tantôt pleines de cris, tantôt pleines de pleurs, / Vous que dans votre enfer mon âme a poursuivies, / Pauvres soeurs, je vous aime autant que je vous plains, / Pour vos mornes douleurs, vos soifs inassouvies, / Et les urnes d’amour dont vos grands coeurs sont pleins!) N. 55. In questo senso è ancora vera la definizione di Ulpiano “Familia idest patrimonium”. N. 56. «Never use venery except for health and offspring.» N. 57. D. A. F. De Sade, “La filosofia nel boudoir”, Roma, 1974, p. 95. N. 58. (Et nous, sous ombre d’honneur, / le bonheur / trahissons par une crainte; / les oiseaux sont plus heureux, / amoureux / qui font l’amour sans contrainte) (“Chanson”). N. 59. W. Shakespeare, “Romeo e Giulietta”, atto 1, scena 3. N. 60. Ch. Montesquieu, “Lettres persanes”, Lettera 116esima. N. 61. Stendhal, “L’amore”, cit., p. 260.
N. 62. Cit. da A. Bebel, “La donna e il socialismo”. N. 63. Confronta specialmente “Casa di bambola”, “La donna del mare”, “Edda Gabler”, “Spettri”, oltre, naturalmente, “La commedia dell’amore”. N. 64. M. Proust, “Sodoma e Gomorra”, cit., p. 19. N. 65. J. Joyce, “Ulisse”, Milano, 1973, p. 283. N. 66. Ivi. N. 67. Ivi. N. 68. “Il canto della sposa”. N. 69. P. Eluard, “Poesie con l’aggiunta di alcuni scritti di poetica”, Milano, 1969, p. 542. N. 70. G. G. F. Hegel, “Estetica”, cit., p. 635. N. 71. D. Alighieri, “La Divina Commedia”, Inferno, c. 26esimo. N. 72. I. D. De Lautréamont, “Opere complete”, Milano, 1967, p. 468. N. 73. Da “Versi a Dina”. N. 74. La modernità di una concezione socio-politica è in ragione inversa dell’esaltazione acritica del lavoro domestico. Giudico perciò modernissima la concezione di Lenin per il quale «il lavoro domestico è il lavoro meno produttivo, più pesante, più barbaro ed estremamente meschino». N. 75. È facile rilevare che nelle grandi personalità questo orizzonte di appassionamento giunge ad includere, per esempio, le affinità ideali politiche, artistiche, eccetera sicché il rapporto d’amore si fa più pieno in forza di ragioni… pubbliche che superano, dunque, la tendenziale privatezza del rapporto sensibile. Da questo punto di
vista non conosco documenti più straordinari di amore intellettualmente ricco di certe lettere ai familiari dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea. Confronta “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”, Torino, 1952, e “Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea”, Torino, 1954. Di fronte a questi nuovi orizzonti spirituali degli affetti appare in grave declino quel tipo di appassionamento romantico sostanzialmente fondato sulla trasfigurazione del sensibile anziché sulla sua mediazione e i cui risultati anche poeticamente semifallimentari sono documentati da “I dolori del giovane Werther” e da “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. N. 76. K. Marx, “Opere filosofiche giovanili”, cit., p. 230. N. 77. Ivi, p. 229. N. 78. Ivi, p. 229. N. 79. Ivi, p. 230. N. 80. Ivi, p. 231. N. 81. Ivi. N. 82. Ivi, p. 233. N. 83. “Chi più ha, più è” e quindi “Chi meno ha, meno è”! N. 84. K. Marx, “Lineamenti di critica dell’economia politica”, cit., v. 2, p. 213. Si legge qui una prospettiva completamente diversa dalla marcusiana «liberazione della sensualità dal dominio repressivo della ragione» (H. Marcuse, “Eros e civiltà”, Torino, 1964, p. 144).