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Italian Pages 256 [257] Year 2020
a cura di Maurizio Marcheselli Il vangelo nella città
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collana BIBLIOTECA DI TEOLOGIA DELL’EVANGELIZZAZIONE diretta da Maurizio Marcheselli La collana pubblica studi e ricerche maturate nell’ambito della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Essa ospita indagini di taglio teologico e culturale, biblico e storico, filosofico e sistematico in riferimento alla teologia dell’evangelizzazione. Tale orientamento è caratteristico della Facoltà Teologica emiliano-romagnola, in cui a percorsi di teologia dell’evangelizzazione se ne affiancano altri interessati al momento speculativo e sistematico e altri ancora alla storia della teologia. BTE s’interessa agli aspetti «fondativi» dell’annuncio del vangelo: il concetto di evangelizzazione, i destinatari-interlocutori, il contenuto e i metodi. Al tempo stesso, e proprio per la fedeltà al binomio vangelo e cultura che determina l’ambito di una teologia dell’evangelizzazione, la collana mantiene aperto l’orizzonte sui diversi fronti in cui il fare teologia è oggi impegnato. Dire il vangelo nell’attuale contesto culturale implica un’attenzione rigorosa a cerchi concentrici, sui versanti ecclesiale, culturale, missionario, ecumenico e interreligioso. 1. E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici 2. M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità 3. G. Benzi, Ci è stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1-9,6): struttura retorica e interpretazione teologica 4. M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione 5. E. Castellucci, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni 6. D. Gianotti, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella Lumen gentium 7. G. Ziviani, Una Chiesa di popolo. Prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla 8. G. Sgubbi, Pensare sul confine. Saggi di teologia fondamentale. Prefazione di Pierangelo Sequeri 9. M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto 10. D. Righi (a cura di), Educazione, paideia cristiana e immagini di Chiesa. Atti del Convegno della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna 29-30 novembre 2011 11. M. Marcheselli (a cura di), Evangelizzare nelle criticità dell’umano. Atti del Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna a cura del Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione, 1-2 marzo 2016 12. M. Marcheselli (a cura di), Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione. Il percorso teologico compiuto a Bologna (1997-2017) 13. M. Marcheselli (a cura di), Il vangelo nella città. Atti del Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna a cura del Dipartimento di Teologia del l’Evangelizzazione, 19-20 marzo 2019
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a cura di Maurizio Marcheselli
Il vangelo nella città Atti del Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna a cura del Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione, 19-20 marzo 2019
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
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Realizzazione editoriale: Edimill srl - www.edimill.it
Per i testi dei documenti pontifici: © Libreria Editrice Vaticana Per i testi biblici: 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena
©
2020 Centro editoriale dehoniano via Scipione dal Ferro, 4 – 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB®
©
ISBN 978-88-10-45013-0 Stampa: LegoDigit srl, Lavis (TN) 2020
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Introduzione
Questo tredicesimo volume della collana Biblioteca di Teologia del l’Evangelizzazione pubblica gli atti del convegno di Facoltà dell’anno accademico 2018-19, organizzato dal Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione (DTE) della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER). Il convegno (19-20 marzo 2019) è stato il momento conclusivo e pubblico di un percorso di ricerca e riflessione che si è protratto all’interno del DTE per oltre un paio di anni accademici. Al nostro lavoro ha contribuito, sia nella fase preparatoria che con la relazione tenuta al convegno, il prof. Luca Bressan della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, a cui va il nostro ringraziamento per la stimolante collaborazione.
1. La
scelta del tema e il percorso compiuto per arrivare al convegno
La scelta del tema «Il vangelo nella città» è scaturita in modo naturale dal lavoro condotto nel triennio 2013-16, che ci aveva portato al convegno del marzo 2016 intitolato «Evangelizzare nelle criticità dell’umano». Come per il tema precedentemente affrontato, anche per «Il vangelo nella città» lo stimolo immediato proviene da Evangelii gaudium (da ora in poi EG), soprattutto dai numeri 71-75 («Sfide delle culture urbane»). In EG 71 si legge: Abbiamo bisogno di riconoscere le città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. […] Egli [Dio] vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata (EV 29/2177).
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Maurizio Marcheselli
L’intuizione si trova già in un discorso di Giorgio La Pira (Il valore del le città) tenuto a Ginevra il 12 aprile 1954 davanti al Comitato internazionale della Croce Rossa: Le città hanno una loro vita e un loro essere autonomi, misteriosi e profondi: esse hanno un loro volto caratteristico e, per così dire, una loro anima e un loro destino: esse non sono occasionali mucchi di pietre, ma sono le misteriose abitazioni di uomini e, vorrei dire di più, in un certo modo le misteriose abitazioni di Dio: gloria Domini in te videbitur.
In concomitanza con il convegno 2019 è uscito in questa stessa collana (BTE 12) un manuale/manifesto in cui abbiamo cercato di raccogliere i contributi fondamentali per ricostruire i passaggi cruciali che la Teologia dell’evangelizzazione, studiata e insegnata a Bologna dal 1977, ha percorso in questi oltre 40 anni.1 «Il vangelo nella città» si inserisce organicamente in questa traiettoria. Le due giornate di studio del 19-20 marzo sono state precedute e preparate da una conversazione serale svoltasi nella cattedrale di Bologna in cui sono intervenuti sul medesimo tema del convegno il sociologo Giuseppe De Rita2 e l’arcivescovo di Milano mons. Mario Delpini.3 Da due prospettive complementari – e con una percezione sensibilmente diversa della realtà della città! – le due voci hanno avuto la funzione di scaldare i motori per l’evento accademico, favorendovi la partecipazione anche di non addetti ai lavori.
2. Titolo
e contenuto del volume
Il titolo del volume (il medesimo del convegno) colloca il vangelo dentro la città. Questo «essere dentro» del vangelo va inteso tanto nel senso che esso già risuona nella città, perché Dio abita in essa prima che noi ve lo scopriamo, quanto nel senso che non è possibile recare la buona notizia di un’esistenza umana risanata e felice, se non stando dentro la città, condividendone integralmente la vita. – I primi due contributi offrono uno sguardo sulla città che mette a fuoco due criticità particolarmente evidenti in contesto urbano: l’impatto che ha l’ambiente digitale nella creazione e nello sviluppo dei legami (Paolo Boschini); la fragilità della famiglia di fronte a due sfide oggi particolarmente rilevanti, come le varie forme di dipendenze e la solitudine (Massimo Cassani). Nello studio di Matteo Prodi la città è letta alla luce dei quattro principi di EG: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul
1 M. Marcheselli (a cura di), Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione. Il percorso teologico compiuto a Bologna (1997-2017) (BTE 12), EDB, Bologna 2019. 2 https://www.youtube.com/watch?v=XnsgnYj8wqM 3 https://www.youtube.com/watch?v=UiMwzn1dNF8
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Introduzione
conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. Queste tre relazioni descrivono, da un punto di vista antropologico e alla luce dei principi enunciati da papa Francesco, la vita attuale delle città, da quelle che conosciamo più da vicino alle megalopoli del Sud del mondo. Tutti e tre gli autori sottolineano la complessità delle società urbane contemporanee in cui le nuove modalità di comunicazione e l’interdipendenza globale creano criticità nelle relazioni, forme di solitudine, nuove povertà, sfiducia nelle forme di partecipazione democratica, diffidenza nei confronti della diversità culturale, ma offrono anche occasioni d’incontro e scambio di idee, opportunità di crescita e conoscenza reciproca, di inclusione sociale. Come proposta di percorso da intraprendere per raccogliere le sfide del nostro tempo emerge la prospettiva della prossimità: la via dell’umanesimo urbano va dal meticciato alla prossimità (cf. EG 87). – Un’evidente, benché parziale, omogeneità di prospettive accomuna i due contributi di Luppi e Bressan. Lo studio di Luciano Luppi presenta figure di credenti in cui si può rintracciare quello sguardo contemplativo sulla città a cui invita papa Francesco: esse emergono dalla storia della spiritualità e dalla contemporaneità ecclesiale. Lo sguardo che riconosce come Dio sia all’opera nella città al di là dei confini riconoscibili della Chiesa ha radici antiche (Gregorio Magno, Caterina da Siena, Ignazio di Loyola) e contemporanee (Thomas Merton, le fraternità monastiche di Gerusalemme, Carlo Carretto); anche lo sguardo degli ultimi arcivescovi di Bologna (Biffi, Caffarra, Zuppi) sul rapporto Chiesa-città, pur nella evidente diversità dei presupposti e degli approcci, è quello di una prossimità e alterità amante. A partire da questa eredità dobbiamo aggiornare le nostre mappe per imparare a muoverci in una situazione di spaesamento, riconoscendo che «tutti gli esseri hanno qualcosa da darci e da ricevere da noi» (Madeleine Delbrêl). Concentrandosi sulla città e diocesi di Milano, Luca Bressan legge – da Montini a Scola, passando per Martini – come la cultura urbana ridisegna il cristianesimo e viceversa. È in atto un mutamento di paradigma e non è sufficiente cambiare l’organizzazione ecclesiale; bisogna rivedere il linguaggio simbolico comprendendo e facendo proprie le nuove modalità espressive e comunicative, per dialogare con gli interlocutori contemporanei utilizzando i medesimi strumenti culturali. Paradossalmente è anche il cristianesimo ad avere bisogno della città, della società urbana multiculturale, perché la città rende l’uomo creatore e nel confronto con l’altro si cresce. – La particolare configurazione della città di oggi esige una diversa comprensione del cristianesimo e del suo ruolo (e quindi di cosa sia una «cultura urbana» cristiana) rispetto al passato, a fronte della decostruzione di una determinata architettura sociale, culturale e religiosa: di questo si interessano gli studi di Cabri e Salvarani. Se si considera la città come luogo teologico e ci si chiede che cosa possa offrire oggi una realtà urbana in termini di relazioni, di contributo alla vita sociale e a una maggiore umanizzazione, è a partire dalla misericordia e dalla carità come orizzonti dell’agire cristiano che si possono individuare le linee per una azione umana e religiosa che entri in modo concreto nella cultura odierna. Le parole chiave individuate
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da Pierluigi Cabri per descrivere questo modo di porsi sono: ospitalità e prossimità, testimonianza e parola. Brunetto Salvarani esamina specificamente l’impatto del pluralismo religioso sulla città: adottare la prospettiva interculturale, la promozione del dialogo e del confronto tra culture (religiose e non) nella vita sociale urbana significa non limitarsi a organizzare strategie di integrazione più o meno calibrate, ma piuttosto assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della comunità civile. – Dal Nuovo Testamento e dai padri della Chiesa, Enrico Casadei Garofani, Maurizio Marcheselli e Federico Badiali ricavano alcuni elementi che hanno caratterizzato il modo in cui alle origini – o comunque nei primi secoli – del cristianesimo i credenti si sono posti nel tessuto sociale e specificamente urbano. Il NT non offre una valutazione univoca del rapporto tra cristiani e società; piuttosto si riscontra in esso una pluralità di prospettive e di atteggiamenti conseguenti: dal divieto di qualsiasi collaborazione – intesa come fatale complicità – fino all’invito al rispetto e all’obbedienza nei confronti delle autorità. Collocati nel contesto di un mondo secolarizzato o post-cristiano, i cristiani di oggi si ritrovano come quelli dei primi secoli: una minoranza religiosa e culturale nel crogiolo di popoli diversi all’interno dell’impero romano. Casadei Garofani suggerisce che, in questo mondo contrassegnato dal pluralismo religioso e culturale, essi hanno l’opportunità di mostrare, come Paolo ad Atene, che il vangelo non solo può stare con dignità e libertà nella cultura urbana, ma ha la capacità di entrare in dialogo con essa, servendosi delle medesime mediazioni linguistiche e culturali per potersi intendere. Marcheselli presenta la proposta etica che emerge dal Vangelo di Matteo come etica che travalica i confini della comunità di quanti credono in Gesù. In questa ricerca di modelli nell’esperienza e nel pensiero cristiano delle origini Badiali offre una lettura attualizzata, in prospettiva post-moderna, de La città di Dio di Agostino, opera del tardo antico. La relazione ripercorre la dialettica agostiniana esistente tra civitas hominis e civitas Dei, per arrivare a leggere in profondità il nostro modo di abitare la città e per immaginare nuove forme di convivenza sociale. – Alle relazioni presentate nel contesto del convegno si aggiunge, come postfazione, una riflessione firmata da Boschini e Badiali, ma discussa a fondo collegialmente in Dipartimento, su somiglianze e differenze tra Teologia pubblica e Teologia dell’evangelizzazione:4 il confronto con proposte non troppo dissimili dalla nostra ci aiuta a mettere a fuoco più precisamente lo specifico di quella teologia dell’evangelizzazione che cerchiamo di elaborare in Emilia-Romagna.
Per una panoramica a vasto raggio di cosa sia la Teologia pubblica si veda G. VillaTeologia pubblica. Una voce per la Chiesa nelle società plurali (Giornale di Teologia 413), Queriniana, Brescia 2018. 4
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Introduzione
3. Sviluppi futuri per la Teologia dell’evangelizzazione Per il prossimo triennio il DTE è orientato a lavorare sul tema della cura, prestando una speciale attenzione alla necessità di elaborare nuove metafore in teologia. L’asse portante della nostra ricerca sarà di tipo antropologico, senza però perdere di vista la questione della custodia della casa comune e il moltiplicarsi di situazioni di conflitto – a cui assistiamo dentro e fuori la Chiesa. Vogliamo cioè declinare il tema della cura dentro due istanze (la crisi ambientale e il crescente tasso di conflittualità) che ci provengono dal contesto e che condizionano il nostro lavoro e la nostra comunicazione. Entrambe (custodia del creato e situazioni conflittuali) sono esplicitamente menzionate nel proemio di Veritatis gaudium (da ora in poi VG), la costituzione apostolica di papa Francesco circa le università e le facoltà ecclesiastiche. In questo contesto, indispensabile diventa la creazione di nuovi e qualificati centri di ricerca in cui possano interagire con libertà responsabile e trasparenza reciproca – come ho auspicato nella Laudato si’ – studiosi provenienti dai diversi universi religiosi e dalle differenti competenze scientifiche, in modo da «entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità» (Laudato si’ 201) (VG 5). La teologia, non vi è dubbio, dev’essere radicata e fondata nella Sacra Scrittura e nella Tradizione vivente, ma proprio per questo deve accompagnare simultaneamente i processi culturali e sociali, in particolare le transizioni difficili. Anzi, «in questo tempo la teologia deve farsi carico anche dei conflitti: non solamente quelli che sperimentiamo dentro la Chiesa, ma anche quelli che riguardano il mondo intero» (Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015). Si tratta di «accettare, di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo», acquisendo «uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione si [sic!] di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto» (esort. ap. Evangelii gaudium, 227-228) (VG 5).5
Maurizio Marcheselli
5 Sorprendentemente il testo di Veritatis gaudium installato sul sito ufficiale del Vaticano contiene un errore nella citazione di Evangelii gaudium: «si» al posto di «su». Cf. https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/01/29/0083/00155. html con http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papafrancesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium.htmls
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I legami urbani nell’ambiente digitale: appartenenza, informazione, partecipazione Dieci sfide per l’evangelizzazione Paolo Boschini* In Evangelii gaudium papa Francesco dedica i paragrafi 71-75 alle «sfide delle culture urbane». Pochi paragrafi, per dare corpo a una serie di riflessioni sulla «crisi dell’impegno comunitario» entro il contesto della vita cittadina. La sfida in questione non è semplicemente una pro-vocazione a capire e a misurarsi con i cambiamenti in atto nelle nostre città. La sfida, a cui il papa fa riferimento, è in realtà una con-vocazione a rinnovare le categorie del nostro pensiero: sia in fase di analisi (nel mio caso: lo sguardo del filosofo attento alle cose sociali), sia in fase di comprensione e di progettazione (nel nostro caso: il discernimento e il giudizio, a cui è chiamato il pensiero teologico che riflette sull’evangelizzazione). La lettura socio-filosofica dell’umanità urbana, che vive nell’era digitale, si carica così di compiti pratici, che interpellano da vicino la teologia dell’evangelizzazione e la progettualità ecclesiale da essa ispirata. Ciò è reso possibile dal carattere culturale della città, cioè dalla sua capacità di generare e plasmare nuove forme di umanesimo. La città non si lascia circoscrivere entro formule quantitative, di tipo statistico e demografico; né può essere descritta ricorrendo a meri criteri spaziali, di stampo amministrativo.1 Per entrare nel cuore del nostro tema, è necessario fare due lunghe premesse.
* Docente stabile di Filosofia – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected] 1
L. Wirth, L’urbanesimo come modo di vita, Armando, Roma 1998, 62-63.
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Paolo Boschini
1. Quale
esperienza urbana ?
Per cominciare, una citazione ormai divenuta classica, quando si parla di umanesimo urbano. È caratteristico delle rivoluzioni di non essere riconosciute fino ai loro drammatici esiti finali. Questo vale per la rivoluzione nella vita sociale che ha trasformato il mondo in cui viviamo da una serie relativamente isolata di società, locali, semplicemente artigiane, statiche, di casta, in un cosmo singolo, interdipendente, complesso tecnologico, dinamico e altamente differenziato al suo interno. Le nostre culture sono ancora molte, ma la nostra civiltà è una sola. La città ne è il simbolo. Noi o domineremo questa entità minacciosamente complicata o periremo sotto di essa. La vita comune per un fine nobile, come diceva Aristotele, può forse, come sembra mostrare l’esperienza umana, essere vissuta meglio nelle città.2
Due considerazioni per cominciare. La prima è di carattere storico: le grandi trasformazioni del secondo millennio dell’era volgare hanno preso avvio dalle città e sono state, anzitutto, trasformazioni della città e dei suoi abitanti.3 La seconda considerazione è di carattere filosofico: la città è un sistema complesso di interazioni sociali e di simbologie culturali, che si trasforma continuamente nel tempo e nello spazio. Le sue forme sono cangianti e i suoi confini sono porosi e sfumati.4 La città è perciò il luogo della libertà, della libertà in tutta la sua fragilità e concretezza. La libertà, che essa ispira, la rende un «laboratorio», in cui «i processi sociali possono essere studiati».5 Qui non mi occuperò della politeia, cioè della costituzione, dell’organizzazione e della gestione della città; ma dei politai, dei cittadini, ovvero di coloro che sono al tempo stesso i soggetti, i mediatori e i prodotti della politeia. Questo approccio di filosofia politica discende dall’opzione fondamentale del mio pensare filosoficamente: a partire dall’uomo concreto, che vive nelle situazioni quotidiane in relazione – non sempre benevola e costruttiva – con i propri simili ed esiste solo immerso nelle istituzioni, che la vita sociale genera per potersi mantenere e migliorare.6 Alla base di questa riflessione, sta la domanda posta da J. Maritain poco dopo la fine
2 L. Wirth, «Società urbana e civilizzazione», in R. Rauty (a cura di), Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, Donzelli, Roma 1999, 241. 3 M. Weber, La città, Bompiani, Milano 1950, 21-24. Wirth, L’urbanesimo come modo di vita, 59-61: «La crescita delle città e l’urbanizzazione del mondo rappresentano uno dei fatti più significativi della modernità». 4 Si veda a questo proposito la descrizione di Napoli come città «porosa» di W. Benjamin, «Napoli», in Id., Opere complete. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, 39-41. 5 R. Park, «La città. Suggerimenti per la ricerca sul comportamento umano nell’ambiente umano», in Rauty (a cura di), Società e metropoli, 16-19: «La piccola comunità spesso tollera l’eccentricità. La città, al contrario, la premia». 6 P. Boschini, «La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale», in M. Marcheselli (a cura di), Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione. Il percorso teologico compiuto a Bologna (1997-2017), EDB, Bologna 2019, 139-172.
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I legami urbani nell’ambiente digitale: appartenenza, informazione, partecipazione
della Seconda guerra mondiale: in che rapporto stanno L’uomo e lo stato? Ovvero, qual è il principio generatore della socialità umana e dei processi che la configurano? Con Maritain rispondo che questo principio generatore è la libertà umana. Libertà significa coscienza di sé e dunque capacità di distinzione tra sé medesimo e l’altro da sé. Non basta essere insieme perché ci sia la politeia. Bisogna comprendere razionalmente le esigenze del vivere insieme, abitando un medesimo spazio e bisogna decidere ciò che meglio di altro può favorire questo cohousing nel mondo.7 C’è dunque un pensiero e una volontà razionale all’origine della politeia; un pensiero e una volontà che non possono essere meramente individuali, ma che sin da principio sono condivisi, progettuali, strategici; in una parola, socializzati.8 Il primato del polites sulla politeia è perciò il riconoscimento del fondamento su cui si poggia la politeia: la libertà consapevole, relazionale e responsabile dell’essere umano. Questa libertà è il valore su cui tutto l’agire politico sta o cade.9 La seconda considerazione è di carattere demografico. La popolazione mondiale si sta concentrando nelle grandi aree metropolitane. Oggi ci sono nel nostro pianeta almeno ventidue megalopoli, in ciascuna delle quali vivono dieci milioni e più di persone.10 Secondo l’ultimo Revision of World Urbanization Prospects delle Nazioni Unite, il 55% della popolazione attuale della terra (pari a 4,2 miliardi di persone) vive in città. Il ritmo di crescita demografica delle città – e di spopolamento delle campagne – viaggia intorno a 76 milioni di persone all’anno. Sulla base di queste cifre si prevede che nel 2050 due abitanti su tre della terra saranno urbanizzati. In Italia – la cui popolazione nel 2050 sarà scesa al di sotto dei 60 milioni di unità – l’80% degli abitanti vivrà in città: oggi la percentuale della popolazione urbana si aggira sul 70%.11 Questi dati danno ragione a L. Wirth, il quale già un secolo fa aveva previsto questa crescita esponenziale dell’urbanesimo e perciò aveva sentenziato: I problemi della società contemporanea assumono nella città la loro forma più acuta. I problemi della civiltà moderna sono tipicamente urbani.12
7 J. Maritain, L’uomo e lo stato, Vita e Pensiero, Milano 1954, 32: «Il popolo è la vera sostanza, vivente e libera del corpo politico». Ivi, 47-48: «Il corpo politico ha diritto alla piena autonomia: 1. alla piena autonomia interna (di fronte a se stesso); 2. alla piena autonomia esterna (di fronte agli altri corpi politici). […] Il diritto del corpo politico alla piena autonomia è diritto naturale e anzi inalienabile: inteso nel senso che nessuno può privarlo di questo diritto». 8 Ivi, 4-5. 9 Ivi, 55. 10 Secondo i dati di UN-Habitat, aggiornati al 2016, questa è la classifica mondiale delle dieci grandi aree metropolitane più popolose: 1) Tokyo 37.835.000; 2) Shanghai 24.260.000; 3) Città del Messico 24.000.000; 4) Karachi 24.000.000; 5) New York 23.000.000; 6) Seul 22.700.000; 7) Pechino 21.500.000; 8) Mumbai 21.000.000; 9) Delhi 20.000.000; 10) São Paulo 20.000.000. https://unhabitat.org/ (12.04.2019). 11 United Nations, Revision of World Urbanization Prospects, 2018, https://population. un.org/wup/DataQuery/ (12.04.2019). 12 Wirth, «Società urbana e civilizzazione», 231-232.
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Paolo Boschini
2. La
digitalizzazione , nuovo volto dell ’ urbanesimo
Probabilmente, da sempre nella città la libertà ha la forma dell’interazione: qui gli individui diventano capaci di adattarsi gli uni agli altri.13 Specialmente nelle relazioni di amicizia e di vicinato ogni cittadino è portatore di «rivelazioni personali», che hanno il potere di «suggerire nuovi e distinti contesti di interazione tra il soggetto e il suo interlocutore». In tal modo, ogni abitante si rivela all’altro entro un catalogo di possibilità. La struttura della città dipende dalle relazioni tra gli abitanti e dai ruoli che essi decidono di ricoprire. Le rivelazioni personali creano la possibilità di estendere le relazioni ad altri cittadini, creando nuovi legami. La città è fatta da queste reti relazionali, che si dilatano continuamente grazie alla capacità degli abitanti della città di intrattenere relazioni multiple.14 Ciò significa, in senso restrittivo, che «la vita urbana si svolge in gran parte in piccoli universi».15 E in senso estensivo, significa che «la città è una porzione di territorio affollata di interazioni umane».16 Nelle megalopoli odierne le interazioni urbane vengono trasformate ogni giorno dalla rapida espansione dei linguaggi e delle reti digitali: la comunicazione digitale costituisce un «nuovo livello di socialità», che colma il vuoto di relazioni creato dalla crescita ipertrofica dello spazio urbano.17 Le nuove tecnologie telematiche offrono l’attraente possibilità di spostare informazioni, persone e cose molto più velocemente rispetto al passato. Inducono un diverso concetto di prossimità e di vicinanza fra abitazione, lavoro e svago. La collocazione spazio-temporale delle persone, degli eventi e delle cose è stravolta, schiacciata in una contemporaneità unidimensionale, dove non ci sono altro che ibridi. Si abita la megalopoli all’insegna dell’«integrazione»: grazie alle sue relazioni multiple, la rete digitale individuale tende a crescere di continuo favorendo l’intreccio di nuove relazioni, specialmente per riempire i momenti di svago. La megalopoli viene configurandosi come una serie indefinita e interconnessa di reti «a grappolo», di cui ogni individuo integrato è al tempo stesso creatore, utilizzatore e manutentore. L’individuo integrato è un buon mediatore e il suo agire comunicativo serve a impedire che la differenziazione del tessuto urbano si trasformi in frammentazione.18 Questa è solo una faccia della medaglia. La megalopoli insegue l’idea le di una società totalmente informatizzata. Nella megalopoli contemporanea c’è una razionalità anonima che domina sulle volontà individuali e
13 U. Hannerz, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, Il Mulino, Bologna 1992, 407, 414 e 492. 14 Ivi, 420-423. 15 Ivi, 430. 16 Ivi, 492. 17 M. Castells, La città delle reti, Marsilio, Venezia 2004, 50 e 62-63. 18 Hannerz, Esplorare la città, 428.
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I legami urbani nell’ambiente digitale: appartenenza, informazione, partecipazione
le organizza secondo una funzionalità cibernetica: grande parte della vita megalopolitana è il frutto di «organizzazione, progettazione e pianificazione consapevoli». Di questa configurazione razionale fa parte a pieno titolo la continua ristrutturazione dello spazio urbano. La megalopoli (e con essa i suoi abitanti) è una realtà artificiale, plastica, che viene continuamente modellata dalle esigenze sociali ed economiche dominanti:19 lo spazio urbano riflette i rapporti di forza e i conflitti esistenti tra i gruppi sociali cittadini.20 Solo se si seguono le regole impersonali che presiedono al funzionamento ordinato della vita urbana, si è cittadini integrati. Il cittadino megalopolitano è il prodotto di una macchina razionale complessa, che ha di mira l’induzione negli individui e nei gruppi di comportamenti sociali disciplinati. Il politologo britannico S. Parker propone di coagulare l’«esperienza urbana» contemporanea intorno a quattro «C»: «cultura, consumo, conflitto e comunità».21 Alla luce delle considerazioni appena esposte, mi permetto di aggiungere un’altra «C» e di considerarla oggi come la più importante: la città – e specialmente la megalopoli – è comunicazione; non solo per linee orizzontali, tra pari. La digitalizzazione del tessuto urbano rende possibile la comunicazione per linee verticali, dal basso verso l’alto (e viceversa). Una prima superficiale osservazione registra che la digitalizzazione dell’informazione e delle conoscenze cambia il rapporto tra le istituzioni municipali e i cittadini, perché aumenta il potere di protesta di questi ultimi, senza far crescere di pari passo la loro capacità di partecipazione alla cosa pubblica. Il cittadino digitalizzato produce una realtà sociale frammentata, turbolenta, indecifrabile, sempre più esposta all’emotività del momento. L’uomo urbano di oggi somiglia sempre di più a un cittadino mancato, perché è portatore di diritti senza reciprocità, cioè di diritti senza doveri verso gli altri abitanti e le istituzioni della medesima città. Pur cogliendo nel segno, probabilmente questa tesi semplifica la realtà sociale odierna. Un’osservazione più dettagliata ci restituisce una visione più complessa dell’urbanizzazione nell’era dei linguaggi digitali. Nella società urbana la comunicazione digitale sta trasformando radicalmente la percezione dello spazio. Secondo il sociologo catalano M. Castells, è in corso una «rivoluzione socio-spaziale».22 I linguaggi digitali concentrano lo spazio urbano, portando il mondo cittadino a portata di touch screen: il surplus di comunicazione trasforma lo spazio urbano in spazio comunitario, caratterizzato da un movimento includente. Pari-
19 D. Harvey, L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, Il Saggiatore, Milano 1998, 71-76. A. Giddens, Sociologia, Il Mulino, Bologna 1994, 521. 20 M. Castells, The City and the Grassroots. A Cross-cultural Theory of Urban Social Movements, University of California Press, Berkeley 1983, 103. Giddens, Sociologia, 522: «Tensioni e conflitti [...] rappresentano dei fattori-chiave nello strutturare i quartieri cittadini». 21 S. Parker, Teoria ed esperienza urbana, Il Mulino, Bologna 2006, 16. 22 Castells, La città delle reti, 55.
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menti, i linguaggi digitali dilatano lo spazio urbano, rarefacendolo fino al punto di renderlo del tutto immateriale: lo trasformano in uno spazio individuale, includente ed escludente, perché ciascuno può decidere chi può e chi non può farne parte. È uno spazio urbano distopico: la cinematografia lo racconta come uno spazio che, da un momento all’altro, può diventare un inferno, perché i più fidati amici diventano all’improvviso insidiosi nemici.
3. L’uomo
urbano e il suo contesto
Ora possiamo entrare nel vivo del nostro tema: l’umanesimo urbano nell’era digitale e le sfide che esso lancia all’evangelizzazione.
3.1. Una
città di macchine
Le macchine digitali regolano il flusso della vita cittadina, consentendo un monitoraggio costante di quanto avviene e mettendo in rete tutti i servizi strutturali (mobilità, commercio, istruzione, sanità, ecc.) e infrastrutturali (energia, viabilità, sicurezza, ecc.) che la città offre. I servizi strutturali sono i «dispositivi base dell’esistenza cittadina».23 Mentre quelli infrastrutturali trasformano la città in una mega-macchina sociale, che attiva la possibilità di relazioni umane solo in uno spazio organizzato da macchine. La città digitalizzata è così la realizzazione del sogno settecentesco dell’uomo-macchina, non su scala individuale ma su scala collettiva. La tecnopoli odierna si caratterizza anzitutto per l’utilizzo della comunicazione come controllo. Il quadro di controllo [è] la chiave delle comunicazioni nella grande città, che collega gli esseri umani gli uni agli altri mediante la moderna magia dell’elettronica.24
La metropoli moderna è tale solo grazie alle complesse tecnologie dell’informazione, che trasformano il territorio urbano in una «rete compatta di comunicazioni», la quale consente la libertà dell’anonimato e impedisce che la vita sociale degeneri nel disordine. Il massimo di libertà nelle relazioni personali va di pari passo con il massimo di organizzazione della vita collettiva. Non è più la legge, con il suo stringente dinamismo sanzione-pena, che dirige la vita pubblica. Ora questa funzione direttiva è svolta dal flusso dei dati informativi, in quali creano nuove forme di vicinato e di interdipendenza. Creano una miriade di (in)consapevoli possibilità nella vita quotidiana, lasciando che siano gli individui a decidere come e dove orientare per il meglio le loro energie. Così viene superato il
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Ivi, 62. H. Cox, La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968, 38.
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ristretto dualismo esistenzialista «Io-Tu» e si manifesta una nuova dualità marcatamente sociale: «Io-Voi». Grazie alle macchine la tecnopoli offre la possibilità di una convivenza modulare con i molteplici altri insieme ai quali si abita lo spazio urbano, dando la facoltà di scegliere i propri interlocutori e il grado di intimità della relazione.25 Grazie alle tecnologie dell’informazione, la città si sta trasformando in una «e-topia», ovvero «un’incessante interazione, volontaria e non, con i sistemi di informazione online, sempre più in modalità wireless».26 Le informazioni a disposizione dei cittadini sono talmente tante che essi non riescono più a padroneggiarle. Ciò pone l’uomo urbano contemporaneo di fronte a un dilemma: se vivere la cittadinanza digitale come forma di cittadinanza attiva, approfittando del libero accesso alle informazioni; oppure se godere dei vantaggi di una cittadinanza fondamentalmente passiva, accettando un ordine sociale basato sul controllo.27 Siamo ancora al classico dilemma freudiano: o libertà, o sicurezza.28 I. La sfida è: quale vangelo in una città, in cui il fattore umano tende a essere surclassato dalle macchine? Ovvero quale evangelizzazione in un ambiente di vita, in cui la salvezza viene dalle macchine e in cui i linguaggi digitali si presentano come portatori di una maggiore efficacia rispetto a quella dei linguaggi tradizionali, in primis dei linguaggi religiosi? Quale rilevanza non solo comunicativa, ma anche operativa per le parole della fede cristiana, espropriata di alcuni suoi vocaboli fondamentali, come ad es.: «giustificare», «salvare», «icona»? Keyword: macchine.
3.2. Le nuove classi sociali della città digitale
Nella città digitale la funzione progettuale-decisionale si separa dalla funzione della gestione e del controllo, accentuando la divisione dei cittadini in tre classi (più una): i politici (gli addetti alla progettazione e decisione, anche quando non hanno responsabilità amministrative dirette); i tecnici (gli addetti alla gestione delle macchine e all’erogazione dei servizi); gli utenti (i fruitori dei servizi erogati dalla città). Queste tre categorie hanno tutte a che fare con il controllo della vita cittadina. Ma c’è una quarta classe, che è costituita dai fuori-controllo, per lo più appartenenti a sub-culture urbane (homeless, nomadi, migranti irregolari, giovani neet,
Ivi, 40-48. Castells, La città delle reti, 59. 27 M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einuadi, Torino 1993, 142: la prigione come modello della città perfettamente controllata, in cui i «sorveglianti [sono] perpetuamente sorvegliati» (ivi, 194). 28 S. Freud, «Il disagio della civiltà», in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2001, 250. 25 26
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prostitute, ecc.). Da chi è governata effettivamente la città digitale? Solo dalle elite, cioè dai decisori appartenenti alla prima classe? Nelle metropoli occidentali della seconda metà del XX secolo, il modo migliore per arginare il caos della crescita demografica ed economica degli spazi urbani sembrò essere quello di affidarne il governo a un’elite di politici professionisti, i quali a loro volta dipendevano dalle oligarchie economiche che dettavano legge in città: di oligopolio in oligopolio, il potere cittadino è diventato sempre più distante dai cittadini e sempre più impenetrabile ai loro sguardi. Il consolidarsi di questo processo ha fatto sì che non tutti gli abitanti della città si sentano anche cittadini.29 La città moderna teme questa differenziazione, perché porta con sé una radicalizzazione del conflitto tra i segmenti sociali ed economici della popolazione urbana: gli esclusi e gli impoveriti sono sempre stati una forza destabilizzante, che aspira al cambiamento fino a spingersi ad accettare percorsi avventurosi come la tirannide, perché non ha nulla da perdere.30 I cittadini invece hanno molto da perdere e perciò sono più refrattari ai cambiamenti e costituiscono una sorta di volano stabilizzatore delle pratiche quotidiane, su cui si regge la vita istituzionalizzata della città. Qualcosa del genere si ripete anche nella città del XXI secolo, trasformata dai linguaggi digitali in una grande macchina collettiva. Ma non tutto può essere tenuto sotto controllo. A motivo della crescente impenetrabilità del potere, tra la classe dei politici e quella degli utenti cresce la dialettica, con il risultato sì di monopolizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su questioni di rilevanza collettiva,31 ma anche di porre la città in situazione di stallo. Il surplus di informazione su tali questioni, prodotto dai canali digitali, obbliga la comunicazione politica a occuparsene in maniera tanto ossessiva quanto superficiale, trasferendo il dibattito fuori dalle sedi istituzionali della deliberazione politica: rendendolo in tal modo sterilmente ideologico e privo di consistenza scientifica e progettuale. Ciò sta comportando la più grave crisi della rappresentanza politica degli ultimi settant’anni. Sempre più cittadini non si riconoscono nelle istituzioni municipali, che pure sono le più vicine alla loro vita quotidiana. Nonostante ciò – o forse proprio a motivo di questa crisi – la città sta diventando anche il luogo in cui avviare nuove esperienze di partecipazione, che raccordino linguaggi digitali e impegno politico. Una delle aree di maggiore sperimentazione è quella zona grigia dello spazio urbano in cui i cittadini-utenti convivono con gli abitanti fuori-controllo. È uno spazio che solitamente viene munito di difese, fisiche e normative, con il chiaro intento di evitare il più possibile il contatto tra i membri delle due classi
29 Weber, La città, 178-184. Secondo Weber questa è una patologia della città, sin dall’antichità. 30 Ivi, 160. 31 Quali ad esempio la riqualificazione di aree urbane, il consumo di suolo, la localizzazione degli insediamenti industriali, le misure antinquinamento, il contrasto alla microcriminalità, le politiche sociali nei confronti delle categorie più vulnerabili.
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sociali.32 Oggi, nell’era dell’informazione digitale la città torna a «fungere da dispositivo di comunicazione»,33 creando nuove relazioni di vicinato, seppure con la mediazione di dispositivi che consentono incontri senza contatto diretto, perché seppur provvisoriamente trasformano i fuori-controllo in utenti di servizi.34 II. La sfida è: quale vangelo in una città ridiventata fortemente classista, ma senza più coscienza di classe? Ovvero, quale evangelizzazione in un ambiente di vita quotidiana, in cui lo spirito di comunità, che prevede il prendersi cura gli uni degli altri con gratuità, sta lasciando il posto a un nuovo darwinismo sociale, che predica la vittoria del più adattabile, del più furbo, del più capace di costruire relazioni all’insegna dell’interesse e della scalata sociale? Keyword: darwinismo sociale.
3.3. Una Babele digitale? A seconda della classe sociale in cui ci si riconosce, cambia la visione della città e la percezione della vita urbana quotidiana. Ma la stratificazione sociale della città assume una nuova fisionomia e si definisce sempre meno in base al reddito e alla tipologia di lavoro svolto; e sempre di più in base alle competenze in ordine alla vita cittadina. Cresce l’eterogeneità di prospettive e di linguaggi. Si vive insieme, ma non si vivono le stesse cose e, soprattutto, non le si chiama con lo stesso nome. Ad amplificare questo effetto-Babele, gli spazi digitali stanno diventando in modo crescente l’unica agorà, in cui è possibile il dibattito: culturale, sociale, politico, etico. Ma è un dibattito che discute solo sul possibile e non giunge mai alla fase operativa. A causa della struttura stessa del digitale odierno, questo dibattito fatica a produrre convergenze progettuali. Specialmente nella relazione tra la classe dei decisori e quella degli utenti, la spinta dal basso di questi ultimi non riesce a incontrarsi con la progettualità dei politici, creando una dialettica che si autoalimenta e assume i connotati di una tensione basso/alto e popolo/elite. In un ambiente sociale e comunicativo sempre più polarizzato, alla fine prevale la decisione di non decidere: così non si scontenta nessuno e chi deve effettivamente deliberare si tiene le mani libere per prendere le decisioni che contano al
32 Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, 17. Cresce l’utilizzo di dispositivi quali ad esempio il DASPO: acronimo di Divieto di accedere a manifestazioni sportive. In molte legislazioni nazionali esso fu introdotto sulla base di una specifica Convenzione europea del 1985. In Italia, la legge 48/2017 e il decreto-legge 113/2018 hanno esteso questa restrizione temporanea delle libertà personali di circolazione a determinate aree urbane di particolare interesse pubblico. 33 Castells, La città delle reti, 60. 34 Si pensi alle app per smartphone, che in molte metropoli consentono agli homeless di prenotare il pasto o il posto letto presso un centro di accoglienza, o una visita medica presso un ambulatorio pubblico.
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di fuori dei luoghi istituzionali a ciò deputati. Nella città digitale l’ansia per il consenso finisce per deistituzionalizzarne il governo. Ma non per questo, la vita della città diventa immobile. Sotto la spinta di molteplici fattori – tra i quali i flussi migratori, la vulnerabilità socio-economica, il crescente pluralismo culturale – si sta modificando in profondità il rapporto tra individuo e città nelle sue dimensioni fondamentali: appartenenza, informazione, partecipazione. III. La sfida è: quale vangelo in una città in cui prevale la logica del rinvio, del non schierarsi, del fare battaglie ideologiche grandi come montagne che poi, nel migliore dei casi, partoriscono topolini? Ovvero, quale evangelizzazione in un ambiente comunicativo, in cui il cambiamento è per lo più un messaggio di marketing e l’innovazione è più nelle parole che nei fatti? Keyword: marketing politico.
3.4. Appartenenza La tendenza individualistica della cittadinanza odierna viene moderata dalla creazione di comitati spontanei di cittadini-utenti, che si mobilitano per la discussione e la soluzione di problemi locali. Prendere parte a tali gruppi e associazioni riempie di senso la propria appartenenza alla città.35 Ma rischia anche di portare al collasso la società urbana, perché la inonda di questioni particolaristiche, del tutto o quasi mancanti di una visione d’insieme. In maniera analoga, ma con esiti del tutto differenti, funzionano altri corpi intermedi presenti nel territorio cittadino: associazioni di volontariato, comunità religiose, associazioni sportive dilettantistiche. Questo secondo tipo di forme associative svolge una funzione di rinforzo del legame sociale, altrimenti molto debole. Ma non sono in grado di misurarsi positivamente con il fatto che l’uomo urbano digitalizzato cerchi appartenenze deboli, che non lo impegnino oltre ciò che egli è disposto a offrire. I cittadini digitali non rifiutano le relazioni, anzi le cercano e le implementano, ma rivendicano la libertà di decidere con chi intrattenerle. E ancor più, difendono il loro diritto a evitare ogni contatto fisico con sconosciuti e indesiderati. Per loro la libertà-da è decisamente più importante della libertà-per. Già prima dell’avvento delle tecnologie e dei linguaggi digitali l’umanesimo metropolitano conduceva ad «accettare l’instabilità e l’insicurezza del mondo come una norma». Oggi la realtà urbana è diventata ancora più fluida e mutevole, specialmente le relazioni interpersonali e le appartenenze di gruppo. L’individuo fatica a cogliere quale sia la propria posizione all’interno del sistema complessivo della città. Egli vive nell’incertezza: non è in grado di prevedere e di determinare il proprio futuro; né sa mai con esattezza che cosa sia meglio per lui. L’incer-
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tezza cognitiva ed etica è il prezzo che l’uomo metropolitano contemporaneo deve pagare per vivere in un ambiente «sofisticato e cosmopolita».36 Hannerz è convinto che il sistema-città si costituisca grazie al «commercio silenzioso» di significati, intrapreso dagli individui che vi abitano: un commercio che sfrutta le reti relazionali costruite secondo il criterio dell’affinità etica. La megalopoli può essere compresa come un’antologia di testi, che gli abitanti scrivono e modificano continuamente con le loro interazioni.37 Nell’ambiente megalopolitano differenti sistemi di significato coesistono più o meno pacificamente, anche quando alcuni di essi costituiscono una «deriva culturale» divergente rispetto ai sistemi che godono di una presenza maggioritaria. I cittadini svolgono una selezione, spesso legata alle concrete situazioni di interazione con estranei. Con un ritmo di gestazione blando, la città svolge così una funzione analoga a quella del sistema della comunicazione sociale, ponendo a stretto contatto e miscelando stili di vita tra loro molto distanti.38 IV. La sfida è: quale vangelo in una realtà cittadina fatta di legami fragili? Ovvero, quali registri deve assumere l’evangelizzazione per diventare capace di restaurare l’alleanza fondamentale della vita civile, che è quella della fiducia nei confronti dello sconosciuto? Keyword: fiducia.
3.5. Informazione Questo nuovo tipo di appartenenza alla vita urbana è prevalentemente un’appartenenza informata, anche se spesso si tratta di un’informazione settoriale e non sempre verificata e attendibile. Soprattutto le manca la capacità di formarsi una visione d’insieme della città.39 Questa funzione – un tempo svolta prevalentemente dai pochi mass-media locali – oggi viene gestita attraverso le piattaforme social-media, specialmente da F acebook, Instagram e Twitter. Si assiste a una frammentazione dell’informazione, che diventa analitica e localistica. Aumentano per contro l’incontrollabilità delle fonti e il carattere ideologico delle notizie. Nella città digitale comunicare non significa automaticamente informare. Ciò non è da addebitare a una carenza di etica professionale degli operatori dell’informazione. Ma dipende dal fatto che essi vengono sistematicamente scavalcati da un’informazione che viaggia su canali privi di controllo e non sottoposti ad alcun codice deontologico. A ciò si devono
Wirth, L’urbanesimo come modo di vita, 79-80. Hannerz, Esplorare la città, 463-469. 38 Ivi, 468-474. 39 Castells, La città delle reti, 60: «La diffusione della comunicazione orizzontale via internet sta accelerando questo processo di frammentazione e individualizzazione delle interazioni simboliche. La frammentarietà della realtà urbana e l’autoreferenzialità della comunicazione concorrono alla formazione di una galassia infinita di sotto-insiemi culturali». 36 37
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aggiungere le crescenti difficoltà del giornalismo d’inchiesta, che per costruire la notizia deve attraversare la cortina fumogena di tweet e post: i fatti sono sempre più occultati da molteplici interpretazioni e si fa sempre più sottile il confine tra cronaca e manipolazione.40 Certo, esistono in rete anche spazi in cui l’informazione sulla città è di più ampio respiro. Sono spazi spesso gestiti direttamente dalle amministrazioni municipali. Ma si tratta di spazi poco conosciuti e frequentati dai cittadini-utenti. Perciò si registra uno sforzo crescente delle amministrazioni cittadine di implementare questi spazi, nella speranza che essi contribuiscano a produrre maggiore partecipazione civica. Per raggiungere questo obiettivo, tutto ciò non basta. Occorre anche incrementare i luoghi offline in cui i cittadini si riuniscono per ascoltare le voci della propria città e raccogliere informazioni di prima mano, da confrontare con quelle di cui sono già in possesso grazie alle notizie fornite sia dai canali stampa tradizionali sia dai canali digitali dei nuovi media. V. La sfida è: quale vangelo è in grado di sostenere e motivare la conoscenza dei fatti e il dialogo tra differenti visioni dell’uomo urbano? Ovvero, qual è il ruolo della teologia a servizio dell’evangelizzazione nel contesto cittadino, dove la verità è sempre più difficile da accertare e da comunicare? Keyword: conoscenza dei fatti.
3.6. Partecipazione La crisi della rappresentanza politica non ha inibito completamente la partecipazione attiva alla vita della città. L’ha trasformata. Oggi si partecipa, se ci si sente di appartenere a una comunità di relazioni e se si dispone delle informazioni necessarie per agire in stile di concretezza. È una partecipazione per lo più digitale, che è capace di mobilitazione sul breve periodo, ma che poi arranca quando si tratta di passare dalla protesta al progetto e di percorrere passo passo i tempi lunghi e sconnessi della realizzazione. È una partecipazione che per funzionare ha bisogno di una dose quotidiana di risultati. I valori – in primis quelli democratici che si sintetizzano nel senso civico – da soli non bastano a sostenere le motivazioni individuali e associate. Da noi scompaiono i luoghi tradizionali della partecipazione: le sedi dei partiti e dei movimenti politici. Resistono, ma a prezzo di grandi sforzi, comunità religiose, associazioni di volontariato e associazioni sportive dilettantistiche. Come forza capace di arginare questa deriva individualista della cultura urbana digitalizzata c’è ormai solo l’associazionismo sociale. La drastica cura dimagrante, a cui vengono sottoposti partiti e sindacati dai dinamismi convulsi della società tardo-industriale occidentale, sta dando
40 D. Ceccarelli (a cura di), Il giornalismo ai tempi dei social media, Cultura e Lavoro, Roma 2016, 11-13.
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maggiore risalto al «terzo settore», che ha conosciuto in questi primi due decenni del nuovo secolo una grande espansione in molti Paesi europei, specie in Italia. Tuttavia il mondo dell’associazionismo non è meno eterogeneo di quello in cui oggi si muove naturalmente l’uomo urbano odierno; non è meno disordinato, conflittuale, particolaristico. Eppure è uno dei pochi spazi pubblici in cui la gratuità, l’impegno fondato sui valori, la responsabilità sociale e il dovere civico hanno più peso dell’utile, della comunicazione a spot, della rivendicazione di diritti individuali o di piccoli gruppi (piccoli o piccolissimi, anche se con grande capacità di mobilitazione e di visibilità mediatica). Sul finire del XX secolo negli USA e in Europa sono stati pubblicati alcuni studi che sostengono la rinascita delle virtù civiche. Esse rivalutano l’ambiente urbano come luogo di costruzione e mantenimento di reti di persone. Come nell’epoca tardo-medievale, oggi la città è la materializzazione di un fitto intreccio di relazioni, che coinvolgono individui e gruppi tra loro molto differenti. R. Putnam ha coniato a questo proposito la fortunata e ambigua espressione «capitale sociale». Capitale sociale è ogni relazione nell’ambiente urbano, che non sia quantificabile economicamente; ma è soprattutto ogni relazione che costruisce altre relazioni, trasformando un pezzetto anonimo di città in comunità relazionale. «Piccolo è meglio».41 Laddove la città si ridisegna come un piccolo villaggio urbano, gli abitanti di quel quartiere sono più disponibili ad associarsi e a perseguire degli obiettivi comuni. In questo caso diversità e pluralismo non sono un problema; semmai si pongono come risorse e opportunità di crescita per tutti.42 Certo, la città conosce comunità inclusive, aperte; e conosce comunità esclusive, chiuse. Il capitale sociale è includente, perché presuppone la pratica di valori come l’altruismo, l’onestà e la fiducia nel prossimo.43 Il capitale sociale svolge una funzione ambivalente: ha una funzione facilitatrice nelle relazioni, perché costruisce ponti tra le persone e i loro gruppi; e ha una funzione responsabilizzante, perché pone in atto relazioni all’insegna del vincolo d’appartenenza.44 Quando predomina la pri-
41 R.D. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Il Mulino, Bologna 2004, 254. 42 F. Esposito, «Città rurali», http://www.urbanisticatre.uniroma3.it/dipsu/?portfolio=lessico-dellurbano-6 (26.2.2018). Il concetto di urban village risale all’inizio degli anni Sessanta, quando gli studi sull’organizzazione dei vari ghetti nati in seguito all’immigrazione nelle suburbia statunitensi, portarono alcuni autori a ipotizzare l’esistenza di organizzazioni spaziali frammentarie, derivanti dalla polverizzazione delle grandi città in «villaggi urbani» (H.J. Gans, The urban villagers. Group and class in the life of Italian-Americans, The free press of Glancoe, New York 1962). Oggi il termine definisce gli insediamenti dove si realizza, formalmente e architettonicamente, la sintesi tra una piccola comunità e le sue radici, ma con attività e modi di vivere urbani. L’elemento propulsore degli urban villages «è costituito dall’accessibilità, dalle nuove tecnologie e dal decentramento dei luoghi di produzione e di consumo» (J. Kotkin, The new geography. How the digital revolution is reshaping the american landscape, Random House, New York 2000, 99). 43 Putnam, Capitale sociale e individualismo, 254. 44 Ivi, 23.
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ma funzione del capitale, quella di collegamento, la città diventa interculturale. Grazie a ciò, la vita cittadina guadagna in tolleranza e rispetto della diversità; ma anche i singoli cittadini acquisiscono nuove capacità, essenziali per vivere in un ambiente plurale: sviluppano ascolto, flessibilità, adattamento. VI. La sfida è: quale vangelo in un tempo che fatica a mettere a fuoco l’orizzonte del futuro e che al tempo stesso non evada dalle responsabilità del presente? Ovvero, quale evangelizzazione nell’ambiente cittadino dove non trova spazio il tempo dell’attesa e della pazienza, e viceversa si diffonde lo stile della gratuità? Keyword: fatica di futuro.
3.7. Rinnovare
la strada maestra della democrazia
Ci sono nuove strade e quali di esse sono percorribili in alternativa all’inedita alleanza tra individualismo e massificazione, che i linguaggi digitali stanno implementato? C’è la strada maestra della democrazia: il partenariato tra la classe dei politici e quella degli utenti. Ma è una strada percorribile? Negli ultimi tre paragrafi del mio intervento vorrei indicare alcuni percorsi urbani a cui siamo tenuti, se vogliamo che la città digitale continui a essere uno «spazio condiviso». Alcuni autori sono convinti che, a fronte di una perdita di funzione politica, la condizione urbana odierna stia acquisendo una crescente capacità culturale. Tra questi si segnala soprattutto il sociologo francese P. Bourdieu. Ne La distinzione, egli si chiede quale sia oggi il principio da cui trae origine la vita cittadina. Se per Marx era la vicinanza ai luoghi della produzione industriale e se per Weber era la necessità di un più sicuro approvvigionamento – istanze economiche, dunque –, per Bourdieu questo principio originante è di carattere relazionale: l’esigenza di scambiare con altri beni di carattere immateriale, ad alto contenuto simbolico. Sono le relazioni educative, quelle comunicative, quelle progettuali – in una parola, sono le relazioni culturali che costituiscono il «capitale sociale» della città: intrattenendo relazioni il più possibile paritetiche e reciproche gli uni con gli altri, i cittadini si scambiano significati e costrui scono la loro ricchezza comune. Una città è tanto più ricca quanto più i suoi abitanti hanno le medesime disposizioni: ad esempio, solidarizzare con i propri simili anche se sconosciuti; confrontarsi sui valori presenti nel loro spazio sociale; aiutarsi con spirito pratico nell’attraversamento quotidiano dell’ambiente urbano. Questa nuova cittadinanza – culturale e non politica – non è gerarchica, ma generativa, perché è capace di produrre relazioni non contaminate dal potere, ma caratterizzate dalla cura.45
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P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2007.
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Oggi la percorribilità della via democratica nell’ambiente urbano comincia dalla cura: dipende anzitutto dalla capacità dei cittadini-utenti di uscire da atteggiamenti di passività o di vittimismo e di progettare soluzioni realistiche ed efficaci per i problemi urbani che stanno loro a cuore. Data la complessità crescente, ciò non è possibile senza la creazione di una rete di associazioni e di altri soggetti competenti, tra cui i tecnici. Questo non può avvenire avvalendosi unicamente di ambienti digitali. La metropoli non si annulla nelle reti virtuali: piuttosto si trasforma attraverso l’interazione tra comunicazione elettronica e relazioni fisiche, attraverso la combinazione di luogo e di network. [...] Le metropoli in cui viviamo sono fatte di luoghi fisici e di flussi elettronici, in continua interazione tra loro.46
Occorre la creazione di luoghi offline, dove sperimentare la pratica del dialogo volto al consenso, la pratica della progettazione sociale e la messa in opera di quanto congiuntamente progettato. Con questa credenziale dell’operatività ci si può ragionevolmente interfacciare con altri soggetti attivamente coinvolti nella vita cittadina. La città digitalizzata, come la vita dell’uomo digitale, vive un’esistenza anfibia: è «onlife», come sostiene L. Floridi.47 Alla classe politica spetta la capacità di riconoscere queste spinte dal basso, integrandole in una visione più complessiva della città. Questa azione prevede la creazione di luoghi civici virtuali di discussione moderata, in cui i singoli progetti possano essere modificati e arricchiti, adattati ad altre aree cittadine, confrontati con progetti analoghi di altre città. Fino a diventare parte integrante della politica cittadina.48 Compito non accessorio della politica è anche quello di trasformare un singolo progetto rendendolo parte di un più complessivo progetto-città che produca un effetto-cascata, capace di dilatare la partecipazione progettante anche ad altre problematiche della vita cittadina. VII. La sfida è: quale vangelo in una città che affida il suo futuro alle elite economiche e professionali? Ovvero, quale evangelizzazione in un ambiente urbano che non scommette più nella capacità di tutte le classi sociali di tendere al bene pubblico, attraverso la pratica dialogica, la dialettica politica e l’impegno sociale? Keyword: bene pubblico.
Castells, La città delle reti, 57-58: la città digitalizzata è caratterizzata da una dicotomia tra lo «spazio fisico» e lo «spazio dei flussi». È la forma spaziale della più radicale dicotomia tra globale digitale e locale analogico. 47 L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, R. Cortina, Milano 2017, 47-54. 48 Si può realizzare la profezia di Castells, La città delle reti, 54: «Le istituzioni locali diventano un nodo fondamentale della catena della rappresentatività, in grado di regolare l’intero processo politico, grazie al loro valore aggiunto derivato dalla capacità di dare voce ai cittadini più da vicino». 46
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3.8. La
convergenza come principio della nuova cultura urbana
La città moderna era «un caleidoscopio di genti, culture e modi di vita altamente differenziati».49 Anche oggi essa è un luogo di fusione: lingue, modi di vivere, sistemi etici e religiosi. Con la differenza che, grazie ai linguaggi digitali, quanto maggiori sono le differenze, tanto più sono le possibilità di interazione: le polarizzazioni pur radicali presenti nella città sono sempre relative, perché il sistema città-moderna ha in sé la forza per creare sinergie anche tra poli estremi. Rispetto alla città medievale dove i legami sociali erano costruiti sulla base della conoscenza e della solidarietà vicendevoli, nella città odierna gli abitanti sono tenuti insieme piuttosto da modalità di controllo sociale sulla base dell’interesse e della competizione. Le relazioni sono molto più segmentate e mutevoli. Anche nella città digitale sono valide queste riflessioni che Wirth sviluppava osservando gli abitanti della città industriale. L’individuo si associa a gruppi ampiamente divergenti, ciascuno dei quali svolge una funzione solo in relazione a un singolo segmento della sua personalità. E questi gruppi non permettono facilmente una sistemazione concentrica. [...] Piuttosto i gruppi a cui la persona è in genere affiliata sono reciprocamente contigui o si intersecano in modo variabile.50
Oggi gli abitanti delle città passano molto tempo gomito a gomito con perfetti sconosciuti. Ognuno di essi ha appartenenze molteplici, che coltiva in tempi, luoghi e modi differenti, a seconda dei propri interessi e vantaggi. Ciò li rende sicuramente immuni dal controllo altrui e dal dover corrispondere alle aspettative dei propri vicini. Ma contribuisce a dare molta più importanza alle routines e ai comportamenti prevedibili. La somiglianza tra la città industriale e quella digitale si ferma qui. La città industriale vive esperienze di convergenza soprattutto in riferimento ai luoghi e alle attività precostituite che in essi si svolgono: la fabbrica, il quartiere, la scuola, la chiesa, il campo sportivo, la sede del partito. Questi sono stati per intere generazioni i luoghi non solo dell’incontro, ma del pensare e dell’agire tendenti all’intesa. Se nella città moderna era determinante la dimensione spaziale, oggi la vita nella città digitale si svolge sempre di più all’insegna del tempo: questo è il principale fattore di differenziazione della vita collettiva. Molti fusi orari si intrecciano. A ogni ora della città è giorno ed è notte: gli orari non sono più scanditi dai tempi della produzione, ma dall’appartenenza in contemporanea a differenti mondi. Si respira un clima multi-versale.51 Il sistema della co-
Wirth, L’urbanesimo come modo di vita, 84. Ivi, 79. 51 P. Boschini, «Multi-versum 2.0. Il pensiero della differenza convergente nell’era digitale. Nel 50° compleanno di Internet», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, 23(2019)46, 289-315. 49 50
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I legami urbani nell’ambiente digitale: appartenenza, informazione, partecipazione
municazione digitale rende possibili le relazioni a distanza come se si fosse in compresenza e frammenta all’infinito quelle in compresenza. La condizione digitale si caratterizza per l’inesausta ricerca di relazioni con i propri simili, molte delle quali si svolgono nella sfera della virtualità. Si può convergere, anche se si appartiene a spazi differenti e tra loro molto lontani. La contemporaneità della comunicazione digitale crea situazioni avvolgenti di cooperazione e così plasma la nuova cultura convergente di cittadini attivi (e non più solo utenti) e di politici recettivi (e non più solo decisori). Insieme possono dedicarsi alle due imprese forse più difficili, dal cui successo dipende in buona parte lo sviluppo in senso umanistico o in senso tecnocratico della città: la formazione dei tecnici a una visione interconnessa della città, perché le macchine funzionino a servizio di una migliore interazione tra i cittadini; la promozione della classe fuori-controllo a un ruolo di partecipazione propositiva alla realizzazione di alcuni servizi rivolti alle persone, di cui finora sono stati solamente i destinatari.52 L’obiettivo a cui tendere è che la città diventi luogo ed esperienza di convergenza tra identità appartenenti a mondi differenti. Oggi molte città – dalle grandissime alle piccole – sono alla faticosa ricerca della loro autonomia politica e gestionale. I costi elevati delle politiche sociali le rende ancora molto dipendenti dalle politiche nazionali e perciò esposte all’avvicendamento di governi con visioni molto differenti della vita urbana e delle politiche di welfare. La capacità delle città di federarsi al di là dei confini statali dà ad esse la possibilità di accedere direttamente a fondi UE per rinnovare in senso generativo e partecipativo il welfare cittadino e per trasformare il loro tessuto sociale multiculturale in progetto di città interculturale.53 VIII. La sfida è: quale modello di Chiesa e quale generazione della Chiesa dal vangelo è possibile oggi entro una città plurale, dove la dimensione cooperativa della conoscenza è già presente, ma fatica ad affermarsi? Ovvero, quale evangelizzazione in una città attiva sì, in trasformazione sì, meticciata sì, ma sempre a macchia di leopardo, con nicchie di innovazione e ampie sacche di staticità culturale e sociale? Keyword: pluralismo.
52 Un esempio. Dentro agli empori sociali crescono le esperienze di volontariato a cui partecipano gli utenti, come segno di reciprocità per l’aiuto ricevuto: http://www.portobellomodena.it/ (19.4.2019). 53 Mi riferisco specificamente a The Intercultural cities programme (ICC): è un progetto strategico promosso e finanziato dal Consiglio d’Europa, a partire dal 2008. Si propone di supportare «le città nella revisione delle loro politiche dando a esse un obiettivo interculturale». Implementa altresì «lo sviluppo di strategie interculturali» idonee a gestire positivamente la diversità culturale, trasformando in risorsa quello che è considerato normalmente un problema per la convivenza e un ostacolo per la crescita della città; https://www.coe.int/ en/web/interculturalcities/ (16.4.2019). A questo progetto aderiscono più di 150 città di tutti e cinque i continenti: di esse, ventisei sono italiane, tra cui Reggio E., Novellara, Modena, Casalecchio di Reno e Forlì.
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Paolo Boschini
3.9. La
città è una metafora della libertà
«L’aria della città dà la libertà», dicevano i cittadini tedeschi nel Medioevo.54 Allora la città era il simbolo più alto della libera razionalità sociale: l’individuo diventava soggetto attivo grazie al contesto in cui viveva. Nel corso dei secoli le dinamiche di questo processo si sono drasticamente trasformate. Ma la città è ancora il grande luogo collettivo, in cui le identità individuali e di gruppo vengono continuamente riplasmate, con un’azione non molto differente da quella compiuta dai linguaggi digitali. Oggi la città può proseguire questa azione perché, anche grazie ai linguaggi digitali, essa ha mantenuto e irrobustito la forza di essere il contesto capace di determinare l’identità dell’umano: la città digitale è l’ambiente che, offrendo continui cambi di palcoscenico e di scena, risveglia nei suoi iperattivi e distratti abitanti la voglia di ridefinirsi continuamente, adattandosi e ricreandosi in base alle situazioni di vita, che proprio la città propone loro. Grazie al digitale, l’uomo urbano, che esce dalla civiltà industriale in cui era stato brutalmente massificato, riscopre la sua vocazione rinascimentale di faber ipsius fortunae. Non è detto che egli sia all’altezza del compito a cui è chiamato; ma almeno, oggi gli si presenta un’opportunità sconosciuta alle generazioni precedenti, e solo sognata da alcune sparute avanguardie culturali e politiche. Nell’era ultra-moderna delle tecnologie digitali, laddove gli uomini urbani diventano consapevoli di questa nuova chance, la città ritorna a essere un laboratorio a cielo aperto di sperimentazione politica: i cittadini sono al tempo stesso cavie e ricercatori di un nuovo ordine politico, che intrecci libertà individuali e obblighi collettivi, intraprendenza economica e gerarchie sociali. I linguaggi digitali costruiscono ambienti di vita, in cui è possibile pensare in forma condivisa e dare una dimensione pubblica agli sguardi proiettati verso il futuro. La libertà, che grazie a ciò lentamente va prendendo forma, supera la dimensione meramente individuale: non consiste più nel soddisfacimento di bisogni personali. È piuttosto la libertà di diventare cittadini insieme ad altri, attraverso il riconoscimento reciproco di diritti, doveri, sogni. La cittadinanza digitale non si esercita soltanto accedendo ai servizi municipali grazie al web; né crean do nei social media spazi virtuali per lo scambio di opinioni sui problemi della città. Queste sono esperienze senz’altro utili. Ma la cittadinanza digitale consiste anzitutto nella costruzione di nuovi linguaggi, che rendano possibile l’incontro, il dialogo e la cooperazione tra le differenze che abitano il medesimo spazio urbano. Come ho argomentato nel già citato articolo «Multi-versum 2.0», l’«internet del sapere» è capace di generare nuove relazioni di cooperazione nella libertà, proprio perché esso è animato dal principio di differenza; e non dal principio di omologazione che è invece il fondamento dell’«internet delle cose». Il futuro prende forma
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Weber, La città, 46.
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I legami urbani nell’ambiente digitale: appartenenza, informazione, partecipazione
quando il riconoscimento del principio di differenza indica che altri mondi non sono semplicemente possibili, ma che essi sono già presenti nella città. La cittadinanza digitale è una finestra aperta sui mondi che coesistono nel medesimo spazio urbano: grazie alle funzioni di mediazione dei linguaggi digitali, le differenze possono coesistere e fecondarsi senza dover per forza passare attraverso la fase del conflitto. IX. La sfida è: nelle città odierne può esistere un umanesimo cristiano, che rimetta al centro la libertà come essere-con? Ovvero, quale stile è chiamata a realizzare l’evangelizzazione per assumere questo carattere di partecipazione alla costruzione dell’uomo-che-verrà come essere relazionale? Keyword: essere-con.
3.10. Una
domanda conclusiva
La città digitale è il luogo amico della libertà individuale, come ritiene il pensiero urbano? Oppure è lo spazio anonimo del condizionamento ambientale, come ritiene il pensiero rurale? La città ultra-moderna ripropone l’antica contrapposizione tra mondo urbano e mondo rurale, ma a parti rovesciate: la campagna lancia la sua rivincita nei confronti della città, contro la quale si scaglia con un’inaspettata furia rabbiosa e distruttiva, come testimoniano le recenti vicende dei gilets jaunes francesi. Ma – per contrapposizione – questa ossessione anticittadina non fa altro che raccontare perché oggi, e sempre più nel futuro, l’umanità è e sarà soprattutto umanità cittadina. Questo processo non è naturale, come lo racconta la demografia. È piuttosto un processo politico ed economico, che ha il proprio motore nell’immaginario collettivo di una nuova città: una città, in cui le prese di posizione contano più delle azioni e in cui le relazioni sono spesso ridotte a contatti su piattaforme social media. È questa la cittàche-verrà? O c’è una terza via tra intimità privata e freddezza pubblica, tra ricerca dell’interlocutore personale e burocrazia impersonale? X. La sfida è: quale vangelo per ridare valore alle azioni pubbliche e alle relazioni che in tale agire si esprimono e si rafforzano? Ovvero, quale evangelizzazione per la città-che-verrà? Keyword: terza via.
4. Per
iniziare , non per concludere
Passiamo in rassegna le dieci parole-chiave, in cui si riassume la sfida della città digitale alla teologia e alla pratica dell’evangelizzazione: 1) macchine; 2) darwinismo sociale; 3) marketing politico; 4) fiducia; 5) conoscenza dei fatti; 6) fatica di futuro; 7) bene pubblico; 8) pluralismo; 9) essere-con; 10) terza via.
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Paolo Boschini
Da dove si comincia? Io comincio dalla fine: 10) terza via, perché si tratta di un processo già avviato. In che cosa consiste questa terza via? Lo dico con le parole di Francesco: è la via di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale.55
La terza via è il processo che va dal meticciato (che è un fatto sociale naturale, inevitabile e sempre accaduto) alla fraternità (che è un fatto sociale culturale, derivato da una scelta etica e perciò sempre da costruire): è il frutto della grazia che suppone la cultura.56 Dichiarare la necessità di questo processo dal meticciato alla fraternità significa ammettere che «un urbanesimo amico dell’uomo deve ancora nascere».57 Camminare verso la fraternità è la via verso un nuovo umanesimo urbano. Verso un nuovo umanesimo, e basta.
55 Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 87: EV 29/2193. 56 «La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (ivi, 115: EV 29/2221). 57 Harvey, L’esperienza urbana, 77.
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Fragilità della famiglia in contesto urbano: dipendenze e solitudini
Massimo Cassani*
Il tema della città, che contrassegna questo convegno, è da vari decenni sempre più «frequentato» e investigato da molteplici discipline, che lo esaminano ciascuna secondo le sue peculiari prospettive. È però indubbio che una dimensione qualificante di tali ricerche è quella antropologica, ed è in tale prospettiva che anche un Dipartimento di teologia può interessarsi al tema. Molteplici e vaste sono infatti le ricadute che la città e il «vivere urbano» oggi ha sulla condizione e la vita dell’uomo contemporaneo, in particolare sul senso del vivere comune e la dignità del «cittadino». «Si tratta di un “mondo di città” non solo per l’incremento della popolazione1 e la conseguente, confusa, mutazione delle forme urbane […], ma anche per l’imporsi dello stile di vita cittadino come normativo per bisogni, desideri e sogni di tutta la popolazione, urbana e rurale».2 Ciò interpella in modo sempre più cogente l’etica, sia filosofica che teologica e la pastorale. Il mio intervento vorrebbe occuparsi di alcuni riflessi del vivere urbano in rapporto soprattutto alla famiglia e alle sue dinamiche. Prima però di trattare della famiglia, a titolo di premessa, vediamo di dire qualcosa di più generale in ordine al rapporto tra città e «umanità» dell’uomo.
* Docente stabile di Teologia morale – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected]
1 Stando a dati del 2014, sono ben 536 le città al mondo che, con le loro municipalità contigue, raggiungono il milione di abitanti. 32 fra esse superano i 10 milioni, e la maggioranza di esse si trova in Asia. 2 P. Simonini, «Dignità e responsabilità del vivere urbano. Costruire la città, abitare il mondo», in M. Lombardi Rocci – G. Zeppegno (a cura di), Dignità umana. Dialoghi interdisciplinari: filosofia, scienza e società, Effatà, Cantalupa (TO) 2016, 270-271.
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Massimo Cassani
1. Il
fenomeno dell ’ inurbamento : aspetti etici
Come mai la città esercita oggi un’attrattiva così forte sull’umanità? Molteplici possono esserne le cause e le ragioni. Fra queste, una sembra costituita dal ventaglio di possibilità e di agi che la vita urbana pare offrire, maggiori rispetto alla vita rurale. Le città sono infatti luoghi dove converge e ferve la vita e l’attività sociale, dove sono a disposizione e più facilmente raggiungibili beni, strutture e servizi (scolastici, sociali, sanitari, amministrativi e giudiziari) utili al cittadino, dove si concentra la vita culturale e tante iniziative e proposte a carattere ludico-ricreativo, dove ha i suoi centri decisionali il potere economico e politico tanto nazionale che internazionale, dove sono localizzate le agenzie che offrono lavoro, ecc. Vari però anche i problemi che il rimando alla città pone. Primo fra tutti, stabilire cosa si intenda esattamente per città e quali ne siano i confini o limiti territoriali.3 Ma la città, nel linguaggio odierno, acquisisce un significato più ampio, legato non solo a una territorialità: diventa un simbolo, una metafora per indicare più ampiamente l’ambiente umano, l’intreccio di relazioni entro cui l’uomo contemporaneo vive e agisce. Inoltre, oggi le città, specie le megalopoli, ma non solo, sono anche luoghi dove tendono a riproporsi e cristallizzarsi dinamiche e processi di sfruttamento, esclusione ed emarginazione presenti nel contesto sociale. Basti pensare a certi quartieri o zone depresse e degradati della città, a volte interni al «centro» città, più spesso situati ai bordi, dove talora il grave stato di degrado e di disordine, unito talvolta alla latitanza delle istituzioni pubbliche, produce la paura ad abitarvi o anche solo a entrarvi.4 Ma non è solo lo spazio a dettare le differenze: anche il tempo gioca il suo ruolo. Si pensi alla differente immagine spesso offerta dalle città durante il giorno o di notte (con il corredo di senzatetto che dormono per strada o nelle stazioni, prostituzione, frequenti episodi di violenza e sfruttamento, imbrattamento di edifici, commercio e uso di stupefacenti, blitz delle forze dell’ordine per assicurare un minimo di sicurezza, e così via).
3 Come scrive un esperto in urbanistica, nella città di inizio XX secolo, quando ancora erano rari e poco adoperati i mezzi di trasporto, «i movimenti delle persone si svolgevano tra luoghi chiaramente e stabilmente definiti e riconoscibili: la casa, la fabbrica, l’ufficio, la scuola, il negozio. […] Ogni cittadino esplorava e faceva esperienza di parti ristrette e chiaramente connotate dello spazio urbano. […] Nella città più dispersa di fine secolo ognuno esplora invece un territorio allargato dagli incerti confini e identità. La città ed il territorio divengono, nell’opinione di molti osservatori, una rete, sempre più fitta, sempre più estesa e più difficile da decifrare; entro la quale i movimenti si svolgono in modi spesso imprevedibili, ciascuno seguendo proprie logiche e traiettorie», così che, per il cittadino contemporaneo, almeno in Occidente, l’immagine mentale del proprio territorio «diventa quella di una serie di luoghi, tra loro eventualmente molto distanti e tra loro connessi da una rete materiale e immateriale» (B. Sechi, La città del ventesimo secolo, Laterza, Bari 2005, 152). 4 Si pensi a certi slums o favelas nelle megalopoli del Terzo mondo.
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Fragilità della famiglia in contesto urbano: dipendenze e solitudini
Questione altrettanto rilevante, e che spesso si interseca e si somma con la precedente, è la presenza all’interno della città di persone non «indigene» (= originarie del posto), ma con origini e provenienze assai differenziate. Oggi si deve parlare non solo di un «mondo di città» ma anche di «città-mondo», ossia città che, nella loro composizione, rispecchiano il mondo nella sua varietà e ricchezza, ma anche nelle sue tensioni e diseguaglianze. «La città oggi racconta il mondo più di quanto non fosse in grado di farlo in passato».5 Ciò solleva un duplice problema per la comunità urbana nel suo insieme e in particolare per chi si è assunto il compito di amministrarla: da un lato riconoscere e possibilmente valorizzare il pluralismo etnico-culturale-religioso che contrassegna oggi molte città; dall’altro favorire il dialogo e la necessaria integrazione fra i vari gruppi, esito nient’affatto scontato, perché, come dimostrano le periferie di alcune grandi capitali europee, il pluralismo non o mal gestito, anziché l’integrazione, può alimentare la discriminazione, il senso di esclusione, la rabbia e la conflittualità. Così, la frontiera all’interno della città tra persone integrate ed emarginati vecchi e nuovi è oggi difficile da tracciare con precisione: quella «degli emarginati è pur sempre “l’altra città”, separata dalla prima da nuove e spesso invisibili frontiere che corrono lungo la linea di un potere – il potere di reperire effettivamente nella città la possibilità di un riscatto o cambiamento – concesso ad alcuni e negato ad altri».6 Molti altri problemi e difficoltà pone la città.7 Ma mi fermo qui.
2. La
famiglia nella città oggi
Accennavo sopra al fatto che lo stile di vita cittadino sta vieppiù imponendosi come normativo per bisogni, desideri e sogni di tutta la popolazione, tanto urbana che rurale. E ciò incide in notevole misura anche sul-
G. Piccinato, Un mondo di città, Edizioni di Comunità, Torino 2002, 5. Simonini, «Dignità e responsabilità del vivere urbano», 276. E così conclude: «La dignità dei residenti urbani dipende non solo dall’essere fisicamente compresi nel territorio della città, ma dalle possibilità che una sua adeguata governance è in grado di conferire ai cittadini, facendo in modo che lo siano effettivamente e pienamente». 7 Uno fra i tanti, oggi di rilevante portata, è costituito dagli effetti dell’inurbamento sull’ambiente e sulla natura infra-umana. Squilibri che si ripercuotono in maniera grave sulla salute degli stessi cittadini. Un saggio del problema è offerto da papa Francesco nella enciclica Laudato si’, quando al n. 4 afferma: «Oggi riscontriamo […] la smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili dal punto di vista della salute, non solo per l’inquinamento originato dalle emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano, i problemi di trasporto e l’inquinamento visivo e acustico. Molte città sono grandi strutture inefficienti che consumano in eccesso acqua ed energia. Ci sono quartieri che, sebbene siano stati costruiti di recente, sono congestionati e disordinati, senza spazi verdi sufficienti. Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sempre più sommersi da cemento, asfalto, vetro e metalli, privati del contatto fisico con la natura». 5 6
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Massimo Cassani
la famiglia contemporanea, che risente di tale influsso e delle dinamiche che esso genera. L’influsso è evidente e fortissimo innanzitutto sul piano strutturale, nel passaggio dal modello patriarcale di famiglia (predominante in Italia fino agli inizi del XX secolo) alla famiglia nucleare, composta soltanto dalla coppia genitoriale e dai figli, senza altre presenze. Modello che, malgrado la sua relativa «giovinezza», sembra però, in questo inizio di XXI secolo, essere già superato e sostituito da un ulteriore modello familiare ancor più lontano da quello patriarcale, in realtà pluralistico (è ormai politically correct parlare non più di «famiglia» al singolare, ma di «famiglie» al plurale), spesso composto da famiglie con una sola persona (famiglie unipersonali), o da un genitore con uno o più figli o, più di rado, da coppie omosessuali, con o senza figli. Tale passaggio, caratterizzato comunque dalla costante riduzione numerica dei componenti la famiglia medesima, ha comportato dei vantaggi rispetto a epoche passate (ad esempio: maggiore libertà nella scelta del partner, maggiore intimità familiare, maggiore autonomia nella gestione della famiglia), ma ha generato pure effetti negativi. Ne indico due, particolarmente rilevanti per le ricadute su famiglia e società: a) un suo maggior isolamento sociale, dato che le relazioni sociali sovente coinvolgono soltanto alcuni dei suoi membri (ne sono facilmente esclusi anziani e casalinghe), mentre le relazioni della famiglia in quanto tale sono spesso quantitativamente più scarse rispetto alla famiglia patriarcale (allentamento, ad esempio, dei legami con la parentela); b) sua incapacità, data la ristrettezza numerica, di «assolvere alle vecchie funzioni di solidarietà, assistenza, educazione» che erano invece fortissime nella famiglia patriarcale. Si pensi, ad esempio, al problema degli anziani, che, sempre meno integrati e assistiti dalla famiglia, sempre più devono essere presi in carico dalle istituzioni sociali. L’odierna tendenza a un’ulteriore frammentazione della struttura familiare non fa poi che acuire tali criticità. Ma alla crisi del modello tradizionale di famiglia hanno contribuito, accanto a quelli strutturali, altri mutamenti di ordine socio-culturale e valoriale, il cui nesso con la città può forse apparire meno evidente e meno definibile nei particolari, ma è comunque reale. Ne richiamo qui alcuni, distinguendo per comodità fra questioni più «interne» alla famiglia e questioni più esterne, attinenti cioè il rapporto della famiglia con la società. Fra quelle ad intra indico: a) il peso crescente assunto nella famiglia contemporanea dalla dimensione affettiva. Viviamo in un mondo spesso frenetico (la quotidianità della vita è caratterizzata da ritmi incalzanti e da un moltiplicarsi di impegni) e caratterizzato dalla precarietà e dall’incertezza. In tale quadro, la famiglia diventa una sorta di luogo di rifugio e di centro affettivo prezioso, che funge da contrappeso agli oneri e frustrazioni della vita professionale e degli impegni pubblici. Così, i sentimenti, l’incontro sessuale, il calore della casa diventano elementi essenziali della vita familiare, gelosamente protetti da ogni intromissione esterna. L’accento posto sull’affet-
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Fragilità della famiglia in contesto urbano: dipendenze e solitudini
tività comporta però anche riflessi negativi sulla stabilità e solidità della famiglia. La vita di coppia viene caricata di attese esagerate. I conflitti all’interno del nucleo familiare acquistano una carica emotiva particolarmente alta e, in una famiglia numericamente ridotta, spesso isolata dalla società e chiusa nella sfera privata, «si presentano “esplosivi” […]. I sentimenti d’amore e di odio coinvolgono pochissime persone; così, sono più frequenti le tensioni tra i coniugi, l’affetto dei genitori per i figli può diventare possessivo e superprotettivo». Aggrava il problema il fatto che vengono a mancare quei preziosi sostegni esterni, come legami parentali o d’amicizia, che rappresentano un aiuto nei momenti di crisi, nel risolvere le eventuali difficoltà che possono emergere (di comunicazione, psicologiche, per «sbandate sentimentali», economiche, ecc.). Anche lo Stato tende ad allentare il controllo e la tutela del matrimonio e della famiglia.8
b) Altra tendenza generale che investe il nostro tempo e la cultura dominante in Occidente è l’individualismo.9 Oggi il baricentro della vita sociale si è spostato dalla famiglia all’individuo e la realizzazione della persona è concepita soprattutto in chiave individuale. La famiglia come istituzione ne esce marginalizzata e svuotata di senso: non è più una realtà sociale eminente; è piuttosto un contratto tra singoli individui, che esprime una loro scelta «privata» e che «si mantiene stabile fin tanto che entrambe le parti ritengono di trarne sufficienti benefici» così da giustificarne la continuazione, ma che «può essere troncato, più o meno a proprio piacimento e in qualsiasi momento, da ciascuno dei due partner».10 Anche dal punto di vista economico la famiglia ha perso la sua rilevanza, perché non più «unità produttiva» e fonte di ricchezza.11 I suoi componenti sono connessi (in vario modo e misura) ai sistemi economico, politico e sociale vigenti, ma appunto più come individui che come membri di una famiglia. I rapporti intrafamiliari rischiano poi di venir compresi, vissuti e regolati, anche dagli ordinamenti giuridici, più in termini di diritti/ doveri individuali e reciproci, che in chiave propriamente «familiare» e
R. Pegoraro, Morale familiare, Piemme, Casale Monferrato 1991, 20. Come scrive Pierangelo Sequeri, «l’uomo della città moderna deve farsi da sé e governarsi da sé, fino a diventare anche nelle questioni religiose, etiche, affettive, imprenditore di se stesso» (P. Sequeri, «Pastorale della città postmoderna. Un annuncio per il popolo dei chiunque», in Il Regno-attualità 63[2018], 440). E ciò, a suo avviso, per la pesante influenza esercitata, in questi ultimi secoli, dalla borghesia intellettuale ed economica: «bourgeois è pur sempre una variante del cittadino, che si è fatto da sé e ambisce a occupare per merito la posizione di prestigio e di potere che l’antica nobiltà aristocratica aveva per nascita ed elezione» (ivi). 10 A. Fumagalli, «Il matrimonio come bene interpersonale. Al di là dell’utile e del piacevole», in Aggiornamenti sociali 56(2005)12, 786. La dissolubilità del vincolo è anzi rivendicata come un vero diritto individuale. 11 La famiglia, che nel modello patriarcale era anche unità produttiva, ora invece tende a ridursi a unità di consumo; il processo produttivo si svolge al di fuori di essa: la famiglia vive del lavoro che i suoi componenti svolgono individualmente fuori casa; in tal modo, le due sfere, quella matrimoniale/familiare e quella professionale/lavorativa, sono separate. 8 9
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comunitaria, ossia nella logica della mutua integrazione tra i componenti e della gratuità. Nelle decisioni non è più considerato il bene comune familiare, prevale la logica sindacale della contrattazione e qualunque idea di rinuncia o di sacrificio per gli altri appare incompatibile con la felicità del singolo. Ma così la famiglia si disgrega e si distrugge. Essa «può dare molto agli individui ed è in grado di essere luogo di realizzazione per ciascuno, ma […] solo se ciascun membro, a sua volta, le dà altrettanto in cambio. Essa non può funzionare a senso unico».12 Fra le questioni più esterne, ne indico altre due: il lavoro e l’educazione dei figli. c) Il lavoro oggi spesso non c’è né, malgrado la buona volontà personale, è agevole trovarlo; anche quando c’è, è spesso precario, con contratti a tempo determinato o di semplice collaborazione. Per giunta, frequentemente comporta ritmi stressanti, con la richiesta di prestazioni sempre più efficienti. In tale quadro, il lavoro non dà più certezze e spesso nemmeno gratificazioni. Varie tipologie contemporanee del lavoro, inoltre, accrescono le difficoltà della famiglia, perché la penalizzano, la mettono ai margini e ne sconvolgono i dinamismi interni,13 e in pari tempo ostacolano la costituzione di nuovi nuclei familiari. Come scrive un sociologo, emerge una sorta di contraddizione, rimasta come latente per tanto tempo, […] tra le richieste del mercato del lavoro e le richieste del rapporto di coppia […]. L’immagine ideale della condotta di vita conforme al mercato del lavoro è il singolo o la singola totalmente mobile, che senza alcun riguardo per i legami e le premesse sociali della sua esistenza e identità fa di se stesso o di se stessa una forza lavoro fungibile, flessibile, cosciente della prestazione e della concorrenza, veste abiti firmati, vola di qua e di là e cambia casa come vogliono la domanda e chi la formula sul mercato del lavoro […] oggi lo stesso mercato del lavoro mette in crisi la maternità e la paternità. I figli, specialmente per le madri, sono come destinati a diventare «ostacoli» nella lotta per la concorrenza divenuta ormai universale. E, paradossalmente, il giorno in cui potremo fecondare e far crescere i feti dentro una macchinetta potrebbe essere salutato come una sorta di coronamento di questa logica che non ammette ostacoli al mercato del lavoro.14
d) L’educazione dei figli costituisce oggi una questione estremamente problematica e complessa, un vero e proprio rompicapo, un labirinto da cui non si sa come uscire. Perché da un lato, effetto della riscoperta
12
M. Baujard, «Le famiglie specchio della società», in Regno-documenti 57(2012)1,
43. 13 Si pensi al lavoro a turni, con possibili orari differenti tra due coniugi entrambi lavoratori; o alla mobilità del lavoro, che non di rado costringe al pendolarismo e allontana, per periodi anche consistenti, i membri dalla famiglia; o ancora al ricorso sempre più frequente e diffuso, da parte di aziende e uffici, al lavoro straordinario, quindi ben oltre l’orario previsto. 14 S. Belardinelli, «Famiglia e procreazione medicalmente assistita», in Bioetica tra natura e cultura, Cantagalli, Siena 2007, 83-84.
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Fragilità della famiglia in contesto urbano: dipendenze e solitudini
dell’affettività sembra essere il posto centrale accordato ai figli. Il figlio/a è molto coccolato/a dai genitori, che riversano su di lui/lei il loro affetto e si preoccupano di soddisfare tutti i suoi bisogni e desideri. D’altra parte, tante sono anche le aspettative che i genitori hanno sui figli, come pure le loro ansie e preoccupazioni. Ma dal punto di vista educativo si registrano carenze e latitanze. Per varie ragioni: – il tempo a disposizione per la formazione dei figli è quanto mai ridotto. Di ciò i genitori sono consapevoli e si sentono in colpa ma non sanno come uscirne. La scarsa presenza dei genitori nell’educazione dei figli comporta un difetto di trasmissione dei valori a livello sociale; – ma non di rado sono i genitori stessi che, preda di un diffuso senso di smarrimento e d’incertezza, non sanno più quali sono i valori a cui educare. Così, «all’incremento dei beni materiali resi disponibili per i figli, sembra corrispondere un decremento dei beni morali e spirituali loro offerti»;15 – il vuoto educativo lasciato dai genitori viene riempito dai messaggi potentemente veicolati dai mezzi della comunicazione di massa, in primis dalla rete informatica, sempre più incisivi sulle nuove generazioni. E non è esperienza solo delle famiglie meno attrezzate sotto il profilo educativo: è oggi dato pressoché comune. La famiglia viene invasa da valori (o pseudo-valori) di riferimento e modelli di comportamento che i figli attingono all’esterno e portano in casa, che spesso le sono estranei e talora addirittura avversati, ma in rapporto ai quali molte famiglie si scoprono impotenti e sconfitte.16 Molti genitori si sentono espropriati del loro ruolo e compito di educatori. Attraverso la diffusione dei mezzi informatici, i fenomeni sociali e le tendenze culturali entrano massicciamente nel quotidiano delle famiglie e lo condizionano pesantemente. Spesso, inoltre, minano o riducono al minimo le occasioni e i tempi per il dialogo e il confronto intrafamiliare, contribuendo ad accrescere quei fenomeni di solitudine e d’incomunicabilità tanto frequenti nella famiglia contemporanea. Anche perché, in una società malata di efficientismo e consumismo, pure il tempo viene valutato e misurato con logiche utilitaristiche e commerciali (cioè in termini di costi e benefici) e «il tempo dedicato alla famiglia non è economicamente redditizio. È redditizio umanamente, ma la società non sa come dargli valore».17
15 Il Terzo rapporto sulla famiglia in Italia, del 1993, a cura del Centro internazionale di studi sulla famiglia di Milano coordinato dal sociologo Pierpaolo Donati, parlava, specie per le aree più modernizzate, di una «presenza genitoriale forte sotto il profilo materiale e affettivo, ma debole e incerta sotto il profilo degli orientamenti e dei sostegni culturali». 16 Penso qui in particolare all’educazione alla fede e ai valori cristiani, che costituisce oggi una difficoltà enorme per tantissime famiglie credenti. 17 Baujard, «Le famiglie specchio della società», 41.
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Resta vero, d’altra parte, che le famiglie in genere, anche quelle cristiane, e la comunità ecclesiale nel suo complesso manifestano una certa inadeguatezza e difficoltà a capire il proprio tempo, con le sue evoluzioni, e a saper adeguare e rendere attraente la loro proposta formativa. Come scrive Sequeri, «la comunità cristiana parla ancora “una lingua vetero-umanistica, la cui astrattezza moralistica riesce al massimo a costituire un codice di comunicazione interno” (Giuliano Zanchi)»,18 con due deficit in particolare: a) il fatto di elaborare e fornire principi che meritano di essere assimilati e fatti valere, ma senza la capacità di accompagnare i processi che abilitano alla loro comprensione e attuazione; b) l’incertezza e l’inerzia a trovare modalità che, nella complessità dell’oggi e del suo ethos, abbiano una qualità «testimoniale» convincente e credibile agli occhi dei giovani e della gente in genere.
3. I
casi considerati
In questo quadro della città e della famiglia, appena abbozzato e così complesso, le questioni che si potrebbero esaminare sono tantissime. Soffermerò la mia attenzione su due, molto ricorrenti nel vissuto quotidiano delle nostre città e famiglie e fra le più gravi per l’incidenza quantitativa e gli effetti che generano: le dipendenze e la solitudine. Ne tratterò riservando una peculiare attenzione alla realtà di Bologna, la più grande tra le realtà cittadine presenti nella nostra regione: ciò in ossequio alla sensibilità «localistica» che contraddistingue l’origine della FTER, e in particolare proprio del Dipartimento di Teologia dell’Evangelizzazione (DTE).
3.1. Le dipendenze Le dipendenze sono fenomeni in cui, a partire da una iniziale esperienza di soddisfazione in relazione a uno specifico bisogno o desiderio, si genera gradualmente una situazione in cui la persona sempre più frequentemente sceglie e ricerca quella medesima soddisfazione, fino a giungere a uno stato nel quale il soggetto agisce in modo ripetitivo e spesso compulsivo. Finisce così per diventare schiavo di ciò che lo attrae. In molti casi, inoltre, per raggiungere il medesimo grado di soddisfazione e di piacere, occorre aumentare i tempi o le dosi di assunzione, mentre, per contro, l’assenza o l’astinenza producono uno stato di sofferenza crescente. Si riscontrano frequentemente tra giovani e adolescenti, perché in questa fase della vita la persona compie passi e scelte decisivi nel processo di autoconsapevolezza e nel cammino di ricerca e costruzione di una
Sequeri, «Pastorale della città postmoderna», 440.
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propria identità, momento importantissimo e affascinante ma che si rivela spesso arduo e ricco di incognite e di insidie. Ma non sono affatto un problema esclusivamente giovanile. Al contrario, investe tutti i momenti e le fasi della vita umana, e pare avere il suo picco in altri periodi.19 In linea di principio le dipendenze non possono equipararsi a una malattia, perché, dipendendo da una iniziale scelta della volontà, i soggetti colpiti possono decidere, con analogo atto volontario di segno opposto, di rinunciare alla sostanza o attività pericolosa, e così, pur sperimentando la fatica della rinuncia, determinare la propria guarigione, ciò che invece non è possibile per le malattie organiche, come tumore o diabete. Le cose, tuttavia, non sono in genere così semplici, perché quando si giunge a parlare di dipendenza in senso stretto, ci si riferisce a situazioni in cui il soggetto non riesce più a svincolarsi da solo (la dipendenza investe cioè in profondità il piano psichico, e nei casi più gravi si manifesta anche su quello fisico) e ha bisogno dell’aiuto di terzi per uscirne. Le dipendenze possono essere di vario tipo; le più conosciute, anche perché più tradizionali, sono quelle: – da droga (tossicodipendenze);20
19 A titolo esemplificativo: nel Rapporto 2017 sulle dipendenze in area metropolitana (https://www.ausl.bologna.it/eventi/current/auslevent.2018-09-12.4521171348) pubblicato nel 2018 dall’Azienda USL di Bologna in collaborazione con l’Osservatorio epidemiologico metropolitano dipendenze patologiche (sarà la fonte principale cui attingerò parlando delle dipendenze nel bolognese), l’età media dei consumatori «problematici» di sostanze stupefacenti noti ai servizi sociali è stata nel 2017 di 40,6 anni e negli anni precedenti era di poco inferiore (nel 2009 ad esempio era di 37,0). Analogamente per quanto riguarda l’abuso di alcolici (età media nel 2017: 49,1) e il gioco d’azzardo (età media 2017: 49,6). E questa (si noti) è solo l’età media: segno che molti consumatori sono ben più anziani. Ciononostante, il fenomeno dello «sballo» (legato soprattutto all’abuso di alcool e di droghe) è spesso collegato nell’immaginario collettivo ai giovani, così che fa apparire in secondo piano altri protagonisti delle medesime dipendenze. 20 Secondo un report dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2012, tra la popolazione mondiale il numero di persone di età compresa fra i 15 e i 64 anni che hanno fatto uso di sostanze illegali almeno una volta varia tra i 153 e i 300 milioni, pari al 3,6-6,6% della popolazione, e tra questi coloro che ne fanno un uso problematico sono il 12%. Le morti correlate all’uso di droga sono pari allo 0,5-1,3% delle morti totali nella popolazione adulta. Per quanto concerne specificamente Bologna, un dossier del maggio 2018 realizzato dalla sede locale dell’Associazione libera dall’emblematico titolo «Bologna crocevia del traffico di stupefacenti. R.I.G.A.» (www.liberabologna.it/dossier/bologna-crocevia-dei-traffici-di-droga/) afferma che la città felsinea è un mercato ricchissimo e a flusso continuo, centro di smistamento ma anche uno dei principali luoghi di consumo poiché qui esiste una grossa fetta, molto più ampia che in altre città, di consumo non problematico o scarsamente problematico, quindi non rilevato nei dati ufficiali che conteggiano solo individui che passano attraverso i servizi sanitari pubblici (SERT [= Servizi per le dipendenze patologiche delle Aziende Usl], ospedale, pronto soccorso) e considerano solo il «consumo problematico». Contiene anche un altro dato interessante: in Emilia-Romagna la quantità di droga sequestrata nell’anno 2017 è stata 10 volte quella sequestrata l’anno precedente (15.334,09 chili nel 2017 contro i 1.502,38 del 2016 e i 922 del 2014). Lo spaccio di stupefacenti in strada è gestito in larga parte da stranieri (79% a Bologna, oltre il 50% nelle altre piazze della regione), ma dietro ci sono mafie locali (’ndrangheta in primis, ma anche camorra, Cosa nostra e mafie straniere) che, accordatesi tra loro e liquidati i pusher, reinvestono i soldi guadagnati col narcotraffico in attività economiche varie
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– da alcool (alcoolismo);21 – da sesso (prostituzione, pornografia, pedofilia); – da fumo (tabagismo). Ma oggi ve ne sono altre, più recenti, frutto del progresso tecnologico, difficili da quantificare con precisione (data la loro novità ma soprattutto la dimensione privatistica e nascosta del loro vissuto), ma non meno nocive e pericolose: – la dipendenza da cellulare; – l’Internet Addiction Disorder, ossia la dipendenza da internet, che nella sua modalità più estrema, denominata hikikomori (che in giapponese significa «stare in disparte»), comporta una forte compromissione delle relazioni sociali e dell’attività scolastica e un’autoreclusione in un mondo parallelo e virtuale.22 Legate a internet sono pure altre dipendenze:
che nulla hanno a che fare con gli stupefacenti. Conferma la si è avuta nel 2015 col processo Aemilia contro la mafia locale, un terremoto giudiziario che ha infranto l’idea (fin lì accarezzata) che la nostra regione costituisse un’isola felice libera dall’azione della mafia. 21 Sempre l’OMS (2014) riporta che il 4,1% della popolazione mondiale presenta un disturbo correlato all’uso di alcool, diffuso in misura maggiore in Europa (7,5%) rispetto alle altre aree geografiche. Per quanto riguarda l’Italia, la percentuale totale è pari all’1%; a soffrire di un disturbo alcool-correlato sono in misura quasi doppia gli uomini (1,3%) rispetto alle donne (0,8%). Per quanto concerne Bologna, il Rapporto 2017 rileva un aumento dell’abuso di alcool tra i giovani (con picchi, per i maschi, nella fascia 25-29 anni e per le femmine addirittura nella fascia 15-19 anni) e, cosa ancor più preoccupante, vi si legge che «tra i giovani di età compresa tra 18 e 29 anni emerge un processo di normalizzazione dell’abuso degli alcolici, fenomeno che sembra tollerato, accettato e condiviso da ampi strati della popolazione giovanile». 22 Il fenomeno è molto diffuso nel Paese del Sol Levante, dove avrebbe ormai raggiunto il milione di adepti, ma sta rapidamente diffondendosi anche altrove, Italia compresa (cf. www.hikikomoriitalia.it/p/chi-sono-gli-hikikomori.html). Secondo una indagine promossa dall’Ufficio scolastico regionale nel novembre 2018 (www.hikikomoriitalia.it/p/emilia-romagna-lusr-pubblica-i-primi.html) e che ha riguardato 687 scuole della regione, di vario ordine e grado (elementari, medie e superiori), in Emilia-Romagna sono stati segnalati 346 casi di alunni (164 maschi e 182 femmine, in maggioranza di età compresa tra i 13 e i 16 anni) che dapprima fanno molte assenze e poi finiscono per non andare più a scuola, si chiudono in casa, più precisamente in camera loro, e tagliano i ponti col mondo esterno, avendo come unico strumento di contatto internet. Le motivazioni alla base della scelta sono legate alle forti pressioni sociali che sperimentano e al rifiuto delle regole e dei dettami della società. L’indagine riferiva una casistica che andava da alunni che avevano fatto fino a 40 giorni di assenza a scuola ad altri che avevano fatto oltre 100 giorni di assenza. A Bologna città si stima che i casi siano un centinaio, fra casi conclamati e sommerso. Su scala nazionale, secondo i dati di un recente convegno (fine novembre 2018) tenutosi a Bergamo, i ragazzi che si estraniano completamente dalla società per rinchiudersi nella propria stanza e comunicare esclusivamente tramite i social oppure, più frequentemente, divenire schiavi dei videogiochi online, su cui passano notti intere, in Italia oggi sono circa 128.000, ma ciò che preoccupa maggiormente è la rapidità del loro incremento (6 mesi prima, nel maggio 2018, erano «solo» 100.000). Altro dato preoccupante, la durata dell’isolamento: «Solo il 14,2%, infatti, è ritirato da meno di un anno. Il 34% si trova in tale condizione da 1 a 3 anni, il 41,7% dai 3 ai 10 anni e, nel 10,1% dei casi, il ritiro si protrae da oltre un decennio» (www.tecnicadellascuola.it/ sempre-di-più-i-ragazzi-hikikomori-in-italia). Interessanti anche i dati circa lo stato civile dei genitori, «dove emerge un’incidenza rilevante di coppie divorziate (27,4%). In generale,
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– la ludopatia (dipendenza da gioco d’azzardo attraverso i videogiochi);23 – la pornodipendenza (quando il sesso online diventa ossessione e l’individuo passa fino a 20 ore davanti al computer a guardare pornografia e a masturbarsi, con conseguenze psichiche gravi, senso di colpa altissimo e crollo dell’autostima, fino al punto di desiderare di togliersi la vita);24 – disordini alimentari gravi (obesità, anoressia e bulimia); – forme varie di bullismo e cyberbullismo (con i deleteri effetti che comporta su altri adolescenti e giovani, vittime di tali comportamenti, finanche al suicidio). Alla base delle dipendenze spesso vi è una visione edonistica della vita e un’insufficiente considerazione delle conseguenze delle proprie scelte e azioni. Ma altri fattori possono incidere sul problema e acuirlo (ad esempio il contesto sociale e/o familiare, situazioni di stress). Va aggiunto che le dipendenze: a) spesso si assommano e interagiscono l’una con l’altra;25 b) producono effetti gravissimi: – in primo luogo sul soggetto che ne soffre, che gradualmente vede ridursi il suo spazio di libertà e di responsabilità individuale, fino a finire in stato di totale ripiegamento su se stesso, con riflessi negativi
oltre un terzo dei figli (39,9%) vive con solo uno dei due genitori, oppure con entrambi ma non simultaneamente, e il 19,4% delle famiglie sono composte da soli due membri» (ivi). 23 I giochi d’azzardo più diffusi sono: le videolottery e le slot machine (spesso chiamate videopoker), i gratta e vinci, il lotto e il superenalotto, i giochi al casinò, il Win for life, le scommesse sportive o ippiche, il bingo, i giochi online con vincite in denaro (ad esempio poker online). L’eccitazione e il brivido legato al desiderio di vincere somme consistenti e arricchirsi in breve tempo è spesso all’origine di questa dipendenza. In Italia ne soffrono quasi 700.000 persone e comporta un giro d’affari di 86 miliardi di euro all’anno. Molti giocatori dilapidano il loro patrimonio, finiscono prede degli usurai e riducono in miseria se stessi e le loro famiglie. «Nell’area metropolitana di Bologna si stima una prevalenza di 1,78 giocatori problematici ogni mille residenti» (Rapporto 2017) e il numero di soggetti che si presentano ai SERT per problemi legati al gioco è schizzato, in soli 9 anni, da 32 persone nel 2009 a 200 nel 2017 (= + 625%). 24 Come già rilevato sopra, la dipendenza da sesso e da pornografia c’è sempre stata; ma negli ultimi anni è aumentata in modo esponenziale proprio a causa della fruibilità di questo materiale sul web. 25 Ad esempio uno studio del 2017 condotto nell’area metropolitana di Bologna sull‘abuso episodico di alcolici tra giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni (R. Pavarin, «Heavy episodic drinking among youngster aged 18-29. Preliminary results of a study performed in the Metropolitan Area of Bologna», in Rivista Italiana di Medicina dell’Adolescenza 15[2017], 35-39) ha evidenziato come tra loro, nel corso dell’ultimo anno, l’80% ha fatto anche uso di tabacco, il 62% di cannabis, il 12% di MDMA, l’11% di cocaina, il 7% di speed o anfetamine. Analogamente una ricerca condotta in Nord Italia su soggetti con problemi di ludopatia (R. Pavarin – C. Zenesini – C. Fioritti, «Estimate of the prevalence of subjects with gambling-related problems requiring treatment: a study in Northern Italy», in Annali dell’Istituto Superiore di Sanità 53[2017], 322-339) ha rilevato come 1 su 3 soffre di altri disturbi mentali, il 9% ha dipendenza da alcool, l’8% da sostanze stupefacenti; segnalava inoltre il basso livello di scolarità e l’alto numero di disoccupati.
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sulla sua salute psicofisica, l’autostima, la regolazione degli affetti, il controllo degli impulsi, la capacità di prendersi cura di sé26 e, in ultimo, alti rischi per la sua stessa sopravvivenza;27 – ma poi anche sulla sua famiglia, che vede sconvolto e trascinato in un vortice negativo, a volte davvero infernale, l’intero ménage familiare; e spesso, alla lunga, ne provoca il dissesto; – sull’intera società, perché detti comportamenti risultano socialmente e moralmente dannosi, offrono input negativi alle generazioni più giovani, e conducono a un incremento della criminalità e di comportamenti socialmente a rischio (per esempio, guida in stato di ebbrezza); spesso, inoltre, richiedono interventi terapeutici in strutture sanitarie, con relativi esborsi a carico della collettività. Scaricare però la responsabilità del fenomeno prevalentemente sui giovani è non solo falso, come da statistiche, ma profondamente ingiusto, giacché l’aumento delle dipendenze, non solo nella quantità ma nella intensità, non si può capire se non in relazione alla più complessiva crisi di valori che colpisce oggi le nostre società, specie qui nel ricco Occidente, e a modelli comportamentali e culturali (per esempio: individualismo, aggressività e violenza diffuse, idolatria dell’avere e della ricchezza, primato delle apparenze e del virtuale, competitività esasperata, razzismo e nazionalismo, ecc.) che non sono certo stati inventati dai giovani, ma che su di loro hanno particolari effetti e visibilità, e che in pari tempo rendono sempre più difficile la convivenza e l’armonia sociale.
3.2. La
solitudine
Veniamo al secondo argomento: la solitudine. I fondamentali della questione dal punto di vista sociologico e statistico sono forniti dal Comune di Bologna in alcune pubblicazioni. La prima relativa a Le tendenze demografiche a Bologna nel primo semestre 2018. Da essa si apprende che le famiglie residenti in città sono 207.178 ma che tra le famiglie, i nuclei unipersonali sono di gran lunga i più numerosi (107,441, pari a oltre la metà delle famiglie bolognesi; 51,9%). Spesso però comprendono situazioni in cui più famiglie anagrafiche condividono l’alloggio con altre […]. Le persone effettivamente sole (che non coabitano cioè con altri nuclei familiari) sono circa 75.400 […] il 40,8% dei ménages residenti in città.28
26 Nel caso degli hikikomori, ad esempio, un dato rilevante è l’abbandono scolastico e un altro è l’inversione del rapporto sonno-veglia, giacché questi ragazzi vivono e chattano di notte. Un altro elemento di preoccupazione è l’aumento esponenziale dei casi di autismo, dovuto alla massiccia esposizione a campi magnetici e onde radio. Secondo uno dei maggiori esperti a livello internazionale, il pediatra prof. Burgio, negli USA si è passati da 1 caso di autismo ogni 1500 abitanti del 1980 a 1 ogni 68 abitanti del 2018, mentre in Gran Bretagna addirittura le diagnosi di autismo sono 1 ogni 59 abitanti. 27 Casi classici sono il decesso per overdose per i drogati o per cirrosi per gli alcolisti. 28 A livello nazionale le cose sembrano andare meglio: secondo dati ISTAT del 2011 le famiglie unipersonali in Italia sono il 31,1% del totale. Ma è impressionante il tasso di
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In base ai dati di un altro rapporto inerente La fragilità demografica, sociale ed economica nelle diverse aree della città del settembre 2018, come ulteriore fattore di complessità e fragilità sociale va poi registrata la percentuale di ultrasessantacinquenni (nelle statistiche comunali denominati «anziani») che vive sola: al 31/12/2017 ammontavano a 29.980 unità, pari al 30,6% della popolazione residente di 65 anni e oltre. Ciò significa che un terzo degli anziani vive solo. Sono i più esposti al rischio della solitudine intesa non solo come condizione fisico-abitativa, ma come mancanza di relazioni sociali significative. Nel novero dei residenti anziani (= ultrasessantacinquenni) si riscontra poi un progressivo aumento dei «grandi anziani», cioè persone che hanno già compiuto gli 80 anni, e dei centenari. Ciò significa inevitabilmente l’aumento di alcune patologie, specie le demenze, che necessitano di interventi sempre più specializzati e individualizzati e richiedono protocolli di assistenza domiciliare, residenziale, semiresidenziale. In totale, ammonta a 6002 il numero di anziani che a Bologna città (sempre al 31/12/2017) risultavano in condizione di fragilità sanitaria alta o molto alta, pari, concludeva il rapporto, «al 6,15% del totale degli anziani». Non viene precisato quanti di essi vivano soli. Ma qui si inserisce un altro dato che emerge da un’altra indagine condotta congiuntamente dalla Città metropolitana e dal Comune di Bologna (La qualità della vita nella Città metropolitana e nel Comune di Bologna. Indagine 2018): relativamente al tenore di vita dei bolognesi è stato chiesto di quantificare la gravosità dell’impegno per anziani a carico, dato che, dice il rapporto, «circa 1/3 delle famiglie metropolitane si deve occupare di almeno un anziano in difficoltà». Esito: per la metà delle famiglie, corrispondenti al 15% dell’intera popolazione e senza particolari differenze tra la città e gli altri distretti, «l’impegno risulta alquanto gravoso», però il grado di pesantezza è influenzato dalla disponibilità economica: «con il miglioramento del tenore di vita si riduce la quota di coloro che faticano a gestire il familiare anziano bisognoso di cura». Altra annotazione importante: «La presenza di un anziano da accudire si ripercuote anche sull’emotività degli individui coinvolti, porta infatti a dare valutazioni inferiori sia del contesto di vita che della propria esistenza». In relazione a questo in data 10/1/2019 il Resto del Carlino nella cronaca cittadina riportava tre casi, avvenuti in città tra il 2015 e il 2018, di omicidi di genitori o coniugi anziani da parte di familiari che poi si sono tolti la vita. E secondo il parere di un esperto, psichiatra forense, «il fenomeno è in crescita» e assume i contorni di una vera emergenza sociale, frutto da un lato dell’allungamento della vita (si parla oggi sempre più di «quarta età») e dall’altro del fatto che, come rilevato all’inizio, le famiglie sempre più numericamente ridotte fanno fatica ad accollarsi il peso degli
crescita del fenomeno: nel 1971 erano il 12,9%. Ciò equivale a un incremento in 40 anni del 241%. Ma in altri Paesi europei la situazione sembra ancora peggiore della nostra: nel Regno Unito, nel gennaio 2018, è stato istituito il Ministero della solitudine.
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anziani e d’altra parte le strutture dedicate hanno lunghe liste d’attesa e costi esosi per molti, mentre non tutti possono contare sull’aiuto di badanti. Quando poi sussistono stati di demenza le situazioni si complicano ancor più perché, dice lo psichiatra, nel parente che accudisce diventa via via frustrante confrontarsi ogni minuto con familiari che non ti riconoscono più, da gestire come bambini. Ci possono essere situazioni di crollo, dove la soppressione del malato è vista come un gesto salvifico di fine sofferenza, un passo spesso da fare insieme. In psichiatria si parla di omicidio-suicidio altruistico.29
4. A
titolo di conclusione : alcune considerazioni pastorali
Abbiamo parlato di città e famiglia e ho provato a fotografare due situazioni critiche che le famiglie oggi non di rado si trovano ad affrontare. Poiché la mia relazione si inquadra nell’ambito del vedere, vuole mettere in luce tendenze e dinamiche socio-collettive in atto nella città contemporanea, senza la pretesa di indicare linee di soluzione e superamento dei problemi individuati. Cosa, peraltro, nient’affatto facile, data la complessità e varietà delle situazioni e la molteplicità delle conoscenze e competenze necessarie. Permettetemi tuttavia di porre un’ultima domanda: in questo quadro, la comunità cristiana, e le famiglie che la compongono, cosa possono fare? O, meglio ancora, che cosa possono testimoniare con le loro stesse esistenze? Perché è certamente di primaria importanza la qualità «testimoniale» del proprio stile di vita, tanto personale che comunitario. Ma dove, in quali ambiti, data la situazione descritta, può risultare decisiva la testimonianza cristiana? Provo telegraficamente a indicare tre ambiti che a me paiono particolarmente significativi e in rapporto ai quali formulo degli auspici. 1) Sul piano interpersonale e intrafamiliare, auspico che le famiglie cristiane continuino oggi a testimoniare la verità «umana» primaria e universale della loro identità, ciò che la famiglia è nel progetto di Dio e che tante famiglie hanno cercato nel corso dei secoli di realizzare: essere luogo ed esperienza originaria di amore gratuito e oblativo, di solidarietà fra i generi e le generazioni, di comunione, di affetto, di attenzione ai più piccoli e agli ultimi, di perdono reciproco continuamente richiesto e ridonato. Con una particolare sottolineatura che porrei sulla dimensione della festa, altro momento forte del vissuto familiare, perché coinvolge tutti e include l’aspetto della prossimità (= il saper stare accanto alle persone) coniugato però con la gioia, a sua volta legata alla speranza (la virtù, fra le cardinali, oggi a mio avviso più dimenticata e svilita).
29 Intervista a Renato Ariatti, psichiatra, in Il Resto del Carlino Bologna del 10 gennaio 2019, 3.
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2) La rilevanza del compito educativo: auspico che, malgrado la complessità e fatica dell’impresa, le famiglie oggi non abdichino o non deleghino ad altri tale compito. Al riguardo illuminanti e per molte persone innovative, sono le considerazioni sul tema proposte da papa Francesco nella recente esortazione apostolica Amoris laetitia capitolo 7, che invito a rileggere e che insistono sulla necessità di «generare processi più che dominare spazi» (n. 261: EV 32/490). Aggiungo che oggi, in rapporto alle sfide dell’attualità, diviene sempre più importante una «educazione digitale», tanto per bambini e giovani, quanto per i loro genitori, che rappresenta un ambito assolutamente nuovo e, per molte famiglie, pressoché inesplorato. 3) A livello sociale, auspico una comunità cristiana (e le famiglie che la compongono) che si facciano parti attive nel contrastare e opporsi a dinamiche oggi molto diffuse e culturalmente di moda improntate alla paura dell’altro, in particolare del diverso, alla chiusura e all’isolamento, alla costruzione (anche solo metaforica) di «muri», all’aggressività, alla violenza e che, al contrario, siano capaci di sensibilizzare l’intera comunità cittadina sulla bellezza e importanza di promuovere atteggiamenti di tipo solidale e di «presa in carico». Azioni che, tanto per tornare alle situazioni sopra esaminate, non scarichino tutto il peso delle situazioni di dipendenza o di anzianità e malattia solo sulle famiglie coinvolte e sulle strutture sanitarie preposte, ma sappiano ripensarle in una logica più comunitaria e solidaristica. Perché ci sono dinamiche sociali e culturali e opzioni che favoriscono dipendenze ed emarginazioni, altre che invece possono ostacolarle e porre loro un argine. Tra queste ultime evidenzierei le quattro «virtù» pastorali su cui papa Francesco continuamente insiste e richiama in Amoris laetitia: accoglienza, ascolto, discernimento e integrazione. Quattro atteggiamenti che vanno promossi non solo in ambito ecclesiale, ma a livello collettivo, perché contribuiscono fortemente alla prevenzione o cura di sentimenti negativi e abitudini pericolose. Si tratta, però, di compiti e responsabilità che investono tutti (singoli, famiglie, comunità ecclesiale, società) e che ognuno deve sforzarsi di riconoscere e assumere, nei limiti delle sue capacità e possibilità. Terminerei aggiungendo che se essi ricevono senso e giustificazione già in un’ottica puramente umana e razionale, tuttavia nella fede e nella vita ad essa ispirata sperimentano la presenza di una luce e di una forza particolari, che possono esistenzialmente costituire un enorme incentivo e aiuto, sul piano personale e comunitario.
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Guardare la città alla luce dei quattro principi di papa Francesco
Matteo Prodi*
Come sarà il mondo futuro è una domanda molto affascinante; certamente, molto dipenderà dalla vita che sapranno offrire le grandi città. Per questo abbiamo bisogno di capire come la teologia, e la teologia morale in particolare, possa pensare allo sviluppo dei grandi agglomerati urbani. Anche questo fa parte della necessaria ricaduta sociale dell’evangelizzazione. Il mondo che desideriamo, basato sulla fratellanza, deve guidare il nostro pensiero anche riguardo alle città.
1. Uno
sguardo sulle città
1.1. La demografia Alcuni dati testimoniano l’importanza per il nostro vivere delle città: Già oggi più della metà del pianeta è antropizzato. Il 54% dell’umanità vive in aree urbane, il 25% in città da oltre un milione di abitanti, l’8% in megalopoli con più di dieci milioni di persone. La concentrazione umana in ristretti quanto informi ambiti metropolitani produce ingovernabilità e accende conflitti. Le megacities pullulano di zone impenetrabili dai poteri formali, contese tra bande in competizione per il controllo di traffici e risorse.1
* Docente incaricato annuale di Teologia morale – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected] 1 «Editoriale», in Limes 2(2017), 10. Per megacity spesso si intende una città con almeno dieci milioni di abitanti.
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Le città nel mondo crescono in numero e dimensioni. Nel 2000 esistevano 371 città con almeno un milione di abitanti; nel 2018 erano 548; potrebbero essere 706 nel 2030. Mentre il numero delle megacity potrebbe passare da 33 (2018) a 43 nel 2030. Aumenterà anche il numero delle città con almeno cinque milioni di abitanti, ma anche di quelle che superano i 500.000.2 Un altro dato è interessante: nel 2018 circa il 23% della popolazione mondiale viveva in città con più di un milione di abitanti; nel 2030 si prevede che saranno circa il 28%.3 La crescita della popolazione che risiede nelle città è un fenomeno globale.4 Non tutti gli studi concordano su questo trend.5
1.2. I problemi
delle città
Non è raro che chi abita nelle grandi metropoli, pur ammettendo che offrono grandi opportunità, le descriva sempre più come luoghi infernali, invivibili. Da sole, le città generano fino al 70 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica, consumano e sprecano immense quantità di acqua e producono montagne di rifiuti, in senso letterale. Eppure le città – che già hanno l’evidente vantaggio di concentrare la popolazione in aree limitate, lasciando più spazio alla natura – potrebbero salvare noi e il pianeta. A patto che siano progettate secondo nuovi criteri urbanistici e ambientali.6
2 Cf. Onu, Data Booklet, The World’s Cities in 2018. Se non specificato ulteriormente, i dati statistici sono presi da questo lavoro dell’Onu. 3 Parallelamente, calerà la popolazione rurale. Crescerà anche il peso delle megacity: i loro abitanti passeranno dal meno del 7% della popolazione mondiale al quasi 9%. La maggior parte delle megacity è collocata nell’emisfero Sud; Delhi nel 2030 sarà la più grande città del mondo superando Tokio. 4 Nel Nord America più di metà della popolazione viveva nel 2018 in città con più di 500.000 abitanti. L’America Latina e i Caraibi sono la regione con la maggior percentuale di persone che vivono nelle megacity: 14,2% della popolazione della regione sono concentrati in sei megalopoli da più di dieci milioni di abitanti. In Africa il numero delle città con 500.000 persone è destinato a crescere, dal 2018 al 2030, del 57%; del 23% in Asia. 5 Un libro in controtendenza, infatti, afferma: «Disoccupazione, saturazione dello spazio, inquinamento, tensioni identitarie: anche le metropoli soffrono di quelle che i geografi chiamano “diseconomie di scala”: aumento dei prezzi immobiliari, spreco di tempo nei trasporti urbani, scomparsa degli spazi pubblici, rischi della sicurezza individuale ecc. La combinazione di questi fattori avversi sta già producendo i suoi effetti, e molte famiglie lasciano le metropoli in cerca di migliori confort. Alcune grandi città come Parigi, inoltre, registrano saldi migratori sempre più negativi: secondo le ultime stime sette abitanti su dieci vorrebbero abbandonare l’area metropolitana della capitale francese […]. Sono finiti i tempi dell’ideologia della metropolizzazione, del big is beatiful. E con loro quelli dell’ipermobilità. I politici locali della Francia periferica hanno individuato perfettamente il punto morto del modello economico e territoriale attuale, per questo cercano di sviluppare una nuova governance locale […]. Il declino urbano non è un processo nuovo nella storia, anzi è già stato osservato molte volte in diverse epoche, sia in molte piccole e medie città, sia in grandi agglomerati come Londra (tra il 1950 e il 1972) o New York (tra il 1970 e il 1980). La crisi del modello territoriale è il sintomo del crollo di un sistema che ha fallito su un punto essenziale: creare società» (C. Guilly, La società non esiste. La fine della classe media occidentale, LUISS University Press, Roma 2019, 151). 6 M. Cattaneo, «Il futuro dell’area urbana», in Le Scienze (settembre 2017)589, 3ss.
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Va ricordato, però, che ci sono città che vedono diminuire le persone al loro interno; questo per vari motivi: disastri naturali (New Orleans a seguito dell’uragano Katrina), crisi economiche (Detroit e Buffalo), tassi di fertilità bassissimi (Italia). Una parola in più va spesa per le calamità naturali: di 1146 città con almeno 500.000 abitanti nel 2018, 679 (59%) erano esposte pesantemente ad almeno una di queste potenziali catastrofi: cicloni, inondazioni, siccità, terremoti, frane ed eruzioni vulcaniche. Ciò vuol significare che circa un miliardo e mezzo di persone sono sotto la concreta minaccia di una di queste calamità. Probabilmente, però, la vera calamità per le città è l’inquinamento atmosferico.7 Con ragionevole certezza si può affermare che ogni anno oltre 400.000 cittadini in Europa muoiano prematuramente a causa della cattiva qualità dell’aria: si tratta di dieci volte il numero di morti per incidenti stradali. Altri milioni di cittadini soffrono di malattie respiratorie e cardiovascolari causate dall’inquinamento atmosferico. Le città contribuiscono largamente alla crescita delle emissioni nocive: è, quindi, essenziale capire come si inquini e quali pratiche possano migliorare la situazione, partendo dai contesti urbani con un approccio che si sviluppi ad ogni livello e direzione. Le misure intraprese in diversi settori e a diverse scale di intervento portano a impatti sulla qualità dell’aria che sono specifici della singola città; le azioni non sono efficienti in egual misura in luoghi diversi. Ma ogni contesto urbano ha molte carte da giocare per migliorare la propria aria e quella del pianeta. Per molte città, anche misure rivolte all’agricoltura8 hanno un chiaro vantaggio sulla qualità dell’aria. Inoltre, altre misure possono avere un importante impatto su scala urbana anche se emanate a livello UE o nazionale; è il caso dei trasporti su strada in cui le norme euro sono, in pratica, maggiormente efficaci nelle zone in cui il traffico è più importante, cioè le città. Altre problematiche nelle grandi città sono l’accesso all’acqua potabile9 e il trattamento dei liquidi di scarico. Su queste, come su altri temi di carattere ambientale, l’Italia ha procedure di infrazione e multe dall’UE, perché avrebbe dovuto predisporre entro il 2005 reti fognarie adeguate e sistemi di trattamento secondario prima dello scarico, ed entro il 1998,
7 Cf. P. Thunis – B. Degraeuwe – E. Pisoni – M. Trombetti – E. Peduzzi – C.A. Belis – J. Wilson – E. Vignati, Urban PM2.5 Atlas Air quality in European cities, European Commission. Un altro studio afferma che un quarto delle morti premature e delle malattie nel mondo è collegato all’inquinamento provocato dall’uomo. È l’allarme dell’Onu nel Global Environment Outlook (GEO), il rapporto sullo stato del pianeta. Le emissioni collegate all’inquinamento atmosferico e ai prodotti chimici che hanno contaminato l’acqua potabile mettono infatti a rischio l’ecosistema che garantisce la sopravvivenza di miliardi di persone. Un problema che ha conseguenze anche sull’economia globale. 8 L’agricoltura contribuisce ad almeno il 30% delle emissioni di PM2.5. 9 1,4 milioni di persone perdono la vita ogni anno per patologie che si potrebbero evitare come, ad esempio, le diarree o i parassiti presenti nelle acque contaminate. L’Onu ricorda quanto questi danni abbiano effetti a lungo termine sulle nostre vite. I prodotti chimici rilasciati nel mare sono nocivi per diverse generazioni e 3,2 miliardi di persone abitano su terre rovinate dall’agricoltura intensiva e dalla deforestazione.
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cioè 21 anni fa, un trattamento migliore per le aree più sensibili e più avanzati impianti di trattamento biologico delle acque. La cattiva gestione delle acque reflue riguarda circa 800 comuni sparsi in tutta la Penisola, alcuni molto grandi, come Roma, Firenze, Napoli, Bari e Pisa. È importante gestire ogni fase e uso dell’acqua in modo molto più sapiente di come abbiamo fatto finora. Questo elemento diventerà un fattore centrale per la vita della futura umanità e sarà, purtroppo, fonte di tensioni e guerre ovunque nel mondo. Le grandi città sono responsabili di una quantità infinita di acqua10 ed è assolutamente urgente ottimizzarne l’utilizzo separando ciò che è necessario per l’alimentazione, ciò che deriva da lavaggi di vario tipo e ciò che proviene dagli scarichi dei wc; anche sull’acqua piovana va posta molta attenzione. In ogni caso, l’attuale rapida urbanizzazione in aree con scarsità d’acqua e/o mancanza o invecchiamento delle infrastrutture idriche urbane è una sfida immensa e anche una formidabile possibilità di sviluppare tecnologie e strutture di gestione di prossima generazione. Singapore persegue il recupero centralizzato delle acque reflue per ridurre la dipendenza dalle risorse della Malesia, mentre in Cina i bioreattori a piccola scala di membrana proliferano per le sue città in crescita. Non ci sarà una soluzione valida per tutti, ma con le immense sfide per la UWM (Urban Water Management) davanti a noi, sarà importante accelerare gli sforzi di ricerca e trarre profitto dalle lezioni apprese sulle innovazioni di successo in altri settori.11
1.3. Il
governo delle città
La qualità della vita nelle grandi città dipende, a volte in maniera sostanziale, da chi le amministra. Il ricordo va ad Atene, spesso considerata
10 Alcuni dati desunti dal sito www,arpae.it: «Nella vita di tutti i giorni ogni italiano consuma in media dai 130 ai 140 litri di acqua potabile al giorno con punte che sfiorano addirittura i 300 l/d. Questa cifra, in realtà, può variare a seconda della regione, del clima o semplicemente del modo di vivere di ciascuno di noi. Ciò che consumiamo personalmente ogni giorno solo in minima parte è impegnato per scopi alimentari: il bere e l’uso nella preparazione e nella cottura dei cibi non rappresenta che il 3,5%. Quasi l’intera quantità, il 96,5%, è utilizzata per l’igiene personale, nei sanitari e per tutto ciò che riguarda la pulizia di abiti, oggetti, mezzi di trasporto, nonché della casa stessa. Di questo 96,5% ben il 35% è destinato all’igiene personale e oltre il 31% alle cassette di scarico dei wc. A queste percentuali si aggiunge, poi, un altro 18% per gli elettrodomestici (lavatrice e lavastoviglie). Come è evidente, esclusi gli usi alimentari e igienici, quasi il 60% dei consumi utilizza acqua qualitativamente elevata, in realtà pur non necessitandone. Come dimostrano le percentuali, gli usi non alimentari rappresentano la quasi totalità dei consumi domestici. Questi ultimi, fra l’altro, variano, in relazione alle caratteristiche degli elettrodomestici utilizzati e alle abitudini di ciascuno di noi (alcune lavatrici e lavastoviglie sono più economiche di altre, il volume di acqua consumato nel fare la doccia cambia in funzione della durata, della modalità di utilizzo, della presenza o meno di dispositivi per la riduzione del flusso di acqua e naturalmente di chi la fa). Da tener presente, fra l’altro, che elettrodomestici mal regolati e, soprattutto, mal utilizzati, possono provocare un aumento dei consumi». 11 Cf. T.A. Larsen – S. Hoffmann – C. Lüthi – B. Truffer – M. Maurer, «Emerging solutions to the water challenges of an urbanizing world», in Science (maggio 2016)352, 928-933.
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la patria della democrazia. Non possiamo non lasciarci interpellare dalla crisi della democrazia: In realtà, sembra che i paesi autoritari, con le loro gestibili democrazie incomplete, siano più preparati a competere e a governare un mondo sempre più volubile. Si riapre la sfida per la miglior forma di governo, che dopo il crollo del comunismo sovietico sembrava chiusa.12
La domanda che possiamo farci è a che livello debba giocarsi la democrazia: gli Stati nazionali sono ancora utili all’umanità? Oppure ci possono essere altri modi per governare il mondo di oggi? Qualcuno afferma che sta crollando l’idea della nazione occidentale come casa universale e crescono le identità tribali transnazionali, considerate un nuovo rifugio: tanto il suprematismo bianco quanto il radicalismo islamico prendono le armi contro la contaminazione e la corruzione. La posta in gioco non potrebbe essere più alta. È facile capire dunque perché i governi occidentali tentino disperatamente di dimostrare quello che tutti ormai mettono in dubbio, cioè di avere ancora il controllo della situazione […]. Anche perché i cittadini vogliono disperatamente che l’inganno funzioni: sotto sotto hanno paura di quello che può succedere se si scopre che il potere dello Stato è una bufala.13
Tre sono le direzioni da percorrere per tracciare l’impalcatura della futura politica:14 regolamentare la finanza globale e arrivare a una ridistribuzione globale della ricchezza; pensare a una democrazia globale flessibile, che prenda spunto dal (per il momento rinsecchito) progetto di integrazione europea;15 studiare una nuova concezione della cittadinanza perché tutti possano decidere sul dove poter vivere e possano manifestare le proprie esigenze nei luoghi dove si decidono le loro sorti.16 Dove si esplicita, quindi, il dibattito democratico, per arrivare al bene comune? Se parliamo di grandi città, il tema della crisi degli Stati nazionali non può non intercettare il tema di Barcellona. Crisi profondissima con apice il giorno 1° ottobre 2017, quando si è svolto il referendum per votare l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna. Quali i fattori scatenanti di questa crisi? Secondo la terminologia di papa Francesco: di quale popolo ora stiamo parlando? Cioè: esiste un popolo spagnolo? La storia sembrerebbe dirci di no. E da molto tempo la regione catalana si sente davvero poco
12 S. Karaganov, «La vittoria della Russia e il nuovo concerto delle nazioni», in Limes (2017)2, 100. 13 R. Dasgupta, «La fine degli stati», in Internazionale 25(maggio 2018)1254, 46-47. 14 Cf. ivi, 50. 15 Un progetto che deve essere in grado di superare a monte le crisi regionali come in Catalogna o Scozia. 16 Non c’è dubbio che le popolazioni dell’Afghanistan e dell’Iraq sono state toccate da decisioni prese negli Usa; «quale forma prenderebbe il dibattito politico statunitense se dovesse rivolgersi anche agli elettori in Iraq o Afghanistan?» (Dasgupta, «La fine degli stati», 50).
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spagnola. Non necessariamente è colpa del resto degli abitanti della penisola iberica. Probabilmente si può affermare che vi era la possibilità di scrivere una storia comune. Ma sicuramente questa traiettoria non è stata percorsa: anzi.17 Si può parlare di una certa continua e reiterata umiliazione della Catalogna, anche solo pensando alla sua diversità linguistica. Vi è, inoltre, il tema di quale autonomia sia stata concessa dalla Spagna alle sue regioni: Paesi Baschi, Galizia e certamente anche la Catalogna. Non abbiamo il tempo di sottolineare gli errori di entrambe le parti nel pensare e progettare uno Stato unitario che tenesse conto della diversità al suo interno. Ma la situazione, alla fine, è risultata esplosiva. Da tenere in grande considerazione è il dato economico: la Catalogna produce il 20% del Pil iberico e il 25% delle esportazioni. Regione ricchissima, una delle più ricche dell’Europa. Ma i ritorni in termini di investimenti e di benessere sociale sono stati inferiori alle attese dei cittadini. Infine, vi è la scarsa democraticità della Spagna: il tema sarebbe complesso e dovrebbe tener conto della Costituzione spagnola che tutela l’unità dello Stato, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e la scarsissima capacità dello Stato centrale di gestire le spinte autonomistiche. Tale debolezza democratica si è però mostrata particolarmente evidente allorché la Spagna non è stata capace di dare una risposta politica alla sfida del sovranismo catalano con un referendum concordato, trasformandola invece in una questione giuridica che ha messo in discussione l’indipendenza del potere giudiziario e la separazione dei poteri. Il processo sociale che ha accompagnato il risveglio sovranista catalano mira però a cambiamenti in grado di superare questo caso specifico. Ci troviamo di fronte a un nuovo paradigma di azione politica: la lotta tra una struttura statale del XIX secolo e una nuova logica politica propria del XXI secolo. Qui la spinta popolare – non «populista», come alcuni l’hanno definita per denigrarla – ha preso l’iniziativa. La grande e permanente mobilitazione sociale, più che una reazione di protesta, è stata una proposta costruttiva e, soprattutto, dettata dal bisogno di una radicalità democratica.18
Un altro fattore importante per Barcellona è lo scacchiere internazionale: la Spagna è considerata decisiva dalla Germania e gli Stati Uniti hanno cercato, in un primo tempo, di approfittare di questa tensione per indebolire questo asse europeo, anche a costo di tradire le aspettative di un alleato come la Spagna. Poi, in realtà, hanno fatto marcia indietro. Ma il tema geopolitico rimane. Si intrecciano economia e politica e la domanda resta insoluta: chi ci guadagnerebbe dall’indipendenza catalana?
17 Si pensi anche soltanto alla guerra civile spagnola, dove i catalani erano nemici di Franco, proprio lui che ha consegnato il potere all’attuale dinastia monarchica; ma lo scavo storico dovrebbe arrivare al XII secolo e certamente al 1714: in quell’anno il re borbonico, dopo una durissima repressione e un assedio lungo più di un anno, conquistò Barcellona. Da quel momento, i catalani persero non solo il loro Stato, le loro istituzioni e le loro leggi, ma anche qualunque capacità di decisione politica. 18 S. Cardus Ros, «Madrid se l’è cercata», in Limes (2017)10, 74.
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Sicuramente a perderci, data la quasi assoluta impossibilità che la Catalogna indipendente possa in futuro essere ammessa nella Ue, sarebbe il popolo di Barcellona.
1.4. Geopolitica e aree metropolitane Può, quindi, essere utile studiare la geopolitica per aree più piccole (appunto le grandi aree metropolitane), proprio guardando alla futura distribuzione degli abitanti, alla tutela dell’ambiente e allo sviluppo della democrazia. Come si stanno connettendo queste aree? Possono essere la spina dorsale per una nuova governance globale? «Stiamo edificando questa società globale in assenza di un leader globale. L’ordine globale non è più qualcosa che possa essere dettato o controllato dall’alto: la globalizzazione è, di per sé, quest’ordine».19 Questa davvero potrebbe essere una buona notizia, come se il potere potesse finalmente acquistare una dimensione più diffusa, potremmo dire popolare o, almeno, orizzontale.20 Il grande tema degli ultimi dieci anni, e cioè il sorpasso dell’Oriente sull’Occidente, della Cina sull’America e del Pacifico sull’Atlantico, sta lasciando spazio alla fioritura di un modello multipolare di tante civiltà nel quale continenti e regioni consolidano la loro coesione mentre estendono i propri legami esterni. Latinoamericani, africani, arabi, indiani e asiatici vogliono un mondo di multiallineamenti e di commercio in tutte le direzioni, non di soggezione ai diktat di Pechino o di Washington: e finiranno per mettere le grandi potenze l’una contro l’altra invece di piegarsi a imposizioni unilaterali […]. La stabilità è garantita dall’autolimitazione e dalla fiducia globale fra le potenze.21
Appunto, la fiducia. Dove può essere ricavata la fiducia? Occorre togliere elementi come la paura e l’orgoglio dai rapporti tra le varie potenze in questione. Il regionalismo e la reciprocità possono diventare le barriere più robuste all’escalation delle tensioni. L’avanzata della globalizzazione, ossia la sostituzione della guerra con il tiro alla fune, è l’unico antidoto alla logica del confronto. Rendere il mondo sicuro per le supply chain porterà il mondo stesso ad essere più sicuro.22
19 P. Khanna, Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi Editore, Roma 2016, 521. 20 Cf. J. Rifkin, La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del commons collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Mondadori, Milano 2015. 21 Khanna, Connectography, 521-522. 22 Ivi, 523. Per supply chain si intende il sistema completo di produttori, distributori e venditori che trasformano gli input in output da immettere nel mercato. È tutto ciò che connette qualsiasi economia o parte del mondo, plasmando un mondo a sua immagine e somiglianza, prescindendo o escludendo gli Stati nazionali. Contano la ricchezza e il potere di influire su tale catena.
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L’ideale sarebbe che questo nuovo sviluppo potesse portare più istruzione e più sanità, assieme a maggiore mobilità sociale e innovazione. Ma non è detto che il futuro sia roseo. Khanna, però, vede come unica fonte di ottimismo la solidarietà che nasce dalla connettività delle supply chain e che non potrà mai venire dai trattati internazionali, ammesso che ancora qualcuno riesca a sopravvivere. «Le diverse società di cui si compone la realtà mondiale non potranno mai percepire quell’empatia che resta necessaria alla pace se le mappe e le narrazioni cui facciamo ricorso non faranno risaltare la connettività sopra le divisioni politiche e territoriali».23 Il vantaggio competitivo, favorito dalla globalizzazione, aiuterà a moltiplicare le interazioni e quindi la divisione globale del lavoro fa l’interesse proprio di ciascuno, creando occupazione nei Paesi poveri, riducendo i prezzi in quelli ricchi e allargando le possibilità di scelta di tutti. «La nuova era della connettività pluralistica è dunque arrivata»,24 anche se dobbiamo chiederci se avremo lavoro per tutti o la tecnologia non lo permetterà. Ma anche tale quesito pone ancora la domanda: chi si occupa di chi? Lo Stato nazionale si è dimostrato inadeguato; il o i nuovi soggetti dovranno partire dalle persone, dalla loro attesa di fioritura, dai loro umani e umanizzanti bisogni. Per questo la governance globale dovrebbe assomigliare a ciò che avrebbe potuto essere internet,25 ma che ora non è se non in parte: «una distribuzione coordinata ma priva di controllo centrale, retta sulla reciprocità fra i sempre più numerosi partecipanti alla rete».26 Come per qualsiasi altro caso, tutte le volte in cui l’uomo riesce a condividere il potere e le sue fonti saprà affrontare ed evitare meglio ogni tipo di crisi. «A lungo termine la concorrenza per la connettività riduce il nostro rischio collettivo».27 Le megalopoli, soprattutto quelle costiere, sono il punto centrale per una nuova architettura mondiale. «Un mondo costrui to da mélanges culturali aperti, come quelli che hanno fatto la storia di Zanzibar e dell’Oman, di Venezia e Singapore, sarebbe assai più pacifico di un mondo di mega imperi orwelliani. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di una futura pax urbana».28 Avremmo, a questo punto, molto meno bisogno di confini e di muri. «I confini non sono l’antidoto al rischio e all’incertezza; le connessioni sì. Ma se vogliamo davvero godere dei vantaggi di un mondo senza confini, dobbiamo prima costruirlo. Il nostro destino è in bilico».29 Ma alcuni punti saranno sempre più nevralgici: le grandi città saranno ghetti o comunità aperte? Quale rapporto con gli stranieri o i migranti? L’idea sarebbe costruire la nuova fraternità a partire dal contesto urbano,
Ivi, 525. Ivi. 25 M. Prodi – G. Romano, «Democrazia sul web», in Oikonomia. Rivista di etica e scienze sociali 13(2014)1. 26 Khanna, Connectography, 526. 27 Ivi, 527. 28 Ivi, 528. 29 Ivi, 529. 23 24
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anche per superare i populismi: il sindaco di una città è strutturalmente più vicino alla gente. Sono convinto che in Italia, per esempio, la dimensione che più ci rappresenta non è né quella regionale né quella comunale, ma quella provinciale, delle città metropolitane. Un caso da studiare potrebbe essere Medellín, dove sono diminuite le bande di narcotraffico e vi è meno disuguaglianza. Sebbene l’onere della battaglia per creare una società più equa ed egualitaria, dove la prosperità sia condivisa e tutti vivano con un minimo di dignità, debba ricadere sullo Stato, Medellín dimostra che molto si può fare anche a livello locale, soprattutto perché tanti servizi di base essenziali per migliorare il livello di vita di tutti gli individui vengono forniti localmente: la casa, i trasporti pubblici, le attrattive come per esempio i parchi, e l’istruzione. Questo è un messaggio importante per gli Stai Uniti, in cui lo stallo politico fa sì che a livello nazionale il progresso sia minimo; la preoccupazione è addirittura che la politica nazionale porti a un aumento della disuguaglianza negli anni a venire. Perché ci sia progresso, quando si tratta di questi aspetti, occorre agire a livello locale.30
Non possiamo, però, accontentarci di idee. Dobbiamo creare aree urbane in cui i singoli possano prosperare e innovare. Non a caso l’illuminismo – che portò al miglioramento più rapido e generalizzato delle condizioni di vita nella storia dell’uomo – fu un prodotto delle città. Un nuovo modo di pensare è una conseguenza naturale dell’alta densità demografica, a patto di soddisfare le giuste condizioni, e cioè la presenza di spazi pubblici in cui le persone abbiano l’opportunità di interagire e la cultura possa fiorire, e di un’etica democratica che sostenga e incoraggi la partecipazione pubblica.31
Infine, occorre saper pianificare come affrontare la crescita globale della popolazione; le previsioni affermano che nel 2030 ci saranno altre persone sul nostro pianeta in numero di oltre un miliardo: tale aumento e la parallela crescente espansione di metropoli e megalopoli potranno essere sostenibili solo ripensando radicalmente i modelli di pianificazione urbanistica, che non devono interessare le singole città ma le regioni in cui si trovano, nel quadro di accordi internazionali.32
30 J.E. Stiglitz, La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla, Einaudi, Torino 2016, 323-324. Nello stesso libro, un altro importante esempio è Singapore. 31 Ivi, 360. 32 «Per vedere quali aree del mondo hanno condizioni fisiche che potrebbero teoricamente ospitare in modo sostenibile un miliardo di persone in più, abbiamo sovrapposto le mappe di sette variabili dal The Atlas of Global Conservation. Abbiamo escluso le regioni con stress idrico elevato o estremo; altre zone aride; tundra e regioni ghiacciate; centri con specie uniche di una regione; e regioni con densità di popolazione superiore a 100 persone per chilometro quadrato, vale a dire gran parte di Europa, Medio Oriente, India, Cina e Stati Uniti occidentali. Restano ampie zone del Sud America; parti del Canada meridionale e degli Stati Uniti settentrionali e orientali; le regioni centro-meridionali dell’Africa; parti dell’Asia a nord dell’Himalaya e dal Mar Nero alla Cina settentrionale; e aree sparse dell’Oceania. Alcune aree tropicali umide potrebbero sostenere coltivazioni come cacao, caffè,
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2. Come 2.1. Una
ripensare le città
pillola dal vangelo
Altri si occuperanno di tracciare traiettorie bibliche per il nostro tema; a me basta ricordare una tensione che esiste nel Vangelo di Luca tra Gerusalemme, centro teologico e geografico del terzo evangelo, e Gerico, città che fu non solo distrutta ma anche maledetta da Giosuè: nessuno la doveva più ricostruire e se qualcuno lo avesse fatto, lo avrebbe fatto in una forma assolutamente disumana. Ma Gesù in questo non luogo entra e sconvolge la vita di Zaccheo: nelle città, quindi, palesemente luoghi di ingiustizie, il vangelo risuona e cambia le persone.33
2.2. Papa Francesco
e le città
L’attuale pontefice è consapevole che la pienezza della storia e dell’umanità si avrà con la città che scende dal cielo, la sposa pronta per lo Sposo.34 Nel discorso del papa in occasione del 60° anniversario dei trattati di Roma ci sono tre città, Roma, Berlino e Londra: la città dei trattati, la città del muro e la città dell’ultimo attentato. Poi ci sono le periferie della storia. Dove si incontra l’uomo? In quale città? Capire l’agire e il pensare di papa Francesco non è impresa semplice e non sarà mai un cantiere chiuso. È un profeta per il nostro tempo?35 Sicuramente, ai suoi occhi il mondo è pieno di ingiustizia e iniquità e deve essere cambiato. Forse è l’ultimo dei rivoluzionari, all’inseguimento di una profonda utopia, di un sogno da offrire a tutti gli uomini: la pace nella fraternità universale. Il punto di partenza del suo ragionamento politico, come lo troviamo nel discorso di accettazione del premio Carlo Magno, sono i limiti del mondo e in particolare dell’Europa. Il limite è la casa dell’infinito, ha scritto Alessandro D’Avenia:36 le ferite dell’umano sono sempre il punto di ripartenza per elaborare progetti nuovi che possano condurre alla costruzione del bene comune che si irradi sull’umanità intera. Occorrono due virtù fondamentali: coltivare la speranza e cercare il volto dell’altro. Sono due virtù che
olio di palma, riso e mais. Ma lo sviluppo dovrebbe essere vietato in hotspot di biodiversità, come il Borneo, il nord del Queensland in Australia e parti del bacino amazzonico» (R.T.T. Forman – J. Wu, Dove mettere il prossimo miliardo di persone, in http://www. lescienze.it/news/2016/10/12/news/aumento_popolazione_urbana_pianificazione_regionale-3268077/). 33 Cf. M. Prodi, Per una nuova umanità. L’orizzonte di papa Francesco, Cittadella, Assisi, 2018. 34 Cf. Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium (= EG), 24 novembre 2013, n. 71: EV 29/2177. 35 Questa domanda si è fatto anche Paolo Prodi in M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016. 36 A. D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016.
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Guardare la città alla luce dei quattro principi di papa Francesco
nascono dalla grazia di Dio che sostiene ogni passaggio della storia, anche se non sempre la sua presenza è così facilmente riconoscibile. Parlando delle grandi città, Bergoglio dice: La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata.37
La grazia di Dio è sempre all’opera, nel momento in cui uomini accolgono, anche inconsapevolmente, il modo di agire di Dio nella storia umana: farsi carico della povertà dell’uomo. Nell’enciclica Laudato si’ ci viene detto che il segreto per capire come cercare il bene del mondo è «avere il coraggio di trasformare in sofferenza personale ciò che accade nel mondo».38 La speranza è allora questa certezza che la storia è già resa feconda dalla presenza di un Dio che è il Dio con noi, che con Gesù prende l’ultimo posto, sposa la vita dei poveri, ci accompagna anche nelle ore più tenebrose. E se vogliamo allargare questa efficacia della grazia, se vogliamo essere davvero discepoli del Cristo, dobbiamo fare lo stesso: scambiare il nostro posto con i più sofferenti della terra.39 Così si innescheranno i processi di pace: mettendo a contatto il kerygma, il cuore del vangelo, cioè l’amore incondizionato di Dio, con le periferie estreme della storia. La città può promuovere la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia; nella vita urbana molto concretamente si possono accompagnare i cittadini nella loro lotta ogni giorno,40 anche se sempre le città presenteranno ambivalenze e tensioni che vanno riconosciute, svelate e sanate.41 Il senso unitario e completo della vita umana che il vangelo propone è il miglior rimedio ai mali della città, sebbene dobbiamo considerare che un programma e uno stile uniforme e rigido di evangelizzazione non sono adatti per questa realtà. Ma vivere fino in fondo ciò che è umano e introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianza, in qualsiasi cultura, in qualsiasi città, migliora il cristiano e feconda la città.42
Il matrimonio tra vangelo e città è assolutamente necessario.
EG 71: EV 29/2177. Cf. Francesco, lettera enciclica Laudato si’, 24 maggio 2015, n. 19: EV 31/599. 39 Questo uno dei messaggi decisivi del libro che il papa cita nel discorso: «Il servizio di un’Europa cristiana intesa come occidente cristiano consiste quindi nel compiere, con Cristo e in Cristo, l’unica diaconia dello scambio che salva. Cioè, secondo il senso letterale della parola diaconia, essere l’unico messaggero e servitore di tavola, per invitare e servire un mondo senza Cristo e senza Dio al banchetto del figlio del Re» (E. Przywara, L’idea di Europa, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2013, 118-119). 40 Cf. EG 72: EV 29/2178. 41 Cf. EG 74: EV 29/2180. 42 EG 75: EV 29/2181. 37 38
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2.3. Il
pensiero di
Giorgio La Pira
Sul giudicare, sarebbe interessantissimo studiare alcune figure; tra queste sicuramente Giorgio La Pira, secondo il quale le città sono il punto di partenza per ogni costruzione politica che aspiri a costruire una vera pace.43 Un testo può aiutare: è un discorso pronunciato a Firenze, dove si capisce che la città toscana viene indicata come l’incubatrice per un grande sogno. Costruire la tenda della pace è anche il destino del Mediterraneo. Questi popoli, anche se pieni di lacerazioni e di contrasti, hanno, in certo senso, un fondo storico comune, un destino spirituale, culturale e in qualche modo anche politico, comune. La loro «unità» è essenziale ed è quasi una premessa per l’unità dell’intera famiglia dei popoli. In questi ultimi decenni ricerche di alto valore hanno cercato di fare e cercano di fare ogni giorno più una analisi attenta di questo «fondamento comune» e di questa «storia comune» della triplice famiglia di Abramo che bagna le sponde del Mediterraneo, nuovo lago di Tiberiade! […] c’è soprattutto questo comune sforzo di rendere certezza la speranza radicata in Abramo (spes contra spem!) di riconciliare Israele e Ismaele. Lasciatemi dunque finire con questo sogno! Lasciate che io veda in questa luce lo scopo ultimo di questo convegno euro-arabo che fa rifiorire la tesi di Firenze: «La speranza di Abramo!». Non c’è che da riprendere, per così dire, la strada di Firenze: la strada della convergenza, dell’incontro che Isaia indicò con tanta profetica precisione: «In quel tempo vi sarà una strada dall’Egitto alla Siria e il Siro si recherà in Egitto e l’Egiziano andrà in Siria ed Egitto e Siria serviranno il Signore: e in quel tempo Israele, terza con l’Egitto e la Siria sarà benedetta in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore dicendo: benedetto l’Egitto, mio popolo, la Siria opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Is 19,23).44
Un altro decisivo discorso viene pronunciato a Parigi il 15 settembre 1967 e ci mostra con più evidenza la sua prospettiva di mettere in rete le varie città del mondo: Cosa devono, dunque, fare le città di tutta la terra salite idealmente sulla terrazza storica di Parigi per vedere da qui le frontiere apocalittiche dell’età nuova del mondo e quali strade esse devono percorrere per pervenire alla terra nuova, inevitabile – se non si vuole la distruzione del genere umano e del pianeta – della pace totale? Devono fare tre cose: primo, «vedere» quest’epoca nella sua novità essenziale, quella che la definisce e che la costituisce unica, senza confronti possibili (in certo senso) con le epoche precedenti: scoprire, cioè, la novità di questa età che è apocalittica davvero, nel duplice, bivalente significato del termine! Età di pace totale o di distruzione totale! […] Ecco la seconda cosa che va fatta in questo Congresso di Parigi e che va ripetuta in modo organico ed efficace in tutte le città ed a tutti i popoli della terra: la scelta della pace millenaria! È la scelta che le città capitali del mondo fecero già nel 1955 a Firenze – nella festa di san Francesco in
43 Cf. F. Mandreoli – M. Giovannoni, Spazio europeo e Mediterraneo. Le analisi profetiche di Dossetti e La Pira, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2019. 44 G. La Pira, Il sentiero di Isaia. Scritti e discorsi: 1965-1977, a cura di G. e G. Giovannoni, Paoline, Milano 2004, 370-371.
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Guardare la città alla luce dei quattro principi di papa Francesco Santa Croce ed in Palazzo Vecchio – sottoscrivendo un patto solenne di pace e di amicizia: fra queste capitali era presente anche Pechino ed inviarono messaggi anche Hanoi e Saigon. Dire «No» alla guerra nucleare significa dire «No» anche alla politica della dissuasione e «dell’equilibrio del terrore» che le massime potenze nucleari stanno pericolosamente sviluppando […]. Questa è l’idea nuova, la finalità nuova dei gemellaggi fra le città: costruire un sistema di ponti che si estenda su tutto il mondo e che realizzi a livello delle città, l’unità di tutti i popoli, di tutte le città e di tutte le nazioni. Le città unite: l’altro volto – integratore ed in certo modo essenziale – delle nazioni unite! Questa è la terza cosa che il Congresso di Parigi invita a fare! L’unità di base – attraverso le città – fra i popoli di tutto il mondo: unito integralmente alla base, il mondo sarà più capace di essere effettivamente ed integralmente unito al vertice. Progetto solo ideale? Un sogno? No; realtà storica che può essere rapidamente sviluppata proprio nel nostro tempo: realtà destinata a rinnovare, rinsaldandolo alla base ed integrandolo al vertice, l’edificio ancora fragile ed incompleto delle Nazioni Unite.45
2.4. Alcune pagine
di
Giuseppe Dossetti
Un altro personaggio interessantissimo per avere elementi di giudizio sulla vita delle città è Giuseppe Dossetti. Due testi sono importanti a questo proposito: in ordine cronologico, il primo è il Libro bianco su Bologna del 1956 e poi il discorso Per la vita della città, in occasione del Congresso eucaristico della diocesi felsinea del 1987. Per quanto riguarda il nostro itinerario, l’ordine logico dei due testi potrebbe essere raccontato così: nel 1987 si enunciano i criteri per poter partecipare come credenti all’agone politico, mentre nel 1956, in modo molto concreto, l’ex vicesegretario della DC partecipa alla vita elettorale della sua città di adozione. La candidatura a sindaco fu dovuta a una richiesta del vescovo Lercaro; il professorino della Costituente accettò per obbedienza, pur essendo consapevole del fallimento dell’operazione. Lercaro e una parte della DC sognavano il contrario. E infatti Dossetti chiese di esser candidato non da un comitato elettorale, ma da un voto degli iscritti al partito. Anche la redazione del Libro bianco volle avere una larga base di studio e consenso: essa fu preceduta da un’ampia fase di «Incontri con l’Elettore» e di confronto popolare con le diverse realtà sociali della città. Anche per questo le proposte più innovative furono assunte e implementate dal sindaco comunista Dozza e dalla sua amministrazione: ricordiamo la creazione dei quartieri e il riassetto qualitativo dell’urbanistica bolognese, il rilancio dell’anima spirituale e culturale della città. Il punto di partenza anche per questa parentesi della vita di Dossetti fu la fede; ma l’esito fu un programma prettamente e sanamente laico che ebbe anche come punto di forza il coinvolgimento di alcuni giovani intellettuali (non facenti parte del gruppo che già ruotava attorno al nascente Centro documentazione)
45 Il testo è stato scaricato da http://www.giorgiolapira.org/it/content/unire-le-citta-unire-le-nazioni-0. Il discorso fu pronunciato in occasione della sua elezione a presidente della Federazione delle città unite.
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i cui nomi possono ricordare tanti itinerari futuri: Achille Ardigò, Giorgio Trebbi, Beniamino Andreatta, Osvaldo Piacentini, Luigi Pedrazzi.46 Dalla sconfitta Dossetti ha come una conferma definitiva che la sua diagnosi dei tempi è corretta e, pertanto, un certo tipo di impegno non è quello più necessario. Per i cattolici è giunto, infatti, il tempo di percepire che la cristianità è finita, che essi sono minoranza, non solo a Bologna.47
Molti anni dopo, come già ricordato, Dossetti pronuncerà il lungo discorso che tiene insieme città ed eucaristia. A noi interessa vedere da una parte che la città può, secondo la Scrittura, essere luogo di peccato, di violenza e di arroganza sociale in particolare quando in essa avvengono concentrazioni di potere inique e idolatriche. Per l’autore questa diagnosi biblica di alcune possibilità della cultura urbana «consente di discernere anche oggi, a millenni di distanza, quanto vi può essere di alterato – e di non sano – nelle megalopoli contemporanee e in certe aspirazioni acritiche a una respublica universalis che quasi automaticamente garantisca la pace sulla terra».48
Cosa può pensare un cristiano davanti alle città? In sintesi: a) il popolo di Dio, straniero presso altri popoli, non si identifica con nessuna città terrena; b) dalla rivelazione non discende nessun modello ideale per le socialità storiche; c) il peccato è anche nelle grandi città;49 d) la famiglia del Signore non cerca l’anarchia ma la sua coesione deriva dall’ascolto della Parola. Affinché il popolo di Dio possa contribuire alla crescita spirituale delle socialità storiche e delle città occorre: a) una radicale laicità: il progetto politico deve essere distinto dalla comunità di fede; b) occorre che sia ricolmo di genialità creativa e abbia validità storica; c) occorre che parta dalla prospettiva e dalla vita dei poveri per una vera giustizia.50
Cf. F. Mandreoli, Giuseppe Dossetti, Il Margine, Trento 2012, 60. Ivi. Il testo prosegue: «Lercaro forse non l’ha ancora capito adeguatamente, dato che commenta il voto, in maniera tragica, affermando che “Bologna è corsa a sbattezzarsi”». Pombeni definisce quello di Dossetti un esempio altissimo di ascesi, «perché si fonda sulla tesi che l’obbedienza anche all’ordine sbagliato è in grado di disvelare, se svolta in estrema coerenza, proprio la radice dell’errore» (P. Pombeni, «Libro bianco su Bologna». Giuseppe Dossetti e le elezioni amministrative del 1956, Diabasis, Reggio Emilia 2009, 43). 48 F. Mandreoli, «Introduzione», in G. Dossetti, Per la vita della città, Zikkaron, Marzabotto (BO) 2017, XXVI-XXVII. 49 «Il peccato che è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più vaste e complesse […] queste ultime possono assicurare agli uomini vantaggi sensibili in varie direzioni, ma tendono a porsi come grandi concentrazioni di potere (le megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto a consentire uno sfrenamento più incontenibile delle peggiori passioni umane […]. Sicché non si può parlare solo di un’ambivalenza delle forze sociali e del potere […] ma il credente deve riconoscere un loro inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio più grave di tutti è la guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a livello planetario» (ivi, 29). 50 Cf. ivi, 36. Si può notare come furono elementi realmente presenti nella campagna elettorale del 1956. 46 47
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2.5. Un personaggio geniale Infine, una parola su Adriano Olivetti (1901-1960), grande personaggio del secolo scorso, giustamente definito un profondo utopista.51 Il suo pensiero è molto articolato e complesso; è un pensiero, per certi aspetti, molto ambizioso perché desiderava dare un ordine diverso e nuovo alla realtà politica italiana. L’idea era anche di superare i partiti, di dare slancio alle realtà locali, togliendo peso al centralismo dello Stato e di costrui re un Paese basato su comunità locali, approssimativamente di 100.000 persone. Non abbiamo modo di approfondire questo progetto;52 né è necessario prendere posizione se Olivetti sia uno sconfitto o meno.53 Ma vale la pena dare un’occhiata al suo pensiero sulle città, soprattutto quelle più grandi, incapaci, secondi lui, di costruire vite realizzate: Le grandi città moderne, che hanno tratto generalmente dallo sviluppo industriale l’origine principale della loro espansione, sono ormai impotenti a conferire un’armonia di vita, un tempo spontanea. Gli interessi più disparati non sono risolvibili in una sintesi. Nella caotica situazione creata dal loro inestricabile groviglio prevalgono con facilità immensi privilegi.54
Non viene pronunciata, però, una condanna definitiva sulle megalopoli; ma sicuramente viene chiesto un profondo ripensamento, derivante dal contagio necessario con l’ambiente circostante, col territorio e con la natura; ma la fonte più importante del cambiamento è da trovare nella centralità della persona: «solo con il trionfo della persona nella Comunità, mondo materiale e mondo spirituale si concilieranno secondo unità e la strada della speranza sarà aperta agli uomini».55 Per fare questo, la comunità e la città devono essere in grado di armonizzare ogni aspetto della vita dell’uomo, dal lavoro alla cultura, dal rapporto col creato allo studio e alle relazioni.56 La ricerca della vita buona passa, per Olivetti, attraverso
51 Molte delle sue radici oltre che nel vangelo si rintracciano in E. Mounier e, anche se in misura minore, in J. Maritain. 52 La bibliografia è sterminata; per una riflessione sintetica e capace di comparare altre visioni di altri personaggi del XX secolo, cf. G. Frosini, Babele o Gerusalemme? Teologia delle realtà terrestri, 1: La città, EDB, Bologna 2007, 93-113. 53 «Questo libro narra la storia della sconfitta di un progetto politico che pretendeva di cambiare, per mezzo di un ordinamento costituzionale affatto diverso da quello dei padri della Repubblica le conferirono nel 1948, la società italiana» (L. Gallino, «Introduzione», in G. Sapelli – R. Chiarini, Fini e fine della politica. La sfida di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Milano 1990, VII). Il giudizio è fin troppo secco. 54 A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Nuove Edizioni, Ivrea 1945, 7, citato in Frosini, Babele o Gerusalemme?, 100. 55 A. Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, versione eBook 124. 56 «La nostra Comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una Comunità né troppo grande, né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che dia a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori. Una Comunità troppo piccola è incapace di permettere uno sviluppo sufficiente dell’uomo e della Comunità stessa; all’opposto le grandi metropoli nelle loro forme
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la ricerca della concreta spiritualità sociale, che innervi il vivere insieme e sappia cambiare il volto anche delle città.57
3. Cosa Cosa
possono fare le città . possiamo fare per le città
La terza parte di questo contributo si concentrerà su ipotesi concrete che possono riguardare le grandi città. Costruiremo questo paragrafo sui quattro principi che papa Francesco ripropone alla Chiesa universale nella Evangelii gaudium.58 Per le grandi città cosa possiamo dedurne? Riproponiamo alcune espressioni che ci aiutino a richiamarli alla memoria. – Il tempo è superiore allo spazio: «Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi» (EG 223: EV 29/2329). – L’unità prevale sul conflitto: «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227: EV 29/2333) «La diversità è bella quando accetta di entrare costantemente in un processo di riconciliazione» (EG 230: EV 29/2336). – La realtà è più importante dell’idea: «La realtà è, l’idea si elabora» (EG 231: EV 29/2337). – Il tutto è superiore alla parte: «Non si deve essere ossessionati da questioni limitate e particolari» (EG 235: EV 29/2341).
3.1. Primo principio «La pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città»:59 l’ele mento decisivo, quindi, per capire il senso profondo della città è il futuro che l’attrae verso la pienezza. Allora anche gli spazi dovrebbero essere concepiti come funzionali a questa pienezza di cui è gravido il tempo. Infatti la cultura di vita che palpita nella città ha bisogno di spazi di umanizzazione e di comunione, di fraternità e vicinanza che aiutino a sviluppare i processi che Dio mette in atto con la sua grazia. Per esempio, la politica
concentrate e monopolistiche atomizzano l’uomo e lo depersonalizzano: fra le due si trova l’optimum. Tecnica e cultura conducono verso il decentramento, verso la federazione di piccole città dalla vita intensa, ove sia armonia, pace, verde, silenzio, lontano dallo stato attuale delle metropoli sovraffollate, come dall’isolamento e dallo sgomento dell’uomo solo» (ivi, 79-80). 57 «Il miglioramento della vita sociale ispirato ai valori spirituali» (ivi, 50) è uno slogan che potrebbe riassumere l’utopia di Olivetti. Rimane una domanda: Olivetti e Dossetti, ambedue ricercatori dello Spirito, hanno mai avuto punti di contatto? 58 M. Prodi, «Fonti, metodo e orizzonte di papa Francesco a partire dai quattro principi. Applicazioni pratiche per l’oggi», in F. Mandreoli (a cura di), La teologia di papa Francesco. Fonti, metodo, orizzonti e conseguenze, EDB, Bologna 2019. 59 EG 71: EV 29/2177.
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a Barcellona dovrebbe lavorare per creare legami e non fratture irreversibili. Inoltre: gli spazi della città dovrebbero essere progettati per generare tempi e processi di dialogo, di inclusione e di vicinanza; l’obiettivo dovrebbe essere arrivare alla costruzione della città aperta, anche con una riflessione sul tema degli spazi verdi, come avvenne a New York per il Central Park. Una critica alla città moderna «è che le sue condizioni non favoriscono l’esistenza di una città come luogo che si autocorregge e si autogoverna, ma incoraggiano i processi burocratici anziché quelli democratici».60
3.2. Secondo principio Nella città si sperimenta ogni giorno la lotta per sopravvivere. La solidarietà, vero motore della storia, può essere la molla con cui i vari conflitti tra le varie anime e parti della città possono essere riconciliati. Purtroppo anche all’interno della città è più facile confinare i conflitti nelle periferie, piuttosto che integrarli in nuovi processi. Solidarietà vuol dire rileggere anche la proprietà privata e il tema dei beni comuni, a partire dall’acqua.61 Nelle città il peso della differenza è troppo alto.62 La città sana è un sistema aperto63 e lo può diventare se viene resa porosa.64 In una città chiusa prevarranno le frontiere, una città aperta avrà piuttosto dei bordi. I bordi funzionano come le membrane cellulari, con una tensione dinamica tra porosità e resistenza. Le membrane possono essere create alla periferia di un dato luogo, con la perforazione di muri solidi, ondulando il tessuto delle strade e creando suoni intelligibili e socializzanti.65
Un modo per rendere una città aperta è creare spazi pubblici che favoriscano le attività sincroniche, lo scambio di esperienze e di idee. «La “fusione” richiesta dalla comprensione reciproca può essere soltanto il risultato dell’esperienza condivisa, e condividere l’esperienza è inconcepibile senza spazi comuni».66 Piazze e luoghi di incontro servono anche per accogliere, per creare ponti: altrimenti nessuno potrà mai sentirsi a casa propria in una città dove non è nato: «l’estraneo non è una invenzione
R. Sennet, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018, 78-79. La città può fare molto contro le minacce anche ambientali. 62 Cf. Sennet, Costruire e abitare, 142. «Il prossimo come estraneo si realizza nell’ambito ordinario della città. La consapevolezza degli altri diversi da sé, i contatti e gli incontri con loro costituiscono una dimensione etica che rende civile lo spazio urbano. L’indifferenza verso gli estranei, perché sono diversi e strani in modo incomprensibile, sminuisce la dimensione etica» (ivi, 146). Vi è anche la fuga dall’altro e si arriva al ghetto. Che cosa separa chi nella vita della città? Come funzionano le comunità miste? C’è chi dice che bisogna mantenere una certa distanza; viceversa se la distanza diminuisce si può arrivare alla sfiducia; cf. ivi, 164. Si rischia di arrivare all’individualismo. 63 Cf. ivi, 195. 64 Cf. ivi, 248. 65 Cf. ivi, 253. 66 Z. Bauman, Città di paure, città di speranze, Castelvecchi, Roma 2018, 52. 60 61
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moderna, ma quello che rimane tale a lungo, anche definitivamente, invece sì».67 Abbiamo perso la virtù classica e biblica dell’accoglienza dello straniero, come se non ne fossimo più in grado: Fronteggiare la potenziale minaccia di rottura della routine, di incertezza e sovvertimento, insita nella «de-estraneazione» dell’estraneo, nella personalizzazione dell’impersonale e nel familiarizzare l’ignoto, non è più possibile nel momento in cui istituire rapporti personali supera le capacità recettive umane.68
L’ostilità verso i migranti, gli stranieri, i senza patria sembra poter cancellare o, quanto meno, assorbire tutte le altre paure. Questa caccia all’untore è vissuta anche come esorcismo contro i nostri peggiori fantasmi, contro tutte le nostre strutturali (siamo nell’età ultra-liquida, senza punti in cui appoggiarci) insicurezze. «Più che da qualsiasi cosa, i sentimenti di avversione alla mescolanza sono creati e alimentati dalla schiacciante sensazione di insicurezza».69 Questo fatto però ha le sue radici anche nel fatto che le insicurezze sembrano provenire dal globale, mentre le soluzioni non vengono offerte dalla politica, soprattutto quella locale. Si spera che barriere erette instancabilmente contro «falsi richiedenti asilo» e migranti economici servano a rinsaldare un’esistenza labile, incostante e imprevedibile. Ma la vita della modernità liquida è destinata a rimanere incostante e irregolare, e così il sollievo ha vita breve e le speranze riposte sulle «misure dure e determinate» si infrangono con la stessa velocità con cui sorgono. L’estraneo è, per definizione, un soggetto le cui intenzioni possono, nella migliore delle ipotesi, essere intuite, ma mai conosciute con certezza. L’estraneo è l’incognita di tutte le equazioni impostate per decidere cosa fare e come comportarsi, perciò, anche quando non si fa sentire aggressivamente o non è attivamente contrastata, la presenza di estranei all’interno del proprio campo d’azione è sconfortante, poiché rende assai difficile il compito di prevedere gli effetti dell’azione e le sue possibilità di successo o fallimento.70
Le tensioni, le diversità che si possono sperimentare negli agglomerati urbani dovrebbero essere vissute come ricchezza, come bozzoli di novità inaudite e insperate: Più grande ed eterogenea è la città, maggiori le attrazioni che essa offre […]. La varietà è una promessa di opportunità, varie e numerose, per tutte le capacità e tutti i gusti, così che, quanto maggiori sono le dimensioni della città,
Ivi, 11. Ivi, 13. Più avanti si legge: «il capitalismo è stato una produzione di massa di estranei […] ha reso il “vincolo del denaro” l’unica forma desiderabile, di rapporto tra gli uomini» (ivi, 14). 69 Cf. ivi, 25. «La città è la discarica delle ansie e apprensioni generate dall’incertezza e dall’insicurezza legate alla globalizzazione, ma al tempo stesso il laboratorio in cui mettere in campo, sperimentare ed eventualmente adottare, i mezzi per placarle e dissiparle» (ivi, 55). 70 Ivi, 42. 67 68
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Guardare la città alla luce dei quattro principi di papa Francesco tanto più probabile è che essa riesca ad attrarre il numero crescente di persone che rifiutano di rimanere in luoghi più piccoli e perciò meno tolleranti delle diversità e più avari di occasioni, o che in essi non riescono a trovare sistemazione e opportunità di vita.71
Possiamo chiudere questo punto con una fotografia sintetica: Le città sono diventate discariche di problemi generati a livello globale. Gli abitanti delle città e i rappresentanti da loro eletti si sono ritrovati con un compito per cui non sono affatto all’altezza: quello di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali […] le persone si sono chiuse in sé.72
Vivere i conflitti come il papa ci insegna in vista di una unità sempre più umana, attraverso la solidarietà che animi la convivenza, sarebbe davvero la strada per vivere tutti molto meglio.
3.3. Terzo principio La realtà più reale è il volto dell’altro, soprattutto se toccato dalle prove della vita. Se si incontra il prossimo con la compassione che Gesù insegna, le idee preconcette sull’estraneo svaniscono. «Vivere fino in fondo ciò che è umano e introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianza in qualsiasi cultura, in qualsiasi città, migliora il cristiano e feconda la città».73 Ad esempio il tema degli stranieri: abbiamo l’idea di una invasione islamica, ma non è vero. Come si progetta una città? Come evitare la separazione tra persone e luoghi?74 Come vincere l’indifferenza?75 Si deve armonizzare il vivere col costruire?76 Si rischia di occupare lo spazio e di non abitarlo.77 Occorre cooperare per la progettazione, per realizzare spazi per la discussione e per la socialità78. La pianificazione dettagliata del futuro della città, impresa per lo più fallimentare in tutte le epoche, quando non controproducente, appare, oggi più che mai, senza fondamento né prospettive […]. Abbiamo bisogno di reattività non di progetti,79
71 Ivi, 49. «Architetti e urbanisti possono fare molto per aiutare la crescita dell’amore della mescolanza e ridurre al minimo le occasioni di risposte fobiche alle prove dell’esistenza cittadina» (ivi, 50). 72 Ivi, 29. 73 EG 75: EV 29/2181. 74 Cf. Sennet, Costruire e abitare, 87. 75 Cf. ivi, 88. 76 Cf. ivi, 107. La ville deve condurre alla cité (ivi, 102). 77 Cf. ivi, 132. Per chi doveva integrare in Svezia, «si trattava di vivere, ma non di esserci, di essere nel contempo assenti e presenti. La forza dei migranti consiste nel venire a patti con lo sradicamento. Come questo atteggiamento può diventare un modello per gli abitanti della città?» (ivi, 225-226). 78 Cf. ivi, 287. 79 Bauman, Città di paure, città di speranze, 35-36.
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anche per contrastare la McDonaldizzazione delle città, cioè squallore e uniformità.
3.4. Quarto principio Se è vero che sarà una rete di grandi agglomerati urbani a costruire il mondo futuro, ogni città dovrà sempre di più capire che il suo sviluppo dipende da e favorisce lo sviluppo di tutta l’umanità. Sarebbe finalmente una democratizzazione del potere, una gestione orizzontale del potere stesso. E dove ogni singolo portando il suo contributo accresce se stesso e arricchisce la comunità. «È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti».80 Occorre procedere verso la progettazione di economie che collegano lo sviluppo globale, per creare sempre più situazioni win-win, cioè dove tutti traggono vantaggio dalle scelte. La città globale è quella che collega ciò che ogni grande città sa fare per offrire un prodotto; e forse ci sarà una sana emancipazione dagli Stati nazionali.81
4. Conclusione In questo nostro viaggio nelle città abbiamo visto tante contraddizioni e tante potenzialità: esse sono bellezza infinita e miseria inenarrabile. Proprio per questo bisogna abitarle, fino in fondo, sapendovi portare il bene e il bello che il vangelo ci regala come seme di una nuova nascita, di una nuova umanità. In quest’ottica è importante capire che i quattro principi di papa Francesco funzionano, come abbiamo dimostrato. È la presenza del fratello che è il radicale buon annuncio nella città. È lui che mi strappa dall’egoismo, è lui che mi porta a desiderare di contemplare e custodire il creato, è lui che mi spinge al confronto pubblico e democratico per la ricerca del bene comune. L’altro, certo, mi attrae e mi respinge; ma l’altro, soprattutto lo straniero, come Gesù risorto a Emmaus, mi spinge a ritornare al centro e al fine della storia, cioè Gerusalemme. Se la storia finirà con l’arrivo della Gerusalemme celeste, se vogliamo davvero collaborare per la venuta del Regno, dobbiamo creare vicinanza, prossimità, fratellanza82 soprattutto nelle metropoli, per renderle davvero città dell’uomo.
EG 236: EV 29/2342. Cf. Sennet, Costruire e abitare, 120. 82 Cf. M. Prodi, «La chiesa e il sociale: due documenti decisivi», in Rassegna di teologia 60(2019)2, 301-316; Id., Rigeneriamo il mondo. La visione «superiore» di papa Francesco, Cittadella, Assisi 2019. 80 81
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia
Luciano Luppi*
La relazione si prefigge di approfondire il senso in ordine all’evangelizzazione dell’invito di papa Francesco a uno sguardo contemplativo sulla città, a partire innanzi tutto dall’individuazione di figure anticipatrici contemporanee (Thomas Merton, Fraternità monastica di Gerusalemme, Carlo Carretto) e di alcune radici antiche del tema (Gregorio Magno, Caterina da Siena, Ignazio di Loyola) nella storia della spiritualità cristiana. A partire da questo primo scavo, si cercherà di individuare più specificamente cosa comporta per l’evangelizzazione il passaggio dalla prospettiva della «Chiesa nella città» a quella di «Dio nella città», di evidenziare le chiavi di lettura sull’argomento riscontrabili negli interventi «alla» e «sulla» città da parte degli ultimi pastori della Chiesa di Bologna (Biffi, Caffarra, Zuppi) e di mostrare la fecondità di una rilettura del tema dello spaesamento, quale si trova vissuto e proposto nella testimonianza profetica di Madeleine Delbrêl.
1. Papa Francesco
e lo sguardo contemplativo sulla città
L’attenzione alla città è un tratto caratteristico della sensibilità di papa Francesco. Di fatto è il primo successore di Pietro che è stato vescovo di una grande metropoli, Buenos Aires in Argentina, coi suoi 3 milioni di
* Docente incaricato triennale di Teologia spirituale – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected] 67
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abitanti di notte, 8 milioni di giorno e 13-15 milioni di abitanti se si considera l’intera regione ecclesiastica, che comprende 11 diocesi. La proposta di papa Francesco mette dunque insieme la riflessione spirituale e il ministero vissuto,1 e si mostra di particolare attualità se si pensa che «nel 2007, per la prima volta nella storia umana, la popolazione delle città ha superato quelle delle campagne, a livello mondiale».2 Papa Francesco dedica i nn. 71-75 di Evangelii gaudium (da ora in poi EG), la sua esortazione apostolica programmatica (24 novembre 2013), proprio alle sfide delle culture urbane: La nuova Gerusalemme, la Città santa (cf. Ap 21,2-4), è la meta verso cui è incamminata l’intera umanità. È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. […] Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata (EG 71: EV 29/2177).
Dall’insieme di EG 71-75 emergono tre linee: – l’attenzione alla città deriva dal fatto che tutta la storia della salvezza è volta alla costruzione della nuova Gerusalemme (cf. Ap 21); – occorre riconoscere le ambiguità esistenti nella città, con uno sguardo disincantato; – ma Dio è all’opera nella città: di qui lo sguardo contemplativo, per scoprire la presenza di Dio nella città. Già Giovanni Paolo II aveva trattato il tema della città nella Redemptoris missio (1990), in particolare al n. 37 (EV 12/620ss), dove richiama le grandi città, accanto ai giovani e alle emigrazioni, come «mondi e fenomeni sociali nuovi», «luoghi privilegiati» che interpellano la missione ad gentes della Chiesa, soprattutto perché in esse sorgono nuove forme culturali che influiscono fortemente sulla popolazione: Oggi l’immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la «scelta degli ultimi» deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si
Cf. Francesco, Discorso ai partecipanti al congresso internazionale della pastorale delle grandi città, Sala del concistoro, giovedì, 27 novembre 2014. 2 C.M. Galli, Dio vive in città. Verso una nuova pastorale urbana alla luce del Documento di Aparecida e del progetto missionario di Francesco, LEV, Città del Vaticano 2014, 8; cf. anche A. Bondolfi – M. Mariani (a cura di), Dio uomini e città, EDB, Bologna 2015. Va riconosciuto che la riflessione argentina sul tema della pastorale urbana è stata all’avanguardia, basti pensare al Primo congresso regionale di pastorale urbana, che si tenne a Buenos Aires dal 25 al 28 agosto 2011, in cui intervenne l’allora card. Bergoglio con un Discorso poi pubblicato nel testo Dios en la ciudad, Ed. San Pablo, Buenos Aires 2012. 1
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire, un’umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città.
Negli anni ’70 del secolo scorso ci si interrogava sul tema della «Chiesa nella città», successivamente l’attenzione viene sempre più focalizzata sulla questione di «Dio nella città», a cominciare dagli scritti di Pablo Galimberti, vescovo uruguaiano (1988) e poi soprattutto col Documento di Aparecida delle Conferenze episcopali latino-americane (2007), nel quale si propone e si raccomanda «una nuova pastorale urbana che si predisponga all’incontro, accompagni, sia fermento». È in questa prospettiva che si pone decisamente papa Francesco in EG 71, che inserisce la missio Ecclesiae all’interno della prospettiva trinitaria della missio Dei, valorizzando nello stesso tempo l’approccio di Gaudium et spes, cioè uno sguardo positivo e partecipe sulla storia e sul mondo nella chiave del discernimento. È evidente, per esempio nel discorso da lui tenuto il 7 febbraio 2015 ai partecipanti alla plenaria del Pontificio consiglio per i laici: Le città presentano grandi opportunità e grandi rischi: possono essere magnifici spazi di libertà e di realizzazione umana, ma anche terribili spazi di disumanizzazione e di infelicità. Sembra proprio che ogni città, anche quella che appare più florida e ordinata, abbia la capacità di generare dentro di sé una oscura «anti-città». Sembra che insieme ai cittadini esistano anche i non-cittadini: persone invisibili, povere di mezzi e di calore umano, che abitano «non-luoghi», che vivono delle «non-relazioni». Si tratta di individui a cui nessuno rivolge uno sguardo, un’attenzione, un interesse. Non sono solo gli «anonimi»; sono gli «anti-uomini». E questo è terribile. Ma di fronte a questi tristi scenari dobbiamo sempre ricordarci che Dio non ha abbandonato la città; Lui abita nella città. Il titolo della vostra Plenaria vuole proprio sottolineare che è possibile incontrare Dio nel cuore della città. Questo è molto bello. Sì, Dio continua ad essere presente anche nelle nostre città così frenetiche e distratte! È perciò necessario non abbandonarsi mai al pessimismo e al disfattismo, ma avere uno sguardo di fede sulla città, uno sguardo contemplativo «che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze» (EG 71). E Dio non è mai assente dalla città perché non è mai assente dal cuore dell’uomo! Infatti, «la presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita» (ibid.). La Chiesa vuole essere al servizio di questa ricerca sincera che c’è in tanti cuori e che li rende aperti a Dio.
Si tratta di mettere in atto una pastorale urbana, che nasca da un rapporto concreto, leale e coraggioso con la realtà, una pastorale che prenda atto del superamento della «cristianità», senza per questo diventare una pastorale «relativista», cioè attenta a non perdere l’orizzonte e lo specifico evangelico.3
3 Cf. Francesco, Discorso ai partecipanti al congresso internazionale della pastorale delle grandi città.
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A cominciare dal riconoscere i gravi rischi dell’anti-città, che cresce con i suoi «miraggi» e i suoi «scarti», a causa del non-sguardo o di uno sguardo solo curioso. Già da arcivescovo di Buenos Aires scriveva nel 2011: Lo sguardo del credente sulla città si compie in tre attitudini concrete. – L’uscire da sé per andare incontro all’altro si compie nella vicinanza, in una attitudine alla prossimità. Il nostro sguardo deve essere sempre pronto a uscire e a farsi vicino. Non autoreferenziale ma trascendente. – Il fermento e il seme della fede trovano compimento nella testimonianza (se conosciute queste cose le mettono in pratica, saranno felici). Dimensione martiriale della fede. – L’accompagnamento trova compimento nella pazienza, nella hypomoné, la quale accompagna i processi senza fare loro violenza. In questa direzione mi pare che debba andare il servizio che, come uomini e donne credenti, possiamo offrire alla nostra città.4
2. Spezzato
il nesso homo urbanus = homo saecularis : accettare lo spaesamento
Secondo lo studioso Andrea Riccardi, su quella revisione della pastorale che gli studi di sociologia religiosa postulavano già negli anni ’605 e che, tanto più autorevolmente, il Vaticano II inaugurava, aleggiava un interrogativo: la «civiltà industriale», come la si definiva, e quella urbana non avrebbero segnato la fine della religione? Émile Pin, in un volume pubblicato con Hervé Carrier nel 1967, si chiedeva: «Non è abbastanza per dire che la città è causa di irreligione e, in maniera più generale, che il lavoro industriale e razionalizzato […] sembra difficilmente compatibile con un atteggiamento religioso?».6 Infatti, secondo la teoria classica della secolarizzazione esisterebbe un nesso causale, di tipo funzionale, tra l’urbanizzazione e la progressiva perdita di importanza della vita religiosa nelle società moderne. L’idea è nota, ha un legame stretto con la tesi weberiana della razionalizzazione (Intellektualisierung und Rationalisierung) e del disincanto (Entzauberung) e può essere riassunta così. In quanto fenomeno di massa, le religioni soddisfano essenzialmente un bisogno fin troppo umano di rassicurazione, sono cioè una sorta di ansiolitico spirituale. […] Come tali, funzionano meglio dove il mondo è vissuto come una minaccia fisica continua, quasi personificata […]. Insomma in quest’ottica l’urbanizza-
4 Bergoglio, Discorso al Primo congresso regionale di pastorale urbana: http://grilloroma.blogspot.it (consultato il 10 aprile 2013). 5 Cf. per l’Italia lo studio pionieristico di S. Burgalassi, Il comportamento religioso degli italiani, Vallecchi, Firenze 1968. 6 H. Carrier – É. Pin, Saggi di sociologia religiosa, AVE, Roma 1967, citato in A. Riccardi, «Conclusioni», in Il cristianesimo popolare in Italia: www.conferenzaepiscopale.it › cci_new › documenti_cei › Riccardi (consultato nel febbraio 2019).
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia zione non sarebbe altro che una componente del più generale processo di disincanto e razionalizzazione delle visioni del mondo.7
Tuttavia, come ha osservato nel 2013 Harvey Cox, riflettendo con il senno di poi sulle tesi da lui sostenute quasi cinquant’annni prima nel suo volume La città secolare (1966): «“Quale che fosse al tempo la natura del nesso causale tra la città e il secolare, questo legame ormai è stato reciso”. Homo saecularis e homo urbanus non vanno più a braccetto oggi».8 «A distanza di tempo – afferma Andrea Milano – si è oramai riconosciuto che la tesi della secolarizzazione, inarrestabile come un tritasassi globale, non ha annullato i protagonismi certo variegati e diversi delle religioni mondiali».9 Non viviamo quindi in un’età secolare, ma in quella del pluralismo, in cui le varie fedi sono compresenti a livello planetario. Per questo oggi – sostiene A. Riccardi – bisogna soffermarsi con maggiore attenzione sulla globalizzazione, che cambia radicalmente lo scenario della vita e della cultura. […] Questa è la nuova dimensione urbana e sociale con cui la Chiesa, la vita cristiana e la fede in Dio debbono fare i conti. […] Soprattutto la Chiesa non è chiamata a una «battaglia» ideologica contro la secolarizzazione, ma a una conversione pastorale nella nuova situazione dell’uomo e della donna contemporanei. […] Siamo lontani dal pessimismo ideologico verso la secolarizzazione, ma anche dall’idea che la secolarizzazione sia quasi una «provvidenza» che trasforma il mondo della fede verso modelli più moderni.10
Papa Francesco stesso ci indica la necessità di superare l’ottica tipica del regime di cristianità «in cui la Chiesa era l’unico referente della cultura» e come tale sentiva «la responsabilità di delineare e di imporre, non solo le forme culturali, ma anche i valori, e più profondamente di tracciare l’immaginario personale e collettivo […] a cui le persone si appoggiano per trovare i significati ultimi e le risposte alle loro domande vitali». Questo può apparire causa di disorientamento e di sconcerto, ma quell’epoca è finita ed è indubbio che «nella città abbiamo bisogno di altre “mappe”, altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti» per un reale cambiamento di mentalità pastorale.11
7 P. Costa, «La città infinita: l’ideale di urbanità nell’età secolare», in Bondolfi – Mariani (a cura di), Dio uomini e città, 73-76. 8 Ivi, 85. 9 A. Milano, «Presentazione», in C. Matarazzo, Liturgia e secolarizzazione. La missione della Chiesa nel mondo attuale, EDB, Bologna 2018. Milano rimanda a tal proposito al noto sociologo Peter L. Berger, «il quale ha lealmente riconosciuto, nel suo saggio I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo (2017), che il suo precedente paradigma di lettura del fenomeno religioso di fronte all’evidenza non regge più e oggi ci troviamo a verificare la coesistenza dei discorsi religiosi e dei discorsi secolari, compiendo così un passo avanti per la comprensione della modernità e della religione. Il secolarismo europeo è un’eccezione». 10 A. Riccardi, «Anche Dio ha traslocato in città», in Avvenire, 6 novembre 2014. 11 Francesco, Discorso ai partecipanti al congresso internazionale della pastorale delle grandi città.
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3. Sguardo
contemplativo sulla città : figure anticipatrici contemporanee
Mentre a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, come abbiamo visto, la sociologia religiosa vedeva nel fenomeno della urbanizzazione un fenomeno mortale per la religione, diversi autori spirituali si ponevano controcorrente. Ne segnaliamo tre, vere figure anticipatrici, rappresentative di aree geografiche diverse.
3.1. Thomas Merton (1915-1968) La prima figura di rilievo è Thomas Merton, monaco trappista statunitense, nato in Francia, sensibile ai fermenti culturali del suo tempo. Secondo Rowan Williams, mentre fino al 1941 Thomas Merton aveva considerato il monastero come l’unica realizzazione riuscita della vocazione della «città» secondo Dio (cf. teologia agostiniana), successivamente, in seguito ad alcune letture, soprattutto Vita activa. La condizione umana di Hannah Arendt, aveva assunto una posizione critica nei confronti della vita del monaco così come era modellata al suo tempo e questo lo aveva spinto a ribellarsi a una identità monastica in cui «la non mondanità consiste in una mescolanza di proclamato distacco culturale e inconscia riproduzione delle norme culturali prevalenti. Non esiste dunque alcun mondo nuovo che venga annunciato dal monastero moderno».12 La coscienza di T. Merton – scrive A. Montanari – sembra essere pervenuta a questa nuova sensibilità in un momento di particolare consapevolezza vissuta nella città di Louisville. Fui d’un tratto preso dall’idea che io amavo tutta questa gente, che mi apparteneva come io appartenevo a loro, che non potevamo essere estraniati gli uni dagli altri, anche se di razze diverse. Era come svegliarsi da un sogno di separazione, di isolamento fittizio in un mondo speciale, il mondo della rinunzia e della pretesa santità. L’illusione di una santa esistenza appartata è un sogno. Non che io metta in dubbio la realtà della mia vocazione o della vita monastica, ma la concezione conventuale della «separazione dal mondo» si rivela troppo spesso un’illusione: l’illusione che emettendo i voti religiosi si diventi una creatura di un’altra specie, pseudoangeli, «uomini spirituali» o uomini di vita interiore, come preferite. Questi valori tradizionali sono senza dubbio reali, ma la loro realtà non è di un ordine estraneo all’esistenza quotidiana di un mondo contingente, né ci dà diritto di disprezzare le cose secolari. Benché «fuori dal mondo», noi siamo nello stesso mondo di tutti, il mondo della bomba, il mondo dell’odio razziale, il mondo della tecnologia, il mondo dei mass-media, dei grandi complessi industriali, della rivoluzione e di tutto il resto. […] Proprio perché sono uno di loro, sono debitore verso tutti di poter
12 R. Williams, «L’unica vera città. Monachesimo e visione sociale», in Azione e contemplazione. Incontri con Thomas Merton, Qiqajon, Magnano (BI) 2013, 94.
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia essere solo, e quando sono solo essi non sono «loro», ma sono me stesso. Non esistono estranei.13 Nacquero così – continua Montanari – i nuovi scritti [a partire dal 1960], dai quali effettivamente la profezia emerge con forza come testimonianza della falsità che domina la vita dell’uomo nella società in cui tale vita si sta sviluppando e, al tempo stesso, smascheramento di questa illusione. Orientata ad aprire la strada verso l’orizzonte della vita vera.14
Merton non cessò di interrogarsi riguardo al «posto del mistico e del profeta nel XX secolo». Si tratta per T. Merton – secondo lo studioso americano C.R. Thralls – di uscire da quella illusione di comunità che vive l’uomo di massa nella città, circondato da altri ma in una facciata di unità apparente, ma di uscire anche dalla falsa solitudine, di chi pensa di essere unico, speciale e migliore per il solo fatto di essersi ritirato dal mondo. La vera solitudine è quella che si compie nel liberarsi dalle distrazioni e illusioni collettive della cultura circostante, nel vivere in contatto e in unità indivisa con il proprio io profondo e con Dio, realizzando l’ideale del monaco già deli neato da Evagrio Pontico: «un uomo che è separato da tutti e che è in armonia con tutto», pur vivendo fisicamente separato.15 Certamente per i contemplativi, condividere le preoccupazioni e le ansie per la vita delle donne e degli uomini contemporanei, non significa abbandonare la solitudine per impegnarsi direttamente nella lotta. Essi – scrive Merton – devono invece «mantenere la loro unica prospettiva, quel che solo la solitudine può dare, e da tale posizione di vantaggio sono chiamati a capire l’angoscia del mondo e condividerla seppure in diverse modalità».16 Di conseguenza risulta assai significativo il titolo di una sua opera Diario di un testimone colpevole (1966). La solitudine ha un compito speciale da assolvere: approfondire la coscienza di ciò di cui il mondo ha bisogno, lottare contro l’alienazione. La vera soli-
13 T. Merton, Diario di un testimone colpevole, Garzanti, Milano 2004, 156s, citato in A. Montanari, «II. “Ho scritto la mia vita invece di viverla”. L’istinto dello scrittore», in A. Montanari – M. Renzini – M. Zaninelli (a cura di), Thomas Merton. Il sapore della libertà, Paoline, Milano 2014, 75s. 14 Montanari, «II. “Ho scritto la mia vita invece di viverla”», 79. 15 Cf. l’interessante articolo di C.R. Thralls, «From “Get out of My Way” to “Shining like the Sun”: Thomas Merton on Cities, Community and Solitude», in The Merton Annuals (2019)31, 146-157. L’autore si pone ampiamente in dialogo con il volume di P. Sheldrake, The Spiritual City: Theology, Spirituality, and the Urban, Wiley-Blackwell, Chichester 2014. 16 T. Merton, Il contemplativo e l’ateo, La Locusta, Vicenza 1986, 6-7, citato in Montanari, «II. “Ho scritto la mia vita invece di viverla”», 86s. Allargando il discorso, T. Merton affermava che non solo la vita monastica, ma «la vita cristiana deve giustificare la propria implicita rivendicazione a essere l’autentica esistenza “civica”, uno spazio per la conversazione di persone libere» (Williams, «L’unica vera città. Monachesimo e visione sociale», 94 e 102).
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Luciano Luppi tudine è profondamente consapevole delle necessità di questo mondo. Non tiene il mondo a distanza.17
In un suo intervento informale alla Conferenza di Calcutta dell’ottobre 1968 sottolineava proprio l’importanza di questa presenza solidale nel mondo, che ha la sua forza nell’assunzione consapevole della propria umana irrilevanza e marginalità: I monaci, gli hippy, i poeti sono persone che contano? No, noi siamo deliberatamente irrilevanti. Noi viviamo con quella irrilevanza congenita che è propria di ogni essere umano. L’uomo marginale accetta l’irrilevanza fondamentale della condizione umana, che si manifesta soprattutto con la morte. La persona marginale, il monaco, il profugo, il prigioniero, tutta questa gente vive in presenza della morte, la quale mette in discussione il significato della vita. Questa gente combatte la morte dentro di sé, cercando qualcosa di più profondo della morte; perché c’è qualcosa di più profondo della morte, e il compito del monaco o della persona marginale, della persona meditativa e del poeta è quello di andare al di là della morte anche in questa vita, di andare al di là della dicotomia vita-morte ed essere perciò un testimone della vita.18
Rievocandone il messaggio su La Stampa, Enzo Bianchi scrive: Forse è grazie a questa marginalità consapevole che Merton riuscì a parlare al cuore di tanti uomini e donne della sua generazione e di quelle successive. Con più il suo cammino spirituale si indirizzava verso una vita eremitica, con più tesseva contatti e stringeva amicizie con quanti avevano a cuore l’umanità nelle sue sofferenze. In quei primi anni sessanta del secolo scorso non ci fu battaglia civile o dello spirito che non vide Merton accanto ai suoi più sinceri sostenitori: dalla lotta contro gli armamenti nucleari all’opposizione alla guerra in Vietnam, da Dorothy Day e la solidarietà cattolica al mondo operaio a Martin Luther King e alla sua battaglia per l’emancipazione dei neri, da Joan Baez e la freschezza di una musica che parla al cuore a Jacques Maritain e ai nuovi orizzonti che si dischiudevano per la fede con il concilio di papa Giovanni, dal Dalai Lama ai pionieri del dialogo interreligioso. È questo stare in disparte senza desolidarizzarsi dalla compagnia degli uomini, questo farsi carico delle speranze e delle sofferenze altrui, questo raccogliersi in se stesso per pensare con gli altri che ha fatto di Merton un autentico «contemplativo», un visionario e un profeta per il nostro tempo. Non nel senso di chi «prevede il futuro» o ha apparizioni soprannaturali, ma di chi abitua il suo sguardo a contemplare la realtà come Dio la osserva, di chi affina il suo orecchio ad ascoltare ciò che Dio dice all’umanità, di chi non si ferma all’apparenza ma guarda in profondità.19
Merton, Diario di un testimone colpevole, 20. Diario asiatico, 223, riportato in M. Renzini, «Comunicare in profondità, oltre le parole e i concetti. Un profeta del nostro tempo», in Montanari – Renzini – Zaninelli (a cura di), Thomas Merton, 104-105. 19 E. Bianchi, «Merton, così lontano così vicino», in La Stampa, 6 marzo 2002, articolo consultato il 2 agosto 2018 in https://www.monasterodibose.it/fondatore/articoli/articoli-su-quotidiani/656-merton-cosi-lontano-cosi-vicino 17 18
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3.2. Fraternità monastiche di G erusalemme (1975) Una seconda figura anticipatrice è costituita dalle Fraternità monastiche di Gerusalemme, fondate da padre Pierre-Marie Delfieux presso la chiesa di Saint-Gervais-Saint-Protais a Parigi, il giorno di Ognissanti del 1975, con l’approvazione del cardinale François Marty.20 Padre Pierre-Marie Delfieux (1934-2013), ordinato prete per la diocesi di Rodez nel 1961, voluto dal futuro card. Lustiger come assistente spirituale degli studenti di lingue al Centro Richelieu di Parigi (1965), nel 1971 parte per il deserto del Sahara sui luoghi di Charles de Foucauld. Dopo due anni passati nel deserto, nella notte di Natale del 1973, mentre celebrava da solo la messa, ha avuto una visione: il globo terrestre circondato da una moltitudine di volti umani che, poco a poco, disegnavano il volto di Cristo. In quel preciso momento ha avuto la certezza che doveva cercare Dio attraverso gli abitanti delle città e che doveva allontanarsi dal deserto per comprendere come mettere l’essenziale al cuore della città.21 Il Libro di Vita, che, come itinerario spirituale e riferimento comune, esprime l’essenza della vita monastica delle Fraternità e traccia le linee fondamentali della loro vocazione specifica, dedica tutta la terza parte a illuminare questa intuizione spirituale: vivere nel cuore della città, nella Chiesa, come figli e figlie di Gerusalemme, come risposta a una chiamata attuale e urgente: 131. Oggi, ancor più, è sorto un mondo nuovo: ieri essenzialmente rurale, oggi per la maggioranza urbano. La tua vita risponde dunque a una chiamata particolarmente attuale e urgente del mondo, della Chiesa di Dio. Credi che la vita monastica non è incompatibile con il fenomeno urbano dei tempi attuali. Il deserto, ora, è anche nella città.22
«Alzati, entra nella città, e ti sarà detto ciò che devi fare» (At 9,6) è l’icona di riferimento. La sfida del monaco è di pregare e incontrare Dio attraverso la città degli uomini, vivendo da cittadino, da inquilino, da salariato, in una condivisione della vita di chi nella città vive nella precarietà. Egli è chiamato a cercare Dio e a combattere. Il suo combattimento spirituale consiste innanzitutto in una presenza umile e nascosta, a imma-
20 Da questi furono costituite in pia unio, assumendo il titolo «di Gerusalemme» nel 1979. Nel 1996 vennero erette in «Istituti Religiosi» dal cardinale Jean-Marie Lustiger. 21 Cf. l’interessante intervista a p. Jean-Christophe Calmon, attuale priore generale dei Fratelli delle Fraternità, in occasione del 40° della loro fondazione, pubblicata su La Croix del 30 ottobre 2015, dal titolo «Les Fraternités monastiques de Jérusalem: “Mettre l’essentiel au cœur de la ville”»: https://www.la-croix.com/Religion/Spiritualite/Les-Fraternites-monastiques-de-Jerusalem-Mettre-l-essentiel-au-caeur-de-la-ville-2015-10-30-1374656 (consultato nel gennaio 2019). 22 Cf. Le Livre de Vie, che ha avuto sette edizioni ed è stato tradotto in una ventina di lingue. Per l’edizione italiana: Monaci nella città. Una regola di vita, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1987: «Di Gerusalemme. 11. Nel cuore delle città» (nn. 128-135).
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gine di Dio che sembra ai margini o rimosso dalla vita cittadina, come se Egli fosse assolutamente superfluo. 129cd. Tutta la vita monastica è un combattimento. Il monachesimo urbano richiede persone disposte a combattere. Gesù non è venuto a portare la pace, ma la spada. All’erotismo, al prestigio, al danaro, contrapponi fieramente una vita di povertà, di umiltà, di purezza. In mezzo al frastuono conquista il tuo silenzio; nella fatica, la tua pace; nei molteplici andirivieni, il tuo riposo in Dio. Nessun chiostro proteggerà la tua preghiera; la campagna non ti donerà serenità; la tua virtù non sarà salvaguardata dalle mura della clausura. Alla sequela del Cristo, le Beatitudini ti chiamano a vivere nel cuore della città un vero combattimento.
Le Fraternità si pongono in legame con la Chiesa diocesana, allo scopo di potersi adattare meglio alle differenti situazioni, sensibilità e culture locali. Nel «deserto» della solitudine, dell’inquietudine, della ricerca o dell’indifferenza, che caratterizza i grandi agglomerati urbani, costituiscono un’oasi, dando vita a uno spazio di silenzio e di preghiera, che vuole essere al tempo stesso un luogo di accoglienza, di condivisione, di ascolto della Parola e di perdono. Le Fraternità vogliono dunque raggiungere e servire gli uomini che cercano Dio, rivelando con la vita contemplativa e fraterna la sua presenza nel cuore del mondo, ma anche aiutando a riconoscere nella città stessa i segni della presenza di Dio, da accompagnare con la lode e l’intercessione: 130. Sappi anche contemplare le bellezze e la santità della città dove Dio risiede e ti ha messo. Alza, nel cuore della città, le due braccia della lode e della intercessione.
Il modello delle Fraternità monastiche di Gerusalemme esprime quindi un paradigma ecclesiale di condivisione e di offerta di spiritualità programmaticamente inculturato nel tessuto urbano, fedele alla vocazione impressa nel nome stesso della congregazione. Si tratta di monaci con uno stile di vita adattato all’antropologia cittadina, convinti che la testimonianza di esistenze da cittadini, ancorate radicalmente in Dio, annuncia la presenza di Dio più di ogni altra opera o attività apostolica.
3.3. Carlo Carretto (1910-1988) Una terza figura anticipatrice è Carlo Carretto, presidente della GIAC – Gioventù italiana di Azione cattolica (1946-1952) –, ritiratosi nel deserto del Sahara sulle orme di Charles de Foucauld (1954-1965), poi stabilitosi a Spello (PG) come membro dei Piccoli fratelli del vangelo. In una lettera alla sorella rilegge la decisione di partire per il deserto: Prima [Dio] chiese la mia azione, poi chiese me. Vissi due periodi distinti e tutti e due molto belli. Nel primo (quello che va fino al 1953-54) mi trovai a lavorare nella Chiesa come un crociato, sentivo di contare qualcosa e mi
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia buttavo nell’azione con la passione di un innamorato. […] Avevo persino l’impressione di fargliela; nella mia ingenuità mi sono trovato a pregare quasi così: Signore, lasciaci fare. Vedrai che porteremo tutti ai tuoi piedi di Re dell’universo. Ci siamo, quasi, Signore, abbiamo quasi convertito l’Italia. […] Ma lui, il Signore, che sopporta sempre la nostra immaturità, mi attendeva al varco. Mi sentii dire da lui: Carlo, non voglio più la tua azione; voglio te. E mi trovai nel deserto, come in un secondo periodo della mia vita, a svuotarmi delle mie sicurezze e a liberarmi dagli idoli. È stata la più splendida avventura della mia vita, anche se la più rude e dolorosa. Dal deserto le cose si vedono meglio, con proporzioni più eterne. Il cosmo prende il posto del tuo paese natìo e Dio diventa davvero un Assoluto. Anche la Chiesa si dilata alle dimensioni dell’universo e i lontani, cioè coloro che non sono ancora visibilmente cristiani, diventano vicini. Le dimensioni della Chiesa si allargano all’infinito e vivi il conforto di pensar che Gesù è morto per tutti e ha raggiunto tutti con il suo sacrificio supremo.23
Dopo il fortunato libro Lettere dal deserto (1967), che racconta questa svolta della sua vita e l’esperienza del deserto, dove aveva conosciuto anche p. Pierre Delfieux e successivamente il suo progetto di «vivere nella grande città l’ideale monastico»,24 nel 1977 scrisse Il deserto nella città. Il volume nasce a Hong Kong, una città frenetica, caratterizzata dalla finanza, in cui con sua grande sorpresa trova una viva ricerca spirituale. E così Dio che è «sorpresa» mi ha condotto questa volta in Cina. Ma… non per fare un viaggio in più: ne ho fatti tanti di viaggi. La novità sta che non me l’aspettavo e soprattutto non mi aspettavo ciò che Lui voleva dirmi proprio qui a Hong Kong, in questa città così uguale eppure così diversa da tutte le altre città. […] Hong Kong mi è apparsa come la vera città del domani, ancorata su acque senza confini e con strade disseminate all’inverosimile da templi agli idoli come erano Corinto e Atene al tempo di S. Paolo. I nomi dei templi sono: Bank of America The Hong Kong – Shanghai Banking Corporation – Bank of China – The Chartered Bank – Bank of Tokyo – Banque Nationale de Paris – Dredsner Bank – The Chase Manhattan Bank – The Hang Seng Bank – Bank of Bangkok – Amsterdam Bank, eccetera.
La domanda di uno studente cinese lo colpì profondamente:
23 Dal discorso tenuto presso la tomba di fratel Carlo Carretto a Spello dal card. Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, il 22 marzo 1990, a conclusione di alcuni giorni di ritiro trascorsi ad Assisi accompagnato da 150 giovani preti (dal sito http://www0.azionecattolica.it/settori/GIOVANI/sezione/vita/530-posta-prioritaria/460-che-estate-ragazzi/rj/ Carlo_Carretto_Card_MARTINI_sulla_tomba_di.pdf (consultato nel febbraio 2019). 24 Scrive in C. Carretto, Il deserto nella città, San Paolo, Milano 1978, 7: «Un mio amico, Pierre Delfieux, che fu con me per due anni nel Sahara, ha iniziato a Parigi una forma di vita religiosa basata proprio sull’impegno di vivere nella grande città l’ideale monastico di lavoro, preghiera, silenzio, liturgia, carità. Non dubito quando affermo che in pochi decenni ogni città vedrà il miracolo di queste fondazioni “di urto” e lo splendore di uomini e di donne che sanno trasformare “babele” in Gerusalemme e la “deportazione” in luogo di preghiera».
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Luciano Luppi «Fratel Carlo ho letto le tue Lettere dal deserto e ho desiderato conoscerti. […] Devo trovare il mio Dio qui nella babele della mia città. Quale strada devo percorrere? È possibile? E se è possibile ti chiedo una cosa: perché non scrivi per noi un libro che ci aiuti a trovare il nostro deserto qui nella città?». Mi sentii commosso e nello stesso tempo interpretato fino in fondo. […] In quel momento nel mio cuore era nato Il deserto nella città. […] Il deserto vero, quello di sabbia e di stelle, era stato il mio primo amore e non mi sarei più staccato da esso se non fosse stata l’obbedienza a richiamarmi lontano. «Fratel Carlo, hai conosciuto l’assoluto di Dio, ora devi conoscere l’assoluto dell’uomo». Ed ero ripartito alla ricerca degli uomini. […] «Fare il deserto nella propria vita» mi dicevo, allontanandomi a piccoli passi dalla stabilità di quella solitudine e camminando verso un mondo totalmente diverso. Non bastava. Mi ci voleva Hong Kong per farmi dire che anche la città aveva la possibilità del deserto e che anche i grattacieli potevano diventare luminosi come diamanti. Bastava avvolgerli nel buio della fede in modo che le luci apparissero come stelle nella notte. […] «Ora mi ci provo» dissi al mio giovane interlocutore… «Avevo deciso di non scrivere più libri»… E poi, questo tema «il deserto nella città» mi piace. Corregge in me, e in chi come me si è troppo innamorato della solitudine, l’impressione di voler fuggire.
A uno sguardo di fede, quindi, anche una realtà chiusa al trascendente come Hong Kong appare trasfigurata. E citando Caterina De Hueck Doherty, una mistica russa che viveva in America, parla del deserto come di un luogo non solo geografico, ma spirituale in cui «riprendere coraggio», ascoltare «le parole della verità», luogo della penitenza e dell’intercessione solidale.25 «Fare il deserto nel cuore della città» è riscoprire la presenza di Dio nella storia. È lì che Dio ci interpella. Considera la realtà in cui vivi, l’impegno, il lavoro, le relazioni, le adunanze, le camminate, le spese da fare, il giornale da leggere, i figli da ascoltare, come un tutt’uno da cui non puoi staccarti, a cui devi pensare. Dirò di più: un tutt’uno attraverso il quale Dio ti parla e ti conduce. Non è fuggendo che tu troverai Dio più facilmente ma è cambiando il tuo cuore che tu vedrai le cose diversamente. Il deserto nella città è solo possibile a questo patto: vedere le cose con occhio nuovo, toccarle con uno spirito nuovo, amarle con un cuore nuovo. Teilhard de Chardin direbbe: abbracciarle con cuore casto. […] Sì, la realtà ci educa e come! La realtà è il vero veicolo sul quale Dio cammina verso di me. Nel reale trovo Dio molto più vitalmente che nei bei pensieri che di Lui o su di Lui mi posso fare. Specie se è una realtà dolorosa dove la volontà è messa a dura prova e dove riscopro con più evidenza la mia povertà.
Su questo punto è molto significativa l’affermazione di Gian Carlo Sibilia, uno dei primi compagni di Carretto nella Fraternità Jesus Caritas di Spello, che mostra come questa ricerca di Dio e della divina presenza ha segnato la vita di Carlo Carretto fin dalla giovinezza, come emerge già da
25
Cf. C. De Hueck Doherty, «Pustinia» ou le désert au cœur des villes, Cerf, Paris 1977.
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un testo di quando aveva 24 anni: «insomma Dio non è mai assente dalla nostra vita, non può esserlo, in Lui siamo e ci muoviamo».26 Ora fratel Carlo lo ritrova a un’altra profondità e in tutta la sua attualità per l’uomo che vive nella città: «Dove andrò lontano dal tuo respiro, dove fuggirò lontano dal tuo Volto?». Ed è sciocco pensare che Dio sia in Chiesa e non sia nella strada, che sia nel Sacramento e non sia tra la folla, che sia nella felicità e non nel mio dolore, nelle cose luminose e facili e non nei terremoti o nei nubifragi. Dio è sempre là. […] Ed è per questo che sono felice. E non mi sento mai solo. […] Tutto è segno di Dio. Non esiste luogo vuoto della Sua presenza. Mi ci devo abituare per sopportare il deserto nella città e per animarlo del suo amore. […] Meglio accettare il reale come il mezzo con cui Dio ci genera, ci tocca, ci fa crescere. Dio è presente nelle cose, negli avvenimenti, nella storia ed è attraverso i segni che si manifesta. […] «Vieni, Signore Gesù», pregavano i primi cristiani delle comunità di Efeso. Questa resta sempre la preghiera dei tempi difficili, dei tempi come i nostri in cui la fede è purificata dalla oscurità e in cui Dio si rivela nella trasparenza dell’Amore vissuto.
4. Sguardo
contemplativo sulla città : radici nella storia della spiritualità
Tra le molte figure della storia della spiritualità che hanno contribui to a far maturare un’attenzione contemplativa alla storia e alle dinamiche della costruzione della vita civile ed ecclesiale, abbiamo pensato di evidenziarne tre, vissute in tempi di forti cambiamenti e rappresentative di altrettante tipologie significative per il nostro tema: Gregorio Magno, nell’orizzonte dell’azione pastorale; Caterina da Siena, come testimone di un’itineranza pacificatrice e riformatrice; Ignazio di Loyola, come maestro di contemplazione nell’azione.
4.1. Gregorio Magno (540-604) Gregorio Magno, considerato il «padre spirituale» del Medioevo, con la sua dottrina spirituale fa da ponte fra l’età patristica e la cultura monastica medievale. Nato a Roma intorno al 540, da famiglia nobile e ricca, nel 572 venne nominato prefetto dell’Urbe. Lasciata nel 578 ogni carica pubblica per dedicarsi alla vita monastica, l’anno successivo fu inviato da papa Pelagio II alla corte imperiale di Costantinopoli. Tornato a Roma
26 G.C. Sibilia, «La spiritualità di Carlo Carretto», in P. Trionfini (a cura di), «Ho cercato e ho trovato». Carlo Carretto nella chiesa e nella società del Novecento, AVE, Roma 2012, 242.
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nel 586, nel 590 il clero con il popolo e il senato furono unanimi nel sceglierlo quale nuovo vescovo di Roma. Rielaborando in chiave personale l’affermazione agostiniana del «praeesse est prodesse», definiva se stesso «servus servorum Dei», e come tale si comportò nella molteplice attività di pastore. Ebbe grande cura della predicazione. Il ricco epistolario (oltre 850 lettere) ci testimonia la sua instancabile attività diplomatica per comporre le lotte politiche e i dissidi ecclesiali, il suo impegno per assicurare un’efficace amministrazione del patrimonio pontificio a vantaggio dei poveri, la sua preoccupazione per la diffusione missionaria del vangelo. Nel mettere in luce il valore e l’attualità della testimonianza di san Gregorio Magno, il cardinal C.M. Martini sottolineava come fosse «vissuto in un’epoca travagliatissima, in un’epoca segnata da sofferenze senza numero: […] guerre, carestie, disordini, inondazioni del Tevere, pestilenze, invasioni», ma soprattutto come avesse rappresentato una figura di transizione tra il cristianesimo romano di Ambrogio, Agostino, Gerolamo e il cristianesimo del tempo dei barbari: sta in mezzo fra due epoche. Di lui è stato detto che ha cercato di essere insieme vescovo dei Romani e dei Longobardi, nutrendoli con il pane della Parola e con il pane materiale, difendendoli, proteggendoli, amandoli. L’impero considerava i Longobardi come predoni da sterminare, ma Gregorio vedeva in loro un popolo di cui aveva sì paura, ma al quale voleva comunicare la fede e che desiderava convertire alla causa della pace.27
Questo stile di azione pastorale, che si lascia interpellare dalle situazioni storiche inedite per aprire sentieri nuovi di evangelizzazione, non è separabile dalla sua spiritualità di pastore, condensata in particolare nella sua Regola pastorale, testo che ha nutrito generazioni di pastori. Nel delineare la figura e la spiritualità del vescovo e di chiunque eserciti specialmente il servizio della predicazione nella Chiesa, afferma: I veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Per questo Mosè […] all’interno scruta i misteri di Dio, fuori accoglie le pene degli uomini. […] Perciò la Verità stessa, che ci si è mostrata nell’assunzione della nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città opera i miracoli (cf. Lc 6,12): evidentemente per appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano tuttavia accostarsi con amore alle necessità di creature inferme (II,5).
27 C.M. Martini, «Una straordinaria vicenda spirituale e pastorale», in Vi affido alla Parola. Le «consegne» di un Pastore, Àncora, Milano 2003, 49-50. R.A. Markus afferma che «per comprendere Gregorio dobbiamo considerarlo partecipe, allo stesso tempo, di due diversi mondi […]: il mondo di Ambrogio, di Agostino, di Giovanni Cassiano e dei loro contemporanei, e il mondo dei loro eredi medievali» (Gregorio Magno e il suo mondo, Vita e Pensiero, Milano 2001, XII).
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Qui san Gregorio, pur utilizzando un linguaggio di sapore neo-platonico – salire nella contemplazione e scendere nell’azione – fa emergere con forza l’insopprimibile originalità cristiana, innanzitutto insegnando che in entrambi i movimenti il vero pastore non esce mai dalla contemplazione di Cristo, ora colto in quanto capo, ora colto nel suo corpo che è la Chiesa. D’altra parte questa è la dinamica propria della carità: Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso gli umili tanto più potentemente risale verso l’alto (II,5).
San Gregorio Magno fa qui esplodere lo schema neo-platonico, sottolineando il paradosso della carità teologale, che raggiunge le massime altezze quando scende verso le più infime necessità degli uomini e soprattutto dei poveri. Questa, d’altra parte, secondo san Gregorio Magno, è la via percorsa dal Figlio di Dio fatto uomo e risplende in maniera sublime nella vita dell’apostolo Paolo, che «unisce nell’abbraccio della carità le realtà più alte e le più umili».28 Per questo lo stile del pastore, secondo Gregorio Magno, dovrà essere caratterizzato dalla capacità di comporre esigenze apparentemente opposte: Colui che è a capo della Chiesa sia puro nei pensieri, esemplare nelle azioni, discreto nel tacere, opportuno nella parola, vicino a ciascuno per la compassione, elevato al di sopra di tutti nella contemplazione, unito nell’umiltà con chi opera il bene, fermo per lo zelo della giustizia contro i vizi di chi opera il male.29
L’equilibrio degli opposti costituisce per lui la bellezza fragile della vita cristiana. A lui tutta la realtà appare complessa e insegna a ricomporre le contrapposizioni e a ritrovare nell’equilibrio il giusto mezzo e la verità dell’esistenza, senza rinunciare a nessuno degli estremismi evangelici, ma riconducendoli alla verità di una quotidianità vivibile.30
Questa coscienza della complessità della realtà e dell’equilibrio degli opposti emerge anche nel suo sguardo sulle persone, in cui mostra una profonda intelligenza dell’umano, piena di concretezza e finezza spiritua-
Cf. anche Regola pastorale II,5. Lettera sinodica I,24, in Gregorio a Giovanni di Costantinopoli, Città Nuova, Roma 1996, 148. A queste, andrebbero aggiunte altre due contrapposizioni sviluppate nella Regola: «Non attenuare la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasciare di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore» (Regola pastorale II,7) e «non cercare il favore degli uomini e tuttavia essere attenti a ciò che ad essi deve piacere» (Regola pastorale II,8). 30 C.M. Martini, «Una straordinaria vicenda spirituale e pastorale», in Vi affido alla Parola. Le «consegne» di un Pastore, 49-50. 28 29
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le. Lo attesta soprattutto il libro terzo della Regola pastorale, nel quale, rifacendosi esplicitamente a Gregorio Nazianzeno, afferma che l’esortazione va adattata «alla natura e al comportamento di ciascuno»31 e prosegue dettagliando questa indicazione alle più diverse tipologie. Anche questo è un tratto di sapienza pastorale di grande attualità: la necessità, prima di ogni giudizio morale, di fare attenzione alle situazioni esistenziali degli interlocutori, riconosciuta come condizione necessaria per un ascolto dello Spirito e una predicazione che sappia «toccare il cuore degli ascoltatori» e ravvivare in loro il desiderio di Dio. E in tutto unendo estrema flessibilità e rigorosa coerenza: Se è molto faticoso istruire ciascuno […] con la dovuta considerazione, tuttavia è di gran lunga più faticoso farlo, nello stesso tempo e con il medesimo discorso, nei confronti di ascoltatori numerosi e sottoposti a passioni diverse; e il discorso deve essere regolato con tanta arte da adattarsi ai singoli ascoltatori coi loro diversi vizi, e insieme da non contraddirsi; da passare tra le passioni seguendo un solo tracciato, ma come una spada a due tagli.32
Gregorio Magno pone quindi le basi di una spiritualità pastorale in cui la storia e gli uomini, incontrati nella carità alla luce del vangelo, diventano luogo di contemplazione, di incontro con Dio e di nuova luce nel riconoscere la presenza e la volontà divina. Ed è per questo che può affermare che «la Scrittura cresce con colui che la legge (divina eloquia cum legente crescunt)», non solo nel senso che i testi biblici «uno li comprende tanto più profondamente quanto più profonda è l’attenzione che ad essi rivolge» attraverso lo studio e la preghiera personale,33 ma anche che questa comprensione cresce nello stesso esercizio della predicazione, attraverso la lettura comunitaria ed ecclesiale: So […] che per lo più molte cose nella sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli […] per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno; perché – è la verità – per lo più ascolto con voi ciò che dico.34
I volti dei fratelli contribuiscono quindi a svelare – nell’unico dinamismo della carità – le insondabili ricchezze delle sacre Scritture e gli appelli di Dio nella storia. Così san Gregorio Magno educa a vivere il proprio tempo, a «traghettare una tradizione verso il tempo che avanza».35
Regola pastorale III, Prologo. Regola pastorale III,36. 33 Gregorius Magnus, Moralia 20,1: CCL 143A,1003, e più volte nelle sue omelie. 34 Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele II,II,1, in Omelie su Ezechiele/2 (Opere di Gregorio Magno III/2), a cura di V. Recchia, Città Nuova, Roma 1993, 49. Cf. lo studio di B. Calati, «“Scriptura crescit cum legente” nelle omelie di s. Gregorio Magno», in Parola Spirito e Vita (1991)24, 266. 35 A. Torresin, Gregorio, pastore in un tempo di transizione, proposta di Formazione permanente del clero della diocesi di Milano per l’anno 2007-2008: https://www.chiesa31 32
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4.2. Caterina
da
Siena (1347-1380)
Un’ulteriore radice di questo sguardo contemplativo sulla città la possiamo ritrovare in santa Caterina da Siena, terziaria domenicana senese, canonizzata nel 1491, proclamata compatrona d’Italia (1939) e d’Europa (1999) e prima donna, insieme a Teresa di Gesù, a essere dichiarata dottore della Chiesa da Paolo VI (1970), che in quell’occasione affermò: A Noi sembra che […] Caterina sia la mistica del Verbo Incarnato, e soprattutto di Cristo Crocifisso; essa fu l’esaltatrice della virtù redentiva del Sangue adorabile del Figliuolo di Dio, effuso sul legno della Croce con larghezza di amore per la salvezza di tutte le umane generazioni. […] Caterina perciò potremmo dirla la mistica del Corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa.
Caterina di fatto vive un’epoca di delicata e sofferta transizione sociale, politica, culturale, con inevitabili conseguenze anche sul piano religioso. Il 1348, l’anno successivo alla sua nascita, fu segnato da una peste devastante, che colpì l’Europa, impoverendola sotto ogni aspetto. La mortalità fu tale da mettere in ginocchio l’economia di tante città. Gli Stati cominciano a prendere fisionomia e indipendenza e i Comuni in Italia, segnati da sempre più frequenti guerre civili, di lì a poco lasceranno il posto alle Signorie. La Chiesa, prigioniera di interessi economici e politici, pare davvero una barca sballottata da tempeste morali e spirituali che la sfigurano rendendo la sposa di Cristo «pallida e morente», come affermerà spesso Caterina da Siena nelle sue Lettere. In questo momento di grandi cambiamenti Caterina, come attestano le sue più di 380 lettere e i suoi viaggi, dispiegò un’ampia azione sia nel campo ecclesiale che in quello politico, interessandosi a persone di tutte le classi sociali, da quelle più umili, come malati, poveri, condannati a morte, a quelle più altolocate, impegnandosi in particolare per la riforma della Chiesa, il ritorno della Curia papale da Avignone a Roma e la soluzione dei molteplici conflitti che laceravano la società del suo tempo. Da «donna ardita, semplice ed abile ad un tempo […] osa iniziative diplomatiche altrettanto candide che sapienti». Si mostra «capace di conversazione fascinatrice che muta gli interlocutori in discepoli, in amici fedelissimi».36 «Nell’incertezza dei tempi e nel disorientamento degli spiriti, Caterina è un punto di convergenza, un centro polarizzatore per gli individui più diversi, che in lei riconoscono la presenza di un’azione superiore».37 Molti, laici e anche chierici, si raccolsero intorno a lei come discepoli, riconoscendole il dono di un’autentica maternità spirituale.38
dimilano.it/formazionepermanenteclero/senza-categoria/la-santita-del-ministro-ordinato-san-gregorio-magno-e-la-regola-pastorale-1511.html (sito consultato nel febbraio 2019). 36 Paolo VI, Udienza generale, 30 aprile 1969. 37 G. Penco, Storia della Chiesa in Italia, 1: Dalle origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1978, 431. 38 Caterina è considerata come il «prototipo delle “divine madri”»; cf. A. Tilatti, «La direzione spirituale. Un percorso di ricerca attraverso il secolo XIII nell’Ordine dei Predica-
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Per Caterina si trattava di rispondere a una chiamata. Come riporta la Legenda maior, sente Gesù che le rivolge queste parole emblematiche: Tu non starai più chiusa nella tua cella, bensì andrai in mezzo al mondo al fine di guadagnare a me le anime. […] Io manderò alcuni a te, e manderò te ad altri, conforme al mio beneplacito; solo sii pronta ad eseguire la mia volontà (cf. Legenda maior, nn. 121.216).
Questo mandato profetico lo riconosce solennemente confermato dall’eterno Padre, come attesta la conclusione del Dialogo: Corri per questa strada della verità […] Guarda che tu non esca della cella del cognoscimento di te, ma in questa cella conserva e spendi il tesoro che ti ho dato, il quale è una dottrina di verità, fondata in su la viva pietra, Cristo dolce Jesu, vestita di luce (Dialogo CLXVI).39
Caterina poté conciliare un tale dinamismo caritativo e apostolico con la sua vocazione contemplativa grazie a quella che lei chiama la «cella interiore»40 e cioè vivere costantemente nell’umile consapevolezza del proprio nulla e sotto lo sguardo di Dio, visto sempre a partire dall’umanità del Verbo incarnato e crocifisso: «Gesù dolce, Gesù amore». Questo costituisce il centro unificante e propulsivo della sua vita, che la spinge a dispiegare un’azione caritativa e pacificatrice inesausta. A partire, infatti, dall’intima comunione con Cristo crocifisso, si fa chiara per lei la natura profonda di Dio: Nella natura tua, Deità etterna, cognoscerò la natura mia. E quale è la natura mia, amore inestimabile? è il fuoco, però che tu non se’ altro che fuoco d’amore, e di questa natura hai data a l’uomo però che per fuoco d’amore l’hai creato (Dialogo CX).
Come il fuoco, così l’amore stesso di Dio si trasmette agli uomini e li trasforma assimilandoli a sé. La trasformazione più decisiva per Caterina deriva dalla scoperta che Dio è «pazzo d’amore» per la creatura fatta a sua immagine e somiglianza:
tori», in G. Filoramo (a cura di), Storia della direzione spirituale, 2: L’età medievale, a cura di S. Boesch Gajano, Morcelliana, Brescia 2010, 357. 39 Cf. G. Cavallini, «Donne e mistiche. Santa Caterina da Siena e il profetismo femminile», in Vita consacrata 41(2005)3, 320. 40 Al monaco olivetano Niccolò di Ghidda scrive nella Lettera 37: «Figliolo scrivo a voi nel prezioso sangue suo col desiderio di vedervi abitatore della cella del conoscimento di voi, la quale cella è un’abitazione che l’uomo porta con sé dovunque vada». E ancora in altre Lettere: «Perché se tu stessi nel cognoscimento di te, verrebbe la confusione della mente; e stando solo nel cognoscimento di Dio, verresti a presunzione. Conviene dunque che siano conditi l’uno con l’altro, e faccine una medesima cosa» (Lettera 49). «Ve lo dico: che sempre abitiate nella cella del cognoscimento di voi, conoscendo voi non essere e l’essere vostro avere da Dio» (Lettera 82).
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia O amore ineffabile, benché nel lume tuo tu vedessi tutte le iniquità che la tua creatura doveva commettere contro la tua infinita bontà, tu facesti vista quasi di non vedere, ma fermasti l’occhio nella bellezza della tua creatura, della quale tu come pazzo ed ebbro d’amore, t’inamorasti, e per amore la traesti di te dandole l’essere alla imagine e similitudine tua. Tu, verità etterna, hai dichiarato a me la verità tua, cioè che l’amore ti constrinse a crearla; ben che tu vedessi che ella ti doveva offendere, non volse la carità tua che tu fermassi l’occhio in questo vedere, anco levasti gli occhi tuoi da questa offesa che doveva essere e solamente il fermasti nella bellezza della creatura, che se tu avessi posto el principale vedere in quella offesa tu averesti dimenticato l’amore che avevi a creare l’uomo. Già non ti fu nascosto questo, ma fermastiti ne l’amore, perché tu non se’ altro che fuoco d’amore, pazzo della fattura tua (Orazione 4).
Il Signore le fa inoltre comprendere che non c’è altra strada per contraccambiare il suo amore che quella dell’amore gratuito del prossimo: Io vi richieggo che voi m’amiate di quello amore che Io amo voi [Gv 15,12]. Questo non potete fare a me, però che Io v’amai senza essere amato. Ogni amore che voi avete a me, m’amate di debito ma non di grazia, perché ‘l dovete fare, e Io amo voi di grazia e non di debito. Sì che a me non potete rendere questo amore che Io vi richieggo. E però v’ò posto il mezzo del prossimo vostro, acciò che faciate a lui quello che non potete fare a me, ciò è d’amarlo senza alcuno rispetto di grazia e senza aspettare alcuna utilità. E io reputo che faciate a me quello che fate a lui (Dialogo LXIV; cf. anche Lettera 94).
Proprio perché mossa da questo fuoco e dal desiderio di testimoniare nelle parole e nelle azioni questo sguardo di Dio «innamorato» di ogni persona, Caterina si incammina nelle situazioni più impervie ed esplora sentieri nuovi, con una fiducia e un’audacia indicibili, sia nell’accompagnare i condannati a morte, sia nello scuotere le autorità ecclesiastiche e civili, richiamandole alle proprie responsabilità davanti a Dio e agli uomini. Caterina parte dalla convinzione che la «città terrena» non è proprietà di chi l’amministra, perché è una «città prestata», di cui rendere conto a Dio, per cui solo «colui che signoreggia sé, la possiederà con timore santo, con amore ordinato e non disordinato; come prestata e non come cosa sua» (Lettera 123 ai difensori di Siena), e gettando «a terra l’odio e il rancore del cuore e l’amore proprio»,41 potrà mantenervi «la santa e vera giustizia», facendosi «padri dei poveri» (Lettera 235 al re di Francia), senza disgiungere la giustizia dalla carità (cf. Lettera 357 al re d’Ungheria).42 E ugualmente, battendosi con ardore per l’unità della Chiesa e la sua riforma, denunciando i vizi del clero e richiamando i sacerdoti alla fedeltà a Cristo, scrive al giovane e timoroso papa Gregorio XI (Lettera 206):
41 Lettera a’ signori priori dell’arti e al gonfaloniere di giustizia della città di Firenze, in Le Lettere, Paoline, Milano 1987, 409. 42 Conferenza tenuta da fr. Giovanni Calcara su «La città prestata: consigli di santa Caterina da Siena ai politici», Messina, 28 aprile 2014.
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Luciano Luppi E se voi mi diceste, padre: «El mondo è tanto travagliato: in che modo verrò a pace?», dicovi, da parte di Cristo crocifisso: tre cose principali vi conviene adoperare con la potenzia vostra. Cioè, che nel giardino della santa Chiesa voi, governatore d’esso giardino, ne traiate e’ fiori puzzolenti, pieni d’immondizia e di cupidità, infiati di superbia: cioè e’ mali pastori e rettori, che atoscano e imputridiscono questo giardino. Oimé, governatore nostro, usate la vostra potenzia: divellete questi fiori, gittateli di fuori, che non abino a governare; vogliate ch’egli studino a governare loro medesimi in santa e buona vita. Piantateci in questo giardino fiori odoriferi, pastori e governatori che sieno veri servi di Gesù Cristo, che non atendano ad altro che all’onore di Dio e salute dell’anime, e sieno padri de’ povari. […].
Caterina si spinge addirittura a ipotizzare che le prove che travagliano la Chiesa siano state permesse da Dio per renderla «povera» e «umile» come era agli inizi e spingerla a tornare alla sua missione spirituale originaria: Ma e’ pare che la somma ed etterna bontà facci fare per forza quello che non è fatto per amore: pare che permetta che gli stati e dilizie sieno tolti alla Sposa sua, quasi mostrasse che volesse che la Chiesa santa tornasse nel suo primo stato povarello, umile, mansueto, com’era in quello tempo santo quando non attendevano a altro che a l’onore di Dio e alla salute dell’anime, avendo cura delle cose spirituali e non delle temporali; ché, poi ch’ella à guardato più alle temporali che alle spirituali, le cose sonno andate di male in peggio. Però vedete che Dio per giusto giudicio gli à permesso molte perseguizioni e tribulazioni.43
Come vediamo, Caterina non agisce secondo una logica politica, ma si preoccupa di richiamare tutti a vivere quelle virtù di fondo che sole possono promuovere il vero bene della Chiesa e della società. È ben consapevole della presenza del male e del peccato, e lei stessa se ne riconosce la prima responsabile: Non è forse vero che se io fossi veramente accesa dal fuoco del divino Amore, Egli che è tutto misericordia con tutti userebbe misericordia e farebbe che tutti fossero accesi del fuoco che arderebbe in me? Chi impedisce un tanto bene? Certo non altro che i miei peccati. […] allora mi adiro contro me stessa e piango i miei peccati, non perché io disperi, ma perché ho una grande fiducia che voglia perdonare a me e a loro (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena. Legenda maior, n. 13).
Vediamo bene che la sua fiducia incrollabile in un reale rinnovamento scaturisce dal considerare ogni situazione a partire da quello sguardo di Dio «pazzo d’amore» che tutto avvolge nella misericordia:
43 La fermezza nella giustizia, invocata da Caterina, va però «condita di misericordia», «che, se giustizia senza misericordia fusse, sarebbe con la tenebra della crudeltà» (Lettera 291 a papa Urbano VI).
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia Nella misericordia tua fummo creati; nella misericordia tua fummo ricreati nel sangue del tuo Figliuolo. La misericordia tua ci conserva. La misericordia tua fece giocare in sul legno della croce il Figliuolo tuo alle braccia, giocando la morte con la vita e la vita con la morte. […] La tua misericordia dà vita; ella dà lume per lo quale si cognosce la tua clemenzia in ogni creatura, ne’ giusti e ne’ peccatori. […] Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per misericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche morire! […] O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensare a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non trovo che misericordia (Dialogo XXX).
E come il fuoco brucia tutto ciò che incontra, così Caterina trasmette a tutti gli uomini l’amore che lei stessa ha ricevuto da Dio, un amore che unisce nello stesso abbraccio Cristo Gesù, il prossimo e tutta la Chiesa, al punto che prima di morire ha potuto dire: Non dite che sono morta di malattia, ma d’amore per la Santa Chiesa. […] Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena. Legenda maior, n. 363).
Caterina incarna quindi un modello di donna e di santità che attraverso la preghiera, i contatti diretti, i doni carismatici e gli scritti svolge una funzione profetica e un ruolo politico nella società del suo tempo, agendo con grande coraggio e forza di seduzione spirituale, forza che le veniva dalla certezza di un messaggio proveniente da Dio.44
4.3. Ignazio
di
Loyola (1491-1556)
Alla ricerca delle radici di questo sguardo contemplativo sulla città nella storia della spiritualità non possiamo non riconoscere il grande apporto di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), non solo per la matrice ignaziana della formazione e spiritualità apostolica di papa Francesco, primo
44 Cf. P. Dinzelbacher, «L’azione politica delle mistiche nella Chiesa e nello Stato: Ildegarda, Brigida, Caterina», in P. Dinzelbacher – D.R. Bauer (a cura di), Movimento religioso e mistica femminile nel Medioevo, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 298-337. Tale modello di santità femminile è stato spesso un punto di riferimento nella storia religiosa italiana successiva in tutto il Quattrocento e nel primo Cinquecento, mentre nel corso del Cinquecento progressivamente scomparirà. È quanto ha mostrato nei suoi studi G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ‘400 e ‘500, Rosenberg & Sellier, Torino 1992; Ead., «Caterina Benincasa tra Siena e l’Europa», in A. Bartolomei Romagnoli – L. Cinelli – P. Piatti (a cura di), «Virgo digna coelo». Caterina e la sua eredità. Raccolta di studi in occasione del 550° anniversario della canonizzazione di santa Caterina da Siena (1461-2011), LEV, Città del Vaticano 2013, 27-43. Le cosiddette «sante vive» del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento erano donne mistiche vissute in fama di santità, legate a contesti cittadini o di corte, dotate di doni divini e grazie speciali, in qualche caso profetesse, madri spirituali e pie consigliere di principi e sovrani, donne in grado con la loro stessa presenza di svolgere un importante ruolo di protezione sulla città, e di conferire sacralità al potere politico con il quale entravano in contatto.
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papa gesuita della storia, ma anche per il forte influsso che Ignazio ha esercitato in tutta la spiritualità moderna occidentale e la rinnovata valorizzazione nel post-concilio, dovuta alla progressiva riscoperta dell’Ignazio del Racconto del pellegrino e dell’apostolato inteso non come conquista, ma come umile impegno ad «aiutare le anime».45 Per Ignazio di Loyola l’uomo spirituale è colui che cerca e trova Dio in tutte le cose. È così che egli traduce in termini spirituali e in una linea di incarnazione la definizione tomista di Dio presente in tutte le cose per essenza, potenza e presenza.46 Per Ignazio, per il quale la cifra dell’umano è la libertà (cf. Esercizi spirituali [da ora in poi EESS] 234), l’uomo trova la sua autentica libertà – e riconosce il cammino concreto di realizzazione del suo fine ultimo – proprio nella misura in cui entra in un rapporto di comunione/conformazione con Gesù Cristo e vi si lascia interamente riplasmare nel suo modo di pensare, volere e «sentire».47 Il Cristo da seguire è per lui fondamentalmente – cf. in particolare la visione de La Storta, vicino Roma – il Cristo servo del Padre, l’inviato dal Padre nel mondo per compiere l’opera della salvezza percorrendo per amore la via della croce. Per questo per Ignazio non si tratta solo di imparare a riconoscere e adorare una presenza di Dio nel mondo, ma di «“guardare a come guarda” il mondo la Santissima Trinità, […] uno sguardo che “si lascia coinvolgere”»48 e cooperare con Cristo e come Cristo alla sua opera di salvezza: la contemplatio – che deve coinvolgere la persona tutt’intera, a partire dalla memoria e dagli affetti – è in vista della discretio e della deliberatio/ actio nel servizio divino.49
45 Cf I. Iparraguirre, «Desmitificacion de san Ignacio. La imagen de san Ignacio en el momento actual», in Archivum Historicum S.J. 41(1972), 357-373. 46 Cf. Il racconto del pellegrino n. 99 e la sua trasposizione negli Esercizi spirituali, il cui punto d’arrivo è proprio la Contemplatio ad Amorem: EESS 230-237. 47 La «consolazione» per Ignazio è il segno di una libertà che trova progressivamente la sua verità, sebbene essa stessa non sia ancora data in questa vita in maniera piena e definitiva, e, anzi, la stessa esperienza della «desolazione» sia preziosa al fine di custodire e promuovere una fede e un amore sempre più maturi. Cf. le Regole per il discernimento degli spiriti: EESS 313-336. 48 Card. Jorge Mario Bergoglio, «Dio vive nella città. Discorso di apertura dell’arcivescovo di Buenos Aires al Primo congresso regionale di pastorale urbana (Buenos Aires, 25 agosto 2011)», in Galli, Dio vive in città, 388. 49 Ignazio ha quindi indirettamente contribuito a un decisivo sviluppo di quel rapporto orante con la Parola di Dio che la tradizione spirituale chiama lectio divina, in quanto, secondo il card. Martini – rispetto alla lectio divina monastica – Ignazio ne mette in luce «il carattere non semplicemente “edificante” […] il suo sbocco pratico nella scelta di una forma di vita o in altre scelte qualificanti in cui e con cui servire il Signore nella Chiesa visibile». In questo modo si fa sempre più strada la convinzione che la successione completa della lectio divina «comprende: lectio, meditatio, oratio, contemplatio, consolatio (o il suo contrario, cioè desolatio), discretio, deliberatio», proprio perché la consolazione o la desolazione suscitate dalla Parola, che nascono dal primo quadrinomio e a cui Ignazio «attribuisce molta importanza», rendono possibile «quel discernimento spirituale a partire dal quale si attua
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Con Ignazio nasce una spiritualità apostolica. Credere è seguire Cristo, cooperando per amore alla sua missione di redentore e quindi al l’opera trinitaria in atto nel mondo, impegnandovi tutta la propria vita. Colui che si fa così servo di Cristo per amore, considera una grazia immeritata poter cooperare all’opera della salvezza, stimandosi servo inutile, sempre pronto a riconoscere nel discernimento ogni cenno e volontà del suo Signore, per compiere ciò che in ogni situazione maggiormente dà gloria a Dio.50 Per Ignazio, quindi, riconoscere Dio all’opera in noi e nel mondo e assecondare la sua azione, è una vera e propria mistica, che passa attraverso il discernimento. Dio è all’opera nella storia e nella Chiesa. Si tratta di mettersi alla ricerca della presenza di Dio e lasciarlo agire: essere recettivi dell’opera di Dio e collaborarvi attivamente e docilmente. In questa proposta ignaziana si avverte subito che ciò che è decisivo non è imbottire le persone di idee o abituarle a stare dentro strutture tanto rassicuranti quanto rigide e difensive, ma creare personalità che possano affrontare creativamente la vita nelle sue diverse e spesso inedite situazioni. Questo elemento pedagogico – che ha ottenuto un’indubbia fortuna nella storia – costituisce un punto fondamentale della fecondità e dell’attualità della spiritualità ignaziana.51 Questa sequela di Cristo, intesa come impegno a discernere e assecondare l’opera di Dio nella storia, raggiunge uno dei fondamentali riferimenti programmatici di papa Francesco, l’inculturazione, tema che, lanciato dal Messaggio al popolo di Dio del IV Sinodo dei vescovi (28 ottobre 1977), non a caso fu fatto immediatamente proprio dalla Compagnia di Gesù, riconoscendovi un tratto specifico della spiritualità ignaziana fin dalle sue origini.52
la deliberazione, la scelta in vista dell’azione». Cf. C.M. Martini, «La figura spirituale di sant’Ignazio. Attualità degli Esercizi», in Rivista del Clero Italiano 73(1992), 9. 50 Tale cooperazione si attua nell’obbedienza alle mozioni dello Spirito e quindi scegliendo quella particolare collaborazione e missione che Dio sceglie per noi, la cui autenticità è garantita dalla conformazione a Cristo povero e umile, e, insieme, dalla piena fedeltà alla Chiesa visibile e gerarchica, sposa del Signore (cf. Regole per il retto sentire nella Chiesa: EESS 352-370). 51 Cf. l’interessante articolo di V. Spadaro, «“Non è il molto sapere che sazia e soddisfa”. Il modello pedagogico ignaziano», in La Civiltà cattolica (2007)I, Q. 3760, 338-351. 52 Cf. P. Arrupe, «Lettera sull’inculturazione (14 maggio 1978)», in Inculturazione. Concetti, problemi, orientamenti, Centrum Ignatianum Spiritualitatis, Roma 1979: «L’inculturazione e la Compagnia di Gesù. Come Gesuiti dobbiamo sentirci particolarmente interpellati da questo problema, che è stato sempre presente in tutta la storia della Compagnia e dalla cui soluzione dipenderà la rimozione di grandi ostacoli per l’evangelizzazione. La spiritualità ignaziana, con la sua visione unitaria della storia della salvezza e il suo ideale di servizio a tutto il genere umano (Es. Sp. 103), fu un tentativo geniale, al dire degli specialisti, di incorporare la sensibilità e le caratteristiche culturali del secolo XVI nella corrente della spiritualità cristiana, senza però arenarsi in un’epoca, la sua, ma piuttosto mantenendo attivi sia il dinamismo dello Spirito che la creatività umana nel corso della storia, in un costante processo di necessario adattamento a tutti i paesi e a tutti i tempi. Sant’Ignazio, come è ovvio, non usò la parola “inculturazione”. Ma il contenuto teologico del termine è presente
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5. Lo
sguardo dei vescovi di sulla città 53
Bologna
Ritornando al presente, ci sembra utile soffermarsi sullo sguardo sulla città e quindi sulle chiavi di lettura del rapporto Dio-vangelo-città per come emerge negli interventi più significativi dei pastori di una Chiesa particolare come quella di Bologna.
5.1. Card. Giacomo Biffi (1984-2003) È il cardinale Giacomo Biffi, milanese d’origine, che, fin dalla sua prima omelia per la solennità di san Petronio, supera il tradizionale panegirico, per fare interloquire il santo patrono con il presente, sull’esempio di quanto aveva iniziato il card. Montini a Milano nei primi vespri di sant’Ambrogio. 5.1.1. La
festa di san
Petronio:
riscoprire con fierezza la fortuna di essere bolognesi
L’arcivescovo Biffi, come vicario di san Petronio – «e quindi il “bolognese più antico”, dal momento che non c’è in Bologna né una dinastia familiare né una magistratura che possa attribuirsi un’origine remota e una continuità storica pari a quella della cattedra di san Petronio»54 – sente innanzitutto la responsabilità di aiutare i bolognesi a riscoprire la gioia e la fierezza di appartenere alla comunità cristiana bolognese. Rileva come Bologna mostri anche architettonicamente la sua anima cristiana, con le sue dodici porte a immagine della Gerusalemme del cielo e meravigliosi monumenti come il santuario di San Luca, San Petronio, Santo Stefano, la cattedrale, le chiese dei santi (San Giovanni in Monte, San Francesco, San Domenico, San Giacomo), che rimandano alla verità del mondo invisibile. «Una città che prega anche coi muri: voce dei padri che non vuol tacere e ci invita a fare coro con essa» (1988). Ma quest’anima emerge anche da altri tratti del volto architettonico di Bologna, dai «portici, che sembrano un invito alla colloquialità rispettosa e alla cordialità delle relazioni tra i cittadini» (1993), alle istituzioni come l’università, gli ospedali e la stessa municipalità che si fregia della parola
nei suoi scritti e nelle Costituzioni». Riprendiamo qui le suggestioni offerte da S. Biancu, «Essere cittadini della città in cui Dio vive. Sguardi sulla città nel pensiero di papa Francesco», in Bondolfi – Mariani (a cura di), Dio uomini e città, 129. 53 Tutte i testi delle omelie sono prese dal Bollettino dell’Arcidiocesi di Bologna. 54 «La città di s. Petronio nel terzo millennio», in G. Biffi, Liber Pastoralis Bononiensis. Omaggio al card. Giovanni Colombo nel centenario della sua nascita, EDB, Bologna 2002, 595.
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«Libertas» sullo stemma, realtà cittadine che testimoniano le radici cristiane dell’umanesimo bolognese e la loro eccezionale fecondità. Tutto ciò svela, secondo il card. Biffi «quei tratti propri che da sempre caratterizzano felicemente la gente bolognese e vengono anche dagli altri riconosciuti come individuanti la nostra umanità». Tra questi ricorda in particolare: – prima di tutto il gusto e la gioia di vivere, e l’attitudine ad assaporare senza riserve il prodigio dell’esistenza; tutta la nostra civiltà da sempre connotata con questa fresca e convinta esaltazione della vita, dei suoi valori, delle sue occasioni di festa; – poi l’innato senso della cortesia, delle generosa apertura verso gli altri, dello spirito di accoglienza; – infine, il culto del sapere, la giusta e stimolante curiosità della ricerca, il desiderio di vincere con la luce della conoscenza le tenebre dell’ignoranza e dell’arretratezza (1985).
Per cui arriva a delineare il volto del cristianesimo «petroniano»: È cristianesimo «petroniano» la consapevolezza che dalla fede la sapienza umana non è negata o insidiata, ma avvalorata e difesa […] nasce l’Università e diventa anticipazione e modello di tutti gli istituti accademici di Europa. È cristianesimo «petroniano» l’intuizione che la fede non deprime ma fonda la dignità dell’uomo e la sua libertà. Qui infatti si pone per la prima volta fine alla schiavitù […]. È cristianesimo «petroniano» la particolare sensibilità verso i fratelli sofferenti […] sicché qui sorge, prima che altrove, l’Ospedale e fioriscono nei secoli opere di assistenza e di solidarietà innumerevoli. È cristianesimo «petroniano» l’abitudine dei cittadini a convivere pacificamente […]. È cristianesimo «petroniano» la persuasione che il richiamo della verità da parte del pastore […] è segno di forte amicizia e prova di autentica stima (1994).
5.1.2. Impegno
e responsabilità
di fronte al dono di essere bolognesi
Il card. Biffi vive quindi la festa del patrono come un momento in cui, come vicario di san Petronio, è chiamato a rapporto dal santo patrono per quanto riguarda l’impegno e la responsabilità di fronte al dono di essere bolognesi: Che Bologna diventi davvero ciò che è convinta di essere. E cioè: – diventi davvero sapiente, e si abitui a mirare non solo ai mezzi e alle occasioni di agio ma anche al significato e allo scopo dell’esistenza; – diventi davvero scientifica, e impari a fare attenzione, più che alle parole dei vari imbonitori, alle tabelle dell’ufficio centrale di statistica, che hanno molte cose da dirci sui malesseri della nostra gente; – diventi davvero amante della vita, e non si rassegni alle stigmate di morte (come la denatalità, l’aborto, il suicidio) che spiccano in modo impressionante sul corpo sociale;
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Luciano Luppi – diventi davvero ospitale e fraterna non solo con i benestanti e i ben vestiti, ma con gli emarginati e gli impresentabili (1988).55
5.1.3. La
città di
Bologna
e le sue sfide decisive
Il card. Biffi pone con decisione la questione della gioia e della speranza, visto il record in regione di denatalità e suicidi, che non gli impediva di essere «pieno di speranza perché la qualità umana dei bolognesi è più grande delle loro ideologie e delle loro scelte politiche».56 Il rischio di una «Bologna dimezzata […] che non capisce più la sua vocazione» sta a suo avviso nella svolta in atto dall’epoca della Rivoluzione francese, che ha introdotto «“fedi” diverse, tanto infondate quanto sicure di sé», come il razionalismo, un umanesimo ateo, l’edonismo. Per questo propone di riscoprire il primo articolo del Credo e il mondo invisibile, perché «gli umanesimi senza Dio si risolvono tutti nell’avvilimento e nella distruzione dell’uomo», e portano a una esaltazione della libertà che degenera facilmente «in un totalitarismo liberticida o in un libertarismo incapace di senso e di valore» (1989). A partire dal 1991 il card. Biffi comincia a porsi seriamente la questione dell’arrivo di nuove popolazioni straniere e, cogliendo un’analogia con le vicende del V secolo, invita a fare tesoro delle scelte dei vescovi di allora: Da una parte animarono e sostennero la difesa della loro gente contro ogni sopruso e ogni prepotenza, dall’altra indicarono come arma definitivamente vincente l’ideale cristiano della fraternità universale e dell’amore che è capace di accogliere. È un insegnamento che forse potrà diventare prezioso (1991).
L’anno successivo il card. Biffi torna sull’argomento, sottolineando come il vero problema, allora come oggi, è «la crisi morale dei cittadini, divenuti per larga parte scettici, aridi, senza valori riconosciuti, senza robuste convinzioni». Per reagire occorre impegnarsi a salvaguardare la certezza della divinità di Gesù Cristo e a fare accettare «come regola di vita universalmente riconosciuta la legge di Dio: dieci precisi comandamenti, riassumibili tutti secondo la parola di Cristo nel comando dell’amore», in modo da offrire alle «genti d’Italia» e anche ai «barbari» arrivati tra noi «un codice chiaro di comportamento e una norma incontestabile cui riferirsi» (1992).
55 A questo tratto dell’anima bolognese, che aveva richiamato fin dall’inizio, e cioè la «cortesia» e l’accoglienza, espresso ripetutamente dal 1985, viene messa la sordina nella lettera «La città di s. Petronio nel terzo millennio» del 12 settembre 2000. 56 Così rispose nel 1988 a Sergio Zavoli, che in un’intervista gli aveva chiesto chiarimenti sulla sua definizione di Bologna «sazia e disperata»; cf. http://www.paceinterra.it/ sazia-e-disperata-la-verita-di-biffi/ (consultato in febbraio 2019).
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia
Due anni dopo ritorna sul tema immigrazione, auspicando l’impegno di tutti i bolognesi a salvaguardare l’eredità religiosa dei padri come «principio aggregante che vale per tutti», riferimento identitario indispensabile per «reggere al confronto con le genti di altre mentalità e culture» (1994). Il tema sarà ripreso ampiamente dal card. Biffi nella sua famosa lettera pastorale La città di S. Petronio nel terzo millennio (2000), in cui segnala il limite di chi considera l’immigrazione e gli stranieri solo come un problema economico e di ordine pubblico, non percependo invece la grande sfida culturale posta soprattutto dall’immigrazione di religione islamica. Purtroppo né i «laici» né i «cattolici» pare si siano resi conto del dramma che si sta profilando. I «laici», osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono di combattere l’ispiratrice più forte e la difesa più valida della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità. I «cattolici», lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta, e sostituendo all’ansia apostolica il puro e semplice «dialogo» ad ogni costo, inconsciamente preparano la propria estinzione.57
Biffi mostra di non credere praticabile, anzi illusoria e pericolosa, un’integrazione per omologazione degli immigrati islamici, cioè prodotta automaticamente dall’inserimento in una civiltà democratica secolarizzata, e quindi vede il rischio di una ghettizzazione di fatto e di un’inevitabile scontro. L’unica via di integrazione possibile, per il card. Biffi, è quella che passa dalla riscoperta culturale dell’antica anima cristiana dell’Europa, legata inscindibilmente all’annuncio cristiano, e dalla salvaguardia dei segni di questa identità:58 L’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la «cultura del niente», della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l’atteggiamento dominante nei popoli europei […]. Questa «cultura del niente» non sarà in grado di reggere all’assalto ideologico dell’islam, che non mancherà.59
Da qui la domanda che rimane aperta: c’è nell’islam l’accettazione di un nucleo minimo di principi e di valori uguali per tutti, che permetta un graduale e progressivo inserimento nel rispetto dell’identità, della legalità e della cultura dei diritti umani e di quelli del Paese ospitante? Il card.
G. Biffi, Intervento al Seminario della Fondazione Migrantes, 30 settembre 2000. «L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto» (Biffi, «La città di s. Petronio nel terzo millennio», 623). 59 Ivi. Risposta in cui il card. Biffi riprende quella da lui data in un’intervista di una decina di anni prima. 57 58
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Biffi, sulla base degli elementi di cui dispone, di fatto nega questa possibilità. È evidente, comunque, che la sfida che più lo inquieta è «il diffondersi di una cultura non cristiana, tra le popolazioni di antica fede cristiana», cultura animata da una razionalità scientifico-tecnologica, dalla «globalizzazione», dallo sviluppo sofisticato dei mezzi di comunicazione, dalla ricerca della «libertà senza verità», di cui «molti aspetti non sono accettabili». Occorre dunque un’abitudine alla valutazione e al discernimento, che ci dica di volta in volta che cosa si possa accogliere, che cosa si debba apertamente contrastare e che cosa sia plausibile orientare cristianamente; valutazione e discernimento che dovranno obbedire non a criteri politici, ma all’assoluta fedeltà nei confronti dell’immutabile verità rivelata e della nostra identità di credenti.60
La sua convinzione è che la città di Bologna saprà affrontare con serena fiducia le difficili sfide del nostro tempo se riuscirà a conservare «la bellezza antica e sempre affascinante del suo volto e della sua anima». Ma perché ciò avvenga, osserva il cardinale, occorre un risveglio della fede: una fede che deve essere personale, continuamente alimentata e operosa, ma alla quale la città stessa offre «cinque capisaldi spirituali»: la cattedrale, San Petronio, il santuario della Madonna di San Luca, il complesso di Santo Stefano, il seminario di Villa Revedin. «Cinque luoghi forti della fede […], dove i credenti possono attingere quei supplementi di energia soprannaturale di cui ritengono d’aver bisogno».61
5.2. Card. Carlo Caffarra (2004-2015) 5.2.1. Una
transizione epocale
e un malessere spirituale che interpellano
Consapevole di essere vescovo di una metropoli ancora intrisa di riferimenti cristiani diffusi, eppure fortemente secolarizzata, il card. Caffarra accetta di porsi di fronte alla città come chi sa di dover contare più sulla forza persuasiva dei suoi argomenti che sul credito di un ruolo riconosciuto. Rimarcando la forte analogia tra la transizione epocale vissuta nella prima metà del V secolo dal vescovo Petronio e quella contemporanea, sente l’urgenza di dare il suo contributo per rifondare le ragioni della convivenza civile, dopo che è imploso il modello ideologico di convivenza che si era imposto in città nel dopoguerra, «lasciando la nostra città incamminata sulla via di una progressiva disgregazione, di un progressivo disinteresse per il bene comune, di una caduta culturale del confronto politico» (2013).
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Ivi, 626. Ivi, 630.
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Per questo invita a dare ascolto al «malessere spirituale» che serpeggia nella gente, soprattutto nei giovani: Il malessere spirituale di cui soffriamo è dovuto non ultimamente al fatto che da una parte non ci rassegniamo a che i nostri legami siano riducibili al consumo e allo scambio di beni, e dall’altra, sperimentiamo che una libertà che ci estranea gli uni agli altri è distruttiva della nostra beatitudine (2004). Chi soffre maggiormente di questa situazione sono – e non potrebbe essere diversamente – le giovani generazioni, vedendo adulti che si presentano loro, come se avessero incollato sulle spalle un cartello sul quale è scritto: «non seguiteci; abbiamo perso anche noi la strada» (2012).
La visione individualista dell’uomo, la quale riduce il bene all’utilità, costituisce, per l’arcivescovo Caffarra, la più grave insidia alla vita buona della città: Ciò di cui ha bisogno oggi chi vive in questa città è di ricostruire una coesione intima con l’altro, uscendo da quel processo di desocializzazione che ci rende indifferenti quando non ostili gli uni agli altri. Stiamo diventando sempre più estranei gli uni agli altri: l’uno straniero dell’altro (2007).
5.2.2. Simbolismo
del mosaico
e delle porte della città
Significativi, anche se rari nelle omelie per san Petronio del card. Caffarra, sono i riferimenti simbolici, innanzitutto la necessità per la città di pensarsi come un «mosaico»: Nel mosaico si custodisce il colore di ogni tassello e ne viene lo splendore della figura; nella macchia ogni colore è confuso (2005).
L’altro rimando simbolico parte dalla considerazione della compresenza delle mura e delle porte, che evocano l’unità interna e l’apertura ad ogni diversità: Il popolo di Bologna ha raffigurato Petronio vestito con abiti pontificali che tiene nelle sue mani la città. Icona piena di significato! Apostolo di Cristo è diventato costruttore di Bologna; non riconoscendo altro maestro che il Cristo egli ha definito l’identità di questo popolo. Quando i nostri padri hanno voluto cingere Bologna di mura aprendo però in esse dodici porte, hanno fissato una volta per sempre e come scolpito nella pietra l’anima ed il destino di questa città: essere comunità unita in sé ed aperta ad ogni diversità. I nostri padri hanno voluto dirci in questo modo la più profonda definizione della nostra città: essere come un abbozzo ed una prefigurazione della città di Dio (2006). […] una città nella quale nessuno è straniero per l’altro, poiché ciascuno è riconosciuto partecipe della stessa umana dignità (2010).
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5.2.3. Il
simbolismo paolino del corpo
e l ’ urgenza di rifondare il patto di cittadinanza
Per rispondere alla sfida dell’individualismo e della conseguente desocializzazione, il card. Caffarra riprende in ogni omelia del 4 ottobre il testo della Prima lettera di san Paolo ai Corinzi (12,4-5), testo proposto dalla liturgia della solennità: «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo». Viene qui affermata una profonda verità sull’uomo. Ogni persona umana è costitutivamente in relazione con le altre persone; il sociale umano non è effetto esclusivamente della contrattazione sociale, ma ogni uomo è nativamente relazionato con ogni uomo. La metafora del corpo richiama in primo luogo questa fondamentale verità. […] Il desiderio di ogni uomo di vivere con l’altro in una vera comunione di vita, trova il suo compimento mediante Cristo. Ora il vero rischio della nostra città – come della cultura occidentale – è di rassegnarsi a vivere dentro una cultura incapace di dare un assetto sensato al nostro convivere, che non sia la mera esaltazione della libertà individuale (2013).
Per questo si chiede: «questa città ha ancora il diritto di sperare o deve rassegnarsi ad un tramonto amaro ed infelice?» (2010). Ecco allora l’invito a «rifondare il patto di cittadinanza», che significa «in primo luogo consentire a ciascuno di essere ciò che in realtà è: un dono per l’altro», risvegliando «la coscienza di una reciproca appartenenza», radicata «nella comune appartenenza alla stessa umanità» e che «genera quella profonda amicizia civile che è il legame più forte di ogni città», e significa anche «introdurre sempre più profondamente nella nostra città l’esperienza della fraternità, e quindi la logica del dono come sua espressione coerente». A questo punto non posso non porre alcuni gravi interrogativi: siamo ancora capaci di parlare la lingua comune della nostra umanità e della vera fraternità? Siamo ancora capaci di ascoltare l’invocazione della persona umana già concepita che chiede di nascere e non essere soppressa, dello straniero che domanda di non essere considerato un potenziale nemico o comunque un estraneo in umanità, della persona che chiede di aver accesso al lavoro, dell’ammalato terminale che domanda di essere rispettato nel suo diritto alla cura della sua persona? Esiste una comune lingua umana, regolata da una comune «grammatica umana» costituita dalle originarie esigenze della natura umana. «Rifondare il patto di cittadinanza» significa reimparare a parlare questa lingua nel rispetto della sua grammatica: la lingua e la grammatica della fraternità (2011).
A questa rifondazione il card. Caffarra chiama a raccolta la Chiesa di Dio in Bologna, che «non ha soluzioni tecniche da offrire a chi ci amministra: non è suo compito», chiama a raccolta la municipalità, tutti coloro che a diverso titolo sono impegnati nell’ambito economico, per «un’organizzazione del lavoro a misura della dignità di chi lavora, quanto so-
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prattutto a sicurezza e non precarietà» (2008), chiama a raccolta chi ha responsabilità educative, a cominciare dall’Alma mater studiorum e soprattutto la famiglia, cui spetta un contributo decisivo: È in essa che l’uomo impara la comune lingua umana e la grammatica che la regola: è in essa che vive l’esperienza di fraternità che è amore condiviso. La qualità di vita della nostra città dipenderà ultimamente dalle condizioni delle nostre famiglie. Chi in un modo o nell’altro non riconosce questa inconfondibile soggettività della famiglia, ha già insidiato il patto di cittadinanza nelle sue clausole fondamentali (2009).
5.2.4. Bologna: un laboratorio sociale della sussidiarietà ?
Per il card. Caffarra questa rifondazione del patto di cittadinanza potrà portare davvero al «coinvolgimento operativo di tutti per il bene comune della nostra città, senza restringerlo dentro gli schemi utilitaristici, della legalità per la legalità, di ideologie astratte e false», a condizione che avvenga quel «profondo cambiamento culturale» che consiste nella piena adozione del principio di sussidiarietà: Cari fratelli e sorelle, ciò che in questo momento tanto difficile anche per la nostra città è richiesto, è un vero e profondo cambiamento culturale, una vera e profonda trasformazione di mentalità. […] La conversione culturale, la trasformazione di mentalità ha un nome: si chiama sussidiarietà. Cari fratelli e sorelle, se questa conversione accade, è l’architettura stessa della nostra cittadinanza, della nostra civile convivenza, che cambia profondamente. Non abbiamo forse il diritto di sperare che Bologna possa diventare un vero laboratorio sociale della sussidiarietà? Altre volte essa si è mostrata capace di essere un vero laboratorio sociale (2011).
Affinché Bologna diventi un vero laboratorio della sussidiarietà, il cardinale invita a istituire un Consiglio permanente per la sussidiarietà, in cui «municipalità, imprese e la società civile organizzata nel cosiddetto terzo settore» possano convergere nella ricerca del bene comune, ma invita anche ad abbandonare definitivamente due pregiudizi: Il primo è costituito dalla contrapposizione tra pubblico e privato. […] Va pienamente riconosciuta la funzione sociale del privato: si pensi alla famiglia. […] va pensato in termini di una armonia che vede pubblico e privato nella loro diversità, reciprocità e complementarietà. Il secondo è una concezione ancillare del rapporto della società civile colle istituzioni pubbliche. È una sorta di sussidiarietà rovesciata: imprese, società civile diventano semplicemente funzionali all’amministrazione, alla sua programmazione ed organizzazione. Cari amici, la nostra città non può rassegnarsi a gestire l’eredità passata. Essa sarà capace di costruire il nuovo, solo se vorrà veramente ripensare e riprogettare l’architettura spirituale della sua convivenza (2011).
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Luciano Luppi
5.2.5. Una
nuova idea di laicità
per un più profondo radicamento nella tradizione dell ’ umanesimo cristiano
Sviluppando ulteriormente la sua riflessione il card. Caffarra auspica che Bologna, che vede riconoscersi in Petronio sia la tradizione cristiana che quella civica della città, diventi un «laboratorio di pensiero e pratica paradigmatica» di una nuova e più ricca «idea ed esperienza di laicità», in cui ogni soggetto – in tutte le istituzioni – possa entrare nel dialogo pubblico: Da una laicità che si difende, occorre passare ad una laicità che promuove; anche la presenza pubblica della religione senza rinchiuderla nel privato delle coscienze. Solo questo passaggio mette al sicuro due condizioni fondamentali della comunità umana. Poiché la democrazia non è autosufficiente, ma per vivere ha bisogno di radicarsi in universi di valore condivisi […] La seconda condizione è quindi che ogni soggetto – persona e/o comunità – non può, non deve lasciar fuori dal dialogo pubblico ciò che definisce la sua identità propria […]. Da una laicità che pretende di azzerare o mettere fra parentesi le identità occorre passare ad una laicità che ha nel riconoscimento la sua «cifra». È il riconoscimento che custodisce le identità nella relazione e immunizza la relazione dal conflitto identitario (2005).
Per l’arcivescovo Caffarra è fuori discussione che «non compete al vescovo proporre programmi politici e/o sociali di cui pure ogni città necessita» e che «la netta distinzione fra la fede e la sfera pubblica è un guadagno definitivamente acquisito e da difendere contro ogni forma di laicismo e di fondamentalismo», ma di fronte a questo «tornante decisivo» della storia di Bologna propone con coraggio «un radicamento nuovo, più profondo, più organico della nostra comunità in quella tradizione di umanesimo cristiano che ha fatto di Bologna maestra di vera civiltà» (2006). Dell’umanesimo cristiano la città si potrà giovare per affrontare i tanti nodi problematici della convivenza civile e soprattutto quei due eventi spirituali da cui «la nostra città, ogni città degna di questo nome, è sempre stata ed è quotidianamente generata […]: la coscienza che l’uomo ha di se stesso; il legame fra una generazione e l’altra istituito dall’atto educativo»: Dobbiamo avere in primo luogo il coraggio intellettuale di mettere in discussione quelle false concezioni dell’uomo che ne degradano lo splendore riducendolo ad un casuale incidente del processo evolutivo; ritenendolo originariamente destinato alla solitudine e non alla comunione reciproca. Né possiamo più lasciare inevasa la domanda di verità e di senso che le giovani generazioni rivolgono a noi adulti, come facciamo quando proponiamo loro un progetto di libertà che è insignificante vagabondaggio senza meta ultima (2006).
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5.2.6. Cosa
fa la
Chiesa
per la crescita della città ?
Sempre salvaguardando la distinzione tra istituzioni pubbliche e Chiesa, e col coraggio di lasciarsi alle spalle una volta per tutte ogni laicismo e fondamentalismo, l’arcivescovo Caffarra invita a riconoscere, in questa prospettiva di sussidiarietà e di più ricca laicità, la profonda influenza che la comunità cristiana esercita nell’edificazione della comunità civile: La Chiesa che cosa fa, che cosa può/deve fare per la crescita della città? […] Mi limito telegraficamente a due aspetti. Il primo. […] La Chiesa fa crescere la città perché dice la verità circa l’uomo. Non una verità astratta, ma che parla dell’uomo considerato nei fondamentali ambiti del suo vivere quotidiano: il matrimonio e la famiglia, il lavoro, la cittadinanza, l’infermità e la morte. La Chiesa fa crescere la città se resta fedele a questa diaconia alla verità, da due punti di vista. Predicando il Vangelo della grazia, purifica la ragione impedendole di rinchiudersi nel verificabile e guarisce l’uomo dall’incapacità di farsi prossimo di ogni uomo. Richiamando le fondamentali categorie morali del bene e del male, la Chiesa impedisce la vittoria di quell’utilitarismo individualista che è la metastasi delle nostre società occidentali. Il secondo. La Chiesa assicura all’uomo il diritto di sperare perché lo libera da quell’auto-degradazione che insidia sempre l’uomo, specialmente oggi. Egli infatti è tentato di pensare di essere venuto dal niente e di essere destinato al niente (2008).
E due anni dopo aggiunge: La comunità cristiana inserisce nella comunità cittadina una forza coesiva che può vincere ogni disgregazione. […] consiste nella creazione di una coscienza di fraternità, l’unica coscienza che può generare una relazione sociale vera e giusta (2010).
È quanto egli vede inscritto già nella duplice iconografia tradizionale di san Petronio: Esistono nella tradizione due iconografie di S. Petronio. L’una lo raffigura mentre tiene sul braccio vicino al cuore la nostra città: pater civitatis. L’altra lo raffigura nel gesto di dare cibo ai poveri: pater pauperum. Pater civitatis – pater pauperum. È questo legame, il legame della civitas ai bisogni dell’uomo concreto che fa risorgere Bologna. Perché essa diventi sempre più la città dove regna la luce della Verità circa l’uomo, circa l’uomo concreto; dove questa luce diventa in ciascun cittadino energia costruttrice della nostra convivenza (2013).
Per cui comprendiamo bene il suo invito accorato: O amata città di Bologna! Sii degna della tua grandezza e vocazione: prendi forza e coraggio, radicata nella tua grande tradizione umana e cristiana. Alzati, e cammina! (2009).
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Luciano Luppi
5.3. Mons. Matteo Maria Zuppi (2015-) L’arcivescovo Zuppi, nelle tre omelie finora pronunciate in occasione della solennità di san Petronio, si pone volutamente sulla scia dei suoi predecessori, e lo fa innanzitutto riprendendo fin dalla prima ricorrenza nel 2016 un passo significativo del card. Biffi, che affermava come proprio nella basilica del santo patrono «ogni bolognese trova qui il simbolo più espressivo della sua identità perché qui la città ha raggiunto finalmente la concordia civica, che può avvalersi di una sostanziale unità di intenti e di ideali, che è capace di guardare al bene comune, oltrepassando rivalità e particolarismi», ma anche riprendendo la citazione di 1 Corinzi tanto cara al card. Caffarra: «Ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri», commentandola così: Di questa concordia, che deve diventare impegno comune e che non è mai statica ma sempre dinamica, la città ne ha un enorme bisogno. Sento oggi importante per tutti noi l’invito dell’Apostolo Paolo a non valutarsi più di quanto sia conveniente, che vuol dire in realtà pensarsi assieme, perché solo il dialogo e la comunione valorizza l’identità e il dono che è ognuno. […] Non pensiamoci soli, contrapposti, indifferenti, perché solo insieme possiamo aiutare questa casa comune che ha bisogno di tutti! (2016).
Fin dall’inizio si avverte che l’arcivescovo Zuppi, pur nella continuità con i predecessori, si pone tuttavia con uno stile diverso. Rinvia certamente all’universo valoriale dell’umanesimo cristiano, ma con la preoccupazione di non presentarlo come qualcosa di astratto e predefinito, ma come realtà da considerare in maniera «sempre dinamica», e di proporne i valori senza la pretesa, come comunità cristiana, di averne l’esclusiva, anzi sentendo la necessità di «pensarsi assieme» e di riconoscere e valorizzare «l’identità e il dono di ognuno», superando sia le contrapposizioni che l’indifferenza reciproca. 5.3.1. Il
Comune, Università e Chiesa Maggiore dell ’ umanesimo cristiano di B ologna
convergere di
sulla stessa piazza simbolo
Questa auspicata convergenza tra le istituzioni cittadine l’arcivescovo Zuppi la vede rappresentata nel fatto che la basilica del patrono ha «il Comune e l’Università fisicamente adiacenti», e tutti convergenti sui lati della stessa piazza Maggiore, come a rendere visibile a tutti «l’umanesimo che Bologna possiede e che rappresenta tanto il frutto di questa presenza cristiana»: Umanesimo è convivere pacificamente nelle diversità; è la pratica di una intelligenza e sensibilità nei rapporti tra cittadini che completi la buona forma e superi la logica del «a me che importa?». Umanesimo è intelligenza, passione e cultura per migliorare, penetrare e difendere la vita, sempre, anche quando non conviene, per tutti. Sono i valori della persona, irrinunciabili, gli unici capaci di affrontare le sfide epocali dalle
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia quali siamo sollecitati e che ci permettono di non imbarbarirci, di non cedere alla tentazione delle semplificazioni in un mondo complesso, ma anche di non perdersi nei grovigli dell’indecisione e dei rimandi (2016).
5.3.2. San Petronio: un padre con la città vicino al cuore
La stessa iconografia del santo patrono, raffigurato mentre tiene sul braccio vicino al cuore la nostra città o nel gesto di dare cibo ai poveri, evoca per l’arcivescovo Zuppi un amore per tutta la città senza distinzioni: San Petronio non costruisce un’altra città, separata; non si chiude in un mondo a parte pensando così di proteggere le sue convinzioni ma protegge tutta la città e in essa semina il Vangelo di amore che Gesù ha affidato. Anche noi non smettiamo di adottare la città degli uomini, di custodire con intelligenza e fermezza i suoi figli, tutti, perché il nostro Dio non fa distinzioni, mai, per nessuno (2018).
Il tema del proteggere e del custodire è ripreso più volte dall’arcivescovo Zuppi: è san Petronio che ancora oggi affida ad ogni bolognese la città intera, con l’invito a una particolare custodia dei più piccoli, «perché se sono protetti loro lo siamo tutti». Tra i più piccoli l’arcivescovo Zuppi menziona in particolare i più anziani, i tanti diversamente abili (lo diventiamo tutti così facilmente!) […] i suoi figli più piccoli, a cominciare dai giovani, perché possano sognare […]. Altrimenti li lasciamo esposti alle intemperie nelle mani di tanti mercanti di morte, come le dipendenze e orfani di una comunità di fede che li sostenga, di un orizzonte di senso e di vita.
Ma sente il bisogno di puntualizzare che «proteggere», «custodire», «non significa chiudersi, ma farsi carico, consapevoli che solo insieme ci possiamo salvare!», nella logica dell’incontro e non dello scontro, mettendo in atto «preghiera, passione, interesse, servizio, intelligenza»: Perché la città abbia sempre al centro l’uomo, non sia una piazza anonima di tante solitudini ma un luogo largo, accogliente, di incontro, non di scontro, di crescita e di amore per il valore che è ogni uomo, di parole e cultura, non di strilli o «urla dirette allo stomaco» (2017).
5.3.3. Il
simbolismo dei portici
Già il card. Biffi aveva fatto riferimento ai «portici», ma l’arcivescovo Zuppi ne fa un simbolo paradigmatico e programmatico di Bologna, come spazio insieme pubblico e privato che esprime un prendersi cura e una volontà di accoglienza intelligente e coraggiosa, responsabile e disarmante, offerta a tutti:
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Luciano Luppi I portici che rappresentano protezione e familiarità, il nostro passato e il futuro, e i cui pilastri possiamo essere ognuno di noi. L’accoglienza intelligente e sensibile non è ingenuità, ma coraggio di futuro. I portici, spazio di accoglienza e protezione offerto a chiunque, dove pubblico e privato coincidono, sono responsabilità degli abitanti della casa cui appartengono, ai quali è affidata la manutenzione! Aiutiamo, allora, la nostra città rendendola migliore con l’attenzione, la cura, disarmando con l’amore i cuori aggressivi (2016).
I portici come versione bolognese dei ponti che si oppongono ai muri e quindi chiedono di lavorare per abbatterli tutti, per una Chiesa e una società «senza barriere fisiche ma soprattutto, e dipende da ognuno di noi, senza quelle invisibili che sono la solitudine, il pregiudizio, l’indifferenza. La paura suggerisce di alzare barriere, ma non sono queste a darci sicurezza, perché alla fine ci isolano» (2018). 5.3.4. Scoprire Dio
che abita nella città :
i segni dei tempi
Uno dei tratti più originali delle riflessioni petroniane dell’arcivescovo Zuppi, e che costituisce anche uno dei tratti inconfondibili del suo stile pastorale, è l’impegno a interrogarsi sui «segni dei tempi», ma non in astratto o con uno sguardo a distanza, ma con una reale prossimità alle persone nei concreti luoghi di vita e senza distinzioni, col desiderio non solo di donare ma di ricevere, di insegnare ma anche di imparare: In questi mesi ho imparato a conoscere la forza, le speranze, l’accoglienza, le delusioni, le sofferenze nascoste (quelle che non finiscono sui giornali), i sogni, le tante risorse, le paure delle nostre città. Non smetterò di imparare. In realtà noi tutti non smettiamo di conoscere la realtà che è sempre in cambiamento. Il Signore stesso ci inquieta a farlo, perché ci spinge a interrogarci sui «segni dei tempi», quelli che il concilio Vaticano II indicava necessari per non restare a osservare pensando di capire e essere capiti e finendo spesso per diventare «profeti di sventura» che abbiamo sempre con noi e dentro di noi (2016).
E come a rispondere a una lettura superficiale di questa vicinanza pensosa e accogliente aggiunge: Leggere i segni dei tempi è tutt’altra cosa che correre dietro al mondo! Anzi! papa Francesco (EG 51) motiva tutte le comunità ad avere una «sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi» cioè scoprire quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze e che (EG 71) «vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso» (2016).
Il suo è uno stile di gesti e di parole che invitano a guardare «con amore rinnovato e con tanta speranza la città, tutta e tutti, a iniziare dai più poveri, per imparare così a farlo con chiunque», senza «arroccarci nella 102
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia
sicurezza dei propri presidi che fanno sentire a posto o illudere di essere protetti per quello che già si possiede» (2016), così da abbattere ogni barriera, principalmente quella dell’incomprensione e promuovere una vera comunione nella Chiesa e nella società, una comunione che «non omologa», ma simile a quella di «Gerusalemme a Pentecoste» (2018). Per questo è importante coltivare quel tratto tipicamente bolognese che è la bonomia, cioè la bontà del cuore, la semplicità di modi, la mitezza che spinge per la comprensione, nostra vera forza, figlia della humanitas che nasce dal vivere il Vangelo nella storia. La bonomia relativizza lo scontro, cerca con pazienza le ragioni del vivere assieme, aiuta l’altro a tirare fuori la parte migliore, accoglie e fa sentire accolti. La bonomia è assai diversa da buonismo che ne è la caricatura e la deformazione (2018).
5.4. Testimoni di una prossimità e alterità amante
Se la Chiesa è chiamata a uno sguardo contemplativo sulla città e le sue sfide, abbiamo visto che questo per Bologna si esprime con particolare evidenza programmatica in occasione del 4 ottobre, annuale solennità di san Petronio, vescovo patrono della città. Nei discorsi dei suoi pastori la Chiesa di Bologna mostra di avere a cuore la vita e la crescita della città. Il suo contributo si muove principalmente sul piano dell’edificazione della coscienza del singolo, della diaconia della carità e della cura culturale della fede, ma come chi si sente partecipe di un destino comune, ponendosi a partire dalla propria differenza cristiana come un’alterità amante. Soprattutto con l’arcivescovo Zuppi il discorso alla città non viene più fatto calare solo dal riferimento alla tradizione e ai principi, ma sorge dalla città stessa, e non solo dai suoi monumenti religiosi, ma soprattutto dal contatto con tutti, persone e istituzioni, comprese le domande di chi è più provato o lontano dalla fede. L’obiettivo è quello di far emergere quelle esperienze positive e quell’insieme di valori antropologici condivisi, che possono permettere di ricucire il tessuto comunitario lacerato dall’individualismo imperante, additandone i fondamenti nell’umanesimo cristiano e spronando profeticamente sia la comunità cristiana che l’intero tessuto sociale a darvi traduzione storica coraggiosa e solidale.
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6. Testimonianza profetica di M adeleine D elbrêl 62 A conclusione di questo percorso ci sembra particolarmente carico di profezia per il nostro tema anche solo un accenno alla testimonianza di Madeleine Delbrêl (1904-1964), proclamata venerabile da papa Francesco nel gennaio 2018. Basti pensare a due titoli emblematici: Il santo volto del mondo (1928), raccolta inedita di poesie, e Città marxista. Provocazione a un’esistenza per Dio (1957), libro nel quale condensa e mette a disposizione di un più ampio discernimento ecclesiale la sua esperienza più che ventennale di presenza missionaria nella periferia parigina operaia e marxista di Ivry-sur-Seine. Fin dai primi anni dopo la sua conversione «violenta» e dal suo incontro «abbagliante» con Dio a vent’anni, allargò il suo sguardo sulla vita della sua città di Parigi: da poetessa e scrittrice continuò certo a interessarsi ai fermenti culturali e artistici che la vedevano frequentare corsi alla Sorbona, circoli universitari giovanili, atelier e mostre d’arte, ma adesso col desiderio di cogliere le tracce di quella «inquietudine religiosa» che aveva mosso la sua ricerca. Inoltre cominciò a fare sempre più attenzione a ciò che la vita parigina trascinava di «umilmente doloroso», figure anonime, soprattutto femminili, a cui avvicinarsi come altrettanti «compagni di strada e di fatica» nel comune cammino incontro a Dio. Da qui il suo bisogno di dare ai suoi componimenti poetici come alla sua vita uno stile «duttile e malleabile», che in pochi anni la portò prima a un impegno significativo nel mondo dello scoutismo, che favorì il suo incontro con la realtà della «periferia», e poi ad approdare nel 1933 nella città delle trecento fabbriche di Ivry-sur-Seine alla porta sud di Parigi. Il suo obiettivo missionario voleva essere vivere «in una terra di semplice vangelo», installandosi «in una vita di famiglia» con tutti. La sua prossimità fraterna la portò a diverse dolorose scoperte: l’ingiustizia sociale, l’indifferenza complice di tanti cristiani installati in posizioni puramente difensive e il comunismo con il suo messianismo e il suo ateismo militante. Tutto ciò determinò in lei un profondo spaesamento, sentito da lei come un appello di Dio, una «provocazione» a ripensare le forme personali, comunitarie ed ecclesiali di una presenza autenticamente evangelica. Nel suo racconto di questo impatto, fatto neanche un mese prima della sua morte improvvisa e quindi con tutto il sapore di un inconsapevole testamento, Madeleine afferma che proprio quelle condizioni di vita sconcertanti sono state la sua «scuola di fede applicata», per cui afferma:
62 Il profilo biografico ufficiale e più completo in F. Gilles – B. Pitaud, Madeleine Delbrêl. Biografia di una mistica tra poesia e impegno sociale, EDB, Bologna 2014. Diversi punti qui accennati trovano sviluppo in L. Luppi, «Madeleine Delbrêl (1904-1964), guida al discernimento come “obbedienza creativa” nei deserti contemporanei», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 11(2007)21, 141-174.
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Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia Un ambiente ateo non è un luogo del tutto negativo in cui delle tentazioni tendono delle imboscate alla fede, ma una terra di conversione in cui Dio ha previsto delle prove che, scelte da Lui, riconosciute da noi, faranno della nostra fede, proprio là dove deve lottare, la fede sana e vigorosa che Gesù Cristo ci ha donato.63 Questi contatti con l’ateismo attuale o con la non credenza o l’indifferenza […] devono essere generatori di una fede rivitalizzata, dilatata per ricevere più luce.64 Questi contatti ci conducono a non considerare il dono della fede […] come un fatto al quale saremmo abituati, ma come un tesoro straordinario e straordinariamente gratuito […] se ci fanno penetrare in un’ansietà, in un certo dolore missionario, chiariscono i veri fondamenti della gioia cristiana.65
Tali prove, con lo spaesamento che le caratterizza, sono quindi per Madeleine «le condizioni normali della nostra vita di fede»,66 «necessarie al suo sviluppo e alla sua fecondità».67 Sospinta dall’amore di Cristo, si avvicina a tutti con rispetto e sollecitudine fraterna, come «in ginocchio» di fronte ad ogni persona, tutta protesa a cogliere al di là del peccato quel «frammento dello splendore divino», quel «bene» infinitamente più grande, che ognuno porta in sé: Noi possiamo sempre andare fino in fondo nella conoscenza del male in un’anima, ma non abbiamo misure abbastanza grandi per giudicare il bene che ella porta in sé. Perché il male è qualcosa di nostro, è a nostra misura; il bene, invece, è a misura di Dio. […] Tutti gli esseri che incontriamo hanno qualcosa da donarci e ciascuno di loro ha qualcosa da ricevere da noi.
Grazie a questa «costante compagnia» con il Signore, convinta com’è che «è Gesù che dappertutto attende. E in noi è Gesù che cammina», Madeleine riceve il dono di uno «sguardo» in profondità e vive la sua presenza tra la gente di Ivry nella «speranza», cioè pronta a lasciarsi arricchire e modificare da ogni incontro.
63 M. Delbrêl, La question des prêtres ouvriers. La leçon d’Ivry (Textes missionnaires 4; Œuvres complètes X), Nouvelle Cité, Bruyère-le-Châtel 2012, 211. 64 M. Delbrêl, La femme, le prêtre et Dieu. Au cœur du mystère intime de l’Église (Textes missionnaires 3; Œuvres complètes IX), Nouvelle Cité, Bruyères-le-Châtel 2011, 201. 65 Ivi. 66 Delbrêl, La question des prêtres ouvriers, 220. 67 Ivi.
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Milano come Ninive. Il cristianesimo e la città costruiscono il loro futuro
Luca Bressan*
Il voluto rimando nel titolo a una lettera pastorale del card. Carlo Maria Martini,1 allora arcivescovo di Milano, delinea in modo chiaro anche se figurato il senso della mia relazione, dentro la mappa concettuale del convegno: cercheremo di indagare sulle conseguenze che l’imporsi della rivoluzione urbana in questo XXI secolo2 genera dentro l’esperienza cristiana sia individuale che comunitaria, innescando trasformazioni anche molto profonde della forma ecclesiae.3 In un simile compito ci sprona il pensiero lucido di papa Francesco, che rilegge la sfida in atto in questi termini: Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. […] Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con
* Docente stabile di Teologia pastorale – Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano [email protected] C.M. Martini, Alzati, va’ a Ninive, la grande città, Centro Ambrosiano, Milano 1991. Per una presentazione e una prima interpretazione del fenomeno rimando a R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018. 3 Le riflessioni che svilupperemo saranno non soltanto italiane e non soltanto europee: cf. come esempio M. Sievernich – K. Wenzel (a cura di), Aufbruch in die Urbanität. Theologi sche Reflexionen kirchlichen Handelns in der Stadt, Herder, Freiburg i.B. 2013; C.M. Galli, Dio vive in città. Verso una nuova pastorale urbana, LEV, Città del Vaticano 2014. 1 2
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Luca Bressan l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città.4
Svilupperemo la nostra indagine seguendo il consueto itinerario metodologico della teologia pastorale: un primo momento recettivo di ascolto ci vedrà concentrati nel fare tesoro dei tanti segnali di trasformazione che la rivoluzione urbana lancia in molte direzioni e in molti campi della cultura e del sapere. Segue poi un secondo momento più riflessivo di discernimento: partendo proprio da quanto ascoltato cercheremo di comprendere come le trasformazioni dell’universo metropolitano stimolano e generano modificazioni sociali, antropologiche, religiose e di conseguenza anche nella esperienza cristiana. Per giungere così al momento finale della nostra ricerca, quello della immaginazione: quali prospettive e quali piste di sviluppo la fede cristiana intravvede in questo contesto. La novità e il carattere inedito dell’oggetto che vogliamo affrontare ci chiede però di modificare il percorso della nostra indagine: partiremo dal momento riflessivo, ovvero ci impegneremo nella costruzione dello strumento per poter cogliere l’anima della città, il motore simbolico dello spazio urbano, per poi addentrarci nell’osservazione e giungere così ad alcuni punti conclusivi che ci si consegnano come vere e proprie sfide per il futuro del cristianesimo dentro la città, più ancora per il futuro di un cristianesimo che si lascia trasformare dall’universo urbano. Partiamo perciò con una indagine epistemologica sul senso e la forza dello strumento linguistico della metafora, nello sviluppo della riflessione sulla città.
1. La
forza della metafora
Milano come Ninive. La semplice evocazione fonica della frase accende energie in chi la usa e in chi la ode. Stimola l’immaginazione, pone in un’attitudine di ascolto e di attesa. Quali sono le ragioni di una simile forza espressa da una semplice frase? Un filosofo ci viene in aiuto nel trovare la soluzione di questo nostro enigma.5 Siamo di fronte a una metafora, figura retorica così definita: per metafora si intende una figura che compie una deviazione del significato originario del termine; una metafora è una funzione linguistica che riesce a tenere assieme – grazie a una nuova pertinenza significante – due termini che presi letteralmente non stanno assieme. La metafora diventa così una forma «predicativa» del reale, capace come tale di veicolare nuove informazioni e di formare nuovi significati.
4 Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, nn. 73-74: EV 29/2179s. 5 P. Ricœur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivela zione, Jaca Book, Milano 1981.
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La predicazione metaforica è così capace di ridescrivere l’esperienza, ristrutturando la percezione del reale (addirittura il reale stesso!). Milano come Ninive: la tensione euristica accesa dall’esercizio linguistico permette di cogliere l’oggetto osservato sotto nuove prospettive, inedite, attinte dal secondo oggetto inserito nel discorso, ma anche sviluppate in modo inedito e creativo dalla relazione che si è stabilita tra i due oggetti. In questo modo la metafora ci fa superare il livello della semplice mimesi del reale per accedere a quello di una imitazione creatrice; attraverso la sua torsione semantica rende accessibile il passaggio dal piano del linguaggio a quello della referenza, raggiungendo in questo modo la piena significazione. La metafora ci si rivela come un ottimo strumento di lettura fenomenologica, uno strumento disvelativo e rivelatore del reale che stiamo osservando. La capacità – addirittura la forza – evocativa e disvelatrice della metafora è resa possibile dalle solide basi epistemologiche proprie di questa figura retorica. Rifacendosi a un’intuizione di M. Heidegger («La metafora esiste solo entro i confini della metafisica»), P. Ricœur ci permette di scoprire la sorgente profonda della forza dimostrata dalla semplice affermazione «Milano come Ninive». Soltanto perché vi è un’organizzazione del discorso non soltanto logica ma oggettiva – che struttura il senso delle cose, che ne dice la verità – e che ognuno di noi può riconoscere in modo intuitivo, la metafora riesce ad attivarsi e a generare il proprio discorso. La metafora suppone un linguaggio che sia in grado di descrivere il senso delle cose e l’accesso e l’esperienza della verità da parte dell’uomo. La metafora diventa la trascrizione linguistica della presa di posizione del soggetto dentro un simile discorso, che ha bisogno dello schema oggettivo di organizzazione, riconoscimento e destrutturazione del senso delle parole. La metafora è lo strumento attraverso il quale l’io inteso come soggetto comunica la sua presa di posizione in riferimento alla verità, la sua comunicazione di questa verità. Diventa perciò essenziale il modo con cui attraverso la metafora egli pone nel discorso il suo proprio modo di accedere alla verità, di cercarla e di farne esperienza. La torsione che il soggetto imprime alla metafora attinge energia e forza dal grado di implicazione del soggetto in questa torsione. Si potrebbe dire che la metafora diviene in questo modo una forma di testimonianza, il cui livello e la cui forza è decisa dal grado di implicazione del soggetto nel sostenere l’atto linguistico che la metafora crea (la voglia di comunicare senso e verità che il soggetto mette nel costruire quel funzionamento metaforico). Milano come Ninive: la forza della metafora diventa energia che accende negli interlocutori una ricerca di verità, strutturando profondità e dando anima al discorso, suscitando domande e itinerari di senso che il soggetto comunicatore può percorrere con le sue argomentazioni arricchendo gli altri soggetti implicati nella comunicazione. Tutto ciò accade proprio grazie alla semplice attivazione di una metafora!
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2. La
città come metafora
Milano come Ninive. Due città assurte al ruolo di dispositivi in grado di attivare una potente metafora. Come mai proprio due città? E più in generale, come mai non c’è cultura o religione che non abbia fatto riferimento alla città come a uno strumento capace di illuminare le sfide e le potenzialità che la vita offre ad ogni esperienza umana e sociale, individuale o collettiva? Le scienze sociali si sono poste questo interrogativo per secoli.6 Se prendiamo come riferimento un pensatore che cerca un punto di condensazione nella costruzione del concetto,7 la città – anche la sua declinazione attuale, metropolitana, espansa, e non soltanto quella classica europea e medievale – è davvero un dispositivo unico, capace di vita propria e produttore di novità di esperienza. La città – ci dice G. Simmel – produce un effetto unico di costruzione di profondità, durata, intensità, dell’esperienza umana. Questo perché la città ha la capacità di declinare in modo simultaneo, sincronico e articolato fra di loro, cinque ingredienti fondamentali dell’esperienza: lo spazio, il tempo, i legami, la razionalità, il linguaggio. In più di un caso non riconosciuto come ingrediente ulteriore – i cinque ingredienti appena elencati sono condivisi da molti antropologi e filosofi sociali – è il prodotto dello spazio urbano: la messa in scena della dimensione trascendente (metafisica), della vicenda umana. È ciò che G. Simmel indica con l’aggettivo «spirituale», aprendo alla riflessione filosofica una porta di ingresso nella decostruzione e ricostruzione (sociologica e antropologica) del concetto di città. Lo spazio urbano – come rileva acutamente un altro pensatore che si è occupato molto di città e di spazi urbani8 – è il luogo della libertà: non quella astratta ma quella reale, storica e determinata, perché consente agli uomini l’esperienza del «terzo escluso», esperienza spirituale per eccellenza, esperienza simbolica che ci mette in comunicazione con il reale, vero trascendente dell’esperienza umana, che assume sempre i contorni dell’ignoto, dell’inatteso, dello straniero, del diverso da noi, e quindi genera emozioni forti, che hanno a che fare con la violenza e il sacro, e che necessariamente chiedono l’elaborazione del pensiero e del rito. Con la loro riflessione analitica Simmel e de Certeau ci aiutano a comprendere con maggiore profondità quanto in realtà le grandi tradizioni religiose già ben conoscono: le città sono un ingrediente essenziale nella costruzione dell’identità umana, nella scoperta del senso delle cose e della verità del mondo. Le grandi narrazioni religiose e mitiche, antiche – Babele, Babilonia, Gerusalemme, Ninive, Roma9 – ma anche moderne
L. Mumford, La città nella storia, Edizioni di Comunità, Milano 1964. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995. 8 M. de Certeau, L’invention du quotidien, 1: Arts de faire, Gallimard, Paris 1990. 9 J. Ellul, Sans feu ni lieu. Signification biblique de la Grande Ville, Gallimard, Paris 1975. 6 7
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(le grandi metropoli contemporanee: New York, Londra, Parigi…) sono all’origine di processi di mitopoiesi, raccontati originariamente attraverso lo strumento della saga e oggi attraverso i nuovi strumenti rituali che sono il cinema e i grandi concerti rock. La città è una metafora che attraversa le grandi narrazioni mitiche sull’origine del mondo e dell’umanità, e nutre con la stessa semplicità di adattamento le moderne interpretazioni sociali e antropologiche dell’urbano (fino a R. Sennett, passando per M. Foucault, e prima ancora per i sociologi statunitensi, la scuola di Chicago dei primi anni del XX secolo). La città, la metropoli, lo spazio urbano è di conseguenza uno spazio connotato antropologicamente, che vive e sviluppa le sue grammatiche. È fatto di istituzioni, ovvero di soggetti in grado di condensare dentro un intreccio di legami, riti, simboli e valori, rappresentato spazialmente, gli ingredienti costitutivi dello spazio. Le istituzioni si suddividono in categorie che definiscono le operazioni svolte per la vita dello spazio urbano: il sapere, il governo, il sacro (la festa, la trascendenza), il commercio (materiale e immateriale), il lavoro, gli affetti, la cura (sorveglianza, punizione, sostegno, guarigione). A queste istituzioni corrispondono spazi e porzioni di spazi che si specializzano dentro il tessuto urbano. Già nelle antiche città greche: l’acropoli, la necropoli, l’oikos, l’agorà. Nello sviluppo romano si aggiungono la basilica e le terme: il commercio e l’esercizio della legge. Lo spazio urbano, proprio perché vivente, genera nei suoi abitanti un senso del tempo, una direzione (assiologica, che punta verso un destino, una escatologia), e che supera lo spazio fisico della città per inglobare in modo simbolico il senso della vita rappresentata. Già Platone intuisce questa energia della città, e provando paura verso di essa invoca la fuga dalla città. Aristotele invece ne immagina una possibile declinazione maieutica: la città come strumento di educazione della natura umana. Ai due filosofi si legano due teologi, anch’essi all’origine di due modi simmetrici di leggere la città: Agostino e il suo pessimismo sulla città terrena, Tommaso e la sua fiducia nella forza pedagogica dello spazio urbano.10 Occorre riconoscere che il pensiero di Agostino mostra il contributo impensato che la fede cristiana è capace di dare al legame sociale urbano: il concetto di pace non più declinato in negativo ma positivamente immaginato come la trascrizione del legame originario del giardino della creazione. Grazie a questi strumenti di comprensione, lo spazio urbano diviene lo scenario che spiega e dà rilievo ai grandi movimenti di sviluppo del l’umanità: lo sviluppo del potere e del capitale e il loro accumulo; l’agglutinarsi in classi e la lotta per la propria affermazione; la vertigine data dalla constatazione dei progressi possibili da parte della tecnica e della razionalità, e la loro capacità di controllare gli uomini tramite il fascino
10 Indicativa e capace di dischiudere itinerari di pensiero è la raccolta di testi di P. Ansay – R. Schoonbrodt, Penser la ville. Choix de textes philosophiques, Archives d’Architecture moderne, Bruxelles 1990.
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(l’incanto e il disincanto di weberiana memoria). L’universo urbano diviene lo scenario che dà alla libertà umana lo spazio di esibirsi e di apprendere le proprie potenzialità, le utopie e le ideologie, la fraternità e l’inimicizia, sino a scoprire i limiti della propria identità e condizione. Sino alle soglie del trascendente e del religioso.
3. Al
cuore della metafora urbana
Cosa consente allo spazio urbano di accendere simili operazioni? Le scienze sociali hanno molto riflettuto sulle potenzialità di questo spazio, soprattutto a fronte degli scenari inediti che le grandi metropoli del XX secolo aprono alla società e alle culture che la costruiscono. Nella seconda parte del secolo scorso si sviluppa una teoria che velocemente conquista pubblico e critica, affermandosi come uno strumento capace di mostrarci il cuore della città come metafora, facendoci scoprire come funziona a livello simbolico lo spazio urbano. Questa teoria ha un nome e un autore: è il concetto di eterotopia, presentato e sviluppato da M. Foucault.11 M. Foucault presenta la sua personale teoria sulle eterotopie nel 1967, come introduzione a un seminario di architettura. L’origine del testo ne spiega la frammentarietà, e in parte anche la non precisa definizione. Parte così la ricerca per una comprensione di questa sua intuizione alla luce di tutta la sua produzione scientifica. Ai nostri giorni l’eterotopia è definita come uno spazio che introduce una dimensione terza (simbolica) dentro un mondo strutturato su logiche binarie di risposta immediata al bisogno provato. Gli interpreti contemporanei del pensiero di Foucault rinvengono sette caratteristiche che definiscono questo spazio: 1) lo spazio e il suo attraversamento devono essere il frutto di una scelta libera; 2) lo spazio e la sua esperienza si collocano al di fuori delle esperienze provate quotidianamente, hanno i tratti della cesura; 3) è uno spazio che risponde non a scopi semplicemente immediati e non è un vero e proprio fine dell’esperienza; 4) si sviluppa però in uno spazio e in un tempo determinato; 5) ha regole e vincoli ben precisi; 6) spesso associati a gruppi o esperienze ben determinate; 7) tutto ciò è in parte nascosto o sconosciuto.12 L’eterotopia è il motore dello spazio urbano: con la sua presenza disseminata trasforma l’ordinario e il quotidiano grazie alla sua forza di straordinarietà; inserisce dinamiche di senso e spazi di trascendenza laddove ci sono solo logiche utilitaristiche e produttive, o di consumo. Ha il suo peggior nemico nella società post-civile: che privatizza gli spazi pubblici (spegnendone la capacità di significare), che stereotipizza le esperienze (in tutto il mondo come a casa propria, i non luoghi, ovvero il riflesso di me che oscura la differenza), che spegne gli spazi eterotopici trasformandoli in non zone, campus, luoghi selvaggi o funzionali incapaci di significare.
M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano 2001. M. Dehaene – L. de Cauter (a cura di), Heterotopia and the City. Public Space in a Postcivil Society, Rouledge, New York 2008. 11 12
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L’eterotopia come funzionamento simbolico dello spazio urbano non nasce nel XX secolo. È possibile rinvenirne le tracce anche in periodi precedenti, come gli stessi urbanisti curatori del convegno e del testo sopraccitato scoprono e spiegano, grazie allo studio di una cartina della città di Roma (edita da Nolli) nel XVIII secolo. Osservando quella cartina, si può notare come gli edifici siano classificati secondo una logica duale bianco/nero: in nero gli spazi costruiti (edifici privati e pubblici), in bianco gli spazi liberi (piazze e vie, luoghi di incontro e di transito, di comunicazione, spazi dinamici). Dentro questa griglia rigida e ben definita spicca l’eccezione costituita dagli spazi (edifici) religiosi, delimitati in nero ma lasciati bianchi internamente, che suona come un voluto disassamento di questi luoghi per indicare una sorta di terzo spazio, di dimensione trascendente. Gli urbanisti intuiscono la regola che sta alla base delle eterotopie: sono la scrittura dell’asse verticale – simbolico – dentro la logica orizzontale e duale – del bisogno e del legame sociale animale. Nonostante l’intuizione, nessuno degli autori citati in questo paragrafo sembra essere stato capace di cogliere la portata della scoperta fatta. Gli stessi sostenitori del progetto di M. Foucault – come anche lo stesso inventore – depotenziano lo strumento scoperto per una mancanza di completezza nell’analisi dell’esperienza umana. Il loro grido di battaglia – «Eterotopie di tutto il mondo, unitevi!» – per contrastare l’impoverimento della società urbana manca di un solido funzionamento, per poter essere efficace. Il depotenziamento spaziale delle eterotopie va di pari passo con lo smarrimento (o il mancato rinvenimento) del loro contenuto originario: le eterotopie sono l’irruzione del sacro e della trascendenza dentro il quotidiano, che con la sua forza riscrive la grammatica e la sintassi della vita sociale, rendendola capace di nuovi significati e soprattutto di nuovi orizzonti di senso. È a questo livello che l’eterotopia può essere assunta come l’invenzione dello strumento che fa dello spazio urbano il principio trasformatore dell’esperienza umana. Chi coglie in modo chiaro questa peculiarità che rende le eterotopie lo strumento della trasformazione dell’esperienza umana grazie allo spazio urbano è invece un teologo sui generis come M. de Certeau: per lui le eterotopie sono lo strumento che introduce lo straordinario dentro il quotidiano; le eterotopie sono l’illustrazione del principio di cattolicità dentro la sintassi della vita urbana.
4. Esplorazioni
urbane
Dopo aver costruito lo strumento euristico, siamo ora pronti per avviare laboratori ed esercizi di osservazione dell’universo metropolitano. Grazie al concetto di eterotopia la città ci appare come un dispositivo capace di interagire con l’esperienza umana, influenzandone e potenziandone le dinamiche simboliche di produzione dei significati e del senso della vita e della storia. Le metropoli moderne come degli immensi spazi attivi di tra-
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sfigurazione dell’esperienza: così parecchi studi leggono le nostre città, e ne descrivono il dinamismo. Le città odierne in effetti moltiplicano quelle che possiamo definire come eterotopie dell’illusione, ovvero quegli spazi che accendono processi di trasfigurazione che amplificano i confini del bisogno, moltiplicando le emozioni e le sensazioni provate. Il mito di città che si raccontano come l’Eden terrestre – sorrette da altrettanti luoghi che invece simbolizzano l’inferno, e la cui funzione è generare le energie consumate da questi luoghi paradisiaci – è abbastanza radicato nell’immaginario moderno della città come già illustra il film Metropolis di F. Lang, agli inizi del XX secolo. Questa pellicola è presa ad esempio da parecchi studi per raccontare come le metropoli moderne accendono processi di simbolizzazione, piegandone però il funzionamento a logiche di immanenza, che inibiscono l’originaria destinazione trascendente dei simboli, volta a superare la frontiera della morte, alla ricerca del senso ultimo dell’esistenza e della storia.13 Le metropoli rischiano di diventare delle immense macchine di trasformazione simbolica del rapporto tra individui e bisogni, potenziando la logica del consumo e connotandola come nuovo luogo della esperienza religiosa: il soddisfare il bisogno di un oggetto con il suo acquisto e possesso diventa il luogo nel quale – grazie alle organizzazioni simboliche degli spazi di consumo e agli itinerari di senso che intenzionalmente attivano – le persone riescono a sublimare il bisogno religioso che portano inscritto nel loro intimo, sovrapponendo i tratti di questa esperienza a quella del consumo. Come afferma uno studio divenuto famoso: la religione dei consumi, con le sue nuove cattedrali e i suoi riti scintillanti quanto artificiali.14 Il passaggio di queste eterotopie dell’illusione a eterotopie dell’alienazione può risultare breve. Sono definite dell’alienazione quelle eterotopie che creano contesti di sospensione della vita quotidiana, introducendo le persone in processi e luoghi artificiali, che ridefiniscono in modo globale il senso e i significati della vita, dando un orientamento valoriale ed etico assolutamente arbitrario, costruito dal principio che si eleva al ruolo di regista della eterotopia. Possono essere manifeste ma anche occulte, come documenta l’attenta analisi di R. Sennett, che in realtà riprende studi di sociologia economica statunitense della fine del XX secolo. Eterotopie dell’alienazione possono nascere per far fronte a fenomeni sociali non facilmente gestibili – basti pensare agli istituti di cura per i malati di mente sorti nel XX secolo e poi chiusi, ma anche alle carceri15 – oppure possono essere frutto di ideologie che si trasformano in veri e propri crimini collettivi – i campi di concentramento che in varie epoche e in vari luoghi la storia ha conosciuto e purtroppo continua a conoscere.
J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2015. G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumi smo, Il Mulino, Bologna 2012. 15 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976. 13 14
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Le eterotopie dell’alienazione sono tuttavia più frequenti e diffuse di quanto si possa immaginare: sono le tante periferie che sorgono in modo selvaggio ai bordi delle metropoli e delle megalopoli moderne. Spazi così impoveriti e disarticolati da produrre l’impoverimento progressivo dell’esperienza vissuta e dei legami istituiti, e allo stesso tempo l’imprigionamento in un meccanismo che rende schiavi pur non riuscendo a dare risposte all’altezza della domanda di senso provata.16 Un filosofo italiano, G. Agamben, approfondisce questa variante del depotenziamento delle eterotopie, evidenziandone il suo funzionamento simmetrico: la si sperimenta nei contesti di marginalità sociale – gli slums – ma anche in forme raffinate di iperorganizzazione urbana dello spazio metropolitano. L’eccesso di povertà o l’eccesso di possibilità creano una situazione dentro la quale non è possibile accendere le operazioni simboliche che prendono avvio dagli spazi quotidiani del vivere. Assenza di regole o assenza di interazione tengono le persone e i significati delle loro azioni in campi così separati da impedire la costruzione di sintesi personalizzate basate su simboli condivisi; e tengono i singoli soggetti frammentati e incapaci di accedere a un senso condiviso della propria esistenza.17
5. Un approfondimento. Le religioni nella metropoli Le trasformazioni accese dentro l’esperienza umana – soprattutto nei processi simbolici della sua comprensione – non potevano non avere conseguenze sulla dimensione religiosa che dall’origine struttura l’esperienza umana. Per poter comprendere questi influssi prendiamo come punto di riferimento il cristianesimo (nella sua declinazione cattolica, ma non soltanto) e il suo modo di pensare la propria presenza dentro lo spazio urbano negli ultimi decenni. Il periodo dopo il concilio Vaticano II è stato, per tutto ciò che attiene ai luoghi di culto della Chiesa cattolica, un vero laboratorio sperimentale: si è diffusa in modo contagioso la ricerca di nuove forme per quanto attiene la costruzione degli edifici, così come si è sviluppata la volontà di riorganizzare gli spazi degli edifici storici. E tutto questo nella convinzione di dover facilitare la comunicazione del volto di Dio e di Chiesa che l’evento conciliare aveva saputo far maturare tra gli stessi cristiani, volto ben espresso dalle immagini forti e nitide del discorso di chiusura di papa Paolo VI: un cristianesimo che adotta la logica del buon samaritano, che si fa dialogo e incontro, per mostrare a tutti (anche a chi non crede) l’umanesimo del Dio che si è fatto uomo.18
16 M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, Bologna 2007. 17 G. Agamben, Homo Sacer, Quodlibet, Macerata 2018. 18 C. Manenti (a cura di), La Chiesa nella città a 50 anni dal Concilio Vaticano II, Bononia University Press, Bologna 2016.
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Questa nuova attitudine accende veramente un itinerario di sperimentazione, nella convinzione che finalmente la Chiesa è riuscita a trovare gli strumenti, persino nelle architetture dei suoi edifici, per affrontare con maggiore energia – e successo, si pensava in quegli anni – la grande frattura tra cristianesimo e modernità, che aveva segnato tutto il XIX secolo e gli inizi del XX, dalla crisi modernista in poi. Il principio che domina in modo indiscusso tutta questa fase di costruzione, restauro e riadattamento degli edifici di culto era talmente chiaro da non chiedere mai di essere espresso in modo formale: che ci fosse il bisogno di chiese, di edifici di culto era un dato pacifico e assodato. La questione si poneva e conosceva tutto il suo sviluppo attorno a un altro polo, quello delle modalità. Come realizzare questi edifici, quale forma assumere come nuovo canone di visibilità della Chiesa nel mondo: questo era il cuore del dibattito. Tutta la potenza del pensiero vedeva concentrate le energie sia dentro che fuori dalla Chiesa sul «come» immaginare questi spazi di preghiera e di testimonianza religiosa oltre che cristiana dentro le città del XX secolo.19 Il XXI secolo sta ponendo la Chiesa di fronte a eventi che stanno cambiando la formulazione della domanda. La domanda sul «come» sembra perdere mordente ed efficacia, di fronte ad avvenimenti che spostano la riflessione a un maggiore livello di profondità. La Chiesa – il cristianesimo in tutte le sue declinazioni confessionali – si sente sfidata su di un terreno più radicale: ha ancora senso oggi porre dentro la metropoli (la megalopoli) del XXI secolo uno spazio sacro? Quale la motivazione, ma soprattutto quale la necessità di questo genere di spazi? La domanda rimane, perciò. Ma passa dal «come» al «se», dalla modalità alle ipotesi. Non ci si interroga più sulle forme di questa presenza; ci si interroga sul senso e sul perché di una simile presenza, a fronte di segnali che ne minano il significato e l’efficacia.
6. Perdita
di significato e di efficacia
A indebolire la portata del segno contribuisce in modo sostanziale la stessa istituzione ecclesiastica che, in piena crisi della pratica e a seguito della diminuzione dei presbiteri, riesce in modo sempre minore a presidiare il reticolo di spazi ecclesiali che tradizionalmente abitano lo spazio urbano. Edifici vuoti, chiese aperte poche ore durante la settimana; edifici di culto destinati a uso profano – sale per concerti, biblioteche, ma anche mercati e luoghi di intrattenimento, se non addirittura abitazioni private – indeboliscono agli occhi della popolazione metropolitana l’identità simbolica dello spazio «chiesa». La medesima architettura ospita oggi usi ben differenti e non è più in grado da sola di costituire un rimando alla trascen-
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L. Bouyer, Architettura e liturgia, Qiqajon, Magnano (BI) 1994.
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denza e al sacro. Sono soprattutto le nazioni del Nord Europa a raccontarci questa difficoltà; ma anche l’Italia comincia a conoscere fenomeni simili. A dare forza alla questione del «se» ci pensa poi un secondo fattore, in forte espansione in questi ultimi anni e già annunciato pochi paragrafi sopra: l’imporsi di quella che le scienze sociali definiscono la religione dei consumi, con le sue nuove cattedrali e la riorganizzazione dello spazio urbano che attiva. Grazie a questa rivoluzione, la ricerca e l’acquisto di un prodotto non è più una semplice operazione materiale di soddisfacimento di un bisogno, ma si trasforma in un’azione simbolica capace di accendere negli individui esperienze di ingresso in dimensioni del reale e di comunicazione di rappresentazioni e valori una volta connessi alla esperienza religiosa. Ne abbiamo un esempio plastico proprio a Milano. Chi si reca in piazza Liberty potrà fare esperienza della cattedrale che a Milano è stata costruita agli inizi di questo XXI secolo: ad essa si accede per un percorso di purificazione, passando sotto una volta fatta di cascate di acqua che hanno un chiaro significato iniziatico, per poi immergersi dentro il grembo della terra attraverso un percorso spoglio e giungere infine in uno spazio che invita a vivere esperienze di immersione in nuovi mondi grazie agli strumenti messi a disposizione da abili sacerdoti e sacerdotesse che hanno il compito di accogliere e accompagnare i fedeli nel percorso simil sacrale in cui ci si trova immersi. Acquistare uno smartphone nello Apple store coincide col vivere un’esperienza che trasforma l’acquirente in fedele, e connota il gesto del consumo secondo i canoni dell’esperienza religiosa. Un cellulare non è più un semplice oggetto ma uno strumento capace di aprire la vita del suo possessore a dimensioni invisibili e a valori intangibili, davvero difficilmente immaginabili prima che questo negozio ci fosse. Ci si trova ormai confrontati veramente con una nuova forma di spazi religiosi, prima non esistenti e ora ben iscritti nella trama del tessuto urbano. Questa trasformazione dell’architettura religiosa e del suo significato, questa sua trasmigrazione non è tuttavia senza conseguente per l’esperienza umana. Accende un’alterazione dei codici simbolici grazie ai quali diamo significato alla vita, indebolendo le tradizionali catene dello scambio simbolico che l’esperienza religiosa permetteva di vivere. Tutto risulta più debole e provvisorio. Come afferma la riflessione scientifica, la religione dei consumi cambia i canoni della costruzione del senso e dei significati della vita, indebolendo la certezza e la solidità di una verità verso la quale tutti siamo attratti; generando quel «cinismo dell’eternamente provvisorio» – quel «nichilismo escatologico» lo definisce l’architetto Gregotti20 – che ogni consumatore sperimenta nello spazio vuoto che passa tra l’acquisto di un oggetto a lungo desiderato e il successivo.
20 V. Gregotti, «Le chiese nella città secolare», in La Rivista del Clero Italiano 97(2016), 466-475.
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7. Verso
una polisemia che interroga il senso religioso
A rendere ancora più intricata la raffigurazione spaziale dell’esperienza religiosa nelle metropoli post-moderne contribuisce un ulteriore elemento, ovvero l’insediamento in modo ormai molto marcato di religioni antiche (l’islam, meglio ancora «gli» islam – nordafricano, mediorientale, asiatico, sud sahariano… –, le grandi tradizioni religiose orientali), ma percepite da noi come «nuove», che faticano a trovare i canoni per dare forma stabile e visibile alla loro identità, a fronte anche degli ostacoli che le nostre leggi e le nostre sensibilità creano in questa direzione. Tra non molti anni ci saranno studi storici che potranno paragonare la presenza attuale dei mondi islamici a Milano – che spesso abitano i nostri scantinati e le nostre officine abbandonate – alla presenza sommersa nelle catacombe dei cristiani nella Roma imperiale. Una simile presenza dispersa e confusa non può non provocare in noi la domanda: perché è ancora necessario oggi iscrivere dentro lo spazio urbano una presenza religiosa? È ancora necessario avere dei luoghi di culto che siano spazi riconosciuti, addirittura pubblici? Quali beni apporta una simile presenza? Cosa riesce a mutuare? Molti si sono posti questa domanda, sul perché dello spazio sacro dentro la metropoli odierna. E la risposta capace di unire tra loro mondi diversi (ministri di culto, teologi, urbanisti, architetti) è veramente interessante. Anche oggi abbiamo bisogno di edifici di culto, perché la forza di questi spazi è di ordinare la vita degli uomini, attivando processi (domande) e simboli, senza i quali le persone non sarebbero capaci di percepire la loro identità profonda (trascendenza, oltre la superficie), la forza di essere un’umanità (appartenenza a una comunità, a una tradizione), e il senso della loro vita, il destino della storia.21 Luoghi di culto come vere e proprie palestre antropologiche. Nel l’epoca dell’esaltazione del culturismo, del «fisico da scolpire», della salute intesa come benessere fisico, abbiamo bisogno di spazi che con semplicità ma con efficacia sappiano riaccendere dentro le persone le radici impolverate ma ben presenti della nostra esperienza quotidiana, le fonti del suo senso.22 Gli edifici di culto e la loro architettura come custodi e ricostruttori del legame tra le persone. Un edificio per «rammendare» lo spazio urbano (facendo nostra una felice espressione dell’architetto Renzo Piano): questo è il senso che spiega e rende ragione della costruzione di nuove chiese oggi. Strumenti e palestre antropologiche in grado di risuscitare negli individui immersi nella bolla artificiale generata dalla nostra cultura consumistica l’eco dei pilastri fondamentali dell’esperienza
21 V. Sanson (a cura di), Lo spazio sacro. Architettura e liturgia, Messaggero, Padova 2002. 22 S. Dianich, La Chiesa e le sue chiese. Teologia e architettura, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008.
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umana: il legame, la tradizione, la trascendenza, il dono, il bello, il vero, Dio. Non più come ai tempi delle cattedrali, ma con la stessa intenzione trasfiguratrice. Una nuova epoca può davvero prendere il via, come il successo di un edificio come la Sagrada Familia immaginata e avviata da A. Gaudí a Barcellona è in grado di testimoniarci.
8. Il
cristianesimo come energia capace di ri - ordinare lo spazio urbano
La conclusione della breve incursione fenomenologica compiuta nel campo del religioso ci ha già spostato verso il terzo momento della nostra riflessione, quello immaginativo e di proposta. Di per sé già lo stesso mondo della ricerca sociologica spinge verso un esito simile. R. Sennett – che con il suo studio ci sta accompagnando in tutti i nostri passi – mette in guardia il lettore dal rischio che l’assimilazione della sua analisi produca un effetto paralizzante. Non si può rimanere inerti di fronte agli scenari rinvenuti; e la via più efficace per reagire è tornare a immaginarsi homo faber, soggetti che con molto realismo individuano i passi possibili per abitare in modo attivo la trasformazione urbana, innescando processi di cambiamento a partire dal loro quotidiano e dai livelli consueti della loro azione. In questa direzione si muove anche la riflessione di un altro sociologo, che ci introduce in una reinterpretazione cristiana molto originale dell’universo urbano che stiamo abitando.23 Attingendo al patrimonio della tradizione cristiana e della sua teologia, L. Diotallevi fa sua una categoria di sant’Agostino per dare un nome cristiano allo scenario urbano illustrato fin qui: ci troviamo immersi nel saeculum. Grazie a questo concetto possiamo rileggere il fenomeno urbano come il darsi attuale del processo di ininterrotta lotta per il bene che accompagna la storia umana. Da sempre il presente del genere umano è un industriarsi per contenere il contagio del male e del limite, un combattimento sempre in atto (secondo i codici della logica apocalittica nel senso originario del riferimento biblico!). Seguendo il teologo Agostino, il sociologo Diotallevi illustra il compito e la potenza della esperienza cristiana proprio in ordine al combattimento in atto. Con i suoi gesti e i suoi riti, con i suoi pensieri e le sue azioni, il cristianesimo è in grado di introdurre elementi che sanno istruire percorsi di «ordinazione» dello spazio altrimenti caotico – risultato del conflitto in corso. Il cristianesimo è già descritto in questi termini dall’apostolo Paolo, spiegando la forza della fede cristiana nel redistribuire codici di potenza e di dominio non solo sulla terra ma anche dentro le forze celesti che
23 L. Diotallevi, La pretesa. Quale rapporto tra Vangelo e ordine sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013.
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abitano l’universo. Il realismo di questa intuizione di san Paolo viene riespresso dal sociologo Diotallevi in questi termini: i principati e le potestà a cui allude l’apostolo possono essere visti come ipostasi di strutture che condizionano la libertà umana, rendendo pieno di significato il compito – che la fede cristiana svolge in ogni epoca – di dare un nome a queste paure e a questi limiti, così pure come l’articolazione tra pensiero, parola e azione, con il centro nel concetto di libertà non solo individuale ma di tutto il corpo sociale e reale generato dallo Spirito. Lo strumento dell’ordinare queste potenze si rivela perciò come un ingrediente necessario che l’esperienza cristiana è in grado di seminare dentro lo spazio urbano, grazie ai tanti luoghi della sua presenza, per avviare processi di ricostruzione dei significati e dei sensi dell’esperienza umana altrimenti dispersa e isolata, che danno vita a forme inedite e originali di abitazione dello spazio urbano. Il cristianesimo grazie alle proprie istituzioni e azioni – anche liturgiche e sacramentali, non soltanto sociali e caritative – nel ruolo di generatore di eterotopie trasfiguranti! Il realismo dell’analisi sociale consente al sociologo Diotallevi di comprendere in modo rinnovato e complementare il realismo sacramentale. Il sacramento opera efficacemente non soltanto sul piano del linguaggio e del pensiero – anche – ma soprattutto sul piano reale della lotta in atto dentro il saeculum. Il ruolo di Dio, della Chiesa e dei cristiani (l’apostolato dei laici e l’apostolato dei pastori) come ruoli tutti reali, distinti e convergenti, tutti animanti dall’azione eucaristica. L’operazione sacramentale è reale perché opera efficacemente creando soggetti e comunicando energie che strutturano lo spazio, dandogli nuove dimensioni e profondità. La trascendenza cambia anche il presente: Dio, comunicandosi, dona una salvezza che comincia da ora, proprio nel presente urbano. La traduzione visibile di questa salvezza sta per Diotallevi nella trasformazione degli universi metropolitani, che proprio grazie alla presenza e all’azione cristiana si trasformano da luoghi organizzati secondo la logica della polis – ordine sociale dispotico che fonda il suo potere sull’autorità del sacro visto come dominus invincibile: si vedano le bestie dell’Apocalisse. Un potere semplificato e totalizzante, che rende gli uomini schiavi – in luoghi animati secondo il modello della civitas: uno spazio più maturo culturalmente e più umano, strutturato dal convergere sinergico e ordinato di più poteri, secondo la logica delle poliarchie e dei beni comuni. Il Dio di Gesù Cristo opera creando questo contesto e lasciando che dentro questo contesto la libertà umana generi nuovi soggetti capaci di futuro perché capaci di responsabilità per gli altri e per il mondo. Siamo ormai pronti a comprendere sino in fondo il ruolo indeducibile ma essenziale del cristianesimo inteso come sacramento, dentro gli attuali scenari urbani: essere simbolo «per» e non soltanto simbolo «di», ovvero strumento che accende processi di ordinazione della città. Sono questi i segni della salvezza che è all’opera, grazie al sacramento che è la Chiesa, e ai sacramenti che la Chiesa celebra e vive. La logica sacramentale produce dentro il saeculum spazi reali di libertà e strumenti per abitarli, e questo per ogni persona e per ogni situazione, permettendo agli uomini
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di consolidare l’esperienza della comunione e della comunità, contro la solitudine apocalittica della polis. In questo modo il cristianesimo «ordina» la città mentre la abita, grazie alla sua presenza diffusa e capillare, e anche sinergica: ai livelli delle potenze e dei principati (i poteri delle multinazionali e delle «grandi potenze»), come pure in quelli del disagio, del lavoro, degli affetti; grazie all’azione dei laici e dei pastori, avendo come strumenti i sacramenti e le loro eco culturali e sociali…
9. Il
sacramento cristiano e la forma dello spazio urbano
Ci siamo lasciati nel paragrafo precedente con la scoperta del compito che il cristianesimo assume dentro lo spazio urbano: svolgere il ruolo di «ordinatore simbolico» e quindi di organizzatore qualitativo dei luoghi e delle esperienze, dentro uno spazio che ha assoluto bisogno di questa funzione (eterotopie, gli esiti di un’apocalittica urbana senza trascendenza). La riflessione di Diotallevi individua il principio di questa funzione nell’operazione sacramentale. Percorrendo vie diverse, una studiosa irlandese24 ci fornisce gli ingredienti per dare ulteriore contenuto e spessore a questa intuizione. Il dramma del cristianesimo attuale è di avere inibito l’operazione sacramentale: è un linguaggio che non significa, che non è più capace di accendere, di attivare il potenziale trasfigurante che il dispositivo contiene. Per spiegare questa constatazione, l’autrice assume gli strumenti della linguistica. Il sacramento cristiano è un linguaggio che non è più in grado di «bucare» il mondo delle parole per arrivare a toccare il reale. Ha le formule e le forme per poter attuare questa operazione – in termini linguistici la «predicazione» –, ma manca della materia, ovvero del punto di aggancio, del fondamento reale sul quale appoggiare e innescare questa operazione – sempre in termini linguistici il «soggetto», il «terreno comune». Un’azione senza corpo, una metafora senza immagine di partenza, un divenire senza punto d’inizio… La denuncia della McCaughey ci permette di riprendere e comprendere più a fondo le denunce che nella metà del XX secolo l’allora arcivescovo di Milano, il card. Giovanni Battista Montini, avanzava, circa l’indebolimento della fede cristiana riscontrato proprio nel non riuscire più a dire parole significative ed efficaci all’uomo moderno e alla sua cultura. La frattura tra cultura e fede rende la fede incapace di trasfigurare il reale, di compiere ciò per cui è stata immaginata. La strada per affrontare e superare questa constatazione consiste nel riapprendere la grammatica sacramentale. La nostra studiosa si rifà in questo punto al pensiero del teologo Ratzinger, che vede il sacramento
24 M. McCaughey, The Church as Hermeneutical Community and the Place of Embo died Faith in Joseph Ratzinger and Lewis S. Mudge, Peter Lang, Bern 2015.
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come il luogo dell’incarnazione della fede, come la continuazione e la via simmetrica iniziata dalla incarnazione del Verbo: alla discesa/kenosi corrisponde la via sacramentale della ascensione/divinizzazione. La Chiesa è il luogo di realizzazione di questa via: a livello sociale (la comunità), come a livello individuale (il cammino di conversione e di santità). Sono questi i luoghi su cui basare l’operazione sacramentale. Per questo motivo la Chiesa è considerata sacramento. Come spiegare questa comprensione della fede? McCaughey chiama in causa il pensiero di un teologo statunitense.25 Da questo autore assume i concetti strutturanti di Chiesa come comunità ermeneutica e di Chiesa come parabola vivente. Per poi riconiugarli alla luce del pensiero più capace di profondità (perché metafisico) di J. Ratzinger. Il punto di svolta è nella costruzione di una distinzione che Mudge non vede: la Chiesa può certamente essere comunità ermeneutica empirica (soltanto esistenziale) – è questa l’intuizione di Mudge; ma molto più profondamente ed efficacemente può strutturarsi come comunità ermeneutica sacramentale (che apre alla trascendenza, che riporta a Dio). È questo il passo ulteriore compiuto dalla McCaughey, che grazie ai due pensatori (Mudge e Ratzinger) elabora una comprensione molto originale e interessante della definizione di Chiesa come sacramento, dove la dimensione sociale apre alla realtà della presenza di Dio – proprio secondo la logica del concilio Vaticano II, come proclamato in Lumen gentium, n. 8: per una non debole analogia essa la Chiesa è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura umana assunta serve al Verbo divino come vivo organo di salvezza indissolubilmente unito a lui, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito vivificante di Cristo come mezzo per far crescere il corpo. La fede incarnata diviene così il principio ermeneutico che consente di leggere e ordinare la multiforme presenza della Chiesa: il principio sacramentale assume i legami sociali che i gruppi cristiani utilizzano per rendersi visibili e presenti tra la gente, e li riorienta come frecce che bucano la superficie del tessuto sociale per aprire lo spazio alla rivelazione del Dio cristiano che incontra l’uomo (facendosi Verbo). Una Chiesa in molte forme: la pluralità nell’unità, le prassi cristiane di liberazione e di comunione come punto di esperienza della comunità di grazia. I reagenti che rendono possibile questo processo (dal sociale alla trascendenza): esperienze di santità (testimoni dell’Altro per gli altri), i carismi, il pathos (traducibile come passione-sofferenza) come cuore del l’esperienza (fino al martirio). Questi ingredienti consentono la costruzione di una Chiesa come frutto della comunione, capace di legami e di Intimacy (legame indissolubile, perché basato sull’amore, che fa vivere l’esperienza del sentirsi a casa, incarnati). Questo organismo proprio perché addensante è capace di attraversare il pluralismo attuale e di assu-
25 L.S. Mudge, Rethinking the Beloved Community. Ecclesiology, Hermeneutics, Social Theory, University of America Press, Boston 2001.
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merlo come luogo di testimonianza (ecumenismo, dialogo religioso e culturale), divenendo luogo dove prende forma e carne la rivelazione (luogo di esegesi e di ermeneutica vivente della tradizione). La riflessione della nostra studiosa irlandese ci permette di cogliere il senso profondo e la grammatica che regola l’approccio che il card. Martini ha assunto di fronte alla città: il senso ultimo della sua intenzione di costruire una metafora (una operazione sacramentale!), la scelta del luogo come punto di appoggio della metafora (Ninive, non Babele!), la volontà di proporre l’esperienza cristiana come luogo di discernimento, purificazione, maturazione, conversione. Un vero e proprio esercizio di trasfigurazione cristiana.
10. Prove
di cristianesimo urbano
L’analisi della McCaughey ci riporta a un bagno di realismo: l’espansione dello scenario urbano non lascia indifferente la Chiesa. Anzi la tocca in pieno nella sua identità profonda: ne mina la forza di radicamento, inibendo i processi di incarnazione della fede. E tutto questo provoca il disfacimento del suo corpo istituito. Molte Chiese cristiane (non soltanto cattoliche) del Nord Europa si stanno misurando con questa sfida. Ma anche il cattolicesimo italiano sta vivendo un forte movimento di messa in questione della sua abituale forma popolare tradizionale, come descrivo in uno studio a cui rimando.26 In questo contesto è necessario per la Chiesa avviare una riflessione teologico-pratica autocritica, che aiuti il corpo ecclesiale a comprendere i processi in atto, e a trovare piste e indicazioni per accompagnare il processo di riscrittura della forma ecclesiae in atto con forza. È quanto si è impegnato a fare uno studio di area tedesca, che vale la pena ascoltare per la forza e la profondità con cui intende misurarsi con la crisi epocale in cui è immersa la Chiesa locale.27 Gli spazi urbani attuali riportano il cristianesimo all’origine, alle esperienze primordiali del suo istituirsi. Per gli autori che partecipano alla ricerca il tornante ormai è stato girato, le città anche con gli edifici cristiani storici non riescono più a comunicare il senso di Dio (gli edifici chiesa ospitano altro e quindi non significano più; non ci sono comunità sufficientemente stabili e popolose che danno rilievo al cristianesimo come fatto urbano acquisito). Occorre perciò riaccendere processi di abitazione che individuino luoghi di presenza alla intersezione degli assi che descrivono i processi che fanno la città: gli itinerari dello scambio e del consumo, la cura di sé e di un’armonia con l’ambiente, il bisogno di spazi e lo-
26 L. Bressan, «Una Chiesa alla ricerca del suo futuro. Parrocchia e cattolicesimo popolare nell’Italia che cambia», in La Rivista del Clero Italiano 100(2019), 166-182. 27 Sievernich – Wenzel (a cura di), Aufbruch in die Urbanität.
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giche di gratuità dentro una esperienza globalizzante fatta di mercato e valore economico. È dentro queste dinamiche che la Chiesa può ripensare i suoi processi istituenti, secondo la logica delle City Kirchen.28 L’invito è a operare nella pastorale la rivoluzione epistemologica lanciata da C. Theobald in ecclesiologia sistematica: come in quel contesto teorico occorre decristologizzare l’annuncio del Regno – se si vuole poter riscoprire oggi, in una cultura post-cristiana, il funzionamento originario dell’annuncio evangelico e la sua originaria efficienza antropologica –, così dentro la pastorale ordinaria urbana occorre superare (abbandonare, lasciar spegnere) le forme istituite storiche del cristianesimo, per cogliere i processi che lo hanno portato ad abitare in quel preciso modo lo spazio urbano e a istituirsi proprio così. Occorre avere il coraggio di prendere atto della fine di un’epoca: 1) l’esperienza disincantata della trasmissione della fede; 2) la fine degli ambienti che trasmettevano la fede cristiana per osmosi (vittoria dell’individualismo atomizzante); 3) la fine dell’orizzonte culturale che, pur già nella secolarizzazione, faceva ancora riferimento alla fede cristiana. Lo spazio urbano post-moderno ci pone di fronte alla fine del cattolicesimo come strumento culturale di interpretazione. Come muoversi da cristiani in questo contesto? Con puntigliosità tutta tedesca, gli autori del volume intendono assumere il magistero sulla città, che papa Francesco eredita dall’evento ecclesiale di Aparecida, per implementarlo. Non è sufficiente dire che Dio vive nella città; occorre vedere come Dio assume lo spazio urbano moderno, ovvero come lo abita. Occorre sviluppare una lettura della città che ne metta in luce il dinamismo teologale. Si può così dare spessore a un’epoca post-secolare troppo appiattita perché senza trascendenza, mettendo in luce le ambivalenze delle città e le possibilità di scelta non solo nella loro costruzione ma nel modo di viverle, parlando di peccato e di conversione anche degli stili di vita. Il processo anche architettonico e murario di morte e risurrezione vissuto da molte cattedrali – svuotamento e vendita di più di una, costruzione di quella di Evry, ma anche di quella di Los Angeles – ci richiama una regola che deve assumere qualsiasi presenza cristiana dentro la città: come per Dio anche per la Chiesa ogni presenza è segno e frutto di una storia, che conosce fasi che si succedono, che vanno interpretate e lette alla luce della storia della fede, come segno e promessa. È questa cornice teologale che deve fare da sfondo alla necessaria opera di riscrittura della presenza della Chiesa nello spazio urbano. È a questa cornice che occorre attingere per accumulare energie e capacità di fantasia nell’immaginare la propria presenza in metropoli in profonda trasformazione come Berlino e Parigi da parte delle rispettive Chiese locali; e l’immaginazione e l’apertura della chiesa di Notre Dame de Pentecôte non solo come edificio
28 A. Join-Lambert, «Verso parrocchie “liquide”? Nuovi sentieri di un cristianesimo “per tutti”», in La Rivista del Clero italiano 96(2015), 209-223.
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ma come forma di presenza vengono portate come esempio significativo: al centro e come principio di raccolta dell’assemblea non c’è più la domenica, ma la dispersione del tempo anonimo della finanza e del consumo. Per i curatori di questa ricerca occorre un duplice stimolo, perché la Chiesa possa continuare la sua presenza nello spazio urbano odierno in piena trasformazione: la capacità di immaginare la presenza del cristianesimo dentro la città (costruire un’agenda del cristianesimo urbano); la capacità di una presenza che dentro la città sappia leggere in modo contemplativo la presenza di Dio anche al di fuori delle specifiche azioni del cristianesimo. Il primo stimolo chiede la capacità alle istituzioni ecclesiali di superare il trauma della dissoluzione della presenza reticolare tradizionale e la perdita degli edifici simbolici per ridare vita a forme fluide ma istituzionali di presenza cristiana, e la conseguente capacità di metterle in rete, montando strategie di attrazione verso i poli centrali della fede. Il secondo stimolo chiede di rimanere concentrati e – seguendo l’esempio di M. Delbrêl e della sua mistica nella città secolarizzata e marxista29 – sviluppare un ascolto delle parole e delle gesta di Dio a questa Chiesa e a questa città. Questa mistica è una mistica incarnata: parte dalle periferie e dai disagi, si nutre del contenuto di vera e reale umanità di questi luoghi e grazie all’ascolto della rivelazione di Dio traduce tutto ciò in parole udibili da tutti, che diventano universali e sanno parlare a tutti. Soprattutto questo secondo stimolo è necessario e fondamentale se i cristiani intendono riprendere la vocazione loro propria di contribuire al pubblico dibattito e alla riflessione comune tra tutti gli uomini sulla città ideale e sul senso della storia, che – attraverso lo strumento delle città – vede gli uomini in posizione sempre maggiormente responsabile e attiva (in positivo e in negativo).
11. Una
grammatica per il cristianesimo urbano del XXI secolo
Il testo appena presentato invita a un esercizio di utilità pastorale: dare indicazioni semplici e immediatamente fruibili per aiutare il corpo della Chiesa, i gruppi cristiani, a orientarsi nella giungla urbana, e a costruire forme e azioni di presenza. Termino questa mia relazione cimentandomi proprio con questo esercizio, per mostrare come il percorso di immaginazione acceso dalla riflessione teologico-pastorale ci consenta di tornare alla vita quotidiana e vissuta, dopo averci allontanato da essa facendoci passare per i meandri della teoria e dell’analisi fenomenologica. La tradizione e la riflessione cristiana si trovano a proprio agio in una simile direzione di sviluppo del pensiero. La teologia è in grado di recu-
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M. Delbrêl, Ville marxiste, terre de Mission, Cerf, Paris 1970.
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perare dal bagaglio dell’esperienza di fede gli ingredienti, gli elementi strutturanti una sorta di grammatica capace di descrivere bene le ragioni della originalità – oltre che della indeducibile indispensabilità – della presenza di spazi sacri nel tessuto urbano odierno. Una prima regola fa capo alla dimensione del simbolo e alla sua forza, per superare la riduzione funzionalista della organizzazione della vita nella cultura post-moderna. Per consentire agli individui di riuscire a «bucare» – a oltrepassare – la calotta artificiale costruita dall’onnipresente e pervasivo mondo digitale30 ci servono dei luoghi che siano capaci di riattivare la forza primordiale dei simboli fondamentali (luce, acqua, terra). Simboli capaci di trasfigurare la percezione e l’esperienza, simboli performativi, simboli «per» realizzare qualcosa che prima non esisteva, e non soltanto simboli «di» qualcosa già esistente e sperimentato. Una presenza cristiana urbana va immaginata come una serie di azioni e luoghi capaci di realizzare esperienze ricodificatrici, che suggeriscono nuove letture delle proprie esperienze e delle proprie rappresentazioni. Il senso del sacro tipico dell’esperienza religiosa va assunto e orientato perché stimoli nelle persone che abitano queste azioni e luoghi – o soltanto li attraversano – la percezione di una dimensione nascosta che struttura la vita. Si tratta di dare corpo alla intuizione circa il funzionamento sacramentale dell’esperienza cristiana come ce lo ha mostrato la teologa McCaughey, e di dare corpo a questa intuizione dentro gli spazi urbani. Una seconda regola fa capo alla ricerca di un’origine e di una trascendenza che è iscritta in ogni persona umana. Abitualmente la codifichiamo nella cultura cristiana come la ricerca e il bisogno di Dio, il bisogno di una esperienza giusta della relazione con lui. In una cultura che avendo espulso la questione di Dio ha fatto degli eccessi (esoterismo e fondamentalismo) il luogo della presenza di questa domanda, occorrono degli spazi, delle azioni e delle assemblee che permettano di riscoprire la sua naturalità, imparando a riconoscere la mancanza e l’eccedenza come le forme naturali in cui fare esperienza di sé e scoprire la presenza di Dio. Il cristianesimo ha saputo abitare questo spazio antropologico attraverso gli edifici che la storia ci consegna (chiese, ma anche oratori, luoghi di ospitalità e di accoglienza, di studio e di formazione, di preghiera…): riabitarli, riutilizzarne i codici simbolici iscritti, tornare a raccontare non solo e non tanto verbalmente l’esperienza di un Dio che non è indifferente all’uomo, che lo ha cercato e gli si è fatto vicino, che si è incarnato, è davvero una esperienza che fa bene non soltanto a chi si riconosce cristiano ma ad ogni uomo e donna, anche di religioni diverse. In questa prospettiva si è in grado di percepire una terza regola della presenza cristiana nella città post-moderna: la necessaria dimensione generativa, la capacità che deve avere di generare modi diversi di essere insieme. I luoghi e i riti cristiani – ma anche le altre azioni che le isti-
30 M. Magatti, Oltre l’infinito. Storia della potenza dal sacro alla tecnica, Feltrinelli, Milano 2018.
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tuzioni cristiane seminano nei territori urbani – sono abitualmente spazi in cui si vive l’esperienza dell’essere raccolti e unificati. Il dono di divenire «uno», un popolo, non uniforme ma sinfonico, capace di unità nella ricchezza e nella valorizzazione delle singolarità è davvero un carattere che l’esperienza religiosa realizza attraverso i suoi spazi e le sue azioni. Occorre sottolinearla, in questa epoca di individualismo subito oltre che ostentato e alla fine di solitudine. Occorre ricordare a tutti che il fondamento della nostra speranza è quel disegno di raccogliere i popoli in uno che Dio ha acceso nel momento stesso della creazione. È in questo disegno la sorgente del senso della nostra esistenza e il suo fine. E le esperienze concrete di vita questo disegno lo sanno non soltanto raccontare; lo sanno anche far vivere. A questo disegno e alla sua esperienza si lega una quarta regola. Le forme che il cristianesimo urbano assume devono essere capaci di trasmettere un’etica, codici di comportamento. Presenze stabili e istituite – solidificate anche in edifici sacri che raccontano la storia che li ha generati – hanno la potenzialità innata di richiamare in chi li attraversa un codice di comportamento. Sanno suscitare domande etiche, sanno accendere senza bisogno di richiami verbali riflessioni ed esami di coscienza. Il cristianesimo urbano non può non essere un dispositivo che faciliti esperienze in grado di insegnare valori che si comunicano come comandamenti, leggi di vita, custodi del carattere buono dell’esperienza con Dio e tra di noi. Gli spazi sacri – quando sono abitati, quando sanno raccontare una tradizione che vive un presente e si apre al futuro – hanno questo potere insito nella loro architettura simbolica: sanno instillare nelle persone che vi accedono, li attraversano e li abitano domande, emozioni, rappresentazioni del mondo e del senso della vita che sono veramente capaci di modificare comportamenti, di realizzare quello che le religioni definiscono con il concetto di conversione. Queste regole sono utili per richiamare quali sono i fini che la trasformazione dello spazio urbano consegna anche oggi alla esperienza cristiana, sotto forma di bisogni e di sfide che le metropoli moderne non riescono a ben padroneggiare. In primo luogo, a fronte delle dinamiche di forte meticciamento che sta vivendo anche la società italiana, le metropoli moderne avvertono il bisogno di spazi e di soggetti collettivi che strutturino una tradizione, che tornino a raccontarla – sapendo interpretare ad esempio il fascino esercitato in questi anni dalle forme antiche di religiosità: dicono l’urgenza di un canone, di una forma che consenta anche ai cristiani di esprimere in modo sereno ma chiaro la propria identità in un’epoca di forte pluralismo – che rendano questa tradizione viva e non artificiale. Da vicario episcopale incaricato di seguire le relazioni con le altre Chiese cristiane sono impressionato – positivamente! – dal modo con cui le comunità ortodosse che ospitiamo in modo stabile in nostri edifici lavorano per una trasformazione lenta ma costante che renda gli edifici che consegniamo loro sempre meglio la «loro casa».
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Abbiamo bisogno di traduzioni urbane della esperienza cristiana anche per motivi interni alla nostra esperienza di fede. Per contrastare la tentazione della funzionalizzazione anche dentro le tradizioni religiose, occorrono luoghi e forme che sappiano raccogliere e mostrare l’integralità della esperienza cristiana: la liturgia con la carità, con l’annuncio. Spazi che rendano tangibile la comunione, intesa non soltanto come legami tra le persone, ma anche tra le diverse dimensioni delle loro vite. E questa comunione diviene spazio simbolico per l’incontro con Cristo, per fare esperienza dell’essere corpo, il suo corpo nella storia. Abbiamo bisogno di esperienze urbane del cristianesimo che ci permettano di contrastare la frammentazione e l’atomizzazione delle diverse dimensioni della vita individuale. Abbiamo bisogno di istituzioni e di forme che insegnino questo esercizio. Per loro natura i riti e gli edifici di culto sono luoghi che insegnano a entrare e a uscire, cucendo le varie esperienze. Per definizione sono luoghi della soglia: luoghi che insegnano a riconoscere la diversa qualità degli spazi, delle esperienze. Sono luoghi che riescono a far percepire in modo naturale e immediato l’importanza della cura, della riconciliazione, dell’incontro e del dialogo (anche tra le religioni). Sono luoghi che sanno colorare le nostre vite, che insegnano il valore di momenti ed esperienze che la cultura consumistica e digitale sa abitare a fatica (la malattia, la morte). Sono spazi che – di fronte a una violenza sempre meno contenuta ed elaborata – sanno riconoscere la drammaticità della vita, la sanno accogliere e curare. Luoghi che introducono a stati di pace, come dono della presenza di Dio, superando le logiche economiche e utilitariste che regolano le nostre vite, rendendole spesso insipide. Infine – riprendendo l’intuizione del sociologo Diotallevi – c’è bisogno di forme urbane del cristianesimo che operino per ricucire. Spazi e azioni che ricreano ordine, che sanno unire e dare profondità, che raccontano dimensioni dell’esperienza spesso non riconosciute, sepolte nella storia o nell’intimo di ogni persona, ma poco ascoltate. Spazi che tessono legami e li curano, che rendono più resistente e nutritiva la comunità locale. Spazi che ci rivelano l’inaudito: un Dio che ci ama – e che ci ha creati per potercelo dire – e che addirittura si è fatto uno di noi. Quante ragioni pratiche per argomentare una necessità che ognuno di noi qui presente sente dentro di sé.
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Il cristianesimo come «cultura urbana»
Pier Luigi Cabri*
Tre spunti introduttivi ci permettono di tracciare l’ambito e il contenuto essenziale di questo intervento: il riferimento a un evento di carattere editoriale, che da parecchi anni si ripete puntualmente a Roma; un dipinto del pittore e incisore inglese William Turner (1775-1851), il cui stile pose le basi per la nascita dell’impressionismo; infine, la parola chiave contenuta nel titolo e cioè il termine «cultura». La fiera del libro di Roma «Più libri più liberi», nel 2018 ha scelto come tema: «Per un nuovo umanesimo. Una risposta agli egoismi del nostro tempo». L’evento e il titolo richiamano il rapporto tra uomo e cultura, ma anche tra uomo e libro. Il libro è uno degli ingredienti della cultura, chiaramente non è il solo, si potrebbe dire che ne è il veicolo, il trasmettitore, il mediatore. Il cristianesimo, realtà che vive nella società e dentro la città, non può prescindere dal dato culturale, rappresentato anche dal libro. Le pagine che scrivono la vita di una città – a livello sociale, politico, religioso – costituiscono certamente un contributo essenziale del cristianesimo e per il cristianesimo. Il dipinto di William Turner rappresenta un peschereccio scosso dalle onde e sormontato da nubi minacciose. In mezzo a questa oscurità ci sono due fonti di luce: una proviene dal cielo e illumina grazie a una breccia che si apre tra le nuvole; l’altra, più piccola, scaturisce dall’interno dell’imbarcazione stessa. Questa immagine si può applicare al contesto odierno: se immaginiamo la cultura come un oceano che ci sovrasta (a
* Docente incaricato annuale di Teologia fondamentale – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected] 129
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Pier Luigi Cabri
motivo della sua dimensione plurale, una cultura a più voci, una ricchezza di informazioni e di strumenti che la accompagnano), un oceano agitato e turbolento, ciò che diventa importante è individuare e cogliere alcune delle sue correnti trasversali. Ma, in particolare, è rilevante riuscire a indicare qualche punto di riferimento in ciò che a prima vista potrebbe sembrare la scena di un disastro. L’obiettivo di questa relazione è quello di cogliere tali elementi orientativi, che possono costituire e dare forma a una «cultura urbana», come espressione del rapporto tra cristianesimo e società. La sfida è quella di pensare forme di presenza e di impegno cristiano, nella riscoperta di Cristo e del vangelo, quali fonti di rigenerazione della vita nella città.1 Infine, la parola chiave, presente nel titolo della relazione, è «cultura». Tutti sanno che questo termine, apparentemente chiaro, può risultare molto vago ed essere utilizzato con significati differenti, a volte addirittura opposti tra loro. Ad esempio, si parla di un ambiente o di un «contesto culturale» là dove si fa riferimento a iniziative, a dibattiti, a convegni e a insegnamenti, alla visita a musei, a gallerie d’arte, a monumenti o a chiese antiche. Ma si parla anche di «cultura della violenza», di «cultura della corruzione», di «cultura dominante» oppure, in senso più propositivo, di «cultura del volontariato», di «cultura laica» o «ecclesiale», di «cultura urbana», in riferimento alla città. Ovviamente, in questi vari usi della parola cultura vi sono sguardi e implicazioni decisamente differenti a livello di contenuto e di valori. Si potrebbe ricuperare qui un significato antico e tradizionale, che trova la sua radice nella parola latina colere, che indica il «coltivare» (dapprima utilizzata per la coltivazione dei campi o l’allevamento del bestiame, poi estesa alla «coltivazione» dello spirito e delle arti e al culto verso gli dèi), un significato che implica un aspetto creativo e proiettato nel futuro, suggerisce la promozione di ideali e di valori umani, che si vorrebbe fossero realizzati. In questo senso la cultura risulta di speciale rilevanza per la fede e per il modo in cui ogni tempo esprime la sua esperienza di Dio, basti pensare alla ricca tradizione dell’arte e della letteratura cristiana lungo i secoli.
1. Il
quadro di riferimento
La vita della città si pone dentro a un processo mutevole e disomogeneo, non univoco. Un processo che inevitabilmente interroga il cristianesimo contemporaneo e che pone le questioni che riguardano l’identità dei soggetti, i rapporti sociali, lo stile di vita, i valori di riferimento. I cambiamenti di mentalità e i modi di vivere che il cristianesimo e le Chiese hanno dovuto affrontare in questi ultimi cinquant’anni sono noti.
1 Cf. M.P. Gallagher, Una freschezza che sorprende: il Vangelo nella cultura di oggi, EDB, Bologna 2010, 9-12.
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Si può ricordare un nuovo livello di «secolarizzazione», che ha portato a un sistema inedito di valori, sostanzialmente individualistici e autoreferenziali. Ma anche una «laicità» che la Chiesa cattolica ha accolto alla luce del Vaticano II, ma che oggi è messa alla prova dal pluralismo religioso o da rivendicazioni identitarie.2 Inoltre, assistiamo a una crisi di carattere antropologico, provocata ad esempio dagli sviluppi delle biotecnologie, che sollecitano una comprensione di questo fenomeno che aiuti a mettere in luce le dimensioni etiche e filosofiche per potere, in tal modo, delineare e approfondire che cosa significhi per l’uomo questa singolare relazione con il mondo che avviene tramite l’artefatto tecnologico.3 Si può aggiungere la comparsa di una «scena alternativa», in riferimento alle sfide ecologiche, che oggi sono oggetto di un’attenzione particolare a livello pubblico. Questi fenomeni, a cui se ne potrebbero aggiungere altri, sono tra loro abbastanza differenti, tuttavia essi formano un paesaggio nel quale il cristianesimo europeo non sempre riesce a situarsi. Come scrive il teologo Christoph Theobald, «diventate una minoranza, le Chiese dell’Europa occidentale offrono l’immagine di un gruppo non solo affaticato e diviso, ma soprattutto fuori dalla cultura del suo tempo: esculturato».4 Pertanto, se la città è luogo (l’antropologo Marc Augé direbbe «non luogo») simbolico dell’umano e della sua complessità, che si esprime nella configurazione plurale di dinamiche culturali e religiose, occorre l’elaborazione di uno spazio «laico», indicatore di un ethos aperto a tutti, che contribuisca alla ricerca del bene comune, richiamando il cristianesimo al ruolo di partner interculturale. Condividere la propria differenza implica l’articolazione di una identità dialogica aperta al confronto creativo, che sappia rimettere al centro l’idea di una religione liberante e profetica nel suo messaggio. Esige, inoltre, di assumere il paradigma del samaritano come lettura prospettica dell’esistenza. In altre parole, l’esercizio del cristianesimo si misura sulla memoria di Gesù, che ne scandisce la ricerca dialettica e che si pone come elemento interpretativo dei rapporti sociali e culturali in cui l’uomo vive.5 La posta in gioco in questo tempo è la capacità del cristianesimo di mettere il vangelo del Regno di Dio a disposizione di tutti come «risorsa»
2 Su tale questione, tra i tanti, suggeriamo due titoli: G. Lafont, Piccolo saggio su papa Francesco, EDB, Bologna 2017 e C. Theobald, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB, Bologna 2019. 3 Per questo specifico tema, si possono vedere i contributi di Paolo Benanti, che sta approfondendo da tempo tali problematiche, tra i quali: La condizione tecno-umana. Domande di senso nell’era della tecnologia, EDB, Bologna 2018; Le macchine sapienti. Intelligenze artificiali e decisioni umane, Marietti, Bologna 2019. 4 Theobald, Urgenze pastorali, 14. 5 Cf. l’interessante contributo di Carmelo Dotolo, «Vangelo e città. Per una responsabilità pubblica del cristianesimo», in A. Bondolfi – M. Mariani, Dio uomini e città, EDB, Bologna 2015, 13-26.
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di umanità e di salvezza, proprio nel momento stesso in cui gli uomini e le donne sono posti di fronte a sfide senza precedenti. Assumere questo atteggiamento richiede da tutti i cristiani un’autentica conversione […]. Invece di arroccarci sui nostri contrassegni cattolici di identità, siamo invitati non a negarli, ma a «relativizzarli», per rendere leggibile e credibile il cuore della fede in una prospettiva missionaria di «uscita» verso l’altro e pensare la forma ecclesiale che diamo alla nostra fede in funzione di questa «apertura» a tutti.6
La particolare configurazione della città di oggi, negli elementi che abbiamo descritto, esige una diversa comprensione del cristianesimo e del suo ruolo (e quindi di una cultura urbana cristiana) rispetto al passato, a fronte della decostruzione di una determinata architettura sociale, culturale e religiosa. Siamo di fronte a un policentrismo culturale, all’affermazione di un pluralismo inteso come principio interpretativo della vita, nel quale porre in relazione identità e alterità. Questo scenario lascia trasparire due aspetti indicativi: il rapporto tra pluralismo e de-cristianizzazione e il tramonto di una certa figura storica di cristianità.7 Lo scenario del pluralismo si è costituito come crisi di una visione del mondo filosofica, culturale e religiosa, che sembrava ingabbiare l’esistenza venuta a contatto con mondi diversi, portatori di differenze che hanno contribuito a mettere in crisi l’archetipo di una unità indifferenziata e di una identità monolitica, metafora dell’ordine stabilito, dell’autorità e del culto della tradizione. Si tratta della «fine di una dominanza sociale del cristianesimo, e di una dominanza concepita e praticata attraverso, ma anche entro, i limiti di una religione che a sua volta è elemento integrante e rilevante di una particolare configurazione di un modello di ordine sociale a lungo di successo».8 Questo non significa che la religione debba rimanere confinata negli spazi del privato, senza contribuire alla costruzione della società e all’elaborazione di progetti culturali. Vanno valorizzati aspetti positivi di una laicità di confronto che produca una condivisione delle rispettive letture della vita, senza pregiudizi aprioristici. Pertanto, le visioni religiosa e laica del mondo non necessariamente si pongono in conflitto tra loro, soprattutto se l’obiettivo è la costruzione della polis/città, intesa come bene comune. La pluralità delle religioni e delle spiritualità, pur trattandosi di realtà complesse da decifrare, non può condurre semplicemente a sottolinearne il valore solo entro l’ambito dell’individualità privata o dell’appartenenza etnica.
Theobald, Urgenze pastorali, 16. Cf. Dotolo, «Vangelo e città», 14. 8 L. Diotallevi, Fine corsa. La crisi del cristianesimo come religione confessionale, EDB, Bologna 2017, 15. 6 7
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Il cristianesimo come «cultura urbana» La presenza pubblica del religioso – annota Dotolo nel saggio già citato – segnala piuttosto un’istanza di equilibrio valutativo delle visioni del mondo, additando un bisogno di assoluto in grado di sostenere la pressione del reale entro una cornice valoriale più articolata e adeguata alla ricerca del senso. Nondimeno, il religioso afferma una razionalità che non si pieghi alla cifra del tecnico e dell’utilitaristico, ma allarghi i circuiti della conoscenza a una critica che ne riconosca la dimensione simbolica, affettiva, relazionale.9
E ancora: In tal senso, l’attenzione alle tipologie dei vissuti religiosi non può essere contornata da visioni semplicistiche, ma misurata da criteri che ne delineano la significatività in rapporto alla crescita culturale e alla maturità etica dello spazio pubblico. Ciò va detto, soprattutto in rapporto a talune sbrigative diagnosi di de-secolarizzazione dei processi culturali, in base alle quali si rischia di non cogliere la portata del cristianesimo nella sua proposta di esperienza religiosa singolare e differente nella riconfigurazione dell’esistenza.10
L’esperienza religiosa affonda le radici nella profondità dell’umano, esprimendo esigenze e domande, che danno senso alle relazioni e al tessuto sociale, senza negare contemporaneamente il riferimento a un Altro e a un Oltre. Riconoscere questo, significa dare credito a una fecondità dell’esperienza religiosa che anche oggi può permeare la cultura e la vita di una città.
2. Una
cultura urbana
Parlare di urbanizzazione significa fare riferimento a un processo complesso, a un movimento di portata globale, che va oltre i confini architettonici e urbanistici delle nostre città: È piuttosto una delle più incisive modalità di trasformazione della soggettività e dell’idea di comunità […], è una categoria ermeneutica imprescindibile nella misura in cui si pone come crocevia e sintesi tra «globalizzazione» e «secolarizzazione», pretendendo di esprimere e superare le istanze di entrambe.11
La perdita di visibilità delle istituzioni religiose e delle pratiche credenti interpella profondamente il cristianesimo contemporaneo. La domanda che ci si pone perciò è la seguente: in relazione alle trasformazioni qui descritte (riprese e ampliate anche da altri interventi del convegno), il cristianesimo oggi è ancora capace di esprimere una critica costruttiva verso le forme più problematiche della vita contemporanea? È in grado di
Dotolo, «Vangelo e città», 20-21. Ivi, 21. 11 V. Rosito, Dio delle città. Cristianesimo e vita urbana, EDB, Bologna 2018, 98-99. 9
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«creare cultura» nella vita urbana odierna? In che modo il cristianesimo si pone dentro i processi di cambiamento dell’urbano contemporaneo? La città, come argomenta Rosito, può diventare un importante terreno di indagine e di ricerca per la teologia, che sia in grado di cogliere i tempi, i linguaggi e i processi che determinano la vita urbana. La stessa Scrittura sembra ispirare un analogo atteggiamento quando associa la vita urbana alla dimensione progettuale dell’umano. Si potrebbe dire che la città è per il teologo un esercizio diffuso di immaginazione collettiva costantemente all’opera in ambiti molteplici e con modalità differenti. La città non si esaurisce nello spazio delle proprie mura perché è espressione di una tensione antropologica radicale: dare forma condivisa allo spazio dell’interazione comune. Se questo è anche il movimento originale della teologia cristiana davanti all’urbanizzazione, sono fuorvianti i discorsi che connettono univocamente la città a un insieme predefinito di qualità sostantive o di caratteristiche comuni.12
I cambiamenti e le trasformazioni non sono soltanto due categorie per interpretare la vita della città contemporanea ma rappresentano un punto di osservazione privilegiato per la teologia, che non può limitarsi a prendere atto o a fotografare le singole situazioni urbane, ma deve piuttosto vedervi un «luogo di creatività e di trasformazione per la teologia stessa, un monito a “volgere in processo” schemi eccessivamente statici e cataloganti».13 Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, ricorda che nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristianesimo non suole più essere promotore o generatore di senso, ma riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti e punti di vista, anche in contrasto con il vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città.14
L’immaginazione urbana (uno dei tratti essenziali dell’urbanizzazione) è un movimento affine alla creatività pratica e simbolica che si muove nelle città globali. Pertanto il discernimento culturale è la prima qualità di un cristianesimo dai tratti sobri e maturi. Non è sufficiente un atteggiamento di accoglienza e di apertura verso le nuove forme di cultura che esprime la città di oggi, occorre la capacità di riconoscere e di promuovere culture alternative e popolari che non sempre riescono a emergere. Sono le culture del quotidiano, che hanno un indiscusso valore teologico, ecclesiale e pastorale.
Ivi, 111. Ivi, 116. 14 Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 73: EV 29/2179. 12 13
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Il cristianesimo come «cultura urbana» È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città. Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale. Nelle grandi città si può trovare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza. La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile.15
L’attenzione verso i gesti feriali della vita urbana fa scoprire quelle «città invisibili», dove maturano nuovi linguaggi ed emergono pratiche di trasformazione urbana. Il discernimento culturale, che dovrebbe accompagnare la presenza pastorale delle Chiese nelle grandi città, si concretizza nel sostegno delle culture umiliate e nella critica di quelle egemoni. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo – ci ricorda ancora papa Francesco – ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata.16
Qui troviamo un vero principio di orientamento per i percorsi e gli attraversamenti cristiani nelle metropoli globali. Un richiamo alla scoperta e alla cura degli spazi già abitati da Dio, disseminati o nascosti nelle grandi città. Lo sguardo del cristianesimo verso la cultura della città non può essere uno sguardo di indifferenza o presuntuoso, un guardare dall’alto in basso, ma neppure ingenuo o superficiale. Le stesse complessità e gli aspetti più problematici sono anche opportunità di incontro e di dialogo con Dio e con gli altri, spingono a evangelizzare, ad avvicinarsi ai poveri, a essere testimoni più che maestri e ad abitare la città in modo attivo e nel rispetto della pluralità culturale e religiosa. Il cristianesimo ha uno sguardo universale che considera e valorizza l’uomo urbano e gli fa spazio per ritrovare se stesso. Sa comprendere i problemi e le necessità sociali e culturali che vivono i cittadini, sa capire i controvalori della cultura urbana, come le disuguaglianze, i problemi ecologici, l’individualismo, la corruzione, il consumo non etico che spesso noi stessi facciamo. È necessaria una relazione propositiva tra cristianesimo e cultura urbana, che possa interagire con la vita delle città, offrire alternative di vita, vicinanza amichevole e una spiritualità adeguata ai tempi.
Ivi, n. 74. Ivi, n. 71.
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Se si considera la città come luogo teologico e ci si chiede che cosa essa ha da dire e come si possa offrire una risposta, allora è indubbio che ci troviamo di fronte a un grande compito: a partire dalla misericordia come orizzonte teologico, vanno trovate le linee di una azione e di una pratica pastorale.17 Affermare che «Dio abita nella città» non è facile, soprattutto per chi ha confinato Dio negli spazi chiusi e autoreferenziali. Si tratta di scoprire la sua presenza nelle strade, nei grandi centri commerciali, e anche dove non ci si aspetterebbe che abitasse. Lo sguardo verso la città non può essere solo socio-antropologico: sono necessari il discernimento e uno sguardo attento che possa svelare la presenza di Dio. Egli abita la pluralità della città: si dovrebbe avere il coraggio di capire che spesso ha un volto anonimo e che si trova anche nei posti più inaspettati e assurdi. Un volto silenzioso, una presenza nascosta e misteriosa. A volte il suo volto è secolarizzato, al di là dei segni sacri, delle chiese e dei riti. Egli è presente in modi diversi, ha un volto che incarna una logica sacramentale altra, dove la materialità e il mistero della città stessa è un avvenimento salvifico. Dio è il samaritano che cammina insieme all’uomo urbano.18 Alla luce di questa analisi possiamo indicare ora qualche aspetto concreto sul modo in cui il cristianesimo si può porre di fronte all’urbanizzazione globale e contribuire alla proposta di una «cultura cristiana» nella città.
3. Un
cristianesimo ospitale , testimoniale , credibile e dialogante
Se si considera la città come luogo teologico e ci si chiede che cosa possa offrire oggi una realtà urbana in termini di relazioni, di contributo alla vita sociale e a una maggiore umanizzazione, ci troviamo di fronte a un progetto che guarda in avanti con un compito di responsabilità. A partire dalla misericordia e dalla carità come orizzonti dell’agire cristiano, si possono individuare le linee per una azione umana e religiosa che entri in modo concreto nella cultura odierna. Il cristianesimo possiede una grande ricchezza da offrire: l’incontro con il Signore della vita, l’esperienza di umanità, la testimonianza di amore per una società e una cultura che sappiano superare forme di egoismo e di ripiegamento su se stesse.
17 Cf. l’ampia sintesi di R.A. García Martinez, sacerdote e sociologo dell’arcidiocesi di Monterry, sul primo Congresso continentale di pastorale urbana per i latinoamericani, che si è svolto in Messico (Guadalajara) dal 9 all’11 ottobre 2018 sul tema «La gioia del Vangelo per le grandi città», in Settimananews, 21 novembre 2018. 18 Cf. l’intervento di Benjamin Bravo, sacerdote e dottore presso la Pontificia Università del Messico, in Settimananews, 21 novembre 2018.
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3.1. Ospitalità e prossimità I temi dell’ospitalità e della prossimità e, in modo più ampio, dello sguardo sull’altro, costituiscono un riferimento essenziale, che sollecita una riflessione di carattere antropologico, interculturale ma anche religioso e teologico. Questioni che riguardano ogni persona e che hanno riscontri e conseguenze nelle relazioni umane e nella vita di una città. In fondo, quella dell’ospitalità (che scaturisce dall’esperienza della prossimità e dell’incontro) è una dimensione costitutiva dell’essere umano, che si pone sulla soglia di una soggettività esposta in una relazione concreta, che rivendica il diritto alla differenza ma che richiede anche una accoglienza della stessa differenza. L’atto ospitale si presenta come una sorta di ponte, fragile e rischioso, che si stabilisce tra due mondi, quello dell’io e quello dell’altro, un atto complesso e per certi aspetti anche ambiguo. Ambiguo perché ogni ospite accogliente può anche divenire ostaggio dell’ospite accolto e il contrario può essere altrettanto vero. L’ospite è un nemico potenziale per il semplice fatto di essere altro e l’ospitalità rinnova la questione dello straniero: praticare l’ospitalità significa pertanto accettare di correre il «rischio dell’accoglienza».19
L’ospitalità da un lato esprime un dovere, una regola di convivenza sociale, che trova significato soprattutto nelle società complesse, dove si dà un confronto tra stili e modelli di vita differenti, il cui rischio è l’arroccamento in se stessi e la paura dell’altro. Ma essa esprime anche una dimensione di carattere religioso e spirituale, richiamata dalle grande tradizioni di fede, in cui l’atto ospitale coinvolge e rappresenta Dio stesso. In tale prospettiva, si può affermare che l’ospitalità dice qualcosa di Dio e della sua essenza e nel contempo della percezione che l’uomo accogliente può avere di Dio. Non per nulla, i testi sacri dei tre monoteismi rivelano il carattere profondamente teologico del gesto ospitale. L’irruzione di Dio nel mondo esprime una richiesta di accoglienza ma in cui Dio stesso diventa l’Accogliente, il luogo di un incontro gratuito tra l’umano e il divino. Per i cristiani in particolare – scrivono Monge e Routhier – il fiorire della Gerusalemme terrestre nel giorno della Pentecoste equivale, tra l’altro, all’estensione dell’ospitalità di Dio ai confini dell’essere, la qual cosa significa riconoscere che si è ormai tutti alla stessa distanza di Dio, che la presenza dell’altro diventa il luogo inalienabile dove Dio stesso può apparire.20
C. Monge – G. Routhier, Il martirio dell’ospitalità. La testimonianza di Christian de Chergé e Pierre Claverie, EDB, Bologna 2018, 31. Su questo tema dell’ambiguità dell’atto ospitale, cf. ad esempio la «critica» di D. Sibony alla filosofia dell’altro di E. Lévinas, in cui il filosofo e psicanalista di origine ebraica va alla radice della questione, attraverso un interrogativo che pone in maniera diretta e provocatoria: l’io in Lévinas dona totalmente sé all’altro in modo incondizionato e in un certo senso annullandosi in questa relazione (e così diventare ostaggio dell’altro), oppure condivide realmente se stesso o parte di sé con l’altro?, in D. Sibony, Don de soi ou partage de soi? Le drame Lévinas, Editions Odile Jacob, Paris 2000. 20 Monge – Routhier, Il martirio dell’ospitalità, 34. 19
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Accoglienza e ospitalità sono tratti costitutivi dell’essere uomini e donne a immagine di un Dio di relazione e in relazione. L’esperienza del l’ospitalità donata e ricevuta ha un carattere trasformante per l’essere umano. Non si tratta soltanto di entrare nei modi di abitare il mondo sociale o di interpretare la relazione con l’altro, ma di pensare a se stessi attraverso la misura del dono. La sfida del gesto ospitale è quella di ritrovare il senso del nostro essere e del nostro credere nell’incontro con l’altro sconosciuto e che spesso crede diversamente, incontro che costituisce un tratto frequente e comune nella vita delle nostre città. Ospitalità significa la coltivazione (a proposito della radice della parola «cultura») di un umanesimo relazionale. Far sì che l’incontro tra vangelo e cultura punti su un’autentica umanizzazione, che non è mai una riduzione del vangelo. In definitiva, l’immagine dell’uomo come essere in relazione, sullo stile di Gesù di Nazaret, è la grande scommessa della proposta cristiana, perché implica la capacità di tradurre la logica dell’amore in un’apertura all’altro inesauribile e infinita. L’esistenza è chiamata a coltivare i tratti della comunione e i percorsi della responsabilità, in virtù dei quali il diritto dell’altro diventa il dovere fondamentale del riconoscimento e della solidarietà. Nel tempo in cui ogni assoluto sembra essere relativizzato e ogni verità dimezzata nella sola dimensione del fattuale e dell’empirico, la prospettiva dell’antropologia cristiana afferma che l’uomo è un valore assoluto, non prevaricabile da nessun altro valore. In tal senso, l’attenzione alle forme di emarginazione dell’umano risulta prioritaria, soprattutto là dove l’ideologia del profitto sta causando un impoverimento delle reti relazionali e culturali, come nel fenomeno, spesso violento e drammatico, della migrazione.21
«Farsi prossimo nella città»: con questa espressione, Carlo Maria Martini tracciò la direzione del suo ministero pastorale e sociale. Farsi prossimo è la scelta di un metodo che dovrebbe essere connaturale alla comunità cristiana, proprio perché rappresenta il profilo costitutivo della Chiesa, che diviene movimento di servizio attraverso il quale la stessa comunità si rende visibile nella città. Già abituata a convenire a livello liturgico e sacramentale, essa deve acquisire maggiormente l’abitudine a convenire anche a livello pastorale ed esistenziale, percorrendo vie diverse ma complementari: quella della profezia, della testimonianza, dell’elaborazione e proposta culturale. Non è possibile – scrive Martini – partecipare con gioia a una mensa come quella eucaristica senza desiderare ardentemente che molti altri, vicini e lontani, dalle siepi e dai crocicchi delle vie come da isole d’oriente o dalle estremità del mare, vengano a sedersi alla mensa di Abramo e dei suoi figli. Il nostro ideale di pace e di fraternità lo viviamo in un mondo senza frontiere, dove ovunque desideriamo riconoscere dei fratelli.22
Dotolo, «Vangelo e città», 23. C.M. Martini, Farsi prossimo nella città. Lettere, discorsi e interventi 1986, EDB, Bologna 1987, 625. 21 22
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E ancora: L’essere cristiani non è caratterizzato dall’andare a messa alla domenica ma dal vivere per gli altri, fondato sul fatto che si va a messa alla domenica. Non vive dell’eucaristia se non chi dona corpo e sangue per i fratelli come Gesù. La Chiesa non ha altro modo di essere nella società: la sua ambizione è di servire, a partire dagli ultimi. Perché questo desiderio rimanga sempre nella sua incandescenza, occorre mettersi alla scuola dei poveri, stare con loro, condividere il più possibile con loro.23
La prossimità evangelica esige uno sbilanciamento verso il povero e le sue esigenze. Quando la parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37), fondamento della prossimità evangelica, dice che il samaritano «passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» vuole alludere a una esperienza intensa, che gli ha aperto gli occhi sul valore delle cose, gli ha fatto vedere l’uomo bisognoso in una luce nuova e vera, gli ha dischiuso nuove possibilità di azione e lo ha spinto a farsi prossimo. Le differenze tra i vari personaggi non vengono misurate in base alla distanza fisica con il povero, ma in virtù dei modi con cui questa viene percorsa, aprendo differenti cammini e opere di approssimazione. La prossimità, direbbe E. Lévinas, è rottura di ogni sincronia tra il Medesimo e l’Altro, deposizione (condizione per poter dare) ed esposizione, non luogo e inquietudine, è l’avvenimento grazie al quale si verifica la significazione propria della soggettività, l’instaurazione del senso che ogni significazione tematica riflette nell’essere. Il valore specifico della prossimità sta nella non-reciprocità, nel superamento dell’oggettività della relazione, in quel «di più» che pone il soggetto al di fuori della coscienza e della tematizzazione. Essa «dimentica la reciprocità come in un amore che non si aspetta parità».24 Le comunità cristiane attraversano la città riconoscendo la prossimità di Gesù e lasciandosi da essa orientare e ispirare. Gesù è Signore e Maestro di prossimità, ha infatti scelto di vivere e di muoversi dentro contesti umani differenziati. Egli rivela una sensibilità particolare nel differenziare le forme e i linguaggi che il desiderio di avvicinamento e di incontro con le persone è in grado di generare. La prossimità evangelica – scrive Rosito – è sia il principio che la forma del cristianesimo quando si confronta con l’urbanizzazione contemporanea. Gesù è il Signore nella prossimità non perché istituisce sfere concentriche di identificazione che si allargano distanziandosi dalla sua persona: nei suoi gesti di approssimazione le gerarchie della vicinanza saltano e i privilegi dell’appartenenza decadono. Vi è un unico criterio di proporzionalità nell’esercizio della prossimità evangelica: quello che istituisce la medesima distanza logica ed etica tra il rapporto con Dio e quello dei fratelli.25
Ivi, 626. E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, 102. 25 Rosito, Dio delle città, 136-137. 23 24
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Il cristianesimo istituisce la prossimità dell’uomo con l’uomo alla stessa altezza della prossimità di Dio con l’uomo, come risulta dal c. 25 del Vangelo di Matteo sul giudizio finale, dove i giusti non sanno nemmeno di avere soccorso il Signore stesso nei bisognosi. Quello che conta sembra essere qui il puro gesto materiale, di aiuto all’affamato, all’assetato, al forestiero, al malato, al carcerato. Una prospettiva di realismo e di operosa concretezza, dove viene annullata ogni distanza tra Dio e l’amore per l’uomo, ogni opposizione tra il sacro e il profano. Tutto rientra nella logica del dono gratuito e inatteso, che avvicina l’eucaristia alla città: c’è un profondo rapporto tra la condivisione dello stesso pane e la concordia dei concittadini, tra la priorità assegnata ai poveri e la giustizia invocata con gli esclusi di ogni città. L’identificazione tra la prossimità con Dio e quella con gli uomini, affermata in Mt 25, assume nell’eucaristia la forma del gesto compiuto da Gesù che si è fatto povero per «arricchirci della sua povertà» (2Cor 8,9).26 Concludendo questi spunti su ospitalità e prossimità, proponiamo una riflessione di don Luigi Verdi, fondatore della comunità di Romena (Pratovecchio – Arezzo), che richiama la «terza via» (ricordata nella relazione del prof. P. Boschini). È la via del mescolarsi dentro la vita della città, dell’incontrarsi, dell’accogliere e del prendersi cura, la via della fraternità. I pellegrini della vita chiedono ascolto, raccontano storie, a volte anche solo con lo sguardo, in cui il dolore e la fatica hanno preso il sopravvento; chiedono che si riempia la loro ciotola di un senso. Proviamo a ospitare la loro stanchezza e la loro fragilità, cercando di offrire un po’ di calore e un boccone di cibo per il cuore: restituendo loro la bellezza di una casa. Cosa c’è di più bello che sentirsi a casa? E la casa è il luogo dell’accoglienza: accogliere l’altro significa innanzitutto accogliere noi stessi, perché soltanto comprendendo chi o cosa ci sta a cuore conosciamo il nostro cuore; solo capendo chi o cosa amiamo, riusciamo a capire chi veramente siamo: sono i nostri amori che ci rivelano a noi stessi e agli altri. Ogni vero incontro modifica qualcosa: se non c’è cambiamento significa che non c’è stato vero incontro. Proviamo a far questo a «Romena», a stare insieme senza la pretesa di avere una ricetta o una risposta o una certezza: abitando semplicemente la domanda e il bisogno dell’altro. Si accoglie qualcosa e qualcuno sempre «dentro» qualcosa e qualcuno, esponendoci al disagio dell’ignoto, con il rischio di dover un po’ cambiare anche noi: è il bello della creazione, è lo stupore dell’eterna novità. L’ascolto di sé e dell’altro richiede un luogo pulito, autentico, trasparente, un luogo dove è consentito deporre le armi e i pregiudizi e dove l’altro non viene trasformato in un’idea o in un ideale, ma resta vivo, di carne, fremente. Non sempre riusciamo a vivere così, con trasparenza, leggerezza e gioia, come chiediamo ogni giorno nella nostra preghiera comune. Ma la tensione è in questo cercare di diventare compagni di viaggio, amici di cammino: amici che smuovono le acque, che aprono strade, che accompagnano nel deserto. Amici che diventano come una finestra aperta, sufficiente solo a far passare un poco d’aria e un poco di luce. Chinarsi, guardare, farsi carico, essere responsa-
26
Cf. ivi, 138.
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Il cristianesimo come «cultura urbana» bili della vita dell’altro anche se sconosciuto, anche se diverso, soffrire per una vita mortificata o sgomenta: tutto questo è tenerezza, è amore e festa per la vita. E questi sono i gesti del samaritano, i gesti essenziali che ci ha insegnato Gesù, quelli che fanno di ognuno di noi la casa dell’altro. Che ci rendono prossimi agli altri.27
3.2. Testimonianza
e
Parola
In un breve testo, pubblicato con il titolo Il compito del testimone, il teologo C. Theobald riflette sul tema della dispersione e del futuro del cristianesimo contemporaneo.28 Ci sembra di trovare qui alcuni ulteriori spunti che danno maggiore completezza a questo intervento ma soprattutto ci aiutano forse a entrare nel cuore del nostro tema, in quanto è proprio la categoria di «testimonianza» che si pone come elemento decisivo nel rapporto tra cristianesimo e cultura urbana. L’analisi del nostro autore sulla situazione culturale odierna è quella che già ampiamente è stata descritta nella prima parte del nostro lavoro. Siamo dentro un pluralismo radicale a livello culturale e religioso, in cui le nostre città sono situate, che ha conseguenze anche sul modo stesso di porsi e di affrontare la propria fede, nella ricerca di una forma più autonoma e più sintonica con le attese dei nostri contemporanei. Nella situazione attuale sono la stessa architettura ecclesiale della fede e la sua struttura istituzionale a vacillare in quanto non ci si riconosce più in esse. Le indagini sociologiche, sottolinea Theobald, sembrano andare tutte nella stessa direzione: il soggettivismo, dominante nelle nostre società europee e occidentali, induce la maggior parte dei fedeli a scegliere, fra le credenze e i principi proposti dalle autorità ecclesiali, quelle che corrispondono al criterio pragmatico dell’utilità per la propria vita quotidiana e per la propria realizzazione personale. Essi si mostrano in ogni caso scettici nei confronti di una verità oggettiva che metterebbe in pericolo il valore della tolleranza e la capacità di ciascuno di cercare la propria strada verso la felicità. Si tratta di una ricerca non necessariamente arbitraria, ma segnata da un’esigenza etica di coerenza e di autenticità che ha preso il posto dell’idea classica di una verità oggettiva e che sta fuori dal soggetto.29 Mentre la società nel suo complesso sembra avere superato una nuova soglia di omogeneizzazione, a causa delle ultime acquisizioni tecnologiche e mediatiche, le domande di senso si diversificano all’infinito: stimolate dall’imperativo sociale di una «vita riuscita» esse si fanno più pressanti, generando nuove credenze, spesso con una forte impronta terapeutica, ecologica
27 L. Verdi, «Vite di comunità. Modelli controcorrente, di gestione dei conflitti, di restituzione di esperienze», in Orientamenti pastorali (2018)11, 80. 28 Il testo, pubblicato per la prima volta con il titolo «Identità cristiana: tra dispersione e discernimento» dalla rivista Il Regno (2014)4, 123-129, è stato successivamente proposto come libro con il titolo già ricordato Il compito del testimone. Dispersione e futuro del cristianesimo, EDB, Bologna 2015. 29 Cf. Theobald, Il compito del testimone, 12-13.
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Pier Luigi Cabri e cosmica. Credenze che continuano a combinarsi, mescolarsi, ricomporsi in funzione dei bisogni del momento. Il risultato è la dispersione delle «proposte di senso» di fronte a istituzioni che si rivelano sempre meno capaci di integrarle e regolarle.30
Le domande che scaturiscono dalla diagnosi fatta potrebbero essere così formulate: la dispersione e la frammentazione interna alla cultura e alla società e che coinvolgono anche la comunità e la tradizione cristiana annunciano una fine o piuttosto preparano un cambiamento della coscienza cristiana? Quali sono le risorse che un tale cambiamento potrebbe trovare nella storia dell’Occidente cristiano? La situazione culturale odierna provoca un affinamento della coscienza e del sentire comune. È come se i cristiani – scrive Theobald – dovessero imparare da soli, nel grande laboratorio delle nostre società, il modo in cui dire l’essenziale della loro esperienza di fede, a se stessi e agli altri.31 Questo suppone che tale modo non sia definito ed espresso una volta per tutte ma sia consegnato attraverso lo Spirito alla loro capacità di discernimento. La scommessa difficile da fare in questa situazione cruciale consiste nell’affidare l’identità cristiana ai cristiani, quindi nel dare fiducia, a tutti i livelli, ai processi spirituali di ricerca comune del vero. Processi che non rinunciano né alla coscienza come ultima istanza, né al sensus e consensus fidei della collettività universale di tutti i cristiani, né all’autorità apostolica, il cui carisma e la cui funzione consistono nel permettere ai credenti di ricevere la parola di Dio «non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio» (1Ts 2,13). A noi sembra che la sfida principale nell’attuale crisi del cristianesimo europeo e occidentale sia proprio una tale complessiva mutazione della coscienza cristiana, avviata dal concilio Vaticano II.32
Colui che affronta la vita con stupore, adottando in qualche modo lo sguardo stesso di Dio su di lui, è il testimone. Questi si percepisce esistente a partire dall’esperienza personale e unica di Dio, nella coscienza sia della sua unicità, sia del legame costitutivo che lo lega agli altri e all’intera umanità nella ricerca comune del vero. Il processo che è stato descritto e che riguarda sostanzialmente il mutarsi della coscienza cristiana, dominata oggi dall’opposizione fra dispersione e riaffermazione dell’identità cristiana, porta Theobald a riprende-
Ivi, 14-15. Sul tema della ricerca e del dire l’essenziale della fede, cf. anche C. Theobald, La rivelazione, EDB, Bologna 2006, 31-48. 32 Theobald, Il compito del testimone, 27-28. In nota, l’autore puntualizza che «la sfida della nostra lettura del concilio Vaticano II è la raccolta delle indicazioni relative al “modo di procedere” del concilio o al “modo di cercare la verità”, distribuite in vari documenti, senza esplicitare e pensare l’esatta articolazione delle diverse istanze. Il triplice “né” della nostra formula indica che queste istanze operano come criteri formali, lasciando aperta l’articolazione positiva che è riservata al discernimento effettivo e in situazione dell’identità cristiana». 30 31
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Il cristianesimo come «cultura urbana»
re, nella parte conclusiva del saggio, le istanze testimoniali della fede, cioè i riferimenti classici che permettono l’accesso al credere cristiano: la tradizione l’autorità e la Scrittura.33 Riguardo alla tradizione, la Dei Verbum ai nn. 7 e 8 sottolinea gli aspetti processuali e relazionali di essa, ciò che si deve trasmettere e gli attori della trasmissione, che sono chiamati a lasciare il loro posto ad altri che a loro volta prendano il testimone e proseguano il processo storico della trasmissione. Non è pertanto possibile «consegnare» il vangelo di Dio ad altri senza mettersi in gioco personalmente. Il vero testimone è colui che si lascia interrogare e continua a interrogarsi sulla coerenza fra ciò che trasmette e il modo in cui lo fa. Per le autorità ecclesiali questa coerenza ha una dimensione pubblica importante: La loro credibilità implica la capacità di raggiungere, in parole e opere, le coscienze umane, di risvegliarle e coinvolgerle radicalmente in una ricerca comune del vero, ricerca che non esonera nulla e nessuno. E poiché questo «vero», che è il vangelo di Dio o la santità di Cristo, deve restare riconoscibile nella storia, queste autorità apostoliche hanno il carisma e la funzione di mantenere aperta, all’interno di una ricerca sempre comune, la possibilità che questa parola di Dio sia compresa come tale e compresa in modo infinitamente differenziato in uno spazio di accoglienza sempre più pluralistico e individuale.34
Infine, il riferimento alla Scrittura, che offre ai cristiani un linguaggio plurale, uno spazio ospitale, il luogo per eccellenza nel quale l’identità cristiana viene consegnata al discernimento di ciascuno e di tutti. È in questo spazio ampio e universale, in cui la lettura e l’ascolto diventano comuni, che può esprimersi l’unicità di ciascuno, il legame ecclesiale fra tutti, la testimonianza di una carità fattiva, originata e fondata nella lode e nell’eucaristia. La Scrittura ci riporta al grande tema del linguaggio e della comunicazione, così attuale e dibattuto oggi, anche nella sottolineatura della sua fragilità. La comunicazione richiede di creare una lingua condivisa, di discernere segni, di ascoltare narrazioni e di contribuire a scrivere i nuovi «ipertesti urbani».35 Cercare parole nuove e vere che aiutino a illuminare il futuro verso il quale ci muoviamo e che di fatto è sconosciuto perché inedito e non ancora raccontato. E questo a fronte di un linguaggio che viene usato, come ci ricorda il grande scrittore Italo Calvino, sempre più in modo «approssimativo, casuale, sbadato».36
Cf. ivi, 37-45. Ivi, 41. 35 Rosito, Dio delle città, 117. 36 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 1988, 66. Anche se scritte ormai qualche decennio fa, costituiscono ancora oggi un testo estremamente moderno e polivalente, non soltanto in ambito letterario ma anche come strumento per capire i nuovi sistemi di comunicazione, soprattutto legati al mondo digitale. 33 34
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Pier Luigi Cabri
Semplificare ma senza banalizzare, spogliare la Parola da tutti gli orpelli di cui è stata rivestita. Una comunicazione asciutta, leggera ed essenziale, libera e che non rimanga un linguaggio per iniziati e addetti ai lavori. È la predicazione stessa di Gesù a mostrarcene esempi, dall’efficacia del discorso della montagna alle metafore del linguaggio parabolico. Storie di vita, dinamiche relazionali quotidiane, di cui è piena la Scrittura, che annunciano il mistero di per sé indicibile dell’amore di Dio. Si tratta di una sfida, come ci ricordano i vescovi della Toscana in un piccolo ma prezioso volumetto dedicato al tema della Parola,37 che – alla scuola del Maestro – il mondo cristiano ha colto da sempre, dando vita a capolavori di semplificazione e di purificazione del linguaggio, capaci di dare un nome al mistero di Dio e di comunicarlo con rara efficacia e immediatezza, passando attraverso varie forme di comunicazione: dai dipinti delle catacombe al simbolismo cristiano dei sarcofaghi e dei pavimenti musivi, dalla pittura romanica alle architetture del Rinascimento. Ciò dimostra come sia davvero possibile semplificare la lingua senza banalizzarla, e anzi scoprendo vie di comunicazione perfino più efficaci e dirette, capaci di veicolare il mistero in modo non scontato o ripetitivo. E che soprattutto ci spingono a osare senza paura nuove forme espressive e nuove sintesi, nella certezza che il contenuto da comunicare è prezioso e atteso da coloro ai quali da sempre è destinato.38
Concludiamo, riprendendo lo spunto iniziale dedicato al libro e formulando una domanda: si può pensare a una cultura urbana senza il libro? Crediamo che sia difficile immaginarlo. Il libro per eccellenza rimane la Bibbia come codice dell’Occidente, non si può fare a meno delle lettere quadrate di cui respira la vita e il mondo, come scrive il filosofo Lévinas. Una cultura che passa attraverso gli «ipertesti urbani», in cui trova spazio la narrazione della vita, nelle varie forme dello scrivere di oggi, le forme privilegiate di una scrittura breve ed essenziale, che però dica la verità e lo spessore delle cose, questo sì, si può immaginare. Sapere interpretare il non detto che si può cogliere nel cuore di tanta gente e di infinite situazioni, e che sta a noi, alla luce del messaggio evangelico, sapere interpretare e ridire. Ecco dunque la sfida: «imparare a pronunciare (e a scrivere) solo parole che nascono dal cuore, leggere e profonde, gentili e assorte, fragili e sincere, parole che fanno bene»39 alle città e al mondo di oggi.
37 Conferenza episcopale della Toscana, La forza della parola. Lettera su comunicazione e formazione a 50 anni dalla morte di don Lorenzo Milani, EDB, Bologna 2018. 38 Ivi, 26. 39 Ivi, 71.
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L’impatto del pluralismo religioso sulla città
Brunetto Salvarani*
Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda o la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge. Italo Calvino, Le città invisibili
Le nostre città stanno cambiando, e stanno cambiando in fretta: diventano di giorno in giorno sempre più multiculturali e multireligiose, aggettivi che ci siamo abituati a utilizzare con grande facilità, ma in genere senza riflettere adeguatamente su che cosa significhino per la nostra esistenza di ogni giorno. Perché adottare la prospettiva interculturale, la promozione del dialogo e del confronto tra culture (di orientamento religioso o no) nella vita sociale urbana non comporta solo limitarsi a organizzare strategie di integrazione più o meno calibrate o adottare misure compensatorie di carattere speciale, ma piuttosto assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della comunità civile. Uno scenario (e un imperativo) che, già delicato di suo, appare in questi ultimi anni tanto più pressante, incalzato dalle cronache nazionali e internazionali: tempo affollato di crescenti paure, solitudini e insicurezze, di ricerca
* Docente incaricato triennale di Teologia della missione e del dialogo – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected] 145
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Brunetto Salvarani
affannosa di facili capri espiatori, ma anche di conferme del fatto che – piaccia o no – sull’educazione al dialogo (anche a quello interreligioso!) e all’interculturalità si giocherà una buona fetta di futuro di questo Paese e dell’intera Europa. In vista, auspicabilmente, di un’autentica convivialità delle differenze (don Tonino Bello) e di quello che papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium definisce il dialogo sociale per la pace.1 Obiettivo di questo intervento non è tanto quello di descrivere analiticamente il nuovo skyline pluralisticamente religioso delle nostre attuali città,2 quanto di riferire attorno alle motivazioni dell’urgenza – in un quadro certo in grande movimento – di una teologia pubblica all’altezza del clamoroso cambiamento in corso. Si tratterà, giocoforza, di una riflessione interdisciplinare, che prenderà le mosse da analisi di tipo sociologico e antropologico, ritmata sullo schema ormai classico di vedere, giudicare e agire. E non sia colto come un paradosso il maggior spazio concesso al primo dei tre riquadri, in quanto collegato con la necessità di uno sguardo più lungo e più ampio sulla realtà, che sta alla base di ogni ulteriore passaggio.
1. Vedere 1.1. L’incognita
post - secolare 3
Parto dall’assunto secondo cui le prospettive multireligiose costituiscono uno dei principali temi sociali, culturali e politici dell’Italia attuale, ancorché a tutt’oggi piuttosto sottovalutate mediaticamente. La folla domenicale a piazza San Pietro, il proliferare di statue devozionali a san Pio e la trionfale traslazione delle sue spoglie durante il Giubileo della misericordia, le discussioni nei bar rionali sull’attentato jihadista di turno, il confronto negli enti locali e sui social sui riflessi delle politiche migratorie, il successo dei centri yoga e di più o meno antiche pratiche lato sensu spirituali, l’inaugurazione di templi buddhisti o mormoni che sempre più spesso vengono orgogliosamente presentati come i più grandi d’Europa, sono immagini quotidiane, citate alla rinfusa, che dicono di una novità – o
1 Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, nn. 238-258: EV 29/2344ss. 2 Fortunatamente stanno moltiplicandosi le uscite in libreria di materiali che presentano analiticamente le conseguenze del pluralismo religioso nel nostro Paese. A titolo esemplificativo, cito un testo recente e particolarmente riuscito, dedicato al panorama di Bologna: F. Mandreoli – G. Cella (a cura di), Viaggio intorno al mondo, Zikkaron, Marzabotto (BO) 2019. 3 Rielaboro qui parzialmente il saggio firmato dal sottoscritto a quattro mani con Paolo Naso, intitolato «Post-secolarizzazione. All’italiana», introduzione a P. Naso – B. Salvarani (a cura di), I ponti di Babele. Cantieri, progetti e criticità nell’Italia delle religioni, EDB, Bologna 2015, 5-26.
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di una persistenza che torna ad acquisire visibilità – che andrebbe adeguatamente rilevata. Pena il finire frastornati di fronte a molte delle dinamiche collettive in cui siamo immersi. Si potrebbe obiettare, al riguardo, che i fondamentali della secolarizzazione – chiese e parrocchie sempre meno frequentate, scarsità di nuove leve tra presbiteri e religiosi, pratiche un tempo assidue ora limitate a ben modeste percentuali, e così via4 – permangono, tendendo addirittura a un ulteriore rialzo.5 Peraltro, è sensato replicare che il mutamento più considerevole rispetto a poco tempo fa è che nuove sensibilità e nuovi comportamenti si vanno ora stratificando su quelli passati pur senza annullarli, in una sommatoria disordinata e complessa da analizzare, eppure capace di delineare uno scenario, alla fine, del tutto inedito. Siamo quindi testimoni di un cambiamento, certo confuso e a tratti contraddittorio, che offre un panorama originale alle nostre latitudini, caratterizzato da una pluralità (e una vitalità) delle esperienze religiose solo fino a qualche anno fa ben difficile da immaginare. È verosimile ritenere che, ancora nel recente passato, osservatori, analisti e gli stessi responsabili delle comunità di fede abbiano sopravvalutato i processi di secolarizzazione, fornendo un’interpretazione del sentimento e della spiritualità dei nostri connazionali come più aridi di quanto non si desse nella realtà dei fatti; in ogni caso, oggi si avverte la debolezza di quella lettura così perentoria, cogliendo invece una serie di sfumature e di elementi in controtendenza che fanno propendere per un’ipotesi diversa che, in un’approssimazione che si cercherà di precisare, si avvicina piuttosto alla post-secolarizzazione. Ricorro a tale prefisso (post) che indica la fine di un paradigma perché, confortato da un corposo dibattito in corso di ordine filosofico, politico e teologico, intendo sostenere che il processo in atto non si configura affatto come un ritorno ai modelli religiosi tradizionali del mitico buon tempo antico ma, al contrario, come una fuga verso approdi altri che per ora possiamo appena intravvedere. In questo senso la post-secolarizzazione – l’incognita post-secolare, come l’ha definita Paolo Naso6 – appare strettamente apparentata con la post-modernità e con i percorsi porosi, fluidi
4 Cf. A. Matteo, Il postmoderno spiegato ai cattolici e ai loro parroci, Edizioni Messaggero, Padova 2018. Il volume si presenta dichiaratamente come un primo saggio di teologia urbana, ispirato al paragrafo dell’Evangelii gaudium dedicato alle «Sfide delle culture urbane» (nn. 71-75). 5 Per un bilancio ponderato del dibattito sulla secolarizzazione oggi, rinvio a P. Costa, La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, Queriniana, Brescia 2019. Al riguardo, sembra convincente l’assunto per cui «la secolarità moderna non mette di per sé fuori gioco le religioni – non rappresenta, cioè, la fine della svolta assiale e l’inizio di una nuova rivoluzione spirituale di analoga portata – ma comporta comunque una ristrutturazione del campo di forze ideali entro cui si dispiega la creatività dell’agire umano. Principale sintomo di questa trasformazione è la crescente consapevolezza che la fede e la religione – a differenza dell’esperienza del sacro – non sono universali antropologici, ma opzioni significative offerte all’iniziativa individuale e collettiva» (p. 95). 6 P. Naso, L’incognita post-secolare, Guida, Napoli 2015.
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e plurimi che la contrassegnano. Un panorama che finisce per apparire più frastagliato e sfumato, meno sicuro e definito rispetto al passato, con i credenti a sentirsi più liberi, pur se meno saldi nella loro direzione spirituale. Con le grandi istituzioni religiose più vulnerabili, e l’assolutezza del messaggio religioso messa in discussione dalla pluralità delle scelte possibili che ci troviamo davanti.
1.2. Le interpellanze del pluralismo religioso al contesto occidentale
La crisi delle forme storiche delle religioni, in particolare di quelle riferite alle diverse chiese cristiane, è una narrazione oggi accolta da gran parte della letteratura europea e statunitense. Le indagini sociologiche, insieme a quelle delle scienze umane che indagano le religioni, così come i documenti magisteriali e pastorali, descrivono infatti da tempo la problematicità dell’appartenenza religiosa nel contesto della fine dell’età precritica, l’invecchiamento progressivo dei quadri, lo svuotamento delle chiese, la messa in discussione della tradizione in campo etico, e così via.7 Il teologo canadese Jean-Marie Tillard, ad esempio, in un volumetto emblematicamente intitolato Siamo gli ultimi cristiani?8 (vera e propria Lettera ai cristiani del Duemila, come recita il sottotitolo), già due decenni or sono lo dichiarava con estrema semplicità: I catecheti impiegano tutte le loro energie a parlare di Cristo davanti a uditori che sbadigliano, perché non sono interessati a quanto si dice. I banchi delle chiese sono sempre più vuoti e occupati da persone dai capelli sempre più bianchi, tanto che si arriva a sopprimere delle parrocchie. Nell’insieme, tutta una generazione (quella che costituirà la carne delle società nei prossimi decenni) scivola lentamente non verso l’aggressività verso la chiesa, ma (ed è più grave) verso l’indifferenza.9
Eppure, la stessa letteratura avverte che il sacro non è morto, ma che, al contrario, si assiste piuttosto a una sorta di suo ritorno (più o meno di fiamma).10 Come si tengono insieme, allora, crisi delle religioni e vitalità
7 Rinvio ai classici della riflessione sociologica al riguardo quali, tra altri, A. Aldridge, La religione nel mondo contemporaneo. Una prospettiva sociologica, Il Mulino, Bologna 2005 (orig. 1999); P.L. Berger, Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea, Il Mulino, Bologna 1970. 8 J.-M. Tillard, Siamo gli ultimi cristiani?, Queriniana, Brescia 1999. 9 Ivi, 9. 10 Se ancora negli anni ’60 le analisi sul tema del sacro erano propense a leggerne la fine – cf. il testo del sociologo, recentemente scomparso, S. Acquaviva, L’eclissi del sacro nella società industriale, Edizioni di Comunità, Milano 1961 –, una ricca letteratura specialistica sul tema parla, piuttosto, di un ritorno o rivincita del sacro. Oltre all’ormai classico G. Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei e musulmani alla riconquista del mondo, Garzanti, Milano 1991, cf. anche J. Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista
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del sacro? Un’interpretazione ormai matura è appunto quella di quanti sostengono essere questa un’epoca di post-secolarizzazione, dove post andrà inteso come il superamento di un paradigma (quello della secolarizzazione e della sua niccianamente annunciata morte di Dio) e l’inerpicarsi verso un altro modello interpretativo, in cui credere senza appartenere sembra essere il modus dominante.11 L’evidenza del pluralismo religioso nelle società occidentali, del resto, è oggi una realtà innegabile, tanto è un fatto quotidiano, pubblico e politico.12 Ma in che termini tale pluralismo religioso, in epoca post-secolare, interpella il mondo occidentale?13 Personalmente, sono convinto che tale realtà richieda alla cultura occidentale di scorgere nel deperimento progressivo delle forme storiche delle religioni un’opportunità spirituale: non sarebbe tanto la ricerca di senso religioso a essere in gravi ambasce, quanto piuttosto i suoi contenitori tradizionali, le forme e i modelli storici che fin qui l’hanno accolta e plasmata. Come se il pluralismo religioso invitasse ad accettare come tempo favorevole (kairòs, nei canoni neotestamentari), paradossalmente, quello della vulnerabilità delle istituzioni religiose, chiamate a rinnovarsi, a modificare la loro semantica, perfino ad accettare di mettere in discussione l’assolutezza dei propri messaggi all’umanità.14 I sistemi onnicomprensivi di cui abbiamo fatto esperienza per secoli, del resto, non esistono più, e ci scopriamo inermi, inadeguati ad affrontare da soli la complessità che essi ci mediavano. I cristiani, così, si scoprono partecipi di una società contraddistinta da una cultura di base indebolita, da una veemente fram-
della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna 2000 (orig. 1994); G. Filoramo, Le vie del sacro. Modernità e religione, Einaudi, Torino 1994; R. Stark – M. Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2003; M. Gallizioli, La religione fai da te. Il fascino del sacro nel postmoderno, Cittadella, Assisi (PG) 2004; U. Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000; A.M. Rivera, La guerra dei simboli, Dedalo, Bari 2005; J. Micklethvait – A. Wooldridge, God is back. How the global revival of faith is changing the world, Penguin Press, New York 2009. 11 Cf. l’ormai classico G. Davie, Religion in Britain since 1945, Blackwell, Oxford 1994, in cui per la prima volta in modo compiuto si constatava la diffusione del modello believing without belonging, credere senza appartenere. Al riguardo si possono vedere, fra gli altri, E. Pace, Credere nel relativo. Persistenze e mutamenti nelle religioni contemporanee, UTET, Torino 1997; F. Lenoir, Le metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale, Garzanti, Milano 2005. 12 Un’indagine sociologica a livello europeo sulla presenza pubblica delle religioni è tracciata, per il caso del rapporto con il mondo islamico, da S. Allievi, La guerra delle moschee, Marsilio, Venezia 2010, mentre rimane riferimento obbligato la ricerca di P. Jenkins, Il Dio dell’Europa. Il cristianesimo e l’islam in un continente che cambia, EMI, Bologna 2009. 13 Occidente è, com’è noto, un concetto oggi assai discusso: al riguardo condivido in buona parte le osservazioni di G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Laterza, RomaBari 2004, fatte alla luce della sciagurata guerra in Iraq iniziata nel 2003. 14 Si veda al riguardo una riflessione di tipo sociologico, U. Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Laterza, Roma-Bari 2009, e una di carattere filosofico, G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002. Una lettura in chiave ecclesiologica è proposta invece da S. Noceti, «Abitare le fragilità della chiesa», in B. Salvarani (a cura di), La fragilità di Dio, EDB, Bologna 2013, in part. 186-194.
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mentazione e da crisi di identità sociale, processi impetuosi di multiculturalità e una pluralità di codici compresenti. Lo sbriciolamento di una razionalità sistemica è evidente. E allora, ecco le chiese, le comunità e le religioni attrezzarsi come «ospedali da campo» (per rimandare a una metafora cara a papa Bergoglio),15 disposte ad accogliere la ricerca aperta e sofferta di tanti pellegrini di senso, più che recinti dove confinare gelosamente la salvezza divina, escludente chi si trova fuori da essi. Un’ulteriore interpellanza del pluralismo religioso a ciò che resta dell’Occidente è quella di accettare fino in fondo l’evidenza della realtà: la fine della propria centralità in un pianeta compiutamente globalizzato. Soprattutto sul versante delle religioni, infatti, e tanto più di quella cristiana, l’Europa non detiene più alcun monopolio religioso e occorre sapere andare a sud, nel quadro di quello che viene ormai comunemente definito cristianesimo globale.16 Il che equivale a lasciarsi interrogare dai laboratori culturali, religiosi e spirituali che si stanno moltiplicando nel sud del mondo ma affollano ormai anche le nostre città, dove la doppia appartenenza religiosa e il sincretismo culturale e religioso, prima che essere materie dottrinali, sono stati e continuano a essere una questione vitale.17 Inedite e sorprendenti forme religiose crescono, e intendono partecipare a un eventuale Parlamento delle religioni, qualora fosse convocato. Ad esso, certo, sarebbe invitato anche il mondo occidentale, che però ha esaurito la sua spinta propulsiva, ha smesso di essere il centro della riflessione e vi parteciperebbe come una regione del mondo, come una delle tante sue periferie.
1.3. Un nuovo pluralismo
religioso
La pluralità – e la contraddittorietà – di tali percorsi, dunque, è la più evidente cifra interpretativa di questo quadro in progress. In effetti, l’Italia delle religioni ha percorso un tratto di strada, rompendo l’antico assioma secondo cui i processi di pluralizzazione confessionale, consolidati in gran parte dell’Europa, sarebbero stati impossibili in un Paese caratterizzato da una religione nazionale, espressione di una fede diffusa ma anche di una tradizione civile che con essa si è storicamente e indissolubilmente identificata, sul modello crociano del non possiamo non dirci cristiani. In realtà, gli ultimi anni hanno contraddetto quell’assioma e, an-
15 A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà cattolica (2013), Q. 3918, 449-477 16 L’espressione World Christianity comparve per la prima volta nell’opera del sociologo Francis John McConnell (1929), ma si è sviluppata negli ultimi due decenni grazie soprattutto al lavoro degli storici Philip Jenkins e Lamin Sanneh. 17 Qui il riferimento, anche se limitato alla realtà del cristianesimo, va ancora alla ricerca di P. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi editore, Roma 2004 e I nuovi volti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2008. Sui riflessi di questa situazione sul pontificato di Francesco, utile è M. Faggioli, Francesco e la chiesa-mondo, Armando editore, Roma 2014.
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che sul piano giuridico-legislativo, si è assistito al riconoscimento e – per così dire – alla consacrazione di un nuovo pluralismo religioso, diverso e aggiuntivo rispetto a quello determinato dalle minoranze storiche, ebrei e valdesi in primis. I numeri, per quanto controversi, iniziano a dire qualcosa. Partendo dagli italiani, escludendo quindi gli immigrati, gli aderenti a comunità di fede diverse da quella cattolica – mi rifaccio a statistiche di qualche anno fa, per cui è lecito immaginare un ulteriore aumento oggi – sarebbero poco più di un milione e quattrocentomila.18 Molti, se si pensa alla storia religiosa dell’Italia e al monopolio che il mainstream cattolico ha lungamente esercitato; pochi, se si considera che in altri contesti nazionali europei le dinamiche del mercato religioso hanno prodotto un pluralismo quantitativamente assai più consistente. È un dato tutto nostrano, di un sentimento di appartenenza radicato, e talora più forte della libertà del credere in forme diverse da quelle della maggioranza. Secondo Franco Garelli si attesterebbe intorno al 10% il numero di italiani19 – parliamo quindi di un nucleo che supera comunque i cinque milioni di persone – che stazionano in un’appartenenza senza credenza, evidente retaggio di un mercato religioso chiuso e convenzionale, in cui tradizione e conformismo spingono (spingevano) a ritagliarsi modelli interpretativi personali e soggettivi della confessione cattolica, limitando invece la fuoruscita verso un’altra o nessuna fede. La post-secolarizzazione all’italiana ci consegna pertanto campioni religiosi anomali e incongrui, sì cattolici nella rivendicazione identitaria, ma a modo proprio, selettivi nell’adesione a dogmi e pratiche, e persino sincretici nell’assunzione di principi, simboli e riti di altre tradizioni religiose.20 E così, se non supera il 20% la percentuale dei non cattolici, la restante quota dell’80% si può suddividere in militanti che partecipano, oltre che alla vita parrocchiale, anche a movimenti e associazioni (10%), in assidui che frequentano la messa con regolarità (20%), e in maggioranza, caratterizzata da una pratica religiosa saltuaria (50%).21 È lecito allora giungere a una prima conclusione, che il film della post-secolarizzazione all’italiana tende a promuovere un pluralismo interno all’appartenenza tradizionale al cattolicesimo, piuttosto che a innestare quel processo di pluralizzazione confessionale tipico di mercati religiosi, più liberi e aperti.
18 Fonte: CESNUR, Il pluralismo religioso nel contesto post-moderno, http://www. cesnur.com/il-pluralismo-religioso-italiano-nel-contesto-postmoderno-2/ 19 F. Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, Il Mulino, Bologna 2011, 24. 20 La quota di coloro che dichiarano una fede certa in Dio si attesta al 45,8%; coloro che credono «con dei dubbi» costituiscono il 25,1% degli italiani; credono «a momenti», l’11,7%. Frammentata anche la quota di coloro che sono distanti dalla religione: «atei» il 6,6%; agnostici il 6,2%; non credenti in Dio ma in un potere superiore il 4,5% (ivi, 22). Quanto all’aldilà, il 14,6% degli italiani lo vede come un «nulla», il 21,4% non sa che cosa aspettarsi, il 22,5% sa di non poter sapere, il 3,5% crede nella reincarnazione. Al netto di altre risposte (3,5%), solo il 36,3% degli italiani crede evangelicamente nella vita dopo la morte (ivi, 41). 21 R. Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna 2011, 22.
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D’altra parte, agli italiani non cattolici va sommata una quota di immigrati: tre milioni e duecentomila secondo il CESNUR,22 poco più di quattro milioni per IDOS.23 In totale si arriverebbe a una cifra difficile da precisare, ma che si direbbe compresa tra quattro milioni e seicentomila e cinque milioni e quattrocentomila. Se, perciò, il nuovo pluralismo religioso registrabile in Italia risulta strettamente connesso ai flussi migratori benché essi tendano (al di là della narrazione sociale dominante) a diminuire,24 un tema di sicuro interesse è il posizionamento sociale delle comunità religiose degli immigrati. Al riguardo si danno strategie diversificate, per cui, se alcuni gruppi coltivano un asse etnico e identitario, altri puntano sull’integrazione, ad esempio frequentando locali di culto multietnici e potenzialmente interculturali. La divisione, peraltro, non è confessionale, dato che all’interno della stessa comunità religiosa – in campo evangelico il dato è rilevante e ormai documentato,25 ma dinamiche simili si riscontrano anche all’interno dell’islam – si possono registrare entrambe le tendenze. Inoltre, tutto si mette ulteriormente in movimento con le seconde e le terze generazioni, che anche sul piano religioso sembrano aprire originali percorsi di ricerca ed esprimere una leadership che in più di qualche caso mette in difficoltà l’establishment consolidato di alcune comunità di fede. È questo un tema quanto mai delicato: la maggiore rilevanza del fattore R come religiosità nello spazio pubblico italiano non pone un problema soltanto dal punto di vista delle politiche e delle attività istituzionali, convocate a convertirsi a un paradigma plurale poco noto e ancor meno applicato. Un crescente rilievo pubblico delle comunità di fede implica che esse esprimano leadership all’altezza di un nuovo ruolo, che richiede insieme conoscenza delle norme, capacità di mediazione, cultura politica e senso dello Stato; mentre alcune fra esse, abituate a porsi sulla difensiva per tutelare i propri diritti o per ottenere delle concessioni dalle istituzioni, appaiono concentrate su stesse e incapaci di posizionarsi con autorevolezza e competenza in uno spazio pubblico democratico che possiede le sue regole, i suoi meccanismi consolidati e le sue specifiche procedure. Il vincolo a una postura laica e democratica da parte dei nuovi attori religiosi che si propongono nella scena pubblica del Belpaese è, quindi, condizione essenziale per definire un nuovo paradigma post-secolare che non si risolva in un deteriore comunitarismo. Se alcune comunità si sono attrezzate da tempo a una simile sfida istituendo strutture di livello anche accademico, altre ritengono di poter perpetuare ad libitum una formazione fai da te. Ulteriore strada è quella indicata da istituzioni accademiche – penso al Master proposto dal Forum internazionale Democrazie e religioni (FIDR)
CESNUR, Il pluralismo religioso nel contesto post-moderno. IDOS (a cura di), Rapporto UNAR. Dossier statistico immigrazione (2014), 196. 24 Cf. S. Allievi, Immigrazione. Cambiare tutto, Laterza, Roma-Bari 2018. 25 Cf. P. Naso – A. Passarelli – T. Pispisa, Sorelle e fratelli di Jerry Masslo, Claudiana, Torino 2014. 22 23
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o dall’Università La Sapienza di Roma in Religioni e mediazione culturale – che però, in genere, non ottengono né da parte delle comunità di fede né delle istituzioni il sostegno che meriterebbero in rapporto allo specifico servizio da esse reso. In realtà, si noti, la pluralità dei sentieri della post-secolarizzazione non è esclusivamente quantitativa, determinata cioè dalla crescente adesione ad altre comunità di fede diverse da quella cattolica o dall’aumento del numero delle confessioni religiose che operano nel nostro Paese. Esiste, infatti, anche, una pluralità qualitativa, in riferimento a modi sempre più diversificati di vivere un’esperienza religiosa all’interno della stessa fede e della stessa tradizione. Così come – e qui il nesso con la post-modernità si fa stringente – assistiamo a forme via via più individualizzate di designer religion, per riprendere un’espressione di Luigi Berzano: una sorta di selfie dello spirito nel quale ciascuno, quando e come crede, fissa l’immagine26 – forse permanente forse temporanea e quindi giocoforza effimera – della propria religiosità. I dati sull’analfabetismo religioso degli italiani raccolti in alcune recenti ricerche27 dicono come questa new wave post-secolare conviva serenamente con il fatto che i nostri connazionali, di cose religiose, sanno sempre meno, mentre sembra essersi definitivamente spezzata quella cinghia di trasmissione dei saperi e delle pratiche di fede che passavano informalmente da generazione a generazione.28 Nonostante una maggiore cultura, infatti, i nipoti risultano meno competenti dei nonni. Forse perché vissuta con minore consapevolezza, la religione si configura soprattutto come esperienza: la metafora e l’attualità del pellegrinaggio, rilevata da Danièle Hervieu-Léger,29 fotografa efficacemente tale tendenza tipica di una religiosità post-moderna.30 Così come il successo di religiosità carismatiche e di ascendenza pentecostale che si aprono una strada sempre più larga non solo nelle chiese evangeliche ma anche, a ben vedere, nel cattolicesimo globale al tempo di papa Francesco.
1.4. Il
cantiere senza progetto
Come abbiamo visto, il pluralismo religioso che stiamo vivendo nel nostro Paese, ormai, coinvolge direttamente qualche milione di persone;
26 Cf. L. Berzano, Quarta secolarizzazione. Autonomia degli stili, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2017. 27 Per tutte, cf. A. Melloni (a cura di), L’analfabetismo religioso in Italia, Il Mulino, Bologna 2014. 28 Ormai classica, al riguardo, l’analisi contenuta in A. Matteo, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010. Ulteriori spunti sono offerti da R. Bichi – P. Bignardi (a cura di), Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, Vita e Pensiero, Milano 2016. 29 D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Il Mulino, Bologna 2003. 30 Sugli esiti quanto mai problematici di simili tendenze, resta fondamentale il pregevole O. Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Feltrinelli, Milano 2009.
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e, almeno indirettamente, toccando centri e periferie delle nostre città, è parte integrante della società. Eppure, riconoscere il pluralismo, parlare di pluralismo, educare al pluralismo appare ancor oggi tutt’altro che ovvio e semplice. Ciò avviene anche perché il sistema politico che dovrebbe garantirne un aggiornato quadro di riconoscimento e di governance resta al palo di pregiudizi e sottovalutazioni: ad esempio, l’Italia politica – di qualsiasi orientamento – sembra fisiologicamente incapace di produrre una moderna legge che ci conduca oltre il retaggio della legislazione sui culti ammessi per avvicinarci a una moderna ed europea cultura del diritto alla libertà religiosa. L’Italia si trova ancora, per molti versi, come di fronte a un muro di vetro! Scorge indubbiamente il pluralismo, ne percepisce gli aspetti esteriori – il Ramadan nello spazio pubblico, la spiritualità pentecostale, il rigore dei testimoni di Geova, le mizvot ebraiche, la meditazione orientale, i gurdwara dei sikh ricavati da capannoni industriali dismessi… – ma non si mostra in grado di interagire consapevolmente con tale panoramica: due mondi prossimi l’uno all’altro, anzi, l’uno dentro l’altro, ma separati da muri di vetro costruiti su perimetri irregolari fino a creare intersezioni e persino familiarità, mai contatto e relazione. Sì, le eccezioni esistono, e in tale muro, come in tutti quelli che l’umanità ha provato a innalzare nel corso della sua storia, sussistono fratture e pertugi che consentono qualche salutare scambio; e persino alcune contaminazioni vicendevoli. Ma non di rado sembra che le culture, le politiche, e persino le teologie prevalenti tendano a consolidarlo, questo muro di vetro, che ci mostra gli uni agli altri ma non consente l’interazione, ci avvicina ma senza consentirci di conoscerci nel profondo (in modo tale che pregiudizi e luoghi comuni, in genere, la fanno da padrone). Ne deriva una criticità per la funzionalità di una compiuta democrazia, e persino un’arretratezza nel confronto al riguardo con gran parte dell’Unione europea. Fino a concludere, del resto, che l’Italia è giunta all’appuntamento con il pluralismo delle culture e delle fedi non solo in ritardo rispetto ad altri Paesi ma, almeno dalla Controriforma in poi, in termini estremamente conflittuali e traumatici. Scontiamo dunque un ritardo, per cui sarebbe urgente affrettare il passo. Certo, rispetto a qualche anno fa sono intervenuti degli elementi rilevanti di novità, il principale dei quali è costituito dal consolidamento numerico e organizzativo dei diversi attori sociali che trasparivano dal precedente muro di vetro. Ecco allora che, almeno in qualche fascia dell’opinione pubblica più attenta, la coscienza che il pluralismo religioso che si sta affermando anche alle nostre latitudini non è più solo accidentale né di frangia, ma costituisce una tendenza che avrebbe sempre maggiori implicazioni sociali, culturali e politiche. L’immagine che potrebbe rappresentare tale situazione è quella del cantiere, di una vasta area delimitata e affollata di maestranze intente al lavoro in cui si stanno ponendo le basi di un nuovo edificio che non si vede e neppure si riesce a intuire. Un cantiere in cui si riconoscono ingegneri e architetti, geometri e operai che prendono misure, valutano i cambiamenti necessari in corso d’opera, registrano errori di calcolo che si sforzano di correggere,
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studiano la tenuta delle opere sinora realizzate, mentre pianificano l’attività ancora da svolgere. Un cantiere però, ci torneremo sopra, senza progetto…
1.5. Le responsabilità del
ritardo
Le responsabilità del ritardo di cui sopra non sono solo della nostra classe politica, che pure ne detiene la quota più consistente. Sorprende negativamente, ad esempio, la disattenzione della cultura italiana in genere verso le dinamiche multireligiose o interreligiose, salvo affrontarle esclusivamente in chiave di puro folklore o di allarmi terroristici. Così com’è evidente che anche la Chiesa cattolica (nonostante non poche esperienze di base in controtendenza) fatichi a riposizionarsi in un contesto post-secolare in cui il fattore religioso torna ad avere rilevanza pubblica, ma in forme completamente diverse da quelle antiche e pacificamente assodate. Infine, la mancanza di un progetto organico del pluralismo religioso dipende anche da coloro che ne dovrebbero essere gli attori principali: le centinaia di variopinte comunità di fede cresciute in questi anni sotto il cielo d’Italia. Al netto del ruolo sin qui prevalentemente negativo giocato dalla politica e dall’informazione, non si possono sottacere le responsabilità (dirette o indirette) determinate dalla loro frammentazione interna, dallo scarso interesse – almeno in qualche caso – a proporsi sulla scena pubblica e ad aprirsi positivamente al confronto con la cultura, le istituzioni e le altre confessioni religiose presenti sul territorio. Molte di esse, soprattutto quelle più legate ai fenomeni migratori, subiscono una pressione centrifuga che talvolta finisce per rallentare fondamentali percorsi di interazione con l’esterno. La sfida dell’Italia delle religioni resta di fronte a noi: quella di un progetto organico in grado di dare ordine, prospettiva e forza al cantiere del pluralismo che si è aperto e che cresce più o meno operoso – nonostante tutto – anche nel nostro Paese. E nelle nostre città e cittadine…
2. Giudicare 2.1. Uno scenario che ci costringe a rivedere i modi di essere cristiani nelle città
Una riflessione di carattere storico e sociologico è consapevole che per molto tempo il mondo occidentale moderno ha creduto che le appartenenze e le identità potessero essere declinate al singolare, in modo esclusivo (ed escludente). In particolare, è opportuno ricordare il contributo principale del moderno Stato nazionale al riguardo, che è stato quello, come sostiene Peter Sloterdijk, «di mettere a disposizione della maggior parte dei suoi cittadini, una sorta di domesticità, quella struttura immunitaria al tempo stesso immaginaria e reale che è stato possibile vivere
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come convergenza del luogo e del sé».31 Tale potente sistema immunologico ha fornito ai singoli individui e ai collettivi una sorta di container etnico, fatto di suolo e di sangue, di lingua e di simboli, che ha plasmato il contenuto (la popolazione) fino a farlo aderire al contenitore stesso (lo Stato e la nazione): così le comunità storiche sono diventate popolo. I processi di globalizzazione hanno indebolito progressivamente e inesorabilmente la funzione immunitaria di simili container, rompendo la convergenza tra sé e luogo, tra popolo e territorio, con il risultato che molti cittadini dei moderni Stati nazionali «a casa non sentono più di coincidere con la propria identità e nella propria identità non si sentono più a casa».32 La reazione a questo indebolimento dei sistemi immunitari tradizionali sembra oscillare oggi tra due estremi. Da un lato, abbiamo un atteggiamento di chiusura, di resistenza al cambiamento, di riproposizione nostalgica del vecchio modello, ora alimentato dai nuovi localismi politici e dai nuovi tribalismi, che portano a una identificazione, in scala ridotta, tra il sé e il luogo, tra il sé e il gruppo. Il modello antropologico prodotto da tale risposta è un cittadino arrabbiato e rancoroso, amante di piccole patrie, più o meno apertamente razziste. Un cittadino che subisce, senza rendersene conto, un generale impoverimento esperienziale, la perdita delle relazioni, la diminuzione, entro una società sempre più violenta, della capacità di integrare le differenze. Un cittadino che chiede più protezione e immunizzazione della vita, individuale e collettiva, dal rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei. Dall’altro lato, abbiamo un opposto e complementare atteggiamento di dispersione, di vagabondaggio disordinato e scomposto, promosso in particolare dal mercato, che crea, quale modello antropologico di riferimento, un consumatore narcisistico sempre alla ricerca di apparenze e di emozioni (vendute dalle marche, i brand). Si tratta di un’identità leggera, che si muove orizzontalmente, ma che è pur sempre chiusa nel proprio sé estetizzante, indifferente ai luoghi (alla loro storia, alla loro pluralità), incapace di attivare relazioni che non siano di breve durata e finalizzate alla sola soddisfazione di un bisogno/desiderio, per definizione inappagabile. L’antropologia, la sociologia, ma anche la storia come scienza che indaga l’umano, propongono alla riflessione gli spazi in cui costruire un discorso nuovo circa il rapporto con l’altro. Dove l’umanità non viene negata, ma promossa, l’identità non repressa, ma liberata. Dove l’uomo si ripensa a partire dalla sua esperienza originaria quale quella di essere accolto, prima che di accogliere, di essere pensato prima che pensare. Senza l’esperienza dell’ospitalità non ci sarebbe umanità. La riflessione etica, filosofica e teo logica è chiamata a riflettere da questo fondamento antropologico. Ecco cinque tesi che intendono motivare la necessità di un pensiero teologico nuovo, ancora tutto da costruire, in chiave di teologia pubblica e urbana.
31 P. Sloterdijk, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2005, 170. 32 Ivi.
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2.1.1. Perché
abitiamo un mondo nuovo
Quello attuale è un mondo globale, interconnesso non solo culturalmente, ma anche religiosamente, in cui le conflittualità non sono più (solo) determinate da ideologie economiche-politiche, ma anche da identità reattive in cui le religioni hanno avuto e hanno ancora una parte significativa. Occorre una nuova e diversa autocomprensione della/e religione/i per aiutare e favorire la convivenza tra le persone (l’attuale autocomprensione delle religioni è spesso ostacolo alla convivenza). 2.1.2. Perché
viviamo un momento di svolta
È fondamentale superare le forme storiche del pensiero ereditate dal passato se vogliamo stare in tempi di pluralismo religioso. Nella storia le religioni hanno già modificato, cambiato, ripensato l’approccio a diversi temi/problemi (per esempio schiavitù, parità di genere, rapporto con la scienza…). In questo «cambiamento d’epoca» (molto più che epoca di cambiamenti, come sostenne papa Francesco a Firenze il 10 novembre 2015)33 appare indispensabile l’aprirsi a un nuovo pensiero, oltre il modo ereditato di pensare (anche teologicamente). Un credere ospitale è il futuro del dialogo interreligioso. 2.1.3. Perché
continuare a pensare così reca danno
Se abbiamo – forse – superato il pensiero esclusivista («in nome di Dio» e «per la sua maggior gloria»), non siamo ancora fuorusciti dal complesso di superiorità, dalla scarsa valorizzazione delle altre religioni, dalla chiusura nel proprio modo di pensare, dall’incapacità di dialogare interreligiosamente (modalità operative derivate da un pensiero inclusivista). Un credere ospitale, invece, non vuole privarsi della forza spirituale delle diverse tradizioni religiose e culturali: le ricchezze spirituali sono per tutti. 2.1.4. Perché c’è
un ’ urgenza civile ,
politica e umanitaria
Un nuovo principio per il dialogo interreligioso non può essere solo una preoccupazione intra-ecclesiale o un tema interno alle sole religioni. La ricerca di un nuovo modo di pensare (e di vivere) il dialogo interreligioso è un tema che ha carattere civile, politico e umanitario. Un contributo della teologia pubblica per la città a servizio della crescita spirituale (e culturale) dell’umanità. Un credere ospitale è una modalità pubblica e politica delle tradizioni religiose e culturali.
33 Discorso di papa Francesco al V Convegno ecclesiale nazionale su In Gesù Cristo il nuovo umanesimo (Firenze, Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015).
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2.1.5. Perché
la stranierità ci abita
Siamo pertanto chiamati a riflettere a fondo, come caso serio, sulla concreta esperienza di nuove relazioni fra religioni, che comporta apertura e rispetto vicendevoli, il rifiuto di forme di arroganza e d’intolleranza, un cammino di mutua vicinanza nella ricerca di Dio e nella testimonianza del messaggio rivelato. Se il mistero della stranierità rinvia a quello della diversità, esso ci spinge continuamente a metterci a nudo di fronte alla nostra personale identità.
3. Agire (teologicamente) Attualmente, bisogna riconoscere che sono tante le esperienze locali che si realizzano nelle istituzioni educative, nei circuiti del dialogo interreligioso, nelle parrocchie cattoliche così come nei luoghi di culto delle altre comunità di fede, insomma in quello che – anni fa – ci eravamo abituati a definire il territorio. Esse attestano che siamo in una stagione operosa in cui molti lavori sono in corso. Si tratta, senza dubbio, di un fatto positivo, che finalmente comincia ad allineare l’Italia ai Paesi con una più lunga e più solida esperienza multiculturale e multireligiosa. Tornando all’immagine proposta in apertura di riflessione, il problema è che, in assenza di una politica del pluralismo religioso riconosciuta e condivisa come primario tema democratico, questo cantiere lavora senza progetto, e privo di un chiaro obiettivo e di un trasparente e condiviso modello cui guardare. L’assenza di un progetto, inteso come quadro organico di riferimento nel quale operano sia le comunità di fede sia gli attori politici e sociali che con esse interagiscono, toglie visibilità e appeal all’obiettivo finale. L’osservatore esterno scorge i lavori in corso, ma non coglie il disegno d’insieme né la finalità di tanto trambusto, e non di rado se ne allontana perplesso e preoccupato. Vi sono Paesi nati pluralisti, nel senso che il loro patto nazionale ha avuto nell’affermazione e nella tutela del pluralismo religioso un tratto essenziale: gli Stati Uniti, la Svizzera, il Belgio, l’Olanda, la Germania, e così via. Altri Paesi sono diventati pluralisti in seguito a complesse e talvolta dolorose vicende che hanno comportato una modifica a volte anche formale del patto di cittadinanza: penso al Regno Unito che, ancor oggi caratterizzato da una solida religione di Stato, è nei fatti uno dei Paesi in cui diverse comunità di fede hanno maggiori visibilità e riconoscimento culturale e istituzionale. Discorso analogo si potrebbe fare per la Svezia, dove dal 2000 la Chiesa luterana non è più religione di Stato (definizione che le competeva sin dal 1593!), o per altre nazioni scandinave. L’Italia, invece, non ha ancora scelto come collocarsi: da una parte resistono le antiche suggestioni di un regime di cattolicità ormai fuori tempo massimo ed estraneo alla Costituzione repubblicana, mentre dall’altra fatica ad affermarsi l’idea che anche il nostro diventi un Paese come gli altri, in cui anche l’appartenenza religiosa (quando c’è) si possa decli-
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nare in forme diverse e articolate. Persino non convenzionali. Di fronte al pluralismo gli animi si dividono, e spesso s’infiammano. È plausibile immaginare che una parte della popolazione (in particolare i giovani) sia più o meno confusamente attratta dalle nuove fedi, più in termini culturali che religiosi o spirituali; che molti stiano abbandonando l’idea di una fede esclusiva, unica depositaria della verità o della salvezza, prefigurando che la ricerca spirituale si articoli in itinerari diversi, tutti legittimi, tendenti verso una sola direzione.34 Anche perché il distacco tra religioni organizzate e spiritualità individuali sta penetrando nel cuore di molti individui, quasi che la religione fosse emigrata nel mondo, spostandosi dalle chiese alla strada, dai riti liturgici alle pratiche secolari, dall’obbedienza ai vari magisteri alle scelte individuali. Una simile apertura culturale tende invece a ridursi drasticamente quando si è di fronte a fenomeni religiosi considerati dagli esiti imprevedibili, che manifestano una vitalità in grado di scompaginare gli equilibri prevalenti: sembra questo, ad esempio, il sentimento più comune nei confronti di un islam in continua crescita, fino a vivere la sindrome del fortino assediato, allorché il nuovo che avanza pare minacciare le proprie appartenenze di fondo e le conquiste acquisite. In sintesi, in maggioranza gli italiani – in linea appunto con quanto succede in altre nazioni europee misuratesi prima di noi con il pluralismo religioso – sarebbero favorevoli a un confronto con le nuove religioni: a condizione che non modifichi troppo i loro riferimenti di fondo e non produca eccessive tensioni sul territorio, resti confinato cioè più nella sfera privata che in quella pubblica. Il rischio che tale atteggiamento si risolva in una tolleranza benevolente quanto fragile di fronte alle tensioni e alle crisi sociali è evidentemente alto. Se costituisce indubbiamente un passo in avanti rispetto al pregiudizio, o peggio, allo scontro confessionale che anche l’Italia ha vissuto in passato, non garantisce affatto la soglia minima del pluralismo e della coesione democratica.
3.1. Ospitalità e diakonìa In realtà, a ben vedere, oggi il senso di Dio – inteso come percezione diffusa di una rilevanza vitale della sua presenza o assenza – si mantiene, con rare eccezioni, del tutto esterno alla scena culturale contemporanea, non solo italiana.35 Al contrario, ben più percepibile, vivace e socialmente preoccupante è la questione delle conseguenze del comportamento collettivo dei fedeli legati alle diverse religioni (del loro fan club, sorriderebbe Woody Allen). A dispetto di tanti tragici conflitti che le hanno viste in qualche misura protagoniste dirette o almeno ispiratrici indirette, in un passato lontano ma anche più di recente, le tradizioni religiose stentano a incontrarsi realmente, a trovare un linguaggio comune, a ospitarsi
34 Cf., ad esempio, L. Berzano, Spiritualità senza Dio?, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2014. 35 Cf. R. Mancini, La nonviolenza della fede, Queriniana, Brescia 2015, 5ss.
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reciprocamente: probabilmente, questo accade perché difettano di una speranza e una responsabilità corali. Infatti, con ogni evidenza, esse si mostrano quanto meno carenti di esperienze della forza generatrice di comunione universale di quel Dio che pure ogni giorno, più volte al giorno, pregano, sperano e proclamano al mondo. «La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes). Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo»:36 ecco la ben nota argomentazione proposta dal teologo francese Jean Daniélou alcuni decenni or sono. Un’affermazione impegnativa che interpella oggi in modo esigente la cosiddetta civiltà occidentale. In questi ultimi anni, in effetti, il tema dell’ospitalità è stato fatto oggetto di numerosi studi, che ne hanno posto in luce il carattere di autentico luogo d’incontro (ma anche di scontro) fra differenti saperi. Esso punta a chiarire le svariate implicazioni della coesistenza di persone di multiforme origine nelle odierne organizzazioni sociali complesse: questione urgente e ineludibile nel contesto di un tempo in cui l’arrivo in Europa, ma non solo e non principalmente in Europa, di un gran numero di migranti e rifugiati costringe a metterla in primo piano nelle agende della politica e della cronaca.37 Va detto, con doverosa parresìa, che – anche al riguardo – appare oggi necessario superare le forme storiche del pensiero ereditate dal passato, se intendiamo stare (e risultare credibili) in tempi di pluralismo religioso. Nel corso della loro storia, del resto, le religioni hanno già modificato, cambiato, ripensato il proprio approccio a non pochi temi/problemi (per esempio, la schiavitù, la parità di genere, il rapporto con la scienza, la libertà religiosa, e così via). In questo cambiamento d’epoca abbiamo dunque bisogno di un nuovo pensiero, dotato di immaginazione e fantasia38 e capace di andare oltre il modo ereditato di pensare: anche sul versante teologico. Un credere ospitale non è solo il futuro del dialogo interreligioso: è il suo oggi. Perché gli eventi occorsi dalla data fatidica dell’11 settembre 2001 hanno riscritto definitivamente non solo le argomentazioni della politica internazionale, ma anche lo spazio delle teologie, sia nel contesto accademico sia nella sfera pubblica del vivere insieme. Una teologia che guardi esclusivamente alla propria comunità religiosa, alle proprie necessità e – sia concesso – al proprio tornaconto si è trasformata in quel giorno in un relitto della storia, un ferrovecchio inservibile, e un
J. Daniélou, «Pour une théologie de l’hospitalité», in La vie spirituelle (1951)367, 340. Solide basi per un’autentica teologia dell’ospitalità sono reperibili in M. Dal Corso (a cura di), Teologia dell’ospitalità, Queriniana, Brescia 2019, mentre, sul tema dell’esclusione dei migranti in una società globale, rimando al contributo sociologico di A. Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 2004. Per quanto riguarda la complessa questione dell’immigrazione, un’analisi documentata è quella offerta da Allievi, Immigrazione. Cambiare tutto. 38 Cf., ad esempio, M. Van Treek, «Immaginazione e fantasia: il contributo della Bibbia e la Chiesa del futuro», in Concilium (2018)4, 88-99. 36 37
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autogoal insopportabile. Anche perché, alla scuola di Raimon Panikkar, nel frattempo abbiamo appreso quanto sia necessario riconoscere non tanto le sfide, bensì le interpellanze poste dal fenomeno della multireligiosità in atto: stiamo, cioè, abbandonando la classica arena del conflitto tra modernità e religione, in cui valevano le regole delle sfide tra contendenti, decidendo piuttosto di abitare l’agorà di tutti, in cui le interpellanze di uno dovrebbero interessare anche l’altro, e chiamare alle responsabilità tutti.39 Diakonìa è il termine che nel Nuovo Testamento indica il servizio fraterno e ospitale che i credenti in Cristo erano spinti a praticare verso i più poveri e bisognosi. È un campo che, attualmente, il dialogo tra le grandi comunità di fede non sta ancora arando appieno, eppure il terreno è fertile e, con un po’ di lavoro e di fiducia reciproca, è plausibile immaginare di poterne ricavare frutti abbondanti. Qualche seme gettato qui e là ha già dato i primi esiti: pensiamo, ad esempio, all’azione ecumenica a sostegno degli immigrati, a partire dai corridoi umanitari voluti dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione della Chiese evangeliche in Italia e dalla Tavola valdese; alle iniziative interreligiose di preghiera in cui ogni anno si ricordano i profughi morti nel Mediterraneo, il 3 ottobre, la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza;40 alla disponibilità con cui tante persone di diverse fedi si impegnano in scuole di alfabetizzazione o centri di accoglienza per migranti. Manca però, a tutt’oggi, un quadro teologico in cui collocare simili esperienze che, se scollegate, sono condannate a smarrire parecchia della loro potenziale efficacia. Non si tratta di rinunciare agli altri segmenti del dialogo, ciascuno dei quali ha un suo senso e una sua funzione, dal dialogo della vita a quello della spiritualità: ma, qoheleticamente, ogni cosa ha il suo tempo, e questo è in primo luogo il tempo del servizio ai migranti globali, uomini e donne che bussano alle nostre porte. Anche a quelle delle nostre chiese, delle moschee, delle sinagoghe, e di ogni altra casa di Dio.
3.2. Per una teologia pubblica nelle
città
Allargando ulteriormente il campo di visuale, e guardandoci attorno con attenzione, la sensazione è che non si dia, attualmente, una teologia pubblica all’altezza della situazione e dei tempi. Soprattutto se, con l’idea di teologia pubblica, si intenda esprimere più una metodologia che dei contenuti specifici, nel «desiderio di poter rivolgere la riflessione teologica sulla vita socio-politica alla società plurale nel suo insieme senza limitarsi ai membri della comunità cristiana».41 Su tale assenza, sull’urgenza
39 R. Panikkar, L’incontro indispensabile: il dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001. In tale direzione, fra l’altro, si muove dichiaratamente l’enciclica di papa Francesco del 2015 Laudato si’. 40 Cf. www.comitatotreottobre.it 41 G. Villagrán, Teologia pubblica, Queriniana, Brescia 2018, 6.
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che se ne pongano le basi su fondamenta solide quanto inedite, occorre interrogarsi; nonché sul bisogno di più coraggio, sulla necessità di una veduta lunga, nell’orizzonte di una strategia realmente ospitale, intesa come prospettiva tanto cruciale quanto non più rinviabile. Tenendo conto che una qualsiasi teologia pubblica, oggi, non può che essere interculturale e interreligiosa.42 La teologia interculturale è «quella disciplina scientifica che opera nella cornice di una determinata cultura senza assolutizzarla» (W.J. Hollenweger). Il che non significa rinunciare alla dimensione universale della fede cristiana; piuttosto si reclama un’apertura verso tutti e si cerca la comunicazione con tutti. D’altra parte, la teologia interculturale è più un metodo che una disciplina teologica autonoma: con tale metodo è possibile lavorare in tutte le discipline teologiche. Fare della teologia in modo interculturale significa da un lato pensare ciò che altre esperienze evangeliche, dunque di cristiani e comunità culturalmente determinate in modo diverso, ci danno da pensare. E d’altro canto significa tenere sempre presente nel nostro lavoro teologico ciò che le nostre esperienza evangeliche danno da pensare a cristiani e comunità determinate in altro modo culturale (H. Kessler – H.P. Siller).
Abbiamo bisogno di una teologia che non si ritiri nel guscio della sua teologia locale, e non esalti le proprie convinzioni come universalmente valide, ma sia sempre una teologia in cammino, tra teologie orali e scritte, nere e bianche, tra cristiani maschi e cristiane femmine. Di una teologia che si senta chiamata a fare i conti con il conflitto, con i conflitti, con la violenza messa in atto nei confronti di popoli e culture extraeuropee: non può ignorare il conflitto Nord/Sud, quello razziale, quello sessuale… altrimenti non riuscirà a entrare in comunicazione con cristiani di altre culture. È indispensabile la riflessione su dove anche noi ci troviamo immersi in tale conflitto e sul ruolo che vi svolgiamo (es. violenza messa in atto verso popoli e culture extraeuropee). Di una teologia che va alla ricerca del «corpo di Cristo» (Hollenweger), in cui ogni organismo resta fedele alla propria funzione e al proprio fine, ma contribuisce al contempo alla funzione di tutto il corpo senza, nel farlo, presupporre di essere il membro più importante, più teologico o più scientifico. Fare teologia in maniera interculturale non è semplice né indolore, bensì un processo che conduce a crisi e a conflitti di identità: siamo messi in discussione e convocati a convertirci, per questo è indispensabile una revisione della propria storia, per poter fare della teologia interculturale… La validità universale del proprio pensiero rivendicata per secoli dalla teologia e dalle chiese europee non si è solo lasciata alle spalle profonde ferite negli altri, ma ha anche fatto sì che questi altri si vedessero costretti
42 Cf. ad esempio G. Collet, «… Fino agli estremi confini della terra», Queriniana, Brescia 2004, in cui compaiono molti ottimi spunti al riguardo.
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a prendere chiaramente le distanze da noi e a sviluppare teologie e modelli di Chiesa rilevanti per loro. Seconda condizione fondamentale, l’osservanza di una regola ecumenica centrale: dobbiamo imparare a vedere il mondo e noi stessi con gli occhi degli altri, soprattutto con gli occhi di coloro che il vangelo chiama, a differenza dei sapienti e degli intelligenti, «i piccoli» (Mt 11,25). Non si tratta di un semplice cambiamento di prospettive, ma di una conversione concreta, perché nello scambio interculturale ciò che non è comprovato dal proprio modo di agire non viene accettato… Abbiamo bisogno, dunque, di una teologia interculturale interpretata come una matura grammatica del dialogo. Quella, cioè, che sa distinguere tra verità e consuetudine, che ha imparato che per liberare la fede si tratta spesso di togliere più che di aggiungere. Una grammatica del dialogo, poi, che non per questo dimentica di praticare la profezia e di abitare il tempo, che interpreta la riforma come stile e metodo quotidiano, quello che cerca sempre l’impossibile praticabile. Una teologia interculturale che impegna le chiese all’immaginazione: non tanto verso qualcosa che semplicemente non esiste, ma verso qualcosa che ancora non esiste. Essa ricorda, infine, alle comunità cristiane di abitare il paradosso: quello di rimanere nella novità. Detto in termini interculturali: l’identità non autocentrata, non identitaria, ma realmente ecclesiale e cristiana. Messa, cioè, sempre sotto «lo sguardo dell’altro».
3.3. Iniziare
processi
Nel quarto capitolo dell’esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium (24 novembre 2013), in cui si riflette sulla «dimensione sociale dell’evangelizzazione», nel terzo paragrafo sono presentati quattro principi che – ispirati ai classici postulati della dottrina sociale della Chiesa – dovrebbero orientare specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune. Un progetto al servizio della pace, della giustizia e della fraternità/sororità: 1) il tempo è superiore allo spazio; 2) l’unità prevale sul conflitto; 3) la realtà è più importante dell’idea; 4) il tutto è superiore alla parte. Secondo Cristoph Theobald sarebbe soprattutto il primo principio, il tempo è superiore allo spazio, a rivestire una particolare rilevanza per la teologia.43 Vale la pena di riprenderne la descrizione dall’esortazione papale: Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità
C. Theobald, Fraternità, Qiqajon, Magnano (BI) 2016, 87-91.
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Brunetto Salvarani al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci (n. 223: EV 29/2329).
Se concretamente tale principio invita, nella tensione fra pienezza e limite, a dare priorità al tempo, esso non solo prospetta una determinata modalità di governo ecclesiastico e politico, ma può essere letto anche come potenziale principio di una teologia in stile nuovo.44 Si tratta di una teologia storica, biblica, pratica e sistematica per la quale, in fondo, a livello pedagogico e intellettuale, la prima istanza è soltanto di iniziare processi – processi di fede, di parole e di pensiero – negli ambiti della società e della terra con i quali entriamo in contatto, in varie modalità (penso, per fare solo un esempio, al processo di ricomposizione del tessuto cristiano messo in opera dall’esperienza del dialogo ecumenico, che il papa è solito riassumere nella formula camminare insieme). Tali condizioni per una teologia viva vengono così brillantemente riassunte da Theobald: occorre attivare il potenziale critico-contemplativo della teologia. Nell’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015), del resto, Bergoglio descrive la spiritualità cristiana come «uno stile di vita profetico e contemplativo» (n. 222: EV 31/802); una prospettiva che già dovrebbe caratterizzare l’attuale teologia cristiana: una teologia critica e contemplativa. Critica: perché la crisi come atto spirituale-pneumatico, radicata nella tradizione profetica e nell’evento della croce, ci abilita non solo a oltrepassare le nostre rappresentazioni di fede sempre particolari in direzione della totalità inesauribile e dell’abisso divino (come la mistica ha sempre fatto),45 ma soprattutto a prestare ascolto, fraternamente, all’altro che viene da Dio e a lasciare così che il nostro pensiero limitato sia interrotto. Contemplativa: perché la crisi non può e non dovrebbe avere l’ultima parola, ma viene già sempre sorretta da uno sguardo positivo e di speranza sulla vita come totalità e sulle relazioni che la strutturano – verso noi stessi e verso l’altro, verso la terra e verso Dio – anticipando messianicamente una «fraternità universale» (n. 228: EV 31/808) resa di nuovo possibile ogni volta e giorno dopo giorno… perché, come canta suggestivamente il cantautore canadese Leonard Cohen in Anthem, «There is a crack in everything / that’s how the light gets in».46
E, fra l’altro, spiega evidentemente il modo costante di procedere del papa argentino. Cf. M. Dal Corso – B. Salvarani, Molte volte e in diversi modi. Manuale di dialogo interreligioso, Cittadella, Assisi ²2018, 131-157. 46 «C’è una crepa in ogni cosa / ma è da lì che entra la luce» (dall’album The future, 1992). 44 45
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3.4. Una
nuova
Pentecoste
teologica
Nella tradizione rabbinica si legge: È un disonore per un uomo comune servirsi di un vaso rotto. Ma per il Santo – sia benedetto – non è così. Al contrario, egli si serve soltanto di vasi rotti: «il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato» (Sal 34,19); «egli guarisce i cuori spezzati» (Sal 147,3); «Dio non disprezza un cuore spezzato e abbattuto» (Sal 51,20).47
Mentre nella cultura popolare giapponese, quando si ripara un oggetto rotto, di regola si sceglie di valorizzare la crepa prodottasi riempiendo la spaccatura con l’oro, nella convinzione che, se qualcosa ha subito una ferita e ha una storia non priva di oltraggi, si fa esteticamente più bello. Il kintsugi, termine con cui viene chiamata tale tecnica, in effetti, insospettabilmente, ha molto a che fare con le vicende ecclesiali odierne. Con una Chiesa ferita e perciò baciata dalla suprema bellezza. Con una teologia auspicabilmente inquieta, conscia di essere incompleta e capace di immaginazione: queste le tre parole chiave consegnate, significativamente, da papa Francesco alla redazione de La Civiltà cattolica il 9 febbraio 2017, in vista di un servizio in grado di «possedere lo sguardo di Cristo sul mondo, di trasmetterlo e testimoniarlo». Perché la sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne. Il pensiero rigido non è divino, perché Gesù ha assunto la nostra carne che non è rigida se non nel momento della morte.48
Sulla stessa falsariga si è posto il discorso tenuto sempre dal papa a Napoli il 21 giugno 2019, dedicato alla teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo.49 Dove non l’ha rivendicato come mare nostrum, celebrandolo piuttosto come spazio meticcio, multiculturale e plurireligioso, e grande tenda di pace. Per questo – a suo parere – il patrimonio della fede non dovrebbe giacere immobile nei manuali, come nel tempo della teologia e della scolastica decadente, quando studiava lui, e si diceva, scherzando ma non troppo, che ogni tesi teologica si provava con un sillogismo dal termine medio costante: il cattolicesimo ha sempre ragione. La fede, al contrario, cresce nel dialogo, con le persone, la tradizione e i testi sacri, leggendo nella realtà, nel creato e nella storia i rimandi teologali al mistero del cammino di Gesù che lo porta alla croce, alla risurrezione e al dono dello Spirito. Bisogna poi includere nel dialogo
47 A. Mello (a cura di), Ritorna, Israele! La conversione nella interpretazione rabbinica, Città Nuova, Roma 1985, 104. 48 Francesco, Discorso alla comunità de «La Civiltà cattolica», Roma, 9 febbraio 2017. 49 Francesco, Discorso in occasione del Convegno «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo», promosso dalla Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale – Sezione San Luigi, Napoli, 21 giugno 2019.
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l’evangelizzazione, testimonianza e non solo parole, accoglienza e non proselitismo, che è la peste, come peste è la sindrome di Babele, il non ascoltarsi l’un l’altro. Infine, secondo il pontefice, l’autentica teologia non può che essere interdisciplinare e compassionevole, disposta a discernere nel patrimonio ricevuto quanto è stato veicolo della misericordia di Dio e quanto invece è stato infedele, in solidarietà con tutti i naufraghi della storia, da Giona fino a oggi. Tale teologia favorirà una nuova Pentecoste teologica nella libertà del pensiero, per sperimentare vie inedite: in funzione di quella che il vescovo don Tonino Bello amava chiamare convivialità delle differenze. Nel Mediterraneo e oltre.
4. Finale. Fratellanza
e convivenza
È un dato di fatto che, dopo anni oggettivamente difficili, la parola dialogo stia riprendendo a comparire con frequenza nel linguaggio ecclesiale. Ed è lo stesso papa Francesco ad aver fornito un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e discorsi che fanno presagire l’avvio di una nuova stagione. Si vedano, ad esempio, le sue riflessioni proposte in occasione dei cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), la struttura accademica che nei decenni ha formato centinaia di presbiteri, laici e missionari preparati al confronto con il mondo islamico, il 24 gennaio 2015.50 Esso «esige pazienza e umiltà – disse – che accompagnano uno studio approfondito, poiché l’approssimazione e l’improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo». Fino a ricorrere a un’immagine eloquente: «Al principio del dialogo c’è l’incontro e ci si avvicina all’altro in punta di piedi senza alzare la polvere che annebbia la vista». Quattro anni più tardi, il 4 e il 5 febbraio 2019, quelle considerazioni sull’urgenza di una riveduta fenomenologia del dialogo hanno trovato una traduzione concreta nel contesto inatteso degli Emirati Arabi Uniti, ad Abu Dhabi. Dove il pontefice argentino e Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di al-Azhar – principale centro culturale sunnita al mondo, sito al Cairo – hanno firmato insieme un Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune,51 nel quale si dichiara di adottare la cultura del dialogo come via del rapporto fra le religioni; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio. Nel cuore del testo, che sta già producendo frutti importanti, risiede, accanto all’idea della fratellanza umana, il concetto di cittadinanza: fino a proporsi – si direbbe – come un autentico documento
50 Papa Francesco, Il dialogo come stile, a cura di B. Salvarani, EDB, Bologna 2016, 174-176. 51 Francesco – Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Paoline, Milano 2019.
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di teologia pubblica. A tal fine, i due firmatari esortano a operare in funzione di un’eguaglianza dei diritti e dei doveri per tutti; oltre che di una rinuncia all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità e prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini, discriminandoli. Sul significato profondo di quelle pagine si è espresso il papa, quando, durante il viaggio di ritorno da Abu Dhabi, ha risposto alle domande dei giornalisti, rivelando quella che ne dovrebbe essere l’ermeneutica autentica: l’incontro e il testo, per molti versi storici, si pongono sull’onda lunga del concilio, a mezzo secolo dalla sua celebrazione. Ed è per questo che, comprensibilmente, quanti si pongono, nella Chiesa, più o meno dichiaratamente all’opposizione del Vaticano II, hanno subito gridato allo scandalo e al tradimento. Chi ha introiettato, almeno a partire dall’11 settembre 2001, lo schema mentale dello scontro di civiltà, non può che trovarsi spiazzato, a fronte delle immagini, degli abbracci e delle parole di Abu Dhabi, che quello schema hanno definitivamente reso obsoleto. Fino a superare persino la stessa metodologia del dialogo, per adottare quella, ben più impegnativa, della fraternità, termine strategico nell’esperienza dello stesso Francesco d’Assisi che per primo decise di appellare i compagni fratres: «Il punto di partenza», ha detto il papa al Founder’s Memorial, è riconoscere che Dio è all’origine dell’unica famiglia umana. Egli, che è il Creatore di tutto e di tutti, vuole che viviamo da fratelli e sorelle, abitando la casa comune del creato che Egli ci ha donato. Si fonda qui, alle radici della nostra comune umanità, la fratellanza, quale vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio.
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Cristiani e società urbana nel Nuovo Testamento Tra appartenenza e fuga Enrico Casadei Garofani*
1. L’ambiente urbano nel I secolo d .C. Il ministero di Gesù non si è svolto prevalentemente in ambiente urbano: piuttosto, il suo ambito d’azione è stato quello di piccoli centri, villaggi dove si incrociavano vite di agricoltori, pescatori, pastori. L’invito del Risorto a predicare il vangelo in tutto il mondo consegna, invece, agli apostoli un orizzonte ben più ampio, e se, da una parte, esclude la possibilità di ritirarsi in un circolo settario (un’altra Qumran), dall’altra non esplicita alcuna strategia sulle vie da seguire e sui luoghi da raggiungere per diffondere la buona novella. A differenza di quanto accaduto con Gesù, la prima predicazione cristiana si è prevalentemente rivolta agli abitanti delle città. Uno sguardo d’insieme1 all’ambiente urbano del I secolo d.C. può chiarire le motivazioni di questa scelta e mettere in luce, accanto ai vantaggi, anche le sfide e le difficoltà che essa comportava. Nel I secolo d.C. la popolazione urbana del mondo mediterraneo è solo il 10-20% del totale: una percentuale decisamente minoritaria, an-
* Docente incaricato annuale di Sacra Scrittura – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected] 1 Cf. H.O. Maier, «The City and Its Residents», in Id., New Testament Christianity in the Roman World, Oxford University Press, New York 2019, 95-133; D. Álvarez Cineira, «Il contesto politico e socio-culturale alle origini del cristianesimo», in R. Penna (a cura di), Le origini del cristianesimo. Una guida, Carocci, Roma 32018, 87-120.
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Enrico Casadei Garofani
che se, almeno in certe aree, come ad esempio in Grecia, il dominio romano con il suo sistema economico e tributario aveva favorito fenomeni di urbanizzazione.2 In questo periodo, nell’impero si contano soltanto cinque grandi città, che per l’epoca potevano essere considerate megalopoli: Roma (tra cinquecentomila e un milione di abitanti), Alessandria (cinquecentomila) Antiochia di Siria (centocinquantamila), Cartagine ed Efeso (entrambe tra duecentocinquantamila e centomila). Normalmente, però, i centri urbani sono di piccole dimensioni: tra i cinquemila e i diecimila abitanti. Eccezioni possono essere Tessalonica, con i suoi trentamila abitanti, e Gerusalemme con i suoi ventimila. Quanto al loro status legale, le città possono fregiarsi del titolo di colonie romane, oppure possono essere città libere, i cui affari interni sono amministrati dai cittadini, o, ancora, essere soggette a un più stretto controllo da parte dell’autorità romana. Con la pace e con il controllo dei mari seguiti alla conquista dell’intero Mediterraneo, e con la costruzione di strade di grande comunicazione, i romani avevano favorito i commerci e lo sviluppo di una società globalizzata. In questo contesto, preindustriale, le città fungono da centri per il governo politico, per l’amministrazione della giustizia, per scopi di rappresentanza, per la raccolta delle tasse e per la raccolta e la spedizione all’ingrosso di derrate e merci varie. Se, da un lato, la tassazione imposta dai romani è gravosa, dall’altro si cerca in parte di ovviare attraverso il sistema delle liturgie affidate ai ricchi: allestimenti di giochi, feste e spettacoli, e costruzione di edifici di utilità pubblica; in seguito a queste forme di redistribuzione della ricchezza i benefattori vengono in vario modo ringraziati e onorati, e la pace sociale preservata. L’onore che si può acquistare presso i concittadini, dunque, è considerato tanto importante, in questa società, da motivare esborsi anche molto consistenti. Grande importanza e diffusione hanno anche le associazioni: non solo le corporazioni di mercanti o di artigiani, ma tante altre associazioni diverse per natura, per scopo, per estrazione – anche varia – degli appartenenti. Alle attività di questi gruppi sono spesso connesse occasioni di culto, eventi di vario genere, banchetti. Tratti peculiari dell’ambiente urbano di quest’epoca sono ancora l’elevata densità della popolazione, che si affolla su aree cittadine molto ristrette, un sistema abitativo in cui poveri, clienti e schiavi vivono a stretto contatto con i ricchi,3 e situazioni anche molto gravi e piuttosto diffuse di povertà.
Due problemi possiamo evidenziare a questo proposito. Il primo riguarda la tassazione in denaro, oltre che in natura: molto pesante per piccoli proprietari che vivevano di un’agricoltura per lo più di sussistenza; il secondo riguarda le mire di latifondisti, pronti a impossessarsi dei piccoli poderi, non appena i loro proprietari cadessero in difficoltà economica, a motivo di carestie o debiti. In queste condizioni, c’era chi fuggiva dalla campagna per cercare di sopravvivere in città, per esempio dedicandosi all’artigianato. 3 Si pensi alle insulae, dove al secondo piano si trovavano appartamenti spaziosi per i ricchi, mentre ai piani più alti erano riservati dei monolocali, bilocali o comunque spazi ridotti per i poveri. 2
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Per l’attività evangelizzatrice le città presentano innegabili vantaggi rispetto alle zone rurali. Innanzitutto si trovano lungo le strade di grande comunicazione: ciò significa che è facile raggiungerle e, in caso di ostilità o persecuzione, è altrettanto facile allontanarsene. Inoltre è proprio nelle città che si concentrano le comunità giudaiche della diaspora, considerate inizialmente come naturali destinatarie dell’annuncio del Messia crocifisso e risorto. Più della campagna, le città presentano il problema della povertà. Questa può essere stata una delle ragioni del successo della missione cristiana: l’amore fraterno, l’attenzione ai poveri della comunità, il superamento degli steccati sociali rispondevano infatti a bisogni reali della società di quel tempo. D’altra parte, vivere come cristiani in un contesto pagano non era semplice: chiedeva di estraniarsi da tutta una serie di situazioni, come le feste delle varie divinità pagane, e di rinunciare anche all’appartenenza a corporazioni o associazioni che prevedessero, in un modo o nell’altro, legami con il culto degli dèi o il culto imperiale. Diventare cristiani chiedeva pertanto un cambiamento di vita evidente, provocava la rottura di certe relazioni, suscitava sospetto e diffidenza verso questi nuovi «diversi». Una diversità resa tanto più evidente dal modo di vivere a stretto contatto e, per di più, all’interno di centri urbani che normalmente contavano solo poche migliaia di abitanti. Varie comunità hanno dovuto affrontare il problema del mutato rapporto con il loro ambiente di vita: un rapporto non semplice, e non uniforme. Talora si trattava soltanto di una diffidenza superabile, talaltra invece di ostilità dichiarata e di vera persecuzione. Le risposte sono state diverse a seconda dei casi: ci sono stati tentativi di appartenenza, ma anche inviti a prendere le distanze ed estraniarsi da quella che poteva diventare complicità con un sistema socio-economico chiuso e ostile al vangelo. Per parte nostra, cercheremo di esaminare queste diverse risposte tenendo per lo più come punto di osservazione privilegiata il rapporto tra cristiani e autorità pubbliche, perché nel modo di intendere questo rapporto si rivela anche, più o meno direttamente, la particolare comprensione di sé e del proprio ruolo all’interno della società. Inoltre, è sempre in questo rapporto che vengono al pettine i nodi di situazioni di tensione e di conflittualità che possono esplodere, o almeno emergere, nel complesso contesto urbano.
2. Fil 3. Una cittadinanza (πολίτευμα) nei cieli Partiamo da un passo del c. 3 della Lettera ai Filippesi. Il contesto, come spesso accade in Paolo, è polemico. L’Apostolo ha stigmatizzato un gruppo di avversari, definiti «nemici della croce di Cristo», rivolti «alle cose della terra», destinati «alla perdizione» (vv. 18-19). Di contro a questi anti-modelli, i filippesi sono stati invitati a imitare Paolo (v.17). Poi ai vv. 20-21, che ci interessano in particolare, lo sguardo si alza dalla terra
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al cielo, e un destino di salvezza e di gloria fa da contrasto al destino di perdizione riservato agli avversari. La nostra cittadinanza (poli,teuma) infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, 21il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. 3,20
Qui Paolo utilizza un termine che non ricorre altrove in tutto il NT: p oli,teuma. Può avere vari significati: diritto di cittadinanza; comunità dei cittadini; governo; metropoli o capitale (in cui sono conservati i registri con i nominativi di coloro che godono della cittadinanza). Possiamo valutare il giusto significato da attribuire a poli,teuma, se teniamo presente, insieme al contesto della lettera, anche lo status particolare – e invidiabile – della città di Filippi.4 Essa è una colonia romana, e, per questo motivo, i suoi cittadini godono dello ius Italicum, cioè degli stessi diritti di cui godono gli abitanti dell’Italia. Non è difficile immaginare quanto i filippesi andassero fieri di questa loro cittadinanza «terrena» e dei privilegi che essa garantiva loro. Paolo, invece, invita i suoi destinatari a considerare primario un altro legame di appartenenza: il poli,teuma nei cieli. Inoltre, se si tiene presente che a Filippi sembra prevalesse, sugli altri culti pagani, quello dell’imperatore (che vantava il titolo di swth,r, «salvatore»), non appare affatto casuale il riferimento al ritorno di Cristo, qualificato appunto come swth,r. Già ora l’identità dei filippesi è determinata dall’appartenenza al poli,teuma celeste ma, nel contempo, è in divenire verso la pienezza dell’eschaton. Paolo fa appello ai suoi destinatari perché abbiano una corretta e chiara consapevolezza dei legami che caratterizzano la loro nuova identità. Appello in qualche modo preparato, nella stessa lettera, dall’impiego del verbo politeu,omai, etimologicamente legato a poli,teuma, che ha il senso di «vivere, comportarsi da cittadino» o, più semplicemente, di «comportarsi». Aveva scritto, infatti, Paolo in 1,27: «Comportatevi (politeu,esqe) in modo degno del vangelo di Cristo». Avrebbe potuto dire peripatei/te, che è il verbo consueto per indicare la condotta di vita, tuttavia sceglie politeu,esqe, verbo assai più raro (due occorrenze appena nel NT) che fa riferimento ai diritti e ai doveri legati alla propria cittadinanza. L’Apostolo richiama così la dimensione comunitaria e testimoniale dell’etica.5 Essa è confermata poi più avanti, nel c. 4, l’ultimo della lettera:
4 Per una buona panoramica storica sulla situazione politico-amministrativa, sociale e religiosa di Filippi nel I secolo d.C. cf. A. Pitta, Lettera ai Filippesi, Paoline, Milano 2010, 21-28. 5 R. Fabris, «Comportatevi da cittadini degni del Vangelo (Fil 1,27)», in Parola Spirito Vita 50(2004), 143: «Con la scelta del verbo politeúesthai al posto del più consueto peripateîn, “comportarsi”, Paolo intende rimarcare l’aspetto pubblico e comunitario dell’impegno dei filippesi sul modello dei cittadini che hanno diritti e doveri nei confronti della pólis e si conformano allo statuto della loro “madrepatria”, tò políteuma (Fil 3,20)».
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Cristiani e società urbana nel Nuovo Testamento La vostra amabilità sia nota a tutti. […] 8In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. 4,5
I cristiani di Filippi sono quindi chiamati a un comportamento che sia contemporaneamente assunzione dei valori condivisi e testimonianza evangelica pubblica davanti a tutta la po,lij terrena, senza mai perdere di vista che ciò che hanno di più vero, di più profondamente identitario, non è l’appartenenza alla po,lij terrena, ma il poli,teuma celeste. Va da sé quanto questa polarità sia instabile, scomoda ed esigente; d’altra parte ciò che ha a che fare con la testimonianza non è mai privo di rischi. Scrive con ragione A. Pitta: La fede nel Messia crocifisso non implica un comportamento antistatale che assuma i tratti dell’anarchismo. […] Nonostante le avversità economiche e morali, i credenti in Cristo sono esortati ad assumere i valori più positivi dell’etica condivisa nella città, altrimenti rischiano di proporre un’etica alternativa che, presentandosi come tale, li delegittima dal loro impegno civile sino a minacciare la loro sopravvivenza. […] Ed è in questo paradosso tra attestazione contro i nemici della croce di Cristo e affabilità nota a tutti gli uomini che si decide la loro sopravvivenza e la loro testimonianza per il vangelo di Cristo.6
3. Rm 12–13. In pace con
tutti , sottomessi alle autorità costituite
In 1Cor 6,1-11 Paolo aveva rimproverato aspramente i cristiani di Corinto perché alcuni, in lite fra loro, avevano fatto ricorso ai tribunali dei pagani, anziché dirimere le proprie questioni all’interno della comunità. Le ragioni del rimprovero non stavano tanto in un argomento di opportunità (oggi interpretato dal detto: «i panni sporchi si lavano in casa»), quanto piuttosto in un argomento di ordine teologico. Paolo, infatti, evidenziava da un lato il diverso statuto dei cristiani («santi», v. 1) rispetto ai pagani («ingiusti», v. 1), e dall’altro il futuro ruolo attivo dei primi nel giudizio escatologico («non sapete che i santi giudicheranno il mondo?», v. 2a); a maggior ragione, dunque, i cristiani avrebbero dovuto rivelarsi in grado di giudicare questioni di minor conto (v. 2b). Benché qui Paolo si concentri più sulla inadeguatezza mostrata dai cristiani, che sull’effettiva legittimità e qualità dell’amministrazione pubblica della giustizia, l’idea che si ricava è quella di una doverosa distanza da mantenere tra comunità cristiana da una parte e autorità giudiziarie dall’altra.
6 A. Pitta, «Quale ecclesiologia e quale teologia politica nella Lettera ai Filippesi?», in A. Pitta – G. Di Palma (a cura di), «La parola di Dio non è incatenata» (2Tm 2,9), EDB, Bologna 2012, 334.
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Può perciò risultare sorprendente che lo stesso Apostolo, qualche anno più tardi, in Rm 13,1-7 inviti invece in maniera esplicita i destinatari della lettera a sottomettersi alle autorità: 13,1 Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. 2Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna. 3I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male. 5Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. 6Per questo infatti voi pagate anche le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio. 7Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto.
Peraltro, questo è l’unico brano tra le lettere autentiche a esprimersi in modo positivo riguardo alle autorità e alla sottomissione ad esse. Per comprenderlo appieno, è necessario fare riferimento al contesto nel quale esso è collocato. Ci troviamo all’interno della sezione parenetica7 che inizia al capitolo precedente: nella propositio, Paolo ha invitato i destinatari a offrire se stessi come sacrificio gradito a Dio, a non conformarsi alla mentalità di questo mondo, e a cercare la volontà di Dio (Rm 12,1-2). Dopodiché la parenesi si sofferma sul comportamento dei cristiani sia ad intra della comunità, sia ad extra, e dunque anche verso le autorità. A noi interessa soprattutto la sottosezione 12,9–13,10, inquadrata, all’inizio e alla fine, dall’appello reiterato a vivere l’avga,ph. Si susseguono, nell’ordine, l’invito ad amarsi reciprocamente in comunità (12,9-13), l’invito – tra l’altro – a benedire i persecutori (vv. 14-16), l’invito a evitare il male, fare il bene e a essere in pace con tutti (vv. 17-21): fin qui la progressione è evidente. A questo punto, l’invito a sottomettersi alle autorità (13,1-7) porta avanti, esplicitamente, il motivo del fare il bene / evitare il male, e, implicitamente, dell’essere in pace con tutti: è dunque un brano ben integrato nel suo contesto. L’ultimo invito della sottosezione, sul l’amore del prossimo (vv. 8-10), è ricapitolativo di quanto precede. Ora, chi sono queste autorità, chiamate evxousi,ai, a cui i cristiani di Roma devono sottomettersi? Certamente non autorità o potenze celesti: il contesto lo esclude. Il discorso è piuttosto generico; la risposta più ragionevole è che si tratti di autorità giudiziarie e amministrative, alle quali i destinatari erano soggetti. E quali sono gli argomenti che Paolo adduce per motivare la sottomissione? Il primo è un topos largamente diffuso nel mondo antico: l’autorità proviene da Dio (13,1-2). Il secondo riguarda il compito che ha l’autorità: garantire la giustizia, punendo chi fa il male e
7 Cf. R. Penna, «La dimensione politica dell’ethos cristiano secondo Rm 13,1-7 nel suo contesto», in Ricerche Storico-Bibliche 18(2006), 195-199.
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premiando chi fa il bene; in questo senso, le autorità sono a servizio di Dio (vv. 3-4). Si noti che qui il discorso è certamente de iure, non necessariamente de facto: Paolo sta soltanto dicendo qual è lo scopo dell’autorità, non che essa, nelle sue singole decisioni, agisca immancabilmente in maniera corretta e secondo la volontà di Dio. Sulla base di questo secondo argomento, la sottomissione potrebbe essere motivata solo dal timore di eventuali sanzioni per le trasgressioni, o dal desiderio di ricevere un riconoscimento pubblico per la propria buona condotta. Certo questo è un aspetto importante nella cultura antica, e vi abbiamo già fatto cenno sopra: l’onore che si può ricevere (anche) da parte dell’autorità e presso l’autorità motiva tutta una serie di comportamenti, di iniziative, di pubbliche beneficenze: farsi onore presso la propria cerchia e presso la società era avvertito come particolarmente importante. E ciò deve valere anche per i cristiani: anch’essi devono farsi onore nel proprio contesto sociale. Del resto, Paolo già in 1Ts 4,11-12 aveva chiesto ai suoi destinatari di «condurre una vita decorosa» (peripath/te euvschmo,nwj) di fronte agli estranei. Tuttavia, nel suo ragionamento, l’Apostolo va oltre anche al tema del pubblico onore, e, nel terzo argomento che fornisce, chiama in causa addirittura la coscienza: stare sottomessi all’autorità, per esempio pagando le tasse, significa per il cristiano riconoscere che essa, col suo compito di garantire l’ordine, è al servizio di Dio. Qui – occorre ribadirlo – non siamo di fronte a una legittimazione acritica del potere, ma semplicemente a un appello rivolto ai cristiani su come rapportarsi con l’autorità. È bene infatti notare, con Aletti, che ai romani Paolo non sta chiedendo lealtà alle autorità, e nemmeno obbedienza (nel senso alto di un’adesione totale della volontà), ma soltanto sottomissione.8 Da un lato questa è motivata con un riferimento all’ordine dato da Dio alla realtà, dall’altro essa mostra che i cristiani, anche nel rapportarsi con le autorità, devono cercare la pace, così come erano già stati esortati, più in generale, a cercarla nel rapporto con tutti (Rm 12,18). E, ovviamente, devono compiere il bene, secondo quanto è richiesto a chiunque: ne avranno anch’essi lode. Non si pensi, però, che sottomissione possa significare una qualsivoglia forma di cedimento nella fedeltà a Dio; come abbiamo notato, infatti, Paolo lo aveva già escluso più sopra, nella propositio di 12,2: «Non conformatevi a questo mondo».
J.-N. Aletti, «La soumission des chrétiens aux autorités en Rm 13,1-7. Validité des arguments pauliniens?», in Biblica 89(2008), 459-460: «Il est vrai que l’apôtre n’exhorte pas à la loyauté, mais pas davantage à l’obéissance, seulement à une soumission en conscience, de bon gré. Chez Paul, en effet, la soumission, même volontaire, n’équivaut pas à l’obéissance; elle consiste à reconnaître et respecter un ou des statuts supérieurs, elle est l’attitude de l’inférieur, alors que l’obéissance décrit une adhésion totale de la volonté, sans s’abord considérer les statuts (celui de l’inférieur et celui du supérieur). Qu’il s’agisse de reconnaître le statut des autorités, l’argumentation le montre, qui insiste sur leur origine divine et leur fonction, elle aussi ordonnée à Dieu, puisqu’elles en sont les ministres». 8
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Con l’esortazione a sottomettersi all’autorità, Rm 13,1-7 mostra un certo «realismo»9 di Paolo. Nel 19 e nel 49 d.C. gli ebrei erano stati espulsi da Roma a motivo dei loro disordini: non è certo qualcosa di analogo che Paolo desidera per i cristiani di Roma, e dunque chiede, da un lato, di non aver problemi con le autorità, restando sottomessi, dall’altro – sapendo quanto importante fosse il buon nome all’interno della collettività – esorta a comportarsi in modo lodevole, e a ottenere un riconoscimento positivo presso l’autorità e presso la società.
4. 1Pt 2. Una
condotta esemplare , per chiudere la bocca agli avversari
Scritta, a quanto sembra, da Roma, e indirizzata ai cristiani della zona centrale dell’Asia Minore, la Prima lettera di Pietro è successiva a Rm. Non sappiamo però di quanto: se davvero è opera di Pietro, potrebbe essere stata composta tra il 63 e il 67; se invece è pseudonima, ed è opera della comunità cristiana di Roma, allora potrebbe essere collocata tra il 68 e l’80 circa.10 Quanto ai destinatari, ciò che si dice nella lettera lascia intuire che si tratta per lo più di pagani convertiti al cristianesimo di varia estrazione sociale.11 In ogni caso, ora si trovano in difficoltà: sperimentano infatti diffidenza e ostilità dall’ambiente in cui vivono. Il loro modo di vivere, con la conversione, è cambiato, e, con le abitudini, sono comprensibilmente cambiati anche i rapporti con molte persone rimaste pagane. Ora questi convertiti avvertono il peso di tanti atteggiamenti di distanza e di ostilità, alimentati pure da calunnie sul loro conto. La lettera non parla mai di una vera e propria persecuzione, ma certo il clima è molto pesante, e l’autore scrive con l’intento di esortare: 2,11 Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all’anima. 12Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita. 13Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come sovrano, 14 sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. 15Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti, 16come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio. 17Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re.
9 Cf. Penna, «La dimensione politica dell’ethos cristiano secondo Rm 13,1-7 nel suo contesto», 209. 10 Su autore, data e luogo di composizione di 1Pt, si può vedere M. Mazzeo, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, Paoline, Milano 2002, 38-48. 11 L’origine pagana si può inferire da 4,3-4, la ricchezza di alcuni da 3,3, la condizione umile da 2,18-25.
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«Stranieri» e «pellegrini» (v. 11) sono due aggettivi che fanno pensare a persone che non hanno la cittadinanza del luogo in cui abitano, e dunque si trovano in una posizione sociale svantaggiata. Oltre a ciò, è possibile anche una connotazione escatologica: la cittadinanza del cristiano non è su questa terra, e la vita del credente è solo un passaggio, un pellegrinaggio in vista della salvezza finale. Riguardo al contenuto dell’agire dei cristiani, l’esortazione rimane piuttosto generica: invita semplicemente a compiere opere buone. Importa però notare l’aggettivo che, per ben due volte, viene utilizzato in questo contesto: sia la condotta dei destinatari sia le loro opere vengono qualificate non con il normale aggettivo avgaqo,j, «buono», ma con kalo,j, «bello» (v. 12). Si tratta dunque di una bontà che si rende visibile, apprezzabile, esemplare. È una bontà che smentisce le calunnie degli avversari, anzi, di più ancora: deve brillare ai loro occhi, spingerli a riconoscere l’onestà dei cristiani, e, attraverso questo riconoscimento, a dare finalmente gloria a Dio. Il brano poi si focalizza in particolare sul rapporto con le istituzioni. Anche qui, come in Rm 13,1, l’invito è a sottomettersi (stesso verbo: u`pota,ssomai) alle autorità civili (vv. 13-14). Ora, da più parti sono state dettagliatamente indagate somiglianze e differenze tra Rm 13 e 1Pt 2, sia per quanto riguarda il vocabolario sia per quanto riguarda i contenuti.12 Importa per noi sottolineare innanzitutto che, a differenza del passo paolino, qui non si dice né che l’autorità civile ottenga il proprio potere da Dio, né che essa sia strumento di Dio per il bene dei buoni e per la punizione dei malvagi. Pietro si limita a notare che le istituzioni hanno il compito di punire i malfattori e di premiare i buoni. Quanto al motivo per sottomettersi alle autorità, Pietro lo esplicita in due riprese: la prima volta («per amore del Signore», v. 13) fa capire che è Dio stesso a volere l’obbedienza civile dei cristiani, mentre la seconda volta mette in luce il fine apologetico («questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti», v. 15). Importante è anche quanto si dice al v. 17, dove l’onore da accordare al re non è di natura diversa rispetto a quello da accordare a chiunque, mentre all’interno della comunità vigono relazioni qualificate dall’amore verso i fratelli (avgapa/te) e dal timore verso Dio (fobei/sqe). Senza dubbio, rispetto a Rm 13, il brano petrino mostra un intento più marcatamente apologetico, confermato anche più avanti nella lettera, in 3,13-16, dove da un lato si invita a non avere esitazioni sull’autenticità della propria testimonianza, e dall’altro viene suggerito anche lo stile della testimonianza medesima: 3,13 E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? 14Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, 15ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a
12 Cf. J.H. Elliott, 1 Peter. A New Translation with Introduction and Commentary, Doubleday, New York 2000, 493-494.
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Enrico Casadei Garofani rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. 16Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.
Riguardo alle ragioni dell’ostilità subìta dai cristiani d’Asia Minore, abbiamo già detto, in via generale, che il cambiamento di vita dei convertiti, con la rinuncia a prender parte a tutta una serie di feste ed eventi legati alla religione pagana, non poteva non generare sospetto e distanza nel resto della cittadinanza. Qui aggiungiamo che in Asia Minore, al tempo della 1Pt, era particolarmente praticato e promosso dalle elite locali il culto dell’imperatore romano: un modo per sottolineare la propria fedeltà a Roma, e per meglio adattare la sottomissione nei confronti dell’impero alla particolare sensibilità religiosa di quelle popolazioni. È probabile fossero proprio quelle elite le prime a mal sopportare la «differenza» cristiana e a far pressione sui membri della comunità.13 Il contenuto dell’esortazione petrina, comunque, presuppone che non sia in atto una persecuzione sistematica. L’autorità, infatti, non è avvertita come ostile a priori, la sottomissione – almeno per il momento – è possibile, e la testimonianza può essere ancora efficace nel far cadere le accuse: senza illudersi al pensiero di un buon esito scontato, ma comunque credendo nella possibilità di essere accettati all’interno del proprio contesto sociale.
5. Atti degli apostoli. Parresia e confronto con la cultura pagana Anche il secondo volume dell’opera lucana si occupa del confronto con le autorità: sia quelle religiose, giudaiche, sia quelle civili, romane. In più, mette a tema anche il rapporto tra vangelo e cultura ellenistica, e tra figura dell’evangelizzatore ed elite culturali presenti nell’ambiente urbano. Sulla linea cronologica, la stesura dell’opera viene generalmente collocata tra l’80 e il 90 d.C., dunque appena qualche anno dopo 1Pt (oppure 20-25 anni circa, se si opta per una datazione alta di 1Pt). Ora, benché in At le modalità del confronto con le autorità siano narrate, e non oggetto di esortazione, tuttavia non è inutile considerare il valore assiologico che il racconto porta necessariamente con sé. Lo scontro con le autorità giudaiche si sviluppa a partire dal c. 4. Imprigionati e
13 Oltre a questi argomenti, è stata avanzata l’ipotesi, non facile da provare, che la comunità cristiana fosse stata considerata come una sorta di eteria, ossia un gruppo poco controllabile dall’esterno e potenzialmente sovversivo. I romani, infatti, avevano vietato forme associative di questo tipo. Cf. G. Marconi, «I cristiani di fronte al potere politico al tempo del NT. L’esempio di 1Pt», in Ricerche Storico-Bibliche 18(2006), 219-220.
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redarguiti dal sinedrio, con l’ordine di non più parlare né insegnare nel nome di Gesù, Pietro e Giovanni pongono un’alternativa, e formulano un principio a cui si atterranno fedelmente anche in seguito (4,19b-20): 4,19b Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. 20Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato.
Disobbedienza annunciata, e poi attuata subito dopo la scarcerazione: inevitabile l’acuirsi del conflitto, in un crescendo molto ben costruito dal punto di vista narrativo, e senza dubbio eloquente dal punto di vista teologico. Il racconto si cura di mostrare quanto Dio approvi la disobbedienza degli apostoli. Un angelo, infatti, libera dal carcere tutti gli apostoli, imprigionati per la seconda volta, e ordina loro di andare a predicare nel tempio, il luogo più rischioso, data la situazione (5,17-21a). In questo episodio, e in ciò che segue immediatamente (vv. 21b-42), Luca si compiace di sottolineare tre cose. La prima è lo scacco delle autorità, che, peraltro, trovano il carcere chiuso, le guardie al loro posto e nessuna traccia degli apostoli: l’ironia è davvero pungente. La seconda è il rischio a cui l’apostolo non può sottrarsi: egli è testimone e missionario a qualunque costo. La terza è l’incoercibilità della Parola: questo in effetti è ancora più importante della sorte personale dell’apostolo. Non a caso, il libro si chiuderà sulla figura di Paolo a Roma, agli arresti domiciliari e in attesa di processo, che accoglie chi lo va a trovare e annuncia il Regno «con tutta franchezza e senza impedimento» (28,30-31). Quanto all’autorità romana, essa è presentata in maniera meno negativa rispetto a quella giudaica, ma comunque non mancano ombre più o meno pesanti. A Filippi i magistrati sono costretti a scusarsi per avere bastonato e imprigionato Paolo e Sila (16,16-40). Il governatore Felice spera di estorcere denaro a Paolo in cambio di un trattamento di favore; e lo lascia in prigione non per giustizia, ma per compiacere i giudei (24,24-27). Riguardo poi al confronto con l’imperatore, Luca non lo racconta: ha già raccontato, infatti, lo scampato naufragio di Paolo durante il viaggio verso Roma; e scampare a un naufragio era considerata una sorta di ordalia, un segno che il salvato era protetto da Dio/dèi. E se Dio ha mostrato in questo modo l’innocenza di Paolo, allora qualunque cosa dirà l’imperatore, sarà secondario, fosse anche una sentenza di morte.14 In breve, sia che si tratti di autorità giudaiche, sia che si tratti di autorità romane, il libro non offre spunti che suggeriscano al lettore l’importanza della sottomissione per qualche ragione teologica o, comunque, in vista di un qualche pubblico riconoscimento. Piuttosto, è la testimonianza fatta con estrema parresia che viene proposta come esemplare. Riguardo invece al rapporto tra evangelizzatori ed elite culturali, emblematico è l’episodio di Paolo ad Atene, città simbolo della cultura gre-
14 Cf. J.-N. Aletti, Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo Vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 22009.
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ca, dove egli tiene il suo discorso all’Areopago (17,16-34). Non è questo il luogo per affrontare l’esegesi dell’intero discorso,15 però possiamo fare qualche cenno utile al nostro intento. Luca mette sulla bocca di Paolo un linguaggio anfibologico, ambiguo. Temi e concetti della fede ebraico-cristiana16 vengono infatti espressi con un linguaggio che può richiamare molto da vicino il pensiero filosofico, soprattutto stoico.17 Senza tradire in nulla il proprio messaggio, il Paolo di Luca mostra di condividere con i suoi uditori una serie di istanze comuni; e d’altra parte sostiene anche, senza mezzi termini, che lo sforzo dei pagani per arrivare al divino è fallito: è invece il cristianesimo che, senza tradire le Scritture di Israele, si rivela capace di realizzare, con coerenza maggiore rispetto a stoici ed epicurei, il meglio che la cultura pagana abbia saputo produrre. Entrare nella città, per gli Atti degli apostoli, significa allora anche avere il coraggio di ingaggiare un dialogo franco, un confronto ad alto livello col sapere e coi sapienti.
6. 1Tm 2. Una
vita tranquilla , integrata nella società
Come in Rm 13 e in 1Pt 2, anche nelle Pastorali troviamo un invito a sottomettersi alle autorità e a tenere un comportamento lodevole, esemplare. Leggiamo infatti in Tt 3,1-2: 3,1 Ricorda loro di essere sottomessi alle autorità che governano, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; 2di non parlare male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini.
Troviamo però, nelle Pastorali, anche un elemento nuovo, complementare, rispetto a quanto già visto finora. Ce lo offre il c. 2 della Prima lettera a Timoteo, dove – è l’unica volta nel NT – si chiede ai cristiani di pregare per tutti gli uomini, comprese le autorità: Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. 3Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla 2,1
15 Rimandiamo per questo ai commentari, per es. D. Marguerat, Gli Atti degli Apostoli (13–28), EDB, Bologna 2015, 167-174. 16 Un Dio che non abita nei templi e non è bisognoso di alcunché (At 17,24-25); un Dio che ha fatto il mondo e quanto vi si trova (v. 24a); un Dio contemporaneamente lontano e vicino (vv. 26-27); un Dio non fabbricato da mani di uomo (vv. 28-29). 17 Gli dèi sono autosufficienti, ordinano il cosmo e vi provvedono; tutta l’umanità ha avuto origine da un principio divino; il divino è raggiungibile dagli uomini attraverso l’osservazione della natura; l’umano è unito al divino in una prospettiva panteistica.
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Cristiani e società urbana nel Nuovo Testamento conoscenza della verità. 5Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, 6che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, 7e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità.
Secondo l’autore, dunque, la preghiera non può limitarsi ai bisogni e all’orizzonte ristretto della comunità: deve invece essere universale (vv. 1-2), come universale è la volontà salvifica di Dio (vv. 3-4), e universale è la destinazione della morte redentrice del Cristo (vv. 5-6). Si noti, da un punto di vista stilistico, l’insistenza nell’uso dell’aggettivo pa/j, «tutto», che ricorre ben sei volte in questi pochi versetti, quattro delle quali per qualificare i beneficiari della preghiera/salvezza. Ora, pur nell’orizzonte di una preghiera universale, l’autore ha voluto fare una menzione particolare delle autorità, invitando esplicitamente i suoi destinatari a pregare per esse, «perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» (v. 2b). Di per sé non si tratta di una novità assoluta: anche il giudaismo, infatti, aveva imparato a levare suppliche a Dio per chi era al potere.18 Ad intra, lo scopo era evidentemente quello di impetrare il bene per la propria comunità; ad extra, invece, era primariamente apologetico: mostrarsi ed essere considerati buoni cittadini. La 1Tm però va oltre e, facendo riferimento al disegno divino di salvezza universale, chiede ai cristiani un atteggiamento aperto e responsabile anche per «quelli di fuori».19 Il seguito della lettera conferma e approfondisce la prospettiva non settaria, dialogante, che emerge fin dal testo citato. In primo luogo, tentazioni rigoriste, che pretendevano la rinuncia al matrimonio o ad alcuni cibi, vengono nettamente respinte in nome della bellezza e bontà della creazione (4,1-5). Anche la ricchezza è permessa, purché non ci si chiuda nell’autosufficienza e si resti disponibili alla condivisione (6,17-19). In secondo luogo, nelle relazioni verso l’esterno si sottolinea l’importanza di evitare il biasimo e di godere di buona fama: lo si dice esplicitamente per il vescovo (3,7), per le vedove giovani (5,14), per gli schiavi (6,1). In terzo luogo, negli insegnamenti etici si cerca di recepire ideali positivi ed elementi condivisibili della cultura pagana.20 La tensione escatologica si
18 Cf. Y. Redalié, «Un mutato atteggiamento verso il potere politico nelle Pastorali? (1Tm 2,1s e Tt 3,1s)», in Ricerche Storico-Bibliche 18(2006), 241-242. 19 Ivi, 249: «Più che come un problema da risolvere, il riferimento all’autorità deve servire adesso a esprimere l’universalità concreta come esistenza politica all’interno dell’impero. Infatti, ciò che sembra interessare le Pastorali, più che l’attività stessa delle autorità (governo, polizia, fisco in Rm 13,1.4.6; governo e polizia in 1Pt 2,13ss) è l’universalità che essa rappresenta. L’amore dei fratelli di Rm 13,8 e 1Pt 2,17 si è universalizzato e diventa pregare “per tutti gli umani” in 1Tm 2,1 e dare prova di “grande dolcezza” verso tutti gli umani in Tt 3,2». 20 Cf. R. Amici, «Principi e norme di non estraneità al mondo nelle lettere a Timoteo e a Tito», in Estudios Biblicos 67(2009)3, 448-456.
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attenua, e si fa strada il desiderio di vivere all’interno della società in maniera pacifica e quanto più possibile integrati. Ciò, d’altronde, non significa, agli occhi dell’autore, conformarsi al mondo o, quanto meno, accettare forme di compromesso. Compito di Timoteo è, infatti, quello di vigilare sia sulla retta dottrina, di contro ai falsi maestri (fin da 1,3), sia sui principi etici, che vengono via via richiamati lungo tutta la lettera. Non ci è dato sapere quando questa lettera sia stata scritta21. Se è effettivamente di Paolo, come si afferma in 1,1, può essere stata scritta verso il 65 d.C., se invece è pseudoepigrafa, come ritiene la gran parte degli esegeti, tra la fine del I sec. e l’inizio del II (o addirittura qualche decennio più tardi). Del destinatario, Timoteo, si dice in 1,3 che è a Efeso; nulla esclude, però, che anche in questo caso si tratti di finzione letteraria. È impossibile, pertanto, indicare con certezza il luogo e il momento storico in cui prese forma il particolare atteggiamento di apertura verso la società di cui abbiamo dato conto. Certo è che, se davvero la lettera fa riferimento a Chiese dell’Asia Minore, non si può pensare a una stretta vicinanza temporale con l’Apocalisse, la quale, invece, presuppone una situazione di forte ostilità contro i cristiani, e ci consegna una valutazione della politica e della società del suo tempo radicalmente diversa.
7. Ap 18. «Uscite, da essa » ( v . 4)
popolo mio ,
Due città si fronteggiano, opposte, nella sezione conclusiva del libro dell’Apocalisse, i cc. 17–21: Babilonia da un lato e la nuova Gerusalemme dall’altro. Entrambe hanno valenza simbolica: la città è emblematica della vita associata, della fitta rete di rapporti e di legami che si intrecciano fra gli uomini. Proprio in quanto simboli relazionali, entrambe possono essere rappresentate anche come figure femminili: Babilonia come prostituta (17,5; rimando a rapporti mercificati, tradimento dell’amore autentico) e Gerusalemme come fidanzata, poi sposa dell’Agnello (21,9-10). Per il nostro discorso importa soprattutto focalizzare l’attenzione sulla prima città. La scelta del nome rimanda alla storia di Israele, alla capitale di quell’impero che fu responsabile del crollo del regno di Giuda, della distruzione del tempio, della deportazione e della successiva schiavitù degli ebrei in Mesopotamia. Il simbolo ha dunque una connotazione chiara: Babilonia rappresenta una realtà strutturata e nemica del popolo di Dio. Dietro al simbolo, con ogni probabilità, si celano Roma e il suo impero, avvertiti come nemici del popolo di Dio in un’epoca di persecuzioni
21 Sui problemi legati a datazione e autenticità, cf. M. Gourgues, Le deux lettres à Timothée. La lettre à Tite, Cerf, Paris 2009, 43-59.
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o, quanto meno, di gravi ostilità.22 Difficile è precisare sia il momento storico sia la reale entità delle tribolazioni patite dai cristiani d’Asia Minore, a cui Ap si rivolge. Come data di composizione di Ap si è proposto l’anno 69, assai turbolento dal punto di vista politico, oppure, dando credito a Ireneo di Lione, gli ultimi anni del regno di Domiziano (95-96), o ancora, seguendo Vittorino, quelli del regno di Traiano (98-117). Quanto invece alle ostilità verso i cristiani, occorre distinguere tra iniziative attribuibili direttamente al potere centrale di Roma, come possono essere le uccisioni dei cristiani ordinate da Nerone nel 64, da un lato, e provvedimenti presi da magistrati locali, dall’altro.23 Ap 18 descrive il crollo repentino di Babilonia, consumata dal fuoco, simbolo del giudizio di condanna da parte di Dio (v. 8). Le ragioni di questa condanna sono molteplici. Innanzitutto, fin dal v. 3 si fa riferimento alla prostituzione, metafora dell’idolatria: si pensi, in particolare, al culto imperiale; poi ci si sofferma sul lusso e su un atteggiamento superbo (v. 7); infine si fa cenno alle uccisioni di profeti e di santi (v. 24). Ciò che è più significativo per il nostro discorso si trova nella parte centrale del capitolo, i vv. 9-19: I re della terra, che con essa si sono prostituiti e hanno vissuto nel lusso, piangeranno e si lamenteranno a causa sua, quando vedranno il fumo del suo incendio, 10tenendosi a distanza per paura dei suoi tormenti, e diranno: «Guai, guai, città immensa, Babilonia, città possente; in un’ora sola è giunta la tua condanna!». 11 Anche i mercanti della terra piangono e si lamentano su di essa, perché nessuno compera più le loro merci: 12i loro carichi d’oro, d’argento e di pietre preziose, di perle, di lino, di porpora, di seta e di scarlatto; legni profumati di ogni specie, oggetti d’avorio, di legno, di bronzo, di ferro, di marmo; 13 cinnamòmo, amòmo, profumi, unguento, incenso, vino, olio, fior di farina, frumento, bestiame, greggi, cavalli, carri, schiavi e vite umane. 14 «I frutti che ti piacevano tanto si sono allontanati da te; tutto quel lusso e quello splendore per te sono perduti e mai più potranno trovarli». 15 I mercanti, divenuti ricchi grazie a essa, si terranno a distanza per timore dei suoi tormenti; piangendo e lamentandosi, diranno: 18,9
22 Cf. G. Biguzzi, «Giovanni di Patmos, Patmos, e la “persecuzione”», in Id., L’Apocalisse e i suoi enigmi, Paideia, Brescia 2004, 79-100. 23 Cf. ivi, 92: «Allargando il discorso alle difficoltà sperimentate dalle chiese d’Asia, bisogna dire che in Apoc. 1–3 e rispettivamente in Apoc. 12–22 Giovanni propone due differenti immagini di “persecuzione”. La prima ha carattere locale ed è descritta in termini misurati e credibili, mentre l’altra è a raggio mondiale ed è descritta in termini esasperati e persino mitici». Ivi, 95: «Gli episodi di ostilità anticristiana accertabili in Apoc. sono dunque il confino di Giovanni a Patmos, l’eliminazione fisica di Antipa, le difficoltà sostenute in passato dalle comunità di Filadelfia e di Pergamo, quelle prevedibili e imminenti per la comunità di Smirne, i martiri probabilmente ancora asiatici di cui parla in 6,9-10, e poi il sangue cristiano versato a più vasto raggio secondo 16,6; 17,6; 18,24; 20,4».
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Enrico Casadei Garofani «Guai, guai, la grande città, tutta ammantata di lino puro, di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle! 17 In un’ora sola tanta ricchezza è andata perduta!». 16
Nel mettere in scena l’incendio della città, l’autore si sofferma sul pianto dei complici di Babilonia, i quali guardano attoniti e impotenti il crollo della città: sono re (vv. 9-10), mercanti (vv. 11-14) e marinai (vv. 1517). Emerge qui una denuncia senza appello di un intero sistema politicoeconomico. Cerchiamo di comprendere le immagini, partendo dai re. Oltre a controllare i propri territori, l’impero ha tutta una serie di rapporti politici con sovrani periferici: sono rapporti che procurano a Roma ritorni economici consistenti (la metafora della prostituzione serve anche a smascherare, accanto all’idolatria, i fini di lucro); come contropartita, Roma offre a questi sovrani la cosiddetta pax romana. Nel pianto dei mercanti troviamo un lunghissimo elenco di merci di lusso (vv. 12-13): elenco sistematico,24 che copre ambiti sempre più vasti della vita umana (dagli spazi interni a quelli esterni) e mostra che anche la vita degli uomini viene considerata merce, peraltro all’ultimo posto della lista stessa. I marinai, infine, rappresentano i commercianti all’ingrosso, quella che oggi viene indicata come «la grande distribuzione». Va ricordato, inoltre, che, nella società imperiale, l’appartenenza a una gilda di mercanti comportava anche qualche forma ufficiale di culto verso la divinità eletta a protettrice della corporazione; in particolare, al tempo dell’impero, la religione diventa un trait d’union tra politica ed economia: infatti il culto reso all’imperatore, che è una forma di propaganda del potere costituito, diventa quello più praticato e diffuso tra le varie gilde.25 La denuncia di Ap non è più su qualche aspetto del rapporto tra cristiani e non cristiani, ma sull’intero sistema socio-politico-economico imperiale, nel quale si intrecciano idolatria, consumismo, ingiustizie e violenza. Com’è normale nel genere apocalittico, la denuncia si accompagna alla promessa di un intervento punitivo di Dio. Con Babilonia non si devono avere rapporti: né sottomettersi, né cercare una qualsivoglia forma di approvazione, o, peggio ancora, di collaborazione. Sarebbe complicità, passibile della medesima punizione divina. L’unica cosa che i cristiani possono e debbono fare è uscire (v. 4), smarcarsi da questo intreccio di
24 Ci permettiamo di rimandare a E. Casadei Garofani, «Città degli uomini e intervento di Dio nel dinamismo della storia della salvezza (Babele, Babilonia e la nuova Gerusalemme)», in Rivista di Teologia dell'Evangelizzazione (2017)42, 365-367. 25 Sui dinamismi commerciali della Roma imperiale, e sulla particolare situazione dell’Asia Minore ai tempi di Giovanni cf. J.N. Kraybill, Imperial Cult and Commerce in John’s Apocalypse, Sheffield Academic Press, Sheffield 1996, 57-101.
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male, estraniarsi dalla vita politica, sociale, economica di quegli ambienti urbani nei quali, pure, essi conducono la loro esistenza quotidiana.
8. Per
una sintesi
Il quadro che viene a delinearsi alla fine di questo percorso non manca di varietà. Ci siamo accostati a scritti collocabili in un arco di tempo di circa mezzo secolo, e a una pluralità di situazioni locali. In linea generale, possiamo dire che la missione cristiana di quest’epoca vede nella città un ambiente preferibile a quello della campagna: nelle città si trovano per lo più le comunità della diaspora ebraica, prime destinatarie dell’annuncio evangelico. Nelle città si può raggiungere, con l’annuncio, un più largo numero di persone. Alle città si può arrivare tramite le vie principali di comunicazione, e, attraverso le medesime, dalle città si può fuggire più rapidamente in caso di ostilità. Nell’ambiente urbano, i primi evangelizzatori raggiungono e coinvolgono persone di estrazioni sociali varie, anche alte, ma è soprattutto presso gli strati meno abbienti della popolazione che ha successo questa nuova religione, che porta con sé una forte testimonianza di solidarietà fra tutti membri. Diventare cristiani, però, costringe anche, inevitabilmente, a prendere le distanze da tutta una serie di situazioni e di eventi collegati con la religione pagana: politica, economia e società si collegano infatti tutte, in maniera diretta o mediata, con il culto degli dèi pagani; basti ricordare il culto imperiale, o le gilde di mercanti, o i banchetti, gli spettacoli e i giochi allestiti in occasione di festività pagane. Estraniarsi da questi contesti ha sempre comportato delle difficoltà: rottura di relazioni, diffidenza, vera e propria ostilità. I cristiani hanno reagito, volta a volta, secondo le particolari circostanze del momento. Entro certi margini, la scelta è stata quella di contrastare la diffidenza o le calunnie, mostrando comportamenti socialmente apprezzati ed elogiati, a cominciare dalla sottomissione alle autorità. È il caso di Fil 3, Rm 13, 1Pt 2, 1Tm 2. In quest’ultimo scritto, poi, oltre a un interesse apologetico, troviamo addirittura la coscienza di una responsabilità dei cristiani verso tutti gli uomini. Sempre, però, le varie esortazioni a ricercare una qualche forma di approvazione da parte della società si accompagnano alla preoccupazione di evitare qualunque cedimento, anche il più piccolo, tanto nell’ambito della fede quanto in quello dell’etica. In At, dove pure viene mostrato il tentativo di entrare in dialogo con gli esponenti della cultura, viene anche messa in rilievo l’irriducibile necessità della testimonianza, qualunque sia il prezzo da pagare. I diversi tentativi di appartenenza al proprio contesto urbano lasciano invece il posto, in Ap 18, a un atteggiamento di chiusura completa e di fuga dall’intero «sistema» imperiale, giudicato, per usare un’espressione moderna, come una vera e propria «struttura di peccato». Ap 18 segna un passo in avanti rispetto agli altri testi, nella misura in cui qui non ci si limita semplicemente a proporre un qualche modus vivendi tra i pagani,
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ma si dà una valutazione complessiva e articolata del mondo romano in generale e di gran parte dei traffici e delle relazioni che caratterizzano la vita nelle città in particolare. Attestazione dell’ampiezza di soluzioni che i cristiani del I secolo hanno tentato di dare al problema del rapporto con l’ambiente nel quale si trovavano a vivere la loro quotidianità.
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Le beatitudini (Mt 5,3-10) e il giudizio finale (Mt 25,31-46): etica evangelica in un contesto multireligioso
Maurizio Marcheselli*
Il presente contributo si propone di prendere in esame il Vangelo secondo Matteo, alla ricerca di criteri di orientamento rispetto al tema generale di questo convegno, che pone in relazione l’annuncio del vangelo con la città quale contesto in cui vive una gran parte dell’umanità – almeno in alcune precise aree geografiche del mondo, tra cui la nostra. La nostra riflessione poggia su questa ipotesi, che cercheremo di corroborare in corso d’opera: l’inizio del primo discorso di Gesù nel Vangelo di Matteo (Mt 5,3-10: le prime otto beatitudini) e la fine dell’ultimo (Mt 25,31-46: la descrizione del giudizio finale operato dal Figlio dell’uomo) formano una gigantesca inclusione intorno al tema della giustizia e alla omogeneità dei destinatari. La nostra interpretazione della pagina che chiude l’ultimo discorso di Gesù nel Vangelo di Matteo si colloca all’interno di quella che Luz nel 1997 presentava come la posizione largamente maggioritaria.1 La nostra interpretazione delle prime otto beatitudini, ispirata da Manicardi, rappresenta invece una posizione decisamente isolata.2 Essa acquista mag-
* Docente stabile di Sacra Scrittura – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected]
1 U. Luz, Vangelo di Matteo (Commentario Paideia Nuovo Testamento 1.3), vol. 3, Paideia, Brescia 2013, 644. L’originale tedesco di questo volume è appunto del 1997. 2 La si trova accennata in E. Manicardi, «Gesù e gli stranieri», in Id., Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 1), a cura di M. Marcheselli, EDB, Bologna 2005, 49-84, qui 57-59.64 (già pubblicato in Ricerche Storico-Bibliche 8[1996], 197-231); più sviluppata in E. Manicardi, «Il discorso della monta-
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giore plausibilità proprio dal poterla leggere in stretta connessione con l’altro testo matteano. Siamo assolutamente consapevoli che quella che ci accingiamo a illustrare non è niente più di una possibile lettura di questi testi matteani. Molte delle questioni sollevate dai due passi che accostiamo sono ben lungi dal vedere un consenso tra gli studiosi: noi tracciamo una pista di lettura che deve forzatamente compiere scelte che restano discutibili. Speriamo soltanto che esse possano apparire non arbitrarie. Che i contenuti di questi due passi del Vangelo secondo Matteo siano specificamente pensati dall’evangelista – o eventualmente dal Gesù storico – in un’ottica originariamente «cittadina» resta difficile da provare e non intendiamo avventurarci lungo il sentiero di una dimostrazione di tal genere, anche se non tralasceremo di evidenziare un possibile contatto tra il primo dei testi che esaminiamo e il probabile luogo di composizione del vangelo (la città di Antiochia di Siria).3 Si può dire, tuttavia, che quanto affermato dal Gesù matteano nelle beatitudini e nella «parabola» del giudizio è per un lettore contemporaneo assolutamente pertinente con le dinamiche del vivere in città, anche se forse non esclusivo di esse.
1. Le
beatitudini , la « parabola » e i loro destinatari
Presentiamo anzitutto complessivamente i testi che saranno oggetto della nostra indagine: si tratta, da un lato, delle prime otto beatitudini (Mt 5,3-10) e, dall’altro, della «parabola» che chiude il discorso escatologico (Mt 25,31-46). Le beatitudini matteane sono propriamente nove, ma l’ultima (5,1112) presenta caratteristiche formali assolutamente proprie che ne consigliano una lettura a parte. Il discorso escatologico dei cc. 24–25 si conclude con una nutrita serie di parabole (24,45–25,46): noi concentriamo la nostra attenzione esclusivamente sull’ultima, che – dal punto di vista formale – si distingue nettamente dalle precedenti e non si configura come una parabola in senso tecnico.
gna. La prima proposta di Gesù secondo Matteo», in Id., Matteo, alcuni percorsi, Edizioni S. Lorenzo, Reggio Emilia 2002, 59-87, qui 70-76. 3 È comunemente riconosciuto che Gesù nelle sue parabole e nei suoi detti tradisce l’appartenenza a un contesto di tipo rurale. La provenienza sociologica dell’autore del primo vangelo canonico resta sostanzialmente indeducibile. Per quanto riguarda, invece, il luogo di composizione del vangelo e quindi il profilo dei destinatari la maggioranza dei commentatori propende per un contesto urbano.
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Le beatitudini (Mt 5,3-10) e il giudizio finale (Mt 25,31-46)
1.1. Il
genere « beatitudine » e lo specifico uso matteano
1.1.1. La
forma
«beatitudine/macarismo»
Si può dire che 4Q525, insieme a Sir 14,20–15,10 e 1QHa VI,2-5, costituisce il miglior precedente giudaico di Mt 5,3-10.4 La forma beatitudine/ macarismo affonda le sue radici nella parenesi sapienziale e nell’apocalittica:5 «Le beatitudini di Gesù si collegano […] a questa trasformazione di un genere originariamente sapienziale avvenuta all’interno dell’apocalittica».6 Tra le caratteristiche specifiche delle beatitudini gesuane Luz ricorda «la premessa formulata in modo paradossale: non sono affatto proclamati beati coloro che ci si aspetterebbe».7 Questo tratto paradossale conferisce ai macarismi un carattere profetico, di rivelazione. La dimensione di rivelazione profetica si addice perfettamente alle prime otto beatitudini matteane. Esse non si presentano come una benedizione e neppure come una esortazione:8 si tratta in modo evidente di una rivelazione.9 Le beatitudini
4 Così F. García Martínez (a cura di), Testi di Qumran (Introduzione allo studio della Bibbia Supplementi 10), Paideia, Brescia 22003, 610, nota 2: in questo volume le note ai testi di Qumran – oltre alla traduzione in italiano degli stessi – sono di C. Martone. Cf. anche E. Puech, «4Q525 et les péricopes des béatitudes en Ben Sira et Matthieu», in Revue Biblique 98(1991), 80-106. In Sir 14,20–15,10 troviamo propriamente un unico macarismo, per l’uomo che si dedica alla sapienza. 4Q525 (un testo di tipo sapienziale, databile paleo graficamente alla fine del I secolo a.C.) presenta una lista di cinque beatitudini: esse si trovano nel secondo dei 23 frammenti di cui si compone questo testo. Il frammento 15, descrivendo le pene che subiranno quanti non seguono la sapienza, introduce anche una dimensione escatologica, tratto tipico delle beatitudini neotestamentarie. 1QHa VI,2-5 viene congetturalmente ricostruito come un macarismo: «[Beati] gli uomini di verità…»: la lista dei beati arriva a un certo punto (alla linea 3) a menzionare «i poveri in spirito». 5 U. Luz, Vangelo di Matteo (Commentario Paideia Nuovo Testamento 1.1), vol. 1, Paideia, Brescia 2006, 309-310. Derivano dall’apocalittica la frase risultativa al futuro con senso escatologico e la formulazione semplificata della premessa nominale, che contribuisce a spostare l’accento sulla frase risultativa. 6 Ivi, I, 309. Similmente G. Strecker, «makavrio~», in DENT II, 250-258, qui 251. Il macarismo teologico neotestamentario esprime una condizione (talvolta implicitamente, talvolta con un’aggiunta che può avere la forma di una relativa) e va subordinato a uno schema azione —> conseguenza. In ragione della sua motivazione escatologica, esso serve di volta in volta da allocuzione o da istruzione profetico-apocalittica. Cf. pure M. Dumais, Il discorso della Montagna. Stato della ricerca, interpretazione, bibliografia, Elledici, Torino 1999, 143-145. 7 Luz, Vangelo di Matteo, I, 309. Luz ritiene però che il Sitz im Leben delle beatitudini matteane resti la parenesi, conformemente al riavvicinamento di Matteo all’uso linguistico sapienziale (= preferenza per la terza persona). 8 La differenza tra beatitudine e benedizione è sottolineata con forza anche da Dumais, Il discorso della Montagna, 144. 9 Manicardi, «Il discorso della montagna», 73-76. Il carattere di rivelazione che hanno le beatitudini matteane è rilevato anche da C. Broccardo, I Vangeli. Una guida alla lettura (Quality Paperbacks), Carocci, Roma 22017, 55.
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hanno di mira una realtà che già esiste, ma che necessita di una parola profetica per essere riconosciuta nella sua qualità propria. Dal punto di vista della forma le otto beatitudini di Mt 5,3-10 sono composte di due stichi: il macarismo in senso stretto e la promessa che lo segue. La connotazione positiva della povertà in spirito, della mitezza, ecc. risalta chiaramente dalla promessa. Il macarismo vero e proprio si presenta privo di forme verbali: si deve supplire ogni volta un presente («Sono beati i poveri quanto allo spirito, sono beati coloro che sono afflitti, ecc.»).10 La promessa che segue la dichiarazione di felicità, dal punto di vista sintattico, è una proposizione causale introdotta da o{ti (hoti). Le due promesse/motivazioni estreme (prima e ottava), sono al presente («perché di essi è il regno dei cieli»); esse incorniciano le sei centrali che sono al futuro (e che ripetono due volte lo schema: passivo / attivo / passivo). Nella promessa si chiama in causa Dio: la sua presenza è inequivocabilmente suggerita tanto dall’espressione «regno dei cieli» quanto dai passivi teologici impiegati nella seconda («saranno consolati»), quarta («saranno saziati»), quinta («saranno oggetto di misericordia») e settima («saranno chiamati figli di Dio») beatitudine.11 Il fatto che l’Altissimo dia a costoro il regno dei cieli, che li consoli, li sazi, usi loro misericordia, li chiami «mio figlio» svela precisamente la natura assolutamente positiva delle situazioni di cui si proclama la beatitudine: tali situazioni sono approvate da Dio, esse riflettono il suo metro di misura valoriale. Nella benedizione tutta la forza sta in chi pronuncia la parola. Nel l’esortazione tutta la forza sta in chi recepisce la parola. Nella beatitudine non si tratta di qualcosa che deve essere creato: né per la capacità performatrice di chi parla né per l’impegno di chi ascolta. La beatitudine si riferisce a qualcosa che esiste già (primo stico) e ne svela profeticamente la natura positiva, secondo il giudizio di Dio (secondo stico). Se questa chiave di lettura non si può probabilmente applicare a qualunque macarismo neotestamentario, essa è in ogni caso saldamente attestata per queste beatitudini matteane. I macarismi di Mt 5,3-10 contengono un elemento di rivelazione: essi svelano che una certa situazione – che già esiste – è amata da Dio, è a lui gradita, è da lui approvata. E per essa c’è pertanto una ricompensa (= la promessa che segue il macarismo). La motivazione introdotta da hoti è ciò che rende ragione della condizione felice: i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, i costruttori di pace, quanti patiscono persecuzione per la giustizia sono beati/felici perché a tale condizione è associata una promessa divina, nel presente e nel futuro.
10 G. Michelini, Matteo. Introduzione, traduzione e commento (Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 37), San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, 94. 11 Soltanto in due casi il verbo futuro è all’attivo: «erediteranno la terra» (terza) e «vedranno Dio» (sesta). Anche qui si deve comunque presupporre che possesso e visione siano un dono di Dio.
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1.1.2. La
composizione matteana
delle prime otto beatitudini
Le prime otto beatitudini costituiscono un complesso unitario chiaramente riconoscibile: in Mt 5,3-10 abbiamo due serie di quattro elementi ciascuna. Questo alto livello di unificazione interna conferma che si tratta di un segmento distinto dal seguito del lungo discorso della montagna. Una serie di indizi mostra come le otto beatitudini siano strutturate in due strofe perfettamente bilanciate (4 + 4).12 – La promessa contenuta nella prima risuona identica nell’ottava. Si tratta di una chiara inclusione, rafforzata dal fatto che questa è l’unica promessa formulata al presente: prima promessa: «perché di essi è il regno dei cieli»; ottava promessa: «perché di essi è il regno dei cieli». – La quarta beatitudine e l’ottava sono accomunate dal tema della giustizia: la ripresa non è senza un chiaro crescendo (da «aver fame e sete» a «patire persecuzione»):13 quarta beatitudine: «gli affamati e assetati di giustizia»; ottava beatitudine: «i perseguitati a causa della giustizia». Si avverte immediatamente che il motivo della giustizia riceve un’enfasi speciale nella costruzione redazionale: è l’unico a essere ripetuto e la ripetizione è fatta in modo da culminare con la persecuzione, che fa da gancio con la successiva beatitudine, riservata ai discepoli, la cui sorte è connotata allo stesso modo (v. 11; cf. v. 12).14 – La struttura in due strofe è, poi, confermata dal modo in cui è costrui ta la promessa che segue la beatitudine vera e propria. Da questo punto di vista, Matteo ha disposto in modo chiastico (A B B A) la sua composizione; l’elemento B delle due serie è, poi, al suo interno disposto in modo concentrico (a b a).
12 Cf. Dumais, Il discorso della Montagna, 146-147. A sostegno della divisione in due strofe egli porta anche considerazioni basate sul numero delle parole, sulla fonetica e sull’esistenza di serie dello stesso tipo nell’AT e nella letteratura giudaica. 13 Dal punto di vista della forma che assume il macarismo, la quarta e l’ottava beatitudine costituiscono inoltre un modello a sé stante. Dal punto di vista sintattico, nelle otto beatitudini il soggetto che viene proclamato beato è, infatti, introdotto secondo tre diverse tipologie: due precisano il destinatario della beatitudine stessa mediante un dativo di limitazione (i poveri relativamente allo spirito, i puri relativamente al cuore); quattro sono assolutamente essenziali (gli afflitti, i miti, i misericordiosi, gli operatori di pace); quelle connesse alla giustizia hanno ancora un’altra costruzione (affamati e assetati di giustizia; perseguitati a causa della giustizia). 14 Più precisamente, la nona beatitudine riprende e precisa l’ottava su tre punti: 1) si trova in entrambi i casi il verbo «perseguitare» (diwvkw); 2) si passa da «per causa della giustizia» a «per causa mia» (sempre però con e{neken); 3) la motivazione della beatitudine è collegata a «i cieli» (da «perché di essi è il regno dei cieli» a «perché la vostra ricompensa è grande nei cieli»).
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Maurizio Marcheselli
1. presente 2. futuro di un passivo teologico 3. futuro attivo 4. futuro di un passivo teologico
z [A] a b [B] a
5. futuro di un passivo teologico 6. futuro attivo 7. futuro di un passivo teologico 8. presente
a b [B] a z [A]
1.2. Una
parabola in senso non tecnico
La pericope di Mt 25,31-46 sta al termine di una sequenza di parabole, tecnicamente riconoscibili come tali (24,45–25,46): il servo che si dimostra affidabile e saggio oppure cattivo e ipocrita (24,45-51); le dieci vergini, cinque sagge e cinque stolte (25,1-13); i talenti distribuiti a tre servi (25,14-30). A quale genere letterario appartiene Mt 25,31-46? Alcune edizioni moderne della Bibbia continuano a recare il titolo «Parabola del giudizio universale».15 È verosimile che, secondo il senso largo di parabolhv (parabole¯) adottato dagli evangelisti, questa descrizione possa rientrare in tale genere.16 Si tratta cioè di un mashal, di un discorso figurato in
15 Secondo Gray fu Pascasio Radberto (IX secolo) a definire per primo «parabola» la nostra pericope: S.W. Gray, The Least of My Brothers: Matthew 25:31-46. A History of Interpretation (Society of Biblical Literature Dissertation Series 114), Scholars Press, Atlanta 1989, 163.352. Fino al XX secolo tuttavia questo approccio in termini parabolici è attestato solo sporadicamente. Per Jeremias Mt 25,31-46 è una parabola, ma nel senso di un discorso apocalittico di rivelazione: J. Jeremias, Le parabole di Gesù (BCR 3), Paideia, Brescia 2000, 251 nota 49. Anche Lambrecht identifica il nostro testo come una parabola, ma «in senso lato»: J. Lambrecht, Le parabole di Gesù, EDB, Bologna 1982, 262-263. Per J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, 5: L’autenticità delle parabole (BTC 186), Queriniana, Brescia 2017, 201-202 la scena del giudizio finale non è propriamente una parabola: è piuttosto la profezia conclusiva del Gesù matteano. Per Luz, Vangelo di Matteo, III, 634 nota 4 si tratta di una parabola nel senso dei «discorsi metaforici» del libro di Enoch: era già la posizione di Jeremias. La Bibbia di Gerusalemme intitola il brano «Il giudizio finale» e, nella nota a Mt 25,31-46, spiega: «Questa potente scena drammatica include elementi parabolici, (il pastore, le pecore e i capri), ma non si può minimizzare l’importanza del testo riducendolo a una semplice parabola». 16 Il termine parabolhv può essere tradotto con «immagine tipologica, parabola, similitudine». «Nel tradurre, come si fa di solito, con similitudine/parabola, non si deve dimenticare che nei singoli casi occorre fare distinzioni che riguardano il genere letterario. […] In concreto parabolhv nei sinottici indica il proverbio (Lc 4,23; 6,39), la massima (Mc 7,17; Mt 15,15), la metafora (Mc 3,23; Lc 5,36), il discorso enigmatico (Mc 4,11; Mt 13,10; Lc 8,10), la regola (Lc 14,7), la similitudine che descrive un fatto tipico (Mc 4,13.30; 13,28; Mt 13,18.31.33.36; 24,32; Lc 8,4.9.11; 12,41; 13,6; 15,3; 21,29), la parabola che descrive un singolo caso interessante (Mc 12,12; Mt 13,24; 21,33; Lc 18,1; 19,11; 20,9.19), il racconto di un esempio inteso come un caso tipico (Lc 12,16; 18,19). A volte le sfumature sono fluttuanti»: G. Haufe, «parabolhv», in DENT, II, 746-749, qui 747.
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senso del tutto generico.17 Forse soltanto i vv. 32b-33 potrebbero essere ascritti al genere «parabola» in senso tecnico: «E li separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa…».18 Secondo Luz si può definire la pericope una «descrizione del giudizio»: essa, in ogni caso, non è né un’apocalisse (non ci sono visioni), né una parenesi a partire dal giudizio (manca l’apostrofe).19 I due dialoghi che ne costituiscono la gran parte (vv. 34-40; vv. 41-45) trovano riscontro in una forma attestata nella letteratura giudaica, a proposito della quale gli autori parlano di «dialogo di giudizio».20 L’esempio più vicino a Matteo si trova in un midrash del salmo 118: Nel mondo che verrà sarà detto a lui: «Che cos’è stato il tuo operato?». Se egli risponde: «Ho dato da mangiare agli affamati», allora gli sarà detto: «Quella è la porta di YHWH; tu che hai dato da mangiare all’affamato, entra». Se egli risponde: «Ho dato da bere all’assetato», gli sarà detto: «Quella è la porta di YHWH; poiché hai dato da bere all’assetato, entra». E se egli risponde, «Io ho vestito gli ignudi», gli sarà detto: «Quella è la porta di YHWH. Poiché hai vestito gli ignudi, entra».21
1.3. I destinatari
delle prime otto beatitudini matteane (M t 5,3-10)
Per l’indagine che segue occorre essere avvertiti del fatto che i destinatari del discorso (a chi parla il Gesù matteano?) potrebbero non coincidere con i soggetti chiamati in causa nel discorso stesso (di chi parla Gesù?). Inoltre, si deve valutare la possibilità che il discorso interpelli successivamente soggetti diversi: non tutto il contenuto potrebbe valere per il medesimo uditorio.
17 L’ampiezza d’uso di parabolhv nei sinottici corrisponde a quella di mashal nell’AT e nel giudaismo (fa eccezione Qumran). 18 Cf. C. Münch, «Il pastore le separerà. (Le pecore e i montoni)», in R. Zimmermann (a cura di), Compendio delle parabole di Gesù, Queriniana, Brescia 2011, 794-802. Nel suo studio Münch prende in esame, come parabola, soltanto i vv. 32-33. Anche in questo caso, però, si tratta più propriamente di una comparazione, come faceva peraltro notare già Jeremias, Le parabole di Gesù, 251 nota 49. Contro la natura di parabola dell’insieme del nostro brano depongono i verbi al futuro (J. Gnilka, Il vangelo di Matteo, II [CTNT 1/2], Paideia, Brescia 1991 [originale tedesco 1988], 537) e la mancanza dell’«effetto parabola»: la pragmatica del testo non è quella delle parabole in senso stretto, come essa è accuratamente descritta in V. Fusco, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Borla, Roma 1983, 59-81. 19 Luz, Vangelo di Matteo, III, 634. 20 Cf. Gnilka, Il vangelo di Matteo, II, 536; Luz, Vangelo di Matteo, III, 634 nota 1. Tutti i commentatori rimandano al materiale raccolto da P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, vol. 4, Beck, München 1969, ad locum. 21 Midrash Tehillim 118,17. Il testo prosegue con colui che ha allevato gli orfani, con chi ha fatto elemosine e con chi ha praticato opere buone. Riportato sia da Gnilka, Il vangelo di Matteo, II, 536-537 nota 1 che da W.D. Davies – D.C. Allison, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to Saint Matthew, (ICC), vol. 3, T&T Clark, Edinburgh 1997, 418.
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1.3.1. Da
chi è formato l ’ uditorio
«redazionale»
del discorso della montagna
Chi sono coloro che l’evangelista immagina stiano ad ascoltare le parole di Gesù seduto sul monte? L’uditorio degli altri quattro discorsi matteani è facilmente identificabile: il discorso d’invio in missione (c. 10) è rivolto ai «Dodici discepoli» (cf. 10,1-5a; 11,1); il discorso in parabole sul regno dei cieli (c. 13) è in parte per le folle (13,3-9.24-33; cf. 13,34-35) e in parte per i discepoli (13,10-23.36-50; cf. 13,51-52), i quali in ogni caso ascoltano anche le parole rivolte alla folla (cf. 13,10); il discorso ecclesiale (c. 18) è rivolto dapprima a tutti i discepoli (18,1-20) e poi specificamente a Pietro (18,21-35); il discorso escatologico (cc. 24–25) è esclusivamente per i discepoli (cf. 24,3-4a). Coloro ai quali il Gesù di Matteo rivolge il suo primo discorso sono invece un uditorio estremamente composito, che comprende evidentemente dei discepoli,22 ma anche degli israeliti – che non fanno parte del gruppo dei discepoli – e verosimilmente dei gentili. La cornice che Matteo ha costruito (cf. 4,18–5,2; 7,28–8,13), per abbracciare il primo grande discorso del messia, contiene numerose indicazioni che vanno in questa direzione. La cornice superiore (Mt 4,18–5,2). Si può dire che la parte finale del c. 4 di Matteo (i vv. 18-25) ha essenzialmente lo scopo di raccogliere l’uditorio che deve ascoltare il discorso e che, secondo 5,1, è composto dalle folle e dai discepoli: «Vedendo le folle salì sul monte e, dopo che egli si fu messo a sedere, si accostarono a lui i suoi discepoli». In 4,18-22 Matteo racconta la chiamata dei primi discepoli. L’indicazione che «i suoi discepoli si accostarono a lui» (5,1) fa diretto riferimento a questi primi quattro chiamati. In 4,25 l’evangelista menziona «molte folle» che seguono Gesù: sono queste «le folle»,23 vedendo le quali egli apre la sua bocca per insegnare (5,1). Esse provengono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme e dalla Giudea, da oltre il Giordano. Gerusalemme è l’unico toponimo che si riferisce a una città, in mezzo a quattro nomi di regione. La lista menziona pertanto quattro regioni (Galilea, Decapoli, Giudea, Transgiordania), indicando in un solo caso la città (Gerusalemme) che rappresenta il cuore di una di esse (la Giudea). Non ci sono dubbi sul fatto che le folle ai piedi dalla montagna contengano degli israeliti: la menzione della Galilea e della Giudea – con Gerusalemme – lo indica chiaramente.24 Come interpretare, però, il fatto che il
22 «Le beatitudini sono la carta di identità del cristiano» (Gaudete et exsultate, n. 63): papa Francesco si mostra in debito verso una linea interpretativa molto diffusa, senza che l’identificazione esatta dei destinatari dei macarismi sia oggetto di un'esplicita riflessione nella sua Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018). 23 Si noti l’uso anaforico dell’articolo davanti a «folle» in 5,1. 24 È comunque sorprendente l’apparizione di folle provenienti dalla Giudea. Secondo quanto raccontato finora, l’attività di Gesù si è svolta esclusivamente nella Galilea, già ripe-
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v. 25 fa riferimento anche alla Decapoli e a «oltre il Giordano»? Per molti si tratta semplicemente dei territori dell’Israele biblico.25 Lo dimostrerebbero le omissioni operate da Matteo su Mc 3,7b-8: rispetto alla Vorlage marciana mancano Tiro e Sidone e pure l’Idumea, segno che l’orizzonte è ristretto soltanto a Israele. Si potrebbe tuttavia sostenere che Matteo non riporti la menzione di Tiro e Sidone perché già comprese nella Siria, da lui menzionata al v. 24a; se poi anche l’Idumea è tralasciata ciò potrebbe derivare dal fatto che tale regione era, almeno in parte, già compresa nella Giudea. Facciamo poi soprattutto osservare che è, comunque, rimasta l’indicazione «oltre il Giordano» e soprattutto che è entrato in Mt 4,25 un riferimento, assente nel testo marciano, alla Decapoli.26 Le quattro indicazioni geografiche di Mt 4,25 veicolano, a nostro giudizio, una precisa intenzione redazionale: si scende da nord a sud, menzionando per due volte prima una regione a ovest (Israele) e poi una a est del Giordano (i gentili). A nord si trovano la Galilea e la Decapoli: la prima a ovest e la seconda a est del lago; a sud si trovano la Giudea e la Transgiordania: la prima a ovest e la seconda a est del Giordano. Quelli a ovest sono territori di Israele; quelli a est sono territori dei gentili. Non si dimentichi che i magi vengono da oriente (2,1), essi che – nel racconto matteano dell’infanzia – sono i rappresentanti delle genti.27 Difendiamo, pertanto, l’ipotesi che per Matteo tra gli uditori del discorso della montagna si debbano annoverare anche dei gentili. Come interpretare il riferimento alla Siria di Mt 4,24a? Esso deriva probabilmente da una particolare interpretazione matteana di Mc 1,28. La formulazione marciana («E si diffuse la sua fama subito dappertutto nell’intero circondario della Galilea») contiene una certa dose di ambiguità, potendo essere compresa in due modi differenti: a) «nell’intera regione circostante [Cafarnao], cioè la Galilea» (un genitivo epesegetico); b) «nell’intera regione che circonda la Galilea» e quindi i territori al di fuori d’Israele. Menzionando la Siria, Matteo ha interpretato nel secondo senso l’indicazione marciana. Perché questo interesse per la Siria? Evidentemente perché si tratta di una regione abitata da gentili. L’interesse
tutamente menzionata dall’evangelista (4,12.15.18.23). Il fatto che ora Matteo introduca, in modo assolutamente inatteso, anche la Giudea e Gerusalemme si spiega probabilmente con l’intenzione di veder raccolta ai piedi del monte la totalità di Israele. 25 Cf. Luz, Vangelo di Matteo, I, 280; G. Lohfink, Per chi vale il discorso della montagna? Contributi per un’etica cristiana (Biblioteca biblica 3), Queriniana, Brescia 1990, 17-28. 26 La Decapoli è menzionata soltanto qui in Matteo; cf. invece Mc 5,20; 7,31. Chi sostiene che le folle siano composte solo da israeliti fa notare che il territorio della Decapoli apparteneva in massima parte all’«Israele biblico». La Transgiordania, poi, coinciderebbe con la Perea, una zona soggetta al controllo del sommo sacerdote di Gerusalemme. 27 Cf. C. Ziethe, Auf seinen Namen werden die Völker hoffen. Die matthäische Rezeption der Schriften Israels zur Begründung des universalen Heils (BZNT 233), De Gruyter, Berlin-Boston 2018, 156-164. Il corteo dei magi è una descrizione prolettica del pellegrinaggio dei popoli.
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per la Siria,28 che è dunque una peculiarità matteana, tradisce forse anche il fatto che Antiochia di Siria è il luogo di composizione del vangelo:29 la presenza di questa indicazione geografica potrebbe riflettere l’attenzione dell’evangelista per quella regione fuori da Israele in cui si trova una grande città del Vicino Oriente antico, la città in cui ha visto la luce il suo vangelo. In ogni caso, come acquisizione minimale, la menzione della Siria tradisce la volontà matteana di mostrare la dimensione universalistica dell’appena avviatasi attività messianica di Gesù di Nazaret. Luz sottolinea che «la fama di Gesù – ed essa solo – va già oltre Israele».30 Eppure il modo di raccontare di Matteo sembra essere volutamente ambiguo: dopo aver detto che la fama di Gesù si è diffusa in Siria (v. 25a), egli lascia imprecisato il soggetto del verbo «portarono» (v. 25b). Non si può escludere che l’evangelista voglia farci intendere che perfino dalla Siria malati, indemoniati e paralitici vengano da Gesù per essere guariti. D’altro canto, l’interesse di Matteo per i gentili è già apparso in modo inequivocabile in due passaggi precedenti del suo vangelo: nel racconto della venuta dei magi da oriente (2,1-12) e nella spiegazione da lui data al trasferimento di Gesù da Nazaret a Cafarnao (4,13-16).31 Questo secondo passo è particolarmente rilevante per valutare l’orientamento di Matteo nel raccontare l’inizio del ministero pubblico di Gesù. Il sommario di Mc 1,14-15 è chiaramente ripreso – non senza modifiche di un certo peso – in Mt 4,12 e 4,17. Esclusivamente matteani sono invece i vv. 13-16, in cui l’evangelista si preoccupa di motivare il fatto che, tornando in Galilea dopo il battesimo al Giordano (cf. 3,13 e 4,12), Gesù non si sia stabilito a Nazaret, la città in cui è cresciuto (cf. 2,23), ma abbia posto la sua residenza a Cafarnao. Questo trasloco viene spiegato da Matteo sulla base di Is 8,23b–9,1. Di Is 8,23b Matteo ha conservato solo le indicazioni geografiche; se ne contano ben cinque, dove le prime quattro sono propriamente due coppie: terra di Zabulon e terra di Neftali; verso il mare,32 al di là del Giordano; Galilea delle genti. Le prime due sono simili («terra di…») e sono collegate da un kaiv (kai); la terza e la quarta, collegate asindeticamente, si presentano come due costrutti preposizionali («verso» e «al di là»).33 «Galilea delle genti» è un sintagma che intende ricapitolare tutte le
28 Si tratta della provincia romana di Siria: Matteo non pensa né alla Siria del sud, né all’intero Levante: Luz, Vangelo di Matteo, I, 280-281 nota 7. 29 «Matteo pensa forse alla sua patria?» (ivi, I, 281 nota 7). 30 Ivi, I, 280. 31 In verità, secondo un’interpretazione largamente accettata, anche la genealogia iniziale di Mt 1,1-17 risponde all’intenzione di presentare Gesù come il messia di Israele in quanto figlio di Davide, destinato a essere benedizione per tutte le genti in quanto figlio di Abramo. 32 Così si deve tradurre il sintagma oJdo;n qalavssh~. 33 «Il mare» fa riferimento al «mare della Galilea» (cf. 4,18). «Al di là del Giordano» (= 4,25) significa a est del Giordano, in Transgiordania. La prospettiva è pertanto quella di uno che guarda verso oriente.
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indicazioni precedenti. Senza dubbio Matteo ricorre a quel passo di Isaia proprio per la presenza in esso dell’espressione «Galilea delle genti», l’ultima della serie: essa non implica che la Galilea appartenga ai territori dei gentili, ma la connota come un luogo in cui il contatto tra Israele e le genti è sempre stato storicamente più facile.34 Per Matteo, Cafarnao è un luogo che corrisponde meglio di Nazaret a quanto profetizzato da Isaia a proposito della «Galilea delle genti». Il racconto del centurione di Cafarnao (Mt 8,5-13), su cui torneremo tra poco, conferma che, per il primo evangelista, Cafarnao – e non Nazaret – sta in quella parte della Galilea che può essere detta «Galilea delle genti». Fin dall’inizio della sua attività pubblica, proprio in ragione di questa scelta abitativa, Gesù appare dunque legato non solo a Israele, ma anche alle genti. L’evangelista interpreta il cambiamento di residenza come una indicazione che Gesù è sì il messia di Israele, la cui vicenda è però destinata a travalicare i confini del popolo eletto. C’è, pertanto, una chiara coerenza nel modo in cui Matteo procede rispetto a Marco nell’avvio del racconto: mentre Marco introduce il motivo dei gentili soltanto dopo un consistente periodo di attività pubblica (Mc 3,7b-8), Matteo insiste fin dall’inizio doppiamente sulla portata universale del ministero del messia d’Israele: tanto motivando il trasferimento di Gesù a Cafarnao, quanto anticipando la descrizione della natura composita (non solo israelitica) delle folle al suo seguito. La cornice inferiore (Mt 7,28–8,13). Uno sguardo a come Matteo prosegue il suo racconto, dopo che Gesù ha terminato il discorso della montagna, conferma i dati già evidenziati. Mt 7,27-28 (una rielaborazione di Mc 1,22) dice chiaramente che le folle hanno potuto ascoltare la totalità del discorso (il che non significa, evidentemente, che tutte le istruzioni in esso contenute siano destinate specificamente a loro). Solo 7,28-29 chiarisce definitivamente che la distinzione attestata in 5,1-2 – dove Gesù vede le folle (5,1), ma solo i discepoli si accostano a lui (5,2) – non implica l’esclusione delle prime dal novero degli uditori del discorso. Subito dopo la purificazione del lebbroso (8,1-4) Matteo, poi, racconta una guarigione a distanza che vede coinvolto un gentile, il centurione di Cafarnao (8,5-13). L’incontro con questo straniero conferma come per Matteo Cafarnao, la città in cui Gesù ha stabilito la sua dimora (4,13), sia un luogo in cui ebrei e gentili si trovano a stretto contatto (4,15: «Galilea delle genti»): l’episodio potrebbe pertanto rappresentare una intenzionale inclusione, rispetto alle indicazioni da lui fornite a proposito degli uditori del discorso in 4,24-25.35 Una menzione di stranieri all’inizio del discorso
34 Cf. Ziethe, Auf seinen Namen werden die Völker hoffen, 246-252. «Galilea delle genti» conferisce alla citazione un orientamento universalistico. 35 La sequenza «discorso della montagna (o del piano) + guarigione del servo del centurione» risale probabilmente a Q: cf. Lc 6,20–7,10. Così anche Manicardi, «Gesù e gli stranieri», 67-68. Se Matteo inserisce il lebbroso (8,1-4) prima del centurione (8,5-13) è perché
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si armonizza bene con la collocazione dell’episodio del centurione poco dopo il suo termine. Non possiamo pertanto condividere la posizione di quanti, da un lato, insistono nel dire che i destinatari del discorso non sono solo i discepoli, ma, dall’altro, circoscrivono l’uditorio al solo Israele.36 L’uditorio redazionale del discorso della montagna è costituito da discepoli di Gesù, da israeliti della Galilea e della Giudea e anche da gentili, provenienti dalla Decapoli e dalla Transgiordania – ma forse anche dalla Siria.37 1.3.2. Le
prime otto beatitudini
non hanno il medesimo destinatario del resto del discorso
Senza addentrarci in una discussione in merito alla struttura complessiva del discorso della montagna, ci basta rilevare che 5,17 segna l’inizio di una sezione che arriva fino alla fine del c. 5: nei vv. 17-48 il Gesù matteano presenta una serie di sei «antitesi» in cui esemplifica «il compimento di legge e profeti» (5,17) e «la giustizia più abbondante» che tale compimento esige (5,20). Che dire dei vv. 3-16? Si tratta di una sezione che possiamo genericamente definire «introduttiva». Essa però risulta decisamente composita al suo interno: si riconoscono qui tre unità, appartenenti a diversi generi letterari. Ci sono anzitutto otto beatitudini dello stesso tipo, alla terza persona plurale (vv. 3-10). Segue un’ultima beatitudine notevolmente più sviluppata delle precedenti (vv. 11-12): essa passa dalla terza persona plurale alla seconda e contiene al suo interno anche un’esortazione («gioite e rallegratevi»). Dopo di che, abbiamo ancora due sviluppi sintatticamente identici, non più nella forma di un macarismo, introdotti da due immagini simili (vv. 13-16): «Voi siete sale/luce della terra/del mondo». Le tre unità si lasciano raccogliere in due blocchi: il passaggio cruciale è da «essi» (vv. 3-10) a «voi» (vv. 11-16). Con la nona beatitudine il destinatario del discorso cambia e si identifica senza ombra di dubbio con i
questo episodio è in stretta connessione con uno dei contenuti centrali del discorso della montagna: «Non crediate che sia venuto per abolire la legge o i profeti» (5,17a). 36 È questa una linea interpretativa largamente diffusa: Lohfink, Per chi vale il discorso della montagna? (i discepoli rappresentano l’Israele che ha già creduto al messia [la Chiesa], mentre le folle l’Israele che ancora non è giunto alla fede messianica); Luz, Vangelo di Matteo, I, 280 nota 4 (anche se Matteo in 5,1 usa o[cloi [ochloi] intende «grandi folle da Israele»); M. Theobald, «Wie die Bergpredigt gelesen werden will. Zwölf Hinweise aus der Sicht heutiger Forschung», in Id., Jesus, Kirche und das Heil der Anderen (Stuttgarter biblische Aufsatzbände 56 – Neues Testament), Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 2013, 11-35, qui 13-16. 37 Un’interpretazione simile alla nostra si trova in Dumais, Il discorso della Montagna, 135.
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discepoli di Gesù.38 La sezione inaugurale si compone pertanto di un primo segmento (vv. 3-10) in cui Gesù fa riferimento a soggetti da lui indicati alla terza persona plurale; ad esso segue un secondo segmento (vv. 11-16) in cui – attraverso il «voi» – sono chiamati in causa direttamente i discepoli. Un titolo adeguato a questa sezione di avvio (5,3-16) dovrebbe pertanto valorizzare la presenza di un doppio destinatario: «Chi è beato perché oggetto della promessa di Dio (5,3-10) e qual è lo specifico ruolo dei discepoli nel mondo (5,11-16)». Noi sosteniamo, pertanto, che le prime otto beatitudini siano pronunciate in riferimento alla totalità dell’uditorio presente ai piedi della montagna (discepoli, israeliti, gentili), mentre dal v. 11 in poi (e fino alla fine del discorso) le parole di Gesù riguardino i suoi discepoli, ai quali egli continua a parlare in presenza delle folle. È questa la direzione in cui si deve dare una risposta alla domanda che continuamente emerge nel dibattito esegetico:39 a chi è indirizzata l’etica del discorso della montagna e chi la può praticare? Dei singoli o un gruppo? Un gruppo ristretto (una morale elitaria) o un popolo? E questo popolo è la Chiesa, Israele o l’intera umanità? L’etica del discorso è indirizzata inizialmente a tutti indistintamente; poi si concentra sui discepoli, non per escludere le folle – che restano ad ascoltare stupite –, ma per indicare ciò che è specifico di quanti hanno compiuto esplicitamente la scelta della sequela. Un’obiezione di un certo peso rispetto a questa prospettiva di lettura delle prime otto beatitudini è data dal fatto che in esse si trovano vocaboli ed espressioni che altrove qualificano i discepoli o addirittura lo stesso Gesù matteano. È possibile che proprio questa terminologia abbia qui una portata universale? La prima e la terza beatitudine (per i poveri in spirito e per i miti) mostrano una chiara somiglianza con il modo in cui Gesù descrive se stesso
Anche Luz, Vangelo di Matteo, I, 328 dichiara: «L’ultima beatitudine si rivolge direttamente ai discepoli». Egli ne riconosce pertanto il carattere peculiare. 39 Cf. M. Grilli, Il discorso della montagna. Utopia o prassi quotidiana? (Collana Biblica), EDB, Bologna 2016, 11-17; P. Lapide, Il discorso della montagna. Utopia o programma? (SB 138), Paideia, Brescia 2003, 10-14; Luz, Vangelo di Matteo, I, 294-301.614-615; Theobald, «Wie die Bergpredigt gelesen werden will», 13-16. La posizione oggi largamente prevalente, formulata con le parole di Theobald, è che la comunità di quelli che seguono Gesù è anche il luogo al quale le istruzioni del discorso della montagna anzitutto appartengono. Esso però non è un discorso esoterico: vale per tutti i presenti. Non è una morale per la Chiesa come gruppo speciale: ciò che Gesù dice ai Dodici sul monte lo deve ascoltare tutto Israele. L’ultima pagina di Matteo (28,16-20), che rimanda esplicitamente al primo discorso, chiarisce che esso è una istruzione per la vita di tutti i popoli: esso ha certamente il suo primo luogo nella comunità dei battezzati, ma funziona come istruzione di Gesù, per una vita riuscita davanti a Dio, per tutti gli uomini. L’ethos del discorso della montagna è ethos dei discepoli, che può essere vissuto nella sequela di Gesù, ma non è in nessun modo un ethos speciale: esso è riconoscibile e sperimentabile da tutti gli uomini come buono e perciò come attraente per loro. 38
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in 11,29: «Da me imparate che sono mite e umile di cuore». L’aggettivo «mite» è il medesimo di 5,5 e il sintagma «umile di cuore» sembra essere semplicemente una variante di «povero in spirito» (5,3). Si può inoltre dire che la misericordia (quinta beatitudine) è un atteggiamento che caratterizza inequivocabilmente il Gesù di Matteo (cf. 9,12-13; 12,1-8). Nelle beatitudini si trovano termini che altrove in Matteo sono connotati in senso «discepolare»: la giustizia (quarta e ottava); la misericordia (quinta); la condizione di figli di Dio (settima). La giustizia non è forse per eccellenza la caratteristica che Gesù esige dai suoi discepoli (5,20; cf. 13,43a)?40 La quarta e l’ottava beatitudine non possono pertanto riferirsi se non a loro. La misericordia non è forse il criterio adottato dal messia per interpretare la Torah (9,13; 12,7) e, quindi, componente essenziale della giustizia che Gesù richiede ai suoi? Come potrebbe la quinta beatitudine avere una portata universale? La condizione di «figli di Dio» non è forse, per Matteo, l’essenza stessa dello status del discepolo (5,16; 5,45.48; passim)? Come potrebbe la settima beatitudine riferirsi ad altri che non siano i discepoli? Anche la povertà in spirito è richiesta da Gesù ai suoi discepoli: pur in assenza della terminologia di 5,3 – e di 11,29 – non si può, infatti, interpretare diversamente l’avvio del discorso ecclesiale del c. 18. Il bambino è presentato da Gesù come «icona» della conversione (18,3a: «Se non vi convertite diventando come i bambini»), precisamente perché incapace di bastare a se stesso, il che corrisponde perfettamente a quanto è veicolato dalle due espressioni «poveri in spirito» (5,3) e «umile di cuore» (11,29). Può allora questa caratteristica essere impiegata in un senso semplicemente generale? Al momento di elaborare la nostra riflessione sul tipo di etica che Matteo intende proporre attraverso le beatitudini e la descrizione del giudizio finale (cf. paragrafi 2 e 3) si preciserà anche la risposta a questo tipo di obiezione.
1.4. I destinatari
della « parabola » sul giudizio finale (M t 25,31-46)
In questo caso con «destinatari» non intendiamo tanto l’uditorio a cui Gesù si sta rivolgendo secondo la redazione matteana,41 quanto piuttosto i soggetti che – stando alla parabola – sono convocati in giudizio. L’interpretazione di questo grandioso affresco dipende essenzialmente dal significato che si attribuisce a due sintagmi: «tutte le genti» (v. 32); «i miei fratelli più piccoli» (v. 40). Il primo indica chi è soggetto al giu-
40 I giusti che splendono come il sole nel regno del Padre loro (13,43a) sono quei figli del regno (13,38) che non hanno dato scandalo e non hanno operato l’iniquità (13,41): si tratta, dunque, di appartenenti alla Chiesa. 41 Come abbiamo già avuto modo di rilevare, si tratta dei soli discepoli.
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dizio; il secondo il criterio in base al quale il re giudicherà.42 L’interpretazione del primo è, almeno in parte, condizionata da come si intende il secondo. Chi sono, dunque, i convocati davanti al trono della gloria? 1) «Tutte le genti» significa «tutti i non ebrei», cioè tutti i popoli della terra a esclusione di Israele? 2) Significa piuttosto «tutti i non cristiani»? E, in questo caso, Israele (cioè, quella parte di esso che non ha creduto al messia di Nazaret) è compreso? 3) Oppure «tutte le genti» significa la totalità dei popoli della terra, Israele compreso? E, in questo caso, i discepoli di Gesù sono compresi? Come si vede, i nodi da sciogliere sono fondamentalmente due: il giudizio coinvolge anche Israele? riguarda anche i discepoli di Gesù? A nostro parere l’espressione «tutte le genti» designa l’intera umanità:43 i convocati davanti al trono del Figlio dell’uomo sono la totalità degli uomini, compreso Israele e compresi i discepoli di Gesù.44 Anche Israele è compreso. Per quanto sia incontestabile che il sintagma «le genti» nell’AT e nel NT indichi normalmente «i non circoncisi, i non ebrei», questo significato non ci pare difendibile nel nostro caso.45 Chi vorrebbe escludere Israele dalla portata del sintagma pensa che, per Matteo, Israele sia già stato condannato o subisca un giudizio speciale:46 un’ipotesi difficilmente dimostrabile. Anche i discepoli di Gesù sono compresi. Interpretare «tutte le genti» come un modo per riferirsi ai non cristiani presuppone l’e-
L’espressione «a uno solo di questi miei fratelli più piccoli» (v. 40) è usata dal re nel rivolgersi a quelli alla sua destra. Quando si dirige a quelli alla sinistra egli adotta una formula abbreviata, in cui manca la parola «fratelli»: «a uno solo di questi più piccoli» (v. 45). 43 Così conclude Luz, Vangelo di Matteo, III, 650-653.663-664: «tutte le genti» include certamente i cristiani, mentre se Israele sia compreso o meno è un interrogativo a cui il testo non risponde. Cf. anche Ziethe, Auf seinen Namen werden die Völker hoffen, 313-322 (in Mt 25 è descritto realmente un giudizio universale e non un giudizio delle genti); C. Blumenthal, Basileia im Matthäusevangelium (WUNT 416), Mohr Siebeck, Tübingen 2019, 259-261 (tutti gli uomini, anche i discepoli di Gesù, devono rispondere davanti al giudice-re di quanto hanno o non hanno fatto). Opposta è la posizione di Walter per il quale il sintagma indica i non ebrei e i non cristiani: N. Walter, «e[qno~», in DENT, I, 1013-1018, qui 1018. 44 A volte s’invoca a sostegno di questa tesi il fatto che 25,31 pare essere la diretta continuazione di 24,30-31: i due passi hanno in comune il Figlio dell’uomo, gli angeli e la gloria. Mt 24,30-31 sembra proprio descrivere un giudizio di portata assolutamente universale. 45 Dobbiamo tuttavia riconoscere che gli altri tre usi matteani del sintagma «tutte le genti» (24,9.14; 28,19) potrebbero essere tutti interpretati in riferimento a «i gentili», Israele escluso. D’altro canto, «risulta già tradizionale nel giudaismo non solo l’associazione tra giudizio escatologico e opere di misericordia, ma anche l’idea centrale della nostra pericope; in un midrash su Dt 15,9 vengono poste sulla bocca di JHWH queste parole: “Figli miei, se voi avrete dato da mangiare ai poveri, io ve lo ascriverò come se aveste sfamato me stesso”» (V. Fusco, La casa sulla roccia. Temi spirituali di Matteo, Qiqajon, Magnano 1994, 132). 46 Per alcuni autori il giudizio escatologico di Israele sarebbe descritto in 24,15-22: poco verosimile. Torneremo sulla faccenda anche al paragrafo 2.2. 42
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quivalenza gentili = pagani,47 che non ha nessuna attestazione nel NT (e tantomeno nell’AT). Chi vorrebbe escludere i discepoli dalla portata del sintagma pensa che essi siano da identificarsi con «i fratelli più piccoli» del re e che il trattamento riservato loro rappresenti il criterio del giudizio finale di tutti gli altri: su questo torneremo nel paragrafo 2.2. Una difficoltà insormontabile rispetto all’ipotesi che anche i discepoli di Gesù siano chiamati in causa è poi individuata da alcuni nel fatto che i convocati davanti al trono mostrano di non conoscere colui che li sta giudicando (vv. 37-39; v. 44): una situazione che non si addice ai discepoli. Tutto questo perde, però, d’importanza di fronte alla constatazione che l’amore fattivo costituisce anche per i seguaci di Gesù il criterio unico di giudizio, come ripetutamente attestato nel racconto matteano (cf. 7,12; 22,34-40; 23,23). Si vedano, in particolare, la parabola delle nozze del figlio del re (22,114) e quella delle dieci vergini (25,1-13): tanto l’abito per la festa di nozze quanto l’olio che alimenta la lampada sono immagini dalla dimensione fattiva, trascrizione simbolica delle «opere belle» (5,16) con cui i discepoli rendono visibile nel mondo il volto del Padre. Risulta inoltre del tutto inverosimile che, dopo essersi costantemente rivolto ai discepoli per ammonirli, lungo tutto il discorso escatologico, Gesù lo chiuda con una descrizione che non li chiama in causa in nessun modo: la dimensione di ammonimento che coinvolge anche i discepoli non può essere eliminata dalla pericope che chiude i cc. 24–25. Nella visione matteana non ci sono forme diverse di giudizio per Israe le, per i «cristiani» e per i gentili «non cristiani». Il giudizio di Mt 25,3146 è un giudizio veramente universale, in cui un unico criterio è applicato a tutti gli uomini e questo criterio è l’amore fattivo (cf. il doppio uso di poievw [poieo¯] tanto al v. 40 quanto al v. 45), che si esprime nel servizio reso a persone in situazioni di difficoltà (cf. l’uso di diakonevw [diakoneo¯] in 25,44 come termine capace di esprimere il significato sotteso alle sei azioni esemplificate dal giudice).
2. L’etica
e della
delle beatitudini «parabola»
Come la quarta e l’ottava beatitudine sono incentrate sulla «giustizia» (5,6.10), così quelli che si trovano alla destra del trono del Figlio dell’uomo sono chiamati «giusti» (25,37.46). Se quanto abbiamo cercato di dimostrare a proposito dell’identità dei beati (5,3-10) e di coloro che saranno giudicati (25,31-46) è corretto, il tema della giustizia in Matteo – che andrà precisata nel suo contenuto e nel rapporto che intrattiene con la misericordia – conosce una declinazione in termini assolutamente universali, tali da oltrepassare i confini riconoscibili del gruppo di coloro che si sono
47 I gentili sono i non ebrei, i pagani sono i non cristiani. La categoria di gentili è biblica, mentre non lo è quella di pagani.
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messi alla sequela di Gesù. La giustizia rappresenta pertanto un fondamentale principio di valutazione trans-culturale e trans-religioso.
2.1. L’etica
delle prime otto beatitudini matteane (M t
2.1.1. Non
5,3-10)
situazioni oggettive ,
ma scelte responsabilmente compiute
Le beatitudini matteane riguardano tutte degli atteggiamenti;48 anche la seconda, che proclama beati gli afflitti. A quale afflizione si fa, dunque, riferimento qui?49 Secondo Balz, nel macarismo di Mt 5,4 il verbo penqevw esprimerebbe semplicemente «il lamento di coloro che soffrono in questo mondo e possono porre la loro speranza soltanto in Dio».50 Se così fosse, saremmo davanti a un’anomalia: si tratterebbe dell’unico macarismo riferito a una situazione oggettiva e non a un atteggiamento consapevolmente assunto. A nostro giudizio, un’altra linea interpretativa s’impone in ragione della coerenza complessiva della composizione matteana: l’afflizione di cui si parla qui è l’afflizione per il fatto che il regno dei cieli trova opposizione, per il fatto che il vangelo incontra ostilità nel mondo.51 O, ancora meglio, è il non restare indifferenti davanti al male – fisico o spirituale – che colpisce la vita altrui, è l’essere afflitti per la situazione dolorosa in cui altri versano.52 La beatitudine non è per la sofferenza in senso generale, ma per la capacità di com-patire: beati sono coloro che si affliggono per il male e il peccato altrui. Ciò che è indicato negli otto macarismi matteani è un modo consapevolmente assunto di porsi nel mondo e non (come nel caso di Lc 6,22-24) una condizione oggettiva indipendente dalle scelte personali. Si tratta costantemente di stili di vita liberamente scelti, a cui ci si deve educare:
È un dato comunemente riconosciuto che l’orientamento fondamentale della redazione matteana delle beatitudini, rispetto a quella lucana di Lc 6,20-22, trasforma quelle che sono situazioni oggettive in dimensioni del soggetto: «i poveri» in senso sociologico (Lc 6,20b) diventano «i poveri quanto allo spirito» (Mt 5,3); «coloro che patiscono la fame» (6,21a) diventano «gli affamati di giustizia» (Mt 5,6). 49 Il verbo penqevw significa «essere afflitto, lamentarsi, piangere». Luca usa klaivw. Può darsi che abbia influito su Matteo (o sulle sue fonti o tradizioni) il testo di Is 61,2-3 dove il verbo penqevw è impiegato tre volte: così Balz, «penqevw», in DENT, II, 883-884. Penqevw si trova spesso nei LXX per indicare il dolore che si esprime in lacrime, lamenti e riti funebri. Anche nel NT il verbo può essere usato per il lamento funebre: un pianto che è partecipazione al dolore altrui. 50 Balz, «penqevw», 884. 51 L’unica altra occorrenza di questo verbo in Matteo è, in effetti, in riferimento alla morte di Gesù: «Forse che possono affliggersi i figli della sala nuziale per quanto è con loro lo sposo?» (9,15). 52 Questa linea interpretativa è attestata anche in Leone Magno, Disc. 95,4-5 (PL 54,462463). 48
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il percepirsi come incapaci di bastare a se stessi,53 l’affliggersi per il male (fisico e spirituale) che colpisce l’altro o che ostacola il Regno, la mitezza, la passione per la giustizia che arriva fino a patire persecuzione per essa, la misericordia, la semplicità di un cuore privo di doppiezze,54 l’amore per la pace. Gesù non esorta ad assumere tali atteggiamenti: con sguardo profetico li riconosce già presenti nel variegato uditorio che si è radunato per ascoltarlo e che è composto da discepoli, israeliti e gentili. Davanti ai suoi occhi ci sono già dei poveri in spirito, degli afflitti e via dicendo: egli non sta invitando a diventare tali (esortazione) e non pronuncia una parola performativa (benedizione) perché qualcuno lo diventi in futuro. Egli sta dicendo che coloro che già sono poveri quanto allo spirito, miti, affamati di giustizia, ecc. sono ricompensati da Dio, ora (prima e ottava promessa) e nel futuro (tutte le altre). I beati non si trovano né soltanto tra le folle (provenienti da Israele e dai territori dei gentili), né tra i soli discepoli: chiunque – tra le folle e i discepoli – assume i comportamenti esemplificati da Gesù è tale. La beatitudine che Gesù proclama non intende descrivere la percezione soggettiva che gli interessati hanno di sé: questa proclamazione profetica riguarda il livello oggettivo – o, più propriamente, teologico – della realtà. 2.1.2. Un’etica
imperniata sulla giustizia ,
ma quale giustizia ?
La passione per la giustizia (secondo il duplice possibile significato del termine «passione»: forte desiderio e patimento) è oggetto di ben due macarismi. La giustizia a cui fanno riferimento la quarta e l’ottava beatitudine non è da intendersi come una caratteristica divina, ma come una qualità dell’uomo.55 Questo è, d’altro, canto il significato del termine dikaiosuvnh (dikaiosyne¯) anche nel seguito del discorso della montagna.56
53 Nel caso dei «poveri quanto al pneuma» non si tratta evidentemente dello Spirito di Dio, ma dello spirito dell’uomo. È qui indicata la dimensione più profonda dell’essere umano, l’intimo dell’uomo (cf. Mc 2,8). I «poveri in spirito» sono coloro che, nel più profondo della loro persona, hanno acquisito la consapevolezza di non bastare a se stessi. 54 La purezza di cuore indica la semplicità di intenzioni, l’assenza di ogni forma di doppiezza: il cuore è puro quando contiene una sola intenzione. L’espressione «mani innocenti e cuore puro» (Sal 24,2-3) esprime la necessità che la pulizia a livello dell’agire (le mani innocenti) corrisponda alla semplicità di intenzione (il cuore puro). Così anche Lapide, Il discorso della montagna, 41. 55 Cf. Luz, Vangelo di Matteo, I, 321-322. Anche in 6,33 dikaiosyne¯ indica «la giustizia richiesta agli uomini, quindi quel comportamento che Dio vuole e che corrisponde al suo regno» (ivi, I, 544). Anche per Michelini, Matteo, 98 la giustizia «esprime, nel contesto del primo vangelo, un agire umano conforme alla volontà e alla legge di Dio». A differenza di Michelini non ci sentiremmo, però, di dire che essa «non ha a che fare con la giustizia sociale»: una dimensione sociale ci pare ineliminabile dalla giustizia per come la intende Matteo. 56 Nei cc. 5–7 il sostantivo «giustizia» si trova 5× (5,6.10.20; 6,1.33); 1× l’aggettivo «giusto» (5,45).
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Di dikaiosyne¯ si parla tanto in quella parte del discorso che ha per destinatari anche le folle (5,6.10), quanto in quella che ha di mira esclusivamente i discepoli (5,20; 6,1.33): tanto la morale universale (quarta e ottava beatitudine) quanto quella discepolare (le «antitesi» con la loro introduzione) attingono pertanto alla medesima categoria. Possiamo dire che per Matteo la giustizia rappresenti il nucleo fondamentale di ogni etica, una giustizia che non è separabile dalla misericordia, anzi che tende a identificarsi con essa. In 5,17 il Gesù matteano introduce la categoria di «compimento della legge», il cui corrispettivo antropologico è una «giustizia più abbondante» (5,20): se la Torah giunge al suo compimento è necessario che anche l’obbedienza ad essa conosca un accrescimento proporzionato. Da 5,17-20 apprendiamo l’esistenza di diversi livelli di giustizia, in corrispondenza con modalità diverse di interpretare la Torah: esiste una «giustizia 1.0» che è quella di scribi e farisei e una «giustizia 2.0» che è quella che Gesù si aspetta dai suoi discepoli, in conseguenza del compimento da lui portato. Le cosiddette «antitesi» (5,21-48) sono esemplificazioni concrete di quella giustizia più abbondante che consegue al compimento messianico della Torah. Il compimento della Legge operato dal messia non si presenta né come sostituzione né come semplice ratifica di quello che Dio aveva detto agli antichi: esso va nella linea di una interiorizzazione e radicalizzazione della Parola già rivelata per mezzo di Mosè. L’abbondanza della giustizia, a sua volta, si esprime in comportamenti che possiamo qualificare come «misericordia». La sintesi matteana di «legge e profeti» è racchiusa adeguatamente nella categoria di e[leo~ (eleos), come ribadito altrove dalla doppia citazione di Os 6,6 (cf. Mt 9,13; 12,7). Le sei antitesi mostrano chiaramente che la giustizia più abbondante consiste nell’esercizio della misericordia.57 Se, infatti, è vero che non si trova in Mt 5,17-48 il lessico della misericordia, l’atteggiamento a cui invitano le sei antitesi non potrebbe tuttavia essere definito diversamente. In modo particolare le ultime due (legge del taglione e amore per il prossimo) esprimono plasticamente un amore davvero «scriteriato»: reagire al male facendo del bene (5,38-42) e amare il proprio nemico (5,43-48) sono comportamenti assolutamente «irragionevoli» in cui si esprime appunto la misericordia. Si potrebbe dire lo stesso della terza antitesi (5,31-32): anche il rifiuto del ripudio si motiva in una logica di amore estremo. Già Giuseppe, il padre legale di Gesù, risulta praticare una giustizia che ha i tratti della misericordia (1,19): pur in assenza del termine eleos è
57 Nel NT «“misericordia” è solo uno dei nomi dell’amore, con il quale se ne sottolinea semplicemente la dimensione gratuita; per cui ogni manifestazione d’amore che non sia un amore di risposta – o un amore semplicemente proporzionato a quanto si è ricevuto – esprime ciò che intendiamo con misericordia. “Misericordia” altro non è che la dimensione estrema dell’amore, la sua dimensione “scriteriata” (priva, cioè, di criteri ragionevoli)»: M. Marcheselli, «“La misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo” (MV 12). La testimonianza del Nuovo Testamento», in RTE-Suppl 21(2017)41, 13-35, qui 17.
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chiaro, infatti, che il comportamento assunto da Giuseppe verso Maria ha il volto della gratuità e del perdono.58 Giuseppe, un figlio di Davide (1,20), un israelita, incarna perfettamente il nesso tra giustizia e misericordia. Nell’agire di Giuseppe c’è forse per Matteo già qualcosa che anticipa la giustizia più abbondante: come Abramo, secondo il Libro dei Giubilei,59 osservava la Torah prima della sua promulgazione, così Giuseppe osserva ante litteram una forma di giustizia che anticipa il compimento messianico della Torah. È evidente, infatti, che la giustizia di Giuseppe non è più quella di scribi e farisei (in questo caso avrebbe dovuto far condannare Maria), ma è già la giustizia più abbondante di cui Gesù parlerà nel discorso della montagna. Il nesso che lega giustizia e misericordia, anticipato dal comportamento di Giuseppe e svelato al di là di ogni dubbio nelle antitesi che esemplificano la giustizia più abbondante, risulta però essere per Matteo una caratteristica che è rinvenibile anche presso quanti, israeliti e gentili, non sono ancora divenuti esplicitamente discepoli del Regno. Se ci sono dei giusti, ovunque essi si trovino, praticano tutti una forma di giustizia che non può essere disgiunta dalla misericordia. Qual è, infatti, il contenuto della giustizia di cui parlano le beatitudini? Una risposta adeguata la potremo dare soltanto alla luce dell’accostamento con la scena del giudizio finale. Per il momento ci limitiamo a osservare che, nel complesso delle prime otto beatitudini, la quinta riguarda i misericordiosi: «l’etica delle beatitudini» accosta pertanto giustizia (quarta) e misericordia (quinta). Il Gesù matteano individua, tra i discepoli e le folle presenti ai piedi del monte, persone che praticano la misericordia: la dimensione dell’amore gratuito è, dunque, riscontrabile anche al di fuori della cerchia precisamente definita dei discepoli. Forse la giustapposizione di giustizia (quarta) e misericordia (quinta) non è casuale: essa potrebbe suggerire una vicinanza tra le due dimensioni, come diventa assolutamente chiaro nel caso della «giustizia più abbondante».
2.2. L’etica
della « parabola » del giudizio finale (M t 25,31-46)
Con quale criterio saranno giudicate «tutte le genti»? Secondo il metro della giustizia, come dimostra il fatto che, per due volte (vv. 37 e 46), quelli alla destra sono chiamati «giusti». La giustizia di cui parla questo discorso figurato si esprime nella cura prestata agli affamati, agli assetati, agli stranieri, agli ignudi, agli infermi, ai prigionieri (vv. 35-36; vv. 37b-
Cf. ivi, 24. Questo libro (che risale al II secolo a.C.) sottolinea in maniera molto forte il rapporto tra Abramo e la Legge (peraltro già abbozzato nei racconti della Genesi), incluso il fatto che il patriarca osservasse già le feste di Israele, molto prima della promulgazione della Torah al Sinai. 58 59
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39; vv. 42-43; v. 44). Ciò contribuisce a dare un contenuto anche alla giustizia a cui si riferiscono le beatitudini. I giusti di cui parla Mt 25,34-40.46b sono giusti o misericordiosi? Anche in questa pericope assistiamo a un chiaro avvicinamento di giustizia e misericordia. Questa giustizia non è dare a ciascuno il suo, ma è prendersi cura di persone che si trovano in uno stato di necessità. Una dimensione di gratuità è pertanto presupposta in questi comportamenti. Questi atti di giustizia/misericordia a chi sono rivolti – e dunque da chi sono compiuti? I giusti sono riconosciuti tali sulla base di quello che hanno fatto a uno solo dei fratelli più piccoli del re (v. 40). Chi sono questi fratelli più piccoli del re-giudice? Due interpretazioni divergenti si contrappongono, soprattutto nell’epoca moderna e contemporanea: sono i poveri in generale; sono dei cristiani, con varie possibili limitazioni. La giustizia misericordiosa si mostra nell’atteggiamento assunto verso i poveri in senso generale o verso i discepoli di Gesù? Nel primo caso potrebbe trattarsi di un giudizio davvero universale, mentre nel secondo si tratterebbe del giudizio riservato ai «non cristiani». – I fratelli più piccoli sono i poveri in senso generale: interpretazione universalista della scena del giudizio. Il giudizio finale misurerà «tutte le genti», cioè l’intera umanità, sulla base del comportamento assunto verso i poveri della terra.60 Secondo Luz ci sono diversi elementi che contribui scono a conferire un enorme fascino a questa posizione: uno di questi è il ruolo non irrilevante che questa lettura assume in una riflessione teologica sul rapporto del cristianesimo con le altre religioni.61 Tale interpretazione oggi molto diffusa è, tuttavia, raramente attestata nell’antichità.62
60 Così anche S. Grasso, Gesù e i suoi fratelli. Contributo allo studio della cristologia e dell’antropologia nel Vangelo di Matteo (RivBibSupp 29), EDB, Bologna 1993, 95-100. Grasso si spinge fino a proporre la seguente traduzione: «uno di questi miei fratelli, i più piccoli». Ebner ritiene che, nell’insieme del suo vangelo, Matteo espanda la semantica del termine «fratello»: cf. M. Ebner, «Plädoyer für die sozial Geringsten als “Brüder” in Mt 25,40. Eine exegetisch-hermeneutische Zwischenbemerkung», in U. Busse – M. Reichardt – M. Theobald (a cura di), Erinnerung an Jesus. Kontinuität und Diskontinuität in der neutestamentlichen Überlieferung (Bonner biblische Beiträge 166), Festschrift für Rudolf Hoppe zum 65. Geburtstag, V&R unipress-Bonn University Press, Göttingen 2011, 215-229. I fratelli sono inizialmente i membri della comunità matteana, poi tutti quelli che fanno la volontà del Padre. La scena del giudizio universale allarga ulteriormente la portata del sintagma: «fratelli» sono ora quelli che attualmente soffrono. 61 Luz, Vangelo di Matteo, III, 642-643. 62 Ivi, 645: «è un ramo giovane e, a mio giudizio, tipicamente moderno». Si può tuttavia osservare che, anche se quella universalista non era la posizione della Chiesa antica, non è necessariamente detto che essa non sia esegeticamente sostenibile: noi oggi poniamo al testo domande che corrispondono alla situazione in cui viviamo. Cf. Pontificia commissione biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), I.E («Approcci contestuali»): «L’interpretazione di un testo è sempre dipendente dalla mentalità e dalle preoccupazioni dei suoi lettori». Anche Ebner chiude il suo articolo con una considerazione che potremmo definire «contestuale»: «Anche se Matteo non avesse pensato come le analisi esegetiche sembrano dimostrare, si dovrebbe riflettere se l’opzione proposta nella situazione attuale
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– I fratelli più piccoli sono i cristiani / i cristiani matteani / i missionari matteani: interpretazioni restrittive della scena del giudizio. Il giudizio riguarda tutti i non cristiani, sulla base del comportamento da loro assunto verso i discepoli di Gesù: solo costoro, infatti, possono essere qualificati come suoi fratelli (cf. 12,49-50; 28,10).63 Varianti più restrittive della posizione esclusivista identificano i fratelli più piccoli con i soli cristiani matteani o i soli missionari matteani.64 Questa lettura «settaria» si appoggia soprattutto su Mt 10,40a: «Chi accoglie voi accoglie me». Gesù si identifica con i suoi inviati: il trattamento riservato loro è rivolto a Cristo stesso. In 10,42, inoltre, Gesù riferisce agli inviati l’espressione «uno solo di questi piccoli», che mostra evidenti contatti con 25,40 («uno solo di questi miei fratelli più piccoli»).65 La decodificazione dei fratelli più piccoli in relazione ai missionari matteani immagina una situazione in cui essi si trovano incarcerati in una città straniera, privi di sostegno;66 essi possono contare soltanto sulla solidarietà di qualcuno. Quale di queste due modalità di lettura gode di maggiore credibilità? L’interpretazione restrittiva trascina con sé una riconsiderazione della portata del sintagma «tutte le genti» (25,32), rispetto al significato che esso possiede normalmente nella Scrittura: in questo caso si tratterebbe di «tutti a eccezione dei cristiani».67 Anche quella che Luz chiama la «in-
delle chiese cristiane non sia molto salutare» (Ebner, «Plädoyer für die sozial Geringsten als “Brüder” in Mt 25,40», 229). 63 A sostegno di questa lettura si invoca a volte anche il dimostrativo «questi», immaginando che il Figlio dell’uomo indichi plasticamente a tutti i non cristiani i fratelli che gli stanno attorno: «a uno solo di questi – che vedete qui – miei fratelli più piccoli». 64 Una difesa della lettura restrittiva si trova in S. Koch, «“Die entscheidenden Kleinen”. Beobachtungen zu den ejlavcistoi und den mivkroi im Mt-Ev “at the crossroads”», in D. Senior (a cura di), The Gospel of Matthew at the crossroads of early Christianity (BETL 243), Peeters, Leuven 2011, 511-523: si tratterebbe di una vera e propria formula per indicare la stessa comunità matteana. 65 A questi piccoli viene dato un bicchiere d’acqua: dare da bere è anche una delle sei azioni descritte in 25,35-36. E tuttavia rispetto a 10,40-42 la differenza è evidente: chi compie un gesto di attenzione verso i discepoli in 10,42 è consapevole di compierlo verso qualcuno che appartiene a Gesù; non così in Mt 25. Se si trattasse di missionari cristiani la sorpresa non avrebbe motivo di esserci, perché essi si presentano esplicitamente «nel suo nome»: M. Theobald, «Das Heil der Anderen. Neutestamentliche Perspektiven», in Jesus, Kirche und das Heil der Anderen (Stuttgarter biblische Aufsatzbände 56 – Neues Testament), Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 2013, 199-234, qui 232. La diversità di prospettiva tra Mt 10 e Mt 25 è rilevata già da D. Marguerat, Le jugement dans l’Évangile de Matthieu (Le monde de la Bible 6), Labor et Fides, Genève 21995, 509-510. Cf. anche V.K. Agbanou, Le Discours eschatologique de Matthieu 24-25. Tradition et redaction (Études Bibliques N.S. 2), Gabalda, Paris 1983, 190-191. 66 Le sei situazioni di necessità non si applicano a un gruppo stanziale, mentre vanno benissimo per dei missionari itineranti. 67 In questo tipo di lettura, la questione se Israele debba essere contato o meno tra «tutte le genti» assume a volte un certo rilievo. Vi sono infatti autori che escludono categoricamente che si possa parlare di una missione post-pasquale verso Israele nel Vangelo di Matteo: in base a passi come 19,28 e 21,43 (cf. anche 22,7; 23,38; 24,2) essi ritengono
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terpretazione classica» vede nei «fratelli più piccoli» i membri della comunità cristiana e in «tutte le genti» tutti i popoli in senso generale, dove però la loro connotazione come «non cristiani» rimane poco definita.68 Secondo Luz, la Chiesa antica non avvertiva il problema: il testo, in effetti, era visto essenzialmente come una parenesi per la comunità dei credenti. Nei primi secoli, l’ignoranza dei giusti (vv. 37-39) era letta semplicemente come segno di umiltà e non come indicatore di una loro estraneità rispetto al Figlio dell’uomo. Nel suo commentario Luz ripropone questa lettura «classica»:69 i giudicati sono tutti gli uomini sulla base del comportamento assunto verso i discepoli di Gesù, ma di fatto si tratta di un ammonimento che chiama in causa essenzialmente i discepoli di Gesù, giudicati «col criterio delle opere di misericordia che essi hanno compiuto, o trascurato, nei riguardi dei loro fratelli di fede poveri e bisognosi».70 In definitiva la pericope parlerebbe dell’amore fraterno come criterio di giudizio per i discepoli di Gesù. Luz ritiene che l’interpretazione universalista dei fratelli più piccoli sia potuta nascere solo dentro le istanze della modernità. Essa non può essere difesa esegeticamente dal punto di vista di Matteo, che ha visto nei fratelli di Gesù in difficoltà dei discepoli sofferenti. La questione della legittimità o meno di una tale lettura si pone, per Luz, in questi termini: «è teologicamente legittimo esporre un testo in maniera contraria al suo significato originario se per i riceventi odierni il significato di tale reinterpretazione è evangelico nell’ispirazione centrale e utile? In questo caso sono propenso a rispondere “sì”».71 Le ragioni per il sì sono tre.72 1) Le nuove interpretazioni dei testi biblici devono essere conformi alla storia di Gesù: se Gesù «interprete crocifisso» costituisce la linea guida per l’ermeneutica dei singoli testi, allora l’interpretazione universalistica di Mt 25 legge il testo in modo conforme alla storia di Gesù, come essa è attestata da tutto il NT. 2) La teologia matteana sottolinea ripetutamente il fatto che la comunità cristiana non ha alcuna posizione privilegiata nel giudizio. Leggere in senso universalistico il testo di Mt 25 significa prolungare questa traiettoria e muovere un passo nella direzione di una de-assolutizzazione della comunità dei discepoli. 3) Ogni nuova interpretazione di un testo biblico per essere accettabile deve produrre amore e
che, per Matteo, il giudizio su Israele sia già stabilito. Cf. D.J. Harrington, The Gospel of Matthew (Lectio Divina 1), Liturgical Press, Collegeville 1991, 358-359. È chiaro che per costoro si avrebbe per Matteo una pluralità di giudizi diversificati. 68 Luz, Vangelo di Matteo, III, 645-646. Quelle che Luz chiama lettura «classica» e lettura «esclusivista» non coincidono; esse hanno però in comune il fatto di non ritenere il giudizio di Mt 25 come davvero universale. 69 Ivi, III, 663. L’interpretazione di questo importante commentatore ha condizionato tutto il dibattito esegetico recente su Mt 25,31-46, soprattutto in area tedesca. Anche noi non possiamo non confrontarci con la posizione di Luz, il cui commentario a Matteo è destinato a restare anche in Italia un punto di riferimento imprescindibile per molti anni a venire. 70 Ivi, III, 646. 71 Ivi, III, 665. 72 Ivi, III, 665-666.
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questa certamente lo fa. Per Luz la lettura universalista è, pertanto, giustificabile come prolungamento della traiettoria del testo e perché conforme al criterio di fondo dell’evangelo (cioè la «compatibilità» con la storia di Gesù e la capacità di generare amore). Senza negare l’importanza ermeneutica della categoria di «traiettoria», ci sembra tuttavia necessario insistere sul fatto che una lettura in senso universalista di Mt 25,31-46 è raccomandata da un paio di elementi centrali della teologia matteana, oltre che dall’impianto complessivo del sistema dei cinque discorsi.73 D’altro canto, anche l’accostamento operato da Matteo tra le prime otto beatitudini e la descrizione del giudizio, che abbiamo cercato di dimostrare nel nostro studio, orienta precisamente in questa direzione. 1) La teologia redazionale matteana. Fare dei fratelli più piccoli soltanto i cristiani e vedere nel comportamento adottato verso di loro il criterio del giudizio di tutti gli altri uomini significa interpretare la pericope in conflitto con due tratti fondamentali della teologia del primo vangelo. a) Matteo afferma ripetutamente che proprio i discepoli sono riconoscibili come tali sulla base dell’amore fattivo verso il prossimo, compreso il nemico (cf. 5,43-48).74 b) Come anche Luz ricorda esplicitamente, il problema di una comunità autocentrata affiora continuamente nella trama del vangelo: una lettura della propria condizione in termini che favoriscono un’autocoscienza da privilegiati sarebbe invece l’esito più ovvio dalla lettura restrittiva di Mt 25. 2) Il «sistema» dei cinque discorsi. «Balza subito agli occhi, in ogni discorso, il contenuto prevalentemente etico, sorretto dall’annuncio minaccioso del giudizio finale, nel quale culminano tutti e cinque».75 Soprattutto la scena di giudizio che si trova al termine del discorso della montagna (7,21-23) presenta tratti che illuminano anche la descrizione di 25,31-46. In 7,21-23 si annuncia la condanna finale di quei discepoli che, da un lato, confessano Gesù come «Signore», profetizzano, cacciano demoni e fanno molti miracoli nel suo nome, mentre, dall’altro, operano l’iniquità, cioè non operano la giustizia.76
73 Essa d’altronde non è completamente assente nell’esegesi antica, per quanto decisamente minoritaria. Secondo Luz, Vangelo di Matteo, III, 644-645 nota 7 chiare testimonianze si hanno, in epoca patristica, soltanto in Cesario di Arles e, con minore evidenza, in Giovanni Cristostomo. 74 «Matteo […] voleva escludere una fede che salvasse senza le opere; non si è posto formalmente il problema se viceversa le opere salvino senza la fede. […] Matteo, verosimilmente, aveva di fronte cristiani che in nome della fede negavano le opere, e tra tutti gli autori neotestamentari è quello che più fortemente ha sentito la tentazione di una riduzione della fede alla prassi, a volte rasentandola pericolosamente»: Fusco, La casa sulla roccia, 133-134. 75 Ivi, 12. 76 La giustizia è il conformarsi alla legge (nomos); operare l’a-nomia implica il rifiuto della legge.
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Le beatitudini (Mt 5,3-10) e il giudizio finale (Mt 25,31-46) C’è in Matteo un extra ecclesiam, che non si riferisce soltanto – come in Mc 9,38-40 – al fatto che forze salvifiche «nel nome di Gesù» possono esprimersi anche al di fuori del gruppo dei discepoli, ma – in un modo molto più fondamentale – al fatto che soltanto il fare la volontà del Padre che è nel cielo è decisivo per entrare nel regno dei cieli e tutti gli uomini sono sottoposti a questa unica e indivisibile volontà del Padre celeste.77
Il tipo di giudizio descritto in Mt 25 è perfettamente coerente con quanto Mt 7 ha già affermato a proposito dei discepoli.
3. Etica
per un contesto multireligioso
3.1. La giustizia Una colossale inclusione abbraccia il sistema matteano dei cinque discorsi di Gesù, collegando l’inizio del discorso della montagna (le otto beatitudini di 5,3-10) e la fine del discorso escatologico (la descrizione del giudizio universale da parte del Figlio dell’uomo di 25,31-46). L’inclusione è costruita dall’evangelista attorno a un intreccio di tre motivi: 1) la giustizia che si fa misericordia, 2) la sua praticabilità anche al di fuori dei confini precisamente definiti del gruppo dei discepoli di Gesù, 3) l’affermazione che davanti a Dio e al Figlio dell’uomo un unico principio davvero universale vale tanto per i discepoli, quanto per l’intera umanità. 1) A somiglianza della quarta e ottava beatitudine (affamati e assetati di giustizia; perseguitati a causa della giustizia) la descrizione del giudizio finale, che chiude l’ultimo grande discorso di Gesù in Mt 25, parla di giusti (vv. 37 e 46) che hanno compiuto gesti di amore fattivo verso i fratelli più piccoli del grande re. Le sei «opere di misericordia», elencate quattro volte nella parabola, sono una descrizione estremamente efficace di cosa sia per Matteo un comportamento secondo giustizia. Giustizia e misericordia sono accostate anche nella successione della quarta e quinta beatitudine. 2) La giustizia, in cui si esprime nient’altro che il compimento della volontà di Dio, può essere vissuta anche in assenza di una conoscenza esplicita del messia Gesù. I giusti di 25,31-46 mostrano di non conoscere affatto il loro giudice. Le folle di 5,1-2, tra le quali Gesù discerne già dei giusti/misericordiosi, sono composte anche da israeliti che ancora non hanno intrapreso un cammino di sequela e da gentili che ancora non si sono convertiti al Dio vivo e vero. 3) Gli atteggiamenti descritti nelle beatitudini (in particolare la passione per la giustizia) sono oggetto di una promessa – nel presente e nel l’eschaton – che, senza ovviamente escludere i discepoli di Gesù, si ri-
Cf. Theobald, «Das Heil der Anderen», 230-233.
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3.2. Una
sola etica , diversi livelli di abbondanza
Per Matteo non ci sono due etiche: la giustizia è una sola e non può mai essere sganciata dalla misericordia. Per questa ragione gli atteggiamenti che emergono dalle beatitudini e che Gesù identifica già presenti all’interno di un uditorio estremamente variegato possono altrove caratterizzare anche lui stesso o i suoi discepoli. E ciò non è in contraddizione con il fatto che Gesù si aspetta dai suoi un esercizio della giustizia-misericordia specifico, come può scaturire soltanto dall’esperienza di Dio che si realizza nell’incontro esplicito con lui. L’impostazione classica della questione dei destinatari delle beatitudini – e più complessivamente del discorso della montagna – ignora normalmente la possibilità che ci sia, da parte dell’evangelista, l’intenzione di distinguere due momenti nel discorso. È proprio questa, invece, la strada che abbiamo percorso, appoggiando la nostra proposta sui contatti che esistono tra le beatitudini e la «parabola» del giudizio finale: da un lato, Matteo ritiene che Gesù abbia parlato dall’inizio alla fine a tutto il complesso uditorio radunatosi ai piedi del monte; dall’altro, egli ha delineato un programma etico dapprima per tutti indistintamente e poi specificamente per i suoi. Il senso di questa distinzione non è stabilire due classi rigidamente definite, con due morali distinte: Gesù riconosce già tra le folle elementi fondamentali di quella giustizia che rappresenta l’unico criterio di valutazione per tutti di fronte a Dio. E, d’altro canto, il fatto che fino alla fine le folle restino ad ascoltarlo indica che la proposta di farsi discepoli è rivolta a loro in termini espliciti. Tutto questo si spiega perfettamente con il fatto che per Matteo l’incontro con il messia Gesù comporta una esperienza altrimenti inattingibile del volto di Dio. Il Dio che si svela in Gesù non è altro da quello che si manifesta nella creazione (5,45) e nella storia di Israele (5,17). Anche la giustizia che egli esige non può pertanto essere radicalmente diversa per coloro (gentili o israeliti) che non professano la fede messianica. E tuttavia è chiaro che il modo in cui la giustizia-misericordia si può/deve esprimere in conseguenza dell’avvenuto incontro con il volto del Padre manifestatosi in Gesù ha una configurazione peculiare: l’esercizio dell’unica giustizia deve farsi tanto più abbondante quanto più profonda è l’esperienza del mistero di Dio, rivelatosi nel Figlio.
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La lezione del tardo-antico per la città post-moderna Una teologia della città a partire dal De civitate Dei Federico Badiali*
Se Evangelii gaudium (da ora in poi EG) ha destato, fin dalla sua pubblicazione, un grande entusiasmo tra i credenti, per cogliere fino in fondo il suo impatto sulla vita della Chiesa è necessario assumere una certa distanza prospettica. Solo ora, infatti, iniziamo a scorgere alcuni dei suoi effetti. Di altri prenderemo coscienza solo negli anni a venire. Fra quelli già visibili, non possiamo non ricordare l’interesse suscitato per il tema dell’evangelizzazione della città, di cui papa Francesco ha trattato nei paragrafi 71-75 della sua esortazione apostolica. Sviluppato dalla teologia latino-americana già ai tempi di Puebla (1979), questo argomento oggi è entrato a pieno titolo nel dibattito ecclesiale e teologico. Ce ne danno una prova gli esercizi spirituali predicati alla curia romana nel 2019, intitolati: «La città dagli ardenti desideri. Per sguardi e gesti pasquali nella vita del mondo». Per quanto riguarda la ricerca teologica, limitandoci al piccolo osservatorio italiano, è significativo che nel 2018 le Edizioni Messaggero di Padova abbiano inaugurato una collana dal titolo «Percorsi di teologia urbana», diretta da Armando Matteo.1
* Docente incaricato triennale di Teologia sistematica – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected] 1 Sono già stati pubblicati: A. Matteo, Il postmoderno spiegato ai cattolici e ai loro parroci. Prima lezione di teologia urbana, EMP, Padova 2018; D. Cravero – F. Cosentino, Lievito nella pasta. Evangelizzare la città postmoderna, EMP, Padova 2018; D. Albarello, A misura d’uomo. La salvezza per la città, EMP, Padova 2019. È già stata programmata la pubblicazione anche di: V. Rosito, Metamorfosi del centro. Cultura, fede e urbanizzazione;
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A differenza di quanto si sta verificando oggi, in passato la teologia non si è mai molto occupata della città, nemmeno in una prospettiva pratica. Giordano Frosini, ad esempio, afferma senza mezzi termini che, in passato, la Chiesa ha trattato la città «come un coacervo di villaggi, ognuno dei quali coincide con la parrocchia: la pastorale cittadina nel senso forte della parola non c’è mai stata».2 Alla luce di questo secolare disinteresse della teologia nei confronti della città, non può non sorprendere che Agostino – il teologo che, insieme a Tommaso, ha maggiormente inciso sulla teologia occidentale – abbia intitolato il suo opus maximum De civitate Dei, scegliendo di porre al centro della sua riflessione proprio l’immagine della civitas. Per quanto, prima d’ora, quest’opera non sia stata mai molto investigata in questa prospettiva,3 essa non può non interpellarci. Ci prefiggiamo, quindi, di riflettere sul significato della città alla luce del vangelo e sul contributo che quest’ultimo può offrirle, a partire dalle pagine del De civitate Dei di Agostino, ritenendo, però, necessarie due premesse d’ordine metodologico (paragrafo 1): la prima, volta a mettere in luce l’attualità dell’opera, nonostante l’innegabile distanza cronologica, a motivo dei numerosissimi punti di contatto fra la società contemporanea e quella in cui vive Agostino. La seconda premessa, invece, vuole mostrare la legittimità della ricerca: benché nel De civitate Dei la città sia utilizzata prevalentemente come metafora, tuttavia non ci sembra affatto fuori luogo prendere spunto da quest’opera per rispondere agli interrogativi che ci siamo posti. Assolto questo compito, ci chiederemo cosa ha in mente Agostino quando parla di città (paragrafo 2), a cosa imputa il suo degrado morale e a quali fattori collega l’ecologia integrale della città (paragrafo 3). Dopo aver affrontato queste questioni, di tipo filosofico e morale, ci addentreremo in quello che costituisce il contributo più specificamente teologico di Agostino in relazione alla città (paragrafo 4), per individuare, nella conclusione, gli elementi fondamentali di una teologia della città, a partire dal De civitate Dei di Agostino (paragrafo 5).
E. Giannone, Le nuove economie e la città; A. Ndreca, Secolarizzazione, ritorni di Dio e nuovi ateismi nella città postmoderna. 2 G. Frosini, Babele o Gerusalemme. Teologia delle realtà terrestri, 1: La città, EDB, Bologna 2007, 193. 3 È interessante, ad esempio, che Frosini, nel suo volume appena menzionato, nel capitolo dedicato a «la città nella teologia», non dedichi un paragrafo ad Agostino. L’omissione, però, non è affatto casuale. L’A. la giustifica così: «Il tempo dei padri è infatti il tempo in cui la pòlis passa la mano all’impero, il tempo della filosofia stoica che esalta e giustifica la grande pòlis universale. La città diventa allora una figura per esprimere o la società nel suo complesso o la grande città che si estende fino ai confini dell’impero o addirittura ai confini dell’universo. Anche il grande s. Agostino si muove all’interno di questa logica e di questa cultura» (ivi, 191).
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1. Due premesse d ’ ordine metodologico 1.1. Attualità del
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Un mondo che si considera prospero e civile, segnato da disuguaglianze e squilibri al suo interno, ma forte di un’amministrazione stabile e di un’economia integrata; all’esterno, popoli costretti a sopravvivere con risorse insufficienti, minacciati dalla fame e dalla guerra, e che sempre più spesso chiedono di entrare; una frontiera militarizzata per filtrare profughi e immigrati; e autorità di governo che debbono decidere volta per volta il comportamento da tenere verso queste emergenze, con una gamma di opzioni che va dall’allontanamento forzato all’accoglienza in massa, dalla fissazione di quote d’ingresso all’offerta di aiuti umanitari e posti di lavoro.4
Questi rapidi flash sembrano descrivere alcune delle sfide sociali e politiche che occupano ogni giorno le colonne dei nostri quotidiani. E, invece, riferiscono la situazione in cui versava l’impero romano nel IV secolo, al momento dell’avanzata dei barbari. Il tratto che accomuna maggiormente il nostro tempo e l’epoca definita tardo-antica è senza dubbio il fenomeno migratorio, insieme al tema, ad esso connesso, dell’integrazione delle popolazioni che lasciano il loro Paese alla ricerca di un futuro migliore. Peter Heather, nel suo saggio su La caduta dell’impero romano, ritiene che Roma rimase vittima delle tante ingiustizie da lei perpetrate per secoli nei confronti delle popolazioni germaniche insediate lungo i confini dell’impero.5 Queste, sotto la pressione esercitata dagli Unni, dalla fame e dal risentimento, valicarono il limen dell’impero, dando così inizio al suo crollo. Questa tesi non può non rappresentare un severo monito anche per il nostro tempo! Gli elementi di analogia sono davvero tantissimi.6 Pensiamo, ad esempio, alla coscienza della crisi che accomuna le due epoche. Oggi come allora, l’uomo ha la netta percezione di vivere in una stagione critica della storia. Ai nostri giorni questo è assolutamente evidente. Per dimostrarlo è sufficiente richiamare alla mente tutte le realtà che siamo soliti associare alla parola «crisi». Ma nella tardo-antichità la situazione non era molto dissimile: Girolamo, in una sua lettera, scrive senza mezzi termini: «L’universo romano sta crollando».7 Sul piano antropologico, tutto questo non può non avere delle ripercussioni consistenti: un diffuso clima di incertezza, la tendenza a trincerarsi nell’ambito del privato, una sete di
4 A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Laterza, Roma-Bari 2007, V. 5 Cf. P. Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Garzanti, Milano 2008, 552. 6 Per una lettura sinottica, cf. A.R. Scopece, L’impero globale. Transizione tardoantica e crisi postcontemporanea, Arkadia, Cagliari 2018. 7 Girolamo, Ep. 60,16, in Id., Le Lettere, a cura di S. Cola, 4 voll., Città Nuova, Roma 1996-1997, II, 168.
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trascendenza che preferisce orientarsi verso un generico théion, piuttosto che verso uno Theós personale. Sul piano politico, le analogie sono altrettanto numerose: la distanza creatasi tra i gangli del potere e la base; la perdita di autorevolezza da parte delle istituzioni; la burocrazia, sempre più ipertrofica, ma sempre meno efficiente; la corruzione; il peso delle spese militari; la retorica della difesa dei confini patri; la globalizzazione, nell’epoca tardo-antica intesa in senso politico, oggi intesa soprattutto in senso economico; la coesistenza di universalismi e di localismi. In una prospettiva economica, pensiamo, invece, alla recessione e all’inarrestabile allargamento della forbice sociale, per cui i ricchi continuano ad arricchirsi sempre più e il numero di chi vive nell’indigenza cresce di giorno in giorno. Ma sia l’epoca tardo-antica, sia il nostro tempo portano in sé non solo tratti decadenti, ma anche elementi di innovazione. Pensiamo semplicemente al cambio di mentalità prodotto oggi come allora dalla trasformazione dei supporti del sapere: il codex, in epoca tardo-antica, e internet, ai nostri giorni. Si tratta, in conclusione, di epoche difficili da discernere, proprio per le forti ambiguità che le caratterizzano. Certamente lo studio dell’una potrebbe esserci d’aiuto per cogliere i processi in atto nell’altra. Anzi – come ha osservato Santo Mazzarino, uno dei maggiori antichisti del Novecento –, la fine del mondo antico ha sempre interpellato le diverse generazioni per il suo carattere paradigmatico, per la sua vocazione a essere «la chiave per l’interpretazione di tutta la nostra storia».8
1.2. Legittimità
della ricerca : il significato della civitas in A gostino
Messa in luce la singolare attualità del contesto socio-culturale all’interno del quale Agostino elabora la sua riflessione sulla civitas, resta da chiarire quale significato egli le attribuisca. Diciamo fin d’ora che, per Agostino, la città è innanzitutto una metafora, impiegata in maniera specificamente teologica. È vero: è una motivazione di carattere storico, il sacco di Roma del 410, a far sì che Agostino decida di scrivere il De civitate Dei, un’attività che verosimilmente lo terrà impegnato dal 413 al 426. Lo attesta lui stesso, nelle sue Retractationes. Dopo aver riferito la notizia che «Roma era stata distrutta dalla violenta e disastrosa irruzione dei Goti, guidati dal re Alarico», egli riporta, senza soluzione di continuità, la decisione da lui maturata di «scrivere dei libri su la città di Dio»,9 volendo conseguire un duplice obiettivo: da una parte, confutare gli errori dei pagani, in partico-
8 S. Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano, Bollati Boringhieri, Torino 2008, 16. 9 Agostino, Retract. 2,43,1: NBA II, 213.
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lare di quanti imputavano alla religione cristiana la responsabilità della distruzione di Roma; dall’altra, esporre il contenuto della fede cristiana, utilizzando, come chiave di lettura, quella delle due città, colte nella loro origine, nella loro evoluzione e nel loro esito. Dunque, benché la genesi del De civitate Dei sia così profondamente legata alle vicende storiche del suo tempo, all’interno dell’opera la città assume un significato eminentemente simbolico, che, tra le altre cose, Agostino le riconosce ben prima del sacco di Roma. Nel De catechizandis rudibus, scritto tra il 399 e il 400, il vescovo di Ippona, dopo aver cominciato a esporre la storia della salvezza a partire dalla creazione, annota, infatti, che dall’inizio del genere umano fino alla fine del mondo si trovano a esistere due città, una di ingiusti, l’altra di santi; presentemente sono mescolate quanto ai corpi, ma sono distinte quanto alle volontà di coloro che vi fanno parte; nel giorno del giudizio invece dovranno essere separate anche materialmente.10
La metafora delle due città ritorna, poi, molto di frequente nella predicazione agostiniana, soprattutto in alcune delle sue Enarrationes in psalmos, pronunciate proprio negli anni in cui comincia a scrivere il De civitate Dei.11 Dunque, l’uso che Agostino fa della metafora delle due città è squisitamente teologico. Egli intende mettere in luce quali sono i principi etici che stanno alla base della distinzione fra la città di Dio e la città dell’uomo e quale sarà l’esito escatologico di tale distinzione. Ne dobbiamo desumere che l’uso che Agostino fa della metafora della città non ha alcun valore politico. Egli non è minimamente interessato a delineare un modello di civitas. Ciò dipende dalla comprensione che Agostino ha della politica. Dal suo punto di vista, infatti, per quanto essa sia necessaria all’esistenza terrena, tuttavia è illusoria, se non addirittura peccaminosa, come nota opportunamente Sergio Cotta.12 Infatti, per Agostino, non solo la politica non aiuta in alcun modo l’uomo a conseguire il suo fine ultimo (da identificare con la comunione con Dio), ma addirittura, il più delle volte, lo allontana da questa meta, suscitando in lui desideri mondani.13 Siamo agli antipodi dalla concezione che Aristotele ha della politica, per il quale essa rappresenta la scienza architettonica per eccellenza,14 e dalla visione che ne ha Tommaso, per il quale la politica è una palestra di virtù, in cui esercitare l’amicizia sociale (socialis dilectio).15 Non desta, dunque,
Agostino, De cath. rud. 19,31: NBA VII/2, 249. Cf. Agostino, Enarr. in ps. 61; 64; 86; 136; 138; 142: NBA XXVI, 341ss; 455ss; XXVII, 3ss; XXVIII, 397ss; 459ss; 621ss. 12 Cf. S. Cotta, «Introduzione generale. Politica», in NBA V/1, CXLVII. 13 Cf. Agostino, Ep. 130,6,12: NBA XXII, 85-87, in relazione a quanto vi è scritto in rapporto agli honores e alle potestates. 14 Cf. Aristotele, Eth. Nic., I, 1, 1094a 26-27, in Id., Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993, 53. 15 Cf. Tommaso d’Aquino, De carit., q. unica, a. 9, co., in Id., Le questioni disputate, 5: Le virtù. L’unione del Verbo incarnato, 11 voll., ESD, Bologna 2002, 376. 10
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alcuno stupore il fatto che Agostino non dedichi alcuna delle sue opere alla politica. Detto questo, Agostino Trapè osserva che, se «non ci si può aspettare di trovare nella Città di Dio una trattazione […] sul modo di governare uno stato», ciò non significa che in essa non vi siano preziose indicazioni a riguardo, ma «occorre raccoglierle e organizzarle secondo una prospettiva che non è quella dell’autore della Città di Dio, ma nostra».16 È quanto ci proponiamo di fare.
2. Una
definizione di città : concors hominum moltitudo
Nel De civitate Dei si possono riscontrare due definizioni di città, che, se convergono su alcuni punti, differiscono, invece, per altri. Entrambe presentano la città come una multitudo hominum, ma la prima definizione qualifica questa moltitudine come concors,17 mentre la seconda la rappresenta come aliquo societatis vinculo colligata.18 Indipendentemente dalle differenze formali esistenti fra queste due definizioni, dobbiamo riconoscere che, da un punto di vista strettamente concettuale, la prima è decisamente più precisa della seconda. Mentre, infatti, la seconda definisce solo genericamente il legame sociale che tiene uniti gli abitanti di una medesima città, la prima arriva a identificare tale legame nella concordia. Questo nesso tra la città e la concordia non risulta un apax nel De civitate Dei. In un altro passaggio, prendendo le mosse dalla metafora dell’accordo musicale, Agostino scorge nella concordi varietate compacta unitas19 una delle caratteristiche essenziali della città. Questo indizio, per cui Agostino non collega solo occasionalmente, ma in maniera fortemente intenzionale, la città alla concordia mostra tutto l’apprezzamento che il vescovo di Ippona nutre nei confronti della prima delle due definizioni da lui proposte. Anzi, potremmo dire che, se una città, per essere chiamata tale, necessita semplicemente di un qualche vincolo sociale tra i suoi cittadini, la città che merita a pieno titolo questo nome e a cui Agostino aspira è una comunità concorde, i cui membri, cioè, formano un cuore solo. Nel proporre questo obiettivo, Agostino ha certamente in mente uno dei sommari con cui Luca, negli Atti degli apostoli, descrive la comunità cristiana delle origini. In esso si legge che «la moltitudine (!) di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32).20 Che Agostino ritenga che questa sia l’icona da tenere presente nella costruzione di una comunità è provato anche dal fatto che, all’inizio della
A. Trapè, «Introduzione generale. Teologia», in NBA V/1, XXIX. Cf. Agostino, De civ. Dei 1,15,2: NBA V/1, 50. 18 Cf. ivi, 15,8,2: NBA V/2, 396. 19 Cf. ivi, 17,14: NBA V/2, 612. 20 «Multitudinis autem credentium erat anima una et cor unum», come, ad esempio, è letto At 4,32 in Agostino, Serm. 103,3,4: NBA XXX/2, 264. 16 17
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Regola,21 egli afferma che la ragione per cui viene scelta la vita monastica è proprio il raggiungimento di quell’unità di mente e di cuore vissuta dalla comunità delle origini. Per Agostino questo è vero a tal punto che egli arriva persino a proporre una propria e originale etimologia di monaco: monaci sono coloro che hanno un cuor solo e un’anima sola.22 La città, definita come concors hominum multitudo, viene a incrociare un’esigenza profonda dell’essere umano, la sua esigenza di socialità, che egli esprime già all’interno del proprio nucleo familiare.23 Tale esigenza di socialità è così radicata nella natura dell’essere umano, che non a caso i filosofi lo avevano definito zo‐on politikon, «animale fatto per vivere in città». Facendo propria questa tradizione di pensiero,24 Agostino riconosce che il genere umano è il più sociale per natura25 e l’uomo saggio non può non essere socievole.26 Agostino, però, non si limita a passare in rassegna, a questo proposito, una serie di motivazioni di carattere razionale, ma trae spunto anche dal patrimonio rivelato, in particolare dall’affermazione, contenuta nei primi capitoli della Genesi, secondo cui tutto il genere umano discende da un comune progenitore, in virtù del quale è legato da una fraternità universale. Questo fa sì che ogni persona umana si senta spronata alla societatis unitas e al vinculum concordiae non semplicemente dalla naturae similitudo, ma anche dalla cognationis affectus.27 A una motivazione di carattere ontologico se ne aggiunge, quindi, una di matrice affettiva. Tutto questo non fa altro che confermare che la città, la cui vita è essenzialmente sociale,28 rappresenta l’habitat più favorevole per l’uomo. In essa egli può esprimere la sua natura sociale.
3. Per
un buono stato di salute della città
3.1. Analisi
dei fattori inquinanti
Se, in teoria, le cose stanno così, nella pratica, però, esse risultano molto più complesse. È vero, il genus humanum è sociale natura, ma, al contempo, esso risulta discordiosum vitio.29 Agostino è a tal punto convinto di ciò che, anticipando di più di mille anni Hobbes, egli non esita a dire che «neanche i leoni e i rettili si combattono fra di sé come fanno gli
21 «Primum, propter quod in unum estis congregati, ut unianimes habitetis in domo et sit vobis anima una et cor unum in Deum» (Agostino, Regula 1,2: NBA VII/2, 30). 22 Cf. Agostino, Enarr. in ps. 132,6: NBA XXVIII, 317. 23 Cf. Agostino, De civ. Dei 19,7: NBA V/3, 37. 24 Cf., ad esempio, Cicerone, De fin. 3,19,62ss. 25 Cf. Agostino, De civ. Dei 12,27,1: NBA V/2, 213. 26 Cf. ivi, 19,5: NBA V/3, 33. 27 Cf. ivi, 12,21; 12,27,1: NBA V/2, 204; 212. 28 Cf. ivi, 19,17: NBA V/3, 61. 29 Cf. ivi, 12,27,1: NBA V/2, 212.
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uomini».30 È vero, la vita della città è essenzialmente sociale, ma Agostino è anche consapevole del fatto che «quanto è più grande, tanto il suo tribunale è più gremito da cause civili e criminali, anche se mancano le agitazioni sovversive e assai spesso sanguinose e le guerre civili. E sebbene talora le città siano libere dalle loro vicissitudini, mai lo sono dalla minaccia».31 Cosa fa sì che un essere naturalmente sociale divenga improvvisamente anti-sociale e uno splendido ecosistema si trasformi in una discarica inquinata? Ancor prima di addentrarci in un’analisi delle cause teologiche, che, in ultima analisi, all’interno del sistema agostiniano, non potranno non fare riferimento al peccato d’origine, limitiamoci a prendere in esame alcuni passaggi del De civitate Dei, in cui Agostino propone un’interpretazione etica delle sofferenze che attraversano la città e, quindi, la socialità umana. Facendo propria la lettura storiografica con cui Sallustio rende ragione dello scoppio delle guerre sociali,32 Agostino sostiene che, all’indomani della conquista di Cartagine, a Roma la conflittualità esplose a motivo del diffondersi del benessere (res prosperae / secundae). Questo provocò non solo una sempre maggiore bramosia di ricchezze (che Sallustio esprime ricorrendo all’endiadi luxus atque avaritia, ripresa quasi letteralmente da Agostino, che, però, vi aggiunge anche un terzo fattore, la cupiditas), ma anche una progressiva corruzione dei costumi (Sallustio parla di maiorum mores praecipitati, mentre Agostino di perdita integritas vitae). Tra le conseguenze della società del benessere, Agostino allude poi alla diffusione della passione del dominio (libido dominandi) e all’ambizione (ambitio), che trovano ampia accoglienza in individui accecati dalla superbia (superbissimi animi). Tutto ciò conduce, infine, alla violazione della dignità della persona (iugum servitutis) e alla lacerazione della concordia (corrupta diruptaque concordia), ossia all’attentato nei confronti di quel fattore in base al quale sta o cade la vita della città.33 Agostino riporta, non senza una certa amarezza, le conversazioni che si possono udire in una delle tante città dell’impero, infettata dalle patologie appena evocate: Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa?, dicono. Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. I poveri si inchinino ai ricchi per avere un pane e per godere della loro protezione in una supina inoperosità; i ricchi si approfittino dei poveri
Ivi, 12,22: NBA V/2, 205. Ivi, 19,5: NBA V/3, 33. 32 Cf. Sallustio, Hist. 1, fr. 14; cit. in Agostino, De civ. Dei 2,18,2: NBA V/1, 126. 33 Cf. Agostino, De civ. Dei 1,30s: NBA V/1, 77ss. La descrizione non può non ricordare la diagnosi di Dante nei confronti della sua Firenze, ormai in preda a un processo di decadimento inarrestabile: «Superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cuori accesi» (D. Alighieri, Inferno, VI, 74-75); «Gent’è avara, invidiosa e superba» (ivi, XV, 68). 30 31
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La lezione del tardo-antico per la città post-moderna per le clientele e in ossequio al proprio orgoglio. […] Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio.34
La città è appiattita su di una prospettiva materialistica e consumistica. In essa domina la cultura dello scarto e il pensiero unico.
3.2. Virtù ecologiche Rispetto al progetto ideale di città, proposto da Agostino attraverso la definizione di concors hominum multitudo, ciò che è venuto meno nella città che abbiamo appena descritto è la giustizia. Tra i suoi cittadini permane un qualche vincolo di socialità – per utilizzare l’espressione usata dallo stesso Agostino nella seconda definizione di città da lui proposta –, ma tale vincolo non contempla alcun riferimento alla giustizia. Come però Agostino sa bene a partire dalla lettura di Cicerone, «la società civile può essere amministrata e conservata soltanto con una grande giustizia».35 Anzi, per Agostino, sempre sulla scorta di Cicerone, la nozione di giustizia rientra a pieno titolo nella definizione di società civile.36 Per Cicerone, infatti, la res publica è res populi. Con populus, però, non si intende un qualsiasi coetus multitudinis, ma un coetus iuris consensu et utilitatis communione societatus. Ne consegue che si ha res publica dove bene et iuste geritur. Se le relazioni non vengono gestite secondo giustizia (iuste), allora non si può più parlare di popolo, non si può più parlare di res publica, non si può più parlare di città. Vi è solo una banda di briganti. È Agostino stesso a utilizzare questo termine (latrocinium), sempre sulla scorta di Cicerone, in un paragrafo del De civitate Dei, che merita di essere citato per intero proprio per la sua spregiudicatezza: Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l’aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione dell’ambizione di possedere ma da una maggiore sicurezza nell’impunità. Con finezza e verità a un tempo rispose in questo senso ad Alessandro il Grande un pirata catturato. Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con franca spavalderia: «La stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta».37
Agostino, De civ. Dei 2,20: NBA V/1, 129-131. Ivi, 2,21,1: NBA V/1, 135; cf. Cicerone, De rep. 3,5,8. 36 Cf. Cicerone, De rep. 3,37,50; cit. in Agostino, De civ. Dei 2,21,2: NBA V/1, 135. 37 Agostino, De civ. Dei 4,4: NBA V/1, 257; cf. Cicerone, De rep. 3,14,24. 34 35
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Come Agostino mette qui in evidenza, da un punto di vista formale non esiste alcuna distinzione fra uno Stato e una banda di ladri, non fosse che per le loro differenti dimensioni: è innegabile, infatti, che, da un punto di vista quantitativo, il primo sia più esteso, mentre la seconda più ridotta. Ma, al di là di questo particolare, hanno la medesima struttura e il medesimo funzionamento: entrambi si presentano come un gruppo di uomini, guidato da un capo, vincolato da un patto e da convenzioni. A fare la differenza, invece, è un aspetto qualitativo, che decide in maniera radicale del tipo di relazioni che si vivono all’esterno del gruppo: il rispetto o meno della giustizia. Posta l’imprescindibilità della giustizia per la vita della città, Agostino, però, non si accontenta di fondare filosoficamente la sua necessità. Egli sembra quasi avere l’impressione che l’ideale della giustizia risulti, per la sua genericità, quasi irrealizzabile. Per aggirare questo ostacolo, il vescovo di Ippona attinge allora alla tradizione evangelica. Egli vi individua un sentimento che può sostenere efficacemente la ragione nell’attuazione della giustizia. Si tratta della misericordia, che Agostino definisce come «alienae miseriae quaedam in nostro corde compassio».38 Essa si presenta come quel moto interiore che spinge l’uomo a prestare il suo aiuto a chi gli si trova concretamente dinanzi. Non può passare inosservato il fatto che, da un punto di vista etimologico, misericordia condivida con concordia la medesima radice: cor, cioè cuore. Se la misericordia è l’atteggiamento grazie al quale facciamo spazio, nel nostro cuore, alla miseria altrui, essa costituisce, per Agostino, il primo concreto passo verso la concordia, ossia verso quella conformità di pensiero e di intenzionalità che costituisce il perno della vita della città. Rispetto alla giustizia, la misericordia non fa leva innanzitutto sulla dimensione razionale della persona umana, ma interpella la sua sfera affettiva e, proprio per la sua incisività, svolge un servizio impagabile nei confronti della ragione, in ordine alla realizzazione della giustizia. Agostino dice testualmente: «Servit […] rationi […] ut iustitia conservetur».39 La misericordia si presenta, quindi, come un altro nome (di ordine affettivo e teologico) per dire la giustizia. È un altro nome per dire la politikè philia di Aristotele. Proprio per la sua efficacia, la misericordia risulta essere una virtù civica assolutamente necessaria.
3.3. L’apertura al trascendente Per Agostino, però, la giustizia non ha solo una dimensione orizzontale. Ha anche e innanzitutto una dimensione verticale. Il vescovo di Ippona desume questa convinzione dall’insegnamento dato da Gesù in relazione al comandamento più grande (cf. Mc 12,28ss). La giustizia non sta solo nell’amore del prossimo, ma anche e innanzitutto nell’amore di Dio. Agostino non stenta a dire che «l’unione del popolo dei giusti vive di
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Ivi, 9,5: NBA V/1, 632. Ivi.
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fede, la quale opera mediante l’amore con cui si ama Dio, come si deve amare, e il prossimo come se stesso. Dove dunque non v’è un simile tipo di giustizia, certamente il popolo […] non è popolo».40 Potremmo aggiungere: la città non è città. Altrove Agostino relaziona la necessità dell’amore di Dio, contenuto nel comandamento più grande, non solo col concetto di giustizia (unicuique suum tribuere), ma anche con quello dell’amore di se stessi, di cui parla sempre il comandamento più grande. Per comprendere questa associazione, occorre seguire con attenzione il vescovo di Ippona negli sviluppi della sua riflessione. Innanzitutto bisogna prendere atto del fatto che, per Agostino, discepolo della filosofia platonica, «soltanto Dio è il bene della creatura ragionevole o intelligente in ordine alla felicità».41 Di per sé, Agostino riferisce questa affermazione alle creature angeliche, ma si deve riconoscere che essa vale anche per gli esseri umani, a motivo della natura spirituale della loro anima. Ne consegue che l’uomo può raggiungere la vita beata solo se «si unisce in purezza di casto amore all’unico sommo bene che è il Dio immutevole».42 Agostino, identificando la felicità coll’adhaerere Deo, mostra di essere debitore non solo nei confronti della tradizione platonica, ma anche della rivelazione biblica, in particolare del Sal 72,28,43 che, agli orecchi di Agostino, suonava così: «Mihi autem adhaerere Deo bonum est». Sulla base di ciò, Agostino arriva a leggere in una maniera assolutamente originale il comandamento di amare il proprio prossimo come se stessi: «A chi sa amare se stesso, quando gli si comanda di amare il prossimo come se stesso, gli si comanda soltanto che, per quanto gli è possibile, lo sproni ad amare Dio».44 Per Agostino, quindi, il comandamento dell’amore del prossimo trova la sua declinazione più piena in senso teologico, proprio sulla base dell’amore di sé, letto alla luce della tradizione platonica e della rivelazione biblica. Come afferma lo stesso Agostino, chi ha trovato la propria felicità nell’unione con Dio deve condurvi le persone che ama.45 La ricerca personale della felicità diventa, quindi, un presupposto quanto mai importante in vista di una relazionalità orizzontale (civica) aperta alla trascendenza.
Ivi, 19,23,5: NBA V/3, 81; cf. anche ivi, 2,21,4: NBA V/1, 139. Ivi, 12,1,2: NBA V/2, 149. 42 Ivi, 10,1,1: NBA V/1, 681. 43 Il Ps 72,28 è citato in Agostino, De civ. Dei 12,9,2: NBA V/2, 168, dove l’adhaerere Deo è presentato come il fondamento della città di Dio: «Il mio bene è essere unito a Dio. E coloro che comunicano di questo bene hanno con colui, cui sono uniti, e fra di sé una società santa e sono una sola e medesima città di Dio». 44 Ivi, 10,3,2: NBA V/1, 691. 45 Cf. ivi, 10,3,2: NBA V/1, 691. 40
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4. La
città osservata da una prospettiva teologica
4.1. Due modi di vivere
la città
Stando alle definizioni di città proposte da Agostino e alle descrizioni che egli concretamente ne dà, dobbiamo concludere che, per il vescovo di Ippona, la città non contempla un unico stile di vita. Ve n’è uno improntato alla concordia, che si fonda sull’esercizio delle virtù della giustizia e della misericordia e trova un riferimento importante nella fede, e ve n’è un altro, caratterizzato dalla discordia, legato alla ricerca del benessere a tutti i costi e all’ambizione personale. Agostino non si ferma a questa analisi fenomenologica, che già di per sé rappresenta una acquisizione considerevole, ma si prefigge d’interpretare «mystice»46 questo dato. Con questo avverbio egli si propone di offrire una lettura spirituale della città, alla luce della Parola ispirata. Non a caso, infatti, passando dalla sezione più apologetica del De civitate Dei (i primi dieci libri) a quella più teologica (i restanti dodici), Agostino dichiara che la sua fonte di riferimento non è «un libro che riporta eventuali teorie del pensiero umano, ma un’opera scritta per ispirazione della sovrana provvidenza»,47 ossia la sacra Scrittura. Ne abbiamo una immediata conferma nella terminologia che Agostino utilizza per esprimere le due differenti maniere di vivere la città. In continuità con la Scrittura, Agostino parla di due differenti città.48 Talvolta ricorre al topos di Gerusalemme e di Babilonia,49 che già nella tradizione biblica, oltre al loro significato storico, ne avevano assunto anche uno simbolico (cf. Eb 12,22; Ap 3,12; 21,2). Talvolta egli distingue coloro che intendono vivere secondo lo spirito da quelli che intendono vivere secondo la carne, attingendo a due categorie fondamentali dell’antropologia paolina, che Agostino interpreta correttamente attraverso un’altra serie di antitesi: vivere secondo Dio e vivere secondo se stessi; vivere secondo verità e vivere secondo menzogna; vivere per fare la volontà di Dio e vivere per fare la propria volontà; vivere secondo l’ordine della creazione o vivere contro di esso.50
Ivi, 15,1,1: NBA V/2, 376. Ivi, 11,1: NBA V/2, 66. 48 Cf. ivi, 14,1: NBA V/2, 289: «Sebbene numerosi e grandi popoli sussistano nel mondo con diverse religioni e costumi e si distinguano per notevole diversità di lingua, armamento e abbigliamento, tuttavia non si abbiano più di due tipi di umana convivenza (duo quaedam genera humanae societatis). Giustamente secondo il linguaggio della sacra Scrittura potremo definirli le due città». 49 Cf. ivi, 17,16,2: NBA V/2, 619: «La città del gran Re. È la Sion in senso spirituale. Questa parola tradotta in lingua latina significa “contemplazione”. Difatti ella contempla il grande bene della vita fuori del tempo poiché ad essa è rivolta la sua aspirazione. Ella è anche la Gerusalemme sempre in senso spirituale. […] La sua nemica è la città del diavolo, Babilonia, che si traduce “confusione”». 50 Cf. ivi, 14,4,1: NBA V/2, 297. 46 47
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Alla base di tutte queste contrapposizioni, Agostino vede in azione l’umiltà e la superbia, come si può verificare già nel prologo del De civitate Dei.51 Per Agostino la superbia è «perversae celsitutinis appetitus»,52 dove, non senza una certa ironia, l’aggettivo perversus qualifica il desiderio di grandezza che l’uomo superbo prova non solo come malvagio, ma anche come capovolto, per il fatto che egli vuole «sibi quodammodo fieri atque esse principium» e desidera «sibi placere».53 Ma, nel fare questo, invece di innalzarsi, finisce per abbassarsi. L’umile, invece, sottomettendosi a Dio, si eleva, dal momento che si sottomette all’essere che è più in alto. Già nella prefazione del De civitate Dei, Agostino presentava l’umiltà come quella virtù in forza della quale «la grandezza (celsitudo) non accampata dalla presunzione umana ma donata dalla grazia divina trascende tutte le altezze terrene».54 Sebbene Agostino non utilizzi questa espressione, potremmo definire l’umiltà come rectae celsitudinis appetitus, dove l’aggettivo rectus significa sia giusto, che diritto, in perfetta antitesi con perversus. Riecheggia la parola di Gesù in Mc 11,43: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore». La vera grandezza sta nell’umiltà. La superbia non fa altro che coprire di ridicolo chi è affetto da questo vizio. La contrapposizione forse più celebre presente nel De civitate Dei è però quella fra l’amor Dei e l’amor sui, che ricorre per la prima volta proprio nel brano citato poc’anzi, tratto dal libro XIV. Il valore di questa antitesi può essere colto fino in fondo solo se si pensa che, per Agostino, l’amor è il pondus dell’animo,55 ossia quella forza che attrae ogni uomo e, quindi, anche ogni comunità umana. «L’uomo non è libero di amare o non amare, ma solo di determinare quali beni saranno gli oggetti del suo amore. Tuttavia, a differenza delle cose che sono buone in sé, l’amore di esse può essere o buono o cattivo»,56 a seconda che corrisponda o meno all’ordine stabilito dal Creatore. Una simile comprensione dell’amore porta Agostino a concludere che tutte le passioni che attraversano l’animo umano (il desiderio, la gioia, il timore, la tristezza) sono tutte riconducibili, senza alcuna esclusione, all’amore.57 Anche i due modi di vivere la città devono, quindi, essere intesi come due amores, che differiscono a
Cf. ivi, 1, praef.: NBA V/1, 17. Ivi, 14,13,1: NBA V/2, 326. 53 Ivi. 54 Ivi, 1, praef.: NBA V/1, 17. 55 «Ita enim corpus pondere, sicut animus amore fertur, quocumque fertur» (ivi, 11,28: NBA V/2, 124). Per usi analoghi della metafora cosmologica del peso per esprimere la natura dell’amore, cf. anche Agostino, Confess. 13,9,10: NBA I, 458: «Pondus meum amor meus, eo feror, quocumque feror»; Id., Ep. 55,10,18; 157,2,9: NBA XXI, 471; XXII, 591. 56 R. Russell, «Introduzione generale. Filosofia», in NBA V/1, CXXVII. 57 «L’amore che brama avere l’oggetto amato è il desiderio, quando lo ha e ne gode è gioia, quando fugge ciò che lo contraria è timore, quanto esperimenta il verificarsi di ciò che lo contraria è tristezza» (Agostino, De civ. Dei 14,7,2: NBA V/2, 305). 51 52
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motivo del loro oggetto: l’amor Dei e l’amor sui.58 Agostino ritorna su questa medesima contrapposizione nel capitolo conclusivo del libro XIV del De civitate Dei, col quale egli chiude la prima sezione della seconda parte della sua opera (libri XI-XIV), tutta dedicata al «principio». Qui troviamo un brano quanto mai celebre – forse il più celebre del capolavoro del vescovo di Ippona –, nel quale viene meglio esplicitata l’antitesi attorno alla quale si edificano (fecerunt) le due città, l’amor Dei e l’amor sui: Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé fino all’indifferenza per Iddio, alla celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé. Inoltre quella si gloria in sé, questa nel Signore. Quella infatti esige la gloria dagli uomini, per questa la più grande gloria è Dio testimone della coscienza. Quella leva in alto la testa nella sua gloria, questa dice a Dio: Tu sei la mia gloria anche perché levi in alto la mia testa. In quella domina la passione del dominio nei suoi capi e nei popoli che assoggetta, in questa si scambiano servizi nella carità i capi col deliberare e i sudditi con l’obbedire. Quella ama la propria forza nei propri eroi, questa dice al suo Dio: Ti amerò, Signore, mia forza. Quindi nella città terrena i suoi filosofi, che vivevano secondo l’uomo, hanno dato rilievo al bene o del corpo o dell’anima o di tutti e due. […] Nella città celeste invece l’unica filosofia dell’uomo è la religione con cui Dio si adora convenientemente, perché essa attende il premio nella società degli eletti, non solo uomini ma anche angeli, affinché Dio sia tutto in tutti.59
Per rendere ragione dei due differenti amores, Agostino in parte riprende antitesi già note, presenti fin dalla prefazione del primo libro (essere dominati dalla dominandi libido e mettersi a servizio nella carità), in parte ne introduce di nuove, tutte di matrice biblica: gloriarsi in sé e gloriarsi nel Signore; riporre la propria forza in sé e riporre la propria forza nel Signore. Se, fin qui, nella lettura delle due città, Agostino si è lasciato condurre da categorie tutte chiaramente tratte dalla rivelazione biblica, in alcuni passaggi della sua opera egli propone una distinzione a partire da categorie di matrice filosofica, che, peraltro, hanno conosciuto un grande sviluppo nella tradizione teologica morale, anche contemporanea. Si tratta della distinzione tra bene comune e bene privato. Gerusalemme ricerca il bene comune, mentre Babilonia il bene privato. Agostino introduce per la prima volta questa contrapposizione in relazione agli angeli: «Alcuni infatti si mantengono stabilmente nel bene universale, che per loro è lo stesso Dio, e nella sua eternità, verità e carità. Altri invece, smaniosi di un proprio potere, come se fossero un bene a se stessi, sono scesi dal sommo beatificante bene universale ai beni particolari».60 Per coniare
58 Agostino conosce anche un amore di sé positivo: quello che, in conformità con il comandamento più grande (cf. Mc 12,28ss), è vissuto in relazione all’amore di Dio: «Ille in se diligendo non errat, qui Deum diligit» (ivi, 19,14: NBA V/3, 54). Si noti, però, che Agostino evita deliberatamente l’antitesi amor sui /amor Dei, preferendo la coppia diligere se / diligere Deum. 59 Ivi, 14,28: NBA V/2, 361-363. 60 Ivi, 12,1,2: NBA V/2, 147.
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l’antitesi tra commune omnium bonum e bona propria, con ogni probabilità Agostino si è ispirato a At 4,32, un testo che, fin dall’inizio, abbiamo riconosciuto come centrale nella riflessione agostiniana sulla città (e non solo). Il vescovo di Ippona conosce questo versetto non secondo la traduzione della Vulgata,61 ma secondo un’altra versione: «Nemo dicebat aliquid proprium, sed erant illis omnia communia».62 Si noti che l’antitesi tra il commune e il proprium ricorre, in modo assolutamente identico, tanto nel testo lucano, quanto in quello agostiniano. Inoltre, nel brano del De civitate Dei, merita di essere evidenziata l’equivalenza tra bene comune e Dio, da una parte, e tra bene privato e se stessi, dall’altra. Precisa, a questo riguardo, Agostino Trapè: «Amore privato vuol dire amore di parte, che priva l’individuo della comunione con Dio e con i fratelli; e genera divisioni, esclusioni indebite, contrasti. […] L’amore sociale invece è l’amore del bene comune che unisce e crea la comunione».63 Nel libro successivo, l’antitesi viene ripresentata su scala umana, non più angelica. La città di Dio è definita come quel luogo «ubi sit non amor propriae ac privatae quodammodo voluntatis, sed communi eodemque immutabili bono gaudens atque ex multis unum cor faciens, id est perfecte concors oboedientia caritatis».64 Oltre alla consueta contrapposizione tra proprium e commune, merita di essere rilevato il nesso, istituito da Agostino, tra l’amore del bene comune e la concordia, che da esso è generata. Dunque, quella concordia, che è la proprietà più essenziale della città, è direttamente proporzionale alla ricerca del bene comune. Non può non sorprendere che questa articolata riflessione sulle due differenti modalità di vivere la città non compaia per la prima volta nel De civitate Dei, ma sia già presente nella mente di Agostino ancor prima di scrivere la prima riga di quest’opera. Lo dimostra un passo del libro XI del De Genesi ad litteram, composto con ogni probabilità prima del 410, l’anno del sacco di Roma. Qui Agostino non solo annuncia la sua intenzione di dedicare un’opera alle due città, ma ne descrive anche le caratteristiche che le distinguono, in primo luogo i due amores e l’antitesi tra commune e proprium: Di questi due amori l’uno è puro, l’altro impuro; l’uno sociale, l’altro privato; l’uno sollecito nel servire al bene comune in vista della città celeste, l’altro pronto a subordinare anche il bene comune al proprio potere in vista di una dominazione arrogante; l’uno è sottomesso a Dio, l’altro è nemico di Dio; tranquillo l’uno, turbolento l’altro; pacifico l’uno, l’altro litigioso; amichevole l’uno, l’altro invidioso; l’uno che vuole per il prossimo ciò che vuole per sé, l’altro che vuole sottomettere il prossimo a se stesso; l’uno che governa il prossimo per l’utilità del prossimo, l’altro per il proprio interesse. Questi due amori si manifestarono dapprima tra gli angeli: l’uno nei buoni, l’altro nei cattivi, e
61 «Nec quisquam eorum, quae possidebat, aliquid suum esse dicebat; sed erant illis omnia communia». 62 Cit., ad es., in Agostino, Serm. 355,2: NBA XXXIV, 244. 63 Trapè, «Introduzione generale. Teologia», LXVII. 64 Agostino, De civ. Dei 15,3: NBA V/2, 382.
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Federico Badiali segnarono la distinzione tra le due città fondate nel genere umano sotto l’ammirabile ed ineffabile provvidenza di Dio, che governa ed ordina tutto ciò che è creato da lui: e cioè la città dei giusti l’una, la città dei cattivi l’altra. Inoltre, mentre queste due città sono mescolate in un certo senso nel tempo, si svolge la vita presente finché non saranno separate nell’ultimo giudizio: l’una per raggiungere la vita eterna in compagnia con gli angeli buoni sotto il proprio re, l’altra per essere mandata nel fuoco eterno con il suo re in compagnia degli angeli cattivi. Di queste due città parleremo più a lungo forse in un’altra opera, se il Signore vorrà.65
4.2. Permixtae Già in questo passaggio del De Genesi ad litteram Agostino sembra avvertire il bisogno di fugare una possibile interpretazione errata dell’immagine delle due città. Infatti, per quanto essa risulti assolutamente affascinante, può far pensare che ciascuna delle due città viva trincerata dentro le sue mura, in maniera assolutamente indipendente rispetto all’altra. Le cose, però, non stanno affatto così. Agostino lo ribadisce fin dalla conclusione del libro I del De civitate Dei, in un capitolo densissimo di contenuti teologici: «Perplexae quippe sunt istae duae civitates in hoc saeculo invicemque permixtae».66 Agostino qui non si limita a dire che le due città, nel corso della storia, risultano tra loro mescolate, ma sono a tal punto intrecciate tra loro da non essere adeguatamente distinguibili. Ad esempio, in relazione ai beni temporali, non si può dire che l’una prosperi, mentre l’altra subisca privazioni. Nei loro rivolgimenti storici, le due città sperimentano, infatti, allo stesso modo avversità e prosperità. E questo non per una motivazione puramente casuale, ma per un disegno che Agostino interpreta come provvidenziale, ossia voluto da Dio: «affinché i beni non siano cercati con eccessiva passione, poiché si vede che anche i cattivi li hanno, e non si evitino disonestamente i mali, poiché anche i buoni spesso ne sono colpiti».67 Alla luce di ciò, però, è inutile aggiungere che, di fronte ai medesimi eventi, i cittadini delle due città reagiscono interiormente in maniera diversa, rivelando così la loro vera identità, esattamente come accade alle olive spremute nel frantoio, dove l’olio viene separato dalla morchia. I cittadini della città di Dio, di fronte alla prosperità, non si inorgogliscono e, di fronte alle avversità, non si abbattono; i cittadini della città terrena, invece, di fronte alle avversità, si deprimono e, di fronte alla prosperità, montano in superbia.68 Altrove Agostino precisa che ciò che distingue le due città, poste di fronte ai medesimi rivolgimenti della storia, è il fatto che esse reagiscono «con diversa fede, diversa speranza, diverso amore».69
Agostino, De Gen. ad litt. 11,15,20: NBA IX/2, 583. Agostino, De civ. Dei 1,35: NBA V/1, 84. I due aggettivi che Agostino utilizza in questo passo sono ripresi anche altrove: ivi, 10,32,4; 11,1: NBA V/1, 770; V/2, 66. 67 Ivi, 1,8,1: NBA V/1, 29. 68 Cf. ivi, 1,8,2: NBA V/1, 31. 69 Ivi, 18,54,2: NBA V/2, 765. 65 66
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Agostino nota qualcosa di analogo a proposito della gestione del potere politico. A volte, sono i cittadini della città di Dio a governare su quelli della città terrena, mentre, altre volte, sono i cittadini della città terrena a governare su quelli della città di Dio. Come, però, aveva già rilevato a proposito dei beni temporali, anche in relazione al potere politico Agostino nota il diverso effetto sortito dai due differenti scenari da lui presentati. Nel caso in cui sia un cittadino della città di Dio a governare, tutti ne ricevono un beneficio; nel caso in cui sia un cittadino della città terrena a governare, solo lui ne è danneggiato, dal momento che «bonus etiamsi serviat, liber est; malus autem etiamsi regnet, servus est, nec unius hominis, sed, quod est gravius, tot dominorum, quot vitiorum».70 Agostino, solitamente tacciato di pessimismo, appare qui un po’ troppo ottimista. Non di rado, infatti, le strutture di peccato condizionano fortemente l’agire umano, che, pertanto, non risulta affatto così libero come il vescovo di Ippona vorrebbe. Oltre al rapporto con i beni temporali e alla gestione del potere politico, Agostino individua un terzo elemento di commixtio fra le due città: l’appartenenza etnica. Non si appartiene all’una o all’altra città perché membri di un determinato gruppo. Questo dato emerge in maniera inequivocabile dal Nuovo Testamento, dove si legge che in Cristo Gesù «non c’è Giudeo né Greco» (Gal 3,28). Proprio per questo, Agostino può dire che «si edifica appunto in tutti i paesi della terra come casa per il Signore la città di Dio, che è la santa Chiesa».71 Altrove egli afferma, con maggior precisione, che la città di Dio non solo non fa distinzioni per quanto riguarda le tradizioni, le istituzioni e le leggi, ma non ne contrasta alcuna, purché esse non ostacolino il cammino dell’uomo nella sua ricerca di una convivenza pacifica e nella sua apertura al trascendente.72 L’osservazione risulta di una modernità stupefacente! Agostino arriva anche ad affermare che il criterio della irrilevanza della provenienza etnica in ordine all’appartenenza alla città di Dio era valido anche nella prima alleanza, dove, invece, l’elemento del particolarismo nazionale risultava accentuatissimo. Benché, infatti, Agostino non rifiuti che «non ci fu nessun altro popolo che si potesse considerare veramente popolo di Dio», tuttavia «anche fra gli altri popoli vi poterono essere individui appartenenti alla Gerusalemme spirituale».73 Il vescovo di Ippona cita un caso per tutti: Giobbe. Nemmeno i confini visibili della comunità ecclesiale delimitano automaticamente la città di Dio. Agostino sa bene che vi sono cristiani che appartengono alla Chiesa in forza dei sacramenti, ma non vi appartengono col cuore. Dicendo questo, Agostino allude a
Ivi, 4,3: NBA V/1, 254. Ivi, 8,24,2: NBA V/1, 601-603. 72 Cf. ivi, 19,17: NBA V/3, 63. 73 Ivi, 18,47: NBA V/2, 745. 70 71
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Federico Badiali coloro che la città di Dio accoglie in sé, finché è esule in questo mondo, perché uniti nella partecipazione ai sacramenti ma che non saranno con lei nell’eterna eredità dei santi. Di essi alcuni sono celati, altri manifesti. E questi ultimi non si fanno scrupolo di mormorare assieme ai nemici contro Dio, di cui hanno in fronte il sacramento, riempiendo ora i teatri con loro, ora le chiese con noi.74
Qui Agostino distingue la communio sacramentorum dalla communio sanctorum. La prima non è garanzia della seconda, come conferma lo stile di vita di alcuni battezzati, in maniera più o meno manifesta. Per giustificare questo fatto da un punto di vista teologico, Agostino fa riferimento a Mt 22,14 e alla distinzione ivi contenuta fra chiamati ed eletti. Non tutti i chiamati sono eletti. Solo il giudizio finale rivelerà in maniera definitiva chi fra i chiamati è anche stato eletto.75 Una simile sottolineatura si fonda sulla teologia della predestinazione che Agostino ha elaborato e che egli considera una «trincea inoppugnabile»76 della grazia di Dio. Ma la commixtio tra la città di Dio e la città terrena non si presenta solo all’interno dei confini della Chiesa visibile, ma anche al di fuori di essa. Agostino, infatti, non esita a dire che alcuni di coloro che oggi figurano come nemici della Chiesa domani potranno risultarne cittadini: «Individui predestinati ad essere amici si celano ancora sconosciuti a se stessi, fra i nostri avversari più palesi».77 Anche in questo caso, Agostino riconduce tutto al mistero della predestinazione. All’interno di questo quadro estremamente fluido, in cui non esistono criteri né sociologici (la prosperità, l’esercizio del potere politico, l’appartenenza etnica), né teologici (la communio sacramentorum) per distinguere i cittadini della città di Dio da quelli della città terrestre, Agostino sembra indicare un solo elemento chiaro per avviare un discernimento: il fatto che la città terrestre perseguita la città di Dio, nonostante i benefici che essa le offre. Agostino mostra di averlo presente fin dal primo capitolo del De civitate Dei. Ripercorrendo la storia sacra, il vescovo di Ippona mette in luce che tale inimicizia ha radici antichissime, che affondano nel primo fratricidio della storia, quello compiuto da Caino ai danni di Abele.78 Nonostante le continue violenze a cui la città di Dio è soggetta da parte della città terrena, tuttavia Agostino precisa che essa non ne è piegata. Anzi, essa riceve continue attestazioni di fortezza e di eroismo da parte di alcuni dei suoi figli: i martiri.79 In questo modo essa «si evolve [procurrit] pellegrina fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio».80
Ivi, 1,35: NBA V/1, 85. Cf. ivi, 18,48s: NBA V/2, 747-749. 76 Agostino, De d. persev. 21,54: NBA XX, 383. 77 Agostino, De civ. Dei 1,35: NBA V/1, 85. Cf. anche ivi, 1,1: NBA V/1, 19. 78 Cf. ivi, 15,5: NBA V/2, 385. 79 Cf. ivi, 10,21: NBA V/1, 731. 80 Ivi, 18,51,2: NBA V/2, 755. 74 75
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4.3. In
evoluzione
Sulla base di quest’ultima affermazione dobbiamo riconoscere che per Agostino la civitas non è solo una realtà estremamente complessa, ma anche in continua evoluzione. A questo tema Agostino dedica la seconda sezione della seconda parte della sua opera (libri XV-XVIII). Per avere un’idea di cosa egli intenda dicendo questo, senza dover entrare nello specifico, ci limitiamo a considerare i sommari nei quali Agostino annuncia o ricapitola la sua riflessione su tale argomento. Già nella conclusione della prima parte della sua opera, egli annuncia che, nella seconda parte, tratterà l’origine, lo svolgimento e gli esiti delle due città81 e, nella pagina immediatamente successiva, dando effettivamente inizio alla seconda parte della sua opera, ribadisce questo suo proposito, utilizzando esattamente gli stessi termini appena impiegati, eccetto quello con cui ha espresso l’evoluzione storica delle due città. Se nella pagina precedente aveva parlato di procursus (correre in avanti), ora ricorre a un sinonimo, excursus (correre fuori),82 che condivide col precedente la medesima radice, quella del verbo curro, correre. Da questo momento in poi l’impiego dell’uno o dell’altro vocabolo sarà assolutamente indifferente, mentre la scelta della radice comune ai due riveste – come vedremo – un valore non solo stilistico, ma propriamente teologico. Avviando la sezione dedicata alla trattazione dell’evoluzione storica della città di Dio, egli ne fissa i limiti cronologici (da quando i progenitori hanno dato inizio alla specie, fino a quando si cesserà di perpetuarla) e lo scenario (l’universum tempus sive saeculum, nel corso del quale gli individui nascono e muoiono).83 All’inizio del libro XVIII, dopo aver presentato il cammino della città di Dio e avviandosi a illustrare quello della città terrena, Agostino, guardando retrospettivamente l’itinerario da lui compiuto, dichiara che le due città sono andate avanti insieme, anche se, nella prima alleanza, la città di Dio è avanzata (il verbo utilizzato è curro) «non in lumine, sed in umbra».84 Questa concezione dinamica della città di Dio è rafforzata dall’idea che, propriamente parlando, la città di Dio è la Gerusalemme del cielo. Con quella peregrinante forma un’unica città di Dio,85 in quanto, oltre agli angeli, quest’ultima annovera tra i suoi cittadini gli uomini che, sulla terra, hanno vissuto secondo Dio.86 Eppure la condizione escatologica della città di Dio sarà molto diversa da quella storica. Lo si può cogliere già nella premessa dell’opera, in cui Agostino definisce la città di Dio gloriosissima,87 indicando così che la sua manifestazione completa si avrà solo nell’eschaton. In patria, ossia nei cieli, essa godrà la quiete, mentre
Cf. ivi, 10,32,4: NBA V/1, 771. Cf. ivi, 11,1: NBA V/2, 66. 83 Cf. ivi, 15,1,1: NBA V/2, 377. 84 Ivi, 18,1: NBA V/2, 648. 85 Cf. ivi, 10,7: NBA V/1, 697. 86 Cf. ivi, 15,1,2; 17,3,1: NBA V/2, 379; 567. 87 Cf. ivi, 1, praef.: NBA V/1, 16. 81 82
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in questo mondo è pellegrina. In patria raggiungerà la vittoria e la pace, mentre in questo mondo vive di fede, pazienza e umiltà. In patria assisterà al giudizio, mentre in questo mondo essa vive tra gli infedeli. Possiamo comprendere allora perché Agostino, nel presentare l’evoluzione storica della città di Dio, abbia parlato di procursus e di excursus, anziché, ad esempio, di progressus. Egli è certo che, col passare del tempo, il compimento della promessa escatologica diviene sempre più prossimo, tuttavia, da un punto di vista storico, ciò non significa necessariamente che si vada di bene in meglio. Antonio Nitrola descrive in questi termini la concezione che Agostino ha della storia: La città di Dio e la città terrena avanzano nella storia verso l’incontro con il Signore, ma questo procedere non è percepito come un progredire, un miglioramento. In verità non comporta niente di nuovo e di buono se non il fatto che si è più vicini alla meta e che, per la città di Dio, cresce il numero dei suoi membri: miglioramenti semplicemente quantitativi senza niente di qualitativo, come invece dice progresso.88
Se la civitas si presenta come una realtà dinamica, ciò dipende, almeno da un punto di vista antropologico, dalla speranza da cui è animata. Per Agostino, infatti, a generare la città di Dio sono la speranza nella risurrezione, l’invocazione del nome del Signore, l’attesa paziente della vera felicità.89 La città terrena, invece, è spinta da una speranza tutta immanente, circoscritta in hoc saeculo.90
4.4. Alla
ricerca della pace
Anche se, da un punto di vista sostanziale, ciò verso cui tendono le due città è diametralmente opposto, da un punto di vista formale Agostino deve ammettere che tanto la città di Dio, quanto la città terrena sono mosse da un medesimo desiderio, quello della pace, cui il vescovo di Ippona dedica integralmente il libro XIX del De civitate Dei, definito da Agostino Trapè come «il più bello e il più importante di tutta l’opera».91 Agostino è convinto che tutti gli uomini desiderino la pace. Paradossalmente, infatti, anche chi fa la guerra pensa, in cuor suo, di star operando in vista della pace.92 Per Agostino, la comune aspirazione alla pace dipende dal fatto che «di nessuno si ha una deformità tale contro la natura da cancellare le ultime tracce (vestigia) della natura».93 La pace appare, quindi, come un anelito universale, che, per quanto sfigurato, attraversa tutta la creazione, dal momento che è iscritto nella natura delle cose. Questo, però, impone
A. Nitrola, Trattato di escatologia, 2 voll., San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, II, 382. Cf. Agostino, De civ. Dei 15,18; 15,21; 17,20,2: NBA V/2, 425-427; 435-437; 633. 90 Cf. ivi, 15,17: NBA V/2, 423. 91 Trapè, «Introduzione generale. Teologia», LXXXIII. 92 Cf. Agostino, De civ. Dei 19,12,1: NBA V/3, 45. 93 Ivi, 19,12,2: NBA V/3, 49. 88 89
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che si compia un adeguato discernimento tra quella che può essere considerata una pace giusta e quella che, invece, deve essere riconosciuta come una pace ingiusta. Agostino afferma che quest’ultima è propria di coloro che si preoccupano solo della sorte di chi sta dalla loro parte, oppure che, in un delirio di onnipotenza, vorrebbero poter dominare su tutti.94 Chi si comporta in questo modo, invece di sottomettersi a Dio, vuole imporsi sugli altri, prendendo il posto di Dio. Dietro a un simile atteggiamento, Agostino riconosce i tratti di quel vizio che sta alla base di ogni corruzione, la superbia, che vuole imitare Dio perverse, ossia «in maniera perversa», oppure «a rovescio». Questa analisi, così particolareggiata, non può non rievocare il peccato di Adamo e, su scala comunitaria, il peccato di Babele.95 Detto questo, Agostino passa a offrire una definizione della pace giusta.96 Essa risulta estremamente articolata, proprio a motivo del fatto che si presenta come un’aspirazione universale. Se, in una prospettiva cosmologica, la pace può essere pensata come tranquillitas ordinis, in una prospettiva antropologica essa è ordinata concordia. Data questa definizione, non stupisce che la pace rappresenti la meta verso cui aspira anche la città, che – come abbiamo visto fin dall’inizio – è chiamata a essere concors hominum multitudo. È logico, quindi, che Agostino offra una definizione di pace anche in una prospettiva esplicitamente civica: essa consiste nell’ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium. Infine, in una prospettiva escatologica, la pace è l’ordinatissima et concordissima societas fruendi Deo et invicem in Deo. Non si può non notare che, in tutte queste definizioni di pace, torni con insistenza il concetto di ordine. Agostino ne precisa subito il significato, presentandolo come quella condizione in cui le cose uguali e le cose diseguali raggiungono ciascuna la loro giusta collocazione. Tale ordine verrà raggiunto in maniera definitiva solo nell’eschaton (ordinatissima). Allora i beati potranno godere quella pace cui hanno sempre anelato, anche per il fatto che, alla fine, l’ordine troverà la sua massima attuazione insieme alla concordia (concordissima). D’altra parte – come fa notare Agostino Trapè – la pienezza escatologica abbisogna di entrambe queste realtà: «Senza l’ordine la concordia è latrocinium, senza concordia l’ordine è un carcere: solo l’ordine e la concordia costituiscono la pace tra gli uomini».97 Avviandosi alla conclusione del libro XIX del De civitate Dei, Agostino si sofferma a considerare in maniera più diffusa proprio questa pax in vita aeterna o quella vita aeterna in pace che costituisce il fine ultimo della città di Dio, il summum bonum cui essa aspira,98 e, per questo, il criterio cui deve ispirarsi ogni ricerca storica della pace. Agostino è convinto che,
Cf. ivi. Cf. Cotta, «Introduzione generale. Politica», CL. 96 Cf. Agostino, De civ. Dei 19,13,1: NBA V/3, 51. 97 Trapè, «Introduzione generale. Teologia», XCII. 98 Cf. Agostino, De civ. Dei 19,11: NBA V/3, 42. 94 95
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nella condizione escatologica, l’uomo raggiungerà la tranquillitas ordinis tanto sul piano teologico, quanto su quello antropologico: Dio dominerà (imperabit) per sempre su di lui e la sua anima dominerà per sempre sul suo corpo. Tuttavia l’obbedienza che l’uomo vivrà nei confronti di Dio e che il suo corpo vivrà nei confronti della sua anima non solo sarà perfetta, ma sarà anche priva di quel carattere laborioso che, invece, ha caratterizzato l’esperienza storica del giusto. Per descrivere questa condizione, Agostino utilizza due sostantivi, suavitas e facilitas, che fanno da pendant alla gioia che i beati sperimenteranno nella vita eterna.99
4.5. Il
contributo del vangelo alla città e della città al vangelo
In conclusione, per Agostino cosa può offrire il vangelo alla città? Ne troviamo un primo accenno nel libro II del De civitae Dei, dove il vescovo di Ippona descrive la corruzione dilagante a Roma, non attribuibile certamente alla diffusione della fede cristiana – come invece tanti vorrebbero –, ma all’avarizia e alla mollezza dei costumi della società imperiale. All’interno di questa analisi, Agostino, mosso dal suo intento apologetico, indica, quasi per inciso, cosa il vangelo può offrire alla civitas. «Lo stato abbellirebbe col proprio benessere (felicitas) la piattezza della vita presente e scalerebbe la vetta della vita eterna per regnare in una perfetta felicità (beatissime)».100 Alla luce di questo testo, potremmo dire che, per Agostino, il vangelo prospetta alla città che lo accoglie una gioia immanente (relativa, cioè, alle terrae vitae prasentis) e una gioia escatologica (riferita, cioè, al vitae aeternae culmen). In questo stesso testo, Agostino aggiunge, in merito alla prospettiva immanente, che, se gli abitanti della civitas (re, magistrati e giudici, anziani e giovani, uomini e donne, gabellieri e soldati) ascoltassero l’insegnamento evangelico, esso rappresenterebbe la salus reipublicae. Questo concetto, che Agostino presenta anche nella lettera 138 (che riprende quasi letteralmente il capitolo del De civitate Dei appena citato, per confutare le obiezioni di chi afferma che la fede cristiana è dannosa allo Stato),101 viene ulteriormente approfondito nella lettera 137. Qui Agostino fa dipendere la salus reipublicae dall’osservanza del duplice comandamento dell’amore. In particolare, Agostino è convinto del fatto che un ottimo Stato non si fonda né si conserva senza il fondamento e il vincolo della fede e della salda concordia, cioè se non quando si ama il bene comune, ossia Dio che è il sommo e verissimo bene, e in lui gli uomini si amano scambievolmente con la massima sincerità allorché si vogliono bene per amor di Lui, al quale non possono nascondere l’animo con cui amano.102
Cf. ivi, 19,27: NBA V/3, 86. Ivi, 2,19: NBA V/1, 129. 101 Cf. Agostino, Ep. 138,2,15: NBA XXII, 187. 102 Ivi, 137,5,17: NBA XXII, 167. 99
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L’amore per Dio viene indicato come ciò che assicura l’autenticità dell’amore per il prossimo. Anche in un passaggio del De civitate Dei Agostino mette in relazione la fede col vivere recte,103 ma in quel contesto, citando Rm 1,17, Agostino vuole sottolineare il fatto che il vivere ex fide non solo è reso necessario dal fatto che il Bene che ricerchiamo non è ancora visibile in questa vita, ma anche e soprattutto dal fatto che il vivere recte non dipende dalle nostre forze, ma dall’adiutorium di Dio, da accogliere nella fede. Quasi anticipando quella reciprocità tra Chiesa e mondo, messa a tema dal Vaticano II in Gaudium et spes c. IV, Agostino, in alcune passaggi del De civitate Dei, evidenzia che la comunità che custodisce nella fede il vangelo non ha solo qualcosa di fondamentale da donare alla civitas; la civitas ha anch’essa qualcosa da insegnare alla comunità cristiana. Nella seconda parte del libro V, mettendo a confronto i cittadini della città eterna, ancora esuli in questo mondo, e i cittadini della città terrena, Agostino invita i primi ad apprendere dai secondi l’amore che essi devono avere per la propria patria.104 Lo stesso dicasi, in generale, in relazione agli esempi di virtù offerti dai membri della città terrena105 e, in particolare, in relazione alla loro disponibilità a condividere i loro beni.106 Sebbene i cittadini della città terrena siano mossi unicamente dalla ricerca di una gloria immanente e non da una speranza escatologica, tuttavia Agostino non può esimersi dal mostrare tutta la propria ammirazione nei confronti della testimonianza umana da loro offerta. Agostino, infine, riconosce che la città celeste, nel suo esilio, trae profitto dalla pace terrena,107 per quanto essa sia instabile e ambigua, a motivo della imperfezione degli ideali che essa desidera conseguire. Questa consapevolezza, però, non impedisce ad Agostino di ammettere che, «se sono vincitori coloro che combattevano per una causa più giusta, non si può dubitare che c’è da rallegrarsi per la vittoria e che ne proviene una pace auspicabile».108 La conoscenza del summum bonum non impedisce ad Agostino di riconoscere anche il valore di beni parziali.
5. Il
contributo di A gostino all ’ elaborazione di una teologia della città
La lettura del De civitate Dei di Agostino ha evidenziato che, nonostante lo scarso interesse che per quasi duemila anni la teologia ha mo-
Cf. Agostino, De civ. Dei 19,4,1: NBA V/3, 22. Cf. ivi, 5,16: NBA V/1, 369. 105 Cf. ivi, 5,18,3: NBA V/1, 379. 106 Cf. ivi, 5,18,2: NBA V/1, 377-379. 107 Cf. ivi, 19,17; 19,26: NBA V/3, 61; 85. 108 Ivi, 15,4: NBA V/2, 383. 103 104
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strato nei confronti della città, quest’ultima, all’interno del disegno di Dio, non rappresenta affatto un elemento accidentale. La Bibbia cristiana, che ha inizio in un giardino, l’Eden (cf. Gen 2,8), si conclude proprio in una città, la Gerusalemme celeste (cf. Ap 21,2ss), quasi a dire che tutta la storia della salvezza mira alla costruzione e alla fruizione di una città, come risposta alla vocazione politica, ossia «cittadina», dell’uomo. Non sorprende, quindi, che Agostino abbia scelto proprio questa immagine per riflettere sulla storia della salvezza nel suo complesso, dal suo inizio fino al suo compimento. Per quanto, di recente, non siano mancati alcuni tentativi di elaborazione di una teologia della città,109 ci proponiamo qui di indicarne alcuni elementi essenziali, a partire da quanto è emerso dalla lettura del De civitate Dei. a) A misura d’uomo. Come abbiamo potuto osservare fin dall’inizio, Agostino definisce la città come concors hominum multitudo. Egli, cioè, concepisce la città a partire dai suoi abitanti e, in particolare, dal loro modo di vivere associato. Lo stesso farà Tommaso, nel suo commento alla Politica di Aristotele. Egli osserva che «il concetto di città […] implica che in essa si trovi tutto quanto è necessario per rispondere in modo esauriente alle esigenze della vita umana così come si presentano».110 Secoli dopo, negli anni della Controriforma, Giovanni Botero afferma che «città si addimanda una raguganza d’uomini ridotti insieme per viver felicemente».111 Infine, ai nostri giorni, Italo Calvino parla delle città come di «un insieme di tante cose: di memorie, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono cambi di parole, di desideri, di ricordi».112 Nonostante le differenze che si possono rilevare, queste definizioni di città (che abbracciano un arco temporale di oltre millecinquecento anni) presentano tutte un elemento in comune: colgono unanimemente il nesso esistente fra la città e l’uomo. Una teologia della città non può non tenerne conto. Anzi, ne dobbiamo dedurre che, per poter giudicare lo stato di salute di una città, non si può non osservare l’uomo: tutto l’uomo e tutti gli uomini. Alla luce di ciò, cogliamo ancor meglio i motivi per cui papa Francesco fa risuonare continuamente, nel suo magistero, l’opzione per i poveri (cf. EG 186ss: EV 29/2292) e l’invito a raggiungere le periferie (cf. EG 20: EV 29/2126). Se manca questa attenzione nei confronti degli ultimi, la città è destinata a trasformarsi in una banda di briganti, come fa notare icasticamente Agostino. La dimenticanza dell’uomo – generata dalla cultura dello scarto,
Cf. J. Comblin, Teologia della città, Cittadella, Assisi 1971; Frosini, La città. Tommaso d’Aquino, Commento alla Politica di Aristotele, lib. 1, c. 1B, a cura di L. Perotto, ESD, Bologna 1996, 63. 111 G. Botero, Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, Bettoni, Milano 1830, 111. 112 I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993, IX-X. 109 110
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per utilizzare un’altra espressione cara a papa Francesco (cf. EG 53: EV 29/2159) – si configura, dunque, come il vero male che affligge la città. b) Una realtà ambigua. Per quanto, per Agostino, la città sia chiamata a essere concors hominum multitudo, egli è assolutamente consapevole del fatto che questa sua vocazione è continuamente minacciata. A rivelarglielo è, oltre all’esperienza, la lettura della sacra Scrittura. Come abbiamo appena ricordato, essa si chiude con l’immagine di una città, la Gerusalemme del cielo, che esprime la condizione escatologica verso cui è incamminata tutta l’umanità, ma si apre con un’altra città, Enoc, costrui ta da Caino, immediatamente dopo l’uccisione di Abele (cf. Gen 5,17).113 Ne dobbiamo dedurre che la città può essere luogo di beatitudine, ma anche di violenza. Questa ambivalenza della città oggi risulta quanto mai evidente. Ai nostri giorni, la città è luogo di incontri, di realizzazione, di lavoro, di servizi, di democrazia, ma è anche luogo di solitudine, di spae samento, di discriminazione, di miseria, di corruzione, di inquinamento… (cf. EG 75: EV 29/2181). Anzi, nelle megalopoli contemporanee questi processi non possono che essere accelerati e amplificati. Eppure non possiamo guardare con distacco la città, né tanto meno possiamo pensare di sottrarci alle sfide che essa ci rivolge, cercando rifugio in oasi artificiali, costruite nel bel mezzo delle aree desertiche del nostro tempo, come sembra suggerire Rod Dreher ne L’opzione Benedetto.114 Non possiamo sottrarci ai processi storici. Possiamo solo provare a gestirli responsabilmente. c) Una lettura teologica. Agostino non si limita a constatare l’ambiguità cui è esposta la città. Egli ne propone una lettura teologica. Come abbiamo già avuto modo di notare, ne deriva un quadro davvero articolato. Il vescovo di Ippona ricorre a una serie di categorie bibliche con cui esprime i due possibili modi di vivere la città. Egli parla di città di Dio e di città dell’uomo. A costruirle sono due amori, l’amor sui e l’amor Dei, il primo proteso verso i bona propria, il secondo verso il commune omnium bonum. Il primo ha come principio dinamico la carne, il secondo lo spirito. Per usare categorie accessibili ai più, potremmo dire che il primo ha come suo tratto distintivo l’individualismo, mentre il secondo l’apertura verso l’altro. Se l’amor sui spinge l’essere umano a ripetere incessantemente la scelta compiuta dai progenitori al momento del peccato d’origine, l’amor Dei è la risposta dell’uomo all’amore con cui Dio lo ama per primo (cf. 1Gv 4,19). Mentre leggiamo i testi di Agostino, non dobbiamo mai dimenticare questa prospettiva. Prescinderne, significherebbe negare il primato della grazia, fondamento di tutta la teologia del vescovo di Ippona. Ne dobbiamo dedurre che, per Agostino, la città è il luogo in cui l’uomo accoglie l’amore con cui Dio lo ama per primo e in cui è chiamato a corrispondervi. Non possiamo non notare un’analogia
Cf. Agostino, De civ. Dei 15,5: NBA V/2, 385. Cf. R. Dreher, L’opzione Benedetto. Una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018. 113
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fra questa lettura teologica della città e quanto afferma papa Francesco in EG 71 (EV 29/2177), dove dichiara che Dio abita nella città. Compito dei credenti è, dunque, aiutare i loro concittadini a riconoscere questo amore preveniente. d) Il discernimento, un esercizio urbano. Benché, in linea di principio, la distinzione tra la città di Dio e la città dell’uomo sia assolutamente evidente, nei fatti le cose sono assai più complesse. L’edificazione della città di Dio e l’edificazione della città dell’uomo, infatti, non solo avvengono contemporaneamente, ma addirittura, in corso d’opera, non sono così facilmente distinguibili. Agostino lo evidenzia facendo riferimento a una parabola, che ama citare soprattutto all’interno della polemica anti-donatista. Si tratta della parabola del grano e della zizzania, che crescono insieme, nello stesso campo.115 Così facendo, Agostino vuole invitare i suoi interlocutori alla vigilanza, perché ciascuno stia attento a come costruisce (cf. 1Cor 3,10). Ciascuno non può esimersi dal chiedersi costantemente: A cosa sto lavorando? Alla costruzione della città o alla costruzione dell’anti-città? Sto rispondendo all’amore con cui Dio mi ama per primo, oppure sono mosso dalla concupiscenza, ossia dalla ferita che il peccato d’origine mi ha lasciato aperta? La città appare, quindi, come un ambiente in cui l’esercizio del discernimento risulta davvero indispensabile. e) Un cantiere aperto… fino alla Fine. Se, per Agostino, la storia è lo scenario in cui la città manifesta tutta la sua ambiguità e in cui il credente è invitato ad agire in maniera responsabile, esercitandosi continuamente nell’arte del discernimento, ciò sta a indicare che la città di Dio raggiungerà il suo compimento definitivo solo nell’eschaton. Questa stessa intuizione si ritrova anche in Gaudium et spes, n. 39, in cui si afferma, da una parte, che nessuna realizzazione infra-storica potrà mai appagare completamente le aspettative umane; dall’altra, che gli uomini devono investire tutte le loro energie per il progresso umano e sociale. La ragione di ciò sta nel fatto che quel che di buono e di giusto l’uomo avrà costruito nella storia, alla fine, non verrà cancellato, ma rappresenterà la materia prima con cui sarà costituita la Gerusalemme dei cieli. Il fatto che Dio, nell’eschaton, trasfigurerà la storia umana, anziché ripartire da zero, da una parte rivela la grande fiducia che egli ripone nell’uomo, dall’altra non può non sollecitare quest’ultimo a vivere con assoluta responsabilità il suo presente, pur nella consapevolezza della sua contingenza. Una teo logia della città non può dimenticare questa tensione fra impegno umano e speranza escatologica. Non ci si può sottrarre al proprio impegno di edificare la città, lasciando che il proprio agire sia ispirato a giustizia e a misericordia. Tuttavia, presumere di raggiungere con le proprie forze il compimento delle proprie attese e di quelle della società in cui si vive significherebbe non solo votarsi a una immensa delusione, ma anche fallire il proprio obiettivo come cittadino e cristiano. Rispondendo alle tesi pre-
Cf. Agostino, Serm. 73/A: NBA XXX/1, 489ss.
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sentate da H. Cox ne La città secolare, G.B. Mondin affermava, già negli anni ’70 del secolo scorso, che compito della comunità cristiana «non è tanto d’aiutare il mondo ad essere più pienamente mondo, quanto d’aiutare il mondo a raggiungere Dio».116 E Frosini, da parte sua, oggi aggiunge: «Chi ha nell’animo la Gerusalemme celeste non può mai darsi pace dinanzi a tutte le realizzazioni della storia, perché queste sono sempre di per sé insufficienti e parziali».117 f) L’apertura alla trascendenza. Alla città, infatti, il credente non è chiamato solo a offrire la fede che opera per mezzo della carità (cf. Gal 5,5), ma anche la fede che spera nelle cose che non si vedono (cf. Eb 11,1). Con ciò vogliamo dire che il contributo del cristiano alla città non può essere solo il suo impegno nell’immanenza, ma anche la custodia dell’apertura alla trascendenza. Come ha osservato Pierangelo Sequeri in un suo articolo dedicato alla spiritualità di Charles de Foucauld, in questa figura così evocativa per il nostro tempo la prossimità fraterna e la relazione con Dio non giungono a configurare un rapporto di superiore unificazione, né di strumentale reciprocità. Si sovrappongono, ma non fanno «sintesi». In altri termini, non configurano una relazione calcolabile, del cui esito unitario ci si possa appropriare come di un obiettivo che rappresenti il superamento della loro apparente opposizione, della loro tensione alternativa, della loro difficoltà a essere composte nell’unità di un’immagine. Così che ci si possa infine portare al di là della loro dialettica – amore di Dio, amore del prossimo – per muoversi liberamente oltre il radicalismo delle rispettive insistenze. Oltre tutto scandalosamente asimmetriche. Fratel Carlo segue l’impulso della propria ricerca nella superiore libertà di una incondizionata obbedienza alla volontà del Signore; nel rapporto di un lieto abbandono all’esigenza intrinseca della relazione affettuosa con lui.118
È questo il vangelo che il cristiano deve far risuonare con la sua vita nella città. Agostino l’ha fatto risuonare a Ippona, dopo aver sperimentato che «inquietum est cor nostrum donec requiescat in te».119 Come insegnava Giorgio La Pira, la città, oltre alla casa, all’officina, alla scuola, all’ospedale, deve avere anche la chiesa.120 Anche papa Francesco, in EG 73 (EV 29/2179), ricorda che la comunità cristiana è chiamata, nella città, a inventare luoghi in cui l’uomo contemporaneo possa esercitare la propria spiritualità. Si tratta probabilmente della sfida più grande che oggi l’evangelizzazione è chiamata ad affrontare nelle nostre città. La difficoltà di questa sfida non può spingerci a disertarla, concentrandoci esclusivamente su un impegno di tipo sociale. Sarebbe come costruire un
G.B. Mondin, Dalla teologia radicale alla teologia «conica», Coines, Roma 1970, 88. Frosini, La città, 167. 118 P. Sequeri, Charles de Foucauld. Il Vangelo viene da Nazaret, Vita e Pensiero, Milano 2010, 44-45. 119 Agostino, Conf. 1,1,1: NBA I, 4. 120 Cf. G. La Pira, «Una città fra Oriente e Occidente», in Prospettive 66-67(1979), 20. 116 117
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progetto urbano meraviglioso, ma rassegnato di fronte alla propria provvisorietà e alla propria contingenza. La città, invece, si presenta come «il domicilio organico della persona»,121 come affermava sempre La Pira, dove poter esprimere al meglio la propria trascendenza, ossia la propria apertura nei confronti degli altri e dell’Altro. g) Immagini euristiche. Alla luce di quanto è stato detto, non dobbiamo pensare, però, che la comunità cristiana, rispetto all’umanità nel suo complesso, disponga semplicemente di qualche strumento teologico in più per discernere con sapienza l’esperienza urbana dentro la quale vive e per impegnarsi con determinazione nella costruzione della città in cui abita. Una delle risorse più importanti di cui la comunità cristiana dispone, in relazione alla città, è l’immagine stessa della Gerusalemme celeste, che ha ricevuto dalla rivelazione e che Agostino ha posto a fondamento del De civitate Dei. Per quanto – come ha osservato Joanna Rahner nella prefazione di un suo volume, recentemente tradotto in italiano – le metafore escatologiche non abbiano vita facile nel nostro contesto culturale contemporaneo, a motivo del suo razionalismo, la comunità cristiana deve avvertire innanzitutto il compito di custodirle, per il loro immenso valore euristico.122 Come è avvenuto in passato, infatti, queste metafore possono essere ancora di stimolo per immaginare e costruire il nostro immediato futuro. Facciamo un esempio. Come abbiamo visto, nel De civitate Dei, Agostino afferma che ciò a cui è orientata la città di Dio è la pace, da intendere non semplicemente come assenza di conflittualità, ma soprattutto come compimento di ogni umana aspirazione. Egli desume questa intuizione dalle tante metafore con cui l’Antico e il Nuovo Testamento presentano l’eschaton. In EG 217ss (EV 29/2323ss) anche papa Francesco indica nella pace ciò verso cui tende ogni città, ossia ogni forma di umana convivenza. Essa è riconosciuta come bene escatologico, ma anche come obiettivo cui orientare continuamente ogni nostro impegno storico. A partire di qui, papa Francesco indica all’uomo contemporaneo alcuni principi attraverso i quali costruire la pace. Parafrasando i ben noti quattro principi che, per papa Francesco, devono essere posti alla base dell’impegno sociale del cristiano, potremmo parlare di gradualità, di confronto con la complessità, di realismo e di ottimismo. Non sorprende affatto che Agostino, prendendo le mosse, proprio come papa Francesco, dalla contemplazione della Gerusalemme celeste e della sua pace, molti secoli fa intuì l’importanza di questi stessi criteri, parlando di procursus e di excursus, notando che la città di Dio e la città dell’uomo sono perplexae invecemque permixtae, lasciandosi guidare, in tutta la sua riflessione teologica, dalla fede nel Verbo incarnato, non dubitando mai del fatto che, nonostante le tante prove, la città di Dio è destinata a raggiungere la meta che Dio le ha assegnato. Le metafore escatologiche rappresentano, oggi come ieri, una risorsa preziosa per il futuro delle nostre città.
Ivi. Cf. J. Rahner, Introduzione all’escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2018, 5.
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1. Che
cos ’ è la teologia pubblica
La teologia pubblica (da ora in poi TP) è una corrente teologica interconfessionale poco conosciuta e praticata in Europa, perché muove i suoi primi passi negli USA circa un secolo fa. In un contesto religioso contrassegnato da un forte pluralismo e all’interno di una cultura sociale che considera la fede come una credenza soggettiva, appartenente alla sfera della vita privata, la TP vuole ridare voce alle differenti comunità religiose presenti nel medesimo territorio. Di più, si prefigge di individuare i minimi comuni denominatori morali, che possano sostenere iniziative condivise, volte a rilanciare la presenza visibile e efficace delle religioni nella sfera pubblica. A differenza di altre correnti teologiche ben più famose, che occuparono la scena negli anni ’70 e ’80 – la teologia politica in Europa occidentale; la teologia della liberazione in America Latina – la TP ha un’indole più propositiva che critica. È mossa da un’istanza dialogica e da una concezione prospettica e de-ideologizzata della verità, che bene si abbina con la seconda fase della teologia cattolica post-conciliare, iniziata di fatto con il crollo del muro di Berlino, con il rapido declino del marxismo come progetto politico e con l’incremento esponenziale dei processi
* Docente stabile di Filosofia – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna
[email protected] ** Docente incaricato triennale di Teologia sistematica – Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna [email protected]
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migratori da sud a nord dovuti alla globalizzazione economica e alla diffusione planetaria delle nuove tecnologie di comunicazione. La possiamo riassumere nella definizione coniata da H.E. Breitenberg: la TP è un discorso pubblico normativo e descrittivo teologicamente informato su temi pubblici, istituzioni e interazioni, rivolto alla Chiesa o altro corpo religioso così come al pubblico in generale o a più pubblici e argomentato in modo da poter essere valutato e giudicato in base a ordini e criteri pubblicamente disponibili.1
Anche Veritatis gaudium,2 il recente documento vaticano della Congregazione per l’educazione cattolica di cui papa Francesco ha firmato il Proemio, si avvicina all’impostazione della TP. Specialmente nel paragrafo 4b, dove richiama la teologia cattolica a un «dialogo a tutto campo», non solo come esigenza teorica, invita a svilupparne soprattutto le «implicazioni pratiche». La teologia non è più chiamata a dilettarsi in astratte speculazioni. La sua vocazione odierna è piuttosto quella di «promuovere, in generosa e aperta sinergia con tutte le istanze positive che fermentano la crescita della coscienza umana universale, un’autentica cultura dell’incontro».3
2. Somiglianze
di famiglia
Se assumiamo la descrizione di TP recentemente elaborata da G. Villagrán,4 a un primo sguardo verrebbe da dire che essa ha forti somiglianze con la nostra teologia dell’evangelizzazione (da ora in poi TE). Entrambe sono teologie che traggono linfa dal contesto in cui le Chiese e i cristiani vivono e testimoniano la loro fede.5 In questo, TP (s’intende nella sua versione cattolica, maturata intorno all’insegnamento
1 H.E. Breitenberg, «What is Public Theology?», in D.K. Hainsworth – S.R. Paeth (a cura di), Public Theology for a Global Society. Essais in Honor of Max L. Stackhouse, Eerdmans, Grand Rapids 2010, 5. 2 Francesco, costituzione apostolica Veritatis gaudium circa le università e le facoltà ecclesiastiche (d’ora in poi: VG), 29 gennaio 2018: AAS 110(2018), 1ss. 3 Per una riflessione più ampia su questo tema, cf. P. Boschini, «La teologia nasce dal contesto. L’epistemologia teologica di Veritatis Gaudium», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, supplemento al n. 23(2019)45, 207-217. 4 G. Villagrán, Teologia pubblica. Una voce per la Chiesa nelle società plurali, Queriniana, Brescia 2018. 5 Per quanto riguarda il ruolo del contesto in teologia, cf. Francesco, Discorso in occasione del Convegno «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo», promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sezione San Luigi – di Napoli, 21 giugno 2019: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/june/ documents/papa-francesco_20190621_teologia-napoli.html (consultato il 25 ottobre 2019); cf. anche P. Di Luccio – F. Ramírez Fueyo, «Teologia e rinnovamento degli studi ecclesiastici. Le indicazioni di Francesco nel discorso di Posillipo», in La Civiltà cattolica 170(2019), Q. 4062, 471-481.
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di J.C. Murray e D. Tracy) e TE sono frutti maturati nella seconda fase – più pluralista e riflessiva – della teologia cattolica post-conciliare. Nel solco tracciato da Gaudium et spes, sono guidate dal criterio del discernimento: accogliere e interpretare l’umano, specialmente nelle sue forme più secolari e dunque più caratteristiche del nostro tempo, come luogo della rivelazione del Dio biblico e come kairós di salvezza per l’umanità del nostro tempo.6 Le somiglianze non si fermano qui: toccano anche questioni più pratiche. Proprio per questa grande sensibilità nei confronti del contesto, entrambe le teologie danno grande valore al pluralismo religioso e si sono date il compito di indagarne la valenza teologica,7 nella convinzione che il paradigma della secolarizzazione non debba essere abbandonato, ma ripensato e coniugato con una nuova visione prospettica (o multi-versale) della verità in generale e della verità cristiana in particolare. In altre parole, TP e TE prendono sul serio il lungo processo storico di complessificazione della vita umana che si è andato manifestando soprattutto nella seconda metà del XX secolo e di cui siamo diventati tutti consapevoli in quest’ultimo ventennio. Ancora, entrambe le teologie guardano con molta attenzione alla dimensione relazionale dell’essere umano e stanno indagando gli ambienti quotidiani in cui questa relazionalità si attua: la città, l’ambiente digitale, l’eco-sistema planetario. Sono, se così si può dire, teologie militanti, impegnate a ripensare il rapporto tra teoria e prassi nella Chiesa e parimenti convinte che nella riflessione teologica il primato della realtà sull’idea (Evangelii gaudium, nn. 231233: EV 29/2337ss) debba tradursi in una circolarità infinita tra l’agire e il pensare. Con un’espressione cara a L. Wittgenstein,8 si può dire che queste «somiglianze di famiglia» sono da attribuire a due progenitori che TP e TE hanno in comune: l’ecclesiologia cattolica di metà Novecento, confluita in gran parte nella riflessione conciliare; l’antropologia contemporanea, con la sua forte accentuazione intorno al carattere situato e recettivo della relazionalità umana.
3. Questioni
di confine
In tempo di grandi migrazioni e di sovranismi tanto grotteschi quanto disumani, affrontare la questione dei confini tra due correnti teologi-
6 L. Luppi, «La Teologia dell’Evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare. Un bilancio tra continuità e sviluppi», in M. Marcheselli (a cura di), Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione. Il percorso compiuto a Bologna (1997-2017), EDB, Bologna 2019, spec. 37-49. 7 M. Tagliaferri (a cura di), Il dialogo ecumenico e interreligioso in Emilia-Romagna. Aspetti e prospettive, supplemento al n. 28 di Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, 14(2010). 8 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974, 10.
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che che si assomigliano non poco, può sembrare una cosa di pochissimo conto. Crediamo che valga la pena spenderci qualche pagina alla fine di questo percorso antropo-teologico su Il vangelo nella città: non per rivendicare l’originalità o la perspicacia del nostro percorso teologico, ma per rimarcare la convinzione del carattere prospettico della verità, di cui la scienza teologica è a servizio. Infatti, si può legittimamente pensare in molti modi il rapporto vangelo-storia, Chiesa-mondo, cristiani-società. L’importante, secondo noi, è che sempre si faccia lo sforzo di esplicitare i propri presupposti epistemologici e di confrontarli con quelli di altre correnti teologiche. Ragionare sul confine non è la stessa cosa che discutere dei confini. Serve anzitutto a chiarire a se stessi punti di forza e di debolezza della propria proposta teologica. E contemporaneamente si gettano le basi per un possibile dialogo, che, nel caso della TP, può essere solo «a distanza», dal momento che in Italia non ci pare che questo modo di fare teologia abbia ancora preso piede.
3.1. Prima questione La prima questione di confine tra TP e TE riguarda la relazione tra teo logia ed evangelizzazione. La TP è una teologia-per, cioè una teologia che si pensa a servizio della missione evangelizzatrice delle chiese cristiane, ma non è una teologia che assume l’evangelizzazione come proprio fondamento epistemologico e come proprio focus tematico. La TP si dà a questo proposito un compito più limitato: risvegliare, nel dibattito culturale e politico delle società pluralistiche odierne, l’attenzione per la dimensione simbolica, senza la quale la coscienza rischia di appiattirsi e diventare unidimensionale. La TP è interessata a dischiudere il senso originario della realtà umana e vuole evidenziare il suo protendersi oltre, in una «trascendenza dall’interno del mondo» (Habermas). Ma nella versione che ne ha offerto il teologo di Chicago D. Tracy, la TP vuole andare oltre. Si dà il compito di comprendere le possibili relazioni tra le religioni e il pluralismo post-moderno, smascherando le molteplici ambiguità delle società odierne, a metà del guado tra relativismo etico e ritorno delle ideologie. La TP vuole così svelare e rendere accessibile a tutti la speranza in una «realtà che sostiene il mondo».9 Ha quindi un carattere pienamente teologico e ha una rilevanza per tutti i membri della società plurale. La sua verifica non consiste tanto nella sua dimensione teorica, quanto in quella pratica. Ciò ha una conseguenza importante nella relazione Chiesa-mondo, perché legittima la presenza della Chiesa nella società: con la loro prassi sociale, le comunità cristiane sono il segno concreto, visibile e efficace della potenza umanizzatrice del vangelo. La TP ha perciò una forte attenzione alla dimensione etica del messaggio e dell’agire cristiano. Gioca le
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sue carte sul concetto di rilevanza culturale del messaggio cristiano, attuato nella vita delle comunità umane. Nella sua prospettiva, la rivelazione rimane un evento remoto, perché è intesa come l’origine lontana nel tempo e nel linguaggio di un processo che si compie nel presente e che richiede di essere decodificato attraverso la prassi. La TE invece è una teologia che s’interroga sulle condizioni, interne ed esterne alla Chiesa, in forza delle quali la fede cristiana può essere annunciata e testimoniata in modo credibile e liberamente accolta come compimento dell’umano. La TE è una riflessione all’interno dell’annuncio evangelico, inteso come atto vitale della fede e della Chiesa. La rivelazione è l’atto fondante, inteso nella sua duplice temporalità: di evento escatologico e di processo storico. È a partire da questa consapevolezza che la TE punta sulla capacità del vangelo di suscitare nuove prospettive di comprensione e di attuazione dell’umano, sia nelle dinamiche della vita personale sia nei complessi processi sociali e culturali. È ovvio che ogni teologia s’interroghi su che cosa il vangelo possa dire e possa dare all’umanità di oggi: la TE si chiede a quali condizioni il messaggio cristiano possa interagire con l’umanità contemporanea. Non si tratta semplicemente di pensare come il vangelo possa essere meglio direzionato verso i suoi destinatari. La TE vuole comprendere come sia possibile entrare in un dialogo fruttuoso – reciproco, multilaterale, sempre aperto – con tutti coloro che entrano in un qualche rapporto vitale con il vangelo. L’attualizzazione della rivelazione contenuta nei testi biblici, che ne sono testimonianza, è parte integrante della perenne attualità della Parola di Dio: non è il frutto di un intervento posteriore dell’interprete teologico, ma appartiene essa stessa alla dinamica della «condiscendenza benevola di Dio» nei confronti dell’umanità di ogni tempo e di ogni luogo. Lo stile dialogico con cui la TE si pone la questione della verità discende da questa concezione della rivelazione come «ingresso di Dio nella vita, e quindi nella cultura, degli uomini»: un entrare in relazione con una «funzione correttiva», che chiama in causa le molteplici culture umane, liberandole da ciò che le irrigidisce nell’autoreferenzialità.10 La TE concepisce perciò il vangelo come una verità in cammino, che cerca interlocutori disponibili a partecipare al processo della sua comunicazione, e non meri destinatari di conoscenze prodotte altrove.
3.2. Seconda questione La seconda questione di confine riguarda la comunicazione del vangelo all’interno di società altamente mediatizzate come la nostra. Pur non affrontando esplicitamente la questione, VG chiede alla teologia cattolica odierna di non restare sul monte, ma di situarsi «là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi», pensando «un’evangelizzazione che illumini i
10 E. Manicardi, «La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione», in Marcheselli (a cura di), Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione, 71-72.
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nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti valori fondamentali» (VG 4b), quelli cioè di un «umanesimo nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso» (VG 2). La TP non problematizza in modo specifico la possibilità della comunicazione della fede entro una società altamente mediatizzata, in cui i linguaggi analogici (simboli) vengono progressivamente sostituiti da quelli digitali (impulsi). Inoltre, essa intende il pluralismo culturale e religioso odierno come un dato di fatto. Poco s’interroga sulle sue molteplici radici e sulle trasformazioni che esso sta avendo nel mondo digitale (cosa che invece fa la TE). Ciò dipende dal fatto che la TP si pone come metodo teo logico universale, valido entro una società pluralista. La TE si propone come esercizio di un pensiero prospettico (o multi-versale), che dall’interpretazione del contesto odierno risale alle fonti dell’umanesimo cristiano. Pur lavorando prevalentemente con una metodologia storico-critica, non svolge un’indagine archeologica, ma va alla ricerca dei paradigmi convergenti in cui il pensiero cristiano e i molti orientamenti contemporanei possono intrecciare i loro orizzonti, creando zone miste di dialogo culturale e di interazione sociale. In questo sforzo di ascolto e di incontro, la TE non perde di vista gli elementi originari e irriducibili del vangelo e non teme di mettersi a confronto con antropologie radicalmente differenti dalla propria: va in cerca di ciò che unisce e costruisce, nella consapevolezza che la relazione con la verità è originaria e abbraccia ogni pensiero umano.11 La TE si fonda sulla pratica paolina dell’evangelizzazione, di cui accoglie i principali nuclei teologici: la giustificazione per mezzo della fede, la continuità e discontinuità del processo storico-salvifico, il compimento delle promesse in Gesù Cristo, la prospettiva escatologica nella prassi dei credenti. Come per Paolo, anche per la TE «ciò che è eminentemente cristiano è qualcosa di promesso».12 La comprensibilità della verità cristiana va di pari passo con la sua indisponibilità: prima che essere un fare e un costruire, credere è comprendere, e comprendere è affidarsi. Inserendosi dall’interno nei complicati processi della comunicazione interumana, l’evangelizzazione indica che la pienezza del senso non è ancora data; e proprio per questo può essere cercata attraverso l’apertura della mente a una nuova comprensione dell’essere umano e del suo posto nel mondo dischiusa dalle sacre Scritture. In esse si manifesta la forza della rivelazione che illumina di senso il presente e getta pericolosamente in avanti il cuore dei discepoli, proiettandolo verso un futuro, di cui gli esseri umani non possono avere il controllo.
11 P. Boschini, «La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale», in Marcheselli (a cura di), Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione, spec. 169-172: «Cinque tesi conclusive per il ripensamento della teologia dell’evangelizzazione alla luce dell’idea ermeneutica di verità teologica». 12 Manicardi, «La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione», 55.
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3.3. Terza
questione
La terza questione di confine riguarda gli obiettivi del fare teologia. La TP ha di mira la formulazione di criteri operativi articolati, per trovare soluzioni complesse ai complessi problemi del nostro tempo. La TE vuole contribuire all’elaborazione di un nuovo umanesimo per il XXI secolo e lo fa a partire dalle criticità che la testimonianza cristiana incontra nella società europea odierna. La TE si muove nella convinzione – più volte espressa da papa Francesco – secondo cui stiamo vivendo un cambiamento d’epoca,13 di fronte al quale occorre sviluppare una proposta teologica che delinei nuovi orizzonti di pensiero e metta a tema contenuti oggi centrali nell’evangelizzazione e nella vita cristiana, ma poco o nulla indagati nella teologia cattolica post-conciliare. In questo senso vanno appunto le nostre ultime fatiche collettive, dedicate al vangelo nelle criticità dell’umano14 e nella città e quelle che ci aspettano prossimamente sul vangelo della cura. La TE sta diventando così una teologia che principia dalla condizione di fragilità e di sofferenza in cui versano oggi molti esseri umani, anche nel florido mondo occidentale. Rispetto alla galassia della TP, la piccola stella della TE bolognese si presenta come una proposta la cui efficacia è più culturale che operativa. Non rifugge dall’analisi di problemi concreti della società, ma li analizza con uno sguardo antropologico. La sua domanda non è: che cosa possiamo fare? Ma è: in quale direzione stiamo andando? Senza questa continua chiarificazione degli orizzonti verso cui si muove l’esperienza cristiana, l’analisi del presente e la ricerca di soluzioni condivise ai problemi che esso attraversa, rischia di avere il fiato corto.
3.4. Quarta questione Quarta questione di confine, ma non ultima per importanza, è quella che riguarda il concreto metodo di lavoro teologico. La TP si è venuta elaborando come una teologia diffusa, pensata in differenti centri di ricerca sparsi in Nord America e Brasile, Asia e Europa. Si tratta di una piccola galassia teologica, tenuta insieme dalla convinzione – più che condivisibile – secondo cui proprio il pluralismo della società odierna stia ritagliando uno spazio di espressione e di azione per le chiese cristiane e per le loro proposte teologiche. La TE ha invece una connotazione fortemente locale, tanto che da qualche anno – acquisita un po’ di fiducia nei nostri mezzi – abbiamo cominciato a parlare e a scrivere di noi stessi come della scuola teologica bolognese. Il nostro lavoro di ricerca e di scrittura teologica si svolge
13 Francesco, discorso Nella cupola al Convegno ecclesiale nazionale italiano, 10 novembre 2015: EV 31/1860. 14 M. Marcheselli (a cura di), Evangelizzare nelle criticità dell’umano, EDB, Bologna 2017.
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in buona parte in gruppo: è il frutto di uno sforzo comune, che raccoglie differenti competenze: bibliche, teologiche, pedagogico-spirituali, morali, filosofiche, storiche, spesso in dialogo con le scienze economiche, politiche e sociali e naturalmente con la pratica della vita cristiana. Per questo la TE si presenta come un insieme coeso, in cui il pensare insieme non elimina, ma armonizza le differenze di sensibilità personale e di metodo scientifico. Per ambedue le correnti teologiche è decisivo il rapporto con le scienze che a vario titolo si occupano dell’uomo e del mondo in cui abita. Per la TP questi saperi sono quanto mai utili, perché l’aiutano a fotografare e descrivere la realtà umana. In questo modo, la TP pensa di poter correlare due esperienze e i loro linguaggi: da una parte, quella religiosa con la sua comunicazione simbolica e, dall’altra, l’esperienza della vita sociale con i suoi linguaggi prevalentemente quantitativi. La TE ritiene che un simile ponte, a campata unica, sia un’impresa fin troppo ardita e che la sua riuscita sia resa ogni giorno più difficile dalla crescente specializzazione dei saperi (anche di quelli teologici). Perciò la TE imposta il suo rapporto con le scienze dell’umano secondo un paradigma differente: individua nell’antropologia il punto di incontro e di confronto con esse. Ogni sapere infatti, in modo più o meno esplicito, presuppone una o più visioni dell’umano. L’antropologia è oggi il cuore del villaggio planetario dei saperi e delle conoscenze scientifiche. Lì la TE pianta la sua tenda e invita tutti gli altri saperi a fare altrettanto, perché una corretta transdisciplinarità scientifica richiede di confrontare le visioni razionali, non le esperienze di vita.
4. Lo
spazio pubblico come luogo teologico
Negli anni ’70 del secolo scorso la teologia cattolica ha mutato la sua considerazione dello spazio pubblico. Prima, sulla scia di J. Maritain, era quasi ovvio considerare pubblico e politico come sinonimi. Dominava la grande figura dello Stato nazionale, il quale imponeva l’agenda, che ruotava tutta sul rapporto centro-periferia e si giocava sul nesso tra lo Stato e…: i corpi intermedi (partiti, sindacati, libere associazioni, organizzazioni religiose); i singoli cittadini. Poi, la metamorfosi sovranazionale del grande capitalismo economico, le lotte per una democrazia più partecipata e orizzontale, la crisi delle grandi ideologie (quella liberal-progressista e quella social-internazionalista) e molti altri fattori hanno progressivamente indebolito lo Stato nazionale e i legami di appartenenza al corpo politico, aprendo nuovi spazi di partecipazione alla vita civile e riconoscendo valore politico alle molteplici pratiche della vita sociale di ogni giorno. Tramontata la stagione della teologia politica e devitalizzato d’ufficio – è proprio il caso di dirlo – il progetto della teologia della liberazione, anche la teologia cattolica ha dismesso l’idea che l’impegno sociale e politi-
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co della Chiesa e dei cristiani sia finalizzato a cambiare il mondo nell’attesa della sua definitiva trasformazione da parte di Dio (Moltmann). La profezia cristiana si è così coniugata con l’idea di presenza e si è legata all’idea che la vita sociale di ogni giorno sia – così com’è – luogo del farsi del Regno di Dio: da critica della realtà si è trasformata in testimonianza nella realtà. Questo è il senso di tutte le teologie del contesto, che sono nate negli ultimi quarant’anni, tra cui anche la TP e la TE, ora finalmente legittimate da Veritatis gaudium. Giunti alla fine del nostro progetto di ricerca su Il vangelo nella città e rileggendolo come ultima tappa del percorso fatto dalla nostra TE nell’ultimo decennio (Teologia dell’Evangelizzazione. Bilancio e prospettive, 2012; Evangelizzare nelle criticità dell’umano, 2016), ci siamo legittimamente domandati se la TE non stesse intraprendendo una nuova strada, diventando di fatto un capitolo della TP. Dopo approfondite riflessioni, condotte sempre con il nostro metodo comunitario, ci siamo convinti di no. La TE non è parte della TP, perché – oltre alle questioni di confine di cui già si è detto – si distingue da essa proprio sull’idea di spazio pubblico. La TP intende per «pubblico» uno spazio di vita comune, dove è possibile elaborare un consenso su alcuni minimi comuni denominatori etici, grazie ai quali agire d’intesa con tutti i soggetti sociali (associazioni o individui) che sono seriamente interessati alla progressiva umanizzazione della vita civile. Solo quando diventa luogo di valori etici condivisi e comunemente praticati, lo spazio pubblico può essere anche luogo teologico. La TE pensa invece la dimensione pubblica della vita quotidiana come un tempo condiviso di ricerca intellettuale e di ascolto vitale, dove è possibile scrutare segni dei tempi e indicare possibili strade di sviluppo della fede a servizio della crescita integrale dell’essere umano. Il «pubblico» è una dimensione fondante dell’antropologia e, in quanto tale, è rilevante per una teologia che vuole assumere la prospettiva antropologica come orizzonte entro cui dire oggi il vangelo e avviare processi – anche dentro la Chiesa – per il riconoscimento del Regno di Dio nelle vicende umane. Questa differenza, espressa schematicamente con le categorie di spazio e di tempo, ha conseguenze importanti circa la comprensione del rapporto tra fede e politica. Se per la TP non c’è separazione tra la fede e lo spazio pubblico, perché la religione lo abita naturalmente in quanto espressione culturale; per la TE invece il principio moderno di laicità, entrato nel magistero cattolico conciliare come riconoscimento dell’autonomia creaturale delle realtà terrene (Lumen gentium, n. 31; Gaudium et spes, n. 36), segna una non-identificazione tra messaggio evangelico e dimensione pubblica della vita e richiede che la teologia indichi vie di mediazione e di testimonianza della fede in un contesto secolare. In particolare, quando gli interlocutori della riflessione teologica sono i saperi empirici sull’umano, la TE avverte la necessità di evitare il corto circuito di una relazione diretta tra teologia e scienze umane, storico-sociali, economiche, ecc. Percorre una via di mediazione, che passa attraverso un confronto sulle tematiche antropologiche.
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Probabilmente, la differenza sostanziale tra TP e TE, nella comprensione della dimensione pubblica della condizione umana contemporanea, dev’essere identificata nel termine correlato a «pubblico». Per la TP ciò che è pubblico si contrappone con ciò che è privato, personale, sottratto alle dinamiche pervasive della vita sociale. Ad ogni «noi» corrispondono molteplici «io». La TE si muove in una prospettiva che intende superare la distinzione liberale tra pubblico e privato. La dimensione testimoniale della fede consente una visione dinamica della realtà sociale, che si manifesta come un intreccio vivente di relazioni e un caleidoscopio di verità. In sintonia con Evangelii nuntiandi,15 testo fondatore della TE bolognese, essa considera la fede sì come atto personale, ma sempre compiuto entro un contesto relazionale e dialogico. In quanto dono dall’alto, la fede non può essere comunicata, né tradotta sic et simpliciter in progetti sociali. Per la TE si può piuttosto comunicare «l’accesso» alla fede, «l’orizzonte di senso» che si dischiude a chi si apre al dono di Dio.16 Quello della relazione interpersonale, crediamo, è oggi lo spazio pubblico che, meglio di ogni altro, può diventare il luogo teologico del darsi del vangelo.
15 Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, 8 dicembre 1975, n. 23: EV 5/1615. 16 Manicardi, «La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione», 68.
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Introduzione Maurizio Marcheselli....................................................................... p. 1. La scelta del tema e il percorso compiuto per arrivare al convegno........................................................ » 2. Titolo e contenuto del volume............................................... » 3. Sviluppi futuri per la Teologia dell’evangelizzazione......... » I legami urbani nell’ambiente digitale: appartenenza, informazione, partecipazione. Dieci sfide per l’evangelizzazione Paolo Boschini.................................................................................. 1. Quale esperienza urbana?..................................................... 2. La digitalizzazione, nuovo volto dell’urbanesimo................ 3. L’uomo urbano e il suo contesto............................................ 3.1. Una città di macchine..................................................... 3.2. Le nuove classi sociali della città digitale..................... 3.3. Una Babele digitale?...................................................... 3.4. Appartenenza................................................................. 3.5. Informazione................................................................... 3.6. Partecipazione................................................................ 3.7. Rinnovare la strada maestra 3.7. della democrazia............................................................. 3.8. La convergenza come principio 3.7. della nuova cultura urbana............................................ 3.9. La città è una metafora della libertà............................. 3.10. Una domanda conclusiva............................................. 4. Per iniziare, non per concludere............................................
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Fragilità della famiglia in contesto urbano: dipendenze e solitudini
Massimo Cassani............................................................................. 1. Il fenomeno dell’inurbamento: aspetti etici.......................... 2. La famiglia nella città oggi.................................................... 3. I casi considerati..................................................................... 3.1. Le dipendenze................................................................ 3.2. La solitudine.................................................................... 4. A titolo di conclusione: alcune considerazioni pastorali .....
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Guardare la città alla luce dei quattro principi di papa Francesco Matteo Prodi .................................................................................... » 47 1. Uno sguardo sulle città........................................................... » 47 1.1. La demografia................................................................. » 47 1.2. I problemi delle città...................................................... » 48 1.3. Il governo delle città....................................................... » 50 1.4 Geopolitica e aree metropolitane................................... » 53 2. Come ripensare le città.......................................................... » 56 2.1. Una pillola dal vangelo.................................................. » 56 2.2. Papa Francesco e le città................................................ » 56 2.3. Il pensiero di Giorgio La Pira......................................... » 58 2.4. Alcune pagine di Giuseppe Dossetti............................. » 59 2.5. Un personaggio geniale................................................. » 61 3. C osa possono fare le città. Cosa possiamo fare per le città... » 62 3.1. Primo principio............................................................... » 62 3.2. Secondo principio........................................................... » 63 3.3. Terzo principio................................................................ » 65 3.4. Quarto principio.............................................................. » 66 4. Conclusione............................................................................ » 66 Dio nella città: prossimità, spaesamento e profezia Luciano Luppi ................................................................................. 1. Papa Francesco e lo sguardo contemplativo sulla città....... 2. Spezzato il nesso homo urbanus = homo saecularis: accettare lo spaesamento....................................................... 3. Sguardo contemplativo sulla città: figure anticipatrici contemporanee ...................................................................... 3.1. Thomas Merton (1915-1968).......................................... 3.2. Fraternità monastiche di Gerusalemme (1975)............ 3.3. Carlo Carretto (1910-1988)............................................ 4. Sguardo contemplativo sulla città: radici nella storia della spiritualità...................................................................... 4.1. Gregorio Magno (540-604) ........................................... 4.2. Caterina da Siena (1347-1380) ..................................... 4.3. Ignazio di Loyola (1491-1556)........................................ 5. Lo sguardo dei vescovi di Bologna sulla città....................... 5.1. Card. Giacomo Biffi (1984-2003)...................................
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5.1.1. La festa di san Petronio: riscoprire con fierezza 5.1.1. la fortuna di essere bolognesi ............................... 5.1.2. Impegno e responsabilità di fronte al dono 5.1.1. di essere bolognesi ................................................ 5.1.3. La città di Bologna e le sue sfide decisive ........... 5.2. Card. Carlo Caffarra (2004-2015).................................. 5.2.1. Una transizione epocale e un malessere 5.1.1. spirituale che interpellano..................................... 5.2.2. Simbolismo del mosaico e delle porte della città. 5.2.3. Il simbolismo paolino del corpo e l’urgenza 5.1.1. di rifondare il patto di cittadinanza ...................... 5.2.4. Bologna: un laboratorio sociale della sussidiarietà? 5.2.5. Una nuova idea di laicità per un più profondo radicamento nella tradizione dell’umanesimo 5.1.1. cristiano................................................................... 5.2.6. Cosa fa la Chiesa per la crescita della città?........ 5.3. Mons. Matteo Maria Zuppi (2015-)............................... 5.3.1. Il convergere di Comune, Università e Chiesa sulla stessa piazza Maggiore simbolo 5.1.1. dell’umanesimo cristiano di Bologna.................... 5.3.2. San Petronio: un padre con la città 5.1.1. vicino al cuore......................................................... 5.3.3. Il simbolismo dei portici ........................................ 5.3.4. Scoprire Dio che abita nella città: 5.1.1. i segni dei tempi..................................................... 5.4. Testimoni di una prossimità e alterità amante............. 6. T estimonianza profetica di Madeleine Delbrêl....................
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Milano come Ninive. Il cristianesimo e la città costruiscono il loro futuro
Luca Bressan.................................................................................... 1. La forza della metafora.......................................................... 2. La città come metafora........................................................... 3. Al cuore della metafora urbana............................................. 4. Esplorazioni urbane................................................................ 5. Un approfondimento. Le religioni nella metropoli............... 6. Perdita di significato e di efficacia........................................ 7. Verso una polisemia che interroga il senso religioso........... 8. Il cristianesimo come energia capace di ri-ordinare lo spazio urbano..................................................................... 9. Il sacramento cristiano e la forma dello spazio urbano........ 10. Prove di cristianesimo urbano............................................. 11. Una grammatica per il cristianesimo urbano del XXI secolo.......................................................................
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Il cristianesimo come «cultura urbana» Pier Luigi Cabri................................................................................ 1. Il quadro di riferimento..........................................................
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2. Una cultura urbana................................................................. 3. Un cristianesimo ospitale, testimoniale, credibile e dialogante............................................................................ 3.1. Ospitalità e prossimità.................................................... 3.2. Testimonianza e Parola.................................................. L’impatto del pluralismo religioso sulla città Brunetto Salvarani........................................................................... 1. Vedere..................................................................................... 1.1. L’incognita post-secolare............................................... 1.2. Le interpellanze del pluralismo religioso al contesto 1.2. occidentale...................................................................... 1.3. Un nuovo pluralismo religioso....................................... 1.4. Il cantiere senza progetto............................................... 1.5. Le responsabilità del ritardo.......................................... 2. Giudicare................................................................................. 2.1. Uno scenario che ci costringe 1.2. a rivedere i modi di essere cristiani nelle città............. 2.1.1. Perché abitiamo un mondo nuovo......................... 2.1.2. Perché viviamo un momento di svolta.................. 2.1.3. Perché continuare a pensare così reca danno...... 2.1.4. Perché c’è un’urgenza civile, politica e umanitaria............................................................ 2.1.5.Perché la stranierità ci abita................................... 3. Agire (teologicamente)........................................................... 3.1. Ospitalità e diakonìa...................................................... 3.2. Per una teologia pubblica nelle città............................ 3.3. Iniziare processi.............................................................. 3.4. Una nuova Pentecoste teologica................................... 4. Finale. Fratellanza e convivenza ..........................................
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Cristiani e società urbana nel Nuovo Testamento: tra appartenenza e fuga
Enrico Casadei Garofani.................................................................. 1. L’ambiente urbano nel I secolo d.C...................................... 2. Fil 3. Una cittadinanza (poli,teuma) nei cieli............................ 3. Rm 12–13. In pace con tutti, sottomessi alle autorità costituite............................................................. 4. 1Pt 2. Una condotta esemplare, per chiudere la bocca agli avversari.......................................................................... 5. Atti degli apostoli. Parresia e confronto con la cultura pagana............................................................. 6. 1Tm 2. Una vita tranquilla, integrata nella società.............. 7. Ap 18. «Uscite, popolo mio, da essa» (v. 4).......................... 8. Per una sintesi.........................................................................
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Le beatitudini (Mt 5,3-10) e il giudizio finale (Mt 25,31-46): etica evangelica in un contesto multireligioso
Maurizio Marcheselli....................................................................... 1. Le beatitudini, la «parabola» e i loro destinatari................. 1.1. Il genere «beatitudine» e lo specifico uso matteano.... 1.1.1. La forma «beatitudine/macarismo»...................... 1.1.2. La composizione matteana 1.1.2. delle prime otto beatitudini................................... 1.2. Una parabola in senso non tecnico............................... 1.3. I destinatari delle prime otto beatitudini matteane 1.3 (Mt 5,3-10)........................................................................ 1.3.1. Da chi è formato l’uditorio «redazionale» 1.1.2. del discorso della montagna.................................. 1.3.2. L e prime otto beatitudini non hanno 1.1.2. il medesimo destinatario del resto del discorso.... 1.4. I destinatari della «parabola» sul giudizio finale 1.3 (Mt 25,31-46).................................................................... 2. L’etica delle beatitudini e della «parabola»........................ 2.1. L ’etica delle prime otto beatitudini matteane 1.3 (Mt 5,3-10)........................................................................ 2.1.1. Non situazioni oggettive, ma scelte 1.1.2. responsabilmente compiute................................... 2.1.2. Un’etica imperniata sulla giustizia, 1.1.2. ma quale giustizia?................................................. 2.2. L’etica della «parabola» del giudizio finale 1.3 (Mt 25,31-46).................................................................... 3. Etica per un contesto multireligioso...................................... 3.1. La giustizia...................................................................... 3.2. Una sola etica, diversi livelli di abbondanza................ La lezione del tardo-antico per la città post-moderna. Una teologia della città a partire dal De civitate Dei Federico Badiali............................................................................... 1. Due premesse d’ordine metodologico................................... 1.1. Attualità del tardo-antico............................................... 1.2. Legittimità della ricerca: il significato della civitas 1.3 in Agostino....................................................................... 2. Una definizione di città: concors hominum moltitudo......... 3. Per un buono stato di salute della città................................. 3.1. Analisi dei fattori inquinanti.......................................... 3.2. Virtù ecologiche.............................................................. 3.3. L’apertura al trascendente............................................. 4. La città osservata da una prospettiva teologica................... 4.1. Due modi di vivere la città............................................. 4.2. Permixtae........................................................................ 4.3. In evoluzione................................................................... 4.4. Alla ricerca della pace.................................................... 4.5. Il contributo del vangelo alla città 1.3 e della città al vangelo....................................................
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5. Il contributo di Agostino all’elaborazione di una teologia della città......................................................
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Postfazione. Teologia dell’evangelizzazione e teologia pubblica: somiglianze di famiglia e questioni di confine
Paolo Boschini – Federico Badiali................................................... 1. Che cos’è la teologia pubblica............................................... 2. Somiglianze di famiglia.......................................................... 3. Questioni di confine............................................................... 3.1. Prima questione ............................................................. 3.2. Seconda questione......................................................... 3.3. Terza questione.............................................................. 3.4. Quarta questione............................................................ 4. Lo spazio pubblico come luogo teologico.............................
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