Il diritto nella società tecnologica


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UNIVERSITÀ

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VITTORIO FROSIN!

IL DIRITTO NELLA SOCIETÀ TECNOLOGICA

MILANO - GIUFFRÈ EDITORE

TUTTE LE COPIE DEVONO ESSERE TIMBRATE DALLA S.I.A.E.

TUTTI

I

DIRITTI

SONO

RISERVATI

(1981) Tipografia MORI & C. s.n.c. - 21100 Varese - Via F. Guicciardini 66

PREFAZIONE

Questo volume raccoglie i saggi scritti da quando, il 1° novembre 1971, venni chiamato all’insegnamento della fi­ losofia del diritto nell’università di Roma, accanto al collega ed amico Sergio Cotta; esso rappresenta perciò la continua­ zione del mio precedente volume, Teoremi e problemi di scienza giuridica, in cui avevo radunato gli scritti minori del periodo dell’insegnamento nell’università catanese.

Gli anni romani sono stati però contrassegnati per me da una nuova esperienza di attività: la partecipazione ai la­ vori del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in qualità di componente del Comitato per le scienze giuridiche e poli­ tiche — presieduto prima dal compianto Giuseppe Grosso e poi da Aldo M. Sandulli —, del Comitato tecnologico — presieduto da Mario Silvestri — e della Commissione gene­ rale per l’informatica — presieduta da Giuseppe Biorci. Ho potuto così, attraverso i frequenti incontri personali e i co­ muni impegni di lavoro, mantenere un dialogo mentale con­ tinuo con giuristi da una parte e con scienziati dall’altra nel campo dell’avanzamento della ricerca: una condizione di vita, che ho cercato di trasporre in un risultato di rifles­ sione, associando le nuove acquisizioni teoriche sul diritto alle scoperte della scienza ed alle applicazioni della tecno­ logia, e proseguendo in tal modo nello svolgimento di due motivi fondamentali dei miei studi, lo strutturalismo giuri­ dico e la giuritecnica.

vili

IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

Ho fatto alcuni nomi di insigni studiosi, ai quali devo molto per le suggestioni e le critiche da loro ricevute nel corso dei nostri dibattiti sui temi di comune interesse; de­ sidero aggiungere almeno il nome di Franco Giannessi, alla cui collaborazione ed amicizia tanto anche devo per le mie indagini nei campi dell’informatica e della politica ener­ getica. Ringrazio infine Francesco Riccobono per il cortese aiuto prestatomi nella revisione dei saggi e nella preparazione edi­ toriale del volume. V.F.

Roma, novembre 1980.

I STUDI SUL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

TEORIA DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO

1. Il morfema linguistico e la sua ambiguità. La parola « ordinamento », riferita al campo dell’espe­ rienza giuridica, sia per il settore legislativo (intesa come decreto) sia per il settore esecutivo (intesa come singolo co­ mando) sia per il settore giudiziario (intesa come sentenza), è parola nota e consueta nella lingua italiana fin dalle origi­ ni: essa si ritrova, nelle sue varie accezioni ricordate, negli scritti di Dino Compagni, di Brunetto Latini, di Giovanni Villani. Si traduceva così e si accoglieva nell’uso del volgare il vocabolo del latino medievale, che è dato riscontrare nella opera di Dante, là dove egli ricorda che « significatum est michi per ‘ ordinamentum ’ nuper factum Florentie super absolutione bannitorum » (*). E sono rimasti famosi gli Ordina­ menti di giustizia emanati a Firenze nel gennaio 1293; giac­ ché lo stesso termine venne estendendo il suo significato, fino a comprendere anche quello di un complesso di disposizioni per l’organizzazione giuridica di una comunità. Il rapporto di stretta affinità semantica esistente fra i ter­ mini « ordinamento » e « ordine » consente però ben pre­ sto l’instaurarsi di una convertibilità fra di essi, da cui si genera un’ambiguità di significato operativo. Così, in una sua pagina Machiavelli osserva: « E se le leggi secondo gli ac­ cidenti in una città variano, non variano mai, o rare volte, gli ordini suoi... E per dare a intendere meglio questa parte, (’) Dante, Epistulae, XII, 2. Per esempi filologici dell’uso del ter­ mine, v. Enciclopedia dantesca, Roma, 1973, pag. 187. Ivi citato anche da II Fiore, LXXIII, pag. 10: «Così abbiamo impreso mare e terra — e sì tacciarti per tutto ordinamento: — chi non l’osserva, diciatti che a fede erra».

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dico come in Roma era l’ordine del governo o vero dello Stato, e le leggi di poi che con i magistrati formavano i cittadini» (2). Qui l’ordine, nel senso che oggi si direbbe istituzionale, viene contrapposto alle leggi singole; esso è un principio regolativo, ed è insieme un valore di carattere politico o civile, che esercita una funzione di freno sulle passioni e sugli interessi in conflitto. Non soltanto per mo­ tivo di assonanza fonetica, ma soprattutto per intima con­ nessione di riferimenti mentali, l’ordinamento giuridico vie­ ne comunemente associato, o addirittura confuso, con l’ordi­ ne inteso come disciplina di un comportamento collettivo. L’equivalenza funzionale di significato fra «ordinamen­ to » e « ordine » trovava conferma nella rilevazione lessi­ cale del più geniale studioso della lingua italiana nell’Ottocento, Niccolò Tommaseo, il quale così argutamente annota­ va: «Ordinamenti civili e politici d’uno Stato; che mutano l’ordine antico, creano un nuovo ordine, e spesso fanno disor­ dine»; ma nel proseguimento del testo riportato continuava ad adoperare l’un termine al posto dell’altro, in una sorta di contraddanza verbale dei due sinonimi (3). D’altronde, nel più vasto quadro toponomastico delle lingue europee, all’espres­ sione « ordinamento giuridico » corrispondono quelle di ordre juridique in francese, legal order in inglese, Rechtsordnung in tedesco; solo nello spagnolo si distingue ordinamiento (in senso specifico) da orden. Nel linguaggio giuridico italiano contemporaneo l’espressione « ordinamento giuridico » ha tut­ tavia acquistato un suo preciso significato ed è divenuta em­ blematica di una visione generale del mondo giuridico con la (2) N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, XVIII, in Opere, I, ed. Flora e Cardie, Milano, 1949, pag. 143. (3) N. Tommaseo, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, ed. riveduta da Rigutini, Milano, 1963, sinonimo n. 256, pag. 594 (l’edizione ori­ ginale del Dizionario apparve a Firenze nel 1830).

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apparizione del saggio di Santi Romano a Pisa nel 1917; del quale saggio essa fornì il titolo (4). In tal modo, l’antico vocabolo riceveva una sua rigorosa definizione in senso tecnico, che serviva ad esplicitarne la valenza semantica, e veniva così depurato dalla commistione con significati di carattere sociologico o politico, almeno nel proposito espresso dallo stesso Romano: il quale dunque compì una operazione mentale simile a quella dell’intaglia­ tore di pietre preziose, che ripulisce dal magma, sfaccetta e mette in piena luce un cristallo. Nell’uso corrente della cultura giuridica italiana, ven­ gono però accolti anche sensi differenziati dei termini «or­ dinamento » e « ordine » : il primo può essere inteso come l’insieme delle norme che regolano le situazioni giuridiche degli appartenenti ad una categoria sociale, che viene desi­ gnata invece con il secondo termine. Vi è dunque l’ordina­ mento giudiziario, che pertiene all’ordine dei magistrati; vi sono i regolamenti e gli albi professionali di vari altri ordini, come quello degli avvocati e quello dei notai; vi sono gli ordini cavallereschi, in cui vengono iscritti i portatori dì onorificenze. Rinviamo al paragrafo successivo l’esame critico dell’am­ biguità di significato, che deriva dall’accostamento e intercam­ biabilità fra « ordinamento » e « ordine », entrambi derivati dal vocabolo latino d’uso metaforico ordo, che originaria­ mente designava l’operazione tecnica del lavoro di « tessi-*I, (4) Su cui V. specialmente S. Cassese, Ipotesi sulla formazione de «L’ordinamento giuridico » di S. Romano, in Quaderni Fiorentini, 1972, I, pagg- 243-283, rist. in La formazione dello Stato amministrativo, Milano, 1974, pag. 21 ss. Il titolo eponimo dell’opera di Santi Romano è stato tradotto L’ordre furidique (Paris, 1975), Die Rechtsordnung (Berlin, 1975), El ordenamiento juridico (Madrid, 1963). Per l’uso inglese, v. I. Tammelo, On the logical Openness of legal Orders, in The American Journal of comparative Law, 1959, VIII.

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tura», di cui resta traccia nel termine italiano «ordito». Qui è opportuno indicare la polivocità acquisita dal sostantivo «ordinamento» in connessione all’aggettivo «giuridico». Questo rapporto di congiunzione e specificazione può in­ fatti essere inteso secondo tre diversi modelli concettuali: a) in senso definitorio teoretico, secondo cui ordina­ mento — diritto, ossia il campo comprensivo dell’esperienza giuridica nelle relazioni umane è l’ordinamento, come orga­ nizzazione giuridica o come struttura normativa; b) in senso definitorio tecnico, secondo cui ordinamen­ to < diritto, ossia l’ordinamento rappresenta un modello di esperienza giuridica, che non basta però a racchiuderla e ad esaurirla, perché l’ordinamento è solo una componente della realtà giuridica considerata nella sua complessità; b) in senso definitorio pratico, secondo cui ordinamen­ to > diritto, ossia l’ordinamento è un principio interpreta­ tivo della realtà sociale nella sua globalità, che viene de­ limitata per mezzo del diritto in un campo di rilevazione ac­ canto ad altri campi diversi, come il sociologico, l’economico, il morale, il politico, per ognuno dei quali si può stabilire un ordinamento. Si potrebbero designare i tre modelli accennati come rispet­ tivamente sintetico il primo, analitico il secondo ed empirico il terzo, in rapporto alla funzionalità dell’aggettivo « giu­ ridico» rispetto all’ordinamento. Fra le tre differenti utiliz­ zazioni semantiche, la differenza non è tuttavia di categoria logica ma di sfumatura linguistica, sicché può accadere di trascorrere dall’uno all’altro dei modelli d’impiego nello stesso contesto discorsivo. Il significato operativo per la scienza giuridica, attribuito in questa sede alla espressione «ordinamento giuridico», risulterà dalla definizione conclusiva e non da una formula­ zione vincolativa iniziale. Giacché qui si tratta di avanzare

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nella conoscenza di un problema, mettendone in evidenza il nucleo aporetico, e fare in modo che esso venga a sprigio­ narsi dalie incrostazioni sistematiche, e che si possa per­ tanto giungere ad una sua soluzione critica e non dommatica. Il richiamo alle svariate posizioni di pensiero stabilite dalla dottrina servirà a consentire una messa a fuoco dell’og­ getto della ricerca, in quanto oggetto comune di discussione.

2. L’ordinamento e il disordine giuridico. La reciprocanza di significato fra « ordinamento » e « or­ dine» risulta manifesta e comporta altresì una carica di par­ ticolare suggestione poetica e filosofica nella celebrata terzina dantesca del primo canto del Paradiso; in essa viene esaltato l’ordine cosmico, in conformità della dimostrazione apolo­ getica dell’esistenza di Dio, elaborata da San Tommaso: « Le cose tutte quante — hanno ordine tra loro, e questa è for­ ma — che l’universo a Dio fa simigliante » (vv. 103-105). Si tratta, come dice Dante nei versi seguenti, dell’applicazione di una «norma», ossia di una regola dettata dalla volontà di­ vina, che è rivolta ad attuare un principio di armonia nel mondo fisico, e che dovrebbe trovare corrispondenza anche nel mondo morale; la metafisica dantesca dell’ordine politico e civile universale attuato in un ordinamento giuridico este­ so su tutta la terra è stata enunciata nell’opera sulla Mo­ narchia (5). Questa grandiosa proiezione ideologica è l’esem­ pio forse più indicativo e più fascinoso di una persistente (5) L’interpretazione dell’ideale monarchico di Dante come « Stato di diritto » venne avanzata dal Kelsen ne La teoria dello Stato in Dante, trad. it. di W. Sangiorgi, Bologna, 1974, su cui v. F. Riccobono, Gli inizi di Kelsen: la teoria dello Stato in Dante, in RIFD, 1976, pag. 261 ss., e V. Frosini, Kelsen e il pensiero giuridico italiano, ne 11 Veltro, 1977, XXI, n. 5-6, pagg. 761-768.

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mitologia interpretativa, che ha radici peraltro antichissime nella cultura dell’uomo, ma che la scienza contemporanea e la riflessione etica più conseguente hanno criticato e dissolto, tanto nell’ordine cosmologico quanto nell’ordine morale, mo­ dificando radicalmente le immagini dell’universo fuori di noi e della coscienza dentro di noi. Basterà richiamarsi per questo genericamente ai risultati delle odierne indagini scien­ tifiche nell’astronomia, nella fisica e nella biologia, ed alle proposte filosofiche dell’analisi psicologica del profondo e dell’etica della situazione. Nella riflessione sull’esperienza giuridica che si è svolta nella civiltà occidentale fin dalle sue origini nella cultura ellenica, si è però verificato e si è ripetutamente presentato un procedimento argomentativo di equiparazione funzionale fra ordinamento giuridico e ordine sociale, che ha provo­ cato un diffuso e persistente equivoco. Si è cioè considerato l’ordinamento giuridico come l’applicazione di una forma già ordinata e precostituita alla materia informe di un corpo sociale, facendo ricorso alla figura di un legislatore leggen­ dario e invocando l’autorità legiferante. Si è visto perciò nel diritto lo strumento necessario per la creazione e il manteni­ mento di una vita sociale « ordinata » sotto l’insegna del con­ servatorismo legale, a cui forniva una giustificazione dot­ trinaria e pseudo-razionale il principio dell’ordine come coor­ dinamento unitario delle azioni sociali sotto l’impero della legge, ossia in pratica di rassegnata obbedienza ai comandi dei detentori del potere e dei loro esecutori di giustizia. Questo miscuglio di idee e di emozioni, da cui un amaro deposito è precipitato nell’esperienza storica, ha provocato il movimento ideologico di ritorsione, che oggi si appunta nel­ l’accusa, mossa di recente con durezza polemica specie dai teorici di ispirazione politica marxista, che nel riferimento e nell’uso del termine « ordinamento giuridico » sia implicita

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una mistificazione intellettuale, che servirebbe ad occultare i conflitti fra le classi sociali (6). Mantiene invece un gene­ rale riconoscimento la convinzione che l’ordinamento giuri­ dico abbia la funzione di risolvere i conflitti a livello indi­ viduale. Non vi è dubbio, che ogni ordinamento giuridico, in quanto tale, esercita una complessa funzione di condiziona­ mento, di controllo, di freno inibitorio e di risoluzione o repressione dei conflitti che oppongono, all’interno di un campo di forze sociali, gli interessi parziali di gruppi più o meno vasti a quelli fatti propri dalla classe politica dei go­ vernanti: esso anzi serve precisamente a questo, come un coltello serve a tagliare il pane. Il risultato dell’ammortizzazione degli urti e delle ten­ sioni di carattere sociale si ottiene peraltro non già per un procedimento progettuale di rimozione e repressione dei conflitti sociali insorgenti, quanto piuttosto grazie al pro­ cesso di adattamento psicologico e di interiorizzazione delle norme da parte dei soggetti, come è stato messo in evidenza, con le implicazioni e complicazioni, dagli studi di psi­ cologia del profondo nell’analisi della personalità. In que­ sto senso, è vero che l’ordinamento giuridico, con il suo ca­ rattere collettivo, transpersonale, anonimo, eclissa o addirit­ tura riesce talvolta ad eliminare l’immagine sociologica della classe o del gruppo microsociale di appartenenza, trasferen­ do il sentimento di obbligazione all’ordinamento, che è rap­ presentato concretamente dalla classe dirigente. L’equivoco, per cui l’ordinamento viene considerato come il portatore e il (6) V. la relazione di G. Tarello, in II diritto come ordinamento. Infor­ mazione e verità nello stato contemporaneo (Atti del X congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e politica, Bari, 3-5 ottobre 1974) a cura di R. Orecchia, Milano, 1976, pag. 49 ss., e le osservazioni di R. Guastimi, ivi, pagg. 99-102.

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garante dell’ordine complessivo nella vita comunitaria, è derivato dal considerare l’ordinamento come operante il ri­ specchiamento e l’identificazione dell’ordine delle norme giu­ ridiche sull’ordine dei fatti sociali, per cui « la violazione delle norme giuridiche porta sempre come conseguenza il turbamento di quell’ordine fondamentale in cui consiste la vita sociale» f). Non si è tenuto pertanto in conto l’aspetto contrario, anzi il rovesciamento di questa morfologia della prassi, che pure si manifesta nello svolgimento della vita giuridica, e che con­ siste nel fatto che l’ordinamento giuridico riflette a sua volta il disordine esistente nella vita sociale e che esso stesso è portatore di disordine. Un ordinamento giuridico si realizza, si mantiene, funziona come un sistema operativo di infor­ mazione, di guida, di controllo e di correzione per il movi­ mento di un corpo sociale, di cui rappresenta quasi il si­ stema nervoso (8); ma esso riceve altresì e trasmette le alte­ razioni dello stesso. Coesistono infatti anche nel campo dei rapporti giuridici due tendenze costanti, l’una che è quella indirizzata al­ l’ordine compositivo e l’altra che è invece indirizzata al disordine entropico; ogni ordinamento si configura come un frammento temporale ordinato di una serialità nel disordine globale. Il disordine, infatti, non può essere definito soltanto come assenza o mancanza di un ordine, ovvero come la sua nega­ zione, il suo rovescio; esso può risultare anche da una ridon­ (7) G. Chiarelli, L’ordinamento giuridico, in Scritti di diritto pubblico, Milano, 1977, pag. 35. (8) K. W. Deutsch, I nervi del potere, trad. it. a cura di F. Occhetto, Milano, 1972. Per un controllo del riferimento scientifico di questa meta­ fora, v. R. Levi-Montalcini, P. Angeletti, G. Moruzzi, Il messaggio ner­ voso, Roma, 1975.

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danza di ordine, che si verifica quando vi sono più ordini ac­ cumulati nello stesso insieme di dati. Come hanno mostrato gli studi più avanzati di metodologia della scienza, l’ordine naturale è in realtà un disordine comprensivo di più sistemi ordinati, in cui hanno un ruolo creativo il disordine mole­ colare e le strutture dissipative. Oggi è necessario accogliere una definizione positiva del disordine, in quanto esso si pre­ senta come la permanente possibilità di nuovi ordini, la loro matrice (9). Un ordine non può che scaturire da un margine di disor­ dine: l’esigenza che lo fa sorgere e lo sostiene è quella di stabilire un limite alla possibilità di variazione del disordine. Esso è più o meno esteso, secondo la classe di oggetti (o azioni) a cui si riferisce; è più o meno rigoroso, secondo il suo grado interno di variabilità; è più o meno condizionato, secondo l’indice di rapporti con altri ordini nello stesso campo di insiemi. In definitiva, ogni ordine è relativo ad un disordine più vasto, che lo contiene; e quanto più un in­ sieme (anche giuridico) si complica nelle relazioni fra gli ele­ menti che lo compongono, tanto più esso tende a convertirsi in disordine come « eccesso di ordini ». Questo è un feno­ meno che del resto si può facilmente osservare nella comune esperienza di trasmissioni telefoniche o televisive, come in quella dell’inflazione legislativa. Il disordine va dunque in­

(9) J. K. Feibleman, Disordre, in The Concept of Order, ed. by P. G. Kuntz, University of Washington Press, Seattle, 1968, pag. 3 ss.; v. anche Io., Teorie dell’evento, trad. it. a cura di E. Morin, 'Milano, 1974; R. Arnheim, Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine, trad. it. di R. Pedio, To­ rino, 1974; V. Frosini, Regel und Ausnahme, in Strv.klv.ricrun.gen und Entscheidungen im Rcchsdenken a cura di I. Fammelo e H. Schreiner, Wien, 1978, pag. 23 ss. La definizione di « ridondanza » è in C. F. Shannon e W. Weaver, La teoria matematica delle comunicazioni, trad. it. di R. Cappelli, Milano, 1971, pag. 61 ss.

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teso come una situazione strutturale, che ha la caratteristica di essere metastabile e dispersiva.

3. L’ordinamento e il diritto negativo. La nozione di ordinamento giuridico vieti fatta coinci­ dere dai teorici con quella di diritto positivo, di cui rappre­ senta la corposità definita, in quanto un ordinamento rac­ chiude il complesso simbologie© delle norme giuridiche coor­ dinate e poste in vigore, che nel mondo moderno sono quelle emanate dallo Stato. Nell’àmbito di uno stesso macroordina­ mento coesistono però ordini seriali di norme, collegati fra loro o dissociati, che costituiscono ordinamenti minori o mi­ croordinamenti, talvolta anch’essi forniti di un grado ele­ vato di complessità, e anche ordini dissipativi di norme, che talora emergono con forza eversiva. Sicché nello stesso or­ dinamento, accanto alle strutture giuridiche di diritto posi­ tivo, che compongono un insieme tendenzialmente ordinato, sono compresenti anche strutture giuridiche che possono es­ sere definite, per differenziarle dalle altre, di diritto «nega­ tivo». Sono i contro-ordinamenti e gli pseudo-ordinamenti, che svolgono anch’essi la loro funzione; e benché essi venga­ no esclusi dalla considerazione di talune dottrine, o vengano rimossi dalla coscienza dei giuristi legalisti, sono tuttavia chiaramente riconoscibili nella visione comprensiva del dis­ ordine giuridico. Un ordinamento giuridico perfettamente omogeneo, uni­ tario, ordinato, non esiste che nelle astrazioni dei giuristi for­ malisti, ma non appartiene al mondo reale dell’esperienza giuridica. In ogni ordinamento giuridico evoluto la compre­ senza degli ordini di relazione fra gli elementi costitutivi ge­ nera perennemente problemi di contrasto o di composizione. Ad esso potrebbe adattarsi la definizione che è stata data del

l'ordinamento giuridico

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mondo, « una struttura stratificata che domina una infinita molteplicità e al cui interno i rapporti di dipendenza e di libertà fra strato e strato hanno, ogni volta, un particolare valore » (10). Portatori del diritto negativo sono i microordinamenti le cui regole di relazionalità fra le azioni e le situazioni dei soggetti che li compongono, pur coesistendo con le strut­ ture del diritto positivo riferite agli stessi soggetti, realizzano una diversità di comportamenti. Questo fatto può derivare dalla stratificazione in dimensione diacronica degli ordini nel­ l’ordinamento, che risulta dall’accumulo di ordinamenti pre­ cedenti; ovvero può essere causato da una conflittualità ir­ risolta che si estende anche in dimensione sincronica nella eterogeneità. È stato G.W.F. Hegel, che a proposito della tragedia An­ tigone di Sofocle ha considerato « l’essenza della legge di­ vina della famiglia come essenza negativa, (che) si mostra come il potere peculiare della comunità e come la forza della sua autoconservazione» (1!). Il contrasto fra Antignone, che invoca le leggi tribali consacrate dalla religione dei morti, e il capo dello Stato, Creonte, che ribadisce il principio del­ l’ordine unitario del diritto come ordinamento sociale, è stato solitamente interpretato come il contrasto fra il diritto positi­ vo e il diritto naturale; esso è in verità il contrasto fra due ordinamenti concreti, l’uno della pòlis e l’altro della fami­ glia, entrambe strutture giuridiche riconosciute ed operanti. Se chiamiamo diritto positivo il primo, potremo chiamare diritto negativo il secondo, poiché esso in effetti nega il pri(10) N. Hartmann, Introduzione all'ontologia critica, trad. it. di R. Can­ Napoli, 1972, pag. 212. (n) G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, II, Firenze, 1973, pag. 14 su cui cfr. V. Frosini, Il diritto di fa­ miglia nella teoria generale del diritto, infra, pagg. 113 ss. toni,

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mo, nel momento di scomposizione dei due ordini, il secondo dei quali era stato inglobato nel primo. L’ordinamento positivo del diritto statale consiste del re­ sto ancor oggi in una strutturazione giuridica complessa, che sorregge e dirige la società civile. Questa continua tut­ tavia ad esprimere proprie strutture autonome rispetto alla struttura complessiva (che consiste in realtà in una situazione strutturale composta di più ordini e di più strati) dell’ordina­ mento. Si tratta di quelle istituzioni, che sono state definite impropriamente di « diritto dei privati », ma che in effetti sfuggono allo schema convenzionale dicotomico di diritto pubblico e privato. Si consideri il sorgere e l’affermarsi, nel corso dei conflitti sociali del secolo XIX, delle associazioni sindacali fra i lavoratori, istituzioni giuridiche della collet­ tività in quanto società civile, che si sono costituite in rap­ porto antagonistico con lo Stato-società depositari del mo­ nopolio legislativo, e che hanno tuttavia condizionato in for­ ma sempre più risoluta un largo settore dell’ordinamento giuridico, tutto lo strato del diritto del lavoro. Anche l’espe­ rienza sindacale dunque conferma la compresenza di un diritto negativo connesso al diritto positivo nel quadro dell’ordinamneto giuridico statale, fenomeno anomalo per il quale è stata formulata la definizione di « ordinamento inter­ sindacale » (12). Se si procede ad uno spostamento di prospettiva, collo­ candosi sul piano dell’ordinamento giuridico della comunità internazionale invece che su quello della singola comunità statale, i caratteri del disordine giuridico come situazione strutturale e della compresenza del diritto negativo accanto al

(12) G. Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Ro­ ma, 1960; V. Frosini, Gli statuti dei sindacati dei lavoratori, infra, pagg. 145 ss.

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diritto positivo appaiono evidenti. Intanto, lo stesso diritto internazionale risulta composto dalla contrapposizione (che può essere talora sovrapposizione) tra diritto di formazione spontanea e diritto volontario positivo; e secondo un’autore­ vole dottrina, « questa è la sola conclusione ragionevole che si possa desumere, senza svisarne il senso e il valore, da un esteso esame della pratica internazionale » (1J), nella quale coesistono norme scritte formalmente riconosciute e norme non scritte, che possono derivare da fatti o consuetudini in contrasto con le altre. Manifestazioni spettacolari e drammatiche, in cui emergo­ no quei caratteri che sono stati accennati, e che sembrano pa­ radossali alle dottrine formaliste, al punto da fare esclamare: « il diritto si arresta di fronte a questi concetti, che sono la sua negazione » (14), sono la guerra e la rivoluzione. Entram­ be sono portatrici di disordine giuridico e di diritto negativo, ma sono tuttavia situazioni giuridiche entrambe, strutture dissipative che il giurista deve riconoscere ed interpretare, «con quello spirito vigente e paziente, capace di descrivere la varietà sconcertante dei fenomeni accettati per quel che sono, la pluralità spesso contraddittoria e urtante, delle ca­ tegorie e delle leggi che emergono dallo studio scrupoloso e scientifico dei piani intrecciati che la realtà ci presenta o, meglio, ci impone con il peso grave della sua durezza » (15). I caratteri disordinativo e negatorio della guerra nel qua­ dro dell’ordinamento giuridico internazionale totale e nel (u) M. Giuliano, Diritto intemazionale, I, Milano, 1974, pag. 224. (Su questo tema, confermiamo solo parzialmente quanto scrivemmo in V. Pro­ simi, Rilievi metodologici sulla posizione del giudice nel diritto internazio­ nale, in Riv. dir. intern., 1956, XXXIX, pagg. 208-226; rist. in Teoremi e pro­ blemi di scienza giuridica, Milano, 1971, pag. 213 ss.). (M) M. G. Losano, 1 grandi sistemi giuridici, Torino, 1978, pag. 113. f15) R. Cantoni, Introduzione a Hartmann, op. cit., pag. 12. 2.

V. EROSIMI

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confronto degli ordinamenti dei Paesi belligeranti sono og­ getto di ricerca nell’àmbito di una apposita disciplina, il di­ ritto bellico, e pertanto in questa sede è sufficiente la semplice indicazione. I problemi particolari relativi all’occupazione militare di un territorio, al trattamento dei prigionieri (che rimangono tuttavia soggetti di diritto dell’ordinamento giu­ ridico avversario a cui appartenevano) (16), alla convalida o abrogazione dei poteri pubblici e dei diritti soggettivi nelle situazioni di conflitto armato, confermano la tesi esposta. Un esame specifico richiede il problema della giuridicità della rivoluzione, a cui è strettamente congiunto quello del riconoscimento del governo degli insorti e del rispettivo or­ dinamento giuridico. Tale problema non è d’altronde che l’aspetto inverso del problema precedente, giacché « una guer­ ra è una rivoluzione della comunità internazionale, e una ri­ voluzione, anche se non assume le proporzioni e le forme del­ la guerra civile, è una guerra nella comunità statale » (17). La rivoluzione è un principio organizzativo di un nuovo ordine, anzi, a giudizio di Santi Romano, è un ordinamento giuri­ dico originario; e non vale opporgli l’obiezione, che egli non avrebbe tenuto in debito conto la finalità rivoluzionaria di dar vita ad un nuovo Stato, giacché il problema si pone per la rivoluzione in atto e in incerto svolgimento, ma che già si presenta come ordinamento giuridico negativo in lotta con­ tro l’ordinamento positivo esistente, del quale deve tuttavia in qualche modo essere partecipe, accettando sia pure pro tempore una quantità considerevole di norme e di situazioni (lé) Non avveniva lo stesso nel diritto romano, in cui si considerava defunto il soldato nel momento stesso che cadeva nelle mani del nemico. (I7) Santi Romano, 'Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, pag. 220. V. le osservazioni critiche di M. A. Cattaneo, Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto, Milano, 1960, pag. 48, e A. Catania, Argomenti per una teoria dell’ordinamento giuridico, Napoli, 1976, pag. 157.

l'ordinamento giuridico 19 * giuridiche, mentre provvede all’abolizione di alcune altre, ponendo in atto un processo dissolutivo dell’ordinamento. Va infatti considerato che « dal punto di vista (del diritto) inter­ nazionale, il partito insurrezionale si presenta anch’esso co­ me entità di fatto qualitativamente non diversa dallo Stato. Non risulta infatti esistente nessuna norma di diritto inter­ nazionale generale che qualifichi il partito insurrezionale come soggetto qualitativamente diverso dall’ente contro il quale lotta » (!8). Lo stesso ordinamento giuridico statale ac­ coglie dunque in sé due ordini contrastanti, al pari di come l’ordinamento giuridico internazionale continua a compren­ dere nel proprio àmbito due o più ordinamenti giuridici sta­ tali in guerra fra loro.

La rivoluzione è dunque da considerarsi come una mani­ festazione complessa di diritto negativo nei confronti del­ l’ordinamento giuridico positivo, in quanto essa opera un rovesciamento della morfologia della prassi, genera un insie­ me di strutture destinate a promuovere e disciplinare l’azione rivoluzionaria, che ha come proprio valore cardine la vio­ lenza invece della «pace sociale», il disordine giuridico con­ tro l’ordine. Essa anzi consiste precisamente in un procedi­ mento dissociativo del tessuto giuridico in quanto relazione fra ordini giuridici, fatti norme e valori; il lecito diventa il­ lecito, e viceversa; è al termine del processo rivoluzionario che si riproduce una nuova ridondanza di ordini in una di­ versa condizione metastabile. Se la rivoluzione può ben definirsi un contrordinamento, anche quando nel corso della sua lotta essa stessa è trava­ gliata da tensioni interne che rendono incerta la sua fisiono­

(18) G. Arangio-Ruiz, Diritto internazionale e personalità giuridica, Torino, 1971, pag. 107 s.

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mia politica e la sua strutturazione giuridica (19), vi sono altri fenomeni giuridici di diritto negativo che meritano anch’essi tale qualifica, pur senza condividere i tratti distintivi della ri­ voluzione come inversione dell’ordinamento nella sua glo­ balità. Si tratta di quelle comunità di soggetti, le cui strut­ ture giuridiche sono inserite in un ordinamento giuridico po­ sitivo ma con valori giuridici differenziati. Un esempio illuminante è quello che è stato offerto dalla indagine condotta sulla comunità della Barbagia e il suo « codice della vendetta » (M); dalla quale risulta una ridon­ danza di ordine, secondo cui il pastore barbaricino deve re­ golare il proprio comportamento scegliendo fra due ordini diversi: l’ordine giuridico dello Stato e quello della comu­ nità a cui appartiene. Da tale punto di vista, interno e non esterno al problema, entrambi i due ordinamenti, quello for­ male positivo dello Stato e quello consuetudinario negativo della comunità barbaricina, costituiscono due strati differenti ma interdipendenti di effettività giuridica. Altri e numerosi esempi consimili possono trovarsi nella storia del diritto dei popoli che sono stati a lungo soggetti a dominazioni stra­ niere, e nella quale è talvolta necessario compiere un’opera­ zione simile a quella di una lettura di un palinsesto, dove un testo giuridico è stato soprascritto su un altro, uno strato di ordine sovraimposto. Per quanto attiene alle associazioni illecite propriamente dette, si è disputato in dottrina se conferire anche ad esse la qualifica e i caratteri di ordinamenti giuridici, secondo la (19) La rivoluzione è stata spesso portatrice di disordine non solo al­ l’esterno, ma anche all’interno di se stessa; per cui si è detto che come Saturno divora i suoi figli. Un episodio cruciale della storia moderna è bene illuminato da A. Colombo, Lenin e la rivoluzione, Firenze, 1974. f20) A. Pigliarli, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Milano, 1959, considerato come ordinamento giuridico « perfettamente au­ tonomo ed originario » (p. 30).

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proposizione enunciata da Santi Romano, che «la illiceità di esse non vale e non può valere se non di fronte all’or­ dinamento statale [...]. Ma finché esse vivono, ciò vuol dire che sono costituite, hanno un’organizzazione interna e un ordinamento che, considerato in sé e per sé, non può non qualificarsi giuridico» (21). Si può osservare che il problema trova una sua soluzione riconoscendo che si tratta di un ordinamento giuridico negativo, anche se diverso dal con­ trordinamento rivoluzionario. Infatti la società di fuorilegge attua in realtà nel suo interno non già un ordinamento so­ stitutivo di quello statale, ma uno pseudordinamento, che rappresenta l’imitazione e la deformazione riflessa di certi princìpi dell’ordinamento positivo in cui la società svolge la sua funzione dissipativa e parassitarla (perché improdut­ tiva di strutture giuridiche comunicanti). Le sue cosiddette regole giuridiche, come l’obbligo di rispettare i patti fra gli affiliati, la ripartizione del guadagno illecito secondo criteri precisi, i giudizi su controversie dinanzi ai tribunali arbitrali e l’irrogazione di pene, ripetono tutte nelle forme, con pas­ siva adesione, certe strutture del sistema giuridico esterno alla società illecita ma in cui essa vive e magari prolifera co­ me un processo canceroso. Gli appartenenti a una società il­ lecita sono costretti a valersi di quelle regole per mantenere la loro struttura organizzativa in contraddizione con le strut­ ture della società civile più vasta; ma il loro comportamento appare simile a quello dei fabbricati e spacciatori di moneta falsa, ai quali è necessario per svolgere la loro attività tro­ varsi ad operare nel quadro di un sistema monetario con va­ luta che abbia un corso legale. (21) Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1945, pag. 100 s. Questo giudizio è stato solitamente interpretato con riferimento all’orga­ nizzazione della mafia; alla quale ha attribuito un carattere giuridico anche A. Podgòrecki, Lato and Society, London, 1974, pag. 273.

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4. L’ordinamento e il sistema normativo. Quando, su un piano di rigorosa metodologia formalistica, come avviene nella dottrina di H. Kelsen, viene stabilita una equivalenza fra l’ordinamento e l’insieme dei dati legisla­ tivi, allora l’ordinamento si risolve e si riduce a sistema nor­ mativo: e ogni sistema « dovrebbe essere considerato come una intricata ragnatela di disposizioni di legge connesse tra loro » (22). In tal modo, l’analisi e la costruzione giuridica di un insieme composto di strutture e di situazioni dei com­ portamenti sociali, che variamente si intersecano fra loro, vengono condotte facendo esclusivo riferimento alle norme di legge: cioè ai simboli verbali, con cui quelle strutture e quelle situazioni vengono rappresentate e comunicate, ed ai procedimenti di genere simbolico-operativo, con cui esse ven­ gono messe in relazione nelle sentenze dei giudici, negli atti amministrativi e, ovviamente, nei commenti e trattati dei giuristi. Questa concezione ha trovato nella prima metà del XX secolo la sua più compiuta ed elaborata configurazione nell’opera di pensiero di Hans Kelsen: grandiosa proiezione intellettualistica di una mente feconda e dominata da una disposizione allo spirito sistematico. In essa viene ritenuto ne­ cessario riconoscere la presenza di un ordine totale e imma­ nente, per una concatenazione logico-deontica fra le norme, in ogni ordinamento giuridico. Sebbene l’importanza del contributo fornito da Kelsen sia stata certo assai rilevante, si è potuto affermare dal Raz che « lo studio della teoria del sistema giuridico sia ancora nella sua infanzia», occorrendo ancora determinare le ne­ cessarie relazioni interne esistenti in ogni sistema giuridico, f22) J. Raz, Il concetto di sistema giuridico, trad. it. di P. Comanducci, Bologna, 1977, pag. 247. Sul tema, cfr. M. G. Losano, Sistema e struttura nel diritto. Dalle origini alla scuola storica, Torino, 1968.

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che sia però dotato di un certo grado minimo di complessità e di un certo contenuto minimo, in modo da poter stabilire « la struttura interna che è necessariamente comune a tutti i sistemi giuridici», pretendendo così di applicare uno schema generale interpretativo ai fenomeni multiformi dell’esperien­ za giuridica. Una relazione fondamentale, che viene oggi largamente discussa, è quella che è stata precisata soprattutto nell’analisi svolta da H.L.A. Hart sul concetto di diritto, e cioè quella esistente fra due tipi di norme, le norme primarie che con­ cernono la condotta e impongono obblighi, e le norme se­ condarie che conferiscono poteri (ovvero, secondo altra pos­ sibile interpretazione, che siano norme di organizzazio­ ne) (23). Potrebbe dirsi : fra norme di primo grado, e norme di secondo grado; intese a regolare i rapporti insorgenti fra le norme primarie, e dunque norme su norme. Sarebbe in tal modo accertata una struttura dualistica di ogni sistema normativo, e verrebbero in tal modo risolte le difficoltà teoriche presentate dalle dottrine formalistiche (e anche dalle altre) per il mancato accertamento di una dialet­ tica interna ad ogni ordinamento o sistema, che ne spieghe­ rebbe il duplice carattere, impositivo (cioè composto da nor­ me di condotta) e organizzativo, secondo l’esigenza fatta va­ lere specialmente nell’àmbito delle dottrine istituzionalistiche. Si rimane tuttavia così impigliati nella ragnatela nor­ mativa, che va allargandosi continuamente intorno a una norma centrale. Un sistema normativo può essere inteso anche in maniera più ampia e articolata rispetto a quella, convenzionale e ri­ stretta, delle dottrine normativistiche accennate, che scam. ... biano la realtà giuridica con quella « dipinta » nelle raccolte (23) N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione, Milano, 1977, pag. 123 ss.

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legislative. Esso può infatti essere individuato facendo ricorso alla metodologia elaborata dalla teoria generale dei sistemi, che non ha una origine giuridica, ma deriva da una ricerca interdisciplinare nelle scienze, condotta da L. von Bertalanffy. In tale prospettiva, un sistema può essere definito come un complesso di elementi intransigenti, nel senso che le rela­ zioni di ciascun elemento del sistema con tutti gli altri hanno carattere funzionale, agiscono cioè o retroagiscono diversamente; le norme giuridiche sarebbero allora le regole opera­ tive del sistema, che indicano i modi in cui i soggetti-agenti possono intervenire nei processi di interazione che lo rendono efficiente (24). In tal modo, il sistema normativo non appare più come una forma totale e significante del mondo del diritto, ma si configura come una rappresentazione simbolica dei feno­ meni empirici del diritto, con cui il giurista attua un proce­ dimento di « manipolazione », cioè di simbolizzazione nor­ mativa di operazioni simile a quella che compiono i pro­ grammatori dei calcolatori elettronici. Si ottiene così una de­ mistificazione della concezione intellettualistica e ideologica di un ordinamento giuridico come di un insieme concluso ed esaustivo della realtà giuridica ridotta alla dimensione della normatività; il compito del giurista, nel momento se­ lettivo e descrittivo del proprio oggetto, è solo quello di rap­ presentare la molteplicità e varietà dei dati di quel fenomeno in uno schema generale unitario, senza ricadere nell’equivo­ co formalistico e idealistico di uno scambio fra sistema e realtà. Va peraltro osservato, a questo proposito, che l’ordina­ mento giuridico andrebbe perciò riconosciuto nel suo carat(24) L. M. Bentivoclio, Ordinamento giuridico o sistema di diritto?, in Rii/, trim. dir. pubbl., 1976, XXVI, pag. 893.

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tere di morfema circoscritto nell’àmbito generale della mor­ fologia della prassi: questa consiste infatti in un ciclo con­ tinuo di conversione fra le norme e le azioni, fra la forma simbolica e la struttura operativa, che è il modo in cui essa si realizza concretamente nell’esperienza, e perciò non tol­ lera mutilazioni. L’aspetto normativo dell’ordinamento serve a rappresentarlo nel suo momento trascendentale, cioè come una condizione di pensabilità e di conoscenza dell’azione nella sua corposità ontologica, in quanto cioè separata dalla singolarità dell’agente, resa oggettiva o reificata: il diritto riguarda infatti non già i rapporti fra i soggetti, ma fra le loro azioni. Vi è però con questo anche l’altro momento integrativo e necessario di ogni ordinamento, che consiste nell’insieme delle sue strutture pratiche, nelle forme attive e passive del comportamento, nelle connessioni e conseguenze delle modificazioni nella realtà umana di convivenza, che vengono effettuate per mezzo delle azioni e non dei concetti. Un sistema normativo non è dunque soltanto una ragnatela astratta e geometrica, ma è la verità pensata che si converte nel fatto agito. La rappresentazione dell’ordinamento nei termini pura­ mente normativi, cioè come un esclusivo sistema di regole, ha suscitato nella dottrina giuridica numerosi problemi e pseudoproblemi, relativi al tentativo di qualificare in una forma intellettuale limitata la complessità, multiformità e di­ spersività irriducibili delle strutture giuridiche nei loro pro­ cessi e rapporti di strutturazione e destrutturazione. La stes­ sa definizione di un ordinamento giuridico come un insieme di regole del comportamento sociale, sottomesse esse pure a certe regole d’insieme per la loro formazione e ricono­ scimento, appare una definizione parziale e ingannevole, ove si tenga presente che il diritto è un insieme di regole e di ec­ cezioni, come risulta dall’esame di qualunque ordinamento

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con un grado minimo di complessità. Si potrebbe anzi dire, che è questa la fondamentale dicotomia di ogni sistema nor­ mativo: quella di comprendere regole ed eccezioni; per cui deve escludersi il proposito di attribuire ad un ordinamento un carattere rigoroso di regolarità, di un ordine sistematico che viene contraddetto dalla sua flessibilità, ambiguità e adattabilità al terreno accidentato del reale, su cui l’ordina­ mento si colloca e si muove (25). Considerato come un cerchio magico concluso, dentro cui il giurista si aggira, l’ordinamento giuridico ha suscitato nel­ le dottrine formalistiche il problema della sua completezza, che consiste nella pretesa di racchiudere in una cornice de­ limitata di norme quell’insieme di composizioni frammen­ tarie della realtà giuridica che un ordinamento conglomera nei suoi strati. Come ha correttamente indicato Santi Ro­ mano, non si può parlare di lacune, ma solo di limitazioni di un ordinamento giuridico; e se si considera l’ordinamento in una sua dimensione puramente normativa, bisognerà conve­ nire che esso non è mai completo, nel senso che non è mai interamente chiuso; completezza e chiusura non si implicano del resto a vicenda (^). Il problema mostra in pieno la sua inconsistenza soprattutto se riferito all’ordinamento giuridico internazionale, in cui si intersecano gli ordini normativi, e (2s) V. Frosini, Regel und Ausnahme, in Strul^turierungen, cit., pagg. 23-30. Un accenno significativo in F. Carnelutti, Appunti sull’ordina­ mento giuridico, in Riv. dir. proc., 1964, pag. 364. (26) A. G. Conte, Decision, complétude, clóture, in Logique et Analyse, 1966, n. 33, pagg. 1-18; e In., Saggio sulla completezza degli ordinamenti giu­ ridici, Torino, 1962. La tesi che un ordinamento giuridico, considerato per se stesso, non possa dirsi né completo né incompleto, era stata già avan­ zata da G. Brunetti, Il damma della completezza dell’ordinamento giuridico, Firenze, 1924. Si ricordi anche l’opinione di Santi Romano, Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, Modena, 1925, rist. in Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano, 1968, pag. 181 ss.

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dove la completezza appare subito incompatibile col disor­ dine, la ridondanza e la dispersività, che lo caratterizzano. Ogni ordinamento giuridico complesso, com’è quello inter­ nazionale, ma anche quello statale, comprende diverse serie ordinate di norme, di rapporti e di eventi giuridicamente rilevanti. Esso infatti risulta composto da un insieme di or­ dini, che collegano specificamente certe classi di dati, so­ vrapponendo e talora contrastando i contenuti, ma consen­ tendo in tal modo il riassestamento continuo dell’ordina­ mento, la sua vitalità fatta di perenzione e di creazione. Ma nelle teorie formalistiche dei sistemi normativi, rivolte alla dimostrazione di princìpi immanenti di razionalità nella esperienza giuridica, i problemi di struttura dell’ordinamen­ to non vengono riconosciuti nella loro realtà: che è di natura compositiva ma anche dissipativa. L’ordinamento giuridico può essere dunque considerato un sistema simbologico ma so­ lo in rapporto alla sua operatività prammatica. 5. La falsa coscienza dell’ordinamento. Un altro principio caratterizzante della concezione siste­ matica normalivistica è quello dell’affermazione dell’unitàunicità dell’ordinamento, sebbene siano rilevabili nell’espe­ rienza giuridica concreta gli ordini tendenzialmente diver­ sificati e irriducibili ad una direzione normativa unica, omo­ genea, accentrata. Come è stato giustamente rilevato da E. Paresce, « l’unità sistematica non è una istanza del diritto positivamente inteso, non nasce, cioè, dall’insieme delle pro­ posizioni giuridiche, ma è una istanza che « sorpassa » la positività e che ritrova altrove la sua legittimità » (v. Dog­ matica giuridica, § 12). Si tratta dunque di un carattere fit­ tizio, che la dottrina trasferisce dal pensiero all’ordinamento astrattamente concepito, e che tuttavia assume come punto

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centrale dell’indagine, costruendo così per autosuggestione una falsa coscienza dell’ordinamento giuridico. Questo postulato dell’unità risponde peraltro anche ad una esigenza pratica, che è quella di poter servirsene per ri­ solvere i conflitti di attribuzione e di competenza, che si presentano non soltanto in sede giudiziaria, ma in tutta la varietà dell’esperienza giuridica. È una esperienza comune, che si può constatare quando si sente la richiesta di esibire il proprio passaporto, e vi si vede apporre un timbro, che è un ideogramma normativo di un ordinamento giuridico, un simbolo riassuntivo di potere legittimo esercitato per sta­ bilire la differenza fra gli ordinamenti. L’unità di un ordi­ namento giuridico è in effetti la risposta ad una istanza di legittimazione fondata su un criterio di valutazione politica e non riducibile nei termini della pura legalità di un sistema formalistico. La soluzione più semplice del problema, che riassume in una formula definitiva una vasta letteratura di pensiero poli­ tico e giuridico, potrebbe sembrare quella offerta da John Austin, secondo il quale l’unità di un ordinamento, ossia il collegamento costante fra i comandi rivolti ai soggetti, che costituiscono le disposizioni di legge e le sentenze dei giu­ dici, è assicurata dalla presenza di un sovrano, che è « un solo individuo o un solo corpo di individui » J27). Questa for­ mulazione sembra adattarsi perfettamente alle condizioni di esistenza e di vitalità di un ordinamento giuridico primitivo; ma se questo schema interpretativo viene trasportato nel quadro di un ordinamento evoluto, al fine di affermare il principio fondamentale dell’unità di governo monarchico (come era intento di Austin), esso si frantuma nelle conf27) J. Austin, The Province of Jurisprudence Determined, ed. by, H. L. A. Hart, New York, 1954, pag. 246.

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traddizioni o si disperde nelle astrazioni. Basti pensare all’art. 1 cost., secondo cui « la sovranità risiede nel popolo » : formula politicamente suggestiva, ma giuridicamente eva­ siva per individuare l’unità dell’ordinamento. La sovranità risiederebbe forse nella rappresentanza parlamentare? O nel­ la maggioranza che governa? O nella Corte costituzionale, quando questa disconosce la legittimità di una legge? Per dare una risposta a domande del genere, la dottrina di Austin è stata riproposta in termini più elaborati da Lord Lindsay, secondo il quale in uno Stato moderno il vero sovrano è la Costituzione (28); ma anche questa soluzione si rivela a un attento esame come formula ideologica. L’unità dell’ordinamento è stata ragionata in forma lo­ gica e consequenziaria nella dottrina di Hans Kelsen. Se­ condo questa teoria, l’ordinamento giuridico sarebbe un ardo normarum, che appartiene al mondo del Sollen (dover esse­ re) e va perciò distinto dall’orbo rerum (per riprendere il linguaggio di B. Spinoza) o della realtà sociologica dei fatti, che appartiene al mondo del Sein o dell’essere; l’essenza del­ l’ordinamento viene così enunciata more geometrico: «Esso è una struttura giuridica composta da vari piani di norme giuridiche. La loro unità è prodotta dal nesso risultante dal fatto che la validità di una norma, prodotta conformemente ad un’altra norma, riposa su quest’ultima, la cui produzione a sua volta è determinata da un’altra: un procedimento a ri­ troso che termina nella norma fondamentale presupposta. La norma fondamentale ipotetica è quindi il fondamento su­ premo della validità, su cui si fonda l’unità di questo nesso f28) Lord Lindsay of Birker, The modern democratic State, Oxford University Press, 1943, in cui venne ripresa la tesi già esposta in Sovereignty, in Proceeding Aristotelian Society, n. sr., 1924, XXIV, pagg. 234-154; alla quale si può accostare quella di H. L. A. Hart, accennata in una nota de Il concetto del diritto, trad. it. di M. Cattaneo, Torino, 1965, pag. 291 s.

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di produzione » (29). II circolo vizioso del ragionamento (tau­ tologico) risulta evidente: l’unità dell’ordinamento è dun­ que fondata sulla norma fondamentale, e la norma fonda­ mentale serve a fondare l’unità dell’ordinamento. Non solo: ma si consideri che questa Grundnorm, o norma fondamen­ tale, presupposta o ipotetica o trascendentale, è il prodotto di una doppia astrazione: la prima, quella dell’ordinamento come sistema normativo, o Sollen-, la seconda, quella della norma fondamentale come Sollen essa stessa, destinata a so­ stenere e giustificare il Sollen delle norme. In tal modo, il centro unitario dell’ordinamento appare come la luce che giunge da una stella lontana e già spenta, una norma perduta in un tempo originario ma immaginario. All’opposto, assai concreta ed anzi fattuale appare la so­ luzione proposta da Santi Romano nella sua dottrina dell’or­ dinamento giuridico inteso come istituzione sociale, la cui unità viene assicurata dalla sua struttura organizzativa, dal­ l’impulso pratico che esso riceve nel suo processo di forma­ zione sociale: «non una somma di varie parti, siano o non siano queste delle semplici unità, si noti bene, non artificiale ed ottenuta con un procedimento di astrazione, ma con­ creta ed effettiva » (30). Secondo una plastica immagine dello stesso Romano, l’unità dell’ordinamento giuridico è come quella di un albero, non consiste nel fogliame normativo ma nel tronco (l’organizzazione sociale) che quel fogliame so­ stiene e produce. In una recente interpretazione di questa dottrina è stato sottolineato che l’ordinamento giuridico sa­ rebbe fondato sul riconoscimento della « necessità », che a differenza della Grundnorm del Kelsen non è un presuppo­

ni H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it. di M. G. Losano, Torino, 1966, pag. 252. f30) S. Romano, L’ordinamento giuridico, cit., pag. 10.

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sto deontico, ma un fatto, presente ed operante nella coscien­ za sociale, onde la genesi del diritto come ius involontarwm (31). Tuttavia si deve avanzare qualche riserva critica anche su questa dottrina istituzionalistica, per evitare almeno due fraintendimenti, a cui essa ha dato luogo. Il primo dei quali consiste nel concepire l’ordinamento giuridico come un rap­ porto societario (non intersoggettivo), mentre esso concerne le azioni e le situazioni dei soggetti-agenti nella prassi so­ ciale. L’ordinamento non è un fatto generativo di norme, ma consiste in un procedimento di conversione fra i fatti e le norme, in una simbologia operativa, come si è accennato in precedenza, che non consente l’identificazione di un ordina­ mento per mezzo della sua riduzione a un centro o polarità in senso unitario esclusivo (fatto o norma che sia). E il se­ condo fraintendimento può derivare dalla rappresentazione dell’ordinamento come una struttura già compiutamente de­ lineata, risultante dalla composizione ordinata delle sue par­ ti come « dalle varie membra dell’uomo o dalle ruote di una macchina». Anche questa forma già formata, questa struttu­ ra organica applicata come schema interpretativo alla realtà del diritto, è un mito giuridico, connesso ad una falsa co­ scienza ideologica dell’ordinamento. È il mito della unità originaria fra società e diritto da ricostituire in sede politica con la riunificazione fra società civile e ordinamento giuri­ dico dello Stato, propugnata dallo stesso Romano e corri­ spondente al mito del Rechtstaat sostenuto ancora dal Kel­ sen (32). (31) A. Tarantino, La teoria della necessità nell’ordinamento giuridico, Milano, 1976. (32) Questa interpretazione della dottrina del Romano è stata avan­ zata in V. Frosini, Costituzione e società civile, Milano, 1975, pag. 74 ss., e In., L'idealismo giuridico italiano, Milano, 1978, pag. 19.

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6. L’ordinamento come processo epimorfico. Un ordinamento giuridico si raccoglie in una struttura globale, definita e conclusa, come in un ordine inerte, sol­ tanto quando esso abbia cessato di esistere; sebbene sia sem­ pre difficile stabilire il momento, anche approssimativo, della sua cessazione, giacché fra gli ordinamenti si verifica una osmosi continua nello spazio e anche nel tempo; come ha riconosciuto lo stesso Romano, « nessuna restaurazione è mai avvenuta che sia riuscita a considerare tutti gli atti com­ piuti anteriormente ad essa come illegittimi... L’ordinamen­ to che la restaurazione fa venir meno deve continuarsi a considerare legittimo anche dopo che questa sia avvenu­ ta » (33). Tuttavia, proprio l’aspetto di « forma formata », che l’ordinamento assume nella concezione del Romano (come si è indicato in precedenza), ha certamente contribuito alla utilizzazione della teoria nelle indagini interpretative sulla storia del passato compiute dagli storici del diritto (34). Si è dovuto però fare astrazione dalla realtà, fissando le linee di­ rettive continue e il profilo totale di un ordinamento sto­ rico; mentre ogni ordinamento è il risultato della compe­ netrazione di più ordinamenti successivi e della compresenza di ordinamenti nell’ordito situazionale dell’esperienza giu­ ridica, dove si riscontrano tensioni, contraddizioni e inter­ valli dovuti a discontinuità normativa (35). Un ordinamento giuridico che possa considerarsi « vi­ vente », secondo una metafora imprecisa ma spesso usata,

(33) 8. Romano, Lo Stato moderno, cit., pag. 115. f34) G. Pugliese, S. Romano e la sua influenza sui civilisti e sugli storici del diritto italiano, in Le dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di S. Romano, a cura di P. Biscaretti vi Ruffìa, Milano, 1977, pag. 219 ss. (3S) Preziose osservazioni in S. Pugliatti, Continuo e discontinuo nel diritto, rist. in Grammatica e diritto, Milano, 1978, pagg. 77 ss.

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consiste in un processo epimorfico, ossia in un processo di produzione culturale di strutture, o modelli interpretativi dell’azione, intese a regolare il comportamento sociale. Esso è perciò portatore di disordine in una situazione di ordine provvisorio, in cui opera al contempo come fattore di lace­ razione e di suturazione delle situazioni giuridiche, obbe­ dendo alle sollecitazioni di una logica della prassi sotto l’ur­ to degli interessi economici e politici. Tale processo potrebbe dunque paragonarsi al percorso di una fiumana, che proce­ dendo si scavi il suo alveo in un terreno accidentato, fino a costituire un nuovo ordine naturale del paesaggio (36). Il ri­ conoscimento della realtà di un ordinamento verificabile nel­ l’esperienza giuridica ha il carattere riflessivo e critico di ogni conoscenza scientifica: per compierlo, la mente indagante deve sottrarsi al processo in corso, porsi al di sopra di esso, osservando l’ontologia concreta delle forme in relazione alla loro forza d’impulso e di travolgimento nella vita associata; e non già limitarsi al loro concatenamento secondo una lo­ gica formale. Finché dura il processo epimorfico, il diritto non è una semplice sovrastruttura, giacché esso condiziona il conoscere e l’agire non soltanto del giurista, di cui stabili­ sce un livello coscienziale, ma anche dell’uomo comune nei suoi ruoli sociali. La rappresentazione macroscopica di un procedimento formativo dell’ordinamento giuridico è quella che viene of­ ferta dal diritto internazionale, che sotto certi aspetti sembra ripetere in forme assai elaborate l’esperienza primigenia del diritto arcaico (il quale si presentava come un insieme di formule e di riti magico-religiosi). Come ha giustamente av­ vertito Santi Romano, «per ogni definizione del diritto la (M) R. Arnheim, Order and Complexity in Lascape Design, in The Concept of Order, cit., pag. 153 ss. 3. V. Erosimi

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pietra di paragone è specialmente data dal cosiddetto pro­ blema del diritto internazionale e non sarà, per conseguenza, inutile saggiare ad essa anche la nostra » (37); affermazione che potrebbe essere condivisa da altri insigni teorici del di­ ritto di questo secolo, come Kelsen e Ross, studiosi attenti de­ gli stessi problemi. La società giuridica internazionale infatti «in un certo senso si è potuta dire anarchica » per significare la sua con­ dizione policentrica, sottratta all’autorità di un potere so­ vrano unico; ma anche per designare lo stato di disordine giuridico, ossia di compresenza conflittuale di ordini norma­ tivi diversi, largamente irrelati fra loro, ma coincidenti in una situazione strutturale complessiva, che determina la loro interrelazione. L’ordinamento giuridico internazionale non può essere identificato in una ragnatela normativa sostenuta dalla norma fondamentale; ma non può nemmeno ridursi ad una somma di relazioni di diritto esterno fra i singoli Stati sovrani. L’errore generativo di equivoco in entrambe le due soluzioni alternative del problema è dovuto al collocarsi del­ l’interprete in una prospettiva unitaria, che non tiene conto dell’intersecazione degli ordini di diritto scritto e di diritto non scritto, di fatti consuetudinari e di norme pattizie, di convivenza e di belligeranza. L’ordinamento invece esiste proprio in quanto processo epimorfico, cioè produttivo di forme giuridiche intese non nel senso ristretto di enunciati normativi ma in quello di strutture e situazioni regulative della prassi nei rapporti di carattere internazionale (3S). Si consideri ancora l’episodio più rilevante e quasi em­ blematico della nuova esperienza giuridica dell’Europa mo-

(37) S. Romano, L’ordinamento giuridico, cit., pag. 44; la definizione seguente della società giuridica internazionale è in Frammenti, cit., pag. 222; si ricordi che venne scritta nel 1944.

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derna, e cioè il modello di ordinamento progettato e impo­ sto da Napoleone in continuità col processo epimorfico sca­ turito dalla Rivoluzione francese. Era un ordinamento con­ cepito come complesso di garanzie di un ordine sociale (in­ teso come gerarchia di forze e come rapporto di potere e di soggezione) e come instaurazione di un principio regolativo unitario e coerente nella legislazione; eppure questa meto­ dologia pratica fondata sul culto dell’ordine potè essere giu­ dicata come tipicamente disordinatrice da avversari politici come B. Constant, che riconobbe in essa il segno del dispo­ tismo sovvertitore, e da giuristi teorici come C. von Savigny, che ad essa oppose la vocazione spontanea all’ordine giuri­ dico di una società omogenea (39).

7. Ordinamento, organizzazione e avvaloramento. Sebbene un’analisi critica, che sia scevra da pregiudizi dogmatici di scuola e da timori reverenziali di tradizione, valga ad eliminare dalla nozione di ordinamento giuridico quell’alone luminoso, che gli è stato conferito dal culto pro­ fano di generazioni di giuristi, resta fermo il fatto che quella formula ha esercitato, e continua ad esercitare, un potere ri­ levante d’attrazione per l’interesse degli studiosi ed anche ha mostrato di possedere una pratica utilità per gli operatori del diritto. Non si può cancellare con un tratto di penna un mof38) Si consideri la serie di conseguenze derivate dai lanci di satelliti artificiali, e le osservazioni in V. Frosini, 11 nuovo diritto spaziale, Genova, 1969, rist. in Teoremi, cit., pag. 241 ss.; dell’ampia letteratura, qui si ricorda F. Durante, Responsabilità internazionale e attività cosmiche, Padova, 1969, con bibliografia, ad integrazione del nostro saggio citato. f39) Della vasta letteratura su Savigny, qui ci si limita a richiamare l’acuto riesame compiuto da W. Wilhelm, Metodologia giuridica nel secolo XIX, trad. it. di P. L. Lucchini, Milano, 1974; A. Mazzacane, Savigny e la storiografia giuridica tra storia e sistema, in Scritti in onore di S. Pugliatti, IV, Milano, 1978, pag. 513 ss.; G. Marini, F. C. von Savigny, Napoli, 1978.

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dello di riferimento f0), che esplica tuttora una sua fun­ zione sul piano della comunicazione dell’esperienza giuri­ dica, ma si devono piuttosto indicare le ragioni della sua per­ sistenza, insieme a quelle della sua riconosciuta insufficienza, e della nuova adeguazione richiesta sul piano dell’analisi me­ todologica. Privato dei caratteri ad esso attribuiti dalla mitologia giu­ ridica (l’unità trascendente, coerenza rigorosa, la comple­ tezza assoluta), l’ordinamento giuridico, come insieme di ordini normativi in ridondanza, come procedimento epigenetico delle forme, come situazione complessa di rapporti fra le azioni, mantiene tuttavia la sua importanza, che è la se­ guente. Esso serve a designare un morfema giuridico nelle sue dimensioni ontologiche pratiche, a isolarlo, individuarlo e confrontarlo con altri morfemi della prassi, a ordinare cioè la varietà dei fenomeni giuridici in una struttura come sche­ ma originario di riferimento e di giudizio, principio espli­ cativo della conoscenza giuridica intesa come procedimento operativo della mente (41). Il diritto può essere definito con diverse formule dai suoi teorici, ma, per essere conosciuto e praticato (o manipolato) dai giuristi nella riflessione o nella professione, esso deve presentarsi in una sua determinazione reale, ontologica, ed è così che esso assume la figura (o Gestalt, come la designò il Goethe) di un ordinamento giuridico positivo. Esso è la forma comprensiva di un’esperienza pratica dei comporta­ menti da agire e da valutare, entro cui si muove il giurista. Il ciclo vitale della nozione di ordinamento giuridico non può dunque ancora considerarsi esaurito; essa anzi è ve-(*) (*) E. N. Di Robilant, Modelli nella filosofia del diritto, Bologna, 1968. (4I) Questa metodologia della conoscenza giuridica, che si vale di in­ dicazioni della dottrina morfologica di Goethe, è stata ragionata in V. Ero­ simi, La struttura del diritto6, Milano, 1977.

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nuta estendendo il suo campo di funzionalità, giacché sulla traccia segnata dai noti contributi di Widar Cesarini Sforza, altri ne sono seguiti, che si valgono del paradigma dell’or­ dinamento anche per l’esame dei fenomeni pratici e di re­ golamenti normativi del tutto autonomi rispetto all’organi­ smo giuridico del diritto positivo statale. Si è già accennato in precedenza alla rilevazione della organizzazione giuri­ dica interna dei sindacati ed alla loro capacità di connet­ tersi con gli istituti del diritto del lavoro; ma sotto il pro­ filo ordinamentale vengono fatti rientrare anche gli altri fe­ nomeni associativi meritevoli di considerazione nel mondo contemporaneo, come quelli sportivi, in cui l’analisi socio­ logica può rilevare una forma anomala ed autonoma di espe­ rienza giuridica (42). La stessa nozione di soggettività giu­ ridica, è stato osservato, «acquista la sua autentica consisten­ za e rivela la sua complessità profonda in relazione ai diversi piani e settori dell’ordinamento giuridico rispetto ai quali consegue, di volta in volta, una dimensione particolare e di­ stinta » (43); come può constatarsi con riferimento proprio al diritto sindacale. Per « ordinamento giuridico » si continua tuttavia a de­ signare nell’uso linguistico dominante della cultura giuri­ dica il macroordinamento statale, considerato da Hegel in poi come l’ordinamento comprensivo di ogni altro ordina(42) Sulla tracia delle note indagini di W. Cesarini Sforza, il diritto dei privati (1929), Milano, 1963; In., La teoria degli ordinamenti giuridici e il diritto sportivo, in Foro it., 1938, I, 1, pag. 1391 ss., v. G. Consolo, Sport, diritto e società, Roma, 1976. (43) F. Alcaro, Riflessioni critiche intorno alla soggettività giuridica, Milano, 1976, pag. 38; v. anche P. Barcellona, Il problema del rapporto fra soggetto e ordinamento, in Scritti in onore di S. Pugliatti, cit., I, pag. 45 ss.; B. Montanari, Diritto soggettivo ed esperienza sindacale, in Riv. dir. civ., 1978, XXIV, pag. 442 ss.; applicazioni particolari delle nozioni in A. Mura, Ordinamento forestale e problemi montani, Milano, 1973, pag. 65.

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mento minore ed esclusivo di altri ordinamenti ad esso ester­ ni. È l’ordinamento che viene identificato nella sua unità di principio della sistematica normativa e nei caratteri ge­ nerali del suo contenuto, facendo ricorso ad una tecnica di avvaloramento, con cui viene qualificato per mezzo di un valore o di un grappolo di valori, che «sono in effetti de­ terminati dalla strutturazione metodica delle tecniche ope­ rative (le procedure, le garanzie) » (44). Questo avvaloramento si verifica grazie ad una tecnica di inserimento di contenuti assiologici (di carattere morale o politico o genericamente civile) nella ragnatela normativa, e si conclude con l’enucleazione dei «princìpi generali del diritto» (come vennero chiamati nell’art. 3 delle disposizio­ ni generali del codice civile del 1865), o « princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato» (secondo la formula rinnovata dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice ci­ vile del 1942), o « Disposizioni di principio » (comprensive degli art. 1-12 della Costituzione italiana del 1948), o anche « princìpi di ordine pubblico », che è espressione derivata dall’art. 6 del code Napoléon e diffusa nella dottrina (45). Un ordinamento giuridico è dunque sempre strettamente connesso, nel suo fondamento di obbedienza spontanea, abi­ tudinaria e diffusa ai suoi meccanismi di potere, con una ideologia civile, che ha sostituito nell’Europa moderna la antica e pervadente credenza religiosa, persistente nei paesi islamici ed altrove. In questo senso, le norme giuridiche di un ordinamento, nella loro conversione in strutture dell’azio­ ne sociale, assolvono ancor oggi alle funzioni che ebbero gli antichi riti e le formule sacrali, sicché l’ordinamento nel suo f44) G. Marchello, Valori e tecniche di avvaloramento, Torino, 1972, pag- 127. (45) G. B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del con­ tratto, Milano, 1970, pag. 45 ss.

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complesso rappresenta una premonizione collettiva dei com­ portamenti da tenere; non soltanto nella sede dei tribunali ad opera dei giudici, come è stato sostenuto da una corrente dottrinaria (46), ma nella prassi della vita quotidiana, di cui è sempre partecipe la vita del singolo soggetto mercé la sim­ bologia normativa di una logica collettiva dell’azione nella varietà dei suoi ordini. 8. Critica dell’ordinamento giuridico come apparato san­ zionatolo. Lo spostamento del centro focale dell’indagine giuridica dalla norma all’ordinamento, che caratterizza l’esperienza contemporanea, ha comportato un riesame ed una riproposi­ zione del tradizionale ma controverso rapporto tra diritto e forza, che si specificava in termini normativi in quello fra precetto giuridico e sanzione (punitiva o premiale) e in ter­ mini ordinamentali in quello fra principio organizzativo e coattività. Si è infatti richiamata l’attenzione sulla diversa prospettiva in cui il problema si colloca nella trasformazione in atto degli ordinamenti, in cui acquista rilievo il loro ca­ rattere promozionale (47). Va preliminarmente osservato, che l’attribuzione del ca­ rattere preminente di coattività al diritto come strumento, esercizio, organizzazione stessa della forza sociale sul sin­ golo, è stata intesa come qualificazione necessaria per di­ stinguerlo dalle altre forme morali del comportamento as­ sociativo, come l’amicizia o la carità, per cui il diritto tra­ scende il rapporto intersoggettivo in quanto esso si pone in (46) G. Tarello, Il realismo giuridico americano, Milano, 1962; A. Ross, Diritto e giustizia, trad. it. di G. Gavazzi, Torino, 1965; in Italia va ricorda­ ta la teoria di G. Allorio, Problemi del diritto, I. L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale ed altri studi, Milano, 1957. (47) N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione, cit.

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definitiva come rapporto fra il soggetto e l’ordinamento stes­ so, fondato non sulla libertà ma sulla costrizione (48). Que­ sta concezione si è formata peraltro come proiezione ideo­ logica di una determinata condizione storico-politica con l’affermarsi degli ordinamenti giuridici delle monarchie mo­ derne, giacché era impensabile nel corso della precedente esperienza giuridica, fondata sull’intreccio fra gli ordini del­ la società civile, della comunità religiosa e dell’organizza­ zione politica. Basterà ricordare, come documento signifi­ cativo del mondo arcaico, la rappresentazione emblematica of­ ferta dalla Orestiade di fischilo. La conclusione di un pro­ cedimento riduttivo di tutta la varia fenomenologia giuridica al rapporto coattivo del diritto come divieto e minaccia è quella esemplata nella formulazione del Kelsen, « che un ordinamento giuridico, sebbene non tutte le sue norme sta­ tuiscano atti coercitivi, può tuttavia essere definito come or­ dinamento coercitivo» (49). È stato però osservato nella dottrina più recente, che nel­ l’attuale fase di transizione dallo Stato di diritto con fun­ zione prevalentemente garantistico-repressiva allo Stato so­ ciale ed assistenziale, tutto l’ordinamento giuridico assume una funzione diversa, che è prevalentemente promozionale. Il compito proprio del diritto sarebbe anzi quello di assicu­ rare un social welfare, agevolando « tutte le attività che, in un modo o nell’altro, si ritiene promuovano quello che si considera rilevante per la prosperità sociale» f50). Viene così riconosciuto al diritto il suo carattere precipuo di insieme di direttive della vita sociale; ma sotto il profilo metodologico,(*) (*) L. Lombardi Vallauri, Amicizia, carità, diritto, Milano, 1969; Io., Relazione, in II diritto come ordinamento, cit., pagg. 9-48. (f9) H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., pag. 71. (f°) V. Lundstedt, Legal Thinking Revised, Stoccolma, 1956; S. Castignone, La macchina del diritto, Milano, 1974, pag. 129.

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questo rovesciamento di prospettiva comporta la riduzione dell’ordinamento ad una immagine speculare rispetto a quel­ la precedente. Del resto, si tratti di punire e di reprimere, ovvero di premiare e di promuovere i comportamenti sociali, l’ordinamento giuridico continua ad essere considerato come un apparato sanzionatorio di forza, esercitata direttamente o indirettamente come pressione psicologica. Va però osser­ vato che, come è stato messo in evidenza dalla dottrina con­ temporanea, l’ordinamento giuridico non è un meccanismo di regolazione della vita sociale fondato sulla forza, e cioè una forza organizzata; ma è invece un insieme di regole o strutture che disciplinano l’organizzazione della forza (51). Si tratti di sanzione punitiva o promozionale, questa con­ ferma e rafforza la direttiva dell’azione, ma non può sosti­ tuirsi ad essa, se non operando un’inversione di tempi e condizioni; e lo stesso ordinamento giuridico non può essere costretto nel letto di Procuste dell’unica dimensione sanzionatoria. La contrapposizione, che si è stabilita fra sanzioni puni­ tive e sanzioni promozionali, non va comunque elevata a dualismo categorico: possono darsi infatti sanzioni, che svol­ gono insieme una funzione negativa o repressiva ed una fun­ zione positiva od incentiva, a seconda di come si consideri il loro ordine di appartenenza. Un caso di particolare interesse è quello costituito dalle sanzioni, che toccano lo stesso or­ dinamento in quanto tale nel suo processo di assestamento, come sono le sanzioni costituzionali, che nel sistema giuri­ dico italiano sono rappresentate dalla sentenza costituzionale e dal referendum abrogativo. (51) N. Bobbio, Diritto e forza, in Studi per una teoria generale del di­ ritto, Torino, 1970, pag. 119 ss., su cui v. le osservazioni di K. Olivecrona, On the problem of Lato and Force in Recent Literature, in RIFD, 1976, LIII, pag. 548 ss., e la replica di Bobbio, ivi, 1977, LIV, pagg. 414-416.

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Abrogando una norma emanata dal potere legislativo per­ ché in contrasto con la disposizione costituzionale, il giudice costituzionale pronuncia una sentenza con efficacia negativa, che costringe ad una revisione dei comportamenti giuridici e promuove un intervento (o una serie di interventi) a ca­ rattere positivo. Non può essere considerata soddisfacente la dottrina, enunciata dal Kelsen, che interpreta l’opera della Corte costituzionale nel senso di una semplice «legislazione negativa»; nella esperienza giuridica della Corte costituzio­ nale italiana, come in quella più antica della Corte federale statunitense, è manifesto che la giustizia costituzionale at­ tua anche una funzione promozionale. La dottrina della le­ gislazione negativa trova più precisa applicazione nel caso del referendum abrogativo di una legge emanata dal parla­ mento a seguito di una iniziativa extraparlamentare di carat­ tere politico, che non è riconducibile ad alcuno dei poteri pre­ visti dallo schema dell’ordinamento giuridico. Il procedimento sanzionatorio di un comportamento politico può tuttavia ri­ solversi nel caso in questione anche in un risultato di pro­ mozione di comportamenti sociali (52). L’impossibilità teorica di ridurre l’ordinamento giuridico ad apparato sanzionatorio e cioè a meccanismo coattivo ap­ pare evidente nel campo dell’esperienza giuridica interna­ zionale, in cui l’ordinamento giuridico è chiaramente privo di una forza giuridica centralizzata. L’attribuzione di un carattere sanzionatorio repressivo al fenomeno bellico, che è stata enunciata da certa dottrina, è il risultato di un contor­ cimento dialettico; in realtà, l’esistenza di regole di compor­ tamento che disciplinano l’opera distruttiva della guerra di(S2) L. Ventura, Premesse ad uno studio sulla sanzione costituzionale, Messina, 1977.

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mostra per l’appunto che il diritto non si identifica con la forza coattiva, ma concerne il suo uso e la sua regolazione.

9. Dalla forma chiusa alla struttura aperta. Il vero e solo fondamento su cui può reggersi e durare un ordinamento giuridico non è infatti la forza materiale, di cui esso deve tuttavia avvalersi, ma è l’atteggiamento di sog­ gezione e di obbedienza verso il complesso degli istituti, delle leggi e dei valori che lo compongono, mantenuto dai por­ tatori dell’azione giuridica: quello che è stato chiamato il principio di obbligazione politica. Un ordinamento giuridico sussiste finché trova corrispondenza nel sentimento diffuso di appartenenza ad una stessa comunità, in quello che è stato definito lo spirito di convivenza per distinguerlo dal rap­ porto di contiguità fra appartenenti a comunità diverse (53): esso non consiste perciò nella somma o sintesi di proposi­ zioni normative giuridiche, giacché nella condizione attuale di continua moltiplicazione delle leggi e di ridondanza degli ordini di un sistema complesso sarebbe difficile immaginare possibile la conoscenza e l’adempimento delle norme di un ordinamento se non in forma frammentaria. L’uomo vivente in comunità avverte il suo permanente condizionamento pratico, che consiste nel fatto di non poter svolgere, assicurare, modificare o persino comunicare la pro­ pria azione nella relazionalità sociale in cui essa di neces­ sità si inserisce, senza essere costretto ad adeguarla a certe strutture della prassi, che sono state predisposte e che gli vengono imposte dalla comunità come leggi dell’ordinamento (53) Sul problema dell’obbligazione politica, cfr. V. Frosini, La ragione dello Stato. Studi sul pensiero politico inglese contemporaneo1, Milano, 1976.

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giuridico. Perciò la nozione di ordinamento giuridico, an­ cor prima di essere elaborata dalla riflessione teorica, si forma confusamente nella mente dell’uomo comune, il quale agi­ sce ed obbedisce alle leggi per garantire la continuità della sua vita ordinaria. La nozione attuale è stata infatti preceduta nell’età arcaica da quella di un ordinamento naturale del­ l’universo, alle cui leggi di natura l’uomo doveva sottomet­ tersi, e che si rifletteva anche nella sua condizione civile di fanciullo o di adulto. Lo stesso diritto naturale, di ispirazione religiosa o razionalistica, concepito nelle età intermedie fra quella primitiva e la nostra, è stato concepito come un or­ dinamento morale degli spiriti, celebrato e riverito per una sua coerenza e certezza in quanto sottratto al disordine im­ manente nell’esperienza giuridica concreta. Ma l’ordinamen­ to giuridico positivo, come siamo venuti mostrando e dimo­ strando, non consiste in una forma già formata, bensì in un processo di strutturazione e destrutturazione della prassi so­ ciale, che è creativo e distruttivo delle forme giuridiche, non ordine ma disordine composto di ordini diversi e successivi. Esso si realizza non come l’esplicazione di una forma pre­ formata, ma come lo svolgimento di una struttura aperta nel­ l’ontologia dell’azione distaccata dal singolo e socialmente reificata, divenuta perciò una morfologia dinamica della prassi sociale. In conclusione, l’ordinamento giuridico può essere consi­ derato come il diritto nella sua configurazione concreta, e può essere criticamente definito come una situazione complessiva che collega e converte fra loro gli ordini normativi e le strut­ ture pratiche in un insieme conoscitivo ed operativo, che viene individuato nelle sue dimensioni costitutive secondo un certo àmbito e una certa durata, e viene convalidato se­ condo un certo procedimento di formazione e di conferma.

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Esso è composto di elementi reali: i soggetti che agiscono o patiscono, i fatti che si verificano, le norme che simbolizzano i comportamenti; inoltre, in ogni ordinamento giuridico è rilevabile un complesso di valori attinenti alla convivenza civile, il cui riconoscimento pratico con l’osservanza di di­ ritti e di doveri rende effettivo ed efficace lo stesso ordina­ mento. Un ordinamento giuridico non è un’entità chiusa ed ordinata, ma è un procedimento di continua ricomposizione dei rapporti fra gli ordini di cui consiste in condizione di precario equilibrio, fino a quando il disordine attivo finisce con la fine stessa dell’ordinamento nell’inerzia o nella di­ spersione (54).

(M) Poiché la nozione di ordinamento giuridico tende a coincidere, nell’uso lessicale della cultura giuridica italiana contemporanea, con quella più generale di « diritto », non è possibile fornire una compiuta bi­ bliografia. Qui si aggiunge qualche richiamo: per la dottrina straniera, K. Olivecrona, La struttura dell'ordinamento giuridico, trad. it. a cura di E. Pattalo, Milano, 1972; per la dottrina italiana, V. Gueli, Relatività storica e carattere convenzionale della qualifica di un ordinamento giuridico, in Scritti vari, t. 2, Milano, 1976, pag. 1131 ss.; per la metodologia neostruttura­ lista della nozione di « ordine » nella filosofia scientifica, I. Prigogine, La nuova alleanza. Uomo e natura in una scienza unificata, trad. it. di Morchio, Milano, 1979.

NEOSTRUTTURALISMO

E DIALETTICA FUNZIONALE NEL DIRITTO

1. Sui rapporti fra struttura e funzione.

Nel corso degli anni Settanta, importanti trasformazioni sopravvenute sull’orizzonte della metodologia delle scienze hanno trovato la loro sistemazione in un profilo complessivo dai precisi contorni; in questo paesaggio deve incedere an­ che lo studioso di scienze sociali, fra le quali vanno com­ prese la teoria e la sociologia del diritto. Sul problema della distinzione di caratteri e di compiti fra la prima e la seconda delle scienze giuridiche menzionate, venne aperto, come è noto, un ampio dibattito Q. Per intanto, basterà limitarsi ad osservare che quella distinzione non è assoluta, giacché essa si risolve in un continuo confronto e in un rapporto di con­ versione dell’una nell'altra, per quanto concerne i motivi di pensiero, gli interessi di ricerca e la stessa attività di produ­ zione scientifica degli studiosi di entrambe le discipline. Ne­ gli ultimi anni, l’esempio più rappresentativo di un itine­ rario mentale, in cui si verifica lo spostamento da una car­ reggiata all’altra per operare un sorpasso, è quello costituito dalla pubblicazione in volume nel 1977 degli scritti di Nor­ berto Bobbio, che si presentavano come il proseguimento dei suoi Studi per una teoria generale del diritto del 1970, ma che spostavano la direzione dell’indagine sull’aspetto sociolo­ gico del diritto, come apparve sin dal titolo emblematico del libro, Dalla struttura alla funzione. Lo stesso Bobbio, infatti, mise in evidenza « il nesso strettissimo fra teoria strutturale (’) Cfr. Sociologia del diritto, 1974, vol. I, pagg. 1-9; 285-302. Per ulteriori sviluppi sull’argomento cfr. R. Trbvbs, Introduzione alla socio­ logia del diritto, Einaudi, Torino, 1980 (2a ed,). 4. V. Frosim

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del diritto e punto di vista giuridico, da un lato, e teoria fun­ zionale del diritto e punto di vista sociologico, dall’altro» (2), e operò in tal modo una trasposizione di linea investigativa. Non bisogna però trascurare l’intima connessione, dimo­ strata del resto dalla stessa complessità delle considerazioni svolte dal Bobbio, fra i due termini di riferimento, struttura e funzione. Non si tratta di abbandonare la prima per la se­ conda, di sostituire l’una con l’altra, ma di ristabilire il rap­ porto fra le due, alla luce di una diversa interpretazione e di una nuova impostazione metodologica collegata agli svi­ luppi della scienza contemporanea, da cui quei termini sono derivati. Piuttosto che di punti di vista, o di categorie, o di canoni ermeneutici, si potrebbe parlare per esse di coordi­ nate conoscitive, che consentono di determinare la posizione di un problema concreto sul piano giuridico, di fare il punto nella navigazione sulla realtà dell’esperienza. La configurazione del rapporto fra struttura e funzione, che qui si intende prospettare, non va confusa nemmeno d’altronde con quella, che ha ottenuto larghi e facili con­ sensi, e secondo la quale i due termini formano una coppia indissolubile, come quella di due sorelle siamesi, giacché non c’è l’una senza l’altra. E infatti, esse sono state strettamente congiunte fra loro nell’analisi sociologica, e in particolare nella sociologia giuridica, dai fondamentali lavori di Talcott Parsons e di A.R. Radcliffe-Brown, che risalgono agli anni Trenta (3), con le loro indicazioni di una teoria struttural(2) N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione, Edizione di Comunità, Milano, 1977, pag. 90. b) Sull’opera di T. Parsons, v. l’attento bilancio critico di P. De Nardis, Diritto e società in T. Parsons, De Domine, XIII, 1974, n. 51-52, pagg. 91-128. Di A. R. Radcliffe Brown, v. Struttura e funzione nella so­ cietà primitiva, Jaca Book, Milano, 1972, trad. L. Conforti (scelta di saggi a cura di E. E. Evans-Pritchard e F. Eggan). Per una rassegna generale della concezione funzionale, v. Treves, op. cit., pag. 389 e ss.

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funzionalista, fino ai recenti e rilevanti contributi di Niklas Luhmann, la cui concezione può essere compendiata nella formula di un «funzionalismo strutturale».

Non si tratta, questo è ovvio, di far giochi di parole o di costruire pseudo-concetti, il cui uso è ambiguo ed elusivo; gli studiosi, di cui si sono ricordati i nomi, certamente non lo hanno fatto, giacché ad essi importava non già l’etichetta, ma la composizione operante e produttiva dei due elementi in questione. Una applicazione delle loro formule riassuntive può tuttavia risolversi, se compiuta da altri con una manipolazio­ ne intellettuale meccanica e approssimativa, in un camuffa­ mento dei problemi reali del diritto in modi compromissori e convenzionali di rappresentazione dei rapporti fra struttura e funzione. Sarebbe infatti assai comodo, e troppo semplice, risolvere i problemi stabilendo un rapporto di corrispondenza e di equivalenza necessaria fra la struttura e la funzione di un ordinamento, o di un istituto, o di un atto giuridico. Come ha rilevato acutamente lo stesso Bobbio, vi sono infatti, oltre alle funzioni positive, anche le funzioni negative, che non sono da confondere con le disfunzioni (insufficienza o addi­ rittura mancanza di funzionamento), ma che sono invece proprio delle funzioni svolte con segno negativo rispetto alla destinazione sociale delle loro strutture portanti. Ad esempio, il potere organizzato delle forze che dovrebbero tutelare l’or­ dine pubblico, in certe circostanze può funzionare male, in certe altre potrebbe funzionare troppo bene, e sovrapporre un ordine parziale all’ordine pubblico totale. Inoltre, come ha illustrato Luhmann, vi sono anche le funzioni latenti, cioè non avvertite con piena consapevolezza dalla comunità in cui operano le strutture, ma che emergono nell’analisi so­ ciologica: tali, ad esempio, sono certe funzioni svolte dalla

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giurisdizione, e cioè dall’apparato giudiziario, nel sistema democratico dello stato di diritto (4). Nell’esperienza giuridica si riscontra del resto anche una reversibilità dei caratteri strutturali; talvolta per decifrarla essa va letta all’incontrario, come la scrittura segreta di Leo­ nardo da Vinci, giacché rappresenta il «rovescio» di quello che viene comunemente oggi definito come « diritto posi­ tivo», la sua alternativa e contrapposizione di regole di con­ dotta. È stato G.F. Hegel, con profonda intuizione, a parlare di una « essenza negativa della legge divina della famiglia », quella che Antigone oppone alla legge positiva del tiranno Creonte ed alla quale si appella perché essa è il residuo di un ordine tribale ancora gravido di suggestione luminosa, e con essa giustifica la sua separazione dall’obbedienza alla legge comune (’). Si può dunque definire come « diritto ne­ gativo», per la sua stessa strutturazione, quel diritto che in varie forme ed attuazioni si oppone al diritto della comunità giuridicamente organizzata, e cioè allo stato, per noi mo­ derni. Un esempio evidente è quello offerto, nel campo del diritto internazionale, dal diritto degli insorti, che rappre­ senta talora un rovesciamento radicale del diritto vigente in uno stato (non solo dell’ordinamento costituzionale, ma an­ che degli istituti di diritto privato), e che tuttavia ha indub­ biamente esistenza e vigenza. Diritto negativo è stato a lun­ go quello delle associazioni professionali dei lavoratori, non riconosciute ed anzi considerate giuridicamente illecite, ma (4) N. Luhmann, Le funzioni della giurisdizione nel sistema politico (1969), in Stato di diritto e sistema sociale, trad. F. Spalla, con Introduzione di A. Febbrajo, Guida, Napoli, 1978, pag. 53 e ss.; Sociologia del diritto (1972), a cura di A. Febbrajo, Laterza, Bari, 1977. (5) G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1973, vol. II, pag. 14 e ss.; su cui V. Frosini, Il diritto di famiglia nella teoria generale del diritto, infra, pag. 113 e ss.

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operante con forza e con diffusione sempre crescente in for­ me negative (sciopero, boicottaggio di merci, solidarietà pas­ siva), finché si è affermato come diritto positivo esso stesso, col riconoscimento di funzioni positive, anche quando esse vengano svolte da strutture rimaste giuridicamente negative, come associazioni di fatto non riconosciute.

2. Dall’ordine al disordine.

Si è accennato, all’inizio delle presenti considerazioni, alla trasformazione verificatasi nella visione scientifica del mon­ do, cioè nei suoi modelli e metodi di conoscenza. Il muta­ mento si potrebbe designare, con un titolo emblematico ap­ posto sull'ultimo capitolo del libro ideale della scienza, in questi termini: «Dall’ordine al disordine». Il secondo ter­ mine ha però acquistato un nuovo significato, come presto vedremo. Tale mutamento era stato annunciato, già alla fine del de­ cennio precedente, dalla apparizione di alcune stelle comete, che avevano subito gettato una nuova luce nel firmamento delle idee. Mi riferirò in particolare a due sole opere fra le altre che potrebbero essere ricordate, perché esse hanno avuto una pregnanza culturale non comune. La prima di esse è la raccolta di saggi curata da Paul G. Kuntz, che riuniva i con­ tributi di venti studiosi ad un seminario interdisciplinare te­ nuto nell’anno accademico 1963-64, e che venne pubblicata nel 1968 sotto il titolo di The Concept of Order. In realtà, l’interesse degli scienziati, dei filosofi e dei sociologi radu­ nati risultò maggiormente rivolto al concetto opposto, quello di disordine. Giacché, come disse James K. Feibleman, « il disordine non è nient’altro che l’ordine dell’universo: il di­ sordine rappresenta il concetto più comprensivo, e l’ordine

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un caso particolare. Il disordine è infatti la ricca matrice, da cui nascono gli ordini parziali » (6). Non c’è bisogno di insistere sul fatto che l’immagine pre­ sentata all’uomo contemporaneo dall’universo astronomico è completamente opposta a quella conosciuta dagli antichi, ed anche a quella accettata dai moderni fino alla soglia nel no­ stro secolo. Nessuno potrebbe oggi ritenere con Dante che « le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma — che l’universo a Dio fa simigliante » (Paradiso, c. I, vv. 103-105), perché il cosmo ha assunto i caratteri di un caos, percorso da esplosioni e da catastrofi stellari, dove il sistema solare rappresenta un angolo relativamente tran­ quillo nel suo insieme. E nemmeno si può più prestar fede all’universo-macchina di Galilei e di Newton, costruito una volta per tutte, scritto in caratteri matematici, sottomesso alle leggi della meccanica razionale. L’universo si rivela co­ me un multiverso, una molteplicità di ordini in successione o in conflitto fra loro, nel quale sono presenti anche dei « buchi neri » e forse perfino l’antimateria. Ma è nel campo del microcosmo, che la rivoluzione scien­ tifica ha prodotto un risultato ancora più sconvolgente, per­ ché si tratta non di mondi lontani, ma di un mondo a noi assai vicino, anzi propriamente del nostro mondo, quello della vita umana. Mi riferisco all’opera di Jacques Monod (premio Nobel per la fisiologia del 1965) intitolato 11 caso e la necessità, saggio sulla filosofia naturale della biologia con­ temporanea, apparso nel 1970. Il pensiero di Monod è ormai largamente conosciuto an­ che in Italia, grazie anche alla qualità della sua prosa, ed è stato assai dibattuto; non potendo esporlo, mi limiterò qui (6) J. K. Feibleman, Disorder, in The Concept of Order, ed. by P. G. Kuntz, Univ, of Washington Press, 1968, pag. 12.

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a ricordare una delle immagini più famose, che lo riassume in una fulminante metafora. Come egli scrisse a proposito della specie umana, «l’universo non stava per partorire la vita», né la biosfera la specie umana; «il nostro numero è uscito dalla roulette; perché dunque non dovremmo avver­ tire l’eccezionaiità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?» (7). La roulette evocata da Monod come immagine dell’universo è un bell’esempio di struttura del disordine, come ogni gioco d’azzardo, le cui regole hanno la funzione di sconvolgere continuamente un possibile ordine di previsione ed attribu­ zione di vincita.

Invero, la grande novità della scienza contemporanea, già nota all’inizio del secolo, è la scopetra dell’entropia, colle­ gata alla seconda legge della termodinamica sul disordine crescente; il quale disordine, in una perfetta definizione da­ tane da Rudolf Arnheim, « non è l’assenza di qualsiasi or­ dine, ma piuttosto lo scontrarsi di ordini privi di mutuo rapporto» (8). Il disordine consiste cioè in un eccesso o ri­ dondanza di ordini, com’è quello che si produce a causa delle interferenze nelle trasmissioni telefoniche o radiofo­ niche o televisive, e che tutti abbiamo talora sperimentato. Questo fenomeno era stato puntualizzato nella sua impor­ tanza conoscitiva già da Claude Shannon nella geniale Teo­

(?) J. Monod, Il caso e la necessità, saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, trad. A. Busi, Est-Mondadori, Milano, 1970, pag. 118. (8) R. Arnheim, Order and complexity in landscape design, in The Concept of Order, cit., pag. 155; trad, in Verso una psicologia dell’arte, Einaudi, Torino, 1969, pagg. 163-68; Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine, trad. R. Redio, Einaudi, Torino, 1974. P) C. E. Shannon e W. Weaver, La teoria matematica delle comuni­ cazioni (1949), trad. P. Cappelli, Etas Kompass, Milano, 1971, pag. 61.

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ria matematica delle comunicazioni (9); successivamente però H. von Foerster precisava che il rumore, cioè il disturbo fo­ nico che è causale del disordine comunicazionale, può essere considerato esso stesso come un principio di autorganizzazione (10* ). Ne deriva che l’entropia è anch’essa una misura di informazione, sia pure di ordine negativo, e che bisogna at­ tuare, come suggerisce Edgar Morin, « due strategie conosci­ tive, una che riconosca il singolo, l’individuale, il contingen­ te, l’improbabile, il disordine e l’altro che colga la regola, la legge, l’ordine» ("). Ma queste due strategie ne fanno in verità una sola, che si è sottratta alle vecchie chiusure dogma­ tiche, e che riconosce una nuova potenzialità nella conoscen­ za strutturale. La novità non è soltanto di carattere episte­ mologico, d’altronde; essa balena persino in un riflesso del costume sociale, se un sociologo, Francesco Alberoni, ha po­ tuto chiedersi, stupefatto, come «spiegare quella vena di gio­ co, di ottimismo, di indifferente trasgressione che è tanto nel­ l’alta cultura come nel comportamento quotidiano. Da dove nasce la visione ottimistica del disordine, della felicità come entropia ? » (12). Questa sommaria premessa sul rivolgimento scientifico contemporaneo di nozioni tradizionali è stata necessaria per introdurre un riferimento alla concezione del nuovo strut­ turalismo, che è stata formulata da Ilya Prigogine (premio Nobel per la chimica del 1977), e che ora è stata resa accessi­ (10) H. Altan, Sul rumore come principio di auto-organizzazione, in Teorie dell’evento, a cura di E. ‘Morin, trad. S. Magistretti, Bompiani, Milano, 1974. (n) E. Morin, L’evento sfinge, in Teorie dell’evento, cit., pag. 272; su cui V. Frosini, Il diritto di grazia fra la regola e l’eccezione, infra, pag. 93 e ss. (12) F. Alberoni, La felicità del disordine dopo il crollo dei miti, in Corriere della Sera del 18 nov. 1979, pag. 1.

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bile al pubblico dei lettori italiani nella sua opera La nuova alleanza (13). Prigogine parte anch’egli dalla constatazione che la na­ tura «non è più abitabile dall’antico cittadino di un mondo armonioso», e che la scienza «fa appello ad un pensiero dell’uomo disancorato dal fantasma del centro referenziale fisso, del punto di ancoraggio, verità soprannaturale o cogito fenomenologico» (pag. 150); ma afferma che la fisica «do­ vrebbe associare a sé in modo indissolubile quelle nozioni di struttura, di funzione, di storia che la fisica classica negava » (pag. 272). Egli propone una nuova nozione di ordine, e con essa di struttura e di funzione, che trovano tutte la loro verifica sperimentale nella chimica molecolare, ma possono essere applicate anche al di fuori di essa. Anche « l’organiz­ zazione biologica e sociale implica un nuovo tipo di strut­ tura », scrive Prigogine, « che richiede una spiegazione diffe­ rente rispetto a quella delle strutture di equilibrio, come i cristalli. Una caratteristica comune delle strutture sociali e biologiche è che esse si verificano in sistemi aperti e che la loro organizzazione dipende vitalmente dallo scambio di ma­ teria ed energia con il mezzo circostante » (pag. 18). Ora, per designare questo nuovo tipo di struttura, che si differenzia profondamente da quello di una forma chiusa, di un sistema isolato, di una struttura inerte, Prigogine ha coniato il ter­ mine di «struttura dissipativa». Questa struttura non è in equilibrio statico (dei suoi com­ ponenti), ma è in condizione metastabile, in quanto essa è il risultato di una rottura dell’equilibrio precedente, essa è il segno di uno stato di crisi e di incertezza, dovuto all’insor(13) I. Prigogine, La nuova alleanza. Uomo e natura in una scienza unificata, trad. R. Morchie, Presentazione di G. Toraldo di Francia, Longanesi, Milano, 1979. Le cit. dal voi. saranno inserite fra parentesi nel testo.

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gere di una fluttuazione all’interno, cioè di un processo di turbamento e di disordine, che però finisce col generare « un nuovo tipo di ordine implicante un comportamento organiz­ zato e coerente dei costituenti del sistema. Il modo di fun­ zionamento della struttura dissipativa (che scambia e che consuma energia) non può essere giustificato senza riferi­ mento all’elemento imprevedibile della fluttuazione, di cui essa costituisce l’amplificazione stabilizzata» (pag. 271).

3. Vecchio e nuovo strutturalismo. Dalle indicazioni riferite della nuova visione scientifica, che è emersa negli ultimi anni, appare ormai definitivamente superata la nozione di struttura come ordine chiuso, o si­ stema, a cui si ispirò la dottrina di Hans Kelsen e dei suoi seguaci. Giacché come è stato osservato da Bobbio, «con Kelsen compare per la prima volta nella teoria del diritto la rappresentazione dell’ordinamento giuridico come sistema che ha una certa struttura, e che è caratterizzato proprio dal­ l’essere questa e non quella struttura » (14). Si tratta di una struttura pensata more geometrico, cristallografica, per la quale il Kelsen fece ricorso perfino a figure di stereometria. Così, per definire lo spazio di competenza giuridica di un ordinamento statale, egli immaginò un cono a contorno pe­ riferico irregolare, il cui vertice sia posto al centro della terra e la cui base si allarghi infinitamente al di sopra, conchiuso in se stesso (15). Questa struttura costituisce un sistema isola­ to, sospeso alla propria Grundnorm, ed escluso da commi(14) N. Bobbio, op. cit., pag. 205; v. J. Raz, Il concetto di sistema giuridico (1970), trad. P. Comanducci, Il Mulino, Bologna, 1977. fl5) Sulla insostenibilità della configurazione kelseniana, specie dopo l’inizio dei lanci di satelliti artificiali, V. Frosini, Il nuovo diritto spaziale, in Teoremi e problemi di scienza giuridica, Giuffrè, Milano, 1971, pag. 241.

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srioni col mondo sociale in cui esso è collocato: onde la de­ signazione di «dottrina pura del diritto». Una visione ana­ loga, anch’essa fondata su un pregiudizio formalistico ri­ duttivo della realtà, è quella del diritto come ordinamento chiuso, autosufficiente, completo cioè privo di lacune, tema di un sofisticato dibattito giuridico (16). Da impostazioni di questo genere, che pure trovano la loro spiegazione genetica e la loro giustificazione ideologica nelle condizioni culturali del tempo in cui vennero elabo­ rate, deriva comunque una netta separazione fra teoria e so­ ciologia del diritto, e la mancanza di una valutazione funzio­ nale del diritto. Qui però interessa sottolineare piuttosto co­ me debba considerarsi limitativo e insufficiente lo stesso mo­ dello di struttura posto a fondamento delle dottrine ricor­ date, giacché esso derivava da un tentativo di emulazione concorrenziale con le scienze esatte, simile a quello compiuto dalla filosofia del « Circolo di Vienna » e dalla sua ramifi­ cazione americana ad opera specialmente di Rudolf Car­ nap (17).

Ben diverso da quello kelseniano, al quale Bobbio fa ri­ ferimento costante ed esclusivo nella sua critica, è stato però il significato attribuito al termine di «struttura» nella filo­ sofia, nella scienza e in parte anche nella dottrina giuridica durante la seconda età di questo secolo, da parte di quella corrente di pensiero, che si è qualificata sotto l’insegna di « strutturalismo ». Senza soffermarmi a tracciare un bilancio critico complessivo, si può avanzare qualche osservazione. La prima, di ordine generale, è che la nozione di strut­ tura, elaborata nei settori della psicologia sperimentale e del­ (16) A. Conte, Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, Giappichelli, Torino, 1964 (con bibliografia). (17) N. Bobbio, op. cit., pag. 190, ha colto bene questo punto.

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la linguistica e poi applicata anche in campo giuridico, ave­ va le sue radici teoriche nel terreno di una tradizione cul­ turale del tutto diversa da quella a cui si rifaceva il Kelsen; essa è stata tracciata, con sintesi magistrale, da Ernst Cassirer, ricollegando il suo significato a quello di Gestalt, di cui si era valso Wolfgang Goethe per la sua dottrina delle forme, o Morfologia (18). Dunque struttura come forma interna, flui­ da e non rigida, che è forma non di un contenuto (com’è nel Kelsen) ma di una materia; la quale, nel caso del diritto, consiste nell’azione come rapporto sociale, onde la definizio­ ne della teoria del diritto come « morfologia della prassi ». La seconda, d’ordine particolare, è che una concezione del­ la struttura giuridica come di un « insieme » ordinato e re­ golato di azioni e di situazioni, che trova espressione simbo­ lica e strumento di comunicazione nella norma giuridica, è tale da implicare una concezione della funzione del diritto come fatto pratico, come continua e necessaria conversione tra la norma e l’azione (19). La struttura, cioè, non è un’idea platonica con funzione di unità conoscitiva, e nemmeno è un «punto di vista», ma è una definizione pratica, un con­ cetto operazionale. La terza, infine, di carattere specifico, riferita alla socio­ logia del diritto, è la seguente. La struttura, così intesa, non «racchiude» l’atto, o l’istituto, o l’ordinamento giuridico in (18) Il saggio di Cassirer, apparso su Word, 1945, pagg. 99-120, è stato trad, parzialmente da G. C. Lepschy nel 1965, poi da S. Veca nel 1967 (in voi., 1970), e infine da G. R. Cardona in appendice a E. Cassirer, Saggio sull'uomo, Armando, Roma, 1972. Sul rapporto tra forma, contenuto e materia, W. Tatarkiewicz, Due concetti di forma e due concetti di contenuto, in Rivista di Filosofia, LII, 1961, pag. 3 e ss. Le opere scientifiche di J. W. Goethe, Naturwissenschaftliche Schriften, in Wer^e, Hamburger Ausgabe, Ch. Wagner, Band XIII, Hamburg, 1966; diverse trad. ita!. (w) V. Frosini, La struttura del diritto (1962), 6 ed., Giuffrè, Mi­ lano, 1977, pag. 38.

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una rete verbale o pseudoconcettuale, ma opera l’inserimento del dato giuridico normativo nella concretezza e contraddit­ torietà della prassi, cioè dell’attività sociale. Essa è pertanto ambivalente, può essere assunta in termini di rilevazione sia teorica, sia sociologica del diritto può essere riferita alla normazione scritta o alla fenomenologia del comportamento agito. Una struttura giuridica, intesa dunque in maniera mor­ fologica e non formalistica, non può essere considerata come definitiva, assoluta. Essa è invece coinvolta nella stessa vi­ cenda di trasformazione e di crisi a cui è soggetta la prassi o azione societaria, può cioè modificarsi, giacché essa vive, finché vive (in senso metaforico, non zoomorfico), in quanto essa si configura come una struttura dell’agire che si defini­ sce e si comunica nei simboli normativi. Essa è però generata e sostenuta e tramutata o travolta dall’impulso che proviene dalla prassi coi suoi interessi e i suoi conflitti, giacché essa è dissipativa (come dice Prigogine), cioè condizionata dal suo rapporto con l’ambiente sociale in cui si trova, per cui è soggetta a « fluttuazioni », cioè ad alterazioni dello stato di equilibrio. È opportuno fare qualche esempio illustrativo. Primo, l’ordinamento giuridico italiano: struttura complessa, for­ nita tuttavia di una precisa identità e continuità, considerata dunque come identica a se stessa pur essendo passata attra­ verso mutamenti decisivi, come quelli segnati dai passaggi dallo statuto liberale al regime fascista e da questo alla co­ stituzione repubblicana. Giacché, o si riduce la storia giuri­ dica dell’Italia unitaria ad una finzione e ad una serie di convenzionalismi verbali (ma allora non si fa più storia), o si accetta una sua continuità strutturale, ma non sistematica. Secondo, l’istituto della famiglia, che ha conosciuto varia­ zioni radicali nei rapporti fra i suoi componenti. La legge

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sullo scioglimento del matrimonio prima, e poi la riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151), comportano infatti la possibilità di autentiche mutazioni « strutturali » : si pensi alla famiglia risultante dalla dissociazione e ricompo­ sizione dovute ad un secondo matrimonio fra due coniugi en­ trambi divorziati e forniti di figli, fra i quali non c’è comu­ nanza di sangue. E terzo infine, il contratto di locazione e la sua regolamentazione giuridica vincolistica con la legge sull’equo canone del 27 luglio 1978, n. 392: la struttura del­ l’atto negoziale originario è stata profondamente modificata, pur mantenendo lo stesso nome e lo stesso titolo di contratto locativo. 4. La dialettica funzionale.

Il rapporto fra struttura e funzione del diritto non va posto in forma di alternativa o addirittura di opposizione fra due metodi di rilevazione, e nemmeno va eliminato nella confusione eclettica di un unico metodo indifferenziato. Bi­ sogna riconoscere che quel rapporto è snodato, è variabile, è precario, pur essendo ovviamente un termine (la funzione) condizionato dall’altro (la struttura) che ne rappresenta il presupposto, ma senza un vincolo rigido, di tipo logico (se A, allora B), o naturalistico (come quello esistente in bio­ logia fra l’organo e la sua funzione), o meccanicistico. Questa dissociazione metodologica è dovuta al fatto, che una stessa struttura giuridica può avere funzioni diverse, positiva e ne­ gativa, manifesta e latente, primitiva o successiva: ad essa cioè corrisponde una dialettica funzionale riferita all’am­ biente. Bobbio per esempio ha ricordato che vi è oggi una fun­ zione promozionale del diritto, che ha acquistato impor­ tanza nello Stato assistenziale, superiore a quanto ne aveva

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in precedenza. È vero; ma è pur vero, come ha osservato un acuto giurista tedesco, Klaus Lenk, che « il diritto positivo, in quanto strumento di direzione della vita sociale, può ser­ vire tanto a mettere in moto il progresso civile, quanto a fre­ narlo» (20). Chi si sia mai avventurato nella giungla delle leggi fiscali, sa che rappresentano un sistema assai com­ plesso di strutture normative con funzioni contraddittorie, tutte coperte dall’ampio mantello della così detta giustizia tributaria. Anche la funzione tradizionalmente attribuita al diritto civile, che è quella di assicurare l’ordine sociale facendo uso di sanzioni punitive, può ed anzi deve essere seriamente con­ troversa. Intanto, sul piano delle indagini di sociologia giu­ ridica, si può smentire, con dati di fatto alla mano, che molte di quelle sanzioni, e specialmente le sanzioni più gravi e più deterrenti, considerate perciò come le più funzionali, siano quelle che funzionano davvero nel senso voluto. La tortura e la pena di morte, per esempio, non servono ad eli­ minare e nemmeno a diminuire la ferocia e la frequenza dei delitti; come dimostra la ferocia e la frequenza delle esecu­ zioni capitali in certe epoche, esse funzionavano in senso contrario: l’uso del boia intimorisce gli onesti, non i cri­ minali. Kelsen ha sostenuto che il diritto è un ordinamento per la promozione della pace, funzione poi mutata (o corretta, secondo il suo autore) in quella di promozione della sicurez­ za collettiva (21). In realtà, il diritto può essere fattore di disordine non meno che di ordine, di insicurezza non meno che di sicurezza nella convivenza civile, come si può con­ f20) K. Lenk, 7.ur instrumentalen Function des Rechts bei gesellschajtlichen Verànderungen, in Verjassung und Recht in Uebersee, J. 9, H. 2, 1976, pag. 146. f21) Bobbio, op. cit., pag. 212.

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statare per numerosi esempi storici e attuali. La storia di molti ordinamenti giuridici si è articolata sul rapporto fon­ damentale fra liberi e schiavi, o fra dominatori e dominati (come sappiamo bene noi italiani, soggetti per secoli agli stranieri in casa nostra), o tra sfruttatori e sfruttati; è diffi­ cile assumere tale rapporto come ordine, pace sociale, sicu­ rezza collettiva. La stessa funzionalità, comunemente collegata al diritto nella letteratura apologetica della dottrina, che è quella di stabilire e di amministrare la giustizia per mezzo della le­ gislazione e della giurisdizione, va intesa in maniera dia­ lettica. In ogni ordinamento giuridico, infatti, la giustizia non coincide con un criterio unico, con un parametro omogeneo, ma è sempre il risultato di una operazione complessa di con­ fronti fra diversi ordini di valutazione. La giustizia infatti non è ritenuta identica dalle due parti in causa in un giudi­ zio, e può variare da un grado all’altro del giudizio, appunto perché in ogni sistema giuridico vi è una ridondanza di or­ dini, che producono una situazione di metastabilità. Si può dunque concludere, che ad ogni struttura giuri­ dica (ossia ad ogni insieme o rapporto di azioni e di situa­ zioni, individuabile solitamente attraverso le norme del giu­ rista), anzi al diritto stesso inteso come struttura, unità com­ positiva e complessiva della prassi sociale, corrispondono più funzioni, che la stessa struttura può svolgere dialetticamente nella variazione dei suoi rapporti con l’ambiente sociale . 5. Teoria e sociologia del diritto. Questa interpretazione dei rapporti fra struttura e fun­ zione è ben diversa da quella del vecchio strutturalismo, e dello strutturalfunzionalismo che ne è l’epigono e, per così dire, l’erede beneficiario; giacché in essa si nega, come si è

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visto, una corrispondenza organica o simmetrica fra la strut­ tura (non più concepita come conclusa in se stessa, bensì ri­ conosciuta come aperta e comunicativa) e la funzione (non più concepita come univoca e necessitata, ma come variabile della costante strutturale). Questo inquadramento metodo­ logico del problema consente di procedere alla soluzione delle questioni particolari e concrete, operando una radicale revisione e innovazione rispetto alla visione formalistica delle forme vuote e astratte, di una teoria separata dalla sociolo­ gia: come, nella concezione scolastica il mondo dei feno­ meni del mondo sopralunare era separato da quello sublu­ nare: corpi di purezza celeste nel primo, corpi terreni sog­ getti alla corruzione e transitorietà nel secondo. E qual è la funzione della sociologia del diritto? Essa ri­ leva la funzionalità pratica della struttura, e in tal modo de­ termina le caratteristiche della stessa struttura, la cui defini­ zione va sempre riferita ad un ambiente culturale e sociale, in cui essa attua un processo di interazione. Si consideri, an­ cora una volta, l’esempio della famiglia. La descrizione della sua struttura teorica, quale risulta dall’analisi di un sistema normativo evoluto, consiste in una serie di poteri e di obbli­ ghi, stabiliti fra i membri della famiglia stessa e verso l’ester­ no che sono per l’appunto indicativi delle sue funzioni sociali di carattere vincolativo o promozionale. L’analisi sociologica dello stesso istituto giuridico, condotta con metodo diverso in un ambiente privo di normazione scritta, consiste nell’enu­ cleare dall’insieme dei comportamenti osservati quelli defi­ niti di rapporto familiare, dalla cui composizione risulta la sua struttura, ricostruita attraverso le sue funzioni (s). f22) Esempi di analisi comparata in Famiglia, diritto, mutamento so­ ciale in Europa, a cura di V. Pocar e P. Ronfani, Edizioni di Comunità, Milano, 1979. Una classica indagine sulle strutture di famiglia in società primitive è quella di Radcliffe-Brown, op. cit. 5. V. Frosini

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Operando una trasposizione di registro, si può passare in certi casi dalla definizione della struttura alla definizione delle funzioni e viceversa; ma questo criterio operativo non può applicarsi sempre, appunto perché non vi è corrispon­ denza costante fra struttura e funzione. La ricerca teorica delle strutture giuridiche in un contesto di simboli normativi prescinde dall’analisi funzionale, perché occorre una diversa ricerca di identificazione delle funzioni per stabilire quale sia il rapporto di conversione fra la norma e il fatto. La dialettica funzionale non consente perciò di compiere una contaminazione fra teoria e sociologia del diritto, ma esige un duplice e differenziato approccio ricognitivo nel processo interpretativo dell’esperienza giuridica.

L’EQUITÀ NELLA TEORIA GENERALE DEL DIRITTO

1. Lo scandalo dell’equità.

Nel suo ultimo scritto, ch’egli ci ha lasciato quasi come il messaggio emblematico e patetico della sua vita mentale di studioso, un insigne giurista leccese nostro contempora­ neo, Francesco Calasse, richiamava l’attenzione dei lettori — o meglio, dei suoi ideali interlocutori in un colloquio di dot­ trina giuridica — su un fatto, che egli considerava di deci­ siva importanza per la nostra coscienza di interpreti e di operatori del diritto. Esso consisteva, per ripetere le sue stesse parole, nell’avvenuto « arbitrario ed incauto distacco del pro­ blema dell’equità dalla matrice del problema integrale della giustizia » ; e lo storico del diritto esortava, con suggestiva im­ magine in cui vibra rattenuta un’eco di commozione reli­ giosa, a «ricomporre l’inconsutile tunica che non era lecito dividere e affidare alle sorti » (*). In queste frasi viene sporta denuncia, dinanzi al tribunale della scienza giuridica, di quello che vorrei chiamare lo «scandalo» dell’equità: ossia, il persistente rifiuto di accogliere le ragioni di piena legitti­ mità, che una antica tradizione di pensiero giuridico — an­ tica sin dalle origini stesse della riflessione sul diritto — al­ lega per il riconoscimento del giudizio di equità come giu­ dizio complementare e corrispettivo al giudizio di legalità, come elemento integrativo e sostanziale del giudicare se­ condo giustizia. fl) F. Calasso, Equità. Premessa storica, in Enciclopedia del diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano, 1966, pagg. 65-69; rist. in Storicità del diritto, Giuffrè, Milano, 1966, pagg. 365-376.

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Questo mancato riconoscimento, anzi questo persistente rigetto della funzione dell’equità nel sistema operativo del giudicare appare tipico della odierna esperienza giuridica ita­ liana; e non mi soffermerò a stabilire i confronti con altri paesi, poiché questo esula dal compito che mi sono proposto di affrontare. Del resto, è cosa nota a tutti i cultori delle di­ scipline giuridiche, che il ricorso all’equità ha caratteriz­ zato intere epoche di storia del diritto anche in Italia, e che esso è oggi non solo saldamente stabilito in quegli ordina­ menti, che si dicono di common law, e cioè anglosassoni, ma è in diverse forme accolto anche in altri ordinamenti a base codicistica, come richiamo alla natura dei fatti, o al diritto naturale, o addirittura alla capacità del giudice di giudicare con decisione autonoma, come nel caso del codice civile svizzero. Sono anzi proprio quei sistemi, in cui è stata impressa l’ispirazione democratica di un regime politico, ed in cui è ben salda e provata la fedeltà all’imperio della legge, che mostrano di trovare nel giudizio di equità un’ar­ ticolazione snodata ed efficace l2). È pur vero che lo scandalo dell’equità, ossia il tentativo di recupero dottrinario e di attuazione organica duna trat­ tazione giuridica, che pare divenuta subalterna o diciamo ancillare, si è verificato di recente proprio nell’ambito della nostra cultura e vita giudiziaria. Infatti, nella « Relazione annuale sullo stato della giustizia», presentata al parlamento nazionale dal Consiglio superiore della magistratura nel 1971, e pubblicato in volume col titolo Società italiana e Iti­ tela. giudiziaria dei cittadini, si trova dedicata al problema dell’equità una apposita trattazione, che si estende per una cinquantina di pagine (pagg. 133-187), e che è inserita nella f2) R. A. Newman, Equity and Law: a comparative study, The Oceana Pubi., New York, 1961 (su cui v. V. Frosini, Recensione, in Riv. intern, files. dir., XL, 1963, pagg. 627-629).

l’equità

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Relazione come commentario alla proposta della istituzione di un « giudice di pace » nel quadro d’una riforma del no­ stro ordinamento giudiziario. A conferma, tuttavia, del carat­ tere scandaloso assunto dal tentativo concreto di avviamento di un discorso sull’equità con l’intento operativo di modifi­ care lo stato di cose esistente, vorrei citare un episodio sin­ tomatico. Uno dei nostri giuristi più vigili e sensibili, e non certo sospetto di misoneismo, com’è Paolo Barile, dedicando un suo articolo di attente osservazioni alla suddetta Rela­ zione in un importante quotidiano torinese, avvertì allar­ mato che l’introduzione dell’esercizio di un giudizio di equità nel nostro ordinamento, e sia pure con la sola equità detta suppletiva, avrebbe il potere « di vanificare interamente il principio di legalità » (3). Il problema non si limita infatti, e qui mi pare che Barile abbia colto subito il cuore della questione, a quello della opportunità di istituire la figura, marginale e modesta, di un «giudice di pace», e a decidere sui limiti delle sue attribuzioni; il problema vero è quello di fondo, se ammettere o rifiutare il principio di equità co­ me di pari grado col principio di legalità nel nostro sistema giuridico. In quanto alla sua disciplina dell’uso pratico che si autorizza a farne, con tutte le cautele e le garanzie e le ri­ serve che si ritengono convenienti, questa è faccenda da ri­ mettere a chi di competenza: provideant consules. Quali sono i motivi di questa diffusa diffidenza, di cui ho fornito un esempio così indicativo, a riconoscere dignità di status giudiziario (come si sarebbe tentati di dire) al prin­ cipio di equità? Merita brevemente accennarne, prima di inoltrarsi nell’argomentazione del significato che tale princi(3) P. Barile, Il rapporto sulla giustizia. Giudici di pace?, in La Stampa del 17 agosto 1972, pag. 3. Cfr. il diverso commento alla Relazione sul Corriere della Sera del 21 giugno 1972.

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pio viene ad assumere in un’indagine di teoria generale del diritto. In primo luogo, vi è un pregiudizio radicato fin negli strati geologici del terreno giuridico, su cui ci muoviamo: ed esso è alimentato dal culto del formalismo giuridico, dal rispetto per la legge scritta (che rischia di risolversi nella osservanza della lettera della legge), dal compiaciuto orgo­ glio legalistico di chi ha il privilegio di saper leggere le norme dei codici. È il pregiudizio, secondo cui il diritto consiste nelle leggi contenute nei libri, nelle raccolte delle gazzette ufficiali, dei massimari di sentenze; quello che chia­ merei lo spirito di giustificazione, piuttosto che spirito di giu­ stizia, degli uomini di legge. Esso risale all’antica venerazione per il codice di Giustiniano, vera bibbia laica dei giuristi europei per tanti secoli, e rappresenta ormai un complesso storico, magari del subconscio, nella formazione mentale del giurista; si può dire che esso consista in quello che un acuto scrittore politico, Antonio Gramsci, definì icasticamente, per l’appunto, « spirito di codice » in contrapposizione allo « spi­ rito di metodo » (4). In secondo luogo, è presente un pregiudizio nuovissimo, che è quello ispirato dalla preoccupazione politica di difesa dell’ordinamento giuridico attuale, considerato come un edi­ ficio, i cui mattoni sono rappresentati dalle norme di legge approvate dal parlamento o quanto meno (trattandosi, per la maggior parte, di norme ereditate dal precedente regime con scarso beneficio di inventario) convalidate dalla Cassa­ zione e dalla Corte Costituzionale. Questo pregiudizio si riveste sovente del titolo reverenziale di «principio della certezza del diritto»: che è un principio politico, intenden(4) A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino, 1949, pag. 29.

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dosi con esso un patto di pace stabilito a presidio dell’ordine civile vigente. La sua genesi perciò, a differenza del primo ricordato pregiudizio, è di data recente, giacché questa cor­ risponde a quella dell’instaurazione del nuovo ordinamento repubblicano, e le sue prime ed evidenti testimonianze si possono anzi cogliere nei resoconti dei dibattiti tenuti alla Assemblea Costituente.

2. La dialettica dell’equità. Nella Relazione del Consiglio superiore della magistra­ tura, a cui si è già accennato, viene tracciato un diagramma del dibattito teorico sul problema dell’equità, come esso si è svolto nella dottrina italiana per quarant’anni, dal 1921 al 1959. Poiché nella suddetta Relazione è rimasto ignorato il contributo, che la nostra cultura giuridica ha dato sullo stesso argomento negli anni successivi ed a noi più vicini, su­ scitando echi e consensi anche nella dottrina straniera (5), questo fatto ci consente di riprendere in esame il problema in una nuova messa a fuoco. Intanto è però opportuno richia­ mare i punti salienti della trattazione già svolta nella Rela­ zione, che costituisce un utile presupposto della discussione. In essa, il problema dell’equità viene impostato in ma­ niera dialettica, o diciamo semplicemente alternativa, nei se­ guenti termini. L’equità può essere considerata come un prin­ cipio etico, ovvero come un principio logico. Come principio etico, esso ha ricevuto una sua formulazione assai netta nel­ l’opera di Piero Calamandrei, a partire dal saggio su II si­ gnificato costituzionale delle giurisdizioni di equità, pub(5) R. Marcio, Rechtsphilosophie. Rine Einjùhrung, Freiburg, 1969, spec, a pag. 183 e ss.; J. L. de los Mozos, La equidad en el derecho civil espandi, in Rev. gener. de legislation y jurisprudencia, CXXI, 1972, pagg. 7-24.

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blicato nel 1921, nel quale si affermava l’esistenza di un or­ dinamento giusnaturalistico, o etico, accanto a quello pro­ priamente giuridico o legalistico; l’equità serviva a stabilire il collegamento fra i due. Questa posizione di Calamandrei, secondo la quale nel giudizio di equità si attua una « eterointegrazione» del diritto (come suona la felice formula co­ niata dal Carnelutti), ha poi avuto un suo svolgimento, e le sue ripercussioni sono state studiate dal Coretti, al cui lavoro in proposito perciò si rimanda (6). Resta comunque fermo che per Calamandrei vi è, fra il giudizio di equità e il giu­ dizio di legalità, una differenza di principio, che è stata da lui limpidamente illustrata nelle prime pagine delle sue Istituzioni di diritto processuale citale. L’equità può essere invece considerata come un principio logico: a tale riguardo, la Relazione citata richiama l’inter­ pretazione data da Angelo Ermanno Cammarata in un suo articolo del 1941, secondo cui l’equità è un criterio che espo­ ne le differenze concrete delle singole situazioni in contrasto con la tendenza generalizzante e riducente, che è propria della legge. In questo caso, com’è ovvio, siamo in presenza di un’applicazione dell’equità come « autointegrazione » del diritto: essa consiste, come si è detto, nell’applicazione del principio di differenza, e perciò contrasta con il principio di identità, ma rientra comunque nella logica usuale del giu­ dizio giuridico. Va osservato che nella Relazione, con senso di opportunità e di congruenza, i richiami alle posizioni della teoria gene­ rale del diritto sono stati circoscritti nell’ambito della dot­ trina italiana. Se l’indagine venisse allargata a quello della dottrina straniera, bisognerebbe allora ricordare che la più (6) C. Gobetti, Il valore delle massime di equità, in Studi per Car­ nelutti, vol. II, Cedam, Padova, 1950, pag. 295 e ss.

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nota impostazione moralistica del giudizio di equità negli stu­ di contemporanei è quella dovuta a Max Rumelin, nel suo saggio Die Billigkeit im Rechi, anch’esso apparso nel 1921; mentre la prospettiva logicistica, sostenuta dal Cammarata, ha un suo significativo precedente nella classica enunciazione del problema in senso formalistico, che era stata esposta da Hans Kelsen nel suo lavoro su La dottrina del diritto natu­ rale e il positivismo giuridico, che è del 1928. Tuttavia, come si rileva nella stessa Relazione, la defini­ zione formalistica dell’equità, pur cogliendone un aspetto importante, appare «condizionata da un’articolazione mera­ mente dialettica e intellettualistica». Pertanto, vi si sostiene che le due posizioni antitetiche — etica e logica — dell’equità appaiono definitivamente superate nella concezione assiologica di Carlo Maria de Marini, autore del volume su II giu­ dizio di equità nel processo civile, pubblicato nel 1959, giac­ ché in esso, secondo la Relazione, «viene colto il modo, in cui opera l’equità nel vivo dell’esperienza giuridica». L’indagine del compianto giovane studioso resta indub­ biamente fin oggi la più ampia ed attenta che sia stata de­ dicata in Italia al problema dell’equità. In essa, il giudizio di equità appare fondato sul valore giuridico, che, com’egli scri­ veva, « sgorga direttamente dalla nostra coscienza al mo­ mento in cui questa conosce il fatto», onde l’equità viene da lui definita come « un criterio di giudizio sulla regolamen­ tazione del fatto concreto». Non può però tacersi che la costruzione teorica del de Marini appare a sua volta fondata su un presupposto di carattere psicologico, certamente assai suggestivo, ma altrettanto vago nella sua specificazione di ordine speculativo: è una sorta di misticismo giuridico, ri­ spettabile ma poco rigoroso. Nella Relazione, e precisamente nell’esposizione delle ra­ gioni pro e contro l’accettazione del principio di equità, si

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rispecchia altresì la divergenza di opinioni fra due parti, o meglio due tendenze, in cui appare diviso il corpo dei com­ ponenti del Consiglio superiore della magistratura. L’anda­ mento dilemmatico dell’argomentazione produce talvolta sul lettore un curioso effetto anamnestico, giacché richiama alla sua memoria certi trattati della Scolastica medievale, del tipo Sic et non. Il punto più preciso di frizione fra le due posi­ zioni contrastanti, comunque, è quello relativo al problema se considerate l’equità in senso oggettivo ovvero in senso soggettivo. Nel primo caso, l’equità si risolverebbe nella ma­ nifestazione particolare di un principio generale dell’ordina­ mento giuridico, già insito fra le pieghe — o piuttosto fra le righe — del sistema normativo. Nel secondo caso, invece, sarebbe il giudice di equità a creare la norma, e nella giu­ risdizione di equità si verificherebbe pertanto l’esercizio di una funzione legislativa. Posto il problema in questi termini di rigida dialettica idealistica (soggetto-oggetto), come un quadro conchiuso e catafratto di riferimento (le norme di legge), appare difficile trovare una soluzione dirompente, che apra una diversa prospettiva in una terza dimensione della indagine. 3. Il giudizio entimematico di equità.

Per tentare di riprendere in esame il problema in una nuo­ va inquadratura, chiariamo i risultati ai quali è pervenuta la dottrina italiana nel corso di questi ultimi anni f). Essa ha ripreso -ab imis fundamentis la questione, e ha eliminato f7) Mi riferisco in particolare a: V. Fkosini, La struttura del diritto, Giuffrè, Milano, 1962, 4a ed., 1973, pagg. 102-109; Equità, in Enciclopedia del diritto, cit., pagg. 69-82; Struktur und Bedeutung des Billigkeitsurteils, in Architi ftir Rechts- und Sozialphilosophie (ARSP), 1967, LIII/2, pagg. 179-195 (trad. ital. in Teoremi e problemi di scienza giuridica, Giuffrè, Milano, 1971, pagg. 197-212).

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anzitutto l’inveterato equivoco della definizione di equità attribuita ad Aristotele, secondo cui essa consisterebbe nella « giustizia del caso concreto ». Si tratta in realtà, com’è stato dimostrato, di una formula riassuntiva pseudo-aristotelica, che è una deformazione scolastica del testo originale. Per Aristotele, l’equità ha un duplice significato operativo: o essa è intesa come fonte del diritto, e consiste allora nel « diritto del caso singolo », in contrapposizione alla gene­ ralità della regola giuridica; ovvero essa è intesa come cri­ terio interpretativo della norma di legge, e allora consiste in una sua correzione. In entrambi i casi, si viene a realizzare un giudizio di equità, che è diverso dal giudizio di legalità; e tale diversità è dovuta al tipo di ragionamento che si ado­ pera nel giudicare. Il giudizio di legalità è di carattere sillo­ gistico, giacché esso corrisponde ad un sistema di logica chiusa: vi è una premessa maggiore (la norma di legge), una premessa minore (la fattispecie concreta) e una conclusione (il giudizio che collega la norma e la fattispecie); ma il ter­ mine finale (la sentenza) è dunque già compreso in quello iniziale, serve solo a ribadire il principio generale in un caso particolare, grazie al concatenamento necessario d’uno schema prestabilito del ragionamento deduttivo. Il giudizio di equità è invece un giudizio entimematico, cioè fondato su quello che lo stesso Aristotele chiamò «sillogismo retorico», cioè uno pseudo-sillogismo, giacché in esso manca la premessa mag­ giore, e si procede direttamente da una (sola) premessa ad una conseguenza. Nel giudizio di equità opera dunque un tipo di ragionamento, che fa parte di una logica aperta, in cui l’intuizione noetica (cioè conoscitiva) rompe lo schema dianoetico (discorsivo, ossia mediato) del sillogismo. Nel pri­ mo caso, il ragionamento giuridico ritorna e si richiude in se stesso, a circolo; nel secondo invece esso si snoda e pro­ cede liberamente.

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Nell’interpretazione dell’equità offerta dal formalismo giuridico, e già sopra ricordata, non si è tenuto conto di que­ sta duplice funzionalità logica, in quanto l’interprete è ri­ masto astretto alla vecchia e convenzionale identificazione del giudizio giuridico con lo schema del sillogismo scola­ stico; per cui la differenza tra il giudizio di legalità e il giu­ dizio di equità si riduce ad una dialettica fra due momenti astratti, che è compressa dentro lo stesso schema. Non avreb­ be potuto configurarsi diversamente, d’altronde, nell’ambito di una concezione, che riconosceva come carattere distintivo del giudizio giuridico il rapporto di applicazione fra la re­ gola e il regolato; per cui anche il ricorso al giudizio di equità doveva necessariamente risolversi in uno schema di relazione fra la regula iuris (che è generale per definizione) e il caso particolare, fra il presupposto normativo e la fatti­ specie concreta. Identità e differenza, considerati come ter­ mini di una scelta alternativa all’interno del giudizio giu­ ridico, sono però due momenti astratti; perché in realtà non c’è sentenza di giudice che non tenga conto, quando proceda all’applicazione della norma di legge, e dell’uno e dell’altro, a conclusione del dibattito processuale, che consiste precisamente nel mettere in evidenza i caratteri di variazione che presenta il caso in ispecie rispetto alla costanza della previ­ sione giuridica. Pertanto, l’enunciazione della complemen­ tarità fra giudizio di legalità e giudizio di equità, presentata in termini di abile ed illusiva dialettica idealistica, si risolve in un gioco di prestigio intellettuale d’alta classe, che fa ap­ parire uno ciò che è due e fa credere due ciò che è uno. Nel giudizio di equità, inteso invece come giudizio entimematico, si può rilevare che la norma giuridica formulata è collegata direttamente al giudizio particolare, in una as­ sociazione di termini che si potrebbe esprimere così : « solo se si presenta il caso che... (allora) si deve decidere che... » ;

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giacché si tratta di un «fatto singolo regolato», in cui la regola è il criterio regolatore del fatto singolo stesso, fa tutto uno con esso. Il caso particolare viene in tal modo inserito nella complessa struttura dell’intero ordinamento giuridico ad opera del giudice, con un procedimento che può dirsi og­ gettivo e soggettivo al tempo stesso, in quanto egli provvede ex officio (e non come soggetto privato) ad attuare, cioè ad articolare, la morfologia della prassi (il sistema giuridico) nel punto in questione. La distinzione di metodologia operante, e perciò, come potrebbe anche dirsi, di struttura giuridica fa il giudizio legalistico-sillogistico e il giudizio equitativo-entimematico tro­ va una sua chiara manifestazione e ripetuta conferma nella prospettiva offerta dal diritto processuale internazionale, in cui si fa richiamo alle due forme di giudizio con piena indi­ pendenza reciproca. In quella sede, la distinzione è stata del resto teorizzata, nel campo della letturatura giuridica ita­ liana, da Giuseppe Barile, come quella fra « diritto della vo­ lontà» e «diritto della coscienza». Il giudice internazio­ nale può infatti derivare il principio regolativo della sen­ tenza mediatamente dalle norme scritte di statuti e trattati, ovvero può assumerlo immediatamente dalla coscienza col­ lettiva dei consociati, e in questo caso il procedimento da lui adottato corrisponde per l’appunto al giudizio di equità. Nel­ l’uno e nell’altro caso, comunque, il giudice internazionale appare qualificato come tale nella sua funzione giurisdizio­ nale dalla scelta e dall’uso di un certo potere specifico di giu­ dizio, che si configura come una sua attribuzione costante e necessaria, soggettiva e oggettiva (8). (8) La questione è stata discussa da V. Frosini, Rilievi metodologici sulla posizione del giudice nel diritto internazionale, in Studi per Cala­ mandrei, vol. I, Cedam, Padova, 1958, pagg. 203-226 (rist. in Teoremi e problemi di scienza giuridica, cit.). Per lo svolgimento del dibattito nella

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4. L’equità fra regola ed eccezione. Il giudizio di equità, come si è visto, sta in rapporto al giudizio di legalità non già come rapporto interno all’ap­ plicazione della regola al regolato, bensì come rapporto ester­ no ad essa, in quanto il giudizio di tipo sillogistico coincide con il solo giudizio di legalità. Ed è questo il suo carattere distintivo, che era stato colto lucidamente dallo stesso fonda­ tore della dialettica idealistica, Giorgio Federico Hegel, il quale ebbe a scrivere che «l’equità costituisce una deroga che si fa al diritto formale... e si riferisce per prima cosa al contenuto della contesa giuridica» (9). Era una maniera vi­ gorosa e disimpacciata di affrontare il problema, sia pure col risultato di risolverlo in una falsa maniera, e cioè elimi­ nando il problema stesso, in quanto il giudizio di equità veniva considerato come un caso anomalo ricorrente, e l’in­ teresse veniva spostato dalla forma al contenuto. Tuttavia, bi­ sogna convenire che Hegel ha colpito il punto più sensibile della questione sotto il profilo della logica giuridica: se cioè bisogna riconoscere nel potere di giudicare secondo equità, accordato al giudice, « un potere di fare eccezione alla regola della legge », come ha ribadito Francesco Carnelutti in uno dei suoi ultimi scritti (I0); ovvero se l’equità debba identificarsi in un « giudizio di eccezionalità » che costituisce anch’esso regola del giudizio. La questione è d’importanza fondamentale, anzi decisiva, per la comprensione dell’intero mondo dell’esperienza giu­

dottrina, v. K. Lenk, Teorie del diritto internazionale pubblico italiano, in Polit. del dir., HI, 1972, pag. 252. (9) G. F. Hegel, Filosofia del diritto, trad. ital. Messineo, nuova ed., Laterza, Bari, 1954, pag. 191. (10) F. Carnelutti, Appunti sull’ordinamento giuridico, in Riv. dir. proc., XIX, 1964, pag. 364 e ss.

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ridica e per una sua corretta configurazione in termini di lo­ gica del discorso giuridico; eppure bisogna ammettere, e non senza una certa meraviglia, che essa non è stata finora te­ nuta in adeguata considerazione dagli studiosi di teoria ge­ nerale del diritto e di logica deontica. Bisogna infatti cominciare col rilevare che l’esperienza giuridica non comprende solamente le regole o norme di legge nella loro previsione prescrittiva e nella loro assolu­ tezza definitoria delle norme di comportamento, o per me­ glio dire, delle strutture dell’azione, che compongono l’in­ sieme di un ordinamento giuridico. Ognuno di questi sim­ boli verbali dell’agire sociale, dei quali si valgono i legisla­ tori, i giudici e gli esecutori di giustizia, acquista il suo senso in relazione al complesso articolato e mobile delle situazioni pratiche, che costituiscono l’insieme di una morfologia della prassi. Non c’è regola, o prescrizione normativa, o figura giu­ ridica, che trovi corrispondenza isolata nella varietà molte­ plice e continuamente metamorfica dell’esperienza giuridica: ognuna di esse si definisce, anzi si reifica, si fa realtà ogget­ tiva, nell’incontro o nel contrasto con le altre, come avviene di ogni parola pronunciata in un discorso o in ogni idea pensata in un ragionamento. Nella sua applicazione con­ creta, che è quella che le dà vita e verità, ogni regola viene costretta in una situazione particolare, fa groviglio con le altre, entra nel processo di continua conversione tra la forma e l’azione, in cui consiste il diritto, non già quello umbratile scritto sui libri, ma il diritto considerato nella sua integralità e nella sua tensione creativa. Ogni norma di diritto non è altro che il capo di uno dei numerosissimi fili, che si intrec­ ciano in un tessuto continuamente ricomposto; ogni regola deve adattarsi ad una situazione giuridica, e trasformarsi in un elemento di valutazione, che è condizionato e sollecitato dalla realtà dei fatti, che investe e materializza le previsioni 6. V. Frosini

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normative, traducendole nei discorso pratico delle decisioni e innovazioni. Altrimenti, non ci sarebbe bisogno di ricor­ rere ogni volta ai tribunali per tornare ad applicare la stessa norma, e non ci sarebbe rimedio nel giudizio di appello, che rovescia la sentenza. Nella realtà della vita giuridica, la regola deve sempre fa­ re i conti con l’eccezione: come ha dimostrato acutamen­ te in un suo noto saggio Herbet Hart, ogni definizio­ ne giuridica si specifica valendosi di formule quali: «nel caso che, ecc... » ; « eccetto il caso che, ecc... » ; « solo a con­ dizione che, ecc...» (u). L’eccezione, si vorrebbe dire, è tutt’altro che eccezionale nell’esperienza giuridica; anzi, essa rappresenta come l’altra faccia della moneta normativa della legalità. Nella logica deontica, che è intesa a ricostruire i modi del ragionamento giuridico con un discorso metalinguistico di simboli logici, questo aspetto del problema è stato curiosa­ mente trascurato; forse perché esso è stato equivocato con la negazione della norma nella logica della validazione degli imperativi. Eppure, come ha scritto Kalinowski, «non sem­ pre si distinguono con sufficiente chiarezza le diverse cate­ gorie di negazioni che possono apparire in una proposizione normativa (negazione della proposizione normativa, nega­ zione del funtore proposizionale normativo, negazione del nome del soggetto dell’azione, negazione del nome della azione); e invece esse presentano particolarità che non si possono trascurare » (i2). La questione è stata brillantemente discussa però da Alf Ross, il quale ha accuratamente distin­ to una negazione deontica esterna da una negazione deontica (n) H. L. A. Hart, Contributi all’analisi del diritto, a cura di V. Frosini, Giuffrè, Milano, 1964, pag. 8 e ss. (u) G. Kalinowski, Introduzione alla logica giuridica, a cura di M. Corsale, Giuffrè, Milano, 1971, pag. 127.

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interna, e ha concluso che le proposizioni contenenti una negazione esterna « indicano permessi (ossia, facoltà di non fare, n.d.t.'), cioè restrizioni (eccezioni, annullamenti parzia­ li) di direttive (comandi, norme) positive creatrici di obbli­ ghi (...) nel linguaggio giuridico, la negazione esterna viene adoperata per esprimere le eccezioni alle regole generali » (13), Le osservazioni avanzate da Alf Ross con finezza e profon­ dità costituiscono esse stesse un’eccezione nel panorama at­ tuale della logica dell’argomentazione giuridica, e richiede­ rebbero un più ampio sviluppo. Nel diritto, dunque, coesistono il principio della regola e il principio dell’eccezione; quest’ultimo, anzi, costituisce a sua volta quella che si potrebbe definire una «regola ne­ gativa », rispetto beninteso all’insieme delle regole positive, se si volesse raccogliere il suggerimento contenuto nell’ana­ lisi di Ross. È invece da ritenere, a mio parere, che se il giudizio di equità costituisce una applicazione della «regola dell’eccezione », esso rientra con piena validità e funzionalità deontica nel gioco delle regole giuridiche come giudizio entimematico. 5. L’equità, l’etica e la politica. Abbiamo esaminato il problema dell’equità procedendo sul terreno della logica giuridica, che è quello in cui esso va ricondotto per intenderne il carattere precisamente giuridico. Il discorso sul tema è stato però proseguito per secoli, e dura tuttora, come argomentazione parenetica a favore di una con­ cezione moralistica del diritto, che sarebbe per l’appunto as­ sicurata per mezzo dell’equità, punto di processo osmotico fra

(13) A. Ross, Directives and Norms, Routledge & Kegan Paul, Lon­ don, 1968, pag. 155.

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l’etica e il diritto. Quando Cicerone, nel De Ofiiciis, scrive con nitida eleganza che « aequitas enim lucei ipsa per se, du­ bitalo cogitationem significai iniuriae » (I, 30) — l’equità in­ fatti riluce per se stessa, e il solo fatto di dubitare significa invece pensare che vi sia torto — l’equità è per lui una luce di verità morale, che irraggia sulla nostra coscienza. E nella storia dell’umanesimo giuridico, che ha in Cicerone qua­ si il suo capostipite, il motivo dell’equità come strumento di illuminazione etica del diritto è risonato costantemente: penso per ultimo, in ordine di tempo, ad un giurista, che mi è stato maestro di diritto e di umanità, Orazio Condorelli, il quale ha dedicato all’argomento pagine di appassionata riflessione ("). Per la verità, questo motivo si è anche prestato, in altri casi, ad una facile e talora flaccida retorica, intesa a coprire con l’appello ai nobili sentimenti degli altri i propri senti­ menti di servilismo cortigiano o i propri interessi di lenoci­ nlo giuridico. Bisogna diffidare dei discorsi in cui moralità e diritto si mescolano insieme, giacché la loro confusione produce di solito come risultato uno di quei due ibridi: il moralismo giuridico o il legalismo etico. Il primo consiste nella giustificazione artefatta, in termini di fittizia univer­ salità della coscienza, di queirirresistibile argomento persua­ sivo del diritto che è l’uso della forza al servizio di chi co­ manda; il secondo consiste invece nella moralità. Il principio dell’equità non dovrebbe servire a giustificare l’uno o l’altro di essi, come alle volte si tenta di fare, poiché fra la mo­ rale e il diritto non si possono stabilire servitù di passaggio, e nemmeno si possono rizzare siepi di confine: si tratta di

(M) O. Condorelli, Equità e diritto, in Ann. Semin. Giur. Unit/. Catania, I, 1934, pag. 3 e ss. (rist. in Scritti sul diritto e sullo Stato, Giuffrè, Milano, 1970).

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due dimensioni diverse dell’esperienza spirituale. La prima di esse si riferisce all’agente, alla struttura complessiva della sua personalità; la seconda si riferisce invece all’azione, che è stata alienata dalla volontà dell’agente, e che appare esem­ plata ed oggettivata in una struttura della prassi. Ho discusso altrove il problema del rapporto fra la regola e l’eccezione nel campo dell’etica, che coinvolge quello della regolamentazione morale e della sua rottura, e mi limiterò a ribadire la mia convinzione, secondo cui anche nel campo del­ l’etica, come in quello del diritto vige un duplice ordine di giudizio: giacché vi è l’etica dell’obbligazione, della obbe­ dienza ad una legge morale, con l’abbandono fiducioso della coscienza; ma vi è anche l’etica della situazione, della inven­ zione della norma morale quale scaturisce dallo stato delle circostanze. Nel mondo del diritto, il giudizio di equità cor­ risponde, per analogia, all’etica della situazione; in esso l’im­ pegno personale e civile del magistrato ha un peso determi­ nante; si rompe la catena del ragionamento legalistico, l’uf­ ficio del giudice si interiorizza tutto, per così dire, in foro coscientiae. Non è che vi sia un intervento e quasi un’incur­ sione, del mondo delle regole etiche nel mondo delle norme giuridiche, come parve prospettare Calamandrei; ma vi è un’assunzione di responsabilità in prima persona da parte del giudice, la sostituzione di un discorso giuridico diretto a un discorso indiretto e impersonale. Il giudice tuttavia, pro­ prio in quanto investito della sua funzione in quel momento, non può fare altro che dare una sentenza di diritto: il suo compito non è quello di un profeta di moralità, ma sempli­ cemente quello di un artigiano dello spirito, di un esperto meccanico dell’ordinamento giuridico. Che cosa ne faremo, dunque, di tutti quei discorsi, talora così ricchi di osservazioni acute e probanti e persino così convincenti, che sono stati svolti sui rapporti fra etica e di­

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ritto nell’equità? La mia risposta, anzi la mia proposta, è la seguente: sostituiamo al termine «etica», che in essi viene adoperato, il termine «politica», perché esso vi suona più schietto e più preciso: e quei discorsi andranno benissimo, se in essi il problema è stato avvertito nella sua problematicità, e non vi si fa semplicemente sfoggio di motivi emozionali, o peggio ancora, di argomenti mistificatori; giacché il pro­ blema c’è. Certo: l’equità rappresenta, per valerci di una comoda an­ che se logora metafora, una valvola di sicurezza nel mecca­ nismo della giurisdizione. E l’insistenza, con cui si è fatta l’apologià del giudizio di equità come applicazione del prin­ cipio etico, sta a dimostrare che esso è irrinunciabile in una considerazione integrale dell’esperienza giuridica, anche a parere di giuristi scaltriti nell’esercizio della professione ma incorrotti nella loro sostanza morale di uomini. L’etica, a cui essi hanno fatto appello, indicando le inevitabili sma­ gliature della trama di un sistema di norme legali, si rivela però, alla prova dei riferimenti puntuali, non tanto la mo­ ralità soggettiva, quanto piuttosto l’etica civile, il sistema dei valori sociali, l’ideologia della collettività, di cui si riconosce interprete il giurista. Perciò il termine «politica», che è stato proposto, va qui inteso nel suo significato originario di un ordinamento morale della pòlis, che è la necessaria sotto­ struttura di qualunque ordinamento giuridico positivo, ma che è altresì mutevole secondo le circostanze storiche e il grado d’incivilimento (giacché qui non si vuole professare alcun relativismo o scetticismo etico; si sostiene soltanto la aderenza alla realtà, ma senza la rinuncia ai propri ideali). Sebbene il mio compito sia quello di trattare dell’equità nella prospettiva della teoria generale del diritto, lasciando ad altri l’indagine sugli aspetti concreti e particolari che essa viene ad assumere nell’ordinamento italiano vigente,

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vorrei citare almeno un esempio di diritto positivo, che serva ad illustrare quanto vado sostenendo in teoria; esempio che d’altronde non ho trovato spesso menzionato, e che non è superfluo ricordare. Col decreto legislativo luogotenenziale del 5 ottobre 1944, n. 316 (art. 2, lett. b), si consentiva una valutazione correttiva della «palese iniquità» delle sentenze emanate dal tribunale speciale fascista. E l’applicazione, in campo penale, di un giudizio di equità contra legem venne così postillata in una massima della Corte di cassazione: « Il giudizio di equità esige che il giudice esamini soprat­ tutto se la decisione, pur essendo legale, conforme cioè al dettato della norma giuridica, non contrasti col sentimento di equità in una determinata società nel momento storico in cui è chiamato a giudicare» (15). Il «sentimento di equità», di cui si fa parola nel dettato lapidario di questa massima, non è l’impulso emotivo della coscienza del singolo, né il ri­ chiamo suggestivo di una tavola di valori morali sovrastorica, ma è l’imperiosa esigenza che scaturisce da una condizione di civiltà politica. 6. Teoria e prassi dell’equità.

Dal punto di vista prospettico della teoria generale del di­ ritto, bisogna rilevare che il principio dell’equità è un filo, che attraversa tutta la trama dell’esperienza giuridica, non limitatamente al solo settore giurisdizionale, in cui esso ope­ ra nelle diverse sue forme, che vengono scolasticamente de­ terminate e denominate come equità formativa, suppletiva e sostitutiva. Il giudizio di equità, tuttavia, non si svolge sol­ tanto infra legem, e cioè nei tribunali dello Stato e nei pro­ (13) Massima del 21 maggio 1953, n. 1104, in Giur. compì. Cassaz. pen., 1954, XXXV, II, pag. 25.

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cedimenti giudiziari che in essi si celebrano regolati dai co­ dici; esso integra, sempre più largamente, l’amministrazione della giustizia ufficiale, attuandosi anche extra legem nei giu­ dizi di arbitrato, a cui convengono di sottomettersi le parti in causa, quando la causa minaccia di essere troppo dispen­ diosa di denaro, di tempo e di energie. Avviene sempre più spesso di incontrare, leggendo un contratto, la clausola che prudentemente prevede il ricorso all’arbitrato, con la scelta di un giudice di equità concordata fra le parti, prima di fare ricorso alla solita carta bollata. È un procedimento sempre più diffuso, perché è più conforme alle esigenze pratiche di organizzazione tecnoindustriale della nostra economia, e sebbene sia difficile, e forse impossibile, riuscire a dare un esatto quadro statistico del rapporto fra procedimenti giu­ diziari e procedimenti arbitrali e del relativo tasso d’incre­ mento di questi ultimi, si può ragionevolmente arguire, da certi indizi, che il giudizio arbitrale va guadagnando terreno. Si torna così a dare retta ad Aristotele, il quale per l’appunto raccomandava di preferire l’arbitro al giudice, perché il pri­ mo ha di mira l’equità, mentre il giudice è costretto nel suo giudizio a tener conto delle parole della legge, sicché Ari­ stotele, in definitiva, contrapponeva giudizio di legalità e giudizio di equità lungo il confine discriminativo della legge scritta, giacché per lui l’equo è «ciò che è giusto al di là della legge scritta », e in questo senso, l’equità sarebbe sem­ pre praeter legem. Mentre la legge, infatti, sta immota e chiu­ sa in se stessa, l’equità rappresenta il momento creativo del giudizio ad iniziativa del giudice, sia pure circoscritto al caso singolo. Vi è poi una manifestazione solenne e frequente del giu­ dizio di equità, che si esercita « caso per caso », e che è quella dell’esercizio del potere di grazia e di commutazione delle pene, conferito al Presidente della Repubblica a norma del­

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l’art. 87 della Costituzione italiana; vale a dire, esso si ve­ rifica proprio al vertice dell’ordinamento giuridico, in con­ formità alla tradizione, che attribuiva il potere di grazia al sovrano, in omaggio alle ragioni di equità spesso invocate: lo spirito di clemenza, la convenienza politica, la giustizia intuitiva. Veramente, nell’attuale sistema italiano il potere presidenziale di grazia si configura talvolta anche come uno speciale grado di giurisdizione, un rimedio procedurale, a cui fa ricorso la stessa magistratura in quei casi in cui si vede costretta a prender la scorciatoia per sanare un giudizio di­ fettoso di legalità. L’ultimo esempio, che mi capita sott’occhio proprio leggendo il giornale in data di oggi mentre scri­ vo, è quello di un industriale bresciano condannato ad un mese di prigione: il pretore, che aveva pronunciato la sen­ tenza di condanna, aveva scritto, fra le altre sue considera­ zioni, «che la concessione dell’invocato provvedimento di clemenza appare altresì rispondente a ragioni di equità » (16). L’ingente numero di grazie concesse in anni passati è giunto a superare del resto quello corrispettivo delle sentenze pro­ nunciate dalla Cassazione penale a sezioni riunite; sicché potrebbe dirsi che come l’arbitrato funziona ormai da giu­ dizio di equità nel campo dei rapporti di diritto civile, la grazia opera da giudizio di equità nel campo penale, che pure viene consolidato come territorio di esclusiva e gelosa competenza del giudizio di legalità. Si tratta, com’è evi­ dente, di segnali indicativi di carenze e disfunzioni nell’ap­ parato normativo; e con queste osservazioni, si vuole per l’appunto sottolineare che la prassi del giudizio di equità è ben più rilevante di quanto non si riconosca in teoria; o almeno in quelle teorie che appaiono confinare se stesse al (16) Citazione testuale da un comunicato del ministero della Giusti­ zia, pubblicato sul Corriere della Sera del 15 agosto 1973.

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compendio delle norme scritte ed alla elaborazione delle fi­ gure legali, trascurando di osservare la realtà della morfo­ logia della prassi. È ancora lo stesso Aristotele, che resta davvero la fonte sempre fluente della problematica sull’equità, ad indicare uno strumento tipico del giudizio di equità nella delibera­ zione di assemblea (^gjicpta), in confronto alla norma di leg­ ge, giacché la prima può vertere precisamente su un caso singolo, concreto, da decidere con un’apposita disposizione legislativa (17). È un termine di confronto questo sul quale poco si è soffermata l’attenzione dei commentatori del testo aristotelico e quella dei teorici del diritto. Il richiamo all’atto deliberativo d’assemblea è però importante per mettere in evidenza la varietà delle forme, in cui il principio di equità prende consistenza nel mondo dell’esperienza giuridica, e perché può ricollegarsi esso pure ad una questione di attua­ lità, come vedremo fra poco. Va osservato che la stessa pronuncia del giudizio di equità da parte del giudice, quando sia svincolata dall’ipoteca di una struttura giuridica prefigurata, viene a configurarsi essa stessa come deliberazione di tipo legislativo di un caso par­ ticolare, in quanto il giudice allora non è più soltanto vox viva legis, ma diventa vox viva legislators, cioè incarna lo spirito della legge. E questa mi pare, in definitiva, di tutte le parole che il filosofo ellenico ebbe a dire a proposito della equità, la più alta fra tutte: giacché essere equi, secondo Aristotele, significa « badare non alla legge, ma al legislatore, e non alla lettera della legge, ma allo spirito del legislatore». Il fondamento ultimo, a giustificazione più profonda del (17) Per una interpretazione del termine, v. l’accurato studio di F. D’Agostino, EPIEIKEIA, Il tema dell’equità nell’antichità greca, Giuffrè, Milano, 1973, pag. 79, nt. 26, al quale altresì si rinvia per l’aggiornata bibliografia e gli spunti critici.

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principio di equità consiste in ciò, che la lettera della legge non deve soffocare lo spirito della legge, e questo deve tro­ vare nel giudizio di equità il suo strumento espressivo dut­ tile ed efficace. E per concludere, vorrei richiamare e riaffermare la mia convinzione di studioso e di uomo civile, che al giudizio di equità debba darsi un adeguato riconoscimento per ren­ derlo operante nel nostro sistema giurisdizionale. La Rela­ zione del Consiglio superiore della magistratura, alla quale ci siamo riferiti come a documento autorevole di un organo responsabile e prestigioso, dedica molta attenzione alla pro­ posta di istituire un « giudice di pace », che assolva al com­ pito di esercitare il giudizio di equità al primo livello in­ feriore dell’ordinamento giudiziario. A questa figura do­ vrebbe corrispondere, vorremmo aggiungere, all’ultimo livel­ lo superiore, quella di un « difensore civico », e cioè di un «supremo magistrato di equità», come si potrebbe definire nei termini del nostro linguaggio giuridico la figura del1'ombudsman, già presente ed attiva in altri ordinamenti europei (18). Tra le funzioni ad esso attribuite, dovrebbe es­ servi anche quella di sollecitare le opportune « deliberazioni di assemblea», per quell’opera di costante correzione ed in­ tegrazione del diritto, che si riassume nel nome luminoso di equità.

(I8) v. A. La Pergola, Introduzione alla Ricerca sul commissario parlamentare, Quaderni di studi e legislazione della Camera dei Depu­ tati, Roma, 1971.

4.

IL DIRITTO DI GRAZIA FRA LA REGOLA E L’ECCEZIONE

1. La regola, l’eccezione e la conferma.

Secondo un modo proverbiale di dire, che nasconde sotto il sorriso di un paradosso l’enigma di un pensiero inquie­ tante, «l’eccezione conferma la regola». In realtà, com’è chiaro, l’eccezione invece vale a contraddire la regola: dal momento che in un insieme di regole viene fuori un’ecce­ zione, la regola — almeno nel caso di quell’evento eccezio­ nale — non vale più. Tuttavia, è implicito in quel modo di dire che ho riferito e da cui ho preso le mosse, che l’ecce­ zione non distrugge la regola come tale, ma la mette in quie­ scenza per un momento, la interrompe nella sua applicazio­ ne, senza però abolirla; anzi, la stessa eccezione si qualifica e si rende intelligibile come tale, proprio perché essa pre­ suppone una regola in cui si inserisce. Insomma, l’eccezione sarebbe non già l’avversaria della regola, giacché solo una regola può contrastare un’altra regola, ma una sua alleata scomoda. Nietzsche raccomandava argutamente alle fanciul­ le di lasciare ogni tanto dormire la virtù, «perché si risve­ glierà più fresca»; lo stesso potrebbe ripetersi, in generale, per le regole di costume: l’eccezione le rinvigorisce. Il problema, tuttavia, trova il suo punto scottante pro­ prio nella determinazione di significato della « conferma » nel rapporto fra la regola e l’eccezione. Ossia, il punto è questo: se l’eccezione serve a confermare la regola, questo fatto si verificherà ogni volta, che l’eccezione si presenta? Ma se l’eccezione si presenta più volte, e magari di frequente, diventa allora difficile stabilire se l’eccezione è davvero ecce­ zione, o se essa, piuttosto che la regola, conferma se stessa;

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vale a dire, diventa una regola aneli'essa, subordinata — ma non troppo — all’altra regola, a cui contravviene. Un’ecce­ zione, che si ripeta anche soltanto più di una volta, è ancora una conferma della regola, o piuttosto essa crea invece una controregola, che non si può più dire eccezione?

2. Il diritto come insieme di regole e di eccezioni. Questo problema, a cui ho accennato, del rapporto fra la regola e l’eccezione, è davvero centrale per gli studiosi del diritto. Il diritto, infatti, viene definito secondo varie for­ mule, che hanno però in comune il riconoscimento, che il diritto consiste in un insieme di regole. Regole del compor­ tamento, cioè strutture dell’azione umana in società, ovvero — secondo una definizione coniata dalla recente filosofia del diritto — «morfologia della prassi». Oppure, regole di giu­ dizio, cioè di valutazione sul comportamento, come sosten­ gono i teorici del formalismo giuridico, secondo i quali il diritto consiste nelle norme, in quanto regole di un sistema. Ebbene, il diritto può essere definito come un insieme di re­ gole, ma questo non basta; occorre integrare la definizione, perché essa sia rispondente alla realtà, o almeno sia davvero funzionale, cioè utile all’uso che si vuol farne; e occorre integrarla così: il diritto è un insieme di regole e di ecce­ zioni. Se non si tiene conto del fatto, e del principio, che le eccezioni sono parte integrante di ogni insieme di regole giuridiche, il diritto appare visto solo di profilo, come la fac­ cia su una medaglia. Se si vuole vederlo intero nella sua fi­ sionomia, bisogna guardarlo anche dall’altra parte. Un grande giurista, Francesco Carnelutti, ebbe di tale problema una coscienza acuta e persino, vorrei dire, tormen­ tosa. È un tema, che ritorna più volte in un suo libro di meditazioni, intitolato (certo con ironia verso i giuristi, ma

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non verso sé stesso) tempo perso, cioè dedicato a letture di vario genere letterario e filosofico, che Carnelutti annotò e commentò dal 1946 al 1957. In quel libro, riflettendo e di­ scutendo sull’opera di Augusto Guzzo, La scienza, Carnelutti scrive: « Il fatto è, sul piano critico, che si continua, malgrado tutto, a esser prigionieri di una implicita infallibilità della legge, quando non si considera accanto alla legge l'eccezione ... Anche per com­ prendere tutto questo noi giuristi siamo i meglio provveduti. I cultori delle scienze naturali si attribuiscono il monopolio della scienza perché ignorano l’eccezione; e a noi la scienza viene ne­ gata, perché, purtroppo, la conosciamo» (l).

Eppure, non si può dire che i teorici del diritto si siano occupati del problema dell’eccezione con l’interesse, che esso merita. Quelli che hanno rivolto a esso la loro attenzione, costituiscono essi stessi (scusate il bisticcio di parole) dei casi eccezionali. Ricorderò che fra gli italiani è stato Salvatore Pugliatti, anche egli un giurista che è più di un giurista (come era Carnelutti), a indagare, con sottile e precisa analisi, il si­ gnificato dell’eccezione nella teoria generale del diritto (z). Avverto però, che il termine « eccezione » ha per i giuristi un significato tecnico, che è riferito al diritto processuale. L’eccezione deriva dalla exceptio del diritto romano, che sta­ va in rapporto con l’azione, o actio, anch’essa intesa in senso giuridico nel diritto processuale. Secondo Pugliatti, in un sistema di regole (giuridiche) « non c’è posto per una vera e propria eccezione»; essa non rappresenta altro che l’immis­ sione, o l’invasione, di una regola appartenente a un sistema nel contesto di un sistema di regole diverse. (’) F. Carnelutti, Tempo perso, Sansoni, Firenze, 1959, pagg. 889-890. (2) S. Pugliatti, Eccezione (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Giuffrè, Milano, 1965, pagg. 151-172. 7. V. Frosini

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Fra gli studiosi di logica deontica, cioè della logica che sarebbe propria del mondo del diritto o del « dover essere », la questione di come inserire l’eccezione in un ragionamento giuridico, cioè in un insieme di regole logiche del discorso normativo, è stata trascurata. Per esempio, il volume che raccoglie gli studi su La règie de droit del Centre national de recherches de logique di Bruxelles, che è curato da un emi­ nente studioso di tecnica dell’argomentazione giuridica, Chaim Perelman, non ne tratta. Avverto però, che il libro si apre con queste parole de\YAvant-propos: « Nous sommes heureux de presenter dans le present volume l’ensemble de communications consacrées à ce sujet (la règie de droit), à I’exception de celles de professeurs... » (3).

Lo stesso Perelman, tuttavia, ha preso in esame l’uso della clausola d’eccezione nel suo Trattato dell’argomenta­ zione, in cui ha definito il ricorso all’eccezione come una « tecnica di frenatura », cioè un metodo retorico per discri­ minare le responsabilità (4). Ma l’eccezione, fra gli studiosi di logica deontica, tuttavia c’è; e come avrebbe potuto man­ care? Alf Ross, nella sua penetrante analisi della negazione deontica, ha ricompreso in essa l’eccezione (°); che perciò si potrebbe definire per lui (se mi è lecito fornire io stesso la espressione al pensiero dell’insigne amico) una « regola ne­ gativa » del diritto, e non già semplicemente una « nega-

(3) La règie de droit, Etudes publiées par Ch. Perelman, Etablissement E. Brylant, Bruxelles, 1971. (4) Ch. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell'argomenta­ zione, trad. ital. di C. Schick, M. Mayer, E. Barassi, Einaudi, Torino, 1966, pagg. 344-345. Si veda anche, dello stesso A., Diritto, morale e filo­ sofia, trad. ital. di P. Negro, Guida, Napoli, 1973. (5) A. Ross, Directives and Norms, Routledge & Kegan Paul, London, 1968, pag. 155.

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zione della regola », come essa viene abitualmente consi­ derata. In conclusione, bisogna riconoscere che l’eccezione è, quanto meno, l’altro profilo del diritto corrispondente a quello della regola, e perciò essa fa parte di ogni ordina­ mento giuridico, che lo si consideri in senso formale o nor­ mativo, ovvero in senso strutturale o morfologico. La regola, per così dire, conferma l’eccezione.

3. Struttura ed evento nella filosofia d’oggi. Quello che ho già detto sul diritto, e cioè la necessità di guardarlo da tutte e due i lati, da quello della regola e da quello dell’eccezione, per riuscire a vederlo nella sua inte­ rezza, nella sua globalità, corrisponde del resto ad un di­ scorso di carattere generale, che si va allargando nella scien­ za e nella filosofia di oggi. Si è diffusa in questi ultimi anni, nella cultura europea, la nuova « metodologia dell’evento », specialmente per merito di Edgar Morin; il quale ha affer­ mato l’importanza « di attuare due strategie conoscitive, una che riconosca il singolare, l’individuale, il contingente, l’im­ probabile, il disordine, e l’altra che colga la regola, la legge, l’ordine» (6). Si tratta di una concezione derivata da un in­ contro fra la cibernetica e la modem systems theory, che è stata applicata in primo luogo alla teoria della comunica­ zione. In particolare, essa muove dalle osservazioni avanzate agli inizi degli anni Sessanta da H. von Foerster, il quale ha dimostrato che il rumore, il disturbo fonico, quello che noi tutti ahimè esperimentiamo così bene al telefono o alla

(6) Teorie dell’evento, a cura di E. Morin, trad. ital. di S. Bompiani, Milano, 1974, pag. 272. La citazione è tolta dal saggio dello stesso E. Momn, L’evento sfinge.

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televisione, può essere considerato esso stesso come un prin­ cipio di auto-organizzazione. Perciò, «dall’istante in cui il sistema è capace di integrare questi errori (come il rumore della scarica elettrica, dell’interferenza, ecc.) nella sua or­ ganizzazione, gli errori sono integrati, recuperati come fat­ tori di organizzazione» (7).

Queste parole mi sembrano meritevoli di attenta consi­ derazione anche da parte di un giurista. Anche il diritto, infatti, può essere definito come un sistema auto-organizza­ tivo: cioè come un metodo operazionale di impulsi, di con­ trolli e di correzioni dei comportamenti umani in una rela­ zione strutturale continua. Anche in questo sistema opera come elemento ricorrente l’errore, il disturbo, l’evento ano­ malo, cioè irregolare; si tratta di recuperarlo nelle regole strut­ turali dell’ordinamento; e per far questo, è necessario ri­ correre ad una tecnica libera ed inventiva, come essa si attua nella concessione della grazia. Il potere di grazia infatti risponde ad una esigenza, che è morale e sociale, ma anche giuridica, di raddrizzare con un gesto le possibili storture della legge; può servire a ripa­ rare, nella maniera più sbrigativa, eventuali errori giudizia­ ri; può servire a ristabilire il prestigio e la verità della giu­ stizia umana in certi casi difficili, in cui il diritto si trova im­ pacciato e vincolato dal formalismo delle norme. Secondo questa nuova dottrina epistemologica, vi sarebbe­ ro dunque due forme distinte e concorrenti di conoscenza: quella basata sulla legge di un sistema, e quella basata su un evento singolare. Nel linguaggio dei giuristi, o si applica una logica chiusa, la logica della legalità, o si applica una

P) H. Altan, Sul rumore come principio di auto-organizzazione, in Teorie dell’evento, cit., pag. 56.

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logica aperta, la logica dell’equità, che giudica appunto caso per caso (8). Vorrei inserire a questo proposito una notazione. La stessa dicotomia era stata avanzata, nella cultura italiana, da uno studioso di letteratura greca, Carlo Diano, in un suo libriccino pubblicato nel 1952, e intitolato per l’appunto: Forma ed evento, che portava come sottotitolo: Princìpi per una inter­ pretazione del mondo greco. In esso, Diano sosteneva che « Achille e Ulisse sono le due anime della Grecia », in quan­ to l’uno era l’eroe simbolo della forma e della forza, e l’altro era l’eroe simbolo dell’evento e dell’astuzia (che è la capa­ cità di dominare l’evento, anzi di crearlo) (9). Si tratta di tre indicazioni culturali diverse fra loro: la teoria fisica dell’informazione, l’interpretazione della civiltà ellenica, la dottrina metodologica dei giuristi. Esse hanno in comune, tuttavia, il richiamo ad una visione della realtà, se­ condo cui il mondo delle regole della conoscenza viene in­ tegrato ed arricchito dalla considerazione di quella, che ho chiamato la controregola: l’evento, la-rup), e vorrei aggiun­ gere, l’eccezione. La quale eccezione è quella che attua il principio della ri-strutturazione della prassi, che sommuove e ricompone l’ordinamento giuridico in un equilibrio delle regole come direttive dell’azione sociale. Lo stesso problema è già stato esaminato nel campo della filosofia morale, cioè nel rapporto fra l’etica della regola e l’etica dell’eccezione, e nel campo del diritto processuale, cioè nel rapporto fra il giudizio di legalità e il giudizio di equità; questa volta vorrei esporre alcune considerazioni nel campo della filosofia del diritto riguardo al rapporto fra la giustizia e la grazia (10). (8) V. Frosini, La struttura del diritto, 4a ed., Giuffrè, Milano, 1973, pag. 95. (9) C. Diano, Forma ed evento, Venezia, 1952, pagg. 79, 66. (10) V. Frosini, Etica della regola ed etica dell’eccezione, nel voi. L’etica della situazione, a cura di P. Piovani, Guida, Napoli, 1974, pagg.

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4. Grazia e giustizia nella filosofia del diritto. In Italia, il Ministero che si occupa degli affari giudiziari si chiama « di grazia e giustizia » : esso è l’unico a chiamarsi in tal modo fra i ministeri di giustizia europei (in Gran Bre­ tagna, esso manca del tutto); nella sua intitolazione, come si può osservare, la «grazia» precede la «giustizia», che ad essa si accompagna. Non vi è dunque contrasto, almeno negli atti ministeriali, fra la giustizia, che dovrebbe essere fon­ data sul principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, e la grazia, che fa invece eccezione, com’è noto, alla applicazione della legge uguale per tutti. Questo problema della grazia, d’altronde, è sfuggito di solito all’attenzione dei teorici della giustizia. Non passerò certo in rassegna il vastissimo campo della letteratura sulla giustizia; mi limi­ terò a ricordare, che l’ultimo grosso trattato sull’argomento, A theory of Justice di John Rawls, già considerato dalla critica come un’opera di particolare importanza, nel corso delle sue seicento pagine ignora tale problema (u). Eppure, anche negli Stati Uniti, dove vive ed insegna l’autore, non è un problema di poco conto: basterà ricordare la conclusione dell’affare Watergate, con la grazia o pardon concessa dal presidente Ford al suo predecessore Nixon, che ha evitato a quest’ultimo di essere sottoposto a processo.

In verità, non è mancato qualche filosofo del diritto, che ha esaminato precisamente il rapporto fra la giustizia e la

413-426; Straniar und Bedeutung der Billigkeitsurteils, in Archiv fiir Rechts-und Sozialphilosophie (ARSP), 1967, LIII/2, pagg. 179-195 (trad, ital. nel voi. dello stesso A., Teoremi e problemi di scienza giuridica, Giuffrè, Milano, 1971, pagg. 197-212); L’equità nella teoria generale del diritto, supra, pag. 67 ss. (u) J. Rawls, A theory of Justice, Clarendon Press, Oxford, 1972.

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grazia: come ha fatto Gustav Radbruch, in un suo saggio dedicato precisamente a questo argomento, Gerechtìgkeit und Gnade (I2). In esso, il Radbruch esprime con una sugge­ stiva metafora poetica il suo concetto della grazia: essa è per lui «wie ein Lichtstrahl aus einem anderen Reiche in die dunirle und kiìhle Welt des Rechts », è come un raggio di luce, che proviene da un diverso regno, e penetra nel fred­ do e scuro mondo del diritto. La grazia si può dunque para­ gonare al miracolo: «giacché come questo infrange le leggi di natura, così quella infrange la legalità del diritto». La grazia starebbe perciò, sempre secondo Radbruch, al di fuori della logica giuridica. Non sono d’accordo su questa impostazione mistica e mistificante, se così posso dire col dovuto rispetto all’illustre filosofo del diritto tedesco, che egli ha fatto del problema della grazia. Prendiamo in esame un esempio di conces­ sione della grazia, che è davvero emblematico, e che del resto è il più famoso di tutti: l’esempio della grazia con­ cessa da Pilato a Barabba, invece che a Cristo; un episodio decisivo della vicenda evangelica e di enorme significato per la religione cristiana. Lascerò da parte la questione, che secondo la critica sto­ rica più recente e più accreditata, nella ricostruzione fatta da Brandon del processo a Gesù, « la pretesa usanza di li­ berare un prigioniero per la Pasqua non trova conferma in nessun’altra testimonianza » ; sicché, a giudizio dello storico e teologo britannico, « appare inevitabile concludere che Mar­ co (l’evangelista) abbia riportato in modo erroneo qualche incidente avvenuto al tempo del processo di Gesù a Geru(12) G. Radbruch, Gerechtigkeit und Gnade, in Scritti per Carnelutti, vol. I, Cedam, Padova, 1950, pagg. 35-41; cit. a pag. 40. Questo scritto è poi stato accolto nel voi. dello stesso A., Rechtsphilosophie, K. F. Koehler, Stuttgart, 1954, cita?, a pag. 434.

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salemme » (13). Mi limito ad osservare, che la stessa testi­ monianza degli evangelisti mi pare di per sé molto signi­ ficativa. Si può pensare, infatti, che essi inventassero a scopo apologetico un episodio; ma è difficile credere, che essi in­ ventassero un’usanza, chiamandola usanza, cioè un compor­ tamento ripetuto nel tempo, e ritenuto conforme a un diritto dall’aspettativa popolare. La grazia concessa dal procuratore romano a Barabba, da lui riconosciuto colpevole, invece che a Gesù, da lui ricono­ sciuto innocente, per cedere alla richiesta della folla ri­ sponde ad una logica politica crudele di opportunità, a quello che il Radbruch chiama lo Ztvechratìonalismus o razionali­ smo finalizzato; ma essa è chiaramente contraria alla giu­ stizia; non riesco a vederla come un raggio di luce, destinato a produrre, come egli ritiene, una profonda commozione e un vitale rovesciamento, proprio perché immotivata e ina­ spettata. Certo, nella rappresentazione evangelica, il sacrifi­ cio di Gesù, su cui si posa la grazia divina perché egli ot­ tenga la redenzione del genere umano, sembra fare da dram­ matico contrappeso alla liberazione terrena di Barabba. Da un punto di vista giuridico, però, quella grazia non è certo servita a confermare la regola della giustizia, come sarebbe avvenuto, se fosse stata concessa a Gesù. E perciò meritatamente Dante ha collocato Ponzio Pilato, colpevole di avere fatto « il gran rifiuto » con il gesto di lavarsi le mani, fra coloro che non meritano giustizia né grazia: «misericordia e giustizia li sdegna» (M). Anche per Dante, infatti, miseri-

(13) S. G. F. Brandon, II processo a Gesù, trad. ital. di M. Segre, Ediz. di Comunità, Milano, 1974, pagg. 182-183. Per un giudizio del car­ dinale J. Daniélou, v. la Introduzione di B. Segre all'op. cit., p. 30, nota 6. (M) V. Frosini, Misericordia e giustizia in Dante, in Rio. internazio­ nale di filosofia del diritto, XLIII, 1965, pagg. 310-320.

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cordia e giustizia debbono andare insieme; e il suo poema è, sotto un certo profilo, proprio quello che interessa un giurista, una immaginosa e ragionata dimostrazione del rap­ porto fra la giustizia e la grazia. Secondo il Radbruch, la grazia dovrebbe invece contrap­ porsi allo Zu/eckraiionalismus, che nella odierna età della tecnica domina il diritto, per affermare nei suoi confronti un altro e più alto ordine di valori. A mio giudizio, l’uso della grazia, che si riscontra in tutti gli ordinamenti giuridici, do­ vrebbe precisamente servire ad innalzare dall’interno lo stesso diritto ad un livello più alto di umanità e di giustizia, pro­ prio perché essa opera come strumento giuridico. Lo stesso è quello che avviene con il giudizio di equità, che è un giu­ dizio entimematico e non sillogistico, in cui cioè il fatto viene giudicato senza fare ricorso allo schema del sillogismo nor­ mativo; ma esso resta comunque un giudizio, pronunciato dal giudice nell’àmbito di un ordinamento giuridico e se­ condo una speciale procedura giudiziaria. L’equità è la giu­ stizia del caso singolo, dell’evento nella sua particolarità ir­ riducibile, ed essa sta perciò a fondamento dello stesso potere di grazia. L’equità e la grazia rappresentano entrambe «ec­ cezioni » alla « regola della legge », ma valgono a confer­ mare il principio della giustizia nell’esercizio del diritto giu­ diziario, e cioè l’autorità morale della legge. Esse servono a regolare un fatto singolo: il quale viene così regolato per se stesso; la regola giuridica consiste nel criterio regolatore di quel solo fatto, e perciò fa tutt’uno con esso.

Non sono d’accordo, dunque, sull’idea che la grazia rap­ presenti l’irruzione dell’etica (o, più spesso, della politica) nel diritto, il trapianto, per così dire, di una regola morale nell’organismo malato delle regole giuridiche. Essa si con­ trappone alla regola giuridica, in quanto eccezione giuri­

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dica, ispirata ad una logica diversa da quella delle norme; ma che tuttavia opera e vale perché compresa nel più vasto insieme di un ordinamento giuridico, che non si riduce al sistema delle norme scritte. 5. Il potere di grazia nel sistema costituzionale italiano. L’art. 87 della Costituzione italiana, comma 11, dispone che il Presidente della Repubblica «può concedere grazie e commutare le pene ». In questo modo, è stata confermata al Capo dello Stato la stessa prerogativa, che era stata attribuita — con le stesse parole precise — al Re, dall’art. 8 dello sta­ tuto del Regno d’Italia. Nel mutamento profondo dei regimi politici e degli ordinamenti giuridici, avvenuto in cent’anni, — dal 1848, quando venne emanato a Torino lo Statuto, al 1948, quando entrò in vigore la Costituzione — l’istituto della grazia è rimasto inalterato. Si domandava al re di fare la grazia, come lo si domandava ad un santo protettore; si continua a domandarla al presidente della repubblica. Al Capo dello Stato vennero indirizzate, nel 1957, ben 32.000 richieste di grazia: ne furono concesse 2.209. Nel 1965 ne furono concesse 2.251. E poiché la media delle grazie elar­ gite, almeno nei primi venti anni della Repubblica, pare che si sia mantenuto sulle duemila l’anno, si può ritenere che siano state concesse, dall’inizio del regime repubblicano fino ad oggi, circa 50.000 grazie. Ho detto « pare », e « si può ritenere », perché, purtroppo, i dati relativi al numero dei procedimenti di grazia non ven­ gono resi pubblici ogni anno. E nemmeno si conoscono i criteri, con cui vengono concesse le grazie, perché il decreto di grazia, a differenza della sentenza, non ha la sua moti­ vazione. E nemmeno si conosce chi sia veramente a decidere la concessione della grazia: giacché, dato il numero così

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rilevante di grazie da esaminare, il presidente della repub­ blica in persona può occuparsene solo in alcuni casi, che sono davvero eccezionali. Chi sbriga l'iter burocratico delle ri­ chieste di grazia, è un ufficio del Ministero, che si chiama perciò in Italia, pienamente a ragione, di grazia e giustizia. La situazione è stata chiaramente definita da un serio stu­ dioso del problema, Gustavo Zagrebelsky, in questi termini: « La grazia tende così a diventare uno strumento di uso co­ mune, tale da incidere profondamente sull'amministrazione della giustizia penale. Il procedimento di grazia tende insomma ad atteggiarsi, per così dire, a quarto grado del processo, condotto da autorità non giurisdizionali t politicamente irresponsabili con criteri equitativi assolutamente discrezionali e senza alcuna garan­ zia formale riconosciuta al soggetto istante » (15).

Lo stesso motivo di preoccupazione, che risuona nelle parole riferite, era stato già avvertito da qualche commenta­ tore politico sulla stampa quotidiana; si era parlato perciò, a proposito delle grazie ed amnistie concesse a ripetizione in Italia, di una « giustizia a maglie larghe » (16), una rete da cui molti pesci, piccoli e non tanto piccoli, possono scappare fuori. Dicendo questo, non si intende contestare il potere di grazia: giacché esso ha il suo fondamento nella stessa uma­ nità, ed è anzi l’attributo più alto e solenne, che venga con­ ferito al potere politico: di farsi ultimo giudice, di riscattare l’individuo dal peso, talora oppressivo, della socialità della giustizia, e restituirlo per così dire a se stesso, nella sua au­ tonoma personalità e responsabilità morale. Si vuole richia(’’) G. Zagrebelsky, Amnistia, indulto e grazia - Profili costituzio­ nali, Giuffrè, Milano, 1974, pagg. 221-222; da questo libro derivo i dati sui provvedimenti di grazia riferiti nel testo. (16) V. Frosini, La giustizia a maglie larghe, nel Corriere della Sera del 18 gennaio 1972, pag. 5.

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mare l’attenzione sul carattere di eccezionalità giuridica di questo istituto: il quale non deve però essere considerato di natura così discrezionale, da parere arbitrario, e di carattere così riservato, da parere occulto. Si aggiunga infatti, a comple­ tare l’oscurità del quadro italiano, che ogni dieci anni i fa­ scicoli dei provvedimenti di grazia vengono sottratti al­ ali’archivio e mandati al macero: sicché la ricerca sociologicogiuridica su di essi viene resa totalmente impossibile per la mancanza di documentazione. Il procedimento di inoltro, di esame e di esito della do­ manda di grazia è sottoposto in Italia a certe condizioni e a certe regole di prassi giudiziaria, che rendono il procedimento stesso di solito (ma non sempre, come ha denunciato la stampa in certi casi) (17) piuttosto lungo nel tempo e com­ plicato e incerto. Qualcuna di queste regole, peraltro, come quella che condiziona la concessione della grazia al versa­ mento di una somma a favore della « Cassa delle ammen­ de », è stata ritenuta addirittura illegittima da uno dei nostri più autorevoli studiosi di diritto penale, Giuliano Vas­ salli (18).

II fondamento del problema, su cui si deve riflettere, ma di avanzare proposte intese a rendere più efficace e glio controllato questo delicato e prezioso strumento ridico, è precisamente quello del suo carattere giuridico,

pri­ me­ giu­ cioè

(17) Come nel caso della grazia concessa all’industriale Comini il 12 agosto 1973. Essa diede luogo ad una polemica fra il ministero di grazia e giustizia (v. il comunicato apparso sui giornali il 15 agosto 1973) e il pretore che aveva emesso la sentenza di condanna (v. la replica del pre­ tore sul Corriere della Sera del 28 agosto 1973), e a diverse lettere di pro­ testa del pubblico ai giornali: v. il Corriere della Sera del 20 e 23 agosto 1973 e Panorama del 30 agosto 1973. (18) G. Vassalli, Sulla grazia condizionata al versamento di una somma, in Studi per Esposito, vol. IV, Cedam, Padova, 1974, p. 2369.

IL DIRITTO DI GRAZIA

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della sua attribuzione di titolarità e del suo effettivo eser­ cizio. La titolarità del potere di grazia appartiene indubbia­ mente al Capo dello Stato; perciò l’istituto della grazia è stato di solito ritenuto come facente parte del diritto costitu­ zionale; e Zagrebelsky ha sostenuto, che l’atto di grazia va configurato come un « atto politico » o di governo, che sfugge, o piuttosto che supera, la tripartizione dei poteri le­ gislativo, esecutivo e giudiziario. Esso non viene infatti pro­ posto dalle camere rappresenttive, né viene sottoposto alla loro approvazione; non si può considerare come un normale atto amministrativo, giacché manca la possibilità di fare ri­ corso ai tribunali amministrativi; non si può nemmeno confi­ gurare, almeno secondo l’autore citato, come un atto che mo­ difichi una sentenza giudiziaria, o che si sostituisca ad essa. Faccio però osservare, che esso è però certamente un atto di «giurisdizione negativa», che pone in non-essere un atto giurisdizionale nella sua esecutività, e dunque interferisce nell’amministrazione della giustizia.

L’esercizio del potere di grazia però, come risulta eviden­ te, non viene svolto dal Capo dello Stato. Anzitutto la do­ manda non viene inoltrata direttamente a lui, ma viene pre­ sentata ad un ufficio giudiziario, come prescrive l’art. 595 del cod. proc. pen. Poi, il procedimento istruttorio, relativo all’accertamento del contenuto della domanda e alle altre condizioni richieste per il suo accoglimento, viene svolto da magistrati. E infine, il decreto di grazia viene presentato per la firma al Capo dello Stato dal ministro di grazia e giu­ stizia, e viene controfirmato dallo stesso ministro. Nella so­ stanza e nella forma di certi atti (per esempio, la domanda può essere firmata da un avvocato), siamo in presenza di un procedimento giudiziario di genere speciale.

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

Lo stesso art. 87, che attribuisce il potere di grazia al Presidente della Repubblica, conferisce al comma preceden­ te (il decimo) la presidenza del Consiglio superiore della magistratura al Capo dello Stato. Si può ritenere pertanto, almeno a mio giudizio, che il potere di grazia venga eserci­ tato dal Presidente della Repubblica anche nella sua veste di supremo garante del corretto funzionamento della giu­ stizia: come il difensore civico, a cui possono appellarsi i cittadini per la difesa dei loro diritti morali dalle ingiurie della giustizia secondo le regole della legge; come il primo magistrato della Repubblica, chiamato a pronunciare un giu­ dizio di equità. Nella sua relazione annuale al Parlamento, sarebbe dunque opportuno che il Consiglio superiore della magistratura dedicasse un capitolo apposito all’uso del po­ tere di grazia. La concessione della grazia si può considerare infatti come la sentenza di una « giurisdizione d’eccezione », per valermi con un significato nuovo del termine esaminato da R. Lindon in un suo libro (19). E vorrei concludere, facendo l’apologia del diritto di grazia: non già come «eccezione» alla regola di diritto, quale esso viene comunemente inteso ed accettato; bensì come « controregola », come giudizio di equità pronunciato non secondo la legge ma secondo la giustizia, come evento che rende flessibile la struttura giuridica, che piega il diritto ma non lo infrange, che si adatta al caso singolo come quel «regolo lesbio», di cui parlava Aristotile. Quello che vorrei dire, lo ha già detto benissimo un grande costituzionalista, quale fu Benjamin Constant, nelle ultime pagine dei suoi Principes de politique-. «Le droit de faire grace n’est autre chose que la conciliation de la loi generale avec l’équité par(19) R. Lindon, Justice: un magistral depose, Presses Univ, de France, Paris, 1975, pag. 64 e ss.

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ticulière » (20). La giustizia, come si sa, si serve della bilancia e della spada, per giudicare e per punire; ma solo quando ha bene pesato sulla sua bilancia, può deporre con essa anche la spada.

(A>) B. Constant, Oeuvres, Bibliot. de la Plèiade, Paris, 1957, pag. 1245.

IL DIRITTO DI FAMIGLIA NELLA TEORIA GENERALE DEL DIRITTO

8. V. Frosini

1. L’eredità teorica di Hegel e il pensiero di A. Cicu.

La formula d’origine hegeliana della famiglia come « or­ ganismo etico universale» che costituisce la cellula generati­ va dello Stato è quella che appare aver messo radici, meglio di ogni altra, nella cultura giuridica della classe dirigente italiana agli inizi del Novecento. La sua prima precisa enun­ ciazione si ritrova nelle pagine della Enciclopedia giuridica di F. Filomusi Guelfi, un’opera pubblicata nel 1873, che co­ stituì la prima « teoria generale del diritto » apparsa in Ita­ lia, proprio negli stessi anni in cui Adolfo Merkel esponeva il programma della nuova disciplina (1). È un’opera, che ha lasciato però a lungo traccia di taluni equivoci nella nostra dottrina: fra i quali appunto si colloca una lettura di Hegel fatta in modo parziale, intesa in senso dommatico e adat­ tata in funzione didascalica, come nel caso del diritto di fa­ miglia. Questo viene trattato da Hegel agli inizi della terza parte (L’eticità) dei suoi Lineamenti di filosofia del diritto, ed a questo tòpos venne fatto da allora esclusivo riferimento nella nostra cultura giuridica, a partire da Antonio Cicu. Il pensiero di Hegel ha però la sua fecondità proprio nel­ la sua intrinseca forza dialettica, nella sua capacità di rivelar­ si in una tensione creativa. Come ha detto bene Th. Adorno, « la verità di Hegel si annida in ciò che è scandalo, e non nel plausibile. Recuperare Hegel (...) significa quindi collofi) Sui rapporti fra l’opera di Filomusi Guelfi e quella di Merkel, e relativa bibliografia, v. sub voce Teoria generale del diritto, in Novis­ simo digesto, 1973, vol. XIX, rist. in V. Frosini, Teoremi e problemi di scienza giuridica, 2a ed., Giufirè, Milano, 1975, pag. 3 e ss.

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

carsi nel punto più dolente della sua filosofia e là dove la sua non-verità si fa più manifesta strapparle la verità» (2). E il problema dello « essere etico della famiglia » è stato mace­ rato nel suo pensiero anche nelle pagine della Fenomenolo­ gia dello spirilo, là dove Hegel mette in rapporto fra loro « la legge del giorno e il diritto delle ombre » e considera la « essenza della legge divina della famiglia » come « essenza negativa, (che) si mostra come il potere peculiare della co­ munità e come la forza della sua autoconservazione » (3). He­ gel ha dunque riconosciuto nell'ethos della famiglia la pre­ senza di quello, che si potrebbe chiamare il «diritto nega­ tivo» in contrapposizione al diritto positivo dello Stato: contrasto, che ha trovato una sua rappresentazione emble­ matica nella tragedia di Antigone (4). Come ha infatti osser­ vato un recente interprete dell’odierno diritto di famiglia, Giorgio Clan, « il costume nei rapporti familiari non è sen­ z’altro equivalente a un diritto applicato, ma può essere molte altre cose: ...può essere il costume di gruppi fra loro differenti e diverso in ciascun caso da quello del gruppo mag­ gioritario » (5). Comunque, la concezione hegeliana di una famiglia rac­ chiusa nell’organismo etico dello Stato è quella che ha eserE) Th. W. Adorno, Tre studi su Hegel, trad. it. di F. Serra, Il Mu­ lino, Bologna, 1971, pagg. 106-107. (3) G. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, 1973, vol. II, pagg. 14-15 (ho corretto il termine « potenza » in « potere »). Persiste ancora la lettura di Hegel secondo il modulo riferito nel testo: v. da ultimo H. Kiesewetter, Von Hegel zu Hitler, Hoffman und Campe Verlag, Hamburg, 1974, pagg. 95-96. (4) Meglio del dialogo con Creonte, illumina il carattere della tra­ gedia il monologo o «lamento»: v. la recente trad, di G. Lombardo Ra­ dice, Sofocle, Antigone, Einaudi, Torino, 1976, pagg. 45-46. Restano fon­ damentali le osservazioni al riguardo di Goethe, riferite da J. P. Eckermann, Colloqui con Goethe, Sansoni, Firenze, 1947, spec. pagg. 534-539. (5) G. Cian, Introduzione al Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro-Oppo-Trabucchi, Cedam, Padova, 1977, pag. 25.

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citato una decisiva influenza sulla formazione ideologica di molti giuristi italiani, che sono stati generati da una matrice di conservazione politica e sociale, e sono cresciuti nell’at­ mosfera dell’idealismo giuridico italiano del Novecento (6). Il caso esemplare è appunto quello costituito da Antonio Cicu, la cui opera apparsa nel 1914 e intitolata 11 diritto di famiglia. Teoria generale, si può ritenere ancora fondamentale per questi studi. In essa, come si può rilevare dallo stesso titolo, veniva trattata la teoria generale del diritto di famiglia, e non già il diritto di famiglia nella teoria generale del diritto. Il Cicu, infatti, si limitava a recepire e ad assumere il qua­ dro convenzionale della teoria del diritto positivo come in­ sieme normativo sanzionato dal potere statale, e ne accoglieva anche la distinzione usuale fra diritto privato e diritto pub­ blico. In questo quadro tuttavia il Cicu compiva un’importante operazione teorica, giacché egli provvedeva a spostare il di­ ritto di famiglia dalla zona del diritto privato, a cui veniva attribuito dalla sua appartenenza al codice civile, verso la zona del diritto pubblico; in quanto, a suo giudizio, la famiglia si distingue dagli « organismi di diritto privato » e si avvi­ cina a quelli di diritto pubblico, perché in essa è preminente il momento del « dovere » su quello del « potere » giuridico. In tal modo, la teoria del diritto (in quanto trasposizione in termini concettuali di una visione politica della comunità) tendeva ad innovare sugli atteggiamenti determinati dalla tradizione giuridica risalente al codice napoleonico: segno questo di un mutamento sopravvenuto nel sistema dei rap(6) V. Frosini, L’idealismo giuridico italiano del Novecento, in La filosofia del diritto in Italia nel sec. XX (Atti dell’XI Congresso naz. della Società italiana di filosofia giuridica e politica), a cura di R. Orecchia, Giuffrè, Milano, 1976, vol. I, pagg. 7-32.

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porti sociali, per cui si avvertiva l’esigenza di una nuova e diversa formulazione dottrinaria. Non è che Cicu «rivendichi al diritto pubblico il diritto di famiglia», come pure è stato scritto da un autorevole ed acuto studioso dell’argomento, Paolo Ungari f7); o che ne faccia un tertium genus fra diritto privato e pubblico, come sostenne F. Messineo; ovvero ancora, che nelle sue idee sul diritto familiare vengano puntualizzate le analogie col di­ ritto pubblico, ma al fine di annullare la dialettica pubblico­ privato, come ha ritenuto M. Sesta (8). Cicu opera in effetti una conta-minatio fra le due categorie, in quanto configura il negozio giuridico nel diritto familiare come atto di potere, efficace dunque a produrre effetti giuridici, ma che « inversa­ mente a quanto avviene nel diritto privato » è capace di pro­ durre quegli effetti solo in via eccezionale, cioè quando coin­ cide con il dovere. Cicu non si rendeva conto con chiara coscienza della sua ambiguità teorica, e infatti, in uno dei suoi ultimi scritti sullo stesso tema, concludeva col ricono­ scere il diritto familiare «non come parte del diritto pub­ blico, ma come parte autonoma del diritto privato, fondata però su un interesse pubblico e non sulla volontà dei pri­ vati» (9). La lezione hegeliana era stata dunque accolta e ripresa come riconoscimento della prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato familiare: affermazione, che aveva modifiC7) P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, 2a ed., Morcelliana, Brescia, 1974, pag. 41; v. anche dello stesso A., Il diritto di famiglia in Italia, Il Mulino, Bologna, 1970, pag. 177 e nota 4, in cui si ricorda l’opinione di F. Messineo. (8) M. Sesta, Profili di giuristi italiani contemporanei: Antonio Cicu e il diritto di famiglia, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1976, vol. VI, pag. 467. (9) A. Cicu, Principi generali del diritto di famiglia, in Ria. trim, dir. proc. civ., 1955, IX, pag. 12.

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cato l’atteggiamento giuridico assunto al riguardo dalla bor­ ghesia liberale ottocentesca. 2. La famìglia come istituzione nella dottrina di S. Romano. Il problema di una nuova definizione del diritto di fami­ glia, prospettato da Cicu nel 1914, ricevette una diversa im­ postazione qualche anno dopo ad opera di Santi Romano nel suo saggio su L’ordinamento giuridico, la cui prima par­ te venne pubblicata nel 1917. L’origine regionale dei due au­ tori, l’uno sardo e l’altro siciliano, non è priva di significato ai fini di una interpretazione storica del loro pensiero. Erano entrambi isolani, entrambi provenienti da due ambienti pe­ riferici ed isolati rispetto allo svolgimento della moderna civiltà giuridica: basterà ricordare, che Sardegna e Sicilia furono i soli territori rimasti esclusi dalla rivoluzione na­ poleonica, essendo entrambe divenute i rifugi delle rispettive monarchie regnanti; sicché il codice napoleonico non fu mai portato sulla punta delle baionette oltre lo Stretto di Mes­ sina ed oltre le Bocche di Bonifacio. Cicu e Romano porta­ vano impressa nel profondo della loro psicologia l’immagine di una famiglia patriarcale, ancora preborghese, sorretta da leggi ancestrali, tutta ravvolta in se stessa. Per Cicu il diritto di famiglia non è diritto privato ma non è nemmeno diritto pubblico in senso proprio: esso è diritto sociale, protoplasma giuridico irriducibile ad una sola delle due categorie domi­ nanti nello Stato moderno. Per Santi Romano la famiglia è un ordinamento giuridico originario, una istituzione la cui figura, com’egli avverte, « non è da ricercare nelle leggi dello Stato», giacché essa dà a se stessa le sue leggi, non le riceve dall’esterno. Quella figura egli traccia in una pagine vibrante di un pathos rattenuto, in cui risuona un accento, che Vico avrebbe detto «eroico». Eccola: «Quando un qualsiasi in-

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

dividuo, nell’ambito in cui egli può considerarsi quasi come un re nel suo regno, cioè nella sua casa (intesa questa pa­ rola in senso largo), stabilisce un ordinamento, che valga pei suoi familiari, per i suoi dipendenti, per le cose che sono a sua disposizione, pei suoi ospiti, e così via, egli in sostanza crea una piccola istituzione, di cui si erige a capo e si fa parte integrante» (10). Sarebbe difficile trovare parole simili nell’analisi di un altro giurista europeo con temporaneo: nemmeno sulle pagine di un M. Hauriou, il cui nome viene di solito accostato a quello di Santi Romano. L’istituzione (anche quella fami­ liare) nasce però per l’autore francese (e cartesiano) da una «idea di opera o di intrapresa, che si realizza e dura giuri­ dicamente in un ambiente sociale » (u). Per Santi Romano, invece, al principio non sta l’idea, il lògos, ma il fatto, la azione organizzativa, e perciò una speciale importanza rive­ ste nella sua opera il motivo della «necessità», su cui ha ri­ chiamato di recente l’attenzione degli studiosi l’indagine at­ tenta di A. Tarantino (12). Anche la famiglia è per Santi Ro­ mano, com’era per Cicu, una associazione necessaria, e non meramente volontaria: sicché, com’egli scrive, perché sorga una istituzione «è necessario che si formi una superstruttura sociale da cui i rapporti singoli dipendano o siano dominati », e l’ordinamento interno della famiglia può continuare a ri­ posare su vecchie consuetudini (13). (I0) S. Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze, 1945, pag. 61. (”) M. Hauriou, Teoria dell’istituzione e della fondazione, a cura di W. Cesarini Sforza, Giuffrè, Milano, 1967, pagg. 12-13. Per le diffe­ renze fra S. Romano e Hauriou, v. sub voce Istituzione, in Novissimo digesto, 1963, vol. IX, pagg. 266-269. (12) A. Tarantino, La teoria della necessità nell’ordinamento giuri­ dico, Giuffrè, Milano, 1976. (u) S. Romano, op. cit., pagg. 55-56 e .157.

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Malgrado le differenze di inquadramento teorico, che ab­ biamo indicato, fra la concezione di Cicu e quella di Roma­ no, emerge dalla loro comparazione un elemento fisionomico comune, che può riconoscersi in entrambe: esso è rappresen­ tato dall’affermazione che la famiglia, dal punto di vista della teoria generale del diritto, consiste in una realtà asso­ ciativa organica ed unitaria, in una stabile struttura chiusa di relazioni, in un soggetto plurale autonomo di diritto. Non è un soggetto di diritto privato, appunto perché non riduci­ bile alla singola volontà con potere di disposizione, ma se­ condo Cicu essa è «un soggetto attivo di doveri». Potrebbe essere un soggetto di diritto pubblico, come nel caso di una famiglia regnante, sostiene il Romano, il quale dedicò nel suo Corso di diritto costituzionale un apposito paragrafo alla « Famiglia reale italiana », osservando che « oltre il vincolo di parentela civile in se e per se, si deve tenere presente, per determinare il concetto di Famiglia reale, la capacità delle persone che la compongono di assumere la Corona » (I4). E certo non va trascurato il fatto pratico, che al tempo di quei giuristi c’era una famiglia che stava al vertice dell’ordina­ mento statale, e che essa imponeva un modello giuridico alla considerazione di studiosi imbevuti di tradizionalismo mo­ narchico nella loro educazione civile. La famiglia si presen­ tava perciò a Cicu come fornita di una « struttura interna » (cioè di relazione fra i propri membri) e di una « struttura esterna» (in rapporto con lo Stato); a Romano, come isti­ tuzione permanente nella varietà di forme, ordinamento giu­ ridico che è fonte al suo interno di « obbligazioni giuridiche perfette e complete» in osservanza alle sue leggi non scritte; (M) 8. Romano, Corso di diritto costituzionale, Cedam, Padova, 6a ed., 1941, pag. 218. Si noti, che nei Principi di diritto costituzionale gene­ rale, Giuffrè, Milano, 1945, scomparirà ogni accenno alla « Famiglia reale » (pag. 202 e ss.).

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fornita dunque di una propria autonomia, sia pure come « essenza negativa », per dirla con l’altro Hegel della Fe­ nomenologia.

3. La famiglia, lo Stato e l’ideale autoritario. La prima riforma del diritto di famiglia, che aveva ri­ cevuto la sua collocazione nel codice liberal-borghese del 1865 di chiara impronta napoleonica, si verificò all’indomani della fine del primo conflitto mondiale, con la legge del 17 luglio 1919, n. 1776, che aboliva l’istituto dell’autorizzazione maritale: conseguenza questa delle nuove condizioni sociali venutesi a creare dopo il grande rimescolamento della prima guerra di masse e con il sorgere delle nuove esigenze generate dall’avvento dell’età industriale. Stava per iniziarsi una meta­ morfosi della famiglia, ma gli schemi teorici dei giuristi ri­ masero legati alla sua immagine tradizionale, la cui persi­ stenza si può riscontrare fino al 1943 nelle osservazioni del maggior teorico generale di quel tempo, Francesco Carnelutti.

Questi non aveva dedicato un particolare rilievo al pro­ blema nella sua opera sistematica di teoria generale, che ha un carattere metodologico-normativo, ma nelle sue Lezioni di diritto penale egli osservava che la materia dei « reati so­ ciali» consisteva nella Famiglia, nello Stato e nella Chiesa, che « sono realtà allo stesso modo degli uomini che li com­ pongono»; per cui, ove si commettano i reati di adulterio o di concubinato, la Famiglia è disgregata, ed è il corpo sociale che ne risente, per la ferita impressa al suo ordine (1S). Fa­ miglia, Stato e Chiesa erano i tre pilastri, su cui a parere di Carnelutti si fondava «l’ordine naturale della società»; si (13) F. Carnelutti, Lezioni di diritto penale, Milano, 1943, pag. 55.

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trattava in effetti, come appare evidente, della proiezione mi­ tologica di una ben precisa ideologia caratteristica di quella epoca storica, che ebbe il suo documento emblematico nel Concordato fra Stato e Chiesa dell’ll febbraio 1929, nel quale la Famiglia fungeva da terzo protagonista. Il Concor­ dato bloccò il movimento di trasformazione giuridica della famiglia iniziatosi dieci anni prima e cristallizzò la struttura familiare nel modello di tradizione cattolica (tó).

Se si volessero ricordare le enunciazioni di principio, che riassumevano un diffuso orientamento della dottrina, e che imprimevano un sigillo di autorità sull’immagine giuridica della famiglia, ne andrebbero menzionate due. La prima è la relazione su 11 diritto di famiglia presentata al primo Con­ gresso giuridico italiano, tenuto a Roma nell’ottobre 1932, secondo cui « la famiglia è il nucleo fondamentale della so­ cietà nazionale e, come tale, deve essere rafforzata nella sua compagine morale e materiale difesa e garantita in tutte le sue più elevate espressioni, ravvivata e rinsaldata nel sano e profondo contatto con le correnti migliori e più forti della stirpe, che, muovendo dalle più lontane ragioni della storia, si dirigono verso le mete del destino » (17). Si trattava di enun­ ciati retorici, intesi a colpire il mondo delle emozioni e della immaginazione coi riferimenti alla stirpe, alle remote ra­ gioni e al destino, ma quattro anni dopo, nella sua prolu­ sione al corso di diritto civile nell’università di Pisa, un giu­ rista come G.B. Funaioli aveva ancora l’ingenuità di pronun­ ciare le frasi seguenti: «La tradizione è l’unica e suprema ga­ ranzia al mutar delle leggi laddove ogni brusca variazione è (16) C. Cardia, Il diritto di famiglia in Italia, Ed. Riuniti, Roma, 1975, pag. 67 e s. (17) G. GrisostomijMarini, Relazione su II diritto di famiglia, a cura del Sindacato naz. fascista avvocati e procuratori, 1932.

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pericolosa: e soprattutto nell’istituto familiare, statico per na­ tura, siccome più di ogni altro perenne, nel mutevole ritmo della vita sociale e dei suoi ordinamenti » (18). Era questa una dichiarazione di totale innocenza socio­ logica: giacché proprio allora anche in Italia, si cominciava a delineare una nuova complessa morfologia della famiglia, che si andava articolando in diversi tipi di famiglie, urbane e rurali, meridionali e settentrionali, borghesi e proletarie, alle quali oggi guarda la più avvertita analisi di sociologia giuridica (19). Lo stesso Funaioli del resto avvertiva, con acuta sensibilità di giurista, gli inizi di una metamorfosi familiare, indicandone gli indizi nelle manifestazioni normative. In­ fatti si annunciava, con la riforma del codice civile, l’ingresso nella « famiglia giuridicamente rilevante » di nuovi discen­ denti legittimi (i figli naturali riconosciuti); mutavano i rap­ porti economici fra i componenti della famiglia; si voleva « rafforzare la direzione della famiglia nelle mani del capo », ma in effetti si attuava «quell’intervento dello Stato, che si manifesta con vigilanza o addirittura con ingerenza costante e decisiva » per mezzo del giudice tutelare.

E tuttavia, non ancora riformato il codice, nel 1940 nella stessa Pisa veniva presentato ad un convegno di giuristi il progetto di una Carta del Diritto, in cui si affermava: «La famiglia è il nucleo fondamentale della società nazionale. L’unità e la saldezza morale ed economica della famiglia sono garanzie della forza della Nazione. Lo Stato riconosce il carattere religioso dell’atto di fondazione della famiglia; rende inattaccabile il patrimonio di essa; stabilisce gli organi

(ls) Archivio (19) pag. 137

G. B. Funaioli, Famiglia e Stato nell’ordinamento italiano, in di Studi corporativi, A. VII, 1936, pag. 9. E. Resta, Conflitti sociali e giustizia, De Donato, Bari, 1977, e ss.

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dei poteri familiari, ne controlla l’attività e, nel difetto, li sostituisce » (20).

1943 e dopo: i patrimoni «inattaccabili» delle famiglie borghesi andavano letteralmente polverizzandosi sotto i bom­ bardamenti e per la spinta inflazionistica, e in quanto alla unità e saldezza morale, questa si disgregava nel generale sconvolgimento; il potere pubblico non era più una garanzia di difesa, ma era divenuto una minaccia di persecuzione. E così risorgeva il diritto negativo della famiglia, comunità di presenti e di lontani, di viventi e di morti, rinsaldata dalla bufera della storia invece che dalle leggi di diritto positivo. Chi legga, o rilegga, il colloquio che Luigi Einaudi, Presi­ dente della Repubblica, ebbe col padre dei sette fratelli Cervi f21) avvertirà la forza operosa di un diritto di famiglia, intesa questa non già come una istituzione chiusa, ma come una struttura aperta e libera, come essa veniva dolorosamente rimodellata nella grande fornace della storia. È doveroso registrare tuttavia il ricordo di una voce ferma e difforme dal coro, che si levò fra i teorici del diritto nel periodo compreso fra le due guerre. Nel 1930, proprio al­ l’indomani del concordato di regime, apparve una pagina di Giuseppe Capograssi, che riluce di un’austera e vibrante sin­ cerità morale. « In definitiva matrimonio e famiglia non sono nell’ordinamento giuridico che una vera organizzazione di sacrificio, una esigenza perenne per il soggetto di sacrifi­ care la propria tendenza di licenza e di vagabondaggio, la propria ripugnanza a rimanere prigioniero di una rete di do-

(M) AA.VV., Studi sui principi generali dell’ordinamento giuridico fascista, 1940; su cui v. C. Schwarzenberg, Diritto e giustizia nell’Italia fascista, Mursia, Milano, 1977, pag. 219. (21) Il padre dei Fratelli Cervi, in L. Einaudi, Il Buongoverno, a cura di E. Rossi, Laterza, Bari, 1954, pagg. 140-144.

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veri e di responsabilità» (2). Nessuna esaltazione della fa­ miglia come « nucleo di Stato » in queste parole di suono profetico, che rimasero allora inascoltate.

4. Nuove prospettive del diritto di famiglia.

Non è possibile ancora tracciare una compiuta carta nau­ tica della rotta che si deve percorrere dopo aver varcato le colonne d’Èrcole segnate dall’avvento della Costituzione re­ pubblicana. Fuor di metafora, non ci sono sistemi di teoria generale del diritto come quadri di riferimento entro cui col­ locare il diritto di famiglia. Anzi: l’idea stessa di una teoria sistematica non regge più alla critica contemporanea, e va sostituita con quella di una struttura teorica problematica ed articolata, non irrigidita negli schemi di una sistematica astrat­ ta, ma che di volta in volta prende in esame situazioni giuri­ diche colte nella loro complessità e pluridimensionalità. Eli­ minate le categorie e le definizioni di comodo, le questioni giuridiche vanno prospettate a guisa di ologramma nella loro integralità, senza volerle ridurre o appiattire in formule risolutorie. Il diritto di famiglia, su cui convergono gli inte­ ressi di giuristi di varia competenza specifica, rappresenta perciò un problema tipico di teoria generale del diritto. La legge sul nuovo diritto di famiglia, che venne ema­ nata il 19 maggio 1975, segna una linea di approdo necessa­ ria, perché rappresenta una data importante nella storia della nostra società civile non meno che in quella del nostro

f22) G. Capograssi, Anàlisi dell’esperienza comune, a cura di P. Pio­ Giuffrè, Milano, 1975, pag. 129; su cui v. il mio saggio su Capo­ grassi e l’ambiguità dell’esperienza etica, nel voi. di P. Piovani e altri, La filosofia dell’esperienza comune di G. Capograssi, Morano, Napoli, 1976, pagg. 273-286. vani,

IL DIRITTO DI FAMIGLIA

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ordinamento giuridico. La legge ha registrato i profondi mu­ tamenti avvenuti nel nostro costume familiare e ha conferito ad essi il crisma della legittimità; ma ogni articolo della nuova legge ha rappresentato la sfaccettatura di una diversa realtà sociale, che era già venuta rivelandosi e concretandosi in sentenze di tribunali e della Corte costituzionale sotto la pressione di richieste e di conflitti individuali, che era con­ tinua e insistente. La stessa legge nella sua interezza è ser­ vita a farci prendere coscienza della fine dell’antico modello di una famiglia considerata come una società chiusa in se stessa, nella quale si succedevano le morti, i matrimoni e le nascite, assicurando tra le generazioni una continuità, oltre che biologica, anche sociale (assicurata dal cognome) ed economica. La caratteristica unitaria della famiglia si realiz­ zava nello spazio (giacché i suoi membri coabitavano nella stessa casa) e nel tempo (in quanto il filo che univa la fami­ glia sembrava destinato a non spezzarsi). La famiglia è di­ venuta invece una struttura aperta, una associazione fra per­ sone tenute insieme da effetti e interessi legati ad una situa­ zione giuridica; essa ha cessato di essere una unità per di­ ventare una pluralità di convivenza, una relazione ordinata ma non rigida ed esclusiva fra i suoi componenti. E questo soprattutto per due motivi. Il primo è stato quello del riconoscimento e della ristrut­ turazione giuridica del polimorfismo familiare. Questo pun­ to può essere illustrato con le parole scritte già nel 1966 da uno studioso di particolare sensibilità, Lorenzo Campagna. «La tutela della famiglia legittima non è più concepita nel nostro attuale ordinamento (egli scriveva in termini di esclu­ sività, e quindi nulla vieta l’ammissibilità, accanto alla fa­ miglia legittima, di altre situazioni alle quali possono essere riconosciute la qualifica, la dignità e la tutela della famiglia...

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

Famiglia legittima, famiglia naturale e famiglia adottiva pos­ sono cioè coesistere » j23). Il secondo è stato quello della rottura del guscio, in cui stava racchiuso il gheriglio familiare, sano o bacato che fosse, con la legge del 1° dicembre 1970, n. 898, sullo sciogli­ mento del matrimonio, che ha costituito il necessario presup­ posto della riforma del diritto di famiglia. Si può osservare che dopo l’avvento della legge si è constatato un sistematico ed accentuato movimento decrescente dei divorzi, superato l’afflusso iniziale, e che si riscontra altresì da allora anche un costante declino dei delitti contro la famiglia, segno di una rispondenza del nuovo istituto alle aspettative delle nuove formule giuridiche risolutive dei conflitti familiari (M). La riforma del diritto di famiglia, come ha osservato con espressione incisiva Stefano Rodotà, è servita a «portare in­ nanzi il processo di eliminazione di quel terreno di cultura del dispotismo, che è sempre stata l’organizzazione familiare autoritaria e gerarchica » (25), come hanno dimostrato le note ricerche sociologiche della Scuola di Francoforte. Si potrebbe anche osservare, peraltro, che la famiglia, in quanto dotata di un «potere negativo» di resistenza nei confronti dello Stato, ha potuto anche essere un terreno di cultura del sen­ timento di libertà, com’è per l’appunto poeticamente esemf23) L. Campagna, Famiglia legittima e famiglia adottiva, Giuffrè, Milano, 1966, pag. 96; e v. il saggio introduttivo di E. Russo al voi. Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Giuffrè, Milano, 1973, dedicati alla memoria di Campagna. (24) Si rinvia ai dati riferiti nella Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia in Italia per il 1976, a cura del Consiglio superiore della magistratura. (25) S. Rodotà, La riforma del diritto di famiglia alla prova. Principi ispiratori e ipotesi sistematiche, ne II nuovo diritto di famiglia, Atti del convegno organizzato dal Sindacato avvocati e procuratori di Milano e Lombardia, a cura di C. Dblitala e G. Minoli. Giuffrè, Milano, 1976, pag. 7.

IL DIRITTO VI FAMIGLIA

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piato nell’Antigone di Sofocle, e come è stato confermato in molti episodi storici, come durante le guerre di religione. Co­ munque però la riforma è valsa a demistificare la defini­ zione accolta dalla nostra Costituzione, per cui la famiglia sarebbe « una società naturale fondata sul matrimonio ».

5. La politica della famiglia nel regime democratico. Il termine « naturale », infatti, se applicato al mondo della società umana, dà luogo ad equivoci e contraddizioni: giac­ ché l’uomo è, per antica e salda definizione, un « animale politico», cioè distaccato dal mondo della natura proprio per la sua appartenenza ad una comunità civile, quella chia­ mata pòlis dai greci. Questa comunità globale è insieme con­ dizionata e condizionante rispetto alla società familiare, e in questa perciò si riproduce l’insieme dei valori di convivenza politica, che reggono l’ordinamento giuridico. La famiglia è sempre stata, in un modo o nell’altro, resa omogenea al modello costitutivo della struttura sociale complessiva. Nella seconda metà del secolo si è verificata un’inversione di tendenza della dottrina giuridica rispetto alla precedente, e vi è stato un processo interpretativo delle norme del diritto di famiglia in chiave di «privatizzazione»: basterà qui ri­ cordare il saggio del 1956 di Michelino Giorgianni l26). Con la riforma, si è compiuto peraltro un processo di « politiciz­ zazione» della famiglia, che è ovviamente cosa diversa dalla « pubblicizzazione » che venne tentata in passato dell’istituto. Intendiamo riferirci al modello politico di conduzione della vita domestica, all’equilibrio fra poteri e doveri, con cui si realizza quello, che è stato chiamato « il governo della fa­ I26) M. Giorgianni, Problemi attuali di diritto familiare, in Ria. trim, dir. proc. civ., 1956, pag. 749 e ss. Tralascio altri nomi, peraltro notissimi, di giuristi che hanno sostenuto l’interpretazione richiamata nel testo. 9. V. Frosim

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

miglia » (27). Vi è stato anzi chi, come Natalino Irti, ha par­ lato di un rinvio che si opera dall’un ordinamento all’altro, quello familiare e quello statale. Se si volesse teorizzare, an­ che per l’Italia, una « morte della famiglia », bisognerebbe piuttosto riferirsi al deperimento, sempre più rapido e de­ nunciato da episodi significativi, di un modello di politica fa­ miliare, che non è più rispondente alle esigenze espresse dalla società civile e dall’ordinamento giuridico del nostro tempo (28). È mutata la vecchia nozione di un «territorio» su cui risiedeva la comunità familiare. È pur vero che compare per la prima volta nel nostro codice la nozione di «residenza della famiglia», ma, come ha chiarito bene Alberto Trabuc­ chi, « è legittimo parlare di residenza della famiglia anche in casi nei quali il luogo non coincide con la residenza dei due coniugi»!29). È mutata la «popolazione» della comunità: la trasformazione si è operata con l’introduzione dello scio­ glimento del matrimonio e la conseguente possibilità di spo­ sarsi tra divorziati, con il pareggiamento dei figli naturali ai figli legittimi e la nuova disciplina dell’affiliazione. E infine, è mutato il « governo » della famiglia, da monocratico di­ venuto diarchico, come nell’antico potere consolare romano; sicché la titolarità della patria potestà può oggi concretamente f27) F. Santoro Passarelli, II governo della famiglia, in Saggi di diritto civile, Jovene, Napoli, 1961, vol. I, pag. 400 e ss.; e da ultimo M. Costanza, Il governo della famiglia, ne II dir. di famiglia e delle persone, A.V., Giuffrè, Milano, 1976, pagg. 1876-1909. La cit. di N. Irti ne II nuovo diritto, ecc., cit. sub nota 25, pag. 50. f28) D. Cooper, La morte della famiglia. Il nucleo familiare nella società capitalistica, trad. it. di C. Costantini Maggiori, Einaudi, Torino, 1975. Sui mutamenti del costume sociale, v. il recente fatto di cronaca ri­ ferito da G. Saglimbeni, Al suo funerale gridavano: « La famiglia è una camera a gas-», in Gente, A. XXI, n. 11 del 12 marzo 1977, pagg. 91-92. I29) Commento di A. Trabucchi all’art. 1 della legge in Commenta­ rio alla riforma, ecc., cit., pag. 80.

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identificarsi col suo esercizio da parte di entrambi i coniugi, come ebbe già a notare diverso tempo fa F. Modugno (-30). La novità di maggior rilievo, apportata dalla legge di ri­ forma, è peraltro costituita dalla apparizione del giudice sul­ l’orizzonte della vita familiare, sancita agli art. 145 e 316. Anche se «dal più marcato intervento del giudice, previsto nei primi progetti, si è pervenuti all’attuale formulazio­ ne» (31), tuttavia è stata aperta una breccia nel muro della intimità domestica, prospettando la possibilità che venga ri­ messa al magistrato, come rappresentante del potere pub­ blico, la facoltà di prendere una decisione su « affari es­ senziali» della famiglia. Questi potrebbero essere anche as­ sai delicati, come il problema se interrompere una gravidan­ za, e il magistrato si troverebbe a dover assumere la veste di un confessore laico. Questo fatto significa comunque il su­ peramento della precedente distinzione fra diritto privato e diritto pubblico, quale un giurista hegeliano del secolo scorso non avrebbe mai potuto pensare, e segna la distanza fra al­ lora ed adesso (32).

(3°) F. Modugno, L’eguaglianza dei coniugi e il capo di famiglia: una critica della patria potestà (nota alla sentenza della Corte costituzio­ nale del 22 febbraio 1964, n. 9), in Giur. costit., 1964, pagg. 64-85, e L’eguaglianza nella unità della famiglia, in Studi in tema di diritto di famiglia, a cura della Cattedra di diritto ecclesiastico di Roma, 1967. Sul rapporto fra titolarità ed esercizio v. l’impostazione da me data sub voce Esercizio del diritto, in Novissimo digesto, eie, 1960, vol. VI, pagg. 823825, e le osservazioni di S. Pugliatti sub voce in Enciclopedia del diritto, 1966, XV, pagg. 622-627. (31) V. gli Atti del convegno su II giudice e la famiglia, in Giustizia e Costituzione, 1974, n. 1-2. La frase cit. nel testo è di M. Giorgianni, Note introduttive agli art. 137-142, in Commentario alla riforma, ecc., cit., pag. 749. V. anche il commento di F. Santoro Passarelli all’art. 145, ibid., pagg. 243-248. (32) Sull’ordinamento costituzionale del diritto di famiglia, v. il com­ mento di M. Bessone, agli art. 29, 30, 31 Cost, nel Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, 1976, pagg. 1-145 (con bibliografia).

L’IMPRESA NEL NUOVO DIRITTO DEL LAVORO

1. La nuova figura dell’impresa. Lo studioso di sociologia del diritto, considerando i mu­ tamenti avvenuti sul piano dell’ordinamento giuridico ita­ liano nei loro rapporti con le trasformazioni della società civile durante gli anni Settanta, non può fare a meno di pri­ vilegiare, come fattore innovativo e propulsivo del processo di costante adeguazione fra i due campi di forza, la legge n. 300 del 1970, che segna un punto preciso di svolta e di «rimessa in gioco» nelle relazioni fra il potere di direzione imprenditoriale e il potere di direzione sindacale. Un richia­ mo alla terminologia del « potere » come a cifra interpreta­ tiva del rapporto stabilito dalle norme legali fra lavoratori e datori di lavoro (come insiste a chiamarli il testo legisla­ tivo citato) è reso necessario non soltanto dal particolare pro­ filo socio-giuridico di queste osservazioni marginali (e cioè esterne, non collocate all’interno della problematica giuri­ sprudenziale, in cui quel rapporto si va articolando), ma al­ tresì dalla stessa impostazione dottrinaria più avanzata e sensibile, riferita a questo terreno di indagine giuridica (’). Per intendere quale sia la funzione assunta dall’impresa nel nuovo diritto del lavoro, al di là degli schemi normativi, bi­ sogna comunque cominciare col tentare una definizione in termini di potere sociale. (') O. Kahn-Fkbund, II lavoro e la legge, trad. ital. di G. Zangari, Giuffrè, Milano, 1974, pag. 9: «La legislazione del lavoro è (...) quella parte dell’ordinamento che è più direttamente interessata da un potere sociale tendenzialmente irrispettoso del ruolo che la stessa legge gli ha originariamente attribuito ».

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

Una recente e rigorosa ricerca sui caratteri giuridici della impresa ha accentuato, sia pure senza darvi un rilievo dommatico esclusivo, la nozione di impresa come attività, ricol­ legando ad essa anche le nozioni di impresa-soggetto e di impresa-oggetto (2). Pur riconoscendo che l’impresa può con­ figurarsi primariamente come attività economica, gradual­ mente affermatasi nel mondo del diritto, e quindi come at­ tività organizzativa per la produzione dei beni, che è venuta acquistando solo successivamente una sua dimensione socio­ giuridica, allo stato attuale deve attribuirsi all’impresa un prevalente interesse d’ordine sociale, in quanto essa è intesa come luogo di incontro e di coordinazione delle forze di la­ voro, ossia precisamente come « attività » con cui si esercita il potere sociale, e che viene indirizzata a promuovere la utilità sociale. Questa sua finalità è quella che assicura la sua garanzia giuridica, vale a dire la protezione del diritto di libertà dell’iniziativa economica, a norma dell’art. 41 della Costituzione (3); garanzia che trova il suo riscontro nella garanzia accordata alla libertà di organizzazione sindacale (art. 39 Cost.) nel perseguimento di un obiettivo unitario, che è quello del « progresso materiale o spirituale della società », a cui tutti debbono concorrere svolgendo « un’attività o una funzione » (art. 4, co. 2 Cost.). Attività imprenditoriale e attività sindacale sono dunque due coordinate dello stesso potere sociale riconosciuto come legittimo, in quanto subor­ dinate entrambe allo stesso compito collettivo e complessivo dell’attività umana esplicata in una solidale comunità civile. È stato acutamente osservato che una tale « concezione strumentale della libertà di iniziativa economica, che corrip) V. Panuccio, Teoria giuridica dell’impresa, Giuffrè, Milano, 1974, pagg. 116 e ss., 163. (3) Studi sull’art. 41 della Costituzione, a cura dell’istituto di diritto commerciale e del lavoro dell’università di Messina, Patron, Bologna, 1969.

L IMPRESA NEL DIRITTO DEL LAVORO

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sponde ad un più vasto movimento di pensiero sviluppatosi al­ l’interno della società capitalistica» trova il suo punto di partenza nella dottrina formulata intorno al 1880 da Thomas Hill Green, secondo cui le libertà del singolo vengono con­ cepite non più sotto il segno negativo (libertà dallo Stato, assenza di costrizione legale) ma sotto quello positivo (possi­ bilità legale di contribuire al bene comune) (4). Appare in­ giustificato tuttavia sostenere che il quadro che risulta da una tale concezione «è alquanto mistificatorio»; occorre infatti tenere presente, come si è accennato sopra, che la li­ bertà d’impresa ha lo stesso fondamento e incontra gli stessi limiti, che dovrebbe incontrare la libertà sindacale, entrambe operando nell’ambito dello stesso ordinamento giuridico, ispirato da un comune criterio di convivenza.

2. Potere dell’imprenditore e potere sindacale. Se, dunque, si parla di una « caduta del concetto di im­ presa » anzi di una « perdita di identità dell’impresa », per la quale sarebbe richiesta una nuova « carta di identità », non è alla sua definizione giuridica che ci si riferisce, quanto invece alla sua efficienza e produttività economica, e soprat­ tutto alla sua funzionalità sociale in quanto centro di rac­ cordo fra l’iniziativa privata e l’intervento pubblico e in quanto fattore di potere sociale, chiamato ad assolvere la funzione di soddisfare «un’esigenza di eguaglianza sociale

(4) F. Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalistica, Zanichelli, Bologna, 1974, pag. 47; le parole cit. successivamente nel testo, a pag. 148. V. Frosini, Saggio introduttivo a Th. H. Green, L’obbligazione politica, trad. ital. di G. Butta, Giannetta, Catania, 1973, spec, alle pagg. 74-81.

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

sul piano della disponibilità di beni e servizi e, soprattutto, sul piano del potere esercitato nella società» (5).

Nessuna esitazione, da parte del giurista in veste di socio­ logo del diritto, a riconoscere pertanto «la natura fonda­ mentalmente politica dell’impresa», che si manifesta sotto un duplice aspetto, esterno e interno. Il primo, in quanto, come è stato sottolineato da un autorevole studioso, si tratta di «riconsiderare l’organizzazione d’impresa come un fatto sociale rilevante sul piano del pubblico interesse» (6); ma que­ sto non basta, giacché interviene in funzione anche l’aspetto interno, e cioè la politicità (sempre più evidente e pressante) dell’azione di trattativa sindacale nei confronti dell’impren­ ditore, privato e pubblico. Anzi: il momento politico-sinda­ cale nella vita dell’impresa tende a realizzare, per mezzo dell’opera svolta dalle rappresentanze aziendali, in accordo ma anche talvolta in disaccordo con le direttive politiche dei grandi organismi sindacali, una espansione del potere sociale di organizzazione delle forze di lavoro, che talvolta supera gli argini stabiliti dalla contrattazione collettiva, e che si im­ pone allo stesso potere direttivo dell’imprenditore, che è li­ mitato alle esigenze tecnico-produttive, e cioè economiche. 13art. 17 dello statuto dei lavoratori fa divieto infatti ai datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori, alle quali vie­ ne riservata perciò in forma esclusiva la gestione del potere sociale. Si è pertanto venuta a creare questa situazione. Il potere dell’imprenditore privato è un potere giuridico privato, quale

(5) M. Riva, Una carta d'identità per l’impresa, nel Corriere della Sera del 26 gennaio 1975, pag. 6. (6) U. Romagnoli, Lavoratori e sindacati fra vecchio e nuovo diritto, Il Mulino, Bologna, 1974, pagg. 113 e 120.

W l’impresa nel diritto del LAVORO

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gli era stato già attribuito dalla normativa del codice civile, e che può essere pertanto definito come la situazione giuri­ dica attiva di un soggetto, al quale l’ordinamento giuridico conferisce una funzione di mediazione (fra l’ordinamento e gli altri soggetti), ossia l’esercizio della capacità giuridica a lui riconosciuta di produrre delle modificazioni nel campo operativo giuridico, riservato ad altri soggetti (7). Il potere della rappresentanza sindacale si esercita nelle forme pre­ viste dallo statuto dei lavoratori (specialmente agli artt. 19-27), ed è un potere che non può essere ristretto nella definizione modellata su misura per l’attività giuridica privata dell’im­ prenditore, giacché esso assume i contorni di un officio, es­ sendo uno di quegli « officia o munera rappresentati da quei poteri che si esercitano non per un interesse proprio, ma per un interesse altrui o un interesse oggettivo» (8). Lo statuto dei lavoratori, nella carenza delle disposizioni costituzionali in attuazione dell’art. 39 Cost., ha riconosciuto le rappresentanze sindacali come titolari di un officio, de­ terminato dalla loro funzione. Ricordiamo che l’officio è una situazione giuridica attiva, consistente nello svolgimento di una funzione, che è il dovere di rappresentanza, e caratteriz­ zata dall’assunzione di obblighi e di potestà nei confronti del rappresentato. Dei due elementi ritenuti essenziali dalla dottrina, il dovere e il potere, il primo, e cioè l’elemento di doverosità, va inteso come obbedienza giuridica riferita agli obblighi verso il rappresentato, che la legge impone e che il

ff) V. Frosini, La struttura del potere giuridico privato, in Teoremi e problemi di scienza giuridica, Giuffrè, Milano, 1971, rist. 1974, pag. 143; voce Potere (teoria generale), in Noviss. Dig. ital., Utet, Torino, vol. XIII. (8) La definizione cit. è di 8. Romano, Principi di diritto costitu­ zionale generale, 2a ed., Giuffrè, Milano, 1974, pag. 113. V. Frosini, La struttura giuridica dell’officio, in Teoremi e problemi, cit., pag. 117 e ss. e voce Officio, in Noviss. Dig. ital., cit., vol. XI.

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

titolare dell’officio si assume; e in quanto al secondo, e cioè il potere, esso va considerato sotto due aspetti, come potere vincolato di rappresentanza e come potere vincolante, o pote­ stà conferita con legge, nei confronti del rappresentato.

Diversità di situazioni giuridiche, dunque, fra l’impren­ ditore o datore di lavoro e la rappresentanza sindacale (che è cosa giuridicamente diversa dai lavoratori, che essa rap­ presenta); per cui il primo esercita il suo diritto al lavoro nelle forme e nei limiti già delineati nel sistema del codice civile, mentre la seconda appare fornita di una fisionomia nuova e diversa da quella del privato conduttore di impresa, e che è quella stabilita dalle ricordate disposizioni legislative.

3. Impresa e potere sociale.

Dinanzi a questa composizione degli elementi fondamen­ tali dell’impresa, che è duplice ma che può essere anche tri­ plice (giacché si dà il caso che l’imprenditore debba trattare con l’organismo sindacale nazionale in sede di controversie collettive e con la rappresentanza sindacale interna, che non condivide la linea politica confederale, in sede di contratta­ zione aziendale), il giurista deve fare subito una constata­ zione.

Mentre l’imprenditore è persona giuridica, fornita come si è detto di poteri, ma altresì gravata di responsabilità giu­ ridica nelle sue diverse forme — civile, penale, amministra­ tiva, fiscale —, la rappresentanza sindacale non è persona giuridica anche se raggiunge dimensioni organizzative su­ periori di gran lunga a quelle dell’impresa; essa è semplicemente un’associazione di fatto non riconosciuta, la cui disci­ plina giuridica si riduce a quella regolata e prevista dagli arti. 36-38 del cod. civ.; essa è, sotto questo aspetto, un ente

l'impresa nel diritto del lavoro

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privato sottratto persino a quegli obblighi, che investono l’imprenditore come semplice persona fisica (^). Eppure, il sindacato è un possente ed insostituibile stru­ mento di partecipazione democratica non solo alla direzione delle grandi imprese pubbliche e della programmazione economica nazionale, ma altresì alla stessa direzione della vita civile e dell’orientamento politico del Paese, con capa­ cità decisionale di intervento «nell’interesse dei lavoratori alla realizzazione di quel vario complesso di beni che tro­ vino riconoscimento e tutela nella disciplina costituzionale dei rapporti economici », come stato riconosciuto dalla Cor­ te costituzionale nelle sue sentenze del 1974, nn. 1 e 290 (10). Ecco perché i commentatori politici hanno insistito da tem­ po su questa grave anomalia del nostro sistema giuridico, che è dovuta alla mancata attuazione di una norma costitu­ zionale (art. 39 Cost.), che minaccia ormai di cadere addi­ rittura in desuetudine, e hanno coniato la formula, stabilendo l’analogia di situazioni attuali fra sindacati e partiti, di « fan­ tasmi giuridici » ("), cioè di presenze operanti ma legalmente inafferrabili. Il processo di progressiva politicizzazione dei sindacati fa del problema dell’impresa come attività (economica, sociale, f9) V. i contributi di P. Rescigno, F. Galgano, L. Mengoni, ripor­ tati ne II diritto sindacale, a cura di G. F. Mancini e U. Romagnoli, Il Mulino, Bologna, 1971, pagg. 80-110, con indicazioni bibliogr. (10) V. il commento di E. Ghera, Legittimità dello sciopero e sta­ tuto dei lavoratori, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 1974, pag. 257 e ss. (") V. Frosini, Due forme di partecipazione, intervento alla Tavola rotonda su II problema della partecipazione politica nella società industriale (Venezia, 4 ottobre 1969), in Atti dell’VIII Congresso nazionale di Filo­ sofia del diritto, a cura di R. Orecchia, Giuffrè, Milano, 1971, pag. 98 e ss.; L’Italia degli anni Settanta, in Nuova Antologia, gennaio 1974, n. 2077, pagg. 25-32; Il dualismo tra diritto e società nell’Italia contemporanea, in Riv. internaz. filosofia dir., Eli, 1975, n. 1, pagg. 85-95 (scritto destinato agli Studi per C. Mortati)-, e diversi articoli sulla stampa quotidiana.

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IL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

giuridica) un problema ormai chiaramente identificabile an­ che come problema di potere sociale o politico. Qualche so­ ciologo definisce l’attuale fase di conflitto industriale come quella caratterizzata dalla ricerca della costituzione di un nuovo sistema di relazioni industriali nonché dalla « elabo­ razione ideologica degli obiettivi rivendicativi» (12). Una delle conseguenze più vistose della nuova morfologia giuri­ dica rappresentata dall’inserimento dello statuto dei lavorato­ ri nella vicenda dell’impresa, oltre a quelle già messe acuta­ mente in evidenza da altri (13), è stata questa nuova poten­ zialità politica acquisita dall’impresa, come confermano le già ricordate sentenze della Corte costituzionale. Questi rilievi di fatto corrispondono, d’altronde, allo svol­ gimento in senso fenomenologico (ossia, di una serie coor­ dinata e continua di manifestazioni) di un « principio di re­ gime », com’è stato giustamente definito il valore del lavoro accolto nel nostro ordinamento costituzionale (14), e perciò essi vanno riportati nel quadro compositivo generale della odierna evoluzione della società italiana, che è compreso in quello ancora più vasto delle società industriali avanzate. Il profilo dinamico dell’impresa come attività comporta, nel procedimento accumulative del potere sociale, l’assunzione di una forza d’incidenza sempre maggiore nei rapporti civi­ li, in una crisi di crescenza, che caratterizza il ciclo di svi­ luppo economico dell’attuale struttura imprenditoriale ita­ liana, pur attraverso le vicende non liete di congiunture dif­ ficili e talvolta paralizzanti. (12) A. Pizzorno, I sindacati nel sistema politico italiano: aspetti storici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, pag. 1547. (13) V. i contributi al dibattito su L’impresa nel nuovo diritto del lavoro di R. Flammia e di G. Pera, in Mass. giur. lav., 1974, rispettiva­ mente, pagg. 249 e 456. (14) U. Prosperetti, Lavoro (fenomeno giuridico), in Encicl. dir., vol. XXIII, ed. Giuffrè, Milano, 1973, pag. 334.

l'impresa nel diritto del lavoro

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Occorre però stabilire un rapporto effettivo di funziona­ lità ossia di efficienza e non solo di adeguazione o di rinvio formale, fra la conduzione economica e l’articolazione pra­ tica dell’ordinamento giuridico; giacché è dato rilevare sfa­ samenti gravissimi fra l’una e l’altro, come quello del man­ cato riconoscimento della personalità giuridica sindacale, e come l’altro del mancato regolamento del diritto di scio­ pero, che l’ordinamento costituzionale tutela nel suo eserci­ zio, senza però identificarne i portatori titolari nelle rap­ presentanze sindacali e attribuendolo genericamente ai la­ voratori (I5).

4. Osservazioni conclusive.

Riassumendo: l’impresa, che è sorta come centro propul­ sore di attività economica, e ha acquistato figura giuridica, è oggi considerata come una struttura di potere sociale, in cui vengono a confronto ed a composizione dialettica il potere imprenditoriale (potere giuridico privato) e il potere sinda­ cale (officio, o potere di rappresentanza attribuito per legge). L’impresa acquista pertanto, nel nuovo diritto del lavoro, un carattere pubblicistico e politico, per cui occorre una disci­ plina giuridica definitoria della rappresentanza sindacale, in atto garantita nell’esercizio dei suoi diritti, ma priva ancora di uno status giuridico attributivo di titolarità.

(15) P. Calamandrei, Significato costituzionale del diritto di sciopero, in Studi sul processo civile, vol. VI, Cedam, Padova, 1957, pag. 150: « Il diritto di sciopero garantito dalla Costituitone è dunque prima di tutto potere delle collettività professionali di proclamare lo sciopero ».

7.

IL DIRITTO INTERNO DEI SINDACATI

10, V. Fiios ini

1. Motivi della scarsa attenzione dedicata sinora agli statuti nell’analisi dell’esperienza sindacale.

Nel corso del trentennio, che agli occhi del giurista si è svolto sotto il segno della vigente Costituzione italiana, una vasta letteratura è stata dedicata agli aspetti giuridici e so­ ciologici dell’esperienza sindacale vissuta in questo periodo di rapida e talora tumultuosa crescenza sociale e civile del no­ stro Paese. Sono anzi già apparsi i primi saggi di ricostru­ zione e di sintesi storica delle vicende sindacali 0), il che è un indice significativo del grado raggiunto dalla riflessione scientifica su un tema, che pure è così strettamente intrec­ ciato alla nostra partecipazione quotidiana della vita comu­ nitaria, da sembrare ancora inviluppato nel mondo delle con{*) Ci limitiamo a menzionare le opere apparse negli anni Settanta, rinviando per gli anni precedenti ai volumi di A. Agosti, A. Animasi, G. M. Bravo, D. Marucco, M. Nejrotti, Il movimento sindacale in Italia, Rassegna di studi (1945-1969), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1970, e di G. Pirzio Ammassaci, Gli studi di relazioni industriali in Italia, Edizioni di Comunità, Milano, 1972, con Introduzione di G. Giugni. A. Pizzorno, I sindacati nel sistema politico italiano: aspetti storici, in Riv. trim. dir. pubbl., XXI, 1971, pagg. 1510-1559; C. Perna, L’evoluzione storica del movimento sindacale in Italia, Giuffrè, Milano, 1972; S. Turone, Storia del sindacato in Italia (1943-1969), Laterza, Bari, 1973; Pro­ blemi del movimento sindacale in Italia (1943-1973), in Annali Feltrinelli, XVI, 1974-75; V. Foa, Sindacato e classe operaia, in V. Castronovo (a cura di), L’Italia contemporanea (1945-1975), Einaudi, 1976, 253-276; F. Pe­ schiera (a cura di), Sindacato industria e Stato nel dopoguerra, nei Qua­ derni di storia diretti da G. Spadolini, XXXVIII/1, Le Monnier, Firenze, 1976; P. Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Il Mulino, Bo­ logna, 1977; Cronologia del movimento sindacale italiano (1943-1976), in Annali Feltrinelli, XVIII, 1977; U. Romagnoli e T. Treu, I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), Il Mulino, Bologna, 1977.

) dal suo carattere tipicamente linguistico-formale, e cioè vuoto di contenuti concreti: i fatti nella loro puntualità di hic et nane e i valori con la loro carica di emozionalità, intenzionalità e significato. Il calcolatore elettronico è uno strumento di comunicazione delle informazioni in un suo linguaggio o metalinguaggio particolare, che consente di valersi dei simboli e dei segni accumulati nella memoria dei

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giuristi con una rapidità e una ricchezza e una precisione che non ha precedenti nell’esperienza umana: ma è un vei­ colo, non un carico di merci; e) dal suo carattere essenzialmente, e cioè costitutiva­ mente, ripetitivo. È pur vero che nella teoria della program­ mazione elettronica si distingue fra iterazione e ricorsività; ma quel che importa rilevare al giurista è che l’informazione automatica da lui richiesta ritorna ciclicamente su se stessa, se non viene introdotta una variazione o innovazione dalla volontà legislativa. Perciò una risposta del calcolatore rimane sempre ferma al dato giuridico anche se questo è superato: il giurista, che vive sul crinale del presente, fra passato e fu­ turo, richiama col calcolatore i vivi insieme ai morti, ai fan­ tasmi giuridici, le norme di oggi e le interpretazioni di ieri. 3. Diffusione della informatica giuridica.

Queste limitazioni, che abbiamo tracciate, hanno però il carattere di avvertenze metodologiche, e non hanno impe­ dito l’enorme diffusione dell’informatica giuridica nei diversi campi di applicazione, in cui questa risultava possibile, con­ veniente e persino necessaria. Giacché la civiltà di massa moderna ha comportato una serie di problemi, anche nello svolgimento delle attività giuridiche, che dovrebbero consi­ derarsi insolubili senza il calcolatore. Anzitutto, si consideri la stessa moltiplicazione delle leg­ gi e delle fonti del diritto, che hanno determinato la Informationsknse des Rechts, come è stata indicata in un noto li­ bro di Spiros Simitis con quel titolo. L’inflazione legislativa, infatti, non si verifica soltanto all’interno di ogni sistema giu­ ridico moderno; ma essa è stata intensificata dall’accresci­ mento dei rapporti internazionali, e cioè dalla creazione di organismi sovranazionali (come l’ONU, la Comunità Euro­

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pea, la ILO, ecc.) e dalla compresenza di più ordinamenti: per es., in tema di trasporti marittimi, bisogna tener conto di regolamenti portuali, disposizioni doganali e valutarie, co­ perture assicurative di diversa appartenenza giuridica, che formano talora un intrico quasi inestricabile. Ebbene, il cal­ colatore elettronico, potendo immagazzinare nella sua me­ moria sovrumana tutte le norme di un complesso normativo, rendendo possibili richiami e confronti in modo praticamente istantaneo, mettendo a disposizione di chiunque il risultato della ricerca, riesce così a rendere trasparente l’insieme. Que­ sta indicazione vale anche ovviamente per i sistemi di com­ mon law fondati sull’autorità del precedente giudiziario e vale per il ricorso, che viene fatto nei sistemi di diritto co­ dificato, alle massime giurisprudenziali. Così in Italia oggi il calcolatore dell’ufficio Massimario della Corte di Cassa­ zione è collegato a tutti gli uffici delle corti di appello: una conquista tecnologica che fa contrasto con la tradizionale povertà tecnica già lamentata. Per quanto riguarda la legislazione, questa dovrebbe co­ minciare a tener conto delle esigenze di una memorizzazione ed elaborazione elettronica; e sebbene non si siano fatti an­ cora dei rilevanti progressi in questa direzione, si notano tut­ tavia alcuni indizi di interessamento, per introdurre una di­ sciplina più razionale nella produzione legislativa, com’è indicato in una disposizione del Land della Baviera del set­ tembre 1969. Il campo, in cui peraltro l’informatica giuridica ha dato luogo ad una serie aperta di invenzioni e di realizzazioni è stato quello della automazione amministrativa. Nella or­ ganizzazione delle amministrazioni pubbliche hanno fatto la loro comparsa dei nuovi funzionari, dotati di uno zelo buro­ cratico privo di ogni indulgenza e di ogni stanchezza umana: sono i calcolatori elettronici addetti ormai alle più svariate

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funzioni, dalla registrazione anagrafica al calcolo delle pen­ sioni, dalle indagini criminologiche (per esempio, con la confrontazione automatica delle impronte digitali) ai conteg­ gi fiscali. In tal modo si è verificata una mutazione radicale nel procedimento amministrativo, che è diventato anonimo, impersonale, neutro e perciò imparziale e terribilmente effi­ ciente: si pensi alla selezione automatica dei candidati ad un concorso.

4. Nuovi problemi legali La costituzione delle banche dei dati in possesso della pubblica amministrazione come pure di società private ha fatto sorgere il problema più discusso, fra quanti siano stati posti dalla nuova condizione umana nell’età dell’automa­ zione : e cioè il problema della privacy, ovvero della tutela della riservatezza. Questo problema, s’intende, non si rife­ risce soltanto all’impiego dei calcolatori, giacché esisteva anche prima di essi, e riguarda anche altre forme possibili di aggressione della libertà e intimità dell’individuo. Ma l’attacco che viene mosso con l’impiego del computer è il più insidioso, perché il privato cittadino non può difendersi coi propri mezzi. La preoccupazione di tutelare il diritto dell’individuo ad essere se stesso, e non un elemento di una combinazione di dati sottoposto a continua sorveglianza ed esposto alla curiosità altrui, ha sollecitato diverse iniziative nelle società a regime politico liberal-democratico. La più recente è il Report of the Committee on Data Protection, pubblicato a cura del ministero degli interni della Gran Bre­ tagna. Da esso si può apprendere che esistono già 45 milioni di schede memorizzate elettronicamente del servizio di assi­ stenza sanitaria in quel paese, e altre varietà di registri ana­

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grafici elettronici, fra i quali uno che elenca gli 80.000 co­ niugi bigami scozzesi. Come rimediare alla minaccia incombente sull’individuo della società di massa di essere messo a nudo nelle sue ma­ lattie, nei suoi peccati, nelle sue necessità, da un occhio in­ discreto che cerchi nella memoria di un computer? Esiste già una larga legislazione di testi o almeno di progetti di legge (come in Italia); come provvedimenti esemplari van­ no indicati quelli adottati dalla Repubblica Federale Tedesca, che comprendono l’istituzione di una figura apposita di ma­ gistrato, il Commissario alla protezione dei dati, che è re­ sponsabile di fronte al Parlamento della applicazione delle apposite leggi. Il problema dell’uso delle banche dei dati investe però al­ tri aspetti oltre a quello della libertà del singolo; giacché vi sono le questioni connesse agli aspetti industriali e com­ merciali dei programmi elettronici, questioni che non hanno trovato ancora adeguata definizione di carattere giuridico dottrinario e tanto meno hanno avuto la regolamentazione normativa da essi richiesta nell’attuale passaggio dall’infor­ matica alla telematica, termine che designa la sempre più stretta implicazione dei calcolatori elettronici con le teleco­ municazioni. Il problema del flusso dei dati (specialmente d’interesse economico) oltre le frontiere nazionali, della op­ portunità e della possibilità di introdurre un controllo o di imporre restrizioni sullo scambio dei dati, rappresenta un tema di particolare attualità ed anzi di urgenza per accordi di carattere internazionale. Anche il problema di una coope­ razione a livello sopranazionale per coordinare ricerche, usu­ fruire di risultati, promuovere il progresso in campo infor­ matico presenta un interesse giuridico. E vi è il problema del diritto alla riservatezza applicato non già alle persone, ma agli stessi programmi, cioè ai prodotti del software come ad

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opere dell’ingegno o invenzioni tecniche, che è ancora irri­ solto, giacche non è possibile tutelarli al pari dei segreti indu­ striali, anche quando vi è un preciso interesse all’esclusiva nella loro applicazione.

Fra le conseguenze derivanti nel settore degli studi giu­ ridici e in quello delle inchieste e controversie giudiziarie dall’avvento dell’informatica, vi è quella relativa ai computer crimes, cioè la materia dei reati di nuovo tipo, resi possibili dai calcolatori: manomissione di dati, accesso non autoriz­ zato per mezzo di una effrazione elettronica (che è simile allo scassinamento di una cassaforte), ingegnose truffe messe in atto valendosi dei calcolatori (*). 5. Informatica e società.

Nel 1978, Simon Nora e Alain Mine hanno presentato al presidente della Repubblica francese un rapporto intitolato L’informatisation de la société, in cui viene prospettata la futura società informatica che succederà alla odierna società industriale avanzata. Una tale visione era stata già delineata da un gruppo di studiosi giapponesi, i quali avevano anzi assegnato all’anno 2000 il traguardo di arrivo della nuova società. Nel mondo dell’avvenire, che ormai si approssima, i problemi giuridici dell’informatica e l’impiego dell’informa­ tica nella pubblica amministrazione e nell’amministrazione della giustizia saranno considerati, diversamente da oggi, come elementi di esperienza quotidiana ed anzi di routine. Non si può dunque fare a meno di avvertire i giuristi, che occorre prepararsi ad affrontare i problemi di un nuovo mon(!) C. Sarzana, Criminalità e tecnologia: il caso dei « computer­ crimes-», in Rassegna penitenziaria e crimìnologica, A. I, n. 1-2, 1979, pagg. 53-90.

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do, e che perciò occorre acquistare una coscienza, informatica, ossia la conoscenza e il senso di responsabilità dei nuovi pro­ blemi. Il compito del giurista diventa anch’esso il compito di un uomo posto sulla frontiera del proprio tempo, di un in­ tellettuale dell’età tecnologico, di un demiurgo di una ci­ viltà più razionale, ossia più simile all’immagine ideale del­ l’uomo (2).

f2) S. Nora, A. Mino, L'informatisation de la société, La Documenta­ tion franjaise, Paris, 1979; The Plan for Information Society - A National Goal Toward 2000, ed. by the Japan Computer Usage Development Institute, Tokio, 1972 (Verso una società dell’informazione. Il caso giapponese, trad, ital. di R. Petrillo, Edizioni di Comunità, Milano, 1974).

6.

IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA NELLA SOCIETÀ TECNOLOGICA

1. Introduzione.

La cronaca di anni recenti è stata contrassegnata in alcuni paesi, fra i quali l’Italia, da un addensamento dell’interesse pubblico e del dibattito politico su un tema, quello del control­ lo giudiziario e delle intercettazioni abusive delle conversazio­ ni telefoniche, che ha posto in risalto la questione dell’insuf­ ficiente protezione dell’individuo di fronte all’aggressione tec­ nologica, caratteristica del nostro tempo. La stessa questione presenta aspetti d’ordine politico e d’ordine giuridico di grande rilievo in una società sempre più dominata dalla or­ ganizzazione di massa, in cui il potere dell’informazione ha ormai acquistato un rilievo primario, e la libertà di comuni­ cazione appare come una forma irrinunciabile di libertà. Si pensi alle pagine di apertura di un romanzo emblematico della condizione umana nel nostro tempo, Il primo cerchio di Aleksandr Solzenitsin, dove un gruppo di scienziati, de­ tenuti politici, viene obbligato a elaborare una tecnologia di controllo per il riconoscimento della voce umana al telefono attraverso un sistema di identificazione meccanica. Fra il 1973 e il 1974 lo scandolo Watergate ha determinato un serio contrasto fra i pubblici poteri degli Stati Uniti e ha coinvolto la figura stessa del presidente. In Francia, il Se­ nato ha deciso, in data 8 novembre 1973, di rendere pub­ blico il rapporto — sino ad allora segreto — della Commis­ sione di controllo sulle intercettazioni telefoniche, aprendo così un conflitto costituzionale fra il potere legisaltivo e il potere esecutivo. In Italia è stata approvata una legge che ribadisce il divieto della violazione della segretezza delle co18. V. Frosini

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municazioni telefoniche e regolamenta l’uso dei relativi mez­ zi di prova in sede processuale; questa legge viene incontro a un’esigenza avvertita dall’opinione pubblica e dalla stessa classe politica parlamentare a seguito della scoperta di una vasta organizzazione illecita di sorveglianza della vita pri­ vata di uomini politici, di alti funzionari e di operatori eco­ nomici, e dell’avvenuta registrazione di colloqui tenuti in sede giudiziaria e ancora coperti dal segreto istruttorio. È apparso perciò utile trattare, sia pure in forma som­ maria, un argomento che oltre l’immediata attualità riman­ da ai temi dominanti della civiltà politica e tecnologica del nostro tempo.

2. La vita privata nell’età tecnologica.

L

Con il termine «vita privata» si fa riferimento, nel lin­ guaggio giuridico italiano, a quel complesso di beni morali che in lingua inglese si usa designare col vocabolo « privacy » ; sebbene tali espressioni non siano certo nuove, è tuttavia una novità il significato che si è loro attribuito, per l’impiego che se ne fa nella dottrina legale e nella stessa pratica dei tri­ bunali. Tale novità scaturisce precisamente dalle condizioni in cui si svolge la vita collettiva nel nostro tempo, caratteriz­ zato dalla rivoluzione tecnologica. Nei tempi passati, il ri­ spetto della vita privata dell’individuo poteva essere facil­ mente tutelato dall’individuo stesso; per proteggere l’intimità delle proprie azioni bastava escludersi dal consorzio sociale in maniera « naturale », ossia mettersi al riparo dalle indi­ screzioni, che si potevano compiere con l’uso dei sensi, quali la vista e l’udito. Anche per accertare il passaggio di una per­ sona in un luogo, per mezzo del rilevamento di tracce olfat­ tive, si doveva far ricorso a un animale: si restava così nel­ l’ordine dei rapporti naturali. I muri di una casa, la solitu­

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dine di un luogo deserto, persino il tono sommesso del par­ lare all’orecchio, erano sufficienti ad assicurare la tutela della riservatezza e a escludere la diffusione di conoscenza dei ge­ sti e delle parole di un individuo o di più individui uniti fra loro da un vincolo di segretezza. Anche lo svolgimento di attività a carattere continuativo, come ad esempio un viaggio o una relazione prolungata fra due persone, poteva essere fa­ cilmente mantenuto riservato, o valendosi di qualche accor­ gimento o evitando semplicemente di dare pubblicità ai pro­ pri spostamenti e agli incontri e di lasciare documenti e se­ gni compromettenti. Nel mondo della tecnica moderna non è invece possibile sfuggire alle intromissioni nella propria vita privata, o ad­ dirittura alla sorveglianza continua; infatti gli strumenti a disposizione dell’uomo consentono di estendere e moltipli­ care i poteri delle facoltà sensibili e intellettive in modo tale da soverchiare le possibilità di difesa, che erano prima assi­ curate all’individuo in senso negativo, cioè di sottrazione alla curiosità altrui. Si può ben dire che le forme artificiali di conoscenza hanno acquistato una dimensione che in altri tempi veniva attribuita esclusivamente alle potenze sovran­ naturali. È possibile osservare e ascoltare a distanza, senza limiti di spazio, di tempo e di modo: per esempio, è possi­ bile fotografare al buio; si può essere in comunicazione — volontaria od obbligata — in più luoghi simultaneamente grazie ai circuiti televisivi; si può lasciare involontariamente la testimonianza registrata della propria immagine e delie conversazioni tenute; si può infine essere costretti a confes­ sare i propri pensieri anche senza l’uso della tortura fisica e quasi inavvertitamente. Il calcolatore elettronico consente inoltre di elaborare e stabilizzare in maniera sovrumana, os­ sia al di là dei limiti che all’individuo è consentito di rag­ giungere, la memoria dei dati di osservazione diretta e di

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rilevazione indiretta, combinandoli in un’unica figurazione mentale, che costituisce uno strumento di identificazione e di reperimento nella sterminata moltiplicazione degli indi­ vidui in una società di massa.

3. Il diritto alla, riservatezza-, origine e significato. L’esistenza di un right to privacy, cioè di un diritto alla riservatezza, o rispetto della vita privata, ha una precisa data di nascita, il 1890, e due padri spirituali: i giuristi statuni­ tensi Samuel D. Warren e Louis D. Brandeis. Warren dopo il matrimonio con la figlia del senatore Boyard conduceva una vita assai fastosa, di quel genere che in quegli stessi anni Thor stein Veblen avrebbe immortalato nelle pagine della Teoria della classe agiata-, la stampa bostoniana lo fece og­ getto di continui attacchi scandalistici. Irritato, Warren reagì pubblicando un articolo sulla « Harvard Law Review » (in collaborazione con Brandeis), in cui sostenne per l’appunto the right to privacy, che diede il titolo al suo scritto. Secondo i due autori, esso consisteva nel diritto to be let alone, di es­ sere lasciati soli, o per meglio dire, di essere lasciati in pace; e nel sistema americano di common law, ossia di diritto non codificato, ma largamente basato sulle decisioni e sui prece­ denti di natura giurisdizionale (le sentenze dei giudici), non era necessario, sempre secondo Warren e Brandeis, che fosse emanata un’apposita legge per la protezione della vita pri­ vata; bastava che i tribunali riconoscessero quel diritto sog­ gettivo come legittimo. In seguito, nella prassi giudiziaria si cominciò effettivamente ad adottare il principio indicato, accettandone la definizione proposta. Si noti che il right to privacy è stato dunque originaria­ mente formulato per la sollecitazione polemica suscitata da un atteggiamento tenuto da un tipico strumento della civiltà

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tecnologica contemporanea, e cioè il grande giornale di in­ formazione, destinato a una massa di lettori, rispetto ai quali rappresenta un veicolo di rapidissima ed estesissima conoscen­ za dei fatti privati di un individuo: questi può trovarsi im­ provvisamente esposto una mattina a un’attenzione e a una curiosità non previste né tantomeno volute, senza che gli sia dato scampo o tempo per nascondersi o sfuggire. Sempre nell’articolo ricordato, veniva rilevato dai due giu­ risti che l’idea di privacy consisteva in una estensione, nella sfera non materiale, dei princìpi che garantivano la difesa della proprietà privata; si trattava però di determinare una sfera di competenza esclusiva entro cui l’individuo potesse liberamente muoversi e insieme di salvaguardare, con la tu­ tela di certi beni morali o valori, la «rispettabilità» della persona nel contesto della vita sociale. Concepito in maniera chiaramente utilitaristica, il diritto alla riservatezza o vita pri­ vata dell’individuo ha però acquisito implicazioni civili e umane ben più vaste, quando è stato riproposto nel quadro di mutate condizioni della vita pubblica, cioè come difesa del valore stesso della vita individuale contro le offese, le minacce o i pericoli che vengono portati non soltanto dagli altri soggetti privati conviventi nella sfera della vita associa­ ta, ma dal soggetto centrale di essa, e cioè dallo Stato. Que­ st’ultimo, fornito di strumenti di controllo collettivo supe­ riori a quelli di ogni individuo o gruppo sociale intermedio per potere giuridico, per capacità organizzativa e per forza materiale — basti pensare agli organi di polizia investiga­ tiva — esercita un potere di intervento sempre più incal­ zante. Il rispetto della vita privata degli individui assume perciò un duplice aspetto, quello privato e quello pubblico; e lo stesso configurarsi di un diritto del soggetto alla sua vita privata, non solo in senso fisico, ma anche morale nei con­ fronti della società, è una conferma di quanto ha osservato

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un eminente filosofo del diritto, Giuseppe Capograssi : « È l’individuo stesso, l’individuo comune anonimo statistico che ha acquistato coscienza e sentimento della sua vita elemen­ tare ed empirica come valore». Si può dire pertanto che que­ sta esigenza di protezione costituisce uno dei nuovi bisogni dell’individuo contemporaneo. 4. Individui e nazioni: la protezione giuridica.

Il problema di assicurare i mezzi di protezione giuridica per la tutela della vita privata degli individui si è associato a quello di garantire anche l’integrità e la sovranità delle na­ zioni, poste anch’esse di fronte a nuove forme di insidia dei loro attributi tradizionali di esclusiva competenza e di inviolabilità del territorio di appartenenza. L’Assemblea generale dell’ONU, nella sua seduta del 19 dicembre 1968 (a vent’anni giusti dalla data in cui venne votata la Dichiarazione univer­ sale dei diritti dell’uomo), adottò una risoluzione — 2450 — relativa ai « diritti dell’uomo e progressi della scienza e della tecnica», in cui invitò il segretario generale a intraprendere, con l’aiuto delle apposite commissioni consultive, lo studio dei problemi posti dallo sviluppo scientifico e tecnologico in relazione ai diritti dell’uomo, e in particolare: d) il ri­ spetto della vita privata degli individui e dell’integrità e so­ vranità delle nazioni dinanzi al progresso delle tecniche di registrazione e comunicazione; b) la protezione della per­ sona umana e della sua integrità fisica e intellettuale dinanzi ai progressi della biologia, della medicina e della biochi­ mica; c) le utilizzazioni dell’elettronica, che possono inter­ ferire coi diritti della persona, e i limiti che queste utilizza­ zioni dovrebbero comportare per il loro esercizio in una so­ cietà democratica; d) più in generale, l’equilibrio che do­ vrebbe stabilirsi fra il progresso scientifico e tecnico e Fin-

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rialzamento intellettuale, spirituale, culturale e morale della umanità. Il segretario generale stese infatti un rapporto, che venne esaminato dalla Commissione dei diritti dell’uomo nella sua 27a sessione (1971), mentre nel settembre 1970 l’UNESCO dava incarico alla Commissione internazionale dei giuristi di redigere uno studio comparato sul diritto alla protezione della vita privata, che venne presentato nel 1971. La tematica di indagine, che è stata indicata dalla risoluzione dell’Assem­ blea dell’ONU, è ormai oggetto di una vasta letteratura tra cui fa spicco uno studio condotto da Alan F. Westin, Privacy and freedom, pubblicato a New York nel 1967.

5. Forme di violazione della vita privata. Il right to privacy, o diritto al rispetto della vita privata, è stato variamente formulato dopo la sua proposizione ori­ ginaria, che abbiamo ricordato. Una definizione comprensiva è quella avanzata da Westin, secondo cui esso è « il diritto che posseggono gli individui, i gruppi o le istituzioni, di de­ terminare per loro conto quando, come e in quale misura le informazioni che li riguardano siano comunicate ad altre persone ». Considerata dal punto di vista dei rapporti dello individuo con la vita di partecipazione sociale, la vita privata consiste nel ritiro volontario e temporaneo di una persona, che si isola dalla società facendo ricorso a mezzi fisici o psi­ cologici per ricercare la solitudine e l’intimità di un piccolo gruppo, ovvero — quando essa si trovi in seno a vasti rag­ gruppamenti — per stabilire una situazione di anonimato o di riservatezza. Vi sono dunque quattro stadi del processo di controllo del flusso di informazioni: 1) la solitudine, che ha una caratterizzazione di ordine fisico, cioè l’impossibiiltà materiale di contatti; 2) l’intimità, in cui l’individuo, pur

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senza essere isolato, fa parte di un gruppo ristretto, in cui valgono le regole di un comportamento privilegiato, ad esempio nell’ambito dei rapporti coniugali o familiari; 3) l’anonimato, che si verifica nei casi in cui l’individuo è esposto ai contatti con molte persone, ma è libero da identifi­ cazioni individuali; 4) la riservatezza, che costituisce il quar­ to e più delicato stadio della vita privata, giacché essa con­ siste nella creazione di una barriera psicologica contro in­ trusioni non desiderate. Nelle sue diverse gradazioni, l’esigenza dell’individuo è dunque quella di un diritto alla solitudine morale, che fa da contrappunto alla sua esigenza di socialità, con la quale si compone dialetticamente, ossia con un condizionamento reci­ proco. Robinson Crusoe, solitario nella sua isola, non poteva infatti avvertire il bisogno di staccarsi dalla società degli uomini; egli lo avvertiva bensì quando, tornato a Londra e nel cuore della popolosa City, si trovava immerso nella vita di partecipazione agli affari e agli affetti della comunità, co­ me ha osservato lo stesso Daniel Defoe nelle Serious reflexions attribuite al suo singolare personaggio. Questo rapporto, che si stabilisce avendo come punto di raccordo l’individuo, è quello fra la « coscienza interna » e la « coscienza esterna » di ogni uomo; entrambe concorrono a formare la sua uma­ nità e promuovere il suo sviluppo. Nel mondo odierno della civiltà tecnologica, la viola­ zione della vita privata — intesa nei suoi quattro momenti — può aver luogo a tre livelli. Anzitutto, in forma diretta nell’ordine fisico, facendo cioè ricorso all’osservazione per mezzo di dispositivi ottici o acustici della posizione in luogo, sempre in forma diretta o immediata, nell’ordine psicolo­ gico, ossia utilizzando dei test scritti od orali, dei dispositivi di costrizione psicologica, delle sostanze chimiche, con cui ottenere da un individuo quelle informazioni che non sa­

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rebbe disposto a dare di sua iniziativa o che egli rivela senza accorgersi o almeno senza rendersi conto del significato che assumono per svelare la sua personalità e la sua vita privata. Infine, vi è l’intrusione nella vita privata in forma indiretta per mezzo del controllo esercitato con i calcolatori elettro­ nici, cioè con la raccolta, lo scambio e l’elaborazione di in­ formazioni documentarie, che vengono accumulate nella me­ moria del calcolatore. Ognuna di queste forme può consentire a una volontà estranea di realizzare una indebita invasione, o addirittura un illecito impossessamento, nel territorio morale della vita privata dell’individuo. L’uso di strumenti da un lato aumen­ ta la possibilità di attuare la violazione di libertà e dall’altro costituisce una zona di intermediazione, che con la sua appa­ renza di insensibilità, di oggettività, di indifferenza tecnica, aumenta anche il valore di affidamento, il peso di credibi­ lità delle rilevazioni. In questo senso, la minaccia in forma tecnologica sulla vita privata è più grave di quella che si at­ tuava con gli stessi propositi in forme « naturali » nel passato. 6. Strumenti di controllo visivo.

Gli strumenti che sostituiscono l’occhio umano con l’oc­ chio ciclopico artificiale del superuomo tecnologico sono sempre più numerosi ed efficaci. Nell’elenco indicativo che segue vengono distinti quelli che permettono l’osservazione diretta, agevolandola od occultandola, da quelli che servono invece alla registrazione delle immagini e le rendono ripro­ ducibili per mezzo della stampa, delle pellicole cinematogra­ fiche e delle bobine per televisione; questi ultimi costitui­ scono anche una minaccia al diritto sulla propria immagine. Caratteristica comune degli strumenti qui elencati è quella di consentire l’istituzione di un controllo di attività all’insa­

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puta e ovviamente senza il consenso dell’individuo interes­ sato, che da soggetto cosciente e responsabile della pubblicità delle sue azioni viene reso un semplice oggetto dell’indagine compiuta a suo danno. Esistono innanzitutto gli spioncini miniaturizzati, che si possono inserire nei muri, e pure restando inosservati, per­ ché quasi invisibili o perfettamente dissimulati, consentono tuttavia di osservare dall’esterno quanto avviene nella stan­ za; sostitutivo assai più insidioso dell’antico buco della ser­ ratura, che si poteva facilmente tappare. Vi sono poi gli specchi semitrasparenti (come quelli in Polaroid), che da una parte hanno l’apparenza di uno specchio a riflessione di im­ magine mentre dall’altra consentono di osservare non visti l’interno di una stanza; si tratta di un dispositivo noto da di­ verso tempo. Vanno poi menzionati gli apparecchi telesco­ pici, con cui si può osservare da grande distanza senza farsi scorgere dalla persona osservata. Prodotti dell’età tecnologica odierna possono propria­ mente considerarsi quegli strumenti che consentono la ri­ produzione dell’immagine statica o in movimento. Tali sono gli apparecchi fotografici miniaturizzati, che si possono col­ locare nei luoghi più impensati e che si possono manovrare dall’esterno con un comando elettronico, ovvero che fun­ zionano automaticamente ogni volta che si accende una luce o si apre una porta. Gli apparecchi forniti di pellicole sen­ sibili ai raggi infrarossi possono fotografare nella più per­ fetta oscurità; la sorgente di raggi infrarossi può essere co­ stituita da una lampadina, che sembra spenta anche quando emana la luce infrarossa; ovvero si può proiettare un fascio di raggi dall’esterno. Gli apparecchi forniti di teleobiettivo a lenti speciali possono fotografare fino alla distanza di un chilometro; essi riescono utili specie per la riproduzione di lettere e documenti visti da lontano.

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Col ricorso agli apparecchi televisivi, si può procedere tan­ to all’osservazione diretta quanto alla registrazione delle immagini. Anche in questo caso, esistono degli apparecchi da presa miniaturizzati, circa 7 cm X 22 cm; con l’ausilio di fibre ottiche, montate dietro l’obiettivo si può far seguire ai raggi luminosi un percorso non rettilineo, in modo da col­ locare all’interno del locale da sorvegliare soltanto l’obiet­ tivo mentre la camera di ripresa televisiva è posta all’esterno. Con l’aggiunta di un magnetoscopio, le scene osservate pos­ sono essere registrate. S’intende che anche per gli apparec­ chi televisivi ci si può servire di sorgenti di luce infrarossa. La camera televisiva, completa con registratore del sonoro, può essere montata su un apparecchio che è una specie di piccolo elicottero: fornito di due rotori di 1 m di diametro, pesante circa 20 Kg, può essere mantenuto in volo stazio­ narli a seicento metri da terra e trasmettere le immagini re­ gistrate. Fra gli strumenti di sorveglianza ottica vanno infine ri­ cordati gli sniperscopers, impiegati nella guerra del Vietnam per snidare i tiratori in agguato; essi consentono di scoprire e illuminare un uomo nell’oscurità fino alla distanza di set­ tecento metri. 7. Strumenti di controllo acustico e rilevatori termici. Per quanto riguarda i mezzi artificiali di ascolto, si di­ rebbe che realizzino, in forma tecnologica, le fantasie iro­ niche e bizzarre degli artisti: come quel personaggio di un lavoro teatrale di Vitaliano Francati, Le trombe d’Eustachio, che metteva al servizio del Granduca la straordinaria capacità del suo orecchio di ascoltare attraverso i muri e a qualunque distanza. Si può utilizzare infatti un microfono parabolico collegato a un raggio laser: quest’ultimo, indivisibile, viene

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proiettato, anche a distanza di parecchi chilometri, sui vetri della finestra della stanza in cui ha luogo la conversazione da registrare. Il raggio di ritorno, modulato dalle onde so­ nore prodotte nella stanza e captate attraverso la vibrazione del vetro, viene analizzato e amplificato, riproducendo così i suoni delle parole. L’ascolto diretto di una conversazione in una stanza chiusa può avvenire anche ricorrendo ad un riflettore, con una membrana e un’antenna a iperfrequenza. Un fascio di onde a iperfrequenza può attraversare il muro e trasmettere le vibrazioni che si sono prodotte nella stanza ad un apparecchio di ricezione collocato all’esterno. Come esistono apparecchi fotografici miniaturizzati, così esistono microfoni miniaturizzati: se ne trovano in com­ mercio esemplari che pesano 5 g e hanno 9 mm di dia­ metro. Praticamente invisibili, possono essere nascosti in un occhiello della giacca o in un polsino e permettono di re­ gistrare le parole pronunciate senza sospetto di ascolto mec­ canico. Un microfono miniaturizzato può venire persino in­ serito a opera di un dentista nella impiombatura di un dente, consentendo così la trasmissione di ogni parola pronunciata dal suo portatore; ovvero provocando la trasmissione di un segnale continuo, che permette di seguire a distanza tutti gli spostamenti della persona sorvegliata. I microfoni pos­ sono essere anche fissati all’esterno del muro di una stanza e captare la vibrazione delle onde sonore prodotte dalle pa­ role pronunciate; se il muro è troppo spesso, si inseriscono microfoni ad ago, che percepiscono le vibrazioni per mezzo degli « aghi » piantati nel muro. Il microfono per l’ascolto diretto può essere impiegato valendosi di microfoni dire­ zionali, capaci di isolare e ascoltare una conversazione a 2 km di distanza. Specialmente noto, anche per i suoi collegamenti a scan­ dali politici negli Stati Uniti, in Italia, in Belgio e in Francia,

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è lo spionaggio telefonico, che consiste nella sorveglianza non autorizzata delle comunicazioni telefoniche. Per realiz­ zarlo, si può inserire una presa d’ascolto direttamente sulla linea telefonica; si può fare ricorso a una bobina d’induzione, collocata vicino al filo di trasmissione, per evitare di toc­ carlo; con la stessa bobina, collegata a un magnetofono mi­ niaturizzato, si possono registrare conversazioni telefoniche che avvengono a distanza ravvicinata (per esempio nella stanza accanto). Un telefono può essere trasformato facilmen­ te in microfono d’ascolto, in modo che l’ascoltatore se ne serva per sentire quanto si dice nella stanza in cui il tele­ fono è collocato; si può cioè chiamare il numero richiesto ed entrare in ascolto, senza che l’apparecchio ricevente regi­ stri la chiamata e stabilisca il contatto. Come i sensi della vista e dell’udito, anche il senso del tatto ha trovato il suo sostituto artificiale, almeno per quanto concerne la ricezione del calore. Esistono dei rilevatori ter­ mici talmente sensibili da registrare la presenza di emissioni di calore fino a differenze di un millesimo di grado centigrado; con essi si possono rilevare le tracce di passaggio o di sosta di un corpo umano in un ambiente finché dura l’im­ pressione termica, lasciata per esempio su un divano o un tappeto.

8. Metodi di controllo psicologico. Il controllo della personalità può spingersi ben al di là delle sue manifestazioni fisiche — le azioni compiute o le parole pronunciate — e addentrarsi nell’intimità stessa della sua costituzione psicologica, scrutando anche pensieri ed emo­ zioni, che si vorrebbero mantenere segreti. Si può infatti ri­ correre a droghe come il Pentothal che allentano la capacità

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di autocontrollo dell’individuo, ai test della personalità, che attraverso il gioco delle domande e delle risposte consentono allo psicologo di dedurre i giudizi inconfessati dell’indivi­ duo esaminato, e infine ai poligrafi, dispositivi di registra­ zione delle variazioni termiche del corpo, della frequenza del polso e del respiro, delle reazioni agli stimoli nervosi; con questi ultimi si cerca di accertare la veridicità della risposta alle questioni proposte. In ognuna delle ipotesi di controllo accennate, l’intento è sempre quello di forzare il limite di riservatezza dell’indi­ viduo; e sebbene il ricorso a tali espedienti avvenga di so­ lito da parte dei pubblici poteri, come negli interrogatori di polizia, il rispetto della vita privata è un bene che va tutelato dall’offesa che gli può arrecare anche la violenza legale, non meno che quella privata.

9. Il controllo coi calcolatori elettronici. Nel quadro tecnologico della società contemporanea, l’at­ tacco più insidioso, anche se indiretto, portato alla tutela del­ la vita privata, è quello determinato dall’impiego dei calco­ latori elettronici, strumenti perfettamente depersonali a dif­ ferenza di tutti gli altri il cui uso stabilisce sempre un col­ legamento fra individui osservatori e osservati. Condizionati dall’uso di un metalinguaggio simbolico e perciò riservati alla gestione operativa d’una classe di tecnici, sottratti in ap­ parenza a possibilità di manipolazione e distorsione dei dati documentari raccolti, i calcolatori forniscono a chi li detiene una memoria meccanica e una intelligenza artificiale, che assicura una superiorità schiacciante sulla organizzazione mentale dell’individuo o di un gruppo di individui. In sede teorica — ma la realtà tende rapidamente ad adeguarsi alla

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teoria — sarebbe possibile registrare, memorizzare e elabo­ rare tutti i dati significativi della vita privata di tutti gli in­ dividui appartenenti a una popolazione come quella italiana. Il fenomeno già si verifica per alcuni settori, ad esempio per quanto riguarda tutti i dati relativi al reddito e alle opera­ zioni commerciali, attraverso l’istituzione di un’anagrafe elet­ tronica fiscale; oppure per quanto riguarda tutti i dati che si riferiscono alla salute fisica e psichica degli assistiti dall’or­ ganizzazione sanitaria nei paesi in cui l’assistenza medica è socializzata. Si tratta dunque di una sorta di giudizio uni­ versale permanente, per cui ogni individuo schedato elettro­ nicamente è sottoposto a una sorveglianza continua e inavververtita degli atti rilevanti della sua vita privata, che in tempi precedenti sarebbe stato impossibile documentare nella loro varietà e molteplicità. La maggior parte delle informazioni che l’individuo forniva sui propri atti erano infatti destinate a disperdersi e a esaurirsi nell’atto stesso della comunica­ zione, per esempio l’acquisto di un biglietto di viaggio o di una medicina; alcuni dati personalissimi, per esempio le impronte digitali, rimanevano irreperibili per la difficoltà di procedere ad una loro identificazione, che oggi può invece avvenire con una comparazione condotta con metodo elettro­ nico su milioni di schede. La memoria magnetica consente oggi di racchiudere nelle dimensioni di una scatola di fiam­ miferi un insieme di dati che, stampati per esteso, riempi­ rebbero una cattedrale; inoltre, l’intelligenza elettronica è in grado di ricuperare, comparare, elaborare e stampare i dati richiesti selezionandoli fra milioni o miliardi di altri, a una velocità che si misura in frazioni di secondo; per com­ piere le stesse operazioni in modo « naturale » occorrereb­ bero anni. Il calcolatore appare il simbolo operativo, che meglio di ogni altro rappresenta una caratteristica dominante della so­

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cietà di massa, cioè la tendenza a costituire una forma di convivenza civile esemplata sull’anonimità, uniformità e com­ pattezza dei grandi complessi industriali del nostro tempo. Come un operaio nella fabbrica, a differenza dell’artigiano nella sua bottega, si trova esposto alla costante e necessaria sorveglianza delle sue operazioni di lavoro, che vengono coordinate e condizionate con quelle di tutti gli altri, così nel­ la società tecnologica, dove la rete delle relazioni economiche si fa sempre più fitta per motivi di progresso e anzi di so­ pravvivenza delle forze attuali di produzione, il cittadino si trova esposto alla contabilità generale delle sue azioni. Si consideri l’uso delle carte di credito, sempre più diffuso e destinato, secondo certi economisti, a sostituire l’uso della mo­ neta negli acquisti individuali: questo sistema implica un controllo ininterrotto dell’economia privata di un possessore della carta di credito, che è reso possibile soltanto dal ricorso all’elaboratore elettronico. Altre forme settoriali della vita privata vanno sottoposte, per la logica stessa del nostro si­ stema di vita, a controlli sempre più estesi, ad esempio per i conducenti di autoveicoli in caso di infrazione viene accer­ tata e registrata nel Regno Unito la quantità d’alcool inge­ rita, oltre agli abituali riferimenti relativi al possesso della macchina. Si può cioè constatare una progressiva «compu­ terizzazione » della vita privata, non solo per quanto riguar­ da la quantità numerica degli individui schedati, che potrà giungere in futuro alla loro totalità, ma anche riguardo alla particolarità, sempre più minuta e precisa, delle informa­ zioni che li concernono. La dinamica interna della sorve­ glianza di massa comporta la tendenza all’accrescimento co­ stante dei dati di riferimento nella memoria elettronica, que­ sta coscienza artificiale collettiva della società del nostro tem­ po, che consiste nella riduzione e omogeneizzazione stati­

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stica delle azioni individuali e nella loro sottrazione alla sfera della riservatezza. I problemi che l’apertura di tali prospettive desta nella coscienza civile sono diversi e gravi: ci limiteremo qui a segnalare quelli di ordine giuridico. Anzitutto si presenta l’esigenza di un controllo giuridico degli stessi calcolatori; allo stato dei fatti non è possibile co­ noscere, se non per approssimazione e con rilevazione indi­ retta, quanti siano i calcolatori attualmente in esercizio nel nostro paese, e soprattutto in quali mani siano affidati quelli di grande potenza. Manca un registro di iscrizione dei cal­ colatori, come esiste quello per le automobili o per i televi­ sori, sebbene l’uso che si può fare di un calcolatore incida ben altrimenti nei rapporti sociali. In secondo luogo è ne­ cessario procedere a una regolamentazione giuridica del ser­ vizio di informazioni effettuato con l’impiego dei calcolatori da enti pubblici o privati, per garantire il controllo della ve­ ridicità dei dati da parte dell’interessato e insieme la tutela della doverosa riservatezza di certe categorie di dati; inoltre, bisogna prevenire possibili abusi nel procedimento di ela­ borazione dei dati stessi, assicurando la garanzia della im­ parzialità. In terzo luogo è opportuno provvedere alla for­ mazione e all’istituzione di un corpo di magistrati specializ­ zati nella sorveglianza delle «banche dei dati», costituite dalla memorizzazione elettronica di informazioni su privati; questi nuovi magistrati dovrebbero essere abilitati a giudi­ care le controversie relative a questi nuovi strumenti, così estranei alla tradizione giuridica e più in generale alle co­ muni conoscenze della persona colta con preparazione uma­ nistica. Infatti, per quanto attiene ai metodi di controllo indi­ retto della vita privata per mezzo della raccolta ed elabora­ zione dei dati a opera del calcolatore elettronico, la legisla­ 19. V. Frosini

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zione protettiva è assai carente e non solo in Italia. Il primo esempio concreto di regolamentazione giuridica della disci­ plina relativa all'utilizzazione delle banche di dati è quello fornito dalla legge del Land di Hesse (Repubblica Federale Tedesca) del 7 ottobre 1970, che dispone misure intese a evi­ tare la diffusione non autorizzata di informazioni concer­ nenti la vita privata e che istituisce la figura di un appo­ sito commissario per la sorveglianza delle banche di dati, fornito di poteri di controllo e di indagine e della facoltà di ricevere i ricorsi dei privati. Va ancora menzionato il Fair Credit Reporting Act del 1970 negli Stati Uniti, che prevede una procedura per le controversie sull'esattezza del­ le informazioni assunte su privati. 10. La tutela della riservatezza come principio giuridico.

Questi esperienti e strumenti, che mettono in pericolo la tutela della riservatezza, rappresentano applicazioni del progresso tecnologico che spesso sfuggono a un adeguato con­ trollo giuridico, poiché vengono a trovarsi in una sorta di «vuoto giuridico»; le garanzie che erano state previste per il rispetto della vita privata appartengono a un tempo che è stato o che è continuamente superato. Per quanto riguarda, ad esempio, la legislazione relativa alle telecomunicazioni, in gran parte elaborata negli anni Trenta, erano previste san­ zioni per l’ascolto clandestino mediante l’utilizzazione delle linee telefoniche, ma oggi non è più applicabile ai sistemi di intercettazione delle conversazioni private per mezzo del­ le bobine d’induzione o di altri ritrovati che consentano li­ beramente l’ascolto dall’esterno. Bisogna quindi risalire fino ai principi generali che assicurano la protezione della vita privata, sanciti dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, il quale dispone che «ognuno

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ha diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domi­ cilio e della corrispondenza». Tuttavia, proprio al livello più elevato della vita giuridica, e cioè quello che dovrebbe realizzare il coordinamento in­ ternazionale delle legislazioni interne, il tentativo di creare un fronte unico di difesa dell’individuo non è ancora riu­ scito. Infatti, i patti internazionali relativi ai diritti econo­ mici, sociali e culturali, il patto internazionale relativo ai di­ ritti civili e politici e un protocollo aggiunto di carattere fa­ coltativo, sono stati adottati dall’Assemblea generale dell’ONU nella risoluzione 2200 (XXI) del 16 dicembre 1966, ma non sono ancora entrati in vigore, per la mancata ratifica da parte di numerosi Stati. Nel 1970, l’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa ha formulato una dichiarazione sulla responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa e sulle misure destinate a proteggere l’individuo contro ogni inge­ renza nell’esercizio del suo diritto e ad assicurare il rispetto della sua vita privata (documento 2687 e risoluzione 428). Vi è però da considerare che il ricorso degli individui agli or­ gani internazionali incontra ancora difficoltà d’ordine for­ male e d’ordine pratico, che limitano l’efficacia delle norme internazionali. Per quanto riguarda la normativa giuridica dell’ordina­ mento italiano, mancava sino ad ora un preciso riconoscimen­ to legislativo del diritto alla riservatezza, configurato come uno specifico diritto soggettivo alla intangibilità della sfera privata della persona umana. Bisognava perciò risalire a principi fondamentali, come quello affermato dall’art. 15 del­ la Costituzione, secondo cui « la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili», e costruire una struttura giuridica unitaria con le diverse forme di protezione dei singoli diritti della perso­ nalità (come quelli al nome, all’immagine, all’onore). Fi­

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nalmente, in data 20 settembre 1973, è stata approvata dalla Commissione della giustizia del Senato dalla Repubblica la legge relativa alla tutela della vita privata. L’art. 1 della legge stabilisce che chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procuri indebitamente notizie o im­ magini attinenti alla vita privata è punito con una reclu­ sione da sei mesi a tre anni. Alla stessa pena sarà condan­ nato, salvo che il fatto costituisca un più grave reato, chi rivela o diffonde le notizie o le immagini ottenute nei sud­ detti modi. Nella stessa legge si precisa che per questi reati si procede d’ufficio e che la pena viene elevata da uno a cinque anni se il fatto è compiuto da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, o da chi esercita la professione di investigatore privato anche se tale eserci­ zio risulta essere del tutto abusivo. 11. Conclusioni. Abbiamo passato in rassegna gli aspetti salienti di una situazione caratteristica della vita civile dell’uomo d’oggi, che costituisce un panorama, dal profilo frastagliato a decisi contorni, della nuova condizione artificiale dell’esistenza e dell’intelligenza umane; panorama che coincide ormai con l’orizzonte planetario dell’umanità contemporanea. Indivi­ dui e nazioni, e anzi la stessa società internazionale nel suo complesso organizzato, sono chiamati, come si è visto, a ri­ spondere a nuovi interrogativi sul senso che assume il destino storico del progresso scientifico e tecnologico, che è crea­ zione della mente e della operosità umana e di cui quindi l’uomo stesso, vale a dire ognuno di noi, è responsabile per la sua inclinazione verso un bene comune maggiore o di converso per la sua eventuale declinazione verso un male, che finisce comunque per risultare anch’esso comune.

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Il problema del valore della tecnica, finora considerata in una posizione subordinata e strumentale rispetto ai valori do­ minanti della civiltà umanistica, va affrontato nelle dimen­ sioni che si sono intraviste. Esso è divenuto un problema pri­ mario e persino talora angoscioso per l’uomo del nostro se­ colo; giacché non è più in questione, come nei secoli passati, l’aumento di energia nel mondo esterno che ci circonda. La tecnica è adesso penetrata nel regno della psiche umana: alla coscienza si pone l’immagine di se stessa proiettata in nuove forme, duplicata e anzi moltiplicata, resa oggettiva nelle bobine che possono custodire e ripetere su uno schermo le nostre parole, i nostri gesti, come in uno specchio magico dinanzi al quale noi possiamo dialogare con noi stessi; vi sono procedimenti che possono analizzare e rivelare i nostri pen­ sieri, la logica occulta delle nostre azioni. In quanto ai gruppi collettivi nazionali, anch’essi sono obbligati a prendere coscienza di una trasformazione radi­ cale nell’ordine dei rapporti internazionali, una volta che è stata abolita la distanza nel tempo e nello spazio, e sono ob­ bligati altresì a riconoscere la realtà di una compresenza continua, in cui acquista compattezza e unità planetaria la immagine finora frammentata e dispersa dell’umanità sulla Terra. Nella vita privata come in quella pubblica il pro­ gresso tecnologico, che è portatore di benefici e di malefici, ci costringe a sentirci partecipi tutti di una medesima uma­ nità, perché esso ha creato per noi un interlocutore comune, che è il nostro futuro di salvezza o di disastro nel nuovo mondo artificiale.

Nota bibliografica: Commission Internationale des Juristes, La pro­ tection de la vie privée, in « Revue intera, des sciences sociales », XXIV, 1972, n. 3, pag. 431 e ss.; Department of Health, Education and Welfare U.S.A., Records computers and the rights of citizens, Washington D C., 1973;

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S. Fois, Introduzione a Intercettazioni telefoniche e rispetto della vita pri. vata, Quaderni di studi e legislazione della Camera dei Deputati n. 15, Roma, 1973; V. Frosini, L’informazione pubblica e la riservatezza privata, in « La rivista tributaria», XLIII, 1973, n. 1-2, pag. 5 e ss.; Cibernetica diritto e società, Edizioni di Comunità Milano, 1968 (IV ed. 1978); F. Galloudec Genuys, H. Maisl, Le secret des fichiers, Cujas, Paris, 1976 A. PRE­ DIMI, Gli elaboratori elettronici nell'amministrazione dello Stato, Il Mulino, Bologna, 1971; S. Rodotà, Elaboratori elettronici e controllo sociale, Il Mu­ lino, Bologna, 1973; J. B. Rule, Private lives and public surveillance, Lon­ dra, 1973; M. Treillb, L’economie mondiale de l’ordinateur, Edit, du Seuil, Paris, 1973. ; . .1 [ .

7.

ASPETTI SOCIO-ECONOMICI DELLA POLITICA ENERGETICA PER IL MEZZOGIORNO

1. Il programma energetico nazionale.

Una ricerca condotta sui metodi, i dati e i modelli di cal­ colo e di previsione relativi alla produzione e al consumo in un sistema energetico collocato nel quadro collettivo di una comunità nazionale richiede necessariamente un qua­ dro di riferimento ancora più ampio, che è quello costituito dalle esigenze, che hanno dato origine alla ricerca medesima. Si tratta della situazione complessiva, in cui sono sorte le sol­ lecitazioni all’impostazione e soluzione dei problemi, nella dinamica di sviluppo di una società tecnologica, che è peral­ tro condizionata da esigenze di carattere economico e poli­ tico; e una tale situazione acquista la sua concretezza, in cui diventano applicabili i modelli proposti, solo in rispondenza ad una realtà determinata secondo le coordinate spaziotem­ porali. Nel caso in esame, si tratta della realtà dell’Italia contemporanea, che viene qui considerata in un’ottica parti­ colare di indagine, secondo alcuni parametri privilegiati per una messa a fuoco. La problematica relativa alla previsione (e cioè alla di­ sponibilità, alle richieste e ai limiti) di sfruttamento delle ri­ sorse energetiche in Italia va peraltro collocata nel contesto della società industriale avanzata, di cui l’Italia partecipa con gli altri paesi della Comunità europea e con gli Stati Uniti d’America, in stretta connessione anche con altre società, co­ me quella giapponese. È su questo contesto socio-economico che si ripercosse in maniera traumatica la vicenda della guer­ ra arabo-israeliana svoltasi nel Medio Oriente nell’ottobre del 1973, che ebbe come sua conseguenza immediata l’aumen­

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to del 400% sul prezzo del petrolio greggio; punto di svolta, da cui conviene prendere le mosse.

È pur vero, come è stato opportunamente rilevato da Ma­ rio Silvestri, che «la guerra arabo-israeliana ha solo funzio­ nato da detonatore di una situazione, che stava costruendo nel suo seno, indipendentemente dagli eventi politici, ele­ menti di crescente instabilità» (1). Ancor prima di quello evento, infatti, proprio in Italia il problema delle risorse energetiche aveva ricevuto una sua autentica epifania cultu­ rale con l’apparizione dell’indagine su I limiti dello sviluppo, sorta sotto il segno della collaborazione fra il Club di Roma e il Systems Dynamics Group del Massachussets Institute of Technology (MIT), e divenuta subito famosa dopo la sua pubblicazione in volume nel marzo 1972. Tuttavia, la guerra del 1973 segnò uno scatto e un cambio di marcia nel pro­ cesso di indagini conoscitive e di richiami a misure pratiche a livello della massima dirigenza politica ed economica, negli Stati Uniti e in Europa. A quell’evento determinante può in­ fatti ricollegarsi il discorso pronunciato dal presidente ame­ ricano G. Ford nel suo « messaggio allo Stato dell’Unione » dinanzi al Congresso il 15 gennaio 1975, in cui venne espres­ so chiaramente il proposito di assumere il problema energe­ tico nel quadro di un programma politico, il cui obiettivo dichiarato fu quello di fare raggiungere al paese l’autosuf­ ficienza energetica entro il 1985, e al tempo stesso di svilup­ pare tecnologia e risorse del settore in modo che gli USA potessero diventare, da importatori (seppure per quota per­ centualmente modesta del loro fabbisogno: il 15%), espor­ tatori netti di energia entro la fine del secolo.

f1) V. la premessa di M. Silvestri al volume della Fondazione Ford, Tempo di scelte. Progetto per una politica dell’energia, ediz. irai. Mon­ dadori, Milano, 1975, pag. II.

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Portato con tanta autorità ed urgenza dinanzi al giudizio della pubblica opinione, il proposito di un piano di politica dell’energia attirò l’attenzione di studiosi e di politici non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo occidentale. In Italia, il problema energetico assunse un rilievo eminente quando, il 23 dicembre 1975, il Comitato interministeriale di programmazione economica (CIPE) approvò un piano di sviluppo energetico, che parve tuttavia destinato a smuovere più le discussioni che le volontà operanti. L’aggravarsi del problema nei suoi termini pratici espressi dagli indici finan­ ziari con ripercussioni infi attive sull'economia nazionale e l’allarme suscitato nell’opinione pubblica italiana sollecita­ rono una presa in considerazione a livello di assemblea par­ lamentare; il dibattito che ne seguì nell'autunno del 1977 condusse ad una risoluzione approvata a grandissima mag­ gioranza il 5 ottobre 1977 dalla Camera dei deputati e alla presentazione di un programma energetico nazionale predi­ sposto dal ministro dell’industria, commercio e artigianato on. C. Donat Cattili, che venne approvato dal CIPE nella sua riunione del 23 dicembre 1977. Da allora, il problema energetico è al centro del dibattito economico e politico. Fra le critiche mosse al piano appro­ vato, la più insistente è quella, che esso si soffermi quasi esclu­ sivamente sui problemi relativi all’offerta di energia, mentre per quanto riguarda i problemi attinenti alla domanda esso si presenta lacunoso e assai controvertibile (3). All’inverso, alle proposte avanzate dal nuovo ministro dell’industria, on. Nicolazzi a fine aprile 1979 è stato obiettato che in esse viene trascurato del tutto il problema delle fonti di produzione (3). iff) F. Ippolito, Relazione introduttiva al dibattito su L’energia del futuro, a cura dell’istituto Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1978, pag. 17. (3) C. Zappulli, Le comode lacune del ministro, ne II Giornale nuovo del 28 aprile 1979, p. 1.

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2. L’articolazione del programma. Sia consentito avanzare un’osservazione, che può certa­ mente suonare banale fino al punto da essere irrisoria nel suo apparente semplicismo: il problema energetico italiano con­ siste nel trovare i termini di un’equazione fra domanda ed offerta energetica, fra produzione e consumo, tenendo conto della variabile da determinare del risparmio. Il dibattito che si è svolto nel corso degli ultimi sedici mesi è oscillato fra i due poli dell’aumento di offerta con la creazione delle cen­ trali termonucleari e della diminuzione di domanda con una serie di restrizioni; fra l’ottimismo della propulsione dello sviluppo e il pessimismo delle misure di austerità. Sarà opportuno cominciare col ripercorrere le linee trac­ ciate nella risoluzione votata dal Parlamento, prima di pro­ cedere alle valutazioni critiche richieste dalla situazione.

Quando venne constatato che la crisi energetica aveva introdotto un mutamento permanente e creato una condizio­ ne irreversibile nel quadro dei dati che determinano le scelte di fondo della politica economica, il governo venne impe­ gnato a porre in azione una manovra globale di politica ener­ getica capace di modificare a medio termine con nuovi indi­ rizzi del settore la presente struttura del sistema energetico nazionale. Si noti subito che è mancata una volontà politica decisio­ nale capace di impegnarsi per una politica di programma­ zione a lungo termine, con una trasformazione e con un ridimensionamento dell’intero sistema energetico, ponendo degli obiettivi da conseguire a termine di un arco di dieci anni almeno. D’altra parte, si è ritenuto che per la manovra a breve termine potesse venire delegata all’esecutivo la re­ sponsabilità di scelte tattiche.

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La manovra politica richiesta venne comunque articolata nei seguenti punti, come in un «insieme coordinato di azioni » :

1) diversificare le fonti primarie di approvvigionamen­ to e per ciascuna tendere alla massima diversificazione geo­ grafica, al fine di rendere meno vulnerabile il sistema ener­ getico; 2) correggere la struttura del sistema nazionale della produzione energetica, puntando ad una riduzione percen­ tuale della componente petrolio ed aumentando l’apporto e lo sfruttamento delle fonti alternative con particolare rife­ rimento alle fonti interne attraverso: a) un recupero dello utilizzo delle fonti idroelettriche sia con un migliore utilizzo degli impianti sia con una utilizzazione di nuovi e trascu­ rati anche se minori salti idrici nel quadro dell’uso plurimo di acque; b) una più organica azione nel campo della geo­ termica utilizzando tutte le competenze dell’ENI e dello ENEL ed estendendo lo sfruttamento da parte delle regioni delle acque calde all’uso non elettrico; c) una incentivazione dell’uso esteso dell’energia solare per basse temperature nel campo degli usi civili, agricolo-alimentare e dell’industria del freddo; H la sperimentazione di tutte le forme di pro­ duzione integrata di energia e di calore; e) l’aumento della quota detenuta dal carbone, impiegandolo in particolare nel­ le centrali ENEL e provvedendo a intese a lungo termine con i paesi produttori ed un piano per l’adeguamento delle infrastrutture interne con riferimento anche ai problemi di inquinamento; f) la promozione e l’intervento delle inizia­ tive a livello dei poteri locali, come l’uso dei rifiuti solidi urbani, e delle regioni nel campo dello sfruttamento di ri­ sorse di rilievo essenzialmente locali, valorizzando ed esten­ dendo le esperienze già in atto;

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3) risparmiare ed evitare gli sprechi dell’energia incen­ tivando anche finanziariamente tutte le operazioni a ciò fina­ lizzate; e in particolare: nel campo industriale, orientare i provvedimenti relativi alla riconversione industriale ad una struttura produttiva a basso consumo di energia; nel campo degli usi civili, domestici e dei trasporti attraverso provve­ dimenti del settore edilizio e dei servizi basati su un più efficiente e razionale uso delle risorse e una politica della do­ manda che privilegi i beni sociali rispetto ai beni di con­ sumo individuali; 4) razionalizzare le strutture dell’approvvigionamento, della lavorazione e della distribuzione impegnando PENI in un ruolo prioritario e orientare i consumi in modo da tenere conto delle reali possibilità italiane in un quadro program­ matico globale e con scelte che diminuiscano la dipendenza energetica; 5) sviluppare le risorse interne: incrementando le ri­ cerche e prospezioni delle varie fonti (idrocarburi, carbone, uranio) impegnando PENI con intensi programmi di ricerca e sfruttamento. Potenziare l’impegno pubblico nella ricerca e sviluppo e dimostrazione per le altre fonti energetiche, in particolare per quella solare, prevedendone anche l’imme­ diata utilizzazione; 6) garantire l’approvvigionamento dall’estero ricorren­ do a larghe intese di collaborazione-quadro e cooperazione industriale con i paesi produttori di fonti primarie che con­ sentano di bilanciare i costi di approvvigionamento con ope­ razioni di interscambio di prodotti industriali e servizi. La politica di approvvigionamento dall’estero dovrebbe essere attuata sia mediante attività mineraria, sia rivolgendosi al mercato per acquisire la disponibilità. Per ottenere questi ri­ sultati, occorre puntare su una politica europea del settore energetico nel quadro della cooperazione internazionale;

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7) attuare una concreta verifica della sicurezza e difesa ambientale con riferimento a cicli di produzione, trasforma­ zione e consumo di qualsiasi fonte energetica, pur nel rispetto della salute e della salvaguardia del patrimonio naturale. 3. Lo strumentario di interventi. Queste le grandi linee della strategia adottata nella riso­ luzione parlamentare. L’assemblea provvide peraltro anche ad indicare uno strumentario di interventi per conseguire gli obiettivi indicati. Anzitutto sul piano finanziario e tarif­ fario, invitando il governo a modificare la politica dei prezzi operando una « liberalizzazione programmata » dei prezzi dei prodotti energetici e passando « dai prezzi amministrati ai prezzi sorvegliati»; nonché, per quanto riguarda speci­ ficamente le tariffe, ad operare per riequilibrare il sistema di costi-ricavi salvaguardando apposite fasce sociali riferite ai consumi dei meno abbienti, l’agricoltura e il Mezzogiorno (ossia, procedere ad una politica tariffaria differenziata). Inoltre, lo strumento fiscale andrebbe utilizzato in modo da favorire gli indirizzi di politica energetica sopraindicati per disincentivare gli usi secondari rispetto ai prioritari. In particolare, la risoluzione della camera dei deputati riconobbe la necessità di «un ricorso equilibrato e control­ lato dell’energia nucleare», che avesse come obiettivi l’auto­ nomia energetica, un qualificato e autonomo sviluppo di una industria elettromeccanica nucleare nazionale e la piena soluzione dei problemi relativi alla sicurezza e alla prote­ zione della salute. Anche questa scelta venne articolata nei seguenti punti: 1) immediata realizzazione di quattro unità già appal­ tate e avvio delle procedure e della gara di qualificazione per la costruzione di altre quattro unità di produzione ter­

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monucleare; possibilità di opzione per ulteriori quattro unità sulla base dell’andamento della domanda (quindi per un totale di dodici); 2) localizzazione delle centrali nucleari con la collaborazione fra governo, regioni, enti locali, ENEL e CNEN, consentendo «un dibattito il più ampio e informato possi­ bile » ; 3) sviluppo di un’industria nucleare nazionale che rea­ lizzi la interiorizzazione delle licenze delle centrali private tenendo presente l’opportunità di avviare anche la sperimen­ tazione di centrali ad acqua pesante (Candu). A tal fine (prosegue la relazione) è necessario superare il metodo della committenza con « chiavi in mano » e tendere verso una committenza, che, fermo restando il ruolo dell’ENEL di im­ prenditore generale, dell’intera centrale consideri la parte propriamente nucleare un unicum da commissionare. Per quanto riguarda i reattori veloci si ravvisa l’opportunità di proseguire nella ricerca e sperimentazione nell’ambito delle intese esistenti e della cooperazione internazionale; 4) considerare tutti gli aspetti del ciclo del combustibile dando ad esso unitarietà nell’impostazione e nella ge­ stione impegnando ENI, ENEL, CNEN, nell’ambito delle rispettive competenze e responsabilità, in un’azione che ga­ rantisca il massimo di autonomia tecnologica e produttiva. In particolare tale azione dovrà tendere a garantire la for­ nitura di uranio; l’arricchimento dello stesso con la parteci­ pazione ad Eurodif e a quella eventuale di Coredif, la co­ struzione degli elementi di combustibile; a proseguire nella ricerca e nello sviluppo per il ritrattamento del combustibile; ad assicurare una corretta e sicura gestione dei residui radioattivi; 5) elaborazione entro i tempi stabiliti dalla legge n. 393 del 1975 da parte del CNEN e dell’ENEL della carta dei siti;

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6) adeguamento dell’ENEL in funzione delia nuova politica energetica e dei nuovi compiti e responsabilità, te­ nendo presente la nuova realtà istituzionale del Paese; 7) adeguamento dell’ENI al suo ruolo nel settore del combustibile nucleare e più in generale dell’approvvigiona­ mento energetico sia per la copertura dei fabbisogni del programma nazionale sia per la copertura dei fabbisogni di combustibile derivanti dalla vendita di centrali nucleari al­ l’estero; 8) potenziamento dell’attuale ruolo del CNEN come ente per la sicurezza, la ricerca, lo sviluppo e la promozione industriale e riorganizzazione del controllo nei settori della sicurezza, della protezione dell’uomo e dell’ambiente e nella valutazione di un’esigenza di unitarietà della ricerca energe­ tica e per il controllo e la sicurezza nucleare. La relazione si concludeva con l’affermazione, che « al fine di dare al Paese una stabile e continuativa politica ener­ getica, si rende necessario e urgente dare all’intero settore energetico una direzione unitaria e coordinata al livello del­ l’esecutivo e del parlamento». La successiva deliberazione del CIPE in attuazione del programma energetico nazionale rappresentò un atto di go­ verno inteso a rendere fattibile una politica nazionale nel settore. Il significato politico assunto dalla deliberazione con­ siste nel fatto che finalmente vi è un documento, che sotto­ pone all’attenzione e alla riflessione delle forze politiche, del­ le dirigenze degli enti pubblici, degli operatori privati que­ gli indirizzi che si assumono vincolanti per la programma­ zione. Occorre a questo punto stabilire un « punto di fuga » pro­ spettico in cui collocarsi per considerare l’attuabilità del pia­ no in relazione al ciclo di conversione fra produzione e con­ sumo energetico, in cui intervengono i diversi fattori di equi­ 20.

V.

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librio che possono essere sollecitati o controllati da una vo­ lontà direttiva politica. Questo punto di osservazione e di giudizio è dato a nostro parere dallo schema proposto in forma di modello complessivo di una equazione globale energetica: formula ideale, che peraltro evita lo sbandamento verificatosi nella dialettica fra i sostenitori di opposte po­ larità di sviluppo accennati. 4. La strategia alternativa e il costo energetico.

Nella letteratura scientifica statunitense questo divario di tendenze è stato espresso nella duplice formula di «high energy living» e di « low energy living». In verità, si resta dubbiosi sul significato preciso della seconda formula: il basso livello di consumo di energia può infatti essere ga­ rantito da una restrizione dei consumi con una serie di misure intese ad imporre un livello di autorità, come può essere invece ottenuto facendo ricorso a sistemi di ottimiz­ zazione dell’impiego di energia che minimizzi i consumi e la crescita del fabbisogno pro capite. Appare utopistico, in­ fatti, pensare che i grandi agglomerati industriali possano continuare a sussistere senza espandere il loro consumo col­ lettivo di risorse energetiche. Un tentativo di superamento del dilemma, che va men­ zionato, è quello formulato da Armory Lovins, secondo cui l’alternativa non è tra il consumo di energia alto o basso, ma nei modi di produzione dell’energia necessaria e della strategia di sfruttamento. Egli chiama «soft energy paths» quelle strategie di utilizzazione delle risorse che, pur es­ sendo graduali e progressive, potrebbero nel giro dei pros­ simi decenni costituire nuove fonti di energia « pulita », e così scrive: « Esiste oggi un complesso di tecnologie energe­ tiche che hanno alcune caratteristiche specifiche in comune

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e offrono numerosi vantaggi sia sul piano tecnico che eco­ nomico e politico, ma non possono venire indicate con un uni­ co termine. In mancanza di meglio le chiamerò tecnologie “ leggere " nel senso non di vaghe, indistinte, congetturali o effimere, ma di flessibili, durevoli, resistenti e non inqui­ nanti » (4). Una tale « strategia alternativa » non altera, comunque, l’impostazione dell’equazione fondamentale fra risorse e con­ sumi.

Per una corretta analisi socio-economica del problema, gli elementi basilari da prendere in considerazione sono tre: 1) il consumo energetico pro capite; 2) il reddito medio pro capite; 3) il prodotto individuale di beni e di servizi. Tra l’aumento della prima e quello della seconda variabile vi è una stretta correlazione positiva: i paesi che utilizzano mag­ giori quantità di energia sono i paesi più ricchi, ossia con maggior produzione industriale; tutte le statistiche interna­ zionali confermano ovviamente questa tendenza. Ma tra la prima e la terza variabile si può riscontrare un rapporto dif­ ferente. Nell’economia americana, dal 1929 al 1972 l’anda­ mento temporale del consumo energetico pro capite è salito appena da 5,1 a 8,1 tep (tonnellate equivalenti di petrolio: 1 tep — IO7 Kcal), cioè del 60 %, mentre il prodotto indi­ viduale di beni e servizi è aumentato in termini reali del 160%. Tra il 1929 e il 1960 il consumo individuale salì ap­ pena da 5,1 a 6 tep all’anno a testa, mentre il corrispondente prodotto saliva da 2110 a 3850 dollari USA 1972. Si assiste pertanto a una formidabile crescita del prodotto in corrispon-

(4) A. Lovins, Soft Energy Paths: Towards a Durable Peace, ed. Ballinger, Cambridge (Mass.), 1977; la cit. nel testo, da A. Lovins, Un’al­ ternativa energetica per gli USA, in Sapere, 1977, fase. 6, pagg. 5-21.

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denza ad una modesta crescita del fabbisogno di energia, con un coefficiente di elasticità dello 0,22% in termini percen­ tuali rispetto all’unità di aumento dell’energia primaria. Dopo il 1960 e fino al 1972 il coefficiente di elasticità salì invece a 0,84. Mario Silvestri, riportando queste cifre (l.c.), com­ menta: «Ciò fu dovuto in parte a molte cause note: ad esempio il limite del rendimento delle centrali termoelettri­ che, pari a circa il 40%; l’aumento continuo del peso delle automobili e della potenza dei motori su di esse installati, che ne inasprivano la domanda di energia, pur in presenza di un parco automobilistico (5) in via di saturazione, la dif­ fusione (e l’uso sovente scriteriato) degli impianti di condi­ zionamento. Ma al di sotto delle ragioni e delle argomenta­ zioni tecniche, vi è una causa di fondo... Forse essa va ricer­ cata in un prezzo eccessivamente basso dell’energia prima­ ria rispetto ad altri beni, prezzo che in regime di mercato libero, cioè in assenza di controlli, divieto e razionamento, ha incoraggiato determinate scelte tecniche e sociali». In­ fatti, il peso della voce « energia primaria », nel bilancio globale americano, era sceso di continuo: misurata in mone­ ta da 138 a 125 dollari USA 1972 pro capite e sul prodotto individuale la sua percentuale passava dal 3,6 al 2,3 per cento.

Ma per quanto riguarda le conseguenze della crisi ener­ getica sopravvenuta sul piano sociale, la ripartizione del co­ sto energetico risulta differenziata in maniera inversamente proporzionale alla capacità di reddito. Come è stato osser­ vato: « it is self evident that higher energy prices are harder on those who have less money. But there is much that is not so obvious about the impact of energy prices increases on

(5) Sui problemi connessi alla diffusione dell’automobile negli USA, si richiama alla magistrale analisi di W. W. Rostow, in The Stages oj Economie Growth, 2nd ed., Cambridge U.P., 1974, pag. 166 e ss.

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different socioeconomic layers » (6). Le famiglie a reddito bas­ so fanno uso infatti proporzionalmente in quantità minore di energia rispetto alle famiglie ad alto reddito; ma in para­ gone a queste ultime, cresce la percentuale del reddito spesa per i consumi di energia (uso di luce elettrica e di corrente industriale, di gasolio per riscaldamento e di benzina per l’automobile, ecc.). Da queste considerazioni deriva la necessità di verificare lo spostamento di rapporto fra l’una e l’altra variabile delle tre indicate, e il riconoscimento del consumo energetico come di una variabile indipendente rispetto alle altre due. 5. Il problema del risparmio energetico. Il problema del risparmio energetico può essere posto in uno o l’altro dei due momenti, che costituiscono il ciclo produzione-consumo delle risorse energetiche. Si può rispar­ miare sull’accrescimento dei costi di produzione (che richie­ dono ingenti investimenti iniziali) consentendo in tal modo l’aumento dei costi di consumo, data la necessità di contin­ gentare le risorse stesse disponibili: per esempio, rinunciando alla creazione di nuovi impianti di produzione idroelettrica e termonucleare, si dovrà aumentare il prezzo del gasolio, dell’energia elettrica e del carbone. Ovvero si può operare il risparmio contenendo il consumo energetico con provvedi­ menti restrittivi: per esempio, stabilendo limiti di velocità alle macchine, riduzione dell’impiego di energia (con ridu­ zione dei turni di lavoro negli uffici, ecc.), divieti di impianti ad aria condizionata, ecc. Il problema del risparmio energe(6) Energy Policy in the United States: Social and Behavioral Dimen­ sions, ed. By S. Warkow, ediz. Praeger, New York, 1978, e ivi prec. il saggio di D. E. Morrison, Equity Impacts of Some Major Energy Al­ ternatives.

ZIO

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tico è dunque quello di una regolamentazione tecnica ed eco­ nomica delle fonti ovvero dell’uso delle risorse energetiche, e rappresenta comunque una forma di controllo frenante ap­ plicato all’accrescimento della produzione e del consumo, che costituiscono il ciclo vitale di sviluppo di una società indu­ striale avanzata. Esso è dunque, in ogni caso, un fattore di alterazione del processo economico, che richiede alternativamente sempre maggiore produzione per corrispondere alla richiesta sempre maggiore di consumo, e viceversa, poiché la realizzazione di nuovi impianti richiede a sua volta un as­ sorbimento rapido del prodotto eccedente ai fini dell’am­ mortizzamento di capitale e potenziamento continuo degli impiati per ovviare alla obsolescenza. L’equilibrio che risulta dall’equazione fra risorse e im­ piego dell’energia è infatti sempre improntato ad un dinami­ smo avanzato, giacché ogni tendenza stabilizzante o addirit­ tura recessiva comporterebbe fatalmente una « implosione » dell’attività economica nel suo sviluppo, con effetti catastro­ fici connessi o conseguenti alla stagnazione produttiva. Si consideri il fatto — non ancora sottoposto ad analisi esau­ riente — che la crisi energetica ha oggi una serie di conse­ guenze indirette anche sulla produzione agricola e di conse­ guenze indirette sulla diffusione commerciale dei prodotti agricoli (trasporti). Infatti, con la meccanizzazione dell’agri­ coltura il costo energetico è entrato a far parte integrale del costo di produzione agricola, potendosi calcolare una sua incidenza variabile dal 10% al 20% per i cibi confezionati e surgelati, per i quali è richiesto un notevole consumo di energia. Non è pertanto realistico congetturare una «rivin­ cita ecologica » nelle attuali condizioni di mercato e con le attuali esigenze dei consumatori. Pertanto, si può affermare che ogni iniziativa di conteni­ mento a risparmio che venga applicata sull’uno o sull’altro

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versante della curva produzione-consumo, genera un effet­ to relativo sul versante opposto in senso socio-economico. Il contenimento della produzione si ripercuote sulla variabile del reddito (quota della spesa destinata all’energia), il conte­ nimento del consumo sulla variabile del prodotto (per la di­ minuita capacità di impulso produttivo dovuto alla restri­ zione di energia). Il ricorso al risparmio sembra ovviamente offrire la possibilità di fronteggiare nell’immediato la crisi energetica, ma esso rinvia e non risolve il problema dell’im­ piego delle risorse; il risparmio energetico può essere adope­ rato a fini tattici, di temporeggiamento e di nuova allocazione delle risorse, ma esso è destinato a essere superato dall’incalzare reciproco dei due momenti del ciclo energetico.

Alla rarefazione delle risorse si possono opporre in defini­ tiva solo due rimedi. Uno è quello di assumersi la responsabi­ lità di scelte di fondo che consentono di fronteggiare con i mezzi adeguati l’inevitabile diminuzione di certe risorse e la loro sostituzione: tale è il caso della programmazione nu­ cleare. L’altro è quello della creazione di risorse alternative alle « tecnologie pesanti » con le « tecnologie leggere », ba­ sate sulla disseminazione e particolarizzazione delle risorse stesse secondo un principio di adattamento ambientale: co­ me la diffusione di piccole centrali generatrici di energia elet­ trica con l’impiego di forze naturali (o « sviluppo dualisti­ co »)(7). Le revisioni del gruppo Waes (Workshop on alternative strategies), che si spingono ai traguardi degli anni 1985 e 2000, sono giustamente fondati sull’ipotesi interpretativa degli stages of growth di W.W. Rostow, e presentano degli scenari partifi) La formula è di G. B. Zorzoli, Proposte per il futuro. Scelte ener­ getiche e nuovo modello di sviluppo, ed. Feltrinelli, Milano, 1976.

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colarizzati largamente accettabili cui si fa rinvio (8). Va co­ munque ribadito che l’equazione produzione-consumo ener­ getica va sempre riconosciuta nel suo carattere globale di ci­ clicità in continua conversione ed accrescimento, per il quale va fissata, in termini di prevedibilità, sempre una soglia ulte­ riore di espansione a spirale irregolare. La modellistica pro­ posta costituisce pertanto uno schema interpretativo, la cui va­ lidità è soggetta al duplice condizionamento del processo economico e dell’intervento politico.

6. La politica energetica per il Mezzogiorno. Il problema dell’adeguamento delle risorse energetiche alla domanda sempre crescente di fabbisogno, della migliore utilizzazione degli impianti e delle reti di distribuzione, della ripartizione del costo sociale in rapporto ai profitti in­ dividuali, sono i problemi fondamentali di ogni politica ener­ getica programmata con chiarezza e perseguita con serietà. Nel nostro Paese è però necessario prendere in considera­ zione anche un quarto problema che non ha lo stesso rilievo in altri paesi di civiltà industriale omogenea e diffusa: si tratta del problema connesso alla struttura dualistica della economia italiana, al divario fra Nord e Sud.

Alcune cifre indicative possono fornire, con nuda elo­ quenza, i termini reali della distorsione provocata, anche nel settore dei consumi energetici, del salto di livello fra la con(8) U. Colombo, R. Galli, O. Bernardini, W. Mebane, Previsioni sui consumi di energia, in È possibile in Italia una politica dell’energia?, a cura di E. Gerelli e L. Bernardi, ed. F. Angeli, Milano, 1977, pagg. 126-149 (con tabelle statistiche di previsione). (A pag. 133, il nome di Rostow è citato erroneamente con l’iniziale E. per confusione con Eugen Rostow, noto pubblicista).

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dizione di vita nel settentrione e quella nel meridione. Nel giro di tre anni, dal 1975 al 1977, l’energia elettrica consu­ mata per usi industriali nell’area continentale meridionale è scesa dal 10,92 per cento al 9,36%. Si tratta di un sintomo di atrofizzazione delle forze produttive, che aggrava le dif­ ficoltà generali di sviluppo economico. La flessione dei con­ sumi denuncia infatti una situazione di debolezza e di crisi delle piccole e medie imprese alle quali è affidata l’attività produttiva del Sud. Eppure, che il fattore energetico, in par­ ticolare quello elettrico, debba essere considerato come il fat­ tore trainante per l’economia meridionale era stato già av­ vertito da F.S. Nitti fin dal 1903, nel suo saggio su Napoli e la questione meridionale, in cui egli arrivò ad invocare «la appropriazione collettiva di ingenti forze idrauliche da de­ stinare alla produzione d’energia elettrica da vendere a prez­ zo di costo... Per la trasformazione di Napoli la più grande causa di rinnovazione sarà nella produzione di forza motrice a buon mercato » (9). Si osservi inoltre, che l’impiego dell’energia elettrica a fini termici (e cioè diversi da quelli di illuminazione) incide in maniera assai diversa nei consumi domestici del Nord e del Sud. Un utente di Milano consuma ben 1000 Kwh annui in meno che un utente di Napoli, perché nell’area milanese solo il 23,6% degli scaldabagni sono elettrici (gli altri es­ sendo alimentati a gas metano) contro il 72% di quelli nel­ l’area napoletana. Dunque, la contrazione dei consumi di energia a corrente industriale non trova il corrispettivo nella espansione del ricorso ad una fonte alternativa di energia nei

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(9) Il brano è riportato nel voi. Il Sud nella storia d’Italia, antologia della questione meridionale a cura di R. Villari, ediz. Laterza, Bari, 1961, pag. 338.

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consumi privati. Solo il 2%, una cifra irrisoria, del consumo di metano per usi civili è quello destinato al Mezzogiorno. Nel 1976 esso fu pari a 211 milioni di metri cubi: vale a dire, ad appena un settimo di quello che si calcola sia il puro spreco di metano, (per un miliardo e mezzo di metri cubi nel 1976) a causa del rendimento dimezzato del bruciamento di metano nelle centrali termoelettriche. Eppure, tocca al Mezzogiorno pagare il sovrapprezzo sul metano: nel settore del gas, infatti, a causa dell’aumento delle tariffe praticato dalla Snam alle aziende distributrici gli utenti del Mezzogiorno vengono penalizzati con diffe­ renze tariffarie che servono a compensare la differenza fra i costi di distribuzione e quelli di importazione. Perciò la me­ tanizzazione del Mezzogiorno, e cioè l’impiego di una risorsa energetica alternativa al petrolio e alla corrente elettrica ma a costo minore, deve essere considerato un punto program­ matico di primaria importanza per la politica energetica. Si ricordi, che per il 1982 è previsto l’arrivo del metano alge­ rino, e per quella data dovrebbero essere già approntati gli impianti per una rete distributiva di metanodotti per usi in­ dustriali ma anche per uso artigianale e domestico, di cui il Sud agricolo ha enorme bisogno. Vi è poi il problema della localizzazione degli impianti termonucleari nel meridione. Il programma energetico na­ zionale, approvato dal CIPE in data 23 dicembre 1977, pre­ vede infatti, nel quadro del piano operativo poliennale affi­ dato all’ENEL, che il Ministro dell’industria provveda a sot­ toporre con urgenza le proposte di nuovi siti per l’ubicazione delle centrali nucleari, «ponendo particolare attenzione alle esigenze di insediamento di impianti di produzione di ener­ gia elettrica nel Mezzogiorno, ove il deficit di potenza è particolarmente elevato ».

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Nel suo documento sui problemi e la politica dell’ener­ gia (10), votato il 25 ottobre 1976, la federazione CGIL-CISLUIL aveva già chiesto che la localizzazione delle regioni meri­ dionali avvenisse nel quadro di un programma di sviluppo del territorio, in cui la centrale verrebbe situata, « per evitare problemi di disoccupazione conseguenti alla rottura dei pree­ sistenti equilibri socio-economici » ; esigenza giusta, ma ti­ more infondato col riferimento alla trasformazione in sen­ so industriale. In particolare, nello stesso documento venne infatti avanzata la proposta delle organizzazioni sindacali della Campania di localizzare nella regione una centrale nu­ cleare Candu, condizionata alla richiesta di localizzare nella stessa regione l’impianto per la produzione di acqua pesante. Ogni nuova produzione crea infatti un processo indotto di iniziative connesse o derivate e provoca una spinta all’ac­ crescimento dei consumi. Ciò che importa sottolineare, tuttavia, è che un pro­ gramma di politica nazionale energetica non potrà avere effi­ cace realizzazione finché mancherà l’impulso direttivo e la opera di coordinamento, che sono necessari ad ogni impresa, e che soltanto la creazione di un apposito Ministero della Energia potrà assicurare.

(10) Il documento è riprodotto nel volume di vari AA., Energia e modello di sviluppo, Editrice Sindacale Italiana, Roma, 1978.

NOTA BIBLIOGRAFICA

21. V. Prosimi

Parte prima: Studi sul neostrutturalismo giuridico.

1. - Teoria dell’ordinamento giuridico. Riproduce la voce Ordinamento giuridico, pubblicata nella Enciclopedia del diritto, vol. XXX, Giuffrè, Mi­ lano, 1980, pagg. 639-654; parzialmente anticipata in Ordine e disordine nel diritto, Guida, Napoli, 1979. 2. - Neostrutturalismo e dialettica funzionale nel diritto. Riproduce l’ar­ ticolo pubblicato in «Sociologia del diritto», A. VII, 1980, pagg. 11-23.

3. - L’equità nella teoria generale del diritto. Riproduce la relazione tenuta al convegno del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale a Lecce il 9 novembre 1973; pubblicata negli Atti, L’Equità, Giuffrè, Milano, 1975, pagg. 3-16 e nella « Rivista trimestrale di diritto e procedura civile », 1974, pagg. 1-18. Trad, spagnola in « Juris », XXIII, 1976 (Rosario, Argentina). 4. - Il diritto di grazia fra la regola e l’eccezione. Riproduce la con­ ferenza tenuta il 5 maggio 1975 nella Biblioteca Filosofica di Torino e ri­ petuta il 5 giugno 1975 nell’università J. W. Goethe di Frankfurt am Main. Pubblicata con lo stesso titolo nei Quaderni della Biblioteca Filoso­ fica, Ediz. di Filosofia, Torino, 1975; trad, tedesca di C. Giovila Cerni, nel voi. a cura di I. Taramelo e H. Schreiner, Strùkturierungen und Entscheidungen in Rechtsden^en, Springer Verlag, Wien, 1978, pagg. 23-30. 5. - Il diritto di famiglia nella teoria generale del diritto. Riproduce la relazione tenuta al seminario interdisciplinare sul diritto di famiglia, organizzato dalla Facoltà di giurisprudenza dell’università di Padova, il 17 marzo 1977; ripetuta nella università statale di Tokio e in quella di Hi­ roshima nel maggio 1978. Pubblicata ne « Il Foro Italiano », vol. C, fase. 4, 1977, V, pagg. 84-49; trad, inglese in « Jaipur Law Journal », 1978; trad, giapponese a cura di Hajime Yoshino negli « Annali della Facoltà di giu­ risprudenza dell’università imperiale di Tokio », 1978. 6. - L’impresa nel nuovo diritto del lavoro. Riproduce l’articolo pub­ blicato sul « Massimario di Giurisprudenza del lavoro », XLVili, 1975, n. 3-4, pagg. 498-500. 7. Il diritto interno dei sindacati. Riproduce la Introduzione al vo­ lume Il diritto dei sindacati (Raccolta degli statuti), Quaderni di studi e legislazione della Camera dei Deputati, n. 25, Roma, 1979, pagg. 7-28.

8. - Documentazione e ricerca nel diritto. Traduzione italiana della re­ lazione presentata al X congresso internazionale di diritto comparato (Bu­

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nota bibliografica

dapest, 1978), pubblicata nel volume degli Atti, Rapports nationaux italiens, Giuffrè, Milano, 1978, pagg. 767-777; trad. ital. pubblicata nei Qua­ derni dell’istituto di studi sulla ricerca e documentazione scientifica del C.N.R., 1978, n. 4-5, pagg. 59-68.

Parte seconda: Studi sulla società tecnologica. 1. - La società tecnologica e i diritti di libertà. Questo saggio rielabora i temi trattati nei seminari tenuti allo Europàisches Forum di Alpbach (Austria) nell’agosto 1980 e allTnternational Executive Centre della SperryUnivac a Saint-Paul-de-Vence (Francia) nel settembre 1980. 2. - Giustizia e informatica. Riproduce la relazione tenuta alla «Gior­ nata informatica giuridica » dell’istituto per la documentazione giuridica del C.N.R. a Firenze il 3 dicembre 1976; pubblicata su « Informatica e diritto », A. III, 1977, pagg. 1-8. 3. - Problemi giuridici dello sviluppo dell’informatica. Riproduce la relazione tenuta al convegno su « Nuove strutture e strategie informative » sotto gli auspici dell’O.C.S.E. e del C.N.R. il 9 maggio 1979 a Roma; pubblicata in « Informatica e documentazione », A. 6, n. 2-3, 1979, pagg. 82-93. Trad, inglese nel volume New Strategies for Business Informa­ tion, OCDE, Paris, 1980. 4. - Il giurista nella società industriale. Riproduce la relazione tenuta al convegno su questo tema presso la Libera Università di Studi Sociali di Roma il 28 ottobre 1979; pubblicata col titolo L’aspetto tecnologico del lavoro del giurista nella recente esperienza, nella « Rivista di diritto ci­ vile », A. XXVI, 1980, n. 1, pagg. 37-42. 5. - Informatica e diritto: le banche dei dati. Riproduce la relazione tenuta al XXVII Convegno Internazionale delle Comunicazioni a Genova il 10 ottobre 1979; pubblicata negli Atti del convegno, Genova, 1979, pagg. 287-294.

6. - Il diritto alla riservatezza nella società tecnologica. Riproduce la voce Privatezza, controllo elettronico, banche dei dati, pubblicata nel­ l’annuario della EST-Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, 1974, Mondadori, Milano, pagg. 396-414; parzialmente ristampato in L’elabora­ zione elettronica. Principi del calcolo automatico, The Open University, Mondadori, Milano, 1979, pagg. 160-163. 7. - Aspetti socio-economici della politica energetica per il Mezzogiorno. Riproduce l'articolo pubblicato in « Nord e Sud », XXVI, n. 6, 1979, pagg. 237-249.

INDICI

INDICE DEGLI AUTORI

Accornero, A.: 165n. Adorno, Th.: 115, 116n. Agosti, A.: 147n. Agro, A. S. : 155n. Alberoni, F.: 56, 166n. Alcako, F. : 37n. Allorio, G.: 39n. Altan, H.: 56n., lOOn. Amari, E.: 189. Andreasi, A.: 147n. Angeletti, 12n. Arangio-Ruiz, G. : 19n. Aristotele: 77, 88, 90, 110. Arnheim, R. : 13n., 33n., 55. Astaldi, M. L.: 174n. Barassi, E.: 98n. Barrerà, A.: 155n. Barcellona, 37n. Barile, G.: 79. Barile, P.: 71. Barone, F.: 198n., 218n. Bassani, M.: 159n. Bellinzier, M. T. : 214n. Bentivoglio, L. M. : 24n. Bergamaschi, A.: 251n. Bernardi, L.: 312n. Bernardini, O.: 312n. Bertalanffy van, L.: 24. Bessone, M.: 131n. Binder, J.: 156n. Biorci, G.: VII. Biscaretti di Ruffìa, P. : 32n., 162n. Bobbio, N.: 23n., 39n., 41n., 49, 50, 51, 58, 59, 62, 63n, 200. Bonazzi, E.: 251n.

Borruso, R.: 218n. Bovetti Pichetto, M. T.: 157n. Branca, G.: 131n., 155n. Brancati, V.: 283. Brandeis, L.: 234, 276. Brandon, S. G. F.: 103, 104n. Bravo, G. M.: 147n. Brunetti, G.: 26. Busi, A.: 55n. Butta, G.: 137n.

Caizzone, G.: 250n. Calamandrei, P.: 73, 74, 85, 143n., 151n. Calasso, F. : 69. Galvani, F.: 200n. Cammarata, A. E.: 74, 75. Campagna, L.: 127, 128n. Cantoni, R. : 15n., 17n. Capograssi, G.: 125, 126n., 162, 163n., 278. Cappelli, R.: 13n., 55n. Cardia, C.: 123n. Cardona, G. R.: 60n. Caridi, G.: 252n. Carnap, R.: 59. Carnelutti, F.: 26n., 74, 80, 96, 97, 122, 178, 182. Carraro, F.: 116n. Cassese, S.: 7n., 159n., 162n., 171n. Cassirer, E.: 60. Castignone, S. : 40n. Castronovo, V.: 147n. Catalano, P. : 158n. Catania, A.: 18n. Cattaneo, M. A.: 18n., 29n., 149n.

324

INDICE DEGLI AUTORI

Cavalli, L. : 152n. Cerni, C. G. : 319. Cesar ini Sforza, W.: 37, 120n., là, 162n. Chiarelli, G.: 12n. Cian, G.: 116. Ciarlo, P.: 152n. Cicerone: 84. Cicli, A.: 115, 117, 118, 119, 120, 121. Colombo, A.: 20n. Colombo, U. : 312n. Comanducci, P. : 22n., 58n. Compagni, D. : 5. Consorelli, O. : 84. Conforti, L. : 50n. Consolo, G.: 37n. Constant, B.: 35, 110, 11 In., 208. Conte, A. G. : 26n., 59n. Cooper, D. : 130n. Cordie, C. : 6n. Corsale, M.: 82n., 182n. Cotta, S.: VII, 199, 2O4n., 232n. Costantini Maggiori, C.: 130n. Costanza, M. : 130n. Craveri, P. : 147n. Croce, B.: 198. Curti Giardino, C. : 252n.

D’Agostino, F.: 90n. Dante: 5, 9, 54, 104. D’Antonio, M.: 159n. Defoe, D. : 280. Delitala, C.: 128n. De Los Mozos, J. L. : 73n. De Marini, C. M.: 75. De Nardis, P.: 50n. De Negri, E.: 15n., 52n., 116n., 154n. Denninger, E.: 212n., 253n. Dente, B. : 162n. De Sanctis, F. : 157n. Deutsch, K. W. : 12n., 207n. Diano, C. : 101. Di Gioia, A.: 150n., 170n.

Di Robilant, E. N.: 36n. Dreyfus, Ph.: 231, 262. Durante, F.: 35n., 252n.

Eckermann, J. P.: 116n. EooAN, F. : 50n. Einaudi, L.: 125. Eschilo: 40. Evans^Pritchard, E. E.: 50n.

Falcetti, C.: 242n. Falcone, A.: 218n. Farina, B. A.: 185n. Febbrajo, A.: 52n. Feibleman, J. K.: 13n., 53, 54n. Ferguson, A.: 156, 157n. Ferri, G. B.: 38n. Filomusi Guelfi, F.: 115. Flammia, R.: 142n. Flora, F. : 6n. Foa, V.: 147n. Foerster von, H.: 56, 99. Fois, 8.: 169n., 294n. Forbes, D. : 157n. Franchini, R.: 2O2n. Frosini, V.: 9n., 13n., 15n., 16n., 17n., 26n., 31n., 35n., 36n., 43n., 52n., 56n., 58n., 60n., 70n., 76n., 79n„ 82n., 101n., 102n., 104n., 107n„115n., 117n, 126n, 131n., 137n., 139n., 141n., 149n., 153n., 154n„ 155n., 161n., 165n., 179n., 183n., 184n., 187n„ 189n., 208n., 212n., 218n., 232n., 236n., 238n., 250n, 255n, 294n. Funaioli, G. B.: 123, 124. Galbraith, J. : 213. Galeotti, S. : 159n. Galgano, F. : 137n., 141n., 160n. Galli, R. : 312n. Galloudec Genuys, F. : 294n. Gasparini, G.: 165n. Gavazzi, G. : 39n. Gerelli, E.: 312n.

INDICE DEGLI AUTORI

Ghera, E. : 141n. Giannessi, F.: Vili. Giarini, O.: 202n. Giorgianni, M. : 129, 131n. Giugni, G.: 16n., 147n., 151n., 162n., 174. Giuliano, M.: 17n., 252n. Goethe, J. W.: 36, 60, 116n., 206n. Goretti, C.: 74. Gorla, G. : 182n. Gramsci, A.: 72. Green, Th. H. : 137. Grisostomi-Marini, G.: 123n. Grosso, G. : VII. Guastini, R. : lln. Gueli, V.: 45n. Guild Nichols, K.: 209n. Guzzo, A.: 97. Hart, H. L. A.: 23, 28n., 29n., 82, 149n. Hartmann, N.: 15n., 17n. Hauriou, M. : 120. Hegel, G. W. F.: 15, 37, 52, 80, 115, 116, 122, 154, 157. Hetman, F.: 197n. Howard, M. : 200n.

Ippolito, F.: 299n. Italia, V. : 159n. Irti, N.: 130. Kalinowski, G.: 82. Kahn-Freund, O.: 135n., 153n. Kelsen, H.: 9n„ 22, 29, 30, 31, 34, 40, 42, 58, 60, 63, 75, 162, 221. Kiesewbtter H. : 116n. Knapp, V.: 262. Kuntz, P. G. : 13n., 53, 54n.

Lachmayer, F.: 251. Lama, L. : 167n. La Pergola, A.: 91 n. Laporta, E.: 218n. Latini, B.: 5.

325

Le Chapelier, I. R. G.: 156. Lenk, K.: 63, 80n. Lepschy, G. C.: 60n. Levi-Montalcini, R.: 12n. Lindon, R.: 110. Lindsay of Birker, A. D.: 29. Lipari, N.: 219n. Lizzardi, O. : 153n. Loevinger, L.: 184, 261, 262. Loiodice, A.: 236n. Lombardo, A.: 161n. Lombardo Radice, G.: 116n. Lombardi Vallauri, L. : 40n. Longhi, G.: 202n. Lopez De Onate, F. : 182n. Losano, M. G.: 17n., 22n., 30n., 205n., 220, 221n., 251n., 252, 253n., 262. Loubergé, H: 202n. Lovins, A.: 306, 307n. Lucchini, P. L.: 35n. Luhmann, N. : 51, 52n. Lundstedt, V.: 40n.

Machiavelli, N.: 5, 6n. Magistretti, S. : 56n., 99n. Magrini, S.: 164n. Maisl, H.: 294n. Manselli, R.: 205n. Mancini, G. F.: 141n., 148n., 155n. Maranini, G. : 156n. Marchello, G.: 38n. MARcic, R.: 73n. Marcuse, H. : 201. Marini, G. : 35n. Marucco, D. : 147n. Marx, K.: 157. Matteucci, N. : 162n, Mayer, M.: 98n. Mazzacane, A.: 35n. Mazzacuva, N.: 245n. Mebane, W. : 312n. Mengoni, L.: 141 n. Merkel, A.: 115. Messineo, F.: 80n., 118, 157n.

326

INDICE DEGLI AUTORI

Meyn.aud, J.: 214». Michels, R. : 165n. Mignonb, A. : 152». Minc, A.: 205», 253, 269, 270n. Minoli, G.: 128». Modugno, F. : 131, 165». Monaco, R.: 252». Mono», J.: 54, 55. Montanari, B.: 37». Monti-Bragadin, S.: 152». Morchio, R.: 45»., 57». Morin, E.: 13»., 56, 99. Morrison, D. E.: 309». Mortati, C.: 155». Moruzzi, G.: 12». Mosca, G.: 161. Mura, A.: 37».

Negri, A.: 151». Negri, G.: 159»., 160». Negro, P.: 98». Nejrotti, M.: 147». Newman, R. A.: 70». Nitti, F. S.: 313. Nora, S.: 205, 253, 269, 270». Novelli, V.: 218».

Occhetto, F.: 12n., 207». Olbrechts-Tyteca, L. : 98». Olivecrona, K.: 41»., 45». Oppo, G.: 116». Orecchia, R.: Ilo., 117»., 141». Ortolani, M.: 161». Panuccio, V. : 136». Paresce, E.: 27. Parsons, T.: 50. Pattaro, E.: 45». Pedio, R.: 13»., 55». Pennacchini, E.: 214». Pera, G.: 142». Perelman, C.: 98. Perna, C.: 147». Perslani, D.: 206».

Peschiera, F. : 147». Petrillo, R.: 270». Pigliaru, A.: 20». Piovani, P.: 101n., 126». Pirzio Ammassari, G.: 147». Pizzorno, A.: 142»., 147». Pocar, V.: 65». Podgòrecki, A.: 21». PREDIREI, A.: 294».

Prefetti, F.: 161». Prigogine, I.: 45»., 56, 57, 61. Prosperetti, U. : 142»., 164». Pugliatti, S.: 32»., 97, 131». Pugliese, G. : 32». Radbruch, G: 103, 104, 105. Radcliffe Brown, A. R. : 50, 65». Rapelli, G.: 205»., 253». Rawls, J.: 102. Raz, J.: 22, 58». Renda, F.: 166». Rescigno, P.: 141»., 160». Resta, E.: 124». Riccobono, F.: Vili, 9». Ricossa, 8.: 198». Rigutini, G.: 6». Riva, M.: 138»., 167». Riva Sanseverino, L.: 163». Rodano, F. : 166». Rodotà, S.: 128, 294». Romagnoli, U.: 138»., 141»., 147»., 148», 155», 159», 163». Romano, Salv. : 160». Romano, S.: 7, 18, 21, 26, 30, 31, 32, 33, 34», 119, 120, 121, 139», 162. Romano S. F.: 166». Ronfani, P.: 65». Ross, A.: 34, 39», 82, 83, 98. Rossi, E.: 125». Rostow, E.: 312». Rostow, W. W.: 308», 311, 312». Rousseau, J. J.: 156. Rule, J. B.: 294». Rììmelin, M.: 75. Russo, E.: 128».

INDICE DEGLI AUTORI

Saglimbeni, G.: 130n. Saint Simon, C. H.: 156, 157n. Sandulli, A. M.: VII. Sangiorgi, W.: 9iì. Santomassimo, G.: 159n. Santoro Passarelli, F. : 130n., 131n., 160n. Sartori, G.: 153n. Sarzana, C. : 269n. Savigny von, C.: 35. Scalia, V.: 153n. Schannon, C. F.: 13n., 55. Schick, C. : 98n. Schreiner, H.: 13n., 251n., 319. Schwarzenberg, C.: 125n. Segre, B.: 104n. Segre, M.: 104n. Serra, F.: 116n. Serrai, A.: 179n. Servan-Screiber, J. J. : 200. Sesta, M.: 118. Silvestri, M.: VII, 298, 308. Simitis, S.: 183, 225, 250, 265. Sofocle: 116n., 129. Solzenitsin, A.: 273. Spadolini, G.: 147n., 161n. Spalla, F.: 52n. Spinoza, B.: 29. Stein von, L. : 157n. Sylos Labini, P.: 171n.

Tamburrino, G. : 169n. Fammelo, I.: n., 13n., 251n. Tarantino, A.: 3In., 120, 165n. Tarello, G.: Un., 39n., 151n., 170n., 205n. Tatarkievicz, W. : 60n.

327

Tommaseo, N. : 6. Tommaso (san): 9. Toraldo di Francia, G.: 57n. Trabucchi, A.: 116n., 130. Traverso, C. E.: 159n. Treille, M.: 294n. Treu, T.: 147n., 165n., 170n. Treves, R.: 49n., 50n., 149n. Turone, S.: 147n. Ungari, P.: 118, 159n. Unger, W.: 185 n. Urbani, G.: 152n.

Vassalli, G. : 108. Veblen, Th.: 276. Veca, S.: 60n. Ventura, L.: 42n. Viana, M. : 163n. Villani, G.: 5. Villari, R.: 313n.

Warkow, S.: 309n. Warren, S.: 234, 235, 276. Weaver, W.: 13n., 55n. Westin, A. F. : 279. Wiener, N.: 206. Wilhelm, W.: 35n. Williams, M. J.: 203n. Winkler, G.: 251n. Zagrebelsky, G.: 107, 109. Zangari, G.: 135n., 152n., 153n. Zannoni, P.: 152n. Zappulli, C.: 299n. Zorzoli, G. B. : 31 In.

INDICE-SOMMARIO

Prefazione....................................................................................................

fag. v

I - STUDI SUL NEOSTRUTTURALISMO GIURIDICO

1. Teoria 1.

dell’ordinamento giuridico...............................................

3

Il morfema linguistico e la sua ambiguità..........................

5

2. L’ordinamento e il disordine giuridico.................................

9

3. L’ordinamento e il diritto negativo................................................ 14

4.

L’ordinamento e il sistema normativo................................................ 22

5.

La falsa coscienza dell’ordinamento................................................27

6.

L’ordinamento come processo epimorfico......................................... 32

7.

Ordinamento, organizzazione e avvaloramento

....

35

8. Critica dell’ordinamento giuridico come apparato sanzionatorio..................................................................................................... 39

9.

Dalla forma chiusa alla struttura aperta......................................... 43

2. Neostrutturalismo e dialettica funzionale nel diritto

.

.

1. Sui rapporti fra struttura e funzione .......

47 49

2.

Dall’ordine al disordine..............................................

3.

Vecchio e nuovo strutturalismo...................................................... 58

53

4. La dialettica funzionale................................................................... 62 5. 3.

Teoria e sociologia del diritto...................................................... 64

L’equità

nella teoria generale del diritto......................................... 67

1.

Lo scandalo dell’equità................................................................... 69

2.

La dialettica dell’equità....................................................................73

3. Il giudizio entimematico di equità

.

76

4.

L’equità fra regola ed eccezione...................................................... 80

5.

L’equità, l’etica e la politica

.........

83

6. Teoria e prassi dell’equità....................................................................87

330

INDICE-SOMMARIO

4. Il

diritto di grazia fra la regola e l’eccezione

Pag. 93

....

1. La regola, l’eccezione e la conferma................................................95 2. Il diritto come insieme di regole e di eccezioni .... 96 3. Struttura ed evento nella filosofia d’oggi......................................... 99 4. Grazia e giustizia nella filosofia del diritto................................. 102 5. Il potere di grazia nel sistema costituzionale italiano .

.

.

106

di famiglia nella teoria generale del diritto

.

.

113

1. L’eredità teorica di Hegel e il pensiero di A. Cicu .

.

.

115

5. Il diritto

2. La famiglia come istituzione nella dottrina di S.Romano

.

119

3. La famiglia, lo Stato e l’ideale autoritario........................122

4. Nuove prospettive del diritto di famiglia.............................. 126 5. La politica della famiglia nel regime democratico 6. L’impresa nel nuovo

.

.

.

129

diritto del lavoro.............................................. 133

1. La nuova figura dell’impresa.................................................. 135

2. Potere dell’imprenditore e potere sindacale....................... 137 3. Impresa e potere sociale.........................................................140 4. Osservazioni conclusive.........................................................143

7. Il

diritto interno dei sindacati........................................................... 145

1. Motivi della scarsa attenzione dedicata sinora agli statuti nel­

l’analisi dell’esperienza sindacale............................................... 147 2. La scissione fra Stato e società civile come matrice storica del movimento sindacale............................................................................... 154 3. I sindacati come istituzioni giuridiche autonome della società civile e il significato degli statuti..................................................... 161 4. Rilevanza degli statuti sindacali nella giurisprudenza ordinaria e costituzionale e rassegna degli statuti inclusi nella raccolta .

8. Documentazione

168

e ricerca nel diritto.............................................. 175

1. Ieri e oggi.............................................................................................177 2. Le tre dimensioni della ricerca documentaria .... 179

3. Rapporto fra ricerca e documenazione....................................... 181

4. La crisi della documentazione e la ricerca informatica in Italia

183

5. Ricerca documentaria e diritto comparato........................................186

INDICE-SOMMARIO

ZZI

II.-STUDI SULLA SOCIETÀ TECNOLOGICA Pag.

1. La

SOCIETÀ TECNOLOGICA E I DIRITTI DI LIBERTÀ

.

193

1.

Progresso tecnologico e società

195

2.

La valutazione tecnologica

197

3. Il processo alla tecnologia 4. Conseguenze sociali del progresso tecnologico

199 .

202

5. La rivoluzione informatica

2.

205

6.

Nuove forme di partecipazione nella società tecnologica .

208

7.

La tutela della libertà

211

Giustizia

215

e informatica

1. Lo stato della giustizia in Italia e l’avvento dell’informatica . 2. L’informatica nell’amministrazione giudiziaria: metodi e stru­ menti 3. 3.

I problemi della giustizia nel settore dell’informatica

Problemi giuridici dello sviluppo dell’informatica

.

3. Una nuova forma di produzione 4.

.

225

.

.

229 231 232

233

.

Il diritto all’informazione

234

5. La tutela della riservatezza

235

6. L’esperienza legislativa tedesca

237

7. Notizie dall’America

238

8. Controllo giuridico degli elaboratori e dei programmi

.

240

9. Problematica giuridica dell’informatica. Premessa ....

241

.

10. a) la brevettabilità del software

11.

b) la protezione del diritto di autore o copyright ....

12. c) il software come segreto industriale?

4.

221

.

.

1. Una nuova forma di energia 2. Una nuova forma di potere

217

Ilgiurista

242

244 245

nella società industriale..................................... 247

1. L’aspetto tecnologico del lavoro del giurista 2. Nelcampo legislativo

249 249

3. Nelcampo amministrativo

253

4. Nelcampo giudiziario

255

332

INDICE-SOMMARIO

pag.

5.

Informatica

e diritto: le banche dei dati....................................... 259

1. I termini « informatica » e « diritto »......................................... 261 2. I limiti dell’informatica giuridica............................................... 263 Z. Diffusione della informatica giuridica.............................................. 265

4. Nuovi problemi legali........................................................... 5. Informatica e società

6. Il

.

267

..................................................... 269

diritto alla riservatezza nella società tecnologica

.

.

271

1. Introduzione..................................................................................... 273

2. La vita privata nell’etàtecnologica................................................ 274 3. Il diritto alla riservatezza: originee significato

276

....

4. Individui e nazioni: la protezione giuridica......................... 278 5. Forme di violazione della vita privata................................ 279

6. Strumenti di controllo visivo.................................................... 281

7. Strumenti di controllo acustico e rilevatori termici

.

.

.

283

8. Metodi di controllo psicologico.....................................................285 9. Il controllo coi calcolatori elettronici.............................................. 286

10. La tutela della riservatezza come principio giuridico 11. Conclusioni

.

.

.

290

..................................................................................... 292

7. Aspetti socio-economici della politica energetica per il Mezzo­ giorno ................................................................................................... 295 1. Il programma energetico nazionale.............................................. 297

2. L’articolazione del programma.................................

300

3. Lo strumentario di interventi ............................................................303

4.

La strategia alternativa e il costo energetico................................. 306

5.

Il problema del risparmio energetico.............................................. 309

6. La politica energetica per il Mezzogiorno....................................... 312 Nota bibliografica Indice degli Autori ....

;...............................................