Gastrosofia divina. Il cibo dello spirito nell'èra tecnologica 9788885716445, 9788885716452

Mangiare, ingerire, assimilare. Nel nostro tempo leonico, si mangia anche e soprattutto con gli occhi: attraverso la cir

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Italian Pages 127 [132] Year 2018

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Table of contents :
Dell’essere del mangiare e dell’essere dell’uomo*
Non c’è niente di meglio della vista
Che cosa o chi ci invita a mangiare?
Quando Dio si dà da mangiare
Un banchetto di morte
Parola di Dio
Dalla comunione alla comunicazione
«Confidiamo in Dio», recita una banconota
Quando il cibo si può definire come un «quadro di lontananza»
Credente, debitore e soggetto
La struttura della conversione
Dovere o offendere: questo è il problema
Del malessere nell’economia europea (soprattutto nei Paesi del Sud)
Quando il vedere e l’udire passano al consumo
Il pane e la carne dell’immagine
Conclusione: l’immondizia e la carne
Indice
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Gastrosofia divina. Il cibo dello spirito nell'èra tecnologica
 9788885716445, 9788885716452

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Félix Duque Gastrosofia divina Il cibo dello Spirito nell’èra tecnologica

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G u l l i ve r

Collana diretta da: Francesco Valagussa

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Gulliver | 7

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Félix Duque Gastrosofia divina Il cibo dello Spirito nell’èra tecnologica Traduzione e cura di Lucio Sessa

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Titolo originale La comida del espíritu en la era tecnológica © 2015, Abada Editores, Madrid.

© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 7 - ottobre 2018 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716445 ISBN – E-book: 9788885716452 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Sukiyaki © taa22 – stock.adobe.com

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Parte prima Che cosa c’è da mangiare?

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1. Dell’essere del mangiare e dell’essere dell’uomo*

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«L’uomo è ciò che mangia». Questa sentenza, in originale così assonante da apparire quasi tautologica (Der Mensch ist, was er isst), fu enunciata da Ludwig Feuerbach un secolo e mezzo fa e per due volte, in contesti storici diversamente significativi. La prima volta la troviamo all’interno del saggio Die Naturwissenschaft und die Revolution (La scienza naturale e la rivoluzione), come se fosse evidente il collegamento tra scienza e politica e la relazione di tale accoppiata con l’ingestione di alimenti. (In fondo, in tutte le rivoluzioni si è sempre invocato il pane, oltre alla libertà e all’uguaglianza). Quest’opera fu pubblicata nel 1850, due anni dopo lo scoppio rivoluzionario, frustrato, del 1848. La seconda volta appare in un saggio del 1862, dal titolo Das Geheimnis des Opfers, oder der Mensch

* Questo saggio nasce a partire da una conferenza molto più breve, tenuta il 7 di giugno 2015 a Senago, all’interno della VI Edizione della Festa della Filosofia, organizzata dalla casa editrice Albo Versorio, nell’ambito della Esposizione Universale di Milano 2015. A ciò sono dovute le allusioni presenti nel testo alla suddetta Expo, il cui motto, solidale e ambizioso, era: «Nutrire il pianeta». Ringrazio gli organizzatori per avermi invitato e in tal modo fornito lo spunto per riflettere sul rapporto fra il cibo, la sua trasformazione economica e gli alimenti tecnologicamente spiritualizzati.

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ist was er isst (Il mistero del sacrificio, o l’uomo è ciò che mangia). Tale saggio venne pubblicato nel 1866, nel decimo e ultimo volume delle Opere complete1. Nei dodici anni intercorsi tra le due pubblicazioni, molte cose accaddero: ne è prova la transizione dal piano rigoroso della «scienza» e della «rivoluzione» al linguaggio quasi mistico della religione, coi suoi misteri e sacrifici. Quattro anni prima (1862) Otto von Bismarck era diventato Primo Ministro di Prussia (nove anni dopo sarà Cancelliere di Germania, a séguito della fondazione del II Reich); negli Stati Uniti è finita da un anno (1865) la guerra di secessione, e da cinque anni (1861) esiste il Regno d’Italia, sebbene incompleto. Si direbbe che quanto più terrestre stia diventando in questi anni la politica europea, tanto più si vanno spiritualizzando gli «alimenti terrestri» che, secondo Feuerbach (e su di un piano meno raffinato anche secondo Jacob Moleschott – per la cui rivista Feuerbach scrisse il saggio nel 1850 – e Ludwig Büchner) costituiscono l’essere umano. Ma perché l’apparente «riduzione» dell’essere dell’uomo a ciò che mangia dovrebbe essere un «mistero» e per giunta «sacrificale»? Dal punto di vista del materialismo (sedicente) «scientifico», si comprende che il cibo possa essere considerato il luogo della «oggettivazione» del soggetto umano, come peraltro già sapeva Ippocrate, che rovistava tra urina ed escrementi al fine di scoprire, nello squilibrio all’interno delle feci, la causa delle malattie dei pazienti. Ma per quel che conosciamo del mondo greco (e dello stesso Ippocrate, nonché del suo degno successore, seicento anni dopo: Galeno) nessuno si sarebbe azzardato a equiparare, diciamo per induzione negativa, gli escrementi di un uomo con la sua costituzione essenziale.

1. Otto Wiengand Verlag, Leipzig 1866, 1-35; cfr. anche Gesammelte Werke (ed. W. Schuffenhauer), Akademie, Berlin 1990; 11, 26-52.

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Questo si deve, com’è noto, a una lunghissima tradizione, ancora attiva, che rinvia a un ostinato dualismo, il cui modello troviamo in Descartes, con la sua netta distinzione tra l’unica e puntuale res cogitans – ma idealmente ripartita come bon sens in ciascun individuo – e l’unica e indeterminata res ­extensa, quest’ultima unica in quanto amorfa, mero blocco disponibile a essere modellato dall’anima. Questa esaltazione metafisica dell’ego cogitans cogitata («io penso pensieri») è parallela al declassamento delle cose (in apparenza plurali e variopinte) a materiale malleabile come l’argilla, la farina o il celebre morceau de cire, il pezzo di cera che per quanto sottoposto a tormento e manipolazione continuerà ad essere cera. C’è da dire che Descartes, astutamente, non indaga sul passaggio da haec cera (questa cera ben determinata quanto a figura, dimensione, misura) alla cera tout court. Noi potremmo ben condannare tale procedimento come esempio di un rozzo antropocentrismo, trionfo dell’umanismo metafisico, ancor oggi vigente, in modo più o meno pudico, sotto le mentite spoglie del cosiddetto «senso comune». Ma ciò non toglie che noi continuiamo a pensare che una cosa è chi mangia e un’altra, ben diversa, è che cosa sia ciò che si mangia (ci azzarderemmo a dire «chi» viene mangiato invece di «che cosa»?). A proposito, nessuno potrebbe negare che l’uomo, oggi come ieri, deve mangiare se vuole continuare a vivere, e anche se invertiamo la relazione, dicendo che si vive per mangiare, l’equazione vita-cibo rimane. Nulla di più banale, dunque. Tuttavia, una cosa è che il cibo sia condizione necessaria dell’esistenza umana e un’altra è che costituisca l’essenza dell’uomo (figuriamoci poi se è a ciò che viene «mangiato» che si concede implicitamente il rango di essere umano). Dunque, se ci pensiamo un attimo, dovremmo senza indugio negare qualsivoglia validità a tale equazione, in tutte le sue possibili varianti.

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1) Infatti, se in essa mettiamo l’accento sull’essere dell’uomo, si può sempre addurre che egli utilizzi a proprio favore (per preservare la propria identità, il suo essere «io») gli alimenti per continuare a esistere… relativamente al sostrato corporeo e non a quello spirituale, che ha bisogno al momento di tale base, ma dalla quale si libererà una volta varcata la soglia della morte. E dunque non è vero che l’uomo è ciò che mangia; sarebbe più esatto dire che, nella migliore delle ipotesi, soltanto il suo corpo è equiparabile a ciò che egli (ma egli è l’«io» o il corpo?) mangia. 2) E se, al contrario, l’accento va sul cibo, bisognerà riconoscere che esso, una volta masticato, deglutito e digerito, non è più quel che era prima (ne sono prova evidente il vomito e la defecazione), di modo tale che nel migliore dei casi bisognerà concedere che se prima era l’anima di chi mangia a rimanere «separata» dall’ingestione, incolume, adesso è il mondo intero (tutto il presuntamente commestibile, com’era prima dell’ingestione, o come parziale – e riciclabile – restituzione dell’ingerito in forme escrementizie) a rimanere «fuori». Cosicché, l’uomo (o la sua parte costitutiva più alta: l’anima) non è ciò che mangia; e neppure ciò che è suscettibile di essere mangiato (in linea di principio, l’intero mondo) si riduce – per eccesso o per difetto, per l’incremento indefinito dell’essere o per l’escremento determinato dell’esistente umano – all’essere dell’uomo. 3) Per uscire dall’impasse, bisogna ridurre l’asserzione alla sua minima espressione, cioè alla mera relazione di uguaglianza e non ai suoi estremi, e affermare: «L’uomo (ossia il suo corpo e lasciando da parte anima e spirito) è ciò che mangia (o meglio, è solo la parte assimilata del mangiato, indipendentemente sia dal lavoro previo di assimilazione che va dal commestibile al deglutito, sia dal processo successivo di evacuazione della parte espulsa)». Però, anche in questo caso avremmo tra le mani solo una misera tautologia reversibile, vale a dire: «ciò

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che viene introdotto nel corpo costituisce il corpo» se e solo se «quel che chiamiamo corpo non è altro che ciò che è costituito da quanto viene introdotto in esso». A questo punto, però, la tautologia si rovescia in una contraddizione: infatti, affinché il corpo sia ciò che in esso si introduce, è necessario anzitutto che esso esista come tale (al fine di fungere da sacca o «contenitore» di ciò che viene ingerito, senza però identificarvisi); e poi, affinché ciò che viene introdotto nel corpo si «amalgami» con esso, c’è bisogno che il cibo, prima di essere ingerito, sia già uguale al corpo, o almeno in qualche modo disposto a esserlo. In conclusione, si vede bene che questi «materialisti» scientifici non hanno detto nulla (nulla di giovevole) quando hanno stabilito la famosa equazione, a meno che non si dica: i processi meccanico-chimici del lato «corpo» corrispondono a questi stessi componenti del lato «mondo». Ma poi neanche questo è vero, perché in tal modo si trascura il processo stesso di assimilazione. A meno che… A meno che essi non volessero dire in fondo qualcosa tipo «bisogna mangiar bene»2, in base al seguente ragionamento: 1) quelli che non mangiano (o non mangiano come si deve) non sono veri uomini; però 2) noi vogliamo che ci siano uomini e anche 3) che siano uomini come noi, di modo tale che tutti noi uomini confluiamo alla fine in una sola umanità riconciliata (la connessione tra i punti 2 e 3 non è, tra l’altro, per nulla evidente); ora, se vogliamo ciò: 4) bisognerà prendere le pertinenti misure scientifiche (cioè: procurare mediante lavoro e ricerca cibo sano e adeguato per l’uomo) e sociali (mediante l’istituzione di un’efficace giustizia distributiva sul diritto al

2. Tale è il titolo di una celebre conversazione tra Jacques Derrida e JeanLuc Nancy: Il faut bien manger, ou le calcul du sujet, in «Confrontations», 20 (1989), pp. 91-114. Per ciò che concerne il presente saggio, di tale conversazione – molto interessante, peraltro, relativamente ad altri temi – mi interessa solo il titolo, perché ci sono svariati modi di mangiar «bene».

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cibo3). Ciò spiegherebbe, in effetti, l’inserimento della frase in un’opera (quella del 1850) il cui titolo equipara «scienza» e «rivoluzione» (un’altra equazione insinuata). Di modo tale che la proposizione non era tanto metafisica o antropologica, bensì morale: non tanto una definizione ontologica quanto un’esortazione, un imperativo etico: «Se vuoi che l’uomo sia uomo, dàgli da mangiare bene». Una proposta, questa – più che una proposizione – che ci rinvia al titolo del saggio di Feuerbach, quello successivo, del 1862: «Il mistero del sacrificio» (o dell’offerta: Opfers). Quel che prima sembrava chiaro nella teoria scientifica e nella prassi rivoluzionaria, si è convertito adesso in un mistero, che implica inoltre un sacrificio). Ma perché? È così difficile intendere che se si vuole essere uomo, e si vuole che anche gli altri lo siano, bisogna mangiar bene? Ebbene sì: bisogna riconoscere che capire questo, e cercare di realizzarlo, è una cosa così difficile che oggi (in piena età tecnologica, cioè nell’èra del trionfo mobile e mobilitante della tecnologia sul pianeta) ostacola il compiersi della benintenzionata esortazione universale, il cui motto etico presiede la Expo 2015 di Milano, ossia: Nutrire il pianeta. Però, se non chiariamo prima l’àmbito del «mistero sacrificale» degli alimenti terrestri (che, tuttavia, alimentano sia lo spirito sia il corpo), difficilmente gli sforzi scientifici e sociali potranno avere molto senso, a meno di non pensare malevolmente che, sotto il manto di ideali così alti e sforzi congiunti a livello internazionale, quel che si vende in questa Expo non ­siano ­altro che gli anticipi propagandistici di prodotti (in questo caso) della sofisticata industria agro-alimentare, così come delle strategie pubblicitarie e della politica economica corrispondente, al fine di mantenere se non addirittura aumentare la 3. Secondo quanto esplicitamente dichiarato nella Declaration of Human Rights (art. 25.1) del 1948, promulgata dall’ONU.

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differenza tra le potenze produttrici, tecno-demo-­scientifiche e i potenziali Paesi consumatori, esportatori loro malgrado di manodopera (a volte attraverso la cosiddetta «immigrazione illegale»4) e materie prime che vengono loro rivendute dopo essere state lavorate, sintetizzate ed edulcorate come prodotti prêt-à-porter. Nel migliore dei casi, se si tratta di «potenze emergenti», le merci vengono inviate in loco «semi-lavorate», affinché la mano d’opera locale, molto meno costosa, eviti di emigrare: si pensi all’industria tessile pachistana o vietnamita oppure alla più raffinata fabbricazione di chip per l’industria informatica a Bangalore». Tutto ciò un tempo si chiamava colonialismo imperialista, adesso invece si chiama globalizzazione. Ci viene in mente il titolo di un’opera di Zygmunt Bauman, del 2007: Consumo, dunque sono. Tale titolo è unilaterale, dovendo essere completato via negationis dalla definizione: «Non sono consumatore, dunque non sono». E allora, tornando all’equazione iniziale, la in-­definizione andrebbe completata così: dunque non sono un vero corpo, ma al massimo un corpo che, con il suo solo aspetto, esige di essere alimentato da altri per non morire, per non consumarsi all’interno del proprio stomaco vuoto. Oppure, in accordo col proclama anti-cartesiano di Carl Sternheim, potremmo dire: «Non si dovrebbe dire cogito, ergo sum, bensì bibo et edo, ergo sum», magari solo perché, pur senza ­Descartes, Pascal o Kant, questa semplice verità che c’è nell’uomo è stata asfissiata»5. 4. Non è privo di significato il fatto che nella citata Declaration si menzioni il diritto del migrante di uscire dal proprio Paese, ma non si parli affatto del dovere dell’accoglienza da parte del Paese ospitante. Al contrario, non appena è possibile, il migrante viene rispedito al proprio luogo d’origine. 5. C. Sternheim, Chronik von des zwanzigsten Jahrhunderts Beginn – Kapitel 8: Posinsky (1917), Aubfau-Verlag, Berlin 1963. Accessibile su: http:// gutenberg.spiegel.de/buch/chronik-von-des-zwanzigsten-jahrhunderts-beginn-6896/8.

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Forse però tale proposizione non è stata «asfissiata» (ersticken). Non c’è dubbio che il «bere e mangiare» sia una conditio necessaria (come l’aria o la temperatura ambientale) all’esistenza, ma non è una condizione sufficiente, meno che mai per poter affermare che un essere che si limiti a mangiare e bere (e si suppone a defecare e urinare) sia per ciò stesso un uomo. Gli animali fanno lo stesso e non per questo sono considerati uomini. Ora, se Sternheim si rendesse conto del fatto di cui sta parlando (o scrivendo) e riflettesse su ciò che sta dicendo, potrebbe addurre allora – col che la cosa si fa più sottile – che solo gli uomini possono inferire che se essi esistono (col che si presuppone la loro esistenza previa, almeno come soggetti o «questo essere vivente»), ossia che soltanto gli esseri che mangiano e bevono esistono veramente come uomini (vale a dire che possono essere definiti in una proposizione, con un soggetto o referente – essere «uomo» – e un predicato o determinazione – «che mangia e che beve» –). Però allora la frase dovrebbe recitare così: «Quando dico o penso che io bevo e mangio, sto riflettendo su me stesso come un essere che esiste». O più brevemente, enunciando la frase come un giudizio ipotetico o condizionale: «Se [dico o penso che] mangio e bevo, allora [dico e penso che] io esisto». Dopo tante giravolte, siamo dunque tornati a Descartes: «Penso (che sono un essere definito dal fatto di mangiare e bere) dunque esisto». Non è forse così? No, non è così. Se lo fosse, Feuerbach non avrebbe parlato di «mistero sacrificale», e noi qui, autore e lettore, non staremmo a perdere tempo prezioso. Come certamente si sarà capito, questo presunto giudizio ipotetico o condizionale nasconde un sillogismo, il cui termine medio viene tacitamente accettato come evidente, qualcosa su cui non varrebbe la pena soffermarsi. Tale presupposto recita così: l’esistenza umana consiste nell’avere coscienza che un individuo («io», in questo caso) mangia e beve. Portare alla luce ciò che è latente in

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questo presupposto tacitamente accettato è uno dei cómpiti da affrontare, se si vuole delucidare che cosa sia l’alimento dello spirito nell’èra tecnologica. Si tratta di sviscerare ciò che è nascosto, e il percorso è arduo, perché implica il muoversi, in buona misura, contro il senso comune, contro la metafisica e persino contro il senso convenzionale della religione, in particolare di quella cristiana.

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2. Non c’è niente di meglio della vista

In effetti, anche se non diciamo proprio così (perché il linguaggio, per fortuna, è ostinato) normalmente si dà per scontato che sia il mio corpo e non «io» a mangiare, bere, vomitare o defecare (e, al limite, a morire). Tutta una tradizione di pensiero (più di origine ellenistica che giudaico-cristiana, a dire il vero) si ostina a voler scindere l’uomo in due metà (senza pari dignità): una che è «interiore» (la mente, l’anima, lo spirito o come dir si voglia) e un’altra che è «esteriore» (il corpo), o meglio, che è un lato che «dà sull’esterno», per dir così, quasi fosse la facciata di una casa. Dicendo quanto appena detto, però, ci si rende conto che sia l’esempio sia l’esemplificato sono male espressi: infatti, se la casa dà sull’«esterno», ciò si deve al fatto che ha un «interno» (o meglio: è l’interno stesso ciò che dà sull’esterno e lo rende appunto tale); d’altra parte (e questo è ciò che mi distingue da una casa, tra le altre ragioni), neppure è vero che il mio corpo dia sull’esterno, in quanto sono «io» che do e mi do sull’esterno, sul fuori, senza per questo esser tale. D’altronde, non ci sarebbe esterno (diciamo: non esisterebbe il mondo) se io per primo non sentissi e non lo sentissi e se non sapessi che il mio «interno» (se vogliamo continuare a chiamarlo così) è al tempo stesso incitamento-e-risultato di questo commercio col mondo, con qualcosa che ovviamente

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non sono «io», ma senza il quale io non sarei. Detto in sintesi: io sono ed esisto, facendomi e disfacendomi a ogni istante, nel limite o soglia tra quanto sento e la mia risposta ad esso: tra l’impressione e l’espressione. A proposito, nel pensiero contemporaneo è cosa relativamente accettata a partire da Hegel (per non parlare di MerleauPonty) che io sono nel limite, che è il limite o la relazione ciò che, al tempo stesso, dà luogo al mondo circostante (non esterno, bensì esteriorizzato: sgombrato o espulso) e all’io (non interiore, bensì interiorizzato: assorto in sé, riconosciuto sempre troppo tardi, come se fosse di risulta, senza un’origine sorgiva). Tutto questo è accettato di buon grado dai sensi cosiddetti «superiori»: dall’udito e, soprattutto, dalla vista. Il primo raccoglie vibrazioni, risonanze che sembrano rinviare a qualcosa di interiore (nel caso estremo, la voce di Dio, la voce della coscienza, o la voce silente dell’amico, in Heidegger). La vista, invece, non si limita a raccogliere, bensì attentamente scruta, istituisce distanze e si mantiene separata da ciò che avvista. Per questo è stata tanto celebrata, fin da Platone, perché situa l’origine, il punto di osservazione a partire da cui vede (come se gli occhi emettessero raggi a illuminare l’oggetto inquadrato), istituisce le differenze di quanto ha visto ripercorrendolo con lo sguardo (come un occhio solare, o quello di un generale che passa in rassegna le truppe assegnategli), mentre il vedente si ritira, impassibile e identico, verso il punto di partenza. (Nei casi estremi: il cristiano crede che Dio lo veda, ma non viceversa, a meno di un miracolo). Forse è qui che si origina ogni credenza nell’origine. Il tatto, da parte sua, sa mantenere le distanze. È vero che, attraverso la sua mediazione, si può essere toccati (e addirittura attraversati, perforati o feriti in mille modi), ma è pur vero che attraverso il tatto si può rifiutare il diverso da sé, o al contrario afferrarlo e appropriarsene a proprio vantaggio. Attraverso il tatto, attraverso la mano, si può manipolare un oggetto

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e dirigerlo abilmente – trasformandolo in un utensile – contro altri oggetti: così risulta possibile avvicinarsi, insomma, in modo amichevole oppure ostile, ad altri esseri simili oppure rifiutarli rinserrandosi in ombrosa solitudine. È vero che grazie a tutto ciò, e mediante quel che Hegel definiva «astuzia della ragione», il mondo viene trasformato in un sistema di utensili, e l’utensile, lo strumento, diventa il vero termine medio, di nuovo, tra l’«io» (e i socii: quelli che con me vanno al lavoro comune) e le «cose», tendenzialmente trasformate in prodotti artificiali. In definitiva, l’àmbito definito dal tatto (se vogliamo: dal lavoro e dalla tecnica) può e deve trasformare sia un «io» preesistente (e idealmente: produttore e consumatore) sia un «mondo» in cui lentamente e sistematicamente (scientificamente e tecnicamente) le cose, gli esseri nel loro complesso vanno accomodandosi alla nostra mano e ai nostri bisogni. Il mondo, in tal modo trasformato e amministrato, si va convertendo in un gigantesco «magazzino per lo stoccaggio di merci»6. Con l’olfatto, le cose stanno ancora «peggio» (peggio per il filosofo idealista, che bene o male alberga in tutti noi). Non a caso un’intera industria, da quella alimentare a quella dei profumi, si dedica a combattere artificialmente tale «stigma», decisamente animale, come può testimoniare chiunque abbia un cane. È vero che qui l’«esterno» si introduce letteralmente nel nostro interno, attraverso il condotto nasale, ma lo fa in modo debole, come un vapore o gas. Fenomenologicamente, immaginiamo che l’odore non penetri effettivamente nel nostro corpo, ma si limiti a depositarsi nelle fosse nasali; e inoltre, è un poderoso ausiliare della vista, giacché serve per confermare che alla superficie esterna, alla forma, colore e dimensione di un oggetto, corrisponde l’essenza (è proprio il 6. Il volume III del Treatise on Basic Philosophy di Mario Bunge s’intitola The Furniture of the World, Reidel, Dordrecht 1977.

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caso di dirlo) di tale oggetto, emanata dall’interno dello stesso. Così, il soggetto detentore dell’olfatto continua a essere colui che comanda, classifica e ordina gli oggetti. La catena di comando funziona così: gli oggetti visti sono tenuti a distanza, dominati e inseriti in un panorama il cui punto d’origine sono gli occhi del soggetto; dall’interno di qualcuno di questi oggetti ci arriva la loro vibrazione o risonanza, di modo tale che possiamo già considerarli come vicini allo stesso «io», che sperimenta nel proprio corpo tale capacità di emettere suoni; il tatto ci consente di toccare o rifiutare altri corpi, di modo tale che, come di rimbalzo, in questa interazione siamo coscienti dei nostri limiti, anche quando essi possono essere oltrepassati, nel dolore della ferita, nella lacerazione o nell’unione sessuale; infine, l’odore presuppone una prima introiezione dell’esterno, ma in forma gassosa, come effluvi emanati dall’altro corpo. Questa catena sensoriale sembra da parte sua curvarsi in modo circolare, per cui la vista e l’olfatto sarebbero estremi invertiti; attraverso la prima, creiamo immagini o simulacra dei corpi, in base ai quali possiamo generare uno schema per riprodurli e alterarli artificialmente; attraverso l’olfatto, invece, sono gli effluvi dei corpi che si introducono nel nostro interno, non senza avvertirci in questo modo della loro corruttibilità, della loro incapacità di permanere dentro sé stessi, chiusi ermeticamente all’esterno. In questo senso, ogni corpo odoroso (indipendentemente dalla gradevolezza dell’odore) è un avviso di morte che viene dall’esterno. Ma si tratta soltanto di un avviso: il corpo visto, palpato o fatto risuonare continua a mantenere la sua forma esterna, esattamente come l’annusatore che si crede incolume di fronte a questa «micro» invasione. Tutto questo lungo preambolo non è altro che una preparazione per affrontare il nostro problema. Un problema letteralmente di vita e di morte. È curioso che Heidegger abbia

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insistito, a ragione, sul fatto che nel nostro essere ne va del nostro proprio essere, anzi: dell’essere stesso. Che a noi, essendo, interessa essere e continuare ad essere, in quanto siamo esseri ex-sistenti, progetti di futuro. Solo che Heidegger non si rese conto (e glielo rimprovererà Levinas) che per far ciò è necessario respirare, mangiare e bere, defecare, orinare e sudare. E tuttavia, si potrebbe dire che tutta la metafisica occidentale condivida con lui questo oblio (l’oblio del mangiare e dell’essere mangiato). Proprio Heidegger, che ha criticato in modo così aspro la metafisica e l’umanismo a essa corrispondente, non ha notato che anche lui era in qualche modo partecipe di quanto criticava. Ne deriva il privilegio esclusivo, ontico-ontologico, dell’Esser-ci o Dasein, ossia dell’essere umano in quanto ex-posizione dell’essere stesso, di modo tale che tale «coappartenenza» (Zusammengehörigkeit) esclude da ogni prossimità con l’essere gli altri animali, i vegetali e le cose, sebbene questa prossimità o commercium si dia soltanto in modo inconscio e come preso in prestito, attraverso il fare e il conoscere umani. Heidegger non potrebbe parlare, come i filosofi rinascimentali, di sympathia rerum, della signatura come intricato tessuto simbolico e allegorico in cui l’Universo si dà a vedere, sia come Natura sia come dono di Dio. E dunque ci si potrebbe chiedere che cosa abbia Heidegger contro il mangiare e il bere. E come mai, così bravo a scovare una cosa tanto sotterranea e nascosta come l’oblio dell’Essere da parte degli uomini d’Occidente, si sia dimenticato di qualcosa che faceva quotidianamente e, si suppone, varie volte al giorno? Forse perché l’alimento non ha molto interesse per la «riflessione», per la Besinnung? Lui che ha saputo rompere l’inveterato pregiudizio tra i due mondi, l’interno e l’esterno, e anche la gerarchia tra lo «spirito» come funzione superiore dell’uomo e il «corpo» come sua parte vile, lui che ha rotto la credenza nella differenza-in-unità della coscienza e delle sue rappresentazioni, come ha potuto dimenticarsi del fatto

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che persino lui doveva mangiare? E ancora: com’è possibile che abbia dimenticato che anche gli altri, quelli che esistono essendo-con-l’altro (Miteinandersein) devono mangiare? Si ricorda di loro solo quando questi stessi si incontrano in modo autentico nel lavoro o nell’assemblea, e in modo inautentico nelle elezioni «democratiche», ma si dimentica di pensare al mangiare e al bere, almeno concettualmente; per il resto, da buon svevo, alla birra preferiva il dorato vino della terra. Ora, non è per giustificarlo, ma in questo oblio era in ottima compagnia, e continua ad esserlo. Nell’insegnamento quotidiano della filosofia, a qualsiasi livello, e nonostante gli sforzi di buona parte della filosofia francese contemporanea (Levinas, Nancy, Derrida) e in fondo anche Nietzsche, il problema dell’alimento brilla per assenza7, mentre invece per la politica, la sociologia, la medicina, l’industria farmaceutica e ovviamente quella alimentare il problema del cibo ha grande rilevanza. Questo potrebbe voler dire che la filosofia è diventata una reliquia del passato destinata a sparire (più o meno lentamente) da ogni piano di studi, sostituita da discipline più «serie», e più a contatto con i problemi scottanti del nostro tempo, come, per esempio, l’economia. Può darsi. E tuttavia, tali discipline, naturalmente indispensabili, lasciano irrisolto il problema stesso, ossia: che cosa significa l’alimento? Che cosa ci dà da pensare in questo crocevia? E inoltre: al di là di quel che succede con il linguaggio, ossia che non può esserci un linguaggio privato, ad uso esclusivo di un singolo, come mai il cibo, essendo incontestabilmente un affare privato tra l’individuo che mangia e l’alimento ingerito, non può esistere né essere concepito se non come attività collettiva? Il pensiero può occuparsi della grave questione (in cui 7. Un’eccezione è il recente libro di Franco Riva, Filosofia del cibo, Castelvecchi, Roma 2015. Si consideri anche Filosofia del vino, di Massimo Donà, Bompiani, Milano 2003.

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implicitamente c’è un’accusa a Dio) sul «perché sia consentita la fame nel mondo». Più importante della speculazione teorica è l’azione immediata, non pensata, di chi vede che qualcuno, chiunque sia, soffre la fame. Allora, come dice giustamente Simon Weil, «si va automaticamente a cercare del pane»8. Come si vede, qui è ancora operativa la dicotomia tra il pensiero (considerato in fondo cosa inutile e sterile) e l’azione effettiva (ma definita come spontanea e dunque «automatica»); è come se volontariamente ci fossimo lasciati condurre dalla mano di Dio e ad essa affidatici quali strumenti e trasmettitori della grazia divina, e non tanto per amore del prossimo (per non parlare dell’estraneo) quanto per amore di Dio. Si tratta di domande di tale gravità che si sarebbe tentati di lasciarle lì, erte come minacce e al tempo stesso incitamenti al pensare.

8. La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950, p. 43. Anche, e con più forza, in Antonio Machado: «Dici che nulla si crea? / Non importa, col fango / della terra costruisci un bicchiere / perché tuo fratello beva» (Proverbios y cantares, XXXVIII; 1909).

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3. Che cosa o chi ci invita a mangiare?

Ma non c’è altra scelta che continuare. Così, la prima domanda da porre (alquanto insidiosa e bifida, peraltro) potrebbe essere: «Non pensiamo filosoficamente al mangiare e al bere come sostentamento dell’uomo perché non diamo importanza a un fatto così ovvio e banale che si intende di per sé, oppure non vogliamo – o addirittura non possiamo – pensarci?». La prima opzione va scartata, non appena riflettiamo sul fatto che senza mangiare né bere non potremmo farci né questa domanda, né nessun’altra. E sulla presunta «evidenza», siamo sicuri che intendiamo davvero che cosa significhi l’alimento? E posto che dobbiamo confessare che, almeno prima facie non lo intendiamo (tra le altre cose, perché non ci siamo soffermati a pensarci su o non abbiamo voluto farlo), sarà necessario allora confrontarci con la seconda opzione, formulata concisamente così: oltre a sentire periodicamente fame e sete, è possibile pensare il cibo? Quando non si sa da dove iniziare, la cosa migliore è rintracciare il senso antico delle parole in questione, giacché nel loro uso secolare è andata depositandosi la sapienza (nonché i pregiudizi) di coloro i quali hanno le hanno utilizzate. La voce «alimento» (in latino alimentum) viene dal verbo aleo, che vuol

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dire «nutrire, far crescere, rinvigorire». La cosa importante (e inquietante) è qui la radice, sia del verbo sia del sostantivo: viene dal proto-indoeuropeo *al, che allude a qualcosa di «estraneo» e «alieno» (in greco allós, in latino alius, alter). Di conseguenza, «alimento» significherebbe il modo e la maniera in cui una «cosa» fa crescere e infonde vigore, da fuori, a qualcuno. A qualcuno, non a «qualcosa», visto che le cose non mangiano, ma sono mangiate. L’alimento, quindi, allude a una penuria primordiale, al segno stesso della finitezza: la dipendenza da qualcosa di estraneo per poter essere, e per poter essere compreso. Non c’è dunque un alimento autoreferenziale. Pertanto, il Dio delle religioni del Libro, e soprattutto l’Essere della metafisica tradizionale (in quanto ipsum esse) non può ovviamente alimentarsi, perché ciò implicherebbe un bisogno d’altro, di un altro alieno a sé stesso, per poter essere (e, si suppone: per poter essere concepito). Al contrario, l’elemento divino può ben servire come alimento per ciò che è diverso da sé, e pertanto vi si subordina. Per esempio, nel pensiero stoico, così come ci è stato trasmesso da Virgilio nell’Eneide, si afferma che la vita del vasto «corpo dell’universo» dipende dall’«anima del mondo», dal suo spirito: Spiritus intus alit, totamque infusa per artes / mens agitat molem et magno se corpore miscet («Uno spirito dentro nutre, e attraverso le membra / la mente agita l’intera massa e col vasto corpo si mescola» [Eneide, VI, vv. 726-727]). È chiaro che in questo caso sembra difficile istituire un paragone con gli alimenti quotidiani che nutrono l’essere umano: questi sono ovviamente terreni, e terreno è il «corpo» che alimentano. Non è vero? Anche rispondere a una domanda apparentemente così innocua non è poi così semplice. In ogni caso, una possibile risposta – fedele al dualismo mens/corpus – fu azzardata all’inizio della filosofia. In base a essa, il sapiente «nutrirebbe» la propria anima guardando gli astri, la cui luce entrerebbe in lui

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attraverso gli occhi (dopotutto, la stella è interamente luce), mentre il corpo si alimenterebbe introducendovi gli alimenti, tanto grossolani e materiali quanto il corpo che tengono in vita. Talete, com’è noto, cadde in un pozzo mentre ammirava, affascinato, l’ordine divino dei cieli, suscitando in tal modo il riso della servetta tracia; e Paracelso insistette su questa dualità – non senza sfumature tragiche – affermando che ci alimentiamo degli elementi (fuoco, aria, acqua, terra) in base alla carne, e degli astri in base allo spirito: «Noi uomini, la nostra carne e il nostro sangue, vengono da nostro padre: mangiamo e beviamo dagli alimenti [da un lato] e dal firmamento [dall’altro]»9. In quanto microcosmo (kleine Welt: «piccolo mondo») l’uomo si alimenta del macrocosmo (grosse Welt: «gran mondo») come se fosse «suo figlio». Ora, questa prima alimentazione sa di morte. Di fatto, già la fame ci avvisa di ciò, in quanto «anticipo della morte [ein Vorgeher des Todes]», annota cupamente Paracelso, ben prima di Feuerbach: «Tutto quanto costituisce la nostra alimentazione ci fa essere lo stesso di quel che mangiamo; così stiamo mangiando noi stessi. […] In tal modo, mangiando e bevendo l’uomo si vede obbligato a consumare il suo proprio veleno, accettando malattia e morte». È come se, in questa alimentazione profana, la terra ci dicesse: «mangiate, che questo sono io [esst, das bin ich]». Ma questa offerta si trasformerà nel «sacrificio» di sé stesso: pulvis es et in pulverum reverteris. In definitiva, l’uomo mangia sé stesso nel momento in cui riceve dentro di sé ciò che, tuttavia, lo nutre e lo tiene in vita. Per fortuna, l’altra alimentazione, quella sacra, deve mantenere in vita l’anima, senza morte né ritorno agli elementi, giacché si alimenta di luce viva. E tuttavia, Paracelso, essendo al tempo stesso medico e alchimista (con una punta di misticismo), si vede obbligato a scon9. Cit. in G. & H. Böhme, Feuer Wasser Erde Luft. Eine Kulturgeschichte der Elemente, C.H. Beck, München 2010, p. 209.

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trarsi qui con una contraddizione essenziale, quella del vincolo tra la Terra e il Padre (dal quale dipenderebbero anche gli elementi materiali). Bisogna, infatti, trovare un «alimento» che riunisca e rileghi il terrestre come lo spirituale, il profano come il sacro. E per la cultura europea del secolo XVI, la risposta scaturisce quasi da sé: tale vincolo non può che essere il sacramento dell’eucarestia. Infatti, dice Paracelso, senza vedere in ciò alcun problema, solo quando mangiamo Gesù, «riceviamo da Dio alimento e bevanda [auss Gott gespeist und getränkt]»10. Ma così la contraddizione tra alimento terreno e alimento spirituale non viene risolta, anzi si accresce. In effetti, seguendo l’analogia, potremmo mai dire che Dio si disfa nella nostra bocca e nel nostro intestino, come accade col cibo? Defechiamo forse Dio? Al riguardo, è inutile che Paracelso cerchi di uscire dalla difficoltà rendendo così sottile l’alimento spirituale come la luce ricevuta dalle stelle, di modo tale che nessun alimento risulti dall’ingestione. Il punto consiste piuttosto nel fatto che necessitiamo ideare (se non fingere) un paradigma, qui sulla terra, in cui l’essere e il senso, la cosa e il suo valore, coincidano assolutamente, come coincidono la nostra mente e il nostro corpo nonostante non siano il medesimo. Allo stesso modo in cui i cristiani ammettono la doppia natura di Gesù Cristo, in quanto Dio e Uomo, così anche i doni istituiti da lui nell’Ultima Cena saranno duali e unici al tempo stesso, se non vogliamo prolungare la scissione platonica (e cartesiana) in indefinitum. Ma la domanda, ostinata, persiste: com’è che il nostro Dio è da un lato Uno e Trino e dall’altro Uno e Duale? Oppure, il che è lo stesso (cominciamo infatti a sospettare che la domanda rinvii al Medesimo): perché soltanto mangiando e bevendo, il nostro spirito può sostenerci e mantenerci in vita? Basta forse «addestrare il cane» che è 10. Ibidem.

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in noi, come voleva Simon Weil, o dovremmo lasciarci quasi morire di fame per rafforzare il nostro spirito, alla maniera degli anacoreti? Non dovremmo in fondo riconoscere, con Calderón de la Barca, che per quanto il saggio rifiuti in quanto amare e insipide le erbe che potrebbero servirgli da alimento, ci sarà sempre un altro saggio disposto a raccogliere quelle da lui scartate11?

11. «Poi il viso un poco volgendo / trovò la risposta vedendo / che un altro saggio aveva afferrato / le erbe da lui prima disdegnate» (P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, Giornata I, Scena II).

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4. Quando Dio si dà da mangiare

A tal proposito, e scandalizzando le anime pie, potremmo cercare di vincolare la domanda sulla trinità di persone e la dualità di nature in Cristo, da un lato, e quella relativa alla necessità di mangiare e bere, dall’altro. Relativamente alla questione teologica, la perichóresis delle tre persone divine garantisce la sussistenza e l’identità di queste tre entità proprio attraverso la reciproca (e costante) interazione: ravvolto nelle sue profondità insondabili, il Padre intravede (riconosce?) sé stesso solo riflettendo lo sguardo del Figlio, del Verbum o Lógos, che costituiscono il proprio compiacimento. E da tale reciproco piacere, che è riflesso amoroso biunivoco, scaturisce lo Spirito (qui a Patre Filoque procedit, recita la formula agostiniana fissata come dogma di fede nel Concilio Niceno-Costantinopolitano). La Trinità cristiana si sostiene su questo gioco dell’esteriorizzazione di Sé come Figlio, e del ritorno di quest’ultimo al Padre attraverso lo Spirito. Che cosa succede invece con la doppia natura di Gesù Cristo, Dio e Uomo vero? La sua morte in Croce non annichilisce la sua natura mortale di uomo, come prova l’invito a Tommaso Didimo ad affondare le dita nel costato sanguinante del Resuscitato

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(cfr. Giovanni 20, 28)12. Credere che la annulli, sarebbe cadere sia nell’eresia monofisita (che sostiene la sola natura divina del Cristo) sia nell’arianesimo (che invece nega la sua natura divina). Ora, se la Resurrezione non annulla la natura umana, terrena, di chi – nonostante tutto – continua a essere considerato «Figlio dell’Uomo», tuttavia la subordina. In quanto vincitore della morte, Gesù Cristo la assimila, la porta, vinta, dentro di sé, proprio come gli alimenti terreni si convertono nella carne e nel sangue di coloro i quali se ne appropriano digerendoli. Ma nel caso di questi ultimi, può accadere che la scarsità di alimenti (nel caso degli sventurati che soffrono la fame e la sete) non salvi dalla morte. Nel caso di chi non manca di cibo, invece, può accadere che il suo corpo, col trascorrere degli anni, vada soccombendo al potere inorganico di quanto ingerito, che, non assimilato, può convertirsi in un pharmakón alla lunga nocivo, che annuncia in definitiva la vittoria della morte. Che cosa succede invece col mistero sacrificale dell’Eucarestia? Parola di Dio: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Giovanni 6, 54-55). Possiamo comprendere che queste parole abbiano scandalizzato gli ebrei, e anche noi, oggi, ci

12. Nella bellissima canzone di Fabrizio De André, Tre madri, le madri di Tito e Didimo, i due «ladroni» messi in croce con Gesù, nel momento all’agonia dei loro figli, «rimproverano» la Vergine con queste parole: «Con troppe lacrime piangi, Maria / solo l’immagine di un’agonia / sai che alla vita, nel terzo giorno / il figlio tuo farà ritorno / lascia noi piangere, un po’ più forte / chi non risorgerà più dalla morte. A tale affettuoso, e in fondo solidale, rimprovero, Maria risponde così: Piango di lui ciò che mi è tolto / le braccia magre, la fronte, il vólto / ogni sua vita che vive ancora / che vedo spegnersi ora per ora […] Per me sei figlio, vita morente, ti portò cieco questo mio ventre / come nel grembo, e adesso in croce / ti chiama amore questa mia voce. / Non fossi stato figlio di Dio / t’avrei ancora per figlio mio».

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scandalizzeremmo, se l’uso non ne avesse consunto il significato attraverso la ripetizione meccanica. Perché qui si tratta del fatto che i fedeli credenti, se vogliono ottenere la vita eterna, devono mangiare più volte Dio e berne il sangue: un’azione carnivora e sanguinosa, appena velata dal neologismo teofagia. Neppure i filosofi «pagani» si lasciarono sfuggire l’occasione di palesare la loro ripugnanza dinanzi a pratiche apparentemente antropofagiche, che facevano pensare loro al banchetto di Tieste13. Ancora nel 1828 Friedrich Schlegel raccoglie questo punto, non senza turbamento, riferendosi al santo sacrificio dell’Eucarestia: «Tra le nefandezze di cui furono accusati i cristiani ci sono molto probabilmente i banchetti di Tieste: i nemici dei cristiani vi fecero più volte riferimento nelle loro accuse, accolte con avida credulità da un popolaccio che i cristiani li aborriva. Sebbene tale accusa fosse una malvagia calunnia dovuta a deliberata falsità, è tuttavia molto probabile che all’inizio sia stata originata da un enorme malinteso, e dunque l’accusa, pur essendo ovviamente falsa, proveniva da una conoscenza oscura e confusa del mistero del santo sacrificio e della ricezione del sacramento dell’eucare-

13. Porphyrius, Gegen die Christen [Contra Christianos], Zeugnisse, Fragmente und Referate (ed. Adolf von Harnack), G. Reimer, Berlin 1916, frammento 69: «Sono ben note le parole del Maestro che dice: “se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue, non avete in voi la vita” [­Giovanni 6, 53]. Che un uomo assaggi carne umana e beva il sangue dei propri simili e in tal modo conquisti la vita eterna, non è semplicemente bestiale e stravagante, ma è quanto di più stravagante e bestiale vi sia. Se si fa questo, ditemi: quali estremi di inumanità non comprenderà la vita? Quale altro tipo di malvagità, più esecrabile di questo abominio, non inventerete? […]. Il banchetto di Tieste fu dovuto al dolore di un fratello. Il tracio Tereo si saziò di un simile alimento contro la propria volontà. Arpago fece un banchetto con il sangue del suo migliore amico perché ingannato da Astiage. Tutti patirono una vergogna simile contro la loro volontà. Nessuno che viva in pace potrebbe mai preparare un pasto simile» [tr. it., Discorsi contro i cristiani, a cura di C. Mutti, Ar, Padova 1977]. Su Tieste si veda la seguente nota 29.

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stia nella divina festa dell’amore solennizzata nelle assemblee cristiane»14. A proposito, questa «confusione» tra la sarco-teo-antropofagia e la «divina festa dell’amore» si estese tra le stesse confessioni cristiane, al punto che il calvinismo cercherà di attenuare questo scandalo, convertendo l’eucarestia in un mero rituale di aide-mémoire: un simbolo letteralmente ripetuto a memoria. Al contrario, sia i cattolici sia i luterani si attengono al significato reale di tale ingestione, fissato canonicamente da Leone IX nel 1050 e sancito dalla festività del Corpus Christi, istituita da Urbano IV nel 1246. In tedesco tale espressione si traduce, molto espressivamente, con Fronleichnamsfest (da fro: «Signore» e lich-hinamo: «guscio, vestito, corpo»). Attualmente, Leichnam designa il cadavere (come corps in inglese, dal latino corpus). Dunque, sia la festività sia la comunione eucaristica rinviano all’ingestione del cadavere di Cristo, istituita già alla vigilia della sua morte nella celebrazione dell’Ultima Cena. A proposito, in tedesco si parla di Abendmahl, letteralmente «Cena della Vigilia». Sia detto di passaggio, Mahl viene dal verbo mahlen: «schiacciare, triturare», perché, nella confessione luterana, la manducatio spiritualis implica che solo la distruzione della forma «naturale» del pane e del vino (ossia, la sua assimilazione, e non, ovviamente, la sua scomparsa) contemporaneamente alla formulazione delle parole rituali, rende possibile la compenetrazione piena tra uomo e Dio, la teandria; tale è la vittoria del Lógos sulla materialità dell’alimento. Sul senso dell’eucarestia, si noti innanzitutto che essa, in quanto prima opera di misericordia, viene esposta nel contesto del Giorno del Giudizio: «Allora il re dirà ai giusti: ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato 14. F. Schlegel, Philosophie der Geschichte, Bd. 1, Vorl. IX, F. Schöning, München-Padreborn-Wien 1971; I, 219.

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da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa» (Matteo 25, 34-35). Significativamente, i discepoli identificano senz’altro Gesù Cristo con il Re (Basileùs), nonostante poco prima lo stesso Gesù lo avesse chiamato anche «Padre». Siamo qui in presenza, quantunque in modo tacito e sibillino, di una chiara translatio imperii: dal dominio del Padre (col rischio denunciato da Freud in Totem e Tabù) al regno del Figlio. Solo che, proprio perché si tratta del «regno» promesso, i discepoli si meravigliano del fatto che, a sua volta il (nuovo) Re si identifichi con l’affamato, l’assetato e il forestiero. Infatti, gli domandano: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo nutrito?». La risposta di Gesù apre al riguardo un vasto campo di solidarietà, realmente eucaristica, cioè di «azione di grazia»: «In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me» (Matteo 25, 37-40). E la massima grazia consiste nel fatto che sia lo stesso Dio fatto Uomo a offrirsi come cibo, sia per quanti soffrono sia per quanti cercano di attenuare le sofferenze altrui. Tutto bene, ma a che cosa si deve il carattere privilegiato, anzi primordiale, del cibo, del dar da mangiare, e soprattutto del darsi da mangiare? In generale, che il cibo implichi una fusione tra l’esterno e l’interno, ma in un modo tale che l’alienazione (la necessità dell’esterno) implichi di ritorno un’assimilazione, anzi, il primo riconoscimento dell’organismo come individuo, è stato sottolineato con pari intensità da Novalis e da Hegel. Secondo il poeta: «Io posso esperire qualcosa solo se la ricevo in me [in mir aufnehme]; si tratta quindi di un’alienazione da me stesso e al tempo stesso di un’appropriazione o trasformazione di un’altra sostanza nella mia [in die meinige]»15. Vediamo ora Hegel: «L’impossessamento meccanico d ­ ell’oggetto

15. Novalis Werke, Das theoretische Werk (ed. G. Schulz). Fragmente und Studien 1797-1798; § 42. C.H. Beck, München 2001, p. 388.

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esterno è l’inizio del processo. La stessa assimilazione è il rovesciamento [Umschlagen] dell’esteriorità nell’unità del Sé [selbstische]»16. Ora, Hegel segnala subito dopo che l’assimilazione (in virtù della quale l’organico interno converte per sé in qualcosa di inorganico il vivente, che in sé era organico) è comunque «la confluenza immediata di ciò che viene accolto internamente [des inwendig Aufgenommenen] con l’animalità; un’affezione [Infektion] dell’animalità e una trasformazione semplice [Verwandlung]»17. I termini utilizzati da Hegel (das Aufgenommene, da aufnehmen; Verwandlung) sono gli stessi impiegati da Novalis, ma nel filosofo appare un’espressione insidiosa, che allude alla presenza di elementi patogeni nell’atto stesso del cibarsi: Infektion. Il filosofo allude in tal modo alla connessione (per non dire all’identificazione) tra una vita precariamente riannodata e una morte non meno precariamente spostata. È vero che il cibo salva, ripetutamente, dalla morte, ma è anche vero che la va spostando, finché, come dice un sonetto di Quevedo, «non trovai cosa su cui posar lo sguardo / che non fosse ricordo della morte»18. Per fortuna, c’è un’azione più alta della semplice ingestione solitaria: il pasto in comune, e ancor più l’azione di dare da mangiare, che salva altri uomini dalla morte, istituendo in tal modo legami di affinità e di gratitudine suscettibili di essere

16. Philosophie der Natur (Enzyklopädie § 363), in Werke, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1970; 9, 479 [ed. it. a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996]. 17. Ivi (§ 364). Werke; 9, 480 (ed. cit.). 18. Si può morire se non si ingerisce cibo, in stile «anima bella», come nei casi estremi di anoressia (dove l’Io ideale si rifiuta di soddisfare l’animale interno), ma anche per un eccesso di appropriazione di ciò che è esterno, fino a scoppiare, come nel suicidio collettivo e programmato dei protagonisti del film La Grande Abbuffata di Marco Ferreri (1974). Comunque, anche in questo caso si allude al carattere comunitario del cibo.

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ricordati, mantenendo così un certo carattere di precaria perennità19. Manca ancora che sia lo stesso Dio a offrirsi come alimento, il che non può che significare che chi introduca il dio nella propria vita sarà, come lui, libero per sempre dalla morte, naturalmente dalla seconda morte, dalla morte eterna, come preciserà Sant’Agostino, posto che la prima, per un credente, non è altro che un passaggio a miglior vita.

19. Cfr. il romanzo di Isak Dinesen Il pranzo di Babette, così come il film omonimo, diretto da Gabriel Axel nel 1987. Si noti che, mentre il Generale Lorens Lowenhielm riconosce che il banchetto comunale ha elevato i commensali a un livello in cui spiritualità e soddisfazione corporale si mescolano: «rettitudine e felicità si sono baciate», Babette resta al margine di tutto ciò: serve in silenzio i membri della piccola comunità, senza partecipare al pranzo, nonostante l’abbia generosamente regalato, diretto e preparato: l’ex cuoca del Maxim’s parigino preferisce non integrarsi completamente nella comunità protestante danese.

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5. Un banchetto di morte

In questo caso, come in tanti altri, non c’è che da apprezzare l’abilissimo «adattamento» di concezioni, dall’Antico al Nuovo Testamento. Infatti, dice il profeta Isaia che alla fine dei tempi, con l’avvento del Messia: «il Signore dell’universo preparerà per tutte le nazioni del mondo un banchetto imbandito di ricche vivande e di vini pregiati. All’improvviso farà sparire sulla montagna il velo che copriva tutti i popoli» (Isaia 25, 6-7). A proposito, che questa «copertura» e questo «velo» rappresentino la morte è chiaramente indicato nel versetto seguente: «Il Signore eliminerà la morte per sempre e asciugherà le lacrime dal vólto di ognuno». Il verbo ebraico «bala», tradotto con «eliminare», in realtà significa «inghiottire, ingoiare», come si può notare nell’Esodo (15, 12): «Hai steso la tua mano, e la terra ha inghiottito i tuoi nemici». L’Apostolo delle Genti ricorda e traduce in greco questo passo, nel suo famoso canto di trionfo sulla morte: «Nella vittoria, la morte è stata inghiottita» (I Corinzi 15, 54). (Katepóthe ho thánatos eis nîkos; il verbo è un perfetto di katapíno: «inghiottire, divorare»). Naturalmente, il significato immediato di questa vittoria è che Cristo ci ha redenti, con la sua morte, dalla morte naturale, aprendoci così il cammino della morte sacrificale, che

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Hegel definisce «morte della morte»20. Solo che il filosofo si guarda bene dal ricordare che la morte la si vince solo mangiandosela21. Il verme divoratore è stato a sua volta divorato. E tuttavia, scrive San Paolo: «Però io vi dico, fratelli, che il nostro corpo, fatto di carne e sangue, non può far parte del regno di Dio» (I Corinzi 15, 50). Che cosa può voler dire questo, se non che è necessario vincere la carne e il sangue mortali sul loro stesso terreno, con l’aiuto di Dio? In questa sorta di omeopatia teofagica, l’ingestione del corpus Christi divino presuppone una sorta di digestione della carne e del sangue spirituali, la quale presuppone a sua volta la digestione dell’alimento naturale. Una hegeliana negazione della negazione che presuppone una duplice vittoria: sulla natura e sulla morte, istituendo in cambio la comunità dei credenti. Di tale trionfo dello spirito sulla carne (divina o naturale, ma comunque morta, considerata come inorganica) dà fede il parallelismo quasi letterale di due passi del quarto Vangelo. Così, secondo Giovanni (6, 53 e 55-56), Gesù istituisce l’Eucarestia con le seguenti parole: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate il corpo [la “carne”] del Figlio dell’uomo [mè phágete tèn sárka toû uoioû anthrópou] e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita […] perché il mio corpo è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane unito a me e io a lui [en emoì ménei, kagò 20. Vorlesungen über die Philosophie der Religion. Die Vollendete Religion (ed. Jaeschke), Meiner, Hamburg 1995, p. 67 [tr. it., Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Graventa e S. Achella, Guida, Napoli 2011]. 21. La Vulgata traduce correttamente: Absorpta est mors in victoria. Anche la traduzione di Lutero è letteralmente fedele: «Der Tod ist verschlungen in den Sieg» (verschlungen significa «inghiottire, divorare»), così come la Bibbia di Re Giacomo: «Death is swallowed up in victory» (in Novum Testamentum tetraglotton [eds. C.G.G. Theile - R. Stier], Diogenes, Zurich 1981 [orig. 1858], pp. 712-713).

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en autôi]». In entrambi i casi «carne» traduce il termine greco sárx, rinviando al fondamentale passo di Giovanni 1, 14a: «E il verbo si fece carne [Kaì ho lógos sárx egéneto], e abitò in mezzo a noi [en hemîn]»22. Dunque, questa vera e propria compenetrazione tra Dio e l’uomo (che implica che questi voglia assimilare tale dono divino) trova corrispondenza nella preghiera del Figlio al Padre, che esorta non solo al sacramento individuale dell’eucarestia, ma alla piena communio fra Umanità redenta e Trinità divina. «Io ho dato ad essi la stessa gloria che tu avevi dato a me, perché anch’essi siano Uno [hén] come noi, io in essi tu in me [egò en autôis kaì sù en émoi], affinché si compiano [teteleioménoi; consummati] in Uno» (Giovanni 17, 22-23). Il senso dell’ultimo verbo non lascia àdito a dubbi rispetto alla funzione ultima dell’eucarestia e della redenzione finale. Infatti, sempre secondo questo Vangelo (Giovanni 19, 30), le ultime parole pronunciate da Gesù Cristo sulla croce furono proprio: «È compiuto [Tetélestai; consummatum est]». Il fine si è definitivamente compiuto. La morte dell’uomo (o meglio, di chi partecipa alla communio) è stata vinta dalla morte del Dio-Uomo. Alla resurrezione di questi corrisponderà la transizione di quello, post mortem, alla vita eterna. Un avvenimento, questo, già realmente compiuto (ma in modo effimero, nel tempo) nel momento esatto in cui il sacerdote, durante l’Ufficio divino, prende la comunione per primo, a indicare che col corpo e il sangue di Cristo, sta alimentando anche la comunità cristiana (salvandola in tal modo dalla morte eterna, sebbene soltanto in quel mo22. Si noti che la preposizione greca en (col dativo) significa, in primis: «in, all’interno di» (cfr. Vulgata: in nobis); di modo tale che, senza forzare il testo sacro, si potrebbe vedere qui una premonizione dell’eucarestia; tuttavia, sia le versioni classiche (Lutero ad. loc.: «und wohnete unter uns»; King James Bible: «and dwelt among us») sia le moderne traduzioni (quella spagnola e italiana, per esempio) preferiscono tradurre in modo più neutro: «habitó entre nosotros» e «abitò in mezzo a noi».

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mento, che dovrà essere ripetuto a sua volta da ciascuno dei comunicanti)23. Tuttavia, questa perfetta fusione futura dell’Umanità (almeno, della communio universalis dei credenti) e del Deus-Trinitas resta pericolosa, data l’evidente vicinanza del Dio e degli uomini con l’animale: in entrambi i casi, si tratta di mangiare carne e bere sangue (non a caso le altre religioni del Libro hanno introdotto rituali particolareggiati per la preparazione del cibo, come nella preparazione kosher della carne tra gli

23. Secondo alcuni teologi del ramo evangelico del protestantesimo, non bisogna aspettare la prossimità della morte per godere di un corpo celestiale già in vita, donato da Cristo attraverso l’eucarestia. Si veda, ad esempio: C.G.H. Lentz, Geschichte der christlichen Homiletik, Oehme und Müller, Braunschweig 1839 (2. Theil), p. 62: «il pane e il vino devono essere presi dalla terra, per indicare che il santo [sacerdote], il vicario di Cristo, alimenta corporalmente tutti i credenti [alle Gläubigen leiblich speise] con la carne e il sangue di Cristo, anche quando essi sono impossibilitati a presenziare alla Cerimonia eucaristica». Dunque, i fedeli (protestanti) non ricevono il sacramento direttamente dal loro pastore, sebbene sia quest’ultimo a impartire loro la comunione, ma la ricevono da Dio attraverso il sacerdote, che funge da mero strumento. Lentz è un teologo evangelico-protestante, che in questa stessa pagina si scaglia contro «il Papa e i suoi vermi [der Papst und sein Gewürm]» perché, secondo lui, i cattolici continuano a essere troppo attaccati alla materialità delle specie del pane e del vino, così come al loro corpo di terra, invece di ricevere con la comunione un nuovo «corpo» celeste, donato da Cristo nel momento dell’ingestione eucaristica. In tal modo, questo buon pastore passa radicalmente all’altro estremo, visto che sembra credere che con l’ingestione eucarisitica, ciascun comunicante si converta in una nuova creatura, con un corpo celeste, anche se il suo «doppio» carnale continua ad essere sulla terra. «Tutti i credenti sono una nuova creatura, avendo la loro carne e il loro sangue dallo Spirito Santo e, con tale trasformazione, sono in cielo, pur essendo al tempo stesso ancora sulla terra secondo il loro esterno e vecchio essere di uomo» (ibid.). La cosa curiosa è che, nonostante tale spiritualizzazione, tale sorta di Doppelgänger celeste, si presuppone che, quando torneranno a peccare, i fedeli torneranno a essere nel mondo soltanto secondo la carne, finché non si confessino al prossimo che hanno offeso, e partecipino dunque, di nuovo, del sacramento dell’eucarestia, in una sorta di intermittenza terrena/celeste.

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ebrei e halal tra i musulmani, con il divieto nel primo caso di provare anche una sola goccia di sangue dell’animale sacrificato, e nel secondo, com’è noto, di bere alcolici24. Una chiara analogia può unire l’antropofagia e la teofagia cristiana, come testimonia il molto pio Pedro Calderón de la Barca, quando designa il comunicante col l’inaudita espressione di «cannibale di Dio»25. Anche Friedrich von Hardenberg seppe esprimere, 24. Questo sacro terrore – e fascinazione – di bere sangue (qualcosa che ci ricorda il vampirismo) è stato vigente tra i cattolici fino al Concilio Vaticano II, quando solo il sacerdote, nel rito divino, aveva la potestà di bere il vino dal calice, transustanziato nel sangue di Cristo. Il fatto è che il vino (rosso, tra l’altro) riporta più intensamente alla memoria la sua somiglianza col sangue, mentre la bianca e delicata ostia, dalla perfetta forma circolare, difficilmente può portare alla memoria del comunicante il fatto che sta mangiando carne. Per lo più, questo privilegio del sacerdote sui fedeli (una sorta di aristocrazia dello spirito… santo) fu – insieme a molte altre cose, ovviamente – denunciato anche da Lutero: «Per questo, tutti gli uomini cristiani (Christmänner) sono sacerdoti e tutte le donne sacerdotesse, i giovani come i vecchi, i signori come i servi, le signore come le fantesche, i cólti come gli incolti. Qui non c’è altra differenza che la disuguaglianza secondo la fede» (Sermon von dem hochwürdigen Sakrament [1519], in Ausgewählte Schriften [eds. K. Bornkamm - G. Ebeling], Insel, Frankfurt/M. 1995, II, 62 s.). Si noti al riguardo la vicinanza e al tempo stesso la sottile distinzione col passo preso implicitamente come riferimento da Lutero: «Non ha più importanza l’essere Ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo siete diventati un sol uomo» (Galati, 3, 28). In San Paolo come in Giovanni (17, 21-23) l’umanità tutta viene assunta nell’Uno; in Lutero, ciascun individuo credente continua ad essere ciò che egli essenzialmente è, proprio per aver assorbito Dio dentro di sé. Probabilmente per timore di un contagio, nel rituale cattolico non si è consentito fino a poco tempo fa ai fedeli di bere dal calice, così come l’ostia impartita ha una perfetta forma circolare, che ricorda le monete, ed è praticamente priva di spessore (un puro disco superficiale) e completamente bianca, affinché venga accentuato il suo carattere simbolico e si attenui di molto la sua condizione di «cosa». 25. P. Calderón de la Barca, El cordero de Isaías [L’Agnello di Isaia], in P. de Pardo y Mier (ed.), Autos sacramentales, alegoricos y historiales, Obras posthumas, M. Ruiz de Murgia, Madrid 1717, v. 215: «che nella Pasqua dell’Agnello, / e nella notte della Cena, […] l’Uomo / verme di polvere e terra, / Cannibale di Dio, lo mangi, / Cannibale di Dio, lo beva, / ricevendo in Vino,

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e con maggiore audacia, questa spiritualizzazione del cibo (o al contrario: l’assimilazione dello spirito). Secondo il poeta, il cibo presuppone una «unificazione totale. Mangiare significa godimento, appropriazione e assimilazione, o meglio: mangiare non è altro che appropriazione (Zueignung). Ogni gioia spirituale può essere pertanto espressa dal cibo». E aggiunge, non senza avvicinarsi di nuovo al cannibalismo spirituale: «Di fatto, nell’amicizia ci si alimenta del proprio amico, si vive di lui. Fare del corpo il sostituto dello spirito costituisce un tropo genuino; quando uno ricorda un amico usufruisce, con immaginazione audace e soprannaturale, della sua carne in ciascun boccone [Bissen: morso]; e in ciascun sorso, del suo sangue. Non c’è dubbio che al gusto molle [weichlichen] della nostra epoca tutto ciò sembra completamente barbaro, ma chi pensa qui alla carne cruda e corruttibile? Di per sé, l’assimilazione corporale è già sufficientemente misteriosa per offrire una bella immagine dell’assimilazione spirituale; forse che carne e sangue sono una cosa tanto ripugnante e ignobile? In verità, essi sono più dell’oro e dei diamanti; non è lontano il giorno in cui avremo un concetto più alto del corpo organico»26. Può ben essere che la profezia di Novalis si stia compiendo nel nostro tempo, sia dal lato scientifico (con i progressi della biogenetica e la possibilità addirittura della clonazione) sia da quello dell’industria dell’ozio (con la rivitalizzazione neoromantica del vampirismo, come nella saga Crepuscolo, diffusa e Pane, / la sua Carne, e il suo stesso Sangue». Con più forza e ingenuità insiste Sor Juana Inés de la Cruz, nell’auto-sacramental El divino Narciso, in cui il cannibalismo azteca in onore di Huitzilopochtli e velato sotto forma di biscotti di semi di amaranto, impastati con sangue di bambini sacrificati, deve cedere il passo alla divina Eucarestia. «La Sacra Eucarestia, / in cui ci dà lo stesso Cristo / il suo Corpo in cui transustanzia / il Pane e il Vino» (vv. 410-413; cit. nel mio La hibridación de culturas en el Divino Narciso, in W. Nitsch - B. Teuber [eds.], Zwischen dem Heiligen und dem Profanen, Fink, München 2008, p. 322). 26. Werke. Fragmente und Studien, § 97 (ed. cit., p. 408).

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in film e romanzi). In ogni modo, e dall’àmbito teologico, non c’è stato bisogno di aspettare gli ultimi anni del XVII secolo per affrontare questo pericoloso avvicinamento tra antropofagia e teofagia, a causa dell’ingestione di carne o sarkophagía27 (qualcosa che, ovviamente, ci rinvia alla morte umana, trattenuta nel sarcofago)28. Già nel Nuovo Testamento si offre un chiaro spo-

27. Il termine è utilizzato da Porfirio nel suo De abstinentia ab esu animalium libri quattuor, IV, 15, Trajecti ad Rhenum [Utrecht], Apud Abrahanum a Paddenburg 1767, p. 345. 28. Per evitare il ricordo del divoramento della carne cruda, è interessante osservare che persino le descrizioni di antropofagia presenti nei miti greci – antropofagia comunque attribuita ai barbari – implicano già un’elaborazione culinaria: Tantalo, re di Frigia o del Monte Sipilo, in Lidia, squartò il proprio figlio, Pelope, e dopo averlo cucinato offrì un banchetto agli dèi con le sue carni, ma questi si accorsero dell’inganno, e non assaggiarono neppure un boccone. Solo Demetra, distratta, mangiò la spalla sinistra di Pelope. Risuscitato e ricomposto questi dalle Moire, gli venne impiantata una spalla d’avorio (la prima protesi di cui si ha notizia!). A causa di tale delitto (e di altri, come l’aver rubato nettare e ambrosia dalla mensa degli dèi per distribuirli tra i suoi amici), Tantalo fu castigato, com’è noto, dagli dèi a rimanere nel Tartaro immerso in acqua fino al mento e con un albero pieno di frutti sul suo capo, senza poter né bere l’acqua, né mangiare i frutti. Pelope, da parte sua, generò in séguito i gemelli Tieste e Atreo, che uccisero il loro fratello Crisippo, il quale sarebbe dovuto succedere al padre Pelope sul trono di Olimpia. Il trono (sebbene non di Olimpia, ma di Micene) fu di Atreo, dopo che ebbe espulso Tieste per aver commesso adulterio con sua moglie. Quando questi tornò a Micene, Atreo finse di perdonarlo e gli offrì un banchetto, dandogli da mangiare, cucinati, i tre figli di Tieste. C’è una tragedia di Seneca al riguardo, il Thyestes, che ha ispirato Shakespeare, Voltaire, Ugo Foscolo, che scrisse una tragedia omonima. Nel 1707, P. J. Crébillon compose una tragedia dal titolo Atrée et Thyeste, citata da Edgar Allan Poe («Un dessein si funeste / S’il n’est digne d’Atrée, est digne de Thyeste») a chiusa di La lettera rubata. Un altro mito, altrettanto atroce, ma più poetico, è quello di Tereo, figlio di Ares e re di Tracia, che violentò sua cognata Filomena (o Filomela), tagliandole poi la lingua affinché non lo potesse raccontare alla sorella Procne, anche se Filomena riesce a farlo, inviando a Procne un tessuto che allude al fatto. Le due sorelle tramano vendetta: cucinano Itis, figlio di Tereo, e glielo offrono in un banchetto; dopo il pasto, le sorelle presentano la testa di Itis in un vassoio (c’è un quadro di Rubens al riguardo). Incalzate da

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stamento della carne e del sangue divino verso le più dolci e innocue specie vegetali del pane e del vino, per quanto le prime continuino ad essere realmente nelle seconde (intese queste solo come accidenti): tale è il mistero della transustanziazione. Si produce così una triplice traslazione per conversione: l’«agnello» della Pasqua (la Pesach ebrea) mangiato da Gesù e dai suoi discepoli nell’Ultima Cena (prefigurato nell’offerta di Abele, grata al Signore) si trasforma nell’«Agnello di Dio» che toglie i peccati del mondo, secondo la testimonianza di Giovanni Battista (cfr. Giovanni 1, 37); questa conversione, per metonimia (con l’agnello si mangia pane e si beve vino), permette la conversione dell’ingestione carnivora in quella vegetariana; e infine, il pane e il vino sono identificati con lo stesso Cristo: «Io sono il pane che dà la vita. Chi si avvicina a me con fede non avrà più fame; chi mette la sua fiducia in me non avrà più sete» (Giovanni 6, 35)29. Tereo, Zeus le salva trasformandole in uccelli: Procne sarà rondine: progne; Filomela usignolo: philoméla, mentre Tereo sarà trasformato in upupa, che emana cattivo odore e che Foscolo, nel carme Dei Sepolcri, trasforma in un uccello cimiteriale (e sarà «rimproverato» da Eugenio Montale, che scrive: «Upupa, ilare uccello / calunniato dai poeti») o in sparviero. Un racconto più completo del mito lo troviamo in Ovidio (Metamorfosi VI, 5; vv. 424-674). 29. Come in altre occasioni, lo spostamento rinvia a un passo dell’Antico Testamento: la vittoria di Abram sugli elamiti (salvando così Lot) è benedetta dal «re di di Salem, Melchisedek, che portò pane e vino. Egli era sacerdote del Dio Altissimo e benedisse Abram con queste parole: Dio, l’Altissimo, creatore del cielo, benedica te, Abram! E sia benedetto il Dio Altissimo, perché ti ha reso vittorioso sui tuoi nemici!» (Genesi 14, 17-20). Così Melchisedek è considerato dai cristiani come prefigurazione di Gesù Cristo (lasciando da parte, è chiaro, le risonanze belliche, a meno che il «nemico» non sia visto anche come una figura della morte). D’altro canto, è il caso di ricordare l’audace operazione di Hölderlin, il quale, nella sua elegia Brod und Wein, fa di Gesù l’ultimo semidio prima della fuga degli esseri divini e dopo i suoi precedenti fratelli Eracle e Dionisio, spostando così la Giudea in Grecia: «O vino anche egli stesso, prendendo figura d’uomo / e culminò e chiuse, consolatore, la festa celeste». L’allusione alla «figura d’uomo» rinvia direttamente a San Paolo (Filippesi 2, 7).

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6. Parola di Dio

Comunque, la cosa decisiva è che la transustanziazione del pane e del vino in carne e sangue di Cristo ha luogo unicamente in virtù delle parole pronunciate in illo tempore da Gesù e ripetute ritualmente dal sacerdote nel momento della Consacrazione. Secondo il testo della Messa tridentina: «Hoc est enim corpus meum […] hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti: mysterium fidei30, qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum». («Perché questo è il mio corpo […] questo è il mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza: mistero della fede, versato per voi e per tutti gli uomini in remissione dei peccati» [Matteo 26, 28]). Per la confessione cattolica, la transustanziazione continua a esistere anche senza l’ingestione della sacra ostia; a proposito, rispetto al tema dell’alimento spirituale è interessante notare come i luterani vedano in questa persistenza materiale post verbum un resto di paganesimo; per Lutero, questi «alimenti terrestri» si trasfor­ mano in carne e sangue divini solo se masticati (manducatio 30. Secondo la riforma del Missale Romanum di Paolo VI, nel 1969, le parole mysterium fidei devono essere pronunciate dopo e non durante la Consacrazione, il che sembra indicare un lieve spostamento del fatto della presenza reale all’enfasi nel carattere comunitario e sacrificale dell’offerta.

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spiritualis) e deglutiti, affinché lo spirito (promessa di vita) sconfigga definitivamente la natura (promessa di morte). Per il resto, persino qui la bilancia va inclinandosi progressivamente verso l’estremo soggettivista; infatti, per evitare la masticatio impiorum denunciata da Calvino e Melantone, la transustanziazione ha luogo solo per i credenti (diversamente, gli empi – tra i quali tradizionalmente si contano gli ebrei – potrebbero commettere un chiaro sacrilegio sull’ostia). Dall’equazione res/ sacramentum, il lato del segno comincia a essere preponderante, di modo tale che il momento presente viene cancellato letteralmente all’istante (nel momento della masticazione), col che per i fedeli credenti si apre di nuovo lo iato: la memoria del passato e la speranza del futuro restano separate; e se, per lo più, qualche volta si unissero memoria e speranza, entrambe sparirebbero all’istante. Al termine di tante belle elucubrazioni, ci resta solo il segno? Avranno ragione i calvinisti, quando si attengono alle parole stesse di Gesù: «fate questo in memoria di me»? (Luca 22, 19; I Corinzi 11, 24), trasformando così la res in mero signum sacramentale? Anche Hegel, da buon luterano, insisterà – e in modo netto – su questo punto (spostato sul lato della sua personale crociata contro la natura sensibile): «La presenza sensibile isolata non è nulla e neppure la consacrazione converte l’ostia in un oggetto di venerazione, in quanto l’oggetto esiste esclusivamente nella fede e così l’unificazione di Dio e la coscienza di questa unificazione del soggetto con Dio esistono nella consumazione e annullamento del sensibile. Qui sorse la grande coscienza del fatto che l’ostia, al di fuori della comunione e della fede, è una cosa comune e sensibile: l’accadimento è vero soltanto nello spirito del soggetto»31. 31. Vorlesungen über die Philosophie der Religion (ed. W. Jaeschke), F. Meiner, Hamburg 1995; 3, 261 [284 Gott]; appunti del 1831. Cfr. anche, nel Ms. del 1827: «la consacrazione si trova nella fede del soggetto» (3, 261).

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Parecchi anni prima di questa vera professio fidei luterana (enunciata nel 1831, l’anno della sua morte), nel periodo francofortese e all’interno del frammento chiamato Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798-1800), troviamo un chiaro attacco al nucleo essenziale del sacramento eucaristico; un attacco che, curiosamente, rinvia implicitamente a un certo spiritualismo platonizzante, che ha poco a che vedere con la crudezza delle credenze e dei rituali giudaico-cristiani. Così, proteggendosi in un dualismo metafisico (forse senza averne completa coscienza), il giovane Hegel denuncia: «Qualcosa di divino, proprio perché divino, non può esistere sotto forma di cibo o di bevanda. […] Ci sono sempre due elementi presenti: la fede e la cosa, la devozione e il vedere o l’assaporare; per la fede è lo spirito che è presente; per la vista e per il gusto è il pane e il vino. Tra i due elementi non ci può essere alcuna unificazione»32. Da questa prospettiva, la conclusione è tanto desolante quanto inevitabile: «Qualcosa di divino era promesso e si è disfatto in bocca»33. E non solo questo: è vero che l’ostia impartita ha una perfetta forma circolare che ricorda quella delle monete; è quasi priva di spessore (è un puro disco superficiale) ed è completamente bianca, accentuando così il suo carattere di simbolo puro e riducendo di conseguenza la sua condizione di «cosa» (nel rituale ortodosso bizantino, invece, sono gli stessi comunicanti che spezzano del pane comune, passandolo poi agli altri fedeli). Ma il problema, quando si beve il vino-sangue di Cristo è un altro: il comunicante non può evitare di chiedersi chi abbia posato le labbra sul calice prima di lui (ci si ricordi quanto detto prima sull’Infektion). Per questo nel rituale cattolico, 32. Hegels theologische Jugendschriften (ed. H. Nohl [Tübingen 1907]), Minerva, Frankfurt/M. 1966, p. 300. 33. Ivi, p. 301. Vedere in generale la sessione, definita da Nohl Das Abendmahl, pp. 297-301.

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molto probabilmente per timore del contagio, prima del Concilio Vaticano II non era consentito ai comunicanti di bere dal calice. Gli è che, come Hegel fa notare in modo crudo, bisogna fare attenzione a ricevere pane e vino, perché si rischia di contrarre qualche malattia venerea. Questo imprevedibile ma ben probabile cambio di funzione può scompigliare tutto: il sesso che infetta invece dell’alimento che rinvigorisce; l’apparato genitale-urinario che sostituisce quello digestivo; la malattia infamante invece della salvezza spirituale, o peggio ancora al tempo stesso della salvezza spirituale, dato che l’ostia o il vino, benché contaminati, ­continuano a essere carne e sangue di Cristo, purché il comunicante (soprattutto se luterano) creda che lo stesso Dio sia lì presente, secondo il mistero della transustanziazione, anche se la farina del pane sia stata, diciamo, infettata da acari (cosa niente affatto inusuale fino al secolo XIX inoltrato) o che il vino sia adulterato. Secondo la dottrina luterana, sono le sacre parole rituali che non solo «disinfettano» il pane e il vino, ma in qualche modo distruggono ogni elemento contaminante, con l’aiuto del fedele (manducatio spiritualis). È la parola e non la cosa a «salvare» il mistero eucaristico, il che non ci meraviglia affatto, dato che il «luterano» Hegel, nel primo capitolo della Fenomenologia, lo aveva «tradotto» filosoficamente, quando dice che, rispetto al sensibile e alla coscienza che se ne ha, è «il linguaggio a essere più vero». Questa sorta di messa in bella copia della totalità può ricordare a qualcuno (magari a un vecchio madrileno appassionato di zarzuela) un delizioso scherzetto comico-lirico intitolato Musica classica (1880), testo di José Estremera e musica di Ruperto Chapí. In esso, Paca, figlia di un maestro di cappella, è da questi fermamente invitata ad abbandonare la sua passione per stornelli e canzonette popolari in stile flamenco (e i suoi amori con Cucufate) per dedicarsi alla musica sacra.

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Saggio consiglio, cui la soprano risponde: «Avete ragione, non lo posso negare; ma tutto questo mi sembra musica celestiale34». Così potrebbero dire molti – appassionati o meno di zarzuela – rispetto a quanto detto prima, condannato e ridicolizzato, in un certo senso, dal giovane Hegel, quand’era ancora un enfant terrible. Infatti, a che pro tutta questa «musica celestiale», se, tranne qualche isolata notizia truculenta (per non dire succulenta) su qualche caso di cannibalismo raffinato (che forse prendeva troppo alla lettera il buon Novalis) e tralasciando Il silenzio degli agnelli e le sue conseguenze, a ben pochi sembra interessare, di questi tempi, il cannibalismo (spirituale o meno), per non parlare delle sottili dispute ideologiche sull’eucarestia? Inoltre, e soprattutto: che cosa c’entra quanto finora esposto con l’alimento spirituale nell’èra tecnologica?

34. [L’espressione «música celestial», in spagnolo, si usa anche in senso ironico, al fine di indicare qualcosa di antiquato e lontano dallo spirito del tempo; può usarsi altresì, in casi più estremi, per smascherare un discorso alato, troppo alato, talmente alato da essere in odore di inganno, di mistificazione].

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7. Dalla comunione alla comunicazione

Dalla domanda retorica si intuisce che c’entra eccome, ma procediamo per gradi. Forniamo una prima anticipazione: il raffronto tra lo Hegel del 1798 (contro l’eucarestia) e quello del 1831 (a suo favore) hanno tuttavia un essenziale punto in comune: dal soggetto, dalla sua fede e dalla sua coscienza dipende in ultima istanza che quanto ingerito e bevuto sia o no un segno evanescente della presenza reale di Dio (ma come Spirito) nell’uomo (ma come spirito). La «cosa» (il pane e il vino, ma anche la carne e il sangue divini: la materia coelestis)35 viene degradata a mero veicolo connettivo che si 35. Per la chiesa evangelica protestante, sarebbe l’esistenza della materia celestiale nel sacramento eucaristico quel che differenzierebbe in modo particolare la loro dottrina da quella cattolica (con la sua credenza nella transustanziazione come presenza reale di Cristo nel sacramento) o da quella calvinista (che vedeva nell’eucarestia una mera rammemorazione simbolica). Così argomentava Sebastian Schmidt, Professore di Teologia all’Università di Strasburgo: «che ci sia una materia celestiale [materia coelestis] non è ovviamente qualcosa di ozioso, perché è essa che rende efficaci le opere relative alla giustificazione e alla grazia, così come si parla di questo Sacramento nel Nuovo Testamento, e sebbene neanche i Pontefici neghino che la pasqua sia immagine di Cristo [typum Christi], tuttavia non possono concedere che abbia materia celeste. Neppure i Calvinisti, quando scrivono sulla

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dissolve senza lasciar tracce dopo aver adempiuto il proprio cómpito (ricordiamoci: l’ostia «si disfa in bocca»). Non resta che la funzionalità della trasmissione. Ovviamente, Hegel non può accettare la festività del Corpus Christi, dal momento che, secondo la professio fidei luterana, ciò che è veramente efficace qui sono le parole sacrificali, che precedono la comunione propriamente detta. La relazione abituale tra linguaggio (o pensiero) e realtà, tra il segno e la cosa, si vede così interamente rovesciata. La (presunta) realtà è un mero segno, attraverso la cui distruzione il Cristo, questo Lógos fattosi carne, torna in sé ma per «noi» (il «noi» si riferisce ai luterani, ovviamente), e questo solo se confidiamo nella Parola: lo Spirito è per lo spirito. La comunione individuale diventa così comunicazione collettiva, basata sulla fede in Dio e nell’abnegato sacrificio di Cristo, ricevendo così i fedeli il dono divino dalle mani pure del sacerdote (che infatti se le lava prima della Consacrazione). Un Pasqua, fanno la minima menzione a tale materia celeste. […] Noi, invece, affermiamo che nel mistero pasquale deve esserci una certa materia celeste. E lo proviamo attraverso i suoi Effetti, quali la preterizione o remissione dei peccati tramite la grazia divina; ora, la giustificazione di questo effetto non può darsi laddove non ci sia materia celeste. […] E pertanto comandò anche agli apostoli che, ogni volta che si mangia del pane benedetto e si beve del vino benedetto, si annuncia con ciò la morte di Cristo. Così, dunque, anche nel Sacramento pasquale la materia celeste fu il corpo di Cristo [Sic ergò in Sacramento quoque paschali materia coelestis fuit corpus Christi]» (Tractatus de Paschate, altero Veteris Testamenti Sacramento: In cuius prima Parte, Tum Verba divinae institutionis, tum alia Scripturae loca expenduntur, Pars III, Cap. IV, De Materia Paschatis, D. Zunner, Frankfurt/M. 1685, pp. 344-345). Punto fondamentale della dottrina evangelica è anche che il sacrificio pasquale è esclusivo di Gesù Cristo, non del Padre, né dello Spirito Santo: «Dunque, soltanto Cristo, e non Dio Padre, né lo Spirito Santo, fu materia celeste del Sacramento pasquale [solus Christus, non Deus Pater, nec Spiritus Sanctus, fuit materia coelestis Sacramentum paschalis]. A ciò corrisponde Apoc. XIII, v. 8, dove Cristo viene denominato, dall’inizio del mondo, agnello immolato [mundi occisus]» (ivi, p. 345).

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dono interamente gratuito (ci si ricordi delle parole del Requiem: qui salvandos salvas gratis), del quale lui, pertanto, è debitore. Un dono, inoltre, condiviso dal fedele con tutti quelli che – anche nel rito cattolico –, uniti nella presenza o nell’ingestione comune del sacramento, si daranno poi mutuamente la pace, significando così che tutti insieme i partecipanti all’Ufficio divino, sono debitori del Signore e confidano nella parola e rettitudine del suo vicario. E inoltre, posto che per la loro salvezza tutti dipendono dal credere in questo debito comune e dalla fiducia in chi l’amministra, confermano stringendosi le mani o persino abbracciandosi la loro buona disposizione a perdonarsi reciprocamente i debiti contratti. Posto che hanno saputo mangiare bene, tutti essi comunicano allora il Bene e si dànno lealmente la pace gli uni con gli altri. La pace: questa tranquillitas animi di cui parla Sant’Agostino, e che adesso viene promulgata, comunicata, proprio nel momento di uscire dal tempio (Ite, missa est) rientrando nel mondo e nel secolo. In base a ciò, e per quanto visto finora, forse sarà il caso di soffermarsi su questa triplice conversione: dal pasto alla comunione, e da quest’ultima alla comunicazione. La prima potrebbe accadere in modo individuale. La seconda implica un atto di fede collettivo, ma istituito verticalmente in nome di Dio e alla presenza del sacerdote. La terza, infine, è comunitaria, e presuppone un gesto reciproco di solidarietà orizzontale, sebbene esso tragga impulso dalle parole, cordialmente imperative, del sacerdote: «Scambiatevi un segno di pace». Così, la degustazione sensibile dell’alimento, per provarne il valore nutritivo (e fondamentalmente, dell’animale sacrificato) si converte nella fiducia spirituale e nell’efficacia performativa della parola rituale del sacerdote, il quale consacra per prima cosa il pane e il vino, li assaggia, e solo dopo li somministra collettivamente ai fedeli; e questa fiducia si trasforma infine nell’affidabilità reciproca, sociale, che si promettono gli uni con gli altri alla fine dell’ufficio divino. L’animale umano

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è diventato comunità spirituale attraverso il sacrificio di Dio. Per il resto, ricordiamoci che secondo Aristotele solo l’animale o il dio potevano essere veri individui, ma non avrebbe mai potuto immaginare che la trasformazione del primo in zôon politikón sarebbe stata dovuta all’offerta gratuita e redentrice del secondo, rinnovando più e più volte la sua morte per trasformare la condizione animale dell’uomo in costituzione sociale e comunitaria.

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8. «Confidiamo in Dio», recita una banconota

Ora, dopo tutte le indicazioni precedenti (pregne di allusioni analogiche, come si sarà senz’altro notato) forse non risulterà troppo strano equiparare la dichiarazione luterana di Hegel («la consacrazione si trova nella fede del soggetto») con un’altra proposizione ugualmente immateriale, e decisamente più famosa, la quale recita così: In God we trust; una solenne dichiarazione di fede, stampata sul retro della banconota da un dollaro, emessa dal Ministero del Tesoro degli Stati Uniti d’America.

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In perfetta combinazione o adaequatio geometrico-simbolica tra la forma economica del rettangolo (proveniente dalle lettere di cambio in uso nelle città libere italiane del Rinascimento) e l’antica forma circolare sacra, sul medaglione a sinistra viene riprodotto il Gran Sigillo degli Stati Uniti, incentrato su una piramide (congiunzione ideale dell’impero egizio, dell’ascesa cabalistico-cristiana alla divinità e della scala massonica del sapere). Se la piramide culminasse in un solo Potere, essa rappresenterebbe la massima stabilità e sarebbe il simbolo dello Stato più solido del pianeta. Invece, la piramide è spezzata (un monito che ricorda la vicenda della Torre di Babele?), il che può significare sia il proposito di incrementare in futuro i propri tredici livelli (il numero degli Stati membri, che si ripete in tutti gli altri emblemi e frasi del Sigillo) sia il riconoscimento (esplicito, in questo caso) che al di sopra del potere umano c’è il potere divino, rappresentato sulla cuspide dall’occhio di Dio (e al tempo stesso, probabilmente, di Horus36!), del quale si dice: Annuit Coeptis («Ha favorito le nostre imprese»): una dichiarazione che conferisce senso al già citato motto centrale, in una sorta di do ut des, come se si volesse intendere: «Se confidiamo in Dio è perché ha approvato le nostre imprese». Questa corrispondenza tra i due poteri viene corroborata dalla spiegazione offerta al riguardo da Charles Thomson, uno dei Padri Fondatori (Founding Fathers), già professore di latino, che disegnò il Sigillo nel 178237. Nel novembre di quello stesso anno vennero firmati gli accordi provvisori di pace tra il Regno 36. Secondo S. Mayassis «l’occhio di Horus simboleggia la luce dell’anima che trae origine da quella del sole, coesistendovi, è da essa emanata, confusa con la sua stessa luce […]. Gli occhi di Horus hanno creato gli uomini e le cose» (Il libro dei morti dell’Antico Egitto [Atene 1955], cit. in El libro egipcio de los muertos, tr. spagnola e note di A. Champdor, EDAF, Madrid 1982, p. 117). 37. Journal of the Continental Congress, June 1782, p. 339: «La Piramide significa forza e durata [strength and duration]. L’occhio su di essa e il motto

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Unito e la ex colonia americana, che porteranno l’anno dopo alla firma del Trattato di Parigi (i testi che Thomson proporrà al riguardo istituiscono in modo premonitorio un parallelismo con la pace romana di Brindisi)38. Sul primo livello della piramide è inserita la data, in numeri romani, dell’indipendenza (1776) e sotto di essa c’è un’iscrizione, che può essere interpretata come una sorta di riconversione dal piano religioso a quello umano e politico (un ritorno ad fontes che avrebbe ovviamente compiaciuto Dante, che nel suo De monarchia si alludono agli interventi [the many signal interpretation] della provvidenza a favore della causa Americana». 38. Il Trattato di Parigi (3 settembre 1783), redatto in francese, significa de iure la nascita degli Stati Uniti come Nazione indipendente, e de facto la convinzione, da parte della Gran Bretagna che sarebbe stato meglio firmare la pace con le tredici colonie (e riannodare immediatamente il commercio con esse) piuttosto che continuare una guerra dall’esito incerto, dopo la battaglia di Yorkshire. L’articolo uno segnala: «Sua Maestà Britannica riconosce i cosiddetti Stati Uniti […] come Stati indipendenti, liberi e sovrani, che tratterà come tali, impegnandosi a rinunciare, anche a nome dei propri eredi e successori, a ogni pretesa di governo, alla proprietà e ai diritti territoriali su tali Stati e su qualsiasi territorio dei suddetti» (http://www.axl.cefan.ulaval. ca/amnord/USA-traite-Paris1783). Da parte sua la Pace di Brindisi venne firmata a Brundisium, nel 40 a.C., fra i tre triumviri Caio Giulio Cesare Ottaviano (il futuro Cesare-Augusto), Marco Antonio e Marco Emilio Lepido (entrambi, ex luogotenenti di Giulio Cesare). Diversamente dal Trattato di Parigi, la pace non durò molto. Dopo l’auto-esilio di Lepido, la cosiddetta «guerra egizia», e soprattutto dopo la sconfitta di Marco Antonio ad Anzio (31 a.C.), Ottaviano, come console, ebbe il controllo completo della Repubblica (Principato: 27 a.C.), per proclamarsi in séguito Imperator Caesar divi filius Augustus e ottenere il titolo di pater patriae nell’anno 2 a.C. Ovviamente, a Thomson (e a Jefferson) interessava mostrare al mondo in che cosa i nascenti Stati Uniti potessero trasformarsi, pur rimanendo una repubblica, in ciò che Giove aveva promesso ai romani, secondo l’Eneide di Virgilio: «A costoro non limiti di spazio io metterò / non limiti di tempo; l’impero che lor diedi è senza fine [His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi]» (I, vv. 278-279). Vedi infra, nota 40. I versi virgiliani riportati si possono leggere su un frammento di lapide, custodito a Roma, presso l’Oratorio dell’Arciconfraternita Lateranense del Santissimo Sacramento al Laterano.

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era eretto a sfegatato difensore del potere dell’Impero contro il Papato)39.

39. Contro le interpretazioni alquanto deliranti della Egloga IV segnalate nella seguente nota, Dante decifra diversamente (in maniera non del tutto esatta, ma certamente meno fantasiosa) il senso dei famosi versi magnus ab integro saeclorum nascitur ordo; / iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna. Così, e non senza approfittare pro domo del suo Virgilio, dichiara: «Il mondo è ordinato nel modo più perfetto quando in esso domina sovrana la giustizia; è per questo che Virgilio, volendo celebrare la nuova età, che sembrava stesse per sorgere ai suoi tempi, cantava nelle sue Bucoliche: Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno. Vergine, infatti, era detta la giustizia, che veniva pure chiamata Astrea e regni di Saturno erano chiamati i tempi felicissimi, denominati anche età dell’oro» [De Monarchia, I, XI; tr. it. di Pio Gaja, Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, Utet, Torino 1986]. Certamente Astrea (equiparata a Diké, la dea greca della giustizia) fu l’ultima a convivere con gli umani nell’età dell’oro, così è naturale che Dante associ il tema della giustizia a quello del ritorno dell’età dell’oro, uno dei temi preferiti dell’ormai vicino Rinascimento. Come si vede nella nota seguente, l’allusione di Virgilio a Virgo era molto probabilmente più astrologica (si tratterebbe del segno zodiacale) che mito-politica. Ciò però non esclude che Virgilio stesse suggerendo anche una connessione tra il tempo nuovo e l’istituzione di una Giustizia universale (la Pax Augusti). Comunque sia, Dante si serve dell’allegoria mitologica per sostenere la propria tesi sul Monarca o Imperatore unico e assoluto. Infatti, il passo si chiude così: «Solo il monarca può trovarsi nella migliore disposizione per governare e quindi solo lui può creare simili disposizioni negli altri principi. Ne consegue che la Monarchia è necessaria per una perfetta organizzazione del mondo» [ivi, I, XIII]. A proposito, frasi del genere, che abbondano nel trattato, hanno consentito di estrapolare le tesi di Dante, applicandole alla situazione attuale degli Stati Uniti come presunto «Impero democratico», di modo tale che le stesse righe sono state utilizzate per appoggiare tesi diametralmente opposte. Per la versione «imperiale» (o almeno «universale»), si veda: J.J. Reilly, Dante’s World Government: De Monarchia in the 21st Century (2007): «Solo alla fine del XX secolo abbiamo visto che si torna a insistere sulla necessità che, in un certo modo, debba esistere una legge universale; e ciò che è più rilevante, abbiamo visto che ritorna la volontà di agire come se una tale legge esistesse. Questo è vero sia per l’establishment neo-conservatore degli Stati Uniti sia per coloro i quali propongono una Corte Internazionale di Giustizia» (http://www.johnreilly.info/index). Come si piò vedere, sembra

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Il fatto è che la celebre sentenza Novus ordo seculorum, proveniente dall’Egloga IV di Virgilio, è stata reiteratamente interpretata da pii autori cristiani in modo assai fantasioso, come se quei versi delle Bucoliche annunciassero con assoluta evidenza l’Avvento della nuova èra, con la nascita prossima di Gesù Cristo40.

ritornare il conflitto secolare tra Impero e Papato, incentrato sull’interpretazione politica o religiosa dei versi di Virgilio, e, in generale, sulla necessità di una coesistenza più o meno pacifica tra sacramenti, economia e tecnologia. 40. Il passo virgiliano recita così: «Ultima Cumaei venit iam carminis aetas; / magnus ab integro saeclorum nascitur ordo; / iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies caelo demittitur alto. /Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet ac toto surget gens aurea mundo, / casta fave Lucina: tuus iam regnat Apollo» (Bucolica: Egloga IV). [«È giunta l’ultima età dell’oracolo cumano: / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già torna la Vergine e torna il regno di Saturno, / già la novella prole discende dall’alto del cielo. / Tu, casta Lucina, proteggi il bambino nascituro / con cui cesserà la generazione del ferro e in tutto il mondo / sorgerà quella dell’oro: già regna il tuo Apollo»; tr. it. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 2012]. L’Egloga è diretta al console Asinio Pollione, e celebra un suo figlio che sta per nascere. Il contesto neo-pitagorico e neo-stoico del poema è evidente. Il nuovo ordine dei tempi rinvia al ciclo cosmico delle Opere e i Giorni di Esiodo. Virgo è la costellazione omonima, in congiunzione con Saturno (in Grecia: Kronos, che presiedette la prima età dell’oro, cantata da Don Chisciotte ai pastori: «Lieta età e secoli felici quelli…»). Corrisponde al 5 ottobre del 40 a.C., in cui venne firmata la Pace di Brindisi fra i triumviri Ottaviano, Marco Antonio e Lepido. Lucina è uno dei nomi di Diana, la casta dea protettrice dei parti, sorella di Apollo. Tuttavia, un umanista tanto preclaro come Juan Luis Vives (In Publii Vergelii Maronis Bucolica interpretatio, potissimus allegorica, del 1548) non ebbe alcun impaccio a interpretare il passo alla maniera divina, nonostante abbia dato conto di Pollione (e d’altra parte non aveva scelta, posto che si tratta del titolo dell’egloga) e delle sue imprese, così come era a conoscenza del fatto che Virgilio, sapendo che la moglie di Pollione era incinta «accomodò il vaticinio al nascituro». Però, dato che il bambino morì dopo pochi anni, e Pollione ne ebbe un altro, che fu l’erede della famiglia, Vives (dopo un punto, e utilizzando in modo sorprendente una congiunzione consecutiva) interpreta così il senso della poesia: «Tutti questi versi, pertanto, si riferiscono a Cristo, e a partire da lui

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Sul medaglione di destra si mostra invece il lato pagano, romano, della forza: l’aquila di Giove (anche se gli zelanti custodi dei simboli insistono che si tratti di una specie esclusiva dell’America del Nord: l’haliaeetus leucocephalus, l’«aquila calva») i cui artigli reggono rispettivamente un ramo d’olivo, con 13 olive, e altrettante frecce. In tal modo, gli Stati Uniti dichiarano di aver unificato dialetticamente (dopotutto il loro motto dice: E pluribus unum!) il vecchio adagio latino pax et bellum maxime contrariae inter se sunt. La facciata della famosa banconota, da parte sua, dà fede di sé stessa dichiarando (in quanto Federal Reserve Note): This note is legal tender for all debts, public and private («Questa banconota è moneta legale per tutti i debiti, pubblici e privati»). Tuttavia, nonostante questa mera funzionalità, la banconota conserva ancora – come il cibo eucaristico – un certo ancoraggio a una realtà trasformata in segno (ossia, in segno di autenticità e di fiducia): nel centro appare il vólto di un padre della patria morto, ma presente in effigie, come un revenant o fantasma protettore; in questo caso, si tratta dell’immagine di George Washington (su altri bills, di Abraham Lincoln o di li interpreteremo, rivendicando che a lui appartengono perché sono suoi. Tacciano gli empi, posto che persino nel semplice senso delle parole, senza alcuna allegoria, è chiaro che d’altri non si parla se non di Cristo». Nell’eccellente studio di J.E. Corrales prima citato, si raccolgono anche le parole con cui Miguel Antonio Caro (1843-1909) apre l’Introduzione alla sua traduzione dell’Egloga: «In commemorazione del Natale, che la Chiesa celebra il 25 dicembre, la Voz del Catolicismo ha avuto la bella idea di richiamare l’attenzione dei lettori alla Egloga IV di Virgilio, nella quale è racchiuso un vaticinio misterioso che conviene all’Avvento del nostro Divino Redentore; giorno tanto sospirato e tante volte annunciato dai profeti, quanto venerato dai secoli che da allora misurano il tempo della rigenerata umanità» («La Voz de la Patria», numeri 18 e 20 del 23 gennaio e del 6 febbraio del 1865, Bogotà; cit. da J.E. Corrales nella sua Introduzione, p. 69, nota 1; nella nota 2 rinvia anche a P. Courcelle, Les exégèse chrétiennes de la quatrième Églogue, in «Revue des Études Anciennes», LIX, 3-4 [1957], pp. 294-319).

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Benjamin Franklin). Alla sinistra di questa icona, garanzia di verità, la legal tender viene garantita dalla firma del vicario di Stato: nel caso specifico, Anna Escobedo Cabral, Treasures of the United States.

Mere coincidenze, si dirà41. Ed è vero. O meglio, diciamo che tutto confluisce in una vera co-incidenza, in un incidere o andare a cadere congiuntamente nella comunione di una stessa struttura (onto)logica. Una comunione, in fondo, come vedremo, autoreferenziale. Infatti, sulle vecchie banconote spagnole c’era scritto, per esempio: «La Banca di Spagna pagherà al portatore la quantità di cento pesetas». (Questo fino al 1976, quando il modello di riferimento era l’oro). E sulle vecchie banconote italiane c’era una dicitura simile, come se si trattasse di un contratto.

41. O qualcosa di peggio: si cercheranno in questi simboli oscure e persino sinistre allegorie su poteri occulti; basta fare un giretto su Google per rendersene conto.

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«Pagabili a vista al portatore». Questo voleva dire che le rispettive banche nazionali fungevano da mediatrici tra il detentore (tender) di questo letterale pagherò e la «cosa reale» (l’oro o qualsiasi altra cosa preziosa che serviva da modello a partire dal quale comparare le diverse merci o prodotti). Ora tale promessa è sparita, sia dal dollaro sia dall’euro. Adesso, questi legal tenders non hanno nulla dietro di sé che garantisca la loro validità, a eccezione della capacità di conversione in altre monete. La restituzione si trasforma in rotazione, come si vedrà più avanti. Ma, prima di far ciò, ricordiamo che quanto è stato esposto finora sul sacramento eucaristico, sfociava nella seguente tripletta, ben lavorata: 1) Ciò che è sensibilmente presente è una cialda di pane azzimo e un po’ di vino. 2) Questi alimenti si trasformano in corpo e sangue di Cristo solo se e quando si ripetono ritualmente le parole sacre pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena. 3) Per i luterani la transustanziazione si dà solo nel momento in cui si ascolta la Parola e a seguire si deglutiscono queste specie; e la cosa più importante è che quanto detto ha senso solo per chi ci crede (può un empio ricevere impunemente la comunione?). Analizziamo questi punti. 1) Contrariamente alla carne e al sangue (che siano di un uomo o di un agnello) che possono essere consumati impunemente crudi (o al massimo cotti in un modo tale da non perdere del tutto il loro aspetto, forma e tessitura), il pane e il vino sono prodotti elaborati che implicano un determinato lavoro, che hanno bisogno di processi termo-chimici o di fermentazione per poter essere riconosciuti come commestibili o potabili, e il cui valore d’uso viene comunemente sovradeterminato dal loro valore di scambio. Per questo, può ben

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a­ vere ragione L ­ evinas quando, contro la concezione «tecnica» del mondo nello Heidegger di Essere e tempo, afferma che «prima di essere un sistema di utensili, il mondo è un insieme di alimenti»42. Solo che avrebbe dovuto aggiungere «vale a dire, di alimenti che bisogna fabbricare, e che costano denaro, sia per la loro elaborazione sia da parte del consumatore». Tuttavia, si dirà – giustamente – che almeno nel Cristianesimo tutto ciò ha nel sacramento dell’Eucarestia la sua condizione di possibilità, giacché è qui dove res et sacramentum («essere» e «segno», «cosa» e «valore») coincidono senza lasciar alcun resto, soprattutto nella concezione luterana. Da qui che nella preghiera del Padre nostro, a cui in séguito mi riferirò, si chiede al Padre di darci «il pane quotidiano», unendo così armonicamente il cielo e la terra, i due àmbiti in cui il suo nome è glorificato. Concediamoglielo. Ma questo ci porta però al secondo punto. 2) Può ben essere che il Lógos o Verbum si sia fatto carne, ma se quel che si vuole è che nel mysterium fidei della Consacrazione, l’alimento sensibile (il pane e il vino come materia terrestris) sia transustanziato oppure sublimato in materia ­coelestis, tornando così a essere ciò che già era (ossia: tornando al suo essere essenziale), è necessario che il sacerdote (e non altri che lui, tranne che in casi estremi) ripeta le parole (verba) del Maestro nella Cena, di modo tale che, una volta di più, e come essa era già in un principio, la carne terrena è carne celestiale unicamente in virtù del Verbum (che è inoltre origine e compendio di ogni parola); quelle parole vengono però raccolte, custodite e pronunciate dal vicario di Dio nel secolo, anzi, per il luterano, con la manducatio sparisce per così dire la materia terrestris, e la carne spirituale del Signo-

42. E. Levinas, Le temps et l’autre, Puf, Paris 2014, p. 45 [tr. it., Il Tempo e l’Altro, a cura di F.P. Ciglia, il melangolo, Genova 2010, p. 31].

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re si fonde all’istante con l’anima carnalis del comunicante, come direbbe Tertulliano43. Giusto. Ma questo ci porta all’ultimo punto. 3) In effetti, quanto detto prima è valido solo per quanti credono, non per atei ed empi. Per esempio, non lo sarebbe per Leopold Bloom, quando, descrivendo le donne inginocchiate davanti all’altare nell’atto di ricevere la comunione, dice: «Il prete le passava in rassegna, mormorando, col suo affare in mano […]. Chiudi gli occhi e apri la bocca. Che? Corpus. Corpo. Cadavere. Buona idea il latino. Prima le stupisci. Ospizio per malati terminali. Non sembrano masticarlo: si limitano a inghiottire. Idea bizzarra: mangiare pezzetti di cadavere; il motivo per cui i cannibali ne sono attratti»44. A Bloom, di origine ebrea, l’ostia ricorda i mazzot della Pasqua ebraica, il Pesach. E d’altra parte riconosce che c’è «una grande idea dietro, ti senti come col regno di Dio dentro di te»45. Dentro di te. Non, ovviamente, nel corpo (si sa che il «Regno» non è di questo mondo), bensì nell’anima.

43. Tertulliano concede che nell’uomo ci sia una anima carnalis, soggetta alle passioni, mentre in Gesù anima (divina) e carne (celeste) sono sostanze separate, potendo per questo l’Eucarestia liberare l’anima del fedele della sua parte carnale. Si veda: Tertullian’s Treatise on the Incarnation (ed. E. Evans), SPCK, London 1956 (Q. Septimii Florentis Tertulliani De carne Christi Liber IV, 22-24): «[Cristo] amò quindi, con l’uomo, anche il fatto di nascere, anche la carne di questi; nulla può essere amato senza quello per cui questo è ciò che è. […] Mi volgo adesso a questi altri che pure si considerano prudenti, e che affermano che nella carne di Cristo entra l’anima perché l’anima si è fatta carne [cfr. Giovanni 1, 14; F. D.]; e pertanto, così come nella carne c’è l’anima, così anche l’anima è carnale (et sicut caro animalis ita et anima carnalis)». Si veda anche XIII, passim. (http://www. tertullian.org/articles/evans_carn/evans_carn_03latin.htm). 44. J. Joyce, Ulisse, tr. it. di E. Terinoni e C. Bigazzi, Newton Compton, Roma 2012, p. 104. 45. Ivi, p. 105.

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Che cosa può significare questo, se non che la communio spiritualis costituisce il tutto della relazione di Dio col credente, e al tempo stesso il terminus medius, la relazione stessa che riferisce un estremo all’altro? Il lettore della Fenomenologia dello spirito, di Hegel, forse si sarà ricordato delle parole con cui si apre la sezione dedicata alla «ragione osservativa»: «Questa coscienza alla quale l’essere [Sein] ha il significato del suo [des Seinen], noi la vediamo bensì di nuovo abbassarsi all’opinione e alla percezione, ma non nel senso ch’essa si abbassi alla certezza di un Altro puro e semplice, anzi nel senso che essa ha la certezza di essere, essa stessa, questo medesimo Altro»46. Non è più soltanto (come nel caso della «verità della certezza di sé stesso», nel cap. IV) che l’oggetto e il suo essere siano lo stesso per un altro (ossia, per l’autocoscienza, che si considera diversa da quello in e per il quale essa riconosce sé stessa), bensì che qui, e con maggior ragione di prima, «il contenuto del rapporto [Beziehung], nonché il rapportatore medesimo [das Beziehen]»47 sono esperiti come una e medesima cosa. Applichiamo ora questa concezione al nostro tema: nell’eucarestia, l’essere (la carne e il sangue di Dio) e la coscienza (il credente) coincidono, ma sempre a patto che il credente confidi assolutamente in questa coincidenza, cioè che la veda come un medium centrale funzionale che, al tempo stesso, costituisce l’intera relazione. D’altra parte, questa fiducia, mediante la quale l’essere risulta per così dire assorbito dal senso (esattamente come il credente ingoia l’ostia) serve da custodia e garanzia (in termini kantiani, serve da condizione di possibilità) del fatto che tutto quanto si consuma all’interno di questa

46. Phänomenologie des Geistes, V. A., Meiner, Düsseldorf-Hamburg 1980; G. W. 9:137 [Fenomenologia dello spirito, vol. I, tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 202]. 47. Ivi, IV (ad init.); 9: 103 [tr. it. cit., p. 144].

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condizione servirà vicariamente per il sostegno sia del corpo sia dello spirito. Forse si è osservato già che, attraverso l’irruzione della concezione hegeliana sul doppio riferimento dell’essere alla coscienza (come la verità oggettiva) e della coscienza all’essere (come la certezza soggettiva) ci siamo spostati da un piano teologico (anche se sarebbe meglio chiamarlo teandrico) a un altro che ben potremmo denominare onto-semiologico. La struttura è la stessa: l’essere ha il senso di essere per la coscienza, ma non come qualcosa di diverso da essa, ma come essendo essa stessa; ma ciò, se e solo se, aprendosi all’essere che lo costituisce, lo riceve a sua volta come proprio: intimior intimo meo. L’immaginario cristiano del sacramento eucaristico viene depurato dal filtro filosofico. Solo che prima abbiamo osato una traslazione più azzardata, che per le anime pie potrebbe sfiorare persino la blasfemia: quella del soppiantamento (invero mai realizzato completamente) del sacramento eucaristico (vincolo e link tra questo mondo e il Regno dei Cieli) e la diffusione planetaria del denaro (soprattutto nella sua forma di carta moneta) come mezzo assoluto di comunicazione in questo unico mondo48. Da un lato, è vero che nei testi biblici – a partire dai quali si consolida la funzione del sacramento dell’Eucarestia – si istituisce una stretta correlazione tra l’essere (la presenza reale della carne e del sangue di Cristo) e il senso (la effettualità delle parole rituali) attraverso il significante (le specie di pane e vino). Possiamo plasmare facilmente questa corrispondenza nel sillogismo senso – significante – essere, laddove il significante funge da termine medio, il quale, in quanto tale, sparisce nella

48. È all’inizio dell’Età Moderna, come segnala Niklas Luhmann, che il «denaro sembra sul punto di trasformarsi in medium assoluto» (Die Gesellschaft der Gesellschaft, Surkhamp, Frankfurt/M. 1997, p. 723).

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conclusione. Dunque: «Il senso spirituale (le parole) è l’essere spirituale (la materia coelestis): la carne e il sangue divini)». Solo che questo si ottiene a costo della degradazione del significante mondano e, in fondo, della sparizione completa di ogni significante, ossia, del mondo, come già profetizzato dal Cristo: «Il cielo e la terra passeranno, ma non le mie parole» (Matteo 24, 35).

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Parte seconda Quando il cibo si può definire come un «quadro di lontananza»

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9. Credente, debitore e soggetto

Tuttavia, a partire dalla Riforma protestante (che non a caso coincide con l’incipiente istituzione del capitalismo, attraverso la banca e il conseguente flusso monetario), a causa della competizione tra confessioni cristiane, e ovviamente dell’irruzione della scienza moderna e dei cosiddetti libero-pensatori, entra in scena il soggetto debitore, quello per il quale il donante offre un credito, nel quale tuttavia continua a palesarsi di nuovo l’equazione essere = senso, a garanzia di corrispondenza e adeguamento tra la cosa e il pensare, ossia: garanzia della verità1. Solo che, in tal modo, il credere soprannaturale e il credito mondano, il credente fedele e il debitore di denaro vanno lentamente sovrapponendosi e si sfumano i limiti dei loro rispettivi àmbiti. Anzi, il credente-debitore può ben rifiutarsi di riconoscere questo debito (come nella manducatio impiorum, la cui controfigura laica sarebbe il moroso), o addirittura rifiutare il dono che gli viene offerto gratuitamente (a patto, però di cambiare la propria vita)2 o il credito che gli 1. Giovanni 14, 6: «Io sono la via, io sono la verità e la vita». 2. Così accade nel bellissimo sonetto XVIII delle Rime sacre (1641: si noti la data) di Lope de Vega. In esso, l’anima del poeta (o dell’«io» lirico) si pente tardivamente di non aver voluto aprire la porta al Salvatore (in ­trasparente

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offre il creditore (in spagnolo acreedor, dal latino accredo: fare credito, a sua volta derivato, non a caso, da credere), in quanto si ritiene un soggetto autonomo, senza necessità che alcuno gli garantisca un adeguamento tra ciò che pensa e fa e la risposta che gli dà il mondo. Dopotutto, non è stato Kant a fissare la funzione mediatrice del soggetto trascendentale come «Io penso [Ich denke]», il quale «deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni»3? È vero che si tratta di un soggetto vuoto, di una mera coscienza che accompagna tutti i concetti, come una «x» puramente funzionale4. Ma anche il denaro è un mezzo privo di realtà propria, che riesce a ottenere vicariamente attraverso due schemi (ossia: regole di costruzione di immagini che salvano lo iato tra l’essere e il senso, o – in termini kantiani – tra l’intuizione e il concetto). E anche qui l’idealismo filosofico ci serve da guida e modello: in Kant, l’«io» produce il tempo (e si produce nel tempo) «nell’apprensione dell’intuizione», vale a dire captando successivamente le rappresentazioni: lo schema corrispondente è il numero5. Analo-

allusione al sacramento eucaristico). La domanda con cui si apre il sonetto, sebbene retorica, è molto pertinente: «Che cosa ho io, che la mia amicizia cerchi? / Quale interesse persegui, o Gesù mio?». Il fatto è che osare offrire una risposta a tale «interesse» potrebbe diventare qualcosa di inquietante, se non scandaloso; infatti, è plausibile che l’interesse di Gesù Cristo a salvare l’anima dalla morte eterna si debba al fatto che se tutti gli uomini, o la maggior parte di essi, si rifiutassero di aprirgli la porta, la sua missione nel mondo non si sarebbe compiuta e dunque l’Incarnazione sarebbe accaduta invano e Gesù sarebbe stato crocifisso per nulla, e senza vantaggio per alcuno. Il che sminuirebbe il Figlio di Dio, almeno relativamente alla sua capacità di seduzione e di captazione di adepti. Si veda il mio saggio Il poeta che dava del tu a Dio, in «Anterem», 79 (dicembre 2009). 3. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 131. Sono le prime parole del fondamentale § 16 (Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione) della Deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto. 4. Cfr. KrV, A 346/B 404. 5. Cfr. KrV, A 143/B 182.

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gamente, il denaro produce il tempo (la sua immagine prima è, come abbiamo visto, il pagherò: la promessa della restituzione futura) e si produce nel tempo, fissando la quantità in generale come quantum determinato, posto che anche qui il numero è «una rappresentazione che comprende la successiva addizione di uno ad uno (omogenei)». Ora, tale presunta omogeneità può avere valore e senso solo se le diverse quantità di immagini (di pensiero, o monetarie) si distinguono le une dalle altre secondo la loro «realtà» (Realität: il loro significato o valore), cioè secondo il loro grado di intensità, sia essa la vivacità con cui ci impressiona una rappresentazione in comparazione con un’altra, in base all’autocoscienza dell’«io», o il valore di scambio con cui una determinata moneta si compara con un’altra, in base a un prestabilito modello di misura: l’oro o magari il dollaro. Oppure, per chiudere il cerchio, questa differenza di gradi di intensità si può calcolare anche in base alla fiducia che i creditori – i mercati finanziari – assegnano ai Paesi debitori – in funzione del debito sovrano, aggettivo peraltro ironico – in base a un modello prestabilito: nell’Unione Europea, quello della Germania, a partire dalla quale fluttuano le diverse prime di rischio. E infine, l’incarnazione dell’«Io penso» (o nel suo caso, del «denaro») si deve allo schema della sostanza «come persistenza del reale [des Realen]6 nel tempo, 6. Si ricordi che in Kant das Reale e la Realität corrispondono alla positività con cui si impone una rappresentazione, ossia, alla sua qualità, senza designare ancora una cosa realmente esistente (wirklich, in questo caso). Perciò, nulla di più illustrativo del fatto del famoso passaggio in cui Kant dichiara: «Essere non è ovviamente un predicato reale (reales), cioè un concetto di qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa» (KrV, A 598/B 626). Più famoso ancora è l’esempio monetario addotto al riguardo: «Cento talleri effettivi (wirkliche) non contengono né più, né meno che cento talleri possibili. […]. Ma nello stato della mia pecunia, quando si tratta di cento talleri effettivi c’è di più che nel loro mero concetto» (A 599/B 627). È il caso di sospettare, tuttavia, che nel mondo liquido della globalizzazione, in cui si tratta ormai di mercati speculativi (ma era lo speculativo quel che

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vale a dire la rappresentazione di quel sostrato della determinazione empirica del tempo in generale, la quale è pertanto ciò che permane mentre tutto il resto cambia»7. Si può concedere che questa analogia tra il soggetto moderno, i suoi schemi e rappresentazioni, e la circolazione monetaria sia più o meno plausibile8. E d’altra parte, è evidente che, dagli inizi dell’Età Moderna, si sono concentrate sul tempo tutte le dispute teologiche sul mistero dell’Eucarestia e quelle relative alla compenetrazione dell’«io» e delle sue «proprietà», acquisite mediante il denaro. Anzi, si potrebbe persino considerare la persistenza di questo sacramento tra le diverse confessioni religiose come un meccanismo de compensazione

Kant criticava come elucubrazioni chimeriche e delirî della ragione) sono i gradi qualitativi di intensità, ossia la fiducia o Realität fluttuante fra i diversi creditori tra loro e i corrispondenti debitori, a generare e produrre la realtà effettiva, sia dei prodotti sia dei consumatori. 7. KrV, A 144/B183. Ora, una volta indebolita la fiducia nell’immutabilità di Cristo Re e nel dono della sua carne e del suo sangue ai fedeli credenti, è lecito sospettare adesso anche dell’affidabilità dell’«Unico Signore del mondo», cioè dello Stato come garante del legal tender con cui pagare i debiti, confidando sul Dipartimento del Tesoro o sul Ministro delle Finanze. Il fatto è che, se il passaggio dalla fiducia nell’eucarestia all’affidabilità del credito e dell’ipoteca, corrisponde la transizione dall’Antichità alla Modernità, il dubbio rispetto alla fiducia che possono ispirare l’àmbito soprannaturale (il Regno che non è di questo mondo) e il potere statuale (con la sua presunta sovranità) è ciò che segna il passaggio alla nostra contemporaneità, ossia alla globalizzazione, propria dell’Era Tecnologica. 8. Jochen Hörisch raccoglie al riguardo un’azzeccata definizione di Alfred Sohn-Rethel, secondo la quale il denaro sarebbe «la moneta contante (bare, cash) dell’a priori», esercitando «la precaria funzione di intermediario tra l’essere e la coscienza» (Das Geld, die bare Münze des Apriori, p. 47; cit. in J. Hörish, Brot und Wein, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1992, p. 24); di Hörisch è importante studiare anche il suo saggio Gott, Geld, Medien (Suhrkamp, Frankfurt/M. 2004), il cui solo titolo già rivela l’influsso che ha avuto sulla tesi generale di questo saggio, sebbene ovviamente lo sviluppo e l’impostazione siano ben diversi.

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per la q ­ uantificazione dell’esistenza umana dovuta alla duplice pressione della ricerca scientifica e dell’accumulazione del capitale, o al contrario, secondo la tesi classica di Max Weber, il signum salvationis di alcuni uomini segnalati sarebbe dato proprio dal loro successo negli affari9.

9. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bur, Rizzoli, Milano 1991. Si veda anche Asketischer Protestantismus und kapitalistischer Geist, in Id., Soziologie, Weltgeschichtliche Analysen, Politik (ed. J. Winckelmann), A. Kröner, Stuttgart 1968.

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10. La struttura della conversione

Tuttavia, e pur accettando la plausibilità di entrambe le interpretazioni, quella compensativa e quella «salvifica», in questo saggio si vuole mostrare qualcosa di più profondo, qualcosa di letteralmente radicale, ossia che la struttura ontologica (o meglio, in base alla terminologia di Jochen Hörisch, onto-­ semiologica) su cui riposano il sacramento eucaristico, la circolazione monetaria e i prodotti simulacrali generati dai media delle nuove tecnologie, è, mutatis mutandis, la stessa10. In una formulazione alquanto astratta, a tale struttura si è già alluso in precedenza con l’aiuto di Hegel, cioè che per la coscienza dell’uomo occidentale, l’essere è il senso solo quando la coscienza sa di sé a partire da qualcosa di diverso, e così se ne appropria come ciò che le consente di accedere alla propria verità, in questa stessa certezza del senso dell’essere. Oppure, per dirla in modo più conciso: il contenuto oggettivo del riferimento dell’essere al senso è al tempo stesso l’atto stesso soggettivo di riferire il senso all’essere. 10. Questo spiegherebbe peraltro le numerose corrispondenze segnalate finora e, se si vuole aggiungere un punto drammatico e persino iperbolico, designerebbe anche in generale lo spirito dell’Occidente e la sua attuale decadenza, nel momento in cui si è diffuso come stile di vita planetario.

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Con l’aiuto di Hegel, ma non secondo Hegel. Nella precedente definizione, abbiamo messo in corsivo l’espressione «al tempo stesso» perché, sebbene sia espressamente nominato il tempo, in questo caso l’avverbio non si dà nel tempo. In spagnolo si dice «a la vez», laddove «vez» vuol dire «volta». E la «volta» fa tempo («c’era una volta»), ma senza darsi nel tempo (non a caso «vez» viene dal latino vix: appena). «Ancora una volta» allude al ritorno, ma «sta-volta» non c’è ritorno. Contro Hegel (o magari contro una certa interpretazione del suo pensiero), il centro o nucleo di ogni relazione non è la riflessione (il ritorno a sé a partire dall’altro da sé), bensì una conversione (il farsi altro per poter continuare a essere sé stesso). Quando in una coda qualcuno appena arrivato chiede chi sia l’ultimo (in spagnolo «¿quién da la vez?») per prenderlo come riferimento, l’interessato si volta, ma non completamente, per presentarsi come colui che «da la vez»; tale «vez», o turno, passa di continuo dall’uno all’altro, e ciascuno avrà il proprio «turno», ciascuno sarà «l’ultimo della fila», ma ci sarà sempre un nuovo turno e un nuovo ultimo. L’ultimo in assoluto, per definizione, non ci sarà mai, perché ci si passa il testimone, e dunque non c’è neanche una vera origine, posto che gli ultimi saranno i primi, e, restando nella similitudine evangelica, ciascuno è il prossimo dell’altro. («Chi è il prossimo?», si chiede in una coda). Non c’è un’origine prima, o meglio, l’origine è la conversione stessa. E quando, nella già citata coda, vediamo che è arrivata la nostra volta, diventiamo automaticamente, «a nostra volta», e come già detto, il «prossimo». E visto che non c’è, propriamente parlando, ritorno, cioè regresso, non c’è neanche progresso, bensì salto brusco (come si dice in tedesco: Ur-Sprung, non salto nella o dalla origine, bensì salto che dà origine, in modo retrospettivo). Nella visione del mondo cristiana, Dio non se ne sta fermo e immobile nell’origine. Quel che c’è nell’origine è il Lógos, che sta andando verso il Dio (pròs tòn theón) e che, solo per questo

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«andare verso», per questo avvenire, fa vedere che «Dio era [ên, erat] il lógos» (Giovanni 1, 1). Perichôresis: feedback loop, in cui il futuro dello Spirito e il passato del Padre si generano e si spostano reciprocamente attraverso il presente del Figlio: «Io non parlo di mia iniziativa: il Padre che mi ha mandato, mi ha comandato quello che devo dire» (Giovanni 12, 49-50). E con un rinvio perfetto dei tempi del verbo, Gesù dice al discepolo che gli aveva chiesto di mostrargli il Padre: «Filippo, sono stato con voi per tanto tempo e non mi conosci ancora? Chi ha visto me [eōrakōs emè] ha visto [eóraken] il Padre» (Giovanni 14, 9). E al contrario: nella teofania trinitaria, il Padre è il primo convertito, giacché «versa» il proprio amore, come Spirito, sul Figlio, come accade nel momento del battesimo di Gesù nel Giordano: «E mentre ascendeva [anabaínon] dall’acqua, Gesù vide il cielo spalancarsi e lo Spirito Santo [tò pneûma] che come una colomba scendeva [katabaînon] su di lui. Allora dal cielo venne una voce: “Tu sei il Figlio mio, che io amo. Io ti ho mandato”» (Marco 1, 9-11; cfr. Luca 3, 22, e con una leggera variazione, anche Matteo 3, 17). Abbiamo tradotto letteralmente il doppio movimento del verbo baíno (lat. venio: «andare») coi rispettivi prefissi: al movimento del corpo di Gesù, che va «verso l’alto» (ana-) uscendo dall’acqua, corrisponde quello dello Spirito Santo, che va «verso giù» (kata-), con la voce del Padre che media tra l’elemento naturale (l’acqua, da cui emerge il corpo) e quello soprannaturale (la colomba dei cieli). In questo caso (e solo in questo caso), la triplice conversione si piega su sé stessa: Sancta Trinitas Unus Deus (in tedesco si dice: Dreifaltigkeit; letteralmente: l’essere [Dio] da tre pieghe: Falte). Al contrario, chi si rifiuta di convertirsi suscita orrore e al tempo stesso segreta fascinazione, in quanto si ostina ad essere soltanto sé stesso. Così, nel dialogo tra l’Eremita e Belzebù narrato dal Catechista Teologo della Confessio philosophi, di Leibniz, il diavolo arriva all’estremo di accettare le condizioni

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poste da Dio per essere perdonato, ma alla fine si rifiuta di avvicinarsi al trono divino, perché, come si dice in spagnolo, «nadie es más que nadie», ossia nessuno è più di chiunque altro. «Devo andare io da lui o lui da me?» E più avanti: «Io, la parte lesa, dovrei farmi supplice verso quel tiranno?». E dunque, preferisce sprofondare nelle «pallide fauci dell’Averno» piuttosto che cessare di essere sé stesso. E tuttavia, l’eremita lo definisce «nemico di sé stesso»11, cosa che in effetti è, perché rifiutando la conversione si condanna a sprofondare nelle proprie acque, quelle del lago d’Averno. A proposito, già il nome di Belzebù ci rinvia al sacrificio carnivoro e alla sua conversione. Deriva da Ba’al Zebûb, o «Signore delle mosche», un appellativo spregiativo utilizzato dagli ebrei perché sugli altari di Ba’al, un’antica deità semitica (diffusa a Cana, la terra promessa, e poi a Cartagine), la carne dei sacrifici, putrefacendosi, si riempiva di mosche. I segnali di una primitiva conversione di tale rito pagano non sono pochi. Ba’al è figlio di El (il Signore del cielo, un’espressione raccolta ugualmente in ebraico, come negli Elohim – plurale di El – del Genesi, e dell’Esodo). Veniva rappresentato come un toro (e come tale fu introdotto il suo culto in Egitto, nel secolo XVIII 11. G.W. Leibniz, Confessio philosophi e altri scritti, a cura di F. Piro, Cronopio, Napoli 1992, p. 63. Un altro caso famoso di chi si rifiuta di pentirsi e pertanto di convertirsi, tornando sulla retta via, è il Don Giovanni, Dramma giocoso in due atti, di Lorenzo da Ponte, con musica di Mozart (atto secondo, scena quindicesima): l’eroe, nonostante non riesca a svincolarsi dalla mano di pietra del Commendatore, per quattro volte si rifiuta di pentirsi, finché «tempo più non v’è», come sentenzia il Commendatore. Così, l’inferno lo inghiotte. Ma continua a essere, e lo sarà per sempre, Don Giovanni. E nella versione di Baudelaire, persino nell’Inferno, già sulla barca di Caronte, Don Giovanni mantiene e rafforza il suo cipiglio sdegnoso: «Le calme héros, courbé sur sa rapière, / Regardait le sillage et ne daignait rien voir» [«Ma l’eroe, calmo, chino sulla sua spada contemplava la scia, sdegnoso d’altro vedere», traduce magnificamente Giovanni Raboni (Ch. Baudelaire, I fiori del male, Garzanti, Milano 1986, p. 35)].

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a.C., dai pastori hycsos; cfr. il dio Api). Ai piedi del Sinai, gli ebrei, stanchi di aspettare il ritorno di Mosè, fondono i loro gioielli e Aronne fabbrica con essi un vitello d’oro, che adorano col nome di Yahweh12. Questa sorta di riconversione è vista 12. Regna una certa confusione tra le diverse traduzioni e interpretazioni di questo passo del capitolo 32 dell’Esodo, rispetto all’identificazione del vitello d’oro con lo stesso Yahweh. Secondo la traduzione italiana stampata nel 1985 e approvata dalla Conferenza Episcopale (LDC, Torino 1986), Aronne avrebbe detto: «O Israeliti, ecco il vostro Dio, che ci ha fatto uscire dall’Egitto!», e poi avrebbe aggiunto: «Domani è festa in onore del Signore». La traduzione spagnola, nella versione di Nácar-Colunga, del 1958, dice invece «Jahweh». Dicono come la traduzione italiana anche la Bibbia luterana (Herr) e quella di Re Giacomo (King), oltre che le versioni spagnole più recenti. Ma nella versione dei Settanta si traduce toû kyrioû. Ho consultato la Hebrew Interlinear Bible (www.scripture4all.org/OnlineInterlinear/ OTpdf/exo32.pdf) per vedere se si trattava di un pietoso mascheramento. In questa pagina web si riproduce l’originale parola per parola, offrendone inoltre una versione letterale, per quanto possibile, in inglese. Rispetto a Esodo 32, 4, incontriamo una vecchia conoscenza. Infatti, Aronne dice al popolo: «these Elohim of you Israel who they brought up your from land of Egypt». Anche Lutero traduce: «Das sind deine Götter, Israel, die dich aus Egyptenland geführt haben». Ma nel versetto seguente, il 35, non c’è alcun dubbio: l’identificazione del vitello d’oro con Yawheh sembra essere piena: «and he [Aronne] is saying celebration to Yahweh tomorrow». E dunque la stagionata versione spagnola di Nácar-Colunga risulta essere corretta. La Cambridge Bible for Schools and Colleges offre un’interpretazione conciliatrice del passo in questione, alla quale alludono i citati traduttori spagnoli: «Vedendo l’impressione che l’immagine aveva fatto su Israele, Aronne costruisce un altare dinanzi a quest’immagine, e proclama una festa in onore di Yawheh [and proclaims a feast to Jehovah]». Il vitello d’oro è così chiaramente considerato come se non fosse Yawheh, bensì una sua rappresentazione» (http://biblehub.com/commentaries/exodus/32-5.htm). Per il resto, le sorprese proseguono, offrendo un vasto campo di relazione tra il sacrificio eucaristico e l’immolazione compiuta da empi e idolatri: «Il giorno dopo, al mattino presto, gli Israeliti offrirono olocausti [LXX: holokautómata] e sacrifici eucaristici [LXX: thysían soteríou; ebraico: shlmim = peace-offering]. Poi si sedettero per mangiare e per bere: alla fine si misero a far festa» (ibid. Sono miei i corsivi e le interpolazioni). Per il resto, è lo stesso Yahweh o Signore (equiparato invece da Aronne col vitello d’oro), il quale, iroso,

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da Dio come corruzione: «Il tuo popolo – dice a Mosè – si è corrotto» (Esodo 32, 7). In cambio, una volta ristabilito il culto a Yahweh, il sacrificio al vitello d’oro (che poi rincontreranno a Cana) viene sostituito dal pasto in comune dell’agnello e del pane azzimo durante la Pasqua, per ricordare proprio il giorno in cui uscirono dall’Egitto. E a sua volta, il rinnovamento del Pesach da parte di Gesù e i suoi discepoli nell’Ultima Cena, presuppone una nuova conversione: l’agnello e il pane si trasformano rispettivamente nella carne di Dio e nella specie sensibile – il pane – in cui questa carne dimora. In base a ciò, bisogna intendere – ed estendere – il sacrificio che presiede, custodisce e santifica il pasto come una sorta di conversioni o «svolte» su cui si fondano i modi di stare a tavola, la gastrosofia dell’Occidente. E con essi, i rispettivi stili di vita o visioni del mondo.

appare in scena. «Allora il Signore disse a Mosè: “Scendi in fretta perché il tuo popolo, che tu hai liberato dall’Egitto, ha commesso una grave colpa”». Dinanzi alla collera di Dio, Mosè gli chiede misericordia. Una misericordia… parziale, giacché Mosè, una volta sceso, riunì intorno a sé i figli di Levi e disse loro: «Questo è l’ordine del Signore, il Dio d’Israele: ciascuno di voi prenda una spada! Percorrete l’accampamento da un capo all’altro e uccidete tutti i colpevoli: fratelli, o amici o parenti!» (Esodo 32, 27). Il testo informa, puntuale, che «in quel giorno morirono circa tremila persone», e Mosè dà la sua approvazione con queste parole: «Oggi voi vi siete impegnati a servire il Signore, perché non avete esitato a uccidere anche i vostri figli e i vostri fratelli: il Signore vi conceda oggi la sua benedizione!» (32, 29). Il giorno dopo, nonostante la mattanza, Mosè chiede di nuovo clemenza a Dio, affinché perdoni il suo popolo oppure, dice: «Cancella me dal tuo libro della vita». E il Signore così rispose a Mosè: «Io cancellerò dal mio libro soltanto chi ha peccato contro di me» (32, 33). E accetta che il popolo d’Israele prosegua il suo cammino verso la Terra Promessa, ma con un avvertimento: «Un giorno interverrò e punirò gli Israeliti per il loro peccato» (32, 34). I pii traduttori spagnoli commentano al riguardo: «La risposta di Dio non è chiara. Se da una parte sembra accettare la supplica del suo profeta, dall’altra sembra spostare più avanti la sua giustizia».

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Posto che la conversione stessa riceve il proprio turno da un’origine differita, si può ben supporre che, parlando miticamente, il primo sacrificio che ha istituito la demarcazione, la separazione tra i diversi raggruppamenti umani, sia stato l’ingestione della carne del nemico catturato, al fine di assimilarne la forza. Curiosamente, in tal modo l’uomo si converte in qualcosa di diverso per poter continuare a essere sé stesso. In base a ciò, il primo pasto degli uomini che può venire considerato come effettivamente umano e non più animale, cioè realizzato in accordo con un rituale sacrificale, sarebbe stato antropofagico. Questa età barbara è rappresentata come un caso di teofagia nella mitologia greco-romana: dopo aver castrato suo padre Urano (il cielo), Kronos (Saturno) si sposa con sua sorella Rea (la terra fertile); ma per evitare che i suoi figli gli riservino lo stesso trattamento da lui riservato al padre, li divora appena nati; solo l’ultimo, Zeus, si salva, perché Rea lo aveva sostituito con una pietra, che offre come cibo a Kronos. Molto tempo dopo, Metide (la dea della saggezza, sposa di Zeus) offrì a Kronos un intruglio (pharmakón; a quanto pare si trattava di vino zuccherato, condito con mostarda e sale), grazie alle cui virtù Kronos vomitò la pietra e, con essa, i cinque fratelli di Zeus: gli Olimpici13. Con maggior simbolismo e significato per il nostro tema, Dio ordina ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco, e quando è sul punto di farlo, un angelo lo trattiene e gli indica un montone, impigliatosi con le corna in un cespuglio (cfr. Genesi 22, 1-18): modello di sostituzione del sacrificio umano con un capro espiatorio14. Questo animale (ancora selvaggio, non addomesticato) si convertirà nell’«agnello per l’olocausto»; e questo, a sua volta, nell’agnello pasquale giudeo, che di nuovo sarà convertito nella carne e nel 13. Bibliothèque d’Apollodore l’Athénien, I, 2, 1, Delance et Lesueur, Paris (an XIII) 1805. 14. Si veda R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980.

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sangue dell’Agnello di Dio, presente effettivamente nell’offerta eucaristica del pane e del vino. Tutta una serie, quindi, di conversioni, implicitamente condensate nella «tavola» cristiana quando il pater familias ringraziava Dio per l’alimento che la famiglia riunita stava per ingerire15. In tal modo, il pane celestiale dell’Eucarestia viene rappresentato – stavolta simbolicamente – dal «nostro pane quotidiano», dato che entrambi gli alimenti, quello spirituale quello materiale, provengono in definitiva dal Padre, come Gesù Cristo insegna, con l’instaurazione della preghiera del Padre nostro. Anche se, dopotutto, forse questo pane quotidiano non è meramente materiale. Sia nell’originale greco sia nella versione di San Girolamo appa-

15. È curioso che una convertita come Simon Weil (nata in seno a una famiglia ebrea e laica) abbia sfiorato il tema della conversione e proprio per ciò che si riferisce al cibo e ai desiderî (entrambi, terreni), ma per rifiutare questo rinnovamento della fame e il suo continuo ma parziale soddisfacimento, bramando agostinianamente una situazione finale (donec requiescat in te, Domine) in cui più non esistano né desiderî né conversioni, a meno che la sazietà spirituale non si identifichi col desiderio supremo, spirituale. «Tutti i desiderî sono contraddittorî, esattamente come la nutrizione. Io vorrei che mi ami colui che io amo. Ma se la sua dedizione per me è assoluta è come se lui non esistesse più e allora cesso di amarlo. E se non mi si dedica completamente, vuol dire che non mi ama abbastanza. Fame e sazietà» (La pesanteur et la grâce, Plon, Paris 1947). Dietro questo rifiuto di ogni (nuova) conversione si trova un evidente platonismo metafisico: «Quel che si vede quaggiù non è reale, è solo una decorazione [c’est un décor]. Quello che si mangia è come distrutto, non è più reale [n’est plus réel]» (p. 117). E come sant’Agostino, lei sa molto bene a che cosa si debba questa separazione, questa lacerazione tra lo sguardo (le regard) e il cibo (la nourriture): «Le péché a produit en nous cette séparation» (ibid.). C’è da dire che Hegel aveva messo a posto ante-litteram, e con la sua abituale brutalità, questo desiderio di identità e di immobilità. Infatti, scrive: «Dire che la filosofia deve all’esperienza (a ciò che è a posteriori) la sua prima nascita […] è come dire che il mangiare si deve agli alimenti, perché senza di essi non si potrebbe mangiare; ma, se le cose stanno così, il mangiare diventa un atto di ingratitudine, poiché consiste nel divorare ciò a cui si dovrebbe esser grati. Il pensiero, in tal senso, non è meno ingrato» (Enzykl. [Intr.], § 12, Anm.; W. 8, 57).

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re uno strano termine: «panem nostrum supersubstantialem [epioúsion] da nobis hodie», un termine che sembra alludere a una sovra-determinazione spirituale, che impregni e dia sapore e senso alla sostanza del pane sensibile16.

16. Il termine greco è un hapax: tranne che in Matteo 6, 11 e Luca 11, 3, non si trova in nessun altro testo biblico né nella letteratura greca. Nonostante la sua rilevanza, è sparito non solo dalle versioni abituali di questa preghiera, sostituito da quotidianum (quotidiano, di ogni giorno) ma anche dalle versioni canoniche di Lutero (unser täglich Brod) e dalla Bibbia di Re Giacomo (daily bread). Tuttavia, il Concilio di Trento ha riconosciuto nel 1551 (Sessio XIII, c. 8) questa sovrasostanzialità, come ricordo dell’Eucarestia, simbolicamente rinnovata nel pasto cristiano.

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11. Dovere o offendere: questo è il problema

A proposito, questa stretta analogia tra la materia coelestis e quella terrena si converte (come si vede in un versetto del Padre nostro) in una non meno stretta analogia tra il piano religioso e quello economico. Secondo l’originale greco della Kainé Diathéque che stiamo seguendo, il versetto recita così: kaì áphes hemîn tà opheilémata hemôn hos kaì himeîs ­aphíemen toîs opheilétais hemôn17 («E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori»). Sul senso del verbo ophéilo («dover del denaro, essere in debito con qualcuno per qualcosa») non può esserci alcun dubbio. Così, le ultime parole di Socrate furono: «O Critone, dobbiamo (opheílomen) un gallo ad Asclepio. Daglielo, non te ne dimenticare»18. Significativamente, nella versione del Padre nostro raccolta da Luca (11, 4) si cambia l’espressione «i debiti» (tà opheilémata) con quella di «peccati» (hamartías), ma il verbo continua a essere 17. Matteo 6, 12. Il testo latino della Vulgata dice: et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Anche in Lutero: und vergib uns unsere Schulden, wie wir unsern Schuldigern vergeben. Nella King’s James Bible: And forgive us our debts, as we forgive our debtors; così si utilizza oggi nella liturgia protestante (cfr. anche Matteo 18, 23-35). 18. Platone, Fedone, 118b.

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ophéilo, utilizzato qui come participio: «così come noi li rimettiamo ai nostri debitori (letteralmente: a ogni nostro debitore: pantí ophílonti)19. Tuttavia, l’arcivescovo di Toledo e presidente della Commissione Episcopale di Liturgia, il cardinale Marcelo González, ha riformato il testo, rendendolo obbligatorio per i ventidue Paesi di lingua spagnola. La riforma è entrata in vigore in Spagna il 27 novembre del 1988 e si è estesa agli altri Paesi nel 1992. La ragione addotta fu che i cambiamenti effettuati «suonano meglio all’orecchio». Il cambiamento fondamentale riguarda il passaggio citato, che diventa «perdona le nostre offese / come anche noi perdoniamo coloro che ci hanno offeso». Si è detto anche che bisognava adattare il testo in base alle norme del Concilio Vaticano II, come si era fatto in altre lingue. Ma il Vaterunser in tedesco, secondo la versione ufficiale ecumenica, fissata dalla Arbeitsgemeinschaft für liturgische Texte (ALT 1971) insiste, ostinata, su unsere Schuld («nostro debito») e unseren Schuldingern («nostri debitori»)20. Lo stesso vale per il già citato testo italiano, su cui converge anche la Chiesa Evangelica Valdese. D’altro canto, è evidente come sia nel testo originale sia nella Vulgata di San Girolamo, si allude chiaramente a «debiti» e «debitori». Anche il testo di Luca risulta poco comprensibile – almeno relativamente alle lingue moderne – quando si cerca di conciliare l’espressione «i nostri peccati» con quella de «i nostri debitori». Forse che si può dovere un peccato? 19. Anche nella Vulgata: Et dimitte nobis peccata nostra, siquidem et ipsi di­ mittimus omni debenti nobis. Anche in Lutero: Und vergibt uns unsere Sünden, denn auch wir vergeben Allen, die uns schuldig sind; nella King’s James Bible: And forgive us our sins; for we also forgive every one that is indebted to us. (Si utilizza ancora oggi così nella liturgia protestante). Cfr. anche Matteo 18, 23-25: parabola dei debitori. 20. In cambio, nella Newer version in lingua inglese, il testo si riforma nello stesso senso che in spagnolo: «And forgive us our sins, as we forgive those who sin against us». Lo stesso nella Église catholique de France: «Pardonne-nous nos offenses, / comme nous pardonnons aussi à ceux qui nous ont offensés».

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D’altra parte, anche la parabola del condono del debito (Matteo 18, 23-25; Luca 7, 43-45), evidentemente relazionata con la ricompensa o il castigo post mortem, esplicita chiaramente questa connessione tra il debito e il suo perdóno. La versione di Luca è più corta e netta: Gesù domanda a Simone se sarà più riconoscente il debitore a cui sono stati condonati cinquecento denari, o quello che ne doveva solo cinquanta e a cui è stato ugualmente condonato il debito. L’ovvia risposta è che sarà più riconoscente il debitore a cui è stato condonato il debito più grande: una strana economia alla divina questa (che premia chi accumula più debiti, ossia: peccati, e più gravi), in cui ovviamente non si spiega perché e per quale motivo sia stato contratto il debito, né il motivo per cui lo stesso sia stato condonato. In ogni caso, tornando a cose più terrene, è da supporre che un Paese come la Grecia sarebbe stato molto riconoscente ai suoi creditori (la troika formata dal Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea) se questi avessero deciso di «rimettere» almeno una parte del debito, risultante, in buona parte, dalle condizioni inique dei crediti concessi o dall’interessato «salvataggio» della sua malmessa economia. La parabola raccolta in Matteo (18, 23 -25) è più lunga e istruttiva. Gesù paragona il regno dei cieli al potere di un re (il cui potere e volontà assomiglia di più a quello di un violento satrapo orientale che a quel che ci si aspetta da un Padre celeste). Siccome uno dei suoi servi non può pagare l’elevato debito contratto col suo signore (diecimila talenti), questi ordina che vengano sequestrati i suoi beni e che il debitore sia venduto come schiavo, insieme alla moglie21. Ma il servo si prostra dinanzi a lui e lo prega non di condonargli il debito ma di conce-

21. A proposito, se questo castigo esemplare equivale sul piano religioso alla condanna all’inferno, significa che anche la moglie del peccatore debba seguire la sorte di quest’ultimo?

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dergli una moratoria, cosa che il re accetta. Ma il servo vanta dei crediti presso un debitore che gli deve una somma molto inferiore (cento denari). Il debitore ripete dinanzi a colui che adesso è creditore l’identica supplica, ma il servo non si lascia impietosire e lo fa andare in carcere. Gli altri servi si dispiacquero di questa mancanza di equanimità e lo raccontarono al re; allora quest’ultimo, infuriato, gli dice: «Dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te» (Matteo 18, 33). Dopodiché, lo manda in prigione. La parabola termina chiarendo la similitudine: allo stesso modo, dobbiamo perdonare di cuore i nostri fratelli per le «offese» che ci hanno inferto22. Si sottintende: se non vogliamo essere consegnati alla Giustizia. E ancor di più: posto che il debito contratto da noi con Dio è infinito, posto che si è abbassato sulla terra e si è lasciato uccidere affinché i nostri peccati fossero perdonati (purché ce ne pentiamo e chiediamo perdóno) ne consegue che dovremmo non solo perdonare i debiti o le offese dei nostri fratelli (solo di essi? soltanto del prossimo e non degli estranei, come chiedeva invece Nietzsche?), ma essere disposti a sacrificarci per loro. Le comparazioni tra l’àmbito religioso e quello economico abbondano nei Vangeli: in Matteo 13, 44-52, il «Regno dei Cieli» viene paragonato a un «tesoro nascosto in un campo», e viene lodato chi «lo nasconde di nuovo», vende quanto possiede e compra il campo (si resta perplessi, a dir la verità, dinanzi a questa storia edificante, relativa a qualcuno che trova un 22. Nell’originale paraptómata, cioè «deviazione, errore», e per estensione «peccato, offesa». È interessante prendere atto che nel Book of Common Prayer, del 1549, il controverso passaggio sul perdóno dei debiti sia tradotto così: «And forgeve us oure trespasses, as we forgeve them that trespasse agaynst us». L’espressione in corsivo significa soprattutto «violazione della proprietà», soprattutto quando si tratta di un terreno privato. Private Property. No trespassing, avvisano minacciosamente i cartelli dinanzi ai suoli privati, negli Stati Uniti d’America.

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t­ esoro e non lo dice a nessuno, per poi comprare – si suppone a un prezzo decisamente conveniente – il campo in cui si trova il tesoro. Vuol forse dire che chi sappia qualcosa del Regno dei Cieli deve tenerselo per sé invece di comunicare la buona novella agli altri?). Allo stesso modo – continua la parabola – un mercante di «pietre preziose» ne trova una di grande valore, di modo tale che vende tutto quel che ha per comprarla. Non ci viene però detto che cosa ne farà il «mercante». Altrove, Matteo (6, 19-21) raccoglie la parabola dei «tesori del cielo» (cfr. Luca 12, 32-34). Ci viene chiesto di «non accumulare ricchezze in questo mondo [dove] i tarli e la ruggine distruggono ogni cosa e i ladri vengono e portano via». Comunque non ci viene detto neanche che cosa fare con questi «tesori» depositati nella banca del cielo. Ci viene solo detto che «dov’è il vostro tesoro, là c’è anche il vostro cuore» (Matteo 6, 21). Tuttavia, quanto a rilevanza economica non c’è nulla che possa eguagliare il famoso testo sulla «parabola dei talenti», al punto che tale parabola è servita da modello per la sociologia e l’economia, sotto il titolo di «effetto Matteo». Non si dimentichi che Matteo era esattore di imposte a Cafarnao (Matteo 9, 9; Marco 2, 14; Luca 5, 27-29)23. Gesù sta spiegando ai suoi discepoli come sarà il Regno dei Cieli e utilizza al riguardo la parabola dei talenti (Matteo 25, 14-30), certamente poco edificante, almeno prima facie. Il padrone di un campo deve fare un lungo viaggio, e allora affida ai suoi servi diverse quantità di denaro affinché ne facciano buon uso. I primi due servi fanno fruttare i talenti, raddoppiando il loro valore, e al ritorno del padrone ne ricevono le lodi. Il terzo, che ha ricevuto un solo talento, lo nasconde invece sotto terra (forse starà seguendo il 23. Cfr. R.K. Merton (1968), The Matthew Effect in Science, SCIENCE 159 (1968), pp. 56-63. Si veda anche, dello stesso autore: The Matthew effect in Science II. Cumulative advantage and the symbolism of intellectual property, ISIS 79/4 (Dec. 1988), pp. 606-623.

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consiglio di chi ha trovato un tesoro e lo nasconde?) per paura del suo signore che «raccoglie anche dove non ha seminato e vendemmia dove non ha coltivato». Allora, fa per restituirgli il talento, ma il padrone lo apostrofa così: «Servo cattivo e fannullone! Dunque sapevi che io raccolgo dove non ho seminato e faccio vendemmia dove non ho coltivato». Il padrone non sembra essere interessato quindi all’agricoltura quanto alla finanza, affinché il suo denaro renda; ma il servo pigro non ha seguito il suo esempio. Avrebbe dovuto, secondo il padrone, «almeno mettere in banca i miei soldi e io, al ritorno, li avrei avuti indietro con l’interesse» (versetto 27). (L’originale dice sýn tókoi; la Vulgata dice cum usura; inglese: with usury). E dato che il servo non si è comportato così, gli toglie il talento che aveva consegnato al suo padrone, ordinando di consegnarlo a chi «ha dieci talenti». E adesso, nel versetto 29, viene la morale della favola (davvero sorprendente, a meno che non si intenda il non avere con l’avere molto poco): «Perché a chi ha sarà dato, e avrà di più; e a chi non ha, anche ciò che ha sarà tolto»24. E infine agli altri due servi viene comandato di gettare all’inferno il servo pigro e fannullone: «E questo servo inutile gettatelo fuori, nelle tenebre: là saranno lacrime e stridor di denti» (versetto 30). Che i buoni affaristi siano premiati, mentre invece viene dannato chi neanche in banca mette i soldi e si limita a metterli «dentro il materasso», dovette impressionare molto gli evangelisti, perché sono in tre a includere la parabola25. L’«effetto

24. La versione italiana citata addolcisce il passo, rendendo operante quanto ipotizzato tra parentesi: «Chi ha molto riceverà ancora di più e sarà nell’abbondanza; chi ha poco, gli porteranno via anche quel poco che ha». 25. Lo stesso Matteo aveva anticipato il passo in 13, 11-13; in Luca 19, 26 la contrapposizione viene un po’ addolcita, giacché non si dice che gli verrà tolto quel che non ha, ma quel poco che ha, il che non è poi questa grande consolazione; lo stesso si dice in Marco 4, 25. Infine, in Luca 8, 18 si aggiun-

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Matteo» si è applicato come modello, e con successo, nella sfera economica e anche in quella pedagogica. Per quanto ci riguarda, continuiamo a non capire perfettamente che cosa siano «i misteri del Regno dei Cieli», e inoltre che Gesù chieda esplicitamente ai suoi discepoli che non lo mostrino agli altri, come se così tornasse di nuovo al racconto dell’avaro scopritore del tesoro nascosto, che nascosto lo lascia, affinché nessuno lo sappia. (Non sia mai che altri si arricchiscano, o si salvino). C’è da dire che alla fine del XVIII secolo, il giovane Hegel del periodo berlinese (nel frammento intitolato «La positività della religione cristiana») pensava esattamente il contrario rispetto al consiglio di Cristo, secondo il quale è meglio depositare il tesoro nei cieli piuttosto che spenderlo sulla terra (è chiaro che siamo in pieno periodo rivoluzionario). Infatti, scrive al riguardo: «A parte alcuni tentativi precedenti, è alla nostra epoca che è stato riservato il cómpito di rivendicare, almeno in teoria, la proprietà umana di tutte le ricchezze consegnate al cielo, e in tal modo sprecate; ma quale epoca potrà avere la forza di far valere questo diritto di proprietà ed entrarne realmente in possesso?»26. Naturalmente, ci sono anche dei passi evangelici in cui si esprime una certa crematofobia, cioè odio per il denaro. In Luca 6, 34-35, Gesù ammonisce: «Prestate senza sperare di ricevere nulla in cambio», manifestandosi così chiaramente contrario all’usura27. Si vede che Luca non conosceva il passo di Matteo ge questa sfumatura: «Chi ha molto riceverà ancora di più; ma a chi ha poco sarà portato via anche quel poco che pensa di avere». 26. Hegels theologische Jugendschriften (ed. Nohl, cit., p. 225). 27. Da parte sua, Jacques Derrida riconverte il piano economico in quello religioso: «In effetti Dio chiede che si doni senza sapere, calcolare, fare affidamento e sperare, perché si deve donare senza fare conti: è questo che porta al di là del senso» [J. Derrida, Donare la morte, tr. it. di L. Berta, Jaca Book, Milano 2002, p. 128].

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25, 27 citato prima, in cui il signore si lamenta del fatto che per la negligenza del suo servo non ha ottenuto il suo denaro cum usura. Al contrario, la dottrina del prestito senza interessi fu lungamente predicata (e poco seguita) nel Medio Evo, seguendo l’adagio aristotelico pecunia non parit pecuniam28, che certamente avrebbe fatto sorridere Ricardo e Marx. Insomma, altri passaggi ben conosciuti come il dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Matteo 22, 21; Luca 20, 25) e l’ira di Gesù contro i mercanti nel tempio, sembrano indicare piuttosto un desiderio di scindere chiaramente le due sfere: l’economia del cielo e quella del mondo29.

28. Cfr. Politica, I, 10, 1258b 5-8: «[nell’usura] l’interesse si chiama tókos, poiché ciò che viene generato [tiktómena] è della stessa natura dei suoi generatori [toîs gennōsin], e l’interesse genera denaro da denaro [ho dè tókos gínetai nómisma nomísmatos], di modo tale che, di tutti i tipi relativi alla crematistica, questo è il più innaturale [málista parà phýsin]». Nell’Etica Nicomachea, Aristotele fa derivare il nome di «denaro» (nómisma) dalla «legge» stabilita per convenzione» (nómos). Cfr. Eth. Nic., V, 5, 1133. 29. È vero che i primi Padri della Chiesa sostennero, d’accordo con la narrazione del Genesi, l’idea che, per natura, avrebbe dovuto esserci un’uguale distribuzione dei beni terreni, criticando di conseguenza la proprietà privata, contro le concezioni di Cicerone e di altri giuristi romani. Sicuramente il più chiaro al riguardo è Sant’Ambrogio: «Per loro, la giustizia consiste nell’usare ciascuno, come beni comuni, i beni che sono comuni, e come beni propri i beni privati. Ma neppure questo è conforme alla natura, perché essa ha prodigato a tutti noi i suoi doni. Perché Dio ordinò che tutto si producesse per il bene comune di tutti. La natura, quindi, ha generato il diritto comune, mentre l’usurpazione ha generato il diritto privato» (Natura igitur ius commune generavit, usurpatio ius fecit privatum, De officiis 1, 28, 132). Anche nella Expositio in Psalmos: «Il Signore Dio Nostro ha voluto che la terra fosse un possedimento comune di tutti gli uomini, e che i suoi frutti si dessero a tutti, ma fu l’avidità di possesso a determinare l’ineguale distribuzione. [avaritia possessionum iura distribuit]» (In Psalmum David CXVIII Expositio, Sermo VIII, 22). Sant’Agostino, da parte sua, nel Tractatus in Iohannis Evangelium, fa derivare l’avidità di possesso dal peccato originale, ma subito dopo attribuisce la proprietà privata ai decreti dell’imperatore e dei re della terra, mentre San Tommaso dà un passo molto più audace.

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La cosa curiosa è che questi parallelismi tra l’economia celeste del perdóno e quella terrena della «remissione» è che se la prima servisse da modello o analogatum princeps, tutta l’economia mondiale – basata sull’interscambio generalizzato di beni e servizi, di prestiti e debiti (do ut des), essendo protetto tutto ciò dal vecchio adagio pacta sunt servanda – crollerebbe. Il caso più vistoso al riguardo è senz’altro quello del consiglio che Gesù dà al giovane ricco che voleva essere perfetto: gli chiede di vendere tutti i suoi beni, dando poi il ricavato ai poveri: solo dopo potrà seguirlo (Matteo 10, 21). È evidente che in tal modo coloro i quali compreranno – si presuppone a basso prezzo, data la fretta – le proprietà del giovane si arricchiranno a loro volta; d’altro canto, se i poveri beneficiati dalla generosità del giovane sono pochi, susciteranno l’invidia degli altri poveri; e se sono molti, entra in gioco il proverbio sulla «ricchezza spartita che diventa povertà». Dinanzi all’insensatezza di molte di queste analogie (almeno, secondo il punto di vista di chi è troppo agganciato al secolo30) sembra che l’unica cosa plausibile sia quella di pensare che Gesù stia avvisando Anche lui riconosce che senza il peccato l’ideale sarebbe stata la proprietà collettiva dei beni (Summa Theologiae, I, q. 98, a. 1) ma posto che il peccato ha introdotto orgoglio, egoismo, violenza e avidità, l’unica soluzione è la proprietà privata. Di più, pensa che la proprietà privata sia «necessaria alla vita umana» e adduce tre motivazioni. 1) perché ciascuno ha più cura di ciò che gli appartiene che non di ciò che è comune; 2) perché le cose sono amministrate meglio se ciascuno deve occuparsi di ciò che gli spetta invece di occuparsi di ogni cosa senza distinzione; 3) perché così l’uomo è soddisfatto delle sue cose e si comporta pacificamente, «mentre osserviamo che tra coloro che posseggono qualcosa che è comune e indiviso, frequentemente si generano delle dispute» (Summa Theologiae, II-II, q. 66, a. 2). 30. Qualcuno come Hegel, per esempio, per il quale «il Regno di Dio è lo stato che si produce quando regna la divinità, cioè quando tutte le determinazioni, tutti i diritti, sono stati cancellati. Ne derivano le parole di Gesù al giovane: vendi quello che hai, ché difficilmente un ricco varcherà la soglia del Regno dei Cieli; per questo Gesù rinuncia a ogni proprietà, a ogni onore» (Hegels theologische Jugendschrift, ed. cit., p. 397).

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che è vicina la fine del mondo, e dunque dell’intera economia terrena31. È chiaro che in questo caso non si capisce il perché di tante analogie tra il piano religioso e quello economico.

31. Cfr. Matteo 24, 1-15, e specialmente vv. 15-20, in cui si descrivono crudamente i segnali della fine del mondo; a proposito, gli ultimi versetti del capitolo tornano a utilizzare la similitudine del padrone assente e l’incaricato di amministrare i suoi beni e di dar da mangiare ai servi.

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12. Del malessere nell’economia europea (soprattutto nei Paesi del Sud)

Parlando di economia, e affinché quanto detto in precedenza possa servire da pietra di paragone, sarebbe adesso il caso di esporre un breve excursus sulla situazione attuale dei Paesi del sud Europa, all’interno dell’Unione, per ciò che riguarda il condono, sia pure parziale, o almeno la moratoria (che, dopotutto, è quanto chiedeva il servo al suo re) del debito estero. Da un lato, bisogna porre la grande domanda: è forse morale distruggere il potenziale economico di nazioni intere per soddisfare vecchi debiti contratti da precedenti governi o da banche corrotte e che d’altra parte corrispondono a crediti concessi a condizioni capestro, e questo all’interno della stessa Unione Europea? E anche laddove ci trasferissimo sul piano strumentale, non è vero che, a volte, cancellare un debito (la famosa «remissione») potrebbe risultare economicamente efficace sia per il debitore sia per i creditori? Per esempio, per evitare il fatale errore commesso dalla Francia con la Germania uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale (l’imposizione di sanzioni smisurate e quasi impossibili da soddisfare, oltre all’impossessamento dei territori sulla riva sinistra del Reno), il Piano Marshall fece sì che, tra le altre misure di recupero, gli alleati cancellassero, nel 1948, il 93% del debito contratto dalla Germania nazionalsocialista (la quale doveva far fronte

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nel 1939 – anno dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale – a un debito pari al 675% rispetto al P.I.L. della nazione). Il risultato di questo condono quasi tombale fu che la Repubblica Federale Tedesca avesse solo cinque anni dopo, nel 1953, un 12% in meno del tasso di debito dei Paesi alleati. La grande questione oggi, a livello mondiale, continua a essere questa: trovare il modo di evitare la deflazione del debito, cioè d’impedire a ogni costo che ciò che bisogna pagare per ottenere in prestito determinate somme di denaro continui a crescere, sebbene il calo economico sia sempre più pesante32. Per affrontare il problema, i membri del cosiddetto G-20 si sono riuniti dal 18 al 19 aprile del 2013 a Washington, sede del Fondo Monetario Internazionale. Il ruolo delle grandi banche centrali in questa crisi è consistito nel dare impulso alla più grande espansione monetaria della storia, al fine di evitare una depressione: tonnellate di denaro (soprattutto da parte della Federal Reserve degli Stati Uniti) sono state iniettate nell’economia sulla base di acquisiti di bond, prestiti a interessi molto ridotti, al fine di rianimare il credito, il consumo, le attività. Per ciò che riguarda l’Europa, la debolezza strutturale delle economie di alcuni Stati membri esponeva l’euro al rischio di attacchi speculativi. Per contrastare tale rischio, le istituzioni dell’Unione e dei ventisette Stati membri avevano già deciso, il 9 maggio del 2010, di creare un «meccanismo di stabilizzazione finanziaria» che arrivava fino a 750.000 milioni di euro33. 32. Tra le altre fonti, alcuni dei dati qui riportati provengono dal dossier Dodici lezioni sull’Europa, all’interno della serie Comprendere le politiche dell’Unione Europea, pubblicata dalla Commissione Europea nel 2014. 33. Si veda al riguardo il capitolo già citato delle Dodici lezioni, in cui è scritto: «La questione chiave per il futuro è come ottenere un coordinamento più stretto e una maggiore solidarietà economica tra gli Stati membri, che devono garantire una buona amministrazione delle loro finanze pubbliche e ridurre il loro deficit di bilancio» (p. 44). L’ultima cosa si sta realizzando a malapena – la pena è per la popolazione sofferente – per i Paesi del

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Alla Spagna, com’è noto, venne offerto un «salvataggio» da centomila milioni di euro per sanare i conti delle banche e soprattutto delle Casse di Risparmio. Di tale quantità, furono accettati solo quarantamila milioni, che servirono, tra le altre cose, a creare alcune entità come Bankia, ancora oggi nelle mani dello Stato per il 60% e sospetta anche di cattive pratiche al momento di entrare in Borsa. Tornando all’importante riunione del G-20 del 2013, quando a Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, venne chiesta un’opinione sull’effetto di tali politiche straordinarie, la sua risposta fu tanto evasiva quanto scorata: «Non ho una risposta, e non sono sicura che i banchieri centrali qui riuniti ce l’abbiano. Credo che da un po’ di tempo stiano navigando in acque sconosciute, e dato il loro senso della misura, non c’è dubbio che vorranno tornare su territori conosciuti»34. Il riassunto della diagnosi della crisi mondiale che il FMI ha reso pubblico non è infatti incoraggiante: secondo il Fondo, l’economia mondiale starebbe recuperando a tre velocità, con in testa i Paesi emergenti (gli stessi che nel 2015 sembrava che stesero affondando, tranne forse la Cina); poi ci sarebbero gli Stati Uniti (che attualmente hanno raggiunto un invidiabile tasso di disoccupazione del 4,1% e alcuni Paesi nordici; in terzo luogo abbiamo la sofferente Eurozona, in cui soprattutto «il Sud d’Europa decresce, intrappolata dai tagli e dagli squilibri di bilancio, con la pericolosa novità che la ­crisi si

Sud (Grecia a parte), però le finanze pubbliche non sembra si siano sanate. Cfr. La UE y el FMI estrenan el mecanismo de rescate, https://www. diarioinformacion.com/economia/2010/11/21/ue-fmi-estrenan-mecanismo-­ rescate/1067483.html. 34. ¡Que alguien empuje! [Che qualcuno spinga!], «El País – Economía» (21 aprile 2013), https://elpais.com/economia/2013/04/19/actualidad/1366397486_168979.html. Il riassunto che si offre a continuazione è preso sempre da questo dossier.

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espande di nuovo nel cuore del continente: Germania, Francia e Olanda sono i Paesi che hanno visto maggiormente ridotte le loro previsioni economiche dal FMI»35. Il Giappone sta lottando da anni contro la deflazione: starà certamente crescendo, ma trascinandosi dietro un debito monumentale. Il documento azzardava anche che la Cina avrebbe accelerato la sua crescita nel corso dell’anno (2013), «nonostante l’ultimo dato sia rimasto al di sotto delle aspettative (si stima che scenderà dal 10% all’8 o 7%)». La previsione non era corretta, ma lo era il dato sul decremento della crescita prevista. Tuttavia, la crescita cinese, sebbene abbia rallentato, non si è certo arrestata, e in base a un articolo di Linda Yueh36, essa è dovuta non tanto agli investimenti quanto al consumo interno, che «tira» più delle esportazioni. In questo, la Cina segue il modello di altre economie di mercato. Tutto ciò rende discutibile il messaggio evangelico relativo al dono dei beni ai poveri, e invece rafforza l’«effetto Matteo»: quanto meno deficit di bilancio, tanto più consumo, e viceversa. Di modo tale che la forbice tra Paesi poveri e Paesi ricchi tende ad allargarsi sempre più, così come si allargano le sacche di povertà all’interno dei Paesi ricchi. Non sembra che la soluzione del problema – almeno all’interno dell’Unione Europea – stia solo nell’abbassamento dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale, a Franco-

35. Tali previsioni, formulate dal FMI quattro anni fa non si sono avverate, per fortuna. Oggi, il tasso medio di disoccupazione nella UE è del 7%. In Italia, dell’11%, e in Spagna del 16,55% (nel dicembre del 2013 era del 26%). 36. L. Yueh, ¿Se acabó la era del crecimiento rápido en China? [È finita l’èra della crescita rapida in Cina?], http://www.bbc.com/mundo/noticias/2015/04/150415_economia_fin_era_crecimiento_china_lf. La previsione, in questo caso, si è rivelata corretta: la crescita nel 2017 è stata del 7%, però è anche vero che, all’inizio del 2018, il tasso di disoccupazione nella Repubblica Popolare Cinese è del 4,1%.

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forte37. Sarà l’aumento del consumo (soprattutto di articoli e prodotti telematici e in particolare dei mobile devices multimediali) a realizzare (in modo virtuale, questo sì) un miracolo simile a quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci? La cosa sicura, qui, è che si sta parlando di un miracolo economico (come quello della Germania del dopoguerra, basato in buona parte sulla generosa «remissione del debito» da parte delle potenze vincitrici, come abbiamo visto) più che di miracoli religiosi. È vero che, in accordo con i parallelismi e le analogie osservati, l’economia e la religione sono stati i mezzi conduttori universali della nostra cultura e del nostro modo di vivere, pensare ed esistere38. Sicuro è anche che i due tipi di miracoli sono convissuti vantaggiosamente, soprattutto da quando, dall’inizio dell’Età Moderna, la religione cristiana ha 37. Nel citato dossier di «El País» (2013) si cita un’interessante dichiarazione di Jacob Kirkegaard, ricercatore del Paterson Institute (non è privo di ironia il fatto che il suo cognome ricordi quello del filosofo danese Søren Kierkegaard): «Il problema è che sebbene la banca centrale europea possa abbassare di più i tassi di interesse, non sono chiari i beneficî che ne deriverebbero». Nel luglio del 2012, la BCE lasciò il costo del denaro allo 0,75%, il livello più basso della storia dell’euro, senza che per questo il credito ritornasse a fluire. In séguito, nel 2015, i tassi di interesse nella zona euro si sono ridotti fino ad arrivare allo 0,05% annuale. Tutto ciò, insieme alla caduta del prezzo del petrolio, ha senz’altro stimolato le esportazioni, ma questo non ha avuto alcun influsso sui consumi, né tantomeno sulla disoccupazione. La soluzione, invocata a gran voce dal FMI per l’Europa, è comunque l’avanzamento verso una Unione Bancaria, ma per far ciò sarebbe necessario risanare le banche, che creano impedimenti al fluire del credito. Viene in mente una poesia di Antonio Machado che si burla del passaggio dal mare (nel nostro caso, la fluttuante situazione mondiale) al deleuziano percepto (la crisi economica); dal percepto al concetto (le misure proposte dal FMI e dalla BCE); e dal concetto all’idea (che il deficit di bilancio decresca, aumenti il consumo e diminuisca la disoccupazione). «Oh, che bel daffare, dall’idea al mare / E poi ancora ricominciare!». 38. A seguire farò riferimento al già citato testo di J. Hörisch, Gott, Geld, Medien, interpretando e sviluppando alcune sue considerazioni.

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progressivamente obliato le sue promesse escatologiche e crematofobiche per modellarsi all’economia capitalistica di mercato (il che non ha mancato di avere un effetto negativo sulla percezione che l’Islam ha dell’Occidente, aggravata dalla «invasione» dei suoi territori in Medio Oriente). E in stretta corrispondenza, è andata colorandosi di terminologia religiosa, e anche di forte emotività, tutta la complessa trama configurata dal sistema capitalistico del libero mercato mondiale, l’industria multinazionale (sempre più strettamente compenetrata con la tecno-scienza) e la custodia di tutto ciò sotto il manto della Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 (insieme ad aggiunte e modifiche successive, e l’accomodamento più o meno reale delle costituzioni nazionali alle norme della suddetta Dichiarazione). Nulla di nuovo: la religione cristiana si è secolarizzata, e da parte sua la civiltà occidentale si è tinta di una religiosità flou, come una soffice nebbia di political correctness che tutto copre: anche la violenza sotterranea sotto tale strato di tolleranza39. Pertanto, non sarebbe strano che dinanzi a un tale stato di cose, qualche credente tradizionale si ricordasse, facendolo proprio, del messaggio apocalittico rivolto all’«Angelo della chiesa in Laodicea», secondo il quale «il Principio della creazione di Dio» esclama: «Magari tu fossi freddo o ardente! Ma dato che non sei né freddo né ardente, ma tiepido, sto per ­vomitarti dalla mia bocca» (Apocalisse 3, 15-16). È ovviamente innegabile che il sacramento della comunione occupi nella nostra cultura un ruolo subalterno, ben diverso da quello d’altri tempi: anche la fede si è convertita, adesso, in un affare privato e gli Stati sono laici o aconfessionali, anche 39. Si veda al riguardo Ch. Taylor, A Secular Age, Harvard Univ. Press, Cambridge (MA) 2007; tr. it. L’età secolare, a c. di P. Costa, Feltrinelli, ­Milano 2009, e anche il mio saggio Democracia y religión, SIBILA 42 (Sevilla 2014), pp. 44-47.

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laddove lo si fa in modo recalcitrante. E l’eucarestia, che provava in actu exercito e nella coscienza e nella vita del credente la coincidenza dell’essere e del segno, della cosa e del valore, cede il passo alla habermasiana comunicazione libera di dialogo40, e, più in là, all’èra delle tecnologie dell’informazione41. A che cosa si deve tutto ciò?

40. Secondo la nota tesi di Jürgen Habermas (per la verità oggi alquanto invecchiata) la convivenza delle società occidentali non riposa più su dei riti, né sul sacro, ma sul potere razionale latente nel segno linguistico e nella critica condivisa mediante l’azione comunicativa; di fronte all’azione meramente strumentale o strategica, l’azione comunicativa ha il proposito di arrivare ad accordi, per fragili che siano (in questa triade si indovinano le norme pratiche preconizzate da Kant: regole dell’abilità, consigli della prudenza, imperativi della morale). Al riguardo, Habermas enumera quattro universali del discorso: intelligibilità, verità, rettitudine e veracità, i quali dovrebbero essere coniugati in ogni discorso genuino, necessario quando si rompe la comunicazione sociale e appare come conseguenza una situazione di violenza più o meno espressa. Per questo, come principio meramente regolativo (seguendo di nuovo il sentiero kantiano) Habermas propone come orizzonte di comprensione una situazione ideale di discorso, in cui, come nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, bisognerebbe fare astrazione delle differenze di potere, razza, sesso, età e persino delle norme e pregiudizi in quel momento vigenti, offrendo ai partecipanti uguaglianza di opportunità, per presentare ciò che essi stimano come argomenti migliori, e che dovranno essere valorizzati nell’interazione del dialogo. Si veda la sua opera principale: Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1997. Della communio societalis habermasiana si potrebbe dire più o meno quello che la già citata Paca della zarzuela rispose al padre, e cioè che aveva ragione, ma che quanto lui diceva erano vecchie corbellerie. 41. Ci si ricordi che nel Medio Evo, la bolla di scomunica poteva significare che persino un Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico come Enrico IV vedesse in pericolo le sue proprietà, la sua corona e persino la sua stessa vita, a disposizione di chiunque volesse prendergliele. Da lì l’umiliante «viaggio a Canossa» che Enrico fece a piedi e in pieno inverno (gennaio del 1077) da Spira al castello omonimo, per pregare Gregorio VII di riammetterlo in seno alla Chiesa. Ma, come dice Hannah a sua sorella Anna in Die sieben Todsünden, di Bertolt Brecht e Kurt Weill: Es ist schon lange her! («È successo tanto tempo fa!»).

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13. Quando il vedere e l’udire passano al consumo

Si dice che il cibo entra dalla vista. Tale asserzione non solo è evidente, ma può servirci da filo conduttore. Infatti, si potrebbe affermare in modo plausibile che il sistema di conversioni per il quale il cibo si trasmuta in denaro, e questo nei new media della tecnologia, si debba a una conversione tendenzialmente piena del senso dell’asserzione iniziale del saggio L’uomo è ciò che mangia in quest’altro: L’uomo è ciò che vede e ode, ove lo consumi come se fosse cibo, cioè: quando può trattare le immagini come se fossero alimenti. In un modo commoventemente ingenuo, posto che la sua intenzione era diametralmente opposta a quella ora trionfante, Simone Weil avvertì già mezzo secolo fa che «il grande dolore dell’uomo» consisteva nel fatto che per lui «guardare e mangiare sono due operazioni diverse». E per questo sognava il Regno dei Cieli, perché «la beatitudine eterna è uno stato in cui guardare è mangiare»42. Potrebbe riassumersi in modo più chiaro e netto la conversione completa sperimentata dal cibo, dalla comunione e dalla comunicazione?

42. S. Weil, La pesanteur et la grâce, cit., p. 117.

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Attraverso la circolazione onnimoda dei flussi finanziari43, dell’interscambio globale di idee e merci e infine della loro concrezione nell’economia del consumatore44, le immagini45 possono essere registrate, incise, restituite alla vita virtuale, manipolate, convertite, ossia trasferite ad altri media, diffuse ovunque e in buona misura senza controllo da parte di chi le usa, e persino distrutte quando possono essere pericolose per chi le usa o diffonde, oppure quando c’è una proliferazione di immagini simili; e comunque, della loro totale distruzione non si può mai essere completamente certi. In modo analogo, gli alimenti sono prodotti, raccolti, manipolati ed elaborati, trasferiti al mercato – di modo tale che il loro valore d’uso si converta in un fluttuante valore di scambio – distribuiti ovunque e, in buona misura, senza controllo di qualità da parte del consumatore, e possono persino essere distrutti (vomitati) quando sono pericolosi o quando c’è una crisi di sovrapproduzione. E la cosa più importante: così come il cibo – in quanto fattore di coesione e sviluppo della sfera comunitaria – si appoggia e si giustifica su un rito sacrificale appartenente al piano soprannaturale, che appare ai sensi del credente come un dono gratuito da parte del dio, così anche le immagini audio-visive – l’alimento spirituale della nostra epoca – dipendono in definitiva dalle grandi compagnie produttrici di software e hard-

43. Della quale questo trattamento è per così dire la sua incarnazione in noduli di condensazione, irradiazione e spostamento. 44. Un convertito che, scettico o rinnegato, non confida più troppo nel valore dei suoi antecedenti: la coscienza del credente o quella del soggetto trascendentale. 45. Immagini audiovisive che non sono più né naturali né mentali, bensì artificiali, tanto nella loro origine quanto nella loro elaborazione e nel prodotto finale: nel limite, immagini sconnesse dalla realtà, esterna o interna: chi si ferma a guardare qualcosa o a immaginarselo, quando si dispone di una fotocamera digitale o di uno smartphone?

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ware (che a loro volta convertono il loro valore «nutritivo» in valori di borsa), delle non meno grandi corporazioni di mezzi di comunicazione (si pensi alla Sony) col conseguente declino del valore della televisione pubblica, o, nel caso delle grandi case distributrici di film, col declino non meno impressionante delle grandi compagnie di produzione cinematografica della metà del secolo scorso. Tutto questo circola tra di noi e dentro di noi come se fossero arterie comunicazionali, le quali veicolano prodotti virtuali di consumo quotidiano che possono essere letteralmente considerati tanto sovra-sostanziali (epioúsioi) quanto il pane nostro di ogni giorno: immagini che la televisione, il computer, il cellulare o l’iPhone si incaricano di somministrarci in qualsiasi luogo e che noi possiamo manipolare e persino produrre «senza che nessuno sappia quel che accade», come cantava un tempo Hölderlin in Germanien, ammirato dal «fumo dorato delle saghe e leggende che balena a noi dubbiosi»46. Forse non sappiamo che cosa ci accade, ma sappiamo come lo fa, e sotto quali forme e presentazioni, ossia: sotto forma di immagini che la televisione, il computer, il cellulare o l­ ’iPhone si incaricano di somministrarci in qualsiasi luogo e che noi possiamo registrare, manipolare, diffondere e persino produrre infograficamente. E sono esse, le immagini, a decidere la forma, le dimensioni e il sapore che devono assumere gli alimenti terrestri.

46. F. Hölderlin, Germania, vv. 24-27: «Solo, come da fiamme sepolcrali, trasvola allora / Un fumo dorato, la leggenda, in alto. / E adesso balena a noi dubbiosi interni al capo, / E nessuno sa cosa gli accade» [in Tutte le liriche, a cura di Luigi Reitani, Armando Mondadori, Milano 2001, p. 1025].

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14. Il pane e la carne dell’immagine

Naturalmente mangiamo ancora pane e carne e beviamo ancora vino, ma quando lo consumiamo in compagnia e nei luoghi adeguati per la festa, spesso lo facciamo in uno Shopping Center. Nei finti ristoranti del Centro Commerciale, il pane si è trasfigurato in pizza, cioè in una cialda coronata da spezie e unta con olio, mentre nei presunti bistrot di plastica e neon si offrono crêpes (in entrambi i casi, una massa circolare cotta di spessore sottile, anche se non proprio come l’ostia; un cibo sempre più nostalgico dei «vecchi tempi» e che forse per questo ha più o meno le dimensioni dei dischi in vinile: 30 centimetri, e nelle crêpes anche lo spessore)47. Inoltre, in quasi tutti i ristoranti del Mall o del «Centro Commerciale»48 servono hamburger: carne vaccina triturata, manipolata, cotta alla griglia, racchiusa tra due fette di tenero pane bianco, con un po’ di lattuga e pomodoro, il tutto bagnato da gialla mostarda e rosso ketchup, come a riconciliare, in ogni caso, l’offerta dei 47. Secondo Nicola Sorrentino, le misure della pizza perfetta sono: un diametro di 35 cm, uno spessore di 0,3 cm, e un cornicione di ½ cm (http:// elisacarriero.blogspot.com.es/2011/10/le-misure-della-pizza.html). 48. Per capire la sinonimia, si veda la splendida commedia Mallrats [Topi di Mall], di Kevin Smith (1995). Titolo in italiano: Generazione X.

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frutti della terra, da parte di Caino, e il sacrificio del mansueto agnello, da parte di Abele, anche se in questo caso si tratta di carne bovina. Sia la pizza sia il pane sia la carne degli hamburger hanno forma circolare, come a rinviare a una forma geometrica perfetta, in cui si plasmava la forma duale d’altri tempi: la sacra ostia e la moneta. In tal modo, si allude anche alle nuove «conversioni» della circolarità: la riproduzione di testi e musica nei già citati dischi in vinile (prima, di bachelite) e in CD Rom o video DVD, e addirittura, oggi, continuando col processo in crescendo di desostanziazione del reale (e non più di transustanziazione), i nuovi devices come le 74 App Android per gestire MP3 oppure dispositivi portatili come l’iPad o iPod, capaci non solo di archiviare video in streaming, ma anche di convertirli in formato per MP4. A loro volta, gli hamburger vengono amministrati in templi affidabili, come Pizza Hut, Burger King (il nuovo re, dopo Cristo Re o i re decaduti dalle loro funzioni, perché credevano di essere veri re) o McDonald’s; questa catena ha inoltre le proprie parole rituali (I’m lovin’ it) e persino terminali per raccogliere «esemplari» di fast food senza muoversi dall’automobile, come i bancomat o i terminali della televisione e del computer. Un’ultima conversione (per adesso): il già menzionato primato della congiunzione audio-visiva sull’ingestione «reale» di alimenti (fino all’estremo dell’anoressia) o al contrario il divorare ossessivo di fast food, cibo che è riflesso fedele di queste stesse immagini (fino all’estremo dell’obesità), conduce a una decisiva deriva nel formato di presentazione di testi alfanumerici, di musica e immagini: la forma circolare (ritenuta sacra fin dall’antichità) lascia il posto a quella rettangolare degli schermi. Qui, la cosa importante non è più la rappresentazione centrale del Potere, che esigeva l’attenzione del suddito o del credente (come nelle monete e nelle medaglie), bensì al contrario, ciò che è rappresentato viene qui simbolicamente

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sottomesso agli occhi e alle mani dell’utente, il nuovo e illusorio «padrone di questo mondo». (Come recita la pubblicità di un prodotto per i capelli: «perché io valgo»). Tale padrone si affretta a diffondere sui social network la buona novella della moltiplicazione miracolosa di immagini (soprattutto se si tratta dell’immagine di sé). È il regno del rettangolo, che si può abbracciare uno intuito e a portata di mano, anzi di polpastrello: thumb generation. Ogni informazione, persino quella sacra, viene adesso raccolta, registrata e diffusa attraverso schermi che sembrano dialogare tra loro, tramite e per mezzo di corpi umani. Un tempo, furono l’introduzione dell’economia monetaria e soprattutto la necessità di istituire norme igieniche atte a evitare infezioni durante le funzioni religiose, a imporre la sostituzione del pane eucaristico (spezzato dal sacerdote e ulteriormente spezzettato dagli stessi fedeli, come ancora si fa nel rito bizantino) con la perfetta forma circolare della cialda. Adesso, l’economia liquida si lascia influenzare dalla congiunzione dell’informatica comunicazionale e dall’industria dell’ozio, rendendo possibile che persino la Santa Messa e altre funzioni divine siano ritrasmesse televisivamente. Che ne è stato del sacrificio supremo, dell’ingestione del corpo e del sangue di Cristo, in un mondo permeato da un’incolore e inodore diffusive Christianity? A che cosa si deve il trionfo attuale (esteso a livello planetario, grazie a una «tenaglia» formata dalla coalizione dietetico-religiosa del Lontano Oriente e del Lontano Occidente, il Far West), delle sette mistico-­ecologiste, ostinate a convertire i consumatori europei in ruminanti (e se recalcitrano sono anche disposte ad accelerare violentemente la fine del pianeta)? Credo che ciò sia dovuto, in primo luogo, al fatto che la globalizzazione, a immagine di una sana salad bowl (non più melting pots, pot-pourri o fondues: fanno ingrassare; buttiamo via

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la T-bone steak), converte queste esotiche concezioni in un eclettico e variopinto alimento che si presenta, mirabile visu, come terreno e spirituale al tempo stesso (magari insipido, ma non si può avere tutto), composto ecletticamente da annacquate visioni del mondo buddiste e induiste, manipolate per adeguarsi al gusto internazionale, come il cibo cinese o giapponese adattato, o addirittura da credi cristiani mal digeriti (Nietzsche già diceva che lo «spirito tedesco» soffriva di Indigestione). Questa poltiglia viene trasmessa elettronicamente mediante consigli di dietetica vegetariana (all’estremo, vegana) e garantita in forma «telediretta» e «virtuale» dalla santità di guru religiosi, che diffondono i loro messaggi di salvezza (una sorta di mens sana in corpore sano in salsa orientale) attraverso canali televisivi, pagine web o social network. Tutto ciò sfocia, a nostro avviso, in una condanna appena velata: il rifiuto generalizzato delle antiche religioni universali (come quella cattolica) e sacrificali del Libro e della Carne (ossia, della parola e dell’animale), perché i loro rituali implicano un contatto diretto tra i fedeli, persino corporeo («Scambiatevi un segno di pace») e un contatto mediato tra essi e un potere sacro (sebbene esercitato in modo vicario), che nella Consacrazione eucaristica si converte non solo in contatto, ma nell’introduzione nello stesso corpo del credente di alimenti che, come annotato prima, forse non salvaguardano i precetti igienici né sono avallati da un corrispondente Ministero della Sanità (è chiaro che se diventasse così, e magari lo è diventato già, dove sarebbe il Mistero)? Se stiamo attenti allo schermo, potremo trovare in esso una catena di conversioni, rette tutte quante dal primato della vista stereoscopica del soggetto (Only for your eyes!), il quale ha l’esigenza di dominare dalla sua particolare prospettiva il panorama offerto all’interno di uno spazio considerato nell’Età Moderna, e non a caso, come un contenitore omogeneo, penetrabile e isomorfo in cui avrebbe luogo la «esistenza del

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mutevole»49, e il cui modello concreto sarebbe la scatola quadrata del teatro, in quanto conversione dell’altare del tempio, protetto dall’abside semi-circolare. Un teatro, d’altronde, i cui ingressi sono tanto rettangolari quanto la carta moneta con cui si acquistano, finché i biglietti non assumono la stessa forma in scala col bianco schermo del cinematografo, la cui forma di ampio rettangolo (una forma ereditata a sua volta dai quadri pittorici) consente un migliore utilizzo della sala cinematografica, questo tempio comune in cui gli occhi degli spettatori stabiliscono una linea ideale e mediatrice, l’«orizzonte», stimolato dal piano panoramico (come nei film di ampio orizzonte di John Ford) e specialmente dal piano di tre quarti, proprio del cinema classico americano (si pensi ai film di Howard Hawks) che situa su di una stessa linea – democratica, diremmo – gli occhi dei personaggi e quelli dello spettatore. Invece, quando l’apparato radiofonico, e soprattutto televisivo, entra nell’intimità della casa (come un nuovo focolare domestico: il caldo fulcro della famiglia), lo schermo sembra riconvertirsi retrospettivamente, rimpicciolito, nella vecchia cara «scatola» quadrata del teatro, giacché consente una vicinanza più cordiale della voce ritrasmessa che quella emessa direttamente dal sacerdote dal pulpito o dall’ambone della chiesa (o dal muezzin dal minareto della moschea). Questa vicinanza, anzi, questa intimità tra l’immagine, quasi liberata da ogni carico sensoriale che non si esaurisca nella pura comunicazione, e il ricettore (e già è significativo che adesso sia necessario precisare se si tratta dell’apparato o della persona) diventa ancora più grande grazie allo schermo televisivo, 49. Ci si ricordi che Kant faceva della persistenza del reale nel tempo (o per dir così: della spazializzazione del tempo stesso) il «sostrato della determinazione empirica del tempo in generale; un sostrato, quindi, permanente, all’interno del quale cambia tutto il resto [ossia] l’esistenza del mutevole [das Dasein des Wandelbaren]» (KrV, A 144/B 183).

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che permette, meglio del cinema, la trasmissione di immagini in primo piano, di modo tale che il busto parlante sia situato alla stessa altezza dello spettatore seduto sul divano. È vero che questa conversione simbolica si deve anche, ovviamente, alla tipologia primitiva del terminal televisivo, che raccoglie le immagini mediante un tubo di raggi catodici, il cui fascio di elettroni si ordina nelle famose 625 linee del televisore. Tuttavia, anche qui si impone attualmente l’ampio rettangolo dello schermo piatto al plasma oppure del computer (la distanza è così minima che fa pensare all’agostiniano desiderio che ciò che è trasmesso sia consumato in modo intimo e solitario: intimior intimo meo). Ugualmente rettangolari, ma di verticalità e corpulenza che ricordano il corpo umano, sono i distributori pubblici di bibite e merendine o dei parchimetri: macchine che, come se volessero riunire nel loro rendimento comunitario le vecchie funzioni di dar da mangiare all’affamato e da bere all’assetato, hanno scanalature per introdurre monete o carte di credito. A proposito, la carta di credito sembra essere l’ultimo luogo di resistenza della «cosa» materiale (sebbene ridotta a una tavoletta di plastica) che del denaro convertito in mero flusso circolatorio, e attraverso la digitazione, conserva ancora il ricordo della carta moneta. Da parte sua, la funzione della carta come spazio rettangolare di raccolta delle parole, nelle pagine dei libri, viene ora ad essere convertita nell’immagazzinamento, processamento e connessione a Internet nei mobile devices o nel tablet elettronico (una delle cui marche si chiama appunto Android). Vale la pena proseguire? Questa progressiva smaterializzazione e assottigliamento estremo delle cose, trasformate in immagini bidimensionali (ed è già ben significativa la forte resistenza esercitata dal pubblico all’ologramma elettronico o ai film in 3D), può forse condurre a una evaporazione delle vecchie «cose» della non meno vecchia «realtà esterna», in

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un’operazione che mette in ridicolo l’avvertimento di Marx ed Engels nel Manifesto del 1848, in base al quale tutto l’elementare e tutto l’esistente si disfa nell’aria? Delle cose forse no, ma del loro sostegno materiale della loro convertibilità assoluta, cioè della presenza visiva e palpabile del denaro, probabilmente sì. Nella dolce Francia si parlava, prima dell’introduzione dell’euro, di denaro en espèce ou en nature; nella meno poetica Spagna di pagamento in metálico, e in inglese di cash, proveniente da cassa, quella della banca. Ho utilizzato l’imperfetto in tutti questi casi, perché nella nazione, stando a ciò che si dice, in cui si vive meglio al mondo, la Danimarca, il governo sta pensando di rendere obbligatorio quanto stanno già facendo i grandi commercianti danesi (e non solo loro: si pensi ai Bitcoin, la moneta elettronica che circola su Internet), cioè ritirare dalla circolazione monete e banconote, con l’obiettivo finale della sparizione del sostegno materiale del denaro, carte di credito comprese. Attualmente, solo il 20% degli acquisti si fa in contanti. E infine, a questa evaporazione tendenzialmente totale della materialità del flusso circolatorio, il sangue incolore della società, corrisponde la messa in effigie dello stesso utilizzatore, mediante il selfie e il relativo bastoncino, che convertono il mondo in un mero sfondo del trionfo narcisista di un soggetto «spiritualizzato» al massimo: l’ombra fantasmatica del sé stesso, l’auto-divoramento dell’«io» da parte dell’immagine. (Si ricordi: lo slogan «perché io valgo» si coglie soltanto nell’immagine). Sarà necessario ricordare che il venerabile termine Missa, proveniente dal perfetto missum esse, da cui anche: missione), che dà il nome all’atto centrale della liturgia cristiana, la Messa, ha dato luogo al tedesco Messe, che sta a denominare proprio l’esibizione di ciò che viene inviato e raccolto da i­mprese, istituzioni e Paesi, nell’àmbito commerciale e industriale? Bisognerà notare altresì che ciò che si mostra in una Mostra consiste,

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per lo più, in elaborazioni culturali provenienti dall’industria dell’ozio, prima della cinematografia e adesso di mobile device e in generale delle ultime novità di apparati elettronici multimediali? (Cfr. il Mobile World Congress, a Barcellona, ovvero il 52º Congresso Eucaristico Internazionale del 2020 a Budapest, annunciato dal Papa Francesco con un video messaggio). Vediamo adesso la doppia versione, economica e religiosa, dei termini latini da cui provengono le parole fiera e festa, la cui origine è strettamente collegata50. Successivamente i due ter-

50. Fiera viene dal latino feria, che indicava nel mondo latino i giorni dedicati al culto pubblico; in quei giorni era proibito esercitare il potere giudiziario: feriae forenses. Successivamente il termine è passato a significare «esposizione di qualcosa a fini commerciali», forse perché nei giorni di festa si approfittava per esporre merci. I «giorni feriali» sono invece i giorni lavorativi, a dispetto del significato della parola «ferie», che indica vacanza dal lavoro. Questo perché il primo significato, quello di giorni feriali, deriva dall’introduzione del calendario cristiano, che aveva sostituito i nomi pagani dei giorni della settimana, sostituendoli con una numerazione progressiva, dal lunedì (feria secunda) al venerdì (feria sexta), mentre la denominazione del sabato, di derivazione ebraica, si conservò, e la domenica, primo giorno della settimana, venne indicato come il giorno del Signore. Da qui il significato di giorno feriale come giorno lavorativo. (La lingua portoghese ha conservato la numerazione progressiva dei giorni della settimana introdotta dal calendario cristiano). L’altro significato del termine, ossia le ferie come periodo di vacanza, viene evidentemente dal significato latino del termine. Il termine festa, latino fesiae (termine rintracciabile ancora nell’italiano del Cinquecento, precisamente nel Galateo di Monsignor Giovanni della Casa, in cui si dice «perciocché dove è piacevol motto ivi è anche fesia e riso») indicava i giorni in cui bisognava dedicarsi esclusivamente alla celebrazione del divino, astenendosi dal lavoro, proprio come nelle ferie. Festa e feria condividono la stessa etimologia: la radice indoeuropea fes, fas, ciò che è proprio del divino, da cui deriva anche fanum, tempio. Ora, con la tendenziale sparizione del limite tra fanum e ciò che si trova dinanzi a esso (il profanum), il sacro sembra essersi convertito urbi et orbi nel profano, raccolto nei templi del denaro: la Banca, il tempio del sapere (del saper far denaro: l’Università-Impresa) e della circolazione di entrambi (la Borsa). Tutto ciò, «esposto» in appositi siti espositivi, come l’Expo di Milano. In spagnolo «sito

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mini si sono scissi negli àmbiti la cui evoluzione e conversione abbiamo analizzato, quello economico e quello religioso. Adesso sembrano essersi riuniti definitivamente nella nuova Missa (indubbiamente non sancta): la Weltmesse, il cui nome nella lingua franca dell’imperium-emporium commerciale e culturale è: World Fair. Questa rotazione di conversioni si plasma infine nell’Esposizione Universale del 2015, a Milano: in essa non si espone più il Corpus Christi. Ciò che viene esposto adesso sono i prodotti scelti del mondo, in specie (en espéce, come le monete d’altri tempi: sonnants et trébuchante, o come i venti scudi «ben contanti» che Dulcamara in «L’elisir d’amore» pretendeva dal povero Nemorino) o, soprattutto, in effigie: in immagini e simulacri pronti a continuare la danza delle merci e i flussi monetari dell’economia liquida mondiale. Fronleichnam Christi, ohne Himmelfahrt? Corpo di Cristo, senza viaggio al cielo? Non c’è neanche da preoccuparsene più di tanto: per gli inglesi, presto verranno the Holidays, per i tedeschi die Ferien, e per gli italiani il ferragosto, anche se pochi ricordano che sotto questo nome si nascondono ancora le venerabili Feriae Augusti. Date al turismo di massa quello che è dei tour operator e all’alimentazione mondiale quel che è della circolazione elettronica del Capitale. Consummatum est. «Sono cose di questi tempi», filosofeggiava il metronotte col carabiniere nell’ardente notte madrilena de La verbena de Paloma51 (la cui festività si celebra proprio nel giorno di ferragosto). E se il vento di questi tempi ha spazzato via le vecchie espositivo» si dice recinto ferial; un tempo l’espressione veniva riservata al bestiame. 51. Si tratta di una zarzuela composta da Ricardo de la Vega, con musica di Tomás Bretón. Fu rappresentata per la prima volta al Teatro Apollo di Madrid il 17 febbraio del 1894. Il titolo fa riferimento alla festività madrilena del 15 di agosto, giorno in cui si celebra la processione della Virgen de la Paloma.

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immagini e i vecchi riti, lasciandoci dei resti di individui, monconi non riciclabili in immagini, che cosa farne della povera carne, del povero sangue umano, troppo umano?

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15. Conclusione: l’immondizia e la carne

È possibile intravedere oggi, sia pure a tentoni, il significato dell’enigmatico frammento 124 (secondo la numerazione di Diels-Kranz) di Eraclito l’Oscuro: «Sárma eike kechyménon kállistos […] ho kósmos»? In realtà, fu Hermann Diels52 che propose di leggere il primo termine del frammento come ­sárma (immondizia). In tal caso, la versione sarebbe: «Il cosmo più bello, come residui di ciò che si getta a caso». Ma nei manoscritti si legge però sárx, cioè «carne»53. Il termine si trova anche, com’è noto, in una venerabile espressione teologica: il Verbo si è fatto carne. In un’edizione molto più recente54, si accetta tale interpretazione. E tenendo conto che kósmos

52. Curatore, insieme a Walter Kranz, di Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 1903. 53. Si veda la controversia in E. Zeller - R. Mondolfo, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico I-IV: Eraclito. Il testo tedesco è stato completamente rielaborato da Mondolfo (La Nuova Italia, Firenze s. a., p. 26). Interpreti come Friedländer o MacDiarmid propongono questa versione: «Il più bello [si intende: degli uomini], carne composta da pezzi sparsi a caso», come se si trattasse di un’imitazione delle teorie di Anassagora ed Empedocle. 54. Die Vorsokratiker (ed. bilingue e tr. di J. Mansfeld), Fr. 125, Reclam, Stuttgart 1983; I, 281.

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può significare anche «ordine», si può tradurre anche così: «L’ordine della carne sparsa dappertutto è […] la più bella». Una nuova conversione del termine greco sárx come disseminazione, in quanto corruzione? Noi sappiamo bene che questo è un termine altamente dialettico: da un lato può significare effettivamente la carne sacrificale dell’Agnello Redentore, ma d’altro canto significa anche la carne corrotta, come quella dei sacrifici offerti a Ba’al; per questo, in linguaggio ecclesiastico, rinvia a «desiderî della carne, concupiscenza, natura corrotta, mondo»55. Se applicassimo queste accezioni alla versione del frammento eracliteo, otterremmo una suggestiva e francamente eterodossa asserzione, cioè: Il mondo più bello (nel senso di «ordine» e «legalità») è come la carne (uno dei «nemici dell’anima», insieme al mondo e al demonio56) di ciò che è sparso a caso (ossia, dei rifiuti).

55. C. Alexandre, Dictionnaire Grec-Français composé sur un nouveau plan, où sont réunis et coordonnés les travaux de Henri Estienne [Thesaurus graecae linguae, 1572], de Schneider [J.G. Schneider, Kritisches griechisch-deutsches Handwörterbuch, 1797], de Passow [F. Passow, Handwörterbuch der griechischen Sprache, 1841] et des meilleurs Lexicographes et Grammairiens anciens et modernes, Hachette, Paris 1878, p. 1274 (sub voce sárx): «par ext. corps; Eccl. désirs de la chair, concupiscence; la nature corrompue; le monde». 56. Cfr. Padre Francesco Arias, della Compagnia di Gesù: Seconda Parte del Profitto Spirituale, nel quale s’insegna a fare acquisto delle virtù, e progresso nello spirito, tradotta dalla lingua Spagnola dal Comm. Fra Giulio Zanchini, Appresso Fioravante Prati, In Venetia MDCII, Trattato VI, p. 168: «È bisogna, che noi gastighiamo tutto il nostro corpo, e che come fiera bestia gli mettiamo il freno; perciò che se noi lo accarezziamo con diletti, in guisa di un feroce, e indomito cavallo messo à tirare un carro precipita quello, e chi vi è sopra, cosi farà il corpo accarezzato có l’anima nostra, che la precipiterà ne vizij. […] Da questo seguita, che con la mortificazione ancora si vincono i Demoni, perché lo instrumento il quale essi hanno per combattere contra lo spirito, è la nostra propia carne; così diceva graziosamente il santo compa-

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Che può voler dire questo? Che cosa può dire a noi, oggi, nell’epoca dell’alimento spirituale tecnologico? Questo: la disseminazione piena del dolore circolante di coloro i quali patiscono la fame proprio adesso, nell’epoca dell’alimento «spirituale» di immagini che ci entrano letteralmente dagli occhi, obbliga nostro malgrado a sentire quasi fisicamente l’odore putrido, persino nauseabondo, della carne lacerata di quelli che subiscono violenza (un altro tipo mortificatio!), di quelli che non possono ricevere alimento né materiale, né spirituale, delle sofferenze dell’anziano ammalato. Solo che sappiamo anche ammirare l’immagine virginale delle ragazze in fiore e la carne innocente del neonato. Questa è la concupiscenza investita in sapere, la comprensione che il dolore supremo è parte integrante della felicità di adesso, e che la felicità suprema porterà integrate in sé, irredimibili e per sempre, le molte morti, i molti dolori altrui assimilati in modo solidale, convertiti infine in carne della nostra carne e in sangue del nostro sangue. Tutto ciò allude a una nuova comunione universale, in cui le due versioni del frammento eracliteo interscambiano il senso dell’essere e l’essere del senso, cioè che l’ordinamento più bello (estremo del senso) è anche, indissolubilmente, il mondo (estremo dell’essere) della disseminazione della carne-rifiuto, della sárkōsis57. Le ferite della carne lasciano tracce nello Spirito. O meglio: lo Spirito è la congiunzione, il plesso delle ferite della carne. Dixi et salvavi spiritum meum. O forse no.

gno del Padre S. Francesco, che la nostra carne è il più valente soldato, che habbia il nostro avversario per farsi guerra». 57. Cioè: «escrescenza di carne, in termini medici, sarcome»; ma anche, in splendida e involontaria inversione dialettica: «Eccl. incarnation», secondo quanto informa puntualmente C. Alexander nel suo citato Dictionnaire Grec-Français (sub vocibus sárkoma e sárkosis, p. 1274).

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Indice



Parte prima Che cosa c’è da mangiare?

1. Dell’essere del mangiare e dell’essere dell’uomo

p. 11

2. Non c’è niente di meglio della vista

p. 21

3. Che cosa o chi ci invita a mangiare?

p. 29

4. Quando Dio si dà da mangiare

p. 35

5. Un banchetto di morte

p. 43

6. Parola di Dio

p. 51

7. Dalla comunione alla comunicazione

p. 57

8. «Confidiamo in Dio», recita una banconota

p. 61



Parte seconda Quando il cibo si può definire come un «quadro di lontananza»

9. Credente, debitore e soggetto

p. 77

10. La struttura della conversione

p. 83

11. Dovere o offendere: questo è il problema

p. 93

12. Del malessere nell’economia europea (­soprattutto nei Paesi del Sud)

p. 103

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13. Quando il vedere e l’udire passano al consumo

p. 111

14. Il pane e la carne dell’immagine

p. 115

15. Conclusione: l’immondizia e la carne

p. 125

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Gulliver - 7

Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati

ISBN E-book 9788885716452

Mangiare, ingerire, assimilare. Nel nostro tempo iconico, si mangia anche e soprattutto con gli occhi: attraverso la circolazione onnimoda dei flussi finanziari, dell’interscambio di idee e merci su scala mondiale, e della loro concrezione nell’economia del consumatore, le immagini sono ingerite, e il cibo, a sua volta, diventa immagine, in un’altalena di conversioni reciproche. E così come un tempo il cibo si appoggiava, giustificandosi, su un rito sacrificale che rinviava al mondo soprannaturale, adesso anche le icone audio-visive – l’alimento spirituale della nostra epoca – dipendono dalle grandi compagnie produttrici di soft e hardware (che a loro volta convertono il loro valore «nutritivo» in valori economici) e dalle non meno grandi corporation di mezzi di comunicazione, nonché dal trionfo planetario della Mobile Age e dei social network. Gastrosofia divina. Arte dei piaceri della tavola. E la carne si fa Parola, pubblica e pubblicitaria. Date al turismo quel che è dei tour operator e all’alimentazione mondiale ciò che è della circolazione monetaria elettronica. Consummatum est.

Félix Duque è Docente Emerito di Filosofia presso la Universidad Autónoma di Madrid. Le sue ricerche si incentrano sulla filosofia classica tedesca, sulla teoria dell’arte contemporanea e sui rapporti tra politica e storia. Ha curato l’edizione di alcuni classici della filosofia, tra cui L’arte e lo spazio di M. Heidegger e la Scienza della Logica di Hegel (2011 - 2015). Fino a oggi, è autore di trentacinque volumi complessivi. In italiano, tra gli altri, La fresca rovina della terra (2007); Abitare la terra; La radura del scaro (2007); La fresca rovina della terra (2007); Il mondo, dall’interno. Ontotecnologia della vita quotidiana (2012); Contro l’umanismo (InSchibboleth, 2014). Gli è stato dedicato un numero monografico della revista TROPOS IV, 1 (Torino, 2011): Arte e terrore. In dialogo con Félix Duque (a cura di A. Martinengo).

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