Il piacere degli occhi 8875212481, 9788875212483

François Truffaut (1932-1984) è stato uno dei massimi esponenti della cinematografia francese. Oltre ad aver diretto cap

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Italian Pages 302 [310] Year 2010

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Il piacere degli occhi
 8875212481, 9788875212483

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TRUFFAUT IL PIACERE DEGLI OCCHI .4 cura

di Jean Narboni e Serge Toubiana

minimum fax

Francois Truffaut Il piacere degli occhi titolo originale: Le Plaisir des yeux traduzione di Melania Biancat

Questo libro è stato pubblicato con il contributo dell’Ambasciata di Francia/B.C.L.A. e del Ministero degli Affari Esteri francese L’editore si dichiara a disposizione degli aventi diritto sulla traduzione di Melania Biancat, originariamente pubblicata da Marsilio, che è stata riveduta e corretta per questa edizione. I capitoli inediti «Rinascita del cinema americano», «Una mentalità da fine secolo», «Girare un film con Steven Spielberg», «Charlie Chaplin» e «Charlie Chaplin, un uomo come gli altri» sono stati tradotti da Lorenza Pieri.

© Cahiers du cinéma, 1987 © minimum fax, 2006, 2010 Tutti i diritzi riservati

Edizioni minimum fax piazzale di Ponte Milvio, 28-00135 Roma tei. 06.333 ’545 /06.3336553 “ fa * 06.3336385 [email protected] www.minimumfax.com

I edizione: naggio 2006 li edizione :gennaio 2010 ISBN 978-18-7521-248-3 Composizioni tipografica: Sabon (Jan Tshichold, 1967) porgli interni Futura (Paul lenner, 1918) e Filosofia (Zuzana Licko, 1996) per la copertina

Francois Truffaut

Il

piacere DEGLI OCCHI

Jean

a cura di Narboni e Serge Toubiana traduzione di Melania Biancat

PREMESSA di Jean Narboni e Serge Toubiana

È dal 1980 che con Francois Truffaut abbiamo avuto occasione di tornare a più riprese sul progetto di riunire in una nuova raccolta ar­ ticoli, prefazioni e brevi saggi, pubblicati in diverse occasioni su gior­ nali, riviste e libri, sia in Francia che negli Stati Uniti. I suoi interven­ ti dovevano costituire in qualche modo un prolungamento dei Film della mia vita * (pubblicato da Flammarion nel 1975),a testimonian­ za di un’attività di scrittura costante, parallela a quella di regista. Questo progetto era ovviamente andato avanti dato che Francois Truffaut vi si era dedicato nei momenti liberi dalla preparazione e dalla realizzazione dei suoi film. Il tempo e la malattia non gli hanno permesso di portarlo a termine. Ma la traccia del libro era già deli­ neata, con gli abbozzi di alcuni capitoli, elenchi di articoli e titoli. Non ci restava che ritrovare questi testi e organizzare un criterio or­ ganizzativo d’insieme perché II piacere degli occhi - titolo che lo «stesso Truffaut aveva scelto - potesse un giorno essere pubblicato. 1. La traduzione italiana è stata pubblicata da Marsilio, Venezia i986x. [n.d.t.}

I 5 I

Questi articoli coprono un periodo molto ampio della sua attività di «scrittore di cinema»: tre decenni che l’hanno visto di volta in volta affermarsi come critico (a partire dai primi anni Cinquanta, sul settimanale Arts e sui Cahiers du cinéma), polemista sferzante (è con «Una certa tendenza del cinema francese»,1 uscito nel gennaio 1954 sui Cahiers, che divenne celebre), poi, dopo gli inizi nella re­ gia, come saggista, sempre pronto a curare le prefazioni dei libri dei suoi amici e a ricordare registi e personalità che ammirava (Renoir, Hitchcock, Welles, Chaplin, André Bazin, Henri Langlois, HenriPierre Roché e via dicendo). Ciò significa che la natura stessa dei suoi scritti è eterogenea, an­ che se ne risulta molto chiaramente una continuità di stile e di pen­ siero: tipici di un vero pensatore, o più precisamente di un moralista del cinema il cui talento e la cui fecondità sono riconosciuti da tutti. Seguendo le sue annotazioni abbiamo organizzato quest’opera non in ordine cronologico, iniziando cioè dai suoi articoli più vec­ chi, ma siamo risaliti a questi ultimi partendo dai suoi scritti più re­ centi, in genere posteriori all’uscita dei Film della mia vita. E quindi // piacere degli occhi delinea una personalità in evoluzione, in qual­ che modo «a ritroso», dalla posizione di Truffaut cineasta afferma­ to fino agli articoli anteriori al suo debutto come regista, che resti­ tuiscono un’immagine di lui più antica, quasi sfuggente, da cui, per sua propria confessione, aveva preso le distanze, senza per questo rinnegarla. Lo prova il fatto che lo stesso Francois Truffaut aveva incluso in questo libro una sezione di scritti polemici (il titolo «Un po’ di pole­ mica non fa male»1*3 è suo) che trova così tranquillamente un suo po­ sto accanto ai numerosi articoli elogiativi dedicati ad attori («Viva i divi!»4), a scrittori (William Irish, Henri-Pierre Roché) o ai suoi ci­

1. Vedi in questo volume a p. 231. Ifi.d.t.j

5. Vedi in questo volume a p. 219. [n.d.t.l

4. Vedi in questo volume a p. 189. (n.d.t.l

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neasti prediletti. Nell’insieme si delinea una genealogia, o meglio un’archeologia che, con / film della mìa vita, riflette nella sua diver­ sità l’intensa attività di scrittura dell’uomo di cinema. Siamo riusciti a portare a termine questo progetto grazie alla pre­ ziosa collaborazione di Madeleine Morgenstern e dei Films du Carrosse (Josiane Couèdel e Monique Holveck), che desideriamo rin­ graziare vivamente.

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Il piacere

degli occhi

Prima

Il cinema in

parte

prima persona

IL REGISTA, COLUI CHE NON HA IL DIRITTO DI LAMENTARSI

Il problema di sapere chi sia il vero autore di un film non si pone in maniera categorica: esistono film di registi, film di sceneggiatori, film di operatori, film di divi. In assoluto, possiamo affermare che l'autore di un film è il regista, e lui solo, anche se non ha scritto una sola riga della sceneggiatura, non ha diretto gli attori e non ha scel­ to le angolazioni delle riprese; bello o brutto, un film assomiglia sempre a colui che ne firma la realizzazione, e nel peggiore dei casi quello che ho appena citato - ci troveremo di fronte al film di un si­ gnore che non ha diretto gli attori, non ha collaborato alla sceneg­ giatura e non ha deciso le angolazioni. Anche se la sceneggiatura fosse buona, gli attori abbastanza dotati da recitare senza indica­ zioni e l’operatore bravo, sarebbe un brutto film e più esattamente il brutto film di un cattivo regista. A mio parere, il regista è l’unico elemento della troupe cinemato­ grafica che non ha il diritto di lamentarsi o di ritenersi maltrattato; sta a lui conoscersi abbastanza bene da potersi attribuire il giusto valore e decidere se è in grado di subire limitazioni volgendole a pro­ I «3 I

prio vantaggio - a vantaggio del film, naturalmente - o se quelle li­ mitazioni potranno diventare delle concessioni che, in quanto tali, nuoceranno al risultato. Non dimentichiamo che il maggior regista vivente, Jean Renoir, ha fatto praticamente solo film su ordinazione o adattamenti, appropriandosene tanto da farne ogni volta opere assolutamente personali. Quello che è l’interesse di un film, e che deve fondersi con l’inte­ resse del regista, va talvolta contro gli interessi individuali: lo sce­ neggiatore vedrà allora edulcorare le sue intenzioni e sparire parti di dialogo, lo scenografo si accorgerà che alla fine viene utilizzata solo una parte delle sue scene, nel mixaggio «salterà» un po’ della parti­ tura musicale e le esigenze del montaggio «faranno fuori» certi «ef­ fetti» di un attore che, da parte sua, avrà avuto il solo torto di aver «fatto fuori» qualche battuta del testo; in breve, ogni membro della troupe probabilmente avrà le sue buone ragioni per considerarsi maltrattato o male utilizzato, ma l’essenziale è che il film sia, in un modo o nell’altro, portato a termine. Troppi registi ormai hanno preso l’abitudine di giustificare la me­ diocrità dei loro film con le richieste eccessive del produttore. Si è così creata la leggenda secondo la quale l’esercizio del mestiere di re­ gista è una specie di schiavitù dorata che, per le somme investite e le divergenze degli interessi rappresentati, relega questa funzione in un campo in cui l’arte c’entra poco, agli antipodi della libertà crea­ tiva del romanziere, del pittore o dell’autore drammatico. Per citare solo esempi francesi, credo che l’opera di un Robert Bresson o di un Jean Renoir smentiscano questa leggenda nella ma­ niera più assoluta. Ho scelto di proposito due esempi contradditto­ ri. Robert Bresson, per fare un buon film, ha bisogno di libertà asso­ luta; è lui a fornire il soggetto, redige da solo il copione, sceglie gli in­ terpreti - e ormai sceglie soltanto non professionisti - e deve poter disporre di un tempo relativamente lungo per le riprese e il montag­ gio, pur lavorando con una troupe piuttosto ridotta. Inoltre, per gi­ rare un film, è disposto ad aspettare finché non incontra il produtto­ re che accetterà tutte le sue condizioni, sedotto dal soggetto o confi­ I >4 I

dando nel grande talento dell’autore del Diario di un curato di cam­ pagna e di Un condannato a morte è fuggito. Jean Renoir, invece, non concepisce di lavorare senza tener conto del parere di tutti quelli che gli stanno attorno; ama con passione i mestieri legati allo spettacolo, gli attori, i tecnici; accetta volentieri, dietro suggerimento del produttore, di utilizzare questo o quell’atto­ re famoso a cui, del resto, offre l’occasione di interpretare il suo ruo­ lo migliore; discute volentieri il soggetto con i finanziatori o con gli interpreti, accettando le più diverse argomentazioni; tiene conto di tutte le esigenze e ha riguardo per la suscettibilità di ciascuno; ogni suo collaboratore avrà la sensazione di aver fatto trionfare il proprio punto di vista anche se il risultato sarà «puro» Jean Renoir, qualco­ sa di caloroso, vivace, intelligente e rigorosamente inimitabile. Dunque, secondo me, le limitazioni imposte al regista sono fittizie o esistono solo se il regista ha poco carattere o poche esigenze e, dato che nessun produttore ha interesse a finanziare un brutto film, esiste sempre la possibilità di migliorare una sceneggiatura già esi­ stente... È vero, tuttavia, che la libertà lasciata al regista è inversamente proporzionale all’entità del preventivo di spesa. Il «tempo» nel ci­ nema è diventato talmente caro - affitto dei teatri di posa, compen­ si ai divi, stipendi ai tecnici - che gli esperimenti, o anche solo gli er­ rori, non sono permessi; il film è una locomotiva che deve andare avanti a tutti i costi perché dopo il suo passaggio si fanno saltare le rotaie. Se davanti la strada è ostruita, non importa! Bisogna co­ munque passare. Ci sono voluti tutto il genio, il talento e l’astuzia di Max Ophuls per fare di Lola Montès un’opera così personale e così bella, un poe­ metto da 800 milioni, che ha ovviamente chiuso in passivo! Qui devo aprire una parentesi: suppongo che, se per esprimere il punto di vista del regista è stato scelto un regista principiante come me, è perché da me ci si aspetta dei paragoni tra la normale produ­ zione francese di due anni fa, prima dell’arrivo di quella che è stata chiamata la «Nouvelle Vague», e la produzione di oggi. I *51

Due anni fa, il costo medio di un film francese era di 120 milioni di franchi. Per ammortizzarlo, il film doveva realizzare cinque volte tanto nelle sale cinematografiche francesi e consistenti vendite all’e­ stero; il rischio di perdere tutto o parte dell’investimento obbligava i produttori e i distributori a procurarsi garanzie infallibili, costitui­ te generalmente dalla presenza di uno o più divi pagati profumatamente, a scapito degli altri attori, se non della stessa verosimiglian­ za dei personaggi e quindi della storia raccontata. Di fronte alla crisi, la cinematografia francese entrava in allarme, ma nessuno pensava alla possibilità di diminuire i preventivi di spe­ sa dei film. Penserete che i produttori dovevano essere proprio degli incom­ petenti per non rendersi conto che era possibile produrre film di qualità con 40 milioni! La risposta è molto semplice: i produttori non sono mai, o solo di rado, i finanziatori dei film; generalmente non sono altro che intermediari, esecutori; e poiché la loro retribu­ zione - qualunque sia la sorte commerciale del film - è proporzio­ nale al totale del preventivo (dal 7% al 12%), non hanno nessun in­ teresse a far abbassare i costi e a utilizzare solo attori con richieste ragionevoli, un numero minimo di tecnici e scenari naturali. È stato necessario l’arrivo nell’industria cinematografica di registi che fossero anche produttori di se stessi e che avessero denaro in proprio - capitali privati o familiari, eredità, prestiti - perché si ten­ tasse l’esperimento; e c’è voluto il talento di Louis Malie e di Claude Chabrol perché si concludesse in modo positivo. Come ha detto Ro­ ger Leenhardt, «con la Nouvelle Vague ha fatto la sua comparsa il ci­ nema “a spese dell’autore”», anche se si trovano dei precedenti nel­ la storia del cinema con l’avanguardia degli anni Trenta, il mecena­ tismo, gli esordi familiari di Jean Renoir. Per le responsabilità che comportava la realizzazione di un film, ai produttori non era possibile chiamare giovani sconosciuti. Per questo i registi giovani hanno avuto ragione di protestare, per scuo­ tere dal torpore la produzione francese che minacciava di assomi­ gliare sempre di più al cinema inglese, il peggiore d’Europa. I 16 |

La «Nouvelle Vague»! Questo termine ha prima sedotto, poi irri­ tato. 1 giornalisti che oggi ironizzano sulla Nouvelle Vague sono gli stessi che l’hanno inventata! Per me è una realtà anticipata, ma co­ munque una realtà; vale a dire che i giornalisti, con la loro fretta di generalizzare, hanno preceduto l’attualità di qualche mese. Nel i960 ci sarà davvero una nuova generazione di registi france­ si, la maggior parte dei quali sotto i trent’anni. A Louis Malie, Claude Chabrol, Claude Berna rd-Aubert, Alain Resnais, Agnès Varda, Georges Franju, Jacques Baratier, Edouard Molinaro, Jean Rouch, Jean Valére verranno ad aggiungersi Jacques Rivette, Jacques Doniol-Valcroze, Philippe de Broca, Eric Rohmer, Paul Paviot, Marcel Hanoun, Jean-Luc Godard, Jean-Daniel Pollet, Michel Drach, tutti registi che hanno appena finito di girare un film. La vague successiva sarà costituita da Ado Kyrou, Jacques Rozier, Jacques Demy, Claude de Givray, Francois Reichenbach, Jean-Fran^ois Hauduroy, Jacques Villa, Claude Sautet, Alain Jessua e altri che ancora non conosco. In breve, è evidente che l’ampiezza di questo movimento e la sua diver­ sità vanno al di là di un’operazione pubblicitaria per operare davve­ ro uno sconvolgimento sistematico della produzione francese, scon­ volgimento a cui partecipano tutti i componenti di base della cine­ matografìa: finanziatori, produttori, sceneggiatori. Dieci anni dopo la giovane critica, i produttori praticano final­ mente una «politica degli autori» e prendono coscienza di questa verità: un film vale quanto vale chi lo gira. Finalmente si identifica un film con il suo autore e si comprende che il successo non è dato dalla somma di elementi diversi come bravi interpreti, buoni sog­ getti, bel tempo, ma è legato alla personalità dell’unico e vero «co­ mandante in capo»; il talento diventa un valore riconosciuto e, co­ me mi diceva recentemente un produttore, «non costa niente e può rendere molto». Ecco dunque risolta, per la prima volta nella storia del cinema, la questione Come fare un film?^ come riuscirci, come ispirare fiducia la prima volta. Ma un’altra questione si pone, più angosciante e più profonda: Perché fare un film?

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Se si tratta solamente, come afferma René Clair, di «raccontare una storia per immagini», dobbiamo allora considerare che Parte della regia cinematografica non può più evolversi molto dato che tutte le storie sono già state raccontate. Se si tratta invece di libera­ re il cinema dalla necessità di raccontare una storia, allora c’è anco­ ra tutto da fare e Alain Resnais ha appena compiuto un grandissimo passo in avanti con Hiroshima, mon amour, film senza intreccio, strettamente poetico ed emozionale. E il fatto che, nella sola proiezione parigina, Hiroshima abbia realizzato un incasso maggiore di Femmina, La legge, Le donne so­ no deboli, Rififi fra le donne, Bobosse, Le petit prof, dimostra che si è avuto torto a disprezzare il pubblico e a non dargli fiducia. Il meno che ci si possa aspettare da un regista cinematografico è che sia un artista, completo o meno, e che dia prova di un minimo di ambizione; come tutti i romanzieri sognano il Premio Goncourt, così tutti i registi dovrebbero sognare di vincere il Premio Louis Delluc. Quello che stava lentamente uccidendo il cinema francese era proprio la mancanza di ambizioni, la rassegnazione e la passi­ vità. Il successo dei film dei giovani ha risvegliato l’ambizione degli an­ ziani e, paradossalmente, l’anno 1959 sarà storicamente importan­ te non solo per la comparsa di cinque o sei nuovi nomi della regia, ma soprattutto perché Jean Renoir, Jean Cocteau, Jacques Becker, Abel Gance e Robert Bresson hanno iniziato i loro film più ambi­ ziosi e più audaci. Anche il pubblico ha naturalmente un suo ruolo da giocare in questa partita, ma credo sia preferibile non preoccuparsi troppo di lui prima di girare un film. Infatti, è nella misura in cui ci si preoccupa e si è coscienti delle sue reazioni che si è responsabili se si sbaglia. Invece un regista come Bresson, per esempio, che sa prendere le distanze dal pubblico, è proprio uno di quelli che lo attirano; «funziona», insomma. Ma an­ che se non «funzionasse», il film non avrebbe per questo meno me­ riti, perché niente sarebbe stato sacrificato a inutili concessioni. I 18 I

Questo naturalmente non vuol dire che si debba essere indiffe­ renti all’opinione pubblica. Da parte mia sono anche persuaso che in una coppia sia la donna che sceglie quale film andare a vedere. Se in questo campo sono le donne a decidere, non è solo perché vanno al cinema più spesso degli uomini, ma perché sono particolarmente sensibili al mezzo espressivo rappresentato dal film e rivelano anche un interesse più attento degli uomini riguardo alla personalità del­ l’opera. Fino ad oggi, i film sono stati fatti da uomini per gli uomini; Ing­ mar Bergman è stato forse il primo ad affrontare certi segreti del cuore femminile... E Hiroshima, mon amour potrebbe anche essere il primo film veramente fatto per le donne, comunque il primo a mo­ strarci non una bambola affascinante o una vamp, ma una vera donna. Per la prima volta nel cinema l’uguaglianza della donna è evidente dalla prima immagine alla parola Fine. Generalmente meno pigre degli uomini, espressioni di una sensi­ bilità più viva e più pronta a risvegliarsi, le spettatrici fanno lo sfor­ zo necessario per seguire ed entrare nel gioco del regista. In altre pa­ role, sono senz’altro le donne a far sì che il cinema mantenga quel carattere di scambio che finora sembrava essere privilegio solo del teatro. A mio avviso, per esprimersi nel cinema non bisogna più usare su­ spense né eccessi. Mi sembra finito il tempo di quei cinema «a effet­ to» un po’ volgare che del resto ha avuto un suo fascino. Penso che per comunicare delle emozioni bisognerebbe usare il minor numero di mezzi possibile. Sono assolutamente contrario al cinema «esage­ rato». Restituire alle cose il loro vero valore. Soprattutto non dirsi: al ci­ nema tutto è ammesso, va bene tutto. Gli eccessi di violenza che ab­ bondano nei brutti film vengono dall’incapacità del regista di espri­ mere sentimenti forti con mezzi sobri. Conosco registi che merite­ rebbero di essere ripagati con gli stessi calci che i loro attori sferra­ no a destra e a manca sullo schermo; tutti quei film d’azione pieni di sparatorie e scazzottate mi danno la nausea. I >9 I

Credo anche molto all’improvvisazione. Non è vero che un film è finito quando è stata scritta l’ultima riga. Sulla scena le cose si muo­ vono. Le persone anche. A cominciare dal regista! Non basta mon­ tare delle inquadrature sulle frasi di uno sceneggiatore, o sulle pro­ prie. Bisogna vedere come reagisce l’attore; secondo me, l’attore che interpreta un personaggio è più importante del personaggio stesso. Bisogna saper sacrificare qualcosa; per altri registi può trattarsi del­ l’attore, ma io non credo alle mezze misure e al cambiamento di scelte all’interno di una stessa opera. Certo non si può livellare tutto. Credo, invece, all’improvvisazio­ ne che mette di volta in volta pesi diversi sui due piatti della bilan­ cia. Quello che mi appassiona è ritrovare un equilibrio che sembra ogni volta compromesso. Non mi pare che il cinema sia fatto per dimostrare una tesi. D’al­ tronde diffido delle storie fini a se stesse: un film è una tappa nella vi­ ta del regista ed è come il riflesso delle sue preoccupazioni del mo­ mento. Realizzare un film non sincero significa porsi al culmine della dif­ ficoltà. Non si hanno punti di riferimento. Se ho scelto di esprimere la solitudine di un bambino, è perché l’infanzia non è ancora trop­ po lontana da me. Sono ancora sensibile alla verità del bambino; so­ no sicuro del suo significato. Quello che ammiro, soprattutto in Georges Simenon, è che ha saputo far invecchiare i suoi personaggi man mano che invecchiava lui. Scritto questo, e poiché le rubriche cinematografiche sono da un anno piene di un’artificiosa polemica fra le generazioni, devo dire che nella vita in generale, e in particolare quando si inizia a fare del cinema, si è aiutati in modo straordinario dai propri limiti. L’igno­ ranza è una grande forza e, dal momento che lo schermo non costi­ tuisce una finestra sul mondo ma una maschera^ più il nostro uni­ verso è ristretto, più ci è facile riassumere questo mondo all’interno dello schermo. Il difficile è la scelta; perché rifiutare ciò che si cono­ sce e non si vuole utilizzare è ancora più faticoso che non assimilare tutto ciò che si può apprendere.

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Di qui la forza delle opere giovani. Il colpo di fulmine della Francia per la sua gioventù è un fenome­ no recente e pericoloso. Quando un artista esordisce, è troppo im­ petuoso, troppo assoluto e troppo sovversivo per ricevere l’atten­ zione che forse già meriterebbe. Soprattutto è troppo giovane ri­ spetto alla maggioranza del pubblico. Questa attenzione verrà più tardi, per i suoi quarantanni, quando cioè la sua età coinciderà con l’età media del pubblico francese. Se a quarantanni il regista - che più o meno volontariamente non ha smesso di evolversi dalla sua giovinezza - smette di crescere, pen­ sando di aver trovato la chiave del successo, conserverà la fedeltà di quell’immenso pubblico costituito dagli uomini della sua generazio­ ne, che, proprio a quell’età, abbandonano la cultura letteraria (non c’è più tempo per leggere né per concentrarsi) a vantaggio dei gior­ nali (bisogna pur distrarsi e insieme tenersi informati). È il segreto, credo, di certi registi esperti: offrire ogni anno lo stesso film allo stes­ so pubblico cambiando solo il nome degli attori di primo piano. No, non esistono buone storie, ci sono solo buoni film, tutti ba­ sati su un’idea profonda che deve sempre poter essere riassunta in una sola parola: Lola Montès è un film sul sovraffaticamento, Elia­ na e gli uomini sull’ambizione e sulla carne, Un re a Netv York sulla delazione, L'infernale Quinlan sulla nobiltà, Ordet sulla grazia, Hi­ roshima, mon amour sul peccato originale. Se il mio io cinefilo, che intendo conservare il più a lungo possibi­ le, si diverte, in un pomeriggio di festival, a stendere una lista ap­ prossimativa dei più grandi registi mondiali in attività, ottiene un elenco variegato di cinquantenni e sessantenni. Giudicate voi: Charlie Chaplin (1889), Jean Renoir (1894), Carl Dreyer (1889), Roberto Rossellini (1906), Alfred Hitchcock (1899), Joseph von Sternberg (1894), Luis Bunuel (1900), Robert Bresson (1901), Abel Gance (1889), Fritz Lang (1890), King Vidor (1894), Jean Cocteau (1889)... Ecco perché i giovani registi di oggi che arrivano alla regia per amore del cinema e per il desiderio di fare anche loro dei film non te­ I

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stimonieranno mai abbastanza la loro riconoscenza ai registi che, incontrato il successo verso il quarantesimo anno di età, hanno avu­ to il coraggio di proseguire la loro evoluzione fino a quando il gran­ de pubblico non li ha di nuovo abbandonati e loro si sono ritrovati ancora una volta in fondo alla fila per la forza stessa delle cose.

(«Cinema, univers de l’absence?», in Collectif, i960}

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CHI È ANTOINE DOINEL?

Tempo fa, una domenica mattina, la televisione francese durante un programma intitolato La Séquence du spectateur ha trasmesso una scena tratta da Baci rubati, che si svolge tra Delphine Seyrig e Jean-Pierre Léaud. Il giorno dopo, entro in un bar dove non ho mai messo piede e il proprietario mi dice: «Toh! Io a lei la conosco, l’ho vista ieri in televisione». Naturalmente non sono io quello che il proprietario del bar ha visto in televisione, ma Jean-Pierre Léaud nel ruolo di Antoine Doinel. Mi trovo dunque in questo bar, al pa­ drone non rispondo né sì né no, perché non ho mai fretta di dissi­ pare un malinteso, e chiedo un caffè molto forte. Il proprietario me lo porta e, avvicinatosi, mi fissa più attentamente e aggiunge: «Quel film deve averlo girato un po’ di tempo fa, vero? Era più gio­ vane...» Questa storia la racconto perché illumina abbastanza bene l’am­ biguità {oltre che l’ubiquità) di Antoine Doinel, personaggio imma­ ginario che si trova a essere la sintesi di due persone reali, io e JeanPierre Léaud. 113 I

Potrei citare anche l’edicolante di via Marbeuf che l’altro giorno mi ha detto: «Sa che ho visto suo figlio questa mattina?» «Mio fi­ glio?» «Sì, il piccolo attore». Nel settembre del 1958 avevo fatto pubblicare un annuncio su France-Soir per trovare un ragazzo di tredici anni che interpretasse il ruolo di protagonista dei 400 colpi. Si presentarono una sessanti­ na di ragazzi a cui feci dei provini individuali in 16 mm; mi accon­ tentai di fargli domande abbastanza semplici, perché il mio scopo era quello di trovare una somiglianza più morale che fisica con il ra­ gazzo che credevo di essere stato. Molti erano venuti per curiosità o spinti dai genitori, Jean-Pierre Léaud era diverso da loro, voleva la parte con tutte le sue forze, si sforzava di avere l’aria rilassata e scherzosa, ma in realtà era pieno di paura e da quel primo incontro ricavai un’impressione di ansietà e di intensità. Ripresi i provini il giovedì seguente; Jean-Pierre Léaud si distin­ gueva nettamente dal gruppo e presto decisi di affidargli il ruolo di Antoine Doinel. Gli altri ragazzi comunque non si erano scomoda­ ti invano, dato che furono trattenuti per girare in una settimana le numerose scene scolastiche presenti nel film. Jean-Pierre Léaud, che allora aveva quattordici anni, era meno sornione di Antoine Doinel, che fa sempre tutto di nascosto e finge sottomissione per fare alla fine di testa sua. Come Doinel, Jean-Pierre era solitario, asociale e ai limiti della ri­ bellione ma, come adolescente, aveva una salute migliore e spesso si mostrava sfrontato. Al primo provino, davanti alla macchina da presa, disse: «Pare che stiate cercando un tipo strafottente, per que­ sto sono venuto». Jean-Pierre, contrariamente a Doinel, leggeva po­ chissimo, aveva senz’altro una vita interiore e pensieri nascosti, ma era già un figlio dell’audiovisivo, cioè avrebbe rubato più volentieri dei dischi di Ray Charles che non dei libri della Plèiade. Quando iniziarono le riprese del film, Jean-Pierre Léaud era già diventato un prezioso collaboratore dei 400 colpi. Trovava i gesti più autentici da solo e correggeva i dialoghi con precisione, così lo I M1

incoraggiai a esprimersi con parole sue. Guardavamo gli spezzoni in una saletta di proiezione con soltanto quindici o venti poltrone e, per questo, Jean-Pierre credeva che il film non sarebbe mai stato proiettato nelle normali grandi sale cinematografiche! Quando vi­ de il film finito, Jean-Pierre, che durante tutte le riprese non aveva smesso di ridere neanche per un attimo, scoppiò in singhiozzi. Ri­ conosceva un po’ la propria storia in quella che era stata la mia storia. Quando avevo quindici anni fui rinchiuso per vagabondaggio nel Centro per delinquenti minorili di Villejuif. Era poco dopo la guerra, c’era una recrudescenza di delinquenza giovanile e le car­ ceri minorili erano piene. Ho vissuto quello che ho mostrato nel film: il commissariato con le puttane, il cellulare, il fermo, l’identi­ ficazione, la galera; non voglio dilungarmi su questo argomento, ma quello che ho vissuto è stato più duro di quello che ho fatto ve­ dere nel film. Prima di girare / 400 colpi, avevo realizzato un cortometraggio, L'età difficile, e mi ero reso conto che preferivo dirigere i ragazzi piuttosto che gli adulti. In origine, / 400 colpi doveva essere un cor­ tometraggio o il primo episodio di un film che desideravo dedicare all’infanzia. Il titolo previsto per questo episodio era: La fuga di Antoine. Poi mi sono messo a scrivere la sceneggiatura con il mio amico Marcel Moussy, e ci siamo resi conto che dovevamo svilup­ pare quella storia nelle dimensioni del lungometraggio. L’idea che ci ispirò durante tutto questo lavoro era quella di abbozzare una cronaca dell’adolescenza considerata non con la solita nostalgia intenerita ma, al contrario, come «un brutto momento che si deve passare». L’adolescenza è uno stato riconosciuto da educatori e sociologi, ma negato dalla famiglia, dai genitori. Per usare il linguaggio degli specialisti, dirò che i tratti caratteristici di questo periodo sono lo svezzamento affettivo, il risveglio della pubertà, il desiderio di indi­ pendenza e il senso d’inferiorità. Un solo turbamento può portare alla ribellione e questa crisi è giustamente chiamata «tipicamente 115 1

giovanile». Il mondo è ingiusto, dunque bisogna cavarsela da soli e per questo si fanno les 400 coups.' Il crudele divario tra l’universo degli adolescenti e quello degli adulti è splendidamente espresso da questa frase di Jean Cocteau nei Ragazzi terribili: «Poiché nelle scuole non esiste la pena di morte, Dargelos fu espulso». Quando avevo tredici anni, non vedevo l’ora di diventare adulto per poter commettere impunemente ogni sorta di cattive azioni. Mi sembrava che la vita di un ragazzo fosse conti­ nuamente costellata di misfatti, e quella di un adulto di incidenti. Scendevo in strada per gettare nella spazzatura i pezzi di un piatto che avevo rotto lavandolo, e la sera stessa sentivo gli amici dei miei genitori che si divertivano a raccontare come avevano fracassato la macchina contro un albero. Nonostante gli anni passati, non ho cambiato idea su questo punto, e quando sento un adulto rimpian­ gere i tempi della sua infanzia tendo a credere che abbia una pessi­ ma memoria. Spesso ho pensato di girare il seguito dei 400 colpi, e non l’ho fat­ to perché temevo di dar l’impressione di voler sfruttare un successo. Ho rimpianto poi di aver ceduto a questa paura, e quando nel 1962 mi è stata offerta l’occasione di girare l’episodio francese in un film internazionale, Lamore a ventanni, ho colto l’occasione per far tornare sullo schermo Antoine Doinel. In questo episodio, intitola­ to Antoine e Colette, si assiste alla prima storia sentimentale di An­ toine. Innamorato di una ragazza che ha incontrato a un concerto della Gioventù Musicale, si sforza di avvicinarsi a lei e non esita a traslocare per andare ad abitare di fronte a casa sua. Diventa amico dei genitori della ragazza e perde la ragazza! È una storia crudele, ma mi sono sforzato di raccontarla con leggerezza. Anche qui si tratta di ricordi trasposti, sostituendo la passione per la musica a quella per il cinema, e la frequentazione delle sale da concerto a quella dei cineclub e delle cineteche. Tutti i genitori hanno notato 1. Faire les 400 coups è un’espressione gergale che indica il fare ogni genere di espe­ rienza. fn.d.t.]

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che i loro figli sono sempre restii a leggere i libri che gli raccoman­ dano: «Leggi questo libro, quando avevo la tua età era il mio libro preferito». E questo, appunto, spiega l’insuccesso di Antoine in Lamore a ventanni-. Colette non sa che farsene di un ragazzo che ha se­ dotto i suoi genitori! In Baci rubati, che ho girato nel 1968, ritroviamo Antoine Doinel cinque anni dopo, quando, finito il servizio militare, tenta di reinse­ rirsi nella vita civile. Ho chiesto ai miei amici Claude de Givray e Bernard Revon di immaginare e scrivere con me queste nuove av­ venture di Antoine. Avevamo deciso che Antoine Doinel avrebbe fatto parecchi mestieri e sarebbe passato per vari ambienti sociali, ma volevamo evitare gli inconvenienti dei film «a episodi». Abbia­ mo trovato la soluzione guardando la copertina di un elenco telefo­ nico, dove abbiamo letto quest’annuncio pubblicitario: «Agenzia Dubly: ricerche, pedinamenti, indagini». Il mestiere di detective privato, in effetti, più «vicino alla vita» di quello di agente segreto, offriva una cornice in cui potevamo far en­ trare tutte le idee che avevamo in testa. Ma la fantasia, se intessuta di elementi troppo arbitrari, rischia di annoiare il pubblico, deve quindi sempre partire da una base realistica; per questo Claude de Givray e Bernard Revon dedicarono molto tempo a informarsi pres­ so diversi alberghi, autofficine, negozi di calzature, garage e soprat­ tutto presso l’agenzia Dubly, i cui consigli tecnici ci sono stati pre­ ziosi. Poi abbiamo costruito la storia come una cronaca, in maniera ab­ bastanza flessibile da lasciare spazio all’improvvisazione. Nei due film che avevo appena girato, la scelta del soggetto non favoriva af­ fatto l’improvvisazione; con Fahrenheit 451 e La sposa in nero mi ero interessato a delle astrazioni e ho quindi sentito il bisogno di ri­ tornare al concreto, ai piccoli avvenimenti quotidiani, anche se non perdo mai di vista la giustezza di queste parole di Jean Renoir: «La realtà è sempre fiabesca». In un film come Baci rubati, i personaggi hanno il sopravvento sul­ le situazioni, sull’ambiente, sul tema, sono più importanti della com­ 12.7 I

posizione stessa, più importanti di tutto il resto; da qui l’importanza di scegliere bene gli attori. Avvertivo sempre di più la necessità di scritturare per i miei film attori intelligenti, anche (e soprattutto) se gli affidavo ruoli di personaggi il cui aspetto principale non è esatta­ mente l’intelligenza. Ho scelto quindi tutti gli interpreti di Baci ru­ bati qualche giorno prima delle riprese facendo il giro dei teatri pari­ gini. Ma il perno del film, la sua ragion d’essere, era ancora una vol­ ta Jean-Pierre Léaud. Se da un film interpretato da lui il pubblico di Baci rubati si fosse aspettato una testimonianza sulla gioventù mo­ derna, sarebbe rimasto deluso, perché Jean-Pierre Léaud m’interessa proprio per il suo anacronismo e il suo romanticismo: lui è un giova­ ne dell’ottocento. Quanto a me, sono un nostalgico, e la mia ispira­ zione è costantemente rivolta verso il passato. Non ho antenne per captare ciò che è moderno, vado avanti a sensazioni; ecco perché i miei film - e in particolare Baci rubati - sono pieni di ricordi e si sfor­ zano di risvegliare i ricordi di gioventù dello spettatore. Una volta finiti, mi accorgo che i miei film sono sempre più tristi di quanto non avessi voluto. Ogni volta faccio la stessa constatazio­ ne. Ho voluto che Baci rubati fosse divertente. Quando ho iniziato a fare del cinema, credevo che ci fossero le cose buffe e le cose tristi. Poi ho cercato di passare bruscamente da una cosa triste a una buf­ fa. Girando Baci rubati mi è sembrato che sarebbe stato molto inte­ ressante fare in modo che la stessa cosa fosse contemporaneamente buffa e triste. Baci rubati era dedicato a Henri Langlois, dato che le riprese di questo film erano avvenute durante quelli che sono stati chiamati gli «Evénements de la Cinémathèque», cioè il tentativo da parte del go­ verno francese di mettere le mani sullo stock di film che Langlois aveva accumulato in trent’anni: ho iniziato le riprese di Baci rubati il 5 febbraio 1968, e il 9 febbraio sono arrivato sul set con due ore di ritardo perché uscivo dal consiglio di amministrazione della Cinémathèque Fran^aise, consiglio durante il quale, per un voto go­ vernativo, Henri Langlois è stato destituito e rimpiazzato da un can­ didato «ufficiale», Pierre Barbin. Ii8|

A partire da quel momento ho condotto una doppia vita di regi­ sta e di militante, facendo telefonate tra una ripresa e l’altra, avver­ tendo le radio straniere, creando con i miei amici il Comité de De­ fense de la Cinémathèque, anche a costo di mancare alla proiezione dei miei giornalieri. Avevamo creato questo slogan: «Se Baci rubati sarà un buon film, sarà grazie a Langlois, se sarà brutto lo sarà per colpa di Pierre Barbini» Reintegrato Henri Langlois, terminato Baci rubati, la «prima» del film ebbe luogo ovviamente alla Cinémathèque e all’uscita della proiezione Langlois mi disse: «Questa volta non aspetti tanto per mostrarci il seguito, voglio rivedere quella coppietta sposata». Durante le riprese del Ragazzo selvaggio ho dunque cominciato a raccogliere appunti per Non drammatizziamo... è solo questione di corna, poi ho chiesto a Claude de Givray e a Bernard Revon di aiutarmi a costruire la storia ispirandoci alle commedie americane sulla coppia, quelle di Leo McCarey e di George Cukor, senza di­ menticare l’influenza di Lubitsch che è determinante quando si tratta di costruire situazioni di vita familiare allo scopo di ottenere le risate del pubblico, il tutto trattato comunque e naturalmente con spirito francese. In Non drammatizziamo... credo di essere sta­ to severo con Antoine Doinel e di aver gettato su di lui uno sguar­ do critico, come sul Pierre Lachenay della Calda amante. Questo probabilmente perché Non drammatizziamo... mostra non più un adolescente ma un adulto, e perché io sono meno indulgente verso gli adulti che non verso gli adolescenti, anche se Pierre Lachenay e Antoine Doinel si assomigliano come fratelli. Certi critici francesi hanno ritenuto che in Non drammatizziamo... Antoine Doinel si fosse imborghesito. Credo di aver risposto a questa obiezione al­ l’interno dello stesso film. In una delle prime sequenze, un vecchio compagno dell’officina di riparazioni ritrova Antoine mentre sta tingendo dei fiori in un cortile, viene a sapere che è sposato con una giovane violinista e gli dice: «In fondo, ti sono sempre piaciute le ragazzine beneducate, quelle borghesi, vero?» E Antoine gli ri­ sponde: «Non mi sono mai posto il problema in questi termini. Mi 12.9 I

piacciono le ragazze che hanno dei genitori gentili, adoro i genito­ ri degli altri». Antoine Doinel procede nella vita come un orfano e cerca fami­ glie sostitutive. Purtroppo quando le trova tende a scappare perché rimane un individuo incline alla fuga. Doinel non si oppone aperta­ mente alla società, e in questo non è un rivoluzionario, ma percorre la sua strada ai margini della società, diffidando di essa e cercando di farsi accettare da coloro che ama e che ammira perché la sua buo­ na volontà è totale. Antoine Doinel non è quello che si potrebbe chiamare un personaggio esemplare, ha fascino e ne abusa, mente molto, chiede più amore di quanto non ne abbia da offrire lui stes­ so. Non è l’uomo in generale, è l’uomo in particolare. Antoine Doi­ nel ama la vita, ma soprattutto ama il fatto di non essere più un bambino, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedere il suo parere, qualcuno che si può lasciare in disparte, dimenticare o rifiu­ tare con crudeltà. Dove ho trovato il nome di Antoine Doinel? Per molto tempo ho creduto in buona fede di averlo inventato, fino al giorno in cui qual­ cuno mi ha fatto notare che avevo semplicemente preso a prestito quello della segretaria di Jean Renoir, Ginette Doynel! Proprio Jean Renoir mi ha insegnato che l’attore che interpreta un dato personaggio è più importante del personaggio stesso o, se si preferisce, che bisogna sempre sacrificare l’astratto al concreto. Non c’è da stupirsi quindi se Antoine Doinel, fin dal primo giorno delle riprese dei 400 colpi, si è allontanato da me per avvicinarsi a Jean-Pierre. Quando un film è terminato da parecchi mesi, il labo­ ratorio telefona alla produzione per ottenere l’autorizzazione a di­ struggere la pellicola non utilizzata nel montaggio finale: i «doppio­ ni», gli spezzoni che, raccolti in rulli di metallo, ingombrerebbero i magazzini. Per quasi tutti i miei film questa autorizzazione la do fa­ cilmente, per il ciclo Doinel non riesco a decidermi, perché ho l’im­ pressione che la pellicola dedicata a Jean-Pierre Léaud, che lo fissa ogni volta in uno stadio diverso del suo sviluppo fisico, sia più pre­ ziosa di quella in cui ci sono dei protagonisti adulti. I 30 I

Ho detto quasi tutto e, a dire il vero, non ho detto niente. Ag­ giungo solo che Jean-Pierre Léaud è, secondo me, il miglior attore della sua generazione e sarebbe ingiusto dimenticare che Antoine Doinel per lui è solo uno dei tanti personaggi che ha interpretato, una delle dita della sua mano, uno dei vestiti che ha indossato, una delle scuole della sua infanzia. (Febbraio 1971. Prefazione alle Aventures d’Antoine Doinel, Éditions Mer­ cure de France)

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LA SIGNORA SCOMPARE NEL TRENO DI LA CIOTAT

Il malizioso Ennio Flaiano definisce il film come un nastro di tre cen­ timetri e mezzo di larghezza e due chilometri di lunghezza, che scor­ re alla velocità di un metro ogni due secondi. Per questo suo svolgimento ininterrotto il film può essere para­ gonato a un brano musicale eseguito in una sala da concerto, ma a niente altro e soprattutto non alla visita a un museo o alla lettura di un libro. A dire il vero è probabilmente più giusta l’immagine hitchcockiana del film paragonato a un tragitto in treno: le scene si agganciano come vagoni le une alle altre, la storia avanza sui suoi binari, il pub­ blico-viaggiatore non abbandona il treno, si lascia trasportare dal punto di partenza al capolinea attraversando paesaggi che sono emozioni. Gli sceneggiatori, nella loro camera d’albergo, si ostinano a cre­ dere che l’eroina ritrovi l’amante un mercoledì, dopo aver lasciato il marito il lunedì; in realtà, per il pubblico, è passata da un uomo al­ l’altro in settanta secondi (o in trentacinque metri di pellicola). In un

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film esiste ciò che è prima e ciò che è dopo, così come esiste ciò che viene mostrato e ciò che viene detto. Tutto ciò che viene mostrato è reale e non riuscirete a convincere nessuno che la donna che vedete bere una tazza di tè fa solo finta di berla: l’ha bevuta e basta. Fare un film significa prendere decisioni per un anno, decisioni sulla sceneggiatura, sul vocabolario, sulle ellissi, sugli attori, sui luoghi delle riprese, sulle luci, sullo spessore delle immagini, sulle durate, sulle giunture e perfino sulla calibratura dei rulli; la qualità di un film è spesso proporzionale all’intelligenza delle decisioni pre­ se, alla loro logica e alla loro coerenza. La bellezza di questo lavoro sta nei suoi sotterfugi, poiché il regista dà l’impressione di aver solo registrato quei passaggi sublimi, quei magnifici attori, quelle azioni commoventi: si concede il lusso di non apparire responsabile di tan­ te meraviglie. Lui, che ha scelto tutto, può dire semplicemente: «Ec­ co quello che ho visto», ipocrisia sublime e indispensabile. Fare un film significa mostrare la marchesa che esce alle cinque, architettare una finzione, scegliere una parte del mondo e dimenti­ care volontariamente il resto, accettare di passare per idiota, limita­ to o frivolo, accettare di essere giudicato dai propri contemporanei. Voler mettere in un film tutto (principio dell’amalgama) o non met­ terci niente (principio dell’avanguardia) significa impedire agli altri di dare un giudizio terrorizzandoli con l’oscurità delle intenzioni. Quando la realizzazione di un film si avvicina alla perfezione ci si trova di fronte a un capolavoro, cioè a un film che ha trovato la sua forma definitiva, un oggetto misterioso e piuttosto chiuso; più la realizzazione lascia a desiderare, più le intenzioni sono visibili e il ri­ sultato può allora sembrarci sconvolgente o penoso. I film respira­ no attraverso i loro difetti, il capolavoro è irrespirabile. Attraverso i suoi trentasette film, Jean Renoir dà l’impressione di avere siste­ maticamente evitato il capolavoro, quello stesso capolavoro che Ejzenstejn ha inseguito lungo tutta la sua carriera. Per mezzo di un articolo, lo scrittore trasmette delle idee, per mezzo di un discorso organizza emozioni; oggi molta gente pensa che i film debbano assomigliare ad articoli piuttosto che a discorsi.

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Io non sono d’accordo e resto un sostenitore del cinema di manipo­ lazione. Quando un aereo atterra, la hostess dice: «Siete pregati di non slacciare le cinture di sicurezza prima dell’arresto completo del­ l’apparecchio»; alla fine delia sua frase, si sentono gli scatti di tutte le cinture che vengono slacciate. Perché? Perché la hostess non ha saputo farsi capire e ha pronunciato una frase mal costruita al mo­ mento sbagliato. L’atteggiamento di tanti registi, che si lamentano in continuazio­ ne e parlano dei produttori, dei distributori, dei gestori e dei critici come di altrettanti nemici, proclamando contemporaneamente il loro amore e la loro simpatia per il pubblico, mi sembra falso e me­ schino. È il pubblico il vero avversario da vincere o da convincere: non dobbiamo chiedergli il suo parere, ma il suo denaro, dobbiamo comportarci come delle brave puttane profession iste, dargli l’illu­ sione dell’amore, soddisfarlo, dargli sollievo, ma rifiutarci di ba­ ciarlo. Se l’ultima frase del protagonista del nostro film è: «Quella storia era finita e io provavo un senso di felicità e di tristezza», il pubblico se ne andrà pensando: «È triste». Se invertiamo le parole felicità e tristezza-, «...provavo un senso di tristezza e di felicità», il pubblico uscirà con l’idea di felicità, il famoso lieto fine che ha salvato il cine­ ma per settantanni e che, a quanto pare, minaccerebbe di rovinar­ lo al giorno d’oggi. Allora, ecco la mia conclusione: il cinema mi fa soffrire e mi rende felice. (9 maggio 1972.}

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RIFLESSIONI SUI BAMBINI E IL CINEMA

Rispetto all’importanza che ha nella vita quotidiana, il bambino al cinema è poco rappresentato. Naturalmente esiste un certo numero di film con bambini, ma pochi film sui bambini. Perché? Semplicemente perché non ci sono divi bambini. Poiché i film sono commer­ cialmente costruiti sull’esibizione di attori famosi, il bambino può esservi utilizzato solo come sovrappiù, ai margini dell’azione e spes­ so in funzione decorativa. Eppure un tempo a Hollywood ci sono stati dei divi bambini che il pubblico amava ritrovare di film in film in una serie di avventure; ma a mio parere quei film, spesso ottimi e capaci di offrire un diver­ timento di qualità, non potevano tuttavia arricchire la nostra cono­ scenza dell’infanzia, anzi rischiavano perfino di darne al pubblico una idea falsa; quasi sempre erano irreali, perché si rivolgevano a un pubblico giovanile che si voleva rimpinzare di ottimismo. In certi film capita che il bambino venga tradito da un vizio di for­ ma della sceneggiatura, e cioè che lo si faccia quasi sparire a van­ taggio di un elemento considerato poetico con più immediatezza, I 35 I

un oggetto, a volte un animale. Ma i bambini recano con sé auto­ maticamente un senso di poesia e quindi credo si debba evitare di in­ trodurre elementi poetici in un film sui bambini, in modo che la poe­ sia nasca da sé, come un di più, come un risultato e non come un mezzo, e nemmeno come uno scopo da raggiungere. Per essere più concreto, trovo più poesia in una sequenza che mo­ stra un bambino mentre asciuga i piatti che in un’altra dove lo stes­ so bambino vestito di velluto raccoglie dei fiori in un giardino al suono di un brano di Mozart. Non bisogna mai dimenticare che il bambino è un elemento pate­ tico al quale il pubblico è subito sensibile. Perciò è molto difficile evitare la sdolcinatezza e il compiacimento. Ci si riesce solo attra­ verso una secchezza voluta e calcolata, il che non significa che lo sti­ le non debba essere vibrante. Un sorriso di bambino sullo schermo e la partita è vinta. Ma, giu­ stamente, ciò che salta agli occhi quando si osserva la vita è la gra­ vità del bambino rispetto alla futilità dell’adulto. Per questo ritengo che si raggiungerà un maggior grado di verità filmando non solo i giochi dei bambini, ma anche i loro drammi, che sono immensi e del tutto diversi dai conflitti tra adulti. Il mondo degli adulti, visto dai bambini, è il mondo dell’impu­ nità, quello in cui tutto è permesso. Un padre di famiglia racconta ridendo agli amici come ha fracassato la macchina contro un plata­ no; viceversa, se il figlio di otto anni lascia cadere una bottiglia cer­ cando di rendersi utile, crede di aver commesso un crimine, perché il bambino non fa differenza tra un incidente e un delitto. Da questo esempio può nascere un dramma per lo schermo e questo ci dimo­ stra come un film sui bambini possa nascere partendo da avveni­ menti banali, perché in realtà niente di ciò che riguarda l’infanzia è banale. Per lo spettatore adulto l’infanzia è legata all’idea di purezza e so­ prattutto di innocenza; ridendo e piangendo di fronte allo spettaco­ lo dell’infanzia, l’adulto si intenerisce in realtà su se stesso, sulla sua «innocenza» perduta. È per questo che qui, più che in qualsiasi al­

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tro campo, è importante essere realisti, e cos’è il realismo se non il rifiuto del pessimismo e dell’ottimismo, in maniera che la mente del­ lo spettatore possa decidere liberamente, senza la «spintarella» del regista? Secondo me l’età più affascinante, quella che offre maggiori pos­ sibilità cinematografiche, si colloca tra gii otto e i quindici anni, l’età del risveglio della coscienza, la preadolescenza. Per i genitori, il periodo che precede l’adolescenza e la stessa pa­ rola adolescente non hanno nessun significato; per Papà e Mamma restiamo bambini fino al servizio militare, da cui ritorniamo uomi­ ni... almeno così pare. Eppure l’adolescenza porta con sé la scoperta dell’ingiustizia, il desiderio di indipendenza, lo svezzamento affettivo, le prime curio­ sità sessuali. Dunque è l’età critica per eccellenza, l’età dei primi conflitti tra la morale assoluta e la morale relativa degli adulti, tra la purezza del cuore e l’impurità della vita; infine, è, dal punto di vista di qualsiasi artista, l’età più interessante da mettere in luce. So che il far recitare un bambino nel cinema o in teatro gode in ge­ nere di una cattiva fama. Personalmente non credo affatto che la personalità dei bambini che diventano attori ne sia massacrata. Al contrario. E poi, adesso sono protetti molto bene da una regola­ mentazione del loro impiego abbastanza severa. In Francia, una commissione studia la sceneggiatura; i dottori esaminano il bambi­ no, il direttore delia scuola dà il suo parere. Il «caso» viene sottopo­ sto a una commissione prefettizia. Ai genitori non va più del 20% del compenso del bambino, il resto viene versato su un libretto di ri­ sparmio; se le riprese hanno luogo durante il periodo scolastico, un insegnante si occupa della sua istruzione, e via dicendo. Gli attori adolescenti portano in un film una purezza straordina­ ria che non sempre si ottiene da altri professionisti; se c’è qualcosa di ridicolo nell’azione o nei dialoghi, lo sentono immediatamente e non esitano a farlo notare. Sta al regista avere abbastanza umiltà e flessibilità per utilizzarne la franchezza e il senso del reale modifi­ cando di conseguenza questo o quel dettaglio e adattando il perso­ I 37 I

naggio al giovane attore, piuttosto che costringere il giovane attore a diventare artificialmente il personaggio. Un film sui bambini deve essere fatto con la collaborazione dei bambini, perché il loro senso della verità è infallibile quando si tratta di cose naturali; in una sce­ na in classe, per esempio, sanno benissimo che è fondamentale il ru­ more delle penne nel calamaio. A differenza degli attori professionisti, i bambini non hanno truc­ chi, non cercano di sistemarsi in posizione più favorevole rispetto all’obiettivo, non sanno se hanno un profilo migliore dell’altro, non scherzano mai con un sentimento. Tutto quello che un bambino fa sullo schermo, curiosamente sembra farlo per la prima volta. Questo doppio senso, questo equi­ librio tra il fatto singolo e il suo valore di simbolo generale rende particolarmente preziosa la pellicola che registra giovani volti in trasformazione. Ecco perché sono vent’anni che non mi stanco di girare film insie­ me a dei bambini, ecco perché nei prossimi anni gli dedicherò anco­ ra altri film. (Da Le Courrier de l’Unesco, numero speciale sui bambini, 6 febbraio 1975)

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RINASCITA DEL CINEMA AMERICANO

Quando si parla delle persone «in generale», il razzismo è sempre dietro l’angolo, e lo stesso vale per i film. Anche i film nascono tutti liberi e uguali e anch’essi si differenziano grazie a impronte digitali uniche. Un critico francese male informato-e non si tratta necessa­ riamente di un pleonasmo - ha parlato della Febbre del sabato sera come di una superproduzione hollywoodiana, mentre si trattava di un film a basso costo di cui i produttori e gli attori stessi non so­ spettavano la formidabile forza di attrazione e di distrazione. Ciò che rende così viva l’industria cinematografica è proprio la sua capacità di sopravvivere a tutta una serie di avventure finanzia­ rie paradossali. Film che sono costati più di 20 milioni di dollari non arrivano a coprire neanche le spese di lancio, altri invece mandano a segno il «colpo grosso» previsto, ma vengono in certi casi sorpas­ sati da piccole produzioni alle quali nessuno aveva prestato atten­ zione. Tutto può succedere, tutto è possibile, niente è scientifico nel cinema e non serve avere tanta intelligenza, tanti soldi, tanto corag­ gio, se non si ha altrettanta fortuna.

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Solo dieci anni fa il cinema americano andava molto male e sem­ brava aver imboccato la strada di un irrimediabile declino. La Uni­ versa! sopravviveva organizzando visite agli studi cinematografici per turisti in minibus, invitati a guardare simulazioni di riprese; la mgm si era convertita all’industria alberghiera di Las Vegas; certe società svendevano per pochi centesimi le loro vecchie pellicole in bianco e nero mentre altri studi lottizzavano e cedevano i loro ter­ reni per realizzare operazioni immobiliari. La città di Beverly Hills andava perdendo la sua colonia cinematografica, e sembrava che solo chi lavorava in televisione potesse sperare di proseguire la sua carriera a Los Angeles. Dall’inizio degli anni Cinquanta le grandi società operavano in primo luogo come distributrici di produzioni indipendenti - i tempi dei magnati e dei contratti settennali erano passati - ma stranamen­ te, diventando più intelligenti, più adulti, i film americani avevano perso la loro universalità. Al tempo stesso, si cominciavano a pro­ durre film nazionali in tutti i paesi del mondo, cosa che rendeva me­ no indispensabili i prodotti hollywoodiani. Per ammortizzare gli enormi costi fissi, le grandi major si coalizzarono un po’ dovunque, e si assistette, qui in Francia, all’alleanza della Warner con la Co­ lumbia, della Universa! con la Paramount, della mgm con la United Artists. I film americani, belli o brutti, non «sfondavano» più. Nondimeno certi successi isolati, insperati e insidiosi, perché rea­ lizzati sul lungo periodo, scavando in profondità - per esempio il pri­ mo Airport o L'avventura del Poseidon - indicarono la direzione da seguire. Sì, Hollywood poteva sopravvivere, ma a patto di tornare al­ le origini, cioè procurando al pubblico internazionale dei traumi fìsi­ ci ottenuti attraverso la ricostruzione precisa delle grandi catastrofi naturali. Louis Lumière, agli esordi del cinema, aveva impressionato il pubblico grazie a riprese di tipo documentario: L'arrivo di un treno alla stazione di La dotata Barche che escono dal porto; ma gli ame­ ricani avevano capito molto presto che bisognava far deragliare il tre­ no e rovesciare la barca allo scopo di oltrepassare la quotidianità, e da allora sono diventati i campioni incontestati del cinema di fiction. I 40 1

Si parla spesso di «tendenze» o di «regole» quando si commenta l’industria del cinema americano, ma la cosa davvero interessante è l’eccezione, non la regola. Per esempio, Hollywood è la città del fa­ scino, della sofisticatezza; le star in teoria vengono costruite dai pro­ duttori e dagli spettatori utilizzando persone dal fisico idealizzato, eppure l’unica donna che possa rivaleggiare al botteghino con Ro­ bert Redford, Steve McQueen o Marion Brando si chiama Barbra Streisand. Detto questo, chiunque abbia passato un’ora con Barbra Streisand non può più stupirsi del suo successo: questa ragazza straordinaria non è solamente una cantante meravigliosa, ma una grande attrice e una donna intelligente che ha del suo mestiere, o meglio della sua vocazione, una visione quasi religiosa. Allora, viva Barbra, auguriamole buona fortuna perché anche lei tra poco pas­ serà alla regia. Hollywood, sempre rapida quando si tratta di assimilare nuove correnti, conosce l’arte di aprire al momento giusto le porte degli studi per lasciar entrare l’aria del tempo. 11 femminismo va di moda? La Warner Bros, firma un contratto per quattro film con la regista italiana Lina Wertmuller. Contempo­ raneamente Jay Kanter, a cui sarò eternamente grato per aver pro­ dotto Fahrenheit 451, invita Grace Kelly a far parte del consiglio di amministrazione della Twentieth Century Fox. Bastava pensarci prima, e conosco gente che alla Universa! si è morsa le mani per non aver avuto quest’idea, e infatti non hanno immediatamente recluta­ to Verna Fields, la geniale montatrice capo dello Squalo, nominan­ dola di punto in bianco vicepresidente degli Universal Studios? È forse grazie a questa donna notevole che oggi possiamo vedere II cacciatore nella versione lunga voluta da Michael Cimino, premia­ ta cinque volte agli Academy Awards del mese scorso. E la Columbia? Nessuno vedeva un futuro possibile per questa società in declino costante a partire dalla morte di Harry Cohn, il 27 febbraio 1958. Cinque anni fa, quando II Padrino aveva salvato la Paramount, si diceva: «Alla Columbia ne servirebbero quattro di Padrini, per tirarsi fuori dagli impicci». Invece è stato un coraggio­

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so ragazzo dalla cinepresa volante, Steven Spielberg, trent’anni, a compiere il miracolo con un solo film: Incontri ravvicinati del terzo tipo. Attualmente Spielberg, infaticabile e sorridente, lavora dodici, quindici ore al giorno alla sua nuova fiaba, 1941, nella quale imma­ gina che cosa sarebbe successo se l’armata giapponese avesse attac­ cato Los Angeles all’inizio dell’ultima guerra! George Lucas! Se vi capita di incontrare quest’altro ragazzo sin­ cero e modesto fino al riserbo, avrete serie difficoltà a identificarlo come l’autore di Guerre stellari, il più grande successo della storia del cinema, un film che non darà luogo a uno o due «sequel» come gli altri successi di Hollywood, ma addirittura, come James Bond, a un nuovo genere. In effetti, una decina di Guerre stellari verranno girati nei prossimi vent’anni, tutti distribuiti dalla Twentieth Cen­ tury Fox che Darryl E Zanuck aveva lasciato in condizioni pietose dopo Torà! Torà! Torà!, nel 1971. Questo trionfo del cinema di effetti speciali visivi e sonori signifi­ ca la morte dei film di personaggi? No, perché i recenti successi di Woody Alien, - Io & Annie, Interiors - e di Neil Simon - Goodbye amore mio! e California Suite - provano che il pubblico americano riesce ancora ad ascoltare e apprezzare i bei dialoghi, a condizione che siano recitati da attori eccellenti animati dalla doppia vitalità del teatro e del cinema. I nuovi attori del cinema americano inter­ pretano ogni inquadratura come se fosse la più importante della scena, ogni scena come se fosse la più importante del film, ogni film come se fosse questione di vita o di morte! Eppure, qualche anno fa, il cinema americano attraversava una crisi anche per quanto riguardava gli attori: Cary Grant, Gary Coo­ per, James Stewart si erano ritirati, senza lasciare successori. Poi nel giro di qualche anno sono arrivati Jack Nicholson, Dustin Hoff­ man, Al Pacino, Richard Dreyfuss, Robert De Niro e, ultimo in or­ dine di apparizione, John Travolta che, secondo me, rispetto ai suoi coileghi ha la superiorità di essere piacevole da guardare come una bella ragazza. La sua bisessualità apparente fa di lui l’attore più mo­ derno, quello che segna la fine della virilità a tutti i costi. Travolta è

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1’anti-John Wayne. Sul nome e sulla figura di Travolta dovrebbero logicamente riconciliarsi le spettatrici a cui piaceva Rhett Butler e quelle che preferivano Ashley Wilkes. Il successo di Travolta crea delle invidie, delle gelosie, così come aveva predetto Paul Valéry: «Non si può uscire dall’ombra, neanche un po’, senza suscitare l’odio di molti». Il regista italiano Alberto Lattuada non esita a lamentarsi: «Dovremo chiedere a John Travol­ ta il permesso di continuare a fare dei film?» Ma l’elegante Travolta è di origine italiana, e Lattuada non può ignorare tutto quello che l’Italia ha portato a Hollywood! È un peccato vedere il siciliano Frank Capra, uomo intelligente c attento, messo in pensione con vent’anni d’anticipo, come del resto l’armeno Rouben Mamoulian, entrambi meravigliosi ospiti hollywoodiani, che si sono prodigati senza limiti per ricevere con calore e amicizia i loro colleghi europei di passaggio. L’italiano più coraggioso di Hollywood preferisce vivere e lavo­ rare a San Francisco ed è Francis Ford Coppola, che si è letteral­ mente venduto la camicia (di seta) per finire le riprese più lunghe della storia del cinema, quelle di Apocalypse Nota, che finalmente andremo a vedere in massa quest’estate, se non altro per vedere co­ me recitava Marion Brando quando era giovane. Durante questo periodo i due ottuagenari più attivi di Hol­ lywood, George Cukor e Alfred Hitchcock, hanno proseguito le lo­ ro carriere, il primo con la televisione, l’altro presso la Universal, società della quale è inoltre uno degli azionisti più importanti. Nel suo prossimo film The Short Night, che dovrebbe girare quest’e­ state in Finlandia, Hitchcock metterà insieme, come in Notorious, amore e spionaggio. Quando un mese fa ha ricevuto durante una cena di gala il Life Achievement Award, il premio alla carriera as­ segnatogli dall’American Film Institute, Hitchcock ha dichiarato: «Non si vive soltanto di omicidi. C’è anche bisogno d’affetto, di ri­ compense e a volte di una buona cena». Hitchcock non è più lo young boy director, il «regista ragazzino» di una volta, ed è stato costretto ad annunciare che The Short Night sarebbe stato il suo I 43 I

ultimo film.1 Non posso fare a meno di pensare che la moda dei film catastrofici sia arrivata con dieci anni di ritardo, perché se fosse stato Hitchcock a girare, per esempio, Superman avremmo visto l’eroe volare davvero sopra New York... Diversi cineasti americani hanno assimilato la lezione hitchcockiana; sanno usare la macchina da presa e non fanno «fotografie di gente che parla», ma ci si può domandare: hanno ereditato un po’ della sensibilità di colui che per cinquant’anni ha filmato così tante scene di omicidi come se fossero scene d’amore? A Hollywood tutto cambia ma tutto resta uguale; questo posto è sempre molto accogliente per gli stranieri, a condizione che si puli­ scano i piedi entrando (per non portare dentro la loro patria attac­ cata alle suole delle scarpe). Per tre anni i cameraman di Hollywood hanno negato a Nestor Almendros il permesso di lavorare in Ca­ lifornia e poi all’improvviso, conquistati dalla bellezza del suo lavo­ ro nei Giorni del cielo di Terrence Malick, film girato in Canada, gli assegnano, con grande fair play, l’Oscar per la migliore fotografia. Succede spesso che questi generosi americani mi propongano di andare a girare da loro, e io gli rispondo quasi sempre allo stesso modo: «Con il mio gusto per gli antieroi e le storie d’amore dolci­ amare mi sento in grado di realizzare il primo James Bond falli­ mentare. Vi interessa davvero?» No, scherzi a parte, la verità è che un regista europeo può sperare di avere successo a Hollywood solo se le speranze di tornare a lavorare nel suo paese sono praticamen­ te azzerate, per esempio in seguito a particolari eventi politici... De­ ve essere disperato, deve essere una questione vitale: «Hollywood or bust», «Hollywood o morte». E il momento di rendere omaggio al cineasta di più recente «americanizzazione»: Milos Forman, re­ gista testardo e potente il cui bel film Hair aprirà il Festival di Can­ nes. Dato che siamo amici da quindici anni posso affermare che con questo film Milos realizza un sogno che risale a dodici anni fa, ai de­ i. Alfred Hitchcock morirà prima della fine delle riprese del film, nella primavera del 1980. In.d.t.l

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butto teatrale di Hair in America. Quando Forman girava Qualcu­ no volò sul nido del cuculo, lo faceva con nel cuore la speranza di poter girare Hair, un giorno. Perciò concludo naturalmente questa panoramica parziale e incompleta del cinema americano nel 1979 dando il benvenuto al Festival di Cannes a Milos Forman. (Da Le Film fran^ais, Speciale Festival di Cannes, i 979)

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DARE PIACERE OVVERO IL PIACERE DEL CINEMA

Le persone che, alla fine dei diciannovesimo secolo, hanno inventa­ to il cinematografo non si sono rese subito conto che avrebbero sconvolto la nostra vita quotidiana, eppure le prime pellicole girate assomigliano, per il loro carattere strettamente informativo e docu­ mentario, a quella che, dagli anni Cinquanta in poi, sarebbe diven­ tata la televisione. Creato inizialmente per riprodurre la realtà, il cinema è diventa­ to grande ogni volta che è riuscito a superare tale realtà pur appog­ giandosi su di essa, ogni volta che ha potuto rendere plausibili av­ venimenti strani o esseri bizzarri, stabilendo in tal modo gli elemen­ ti di una mitologia per immagini. Da questo punto di vista, i primi cinquantanni della storia del ci­ nema sono stati di una ricchezza prodigiosa. Oggi è ben difficile per un «mostro» dello schermo rivaleggiare con Nosferatu, con Fran­ kenstein o con King Kong, come per un ballerino è impossibile esse­ re più aggraziato di Fred Astaire, per una vamp più enigmatica e pe­ ricolosa di Marlene Dietrich, per un comico più inventivo e diver­ tente di Charlie Chaplin.

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Dopo alcune titubanze, il cinema sonoro ha trovato la sua strada realizzando i remake dei film muti, e oggi si girano a colori i remake dei film in bianco e nero. A ogni tappa, però, a ogni progresso tecnico, a ogni nuova inven­ zione, il cinema perde in poesia quello che guadagna in intelligenza, perde in mistero quello che guadagna in realismo. Il suono ste­ reofonico, lo schermo gigante, le vibrazioni sonore avvertite diret­ tamente sulle poltrone o i tentativi di immagine tridimensionale possono aiutare l'industria a vivere, a sopravvivere, ma niente di tutto questo aiuterà il cinema a restare un’arte. L’arte cinematografica può esistere solo mediante un tradimento ben organizzato della realtà. Tutti i grandi registi dicono no a qual­ cosa. Ad esempio, nei film di Federico Fellini c’è il rifiuto degli ester­ ni reali, nei film di Ingmar Bergman il rifiuto del sottofondo musi­ cale, in Robert Bresson il rifiuto di utilizzare attori professionisti, in Hitchcock il rifiuto delle scene documentarie. Se, ottantacinque anni dopo la sua invenzione, il cinema esiste an­ cora, è grazie alla sola cosa di cui non troverete traccia in questo ma­ gnifico libro: una buona sceneggiatura, una buona storia racconta­ ta con precisione e inventiva. Con precisione, perché in un film è ne­ cessario chiarire e classificare tutte le informazioni per mantenere vivo l’interesse dello spettatore; con inventiva, perché è importante creare fantasia per dare piacere al pubblico. Spero che l’uso della parola piacere non scandalizzi il lettore. Buster Keaton, Ernst Lubitsch, Howard Hawks hanno meditato e lavorato più duramente di molti loro colleghi, sempre con l’obiettivo di dare un piacere maggiore. Oggi nelle università si insegna cinema come si insegna letteratu­ ra o scienze. Può essere una buona cosa, a condizione che i profes­ sori non inducano i loro allievi a preferire la secchezza del docu­ mentario alla fantasia della finzione, la teoria all’istinto. Non di­ mentichiamo mai che le idee sono meno interessanti degli esseri umani che le inventano, le modificano, le perfezionano o le tradi­ scono. I 47 I

Certi professori, giornalisti o semplici osservatori a volte hanno l’ambizione di esser loro a decidere cosa è culturale e cosa non lo è, e potete stare certi che metteranno La storia della Louisiana nella prima categoria, Stanlio e Ollio nella seconda. Io credo fermamen­ te, invece, che si debba rifiutare qualsiasi gerarchia di generi, e con­ siderare culturale semplicemente tutto ciò che ci piace, ci distrae, ci interessa, ci aiuta a vivere. André Bazin ha scritto: «Tutti i film na­ scono liberi e uguali». Il regista più sensuale del mondo, Jean Renoir, che non amava le macchine, non si stancava di citare questa frase di Pascal: «Ciò che interessa l’uomo è l’uomo». Questa cosa splendida che si intitola The Book of the Cinema vi mostra macchine e uomini. Leggendolo e guardandolo si capisce che il cinema da il meglio di sé ogni volta che il regista-uomo riesce a piegare la macchina al suo desiderio e, in questo modo, a farci en­ trare nel suo sogno.

(Prefazione a Don Allen, The Book of the Cinema, Mitchell Beazley, Lon­ dra 1979; testo scritto nel maggio 1979)

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CINQUANTANNI DI CINEMA FRANCESE

Questo bel libro, The Great French Films, presenta un campionario molto interessante e rappresentativo della produzione francese de­ gli ultimi cinquantanni. Durante la lettura non ho mai avuto la ten­ tazione di discutere le scelte di James R. Paris né di contrapporre al­ la sua una mia lista di film preferiti, perché ciò che trovo di notevo­ le nel ventaglio che apre sotto i nostri occhi è il suo mettere insieme film familiari al pubblico americano con altri che non si vedono ne­ gli Stati Uniti da ormai troppo tempo. Non bisognerebbe mai sottovalutare il fatto che la conoscenza che abbiamo della letteratura o della cinematografia di un paese è strettamente dipendente dalla curiosità e dallo zelo degli editori e dei distributori di film. Ad esempio, negli Stati Uniti l’opera filmica di Sacha Guitry è quasi altrettanto sconosciuta di quella di Frank Borzage in Francia. Nel sistema americano, il vero padre di un film è stato per molto tempo (e forse lo è ancora oggi) il produttore. Quando una major produceva un film, se ne assicurava la proprietà fisica (i diritti sul I 49 1

negativo) e artistica per una durata illimitata. Questo spiega perché il patrimonio cinematografico americano è ancora così vivace, ben protetto e distribuito non solo in America, ma in tutto il mondo. Nel sistema europeo, più rispettoso dei diritti degli autori, le co­ se vanno diversamente. Ad esempio, un produttore francese com­ prava da un editore i diritti di adattamento di un romanzo per una durata di quindici anni. Lo stesso produttore affidava poi a due sce­ neggiatori l’adattamento di questo romanzo e ne comprava il lavo­ ro per, diciamo, dodici anni. Quindi assumeva un regista (conside­ rato dalla legge francese come uno degli autori) e se ne assicurava i «diritti» per, poniamo, vent’anni. Se i vantaggi per gli artisti di questo modo di procedere sono su­ bito evidenti, se ne vedono però gli inconvenienti quando, vent’an­ ni dopo l’uscita di un film, un circuito d’arte o d’essai vuole dargli una seconda vita. Il produttore iniziale è sempre proprietario del film, quindici o vent’anni dopo la sua uscita, ma legalmente non possiede più che il film «fisico», cioè il veicolo rappresentato dalle diverse copie esistenti e dal negativo montato. Per ottenere nuova­ mente i diritti di sfruttare il film, il produttore dovrà riprendere con­ tatto con l’editore del libro, con gli sceneggiatori (o i loro eredi), con il regista e determinare una nuova suddivisione degli eventuali in­ cassi. Ecco perché certi film francesi sono così difficili da vedere og­ gi anche in Francia, anche sui canali televisivi, in particolare quelli di Becker, Bresson, Guitry. Il cinema americano è un cinema di situazioni, il cinema francese è un cinema di personaggi. Per questo il cinema muto francese (con la prestigiosa eccezione di Abel Gance) è stato meno brillante di quel­ lo americano. Jean Renoir, René Clair, Jacques Feyder avevano biso­ gno del suono e del dialogo per esprimersi, e infatti si sono espressi al meglio nel cinema sonoro che permetteva loro di presentare degli es­ seri umani in tutta la loro complessità. Un’altra grande differenza tra questi due modi di fare cinema è che in Francia abbiamo avuto degli ottimi artisti ma pochi buoni artigiani. Nella produzione hollywoo­ diana esiste un fiorentissimo cinema di serie b, composto di «film su I 50 I

ordinazione» costruiti in modo splendido e di cui recentemente si è riconosciuta l’importanza artistica: sto pensando alle produzioni di Allan Dwan, Raoul Walsh, William Wellman, Tay Garnett e Michael Curtiz. Niente di tutto questo è accaduto in Francia, dove i buoni film sono stati girati da registi ambiziosi e onnipotenti, ad eccezione forse di due nomi ben rappresentati in questo libro: Christian-Jaque e Julien Duvivier, due buoni artigiani francesi, due buoni esecutori di film su ordinazione, due ammiratori del cinema americano. La storia del cinema sonoro francese si apre con due grandi film d’avanguardia prodotti da un mecenate, il visconte di Noailles: L’Age d'or di Bunuel e Dall, e Le Sang d'un poète di Jean Cocteau. Poi è stata la volta di Jean Vigo; i due film che questo giovane geniale girerà prima della morte prematura all’età di ventinove anni, Zero in condotta e L'Atalante, bastano a fare di lui il più grande regista della storia del cinema francese. Sono felice di constatare, ogni vol­ ta che viaggio negli Stati Uniti, che l’opera di Jean Vigo, breve ma ispirata, ha una diffusione costante, perlomeno nelle università. La critica francese d’anteguerra, se non ha mai messo in dubbio le qualità di René Clair, di Jacques Feyder e di Marcel Carne, è sta­ ta spesso però condiscendente nei confronti di Abel Gance o di Jean Renoir e deliberatamente sprezzante verso Marcel Pagnol e Sacha Guitry, accusati entrambi di fare non dei film, ma del «teatro filma­ to». Dopo la guerra, i film di Bresson, Cocteau, Ophuls saranno a loro volta gravemente sottovalutati, proprio come quelli di Orson Welles negli Stati Uniti. Contro questo atteggiamento antipoetico della critica ufficiale, sorgerà, agli inizi degli anni Cinquanta, il gruppo dei giovani critici dei Cahiers du cinema. Essi dichiareranno la loro ostilità a qualsia­ si idea di scuola o a qualsiasi definizione restrittiva di cinema, rifiu­ teranno (talvolta a rischio di commettere, a loro volta, delle ingiu­ stizie) i! cinema d'équipe a vantaggio del cinema d'autore, e diran­ no che un buon regista non è necessariamente un manipolatore di folle o un abile tecnico ma, semplicemente, una personalità forte che si esprime attraverso il cinema. I 5» I

Applicando al cinema una dichiarazione dello scrittore Jean Giraudoux: «Non esistono buoni lavori teatrali, ci sono solo buoni autori», proposi a quell’epoca, con i miei amici dei Cahiers du cinéma, una teoria della «politica degli autori» che intendeva riabilita­ re i registi che si esprimono «in prima persona»: Cocteau, Tati, Becker, Bresson, Renoir, Pagnol, Guitry, Ophuls. A partire dal 1959 questi giovani critici diventeranno a loro vol­ ta registi, raggruppati loro malgrado sotto la denominazione di «Nouvelle Vague ». Essi si sforzeranno di girare quei film personali e intimi che avevano invocato. Non sta a me dare giudizi su questo gruppo di cui ho fatto parte e a cui mi legano solidi vincoli. Co­ munque, si giudica meglio a distanza e sono convinto che Jim Paris e i cinefili americani siano in una posizione migliore della nostra per apprezzare il cinema francese di ieri e paragonarlo a quello di oggi, così come in certe epoche in Francia abbiamo potuto scoprire prima di loro le bellezze contenute in Cantando sotto la pioggia, in Johnny Guitar o in Un bacio e una pistola. Apprezzo il lavoro di James R. Paris perché riesce a descrivere molto bene i film francesi che gli piacciono e soprattutto li descrive prima di giudicarli; davanti al suo libro provo un senso di euforica e amichevole solidarietà. (Prefazione a The Great French Films di James R. Paris, 6 febbraio i 982)

UNA MENTALITÀ DA FINE SECOLO

Mi sembra che dal 1968 in poi siamo entrati in una mentalità da fi­ ne secolo. Critichiamo spesso l’espressione «gli anni folli», riferita all’epoca intorno al 1900, ma sappiamo bene che l’inizio del secolo è stato entusiasmante per tutte le novità che lo hanno contraddi­ stinto: l’automobile, l’aviazione, l’elettricità, il cinema... Alla fine del diciannovesimo secolo, quando l’elettricità è arrivata negli ap­ partamenti, le ragazze cenavano con un parasole aperto per proteg­ gersi la carnagione. Quando parlo in giro dello sbandamento morale, spirituale, in­ tellettuale che incombe all’avvicinarsi dell’anno xooo, questa cosa fa sorridere: non siamo più nel Medioevo, la gente non è più preda delle superstizioni, e via dicendo. Questo scetticismo misconosce l’importanza delle cifre, soprattutto quando sono tonde. Sono i pubblicitari e i politici le persone dalle quali dobbiamo proteggerci, perché sono soprattutto loro che si apprestano a crea­ re questo clima apocalittico intorno all'anno xooo.

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Non c’è alcun dubbio che, negli anni a venire, tutti i discorsi poli­ tici, tutte le campagne pubblicitarie faranno riferimento all’anno 2000, per rappresentarlo o come la cima dell’albero della cuccagna, o come la fine di una civiltà, o come una meta da raggiungere, op­ pure come un baratro che si apre davanti a noi. Questo punto di riferimento sarà efficace perché rimanda ognu­ no di noi alla propria biografia. Quelli che hanno più di cinquant’anni dicono già: «'Nel 2000 non ci sarò più per vedere questa cosa». 1 più giovani penseranno che da qui al 2000 passerà tanto di quel tempo che senza dubbio è inutile darsi tanta pena. Allora per i più deboli, cioè per la maggior parte di noi, nasceran­ no uno stato d’animo disfattista e una vera e propria industria del panico, del suicidio, un’industria con i suoi creativi, i suoi consu­ matori, i suoi profittatori, le sue vittime, i suoi teorici. A quel punto, come sempre, le soluzioni saranno individuali. I più intelligenti adotteranno, anche in maniera artificiosa, un at­ teggiamento positivo anticipando l’arrivo del ventunesimo secolo; gli basterà rifiutare la maledizione della cifra tonda e decidere, ognuno per conto suo, che il nuovo millennio inizia dal giorno del proprio matrimonio, della nascita di un bambino, della morte di un parente o di un amico. La crisi non è solamente l’abbondanza di beni inutili e la man­ canza di cibo, ma anche il degrado dei sentimenti e, da questo pun­ to di vista, anche se non ne sono gli unici responsabili, i politici e i pubblicitari contribuiscono alla crisi mediante il loro accanimento nei corrompere il vocabolario quotidiano. La parola tenerezza utilizzata negli slogan della pubblicità è di­ ventata odiosa, quindi inutilizzabile in una conversazione sincera. Stessa cosa per la parola sensibilità^ utilizzata dai politici per giusti­ ficare le loro mosse di Jarnac:' '«All’interno della nostra formazione possono coesistere sensibilità diverse». Puah! Per colpa di questa gente falsa e nociva, prepariamoci a vivere 3. Un gioco da tavolo simile allo Scarabeo, jn.d.t.l

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senza «tenerezza» né «sensibilità», restiamo duri e rifiutiamo con un gesto fermo la loro mano tesa. (Risposta a un questionario della Quinzaine littéraire, giugno 1983. La do­ manda era: «X partire dalla sua esperienza, ma senza focalizzarsi su di essa, potrebbe esporci che cosa rappresenta per lei l'idea che il mondo attuale sia in crisi?»)

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GIRARE UN FILM CON STEVEN SPIELBERG

In diverse occasioni durante le riprese di Incontri ravvicinati del terzo tipo mi è capitato di pensare che avevo fatto una pazzia ac­ cettando di recitare in quel film: «Se avessi saputo che le riprese sa­ rebbero durate così a lungo e che sarebbero andate così a rilento non avrei mai detto di sì». Anche gli attori professionisti attraversavano momenti simili, pre­ si da dubbi di ogni tipo: «Santo cielo, che ci faccio qui?» Il piacere che si prova su set difficili è di tipo retrospettivo: «Ma quanto ci sia­ mo divertiti quando eravamo a Gillette City, nel Wyoming», o anco­ ra: «Quanto era bella la natura nei dintorni di Mobile, in Alabama!» Scrivo queste righe cinque anni dopo, e non c’è alcun dubbio che io sia felice di aver fatto parte dell’avventura chiamata Incontri rav­ vicinati del terzo tipo e che, avendo dimenticato tutti i momenti di stanchezza, conservi soltanto ricordi forti e allegri. Tutto è cominciato nel febbraio del 1976 con una telefonata di Steven Spielberg. Stava preparando un film sugli Ufo e voleva affi­ darmi il ruolo di Claude Lacombe, uno scienziato francese. In tem­ I 56 I

pi normali avrei rifiutato la proposta senza neanche esaminarla per­ ché, se non sto girando, sto comunque preparando un altro film, ma questa volta c’era una sorta di buco nella mia agenda. Ero occupa­ to con il montaggio degli Anni in tasca e sapevo che volevo girare un film intitolato L'uomo che amava le donne> ma non ne avevo anco­ ra iniziato la sceneggiatura. Allora ho detto di sì perché mi piaceva il lavoro di Spielberg e ho avuto l’impressione di poter recitare nel ruolo di Claude Lacombe senza forzarmi, restando me stesso come avevo fatto nel Ragazzo selvaggio o in Effetto notte. E poi mi piaceva la prospettiva di assi­ stere alle riprese di un film restandomene seduto su una sedia e sen­ za aver paura di disturbare come può fare a volte un visitatore oc­ casionale che non ha una funzione precisa. Ben sapendo che l’attesa occupa la maggior parte del tempo del­ l’attore, mi ero premurato di portarmi dietro la macchina da scrive­ re per continuare la sceneggiatura dell’Uomo che amava le donne e prendere appunti sugli attori per un libro che ho definitivamente ri­ nunciato a scrivere. È stato un vero piacere veder lavorare Steven Spielberg per tutta la durata delle riprese, che avrebbero messo ko più di un regista. In Alabama, in piena estate, eravamo duecentocinquanta persone ve­ nute da Los Angeles e lavoravamo dodici ore al giorno in un im­ menso capannone senza aria condizionata. Sui ponteggi per le luci c’erano quaranta elettricisti che ricevevano istruzioni col walkie talkie, ed era tutto così diffìcile e pesante da gestire che a malapena si riuscivano a girare due sequenze al giorno. Quando si lavora in condizioni così ingrate, succede che ognuno si disinteressa progres­ sivamente al film stesso in quanto progetto artistico e si ripiega egoi­ sticamente su di sé, pensando solo alle ore di libertà, ai biglietti ae­ rei e così via. Allora il regista rimane solo con il suo sogno da realiz­ zare e gli serve un grande coraggio morale e fisico. Ho sempre avvertito in Steven questo coraggio e questa determi­ nazione. Non l’ho mai visto cedere allo sconforto, neanche quando la produttrice del film lo assillava, neanche quando i banchieri di 157 I

Wall Street arrivavano sul set in Alabama, per valutare se valeva la pena di metterci ancora tre o quattro milioni di dollari supplemen­ tari e gli venivano inutilmente gettate negli occhi nuvole di fumo ar­ tificiale per stupirli e regalargli un po’ di spettacolo! Nel settembre 1976 la Columbia decise che bisognava chiudere il capannone ma Steven, all’improvviso un po’ triste, disse che era un peccato e che gli sarebbe piaciuto, per esempio, provare a far volare in aria i bambi­ ni di sette anni che interpretavano gli extraterrestri. Sono rientrato in Francia in autunno per iniziare Duomo che ama­ va le donne a Montpellier, ma poco tempo dopo ho ricevuto notizie di Spielberg. Aveva bisogno di me in India, a Bombay, dove ho potu­ to raggiungerlo solo nel maggio 1977 perché non era il caso di inter­ rompere le riprese del mio film. Sempre sorridente, immutato, infati­ cabile, Spielberg ha organizzato alla velocità delia luce una grande scena d’azione con comparse e abitanti di un villaggio indù. Allora mi ha detto che il film era già in fase di montaggio, che il puzzle si stava incastrando bene ma che gli sarebbe piaciuto girare ancora un paio di scene, forse in Messico, forse nella Monument Valley... Nell’euforia di quel piacevolissimo set indiano ho risposto che ero d’accordo, che mi piaceva moltissimo l’idea di quelle riprese senza fine. «Mi sono abituato», ho detto a Steven, «all’idea che non ci sarà mai un film in­ titolato Incontri ravvicinati del terzo tipo ma che tu sei una di quelle persone che fanno credere a tutti che stanno girando un film e che rie­ scono a riunire attorno alla macchina da presa molta gente per ac­ creditare questa immensa bugia. Sono contento di far parte di questa bugia, e sono pronto a raggiungerti di tanto in tanto in qualsiasi par­ te del mondo per “far finta” di fare un film con te». Due mesi dopo, mentre in Costa Azzurra si teneva il Festival di Cannes che avrebbe visto trionfare Taxi Driver di Martin Scorsese, ho ritrovato Steven e la sua troupe nel deserto di Palmdale, in Ca­ lifornia. Questa volta ho trovato la bugia piuttosto dura da mandar giù. Quattro immense eliche giravano senza sosta e davanti ad esse venivano svuotati sacchi di sabbia il cui contenutoci arrivava in pie­ na faccia! La stessa cosa mi era sembrata molto divertente sei mesi I 58 I

prima, quando si trattava di stupire i banchieri di Wall Street, ma questa volta, divenuto vittima, questa sinfonia per ventilatori non mi faceva più ridere per niente. In certi momenti non riuscivo più nemmeno a capire dove fosse la macchina da presa dietro quella tenda di sabbia turbinante e, in ogni caso, le indicazioni che Steven ci aveva dato erano assolutamente vaghe. Sapevamo soltanto che stavamo saltando da una jeep in pieno deserto (e in piena tempesta di sabbia) per trovare i resti di un aereo sparito da più di trent’anni. Quando ho visto il film, ho scoperto che questa tempesta era di­ ventata la scena di apertura e che era straordinaria. Non mento se di­ co che mi ero sentito veramente avvilito mentre la giravamo, perché si vede benissimo nel film. Quando il grosso soldato messicano fini­ sce di parlare e nella tempesta giallastra si distingue una sagoma in­ certa, vacillante, sul punto di perdere l’equilibrio... quello sono io! Mi hanno spesso domandato se, in quanto regista, sia stato a volte tentato di dare consigli, giudicare o criticare il mio collega Spielberg. La risposta è no, nella maniera più assoluta. Ho voluto essere per lui l’attore ideale, quello che non si lamenta mai, quello che non esige niente, neanche un’indicazione. Facevo quello che mi chiedeva e quando pronunciava la parola «Stop!», come tutti gli attori del mon­ do, rivolgevo lo sguardo verso di lui per vedere se era contento. Sapevo che il film avrebbe avuto cinquanta minuti di effetti spe­ ciali, ma non mi ero davvero reso conto degli effetti visivi ricercati da Steven fino a che Douglas Trumbull non mi ha invitato a visitare il suo studio. È lì che ho visto che il film sarebbe stato fatto in gran parte di immagini sovrapposte: quello che succede a terra, quello che succede sopra le teste, quello che succede in cielo, e rutto questo avrebbe trovato forma definitiva in laboratorio, dopo le riprese, come negli Uccelli di Alfred Hitchcock. Per esempio, ho visto Douglas Trumbull filmare le nuvole che si agitano in cielo in questo modo: faceva cadere una quantità di ver-

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nice bianca in un acquario riempito di acqua tiepida e filmava i mo­ vimenti della vernice bianca a diverse velocità. Nel film, in sovrim­ pressione sopra le case, questo effetto produce splendide immagini di nuvole agitate e burrascose di cui conservate senz’altro il ricordo. La visita al reparto degli effetti speciali mi ha reso più modesto. Ho capito che il ruolo dell’attore in un film del genere consisteva nel creare un’immagine stilizzata e che bisognava lasciare da parte le teorie di Stanislavskij per diventare semplicemente un motivo nella tappezzeria. Avevo ammirato Steven Spielberg durante tutte le riprese, ma quando ho visto il film finito il mio rispetto per il suo talento è cre­ sciuto ancora di più. Ho capito che alcune cose che mi erano sem­ brate ingenue sul set erano in effetti delle prove di abilità. Un esem­ pio? Gli scienziati che applaudono e si congratulano dopo il contat­ to di secondo tipo. «Ecco», pensavo durante le riprese, «un atteg­ giamento poco scientifico e poco interessante dal punto di vista drammatico». Mi sbagliavo, perché quando si vede il film il mo­ mento in cui gli scienziati applaudono e si congratulano dà l’im­ pressione di una scena finale, il pubblico si sente frustrato, e vuole ancora dramma ed effettivamente, subito dopo, qualcuno guarda in aria tra le nuvole che diventano stranamente agitate e perturbate... e il film riparte per il famoso terzo incontro... Credo che il successo di Incontri ravvicinati del terzo tipo derivi dalla speciale capacità che ha Steven di rendere plausibile ciò che è straordinario. Se analizzate Incontri ravvicinati del terzo tipo vedre­ te che Spielberg ha avuto cura di girare tutte le scene di vita quotidia­ na dandogli un aspetto un po’ fantastico mentre, dall’altro canto, cercava di rendere più quotidiane possibili le scene fantastiche. Come tutti gli attori che passano attraverso le riprese senza ca­ pirci niente, sono tentato di dire oggi: «L’avevo sempre detto, io, lo sapevo che sarebbe stato un bel film e un grande successo».

(Dalla prefazione al libro di Tony Crawley, L’aventure Spielberg, Éditions Pygmalion, 7984)

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Seconda parte Omaggi e ritratti

WOODY ALLEN, L’ALLEGRO PESSIMISTA

È curioso osservare come, nei periodi in cui Hollywood regredisce intellettualmente e in maniera deliberata allo scopo di riconquista­ re milioni di spettatori procurandogli degli shock puramente fisici, siano i registi comici a tenere alto l’onore ridando nel loro lavoro la priorità ai personaggi, ai pensieri, ai sentimenti. L’espressione «film adulto», utilizzata dopo il 1940 per celebrare i meriti di // Paradiso può attendere, Monsieur Verdoux, l dimenti­ cati. La costola di Adamo, si adatta oggi perfettamente a Io e Annie, il miglior film di Woody Alien e il suo maggior successo di pubblico da quando è diventato autore-regista-attore. Si tratta di un’autobiografia filmica o, se preferite, di un film di finzione impregnato di elementi personali. Il tema? L'amore, è ov­ vio! Il motivo per cui gli amori finiscono, il modo in cui sono co­ minciati, non è forse il miglior soggetto per un film e addirittura per mille film, dato che ogni uomo ha vissuto una sua propria storia e ogni storia merita di essere filmata a patto che lo si faccia con intui­ to, sottigliezza e sensibilità? [63 I

Woody Allen e Diane Keaton sanno perciò di cosa parlano e ne sanno parlare bene. L’attore comico che sceglie di essere il proprio autore e il proprio regista ci dà tutto: il suo aspetto fisico, le sue idee sulla vita e sulla propria arte; spesso dà più di quanto creda di dare, si espone al cen­ to per cento e per questo rischia di farsi accettare da una sola gene­ razione di spettatori, dunque per una durata limitata. Woody Alien, che ammira Bergman e Fellini e si ispira a loro ci­ tandoli molto abilmente nel film, ci ha riflettuto e con Io e Annie rie­ sce a sbarazzarsi dell’etichetta riduttiva di «autore di film comici». Tra II dormiglione, strettamente parodistico, e Io e Annie, che ap­ partiene alla commedia drammatica, Alien ha interpretato, come attore, un ruolo completamente serio nel Prestanome, come per abituare progressivamente il pubblico al suo cambiamento d’im­ magine. Possiamo supporre che entro cinque anni Woody Alien dirigerà un film puramente drammatico in cui potrà anche non recitare; Io e Annie dimostra comunque che ne è capace. I suoi progressi come re­ gista, tra Prendi i soldi e scappa del 1969, divertente ma informe, e Io e Annie, molto quadrato e rigoroso, sono incredibili così come l’attenzione che ormai viene data alle sue partner. Diane Keaton re­ cita qui la parte di un bel personaggio fragile, quello appunto di An­ nie Hall, ma l’attrice è maledettamente brava e, nonostante le esi­ genze del ritmo, Woody Alien le lascia il tempo di esistere sotto i no­ stri occhi al di là dei dialoghi, comunque notevoli. Tutti i personag­ gi secondari del film sono straordinari, ma nutro una preferenza per Paul Simon, che riesce a offrire lo sguardo neutro più eloquente di Hollywood. A tutti è nota la rivalità che oppone New York a Los Angeles, le attività frenetiche della East Coast alle attività imperturbabili del­ la West Coast. Questa lotta sorda Woody Alien la mette pienamen­ te in luce in Io e Annie e, poiché non nasconde di aver scelto la squadra delle sue origini, New York City segna un buon punto a suo vantaggio.

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Io e Annie è pertanto un film d’amore newyorkese, antiholly­ woodiano, influenzato dall’Europa, ma è comunque un film ameri­ cano. Io e Annie riesce a presentare sullo schermo personaggi veri che provano sentimenti veri. (Da Pariscope, settembre 1977)

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LE LUCI DI NESTOR ALMENDROS

Venticinque anni fa l’unico modo per vedere delle immagini bidi­ mensionali che si muovevano era quello di entrare in una sala cine­ matografica. Alcuni registi si sforzavano di interpretare la realtà sti­ lizzandola, altri si proponevano come scopo quello di registrarla puramente e semplicemente. In entrambi i casi - Hollywood e neo­ realismo - lo spettacolo era magico a priori, i film erano più o meno belli a seconda del talento impiegato, ma raramente erano brutti perché la fotografia in bianco e nero di una cosa brutta è meno brut­ ta di quella stessa cosa al naturale. Il bianco e nero era una trasposi­ zione della realtà, dunque già un effetto artistico. Gli Scopitene, la televisione, il cinema amatoriale e il videoscopio hanno definitivamente distrutto il mistero. La sala cinematografica non ha più il monopolio delie immagini in movimento. I registi pos­ sono ancora incuriosirci ma a condizione di non copiare la vita, co­ sa di cui la televisione usa e abusa perennemente, tanto da riempir­ ci fino alla nausea. Nestor Almendros è uno dei più grandi operatori esistenti, uno di

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quelli che lottano perché la fotografia dei film di oggi non sia inde­ gna di com’era ai tempi di Wilhelm Gottlieb Bitzer, il cameraman di D. W. Griffith. Il libro di Almendros risponde alle domande che nes­ sun regista di oggi può evitare di porsi: come impedire alla bruttez­ za di entrare nello schermo? Come rendere pulita un’immagine per accrescerne la forza emotiva? Come filmare con plausibilità delle storie ambientate prima del ventesimo secolo? Come unire gli ele­ menti naturali a quelli artificiali, quelli datati a quelli atemporali, al­ l’interno di uno stesso quadro? Come dare omogeneità a materiali disparati? Come interpretare i desideri di un regista che sa bene ciò che non vuole ma non sa spiegare cosa vuole? Mi aspettavo di trovare questo libro istruttivo, non sapevo che mi avrebbe anche commosso. Questo perché non è solo la descrizione di un lavoro, ma anche la storia di una vocazione. Nestor Almen­ dros è infatti consapevole di esercitare un’arte pur praticando un mestiere. Ama il cinema religiosamente e ci fa condividere la sua fe­ de, ci prova che è possibile descrivere la luce con delle parole. (Prefazione al libro di Nestor Almendros Un homme à la camera, Éditions Hatier, Parigi 1980)

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ANDRÉ BAZIN CI MANCA

Una quindicina di anni fa una vignetta umoristica del New Yorker mostrava lo stato maggiore di una casa di produzione hollywoodia­ na riunito attorno a un tavolo ovale: ogni amministratore, con la penna a mezz’aria e grattandosi la fronte, guarda verso una lavagna nera su cui si può leggere: «La straordinaria vita di...?» Anche se è vero che gli americani sono più dotati di noi per le bio­ grafie, dal libro di Dudley Andrew non dobbiamo aspettarci la rico­ struzione di una «vita straordinaria», ma semplicemente il ritratto scrupoloso di un uomo notevole per la sua bontà, la sua intelligen­ za e il suo senso dell’umorismo. Bazin naturalmente non avrebbe mai immaginato che la sua vita e la sua opera sarebbero diventate argomento di un libro e che questo libro sarebbe stato scritto da un giovane americano, professore di ci­ nematografia, il quale avrebbe fatto migliaia di chilometri per venire a intervistare quelli che l’hanno conosciuto; eppure non posso fare a meno di vedere in questa biografia spirituale un’estensione di ciò che è stato il progetto-Bazin e che lui già nel 1943 definiva così: I68|

Abbiamo già una storia della settima arte scritta da un professore del­ la Sorbona, un giorno avremo certo una tesi di ottocento pagine sul comico nel cinema americano tra il 1905 e il 1917, o qualcosa di simi­ le. E chi oserebbe sostenere che non è una cosa seria? Se spesso preferisco parlare del Bazin «scrittore di cinema» piut­ tosto che del Bazin critico, è perché per lui non si trattava di un la­ voro. Anche se avesse potuto vivere di rendita o ricevere un’eredità, Bazin avrebbe scritto sul cinema. Per lui era un piacere, un piacere e una necessità legati alla sua vocazione pedagogica. I suoi articoli migliori sono di solito quelli più lunghi e, quando consegnava venti o trenta pagine a Esprit o ai Cahiers du cinema^ diceva sorridendo: «Non ho avuto tempo di farli più corti». Naturalmente Bazin non è stato il solo ad analizzare il valore del­ l’immagine e la sua natura. Invece mi sembra l’unico a essersi real­ mente interrogato sulla funzione del critico. Quando io e Janine Ba­ zin abbiamo raggruppato i suoi primi scritti del 1943-45 nella rac­ colta Le Cinema de [’Occupation et de la Résistance abbiamo avu­ to la sorpresa di trovarne cinque o sei dedicati al ruolo del critico. Più tardi, quando ormai si sarà realizzata la predizione di PierreAimé Touchard: «Entro dieci anni Bazin sarà il miglior critico cine­ matografico», egli continuerà a scrivere abbastanza regolarmente articoli di questo genere, che culmineranno nel famoso «Du Festival considerò comme un Ordre». Sin da quando, nel 1943, comincia a scrivere su L’Echo des étudiants, Bazin è colpito nel vedere che la grande stampa si limita a esaminare solo la trama dei film:

Cercheremmo invano nella maggior parte delle nostre cronache cine­ matografiche un’opinione sulla scenografìa o sulla qualità della foto­ grafia, un giudizio sull’uso del suono, delle puntualizzazioni sulla sce­ neggiatura, in breve su tutto ciò che costituisce la materia stessa del ci­ nema |...|. Si direbbe che quest’arte singolare non abbia un passato, né uno spessore, come le ombre imponderabili dello schermo. È ora di in­ ventare una critica cinematografica a tutto tondo. I69I

Sarà lo stesso Bazin a mettere in pratica questa critica a tutto ton­ do. Le persone in possesso dei venti numeri della Revue du cinéma hanno notato che si comincia a fare sul serio a partire dal numero 9, con il primo contributo di Bazin: «LemythedeM. Verdoux». Quan­ do un film lo sconcerta o lo appassiona, Bazin ci ritorna sopra due, tre volte, senza esitare a rimettere in discussione i propri giudizi. Effettivamente certi film si fanno amare già dalla prima visione perché mescolano felicemente elementi che ci erano noti ma che qui si trovano adattati in modo più armonioso, in maniera tale che pri­ ma ancora di stupirci ci commuoviamo. Il bel mediometraggio di Renoir La scampagnata' risponde a questa definizione. Altri film, né migliori né peggiori, mescolano elementi nuovi o elementi noti adattati in modo nuovo e in questo caso restiamo sorpresi prima di restare commossi. A questa definizione corrisponde un altro film di Renoir: Il diario di una cameriera, che darà a Bazin l’occasione di mescolare critica e autocritica. Chi, a parte Bazin, ha avuto il coraggio - non una, ma dieci volte - di ritornare sui suoi primi giudizi e di riconsiderarli non secondo i cambiamenti d’umore ma a vantaggio di un’analisi approfondita? Il 15 giugno 1948, colpito negativamente dal Diario di una cameriera di Jean Renoir, suo regista preferito, Bazin scrive su L’E-cran fran^ais: Renoir ha fatto sforzi enormi e ridicoli per ricreare attorno ai suoi eroi l’ambiente in cui essi vivono e muoiono, ma si avvertono i riflettori puntati sui rosai di Burgess Meredith, l’intero film è immerso in quel­ la luce da acquario tipica degli studios hollywoodiani e tutto, attori compresi, assomiglia a dei fiori giapponesi in vaso.

Qualche anno più tardi, Bazin rivede il film e ne resta abbaglia­ to. Scrive un nuovo pezzo, e cita lealmente il suo primo articolo: «Ho avuto la curiosità un po’ malsana di rileggere quello che ave1. Une partie de campagne, uscito in Italia come episodio del film II fiore e la violen­ za. fn.d.t.l

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vo scritto su L'Ecran frangais». Così continua e commenta la sua nuova visione:

Poi cominciò la proiezione del Diario di una cameriera e durante i pri­ mi minuti provai una impressione penosa, il tempo cioè di capire il mio errore e quanto fosse assurdo insistere nel voler vedere un reali­ smo mancato nel film più onirico e più deliberatamente immaginario di Renoir Quanto a quella luce da acquario che tanto mi aveva colpito, l’ho ritrovata, certo, ma mi è apparsa come la luce di un in­ ferno interiore, una sorta di fosforescenza tellurica, come quella im­ maginata da Jules Verne per illuminare i suoi viaggiatori al centro del­ ta terra |...|. Forseè la prima volta che nell’opera di Renoir ravvisiamo non più il teatro ma la teatralità allo stato puro. Questo confronto tra i due articoli voluto dallo stesso Bazin non ci fa assistere a una revisione lacerante ma a un approfondimento entusiastico e stimolante. Ciò non dimostra soltanto l’integrità di Bazin, ma anche la qualità della sua percezione perché, se lasciamo da parte l’errore del primo giudizio, la descrizione del film di Renoir nel resoconto sfavorevole è certamente superiore a quella che io e i miei amici dei Cahiers, sostenitori incondizionati di Renoir, avrem­ mo potuto fare. Vedete che non sono lontano dall’applicare a Bazin una politica degli autori-critici che si potrebbe riassumere così: un articolo negativo di Bazin descriveva il film meglio di un articolo elogiativo scritto da uno di noi. La «luce da acquario» è una trovata significativa perché mette l’accento sul contrasto più sorprendente del cinema del dopoguer­ ra: i film di Hollywood e il neorealismo. È proprio per fuggire da quella «luce da acquario» che Ingrid Bergman, affascinata da Roma città aperta, abbandonerà Hitchcock per seguire Rossellini. La scoperta, da parte di Bazin, delle virtù di una certa teatralità che amplifica e abbellisce l’iconografia di un film come il passaggio in una cassa di risonanza amplifica la voce umana, stilizzazione su­ periore a un realismo di superficie a patto che l’omogeneità venga mantenuta lungo tutta la produzione, gli ispirerà parecchi dei suoi I 71 I

scritti migliori, ad esempio quelli su Welles {Macbeth), su Cocteau (/ parenti terribili), su Pagnol {Les Lettres de mon moulin). Sono convinto che molti produttori e registi di oggi dovrebbero proprio leggere questi articoli di trent’anni fa. Ecco cosa scrive Bazin di un adattamento cinematografico del Medico per forza, fallito per la vo­ lontà di «fare cinema»: Il testo di Molière acquista senso solo in una foresta di tela dipinta, e questo vale anche per la recitazione degli attori. Le luci dei proiettori non sono quelle di un sole d’autunno. Al limite, la scena delle fascine può svolgersi davanti a un sipario, ai piedi di un albero non ha più sen­ so [...]. Lui [il regista) cercava di metterci un po’ di realismo e tentava di approntarci una scala per farci salire sulla scena. Le sue manovre maldestre hanno purtroppo avuto l’effetto contrario: quello di mo­ strare in modo definitivo l’irrealtà dei personaggi e del testo.

Un esempio di buon adattamento di un testo teatrale Bazin lo tro­ va nei Parenti terribili, la cui versione filmata non comporta nessu­ na inquadratura in esterni, neanche quando i personaggi si sposta­ no da un caseggiato (il loro) a un altro (quello di Madeleine): Cocteau regista ha capito che non doveva aggiungere niente alla sce­ nografia, che il cinema non era lì per moltiplicarla ma per intensificar­ la [...|. Poiché qui l’essenziale era la drammaticità della clausura e del­ la coabitazione, il minimo raggio di sole, una luce diversa da quella elettrica, avrebbero distrutto quella fragile e fatale simbiosi Gio­ co o celebrazione, il teatro non può per definizione confondersi con la natura, altrimenti vi si dissolve e cessa di esistere.

Anche se l’industria cinematografica fa spallucce di fronte alle analisi critiche che vanno al di là dell’«Andate a vederlo» o «Non andateci», possiamo vedere che queste osservazioni di Bazin sulla teatralità, lette, capite e osservate con attenzione, avrebbero per­ messo alla Gaumont di girare il Don Giovanni di Mozart con due miliardi invece che con tre e forse anche di guadagnarne uno invece di perderne due, poiché ci troviamo di fronte all’esempio flagrante l 7i 1

di un film fallito non per la sua teatralità, ma al contrario per la di­ struzione confusa, rovinosa e ingenua della sua necessaria conven­ zione scenica. Due anni prima, lungi dal cercare di «fare cinema», Ingmar Berg­ man girava II flauto magico in un vecchio teatro, offrendoci così non la messa in scena pseudorealista di un’opera, ma la messa in scena della rappresentazione di un'opera. Inizialmente destinato alla tele­ visione svedese, il film fu proiettato con successo in tutto il mondo; possiamo quindi definire baziniano il modo di procedere di Bergman. Oggi l’espressione «intellettuale di sinistra» fa sorridere, e non solo i nostalgici dell’Algeria francese; cosa pensare allora dell’e­ spressione «cattolico di sinistra»? Ebbene, Bazin era un intellettua­ le cattolico di sinistra, e nessuno di quelli che l’hanno conosciuto potrebbe contestare il perenne accordo che riusciva a creare tra i suoi pensieri e le sue azioni. Quando partiva con Janine e telefonava agli amici che avevano problemi di alloggio per prestargli la casa, quando a Vincennes fer­ mava la macchina per far salire tre persone che aspettavano l’auto­ bus sotto la pioggia e portarle fino a Parigi, era il Bazin cattolico o il Bazin di sinistra? Non Io so, era Bazin, ma a volte mi dico che due buone ragioni per credere all’uguaglianza degli uomini valgono più di una. Nel libro di Dudley Andrew ho scoperto che Bazin, sul finire del­ l’adolescenza, era talmente smarrito e angosciato da consultare uno psicanalista. Questo lo ignoravo e non potevo neanche sospettarlo, probabilmente perché i miei rapporti con lui furono abbastanza egoisti da parte mia, anche se nutrivo nei suoi confronti un affetto profondo, e anche perché all’epoca in cui lo conobbi si era stabiliz­ zato, felice nella vita privata grazie a Janine e rassicurato in quella professionale, già conosciuto e rispettato a livello internazionale. Nel suo lavoro di critico cinematografico Bazin era come un pesce nell’acqua. Nella sua opera non troverete mai un articolo «feroce», uno di quei pezzi cattivi il cui spirito può essere riassunto in: «Che bello, è brutto», ma, al massimo, cioè al massimo della severità:

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«L’intenzione era interessante, purtroppo è andata male, ed ecco perché...» Quando è morto, Bazin faceva il critico cinematografico da quin­ dici anni, mai stanco, mai scettico. Il suo era anche un forte impegno sociale, e nel 1943 scrisse: «L’estetica del cinema dev’essere sociale o il cinema dovrà rinunciare all’estetica», ma non avreste trovato in lui nessuna traccia di vanità sociale, perché non desiderava essere di­ verso da com’era, né fare qualcosa di diverso. La sua enorme natu­ ralezza gli permetteva di essere allo stesso livello dei registi più fa­ mosi e in un rapporto di parità che si stabiliva automaticamente. Questo spiega i rapporti affettuosi che intrecciò non solo con Jean Renoir, ma anche con Rossellini, Cocteau, Fellini e Orson Welles. Il mio primo lavoro accanto a Bazin, verso il r 947, consisteva nell’accompagnarlo in alcune fabbriche dove, nella mezz’ora che se­ guiva il pranzo degli operai e precedeva il loro ritorno in officina, presentava due cortometraggi di Chaplin. Anche là si stabiliva lo stesso rapporto di parità fra lui e l’uditorio e, non avendo più nien­ te da scoprire in quel film che conosceva inquadratura per inqua­ dratura, studiava le reazioni del pubblico e vi trovava conferma di ciò che aveva scritto quattro anni prima:

Ogni estetica di élite è radicalmente incompatibile con le leggi funzio­ nali del cinema. Il cinema ha bisogno di una élite, ma questa élite avrà un’influenza solo nella misura in cui capirà realisticamente le esigenze sociologiche della settima arte. Uno dei suoi primi articoli, dedicato a un film trascurato dal pub­ blico ma di moda negli ambienti di Saint-Germain-des-Prés, Adieu Léonard^ realizzato da Pierre Prévert su una sceneggiatura del fra­ tello Jacques, illustra chiaramente l’antisnobismo di Bazin:

Che ci si sia potuti estasiare su questa sceneggiatura dimostra fino a che punto siano dimenticate le possibilità del cinema: perché in fin dei conti se là dentro ci fosse un’idea, questa potrebbe valere solo per lo I 74 I

stile della realizzazione; questa satira fantasiosa e un po’ stramba po­ trebbe vivere soltanto in un universo dove il ritmo e la poesia delle im­ magini ci imponessero una verosimiglianza superiore all’inverosimi­ glianza; invece qui non ci sentiamo mai liberi dalle contingenze logi­ che, né accettiamo mai liberamente il mondo che ci è imposto. Alla fine dell’articolo, Bazin afferma di non nutrire nessuna ani­ mosità personale contro il nome di Prévert: «Per dimenticarlo, sia­ mo andati a rivedere per la quarta volta Alba tragica: Buongiorno Prévert! » Ora non è inutile ricordare che all’epoca di Bazin i critici vedeva­ no i film in sala, il primo giorno, con il pubblico. 11 critico non scri­ veva il suo articolo partendo da un «dossier stampa», doveva rico­ struirsi da solo il riassunto della sceneggiatura, indovinare le inten­ zioni degli autori e valutare lo scarto tra le intenzioni e il risultato. Il fatto di essere mescolato al pubblico pagante non impediva a Bazin di solidarizzare con il film, quando questo era accolto ingiustamen­ te o non era compreso, come nel caso, ad esempio, di Perfidia. Sono sempre d’accordo con Bazin? No di certo. Contrariamente a lui, sono ostile al cinema-documentario, definito da Renoir come «il genere cinematografico più falso». Non sono d’accordo neanche con l’idea che esprime, soprattutto all’inizio della sua carriera, sul­ la gerarchia dei generi: «La casa degli incubi è un’opera quasi per­ fetta, mentre L’amore e il diavolo ha dei difetti, ma il genere a cui ap­ partiene il film di Becker è esteticamente inferiore a quello di M. Carnè». Seguire Bazin su questo terreno porterebbe a considerare l’opera di King Vidor superiore a quella di Lubitsch. Ora, in alcuni scritti posteriori di Bazin, potremmo trovare delle annotazioni che si oppongono a questa gerarchia dei generi, ad esempio quando scrive nel 1948: «Contrariamente alle apparenze, era la commedia il genere più serio di Hollywood, nel senso che rifletteva sul mezzo comico le convenzioni morali e sociali della vita americana». E da quando non c’è più Bazin? Innanzitutto la televisione ha pol­ verizzato i miti, distrutto le star e rotto l’incantesimo. La generali/.-

zazione del colore ha fatto regredire la qualità media delle immagi­ ni e reso la «lettura» dei film allo stesso tempo più semplice e meno affascinante. Infine c’è stata un’inversione nella percentuale di film commerciali e di film ambiziosi, ed è proprio il rimescolamento che Bazin si augurava. Purtroppo la critica di oggi, perlomeno nel suo esercizio quoti­ diano, ha perso quasi tutta la sua influenza, soprattutto a causa del­ la televisione. All’epoca in cui il cinema aveva il monopolio delie im­ magini in movimento, la funzione del critico era quella di evocare quelle immagini con parole; ma se un film attirava irresistibilmente il pubblico, nessuna critica sfavorevole, sia pur unanime, Io avreb­ be dissuaso dall’andare a giudicare di persona, semplicemente per­ ché ogni film era un mistero visivo. Oggi bastano tre provini scelti male, mostrati in televisione in una di quelle trasmissioni che secon­ do il ministro delle Comunicazioni favoriscono la «promozione» del cinema, per dissipare il mistero visivo e affossare la carriera di un film. In queste condizioni, e senza dare l’impressione di averne preso coscienza, la critica è giunta ad avere, nel gioco cinematogra­ fico, lo stesso ruolo che il movimento ecologista ha nel gioco politi­ co: teorico, inefficace e moralmente indispensabile. All’epoca di Bazin, i film per la maggior parte erano privi di am­ bizione. Il ruolo del critico era quello di stimolare i registi attiran­ done l’attenzione su potenzialità che avevano dentro di sé ma di cui non erano consapevoli. Oggi avviene il contrario e sempre più spes­ so si vedono film ambiziosi ma mutilati e resi piatti dalla debolezza della realizzazione. Questo fenomeno non c soltanto francese ma mondiale, e se Bazin oggi fosse ancora vivo - dopotutto non avreb­ be che sessantacinque anni - sarebbe la persona più adatta per aiu­ tarci a ristabilire una migliore armonia tra i nostri progetti, le nostre attitudini, i nostri scopi e il nostro stile. Verso la fine di questa prefazione, lo confesso, mi sono sforzato di parlare di Bazin con distacco, come se si trattasse per me di una per­ sona come un’altra, mentre André è stato l’uomo a cui ho voluto più bene. Lui e Janine mi hanno adottato nel momento in cui mi trova-

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vo in piena miseria, e hanno messo fine al periodo più penoso della mia vita. Non ho voluto parlare di questo in particolare, forse per­ ché l’ho già scritto da qualche altra parte, ma, tramite il libro di Dudley Andrew, il lettore vedrà che uomo meraviglioso era Bazin, con la sua straordinaria buona fede e il suo amore per tutto ciò che vive. Bazin non aveva nemici, né poteva averne, poiché il suo carat­ tere lo portava a riformulare, approfondendolo, il punto di vista del suo avversario, prima di proporgli la propria argomentazione. A contatto con Bazin tutti diventavano migliori. Se avevamo delle di­ vergenze le constatavamo con indulgenza. André è morto venticinque anni fa: si potrebbe pensare che il pas­ sare del tempo abbia mitigato il sentimento della sua assenza, ma non è vero. Bazin ci manca. (Prefazione al libro di Dudley Andrew, André Bazin, Editions de l'Étoile, 4 febbraio 1983)

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PER BRESSON: ALTA FEDELTÀ A LUNGA DURATA

È facile enumerare le ragioni che dettano i nostri odi piuttosto che quelle che ispirano i nostri amori, ma quasi sempre la spiegazione non è centrata, semplicemente perché le passioni non sono razionali. Il critico professionista si servirà di Un taxi color malva per de­ molire Le Camion, o viceversa, ma un regista che parla del lavoro di un altro regista che ammira deve fare a meno di questa comodità. Dunque qui parleremo solo di Bresson e del suo dodicesimo film, // diavolo probabilmente..., che ha risvegliato in me vecchissimi ricor­ di legati alla gelida accoglienza ricevuta da Perfidia al momento del­ la Liberazione. Era già stato rimproverato a Perfidia di non assomigliare a quello che si andava facendo allora, e a Bresson di non filmare allo stesso modo gli stessi momenti di una storia. Niente di grave. Questo non ha impedito a Bresson di proseguire nel suo cammino particolare. È evidente che La conversa di Belfort era il miglior film dell’occupa­ zione, Un condannato a morte è fuggito è stato il migliore del de­ cennio successivo; Pickpocket, Giovanna d'Arco, Alt hasard BalI 7« I

thazar sono titoli chiave di un’opera che, dal Diario di un curato di campagna a Lancillotto e Ginevra, mi ha sempre commosso per la sua musicalità. Due belle ragazze e due bei ragazzi animano II diavolo probabil­ mente... Insisto sulla loro bellezza perché è in parte il soggetto del film: la bellezza sciupata, la giovinezza sprecata. Con questi quattro bei volti Bresson gioca distribuendoli come le figure di un gioco di carte e variandone la disposizione. Certo, è vero, Bresson comincia spesso le scene filmando maniglie di porte e fibbie di cinture, deca­ pitando le persone, ma lo fa per economizzare, per ritardare, per far attendere, per preservare, per far desiderare e mostrare finalmente il volto nel momento in cui diventa importante, nel momento in cui quel bel volto - insisto ancora sulla bellezza - quel bel volto intelli­ gente parla con dolcezza e gravità, come se la persona parlasse a se stessa. Per Bresson, come per il signor Teste,1 si tratta chiaramente di uc­ cidere la marionetta e mostrare la persona al suo meglio, nel mo­ mento più vero di emozione ed espressione. Ho parlato dei volti e delle voci. La ragazza di nome Alberte mi ha fatto pensare alla Casarès di Perfìdia. Sempre in relazione a un ci­ nema musicale, sarebbe possibile descrivere il modo di camminare dei quattro begli adolescenti del film. Disinvolti sia con gli stivali di gomma che con le scarpe da tennis, scivolano per le strade e per le scale come gatti d’appartamento. I loro gesti sono morbidi, di una dolcezza che sembra al rallentatore e in sincronia con la scansione delle immagini, mescolate come un mazzo di carte e distribuite con parsimonia. In un film di Bresson si preferisce nascondere piuttosto che mo­ strare. L’ecologia, la Chiesa moderna, la droga, la psichiatria, il sui­ cidio? No, l’argomento è l’intelligenza, la gravità e la bellezza degli adolescenti di oggi, e in particolare di quattro di loro di cui si poi. Personaggio del romanzo La serata con il signor Teste ( 1896) di Paul Valéry, che rappresenta la coscienza lucida e assoluta, non turbata da passioni o desideri. In.d.t.j

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trebbe dire, con Cocteau, che «l’aria che respirano è più leggera del­ l’aria». Troverete questa nobiltà in pochi altri film. Il cinema è un’arte, ma non tutti i registi sono degli artisti, Bresson sì, e il suo nuovo ca­ polavoro, Il diavolo probabilmente..., è un film piacevolissimo.

/Pariscope, 2 r giugno 1977)

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CHARLIE CHAPLIN

Charlie Chaplin è il cineasta più famoso del mondo, ma la sua ope­ ra ha finito per diventare la più misteriosa della storia del cinema. Man mano che i diritti delle sue opere scadevano, Chaplin ne proi­ biva la diffusione, scottato, bisogna dirlo, dalle innumerevoli ver­ sioni pirata che giravano dall’inizio della sua carriera; arrivavano nuove generazioni di spettatori che conoscevano II monello^ Luci della città, // grande dittatore^ Monsieur Verdoux^ Luci della ribal­ ta solo di fama. Nel 1970 Chaplin decise di rimettere in circolazione la quasi to­ talità delle sue opere, e sembrò quindi opportuno pubblicare i testi di André Bazin su Chaplin, in un’antologia che avrebbe permesso di seguire, esattamente come si procede sulle traversine di una ferro­ via, il cammino dei due pensieri, quello del cineasta e quello dello scrittore. Bazin conosceva l’opera di Chaplin come le sue tasche, ve ne renderete conto leggendo questo libro, ma a questo posso ag­ giungere il meraviglioso ricordo di innumerevoli proiezioni al cine­ club in cui ho visto Bazin presentare a operai, seminaristi o studen­

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ti II monello, Un rea New York o altri «rulli» che conosceva a me­ moria e che raccontava prima della proiezione senza che l’effetto sorpresa ne fosse alterato; Bazin parlava di Chaplin meglio di chiun­ que altro, e la sua dialettica vertiginosa arricchiva il piacere. Al contrario di Eric Rohmer - di cui apprezzo l’ammirabile testo che ha accettato di scrivere sulla Contessa di Hong Kong per ag­ giornare questo libro - non contesto mai la posizione privilegiata che viene riservata a Chaplin nella storia del cinema, non solo in quella che viene scritta, ma anche in quella che viene discussa e che determina il crearsi delle reputazioni. Durante gli anni che hanno preceduto l’invenzione del sonoro, c’è stata gente di tutto il mondo, e in particolar modo scrittori e intel­ lettuali, che ha criticato o disprezzato il cinema, considerandolo so­ lo una forma di attrazione circense o un’arte minore. Un’unica ec­ cezione era ammessa: Charlie Chaplin - e capisco che questo sia sembrato insopportabile a tutti quelli che hanno visto i film di Grif­ fith, di Stroheim, di Keaton. Fu questo il dibattito sul tema: «il cine­ ma è un’arte?» Ma questo dibattito tra due gruppi di intellettuali non riguardava il pubblico, che del resto non si poneva neanche la domanda. Grazie al suo entusiasmo, le cui proporzioni sono diffici­ li da immaginare al giorno d’oggi - bisognerebbe trasporre ed esten­ dere al mondo intero il culto di cui Èva Perón è stata oggetto in Ar­ gentina - Chaplin, alla fine della prima guerra mondiale, era l’uomo più famoso del mondo. Se mi meraviglio di questo fatto, cinquantotto anni dopo la prima apparizione di Chariot sullo schermo, è perché ci vedo una logica fer­ rea e in questa logica vedo una grande bellezza. Fin dall’inizio il cine­ ma è stato praticato da gente privilegiata, anche se quasi fino al 19Z0 non si trattava di praticare un’arte. Senza ripetere il ritornello, famo­ so dal maggio 1968, a proposito del «cinema borghese», vorrei far notare che c’è sempre stata una grande differenza, non solo culturale ma biografica, tra le persone che fanno i film e quelle che li guardano. Se Quarto potere ci è sembrato straordinario come opera prima, tra le sue altre peculiarità c’è il fatto di essere il solo film d’esordio |8i|

girato da un uomo già famoso (e parlo dell’immensa fama di Orson Welles dopo la sua trasmissione radiofonica ispirata alla Guerra dei mondi, che provocò un’ondata di panico in tutti gli Stati Uniti e che portò giustamente Welles fino alle porte degli studi rko a Hol­ lywood). È chiaro che proprio questa celebrità acquisita permise a Orson Welles di girare la storia di un uomo famoso (Hearst), e a questo va aggiunto un elemento biologico, la precocità, che gli per­ mise, a venticinque anni, di tracciare in maniera plausibile una vita intera, morte inclusa. All’opposto di Quarto potere metto un altro film d’esordio ge­ niale e straordinario, Fino all’ultimo respiro, che è esattamente il contrario, pieno com’è della disperazione e dell’energia di uno che non ha niente da perdere; girandolo Godard non aveva in tasca neanche gli spiccioli per comprarsi un biglietto della metropolitana, era povero come il personaggio che filmava - più povero, a dire il ve­ ro - e se la posta in gioco era la vita di Michel Poiccard, credo che lo fosse anche l’identità di Godard. Torniamo a Chariot, da cui non mi sono allontanato poi tanto, perché i grandi uomini, come le cose belle, hanno dei punti in comu­ ne. Charlie Chaplin, abbandonato dal padre alcolista, visse i suoi primi anni con l’angoscia che gli rinchiudessero la madre in manico­ mio, poi, quando ce la rinchiusero davvero, con la paura di essere acciuffato dalla polizia; era un piccolo mendicante di nove anni che rasentava i muri di Kensington Road, vivendo, come ha scritto nel suo libro La mia vita, «negli strati inferiori della società». Se ritorno sulla sua infanzia che è stata tanto spesso descritta e commentata, al punto che forse se n’è persa di vista la durezza, è perché bisogna evi­ denziare quanto possa essere esplosiva la miseria quando è così to­ tale. Quando Chaplin entrò alla Keystone per girare degli slapstick, con tanto di torte in faccia e inseguimenti, corse più veloce e più lon­ tano dei suoi colleghi del music hall, perché non è l’unico cineasta ad aver descritto la fame, ma è l’unico ad averla conosciuta, c questa cosa verrà avvertita dagli spettatori di tutto il mondo quando le sue pellicole cominccranno a circolare, a partire dal 1914.

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Non mi è difficile pensare che Chaplin, la cui madre è morta paz­ za, abbia lui stesso sfiorato l’alienazione e se ne sia potuto liberare solo grazie alle sue doti di mimo (che aveva ereditato proprio dalla madre). Da qualche anno a questa parte si studiano più seriamente i casi di bambini che sono cresciuti neH’isolamento, nella miseria morale, fisica o materiale, e gli specialisti descrivono l’autismo co­ me un meccanismo di difesa. Infatti, e lo si vedrà chiaramente attra­ verso gli esempi dall’opera di Chaplin portati da Bazin, nei fatti e nei gesti di Chariot ogni cosa è un meccanismo di difesa. Quando Bazin spiega che Chariot non è antisociale ma asociale e che aspira a en­ trare nella società, definisce, quasi negli stessi termini di Kanner, la differenza tra lo schizofrenico e il bambino autistico: « Mentre lo schizofrenico tenta di risolvere il suo problema allontanandosi dal mondo di cui faceva parte, i nostri bambini arrivano progressiva­ mente al compromesso che consiste nel saggiare prudentemente un mondo a cui erano estranei fin dall’inizio». Per attenermi a un solo esempio di sfasamento (la parola sfasa­ mento torna costantemente sotto la penna di Bazin come sotto quel­ la di Bruno Bettelheim quando parla di bambini autistici nella For­ tezza vuota} accosterò due citazioni a proposito del ruolo dell’og­ getto: Il bambino autistico ha meno paura delle cose e agirà forse su di esse perché sono i personaggi e non le cose che sembrano minacciare la sua esistenza. Di conseguenza l’uso che fa delle cose non è quello per il quale esse sono state concepite. Bruno Bettelheim

Sembra che gli oggetti accettino di aiutare Chariot solo in margine al senso che la società gli ha assegnato. Il più bell’esempio di questi sfa­ samenti è la famosa danza dei panini, in cui la complicità dell’oggetto esplode in una coreografia gratuita. André B.izìn

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Nel vocabolario di oggi, si direbbe che Chariot è un «marginale» e, nel suo genere, il pili marginale dei marginali. Diventato l’artista più famoso e più ricco del mondo, Chaplin si sente costretto per età o per pudore, in ogni caso per coerenza, ad abbandonare il perso­ naggio del vagabondo, ma capisce che i ruoli di uomini «integrati» gli sono preclusi; deve cambiare mito ma restare mitico. Allora pre­ para un Napoleone, una vita di Cristo, rinuncia a questi due pro­ getti e gira II grande dittatore, poi Monsieur Verdoux e Un re a New York, passando per il Calvero di Luci della ribalta, un clown tal­ mente decaduto che a un certo punto propone al suo impresario: «E se continuassi la carriera sotto falso nome?» Di cosa è fatto Chariot, perché e come ha dominato e influenzato cinquantanni di cinema - al punto che lo si riconosce nettamente in trasparenza dietro il Julien Carette della Regola del gioco, così co­ me si riconosce Henri Verdoux dietro Archibaldo de la Cruz’ e co­ me il piccolo barbiere ebreo che guarda la sua casa bruciare nel Grande dittatore rivive ventisei anni dopo nel vecchio polacco di Al fuoco, pompieri! di Milos Forman? Ecco ciò che André Bazin ha sa­ puto vedere e far vedere. (Prefazione al libro di André Bazin ed Eric Rohmer Charlie Chaplin, Edi­ tions Cahiers du cinema, 1999)

3. Il protagonista di Estasi di un delitto di Luis Bunucl. (n.d.t.j

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CHARLIE CHAPLIN, UN UOMO COME GLI ALTRI

È l’ultima volta che si parlerà in tutto il mondo e nello stesso mo­ mento di Charlie Chaplin e, per forza di cose, in termini gloriosi. Ef­ fettivamente Chaplin era il più questo, il più quello, l’unico che... Il ricorso a questo vocabolario estremo susciterà una reazione di fa­ stidio e fra non molto ci si può aspettare di leggere appelli alla mo­ derazione, al senso della misura, eccetera. In fondo cos’è un critico se non una sorta di scrittore che ha tutto l’interesse a dimostrare che Victor Hugo era solo un uomo come gli altri? Il miglior modo per salutare quest’uomo come gli altri che è stato Charlie Chaplin, nel momento in cui il suo povero corpo ha raccolto le ultime forze per spingere la porta con su scritto Uscita degli artisti., sarebbe posare un proiettore sul tavolo della sala da pranzo e proiet­ tare sul muro le immagini di Una serata a teatro o dt\\y Emigrante o del Monello. Ma su questo siamo tutti d’accordo, cioè sul Charlie Chaplin considerato il mimo più grande. Le discussioni cominciano dopo e riguardano il suo adattamento al lungometraggio, al cinema parlato, la convenienza della sua attività politica, la sua vita privata, I «6 |

la sua ricchezza (quello che oggi chiameremmo «il suo rapporto con i soldi»), e infine la qualità della sua autobiografia: La mìa vita. Non è solo lo spirito di contraddizione che mi spinge a esprimere la mia stima per ciò che è stato maggiormente criticato nell’opera e nella vita di Chaplin: il suo attivismo politico durante la seconda guerra mondiale in favore dell’apertura di un secondo fronte contro Hitler, i suoi ultimi film - Un re a New York, La contessa di Hong Kong-e iì suo libro La mia vita. Quelli che hanno criticato la sua autobiografia, se l’hanno letta, l’hanno letta male, perché un ammiratore di Chaplin, o semplicemente un attento osservatore del cinema, può trovarci le risposte a tutte le domande che ci si può porre sulla nascita di un’arte, l’e­ spansione di Hollywood, la rivoluzione del sonoro, le ripercussioni della guerra fredda nella vita americana durante gli anni Cinquan­ ta, la relatività della gloria e della fortuna, l’importanza della prima infanzia nello sviluppo della personalità, la differenza tra i risultati ottenuti grazie a doti naturali e quelli ottenuti grazie all’esercizio; insomma, per farla breve, se si dovesse leggere un unico libro per comprendere il nostro secolo di cinema consiglierei La mia vita. «Non ho avuto bisogno di leggere libri», scrive Chaplin, «per sa­ pere che il grande tema della vita è la lotta e anche la sofferenza. Istintivamente tutte le mie pagliacciate si basavano su questo. Il mio metodo per organizzare l’intreccio di una commedia era semplice: consisteva nel mettere dei personaggi nei guai e poi tirarli fuori». Ecco la teoria della sua arte, ma questo non mi impedirà di pen­ sare che tutta l’opera di Chaplin sia autobiografica. Altri cineasti prima e dopo di lui hanno descritto la fame, per esempio, ma Cha­ plin l’ha fatto meglio degli altri, forse perché conosceva meglio l’ar­ gomento! Ingaggiato dalla Keystone per una serie di «comiche» a base di inseguimenti, Chaplin correva più veloce e più lontano dei suoi colleghi, e questo semplicemente perché ne andava della sua stessa vita. Era cresciuto, come dice nelle sue memorie, «negli strati inferiori della società» (solo un inglese può utilizzare quest’espressione, da I 87 I

cui si evince l’importanza di diventare Sir Charles), e questo gli ave­ va permesso di costruire il personaggio del Vagabondo, uno che og­ gi definiremmo un «marginale». Sì, Chaplin è stato il più marginale dei marginali, e questa combinazione ha fatto di lui la più celebre delie celebrità. Al giorno d’oggi ci riesce difficile, probabilmente a causa della banalizzazione delle personalità causata dalla televisio­ ne, immaginare quella che fu la notorietà di Chaplin. Una foto del1’Illustration, negli anni Venti, lo mostra di spalle mentre saluta da un balcone dell’hotel Crillon la folla che si accalca in Place de la Concorde per acclamarlo, certamente, ma anche per ringraziarlo di esistere: «Avevo l’impressione che tutti mi conoscessero, ma io non conoscevo nessuno». Tutto è lucidità nell’introspezione alla quale si abbandona in La mia vita: «Avevo un bell’essere l’ultimo arrivato, le mie opinioni ve­ nivano prese comunque sul serio». Commentando l’arte della reci­ tazione, mette avanti a tutto ciò che chiama «il senso dell’orienta­ mento: sapere in ogni istante dove sei e cosa stai facendo». Contrariamente a ciò che si dice a volte, Chaplin, attraverso le sue favole tragicomiche, non ha mai predicato la rassegnazione. In un primo momento ha portato avanti un messaggio che esaltava la lot­ ta individuale: Chariot uomo povero tra i poveri, che si tirava fuori dalla miseria grazie all’astuzia. Poi certamente la sua notorietà lo ha portato a studiare altri sistemi di lotta e a interrogarsi su giustizia e ingiustizia. Questo gli verrà rimproverato a sufficienza! Ancora una volta in La mia vita mostra una grande lucidità:

In quel momento mi sembrava di essere intrappolato in una valanga politica. Ho cominciato a mettere in dubbio le mie motivazioni: in che misura non era l’attore a stimolare me e anche la reazione del pubbli­ co presente? Mi sarei lanciato in questa avventura donchisciottesca se non avessi girato un film antinazista? Era solo una sublimazione di tutta la mia ostilità contro il cinema parlato? Penso che ci siano state un po’ tutte queste componenti, ma gli elementi più forti erano il mio odio c il mio disprezzo nei confronti del sistema nazista.

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In un famoso articolo, André Bazin aveva splendidamente chiari­ to il segreto di quel duello Chaplin-Hitler: «Avendogli rubato i baf­ fi, Hitler si era ritrovato legato mani e piedi a Chariot». Oggi chi du­ biterebbe che Chaplin aveva tutto il diritto di impegnare la sua po­ polarità universale in questa lotta, e che è stato un bene che lo abbia sentito come un dovere quando tutta Hollywood cercava di dissua­ derlo? Quando si tratta di Charlie Chaplin - o di chiunque altro abbia fatto del bene agli altri - non bisogna minimizzare niente. Sì, Cha­ plin era il più grande mimo dei suoi tempi, sì, aveva il dono di far ri­ dere e di far piangere, ma ha avuto anche la forza e il coraggio di di­ ventare lo sceneggiatore di se stesso, il regista di se stesso, il produt­ tore di se stesso. Se ci ha messo molto più tempo di altri ad adattar­ si al cinema sonoro è perché aveva la responsabilità supplementare di esporre se stesso sullo schermo e il passo da fare era enorme, con­ siderando che la sua espressione artistica aveva trovato la sua forma perfetta nel muto. Allora vediamo che Monsieur Verdoux, nel qua­ le per la prima volta abbandona Chariot, è riuscito in maniera pro­ digiosa: la costruzione della sceneggiatura, i dialoghi, il ritmo, la re­ citazione di tutti gli attori, tutto è geniale in questo film-di un nuovo genio. Scrivendo di Charlie Chaplin era destino che la parola genio ve­ nisse a formarsi sulla tastiera della mia macchina da scrivere. Ve­ diamo cosa dice il dizionario: «Attitudine speciale che oltrepassa la misura comune». Charlie Chaplin è morto. Ha fatto dei bei film e dei bei figli. Allo­ ra, lunga e felice vita a Geraldine, Josephine, Victoria, Jane e gli al­ tri, e anche tutta la nostra gratitudine e il nostro affetto a Oona, che ha dato a Charlie Chaplin una vecchiaia felice. (Da Le Monde, 27 dicembre 1977)

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JEAN COCTEAU, / RAGAZZI TERRIBILI NEL 1974

Quando uscì, nel 1950, il film di Cocteau-Melville era compietamente diverso da quelli che si facevano allora nel cinema francese. / ragazzi terribili restituiva sullo schermo il fascino profondo, poten­ te e avvincente del romanzo di cui era la fedele illustrazione e in cui tutta la gioventù del 1930 si era riconosciuta. È un’ottima idea quella di riesumare I ragazzi terribili oggi che il pubblico giovane ha una complicità spirituale con il cinema poetico dei figli di quei ragazzi, Jean-Luc Godard, Philippe Garrel, CarmeIo Bene e qualche altro. Con il passare degli anni resto un ammiratore di Nicole Stéphane che, con una bocca incredibilmente avida, proferisce più che espri­ mere il ruolo di Elisabeth; mi piace anche, nel ruolo del fratello Paul, la livida gravità di Edouard Dermithe, la cui recitazione, all’epoca aspramente criticata come quella di Nora Grégor nella Regola del gioco, mi commuove altrettanto. «Amare ed essere amati, ecco l’ideale. A patto naturalmente che si tratti della stessa persona. Spesso succede il contrario». Con queI 90 ]

ste parole Jean Cocteau, in Legrand écart, annunciava con dieci an­ ni d’anticipo il soggetto profondo dei Ragazzi terribili. Non è indispensabile andare in cerca minuziosamente di quanto appartiene rispettivamente a Melville o a Cocteau in questo concer­ to a quattro mani dove il rigore tranquillo dell’uno serve tanto bene la scrittura nervosa dell’altro. Questi due artisti, da noi tanto ama­ ti, hanno collaborato «come culo e camicia» o, se si preferisce, co­ me Bach e Vivaldi; ed è così che il miglior romanzo di Jean Cocteau è diventato il miglior film di Jean-Pierre Melville. Il dramma dei Ragazzi terribili, uno dei rari film veramente olfat­ tivi della storia del cinema - il suo odore è quello della camera da let­ to di bambini malati - progredisce e cresce per ansiti, come il trac­ ciato inquietante della linea irregolare della temperatura su una car­ tella clinica. Questa poesia che sa di ospedale non passerà mai di moda, almeno fino a quando, giovani o vecchi, saremo capaci di bu­ scarci le malattie dell’amore.

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IL GENIO DI SACHA GUITRY

Di un uomo sgradevole, di cattivo umore, diciamo che si è alzato con il piede sbagliato. Leggendo i lavori teatrali di Sacha Guitry, è chiaro che quest’uomo si è alzato con il piede giusto tutte le mattine della sua vita. Contrariamente a molti celebri autori di vaudeville, contraria­ mente alla leggenda del clown triste sotto il trucco, Sacha Guitry non è un malinconico che vuole renderci allegri, è lui stesso allegro e fin dalle prime battute di ogni lavoro ci comunica la sua allegria. Le sue opere non sono costruite con «materiale solido», eppure resistono, straordinariamente bene, al passare degli anni. I personaggi non sono dipinti ma disegnati con tratto rapido e si­ curo, non come caricature, ma come schizzi affettuosi e beffardi al­ lo stesso tempo. La sua genialità si evidenzia al meglio nel dialogo: lo spettatore ha l’impressione di ascoltare un’improvvisazione, qualcosa che non è stato scritto ma stenografato, e che forse non sarà uguale nella rap­ presentazione successiva. I 9* 1

Le eroine di Sacha Guitry mentono come respirano, ma respirano Pamore. Gli uomini che le corteggiano aspirano costantemente alPamore definitivo prima di sistemarsi allegramente in quello prov­ visorio. Contrariamente a tutti gli scrittori che hanno dedicato le loro opere più importanti alla madre, Sacha Guitry dà il meglio di sé tut­ te le volte che evoca la paternità: da qui la forza gioiosa, crudele e sensibile di Mon pere avait raison. Invidio gli spettatori che assisteranno a questo spettacolo, ma an­ cora di più le maschere del Théàtre Hébertot, che avranno la fortu­ na di ascoltare ogni sera questa improvvisazione definitiva. (Per Mon pere avait raison al Théàtre Hébertot, maggio 1978)

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ALFRED HITCHCOCK NEL 1980

La carriera di Alfred Hitchcock dimostra che un regista cinemato­ grafico può arrivare al successo e restare fedele a se stesso, scegliere i suoi soggetti, trattarli a modo suo, realizzare il suo sogno e allo stesso tempo farsi capire da tutti. La signora scompare. Notorious, l'amante perduta, La finestra sul cortile sarebbero sufficienti ad assicurare la gloria a qualunque regista, ma se aggiungete // club dei 39, Rebecca, la prima moglie, Il sospetto, L'ombra del dubbio, Delitto per delitto, L'uomo che sapeva troppo, La donna che visse due volte, Intrigo internaziona­ le, Psycho, Gli uccelli, Marnie avrete enumerato solo un quarto di una filmografia smagliante, la più ricca e la più completa fra quel­ le dei registi che hanno iniziato a lavorare negli anni Venti, cioè con il cinema muto. A differenza di altri grandi e incontestati registi, Chaplin, Lubitsch e John Ford, Hitchcock non invia un messaggio umanitario, non ci offre da amare personaggi simpatici immersi in situazioni che li valorizzano.

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I concetti di simpatia e di valorizzazione possono essere familiari solo a chi si ami e si accetti per come è, e questo, a mio avviso, non è il caso di Hitchcock, per il quale il cinema è stato un rifugio. Quel­ lo che cerca di farci provare è piuttosto l’insicurezza, la paura, il sol­ lievo, qualche volta la compassione. Un uomo ha ucciso, come si farà catturare? Avete riconosciuto L’ombra del dubbio, Paura in palcoscenico, Il delitto perfetto, Psycho, Frenzy. Un uomo è innocente del delitto di cui lo si accusa, come riuscirà a discolparsi? Ecco II club dei 39, Io confesso, Il ladro, Intrigo in­ ternazionale... Tutti questi intrecci, annodati e dipanati senza che entri in gioco niente di ciò che costituisce la verità sociale e politica del nostro tempo, non lascerebbero una traccia così profonda nella storia del cinema se non fossero fìssati da una regia decisa e geniale che non si accontenta di rafforzarne l’efficacia, ma dà loro, stiliz­ zandoli, un significato simbolico: quello della lotta tra l’aspetto sa­ cro della vita che ci viene data e l’uso impuro che noi ne facciamo. Se proprio devo fare la descrizione di questa regia che rende Hitch­ cock tanto superiore alla maggior parte dei cineasti in attività, dicia­ mo che, più che di uno stile, si tratta di una scrittura. Quasi tutti i re­ gisti di Hollywood costruiscono una sequenza come se il set fosse un palcoscenico di teatro. Gli attori occupano la scenografia, si muovo­ no, parlano e la macchina da presa li filma in piedi (è l’inquadratura generale); poi il regista decide di girare diverse inquadrature ravvici­ nate e infine dei primi piani dei diversi attori cosicché ogni frase del dialogo è «coperta », cioè filmata e rifilmata fino a sedici o anche ven­ ti volte, da angolature differenti. In seguito, nella sala di montaggio, per tre o quattro mesi il montatore assemblerà tutto questo materia­ le sforzandosi di dargli un ritmo, ma generalmente senza uscire da un modello teatrale di regia. È questa forma di cinema-registrazione che Hitchcock, con giustificato disprezzo, chiama «fotografia di persone che parlano», ed è a questo che si è sempre opposto sin dal 192,4, an­ no del suo primo film. Nella scrittura hitchcockiana la suspense gioca naturalmente un ruolo importante. La suspense non è, come troppo spesso si crede,

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la manipolazione di materiale violento, ma più esattamente la dila­ tazione della durata, l’amplificazione di un’attesa, la valorizzazione di tutto ciò che ci fa battere un po’ più velocemente il cuore. La su­ spense non è fatta soltanto di elementi visivi, e film come // delitto perfetto e La congiura degli innocenti ci offrono dei buoni esempi di «suspense nel dialogo». Ciò che distingue lo stile di Alfred Hitchcock da quello di altri grandi registi dell’azione violenta come Fritz Lang o Howard Hawks è il suo uso assai personale della lentezza e della rapidità, della preparazione e della folgorazione, dell’attesa e dell’ellissi. Ce ne rendiamo conto analizzando il suo lavoro: lo stile di un regista si può riconoscere dall’insistenza con cui si attarda su un elemento del racconto piuttosto che su un altro. Si potrebbe descrivere questo fe­ nomeno con lo slogan: «Mostrami ciò che filmi soffermandoti un po’ troppo e ti dirò chi sei». La regia di Hitchcock rifiuta la registrazione pura e semplice del­ l’azione adottando una scrittura che consiste nel privilegiare un personaggio attraverso i cui occhi saranno viste (e vissute da noi, il pubblico) le cose. Questo personaggio sarà ripreso costantemente di fronte e con inquadratura ravvicinata, in modo da farci identifi­ care con lui. La macchina da presa lo precederà in ogni suo sposta­ mento tenendolo sempre a grandezza costante nell’immagine e, quando lui scoprirà qualcosa di inquietante, la macchina da presa si attarderà qualche secondo di troppo sul suo viso allo scopo di au­ mentare la nostra curiosità. Quando avrà paura, condivideremo la sua paura; quando si sarà rinfrancato, lo saremo anche «oi, ma... non prima della fine del film! In una scena complicata e piena di sfu­ mature il punto di vista potrà cambiare e, in questo caso, spostere­ mo la nostra partecipazione affettiva da un personaggio a un altro, poiché l’essenziale per Hitchcock è includerci, noi pubblico, nella sua narrazione e non permettere mai che l’azione sprofondi nella palude dell’oggettività documentaria o nelle sabbie mobili del re­ portage disordinato, che lui considera i due nemici ancestrali del ci­ nema di finzione.

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Fin dagli inizi della sua carriera, Hitchcock ha capito che se si è in grado di leggere un giornale con i propri occhi e la propria testa si è in grado di leggere un romanzo con i propri occhi e con il cuore in gola: un film deve allora essere visto nello stesso modo in cui si leg­ ge un romanzo. Questa tecnica della storia raccontata secondo un «punto di vista» è familiare ai romanzieri dei tempi di Henry James e di Marcel Proust, ma è stata trascurata in modo incredibile dai re­ gisti, anche da quelli che collezionavano Oscar mentre Notorious, La finestra sul cortile e Psycho entusiasmavano il pubblico di tutto il mondo senza ricevere la minima considerazione né da parte della critica né dalle giurie dei festival. Per fortuna Hitchcock, impertur­ babile e sicuro di saper controllare lo strumento della sua arte, con­ tinuava a offrirci un «quasi capolavoro» all’anno. Quando facevo anch’io il critico, mi è successo talvolta di cadere nel difetto di que­ sta professione e cioè di paragonare la letteratura al cinema, mentre lo svolgimento di un film, giustamente paragonato da Orson Welles a un «nastro di sogni», ci invita piuttosto a parlare del film in ter­ mini musicali. Credo che anche Federico Fellini sarebbe d’accordo con questa definizione. Per Hitchcock non si tratta quindi di insegnarci qualcosa, di istruirci e correggerci, ma di incuriosirci, avvincerci, appassionarci, mozzarci il fiato e soprattutto farci partecipare a livello emotivo al­ la storia che ha deciso di raccontarci. Lavora esattamente come un direttore d’orchestra che dirige i suoi strumentisti e fa avanzare una sinfonia di cui ogni singola no­ ta, accordo, pausa, silenzio sono previsti dalla partitura. I giovani registi arrivati da cinque o sei anni, molto più dotati dei loro predecessori reclutati all’inizio del sonoro, negli anni Trenta, hanno capito questa forma di scrittura e sono riusciti più o meno be­ ne ad adottarla; i nuovi registi americani sono quasi tutti figli di Hitchcock ma, dietro la loro propensione a un uso drammatico del­ la macchina da presa, ci si accorge che a loro manca qualcosa che nel cinema hitchcockiano è essenziale: la sensibilità, la paura speri­ mentata, l’emotività, la percezione intima e profonda delle emozio­ I 97 I

ni che si filmano. I giovani hitchcockiani possono eguagliare al li­ mite l’episodio di Intrigo internazionale dell’aereo in picchiata su Cary Grant che corre a rifugiarsi nel campo di mais, ma non sono capaci di filmare il turbamento di Claude Rains quando, in Noto­ rious, va in piena notte a chiedere aiuto a sua madre: «Mamma, ho sposato una spia americana!» Possono copiare la scena del concer­ to all’Albert Hall deH’Uomo che sapeva troppo, ma non reinventa­ re i movimenti di spalle di Joan Fontaine nella Prima moglie quan­ do indietreggia ogni volta che entra la signora Danvers. Non sono in grado di mostrare l’umiltà del sacrestano di lo confesso mentre supplica la moglie, Alma, di non denunciare il suo delitto, né la vio­ lenza di Joseph Cotten ne\VOmbra del dubbio quando non può trattenersi, in piena cena familiare, dal descrivere il mondo come una porcheria, né l’ossessività di Sean Connery che cerca di entrare nella vita privata di Marnie, e nemmeno gli sforzi dolorosi di James Stewart che, nella Donna che visse due volte, cerca di far rassomi­ gliare Kim Novak a Grace Kelly! Tutto si impara, ma non tutto si acquisisce e se i discepoli posso­ no pretendere di eguagliare prima o poi la virtuosità del maestro, gli mancherà sempre l’emotività dell’artista. Ancora oggi, nel 1980, anche se il suo stato di salute non gli permette di girare il cinquantaquattresimo film, Alfred Hitchcock resta non solo l’uomo che ne sa di più, ma anche il regista che più ci turba. (Retrospettiva su Alfred Hitchcock, Roma, gennaio 1980)

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PIERRE KAST, SEMPLICE COME UN ARRIVEDERCI: LE SOLEIL EN EACE

Da La dolce età., Antologia sessuale, La morta stagione dell'amo­ re, a Le Soleil en face, possiamo dire che i produttori dei film di Pierre Kast si sono arricchiti, arricchiti nel cuore e nello spirito poiché i suoi film parlano solo d’amore. I suoi personaggi non puntano tutto su una sola carta, ma si sentono capaci di amare si­ multaneamente più persone e, poiché hanno tutti in comune il fat­ to di essere estremamente civili (il mondo di Kast è l’anti-O?/ ha paura di Virginia Woolf?), passano metà del loro tempo a innamo­ rarsi e l’altra metà a cercare delle soluzioni per non soffrire e non far soffrire. Le Soleil en face segue il percorso della sofferenza aggirata, ma andando fino in fondo. «Che cosa c’è dietro la siepe?», chiedeva un personaggio di Vite vendute prima di scoprire, alla fine del percor­ so: «Non c’è niente dietro la siepe». Mi sembra di ricordare che Pierre Kast amasse questo film e che avesse citato queste battute in un articolo. Comunque, in Le Soleil en face ci dà una bella descri­ zione della siepe. I 99 I

All’inizio degli anni Cinquanta si citava volentieri questa frase di André Gide: «Che ognuno segua la sua inclinazione purché lo fac­ cia salendo». Le Soleil en face, per la sua commistione di tolleranza e di rigore, mi ha fatto ricordare questo motto e d’altronde, per il modo in cui è raccontato, l’intero film mi fa pensare ai racconti di Gide, quelli che stanno tra la novella e il romanzo, i migliori. Ogni vita porta in sé la sua somma di ingiustizie ed è senz’altro più coraggioso lottare contro di esse che adattarvisi, ma ce n’è una contro cui non si può nulla, l’ingiustizia di base, e cioè la non-cronologia della morte che colpisce i figli prima dei genitori. Proprio perché Pierre Kast ha vissuto la sua vita sotto il segno dell’amicizia ed è stato colpito dalla scomparsa prematura di Jean Grémillon, Bo­ ris Vian, Roger Vailland, ha avuto l’idea, con Alain Apteckman, di questo Le Soleil en face, in cui assistiamo alle ultime settimane di un uomo che amava la vita più di quanto amasse se stesso. In questa storia, dove la religione non entra, sono presenti quasi unicamente dei rituali. Il protagonista del film, Marat, interpretato da Jean-Pierre Cassel, si è inventato un rituale di vita. Dovrà solo dargli un’estensione sottile e discreta per farne un rituale di morte, un cerimoniale immerso in una vera dolcezza, non una dolcezza ter­ ribile, no, semplicemente una vera dolcezza. Chi dice rituale dice messa in scena e nei film abbastanza rari di questo tipo - alludo ai film in cui l’organizzazione dei gesti, degli spostamenti e dei silenzi è imposta dalla natura stessa del soggetto scelto - abbiamo un secondo film che si sovrappone al primo come un calco su una litografìa. Questo secondo tema è appunto una mes­ sa in scena, la messa in scena della sua vita e quella della sua morte, la tentazione assurda che abbiamo di controllare avvenimenti che, in realtà, sono al disopra di noi. Pierre Kast ha la mente chiara e logica. Se gli è stato talvolta rim­ proverato di presentarci personaggi di intellettuali, era solo una sciocca questione di lana caprina, perché nessuno è mai uscito dalla visione di un film di Pierre Kast dicendo: «Non ho capito niente». I suoi film non sono rari perché intelligenti, sono rari perché intelligi­

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bili. Questo regista, che è anche scrittore, non ci ha mai proposto l’i­ neffabile o l’incomunicabile. I suoi film di sentimenti si presentano in tono modesto, non come vaudeville sbracati né come oscuri drammi metafisici; si possono classificare tranquillamente sotto la voce: «Commedie drammatiche». Le Soleil en face è quindi una commedia drammatica in cui JeanPierre Cassel interpreta il suo ruolo migliore dopo gli inizi con Bro­ ca; idem per Stéphane Audran dai suoi inizi con Chabrol. Tra i vol­ ti nuovi si nota quello di una giovane attrice che recita bene e che credo avrà un futuro, Beatrice Bruno. Non c’è dubbio che la reputazione di Le Soleil en face sarà eccel­ lente, ma i critici ne parleranno forse come di un film inusuale e fuo­ ri moda, e io mi chiedo se questo punto di vista sia l’unico possibile. Sono di moda i film d’avventura e infatti qui abbiamo le avventure finali di un uomo che non si è risparmiato le emozioni. Di moda so­ no anche i film interplanetari, e Marat, partendo, potrebbe a sua volta mormorare: «Ah, mi ricorderò a lungo di questo pianeta!» Le Soleil en face è un film da vedere, e anche un film da guardare con at­ tenzione.

(Le Matin, ì 6 gennaio 1980)

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JEAN RENOIR, A PROPOSITO DELLA GRANDE ILLUSIONE

La grande illusione è uno dei film più famosi e più amati al mondo; il suo successo è stato immediato fin dal 1937, eppure per Jean Re­ noir fu uno dei più difficili da iniziare, come racconta lui stesso nel suo libro di ricordi La mia vita, i miei film'.

La storia dei miei tentativi per trovare chi finanziasse La grande illu­ sione potrebbe diventare il soggetto di un film. Mi sono portato dietro il manoscritto per tre anni, passando per gli uffici di tutti i produttori francesi o stranieri, convenzionali o d’avanguardia. Senza l’interven­ to di Jean Gabin nessuno di loro si sarebbe arrischiato in questa av­ ventura. Lui mi fu accanto in moltissimi tentativi. Alla fine trovammo un finanziatore che, impressionato dalla solida fiducia di Jean Gabin, accettò di produrre il film. Se La grande illusione non è un film autobiografico, lo sono invece decisamente le sue radici. Jean Renoir, ferito nel 1915 quando era ne­ gli alpini, fu in seguito trasferito presso una squadriglia di ricognizio­ ne. Inseguito da un aereo tedesco nel corso di una missione, il vecchio I IOZ 1

apparecchio Caudron pilotato da Jean Renoir fu salvato in extremis daiPintervento di un caccia francese ai cui comandi si trovava il sot­ tufficiale Pinsard. Diciotto anni dopo, Jean Renoir stava girando To­ ni a Martigues quando il caso lo mise di fronte al suo salvatore. Sic­ come le riprese di Toni erano disturbate dalla presenza di un campo d’aviazione i cui rumori compromettevano le registrazioni audio del film, Jean Renoir si recò presso le autorità militari e si ritrovò così di fronte all’ex sottufficiale Pinsard diventato ormai generale:

Prendemmo l’abitudine di cenare insieme ogni volta che eravamo li­ beri. Durante quegli incontri mi raccontava le sue avventure di guer­ ra. Era stato abbattuto sette volte dai tedeschi. Tutte e sette le volte era riuscito ad atterrare sano e salvo. Tutte e sette le volte era riuscito a evadere. La storia delle sue evasioni mi sembrò un buono spunto per un film d’avventura. Annotai i dettagli che mi sembravano più carat­ teristici c sistemai questi fogli nelle mie cartelle con l’intenzione di far­ ne un film.

In seguito Jean Renoir chiese a Charles Spaak di aiutarlo a prepa­ rare un primo abbozzo di ciò che sarebbe diventato La grande illu­ sione, ma, poiché detestava restare inattivo, prima girò II delitto del signor Lange, La vita è nostra, La scampagnata e Verso la vita (1936), che segnò la sua prima collaborazione con Jean Gabin, col­ laborazione molto importante se si pensa che proseguirà con La grande illusione (1937), L'angelo del male (1938), French Cancan (T954)Molte persone si sono chieste il significato del titolo La grande il­ lusione, che Renoir diede al film solo dopo averlo finito; eppure è sufficiente ascoltare attentamente le ultime battute del film, quando Maréchal (Jean Gabin) e Rosenthal (Marcel Dalio) stanno per se­ pararsi sulla neve alia frontiera svizzera: maréchal:

rosenthal:

È proprio l’ora di finirla con questa maledetta guer­ ra... sperando che sia l’ultima. Ah, che illusioni ti fai! I «o? 1

La grande illusione è dunque l’idea che quella guerra sia l’ultima ma è anche l’illusione della vita, l’illusione che ognuno si fa del ruo­ lo che recita nell’esistenza, e sono convinto che La grande illusione avrebbe anche potuto chiamarsi La regola del gioco (e viceversa), tanto è vero che questi due film, e molti altri di Jean Renoir, si riferi­ scono implicitamente a una frase di Pascal che lui ama citare: «Ciò che interessa di più l’uomo è l’uomo». Se la carriera di Jean Renoir non è sempre stata facile, è perche il suo lavoro ha sempre privilegiato i personaggi rispetto alle situazio­ ni drammatiche. La grande illusione si svolge in due campi di prigionia; la situa­ zione piena di tensioni, sempre auspicata dal pubblico, si crea auto­ maticamente: tutto può succedere in un campo di prigionieri dove anche i più piccoli atti della vita quotidiana assumono l’intensità di peripezie eccezionali. Per le stesse ragioni nella Grande illusione il pubblico ha accettato e apprezzato molte delie componenti dello stile di Renoir che aveva rifiutato o trascurato in film precedenti: i cambiamenti di tono, il gusto per i discorsi generici, i paradossi e so­ prattutto un senso molto forte degli aspetti barocchi della vita quo­ tidiana, quello che Jean Renoir chiama la magia della realtà. La coa­ bitazione forzata che è alla base della vita militare, e più ancora del­ la vita in prigionia, permette di far risaltare le differenze di classe, di razza, di pensiero e di abitudini, e naturalmente Jean Renoir si muo­ ve in questo ambiente come un pesce nell’acqua. L’idea da lui così spesso espressa secondo la quale il mondo si divide orizzontalmen­ te e non verticalmente, cioè per affinità piuttosto che per naziona­ lità, fa la sua comparsa fin dall’inizio del film, quando Erich von Stroheim dice a Pierre Fresnay, suo prigioniero: «Ho conosciuto un de Boeldieu, un conte de Boeldieu», e Fresnay risponde: «Era mio cugino». A partire da quel momento si crea una complicità, possia­ mo definirlo un rapporto eccezionale, che ci permette di affermare che se anche il personaggio della contadina tedesca (interpretata da Dita Parlo), che vivrà una breve avventura con Jean Gabin rifugia­ to nella sua fattoria, non esistesse, nel film ci sarebbe comunque una I 104 |

storia d’amore. Per tutto il film Stroheim, vecchio combattente che vive la propria condizione di comandante della cittadella come se fosse umiliante quanto quella di un custode di giardini pubblici, è pieno di amarezza e di disprezzo per il gruppo di prigionieri france­ si, fatta eccezione per de Boeldieu. È a lui che chiede a un certo pun­ to di dare la sua parola che dentro la camerata non c’è nascosto nul­ la. Fresnay dà la sua parola, in realtà ha appena nascosto una cor­ da, ma all'esterno della camerata, sulla grondaia. Poi dice a Rauffenstein (Stroheim): «Ma perché la mia parola piuttosto di quella degli altri?» Rauffenstein risponde: «Mmh! La parola di un Mare­ chal, di un Rosenthal?» «Vale quanto la nostra». «Forse!» Probabilmente è a causa di questo rapporto che si è stabilito in funzione della loro nobile origine che Fresnay rifiuterà di evadere con i suoi compagni, dicendogli che hanno più possibilità in due, e tuttavia li aiuterà nel loro tentativo creando un diversivo all’ora x. Questa scena, in cui Fresnay è bravissimo, è stata descritta molto bene da Cocteau: Vedete Fresnay che incarna il figlio di famiglia, autoritario e altezzo­ so, che suona il flauto in guanti bianchi sotto i proiettori di una for­ tezza tedesca, come un pastore fantasma di Antoine Watteau, per per­ mettere ai suoi compagni di fuggire.

In questa stessa scena si vede Stroheim, sconvolto, rivolgersi a Fresnay in inglese per essere capito solo da lui, supplicandolo di ar­ rendersi prima che lui, Stroheim, sia costretto a sparargli. Poi, quan­ do Fresnay, ferito a morte dal colpo di pistola di Stroheim, cessa di vivere, vediamo Stroheim tagliare con le forbici dal davanzale della sua finestra il fiore di geranio, l’unico fiore della fortezza. Ecco la storia d’amore che, incisa con delicatezza, percorre tutta La grande illusione, parallelamente alla cronaca dei rapporti tra Jean Gabin, Marcel Dalio e Carette, rispettive rappresentazioni di tre tipi di francesi: l’ingegnere venuto dal popolo, l’ebreo di famiglia nobile e l’attore parigino. Nonostante la mia descrizione semplificata, tutti I «051

questi personaggi sfuggono agli stereotipi e sono filmati con grande verosimiglianza, come voleva Jean Renoir:

Nella Grande illusione mi preoccupavo ancora molto di essere reali­ sta. Ho persino chiesto a Gabin di indossare la tuta da aviatore che avevo conservato dopo il congedo. Ma, partito alla ricerca della verità, Renoir saprà voltare le spal­ le a tutti i luoghi comuni dei film di guerra. Quando Jean Gabin, sul punto di evadere, propone a Pierre Fresnay di darsi del tu, questi gli fa capire che è assolutamente escluso: «Io do del voi a mia madre e del voi a mia moglie», e un po’ più tar­ di, in mezzo alla neve, Jean Gabin, che abbiamo sempre visto leale ed equilibrato, arrabbiandosi con Dalio che non riesce più a cam­ minare gli dice incattivito: «Sei un peso, una palla al piede! E poi, non ho mai potuto sopportare gli ebrei, hai capito?» Fedele al suo metodo, più morale che psicologico, Jean Renoir dirige il film se­ condo il principio della bilancia, cioè aggiungendo pesi successiva­ mente e alternativamente sui due piatti in modo da rivelare gli esse­ ri umani in tutta la loro profondità, e in modo anche da evitare il do­ cumentario, «il genere più falso di cinema». Jean Renoir è un in­ ventore e André Bazin ha saputo vederlo e descriverlo meglio di chiunque altro: In effetti è di invenzione che dobbiamo parlare e non di semplice ri­ produzione documentaria. In Renoir l’esattezza dei dettagli è frutto sia deH’immaginazione che dell'osservazione della realtà, da cui sa sempre isolare il fatto significativo ma non convenzionale.

La grande illusione segna anche l’inizio della collaborazione di Jean Renoir con Julien Carette, che sarà in un certo qual modo lo Sganarello di questo film e proporrà lo stesso tipo nella Marsigliese^ nell’Awge/o del male (a fianco di Gabin) e soprattutto nella Regola del gioco (accanto a Dalio). Nella maniera in cui Renoir utilizza Ca­ I r6 |

rette, la sua figura burlona, saltellante, scaltra e piena di vitalità, non è difficile riconoscere un omaggio ben preciso all’attore che Re­ noir ha più ammirato durante tutta la sua carriera: Charlie Chaplin, ovvero Chariot, quello che sfugge ai suoi inseguitori con astuzie ge­ niali o con trucchi infantili, nascondendosi ad esempio dietro una donna grassa che al momento opportuno spinge addosso all’avver­ sario. È sempre il personaggio di Carette, chiamato nella sceneggia­ tura semplicemente «l’Attore», che permette a Renoir di introdurre nella Grande illusione, come in tanti suoi film, l’idea di spettacolo. Se si considera che La grande illusione è divisa in tre parti, è chiaro che la parte centrale è dedicata allo spettacolo, alla festa organizza­ ta dai prigionieri. Venendo a sapere, durante le prove, che le truppe tedesche hanno preso Douaumont, questi pensano in un primo mo­ mento di rinunciarvi. Poi fanno comunque lo spettacolo e durante questa grande serata, in cui «l’Attore» si fa notare, Jean Gabin chie­ de silenzio e annuncia che i francesi hanno ripreso Douaumont. La notizia offre l’occasione per il più bel momento del film, quando si vede un soldato inglese travestito da girl togliersi la parrucca, sbot­ tonarsi metà corsetto e intonare la «Marsigliese». La sua iniziativa porta Jean Gabin in cella e, quando ne esce, i tedeschi hanno di nuo­ vo «ripreso Douaumont». Il passare del tempo, l’aspetto intermina­ bile della guerra sono suggeriti in modo stupendo da questo intrec­ cio di avvenimenti particolari e generali. Nella Grande illusione non si trova né un’annotazione né un det­ taglio negativo o peggiorativo verso la Germania, la guerra stessa è mostrata, se non come una delle belle arti, perlomeno come uno sport. A un personaggio che si scusa dicendo: «È la guerra», de Boeldieu risponde: «Sì, ma la si può fare con correttezza», e a Pene­ lope Gilliatt, che lo intervistava trent’anni dopo per il New Yorker, Jean Renoir rispose: «Quando girai La grande illusione ero contro la guerra ma a favore dell’uniforme». Jean Renoir è dunque un'intelligenza libera, uno spirito tolleran­ te; eppure, malgrado l’enorme successo della Grande illusione, con­ tro questo film si scatenarono molte censure. Proiettato al Festival I ’07 1

di Venezia del 1937, la giuria non osò conferirgli il Gran Premio (che andò a Carnet di ballo di Duvivier) e inventò un premio di con­ solazione. Qualche mese più tardi, Mussolini proibisce a chiare let­ tere il film, mentre Goebbels in Germania si accontenterà in un pri­ mo tempo di amputare tutte le scene in cui il personaggio di Dalio esprime la generosità ebraica. In Francia invece, con il ritorno alla vita normale, nel 1946, il giornalista Georges Altman si scatenerà contro il film accusandolo di antisemitismo. Nell’immediato dopo­ guerra, tutte le copie della Grande illusione che circolavano per il mondo erano incomplete, mutilate qua e là di diverse scene, e biso­ gnerà aspettare il 1958 perché Jean Renoir possa finalmente rico­ struirne una copia integrale. Gli sforbiciatoti non avevano saputo vedere, contrariamente ad André Bazin, che

la genialità di Renoir, anche quando difende una verità morale o so­ ciale particolare, è di non farlo mai a spese dei personaggi che incar­ nano l’errore, non solo, ma neppure a spese del loro ideale. Renoir of­ fre tutte le opportunità alle idee come agli uomini. Nel 19580 stato diffuso da Bruxelles un questionario internazio­ nale per stabilire quali fossero «i dodici migliori film del mondo» e La grande illusione è stato l’unico film francese presente nella lista finale. Quella Grande illusione che per Jean Renoir, emigrato negli Stati Uniti nel 1940, era stato il miglior passaporto, il prestigioso bi­ glietto da visita che gli doveva permettere di continuare la carriera interrotta dalla guerra:

Hugo Butler, a cui avevano parlato di me come possibile regista (per L'uomo del sud}, amava La grande illusione ed era pronto ad accetta­ re i miei suggerimenti. Benedetta Grande illusione * Le devo probabil­ mente la reputazione. Le devo anche dei malintesi. Se avessi accon­ sentito a girare delle false Grandi illusioni, probabilmente avrei fatto fortuna.

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Durante tutta la sua carriera Jean Renoir ha avuto più interesse a filmare personaggi che non situazioni e - ricordate quell’attrazione da luna park che si chiama «palazzo degli specchi»? - soprattutto personaggi che cercano la verità e sbattono il naso contro lo spec­ chio deformante della realtà. Jean Renoir non filma direttamente idee ma uomini e donne che hanno delle idee, e queste idee, baroc­ che o ridicole che siano, non ci invita né ad adottarle né a rifiutarle, ma semplicemente a rispettarle. Quando un uomo ci sembra ridicolo per la sua ostinazione nel vo­ ler imporre una certa immagine solenne del suo posto nella società, sia che si tratti di un politico «indispensabile» o di un artista mega­ lomane, sappiamo bene che sta dimenticando il neonato piagnuco­ loso che era in culla e il vecchio rottame rantolante che sarà sul let­ to di morte. E chiaro che il lavoro cinematografico di Jean Renoir non perde mai di vista quest’uomo indifeso, sostenuto dalla Grande illusione della vita sociale, cioè l’uomo tout court. (Prefazione ai Classiques du cinema, Editions Ballatici, aprile i 974)

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CARO JEAN RENOIR

Di tutti i registi che amano gli attori, lei è quello che li ama di più, ed è per questo che stasera pensiamo a lei in modo particolare. Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di lavorare con lei, gli altri lo hanno solo sognato e anche questa sera recitiamo una parte, gio­ chiamo a essere un circo e gli artisti stabili di questo circo. Lei che ama tutte le forme di spettacolo, dovrebbe vederci mentre domiamo gli animali, camminiamo sul filo, balliamo sui pattini a rotelle, guidiamo un tiro di cavalli, facciamo acrobazie, volteggi, giochi di prestigio e magie, senza dimenticare le uscite dei clown. Sì, caro Jean Renoir, questa sera del 23 maggio a Parigi - sotto un tendone montato tra i quattro pilastri della Tour Eiffel - circo, bal­ letto, teatro, varietà e cinema si mescolano e si confondono, fanno all’amore. Due mesi fa a Hollywood Ingrid Bergman ha ricevuto, a suo nome, un ometto di bronzo che chiamano Oscar; questa sta­ tuetta dorata magari non è ciò che di più beilo è stato creato nella storia della scultura, ma le ha fatto piacere perché le è stata conferi­ ta dai lavoratori del cinema e dai suoi colleghi registi americani. Per

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quanto ci è dato conoscerla, ci immaginiamo che questo Oscar non sia esposto nella sua casa su di un piedistallo a uso dei visitatori, ma piuttosto che si trovi su un ripiano della libreria, messo lì per fer­ mare l’opera completa di Maupassant! Caro Jean Renoir, qui a Parigi è mezzanotte, ma in California so­ no solo le tre del pomeriggio e noi la immaginiamo nel giardino del­ ia sua casa di Beverly Hills, sopra Leona Drive. Probabilmente sta seduto all’ombra degli ulivi che lei stesso ha piantato trent’anni fa, proprio prima di partire per l’india per girare 1/ fiume. Forse sta det­ tando il nuovo capitolo di un nuovo libro, o forse sta commentan­ do a Dido, che ride di gusto, un divertente articolo del Los Angeles Times... Caro Jean Renoir, non ci lasceremo così presto: guarderemo ora la scena più famosa del più famoso dei suoi film: Jean Gabin e Mar­ cel Dalio che cantano «C’era una volta un piccolo naviglio» alla fi­ ne della Grande illusione. Caro Jean Renoir, la ammiriamo, la amiamo e la abbracciamo... (Gala de LUnion des Artistes, 1975)

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ROBERTO ROSSELLINI, L’UOMO PIÙ INTELLIGENTE CHE ABBIA CONOSCIUTO

Roberto Rossellini è, con André Bazin, l’uomo più intelligente che abbia conosciuto. Comprende e assimila talmente in fretta e così tante cose che a cercare di stargli dietro ti lascia senza fiato. Ma bi­ sogna sforzarsi perché si può progredire solo correndo nella sua scia. Fortunatamente per me, Roberto ama le sue creature; altri­ menti, quando sono al suo fianco, mi sentirei spaventosamente pe­ sante, stupido, goffo e maldestro. Roberto mi ha insegnato che il soggetto di un film è più impor­ tante dell’originalità dei titoli di testa, che una buona sceneggiatura deve stare in dodici pagine, che bisogna filmare i bambini con mag­ gior rispetto di qualsiasi altra cosa, che la macchina da presa non ha più importanza di una forchetta e che bisogna potersi dire, prima di ogni ripresa: «O faccio questo film o crepo». (Lettera a ].M. Barjol, 19 maggio 1965)

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WELLES E BAZIN *

André Bazin, al momento dell’uscita a Parigi di Quarto potere, nel luglio 1946, era un giovane critico. Aveva ventotto anni e faceva il critico professionista da due. Con Alba tragica di Marcel Carnè, La regola del gioco di Jean Renoir, Monsieur Verdoux di Charlie Cha­ plin, Quarto potere è senz’altro il film che più lo ha appassionato e ispirato. Gli articoli di Bazin su Chaplin e su Welles hanno fatto di lui il ca­ pofila della giovane critica dell’immediato dopoguerra, quella gio­ vane critica che si esprimeva allora ogni settimana sull’Ecraw franqais e mensilmente sulla Revue du cinéma, scomparsa dopo venti numeri e rinata con i Cahiers du cinéma. * Questo articolo è la prefazione del libro Orson Welles - A critical view by André Ba­ zin, pubblicato da Harper and Row, New York 1978. Francois Truffaut, su richiesta dell’editore, doveva aggiornare il libro di André Bazin (Editions du Cerf, 1971), il cui manoscritto si fermava a\\'Infernale Quinlan. Questa prefazione, scritta in francese in prospettiva di una sua traduzione inglese, contiene un certo numero di anglicismi che il suo autore ha preferito conservare. In.d.t.j

L’ammirazione di Bazin per quello che le riviste soprannomina­ vano «il bambino prodigio di Kenosha » era destinata a non dimi­ nuire. Dedicò infatti il suo primo libro a Orson Welles, che aveva gi­ rato Macbeth in quattro settimane presso i Republic Studios, ma che in quel momento, nel 1950, non riusciva a finire il suo Otello iniziato da più di un anno. Il volumetto, che si apriva con una splendida prefazione di Jean Cocteau, andò rapidamente esaurito e divenne introvabile; nel 1958, entusiasta de\VInfernale Quinlan e poco prima della sua mor­ te, Bazin ne fece una nuova edizione, riveduta e accresciuta, quella che vi presentiamo oggi nella traduzione inglese di Jonathan Rosen­ baum. Per il Natale 1973, uno dei regali che la gente di Hollywood si scambiava più volentieri era il manifesto incorniciato di una stri­ scia dei Peanuts di Schultz, pubblicata sul Los Angeles Times. Ecco cosa mostravano i sette disegni: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Charlie Brown guarda la televisione. Lucy gli chiede: «Cosa stai guardando?» Charlie Brown: «Quarto potere». Lucy: «L’avrò visto almeno dieci volte». Charlie Brown: «Per me è la prima volta, non l’ho mai visto». Lucy esce dalla stanza dicendo: «Rosabella era la sua slitta!» Charlie Brown si rotola dal dolore: «aaugh!»

Se ce ne fosse bisogno, questa striscia dei Peanuts mostrerebbe il posto cinematografico ed extracinematografico che Quarto potere ha occupato nella vita culturale di due generazioni. Credo si possa dire senza paura di esagerare che dal 1940 tutto ciò che conta nel cinema è stato influenzato da Quarto potere e dalla Re­ gola del gioco di Jean Renoir, così come il cinema muto è stato modi­ ficato e stimolato dalla Nascita di una nazione di Griffith, da Femmi­ ne folli di Erich von Stroheim e dai film in tre rulli di Charlie Chaplin. Nella prima parte della sua opera Charlie Chaplin incarna il per­ sonaggio dell’uomo più povero e anche più oscuro del mondo. Per I < 14 I

poter mangiare gli capita di essere costretto a rubare il cibo a un neonato o a un cane. Il successo dei suoi film lo rende in pochi anni l’uomo più celebre del mondo, e anche milionario (in dollari), e que­ sto logicamente lo porta ad abbandonare progressivamente il per­ sonaggio del vagabondo miserabile. A partire dal Grande dittatore, Chaplin accetta senza riserve la sua celebrità; dopo aver considera­ to l’ipotesi di interpretare Cristo, poi Napoleone, sfida Adolf Hitler che, osserva André Bazin, «ha osato rubare i baffetti a Chariot». A Hinkel-Hitler seguiranno Verdoux-Landru, il più famoso assassino di donne del ventesimo secolo (l’idea di questo film sarà suggerita a Chaplin da Orson Welles), Un re a New York (Chaplin contro l’A­ merica di McCarthy) e infine il diplomatico Ogden Mears nella Contessa di Hong Kong. L’aspetto autobiografico di quest’ultimo film è sfuggito a chi non aveva avuto la curiosità di leggere i raccon­ ti dei viaggi di Chaplin attorno al mondo tra il 1920 e il 193 5, e non ha pensato che bisognava guardare il film sostituendo mentalmente a Marion Brando lo stesso Charlie Chaplin. Come quella di Chaplin, l’opera di Orson Welles è sotterraneamente autobiografica e ruota anch’essa attorno al tema principale della creazione artistica, cioè la ricerca d’identità. La grande differenza tra i due uomini - e quindi tra le loro opere è che Orson Welles non ha conosciuto la miseria e soprattutto che la celebrità ha preceduto il suo ingresso nel cinema, a causa dell’e­ co provocata dalla trasmissione Mercury Theatre on the Air del 30 ottobre 1938, dedicata all’adattamento della Guerra dei mondi di H.G. Wells. Questo avvenimento radiofonico, e il panico che ne seguì, è stato raccontato cento volte e non mi ci soffermerò, limi­ tandomi comunque a far osservare che la situazione di Orson Welles, alla vigilia delle riprese di Quarto potere, era paradossale e inusuale: invece di doversi far conoscere e riconoscere, Orson Welles, che allora aveva solo venticinque anni, si trovava nella si­ tuazione opposta, quella cioè di dover sostenere una reputazione già enorme. i 1151

Orson Welles, che a New York lavorava per il teatro e per la ra­ dio, per mille motivi facili da immaginare in America era più celebre che popolare, e le sue imprese suscitavano più curiosità che simpa­ tia. Fin dal suo arrivo in California, il mondo di Hollywood avreb­ be nutrito nei suoi confronti un’ostilità di principio che non si è mai smentita nel corso degli anni. Allora, nel 1939, Orson Welles dove­ va sapere molto bene che avrebbe dovuto produrre non solo un buon film, ma il film, quello che avrebbe riassunto quarant’anni di cinema pur facendo il contrario di tutto ciò che era stato fatto fino ad allora, un film che fosse allo stesso tempo un bilancio e un pro­ gramma, una dichiarazione di guerra al cinema tradizionale e una dichiarazione d’amore ai mezzo cinematografico. André Bazin ha ragione di scrivere: «Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson possono in definitiva essere ricondotti a una tragedia dell’infanzia», perché in effetti è proprio di questo che si tratta, ed è chiaro che le emozioni che Welles ha provato in gioventù costituisco­ no la trama di Quarto potere, anche se, come afferma Pauline Kael, il tema e il personaggio gli sono stati forniti dal co-sceneggiatore Her­ man J. Mankiewicz (anche lui più o meno rappresentato nel film dal personaggio del critico drammatico, compagno di scuola di Kane, Je­ dediah Leland, interpretato da Joseph Cotten).4 Orson Welles dà il meglio di sé quando racconta storie familiari; il cinema hollywoodiano dell’epoca, sentimentale e boy-scout, non ne era certo avaro, ma la visione familiare di Welles non assomiglia affatto a quella di Louis B. Mayer. I padri, i figli, gli zii e le zie, in Welles, sono del genere esasperato e i personaggi principali soffro­ no quasi sempre di traumi affettivi, come del resto nei romanzi e nei lavori teatrali di Jean Cocteau, dove vediamo famiglie lacerarsi per amore senza che lo spettatore possa parteggiare per questo o quel personaggio perché tutti agiscono con nobiltà. Il terreno dei turba­ 4. Nel 1971, ìa famosa Pauline Kael, da tempo critico del New Yorker, ha pubblicato Raising Kane, in cui sostiene la tesi secondo cui Herman J. Mankiewicz sarebbe il so­ lo autore della sceneggiatura di Quarto potere (Little, Brown and Company, Boston).

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menti adolescenziali prima di Welles non era mai stato esplorato dai film di Hollywood, nei quali le due battute di dialogo preferite sem­ bravano essere: «Figlio mio, sei un bravo ragazzo», e: « Daddy, sei il migliore papà del mondo». Orson Welles non sarà mai un regista propriamente hollywoodiano, e nemmeno un regista americano, per la buona ragione che non è stato un vero e proprio ragazzo ame­ ricano. Come Henry James, ha beneficiato di una cultura cosmopo­ lita e pagherà questo privilegio con 1’inconveniente di non potersi sentire a casa sua da nessuna parte: americano in Europa, europeo in America, sarà sempre, se non un uomo lacerato, almeno un uo­ mo diviso. Da adolescente Orson Welles visitò con il padre e con la madre l’Europa, la Cina e la Giamaica. Sua madre morì durante uno di questi viaggi: Orson Welles aveva otto anni, l’età del giovane Char­ les Foster Kane quando viene strappato alla madre:

Non è proprio con la slitta, il cui ricordo forse inconscio lo ossessio­ nerà fino alla morte, che colpisce rabbiosamente, all’inizio della sua vita, il banchiere venuto a strapparlo ai giochi sulla neve e alla prote­ zione materna, venuto a togliergli l'infanzia per farne il cittadino Kanc? (André Bazin)

A dieci anni Orson Welles si truccava da re Lear in camera sua e sarà proprio in un ruolo di vecchio che debutterà in Siiss l’ebreo a Dublino nel 1932. Parecchi aneddoti sull’infanzia di Orson Welles sono stati forniti ai biografi da un amico dei genitori, il dottor Bernstein, che aveva insegnato al ragazzo la prestidigitazione e gli aveva regalato il tradizionale teatro dei burattini: quel Bernstein che ritroveremo sotto lo stesso nome, magnificamente interpretato da Everett Sloane, in Quarto potere. Quando Thompson, che in­ daga, tenta di saperne di più su Kane che è appena morto, chiede a Bernstein: «Dopotutto eravate con lui fin dall’inizio...», e Bern­ stein risponde: «Da prima dell’inizio, giovanotto. E adesso, dopo la fine». I 1x7 I

È interessante notare che proprio la sua precocità leggendaria ma solidamente radicata ha obbligato Orson Welles a invecchiare e ad adottare una voce prematuramente grave, e forse anche a disegnar­ si sul volto rughe finte; i genitori se lo portavano dappertutto e lo la­ sciavano partecipare alle conversazioni degli adulti; per non essere costantemente preso in giro, lui, ragazzino che faceva discorsi da uomo, si trovò costretto a «recitare una parte», e possiamo quindi supporre che la necessità abbia preceduto e forse anche fatto nasce­ re il gusto della recitazione.

Nel suo libro The Fabulous Orson Welles, Peter Noble cita un gior­ nale del Wisconsin che dedica un articolo a Welles bambino: «Dise­ gnatore, attore, poeta e ha solo dieci anni». Sarei portato a diffida­ re degli aneddoti sull’infanzia di Welles perché suonano molto gior­ nalistici e si ripetono amplificandosi da un libro all’altro; eppure, se non sono tutti veri, sono tutti verosimili alla luce di ciò che cono­ sciamo oggi dell’uomo.5 Nel 1934 Orson Welles, in una trasmissione quotidiana della nbc che si sforzava di raccontare l’attualità drammatizzandola, fu invi­ tato a prestare la sua voce a Hitler e a Mussolini proprio per il Broadcast March of Times, che egli trasformerà in cinegiornale nel primo rullo di Quarto potere, sotto forma di prologo, il successo di questa trasmissione porterà Orson Welles a passare armi e bagagli dalla nbc alla rete rivale cbs, e la probabile trasposizione di questo trasferimento la troviamo in Quarto potere, quando tutta l’équipe giornalistica, che il Chronicle aveva impiegato vent’anni a costitui­ re, passa atfinquirer di Rane. Visto che stiamo parlando di trasferimento di gruppi, è evidente che, poiché la compagnia del Mercury Theatre era costituita già nel 1939 da una decina di attori regolari che Orson Welles aveva riuni5. Se siete interessati all’attività di Orson Welles prima di Quarto potere, leggete Tbe Theatre of Orson Welles di Richard France (Lewisburg Bucknell University Press, New Jersey 1977).

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to e che ammirava, la formazione del cast di Quarto potere ha pre­ ceduto la costruzione della sceneggiatura e l’ha anche fortemente determinata, il che dà al film un’omogeneità assente allora nelle produzioni delle major. «La troupe del Mercury formava una splen­ dida orchestra», dichiarerà Bernard Herrmann, che era il musicista del gruppo e che scrisse la colonna sonora di Quarto potere e delV Orgoglio degli Amberson. Fu nel 1935 che John Houseman pro­ pose a Orson Welles il ruolo principale in Panie, un lavoro teatrale di Archibald MacLeish che raccontava in versi il crollo di Wall Street del 1929. Welles interpretava il personaggio di un banchiere potente e disonesto. Successivamente recitò il ruolo di un giovane francese idealista che si oppone a un’assemblea di mercanti di can­ noni in Ten Million Ghosts, la cui messa in scena, secondo i testi­ moni dell’epoca, prefigurava Quarto potere. Non sto procedendo con questa enumerazione degli elementi au­ tobiografici di Quarto potere per entrare in polemica con Pauline Kael, secondo cui H J. Mankiewicz, sarebbe l’unico autore del ma­ teriale letterario di Quarto potere * Essendo lei stessa scrittrice, pos­ so capire il suo sforzo per riportare in primo piano il co-sceneggia­ tore Herman J. Mankiewicz che è stato effettivamente dimenticato in questa occasione fino al punto che, per quanto ne so, nessun cri­ tico europeo, né americano, ha pensato di citare Quarto potere quando Joseph L. Mankiewicz, fratello di Herman, ha girato La contessa scalza, il film che racconta le tappe della carriera di una star di Hollywood ricorrendo a una costruzione molto simile a quel­ la di Quarto potere, compresa una grande scena di lite-separazione ripresa e completata, a due rulli di distanza, attraverso due testimo­ nianze diverse. L’influenza di Quarto potere è inoltre visibile in un buon numero di film realizzati negli ultimi trentacinque anni, il mi­ gliore dei quali è probabilmente 8 e 1/2 di Federico Fellini. 6. Si può leggere l’interessante biografia di Herman J. Mankiewicz Mank. The Wit, World and Life of Herman Mankiewicz, di Richard Meryman (William Morrow and Company, New York 1978).

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È notevole il fatto che l’ingente materiale visivo e soggettistico utilizzato in Quarto potere avrebbe ampiamente giustificato un film di tre ore, e siamo in pochi al mondo ad attribuire più importanza a Quarto potere che non a Via col vento\ Ora, Quarto potere dura esattamente un’ora e cinquantanove minuti, e non è il merito mino­ re di Welles quello di aver fatto entrare tre litri di liquido in una bot­ tiglia da due. Tutto il problema - no, non tutto il problema ma buo­ na parte - del regista è imparare a lottare con la durata. In molti film le scene indicative sono troppo lunghe, quelle «privilegiate» troppo corte, il che significa livellare tutto e creare un ritmo monotono. An­ che qui constatiamo che Welles era aiutato dalla sua esperienza di narratore radiofonico, perché da quella doveva aver imparato a dif­ ferenziare fortemente le scene informative (ridotte a flash da quat­ tro a otto secondi) dalle vere e proprie scene emotive di tre-quattro minuti. Nei film hollywoodiani tipici, una sceneggiatura è materiale let­ terario che si legge come un lavoro teatrale e aspetta soltanto l’arri­ vo di un regista per diventare un film, o più esattamente quello che Hitchcock chiama, con disprezzo giustificato, «fotografia di gente che parla». Qui, in Quarto potere, abbiamo un film dove le voci contano quanto le parole, una sceneggiatura che lascia parlare tutti i personaggi contemporaneamente come gli strumenti di una parti­ tura, con frasi incompiute come nella vita reale. Questo procedi­ mento anti-tradizionale, e del resto poco imitato anche in seguito perché difficile da dominare perfettamente, culmina nella scena del love nest che oppone le due attrici del film, la moglie e l’amante, il politico Jim Gettys e lo stesso Kane. Grazie a questa concezione quasi musicale del dialogo, Quarto potere «respira» diversamente dalla maggior parte dei film; dal mo­ mento che la sceneggiatura era il risultato della collaborazione Mankiewicz-Welles, lo shooting script non era naturalmente un’o­ pera letteraria ma già una prima regia. La realizzazione costituiva una seconda regia e il montaggio una terza. È molto generoso, da parte di Pauline Kael, innalzare un monumento postumo a Herman [ 120 |

J. Mankiewicz, ma ciò non toglie che la sceneggiatura di Quarto po­ tere non è in alcun modo una sceneggiatura «di sceneggiatore» ma una sceneggiatura di regista. Pauline Kael rimprovera a Orson Welles di essersi attribuito inte­ ramente la paternità di Quarto potere in alcune interviste. Ora, ne­ gli archivi di André Bazin, ho ritrovato un numero del settimanale L’Ecran frangais del zi settembre 1948, in cui fu pubblicata la pri­ ma intervista di Welles fatta dallo stesso Bazin e da Jean-Charles Tacchella, oggi regista. Nel corso di questo primo incontro, regi­ strato al Festival di Venezia, dove Welles presentava Macbeth, egli dichiara a Bazin:

La sceneggiatura di Quarto potere l’abbiamo scritta in quattro. L’ab­ biamo firmata solo io e Mankiewicz, ma bisogna dire che ne sono au­ tori anche Joseph Cotten e John Houseman.

Infine, sempre secondo Pauline Kael, «Rosabella» sarebbe l’unico elemento della sceneggiatura di cui Mankiewicz e Welles rifiutano di assumersi la paternità e ognuno dichiara che l’autore è l’altro; si trat­ terebbe - secondo Pauline Kael, Welles e Mankiewicz: i tre sono d’accordo solo su questo punto - di un trucco freudiano piuttosto a buon mercato, che sarebbe come una macchia nel film. Confesso di non condividere un simile punto di vista; l’elemento «Rosabella» mi sembra valido quanto 1’«Apriti Sesamo» di Alì Babà; se proprio nes­ suno volesse attribuirsene la paternità e si facesse correre la voce: «Sembra che sia stato Truffaut a inventare “Rosabella”», mi impe­ gno a non smentirlo. Cercare di individuare le influenze che hanno dato a un’opera la sua forma definitiva non significa diminuirne il valore. Alla vigilia del­ l’inizio di un film, un regista è talmente preso dal progetto che la sua attenzione ne risulta affinata; tutto ciò che vede, che legge o che sen­ te gli fornisce materia di riflessione o di creazione e gli sembra pos­ sa essere utile al suo progetto.

Ma per quanto riguarda Orson Welles, il suo spirito di contrad­ dizione è così Forte che le influenze hanno agito più volentieri in sen­ so opposto; sospetto cioè che lui abbia guardato i film degli altri non per trovarvi ispirazione ma piuttosto per prenderli sistematicamen­ te in contropiede! Secondo una leggenda che ha avuto una vita fin troppo lunga, Or­ son Welles non avrebbe visto nessun film prima di iniziare Quarto potere.7 Tuttavia sono stati ritrovati i primi metri di pellicola girati sotto la sua direzione, nel 1934, a Woodstock; questo pezzetto di film, The Hearts of Age, che dura quattro minuti - le riprese di una o due giornate - è stato proiettato a Los Angeles. Come spesso acca­ de in un primo film, assistiamo a una successione di inquadrature gi­ rate senza porsi problemi di concatenazione o di continuità; tutto lo sforzo creativo è concentrato sul trucco volutamente esagerato Orson aveva diciannove anni, recita con un teschio finto - e sulla plasticità degli atteggiamenti. Non si tratta di un film d’avanguardia ma di una parodia dell’avanguardia (simboli sessuali, accumulo di elementi macabri); guardandolo si pensa a Carl Dreyer, ma Welles stesso, intervistato alla televisione francese su questo film, ha spie­ gato che lo aveva girato per prendere in giro due film d’avanguardia che all’epoca si potevano vedere solo in sale specializzate: Un chien andalou di Luis Bunuel e Le Sang d’un poète di Jean Cocteau; ag­ giungeva, con evidente sincerità, che in seguito aveva cambiato pa­ rere e adesso nutriva una grande ammirazione per i due registi.

Questo aneddoto mi interessa perché illumina una dualità e una contraddizione, valide ancora oggi, che fanno sì, ad esempio, che quando un giornalista tenta di adulare Welles denigrando Hol­ lywood Orson rifiuti sempre di montare su questo cavallo demago­ 7. Oggi è accertato che Welles è sempre stato un cinefilo e lo può qui ricordare il suo Albo d’oro dei dieci migliori film del mondo pubblicato su Sight and Sound (7 set­ tembre 1951): Luci della città, Intolerance, Sciuscià, La moglie del fornaio. Ombre rosse. Rapacità, La corazzata Potemkin, La grande illusione, Nostro pane quotidia­ no, Nanuk l'eschimese.

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gico. Ecco dove sta la dualità: Orson Welles è poeta suo malgrado, un poeta che vorrebbe essere un prosatore (di qui la sua ammirazio­ ne per De Sica, Jean Renoir, Joseph Conrad, Karen Blixen, Marcel Pagnol, John Ford); poiché la sua concezione del cinema è innanzi­ tutto musicale, come avrò ancora occasione di mostrare, è stato portato a fare film diversi da ciò che ama nel cinema degli altri. Or­ son Welles era certamente sincero nella sua ostilità nei confronti di Cocteau, Bunuel e Ejzenstejn perché, se è, come loro, un poeta, ha una concezione diversa della poesia cinematografica. Arrivato al ci­ nema non solo passando per il teatro ma anche per la radio - questo fatto è stato trascurato a lungo - Orson Welles non ha mai conside­ rato il film come un oggetto plastico - contrariamente a Ejzenstejn o a Dreyer - ma come qualcosa che ha una durata, qualcosa che scorre: è del resto proprio lui l’autore della definizione del film co­ me «a ribbon of dreams», un nastro di sogni. L’esperienza alla radio gli ha insegnato a non lasciare mai che un film ristagni, a organizzare parentesi sonore fra una scena e l’altra, a servirsi della musica come nessun altro prima di lui, per incuriosi­ re o per ridestare l’attenzione, a giocare con il volume delle voci al­ meno quanto con le parole stesse, ed è per questo - indipendente­ mente dal grande piacere visivo che ci procurano - che i film di Or­ son Welles costituiscono anche delle meravigliose trasmissioni ra­ diofoniche e lo possiamo verificare registrandoli su cassetta. Una compagnia americana ha appena fatto uscire la colonna sonora ori­ ginale di Quarto potere in due dischi, con grande successo/ Torniamo al problema delle influenze. Orson Welles non ha mai cer­ cato di nascondere l’influenza derivatagli dalla visione di altri film, in particolare Ombre rosse di John Ford, che dice di aver visto pa­ recchie volte prima di girare Quarto potere. In Ombre rosse John Ford mostra sistematicamente i soffitti ogni volta che i personaggi lasciano la diligenza per entrare in una locan8. Citizen Kane. Origina! Motion Picture Soundtrack.

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da. A dire il vero, suppongo che John Ford filmasse allora quei sof­ fitti per creare un contrasto con le inquadrature generali del tragit­ to della diligenza, nelle quali il cielo occupava ovviamente gran par­ te della superficie dello schermo. L’utilizzo dei soffitti in Quarto potere è assai diverso, come spie­ ga André Bazin: L’insistere della ripresa dal basso verso l’alto in Quarto potere fa sì che smettiamo rapidamente di avvertire con chiarezza la tecnica usata an­ che se continuiamo a subirne l’influenza. È dunque molto più verosi­ mile che questo procedimento corrisponda a una intenzione estetica ben precisa: imporci una certa visione del dramma. Visione che po­ tremmo qualificare come infernale, poiché lo sguardo dal basso verso l’alto sembra venire da terra, mentre i soffitti, impedendo qualsiasi fu­ ga dalla scena, completano la fatalità di questa maledizione.

La spiegazione che dà Bazin dei soffitti di Orson Welles è sedu­ cente e sensata; aggiungerò tuttavia questa ipotesi: l’angolazione preferita da Orson Welles lo porta a piazzare la macchina da presa a terra, ma questo non lo porta anche a presentarci i suoi personag­ gi come potremmo vederli a teatro se fossimo seduti nelle prime die­ ci file della platea? Prima di Orson Welles i registi cinematografici giravano i loro film non solo senza mostrare i soffitti degli ambien­ ti, ma senza neanche porsi il problema di sapere se bisognasse mo­ strarli. Arrivato dal teatro - e dalla radio - Orson Welles, «nomina­ to di punto in bianco» regista, ha naturalmente preso a interrogarsi sulle differenze e sui punti in comune tra i diversi media. L’uso della ripresa dal basso verso l’alto - che dà il punto di vista dello spetta­ tore dalla platea o quello del regista teatrale che dirige le prove dal­ la sala - comporta necessariamente l’utilizzo di obiettivi a fuoco corto (che danno una visione più ampia), poiché qualsiasi altro obiettivo utilizzato da questa angolazione avrebbe come unico ri­ sultato quello di sopprimere le nozioni di rilievo e di spazio. Possiamo quindi immaginare che lo stato d’animo di Orson Welles che approdava al cinema potesse riassumersi così: sto per I 114 1

fare un film che presenterà tutti i vantaggi della radio e del teatro senza i loro inconvenienti, e per questo il mio film non assomi­ glierà a nessun altro di quelli fatti fino ad oggi. C’era dell’orgoglio in questo progetto, ma non è forse l’autore del Disprezzo che fa di­ re a un suo personaggio: «Bisogna essere orgogliosi quando si fa del cinema»? Prima di lasciare a malincuore Quarto potere, vorrei aggiungere che, se si debbano riconoscere William Randolph Hearst o Howard Hughes dietro il personaggio di Charles Foster Kane, o ancora Ba­ sii Zaharoff dietro a Gregory Arkadin, è cosa di cui tutti in realtà se ne fregano o perlomeno dovrebbero fregarsene. Ritornando da San Francisco in macchina, mi mostrarono passando il San Simeon di Hearst e mi proposero di visitarlo; rifiutai perché non è San Simeon che mi interessa ma Xanadu, non la realtà ma l’opera in pellicola. Le fonti auto biografiche sono già più interessanti delle biografie, ma se anche spiegano il perché, non spiegano il come e comunque non so­ no l’essenziale. Conosciamo tutti dei registi autobiografici il cui la­ voro non interessa a nessuno. L’unico modo per parlare di Orson Welles è quello di enumerare le bellezze dei suoi film, compito ap­ passionante che una ventina di volumi non hanno ancora esaurito. Gli eccellenti lavori di Roy Fowler, Peter Noble, Ronald Gottesman, Charles Higham, Peter Cowie, André Bazin, Maurice Bessy, Joseph McBride, Pauline Kael, Bob Thomas, Peter Bogdanovich, James Naremore e Richard France formano quasi un fascio di proiettori che illuminano l’artista da ogni iato e lo inseguono, come quelli che inseguono il povero Tony Camonte braccato dietro la finestra blin­ data del suo covo alla fine di Scarfacel Dopo Quarto potere, Orson Welles intraprese L'orgoglio degli Am­ berson, tratto da un romanzo di Booth Tarkington. Contrariamen­ te a ciò che è stato scritto talvolta, si tratta di un romanzo meravi­ glioso e leggendolo ci si accorge che l’adattamento di Welles - che aveva una grande confidenza con il libro, avendolo già trasposto per la sua trasmissione radiofonica - è molto fedele, tenuto conto del la­ I «15 I

voro di riduzione indispensabile quando si adatta una storia che si protrae nel tempo. Il miglior cambiamento fatto da Welles sta, se­ condo me, nella soppressione del personaggio di Fred Kinney, un boyfriend di Lucy, la figlia di Eugene Morgan (Joseph Cotten). In ef­ fetti nel romanzo la rivalità tra George Minafer Amberson e Fred Kinney toglieva forza al vero conflitto che si era creato con intensità maggiore tra Tim Holt (George) e Joseph Cotten (Eugene) che ne vuole sposare la madre, conflitto puramente affettivo in cui Isabel Minafer Amberson (Dolores Costello) è Giocasta, cioè la posta in gioco edipica.9 Quando Orson Welles adatta del materiale già esistente, si sforza sempre di dare maggior nobiltà ai personaggi; si rifiuta in modo evi­ dente di mostrare sullo schermo comportamenti meschini, senza dub­ bio perché detesta la meschinità più di ogni altra cosa al mondo; que­ sto tratto può costituire inoltre uno dei numerosi aspetti dell’enorme influenza shakespeariana sul suo modo di vedere e di far vedere. Da qualche anno Orson Welles è diventato meno avaro di confi­ denze personali e quando, nel corso di un’intervista alia televisio­ ne francese, ha confidato a Jeanne Moreau che Booth Tarkington era un amico dei suoi genitori e che il ritratto di Eugene Morgan, pioniere deH’automobile, era quello di suo padre, che aveva dedi­ cato la vita a inventare cose sia pratiche che insignificanti, un buon numero delle nostre intuizioni hanno trovato conferma; nessuno potrà negare che il giovane Amberson, orgoglioso e possessivo, sia proprio il fratello gemello del giovane Charles Foster Kane. Si po­ trebbe anche avanzare l’ipotesi che, siccome Quarto potere ci mo­ stra Charlie a otto anni e poi direttamente a venticinque, questa grande ellissi del primo film venga colmata nel secondo dall’evolu­ zione del giovane Amberson. «Quel ragazzino ha bisogno di una 9. Nel suo Orson Welles^ Maurice Bessy scrive che il dottor Bernstein, che si occupò dell’educazione di Orson dopo la morte della madre, era stato «appassionatamente innamorato di lei».

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lezione e ne riceverà più di una» è una battuta comune ai dialoghi di entrambi i film.'0 Accorciato di quarantatré minuti dalla rko dopo un’anteprima deludente, L'orgoglio degli Amberson è un capolavoro mutilato. Non ha avuto la risonanza di Quarto potere e ancora oggi in qual­ siasi sala ci sarà, per Gli Amberson, un numero decisamente infe­ riore di spettatori; eppure questo film mi procura, ogni volta che lo vedo, un’emozione più grande. Credo che girando Quarto potere Orson Welles fosse più preoccupato del mezzo, mentre nell’Orgoglio degli Amberson sembra essersi dedicato con passione priorita­ ria ai caratteri sensibili. Se un giorno dovessero formulare un cata­ logo del cinema di sensibilità, L’orgoglio degli Amberson dovrebbe figurarvi in buona posizione accanto ai film di Jean Vigo. Nel 1942 uscì Terrore sul Mar Nero, i cui titoli di testa ci mostrano per la terza e ultima volta la bellezza degli elementi grafici delle pro­ duzioni Mercury: grandi lettere cave dal disegno classico. Per il ci­ nefilo di oggi, il piacere più grande offerto da questo film sta nel ri­ trovare Joseph Cotten, Ruth Warrick, Agnes Moorehead, Everett Sloane, senza dimenticare la resurrezione di Richard Bennett, l’uffi­ ciale che avevamo lasciato per morto davanti al caminetto dopo la più bella scena dell’Orgog/zo degli Amberson. Come per II terzo uomo di Carol Reed, alcune scene, perfette nel­ l’esecuzione, possono essere attribuite senza dubbio a Orson Welles, mentre il resto, purtroppo, è opera di Norman Foster, il regista in ca­ rica. Terrore sul Mar Nero non è del tutto soddisfacente, ma offre cer­ te bellezze e più umorismo di tutti gli altri film di Orson Welles, pro­ babilmente perché il soggetto di Eric Ambler non si prestava a uno 10. Lo splendido libro di Joseph McBride, Orson Welles, ci rivela una cosa sorpren­ dente e appassionante. Durante le numerose prove con gli attori, Orson aveva regi­ strato tutti i dialoghi del film con l’intenzione di girare l’intera pellicola in playback. Cominciate le riprese, dovette rinunciare a questa idea che presentava troppe diffi­ coltà tecniche per gli attori.

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sviluppo lirico, e anche perché Orson Welles aveva chiaramente in testa due film inglesi di Hitchcock, // club dei 59 (che aveva adatta­ to per la radio) e La signora scompare. Di tutti i film di Orson Welles, Lo straniero (1946), sceneggiato da Victor Trivas, Anthony Veiller e John Huston, è quello di cui è più facile raccontare la trama uscendo dalla sala cinematografica, e im­ magino che questo lo si debba attribuire all’influenza del produtto­ re Sam Spiegel, che all’epoca si firmava S.P. Eagle, senz’altro per mostrare che intendeva volare alto e lontano; il futuro produttore del Ponte sul fiume Kwai doveva probabilmente già partecipare al­ l’elaborazione delle sceneggiature e influenzarle tendendo alla loro semplificazione. Il film, che racconta gli ultimi giorni di un criminale di guerra na­ zista rifugiato nel Connecticut, dal giorno del suo matrimonio sot­ to falsa identità fino al momento della morte, una volta scoperto, è ancora decisamente influenzato da un film di Hitchcock, L'ombra del dubbio. La stessa descrizione realistica e quotidiana di una cit­ tadina americana, la stessa successione di scene tranquille e familia­ ri presentate in contrasto con il terribile segreto del protagonista, la stessa costruzione sul principio della morsa che si stringe: ritrovia­ mo perfino il piolo della scala segato per far cadere l’eroina! Nono­ stante le sue grandi qualità, Lo straniero è meno prestigioso e bril­ lante di altri film di Orson Welles, al quale forse non è congeniale la narrazione lineare; sarà probabilmente questo che lo spingerà a ri­ mescolare le carte nel film successivo. All’epoca della sua uscita, La signora di Shanghai era molto quota­ to tra i cinefili della mia generazione e alcuni di noi lo mettevano al­ lo stesso livello di Quarto potere, probabilmente perché i cinefili pu­ ri amano opporsi alla gerarchia dei generi e dimostrare che un thril­ ler di serie b può essere superiore a un «grande soggetto»'. Nell’adattare il romanzo, piuttosto mediocre in verità, di Sher­ wood King, Orson Welles si è dato da fare scena dopo scena per salI I2« I

vare il film, trasformando ogni episodio in un pezzo di bravura. L’u­ nica ragione d’essere della Signora di Shanghai è... il cinema stesso, e siccome dietro la macchina da presa c’è Orson Welles, è già molto, anche se lo spettatore non ritrova l’emozione che ha provato guar­ dando Quarto potere e L'orgoglio degli Amberson. Ciò che resta di più sorprendente in questo film col passare degli anni è l’accoppiata dei due attori che incarnano i «cattivi»: Everett Sloane, che fa la parte del marito di Rita, il grande avvocato Banni­ ster che si muove appoggiandosi su due bastoni, e Glenn Anders che, nel ruolo di George Grisby, tende una spaventosa trappola al «primo attor giovane» innocente, candido e innamorato, lo stesso Orson Welles. Se si guarda il film ascoltando le informazioni date dalla voce fuo­ ri campo (è Orson Welles che fa il commento), ci si accorge che la sceneggiatura è molto più semplice di quanto non sembri: tutta la storia si inscrive in un itinerario marittimo che va da New York a San Francisco passando per i Caraibi, con uno scalo ad Acapulco! La scrittura del copione è molto professionale, ogni scena si conclu­ de con una gag visiva o sonora e l’azione non ha un attimo di tregua. Visivamente il film è stupendo e approvo Bazin quando scrive: Anche se avesse girato solo Quarto potere, L'orgoglio degli Amberson e La signora di Shanghai, Orson Welles meriterebbe di figurare in buo­ na posizione su uno dei più grandi medaglioni dell’arco di trionfo ideale della storia del cinema. Orson Welles aveva girato La signora di Shanghai per dimostrare alla gente di Hollywood che era in grado di fare un film «normale»; in realtà dimostrò il contrario, soprattutto ai suoi stessi occhi! Il film fu un disastro commerciale. Alla Columbia non era piaciuto, e quin­ di venne messo da parte per farlo uscire solo dopo Gilda di Charles Vidor, giustamente considerato un film migliore per lanciare Rita Hayworth. È lecito pensare che sia questo il motivo per cui, propo­ nendo il progetto di un Macbeth girato in meno di trenta giorni, | 1X9 I

Welles decidesse in un certo qual modo di accettare il proprio ruolo di regista d’avanguardia. È proprio con Macbeth, nel quale Welles ritrova intatti libertà, povertà di mezzi e genio, che si inaugura la sua trilogia shakespea­ riana. Nessuno ha parlato di questo film meglio di Jean Cocteau:

Il Macbeth di Orson Welles ha una forza selvaggia e disinvolta. Con elmi ornati di corna e corone di cartone, vestiti di pelli di animali co­ me i primi automobilisti, gli eroi del dramma si muovono nei corridoi di una specie di metropolitana di sogno...

L’idea di novella, di fiaba si adatta particolarmente bene al con­ cetto di universo chiuso: per preservare lo stile e il fascino dell’uni­ verso chiuso, è importante rinunciare agli esterni reali, al cielo vero, al sole, a tutti quegli elementi naturali ed eterni che suonerebbero al­ trimenti come stecche nell’orchestra, come incongruenze documen­ taristiche, contro-finzioni. Al contrario sono benvenuti tutti gli ele­ menti ambientali che rendono teatrale la nostra vita quotidiana: porte, finestre, soffitti e soprattutto le inquadrature di porte e fine­ stre, perché vengono a rafforzare visivamente il «c’era una volta...» In Macbeth, questo principio di universo chiuso funziona perfet­ tamente: l’umidità artificiale gocciola sui teloni che imitano le roc­ ce, gli elmi e le armi sono fatti di una ferraglia barbara e primitiva, la macchina del fumo sprigiona una nebbia che diffonde e dramma­ tizza la luce; tutto è selvaggio in questo film che ha uno dei punti di forza proprio nel suo aspetto claustrofobico. Sempre in Macbeth, Orson Welles spinge ancor più lontano uno stile di regia che gli deriva chiaramente dalle sue messe in scena tea­ trali shakespeariane e che ha progressivamente introdotto nei suoi film, soprattutto nello Straniero e nella Signora di Shanghai. Il perso­ naggio che interpreta deve camminare verso la macchina da presa, ma non nell’asse, bensì spostandosi come un granchio, guardando dall’altra parte; lo sguardo non va quasi mai agli occhi del partner, ma sopra la sua testa, come se l’eroe di Welles potesse dialogare sol­ I • 3° I

tanto con le nuvole. Anche l’espressione dello sguardo è molto parti­ colare. Un’aria insieme distratta e malinconica, dolorosamente pre­ occupata, suggerisce che alle parole pronunciate si aggiungono pen­ sieri segreti. Questo stile di recitazione, dolcemente allucinato, asso­ lutamente unico, è di una forza poetica ineguagliata. Siamo troppo abituati a considerare Orson Welles come una personalità forte e di­ mentichiamo troppo spesso che si tratta di un attore prodigioso. Più tardi gli capiterà - quando avrà abbandonato il ruolo di « pri­ mo attor giovane» - d’ispirare, non trovo altra parola, questo espe­ diente recitativo ad altri: Charlton Heston neìV Infernale Quinlan, Anthony Perkins nel Processo. Nelle sue interviste, Orson Welles ha raccontato in che modo ha girato Otello: luoghi distanti migliaia di chilometri, improvvisando scenari e costumi, utilizzando cinque o sei pellicole di diversa sensi­ bilità, filmando di spalle le controfigure incappucciate che sostitui­ vano gli attori occupati in altre riprese. Bisognava essere il grandis­ simo tecnico che lui era già fin dagli inizi per cavarsela, ed è fuor di dubbio che Orson Welles ha cominciato ad appassionarsi a questo stadio del lavoro facendo il montaggio di questo film, che conta cir­ ca 2000 inquadrature (Quarto potere ne aveva solo 562, e L'orgo­ glio degli Amberson sicuramente meno della metà). Welles è sempre stato un regista musicale, ma mentre prima di Otello metteva la mu­ sica all'interno delle inquadrature, a partire da questo film la intro­ durrà sul tavolo di montaggio, cioè tra un’inquadratura e l’altra. Se Otello è così spezzettato, è perché i passaggi da un’inquadratura al­ l’altra si effettuano ora su raccordi di movimento, ora su cerniere del testo, ora su inflessioni delle voci o degli sguardi. La prima inquadratura lunga del film l’abbiamo solo quando Ja­ go, che cammina a fianco di Otello, comincia a seminare il dubbio nella sua mente: la macchina da presa li precede entrambi in una lunghissima carrellata sugli spalti. Micheàl MacLiammóir è bravis­ simo nel ruolo di Jago e, dal modo generoso in cui Orson Welles lo valorizza rispetto alla macchina da presa e rispetto a se stesso, si av­ verte tutta l’ammirazione, la riconoscenza e il rispetto nutriti nei I 13 « I

confronti del grande attore irlandese che lo aveva fatto debuttare nel 1931 al Gate Theatre di Dublino, accettando di far finta di cre­ dere che quel giovane esordiente americano - aveva tredici anni e ne dichiarava venticinque - fosse un grande attore di New York! Se alla sua uscita Otello non è stato sufficientemente ammirato è perché Orson Welles, voltando le spalle al tono solenne alla Ejzen­ stejn e a quello manierato e accademico alla Laurence Olivier, rifiu­ tandosi di cadere nei «genere nobile», ha cercato di fare più che un capolavoro un film «vivo». Filmando Otello come fosse un thriller, cioè avvicinandolo a un genere popolare, Orson Welles, mi pare, si è avvicinato di più a Shakespeare. Non ignoro che quest’ultima fra­ se potrebbe farmi rispedire indietro dall’aeroporto di Londra, ep­ pure Welles stesso all’epoca ha dichiarato:

La famosa tradizione shakespeariana che si invoca così spesso è più una leggenda che un dogma. In realtà non è affatto una tradizione: troppo spesso è un semplice accumulo di cattive abitudini.

Primato del montaggio! È ancora sotto questo segno che ritroviamo Orson Welles in Rapporto confidenziale, uno dei miei film preferiti, probabilmente perché Welles vi utilizza l’intera gamma delle sue do­ ti. Quando gira questo film, con mezzi miserabili, Orson Welles fa cinema da quindici anni e si dà qui a una sorta di ricapitolazione del­ la sua opera. Con Quarto potere, Orson Welles indovinava l’essenza della vec­ chiaia, in Rapporto confidenziale è lui a sperimentarla; ed è questo che crea l’emozione, non solo quando guardiamo il personaggio di Arkadin ma anche quello di Jacob Zouk, splendidamente interpre­ tato da Akim Tamiroff; bravissimi anche Michael Redgrave, la mo­ glie-bambina Paola Mori, O’Brady, Mischa Auer, Patricia Medina e Katina Paxinou che, nel ruolo di Sophie, si è immedesimata perfet­ tamente nella parte di una baronessa che Welles già ammirava, la baronessa Karen von Blixen-Finecke, alias Isak Dinesen, geniale scrittrice danese di cui più tardi adatterà Storia immortale. Tutta la l 1311

vita di Orson Welles si svolge sotto il segno degli incontri e delle coincidenze; non vi stupirete quindi di apprendere che la stessa Ka­ ren Blixen, all’inizio del suo romanzo I vendicatori angelici, scritto in Danimarca nel 1943, c’ta le prime righe del poema di Coleridge parafrasate anche all’inizio di Quarto potere, girato da Orson Welles quattro anni prima: Leggendario era Xanadu dove Kubla Khan volle Che un immenso palazzo dei desideri si erigesse: Così, dieci miglia di fertile terreno Da muri e torri venne circondato.

Niente palazzi favolosi per Gregory Arkadin, ma il personaggio è veramente magico; sembra capace di trovarsi nello stesso momento a Monaco, a Città del Messico, a Istanbul; i testimoni del suo passa­ to muoiono uno dopo l’altro a migliaia di chilometri di distanza man mano che il giovane Van Stratten, assunto da Arkadin stesso per tro­ varli, li localizza! Le opposizioni e le differenziazioni di ambienti, luoghi, comportamenti, personalità e modi di morire rispondono a quel principio deìVenumerazione che regge la composizione della maggior parte delle fiabe. Sapevamo che Orson Welles era il regista dell’ambiguità: eccolo diventato quello dell’ubiquità in questo film nel quale calza, come l’orco di Charles Perrault, gli stivali delle sette leghe. In una scena ambientata in un aeroporto, Gregory Arkadin, trovando l’aereo al completo, offre urlando diecimila dollari al viag­ giatore che gli cederà un biglietto: è un bellissimo equivalente del­ l’appello di Riccardo ni: «Il mio regno per un cavallo». Grazie a Welles, Shakespeare si trova in un aeroporto come a casa sua. Si gi­ rano molti film cosiddetti «internazionali», ma solo quelli di Orson Welles lo sono veramente, intendo nella loro essenza. Il nome Arkadin è così bello che mi sono domandato a lungo da dove venisse fino al giorno in cui ho assistito a una rappresentazio­ ne del Gabbiano di Óechov, in cui il personaggio dell’attrice si chia­ ma Irina Arkadina. I «331

Quando l’uso delle videocassette sarà generalizzato e si guarde­ ranno i film preferiti a casa propria, colui che possiederà una copia di Rapporto confidenziale sarà un uomo davvero fortunato. Ed eccoci a\\' Infernale Quinlan, in cui Orson Welles si invecchia e si imbruttisce come per dimostrare con questa esagerazione che ha ri­ nunciato una volta per tutte a recitare la parte del «primo attor gio­ vane», lui che allora, nel 1957, ha solo quarantadue anni. André Bazin, che ha tanto amato Orson Welles e l’ha capito così bene, è morto qualche mese dopo aver visto L'infernale Quinlan. Eppure osservate come la descrizione che Bazin fa dell’ispettore Quinlan potrebbe essere applicata alla creazione che Orson Welles farà di Falstaff:

Vecchio alcolizzato che succhia caramelle per resistere alla tentazione del whisky, laido, obeso, l’arcangelo non è più che un povero diavolo e il suo genio ridicolo si applica al meno nobile dei compiti. Mentre, descrivendo Macbeth e Otello, Bazin sembra analizzare L'infernale Quinlan:

Non stupiamoci se i due film shakespeariani di Welles sono proprio due delle tragedie più conformi alla doppia tematica di La bella e la bestia, né soprattutto se il suo adattamento perora l’innocenza di Macbeth e la pietà per Otello. Non tanto la grandezza nel male - benché grandez­ za ci sia - ma l’innocenza nel peccato, nella colpa o nel crimine. Se Orson Welles si appesantisce e si invecchia a piacer suo nel\'Infernale Quinlan, la macchina da presa piroetta con la foga di un giovane. Ogni inquadratura di questo film rivela l’amore per il cine­ ma e il piacere di farlo. In molti film hollywoodiani sentiamo una musica roboante di Tiomkin o di Max Steiner, che si agita e si invola accostata a imma­ gini disperatamente fisse e statiche. NeW'Infernale Quinlan assistia­ mo al fenomeno inverso: sono le immagini che cantano e si innalza­ no mentre la partitura di Henry Mancini resta inchiodata al suolo, I

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forse per colpa di un mixaggio banalizzante effettuato in assenza del regista. Negli anni successivi all’uscita deW Infernale Quinlan, l’influenza esercitata da questo film apparirà spesso, ad esempio in Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Mi sembra infine che L’infernale Quinlan confermi un’idea che viene verificata da II grande sonno, Un bacio e una pistola, Psycho: filmato da un regista ispirato, il thriller più banale può diventare la più emozionante delle fiabe: «Ogni grande arte è astratta», dice Jean Renoir.

Lo confesso, non sono un ammiratore del Processo, che Orson Welles ha girato su ordinazione come molti altri suoi film, ma forse con un rispetto paralizzante, perché questa volta non si trattava più di un thriller da valorizzare, ma di un capolavoro della letteratura mondiale, //processo di Franz Kafka. Spesso, e malgrado la scissio­ ne dal Mercury Theatre dopo L’orgoglio degli Amberson, Orson Welles ha affrontato il suo lavoro cinematografico con lo stesso spi­ rito del direttore di una compagnia teatrale: «Quest’anno allestire­ mo uno Shakespeare». Quell’anno, il 1962, fu allestito un Kafka. 11 film è più lussuoso di tutti quelli che Welles aveva girato da molto tempo, o almeno lo è per ciò che riguarda il gigantismo degli scena­ ri e l’abbondanza delle comparse. Darò due spiegazioni alla mia de­ lusione - dopo aver chiarito tuttavia che le critiche in Francia furo­ no generalmente ottime. Welles, che è tanto a suo agio quando deve filmare la potenza, l’orgoglio e il dominio, non è forse tagliato per mostrare i loro contrari: la debolezza, l’umiltà, la sottomissione. Fin da adolescente, la sua corpulenza e la sua statura l’hanno portato naturalmente a interpretare ruoli di re. Nei suoi film non lo si vede quasi mai mangiare o guidare una macchina (tranne che nella Si­ gnora di Shanghai). Lo si vede spesso alzarsi, raramente sedersi. Questo personaggio prestigioso richiede una messa in scena presti­ giosa; nella recitazione classica del campo-controcampo, non è im­ maginabile Greta Garbo filmata di spalle. I >35 I

Orson Welles è bigger than life, Kafka è smaller than life. Ecco perché, filmato con le stesse angolazioni di Gregory Arkadin e di Charles Foster Kane, con la macchina da presa al livello del pavi­ mento, l’eroe di Kafka, interpretato da Anthony Perkins, non ci toc­ ca minimamente e resta lontano da noi. Jean Cocteau l’ha detto: «Il poeta è un uccello che deve cantare nel suo albero genealogico». Ho visto parecchie volte II processo e, a forza di aspettare impaziente­ mente la comparsa di Akim Tamiroff, sono arrivato al punto di pen­ sare che il film sarebbe stato kafkiano e commovente se tutto il cast fosse stato composto da attori ebrei dell’Europa centrale. Ma il punto di forza del Processo è ancora come sempre il mon­ taggio. E a quell’epoca che Welles afferma chiaro e tondo: «Per me, il montaggio non è uno degli aspetti del cinema, è l’unico aspetto». Hitchcock o Robert Bresson direbbero o dicono la stessa cosa, an­ che se sull’intenzione e sull’esecuzione le loro idee differiscono net­ tamente. Per rifinire il montaggio con calma Orson Welles, che è un regista più critico di quanto si creda, consegnò la copia del Proces­ so con cinque mesi di ritardo; quando gira è pieno di istinto, di slan­ cio e di irruenza, ma poi, al tavolo di montaggio, come se giudicas­ se severamente i suoi slanci, si critica senza pietà, il che mi ha porta­ to a scrivere molto tempo fa: «I film di Orson Welles sono girati da un esibizionista e montati da un censore». Dopo aver fatto anch’io la parte del censore e aver suggerito che II processo avrebbe potuto essere diretto da Elmyr de Hory, non mi di­ lungherò oltre su questo film che Bazin avrebbe forse amato e in cui avrebbe certamente saputo vedere cose belle che a me sono sfuggite.

Falstaff {Chimes at Midnight, 1966) non è una tragedia di Shake­ speare, ma una sceneggiatura di Orson Welles, creata partendo da quattro testi del suo autore prediletto. Già nel 1936 Orson Welles aveva fatto una riduzione di quattro testi riuniti (tra cui Enrico IV e Riccardo III, che qui ritroviamo) e l’aveva intitolata Cinque re. Lo spettacolo sembra fosse fallito, mentre qui, in Falstaff, tutto funzio­ na a meraviglia grazie all’idea di ricentrare l’azione sul personaggio

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di Falstaff, che Orson Welles interpreta magnificamente. Quando, durante la guerra, aveva visto il film di Marcel Pagnol La moglie del fornaio, Orson Welles aveva dichiarato: «Raimu è il più grande at­ tore del mondo», e la frase mi torna in mente quando vedo questo Falstaff a cui Welles ha dato un’umanità pagnolesca. Attorno a Welles-Falstaff, molti grandi attori danno il meglio di sé: Jeanne Moreau, Keith Baxter, Margaret Rutherford, Fernando Rey, John Gielgud, Walter Chiari; ritroviamo qui un cast armonioso come quello di Rapporto confidenziale, una straordinaria fotografia in bianco e nero di Edmond Richard, un uso della macchina da presa e del suono che rasenta il sublime.

Al film successivo non farò che un solo rimprovero: la sua brevità. Infatti Storia immortale dura solo cinquanta minuti, e per questo il suo destino è stato quello di un film marginale, mentre si tratta di una bella storia che avrebbe potuto raggiungere un pubblico nor­ male. Nell’opera puritana, o comunque casta, di Orson Welles, Sto­ ria immortale ci offre il primo nudo femminile, quello di Jeanne Moreau, al servizio di una specie di racconto arabo scritto da una danese e che si svolge in Cina! Ciò che da sempre interessa a Orson Welles non è la psicologia, né i thriller, né i film d’amore e d’avventura come se ne fanno da quan­ do è nato il cinema; ciò che gli interessa sono le storie sotto forma di racconto, di favola, le allegorie. Orson Welles - i suoi film comin­ ciano implicitamente con «C’era una volta...» - sarebbe il regista ideale per Le mille e una notte. Storia immortale è allo stesso tempo una storia e la messa in sce­ na di una storia: si tratta infatti, per il ricco mercante di Macao, mister Clay (Orson Welles), di finanziare la realizzazione di un’au­ tentica, brevissima e intensa storia d’amore che i marinai hanno l’abitudine di raccontarsi come se fosse capitata a uno di loro, la storia di un uomo vecchio e ricco che, per avere un figlio, offre cin­ que ghinee a un marinaio perché trascorra una notte d’amore con sua moglie. I 137 1

Quando Clay la sente dal suo segretario Elishama, prova il desi­ derio che essa si realizzi e assolda una prostituta, Virginie (Jeanne Moreau) e un marinaio, allo scopo di farli stare insieme per qualche ora. All’indomani della notte d’amore, che è stata splendida e in­ tensa «come un terremoto», mister Clay muore nella sua poltrona. Qui siamo nel «C’era una volta...» all’ennesima potenza e il film, realizzato con pochi mezzi, è uno dei più intensi del suo autore. Tut­ ti i personaggi sono simpatici e toccanti. La storia, che si basa sulla fortuna di mister Clay e sul potere che gliene deriva, è imperniata sul solito rapporto di forze, ma poiché ogni personaggio è felice e con­ senziente, il racconto emana una sensazione di malinconica dolcez­ za o più precisamente di triste felicità. Welles e Jeanne Moreau sono meravigliosi e l’immagine del marinaio che, appena reclutato da mi­ ster Clay, corre per le strade dietro al taxi è indimenticabile. Alternandosi a Francois Reichenbach - che aveva realizzato un ser­ vizio giornalistico sul famoso falsario Elmyr de Hory, vissuto a Ibi­ za fino al suicidio, avvenuto nel 1977, e a cui Clifford Irving aveva dedicato un libro prima di diventare a sua volta famoso con la falsa autobiografia di Howard Hughes - Orson Welles ha creato con F conte falso - verità e menzogna un altro film dove regna il montag­ gio e in cui la forma di pseudoreportage serve a veicolare la poesia. Welles ha trascorso certamente più di un migliaio di ore davanti al monitor per mettere assieme un migliaio di inquadrature, girate in un tempo certamente più breve. Una delle scene finali del film ci mostra Picasso che guarda cam­ minare la bella Oja Kodar. Tutte le inquadrature della ragazza sono reali e ce la mostrano mentre sta camminando per le strade; a volte è vista attraverso le stecche orizzontali di una veneziana grigia. È Pi­ casso a guardare la bella attrice ungherese? Sì e no: Orson Welles, diabolicamente, ha infatti filmato delle foto di Picasso, ritratti in cui gii occhi del grande pittore sono aperti e rivolti nettamente verso de­ stra, verso sinistra o direttamente nell’obiettivo. Talvolta le stecche della veneziana sono messe davanti al viso di Picasso, che sembra I 138 |

quindi guardare la bella Oja clandestinamente, come un voyeur. Questa scena è una stupenda dimostrazione delle possibilità del montaggio, considerato come una mistificazione, e il soggetto di questo film è tutto lì, nel tono burlone e nella cinica vivacità che ci allontanano da Shakespeare per avvicinarci a Sacha Guitry. F come falso - il cui vero scopo sotterraneo è probabilmente una risposta di Welles alla polemica aperta da Pauline Kael - avrebbe potuto inti­ tolarsi La romanza dei bari...

Al momento in cui scrivo queste righe, nel luglio 1978, Orson Welles ha girato quindici film, dodici dei quali sono stati mostrati al pubblico. E gli altri tre? Don Chisciotte, le cui riprese devono essere iniziate più di vent’an­ ni fa, viene lasciato volontariamente incompiuto da Orson Welles, che l’ha girato e fotografato lui stesso un po’ dovunque nel mondo, forse in i6 mm, forse in 35 (o forse alternativamente). Il film è in­ terpretato dallo stesso Welles, nel ruolo di se stesso, dalla giovane Patty McCormack (che forse nel frattempo è diventata una madre di famiglia) e soprattutto da Akim Tamiroff, morto qualche anno fa, verosimilmente senza aver terminato di girare il film. La ragione addotta da Orson Welles per spiegare l’incompiutezza del film è la sua necessità di filmare, per la scena finale, l’esplosione della bom­ ba H che distruggerà tutto e tutti tranne Don Chisciotte e Sancho Panza. Attorno a questo film si è creata, nel corso degli anni, una leggenda così radicata che non ci sarebbe da stupirsi se Welles pre­ ferisse restarne l’unico spettatore. Del resto, stanco di essere inter­ rogato tanto spesso su questo film, Welles ha deciso che lo avrebbe intitolato Quando finirà Don Chisciotte?

The Deep," tratto da un thriller della Sèrie noir, è stato girato nel 1967 in Yugoslavia e Orson Welles se l’è finanziato da solo grazie al 11. Film incompiuto e inedito. In.d.t.j

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favoloso compenso ricevuto per recitare in un grande film patriotti­ co yugoslavo. Il cast comprende: Jeanne Moreau, Laurence Hardy (morto di recente poco dopo aver portato a termine il doppiaggio del suo ruolo), lo stesso Orson Welles e Oja Palinkas, che ricomparirà nei film successivi di Welles. Si tratta di un bel romanzo di Charles Williams, un’avventura poliziesca che coinvolge i passeggeri di due yacht. Il film venne girato con una troupe molto ridotta: Welles stes­ so stava alla macchina da presa (tranne quando recitava) e Jeanne Moreau, oltre al suo ruolo, aveva assunto il compito di segretaria di produzione. La motivazione addotta da Orson Welles per non mo­ strare il film è la mancanza dell’inquadratura finale: l’esplosione di uno degli yacht in mare aperto. Personalmente mi auguro che Welles riesca a girare una scena dell’esplosione talmente grandiosa da giu­ dicarla degna di servire come finale anche per Don Chisciotte.

Da quanto si è visto, l’opera recente di Orson Welles può apparire come una riflessione sul cinema. In Storia immortale, mister Clay offre a se stesso la realizzazione di una storia che gli piace e ne muo­ re. L’indagine di F come falso mostra che un montatore deve essere un mentitore, ed era logico che Welles arrivasse a parlare direttamente di cinema in un film. Si dà il caso infatti che il nuovo film che Orson Welles ha appena finito di girare, The Other Side of the Wind,1' racconti la storia di un vecchio regista hollywoodiano che gira, o ha appena finito di gira­ re, il suo ultimo film. Le riprese sono iniziate nell’estate del 1970, poi Welles le ha sospese e ricominciate parecchie volte, secondo il metodo inaugurato con Otello. Non volendo essere identificato con il personaggio principale, Orson Welles ha esitato a lungo prima di scegliere un attore per il ruolo del regista Hannaford; filmava dun­ que le scene «tagliando» abbondantemente e riservandosi per il fu­ turo le inquadrature su Hannaford. Nella primavera 1974, ha infi­ ne deciso di affidare il ruolo di Hannaford al collega John Huston.11 11. Anche questo è incompiuto c inedito ( 1970-7’). (n.d.t.l

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Non dovremmo quindi vedere in questo film un addio al cinema, l’equivalente di ciò che fu II testamento d'Orfeo per Jean Cocteau, a meno di non considerare che un film di Welles su quattro ha un to­ no testamentario, a iniziare da Quarto potere per continuare con Rapporto confidenziale e Don Chisciotte; è evidente la passione di Orson Welles per le biografie, i bilanci esistenziali, i tuffi nel passa­ to. È facile prevedere che avrà molto da dirci su Hollywood, sui fan del cinema, sui biografi e i giornalisti... Credo anche di sapere che nel corso del film Hannaford ironizzerà sul numero di libri a lui de­ dicati, più grande di quello dei film da lui realizzati! Secondo me, tutte le difficoltà incontrate da Orson Welles al bot­ teghino, difficoltà che hanno certamente frenato il suo slancio crea­ tivo, derivano dal fatto che è un regista-poeta. I finanziatori di Hol­ lywood (e, per essere giusti, il pubblico di tutto il mondo) ammetto­ no la bella prosa - John Ford, Howard Hawks - e anche la prosa poetica - Hitchcock, Roman Polanski - ma molto più difficilmente la poesia pura, la favola, l’allegoria, il racconto di fate. Non è il ca­ so di congratularsi con Orson Welles per essere rimasto fedele a se stesso e per non aver fatto concessioni, perché, anche volendo, non potrebbe fare altrimenti! Ogni volta che pronuncia la parola «Azio­ ne!», trasforma in poesia la vile realtà. Così Orson Welles ha girato film con la mano destra - Quarto po­ tere, L'orgoglio degli Amberson, i tre Shakespeare, Storia immorta­ le, The Other Side of the Wind - e film con la mano sinistra, i thril­ ler. Nei film con la mano destra c'è sempre la neve, nei film con la mano sinistra degli spari, ma tutti insieme costituiscono ciò che Jean Cocteau definisce «poesia cinematografica». Il vero dramma di Orson Welles, secondo me, è di aver passato le sue serate negli ultimi trent’anni con produttori onnipotenti che gli offrivano un sigaro, ma che non gli avrebbero affidato cento metri di pellicola da impressionare. Sono gli stessi che lo hanno ingaggia­ to trenta volte, forse più, per ruoli di pochi giorni nei quali era «di­ retto» (!) da registi dieci volte meno dotati di lui. I >4> I

Si sa d’altronde che David Lean ha avuto dieci mesi per girare II dottor Zivago e che Welles ha girato L'infernale Quinlan in cinque settimane! Se si guardano le cose da questo punto di vista bisognerà conve­ nire che Welles si è dovuto costruire una forte filosofia personale per non lasciarsi mai sfuggire pubblicamente una lamentela, una recri­ minazione, un pensiero pungente, una frase amara. Nell’idea che il mondo del cinema si è fatto di Orson Welles, c’è un aspetto «fuori concorso», un lato «fuori competizione», outsi­ der, che a volte deve convenirgli e aiutarlo nella sua creatività, altre volte deve dargli fastidio e ferirlo. Questo può spiegare il suo famo­ so reluctant release le cui proporzioni aumentano di anno in anno. La carriera di Orson Welles è dunque difficile, ma non più di quel­ la di Carl Dreyer o di Jean Cocteau; la sua attività di attore di suc­ cesso e la sua personalità da divo tolgono certamente urgenza alla sua ricerca di finanziamenti, che è la sorte di tutti i registi. Se non fosse un grande attore, se non fosse sollecitato a recitare nei film de­ gli altri, Orson Welles avrebbe girato più film come regista? Sono portato a crederlo ma, già così com’è, la sua opera è considerevole e non dobbiamo dimenticare che, se il cinema muto ci ha dato grandi temperamenti dell’immagine - Murnau, Ejzenstejn, Dreyer, Hitch­ cock - il cinema sonoro non ne ha dato che uno, un solo regista dal­ lo stile immediatamente riconoscibile dopo solo tre minuti di film, e il suo nome è Orson Welles. Ed è proprio quello che André Bazin ha dimostrato scrivendo:

In Orson Welles la tecnica non è solo un modo di dirigere, essa mette in causa la natura stessa della storia. Con la sua tecnica, il cinema si al­ lontana ancora un poco dal teatro, diventa più un racconto che uno spettacolo. Come nel romanzo, infatti, qui non sono solo i dialoghi e la chiarezza descrittiva a creare il senso, ma lo stile impresso al lin­ guaggio. (Luglio 1978, sull'aereo Parigi-Los Angeles; «Orson Welles», Cahiers du cinema, numero speciale, 1982)

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Terza parte

Letteratura e

cinema

JACQUES AUDIBERTI POETA DEL DIVINO MISTERO DELLA DONNA *

Con la sua faccia sfregiata da vecchio lupo di mare in vacanza, Jacques Audiberti è un colosso di Antibes, bello e potente come i suoi libri, che pongono instancabilmente sempre la stessa doman­ da: perché le donne non ci desiderano come le desideriamo noi, a priori, sistematicamente, fisicamente e astrattamente e sempre per quello che sono: le gobbe per la loro gobba, le borghesi per il loro cappellino, le puttane per le loro gambe, le pudibonde per la loro virtù, le grasse per i loro cuscinetti e le magre per le loro ossa? Uno sguardo per strada dovrebbe bastare a convincerle che vo­ gliamo solo e subito invadere la loro esistenza e che vogliamo che ci offrano, come chiede Guy Béart, «un posticino fra i loro pizzi». Talent, Monorail, Septième, La Nd, Le Jardin et les fleuves, tutti sublimi, ma il più bello è Marie Dubois. L’opera più intensa dedicai. La Comédie-Fran^aise realizza il nuovo lavoro di Jacques Audiberti La Fourmi darts le corps. In questa occasione, Francois Truffaut esprime la sua ammirazione per l’autore di Le Mal court.

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ta alla donna, tutta la donna, la stessa donna. Marie Dubois è la donna fra tutte le donne, è lei che lavora in fabbrica dove milita da comunista, è lei che si prepara a un concorso per insegnare lettere, è lei che si prostituisce nei terreni abbandonati di Villejuif e che ispira, dopo la sua morte, l’amore più assoluto all’umile piccolo ispettore che si è arruolato nella polizia perché aveva paura dei poliziotti. Per Audiberti, la donna è magica, la donna è suprema. È a lui che penso quando filmo un uomo, alla sua opera quando filmo una don­ na. È ancora a lui che penso guardando un bel paio di gambe per la strada, a ciò che potrebbe dirne. Anche se è impossibile risolvere il divino mistero della donna, certo è impossibile cantarlo meglio di Jacques Audiberti. (Da Arts, n. 86z, z8 marzo-} aprile 1961)

UN GIGANTESCO BAMBINO

Un gigantesco bambino, ecco cos’era Jacques Audiberti. Abbiamo amato dei morti a cui possiamo pensare senza tristezza perché ab­ biamo l’impressione che il loro percorso fosse terminato, ma è di­ verso per Audiberti, che riscopriva la vita ogni giorno, proprio co­ me un adolescente che guardiamo con emozione fare tutto ciò che fa per la prima volta. Audiberti aveva raggiunto la celebrità senza averla cercata; se la vita è una gara di corsa, ebbene, lui non era in gara. Faceva sempre il suo dovere, in entrambi i sensi,1 perché si considerava allo stesso tempo un vecchio soldato della scrittura e uno scolaro che deve «fa­ re i compiti». Per restare nel doppio senso, direi che Audiberti vedeva il male (e l’infelicità) dappertutto: il titolo della sua opera Le Mal court signi­ fica allo stesso tempo che il male corre e che bisogna augurarsi che i. L’originale dice faìre son devoir, che in francese significa «fare il proprio dovere» ma anche «fare i compiti di scuola». jn.d.t.l

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questo male sia corto. Ogni volta che, girando un film, mi si offre l’occasione di mostrare diversi comportamenti maschili nei con­ fronti delle donne, chiedo a uno degli attori di impregnarsi di Audi­ berti, per il quale le donne erano magiche. Ha scritto il suo ultimo libro, Dìmanche m'attend, sapendo che stava per morire; è un libro sublime e, siccome non ce l’ho sottomano, posso citare solo a me­ moria la frase in cui dice che «le splendide gambe delle hostess si scompongono negli aeroplani». Tutto Audiberti è in questa frase: la bellezza irraggiungibile delle donne e l’aspetto catastrofico della vi­ ta. Anche dopo la sua morte, penso che Audiberti debba essere am­ mirato, ma soprattutto che abbia ancora bisogno di essere amato.

(Dal programma del Théàtre de la Cothurne, Lyon, 30 novembre 1973)

I articolo firmato Francois de Monferrand)

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LE ESPADRILLAS DI WILLIAM IRISH

È difficile per i lettori francesi misurare la solitudine in cui vivono negli Stati Uniti gli scrittori che hanno scelto la letteratura popola­ re. I cultori francesi dei polizieschi, senza leggere necessariamente tutto quello che viene tradotto nella nostra lingua, riescono ben pre­ sto a riconoscere il talento di questo o quello scrittore, e a renderlo noto ad altri. Il passaparola fa il resto, ed è così che i nomi di David Goodis, Dolores Hitchens, William Irish, Dorothy Hughes, Henry Farrell, Jim Thompson, Joseph Harrington, Harry Wittington o quello, più recente, dell’inglese Patrick Alexander circolano di boc­ ca in bocca e si creano una reputazione fra gli specialisti. Negli Sta­ ti Uniti non succede niente del genere. Nel 196Z, mentre mi trovavo a New York per presentare Jules e jim, quando annunciai che avevo la speranza di girare Fahrenheit 451, scoprii che neppure un gior­ nalista americano su dieci conosceva il nome di Ray Bradbury. Ci volle l’arrivo dei cosmonauti sulla luna, nel 1969, perché il pubbli­ co americano, attraverso la stampa, facesse finalmente conoscenza con l’autore di Cronache marziane. A quest’ignoranza, che nel caso I ’5* 1

di Charles Williams, Goodis e Irish si perpetua post-mortem, esiste una sola spiegazione, la sovrapproduzione, l’incredibile quantità di libri pubblicati ogni anno, l’incredibile numero di editori concen­ trati non solo a New York, ma disseminati per tutta l’America. Ogni volta che ho avvicinato uno scrittore di polizieschi, sono ri­ masto impressionato dalla sua modestia, dalla sua professionalità, ma anche dalla sua tristezza. Spesso c’è qualcosa di sconfortante e di fatale nel destino di un romanziere che si guadagna la vita rac­ contando storie di delitti. David Goodis, l’autore di Sparate sul pianista, viveva da solo e aveva l’abitudine di passeggiare intere notti per le vie di New York, ritrovandosi in qualche caso coinvolto in una rissa senza sapere per­ ché. Protagonista di tutti i suoi libri è un uomo spezzato. Goodis è morto che non aveva ancora cinquant’anni. Aveva sempre combat­ tuto con i suoi editori che gli rimproveravano i finali pessimisti. Charles Williams, il cui Non è peccato fa ridere a ogni pagina, si è sui­ cidato quattro o cinque anni fa sulla barca dove passava la maggior parte dell’anno, senza che i giornali americani dedicassero un solo trafiletto alla sua scomparsa. È diffìcile non restare sconvolti nel leg­ gere il testo di Lillian Hellman sugli ultimi anni di Dashiell Hammett, o il racconto di John Houseman dedicato alle sofferenze di Raymond Chandler, che scrisse in tutta fretta la sceneggiatura della Dalia az­ zurra avendo, accanto alla macchina da scrivere, alcol a volontà per poterla finire entro i termini, prima di farsi portare in ospedale. Gli scrittori di thriller, prima di essere pubblicati per la prima vol­ ta - è il ricordo che resta più vivo nella memoria di ognuno di loro hanno passato le stesse angosce di William Saroyan con II trapezio volante ma, a differenza del geniale armeno autodidatta, hanno fre­ quentato l’università prima di affrontare la letteratura, di studiarla e di praticarla come un mestiere che si impara. Non è abbastanza noto il fatto che Dashiell Hammett ha tenuto per molto tempo cor­ si di composizione e scrittura di thriller a giovani aspiranti scrittori. Dato che la critica non parla mai di loro e non hanno quindi mai avuto l’impressione di avere «un loro pubblico», gli scrittori popo­ I » 53 I

lari sembrano scrivere frettolosamente e solo per denaro, ma in realtà si abbandonano, attraverso le loro storie, molto più intima­ mente di quanto non si creda e indubbiamente più di quanto non credano essi stessi. Sentendosi ben protetti e nascosti dietro un ca­ davere o una rivoltella, si svelano, si confessano e realizzano, entro i limiti del genere, un’opera libera. Così, nel vecchio opprimente si­ stema hollywoodiano, i registi di serie b si credevano semplici im­ piegati mentre erano artigiani sinceri e ispirati. Scrittori sotterranei -- uso la parola sotterraneo in senso quasi letterale, ben diverso da underground, che suggerisce il flirt con la moda - gli scrittori poli­ zieschi stanno a Hemingway, Norman Mailer o Truman Capote co­ me gli attori della post-sincronizzazione stanno ai divi dello scher­ mo. Possiamo paragonarli, come faceva Max Ophuls a proposito degli artisti del doppiaggio, a fiori selvatici che crescono nelle grotte. Cornell George Hopley-Wool rich, alias William Irish, è nato lo stesso anno di Simenon, nel 1903, a New York e ha passato parte del­ la sua infanzia in Messico. All’età di ventidue anni un’itterizia gli pro­ voca un tale disgusto per il suo aspetto fisico che decide di vivere per parecchi mesi recluso nella casa costruita dal nonno. Incomincia al­ lora a leggere sistematicamente ogni libro della biblioteca familiare. Deluso da queste letture, decide di cimentarsi nella stesura di un ro­ manzo. Si mette davanti alla macchina da scrivere e scrive il suo pri­ mo romanzo, Cover Charge, che viene pubblicato attorno al 19x8. Per quarantanni pubblicherà circa un romanzo all’anno e un nu­ mero considerevole di racconti, adottando lo pseudonimo di Wil­ liam Irish solo nel 1942. Nei suoi ricordi spiega che sua madre morì senza aver mai letto una sua riga perché, all’uscita di ogni libro, lui si riprometteva che il seguente sarebbe stato migliore e dunque più degno di lei. Proprio come la signora Woolrich, i cinefili della mia generazione hanno conosciuto Irish prima ancora di leggere una sua sola riga, poiché parecchi dei suoi romanzi e racconti sono all’origi­ ne di film bizzarri e affascinanti degli anni Quaranta e Cinquanta, come L'uomo leopardo di Jacques Tourneur, La donna fantasma di Robert Siodmak, L'angelo nero di Roy William Neill, La notte ha I >54 I

mille occhi di John Farrow, La finestra socchiusa di Ted Tetzlaff e soprattutto uno dei migliori, se non il migliore, film di Hitchcock, La finestra sul cortile. Esiste un punto in comune fra tutti questi film? I miei ricordi so­ no troppo lontani per affermarlo, ma credo comunque che gli ele­ menti che ritornano più frequentemente siano il sogno, la perdita di controllo o di memoria, l’incertezza del passato. Se ci dedichiamo un momento al gioco della libera associazione, dopo il nome di Irish arriveranno le parole amnesia, cotone, notte bianca, fasciatura, sonnambulismo, anello matrimoniale, velo, dolore, rallentatore, ansietà, oblio. Parecchi romanzi di William Irish hanno la parola nero nel titolo, eppure Irish è più uno scrittore della «Serie livida» che un roman­ ziere della «Serie nera», cioè un artista della paura. Nei suoi libri si incontrano pochi gangster e, al massimo, occupano lo sfondo del­ l’intreccio, generalmente centrato su un uomo o una donna di tutti i giorni a cui è successo qualcosa di straordinario. L’amore occupa un ruolo importante nelle storie di Irish, un amo­ re totale ed esclusivo, insostituibile quando viene spezzato. Eroe o eroina, il protagonista dei romanzi di William Irish è quasi sempre un individuo testardo, idealista e animato da un’idea fissa. Nella Sposa in nero, Julie dedica la propria vita a vendicare la morte del fi­ danzato che è stato suo marito solo per il tempo di fare insieme, lei vestita di bianco, il percorso dall’altare alla porta della chiesa; Irish ha trattato lo stesso tema una seconda volta invertendolo, in Ap­ puntamenti in nero, nel quale un giovane si dedica alla ricerca degli uomini che hanno ucciso accidentalmente la sua fidanzata. Più raf­ finato di Julie nella sua vendetta, ucciderà uno dopo l’altro, non i ve­ ri colpevoli, ma l’essere umano - madre, moglie, fidanzata, sorella che ognuno dei responsabili amava di più! Amore spezzato nella Sposa in nero, amore deluso in Vertigine senza fine, in cui l’eroe, dopo aver cercato la donna ideale ricorren­ do agli annunci matrimoniali, si trova di fronte il contrario del suo sogno: un’avventuriera complice di un delitto. L’amerà comunque, I *551

perché l’eroe di Irish non fa mai niente a metà, e nessun imprevisto può frenare il suo cammino verso l’amore e la morte. Nell’universo di Irish ci sono anche molti disturbi psichici; i suoi personaggi, vul­ nerabili e ipersensibili, sono agli antipodi del solito eroe americano, reso popolare dalle storie di spionaggio e di racket. Così come c’è qualcosa di Raymond Queneau in David Goodis, in Irish c’è qual­ cosa di Cocteau, ed è questa mescolanza di violenza popolare ame­ ricana, di odore di ospedale e di prosa poetica alla francese che tur­ ba il lettore europeo. Se parlo, a proposito dell’opera di Irish, di «andatura felpata», non è solo un’immagine, perché William Irish era noto per andare in giro solo in espadrillas, anche in piena New York. Nel 1968, mentre mi recavo proprio a New York per presentare il film che avevo tratto dal suo La sposa in nero, mi rallegravo alla pro­ spettiva di fare finalmente la conoscenza di William Irish; in aereo leggevo la sua ultima raccolta di novelle, Il cane dalla gamba di legno, e pensavo: «Che strano titolo!» All’aeroporto Kennedy, degli amici venuti ad aspettarmi mi informano che William Irish, a cui avevano amputato una gamba parecchi mesi prima, è reduce da una brutta ca­ duta in bagno e non potrà assistere alla proiezione privata della Spo­ sa in nero organizzata dai suoi colleghi, membri dell’associazione de­ gli Scrittori del Mistero. L’indomani, alla proiezione, Irish si fa sosti­ tuire dal suo medico che ci dà brutte notizie, e due settimane più tar­ di, il 25 settembre 1968, Cornell Woolrich muore a New York, sua città natale. Nei ricordi - inediti e secondo le sue volontà destinati a restarlo lasciati alla Columbia University, dove aveva compiuto i suoi studi, Irish confida che si è innamorato solo tre volte, che ogni volta è sta­ to un errore e che, comunque, non ha mai amato nessuna donna quanto la sua macchina da scrivere, una Remington portatile di cui non ha mai dimenticato il numero di matricola: nc 69411. (Prefazione al volume di racconti: William Irish, La Toile d’araignée, Éditions Belfond, Parigi 1980)

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A PROPOSITO DI LA MIA VITA, I MIEI FILM DI JEAN RENOIR

«Siamo qui per cacciare, buon Dio dei boschi, non per scrivere le nostre memorie». Tutti gli ammiratori di Jean Renoir conoscono e sanno riconoscere questa battuta della Regola del gioco-, ma tutti nondimeno si precipiteranno sulla sua autobiografìa: La mia vita, i miei film, nella quale troveranno le risposte a domande mai formu­ late: qual è stata l’influenza di Auguste Renoir sul figlio Jean, com’è passato dalla ceramica al cinema, com’è finito il suo rapporto con Catherine Hessling, quali sono stati i suoi legami con il Fronte Po­ polare, come ha vissuto l’enorme successo della Grande illusione e, poco dopo, il fallimento commerciale della Regola del gioco, perché è partito per Hollywood nel 1940 ed è rientrato in Francia solo nel 1954, con French Cancan? Nel 1969, Jean Renoir ha girato da noi, in coproduzione con I’ortf [Office de la Radio-Télévision Fran^aise, ente radiotelevisi­ vo francese], il suo ultimo film, Il teatro di Jean Renoir - che non è mai stato proiettato nelle sale cinematografiche francesi, e che inve­ ce anche in questo momento sta ottenendo un grande successo a I ’57 I

New York - poi è tomato a vivere a Los Angeles, nella sua casa di Beverly Hills che ha fatto costruire trentanni fa e di cui aveva dise­ gnato lui stesso il progetto. Poiché il suo attuale stato di salute non gli permette di dirigere un film, Renoir ha ripreso il suo lavoro di scrittore; conosciamo già il suo romanzo // diario del capitano Georges (Gallimard), il libro su suo padre Renoir * (Hachette), il te­ sto teatrale Orvet (Gallimard) e la raccolta dei suoi scritti (Belfond). La mia vita, i miei film, che esce questa settimana presso Flammarion, mantiene le promesse globali e quantitative del titolo: Jean Re­ noir descrive infatti stupendamente la sua infanzia, la sua attività di giovane modello presso il padre, l’educazione ricevuta da Gabrielle, la scoperta del teatro delle marionette e poi quella del melodramma in Boulevard du Crime, il matrimonio con Catherine Hessling, la ri­ velazione del cinema attraverso Charlie Chaplin, e naturalmente la sua attività di regista: quarantacinque anni di lavoro, nove film mu­ ti, ventisette film parlati, i più celebri dei quali sono La cagna, Boudu salvato dalle acque, Toni, La scampagnata, La Marsigliese, L'an­ gelo del male, La grande illusione, La regola del gioco, L'uomo del sud, Il fiume, La carrozza d'oro, French Cancan, Le strane licenze del caporale Dupont; di tutti questi film ci racconta l’ideazione e la realizzazione, insistendo utilmente sulle difficoltà che ha incontrato per farne accettare i principi:

I miei gusti e le mie idee erano e sono tuttora Topposto dei gusti e del­ le idee di quelli che dettano legge in questa professione |...|. Non sono capace di vendere nulla, ma nel cinema bisogna vendere. Se anche è vero che Jean Renoir non è un buon venditore, ha co­ munque dimostrato qualità da lottatore, riuscendo per esempio a imporre Michel Simon come divo fin dagli inizi del sonoro, girando vent’anni prima del neorealismo il fatto di cronaca di Toni con at­ tori sconosciuti nei luoghi stessi dove si era svolto, scrivendo con La 3. Traduzione italiana Renoir, mio padre, Garzanti, Milano 1963. [n.d.t.j

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regola del gioco la sceneggiatura più acuta e più ricca del cinema an­ teguerra:

Per tutta la vita ho cercato di fare dei film d’autore. Non per vanità ma perché Dio mi ha gratificato del desiderio di definire la mia identità e di esporla davanti a un pubblico grande o piccolo, brillante o penoso, entusiasta o sprezzante. La vita di Jean Renoir non è costellata solo di titoli di film, ma an­ che di incontri: «Catalogo la mia vita in base agli amici. Ogni pe­ riodo della mia esistenza è stato dominato dalla figura di un amico»; e la verità di questa confidenza è illustrata dalle splendide descrizio­ ni di Jacques Becker, Pierre Braunberger, Marcel Pagnol, Jean Gi­ raudoux, Louis Jouvet, Pierre Renoir, Jean Gabin, Erich von Stroheim, Raimu, la famiglia Cézanne, Saint-Exupery, Leslie Caron e anche di Charlie Chaplin, che finalmente incontrò a Hollywood dopo venticinque anni di ammirazione. Questo libro, la cui efficacia espressiva è costante, combina ar­ moniosamente l’aspetto molto studiato dei memorialisti dell’Ottocento con la libertà di tono di un Henry Miller. È pieno allo stesso tempo di nobiltà e di buffoneria, di delicatezza e di franchezza. Il ricchissimo capitolo sull’india, dove Renoir ha girato II fiume, è am­ mirevole per la qualità delle riflessioni generali e degli aneddoti; se ne ricava l’impressione che la sua vita sia divisa in prima dell’india e dopo l’india, ma Renoir, che aveva intitolato il suo primo film La ragazza dell'acqua, non era poi tanto spaesato in riva al Gange:

Non concepisco il cinema senza l’acqua. Nel movimento del film c’è un aspetto ineluttabile che lo rende simile alla corrente dei ruscelli e al­ lo scorrere dei fiumi. Sia che si tratti di costruire storie eliminando l’aspetto teorico del­ l’idea iniziale, sia che si tratti di guidare degli attori che devono es­ sere portati a scoprire se stessi, o di lavorare come regista voltando le spalle ai cliché, tutti gli interrogativi di Jean Renoir, tutti i suoi I «59 I

sforzi girano attorno a due grandi punti fissi: «il grosso problema della verità interiore e delle verità esteriori» e anche «la certezza che il mondo è uno solo». Per Jean Renoir, che compirà ottant’anni il prossimo settembre, l’ora della diplomazia è passata. Così, senza abbandonarsi ad attac­ chi personali - non sarebbe da lui - adotta per tutto il libro un tono che non è quello delle interviste cortesi che di solito si fanno quan­ do sta per uscire un film: «Il pubblico è atterrito dalla novità. Biso­ gna fargliela inghiottire con precauzione e dissimularla sotto la ma­ schera della banalità», o ancora: «Purtroppo la natura mi ha fatto fifone», e poi, da qualche parte, questa frase: «La vita è un tessuto di delusioni». Ma dietro queste confidenze, queste confessioni, que­ sti ritratti, c’è, intatto, l’amore per il cinema; questo amore profon­ do e anche l’interesse per il cinema altrui portano Renoir a visiona­ re in casa le copie in 16 mm dei film di Peter Bogdanovich e di Eric Rohmer; il grande entusiasmo che gli ha fatto cambiare vita cinquant’anni fa, nel 192.4, non si è mai smentito: Il cinema mi ha dato molte delusioni, molti disinganni, ma le gioie che gli devo superano ampiamente i dolori. Se dovessi ricominciare, farei ancora del cinema. (Da Pa ri scope, g/wgno 1974)

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JEAN RENOIR: OTTANTANNI DI STUPORI

Contrariamente ad Abel Gance e a Carl Dreyer, suoi contempora­ nei, Jean Renoir non era ancora un grande regista prima dell’inven­ zione del sonoro. Nana, La piccola fiammiferaia, Lo scansafatiche sono dei buoni film muti, ma Jean Renoir aveva bisogno delle paro­ le per farsi capire bene e darci, a partire dal 1931-32, dei film magi­ strali come La cagna e Boudu salvato dalle acque. Nel periodo in cui i produttori gli davano fiducia, Renoir girò sce­ neggiature originali come Toni, La Marsigliese, La grande illusione, riuscendo a esprimersi in maniera compieta come se fosse stato uno scrittore. Non a caso La regola del gioco ha suscitato il maggior nu­ mero di vocazioni alla regia in giovani che avevano inizialmente pensato di esprimersi attraverso il romanzo. Oggi che la regia gli è proibita a causa del suo stato di salute, Jean Renoir, che non potrebbe restare neanche un giorno senza creare, si è rifugiato nella scrittura. Il caso vuole che la continuazione letteraria della carriera cinema­ tografica più francese mai esistita trovi il suo posto a Hollywood, I 161 |

paragonata da Thomas Mann a «una città di panettieri dove si pro­ duce solo pane». Jean e Dido Renoir abitano a Beverly Hills, in cima a una stradi­ na, Leona Drive, non lontano da Benedict Canyon, un’importante arteria attraversata mattina e sera dai pendolari che abitano nella valle e che lavorano a Los Angeles. Quasi tutte le case di Los Angeles sono costruite in legno, Jean Renoir ha voluto che la sua fosse di mattoni. Ne ha disegnato lui stesso il progetto, trent’anni fa, prima di partire per l’india per gira­ re Il fiume. Costruita su un unico livello, ha una vista panoramica sulla città. Due caratteristiche singolari per una casa di Los Angeles: niente porte a separare le stanze, e niente aria condizionata, perché il fresco è assicurato da ampi pannelli di vetro scorrevoli. Nel giardino, piccolo e molto ripido, gli ulivi piantati vent’anni fa hanno raggiunto l’altezza di quelli che si possono vedere attorno al­ le «Colettes», la casa di famiglia dei Renoir, a Cagnes-sur-Mer. Ogni mattina Dido si sveglia nel momento in cui il fattorino lan­ cia sugli scalini d’ingresso il Los Angeles Times, che la informa im­ mediatamente sul tempo da cani che c’è a Parigi. Quando si sveglia il marito, Dido va a leggergli le notizie principali in attesa dell’arri­ vo di uno dei tre studenti infermieri che si alternano per massaggia­ re la gamba malandata di Jean Renoir, una ferita di guerra mai gua­ rita dal 1916 e responsabile della famosa camminata da orso di Oc­ tave, personaggio della Regola del gioco. Poi Jean Renoir sbriga la posta, attività che consiste nel rifiutare il più cortesemente possibile di presiedere questa o quella giuria, di autenticare un quadro di suo padre, o di andare a tenere una confe­ renza da qualche parte. Quanto alla corrispondenza personale, è ovvio che, arrivati a ottantatré anni, essa contenga, come i telegiornali, tutto un elenco di notizie lugubri. Visconti, Rossellini, Langlois, Prévert, Chaplin era­ no amici di Renoir, compagni in questo o quel momento della vita... Più tardi, Jean Renoir si dedica finalmente a quello che più lo ap­ passiona da quando ha suppergiù rinunciato al cinema: la scrittu­ I 162 ]

ra... Alla biografìa Renoir, mio padre, best seller in America, insab­ biato da Hachette in Francia, è seguito un primo romanzo, Il diario dei capitano Georges (Gallimard), poi un libro di ricordi, La mia vi­ ta, i miei film (Flammarion), quindi il secondo romanzo Le Coeurà Raise, e ne ha quasi terminato un terzo, intitolato Assassinai. Ciò che mi ha colpito in Le Coeur à Raise è quello che definirei uno straordinario disinteresse, nel senso in cui di una persona gene­ rosa si dice che è disinteressata. Paragonando questo romanzo alle diverse letture fatte nella stessa settimana o nello stesso mese, si ri­ cava l’impressione che gli altri scrittori vogliano convincerci, per­ suaderci, condurci da qualche parte, influenzarci, oppure, più sem­ plicemente, che vogliano giustificarsi, innalzarsi, farsi amare, crea­ re un’immagine di se stessi. Il libro di Jean Renoir è esattamente il contrario: è pieno di una folla di personaggi né buoni né cattivi, di una quantità di dettagli veri che non sembrano aver legami fra di lo­ ro né soprattutto un significato preciso, e anche di una marea di idee generali che non temono di contraddirsi da una pagina all’altra. L’insieme trova infine una sua coerenza e una sua ragion d’essere nella straordinaria impressione di vita che se ne sprigiona. Se dovessi descrivere quest’opera in poche parole, direi che è l’e­ numerazione degli stupori vissuti da Jean Renoir in quarant’anni. Quelli che conoscono il suo lavoro lo sanno: non c’è film di Jean Renoir senza una canzone. Ora, se si guarda più da vicino, ci si ac­ corge che le canzoni dei film di Renoir accompagnano quasi sempre le scene di morte, come per autenticarle, come per farne accettare l’aspetto violento. Il regista scrupoloso esita a girare scene violente, il regista timo­ rato le evita, il regista smodato ci sguazza e gli toglie qualsiasi verità, il regista ispirato - ad esempio Jean Renoir - le impone nella loro forza e allo stesso tempo nella loro plausibilità, offrendogli il mi­ glior contrappunto possibile, una canzonetta popolare. Niente di strano quindi se il nuovo romanzo di Jean Renoir, Le Coeur a Raise, descrive la storia di una vita moltiplicando i riferimenti e le allusio­ ni alle canzoni. I 1631

Le Coeur à l’aise è un bel titolo alla Radiguet ma gli ammiratori della Regola del gioco riusciranno facilmente a ritrovarne l’origine: Gais et contents Nous allions à Longchamp Le coeur à l’ai-ai-aise../

11 sottotitolo del romanzo, Amis, je viens d’avoir centans, è anche il primo verso di una canzone intitolata «Le Pére la Victoire», e qui siamo in pieno doppio senso perché, in questa canzone del 1900, si parla del cambiamento di secolo: « Amis, je viens d’avoir cent ans... Ma carrière est finie...»’ Naturalmente mi diverte l’idea che certi lettori compreranno Le Coeur à l'aise pensando, nel vedere la fascia rossa che avvolge il li­ bro, che Jean Renoir sia centenario! Ebbene no, cari amici, ha ap­ pena compiuto ottantatré anni, è abbastanza per giustificare l’im­ pressione di aver visto nascere il secolo e di parlarne, un po’ dal di dentro e un po’ dal di fuori, grazie a un libro in cui alcuni vedranno una confessione mascherata da romanzo, ma che in realtà si presen­ ta come un romanzo che ha adottato la forma di confessione. Un uomo, Clément Bourdeau, che ha avuto la tentazione di di­ ventare attore ma ha dovuto accontentarsi di gestire l’azienda fami­ liare dei Carburateurs Aurore, ci racconta la storia della sua vita, che si confonde con quella del nostro secolo, «in cui l’uomo si è di­ stinto per l’incapacità di dirigere i suoi sforzi verso ciò che non è ma­ terialmente utile». Attraverso mille dettagli bizzarri e cinquecento discorsi parados­ sali, ritroviamo dunque il Renoir che era tornato dall’india con la convinzione che il mondo è solo uno, che non ci sono cose grandi e cose piccole e che tutto ha la stessa importanza. Il nonno di Clément Bourdeau, il narratore, afferma che le donne 4. «Allegri e contenti / Andavamo a Longchamp / A cuor leggero...» [n.d.t.}

5. «Amici, ho compiuto cent’anni... La mia carriera è finita...» In.d.t.}

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sono diventate più belle dopo l’invenzione del cibo in scatola, che gli ha permesso di dedicare più tempo alle cure di bellezza. La madre del narratore vuole regalare una pelliccia a un mendicante che la ri­ fiuta perché ha orrore dei vestiti marroni. Qui, naturalmente, tutti penseranno a Boudu... Uno dei personaggi più appassionanti di Le Coeur à l’aise è Jacques Lhomme, l’amico di scuola. La frase che hanno recitato in classe li accompagnerà per tutta la vita e gli servirà da segnale di ri­ conoscimento: «Gli Unni erano barbari che venivano dal cuore del­ l’Asia». Solenne e definitiva, questa frase diventerà la parola d’ordi­ ne dell’amicizia. Molte donne, c’era da scommetterci, costellano il percorso di Clément Bourdeau; spesso i pensieri del narratore lo riportano ver­ so una di loro, una lontana cugina di suo padre la cui presenza lo turba al punto che non riesce mai a progredire nei suoi rapporti con lei; e Ginette Auribeau, la donna che non si è riusciti a stringere tra le braccia, la graziosa bagnante che il narratore rende indimentica­ bile con questa frase semplice eppure tanto visiva: «Ginette Auri­ beau mi guardava sistemandosi i capelli dentro la cuffia di gomma». Un’altra donna dal «tragitto» inaspettato: Bianche Fauchois, bella, colta, appassionata di matematica e sonnambula. Morirà l’n no­ vembre 1918, quando le trombe dell’armistizio, suonando la «Mar­ sigliese», provocheranno il suo risveglio e la sua caduta dal tetto di casa ai piedi della tribuna municipale. Descritta questa scena, Clément Bourdeau la fa proseguire e con­ cludere come farebbe Jean Renoir dietro una macchina da presa: «Il sindaco si scoprì il capo e con la sua bella voce da oratore si rivolse alla folla: “Salutiamo, signore e signori, salutiamo la prima vittima della pace”. Io svenni». Questo svenimento è significativo perché la confessione della paura - confessione non è la parola giusta, è piuttosto una consta­ tazione - percorre tutto il romanzo. È la paura che ha impedito a Clément Bourdeau di dichiararsi a Ginette Auribeau pur avendo delle ottime chance. Si vede chiaramente che questa paura di Clél 165 |

Le Coeur à l’aise è un bel titolo alla Radiguet ma gli ammiratori della Regola del gioco riusciranno facilmente a ritrovarne l’origine:

Gais et contents Nous allions à Longchamp Le coeur à l’ai-ai-aise...45 Il sottotitolo del romanzo, Amis, je viens d’avoir centans, è anche il primo verso di una canzone intitolata «Le Pére la Victoire», e qui siamo in pieno doppio senso perché, in questa canzone del 1900, si parla del cambiamento di secolo: « Amis, je viens d’avoir cent ans... Ma carrière est finie...»’ Naturalmente mi diverte l’idea che certi lettori compreranno Le Coeur à l’aise pensando, nel vedere la fascia rossa che avvolge il li­ bro, che Jean Renoir sia centenario! Ebbene no, cari amici, ha ap­ pena compiuto ottantatré anni, è abbastanza per giustificare l’im­ pressione di aver visto nascere il secolo e di parlarne, un po’ dal di dentro e un po’ dal di fuori, grazie a un libro in cui alcuni vedranno una confessione mascherata da romanzo, ma che in realtà si presen­ ta come un romanzo che ha adottato la forma di confessione. Un uomo, Clément Bourdeau, che ha avuto la tentazione di di­ ventare attore ma ha dovuto accontentarsi di gestire l’azienda fami­ liare dei Carburateurs Aurore, ci racconta la storia della sua vita, che si confonde con quella del nostro secolo, «in cui l’uomo si è di­ stinto per l’incapacità di dirigere i suoi sforzi verso ciò che non è ma­ terialmente utile». Attraverso mille dettagli bizzarri e cinquecento discorsi parados­ sali, ritroviamo dunque il Renoir che era tornato dall’india con la convinzione che il mondo è solo uno, che non ci sono cose grandi e cose piccole e che tutto ha la stessa importanza. Il nonno di Clément Bourdeau, il narratore, afferma che le donne 4. * Allegri e contenti / Andavamo a Longchamp / A cuor leggero...» In.d.t.J

5. «Amici, ho compiuto cent’anni... La mia carriera è finita...» jn.d.t.l

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sono diventate più belle dopo l’invenzione del cibo in scatola, che gli ha permesso di dedicare più tempo alle cure di bellezza. La madre del narratore vuole regalare una pelliccia a un mendicante che la ri­ fiuta perché ha orrore dei vestiti marroni. Qui, naturalmente, tutti penseranno a Boudu... Uno dei personaggi più appassionanti di Le Coeur à l’aise è Jacques Lhomme, l’amico di scuola. La frase che hanno recitato in classe li accompagnerà per tutta la vita e gli servirà da segnale di ri­ conoscimento: «Gli Unni erano barbari che venivano dal cuore del­ l’Asia». Solenne e definitiva, questa frase diventerà la parola d’ordi­ ne dell’amicizia. Molte donne, c’era da scommetterci, costellano il percorso di Clément Bourdeau; spesso i pensieri del narratore lo riportano ver­ so una di loro, una lontana cugina di suo padre la cui presenza lo turba al punto che non riesce mai a progredire nei suoi rapporti con lei; e Ginette Auribeau, la donna che non si è riusciti a stringere tra le braccia, la graziosa bagnante che il narratore rende indimentica­ bile con questa frase semplice eppure tanto visiva: «Ginette Auri­ beau mi guardava sistemandosi i capelli dentro la cuffia di gomma». Un’altra donna dal «tragitto» inaspettato: Bianche Fauchois, bella, colta, appassionata di matematica e sonnambula. Morirà Pii no­ vembre 1918, quando le trombe dell’armistizio, suonando la «Mar­ sigliese», provocheranno il suo risveglio e la sua caduta dal tetto di casa ai piedi della tribuna municipale. Descritta questa scena, Clément Bourdeau la fa proseguire e con­ cludere come farebbe Jean Renoir dietro una macchina da presa: «11 sindaco si scoprì il capo e con la sua bella voce da oratore si rivolse alla folla: “Salutiamo, signore e signori, salutiamo la prima vittima della pace”. Io svenni». Questo svenimento è significativo perché la confessione della paura - confessione non è la parola giusta, è piuttosto una consta­ tazione - percorre tutto il romanzo. È la paura che ha impedito a Clément Bourdeau di dichiararsi a Ginette Auribeau pur avendo delle ottime chance. Si vede chiaramente che questa paura di CléI 165 I

ment Bourdeau è sempre legata a ciò che ama, i cavalli, le macchine, il mestiere di attore, e naturalmente le relazioni amorose. Anche nel capitolo amore, Clément Bourdeau, con la sua lucidità mista a in­ nocenza, la sua franchezza e la sua perenne buona fede, non po­ trebbe essere sospettato di millanteria:

In fondo a me stesso scoprii la più spregevole ipocrisia. Dopotutto Marianne aveva forse le sue buone ragioni per ingannarmi. Forse ero un amante penoso. Queste riflessioni non mi impedivano di godermi quella magnifica giornata. La primavera... Verso la fine del romanzo, il labadens * detentore della parola d’ordine («Gli Unni erano barbari che venivano dal cuore dell’A­ sia»), telefona a Clément Bourdeau prima di morire: «La nostra conversazione s’interrompe. La continueremo nell’altro mondo». Dopo la morte del compagno, il narratore si interroga sulle foglie morte, sul ritorno alla solitudine e sulla vecchiaia che arriva con passo felpato:

La vita non è una scala, ma una scala mobile [...]. Le reazioni di un uo­ mo di ottant’anni non sono quelle dello stesso uomo a ottantanni e qualche minuto |...|. Ci aggrappiamo a ciò che crediamo eterno, certo con la speranza di diventare eterni anche noi. Ma non c’è niente da fa­ re: le arterie si induriscono, le pietre del Partenone si sgretolano, la pellicola su cui è impressa La corazzata Potemkin si corrode. La fede nella verità evidente della progressione del tempo può evitarci di fare molte sciocchezze.

Seguono poi venti pagine stupende, straordinarie ma sconvolgen­ ti, sull’intorpidimento, sui risvegli allucinati, sulle sensazioni che precedono l’approssimarsi della morte come la sta vivendo il narra­ tore, e infine quest’ultima dichiarazione: 6. Ossia il vecchio compagno di classe. La parola deriva dal nome della pensione Labadens di cui si parla in Le Crime de la Rite de Laureine di La biche.

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Credo che il riassunto del mio sogno possa essere utile agli innamora­ ti indecisi ancora numerosi ai nostri tempi. La signora Auribeau mi aspetta. Non ho più paura di nessuno, neanche di lei.

Non sono un critico letterario ma un appassionato di libri, e pos­ so soltanto dirvi che Le Coeurà l'aise è la lettura che mi ha dato più emozione e più piacere da molto tempo a questa parte - per essere precisi, da Dimanche m'attend di Audiberti. Ho iniziato questo articolo descrivendo una mattinata di Jean Renoir a Hollywood. L’attività di scrittore gli fa passare delle belle ore piacevoli ma non gli fa certo dimenticare il cinema. Dopo le tre o quattro ore dedicate al libro in corso, nel tardo pomeriggio c’è la visita degli amici, americani o francesi di passaggio, e poi la cena al tramonto come in campagna. Nel salotto di casa Renoir, in una nic­ chia ricavata nel soffitto, c’è uno schermo avvolgibile. Sul muro di fronte, un pannello si solleva e fa passare il fascio luminoso di un vecchio proiettore a 16 mm dell’esercito americano. A quel punto i Renoir e gli invitati possono guardare un film, magari di Jean Re­ noir (quelli che ha girato con Gabin sono i suoi preferiti), o qualsia­ si altro film di cui un amico fedele abbia portato una copia: Femmi­ ne folli di Stroheim, Falstaff di Orson Welles, Amarcord di Fellini. Jean Renoir guarda sempre con la stessa generosità i film degli al­ tri ma io credo che dentro di sé, di fronte alla diversità e all’audacia delle produzioni attuali, si dice che gli sarebbe meno diffìcile oggi far accettare le sue idee e i suoi progetti, molti dei quali furono ab­ bandonati a un terzo del cammino. Il pensiero che forse non girerà più film talvolta lo tormenta, per­ ché ha l’impressione che avrebbe potuto fare meglio e di più, ma noi, che conosciamo i suoi film a memoria e che lo amiamo, sappia­ mo che ha fatto di più e meglio. (Da Le Nouvel Observateur, 4 marzo 1978)

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HENRI-PIERRE ROCHÉ RIVISITATO

È stato nel 1955 che ho scoperto il romanzo di Henri-Pierre Roché, Jules e Jimy tra altri libri d’occasione in mostra nella libreria Stock di Place du Palais-Royal. Il libro era uscito due anni prima, ma era passato inosservato; la critica non era stata né buona né cattiva, praticamente non era ap­ parsa nessuna recensione, come spesso succede quando il nome del­ l’autore è sconosciuto. Ciò che attirò la mia attenzione fu il titolo: Jules e Jitn\ Fui subito sedotto dalla sonorità di quelle due J. Poi, gi­ rando il volume per leggere sulla quarta di copertina la nota biogra­ fica, vidi che l’autore, Henri-Pierre Roché, era nato nel 1879 e che Jules e Jim era il suo primo romanzo. Ma allora, pensai, questo scrittore esordiente ha adesso settantasei anni! Come può essere un primo romanzo scritto da un settantenne? Fin dalle prime righe mi innamorai della prosa di Henri-Pierre Roché. A quell’epoca il mio scrittore preferito era Jean Cocteau, per la rapidità delle frasi, la loro apparente secchezza e la precisione del­ le immagini. Con Henri-Pierre Roché scoprivo uno scrittore che mi

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sembrava più forte di Cocteau, perché otteneva lo stesso tipo di pro­ sa poetica utilizzando un vocabolario meno ampio e formando fra­ si ultrabrevi fatte di parole di tutti i giorni. Attraverso lo stile di Ro­ ché, l’emozione nasce dal buco, dal vuoto, da tutte le parole negate, dalla stessa ellissi. Più tardi, esaminando le pagine manoscritte di Henri-Pierre Roché, vidi che il suo stile, falsamente naif, emergeva dall’enorme percentuale di parole e frasi cancellate; di un’intera pa­ gina, ricoperta dalla sua rotonda scrittura da scolaro, alla fine la­ sciava solo sette o otto frasi, anche queste cancellate per due terzi. Jules e Jim è un romanzo d’amore in stile telegrafico, scritto da un poeta che si sforza di far dimenticare la sua cultura e che allinea le parole e i pensieri come farebbe un contadino laconico e concreto. Come potete immaginare, il mio entusiasmo per Jules e Jim si estese ai personaggi e alle loro avventure. Non vivevo che per il ci­ nema e ai libri preferivo i film, che vedevo a un ritmo da sedici a ven­ ti alla settimana. Come critico cinematografico del settimanale Arts-Spectacles, avevo la fortuna di poter vivere la mia passione. Leggendo Jules e Jim ebbi la sensazione di trovarmi di fronte un esempio di ciò che il cinema non riusciva mai a fare: mostrare due uomini che amano la stessa donna senza che il «pubblico» possa fa­ re una scelta affettiva tra questi personaggi, tanto si trova costretto ad amarli tutti e tre nella stessa misura. Ecco l’elemento antiseletti­ vo che mi toccò di più in questa storia, che l’editore presentava co­ sì: «Un amore puro a tre». Qualche mese dopo, visionando un film americano che mi aveva entusiasmato, un western intimista, Fratelli messicani di Edgar Ul­ mer, i pensieri mi riportarono a Jules e Jim, e nella recensione che fe­ ci di questo western scrissi:

Uno dei più bei romanzi moderni che conosco è Jules e Jim di HenriPierre Roché, che ci mostra due amici e la loro comune compagna amarsi per tutta la vita di un amore tenero e quasi senza contrasti, gra­ zie a una morale estetica e nuova incessantemente rimessa in discus­ sione. Fratelli messicani è il primo film a darmi l’impressione che un Jules e Jim cinematografico sia possibile. I 169 I

La settimana seguente ricevetti questa lettera:

Caro Francois Truffaut, sono rimasto colpito dalle sue poche parole su Jules e Jim in Arts, in particolare da: «...grazie a una morale esteti­ ca e nuova incessantemente rimessa in discussione». Spero che questa morale la ritroverà, ancora di più, in Deux anglaises et le continent, che le spedirò. Henri-Pierre Roche. Risposi a Henri-Pierre Roché e portammo avanti una corrispon­ denza abbastanza regolare fino alla sua morte, cioè per tre anni. An­ dai a trovarlo due o tre volte a casa sua, a Meudon. La ferrovia co­ steggiava il limitare del suo giardino. Era molto alto e magro, aveva la stessa dolcezza dei suoi personaggi e assomigliava molto a Mar­ cel Duchamp, di cui parlava in continuazione. La grande passione di Henri-Pierre Roché era stata la pittura. Aveva conosciuto Derain, Picabia, il Doganiere Rousseau, Max Ernst, Braque (con quest’ulti­ mo aveva lottato in un match di boxe), era stato l’amante di Marie Laurencin, aveva fatto conoscere Picasso agli americani, qua­ rantanni più tardi, aveva scoperto Wols e, per tutta la vita, aveva ammirato Marcel Duchamp, che diventò del resto il protagonista del suo terzo romanzo, Victor (incompiuto ma pubblicato nel 1977 dal Centre National d’Art e de Culture «Georges Pompidou»).

Ritorniamo al 1956. In una delle mie prime lettere, dissi a Roché che, se un giorno avessi potuto fare del cinema, mi sarebbe piaciuto girare Jules e Jim. Questa idea gli piacque. Decidemmo che, venuto il momento, io avrei deciso la struttura della sceneggiatura mentre lui stesso avrebbe scritto i dialoghi che prevedeva, con le sue stesse parole, «radi e serrati». Il 23 novembre 1956 mi scrisse: Ha letto Mon amantse marie di Thora Dordel? È magnifico, forse in­ trovabile. Potrei prestarglielo. Ho tradotto, con un russo, attorno al 1905, lo Zio Vanja di Cechov. Troppo presto. Nessuno allora ha vo­ luto saperne. Idem, attorno al 1906, per Girotondo di Schnitzler.

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Nel dicembre 1957, Henri-Pierre Roché si sposta - aveva allora settantotto anni - per venire a vedere il mio primo cortometraggio, L’età diffìcile, e spontaneamente scrive un articoletto, destinato al giornale Arts, che io non osai far stampare dato che ero critico cine­ matografico di quel giornale! Spiego a Henri-Pierre Roché che il mio desiderio di girare Jules e Jim è sempre assai forte, ma che l’impresa mi appare troppo difficile per un esordiente e che preferisco prima realizzare 1400 colpi. Roché capisce il mio punto di vista, ma il 28 dicembre mi spedisce una lettera che l’egoismo dei miei venticinque anni non mi ha fatto leggere con la giusta attenzione: Sarò contento se ci sarò ancora il giorno in cui comincerà Jules e Jim. Desidero esserle il più vicino possibile. Se lei trova delle ragioni o dei pretesti per vederci, me lo dica.

Credendo di cogliere una parentela tra la saggezza di Roché e l’ampiezza di vedute di Jean Renoir, gli spedisco un numero dei Cahiers du cinéma. Nella sua lettera del 18 marzo 1958, mi scrive: Grazie mille per il suo «Colloquio con Jean Renoir». È per me una ri­ velazione. È così saggio, istruttivo, commovente, avvincente, umano, vero.

Poi mi parla del figlio Jean-Claude, di cui è sempre più fiero: Mio figlio lavora in Camargue. Per i suoi primi provini di film ha avu­ to successo e inviti all’estero, nell’ambiente dei biologi (Jean Rostand, Jean Painlevé) ma anche per la bellezza pura, i colori e l’accuratezza dell’osservazione (riti di accoppiamenti di insetti). Sarebbe felice di mostrarglieli. Roché mi aveva spedito una copia con dedica di Deux anglaises et le continent, dove aveva inserito una frase, che cito a memoria, in cui diceva che se questo secondo romanzo non avesse avuto più suc­ cesso di Jules e Jim lui avrebbe rinunciato alla letteratura. Il 22 ot­ tobre 1958 però mi scrisse: I >71 I

E non mi resta che fare un terzo libro che si imponga! Del resto ho già cominciato e credo che alcuni ritmi le piacerebbero, ma non ho anco­ ra trovato l’unità della scelta.

Si trattava ovviamente del romanzo - intitolato da principio Totor, poi Victor-che ho citato prima. Ed eccoci all’inverno 1958-59. Sto girando 1400 colpi. Per farvi un’apparizione amichevole di un minuto, Jean-Claude Brialy viene in Rue du Faubourg Montmartre, durante una scena notturna, e mi fa la sorpresa di portare con sé Jeanne Moreau, che avevo ammira­ to a teatro nella Gatta sul tetto che scotta. Improvvisiamo dunque una scenetta, girata in fretta a causa del­ la pioggia e del freddo, e, entusiasta dell’attrice, spedisco quattro sue foto a Henri-Pierre Roché, domandandogli un parere. Il 3 apri­ le 1959 mi risponde:

Mio caro giovane amico, ho ricevuto la sua bella lettera! |...| Mille grazie per le foto di Jeanne Moreau. Mi piace. Sono contento che a lei piaccia Kathe. Spero di conoscerla un giorno; venite a trovarmi quan­ do volete, vi aspetto. Ricevo questa lettera il 5 aprile; quattro giorni dopo Henri-Pierre muore, tranquillamente, seduto nel suo letto, mentre gli stanno fa­ cendo la solita banale iniezione quotidiana al braccio.

Finalmente nel 1961 mi decisi a girare Jules e Jim. Lo scrittore che doveva comporre i suoi dialoghi «radi e serrati» non c’era più, ma io e Jean Gruault ci sforzammo di restargli fedeli e, del resto, Jules e Jim è probabilmente l’unico film della Nouvelle Vague ad avere un commento così ampio; letto fuori campo, è quasi interamente trat­ to dal libro. Durante le riprese e il montaggio del film, mi capitava spesso di mettere da parte la sceneggiatura, riaprire il romanzo e annotare questa o quella splendida frase da «salvare assolutamente», cioè da inserire nel commento. I >7* 1

Questa prefazione è destinata a far conoscere meglio l’autore di due meravigliosi romanzi, quindi non entrerò in dettaglio nell’atmosfe­ ra di ansietà e di esaltazione che accompagnò le riprese di Jules e Jim. Dirò solo che tutte le volte che mi sentivo preso dal dubbio Jeanne Moreau mi dava coraggio. Le sue qualità di attrice e di don­ na rendevano Kathe - diventata Catherine - reale sotto i nostri oc­ chi, plausibile, folle, smodata, appassionata, ma soprattutto adora­ bile, cioè degna di adorazione. Per recitare il ruolo di Jules avevo in­ gaggiato l’attore austriaco Oskar Werner: fu eccezionale. L’attore esordiente Henri Serre, alto, magro, dolce e onesto, era Jim. L’ave­ vo scelto per la sua somiglianza con Henri-Pierre Roché. Il film uscì agli inizi del 1962 preceduto dal bel cortometraggio di Jean-Claude Roché Vies d’insectes, che mostrava gli accoppiamen­ ti delle libellule. 11 successo di Jules e Jim fu immediato, e me ne ral­ legrai doppiamente perché finalmente il romanzo, nove anni dopo la sua pubblicazione, diventava un best seller e sarebbe stato presto tradotto in inglese, spagnolo, italiano e tedesco. Io e Jeanne Moreau ricevemmo una considerevole quantità di lette­ re, e non solo dalla Francia. Giovani madri chiamarono i loro neo­ nati Jules, Jim o Catherine. Credo, e pazienza se mi sbaglio, di poter citare a diciotto anni da questi avvenimenti la più importante di queste lettere, quella che ricevetti da una vecchia signora che, sotto il nome di Kathe, era stata la vera protagonista di Jules e Jimy og­ getto del lungo amore comune ai due amici:

Seduta in quella sala oscura, afferrando rassomiglianze nascoste e pa­ ralleli più o meno irritanti, mi sono sentita subito presa e trasportata dal potere magico, suo e di Jeanne Moreau, di resuscitare ciò che era stato vissuto inconsapevolmente. Che Henri-Pierre Roché abbia sa­ puto raccontare la storia di noi tre riuscendo a tenersi molto vicino al­ la reale successione degli avvenimenti, non ha niente di miracoloso. Ma quale disposizione in lei, quale affinità ha potuto illuminarla al I 173 I

punto da rendere sensibile - malgrado modificazioni e compromessi inevitabili - l’essenza delle nostre emozioni intime? Su questo piano, sono il suo unico vero giudice, poiché gli altri due testimoni non sono più qui per dirle il loro «sì».

Guardando il film, Jean Cocteau ritrovò il ricordo di HenriPierre Roché, e mi scrisse: «Ho conosciuto bene l’autore del libro da cui hai tratto il film. Era Panimo più delicato e più nobile al mondo». Avevo dunque l’approvazione della vera Catherine, ma pensavo so­ prattutto al vero Jim. Henri-Pierre non c’era più a raccogliere i frut­ ti del suo albero e questo cominciava a tormentarmi. Avevo la con­ vinzione di essere troppo giovane per fare, con la macchina da pre­ sa, quello che Roché aveva fatto con la sua penna a sfera. Ciò che avevo più ammirato leggendo il libro erano proprio i cinquant’anni di distacco tra gli avvenimenti vissuti e la narrazione fatta dall’au­ tore. Eppure conoscevo un po’ quella sensazione per aver vissuto, da bambino e soprattutto durante l’occupazione tedesca, momenti penosi e oppressivi la cui evocazione, dieci anni dopo, mi faceva sor­ ridere! Quando girai Jules e Jim avevo meno di trent’anni e mi ero sforzato di fare non un «film giovane», ma al contrario un «film da vecchio», e non ero sicuro di esserci riuscito!

Gli anni passavano, i pensieri mi riportavano spesso verso HenriPierre Roché e rileggevo Deux anglaises et le continent almeno una volta all’anno, per mio piacere. L’idea di ricavarne un film non mi veniva in mente, perché non si tratta di un racconto lineare ma di un susseguirsi di elementi letterari presentati come documenti reali: estratti di diari, lettere, monologhi. In parecchi punti Roché divide le pagine in due colonne per confrontare il diario di una delle due so­ relle con quello del protagonista, Claude (che non è altri natural­ mente se non l’autore). Come per Jules e Jim, anche questo materia­ le è autobiografico e Denise Roché mi ha confidato un giorno che la I r74 I

Anne del libro era diventata più tardi decoratrice o costumista per i Balletti Russi di Serge Diaghilev. Se questo romanzo è posteriore a Jules e Jim, l’azione gli è ante­ riore. Claude sta appena uscendo dall’adolescenza, mentre Jim era un uomo in piena maturità. Poiché i protagonisti di Deux anglaises sono più giovani di quelli di Jules e Jim, la loro storia ha un suono più doloroso, più acuto. Il grande distacco nel tempo e nello spazio che rende la narrazione di Jules e Jim sobria e tranquilla non esiste in Deux anglaises, i cui amori sono rivissuti sotto i nostri occhi con uno stile febbrile e straziante. La grande differenza tra i due romanzi è espressa molto bene dal­ lo stesso Henri-Pierre Roché, quando scrive nella sua presentazione di Deux anglaises: «Vi troverà più virtù che in Jules e Jim. I diari so­ no qui di una totale franchezza». Con il tempo arrivai a ritenere Deux anglaises un libro ancora più grande di Jules e Jim, ma continuai a trovarlo inadattabile per­ ché i tre personaggi non sono quasi mai riuniti e le loro emozioni più forti sono comunicate a distanza, attraverso la loro corrispon­ denza. Nel 1971 ebbi il mio primo esaurimento nervoso, un crollo che mi condusse in clinica per una cura del sonno. Mi ero portato dietro un solo libro, Deux anglaises, che prendevo in mano ogni volta che mi svegliavo! Cominciai a fare annotazioni in margine alle pagine, co­ me quando sto per iniziare un adattamento, e, a un certo momento, la decisione fu presa: avrei lasciato quella disgraziata clinica e sarei andato a rinchiudermi per mettermi al lavoro con il mio amico Jean Gruault.

Desideravo fare un film più carnale di Jules e Jim, un film che non mostrasse l’amore fisico, ma che fosse un «film fisico sull’amore». Interpretato da Jean-Pierre Léaud e da due giovani attrici inglesi, Kika Markham e Stacey Tenderer, Deux anglaises et le continent (Le due inglesi) diventò un film, accolto male in Francia, ma la cui I *751

reputazione, credo, è migliorata con gli anni. Ho comunque l’im­ pressione di aver imparato, girandolo, molte cose sulla vita, sull’a­ more, sulla violenza dei sentimenti e sulla crudeltà delle ferite che si possono infliggere senza volere alle persone che si amano.

Quando Henri-Pierre Roché morì, il 9 aprile 1959, pochissimi gior­ nali ne segnalarono la scomparsa, e generalmente in poche righe, perché quest’uomo straordinario non fu mai celebre. Ma molto di recente Georges Auric gli ha dedicato un capitolo nel suo libro Quand j'étais là... e questo capitolo si intitola «La vie obscure de Henri-Pierre Roché». Morto suo padre ancora molto giovane, Henri-Pierre Roché fu allevato dalla madre con un misto di autorità e di passione. Entrò al­ l’istituto di Scienze Politiche ma siccome la pittura lo attirava più della carriera amministrativa, studiò disegno all’Accademia Jullian, poi rinunciò perché non si riteneva sufficientemente dotato. Iniziò a collezionare quadri e tradusse poesie cinesi che Georges Auric, Al­ bert Roussel e Fred Barlow misero in musica. Roché è rimasto per tutta la vita un dilettante perché alla propria opera ha sempre pre­ ferito quella degli altri, e ha applicato alla lettera il consiglio che gli aveva dato Albert Sorel, suo professore all’istituto di Scienze Politi­ che, e che si trova trascritto, tale quale, in Jules e Jim’.

«Che cosa vuole fare?» «Il diplomatico». «Possiede un grande patrimonio?» «No». «Può, con una qualche apparenza di legittimità, aggiungere al suo pa­ tronimico un nome celebre o illustre?» «No». «Ebbene, rinunci alla diplomazia». «Ma allora, che cosa devo fare?» «Il curioso». «Non è un mestiere». «Non è ancora un mestiere. Lo sarà presto. L’avvenire è del curioso di professione. 1 francesi sono rimasti per troppo tempo rinchiusi dentro I '76 1

le loro frontiere. Devono viaggiare. Lei troverà sempre qualche gior­ nale che le pagherà le sue scappatelle».

Fu durante un viaggio in Germania, probabilmente verso il 1907, che Roché incontrò lo scrittore ebreo Frantz Hessel, divenuto suo amico e che sarà più tardi il Jules di Jules e Jim. Altre amicizie o autori germanici ammirati da Roché, che parla e scrive il tedesco correntemente: Peter Altenberg, Keyserling, Arthur Schnitzler. Il fatto più spesso citato a proposito di Roché e considerato come una prodezza, forse soprattutto da lui stesso, è quello di aver orga­ nizzato 1’incontro tra Gertrude Stein e Picasso, probabilmente ver­ so il 1910. Nello stesso periodo diventa consigliere e compratore di un collezionista americano, John Quinn, collaborazione e amicizia che proseguiranno fino alla morte di Quinn, nel 192.5. Dichiarato inabile al momento della mobilitazione del 1914, Ro­ ché è vittima di una denuncia anonima. Sospettato di spionaggio per conto della Germania - semplicemente perché da anni riceve moltissima corrispondenza da oltre Reno - è arrestato e rinchiuso per due settimane nel carcere mandamentale. Da questa avventura ricaverà un libro, un volumetto di cinquanta pagine che rivela già il suo stile vivace e allegro: Deux semaines à la Conciergerie pendant la baiatile de la Marne (Attinger Frères Editeurs, Parigi 1916). Ma ho [’impressione che sia nella natura di Roché dissimulare le grandi emozioni e che quella ingiustizia non sia estranea alla sua partenza quasi immediata per gli Stati Uniti, grazie a una missione presso l’Alto Commissariato francese a Washington. A New York ritrova l’amico Marcel Duchamp, occupato a lavorare alla sua ope­ ra principale: La Mariée mise à nu par ses célibataires ménte. In quel periodo della prima guerra mondiale, New York è piena di artisti rifugiati che sconvolgono l’ambiente artistico della città e stu­ piscono per la loro disinvoltura. Francis Picabia è uno di questi, as­ sieme alla moglie, la musicista Gabrielle Buffet, a Edgar Varese e al­ I 177 I

lo stravagante poeta-pugile Arthur Cravan, forse imparentato con Oscar Wilde, misteriosamente scomparso in Messico dopo il 1918. Dopo la morte di John Quinn, Roché continua la sua missione di scopritore e acquirente di quadri, ma questa volta per conto di un personaggio leggendario, il rajah d’Indore, il che lo porta a viag­ giare spesso e per lunghi periodi in India. Nel 1920, sotto l’influen­ za di Jules Laforgue, di cui ha sempre ammirato le Moralità leg­ gendarie, Henri-Pierre Roché pubblica il suo secondo libro, Don Juan, nelle Éditions de la Sirène, presso cui Cocteau, lo stesso anno, pubblica La Noce massacrée. Don Juan si presenta come una rac­ colta di ventotto racconti brevi che costituiscono delle varianti sul tema della seduzione (Don Juan et la voyageuse, Don Juan et Deni­ se, Don Juan et la baronne e via dicendo). Alla vigilia della sua pub­ blicazione, Roché si scontra con l’ostilità della madre e decide, per riguardo verso di lei, di far uscire quest’opera sotto lo pseudonimo di Jean Roc.

La seconda guerra mondiale e l’occupazione della Francia da parte dell’esercito tedesco costringeranno Roché a mettersi tranquillo. Si sposa, ha un figlio, Jean-Claude, e diventa professore di francese, di disegno, di scacchi e di ginnastica nella Dròme, dato che ha com­ prato una casa a Dieulefit. Forse a quell’epoca inizia la stesura di Ju­ les e Jim, che sarà pubblicato solo nel 1953. Dopo la guerra, Roché pubblica articoli sulla pittura e recensioni di mostre. La gloria di Pi­ casso e di Duchamp è allo zenit, e spesso viene chiesto a Roché di portare la sua testimonianza sulla pittura francese dagli inizi del se­ colo in poi. Ciò che scrive dell’amico Marcel Duchamp potrebbe essere ap­ plicato anche a lui: «La sua opera più bella è l’uso che fa del suo tempo». In effetti, Henri-Pierre Roché ha dedicato la sua vita alle donne. Per non addolorare la madre, che lo amava di un amore esclusivo, è rimasto celibe per molto tempo. Viveva solo, ma man­ teneva costantemente a portata di cuore e di corpo tre amanti rego­ lari alle quali si aggiungevano le conquiste passeggere, quasi quoti­ I 178 I

diane. Di questa vita amorosa ha fatto un’opera, poiché dal 1905 fi­ no alla morte, dunque per più di cinquant’anni, ha tenuto un dia­ rio, quotidiano e metodico, che è la contabilità delle sue avventure, arrivando talvolta a scrivere delle pagine in inglese o in tedesco, quando voleva eludere la curiosità gelosa della compagna del mo­ mento. Dopo la morte di Roché, in accordo e con la collaborazione della vedova, Denise, ho fatto dattilografare gran parte di questo diario per salvarlo dalla distruzione, ma, dopo due anni di lavoro, la se­ gretaria a domicilio che avevamo assunto per questo compito ha preferito rinunciare tanto era turbata e scandalizzata dalla «cru­ deltà inconscia» che credeva di indovinare nel comportamento di quel Don Giovanni del ventesimo secolo. Avrei forse dovuto far notare a quella signora-segretaria che Hen­ ri-Pierre Roché non riservava ai soli uomini il diritto di cercare la ve­ rità, di reinventare l’amore, e che il personaggio di Kathe era diven­ tato, negli ultimi anni, l’eroina delle nuove femministe? Se venisse pubblicato oggi, questo diario riempirebbe probabil­ mente una ventina di volumi, ma gli editori francesi a cui mi sono ri­ volto vi hanno rinunciato, perché Henri-Pierre Roché, già da loro considerato non abbastanza conosciuto, si è ingegnato a dare ai suoi amici celebri, come alle sue amanti, dei soprannomi che ne im­ pediscono l’identificazione! Per questo motivo l’impresa è giudicata in partenza poco redditi­ zia e il diario rimarrà segreto, ma grazie ai suoi splendidi romanzi di vecchiaia sulla giovinezza, Henri-Pierre Roché non è più uno sco­ nosciuto. Di tutti i ritratti che hanno fatto di lui, amo in particolar modo quello di Jean Paulhan, un suo amico che si è assunto la responsabi­ lità di far pubblicare Jules e Jim presso Gallimard: Sì, era grande, con un che di languido. Era un po’ troppo chiaro, un po’ troppo modesto. Non stupiva perché incantava. Provava molto amore per la specie umana. Trovava che la gente era stupenda. I 179 I

Giunto alla fine di questa lunga prefazione, è tempo di lasciarvi sco­ prire Henri-Pierre Roché e la sua dolcezza a volte eccessiva. Anche voi lo farete entrare nella vostra vita, anche voi lo adotterete, anche voi, spero, lo amerete. (Parigi, gennaio 1980. Parzialmente pubblicato in tedesco come prefazione alla sceneggiatura di Jules e Jim e all’edizione del romanzo dallo stesso titolo)

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GIDE, BOMBARD E MAUR1AC: TRE ATTORI GENIALI

So perfettamente che è consuetudine, ad esempio nei cineclub, di­ sprezzare gli attori per accordare stima solo al regista. Ma questo, oltre a sembrare solo una reazione un po’ ingenua e inopportuna contro l’idolatria delle folle nei confronti dei divi, significa capire male il ruolo del regista se lo si considera come una persona più at­ tenta a disporre oggetti all’interno della scena e a trovare angola­ zioni particolarmente adatte che non a guidare l’attore a interpreta­ re la sua parte nel miglior modo possibile. Non per niente a Hol­ lywood il regista ha il titolo di director. Basta leggere i testi di Jean Renoir o vederlo lavorare per render­ sene conto. Se lui sul set improvvisa costantemente, se trasforma i personaggi e i dialoghi, non lo fa per migliorare la sua sceneggiatu­ ra ma per piegarla di più alla personalità dell’attore. Capita spesso di sentirlo chiedere silenzio, arrabbiarsi per ottenerlo e aggiungere: «Gli attori non possono lavorare con questo rumore e vi ricordo, si­ gnori, che noi siamo a disposizione degli attori». Talvolta i dialoghi di Jean Renoir sono stati criticati, ma sempre a torto, perché lui li I «8» I

scrive, li trasforma, li inventa all’ultimo momento, senza cercare al­ cun effetto letterario o altro, ma semplicemente e molto acutamen­ te per obbligare l’attore a essere bravo, a dare il «suo» massimo. Per ottenere l’espressione perfetta di un dato sentimento, Renoir sacri­ ficherebbe volentieri la verosimiglianza di una situazione, la solidità iniziale di una sceneggiatura, la qualità della fotografia o la preci­ sione di un raccordo, perché, con lui, l’attore è re. Perciò non scarta mai i loro suggerimenti: «Mi sembra che sarebbe meglio se potessi fare così...» «Ebbene, lo faccia! Ha ragione, andrà sicuramente be­ ne». E il risultato si vede sullo schermo, sempre irreprensibile, spes­ so perfetto, come se tutto fosse stato regolato al millimetro. Trionfo dell’attore e del suo corpo, un naso che si arriccia, una bocca che si contrae, un mezzo sorriso, una palpebra che si abbassa, un’altra che si socchiude, una capigliatura abbondante gettata all’indietro: il ci­ nema è tutto questo. L’uomo che ha una vita pubblica ha una doppia vita. Sotto que­ sto punto di vista gli attori sono molto simili ai politici, agli scritto­ ri, agli artisti, agli eroi di guerra e a quelli dell’avventura, a coloro insomma che si possono definire «l’uomo del giorno» per un lasso di tempo abbastanza lungo. Fra questi attori dilettanti ci sono i di­ vi, i «cani» e le false promesse. In generale il talento d’attore va di pari passo con la giustificazione della celebrità. Laniel ha un fisico «interessante», Bidault un movimento fotogenico. I grandi scritto­ ri recitano meglio degli scrittori minori. Quando i distributori del film di Marc Allégret su André Gide ridussero la pellicola alle di­ mensioni di un mediometraggio, tagliarono la conversazione tra Gide e Schlumberger perché quest’ultimo non reggeva lo schermo. Niente da fare. Di fronte a un Gide incredibilmente a suo agio, ri­ lassato e disteso, il povero Schlumberger era terrorizzato e contrat­ to dalla fifa, come in trance al termine di una danza di posseduti, balbettava e si impantanava in un discorso facile da dire e stabilito in anticipo. Parlerò dunque di tre grandi attori dilettanti: Gide, Bombard e Mauriac.

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Grazie al film di Allégret,7 le generazioni future vedranno l’auto­ re di Paludi come un saggio orientale che avrebbe potuto essere campione di lotta greco-romana. Di fronte alla macchina da presa nessun problema: si offre in pasto al pubblico perché è proprio que­ sto che ci si aspetta da lui. Ci fa visitare il suo appartamento di Rue Vanneau. Dizione lenta, articolazione perfetta, sillabe staccate. La lezione di pianoforte con Anick Morice: «Ricominci, signorina. A questo scherzo può dare più o-mo-ge-nei-tà». Verso la fine di questa lunghissima registrazione, girata senza interruzioni con l’aiuto di due macchine da presa che si alternavano, Gide è stanco: molto tranquillamente si gira, guarda fisso l’obiettivo, alza una mano e di­ ce: «Stop». Ringraziamo Allégret di aver lasciato questo comando stupendo. Il mare è blu, il cielo è bianco, la camicia del naufrago volontario è rossa. Tutto solo in mezzo all’oceano, Alain Bombard vive la sua umida avventura tricolore. Sulla sua barca - lui la chiama «il mio transatlantico» - è il solo signore e padrone dopo Dio. Con l’aiuto di una piccola cinepresa da 16 mm di tanto in tanto filma se stesso, ma mai in azione, perché quando succede qualcosa deve per forza posare l’apparecchio. Si filma dunque in modo intermittente. Ecco il mio albero, la mia vela, il mio plancton, i miei libri e la mia radio. A volte, tenendo la cinepresa con il braccio teso, filma il suo viso e il pubblico rimane deluso perché, insomma, dovrebbe dimagrire nu­ trendosi in quel modo! Il povero Bombard, invece di deperire, in­ grassa. La barba cresce ma, sotto, il viso si gonfia e diventa tondo come quello dei deportati dopo il periodo di rieducazione. Bombard che, proprio come l’omino della Michelin, si gonfia a vista d’occhio non suscita nessuna compassione nello spettatore degli ChampsElysées, ed è un peccato. Bisogna avere una mancanza di immagi­ nazione incredibile per non intuire in un lampo che cosa può esser­ vi di favoloso nel fatto di ascoltare una fuga di Bach su una zattera circondata dall’acqua a perdita d’occhio, senza nessuna terra in vi7. Allude al documentario Avec André Gide ( 1952.) di Marc Allégret. jn.d.t.l

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sta, senza nessun ascoltatore se non tre o quattro uccelli marini e, qua e là, qualche balena. Bombard ha la cinepresa in mano quando la vela comincia a strapparsi e a cedere. Questo strappo è una delle più belle inquadrature cinematografiche che conosco: lo schermo sembra sventrarsi aH’improwiso. E il commento dice: La vela mi abbandona. Ho solo del filo nero e più che ricucirla posso rammendarla. Che farò se mi abbandona di nuovo? È il mio unico mo­ tore, la mia unica speranza. Poi il grido alla Cristoforo Colombo: «Terra, terra! », e Bombard, grande esploratore, grande scrittore, dunque grande attore, termi­ na così la sua tirata:

Per sessantacinque giorni, senza sosta, su questo fragile battello, sono sopravvissuto traendo il mio sostentamento esclusivamente dal mare. Questo mare, a cui mi rivolgo per un ultimo addio, questo mare cru­ dele che per due mesi è stato per me l’unico amico, di cui mi sono nu­ trito e che ho stretto sino a farmi rivelare il segreto dei suoi naufragi e dei suoi morti, i suoi segreti [...|. E che la fede nella vita e l’ostinazione dell’uomo possano far indietreggiare il volto della morte.

Se fossi io solo la giuria di non so quale festival a premi, darei a Francois Mauriac l’Oscar del peggior sceneggiatore e quello del mi­ glior attore. Roger Leenhardt ha girato un mediometraggio su Fran­ cois Mauriac che ha chiamato saggiamente Francois Mauriac, e di cui Claude Martine ha detto tutto il bene possibile. Confesso che, se le mie preferenze letterarie vanno all’autore di Paludi, quello di Te­ resa Desqueyroux, in compenso, mi sembra un attore molto mi­ gliore. Il film di Roger Leenhardt mi fa pensare al famoso docu­ mentario italiano sulla Mantide religiosa: che cos’è il fran^ois mau­ riac, dove vive, cosa mangia e perché, e come? Sullo schermo trove­ rete le risposte. Gli accenti degli attori sono un’attrattiva indiscutibile. Elvire Popesco ha costruito tutta una carriera sul proprio accento. È nota la

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straordinaria voce di Simone Simon, la pronuncia blesa di Gloria Grahame. La voce di Francois Mauriac sullo schermo gli conferisce immediatamente un talento da attore:

Parlerò con questa voce ferita che non è quella che Dio mi aveva dato; ma un giorno fu necessario che un chirurgo mi togliesse una corda vo­ cale. Francois Mauriac ha la voce di Marianne Oswald, che dovette su­ bire, credo, un’operazione dello stesso tipo. Come Gide, Mauriac ci fa visitare la sua casa, seguito o preceduto dalla diligente macchina da presa di Roger Leenhardt: Ecco il bicchiere d’acqua che vibrava al passaggio degli espressi nella cupa casa di mio nonno a Langon, dove ho ambientato Genitrix, il co­ fanetto di pietre di luna di mia nonna...

C’è un attore a cui Mauriac assomiglia straordinariamente: è Mar­ cel Lesveque, così buffo nel Delitto del signor Lange. Come lui, Mau­ riac potrebbe cantare:

J’ai la pomme d’Adam, qui remonte qui remonte J’ai la pomme d’Adam, qui remonte et redescend. * Alla calma di Gide si oppone, in Mauriac, un’angoscia da cui non si separa mai; i muscoli si tendono, ogni sillaba gli contrae il volto; Mauriac sembra sul punto di spezzarsi ogni volta che apre la bocca, ma perché non parla certo per non dire niente. Il momento migliore del film è una conversazione tra Mauriac e un domenicano, padre Lavai:

8. « Ho il pomo d’Adamo che sale che sale / Ho il pomo d’Adamo che sale e che scen­ de». jn.d.t.j

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Guardi questo villaggio, questo paese delle Lande, da cui sono usciti tutti i miei personaggi; ebbene, in fondo, crede che io abbia turbato molti di coloro che abitano sotto quei tetti...? Sinceramente non lo cre­ do, e poi avrei potuto farlo...? Non crede anche lei che la cosa più tri­ ste al mondo non sia l’angoscia umana, ma il fatto che tanti uomini non provino angoscia?

Queste parole sembrano essere rivolte al budda geniale: Gide. Se si fosse convertito a due secondi dalla fine, me lo immagino pro­ nunciare qualcosa del tipo: «Ah! Mio Dio, che riposo! Che tran­ quillità divina!» Prima di lasciare lo schermo, Mauriac si sbaglia di grosso quan­ do conclude con queste parole: Verrà raccontata anche a mio nome la storia di un personaggio co­ struito su dati falsi e false confidenze. Ma l’uomo che sono diventato rimarrà sconosciuto e non è da questi paesaggi o da questa casa, né da questo film, che dobbiamo aspettarci il suo segreto. Che ignoranza del cinema e dei suoi poteri! Il filmetto di Roger Leenhardt ci fa conoscere molto di più sul grand’uomo che non la rilettura della sua opera completa. Davanti all’obiettivo una fronte che si abbassa, una voce che si at­ tutisce, una guancia che si incava non mentono. Grazie ai tre film lo­ ro dedicati, Gide, Bombard e Mauriac prenderanno posto, per le fu­ ture generazioni di cinefili, accanto a Lillian Gish, Douglas Fair­ banks, Chaplin, Janet Gaynor, Greta Garbo, Louise Brooks, Ri­ chard Barthelmess, Emil Jannings, Brigitte Helm, Catherine Hessling e a tutti e a tutte coloro che fanno della storia del cinema una fa­ volosa storia epica, un canto che finirà solo quando l’ultimo moto­ re dell’ultima macchina da presa cesserà di ronzare. (Da Arts, w. 503,16-22 febbraio 1953)

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Quarta parte Viva i divi!

VIVA I DIVI!'

Contrariamente a un'idea diffusa, non sono i produttori o i registi a creare i divi, ma il pubblico. Agli inizi degli anni Cinquanta, il «pa­ drone» della Twentieth Century Fox, Darryl Zanuck, offriva le par­ ti migliori a Bella Darvi di cui era innamorato, ma i film che ne ve­ nivano fuori erano tutti dei fiaschi; nella stessa compagnia si trova­ va una stock girl a cui venivano affidati solo ruoli secondari, ma ogni sua apparizione destava l’entusiasmo del pubblico sin nel cuo­ re dell’America. Fu così che, malgrado la Fox, ma grazie al pubbli­ co, Miss Monroe diventò Marilyn. Alimentando uno snobismo anti-divo attraverso la denuncia dello star system, anche i critici fanno la loro parte (definita da Joseph Mankiewicz come uno sciame di mosche sopra una torta nuziale), ma i registi che adottano questo modo di vedere si condannano da i. Testo scritto in occasione di una manifestazione organizzata a Napoli in onore del cinema francese, manifestazione in cui fu reso omaggio ad alcuni grandi attori.

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soli. Ogni volta che nell’intervista di un regista leggo: «Per interes­ sare un produttore sono stato costretto a contattare dei divi», so che questo regista opportunista, tra cinque anni, non sarà più del me­ stiere. Il suo ragionamento sbagliato, che lo farà oscillare tra una posizione teorica e la rassegnazione, gli impedirà di girare Ladri di biciclette, che richiede l’assegnazione dei ruoli a sconosciuti, o Ma­ dame de..., che esige un trio di divi di pari celebrità. Di tutte le con­ cessioni che un regista può essere portato a fare, la più grave è quel­ la che consiste nel porre davanti alla macchina da presa un attore che non ama, il quale, non sentendosi amato, non potrà offrire una buona prestazione. L’istituzione degli «anticipi sugli incassi»1 presenta molti vantaggi, ma anche qualche inconveniente. L’intellettualizzazione del mestie­ re derivata da questo provvedimento ha fatto sorgere un nuovo tipo di registi, bruschi, astratti, tanto poco concreti quanto gli ammini­ stratori che ci governano. Talora bardati di un diploma in psicolo­ gia, ne sono in realtà talmente sprovvisti che non è raro sentirli dire: «Sono sicuro che Gérard Depardieu voleva fare il mio film, ma che il suo impresario ha fatto ostruzionismo», senza rendersi conto che non esiste agente al mondo capace di lottare contro il desiderio di un attore di appropriarsi di un buon ruolo e di non mollarlo. Se dunque una sorta di snobismo e di saturazione porta certi giova­ ni registi a considerare l’attore-divo come un male necessario, il di­ vo di oggi, sommerso da copioni, buona parte dei quali non sarà mai girata, non può evitare di chiedersi: «Perché questo regista mi propone questo film? Ci tiene veramente a me o è il suo produttore che lo obbliga a contattarmi? Gli piaccio o ha bisogno di me solo per aumentare i finanziamenti per il suo progetto?» z. Si riferisce a un provvedimento legislativo del 1959 che contemplava un anticipo sui futuri incassi di un film dietro presentazione di un progetto (generalmente la sceneg­ giatura) che veniva esaminato da una commissione, [n.d.t.j

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L’attore che alla fine accetta un ruolo e firma un contratto si com­ porta come un orfano in una famiglia adottiva. Se ha l’impressione di essere stato impósto o scelto per delle cattive ragioni, tenderà a ir­ rigidirsi e a proteggersi dietro un’arroganza di facciata. Se sente di essere stato voluto, si sforzerà di superare i propri limiti, di stupire il regista, di farlo felice. Senza amicizia, senza affetto, senza amore, l’attore non può funzionare. Personalmente ho poca simpatia per gli attori ostili e arroganti, per i registi autoritari e i rapporti di forza che si vengono così a crea­ re. Credo di più a una complicità affettuosa che si esprima attraver­ so una reciproca offensiva di fascino. Questo atteggiamento per­ metterà di ottenere un film che sarà non solo la concretizzazione della sceneggiatura, ma qualcosa di migliore della sceneggiatura. Questa dolcezza non implica nessuna sdolcinatezza, non esclude la lucidità, l’ironia e nemmeno un naturale antagonismo che ci guada­ gna nel restare sotterraneo e che fa sì che l’attore dica a se stesso: «Quello che “lui” mi chiede va benissimo, ma non sarà mica “lui” sullo schermo, non sarà mica “lui” a essere giudicato; voglio dargli l’impressione che tengo conto della “sua” indicazione anche se fac­ cio di testa mia». Quando ho recitato nei miei stessi film, si è accresciuta la mia ami­ cizia, la mia ammirazione e il mio rispetto per quelli che si espon­ gono interamente in un compito che procura loro allo stesso tempo ciò che possiamo chiamare il «piacere della responsabilità limita­ ta». Quando ho recitato per un altro regista, ho scoperto questo piacere della responsabilità limitata e anche le gioie della malafede, oltre che la sua necessità. In Incontri ravvicinati del terzo tipo, il personaggio che interpretavo, Claude Lacombe, esperto di dischi volanti, doveva esclamare al culmine di un momento di entusia­ smo: «Einstein aveva ragione» («Einstein was right»). Questa frase da fumetto mi costernava e mi preoccupava ogni giorno, mi dicevo che avrei chiesto a Steven Spielberg, il più gentilmente possibile, di toglierla. Una sorta di vigliaccheria, in cui entrava forse un po’ di 1191 I

solidarietà, mi impediva di farlo, fino al giorno in cui, nel bel mez­ zo delle riprese di una scena d’azione, ho sentito un mio partner esclamare: «Einstein was right!» Se anche in quel momento non so­ no svenuto, però mi sono sentito impallidire e ho mormorato: «Che mascalzone! Ha dato la mia battuta a un altro!» La seconda rea­ zione mi ha fatto ridere della prima e quel giorno mi sono sentito at­ tore. Che bel mestiere! Nella storia degli attori cinematografici, bisogna distinguere il pe­ riodo prima della televisione e il periodo dopo. Non ci sono più star da venticinque anni a questa parte, perché nell’idea stessa di star c’e­ ra una componente di allontanamento, di distanza, di inaccessibi­ lità, che la televisione ha definitivamente abolito. Se dunque non esi­ stono più attori mitici, ci sono sempre i divi, con la dose di fortuna e di arbitrarietà che questo comporta ma, anche qui, non è il caso di discutere né di questa fortuna né di questa arbitrarietà perché, come ha detto Howard Hawks: «Ci sono delle persone che la macchina da presa non ama, e altre che ama». Da Danielle Darrieux a Jeanne Moreau, da Jean Marais a JeanPaul Beimondo, in questa selezione presentata da Unifrance, non vedrete che attori amati dalla macchina da presa. (Da Télérama, 29 settembre 1982)

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NON CONOSCO ISABELLE ADJANI

Non conosco Isabelle Adjani. Fare pubblicamente l’elogio di qual­ cuno è voler influenzare l’opinione degli altri, se non volerla creare; è tentare di convincere, di pesare più o meno sulla libertà di giudizio altrui. Durante le riprese del nostro film, ho sperato di non dover parlare di Isabelle Adjani, perché sapevo che era impossible farlo nei termini abituali, e non ero sicuro di trovare in tempo le parole giuste. E, soprattutto, non ho alcuna voglia di convincere chicches­ sia di una qualsiasi cosa riferita a lei. Ciò che va giudicato, perché si arriva sempre al giudizio, è il suo lavoro, e non il commento che potrei farne un giorno (e che sarebbe diverso da quello che farei l’indomani). Non so se il termine lavoro piaccia a Isabelle Adjani, ma comunque si tratta di un lavoro che noi facciamo non insieme, ma fianco a fianco (benché lei sembri talvol­ ta dispiacersi che non sia faccia a faccia) e dal quale risulterà un film che non posso ancora descrivere con lucidità. Non conosco Isabelle Adjani. È la sola attrice che mi abbia fatto piangere davanti allo schermo della televisione e, per questo, ho voluto girare con lei in modo molI 193 1

to veloce, con urgenza, perché pensavo che avrei potuto, filmando­ la, rubarle cose preziose come, per esempio, tutto ciò che avviene in un corpo e in un volto in piena trasformazione. Così, eccomi dentro la grotta di Alì Babà mentre vado avanti e indietro e incrocio il suo sguardo che sembra dirmi: «È tutto qui quello che le interessa? È tutto qui quello che trova da rubare? Una lampada a olio, una sedia a dondolo rotta, una lacrima, un battito di ciglia, una barchetta di vetro... È veramente tutto?» Non conosco Isabelle Adjani. Durante le riprese, la guardo recitare, l’aiuto come posso, dicen­ dole trenta parole quando ne vorrebbe cento o dicendogliene cin­ quanta quando gliene occorrerebbe una sola, ma quella buona, per­ ché, nel nostro bizzarro sodalizio, è tutta questione di vocabolario. Non conosco Isabelle Adjani, eppure, la sera, i miei occhi e le mie orecchie sono stanchi per averla guardata e ascoltata troppo inten­ samente tutta la giornata. Conoscerò Isabelle Adjani tra qualche settimana, quando ci lasceremo, cioè quando le riprese saranno terminate. Lei andrà per la sua strada, non so dove, e tutti i giorni io la riguarderò sul tavolo di montaggio, in tutti i modi e a tutte le velocità. Allora non mi sfug­ girà più niente e comprenderò tutto a scoppio ritardato: «Ecco cosa bisognava fare, ecco cosa bisognava dire, ecco cosa bisognava gira­ re», e, grazie a questa insoddisfazione rinnovata, grazie a questa frustrazione più grande, diventerò impaziente di cominciare un nuovo film. Talvolta dico a Isabelle Adjani: «La nostra vita è un mu­ ro, ogni film è una pietra». Lei mi dà sempre la stessa risposta: «Non è vero, ogni film è il muro». (Da L’Express, 3 marzo 1975)

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INTRODUCING FANNY ARDANT

Va a Nina Companeez il merito di aver scoperto Fanny Ardant e non bisogna sottovalutare l’audacia di questa scelta. Nina Companeez aveva scritto uno splendido copione di cinque ore, Les Dames de la cote, che comportava dei bellissimi ruoli per Edwige Feuillère, Fran^oise Fabian, Martine Chevalier, Evelyne Buyle, e avrebbe po­ tuto benissimo affidare la parte principale a una delle giovani attrici che si vedono tre o quattro volte l’anno al cinema o in televisione e il cui nome è già familiare ai finanziatori. Invece, la regista ha fatto la scommessa di inserire, al centro della storia, un volto nuovo, una nuova figura, una giovane donna dalle grandi speranze, Fanny Ar­ dant. Durante le feste di Natale del 1979, Nina Companeez seppe che aveva vinto la scommessa: per cinque sabati sera consecutivi, mi­ lioni di francesi testimoniarono una fedeltà e un entusiasmo che ab­ bracciavano tanto l’opera quanto colei che ne era l’eroina. Una nuo­ va attrice faceva il suo ingresso nel mondo del cinema, una giovane e bella donna che, da cinque anni, portava avanti il suo apprendista­ to di attrice teatrale, interpretando i più bei testi del teatro francese, Polyeucte, Esther, Le Maitre de Santiago, Electre, Tète d'or... Nel I