Il gioco degli occhi. Storia di una vita (1931-1937) 8845911314, 9788845911316

All’inizio di questo libro, il terzo della sua autobiografia, Canetti ci appare circondato dai relitti fumanti del rogo

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Italian Pages 383 Year 1995

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Il gioco degli occhi. Storia di una vita (1931-1937)
 8845911314, 9788845911316

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GLI

A D E L P H I

Elias Canetti

Il gioco degli occhi Storia di una vita

(1931-1937)

Il più intenso ritratto-racconto di Vienna, quand o i suoi abitanti e r a n o Robert Musil, H e r m a n n Broch, Alban Berg o l'affascinante dottor Sonn e che, seduto al suo tavolo del Café Museum, «parlava come Musil scriveva ».

In c o p e r t i n a : A l b r e c h t Altdorfer ( 1 4 8 0 ca-1538), Lot e sua figlia (1537, particolare). Kunsthistorisches M u s e u m , Vienna.

€ 13,00

|sbn 978-88-459-1131-6

9

GLI

ADELPHI

77

Elias Canetti è nato nel 1905 a Rustschuk, in Bulgaria, da una famiglia ebraica di origine spagnola ed è vissuto lungamente a Vienna e poi a Londra e Zurigo, dove è morto nel 1994. Nel 1981 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura. Il gioco degli occhi, pubblicato nel 1985 e tradotto da Adelphi nello stesso anno, è il terzo pannello della sua autobiografia: lo precedono La lingua salvata (1977; Adelphi, 1980) e II frutto del fuoco (1980; Adelphi, 1982). Di Canetti sono apparse presso Adelphi anche le seguenti opere: Potere e sopravvivenza (1974), La provincia dell'uomo (1978), Auto da fé (1981; nuova edizione riveduta, 1999), Massa e potere (1981), Le voci di Marrakech (1983), La coscienza delle parole (1984), Il cuore segreto dell'orologio (1987), La tortura delle mosche (1993), Il Testimone auricolare (1995), La rapidità dello spirito (1996), Un regno di matite (2003), Party sotto le bombe (2005).

Elias Canetti

Il gioco degli occhi Storia di una vita (1931-1937)

ADELPHI EDIZIONI

TITOLO ORIGINALE:

Das Augenspiel

Lebensgeschichte 1931-1937

Traduzione di Gilberto Forti

1 9 8 5 CARL HANSER VERLAG MÙNCHEN-WIEN © 1 9 8 5 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO

I e d i z i o n e GLI ADELPHI: aprile 1995 V e d i z i o n e GLI ADELPHI: luglio 2 0 0 9 WWW.ADELPHI.IT

ISBN 978-88-459-1131-6

INDICE

PARTE PRIMA: NOZZE

Biichner nel deserto, p. 13 Occhio e respiro, p. 30 Inizio di un contrasto, p. 44 II direttore d'orchestra, p. 56 Trofei, p. 67 Strasburgo 1933, p. 72 Anna, p. 84 PARTE SECONDA: IL DOTTOR SONNE

Un gemello in dono, p. 109 II < Nero in piedi >, p. 120 Silenzio al Café Museum, p. 135 Commedia a Hietzing, p. 139 Alla ricerca dell'uomo buono, p. 150 Sonne, p. 159 Nell'Operngasse, p. 180 PARTE TERZA: IL CASO

Musil, p. 195 Joyce senza specchio, p. 204 II benefattore, p. 212 Gli ascoltatori, p. 220 Funerale di un angelo, p. 233 La suprema autorità, p. 240 PARTE QUARTA: GRINZING

Himmelstrasse, p. 251 L'ultima versione, p. 261 Alban Berg, p. 270 Incontro al Liliput-Bar, p. 276 L'esorci-

smo, p. 281 La delicatezza dello spirito, p. 290 Invito in casa Benedikt, p. 296 * Io cerco i miei pari! », p. 305 Una lettera di Thomas Mann, p. 313 Ras Cassa. - Gli schiamazzi notturni, p. 319 II tram 38, p. 326 PARTE QUINTA: L EVOCAZIONE

Incontro insperato, p. 335 La guerra civile spagnola, p. 340 Discussione nella Nussdorferstrasse, p. 349 Hudba. Danze di contadini, p. 359 Morte della mamma, p. 372

IL GIOCO DEGLI OCCHI

A Hera Canetti

PARTE PRIMA

NOZZE

Bilchner nel deserto « Kant prende fuoco »* - questo era allora il titolo del romanzo - aveva fatto il deserto dentro di me. L'incendio che aveva distrutto i libri era qualcosa che non potevo perdonarmi. Non credo che fosse rimasto in me qualche rammarico per la sorte di Kant (colui che poi sarebbe diventato Kien). Durante tutta la stesura del libro Kant era stato talmente bistrattato e io mi ero talmente tormentato per reprimere ogni compassione verso di lui, per non lasciare in me neppure la minima traccia di compassione, che dal punto di vista dell'autore il mettere fine alla sua esistenza era piuttosto una liberazione. • In tedesco Kant fàngt Feuer: era il titolo primitivo del romanzo che Canetti aveva terminato nel 1931 e che pubblicò nel 1935 col titolo Die Blendung (« L'abbagliamento »). Per l'edizione inglese del 1946 e per quella italiana del 1967 l'autore ritornò al concetto del fuoco scegliendo il titolo Auto da fé. Alla genesi del romanzo Canetti ha dedicato il saggio * Il mio primo libro: Auto da fé » nel volume La coscienza delle parole (Adelphi, Milano, 1984, pp. 327-344). Si veda anche il capitolo finale di II frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931) (Adelphi, Milano, 1982) [N.d.T.]. 13

Ma per questa liberazione erano stati coinvolti i libri, e il fatto che essi fossero finiti in fiamme lo sentivo come se fosse accaduto a me stesso. Mi sembrava di aver sacrificato non soltanto i miei libri personali, ma quelli del mondo intero, perché la biblioteca del sinologo conteneva tutto ciò che aveva qualche valore per il mondo, i libri di tutte le religioni, quelli di tutti i pensatori, quelli delle letterature orientali, quelli delle letterature occidentali, solo che avessero conservato anche un minimo di vita. Il fuoco aveva distrutto tutto questo, io lo avevo permesso senza fare neppure un tentativo di salvare qualcosa, e adesso rimaneva un deserto, non c'era nient'altro che il deserto, e io ne portavo la colpa. Perché ciò che avviene in un libro simile non è mero gioco, è una realtà di cui si deve rispondere, e non tanto di fronte alle critiche esterne quanto davanti a se stessi; e se anche si può essere costretti a scrivere cose simili dall'angoscia più grande, resta pur sempre da riflettere, da domandarsi se con esse non si affretta proprio ciò che si paventa così intensamente. Il senso della rovina era ormai annidato in me, e non potevo liberarmene. Aveva cominciato a imprimersi sette anni prima, attraverso Gli ultimi giorni dell'umanità, ma ora aveva assunto una forma molto personale che scaturiva dalle costanti della mia vita: dal fuoco, di cui il 15 luglio 1927 avevo scoperto la relazione con la massa assistendo all'incendio del Palazzo di Giustizia di Vienna; e dai libri, che costituivano la mia frequentazione quotidiana. Sebbene il protagonista del romanzo fosse diverso da me per molti aspetti, ciò che io gli avevo prestato era così essenziale che non potevo riprendermelo intatto, impunemente, dopo che lui aveva raggiunto il suo scopo. Il deserto che mi ero creato con le mie mani cominciò a ricoprire ogni cosa. La minaccia che incombeva sul mondo in cui si viveva non mi era mai sembrata così pesante come allora, dopo la rovina di Kien. L'inquietudine in cui ricaddi somigliava a quella dei gior14

ni in cui avevo abbozzato il progetto della « Comédie humaine dei folli », con la diflFerenza che nel frattempo era accaduto qualcosa di decisivo e io mi sentivo colpevole. Era un'inquietudine che non ignorava la propria causa. Di notte, ma anche di giorno, percorrevo a passi veloci le stesse strade. Neanche lontanamente potevo più pensare di dedicarmi a un altro romanzo o a un libro della serie che una volta avevo progettato: il progetto gigantesco era rimasto soffocato nel fumo del rogo dei libri, senza rimpianto, e al suo posto, dovunque mi trovassi, non riuscivo ormai a vedere più nulla che non fosse minacciato da una catastrofe che poteva sopravvenire da un momento all'altro. Ogni conversazione di cui, passando, coglievo al volo qualche frammento mi sembrava l'ultima. Sotto l'imperio di una forza terribile, ineluttabile, accadeva ciò che doveva accadere negli ultimi momenti. Ma ciò che accadeva alle vittime future si ricollegava nel modo più stretto al loro stesso comportamento. Erano state loro a mettersi nella situazione dalla quale non c'era scampo. Si erano sforzate in ogni e più bizzarra maniera di essere tali da meritare la propria fine. Ogni volta che ascoltavo una conversazione, i due interlocutori mi apparivano tanto colpevoli quanto lo ero io stesso da quando avevo attizzato quel fuoco. Ma mentre questa colpa compenetrava ogni cosa come un etere tutto speciale, senza risparmiare nulla, per il resto gli uomini rimanevano esattamente quelli che erano. Conservavano il loro accento e il loro aspetto, le situazioni in cui si trovavano erano inconfondibilmente le loro proprie, non dipendevano da colui che le osservava e le registrava. Questi si limitava a dare ad esse una direzione e a caricarle della propria paura come di un carburante. Ognuna delle scene a cui assisteva col fiato sospeso e che registrava con la passione dell'osservatore, in cui l'osservare è diventato l'unico dei sensi, si concludeva con la rovina. Egli le annotava precipitosamente e in caratteri gi15

ganteschi, come graffiti sui muri di una nuova Pompei. Era come la preparazione a un terremoto o a un'eruzione vulcanica: qualcuno si rende conto che sta per arrivare, molto presto, inevitabile, e annota ciò che è accaduto prima, ciò che gli uomini hanno fatto prima, divisi dal loro operare e dalle circostanze, ignorando l'approssimarsi del loro destino, inalando col loro respiro quotidiano l'atmosfera dell'asfissia, e proprio per questo, prima ancora che tutto sia davvero cominciato, respirando in una maniera un poco più ostinata e febbrile. Io buttavo sulla carta una scena dopo l'altra, e ciascuna era autonoma, nessuna era legata all'altra, ma ciascuna aveva una conclusione violenta e solo da questa era legata all'altra; e se ora esamino ciò che di esse mi è rimasto nella memoria, mi sembrano come scaturite dai bombardamenti notturni della guerra mondiale che stava per venire. Una scena dopo l'altra, ed erano molte, scritte come di corsa, con una furia ossessiva, e ciascuna portava alla rovina, e subito dopo cominciava una scena nuova, con altre persone, e non aveva nulla in comune con la precedente se non la meritata rovina in cui sfociava. Era come un tribunale cui non si poteva sfuggire, che inglobava tutto; e la condanna più dura era inflitta a chi pretendeva di saperne più degli altri. Poiché colui che voleva evitarlo lo portava con sé. Era lui che capiva la mancanza d'amore di quelle persone. Egli le sfiorava passando, le vedeva e già le aveva lasciate indietro, udiva il suono delle loro voci, che non gli usciva più dall'orecchio, lo trasmetteva alle altre che erano altrettanto prive d'amore, e quando la testa minacciava di scoppiargli per l'accumularsi delle voci dell'egoismo, allora si sentiva costretto a mettere sulla carta le più incalzanti. In quelle settimane la cosa che mi tormentava di più era la mia stanza nella Hagenberggasse. Da oltre un anno convivevo con le riproduzioni della pala di Isenheim, che mi erano penetrate nel sangue con gli spietati particolari della crocifissione. Finché ero oc16

cupato a scrivere il romanzo mi sembrava che fossero al posto giusto, come un aculeo insistente mi pungolavano sempre nella stessa direzione. Eraho ciò che io volevo sopportare, non mi ci assuefacevo, non le perdevo mai di vista, si trasformavano in qualcosa che apparentemente non aveva niente in comune con loro: chi potrebbe essere cosi temerario e così mentecatto da paragonare le sofferenze del sinologo con quelle del Cristo? Eppure si era stabilito come un legame tra le riproduzioni alle pareti e i capitoli del libro. Quelle immagini mi erano diventate così necessarie che non le avrei mai sostituite con nient'altro. Non valeva a dissuadermi neanche il raccapriccio delle poche persone che venivano a trovarmi. Ma quando le fiamme ebbero divorato la biblioteca e il sinologo, avvenne uno strano cambiamento, qualcosa che non mi ero aspettato. Grùnewald ricuperò tutta intera la sua forza. Non appena smisi di lavorare al romanzo il pittore tornò ad essere li soltanto per se stesso, e lui solo rimase operante nel deserto che io avevo creato. Quando rincasavo, la vista delle pareti della mia stanza mi riempiva di paura. Tutto ciò che di minaccioso io sentivo prendeva nuovo vigore in Grùnewald. In quei giorni neanche la lettura poteva soccorrermi. Non solo avevo perduto il mio diritto ai libri perché li avevo sacrificati in nome di un romanzo, ma anche quando mi costringevo a superare questo senso di colpa e allungavo la mano per prenderne uno, come se ci fosse ancora, come se il fuoco non l'avesse bruciato e annientato, quando mi costringevo anche a leggerlo, subito ero preso dal disgusto, e il disgusto era tanto più forte per i libri che conoscevo meglio, per quelli che amavo da più tempo. Ricordo la sera in cui la nausea fu causata da Stendhal, che pure mi aveva stimolato al lavoro per un anno, ogni giorno. Lasciai cadere il libro in un impeto di collera, e non sul tavolo, ma sul pavimento, ed ero così disperato per la delusione provata che non lo raccattai neppure 17

ma lo lasciai dov'era. Un altro giorno mi venne l'idea assurda di provare con Gogol', e questa volta perfino Il cappotto mi parve così insulso e arbitrario che mi domandai che cosa potevo aver trovato di tanto eccitante in quella storia. Nessuna delle cose care che mi avevano formato poteva aiutarmi. Forse con l'incendio dei libri avevo davvero distrutto tutto il passato. In apparenza i libri erano ancora lì, ma il loro contenuto era. bruciato, in me non ne era rimasto più niente, e ogni tentativo di rianimare le ceneri provocava collera e resistenza. Dopo alcuni penosi tentativi, tutti falliti, non presi più in mano nulla. La libreria, con i volumi stessi che avevo letto infinite volte, rimase intatta. Era come se addirittura i libri non ci fossero più: io non li vedevo nemmeno, non li cercavo, e il deserto intorno a me era diventato totale. Poi, una notte, in una condizione di spirito che non poteva essere più sconsolata, trovai la salvezza in qualcosa di sconosciuto, qualcosa che era lì già da tempo ma non avevo mai toccato. Era un libro di Bùchner, alto, stampato a grossi caratteri, rilegato in tela gialla, collocato nello scaffale in modo tale che non si poteva non vederlo, accanto a quattro volumi delle opere di Kleist, nella stessa edizione, di cui ogni singola lettera mi era familiare. Sembrerà incredibile, ma non avevo mai letto Bùchner. Sapevo benissimo quanto fosse importante, e probabilmente sapevo anche che per me avrebbe avuto ancora molta importanza. Potevano essere passati due anni da quando avevo messo gli occhi su quel volume nella libreria Vienna della Bognergasse, l'avevo comprato, portato a casa e collocato accanto alle opere di Kleist. Tra le cose essenziali che si preparano dentro di noi vi sono gli incontri rinviati. Può trattarsi di luoghi e di uomini, di quadri come di libri. Vi sono città per le quali provo un'attrazione così forte come se fossi predestinato a trascorrervi una vita intera fin dall'inizio. Con mille astuzie evito di andarvi, e ogni volta 18

che si presenta l'occasione di visitarle e vi rinuncio, sento aumentare a tal segno la loro importanza che si potrebbe quasi pensare che io sono ancora al mondo soltanto per quelle città e che sarei già scomparso da un pezzo se non ci fossero loro che continuano ad aspettarmi. Vi sono persone di cui mi piace sentir parlare, e allora ascolto quanto più è possibile e con tale avidità che si potrebbe quasi pensare che in fondo so di loro più di quanto ne sappiano esse stesse - ma evito di guardare una loro fotografia e mi sottraggo a ogni raffigurazione visiva, come se un divieto particolare e legittimo impedisse di conoscere la loro taccia. Vi sono anche persone che mi incontrano per anni sul medesimo percorso, che mi danno motivo di riflettere e mi appaiono come enigmi di cui sono chiamato a trovare la soluzione, e tuttavia io non rivolgo loro la parola, proseguo in silenzio per la mia strada, come esse fanno con me, e tutt'e due ci scambiamo sguardi interrogativi, tutt'e due teniamo le labbra ben chiuse: io penso a quello che sarà il nostro primo colloquio e mi eccito all'idea di tutte le cose inaspettate che scoprirò allora. E infine vi sono persone che amo da anni senza che esse possano averne il minimo sospetto, e intanto io divento sempre più vecchio, e ormai deve apparire come un'assurda illusione l'idea che io glielo dica mai, sebbene io viva sempre nell'attesa di questo momento stupendo. Senza questo minuzioso prepararmi al futuro non sarei capace di vivere, e per me, se mi studio attentamente, questi preparativi non sono meno importanti delle improvvise sorprese che arrivano come dal nulla e lasciano senza parola. Non vorrei nominare i libri ai quali continuo ancora oggi a prepararmi. La lista comprende alcune delle opere più celebri della letteratura mondiale, opere del cui valore non potrei dubitare perché hanno avuto in passato il consenso di tutti coloro le cui opinioni sono state per me determinanti. È evidente che l'imbattersi in uno di tali libri dopo vent'anni di attesa diventa qualcosa di sconvolgente: forse solo cosi 19

è possibile arrivare a quelle resurrezioni spirituali che ti preservano dalle conseguenze della routine e della decadenza. Allora, in ogni modo, si dava il caso che io, a ventisei anni, conoscessi da tempo il nome di Bùchner e che da due anni avessi in casa un volume piuttosto appariscente con le sue opere. Una notte, in un momento di estrema disperazione - ero sicuro che non avrei più scritto una riga, ero sicuro che non avrei più potuto leggere una riga - , allungai la mano verso il volume giallo e lo aprii a caso: era una scena del Wozzeck (a quel tempo si usava ancora questa grafia), esattamente quella in cui il dottore parla a Wozzeck. Fu come se il fulmine mi avesse colpito. Lessi quella scena, tutte le altre del frammento, rilessi l'intero frammento più volte, non so quante, ma dovettero essere innumerevoli perché lessi tutta la notte, non lessi nient'altro nel volume giallo, sempre ricominciando dal principio il Wozzeck, ed ero in un tale stato di eccitazione che uscii di casa prima delle sei del mattino e corsi giù alla ferrovia urbana. Li presi il primo treno che portava in città, mi precipitai nella Ferdinandstrasse e svegliai Veza dal sonno. Alla porta non c'era la catena, e io avevo la chiave dell'appartamento. Avevamo deciso così per il caso che un'inquietudine improvvisa mi spingesse fuori di casa di buon mattino, ma il nostro amore resisteva già da sei anni e non era mai accaduto niente di simile. Se adesso accadeva per la prima volta, sotto l'effetto di Buchner, Veza non poteva non esserne allarmata. Veza aveva respirato di sollievo quando si era concluso l'anno ascetico dedicato al romanzo, e forse nessun lettore, in seguito, ha provato un uguale senso di liberazione allorché il lungo e magro sinologo muore tra le fiamme. Veza aveva temuto nuove svolte, una ripresa e un proseguimento della vicenda. Prima di scrivere l'ultimo capitolo, «Il gallo rosso», mi ero concesso qualche settimana di pausa, e Veza aveva male interpretato quell'indugio come un mio dubbio sulla conclusione del romanzo. Immaginava che Geor20

ges, nel viaggio di ritorno, fosse preso da scrupoli improvvisi e si rendesse conto all'ultimo momento, ma ancora in tempo, delle vere condizioni di spirito del fratello: come aveva potuto abbandonarlo cosi! Alla prima stazione scendeva dal treno e ripartiva in senso inverso. Era di nuovo davanti alla casa di Kien e ne forzava l'ingresso. Senza tanti complimenti lo impacchettava e se lo portava a Parigi per farne uno dei suoi pazienti. Un paziente insolito, certamente, che si opponeva al fratello con tutte le forze, ma ogni resistenza era inutile, e a poco a poco anche lui trovava in Georges il suo padrone. Veza sospettava che mi stuzzicasse l'idea di far proseguire, in quella nuova situazione, la lotta tra i due fratelli, il loro dialogo occulto che si era avviato in un lungo capitolo senza tuttavia esaurirsi. Alla notizia che finalmente « Il gallo rosso » era scritto, che il sinologo era riuscito nel suo intento, Veza aveva reagito dapprima con incredulità. Pensava che io volessi placarla, perché mi ferano ben noti i suoi dubbi sul mio modo di vivere in tutto quel periodo. Nella terza parte del romanzo c'erano molte cose che le erano penetrate fin nelle ossa, e Veza si era messa in testa che quel frugare senza fine nella mania di persecuzione del sinologo non poteva non avere effetti perniciosi sul mio stesso stato mentale. Nessuna meraviglia, dunque, se Veza aveva respirato di sollievo ascoltando la lettura dell'ultimo capitolo; e mentre per me cominciava il periodo peggiore, quello che ho chiamato il « tempo del deserto », lei avrebbe voluto credere che il peggio era passato. Ma si accorse che proprio adesso mi tenevo alla larga da lei come da tutti gli altri, e benché in verità, per il momento, non facessi nulla di particolare, non trovavo tempo né per lei né per i pochi amici. Quando poi ci incontravamo, ero taciturno e imbronciato, mentre tra noi non c'era mai stato questo tipo di silenzio. Una volta Veza perse talmente il controllo da dire: « Da quando è morto, quel tuo uomo dei libri 21

ti è entrato nel sangue, e tu sei come lui. È il tuo modo di prendere il lutto per la sua morte». Veza aveva con me una pazienza infinita, ma io non le perdonavo il senso di liberazione che provava per la fine del sinologo. E quando una volta mi disse : « Peccato che la tua Therese non sia una vedova indiana, altrimenti avrebbe dovuto buttarsi nel fuoco anche lei », io ribattei con rabbia : « Lui aveva amici migliori di una donna, aveva i suoi libri, che conoscevano il loro dovere e sono bruciati con lui». Da allora Veza si aspettava che mi facessi vivo improvvisamente, una notte o una mattina, con la notizia che temeva più d'ogni altra: che cioè avessi cambiato parere sull'ultimo capitolo e lo avessi cancellato, anche perché non era scritto nello stesso stile del resto del libro. Così Kant ritornava in vita e tutto ricominciava da capo, come se il romanzo continuasse in un secondo volume, ciò che mi avrebbe tenuto occupato almeno per un altro anno. Veza si spaventò molto quando la svegliai dal sonno in quel mattino buchneriano. « Ti meravigli che io venga cosi presto? Finora non è mai successo». «No,» disse lei «ti aspettavo»; e già pensava disperata al modo di distogliermi dal dare un seguito al romanzo. Ma io attaccai subito con Bùchner. Conosceva il Wozzeck? Naturalmente: chi non lo conosceva? Lo disse con impazienza, aspettando il peggio, proprio quello che secondo lei mi stava veramente a cuore. Nel tono della sua risposta c'era qualcosa di sprezzante, e io mi sentii offeso per Bùchner. « Ma come? T u tratti il Wozzeck come una cosa da niente? ». La mia reazione fu cosi minacciosa e ostile che Veza capi all'improvviso di che cosa si trattava. « Chi? Io? Ma che cosa credi? Per me è il dramma più grande di tutta la letteratura tedesca». Non credevo alle mie orecchie, e dissi così per dire: « Però è soltanto un frammento! ». « Frammento! Frammento! Lo chiami un frammen22

to? Quello che manca è ancora meglio di quello che c'è negli altri drammi, nei migliori. Bisognerebbe averne tanti, di frammenti così ». « Ma tu non mi hai mai parlato del Wozzeck. È molto che conosci Bùchner? ». « Lo conoscevo prima di conoscere te. L'ho letto piuttosto presto. Al tempo in cui mi sono imbattuta nei diari di Hebbel e in Lichtenberg». « Ma hai sempre taciuto! I brani di Hebbel e di Lichtenberg me li hai mostrati spesso, ma del Wozzeck mai una parola. Si può sapere perché? Perché? ». « L'ho nascosto, addirittura. Il volume di Biichner non saresti riuscito a trovarlo in casa mia ». « Ho passato tutta la notte a leggere il Wozzeck. A leggerlo e a rileggerlo. Non volevo credere che esistesse qualcosa di simile. Non ci credo ancora. Sono venuto a dirti quello che meriti. Prima ho pensato che forse non lo conoscevi. Ma poi mi sono reso conto che non era possibile. Con tutto il tuo amore per la letteratura, come potevi non conoscerlo? E infatti lo conosci, naturalmente. Ma me l'hai tenuto nascosto. Da sei anni parliamo di tutte le cose meravigliose che ci sono. Biichner non l'hai nominato una sola volta. E adesso vieni a dirmi che mi hai tenuto nascosto il libro. Non è possibile. Conosco ogni angolo della tua stanza. Dammi la provai MostrameloI Dove l'hai nascosto? È un grosso volume giallo. Non è così facile nasconderlo ». « Non è né grosso né giallo. È un'edizione in carta India. Adesso vedrai con i tuoi occhi ». Aprì l'armadio in cui custodiva i suoi libri più cari. Pensai al momento in cui me l'aveva fatto vedere la prima volta. Ormai lo conoscevo meglio delle mie tasche. E il Bùchner era nascosto lì? Veza tolse alcuni volumi di Victor Hugo. Dietro, schiacciata di piatto contro il fondo dell'armadio, c'era l'edizione di Bùchner dell'Insel-Verlag. Veza mi porse il volume. A me non piaceva vederlo in quel formato ridotto. Avevo ancora negli occhi i grandi caratteri della notte, e or23

mai volevo averlo sempre davanti con quegli stessi caratteri. «Mi hai nascosto qualche altro libro?». « No, questo è l'unico. Sapevo che non avresti mai tirato fuori un libro di Victor Hugo, perché non t'interessa. Lì dietro, Biichner era al sicuro. Del resto, proprio lui ha tradotto due drammi di Victor Hugo ».* Me lo mostrò, e io, irritato, le restituii il volume. « Ma perché, insomma? Perché me l'hai nascosto? ». « Dovresti essere contento di non averlo letto. Se no, credi che saresti stato capace di scrivere qualcosa? Bùchner è anche il più moderno di tutti gli scrittori. Potrebbe essere di oggi, solo che oggi nessuno è come lui. Non si può prenderlo a modello. Si può solo vergognarsi e dire: "A che scopo scrivere?". Si può solo tenere la bocca chiusa. Io non volevo che tu tenessi la bocca chiusa. Io credo in te ». « Nonostante Biichner? ». « Di questo non voglio parlare, per il momento. Ci devono pur essere cose che restano irraggiungibili. Ma l'irraggiungibile non deve schiacciarci. Adesso che hai finito il romanzo, devi leggere qualche altra cosa ancora. C'è un altro frammento di Bùchner, un racconto: Lenz. Leggilo subito! ». Mi sedetti e senza dire altro lessi il più meraviglioso brano di prosa. Dopo la notte del Wozzeck spuntava il mattino del Lenz, senza un attimo di sonno tra l'uno e l'altro. E io vidi crollare in pezzi il mio romanzo: l'opera di cui ero stato cosi fiero non era più che polvere e cenere. Fu un duro colpo, ma salutare. Veza, dopo avere ascoltato la lettura di tutti i capitoli di « Kant prende fuoco », mi giudicava uno scrittore di teatro. Era vissuta nel timore che non trovassi più la strada per uscire dal romanzo. Aveva visto come vi ero rimasto irretito e quanto mi aveva coinvolto. Fosse quel ro• I due drammi tradotti da Bùchner sono Lucrezia Borgia e Maria Tudor [N.d.T.]. 24

manzo o un altro, uno nuovo, al quale potevo accingermi, Veza scopriva in me la fatale inclinazione a imprese che si protraevano per anni. Ricordava gli abbozzi per una « Comédie humaine dei folli », quella serie di romanzi di cui le avevo parlato spesso. La vista dello Steinhof dalla mia finestra, che all'inizio le aveva fatto tanta impressione, non le piaceva più da un pezzo. Aveva la sensazione che con la stesura del romanzo fosse ancora cresciuto il fascino che gli invasati e gli anormali esercitavano su di me. Anche la mia amicizia con Thomas Marek * la preoccupava. La mia solidarietà con Marek era veemente e aggressiva, e una volta, quando ero arrivato al punto di sostenere che quel giovane paralitico contava più di tutti quelli che se ne vanno in giro ignari e ingrati sulle loro gambe, lei mi aveva contraddetto rimproverandomi la mia stravaganza. Veza era davvero in ansia per me. Nel mio romanzo, nel capitolo intitolato «Un manicomio», c'era una dichiarazione d'amore a tutti coloro che passano per matti, e lei ne aveva tratto la convinzione che io avessi varcato un confine pericoloso. La tendenza all'isolamento, l'ammirazione per chiunque fosse diverso, il desiderio di abbattere tutti i ponti tra noi e una umanità inferiore - tutto questo le dava molto da pensare. A proposito delle allucinazioni di certe persone di mia conoscenza mi ero espresso con lei in termini ammirativi, come se fossero opere d'arte perfette, e mi ero sforzato di ricostruire passo per passo la genesi di una di quelle allucinazioni. Veza, anche per motivi estetici, si era spesso mostrata infastidita dalla minuziosità con cui avevo ricostruito un caso di mania di persecuzione, e io usavo ribattere che non si poteva fare altrimenti, che ogni particolare, ogni minimo passo • Per ramicizia di Canetti con Thomas Marek, un geniale studente di filosofia paralizzato alle braccia e alle gambe, si veda Il frutto del fuoco, ai capitoli « L'ammansimento », € Il sostegno della famiglia » e « Passi falsi » [N.d.T.]. 25

aveva la sua importanza. Scendevo in campo contro precedenti rappresentazioni della follia nella letteratura e cercavo di dimostrarle quanto poco corrispondessero alla realtà. Veza pensava che doveva pur essere possibile rappresentare quelle situazioni in una forma condensata e quindi ottenendo un'efficacia maggiore. Ma io obiettavo, nella maniera più energica, che allora non veniva a galla la verità, bensì l'autocompiacimento degli autori, la loro vanità di pavoni. Bisognava finalmente decidersi a capire che la follia non ha niente di spregevole, essendo un fenomeno pieno di significati e di relazioni particolari che cambiano da un caso all'altro. Lei negava tutto questo ed era pronta a difendere, contro la sua natura e solo per il mio bene, le classificazioni dominanti nella psichiatria. In questa sua difesa mostrava una certa propensione per il concetto di «pazzia maniaco-depressiva», mentre aveva qualche riserva a proposito della « schizofrenia», che allora stava diventando un concetto di moda. Sapevo bene che Veza in realtà mirava soprattutto a distogliermi da quel genere di romanzi. Io ero deciso, ferocemente deciso, a non lasciarmi consigliare da nessuno, neanche da lei, e contrapponevo come un'arma quello che consideravo un romanzo riuscito. Anche se mi sentivo colpevole come incendiario e soffrivo molto di questa colpa, ciò non toglieva nulla alla qualità del romanzo, di cui ero fermamente convinto. Sebbene, ora che l'avevo finito, tutto mi spingesse verso il teatro drammatico, non potevo assolutamente escludere che dopo un periodo di esaurimento mi sarei dedicato a un altro romanzo, non meno lungo, che di nuovo avrebbe avuto per tema un caso di follia. Ma la notte in cui avevo scoperto il Wozzeck e la mattina seguente in cui il Lenz mi aveva sorpreso in uno stato di eccitata spossatezza, ebbero effetti decisivi. In poche pagine avevo trovato tutto ciò che si poteva dire sulla peculiarità della condizione di spirito di Lenz, e sarebbe stato terribile immaginare tutto que26

sto nella forma minuziosa di un romanzo. L'orgoglio e la tracotanza mi avevano abbandonato. Non scrissi un altro romanzo, e passarono mesi prima che ritrovassi la mia fiducia in « Kant prende fuoco ». Ma allora ero già tutto preso dal progetto di un dramma: Nozze. Se adesso dico che non avrei scritto Nozze senza la folgorazione notturna del Wozzeck potrà sembrare sulle prime un'esagerazione. Ma non posso aggirare la verità solo per evitare questa impressione. Non devo farlo. Le visioni di rovina che avevo allineato fino allora risentivano pur sempre dell'influsso di Karl Kraus. Tutto ciò che accadeva, e accadeva sempre il peggio, accadeva senza motivo e accadeva per giustapposizione, una cosa accanto all'altra. Veniva captato da uno scrittore ed era messo alla gogna, irriso. Era irriso dall'esterno, appunto da colui che scriveva, e su tutte le scene dello sfacelo lui teneva alta la sUa frusta. La frusta non gli dava requie, lo incalzava continuamente, e lui si fermava solo quando c'era qualcosa da frustare; ma non appena la punizione era inflitta, la frusta tornava a incalzarlo. In fondo accadeva sempre di nuovo la stessa cosa: gli uomini, nelle loro faccende più quotidiane, pronunciavano le frasi più banali stando ignari sull'orlo dell'abisso. Allora arrivava la frusta, li spingeva giù, ed era lo stesso abisso quello in cui cadevano tutti. Non c'era nulla che potesse salvarli dall'abisso. Perché le loro frasi non cambiavano mai, erano commisurate alla loro statura, e colui che aveva preso le loro misure era sempre lo stesso, lo scrittore con la frusta. Il Wozzeck mi aveva fatto scoprire una cosa per la quale trovai un nome solo in seguito, quando la chiamai autoirrisione. Se si esclude il protagonista, i personaggi che fanno l'impressione più forte si presentano da sé. Il dottore e il tamburo maggiore infieriscono su ciò che li circonda. Aggrediscono, ma in modi così diversi che si esita a usare per entrambi la stessa parola «aggressione ». Eppure è un'aggressione, e co27

me tale agisce su Wozzeck. Le loro parole, che non sono intercambiabili, si rivolgono contro Wozzeck e hanno le conseguenze più terribili. Ma le hanno solo in quanto rappresentano se stesse, e cioè il parlante, il quale, col proprio io, vibra un perfido colpo, un colpo che non si può dimenticare e dal quale lo si riconoscerebbe sempre e dappertutto. I personaggi, come ho detto, si presentano da sé. Nessuno li ha spinti avanti a frustate. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, si mettono alla gogna da sé, e in questo comportamento c'è più irrisione che punizione. Stanno davanti a noi, comunque siano, prima che su di loro sia stato pronunciato un giudizio morale. Certo, si pensa ad essi con disgusto, ma al disgusto si mescola la soddisfazione, perché si presentano senza immaginare l'orrore che suscitano. C'è una specie di innocenza nell'autoirrisione: non è stata ancora tesa una rete giuridica che la riguardi, una rete che, se mai, potrà essere gettata su di essa in seguito; ma nessun atto d'accusa, neanche quello del satirico più violento, potrebbe avere il peso dell'autoirrisione, poiché questa comprende anche lo spazio in cui un uomo esiste, anche il suo ritmo, la sua paura, i suoi respiri. È giusto che a queste creature si conceda senza riserve il pieno uso della parola «io» che il satirico puro non riconosce a nessuno, tranne che a se stesso. La vitalità di questo « io » immediato, non chiuso tra parentesi, è enorme. Questo « io » dice di sé più di qualsiasi giudice. Per il giudicante quasi tutto è contenuto nella terza persona, e perfino il discorso diretto, nel quale si dicono le cose peggiori, è usurpato. Solo quando ricade nel suo io il giudice è presente in tutta la terribilità degli atti che compie, ma allora anche lui è diventato personaggio ed è lui, il giudicante, a presentarsi ignaro nella sua autoirrisione. II capitano, il dottore, il reboante tamburo maggiore fanno la loro apparizione come per forza spontanea. Nessuno ha prestato loro la voce, essi dicono il proprio io, si scatenano tutti sulla stessa persona, ap28

punto Wozzeck, e affermano la propria esistenza in quanto lo colpiscono. Egli serve a tutti e tre, è il loro centro. Senza di lui non esisterebbero, ma Wozzeck lo ignora, non meno di quei tre; e si potrebbe perfino sostenere che egli trasmette ai suoi tormentatori il contagio della propria innocenza. Essi non possono essere diversi da quello che sono, è nella natura dell'autoirrisione comunicare questa impressione. La forza di questi personaggi, di tutti i personaggi è la loro innocenza. Si deve odiare il capitano, si deve odiare il dottore perché potrebbero essere diversi, solo che lo volessero? Si deve sperare in una loro conversione? Deve forse il dramma essere una scuola missionaria che i personaggi frequenteranno fino a quando si lasceranno descrivere in maniera diversa? Il satirico si aspetta dagli uomini che siano diversi. Li frusta come se fossero scolaretti. Li prepara per tribunali morali a cui essi dovranno forse rispondere un giorno. Sa perfino come potrebbero essere migliori. Dove attinge questa incrollabile sicurezza? Se non l'avesse, non potrebbe neppure mettersi a scrivere. Tutto comincia perché lui è impavido come Dio. Senza dirlo esplicitamente, il satirico è il rappresentante di Dio e si sente a suo agio in questa veste. Non si sofferma nemmeno un attimo a pensare che forse lui non è proprio Dio. Dal momento che questa istanza esiste, l'istanza suprema, da essa discende un potere di rappresentanza: si tratta solo di conquistarlo. Ma c'è anche un altro atteggiamento, totalmente diverso, che si vota alle creature e non a Dio, un atteggiamento che s'interessa alle creature in opposizione a Dio e forse arriva fino al punto di prescindere interamente da lui per occuparsi solo delle creature. Allora appare l'immutabilità delle creature, per quanto si possa volerle diverse da quelle che sono. Con l'odio o con le pene non si ottiene nulla dagli uomini. Gli uomini si accusano presentandosi come sono, ma è la loro autoaccusa, non l'accusa di un altro. La giustizia dello scrittore non può consistere nel condan29

narli. Egli può individuare colui che è la loro vittima e mostrare tutte le loro tracce su di lui come impronte digitali. Il mondo pullula di tali vittime, ma sembra che la maggiore difficoltà stia nel prendere una vittima e nel farne un personaggio, nel farla parlare in modo che le tracce rimangano riconoscibili e non si cancellino nelle accuse. Wozzeck è questo personaggio, e il dramma ci fa vivere ciò che egli subisce di volta in volta, e non c'è da aggiungere neanche una parola di accusa. In lui sono riconoscibili le tracce delle autoirrisioni. Quelli che si sono scatenati contro di lui sono davanti a noi, e quando per lui è la fine essi rimangono in vita. Il frammento non mostra come finisce Wozzeck: mostra ciò che egli fa, la sua autoirrisione dopo quelle degli altri.

Occhio e respiro I miei rapporti con Hermann Broch furono segnati, più di quanto avvenga di solito, dalle circostanze del nostro primo incontro. Io dovevo tenere una lettura del mio dramma Nozze nella casa di Maria Lazar, una scrittrice viennese che entrambi conoscevamo. C'erano alcuni invitati. Due di questi erano Ernst Fischer e sua moglie Ruth, ma non so più chi fossero gli altri. Broch aveva promesso di venire, tutti lo aspettavano, ma era in ritardo. Stavo già per cominciare quando lo vidi arrivare, all'ultimo momento, in compagnia di Brody, il suo editore. Ci fu appena il tempo per una rapida presentazione: prima ancora che ci fossimo scambiati qualche parola, diedi inizio alla lettura. Maria Lazar aveva raccontato a Broch quanto io ammirassi I sonnambuli, che avevo letto nell'estate di quel 1932. Lui non conosceva niente di mio, né poteva, dal momento che niente avevo pubblicato. Dopo l'impressione che avevo ricevuto dalla trilogia I son30

nambuli, e soprattutto da uno dei volumi, Huguenau, vedevo in lui un grande scrittore, mentre io ero per lui un giovane scrittore che lo ammirava. Poteva essere la metà di ottobre, e avevo terminato Nozze sette od otto mesi prima. Avevo letto il dramma ad alcuni amici, separatamente, ed erano amici che avevano una certa fiducia in me. Non era mai accaduto che si trovassero insieme in buon numero. A Broch, e questo è il punto importante, capitò così di ascoltare l'intero dramma in un colpo solo, in tutta la sua violenza, e senza sapere niente di me. Io lessi con passione, i personaggi presero vita e spicco a uno a uno, ben definiti dalle loro maschere acustiche - in questo non è più cambiato niente, in tanti anni che sono passati. Durò più di due ore, e lessi tutto d'un fiato. L'atmosfera era densa, compatta: oltre Veza e me ci sarà stata forse una dozzina di persone, ma la loro presenza si faceva sentire come se il pubblico fosse ben più numeroso. Avevo Broch proprio davanti a me, e mi colpì il modo in cui seguiva la lettura. La sua testa da uccello sembrava un po' incassata tra le spalle. Notai i suoi occhi durante la scena del portinaio Kokosch, l'ultima del prologo, quella che adesso mi è cara più di tutte le altre. La battuta che la Kokosch morente rivolge al marito: «Ehi tu, devo dirti una cosa», la battuta che è costretta a ricominciare più volte e che non riesce a terminare, segna per me il momento dell'incontro con gli occhi di Broch. Se gli occhi potessero respirare, quelli avrebbero trattenuto il fiato. Aspettavano che la frase fosse pronunciata fino in fondo, e quegli attimi di sospensione e di disperati tentativi erano riempiti dalle parole di Kokosch che raccontava la fine di Sansone. Era una doppia lettura, e al dialogo ad alta voce, che ormai non c'era più perché Kokosch non ascoltava le parole della moribonda, era subentrato un dialogo sotterraneo, tra gli occhi di Broch, che si erano concentrati sulla moribonda, e me, che ricominciavo ogni volta quella battuta e mi faS1

cevo interrompere dalle frasi bibliche del portinaio. Questo accadeva nella prima mezz'ora della lettura. Poi venne il dramma vero e proprio, che cominciava con una grande spudoratezza della quale però non mi vergognavo affatto, allora, tanto mi riusciva odiosa. Forse non avevo un'idea precisa del realismo di quelle scene disgustose. Una fonte era Karl Kraus, ma vi era stato anche un altro influsso: quello di George Grosz, del quale avevo ammirato e detestato la cartella delVEcce homo. Per la maggior parte si trattava di cose che avevo udito con le mie orecchie. Quando leggevo ad altri le squallide scene centrali non prestavo mai attenzione a ciò che mi circondava. Era abbastanza naturale: a un certo punto sei come invasato e allora credi di librarti nell'aria, trasportato da frasi volgari e terribili che non hanno niente, assolutamente niente a che fare con te ma ti esaltano sempre più, ti gonfiano a tal segno che cominci a volare sulle loro ali - come uno sciamano, forse, sebbene a quel tempo non potessi saperlo. Ma quella sera le cose andarono diversamente. Durante tutta la parte centrale del dramma sentii la presenza di Broch. Il suo silenzio era più tangibile di quello degli altri. Broch si tratteneva, così come si trattiene il respiro. Non sapevo quale fosse esattamente il meccanismo, ma sentivo che aveva a che fare con la lespirazione, e credo di essermi reso conto, quella sera, che Broch respirava in maniera diversa da tutti gli altri. Contro il chiasso spaventoso che facevano i miei personaggi s'innalzava il suo silenzio. Era un silenzio che aveva un che di corporeo ed era voluto e manovrato da lui, un silenzio che si produceva da sé: oggi so che dipendeva dal suo modo di respirare. Nella terza parte del dramma, col crollo vero e proprio e con la danza dei morti, non avvertii più nulla di ciò che mi accadeva intomo. Trascinato dallo sforzo e dalla tensione, ero cosi preso dal ritmo, che in quelle scene è l'elemento decisivo, da non poter individuate le reazioni di questo o quell'ascoltatore; e quando 32

ebbi finito mi ero dimenticato perfino della presenza di Broch. Avevo perso la nozione del tempo, doveva essere successo qualcosa, e può darsi che fossi tornato nella stanza in cui avevamo aspettato l'arrivo di Brcch. Fatto sta che egli mi rivolse la parola e disse che non avrebbe scritto il suo dramma se avesse conosciuto Nozze. (Sembra che proprio allora stesse lavorando a un dramma, e sarà stato quello che £u poi rappresentato a Zurigo). Disse altre frasi che preferisco non riportare, sebbene rivelassero con quale acutezza era penetrato nella genesi del dramma. Io non conoscevo ancora Broch, ma capivo che era scosso, che c'era stata una vera partecipazione. Brody, il suo editore, si limitò a un sorriso cerimonioso, un ghigno che non mi piacque affatto. Per lui non era successo niente, forse lo avevano irritato i furibondi attacchi alla borghesia, ma non voleva farlo vedere e si nascondeva dietro la cerimoniosità. Ma forse Brody era sempre così, non si lasciava mai scuotere. Non saprei dire che cosa lo legasse veramente a Broch, ma non c'era dubbio che era suo amico. I due non si trattennero a lungo, erano già attesi da qualche altra parte. Broch, sebbene fosse arrivato in compagnia del suo editore e questa circostanza facesse pensare a un certo sussiego, mi sembrò alla fine della lettura un uomo assai fragile. Era una bellissima fragilità che aveva il suo presupposto in un animo sensibile e dipendeva dagli avvenimenti e dalle oscillazioni nei rapporti tra le persone. Ai più sembrerà debolezza, ma io posso permettermi di chiamarla così perché la considero un privilegio, anzi una virtù, quando arriva a un tale grado di consapevolezza. Quando però sento parlare della « debolezza » di Broch da persone dell'ambiente mercantile, quello in cui egli era vissuto, o di altri ambienti simili, mi viene una gran voglia di farle tacere con uno schiaffo. Non mi riesce facile scrivere di Broch, perché non so come rendergli giustizia. Dovrei ricordare la trepidazione con cui mi avvicinai a lui, la corte impetuosa 33

che gli feci fin dall'inizio e alla quale cercava di sottrarsi, la cieca fiducia che mi faceva apprezzare tutto di lui, la bellezza dei suoi occhi, in cui mi sembrava di leggere tutto fuorché il calcolo: che cosa non ho visto di nobile in lui, e con quanta ingenuità e leggerezza mi sono lasciato andare a una specie di fanatismo senza nascondere la mia immensa ignoranza! Per quanto avessi uno spirito aperto e ansioso di sapere, questa ansia non aveva ancora dato i suoi frutti. Oggi, se provo a misurare quello che ero, mi rendo conto che avevo imparato ben poco, e addirittura nulla nel campo in cui Broch aveva una preparazione particolare: la filosofìa contemporanea. Aveva una biblioteca principalmente fìlosofica e non rifuggiva, come me, dal mondo dei concetti, ai quali era dedito come altri sono dediti ai locali notturni. Broch è stato il primo 'debole' che ho incontrato. Non gli interessava vincere e neanche prevalere e meno che mai mettersi in mostra. Si guardava bene dall'enunciare grandi propositi, perché gli ripugnava profondamente, mentre io non sapevo pronunciare due frasi senza dire : « Ci scriverò sopra un libro » - non riuscivo a esprimere un pensiero o forse soltanto un'osservazione senza aggiungere subito : « Ci scriverò sopra un libro». Ma la mia non era pura millanteria, perché avevo scritto un lungo libro, « Kant prende fuoco », e il manoscritto era già pronto, anche se pochi ne conoscevano l'esistenza, mentre mi ero prefisso di dedicare la vita a un altro libro, per me molto più importante, quello sulla massa, per il quale esistevano al momento soltanto alcune esperienze, che però andavano molto in profondità, e ampie e voraci letture che ad essa ritenevo collegate - mentre in verità si riferivano a « tutto » non meno che alla massa. La mia vita era dunque votata a una grande opera, e ne ero così convinto che potevo dire senza la minima esitazione: «Certo, ci vorranno decenni». Il fatto che io volessi includere tutto nei miei propositi e nei miei progetti, questo programma così vasto e inesauribile 34

dovette sembrare a Broch il segno di una passione autentica. Ciò che lo contrariava era il fanatismo crudele che faceva dipendere il miglioramento dell'umanità da un intervento punitivo, da un'autorità di cui 10 mi ero eletto tranquillamente organo esecutivo. Questo era uno dei frutti dell'insegnamento di Karl Kraus. Non avrei mai osato imitare Karl Kraus consapevolmente, ma da lui avevo assorbito un'infinità di cose, e in particolare, quando nell'inverno 1931-32 scrivevo Nozze, il suo furore. Con questo furore, che era diventato mio attraverso Nozze, mi ero presentato a Broch la sera della lettura del dramma. Lui se n'era lasciato soggiogare, ma non c'era niente altro in me che potesse soggiogarlo. Per 11 resto, come si vide poi, se accettò qualcosa di mio, lo fece alla sua maniera, in un modo che compresi molto più tardi, soltanto dopo la sua morte: assimilando e facendo propri gli impulsi di una volontà estranea dai quali non sapeva difendersi altrimenti. Broch cedeva sempre, e solo cedendo assimilava. Non era un processo complicato, era la sua natura, e credo di aver visto giusto collegando anche questo processo al suo modo di respirare. Ma tra le innumerevoli cose che assimilava ce n'erano alcune troppo prepotenti per lasciarsi conservare tranquillamente come in un magazzino. Questi elementi perturbatori, che lo colpivano come fìtte dolorose e che Broch condannava moralmente, si trasformavano in seguito, presto o tardi, in sue iniziative personali. Dopo l'emigrazione in America, quando decise di occuparsi della psicologia delle masse, non poteva certamente aver dimenticato i nostri colloqui su questo argomento. Ma il contenuto delle mie osservazioni, la sostanza vera, non l'aveva toccato in alcun modo. L'ignoranza dell'interlocutore, che non sapeva colorare le proprie parole con nessuna delle terminologie filosofiche dominanti, gli faceva trascurare del tutto il contenuto del discorso, anche quando aveva una sua originalità. Ciò che lo colpiva era l'energia dei propositi, la pre35

tesa di enunciare una nuova teoria che un giorno avrebbe preso forma; e sebbene questa teoria non esistesse affatto - se non in qualche gracile spunto lui accoglieva quei propositi come un comando e lasciava che quel comando fermentasse dentro di lui, come se a lui fosse diretto. Se in sua presenza cominciavo a parlare del mio progetto, lui captava una voce che gli diceva: « Fallo tu! », ma non capiva subito fino a che punto fosse un'imposizione e si congedava da me con dentro il germe di un compito per lui che fiorì poi in un altro ambiente ma non diede frutti. Mi accorgo di anticipare molte cose e di scompigliare così la chiara linea dei nostri rapporti; ma comunque siano cominciati, adesso è inevitabile, dopo tanti decenni, che io veda le cose così come andarono realmente tra noi già all'inizio, senza che nessuno di noi 10 sapesse, neanche lui. Non di rado, nelle sue frettolose camminate, Broch veniva a trovarci nella Ferdinandstrasse. Mi pareva di vedere in lui un uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze. Sembrava che si ricordasse di un tempo in cui poteva ancora volare. Non si era mai riavuto da quella mutilazione, da ciò che gli era successo. Avrei voluto fargli qualche domanda, ma allora non ne avevo il coraggio. La sua particolarità di bloccarsi nel discorso traeva in inganno, forse Broch avrebbe anche accettato di parlare di sé. Ma prima di parlare rifletteva, e da lui non c'era da aspettarsi qualcuna delle facili confessioni a cui mi avevano abituato tante persone che conoscevo a Vienna. Avrebbe parlato senza riguardi per se stesso, perché tendeva ad accusarsi. In lui non c'era traccia di autocompiacimento, si apriva con molta insicurezza, ma era, così mi sembrava, una insicurezza acquisita. Benché lo irritasse 11 mio tono risoluto, era troppo riguardoso per darlo a vedere. Me ne accorgevo, tuttavia, e quando lui se ne andava mi restava addosso un senso di vergogna. Mi facevo dei rimproveri perché avevo l'impressione 36

di non riuscirgli simpatico. Broch avrebbe voluto ispirarmi qualche dubbio su me stesso, forse educarmi cautamente a dubitare di me, ma proprio non gli riusciva. Io lo mettevo su un piedistallo, ero entusiasta dei Sonnambuli perché vi aveva dimostrato una capacità che io non avevo. L'atmosfera, in un'opera letteraria, non mi aveva mai interessato, pensavo che fosse qualcosa da lasciare alla pittura. Ma in Broch l'atmosfera era presente in un modo che non poteva lasciare insensibili. Era una capacità che ammiravo, perché ammiravo tutto quello che mi era negato: non mi faceva perdere di vista ciò che mi prefiggevo, ma era meraviglioso scoprire che c'era qualcosa di totalmente diverso che aveva un suo diritto di esistere e che attraverso la lettura liberava da se stessi. Per uno scrittore queste trasformazioni dovute alla lettura sono essenziali: egli può veramente ritornare a se stesso e ritrovarsi solo se è stato trascinato via con violenza da qualcun altro. Broch portava subito nella Ferdinandstrasse ogni brano di prosa che gli veniva pubblicato. Per lui aveva una particolare importanza ciò che appariva nella «Frankfurter» e nella «Neue Rundschau». Non avrei mai immaginato che tenesse tanto al mio giudizio. Quale bisogno avesse di consenso lo compresi solo più tardi, alcuni anni dopo la sua morte, quando furono pubblicate le sue lettere. Sebbene lo irritasse il mio modo di parlare, cosi affermativo, accettava volentieri un giudizio perentorio quando riguardava lui, e lo citava addirittura nelle sue lettere ad altre persone. A quel tempo avevo trovato una spiegazione quasi mitica alla frettolosa andatura di Broch: lui, il grande uccello, non sapeva rassegnarsi all'idea che gli avessero mozzato le ali. Non poteva più ritrovare la libertà di quell'atmosfera, unica, in cui si librava sopra tutti gli uomini. Ma in compenso, in mezzo agli uomini, non si lasciava sfuggire uno solo di quelli che io chiamo campi di respirazione. Altri scrittori facevano col37

lezione di uomini, lui raccoglieva i loro campi di respirazione, contenenti l'aria che avevano inalato e poi espulso dai polmoni. Da questa aria accumulata lui desumeva la loro natura, definiva gli uomini attraverso i loro rispettivi campi di respirazione. A me sembrava qualcosa di assolutamente nuovo, qualcosa in cui non mi ero mai imbattuto. Sapevo di scrittori che si lasciavano guidare da ciò che è visivo, di altri che si affidavano all'udito. Non avrei mai pensato che uno scrittore potesse lasciarsi guidare dal suo modo di respirare. Broch era molto riservato e, come ho già detto, dava un'impressione di insicurezza. Dovunque posasse lo sguardo, risucchiava tutto in sé, non col ritmo di chi inghiotte ma con quello di chi inspira. Non toccava, non urtava nulla, tutto rimaneva com'era, immutabile, e conservava il proprio particolare alone d'aria. Sembrava che Broch assorbisse le cose più disparate per custodirle in sé. Diffidava dei discorsi troppo impetuosi, e per quanto fossero animati da buone intenzioni vi fiutava il male. Per lui nulla era di là del bene e del male; e il fatto che fin dal primo momento, fin dalla prima frase assumesse un atteggiamento responsabile e non se ne vergognasse, gli valse tutta la mia ammirazione. Questo atteggiamento si rivelava anche nel ritegno con cui dava un giudizio, in quello che io chiamai ben presto il suo 'bloccarsi'. Questo suo 'bloccarsi' - e cioè la sua tendenza a chiudersi in lunghi silenzi, lasciando però trasparire con quanta intensità rifletteva - io lo spiegavo col desiderio di non affliggere l'interlocutore, chiunque fosse. Soffriva a dover badare al proprio interesse. Sapevo che apparteneva a una famiglia di industriali e che suo padre era stato il proprietario della filanda di Teesdorf. Broch vi aveva lavorato controvoglia perché desiderava invece diventare un matematico. Alla morte del padre dovette occuparsi di tutta l'azienda, non per il proprio tornaconto, ma perché bisognava provvedere alla madre e agli altri membri della faS8

miglia. Continuò a studiare per una specie di sfida e in seguito studiò anche filosofia. Quando lo conobbi, frequentava il seminario di filosofia dell'Università di Vienna e ne parlava come di una cosa molto seria. Intuivo che le origini mercantili avevano suscitato in lui una reazione simile alla mia: un'avversione profonda che ricorreva a ogni mezzo per opporre una barriera difensiva. E poiché non poteva smettere di dedicarsi alla fabbrica paterna, neanche da adulto, neanche nella maturità, aveva bisogno di difese particolarmente efficaci. Le sue inclinazioni lo portavano verso le scienze esatte, ed era disposto ad accettarle e a subirle anche nella loro forma accademica. Io cercavo di immaginarlo nella veste di studente, un uomo spiritualmente cosi ricco e vivo. Se era tanto saggio da rimanere insicuro, come poteva trovare sicurezza nei seminari? Gli interessava il dialogo, ma poi si comportava come se fosse sempre lui a dover imparare, mentre nella maggior parte dei casi non poteva essere così, poiché saltava agli occhi la sua superiorità sugli interlocutori. Da tutto questo desumevo che fosse la bontà d'animo a trattenerlo ddìVumiliare il suo prossimo. Al Café Museum feci la conoscenza di Ea von Allesch, l'amica di Broch. C'eravamo incontrati, io e lui, non so dove. Mi disse di avere un appuntamento con Ea e di averle promesso di condurre anche me. Mi sembrava vagamente impacciato, aveva un tono diverso dal solito ed era arrivato molto in ritardo. « Ci sta aspettando da un pezzo » disse. Affrettò l'andatura e alla fine superò la porta girevole quasi volando e trascinandomi a rimorchio dentro il locale. «Abbiamo fatto tardi » disse subito, quasi umilmente, prima ancora di presentarmi. Poi disse il mio nome e aggiunse in un tono neutro che non tradiva più nessuna preoccupazione: «E questa è Ea Allesch». Quel nome l'avevo già sentito da lui qualche volta, e mi era sembrato strano, perfino enigmatico, sia il 39

nome che il cognome. Non avevo domandato a Broch da dove venisse quel!'® Ea », e neppure in seguito ho voluto saperlo. Era una donna non giovane, sulla cinquantina, aveva la testa di una lince, ma di velluto, e i capelli rossicci. Era bella, e io pensai quasi sbalordito quanto doveva essere stata bella. La voce era morbida e sommessa, ma così insistente da ispirare subito un po' di paura. Era come se lei, senza accorgersene, ti avesse messo gli artigli addosso. Ma dava quell'impressione solo perché si sentiva in dovere di contraddire Broch a ogni frase, inesorabilmente. Domandò dove ci eravamo attardati e disse che era lì ad aspettare da un'ora, ormai convinta che non saremmo più venuti. Broch le spiegò dove eravamo stati; ma sebbene mi chiamasse in causa, come se io fossi lì per testimoniare, lei aveva l'aria di non credere una parola: non fece alcuna obiezione, ma non si rassegnava; e anche quando eravamo seduti lì da un bel po', tornava alla carica con una frase in cui il suo dubbio era ormai consolidato, come se fosse già diventato storia e lei volesse soltanto far notare che lo aggiungeva a tutti gli altri suoi dubbi. Cominciò tra noi una conversazione letteraria. Broch, per deviare il discorso dal nostro ritardo, accennò alla serata in cui, subito dopo la lettura di Nozze, era andato da Ea nella Peregringasse e le aveva parlato del mio dramma. Era come se Broch volesse pregarla di prestarmi un po' di attenzione, e lei non trovò niente da ridire sulle circostanze di quella serata, ma le rivoltò subito contro di lui. Raccontò che Broch, dopo la lettura, era molto depresso e si era lagnato di non essere un vero drammaturgo, perché dopo tutto aveva scritto un solo dramma, quello che aveva mandato al teatro di Zurigo e che adesso avrebbe preferito ritirare. Da qualche tempo, disse ancora Ea, Broch si era messo in testa di dover solo scrivere; e chi sa chi gli aveva fatto venire un'idea simile, probabilmente una donna. Tutto questo era detto in un tono soave, quasi accattivante, sebbene lì non ci fosse nes40

suno da accattivarsi; e l'effetto era micidiale. Ea aggiunse di aver capito già dalla grafia di Broch che lui non era un vero scrittore, e di averglielo anche detto: lei era grafologa, infatti, e bastava confrontare la scrittura di Broch con quella di Musil per capire la differenza. Io ero talmente imbarazzato che colsi al volo l'accenno a Musil per domandarle se lei lo conosceva. Certo che lo conosceva, da decine di anni, fin dal tempo in cui era sposata con Allesch, anzi da prima ancora, prima di conoscere Broch. Quello sì era uno scrittore, disse, e il tono era totalmente cambiato. Quando poi aggiunse che Musil non aveva una grande considerazione per Freud e non si lasciava facilmente prendere per il naso, mi resi conto che la sua animosità si rivolgeva contro tutto ciò che per Broch contava, mentre Musil godeva della sua ammirazione incondizionata. Lo aveva visto spesso negli anni del suo matrimonio con Allesch, che era il più vecchio amico di Musil,* e qualche volta lo vedeva ancora, nonostante il tempo trascorso dal divorzio. Dava molta importanza alla propria esperienza di grafologa e aveva le sue idee anche in fatto di psicologia. « Io sono Adler, » disse indicando se stessa « e lui è Freud » aggiunse indicando Broch. Quest'ultimo era veramente devoto a Freud, vorrei dire in modo religioso - non che fosse diventato un fanatico, come tanti altri che conoscevo a quel tempo, ma era impregnato di Freud come di una dottrina mistica. Broch non era uomo da nascondere le proprie difficoltà. Non andava in giro a mostrare soltanto la facciata. Non so perché avesse voluto condurmi all'appuntamento con Ea così presto, quando la nostra co• Johannes Gustav von Allesch (1882-1967), autore di fondamentali studi sulla percezione dei colori, docente di psicologia in diverse università tedesche. Musil ideò per lui un apparecchio per la valutazione della sensibilità ai colori. Allesch dedicò all'amico il saggio « Robert Musil nel movimento intellettuale del suo tempo » [N.d.T.]. 41

noscenza era appena cominciata. Sapeva benissimo che lei non lo portava in palma di mano. Forse, sentendosi disprezzato da Ea come scrittore, voleva opporle qualcuno che invece lo stimava molto; ma questo è un particolare che allora mi sfuggi. Solo a poco a poco venni a conoscenza dei meriti che Broch si era fatto come mecenate: era un industriale che anteponeva le cose dello spirito alla propria fabbrica e che trovava sempre il modo di aiutare gli artisti. Aveva conservato il suo animo nobile, ma ormai si capiva che non era più un uomo ricco. Non si lamentava delle sue ristrettezze, bensì della mancanza di tempo. Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero voluto vederlo più spesso. Col suo atteggiamento Broch induceva l'interlocutore a parlare di sé, a infervorarsi, a non smetterla più. L'interlocutore si convinceva che la sua persona, i suoi propositi, i suoi grandi progetti suscitavano in Broch un interesse particolare, mentre sarebbe bastato conoscere I sonnambuli per capire che l'interesse di Broch si rivolgeva a ogni persona. In realtà tutto questo dipendeva dal suo modo di ascoltare, che soggiogava. Ci si effondeva nel silenzio di Broch, non s'incontrava mai un ostacolo. Si sarebbe potuto dire tutto, lui non respingeva niente, non si provava timore se prima una certa cosa non era stata detta fino in fondo. Mentre di solito in queste conversazioni si arriva a un punto in cui si ha un soprassalto e si dice tra sé: «Alt, fin qui e non oltrel », perché il desiderio di abbandonarsi è stato già largamente appagato e comincia a diventare pericoloso - infatti, come si può poi tornare indietro e ritrovare se stessi, come si potrà essere di nuovo soli? - , con Broch questo punto e questo momento non venivano mai, non c'era niente che ordinasse l'alt, non s'incontravano mai segnali di pericolo o linee di demarcazione, si continuava ad arrancare, sempre più avanti, sempre più in fretta, e come in uno stato di ubriachezza. È un'esperienza sconvolgente scoprire quante cose abbiamo da dire su noi stessi; e quanto 42

più ci avventuriamo e ci smarriamo in questo territorio, tanto più la corrente s'ingrossa: dal sottosuolo erompono le sorgenti calde, diventiamo un paesaggio di geyser. Le eruzioni di questo tipo non mi erano ignote, le avevo subite io stesso da altri, con la differenza che io ero abituato a reagire: dovevo dire la mia, non potevo star zitto, e nel parlare prendevo posizione, giudicavo, consigliavo, lasciavo trasparire simpatia o antipatia. Broch invece, in una situazione simile, taceva. Non era un silenzio freddo o calcolato, un silenzio come quello della psicoanalisi, dove in sostanza un uomo si consegna irrimediabilmente a un altro che non deve permettersi alcun sentimento, né favorevole né contrario. Il silenzio con cui Broch ascoltava era interrotto da piccoli, percettibili respiri, i quali dimostravano all'interlocutore che non era stato solo ascoltato, era stato accolto, come se ogni frase gli avesse aperto l'accesso a una casa in cui poteva accomodarsi a suo agio. I piccoli suoni che accompagnavano i respiri erano gli onori che l'anfitrione rendeva all'ospite: «Chiunque tu sia, qualunque cosa tu dica, entra pure, sei mio ospite, rimani finché vuoi, ritorna, resta pure per sempre! ». Quei piccoli suoni erano una reazione ridotta al minimo, mentre parole e frasi compiute avrebbero comportato un giudizio e avrebbero avuto il valore di una presa di posizione prima ancora che tu avessi messo piede nella casa ospitale con tutto quello che ti eri portato dietro. Lo sguardo dell'anfitrione era sempre puntato su di te e, nello stesso tempo, verso l'interno delle stanze in cui ti invitava. Sebbene la sua testa somigliasse a quella di un grosso uccello, l'occhio non celava mai propositi rapaci. Lo sguardo di Broch si perdeva in una lontananza che quasi sempre inglobava l'interlocutore che gli stava vicino, e ciò che vi era di più profondo in lui, mentre guardava, si collocava nello stesso rapporto di vicinanza e lontananza. Era un'accoglienza arcana, quella che ti riservava, e 43

per quell'accoglienza ti lasciavi soggiogare da Broch. A quel tempo non conoscevo una sola persona che non la desiderasse ardentemente. Quell'accoglienza non aveva 'segni premonitori', non aveva un prezzo, e nelle donne diventava amore.

Inizio di un contrasto Nel corso dei cinque anni e mezzo in cui Broch fu presente nella mia vita, mi sono reso conto solo a poco a poco di una cosa che oggi, mentre una minaccia perentoria sovrasta ogni forma di vita, può apparire naturale: la nudità del respiro. Il mezzo principale con cui Broch percepiva e assimilava il mondo circostante, il senso che in lui primeggiava, era il respiro. Mentre altri sono costretti a vedere e udire in continuazione, senza fine, e si concedono un po' di riposo solo di notte, ritirandosi nel sonno, Broch era senza tregua in balìa del proprio respiro: non poteva liberarsene e cercava di scomporlo con quei suoni, appena percettibili e rauchi, che io ho chiamato la sua punteggiatura respiratoria.* Compresi ben presto che Broch non era capace di scrollarsi di dosso nessuno. Mai una volta gli ho sentito pronunciare un « no ». Gli riusciva più facile scrivere un «no», perché allora la persona a cui era diretto non gli stava di fronte e non gli mandava il proprio respiro. Per strada uno sconosciuto avrebbe potuto rivolgergli la parola e prenderlo per il braccio: Broch lo avrebbe seguito senza la minima resistenza. Non mi era mai accaduto di assistere a una scena simile, ma me la immaginavo e mi domandavo dove Broch avrebbe seguito quell'uomo: fino in un luogo che era de• Si veda, in La coscienza delle parole, il discorso tenuto da Canetti a Vienna, nel novembre 1936, per il cinquantesimo compleanno di Hermann Broch [iV.d.T.]. 44

terminato dal respiro dello sconosciuto. Quella che comunemente si chiama curiosità assumeva in Broch una forma particolare che si è tentati di definire 'avidità respiratoria'. Ho scoperto allora, attraverso Broch, che ogni atmosfera è un mondo peculiare e separato in cui si può trascorrere una vita senza avere coscienza di questa peculiarità. Ogni essere respirante, e quindi ogni persona, poteva catturare Broch. Era stupefacente il modo in cui si esponeva, alla sua età, dopo tante esperienze e dopo essersi occupato Dio sa di quante cose. Per lui ogni incontro era un rischio, perché non sapeva più sottrarvisi. Per liberarsene, aveva bisogno di persone che lo aspettassero già da qualche altra parte. Fissava dei punti d'appoggio, sparsi in tutta la città e magari molto distanti l'uno dall'altro. Quando arrivava in un posto, per esempio da Veza nella Ferdinandstrasse, andava subito al telefono e chiamava Ea Allesch. « Sono dai Canetti, » diceva « arrivo subito ». Sapeva che là era già atteso, e dava una spiegazione rispettabile del proprio ritardo. Ma questo era il motivo apparente e superficiale della telefonata, un motivo dettato dall'atteggiamento ostile di Ea. Non telefonava soltanto a Ea: anche quando l'aveva appena lasciata e lei sapeva benissimo da chi era andato, Broch si rivolgeva a Veza, che non aveva ancora finito di salutarlo, e le domandava: « Posso telefonare? ». Dall'altra parte c'era qualcuno a cui diceva dove si trovava in quel momento. Ogni volta era la persona che lo aspettava, e sembrava naturale che Broch la chiamasse, poiché doveva giustificare i suoi invariabili ritardi. Ma in realtà, credo, era ben altra l'operazione che Broch cercava di compiere. Si premuniva, si assicurava la strada che lo conduceva dall'una all'altra persona. Si preparava a dover percorrere in fretta la prossima tappa. Nessuna sorpresa doveva impedirglielo, nessuna 'cattura'. La fretta con cui camminava quando lo si vedeva per caso in giro, era la sua unica difesa. La prima cosa che diceva - in tono molto cortese, benché sostituisse 45

il saluto - era : « Ho una gran fretta » ; e muoveva le braccia, le sue ali mozzate, come se volessero levarsi in volo, le agitava un paio di volte e le lasciava ricadere scoraggiato. In quei momenti mi faceva pena. Pensavo: « Poveretto, peccato che non possa volare! È sempre costretto a correre! ». La sua era una doppia fuga: doveva strapparsi da coloro con i quali stava in quel momento, perché altri lo aspettavano, e lungo il cammino doveva sfuggire a tutti quelli che potevano incontrarlo e cercavano di trattenerlo. A volte lo seguivo con gli occhi mentre scompariva in fondo alla strada: la sua pellegrina svolazzava al vento come un paio d'ali. La rapidità del movimento era più apparente che reale. Quella testa d'uccello e la pellegrina davano nell'insieme l'idea di un volo tarpato che però non era mai indecoroso o scomposto. Quel tipo di deambulazione era diventato qualcosa di naturale, di congenito. Ho voluto accennare subito a ciò che vi era di incomparabile in Broch, a ciò che lo distingueva da tutte le persone che ho conosciuto. Se si prescinde da quei misteriosi processi respiratori che condizionavano il suo aspetto e le sue reazioni fisiche, ogni conversazione con Broch era così interessante che dispiaceva interromperla. Io gli avevo dedicato una devozione intatta e appassionata, rovesciandogli addosso un vero diluvio di opinioni, convinzioni, progetti; ma qualunque cosa esponessi, qualunque cosa arrischiassi, in lui restava sempre incancellabile la prima, violenta impressione provocata da Nozze dopo oltre due ore di lettura. Questa impressione rimase dietro a tutto ciò che mi disse negli anni seguenti, ma Broch era troppo riguardoso per farlo notare. Non si lasciò mai sfuggire una frase da cui potessi desumere che con me si sentiva a disagio. La casa di Nozze era crollata e tutti erano scomparsi nel crollo. Broch si rendeva conto dello stato di disperazione da cui era nato il mio dramma. In quegli anni era una disperazione condivisa da non poche per46

sone, anche da lui. Ma la forma spietata in cui l'avevo espressa lo metteva in sospetto, come se io stesso facessi parte della minaccia che incombeva su tutti noi. Non credo che da questo egli traesse qualche conclusione. Aveva conosciuto Karl Kraus molto prima di me - io avevo diciannove anni meno di lui - e non era rimasto indifferente a Kraus e alla sua violenza, tanto superiore alla mia. Nelle nostre conversazioni il nome di Kraus non ricorreva spesso, ma Broch lo nominava con particolare rispetto. Non mi è mai successo, al tempo in cui vi partecipavo, di vedere Broch a una delle serate di Kraus. Una testa come la sua non l'avrei dimenticata. Forse evitava le letture pubbliche di Kraus da quando si era dedicato ai propri libri, forse non ne sopportava più ciò che vi era di soffocante. In questo caso avrebbe dovuto infastidirlo l'incontro con un'opera come Nozze, pervasa anch'essa di paure apocalittiche. Le mie, comunque, sono congetture: non potrò mai stabilire da che cosa dipendessero le reazioni segrete di Broch, forse cercava soltanto di sottrarsi alla mia impetuosa infatuazione per lui come a ogni altra infatuazione. Per le nostre prime conversazioni ci incontravamo al Café Museum all'ora di pranzo, ma nessuno dei due era solito mangiare qualcosa. Erano conversazioni animate, alle quali anche lui partecipava vivacemente (solo in seguito fui colpito dal suo silenzio, sempre più colpito). Ma non duravano a lungo, forse un'ora, e proprio nel momento in cui la discussione si era fatta così interessante che sarei rimasto li per tutta la vita, lui si alzava di colpo e diceva: «Devo andare dalla dottoressa Schaxl ». Era la sua analista. Broch era in analisi da anni, e poiché faceva in modo che c'incontrassimo poco prima della seduta, io avevo la sensazione che andasse dall'analista ogni giorno. Mi sembrava di ricevere una mazzata sulla testa: quanto più libero e schietto era il tono con cui mi rivolgevo a lui - ogni sua frase aveva l'effetto di aumentare il mio slancio - , quanto più sapienti e penetranti erano le 47

sue risposte, tanto più soffrivo per quell'interruzione improvvisa; e per di più mi sentivo offeso da quel nome ridicolo, Schaxl. C'erano li due persone impegnate nella conversazione, e lui, l'uomo di cui mi bevevo le parole, l'uomo che aveva scritto un'opera come I sonnambuli, lui si alzava, lasciava una frase a metà e correva via per andare a parlare ancora una volta, come ogni giorno (cosi mi sembrava), con una donna che si chiamava Schaxl e faceva l'analista. Io restavo interdetto, sgomento, mi vergognavo per lui e non osavo immaginarlo nello studio di quella Schaxl, costretto a stendersi su un divano e a dirle cose che nessun altro poteva ascoltare e di cui forse egli non teneva neppure un appunto. Bisogna aver conosciuto Broch, la serietà, la dignità, la bellezza con cui stava li seduto ad ascoltare, per comprendere quanto appariva umiliante il fatto che si stendesse su un divano per parlare - e senza guardare in faccia nessuno con quei suoi occhi. Ma è anche possibile, così penso adesso, che Broch cercasse di salvarsi dal diluvio delle mie parole, che non potesse sopportare il protrarsi di quelle conversazioni e che quindi scegliesse di proposito l'ora dell'appuntamento con me in modo che precedesse di poco la seduta dall'analista. D'altra parte Broch era così devoto a Freud che non rifuggiva neppure da usarne i termini, in tutto il loro significato e senza un'ombra di dubbio, anche nel corso di una conversazione seria e spontanea. Questo particolare non poteva non impressionarmi, perché sapevo della vasta cultura filosofica di Broch; ed era un'impressione poco gradevole, perché stava a indicare che egli metteva Freud sullo stesso piano di Kant, che pure adorava, di Spinoza e di Platone. I termini che nel linguaggio viennese di allora erano diventati banalità quotidiane, lui li pronunciava accanto a parole santificate da una venerazione secolare, compresa la sua. 48

Ci conoscevamo da poche settimane quando Broch mi domandò se avevo voglia di tenere una lettura all'Università popolare di Leopoldstadt. Lui stesso vi era andato a parlare qualche volta, e volentieri mi avrebbe presentato all'uditorio. Mi sentii molto onorato dalla proposta e accettai. L'organizzatore, il dottor Schònwiese, fissò la lettura per il 23 gennaio 1933. Prima che finisse l'anno vecchio portai a Broch il manoscritto di « Kant prende fuoco». Alcune settimane dopo, eravamo già in gennaio, egli mi chiese di andare a trovarlo nella Gonzagagasse, dove abitava. «Che cosa vuol dire con questo?». Furono le sue prime parole, accompagnate da un gesto indefinito con cui mi indicò il manoscritto del romanzo, posato sul tavolo accanto a lui. La domanda mi lasciò talmente stupito che non seppi rispondere. Mi sarei aspettato qualsiasi altra domanda. Come si poteva riassumere in poche frasi ciò che si è voluto dire con un romanzo? Balbettai qualche parola quasi incomprensibile, certamente senza molto senso, ma dovevo pure rispondere qualcosa. Broch chiese scusa e ritirò la domanda. « Se lei lo sapesse, non avrebbe scritto il romanzo. La mia è stata una pessima domanda». Capì che non avevo un discorso bell'e pronto da tirar fuori per l'occasione, e tentò di circoscrivere l'argomento escludendo un po' alla volta tutto ciò che a suo giudizio non poteva costituire il vero intento del romanzo. « Immagino che lei non avrà voluto scrivere semplicemente la storia di un pazzo. Non può essere stata questa la sua vera intenzione. Né, credo, voleva soltanto darci una figura grottesca alla maniera di Hoffmann o di Poe ». Confermai che non era stata questa la mia intenzione, e lui annuì. Poiché lo aveva colpito l'aspetto grottesco dei personaggi, mi sentii in dovere di portare il discorso su Gogol', che in effetti era stato un mio modello. 49

« Ero piuttosto sotto l'influsso di Gogol' » dissi. , poteva non piacergli. Era chiaro che Sch. non sapeva niente di cose letterarie e si sarebbe affidato a me. Ma io ero stato messo al bando per il mio eretico accenno a Thomas Mann. Tuttavia la tenacia con cui avevo continuato a sostenere che lui, Musil, stava più in alto di tutti, aveva avuto il suo peso nell'indurre Musil ad accettare la mia presenza. Verso Wotruba si sentiva attratto. Wotruba gli piaceva straordinariamente: non aveva niente a che fare con la letteratura, ma le sue parole avevano vigore e penetravano come proiettili. La faccia di Musil, quando qualcuno gli piaceva, esprimeva meraviglia. Era una meravìglia controllata che non degenerava mai in effusioni. Musil aveva il potere di determinare il peso esatto delle proprie reazioni e non si sbagliava. La sua meraviglia era limitata, ma entro quei limiti non perdeva nulla della sua purezza. Musil non la assoggettava a scopi particolari. Adesso, quando diceva qualcosa, dava la sensazione dì aspettare una reazione, quella di Wotruba, come se nessun'altra contasse. Non aveva dato troppo 354

peso al proclama ben tornito di Blei. Erano cose che conosceva da un pezzo e senza dubbio le aveva già assimilate. Mi venne il sospetto che lo annoiassero. Le mandò giù perché erano pronunciate dal suo primattore, ma non vi si soffermò e sorrise con indulgenza, prendendone così le distanze. Il rude intervento di Wotruba, col rifiuto opposto a Blei e poi con l'invito a Musil perché dicesse la sua, fu apprezzato da quest'ultimo, che infatti cominciò senza timore a sondare cautamente il progetto della rivista. Insistette nel suo proposito di scrivere su un tema di poesia e cercò di sapere qualcosa di più preciso su quello che poteva fare al caso. Sch. osservò che era una bella coincidenza, perché sua moglie, che non era presente alla discussione, s'interessava in modo del tutto particolare alla poesia. A buon diritto, dal momento che per lei, cinese, la lirica faceva parte di un antico patrimonio ereditario. Per sua moglie la lirica era addirittura più importante della musica. Certo, lui l'aveva conosciuta come allieva a un corso di direzione orchestrale che teneva a Bruxelles, e la ragazza era venuta apposta dalla Cina a Bruxelles per averlo come maestro, ma lui era sempre più convinto che le stesse più a cuore la poesia. Adesso gli dispiaceva di non averla portata con sé. Sua moglie aveva preparato per la rivista certi progetti che si riferivano esclusivamente alla lirica e si era annotata tutta una serie di possibilità, quella che lei chiamava la sua « lista ». Ed era prontissima a presentarla subito, ma a lui, Sch., non avevano detto che il signor Musil si occupava anche di poesia, e perciò gli era sembrato sconveniente mettere in tavola questo argomento fin dalla prima discussione. Ma c'era tempo, meglio preparare la cosa con la cura necessaria. Avrebbe provveduto lui a mandare al signor Musil le riflessioni di sua moglie insieme a quella lista di temi nel campo della lirica, che cadevano tutti a proposito. Del resto sua moglie parlava solo il francese, lui all'occorrenza poteva intendersi con lei, a voce non era tanto facile, 355

e anche per questo aveva esitato a portarsela subito dietro; ma lei scriveva un francese eccellente, già a Bruxelles tutti le avevano fatto grandi elogi. E poi anche Veza si era offerta di rivedere punto per punto quei testi francesi, per maggior sicurezza, e quindi il signor Musil non doveva darsene pensiero. Nessuno era abituato ad ascoltare da Scherchen perorazioni così circostanziate. In generale si accontentava di dare ordini o di spiegare faccende musicali. Ma della sua nuova moglie cinese parlava volentieri. Era fiero di lei, con lei al fianco faceva scalpore. Era una donna affascinante, molto colta, di ottima famiglia. Aveva assistito all'invasione giapponese, e quando ne parlava faceva rivivere quegli spaventosi avvenimenti. A Bruxelles, cosi delicata, esile, avvolta in seta cinese, aveva diretto Mozart, e a quella vista Sch. si era innamorato di lei; ma quando parlava della guerra in Cina, dalla sua bocca crepitavano le mitragliatrici, tac-tac-tac. Dopo essere tornata a Pechino aveva scritto a Sch., e lui aveva disdetto tutti i concerti ed era partito con la Transiberiana per Pechino. Disponeva solo di cinque giorni, non poteva concedersi più di cinque giorni per sposare Shù-Hsien. All'arrivo gli avevano detto che non era possibile fare le cose così in fretta, che doveva prendersi più tempo già solo per il matrimonio, ma anche là aveva fatto valere la propria volontà : in capo a cinque giorni aveva sposato Shù-Hsien, l'aveva lasciata provvisoriamente presso i genitori, si era rimesso in treno e dopo poco più di un mese era di nuovo in Europa, ai suoi concerti. Shu-Hsien lo seguì alcuni mesi dopo, e i due si stabilirono nella nostra casa di Grinzing. Lì fummo testimoni del primo periodo del loro matrimonio. La lingua in cui dovevano intendersi era il francese : corretto, ma scandito in una musica di monosillabi, quello di lei; un franco-tedesco indicibilmente barbaro, infarcito di errori e per noi assolutamente incomprensibile, quello di lui. Sch. mise subito al lavoro la mo356

glie cinese, che tutto il giorno doveva copiare note per lui, voci per la sua orchestra. Mi domando quando le restasse il tempo per trovare temi di poesia per la progettata rivista « Ars Viva ». Forse le era capitato una volta di parlare con Sch. della lirica cinese. Può darsi che lui allora, pronto com'era a trarre profitto da tutto, le avesse dato l'incarico di mettere su carta le proprie idee sull'argomento. Ora, durante la discussione, questo ricordo gli veniva proprio al momento buono. Poteva promettere a Musil qualcosa, una serie di temi che forse lo avrebbe allettato e la cui esposizione non sarebbe costata alcuna fatica a Shii-Hsien, che era ferrata in letteratura francese. Sch. era talmente infatuato del suo amore cinese che non avrebbe mai smesso di parlarne. A quel tempo mi riusciva simpatico. Il rancore che covavo in me dai giorni di Strasburgo sembrava sfumato. Il cambiamento era cominciato quando avevo ricevuto un suo telegramma, del tutto inatteso, con cui mi pregava caldamente di andare il tal giorno e alla tal ora, con le indicazioni più precise, alla stazione Ovest di Vienna, dove lui avrebbe fatto una sosta di un'ora fra due treni. Io c'ero andato, più per curiosità che per compiacerlo. All'arrivo del treno, ancora dal finestrino aperto, Sch. mi aveva dato la grande notizia: « Vado a Pechino a sposarmi! ». Poi, appena ebbe messo piede sulla banchina, giù tutta la storia, senza nemmeno prender fiato. Parlava della sua cinese con entusiasmo. Mi descrisse quel che aveva provato nel vederla dirigere Mozart in costume cinese. Era incredibile: Sch. aveva parole, parole estasiate, per un altro essere umano. Le aveva promesso di sposarla non appena lei gli avesse scritto, sui due piedi, per così dire. E adesso lei gli aveva scritto, ed era come se lui, che di solito dava sempre ordini, fosse agli ordini di qualcun altro: gli ordini venivano dall'altra parte della Terra, e lui vi si assoggettava ciecamente e beatamente. Non l'avevo mai visto in quella disposizione di spirito, e mentre continuava a parlare 357

senza prender fiato sentii che all'improvviso mi era simpatico. Sembrava inconcepibile che lui, quell'animale da lavoro, avesse disdetto per cinque settimane tutti i concerti e le prove. Nella sua ebbrezza nuziale aveva dimenticato qualcosa d'importante. A un tratto spuntò di corsa Dea Gombrich, la violinista, anche lei convocata alla stazione. Era in ritardo, lui le disse soltanto che andava a Pechino a sposarsi e la pregò di correre a comprargli una cravatta, perché si era dimenticato di portarsene dietro una per la cerimonia. Lei scappò via subito e ritornò in tempo, prima che il treno si avviasse. Gli allungò la cravatta attraverso il finestrino dello scompartimento, lui era li in piedi, sorrideva, ringraziava, non teneva le labbra strette come sempre. Era già in viaggio verso la Siberia quando io raccontai tutta la storia a Dea, ancora trafelata per il gran correre. Avevo visto Sch. soggiogato, e per un bel po' rimase vivo in me il nuovo calore che provavo per lui. Poi, come ho già detto, accogliemmo i due sposi, per un periodo abbastanza lungo, nella nostra casa della Himmelstrasse. Veza era entusiasta di Shu-Hsien, che aveva spirito, vedeva Sch. come realmente era, pur essendone innamorata, ed era capace perfino di ridere di lui. Non mi sfiorò il sospetto che adesso, durante la discussione su « Ars Viva », Sch. si servisse di lei, di fronte a Musil, come si serviva di tutti. Sentivo piuttosto che non poteva fare a meno di vantarsi di quella moglie cinese, perché ne era ancora innamorato. Forse avviene un miracolo, pensai, e questa storia non finisce come tutto finisce con lui: forse Sch. rimane con la cinese. Nel mio amore per tutto ciò che era cinese, mi stava a cuore l'esito di quella storia, e la mia preoccupazione per Shii-Hsien, capitata in un mondo cosi estraneo al suo, era maggiore di quella che avevo mai provato per una delle mogli europee di Sch. Ma all'improvviso, durante quella discussione nella Nuss358

dorferstrasse, Shii-Hsien era ben presente. Musil, che evidentemente aveva cura soprattutto di non promettere nulla di 'epico' per la rivista e quindi metteva avanti la possibilità di argomenti lirici, aveva evocato Shii-Hsien con le sue domande dubbiose. Tutti ormai sapevano di lei, la si pensava con simpatia, era diventata lei stessa un argomento poetico. Della rivista non si fece nulla, ma quella discussione preliminare rimase, credo, un gradevole ricordo per tutti, grazie alla cinese. Hudba. Danze di contadini Il 15 giugno 1937 morì mia madre. Alcune settimane prima, in maggio, ero andato per la prima volta a Praga. Mi sentivo ancora leggero e libero, e presi una stanza all'albergo Julis nella piazza San Venceslao, all'ultimo piano. Della stanza faceva parte un'ampia terrazza, dalla quale si vedeva di giorno il traffico della piazza sottostante e di notte le sue luci. Quella vista sembrava fatta apposta per il pittore che abitava nella stanza vicina alla mia: Oskar Kokoschka. Per il suo cinquantesimo compleanno si era aperta a Vienna una grande mostra al Museo d'Arti e Mestieri, sullo Stubenring. Li mi ero fatto un'idea precisa della sua opera, che prima conoscevo solo attraverso quadri isolati. Kokoschka si era rifiutato di ritornare a Vienna per la circostanza, e rimase a Praga, dove stava facendo il ritratto al presidente Masaryk. Il suo vecchio paladino di Vienna, Cari Moli, mi aveva raccomandato di rintracciare Kokoschka a Praga e mi aveva affidato una lettera per lui. Dovevo raccontare a Kokoschka della mostra e ricordargli quanti ammiratori avesse a Vienna. Si sapeva che il pittore era pieno di rancore verso l'Austria ufficiale. Non si trattava soltanto del disprezzo dimostrato per la sua 359

opera. Kokoschka non poteva scordare gli avvenimenti del febbraio 1934. Sua madre, alla quale era affezionato più che a qualsiasi altro essere umano, era morta di crepacuore per la guerra civile nelle strade di Vienna. Dalla sua casa nel Liebhartstal aveva potuto vedere i cannoni che sparavano contro le case dei lavoratori costruite dal municipio. Proprio perché il luogo offriva quella vista su Vienna, il figlio aveva comprato la casa alla madre, che fin dall'inizio aveva creduto in lui e aveva partecipato con tanta passione alla sua vicenda di pittore; e adesso, ecco che cos'era diventata quella bella vista! • La madre si trovava abbastanza vicino per udire il tuonare dei cannoni, e non potè fare a meno di seguire lo svolgersi dei combattimenti. Poco dopo si era ammalata, e da quella malattia non si era più ripresa. Cari Moli l'aveva conosciuta ed era convinto che senza di lei il figlio non sarebbe più stato lo stesso. Il fatto che non ci fosse più quella donna che portava un nome meraviglioso. Romana, era un pericolo per lui. Ora Kokoschka avrebbe troncato ogni rapporto con l'Austria. Per il nuovo regime al potere in Germania Kokoschka era un pittore degenerato, per l'Austria si offriva un'occasione per accogliere a braccia aperte il suo pittore più grande. Ma anche se a Vienna fossero stati così lungimiranti da invitarlo a un ritomo con tutti gli onori, come avrebbe potuto Kokoschka ritrovarsi sotto un regime al quale attribuiva la responsabilità della morte di sua madre? Già prima avevo sentito parlare molto di lui. A una fase turbolenta del suo passato mi avevano riportato i racconti di Anna. La passione per Alma Mahler, la madre di Anna, era diventata leggenda attraverso alcuni dei quadri migliori di Kokoschka. Durante la mia prima visita alla Hohe Warte avevo visto il ri• Nel 1924 circa, Kokoschka aveva dipinto nel quadro WienLiebhartstal il paesaggio intorno alla casa della madre, nella campagna a ovest di Vienna [iV.d.T.].

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tratto che lei chiamava « la Lucrezia Borgia ». Era appeso nella stanza 'trionfale' dell'instancabile vedova e veniva presentato ai visitatori con molta enfasi, non senza sottolineare che l'artista, a quel tempo ancora così capace, aveva preso purtroppo una brutta strada era diventato un povero emigrante. Adesso lo vedevo in persona per la prima volta, da una terrazza all'altra, con quei lineamenti che mi erano familiari dagli autoritratti. Ciò che mi sorprese non poco fu la sua voce. Parlava così sommessamente che stentavo a capirlo. Stavo molto attento a non lasciarmi sfuggire nessuna frase, ma ciò nonostante ne perdevo molte. Cari Moli gli aveva anche scritto direttamente per annunciargli la mia visita, ma era un caso inaspettato che abitassimo in due stanze contigue. Kokoschka parlava con molta discrezione, non solo a bassa voce. Ancora sotto l'impressione della grande mostra, ero un po' imbarazzato vedendo che mi trattava da pari a pari. Chiese del mio libro, disse che voleva leggerlo, che Moli gliene aveva scritto con grandi elogi. Lì sulla terrazza ebbi la sensazione che fosse curioso di conoscermi. Mi sentivo addosso il suo occhio da polipo, che però non mi sembrava ostile. Chiese scusa se quella sera non era libero, quasi che si sentisse in obbligo di dedicarmi subito una serata. Era una delicatezza tanto più stupefacente se ripensavo ai racconti di Anna, a un episodio della sua prima infanzia: lei, Gucki,* come la chiamavano allora, era seduta sul pavimento in un angolo dell'atelier e ascoltava atterrita una scenata di gelosia che si svolgeva tra sua madre e Kokoschka. Lui minacciava di chiuderla a chiave nell'atelier prima di andarsene, e forse una volta aveva davvero messo in atto la minaccia. Di nessun'altra cosa Anna mi aveva par• Il nomignolo dato alla figlia da Gustav Mahler ha anch'esso un riferimento al 'gioco degli occhi', essendo legato al verbo gucken, « guardare con curiosità, con gli occhi sgranati » [N.d.T.].

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lato con tanta emozione. Quelle scenate me le immaginavo fragorose e violente, e quindi mi ero aspettato di incontrare un uomo appassionato che avrebbe accolto le mie notizie sulla mostra viennese indirizzando subito parole di fuoco contro il governo austriaco. A questo argomento, invece, dedicò soltanto qualche parola sprezzante, ma sempre in tono sommesso. La parte più aggressiva della sua persona mi sembrò il mento, che era molto pronunciato, quasi come amava dipingerlo negli autoritratti. Ma quello che colpiva davvero era l'occhio, immobile, opaco, fisso, in agguato: stranamente, pensavo sempre a un solo occhio, così come ho scritto adesso. Le sue parole erano atone e appannate, come se Kokoschka le emettesse quasi a caso e controvoglia. Mi diede appuntamento per il giorno dopo e mi lasciò alla mia perplessità: non riuscivo a conciliare i suoi quadri e tutto ciò che sapevo di lui con quella mansuetudine. Il giorno dopo lo incontrai al caffè. Era in compagnia del filosofo Oskar Kraus, un fedele allievo di Franz Brentano. Questo Kraus, professore di filosofia, un personaggio assai noto a Praga, aveva ereditato dal suo maestro l'interesse per gli indovinelli e ora faceva la parte del leone con Kokoschka e con me. Riuscì ad avvincere Kokoschka con enigmi d'ogni genere e con discorsi che si riferivano sempre a quell'argomento, e di nuovo il pittore mi diede un'ingannevole impressione di modestia, anzi addirittura di ingenuità. In realtà, me ne resi conto solo in seguito, era tutt'altro che un semplice, il suo spirito prendeva volentieri strade complicate. Non era neanche modesto, ma gli piaceva scomparire dentro certi ambienti, quasi adattandosi a un determinato colore, quello dominante. Questa iridescenza era un suo dono: Kokoschka somigliava a un polipo anche nel suo naturale e agevole cambiar di colore, mentre il suo occhio, molto grande e - come ho già detto - apparentemente unico, spiava la preda con una forza inesorabile. 362

Ma lì, al caffè, c'era poco da spiare. Kokoschka conosceva bene il vecchio Oskar Kraus, e diffìcilmente si sarebbe lasciato eccitare da quel professore chiacchierone e tanto sicuro di fare effetto. L'insistenza con la quale costui, alla sua età, si richiamava ancora all'antico maestro, il filosofo Brentano, aveva qualcosa di subalterno; così almeno sembrava a me, che di Brentano non mi ero ancora occupato e avevo un'idea inadeguata dei suoi molteplici influssi. Mi pareva poi di cattivo gusto quell'instancabile loquacità di fronte a Kokoschka, ma questi aveva l'aria di trovarla gradevole : non aveva voglia di prendere la parola e si ostinava nel suo iridescente occhieggiare. In verità io ardevo dal desiderio di sentire da Kokoschka qualche notizia su Georg Trakl. Sapevo che l'aveva conosciuto e che Trakl gli aveva suggerito il titolo meraviglioso di un quadro, La sposa del vento. Ero convinto che senza quel titolo il quadro non sarebbe esistito, che se si fosse chiamato in altro modo non avrebbe attirato l'attenzione. Era il periodo in cui Trakl mi aveva conquistato, nessun lirico moderno ha avuto per me tanta importanza. Del suo destino sono ancora tutto preso come la prima volta che ne venni a conoscenza.* Certo, essendo lì con noi l'arido ometto degli enigmi, non era il momento migliore per portare il discorso su Trakl, e tuttavia lo feci e domandai a Kokoschka se l'aveva conosciuto. « L'ho conosciuto molto bene » rispose con la sua voce atona. Non disse altro, e anche se avesse voluto non avrebbe potuto dire di più, perché l'ometto aveva già tirato • Georg Trakl (1887-1914) fece visita a Kokoschka nel 1914 e vide nello studio un grande quadro in cui il pittore aveva raffigurato se stesso con Alma Mahler. Improvvisò allora una poesia in cui ricorreva la parola Windsbraut (« sposa del vento », o < tempesta >). Poi, come racconta Kokoschka nell'autobiografia, Trakl € ha indicato il quadro con la pallida mano e l'ha chiamato die Windsbraut. Di li a poco egli è morto, disperato per il massacro di Grodek, a causa di una dose eccessiva di medicinali, nell'ospedale di guerra di Cracovia » [N.d.T.].

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fuori un nuovo indovinello e lo snocciolava belando con la sua voce da capra.* Io avevo l'impressione che Vienna non contasse più per Kokoschka da quando ne era partilo. All'inizio della sua carriera, quando improvvisamente spuntava dappertutto tenuto per mano da Adolf Loos, Vienna aveva rappresentato qualcosa per lui. Ma adesso non era Vienna a metterlo al bando, era lui che metteva al bando Vienna; e il buon vecchio Moli, che da decenni si dava tanto da fare per Kokoschka, non era la persona più adatta a risvegliare in lui l'interesse per quella città. È vero che Kokoschka eccelleva nell'arte di scomparire, ma intuivo che adesso scompariva soltanto per essere lasciato in pace da tutti. Avevo quasi rinunciato alla speranza di un vero colloquio con lui quando si scaldò all'improvviso e portò il discorso su sua madre e su suo fratello Bohi. La casa nel Liebhartstal, dove il fratello abitava ancora dopo la morte della madre, era l'unica cosa che al momento legasse Kokoschka a Vienna. Era convinto che suo fratello fosse uno scrittore. Lo conoscevo? Aveva scritto un grande romanzo in quattro volumi. Era stato marinaio e aveva viaggiato molto. Nessun editore voleva pubblicargli il libro. Sapevo di qualcuno che potesse interessarsene? In quel genere di cose suo fratello non aveva fortuna. Non gli mancava la • Il filosofo Franz Brentano (1888-1917), le cui idee avevano trovato molto seguito a Praga, aveva anche pubblicato, sotto il titolo Aenigmatias, una raccolta di indovinelli, sciarade, logogrifi e altri giochi. Racconta Max Brod nell'autobiografia: « La segreta attrazione di questo libro stava nel fatto che non vi erano indicate le soluzioni. Aenigmatias era entrato in molte delle grandi famiglie di Praga, e anche nelle riunioni mondane si cercava di venire a capo di quegli enigmi. Inutilmente: alcuni dei giochi più difficili erano diventati famosi, resistevano a tutti gli assalti [...]. Si diceva che Oskar Kraus avesse ricevuto dallo stesso Brentano un esemplare del libro in cui per ogni indovinello c'era la soluzione, scritta di pugno dall'autore. Molti pregavano Kraus di svelare qualche soluzione. Lui non tradì mai il segreto» [AT.d.T.].

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coscienza del proprio valore, ma la capacità di fare il proprio interesse. A Kokoschka non sembrava assolutamente un disonore che il fratello si lasciasse aiutare da lui. Lo manteneva volentieri e senza brontolare. Ne parlava con delicatezza e rispetto. Io ero commosso da quell'amore per il fratello che aveva sempre creduto in lui ma anche in se stesso; e mi parve un tratto molto accattivante di Kokoschka l'insistenza con cui cercava di stabilire davanti al mondo una sorta di equivalenza tra sé e suo fratello. Con alcuni miei amici di Vienna si era parlato spesso di Bohi, Il prestigio di Kokoschka era cosi grande che ogni relazione con lui, anche la più modesta, tornava a onore di chi poteva vantarla. Un giovane architetto, Walter Loos, che non era parente del grande Loos ma aveva lo stesso cognome, si sentiva in dovere - forse proprio a causa di quella omonimia - di conoscere almeno il fratello di Kokoschka; e nello Heurige in cui s'incontrava con Wotruba e con me si abbandonava a entusiastiche descrizioni della bella e prosperosa ragazza, figlia di uno spazzacamino, che sembrava nata apposta per essere l'amica del grasso Bohi. Raccontava degli alti e bassi di quella relazione, della gelosia di Bohi, di violente scenate e tempestose riconciliazioni. Tutti correvano dietro alla figlia dello spazzacamino, ma lei restava assolutamente fedele al suo Bohi, era impossibile sedurla. Così Bohi era proprio il fratello del famoso pittore, il quale era in realtà il vero oggetto di tutti quei discorsi, e perciò la gelosia diventava 'obbligatoria' anche per lui. Wotruba ascoltava quasi con devozione tutti i racconti che si riferivano al fratello di Kokoschka. Il giovane Loos, come noi lo chiamavamo, continuava a stuzzicarlo con la celebrità del pittore; e a furia di esaltarlo con una fiducia incrollabile, come fosse una bandiera, si era fatto una certa posizione nella nostra cerchia, sebbene per il resto non dicesse niente di molto interessante. Adesso era Kokoschka a portare il discorso su suo 365

fratello. Nominava Bohi con la massima naturalezza, come se a Vienna tutti dovessero sapere di lui senza bisogno di altre spiegazioni; e quando io mi addentrai nell'argomento e raccontai quel che sapevo dal giovane Loos, il pittore sembrò un po' irritato da questo nome. « Sarebbe meglio se non ci fosse un altro architetto che si chiama cosi: di Loos ce n'è stato uno solo ». Non si rasserenò neanche quando difesi il nome del mio conoscente dicendo che in fondo costui era amico del fratello e non, come il vecchio Loos, del vero Kokoschka. Ne prese spunto per tessere l'elogio di Bohi, e cosi ebbi notizie più precise sull'opera in quattro volumi che non trovava un editore. Possibile che il cosiddetto 'giovane' Loos non avesse mai accennato a quel romanzo? No, lui parlava solo e sempre del suo amore per la figlia dello spazzacamino e delle scenate tra i due. Kokoschka, che reagiva con una prontezza sbalorditiva, subodorò il nesso con le leggendarie scenate avvenute tra lui e Alma Mahler, e parò il colpo senza che io avessi avuto l'indelicatezza di alludervi. « Questo è Nestroy bello e buono, » disse « questo non ha niente a che fare con Bohi e col suo modo di scrivere. Le loro baruffe fanno tanta impressione solo perché tutt'e due sono così grassi. Ma Bohi è un uomo puro. Non fa quelle scene perché si parli di lui ». Sembrava che volesse giustificare se stesso per le sue scenate di una volta. Quando insegnava a Dresda viveva con una bambola di grandezza naturale, preparata secondo le sue indicazioni, che riproduceva le sembianze di Alma Mahler; e cosi aveva perpetuato - si può ben dire - le chiacchiere che correvano su loro due. Questa storia era familiare anche a coloro che sapevano solo inorridire davanti alla sua pittura. La bambola se la trascinava sempre dietro, era ciò che gli restava delle scenate di un tempo con Alma. Al caffè stava seduta al tavolino accanto a lui, aveva la sua tazzina davanti, e poi, cosi si diceva, finiva addi366

rittura nel Ietto di Kokoschka. Bohi, tutto al contrario del fratello, non muoveva un dito per farsi conoscere, e perciò Oskar lo chiamava « un uomo puro », perciò ne parlava volentieri e si richiamava a lui come se personificasse la sua innocenza. In uno dei giorni successivi ebbe luogo una grande sfilata di contadini nella piazza San Venceslao. Dall'alto della terrazza della mia stanza all'albergo Julis si poteva seguire benissimo tutto lo spettacolo. Ludwig Hardt, che adesso abitava appunto a Praga, venne con sua moglie. Lo avevo invitato con qualche altro conoscente a guardarsi la sfilata, e in quell'occasione conobbi sua moglie, piccola come lui, una personcina graziosa, che si prendeva alquanto sul serio. A vederli insieme non si poteva non pensare a un numero di circo equestre. Da un momento all'altro ci si aspettava di assistere all'ingresso dei cavalli e di vedere quella figurina ben tornita saltare da un cavallo all'altro mentre lui eseguiva acrobazie non meno temerarie, passando a un millimetro da lei oppure insieme con lei. Ma adesso stavano entrambi accanto a me sulla terrazza, alta sulla piazza in cui contadini di tutte le parti del Paese sfilavano nei loro costumi, non pochi a cavallo, accompagnati dalla musica e da acclamazioni: sembrava un quadro di nozze campestri. Singoli contadini cominciarono a ballare, ognuno per conto suo, avvicendandosi in rapida successione, e il modo in cui uscivano all'improvviso dal corteo muovendosi di traverso e facendosi largo in quel trambusto, senza però rinunciare in nulla alla loro aria solenne, aveva una tale levità che mi vennero le lacrime agli occhi. Mi voltai da una parte per nascondere la commozione, e proprio allora il mio sguardo incontrò quello di Kokoschka, che era uscito sulla sua terrazza e guardava giù, come noi, verso i contadini. Egli notò la mia emozione e mi fece un cenno affettuoso, come se parlasse di suo fratello Bohi. Che cosa mi toccasse cosi da vicino negli assolo di 367

danza dei contadini che si staccavano dal loro gruppo, allora non avrei saputo dirlo. Nella loro allegria, nella loro forza, in tutti i loro colori non c'era niente che potesse turbare. Era un momento libero da ogni cattivo presagio, uno stato di felice commozione, anche se non si prendeva parte alla loro sfilata che cosa si poteva avere in comune con un contadino? La mia commozione veniva anche da un ritrovamento: ritrovavo davanti a me i balli dei contadini di Brueghel. I quadri condizionano le nostre esperienze. Si incorporano in noi quasi come una terra che ci appartenga. A seconda dei quadri di cui siamo fatti ci è data in sorte una vita diversa. Era ricca di colori e liberatrice l'emozione per quei contadini impegnati nelle loro danze sulla piazza San Venceslao. Due anni dopo il destino di Praga era segnato. Ma a me fu ancora consentito di vivere la forza e la grazia un po' greve di quegli esseri umani. Qualcosa di simile sentivo anche nella lingua, che mi era del tutto sconosciuta. A Vienna i cechi erano moltissimi, ma all'infuori di loro nessuno conosceva quella lingua. Innumerevoli viennesi avevano nomi cechi, e non si sapeva che cosa significassero. Uno dei nomi più belli l'aveva il mio 'gemello', Wotruba. Neanche lui conosceva una parola della lingua di suo padre. Adesso ero a Praga e andavo in giro da ogni parte, di preferenza nei cortili delle case dove abitava molta gente di cui potevo ascoltare i discorsi. Mi sembrava una lingua combattiva, perché tutte le parole erano fortemente accentate sulla prima sillaba, e quindi, in ogni discorso che si ascoltava, si percepiva una serie di piccole scosse che si ripetevano per tutta la durata della conversazione. Io mi ero occupato della storia delle guerre hussite, il quindicesimo secolo mi aveva sempre attirato, e chi tentava di capire qualcosa delle masse non poteva non rimuginare a lungo sugli bussiti. Avevo un grande rispetto per la storia dei cechi, ed è probabile che li, da profano, mentre cercavo di ascoltare la loro lingua 368

nei suoi vari gradi d'intensità, credessi di scoprirvi cose che derivavano soltanto dalla mia ignoranza. Ma non potevano esservi dubbi sulla vitalità di quella lingua, e non poche parole erano per me sorprendenti nella loro assoluta originalità. Rimasi incantato nell'apprendere la parola ceca che significa musica: hudba. Nelle lingue europee, per quanto ne sapevo, la parola era sempre la stessa : musica, una bella parola sonante. A pronunciarla in tedesco, Musik, con l'accento sulla seconda sillaba, si aveva la sensazione di balzare in alto insieme con la parola. Là dove l'accento cadeva invece sulla prima sillaba, la parola non sembrava così dinamica, rimaneva un poco a librarsi nell'aria prima di dilatarsi. Avevo per quella parola un attaccamento pari quasi a quello per la cosa che significava, ma a poco a poco non mi era sembrato giusto che fosse usata per ogni genere di musica. Quanto più ascoltavo musica nuova, tanto più incerto diventava il mio rapporto con quella denominazione universale. Una volta ebbi il coraggio di domandare ad Alban Berg se non dovessero esservi anche altre parole per significare la musica, se l'irrimediabile chiusura dei viennesi di fronte a ogni novità non dipendesse anche dal fatto che erano diventati tutt'uno con Videa che avevano di quella parola, a tal segno che non potevano tollerare qualcosa che ne modificasse il contenuto. Forse, se si fosse chiamata in altro modo, sarebbero stati più facilmente disposti ad abituarvisi. Ma lui, Alban Berg, non voleva saperne. Per lui, come per tutti gli altri compositori venuti prima, si trattava della musica, di nient'altro, di qualcosa che discendeva da quei predecessori; ciò che lui stesso faceva, ciò che i suoi allievi imparavano da lui era musica, ogni altra parola sarebbe stata un inganno; e non mi aveva colpito il fatto che la stessa parola si fosse diffusa su tutta la Terra? Reagì alla mia 'proposta' con impeto, quasi con sdegno, con una tale determinazione che non toccai più l'argomento. 369

Ma anche se non ne parlavo, consapevole com'ero della mia ignoranza musicale, tuttavia quel pensiero non mi abbandonava. E adesso, a Praga, scoprendo improvvisamente e come per caso che la parola ceca per musica era hudba, ne rimasi estasiato. Questa era la parola per Les Noces di Strawinsky, per Bartók, per Janàcek, per molte altre cose. Come ammaliato passavo da un cortile all'altro. Ciò che al mio orecchio suonava come sfida era forse semplicemente 'comunicazione', ma in questo caso era più carica, racchiudeva qualcosa di più del parlante, conteneva più di quanto noi usavamo mettere di nostro nel comunicare. Forse era l'impeto con cui entravano in me le parole ceche a richiamare ricordi del bulgaro della mia prima infanzia. Ma io non ci pensavo mai, perché avevo dimenticato del tutto il bulgaro; e non saprei stabilire in che misura le lingue dimenticate permangono, nonostante tutto, dentro di noi. Di certo, in quei giorni di Praga riconfluivano in me molte cose che si erano svolte in periodi isolati della mia vita. Percepivo i suoni slavi come parti di una lingua che mi riguardava da vicino, in maniera inspiegabile. Ma con molte persone parlavo in tedesco, parlavo soltanto in tedesco, ed erano persone che avevano con questa lingua una consuetudine consapevole e differenziata. Per lo più erano uomini di lettere che scrivevano in tedesco, e ogni volta si avvertiva come questa lingua, alla quale restavano fedeli sullo sfondo vigoroso del ceco, rappresentasse per loro qualcosa di diverso che per quelli che adoperavano la stessa lingua a Vienna. Era stata pubblicata da poco la traduzione ceca della Blendung. Per questo motivo avevo intrapreso il viaggio a Praga. Un giovane scrittore, che oggi è noto sotto il nome di H.G. Adler, lavorava allora in un istituto pubblico e mi aveva invitato a tenere una lettura. Apparteneva a un gruppo di amici che scrivevano in tedesco, più giovani di me di circa cinque anni, 370

tra i quali la Blendung passava di mano in mano. Adler, il più attivo del gruppo, si era battuto in ogni modo a favore della mia lettura. £ fu ancora lui a guidarmi per la città, con molto impegno, affinché nessuna delle sue bellezze mi sfuggisse. Ciò che lo distingueva soprattutto era l'alta tensione del suo fervore idealistico. Lui, che di lì a poco sarebbe stato vittima in cosi grave misura di quel tempo degno di essere maledetto, dava l'impressione di non appartenere al tempo. Difficilmente si sarebbe potuto immaginare in qualche parte della Germania un uomo che fosse più segnato dalla tradizione letteraria tedesca. Ma lui viveva lì, a Praga, parlava e leggeva agevolmente il ceco, aveva rispetto per la letteratura e la musica ceche; e tutto ciò che io non capivo me lo spiegava in modo tale da rendermelo attraente. Non voglio enumerare le meraviglie di Praga, che sono sulla bocca di tutti. Mi sembrerebbe quasi sconveniente parlare di piazze, chiese, palazzi, vicoli, dei ponti e del fiume con cui altri hanno trascorso una vita e della cui presenza è impregnata la loro opera. Di tutto questo io non ho scoperto nulla da solo, ogni cosa mi veniva mostrata e spiegata: se c'è qualcuno che avrebbe il diritto di parlare di simili scoperte, sarebbe colui che le ha progettate e provocate. Il giovane scrittore, che non sembrava mai stanco di escogitare sorprese per me, era a sua volta pieno di curiosità e continuava a fare domande nel corso delle nostre camminate. Io lo accontentavo volentieri, e molte persone che erano entrate nella mia vita affiorarono davanti a lui nella conversazione, con opinioni, giudizi e pregiudizi. Ma il giovane intuì anche quanto fosse importante per me ascoltare da solo, poter ascoltare la gente, le persone più diverse, mentre parlavano in una lingua che non comprendevo, ascoltarli senza che subito mi venisse tradotto ciò che dicevano. Per lui quella doveva essere un'esperienza nuova: c'era qualcuno che in371

seguiva l'eco di parole incomprese, un effetto tutto particolare che non si poteva paragonare a quello della musica, poiché dalle parole incomprese ci si sente minacciati, si continua a voltarle e rivoltarle dentro di sé e si cerca di smussarle, ma quelle si ripetono e nel ripetersi diventano ancor più minacciose. Il mio accompagnatore ebbe la delicatezza di lasciarmi solo per ore intere, ed era un po' preoccupato che io potessi smarrirmi e sicuramente non accettava senza rammarico l'interruzione che il nostro dialogo doveva subire in quel modo. Con tanto maggiore curiosità mi fece poi raccontare le cose che mi avevano colpito; e fu un segno della mia grande simpatia per lui se feci fatica a non dirgli tutto. Morte della mamma La trovai assopita, gli occhi chiusi. Tutta consunta, ormai soltanto pelle diafana, eccola lì distesa, profondi fori neri al posto degli occhi, immobili fori neri là dove prima era il giòco delle sue ampie, stupende narici. La fronte sembrava più stretta, contratta da entrambe le parti. Mi ero aspettato lo sguardo dei suoi occhi, ed ebbi la sensazione che li avesse sigillati contro di me. Poiché gli occhi si negavano, cercai quelli che in lei erano i tratti più personali, cercai le grandi narici e la fronte imponente; ma la fronte non aveva più un'estensione, non delimitava nulla, e la collera delle narici si era persa in tutto quel nero. Mi spaventai, ma ero ancora talmente persuaso della sua antica forza che in me s'insinuava il sospetto che si celasse ai miei occhi. Non vuole vedermi, non mi aspettava. Sente che sono qui e fìnge di dormire. Mi passavano per la testa i pensieri che lei stessa avrebbe avuto al mio posto, perché io ero lei, conoscevamo i pensieri l'uno dell'altro, appartenevano a entrambi. Avevo portato delle rose, lei non resisteva mai al 372

loro profumo. L'aveva respirato nel giardino della sua infanzia a Rustschuk, e quando negli anni migliori scherzavamo sulle sue narici, enormi, come nessun altro le aveva, lei diceva che erano diventate così grandi perché da bambina le aveva dilatate per accogliere il profumo delle rose. Nel più remoto dei suoi ricordi era stesa tra le rose e poi piangeva perché la riportavano in casa e il profumo svaniva. In seguito, dopo aver lasciato la casa e il giardino di suo padre, aveva saggiato ogni profumo alla ricerca di quello vero, e in questo esercizio le narici le erano cresciute ed erano rimaste così grandi. Quando aprì gli occhi, dissi : « Ti ho portato questo da Rustschuk». Mi guardò incredula, non dubitava della mia presenza, bensì del luogo che avevo nominato. « Dal giardino » dissi, e non c'era che un giardino. Lei mi ci aveva condotto, aveva respirato profondamente e mi aveva consolato con la frutta per le umiliazioni che avevo sofferto dal nonno. Ora io le porgevo le rose, lei inalò l'odore, la stanza ne fu invasa. Disse : « È questo il profumo. Vengono dal giardino ». Si arrendeva alla notizia, accettava anche me io ero racchiuso in quella nuvola - e non domandò perché ero a Parigi. Era ricomparso il suo viso, con le narici insaziabili. Gli occhi, molto più grandi, si fissarono su di me, e lei non disse: Non ti voglio vedere! Che cosa fai qui? Io non ti ho chiamatol Riconosceva il profumo, e nel profumo mi ero insinuato anch'io. Non faceva domande, si abbandonava interamente all'olfatto, e a me parve che la fronte le si allargasse e che dovessero arrivare le sue parole inconfondibili. Aspettavo parole dure e le temevo. Udivo il suo amaro rimprovero come se l'avesse già pronunciato ancora una volta: Vi siete sposati. Non mi hai detto niente. Mi hai ingannata. Non aveva chiesto di vedermi, e quando Georg, allarmato per il suo declino, mi aveva telegrafato e scritto di accorrere subito, quando avevo interrotto dopo otto giorni la visita a Praga ed ero partito in 373

tutta fretta per Vienna proseguendo poi per Parigi, un pensiero lo angustiava: come avremmo potuto farle accettare la mia presenza? Per lui la cosa piti importante era sciogliere ciò che alla fine si era coagulato dentro di lei, ciò che le occupava la mente, ciò che la tormentava, evitando a ogni costo uno scoppio di collera che Georg paventava anche in una condizione di spirito così estenuata. Quando al mio arrivo gli spiegai ciò che avevo in mente, l'idea di portarle le « rose del giardino di Rustschuk », e dissi che lei mi avrebbe creduto, Georg non nascose i suoi dubbi : « E tu hai questo coraggio? Sarà la tua ultima bugia! ». Ma non gli venne un'idea migliore, e quando capi che io non volevo semplicemente vincere in lei la resistenza alla mia visita, ma che mi premeva davvero riportarle il profumo per il quale aveva provato tanta nostalgia, allora cedette, vergognandosi un po' e forse anche convertendosi al mio proposito. Ma non volle assistere all'incontro per non compromettere la fiducia che la mamma aveva in lui, nel caso che il mio piano fallisse e attizzasse in lei nuova collera. I fiori se li teneva sopra il viso come una maschera, e a me parve che i suoi lineamenti ripTendessero forza e dimensioni. Mi credeva ancora, come una volta, e aveva ricacciato i suoi dubbi, sapeva chi ero ma dalle sue labbra non usci una parola ostile. Non disse: Hai fatto un lungo viaggio. Sei venuto per questo? Ma a me ritornò alla mente ciò che in passato aveva raccontato tante volte. Prima di arrampicarsi sul gelso in cui usava ritirarsi a leggere, faceva ancora una corsa tra le rose. Leggeva nel segno delle rose, il profumo persisteva in lei, e ogni libro se ne saturava. Allora le riuscivano sopportabili anche le cose più spaventose, perfino quando moriva di paura non si sentiva veramente in pericolo. Nel nostro periodo peggiore gliene avevo fatto un rimprovero. Le avevo detto che tutto ciò che aveva letto in quello stato di narcosi non aveva per me al374

cun valore, che quella sua paura non era paura, che le cose spaventose che avevano resistito al profumo delle rose non erano spaventose. Non avevo mai ritirato quelle dure parole. Forse per questo mi era venuta l'idea di quello stratagemma. E ora disse tuttavia: «Non sei stanco del viaggio? Riposati un poco! ». Non si riferiva al viaggio da Vienna, ma all'altro, quello piìi lungo, in Bulgaria, e io assicurai che non ero per niente stanco, che non volevo staccarmi subito da lei un'altra volta. Forse immaginò che fossi venuto soltanto per portarle quel messaggio da laggiù, che sarei subito scomparso di nuovo. Forse sarebbe stato meglio così. Non avevo pensato che nella mia persona qualcosa poteva disturbarla anche dopo il primo atto di riconoscimento e che nel suo stato sopportava le visite solo per breve tempo. Presto disse: «Siediti più lontano!». Io mi ero appena seduto. Scostai la sedia dal letto, ma lei disse: «Più lontano, più lontano!». Arretrai ancora un poco, ma a lei non bastava. Mi ritrassi fin nell'angolo della piccola stanza e compresi che non voleva parlare e perciò mi allontanava da sé. Georg, quando entrò, capì da come erano posate le rose che la mamma le aveva accettate, e dai suoi lineamenti che era sollevata. Ma poi, vedendomi in disparte nell'angolo, si meravigliò che stessi seduto e in quel punto. « Non preferisci stare in piedi? » domandò; ma lei scosse la testa quasi con violenza. « E perché non ti siedi più vicino? » aggiunse Georg, ma lei gli interruppe la frase e rispose al mio posto: « Là è meglio». Lui invece non doveva allontanarsi dal letto, le rimase vicino e iniziò una serie di operazioni di cui non mi era sempre chiaro il senso. Erano cose che lei si aspettava da Georg, in una successione prestabilita, e per le quali dimenticò tutto il resto. Non sapeva più che ero lì, a quel punto ormai le sarebbe stato indifferente se me ne fossi andato. Per quanto inerte sembrasse, preveniva Georg con tanti piccoli movimenti, come se volesse ricordargli l'ordine delle varie 375

operazioni. Lui le inumidi le mani e la fronte e la rialzò un poco sul letto. Le portò un bicchiere alle labbra e lei accettò di bere un sorso. Le aggiustò la coperta e tentò di toglierle le rose dalla mano. Forse voleva liberarla dall'ingombro, forse pensava di metterle in un vaso, ma lei non allentò la presa e gli rivolse uno sguardo severo, come una volta. Lui avvertì l'impeto di quella reazione e si rallegrò dell'energia che la animava. Da settimane seguiva e temeva in lei il declinare delle forze. Le lasciò i fiori nella mano posata sulla coperta: occupavano molto posto e non erano meno importanti di lui. Intanto io ero stato confinato in un angolo e dubitavo che lei fosse cosciente della mia presenza. Improvvisamente la sentii dire a Georg: « È arrivato il tuo fratello più grande. Viene da Riistschuk. Perché non vi salutate?». Georg guardò nel mio angolo, come se solo adesso si accorgesse di me. Si avvicinò, io mi alzai, ci abbracciammo. Ci abbracciammo veramente, non di sfuggita come prima, quando avevo messo piede nell'appartamento. Ma lui non pronunciò una parola, e io la sentii dire : « Perché non gli chiedi niente?». Si aspettava un dialogo sul mio viaggio, sulla mia visita al giardino. « Era tanto tempo che non ci andava» disse lei; e Georg, che non amava le invenzioni, aderì con riluttanza alla mia storia : « Da ventidue anni, dal tempo della prima guerra mondiale ». Lui voleva dire che non ero più stato a Rustschuk dal 1915. Allora la mamma mi aveva mostrato un'altra volta il giardino della sua infanzia, suo padre non era più al mondo, ma il gelso era sempre al suo posto e dietro, nel frutteto, maturavano le albicocche. Le si chiusero gli occhi, e ancora mentre noi due stavamo in piedi l'uno accanto all'altro, si assopì. Quando Georg fu sicuro che avrebbe dormito per un poco, ci ritirammo nel soggiorno, e lui mi disse delle condizioni della mamma e che non c'era nulla che potesse salvarla. Molti anni prima, noi eravamo bam376

bini, si era convinta di avere un male ai polmoni, poi la malattia era diventata realtà. Lui, giovane medico di ventisei anni, si era specializzato in malattie polmonari per assisterla. In ogni momento libero, giorno e notte, era stato vicino alla mamma. Da studente si era ammalato lui stesso di tubercolosi : i suoi amici pensavano che fosse stato contagiato dalla mamma. Allora aveva trascorso alcuni mesi in un sanatorio sopra Grenoble, lavorandovi come medico, ne era ritornato rimesso a nuovo, come si diceva, e aveva ripreso a curare la mamma con la stessa dedizione. Lo preoccupavano le difficoltà respiratorie, da anni la mamma soffriva di asma. Durante gli ultimi mesi aveva avuto un declino così rapido che alla fine Georg era arrivato, tra molte incertezze, alla decisione di chiamarmi. Sapeva che cosa voleva dire un incontro, le conseguenze potevano essere pericolose, ma per lui contava di più il pensiero di una riconciliazione. Ora sembrava, per il momento, che la cosa fosse riuscita, e sebbene Georg conoscesse i repentini mutamenti d'umore della mamma e non fosse da escludere con sicurezza un'esplosione ritardata di collera, si sentiva sollevato per il buon inizio. Con mio stupore, anche quando fummo soli, non mi rimproverò, non disse che non ero stato nel giardino del nonno e l'avevo ingannata con un mazzo di rose preso a Parigi. « Lei ti crede ancora, » disse « e tu le hai sempre creduto. Ecco quello che vi unisce. Voi due avete il potere di uccidervi. Tu sapevi bene perché dovevi proteggere Veza dalla mamma. Io lo capisco. Ma io ho visto l'effetto che tutto questo ha avuto sulla mamma. Perciò non posso perdonarti. Adesso non ha più importanza. Per lei tu sei venuto dal luogo a cui continua a pensare ». Nel piccolo appartamento rumoroso della Rue de la Convention non c'era posto per me. Dormivo fuori e andavo da lei più volte al giorno. Sopportava solo per poco tempo la mia presenza, ma del resto non sop377

portava a lungo nessuna visita. Dovevo sempre lasciare di nuovo la stanza e aspettare fuori. Al suo letto non mi avvicinavo troppo. Ogni mattina, al primo incontro, i suoi occhi diventavano più grandi e più luminosi, e io mi sentivo catturato da quello sguardo. Il respiro si attenuava, ma lo sguardo acquistava forza. Non guardava dall'altra parte: quando non voleva vedere, chiudeva gli occhi. Mi guardava fino a che mi odiava. Allora diceva: «Vattene! ». Lo diceva alcune volte ogni giorno, e nel dirlo era ben decisa a punirmi. Quella parola mi colpiva, sebbene fossi consapevole del suo stato e mi rendessi conto che ero lì per questo, per essere punito e umiliato - era per questo che adesso le servivo. Mentre aspettavo nella stanza vicina, entrava da me l'infermiera e con un cenno del capo mi faceva capire che la mamma aveva chiesto di me. Allora andavo da lei, e mi puntava lo sguardo addosso, squadrandomi con una forza tale che io temevo dovesse restame fiaccata. Lo sguardo si dilatava e si acuiva, lei non diceva niente, finché all'improvviso ordinava di nuovo in un soffio: «Vattene! », ed era come se per tutta l'eternità io fossi condannato a rimanere lontano dal suo cospetto. Mi inchinavo appena, da imputato che accetta la sentenza perché è cosciente della propria colpa, e uscivo. Pur essendo sicuro che di nuovo avrebbe chiesto di me, che presto mi avrebbe chiamato, ne restavo afflitto, non mi ci abituavo e ogni volta era come una nuova punizione. Era diventata molto esile. Tutta la vita rimasta in lei si era concentrata negli occhi, grevi del torto che 10 le avevo fatto. Mi guardava per dirlo, io reggevo 11 suo sguardo, lo sopportavo, volevo sopportarlo. Non c'era collera in quello sguardo, c'era il tormento di tutti gli anni in cui le avevo impedito di liberarsi di me. Per sciogliersi da me si era convinta di essere malata, era andata dai medici, si era spinta in luoghi lontani, in montagna, al mare, qualunque posto andava bene purché io non ci fossi, e là era vissuta e 378

nelle lettere mi aveva nascosto la verità, e per causa mia si era creduta malata e dopo anni si era ammalata davvero. Era quello che adesso mi rinfacciava, ed era tutto nei suoi occhi. Poi cedeva alla stanchezza e diceva: «Vattene! », e io, mentre aspettavo nell'altra stanza, falso penitente, scrivevo a colei il cui nome non affiorava su quelle labbra, e accordavo a Veza la fiducia di cui ero debitore a lei. Poi, dopo il breve assopimento, chiedeva di me, come se fossi appena arrivato dal viaggio; e il suo sguardo, che nel sopore si era di nuovo caricato del passato, si puntava un'altra volta su di me e mi diceva in silenzio come io l'avessi lasciata per un altro essere umano, lasciata, ingannata e offesa. Quando però Georg era presente, in ogni atto di mio fratello avevo lo spettacolo di ciò che sarebbe dovuto essere. Lui non si era legato a nessuno. Lui era lì solamente per lei. La serviva in ogni gesto, non poteva far nulla che non fosse ben fatto, perché era fatto per lei. Quando si allontanava, non vedeva che il momento di tornare da lei. Per lei era diventato medico e andava in ospedale a raccogliere esperienze utili alla sua malattia, e mi condannava come lei, istintivamente, senza che lei glielo avesse imposto. Il fratello minore era ciò che il maggiore sarebbe dovuto essere, incurante della propria vita, sempre pronto al servizio della mamma; e quando il fardello era diventato troppo pesante per lui si era addirittura ammalato come lei, della stessa malattia. Era andato in montagna a cercarvi l'aria e la vita, ma solamente per ritornare da lei e curarla di nuovo. Verso di lei non aveva un debito di gratitudine così grande come il mio, perché io ero in tutto figlio del suo spirito, ma io avevo fallito, mi ero lasciato persuadere a inseguire chi sa quali chimere, ero rimasto a Vienna, mi ero votato anima e corpo a Vienna, e poi, quando finalmente avevo ideato qualcosa che aveva valore, si scopriva Che anche quello veniva da lei, era stata lei a dettarmelo, e non le chimere. Così tutta la triste vicenda non sa379

rebbe stata necessaria, avrei potuto percorrere la mia strada senza staccarmi da lei e sarei giunto allo stesso risultato. Questa è la forza di chi sta per morire e lotta per difendersi da chi gli sopravvive; ed è bene che sia così, è bene che si affermi il diritto del più debole. Quelli che noi non riusciamo a proteggere devono poter rinfacciarci che non abbiamo fatto niente per la loro salvezza. Nel loro rimprovero è racchiusa la sfida che tramandano a noi, la divina illusione che potremmo riuscire a vincere la morte. Colui che ha mandato il serpente, il tentatore, lo richiama indietro. La pena è durata abbastanza. L'albero della vita è vostro. Voi non morirete. Rimane in me la sensazione di una lunga marcia dietro il feretro, come se avessimo attraversato a piedi l'intera città fino al Pére Lachaise. Provavo un orgoglio mostruoso e volevo dirlo a tutti quelli che si aggiravano quel giorno in quella città. Ero pieno di fierezza, come se per lei fossi sceso in campo contro tutti. Per me nessuno era meglio di lei. Non riferivo quel « meglio » alla bontà, che non aveva mai avuto, ma a un'altra qualità, alla capacità di rimanere benché fosse morta. Accanto a me, a destra e a sinistra, camminavano i due fratelli. Non sentivo nessuna differenza tra loro e me: fintanto che camminavamo, eravamo una cosa sola, noi e basta. Tutti gli altri che seguivano il feretro erano troppo poco per me. Il corteo doveva estendersi per l'intera città, per quanto era lungo il tragitto. Maledicevo la cecità che ignorava chi veniva portato alla sepoltura. Il traffico non si fermava se non per lasciar sfilare il corteo, e quando eravamo passati era di nuovo lo stesso trambusto, come se il carro non trasportasse il feretro di qualcuno. Era un lungo percorso, e sempre, per tutta quanta la sua lunghezza, durò quel senso di sfida: come se dovessimo combattere per aprirci la strada attraverso quello sterminato numero di persone. 380

Come se, in onore di lei, cadessero vittime a destra e a sinistra; e nessuna bastava mai e nessuna poteva saziare le pretese di lei. È la lunghezza del cammino a giustificare il funerale. « Guardatela! Eccola! Lo sapevate? Sapete chi è chiuso lì dentro? È lei, è la vita. Senza di lei nulla esiste. Senza di lei crolleranno le vostre case e si rattrappiranno i vostri corpi ». È ciò che ancora ricordo di quel corteo. Mi vedo camminare, mi vedo sfidare, con la fronte di lei, la città di Parigi. Sento accanto a me i due fratelli. Non so come Georg abbia fatto tutta quella strada. Sono stato io a sorreggerlo? Chi lo ha sorretto? Lo sosteneva il medesimo orgoglio? Lungo il tragitto non vedo le facce degli altri, nemmeno una, e non so chi c'era. Con odio, prima di uscire, avevo assistito anch'io alla chiusura della bara, con le viti che entravano nel legno, e fintanto che lei rimase nella casa era come se le avessero usato violenza. Durante la lunga marcia non provavo nulla di simile, il feretro era diventato lei stessa, niente mi separava dall'ammirazione per lei; e così dev'essere portata alla tomba una persona come lei, perché la si possa ammirare incontaminata. Era il medesimo sentimento che non si affievoliva, aveva sempre la stessa forza, dev'essere durato per due o tre ore. E in esso non era alcuna traccia di rassegnazione, forse neanche di dolore: come si sarebbe potuto conciliare con quell'orgoglio furioso? Mi sarei battuto per lei, avrei potuto uccidere. Ero pronto a tutto. Non era paralisi, era sfida. Con la sua fronte io le aprivo la strada attraverso la città, uomini barcollanti da ogni parte, e aspettavo l'offesa che mi obbligasse a scendere in lizza per lei. Voleva stai- solo per parlare con lei. Per alcuni giorni rimasi vicino a Georg nel timore che si facesse del male. Poi mi pregò di lasciarlo solo due o tre giorni, per stare con lei: era ciò che desiderava, per sé non chiedeva altro. Mi fidai di lui e ritornai il terzo giorno. Non voleva lasciare la casa in cui lei era stata 381

malata. Si sedeva sulla sedia sulla quale aveva trascorso le serate accanto al letto e continuava a parlare. Per lui, fintanto che diceva le vecchie parole, lei era ancora in vita. Non voleva ammettere che non potesse più udirlo. La voce della mamma era diventata cosi fievole, non era nemmeno un soffio, ma lui la udiva e continuava a parlare. E poiché lei voleva sempre sapere tutto, le raccontava della sua giornata, della gente, di insegnanti, di amici, di passanti per la strada. Raccontava come allora, come quando ritornava dal lavoro; adesso non andava più in nessun posto e tuttavia aveva da raccontare. Inventava per lei, ma non se ne faceva un rimprovero, e infatti ogni invenzione era lamento, un sommesso, monotono, incessante lamento, poiché forse tra poco lei non avrebbe più udito. Lui voleva che nulla finisse, tutti i gesti, tutte le incombenze continuavano sotto forma di parole. Le sue parole la svegliavano, e lei che era morta soffocata aveva di nuovo il respiro. La voce era intima e sommessa, come allora, quando lui la scongiurava di respirare. Non piangeva; per non perdere uno solo dei momenti di lei; quando era seduto lì, su quella sedia, dove l'aveva davanti agli occhi, non si permetteva nulla che potesse degenerare per lei in una perdita. L'evocazione non finiva mai, io udivo quella voce che non avevo mai conosciuto, pura e alta come quella di un evangelista: non avrei dovuto udirla, perché lui voleva star solo, ma la udivo, perché ero preoccupato e mi domandavo se potevo lasciarlo solo, come lui desiderava, e saggiavo a lungo quella voce prima di decidermi: mi è rimasta nell'orecchio per tutti questi anni. Come si saggia una voce, che cosa non si riesce più a trovarvi, che cosa può ispirare fiducia. Si ode il parlare sommesso alla morta che lui non abbandonerà mai, pur senza seguirla; alla quale lui parla come se avesse ancora in sé tutta la forza per trattenerla, e questa forza appartiene a lei, e lui la dà a lei, lei deve sentirlo. Si sta in ascolto come se lui le cantasse qualcosa sottovoce, non di sé, nessun lamento, solo di lei, 382

soltanto lei ha sofferto, soltanto lei può lamentarsi, ma lui la consola e la evoca e le promette sempre di nuovo che lei è ancora lì, lei sola, con lui solo, nessun altro, ogni persona la disturba, perciò lui vuole che io lo lasci solo con lei, due o tre giorni, e sebbene sia sotto terra lei è lì, distesa dove è sempre stata durante la malattia, e lui va a prenderla con le parole e lei non può abbandonarlo.

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