Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen
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B A B E Le parole della Filosofia Collana diretta da Patrizia Cipolletta, Chiara Di Marco, Claudia Dovolich

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IL PARADIGMA ANTROPOLOGICO DI ARNOLD GEHLEN a cura di

Maria Teresa Pansera

MIMESIS Saggi di filosofia, religione e società

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Questo volume è stato realizzato con il contributo del MIUR su fondi Cofin dell’Università degli Studi di Roma Tre.

© 2005 – Associazione Culturale Mimesis Redazione: Via Mario Pichi 3 – 20143 - Milano telefax +39 02 89403935 Per urgenze: +39 347 4254976. E-mail: [email protected] Catalogo e sito Internet: www.mimesisedizioni.it Tutti i diritti riservati. In copertina: Giorgio de Chirico, L’architetto metafisico.

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INDICE

Maria Teresa Pansera INTRODUZIONE

p.

7

Parte prima LE COORDINATE ANTROPOLOGICHE Andrea Borsari Totemismo e raffigurazione imitativa. Su alcuni aspetti della “teoria delle istituzioni” di Arnold Gehlen

p. 19

Michele Farisco Antropologia negativa e identità relazionale: l’uomo precario di Gehlen

p. 51

Mario Marino Sul significato di una dottrina dell’origine del linguaggio per l’antropologia di Gehlen

p. 69

Vallori Rasini Arnold Gehlen: natura umana e azione

p. 91

Parte seconda IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA Karl-Siegbert Rehberg Motivi esistenziali nell’opera di Arnold Gehlen. La categoria chiave della “Personalità” nell’antropologia e nella teoria sociale di Gehlen

p. 109

Amedeo Vigorelli Arnold Gehlen e la rinascita di Schopenhauer

p. 143

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Parte terza

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I CONTESTI APPLICATIVI Ubaldo Fadini Arte e natura. Su alcuni propositi di Arnold Gehlen

p. 153

Maria Teresa Pansera Prospettive etiche dell’antropologia gehleniana

p. 165

Federico Sollazzo Il ruolo della tecnica nell’antropologia gehleniana

p. 187

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Maria Teresa Pansera

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INTRODUZIONE

In quasi diecimila anni di storia, noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato completamente e interamente “problematico” per se stesso; in cui egli non sa più che cosa è, ma allo stesso tempo sa anche che non lo sa. M. Scheler, Uomo e storia

A cento anni dalla nascita di Arnold Gehlen1 possiamo affermare con certezza che l’antropologia filosofica occupa ormai un suo spazio autonomo accanto alle grandi e universalmente riconosciute correnti che caratterizzano il pensiero novecentesco: dal neokantismo allo storicismo, dall’esistenzialismo al pragmatismo, dall’ermeneutica al neopositivismo logico. Di fronte alle difficoltà e alla crisi di tutte le certezze che coinvolse la filosofia agli inizi del ‘900 e al contemporaneo progresso delle “scienze empiriche dell’uomo” dalla biologia alla psicologia, dalla sociologia alla linguistica, dall’antropologia culturale all’economia, si è avvertita l’esigenza di cogliere l’essere umano nella sua interezza, integrando e armonizzando i risultati delle indagini scientifiche per ricomporre in unità i molteplici aspetti indagati e recuperare così una visione unitaria dell’uomo. In questa prospettiva si colloca la moderna antropologia filosofica, la quale si propone di gettare un ponte tra scienza e filosofia incardinandolo sul problema dell’uomo, al fine di costruirne un’immagine globale. L’antropologia filosofica non si presenta più come una “spontanea filiazione” rispetto al corpo di una filosofia sistematica, ma al contrario si manifesta come «una reazione della filosofia all’avvento di quelle scienze che le contendono l’oggetto o addirittura il buon diritto ad occuparsene». Collocata in una posizione intermedia tra la teoria e l’empiria, essa definisce il proprio compito disciplinare nell’«interpretazione filosofica dei dati scientifici», come «interpretazione teoretica dei risultati empirici», tanto che diventa possi-

1

L’idea di questo volume nasce da una giornata di studi, dal titolo «Antropologia filosofica: un cammino lungo un secolo. Bilanci e prospettive nel centenario della nascita di Arnold Gehlen», svoltasi presso l’Università degli Studi “Roma Tre” il primo giugno 2004.

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bile stabilire il momento della sua nascita a partire dallo sviluppo delle scienze dell’uomo, «dall’antropologia biologica, alla psicologia, alla sociologia», vera e propria condizione perché ne sorgesse il «bisogno»: «tali discipline sorte per reazione non affrontano più l’impresa della philosophia prima, non fondano più le scienze, ma le elaborano, non le fanno più scaturire da principi metafisici superiori, ma devono ammettere che esse siano date»2. L’antropologia filosofica appare così come una «dottrina dell’uomo scientificamente informata»3, che elabora i dati forniti dalle singole scienze attinenti all’uomo e al suo operare, ma che non avanza la pretesa di essere “fondamentale”, di porsi a loro sostegno (anche se non rinuncia a indirizzarle), né di essere una scienza particolare al pari di queste, in quanto, prendendo come suo oggetto teorie scientifiche già costituite ne presuppone l’esistenza. Il suo scopo, l’obiettivo che si prefigge di raggiungere è quello di fornire un’immagine globale e sintetica dell’uomo, partendo dai risultati delle varie scienze, da conoscenze che devono essere integrate, armonizzate, sintetizzate, unificate in una totalità strutturata sulla base di un’intuizione filosofica primaria. Ponendosi al crocevia tra filosofia, scienze della natura e scienze dell’uomo, l’antropologia filosofica vuole riallacciare i fili di un discorso che aiuti l’essere umano a recuperare la comprensione di se stesso e a identificare i tratti caratteristici della sua esistenza, cercando di stabilire quale sia «la sua natura e il suo posto nel mondo». Ci avviciniamo così al nostro autore che con la sua antropologia elementare ha portato il contributo più evoluto e maggiormente dotato di sottigliezza teoretica all’antropologia filosofica. Nella sua opera principale L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo Gehlen si propone di tratteggiare una nuova immagine dell’uomo, ricercata attraverso un confronto costante con le scienze umane e, in special modo, con le discipline biologiche, psicologiche e sociali. Da queste analisi trae la conclusione che l’uomo è un “essere carente”, cioè non dotato di organi e funzioni “specializzati” tali da adattarlo subito e adeguatamente a un determinato ambiente naturale. La sua possibilità di adattamento e sopravvivenza, invece, è legata al fatto che, unico tra gli esseri naturali, è in grado di creare un proprio ambiente socio-culturale, un “mondo artificiale” nel quale vivere e prosperare. L’elaborazione di una “sfera culturale”, la quale si presenta come una “seconda natura” autonomamente sviluppata per mezzo dell’azione, costituisce la caratteristica peculiare dell’uomo. Dove per l’animale c’è l’ambiente sorge, per l’uomo, il mondo culturale, «cioè quella parte della natura da lui dominata e trasformata in un complesso di ausili per la vita»4. La sfera culturale si configura, quindi, come l’ambito 2 3 4

J. Habermas, Antropologia, in Aa.Vv., Filosofia, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 20. Cfr. H. Paetzold, Der Mensch, in E. Martens e H. Schnädelbach, Philosophie. Eine Grundkurs, Reinbek, Rowohlt, 1985, pp. 440-479. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 64-65.

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naturale modificato dall’uomo attraverso l’azione. Egli appare così come «un architetto che edifica la cultura con materiale da costruzione naturale»5. L’essere umano, dunque, paragonato con tutti gli altri viventi più attrezzati di lui, si presenta come un essere organicamente carente. Ma, nonostante i suoi “primitivismi” e non “specializzazioni”, l’uomo continua a conservarsi e a prosperare, e questo perché ha sempre agito in modo da surrogare le sue deficienze, perché è riuscito a sopperire con l’azione a quelle inadeguatezze biologiche che gli rendevano difficoltoso e precario l’adattamento all’ambiente. L’azione plasmatrice e adattativa è, perciò, il più potente strumento a disposizione dell’uomo, ma comporta anche rischi e pericoli. L’essere umano si trova ad essere esposto a un “profluvio di stimoli” a un “bombardamento pulsionale” e tuttavia non si lascia sopraffare, ma riesce a “prendere le distanze” grazie alla sua plasticità, ovvero alla sua capacità di reagire in modo multiforme e vario, li disciplina e li domina con risposte adeguate, scelte in base alle circostanze. Nel suo agire per adeguarsi all’ambiente e possedere il mondo, l’uomo dispone di un meccanismo molto efficace: l’esonero. La capacità di esonerarsi permette all’essere umano, attraverso l’instaurarsi di certe risposte comportamentali automatizzate e di talune abitudini che lo liberano dal continuo bombardamento istintuale, di svincolarsi dal dominio della pura necessità e di aprirsi a quella libertà che gli permetterà di trasformare il mondo “naturale” per lui inadeguato in un mondo “culturale” più idoneo alle sue esigenze. L’uomo, dunque, è attivo di fronte agli stimoli, non subisce la risposta, ma la plasma e attraverso questo suo peculiare modo d’agire riesce a compensare le sue carenze organiche, facendo così fronte a quella che per lui è la più urgente delle necessità: «trasformare questa natura selvaggia – e cioè una qualunque natura, in qualunque modo sia fatta – in modo che divenga utile alla sua vita»6. Sull’azione poggia pertanto la possibilità di sopravvivenza che si fonda sulla plasticità delle risposte agli stimoli e sulla capacità di adattamento: perciò Gehlen giunge a definire l’uomo come un «essere agente» in grado «di elaborare in modo intelligente le costellazioni naturali che trova di volta in volta così da potersi mantenere»7. In base a queste coordinate si declina il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, dal quale si ricava la sua peculiare soluzione al problema uomo: questi va compreso come un «progetto particolare della natura»8, quindi a partire da se stesso e dal posto che occupa nel mondo, rifiutando qualsivoglia

5 6 7 8

A. Gehlen, L’immagine dell’uomo nell’antropologia moderna, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Napoli, Guida, 1990, p. 20. A. Gehlen, Per la storia dell’antropologia, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp.197-198. Ivi, p. 198. Cfr., M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, Roma, Studium, 1990.

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spiegazione che non rientri nell’ambito della sua fenomenologia esclusivamente mondana. In conclusione di questo ampio progetto antropologico e in concomitanza con lo spostamento dei suoi interessi verso la sociologia, Gehlen si pone il problema di come l’uomo possa vivere nonostante la sua carenza istintuale da un lato e la sua eccedenza pulsionale dall’altro. Negli anni ’50 rivede al sua Institutionenlehre, proprio a causa della sociologizzazione della sua riflessione, e dà alle stampe Le origini dell’uomo e la tarda cultura9 in cui si prefigge lo scopo di rintracciare nell’ambito della sua teoria delle istituzioni, intese come mediatrici tra l’uomo e i suoi bisogni, le loro origini nel mondo arcaico e di indagare sul significato che esse assumevano per l’uomo primitivo. Gehlen attua così una svolta verso l’antropologia sociale e culturale, che era contenuta soltanto in embrione nell’apparato categoriale dell’Uomo. Nel dopoguerra, quindi, Gehlen ebbe una notevole influenza nel campo delle scienze sociali, in concomitanza con il suo passaggio verso l’insegnamento della sociologia, prima a Spira e poi ad Aquisgrana. Nell’ambito di questo avvicinamento verso tematiche socio-culturali, il progetto antropologico fu ulteriormente sviluppato da Gehlen in direzione di una teoria delle istituzioni e contemporaneamente come un’analisi di psicologia sociale sui problemi della società industriale10 e infine, specie dopo i grandi rivolgimenti politico-sociali che sconvolsero l’Europa, verso la dimensione etica11, la quale ha acquisito un peso sempre maggiore nel disciplinare dall’interno la vita pulsionale, specialmente quando si verifica una crisi o una minor presa delle istituzioni. Alla debolezza delle istituzioni e alla caduta delle idealità in campo religioso, politico e socio-economico, all’erosione di mete assolute e di ideologie totalizzanti ha fatto seguito da un lato il passaggio da un ethos dello stato a un ethos umanitario, il cui radicamento biologico deriva da un dilatarsi della morale familiare, e dall’altro un notevole accrescimento della responsabilità e della solidarietà all’interno dei gruppi, che sta alla base del concetto di ipertrofia morale. Si delinea così una nuova morale, figlia della tarda modernità e prossima ai tempi della post-histoire, in cui convivono istituzionalismo e umanitarismo, dogmatismo e criticismo, responsabilità e indifferenza, caratteristica di un’epoca di passaggio come è quella della civiltà tecnologicamente avanzata, ma priva di riferimenti e di baricentri sul versante etico-politico, alla ricerca di un difficile equilibrio tutto ancora da conquistare. L’essere umano, infatti, si prepara ad affrontare, con un bagaglio ancora insufficiente, la post9 10 11

A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur (1956), Wiesbaden, Aula, 1986; trad. it. di E. Tetamo, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Milano, Il Saggiatore, 1994. A. Gehlen, Die Seele im Technischen Zeitalter, Hamburg, Rowohlt, 1957; trad. it. di M. T. Pansera, L’uomo nell’era della tecnica, Roma, Armando, 2003. A. Gehlen, Moral und Hypermoral. Eine pluralistiche Ethik (1969), Wiesbaden, AulaVerlag GmbH, 1986; trad. it. di U. Fadini e A. Bernini, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, Verona, Ombre corte, 2001.

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modernità e la post-cultura. Il tempo della post-histoire sta cominciando appena a scriversi: è quindi impossibile prevedere «cosa sarà bruciato da questa fiamma, cosa si fonderà e cosa dimostrerà di resistere ad essa»12. Nel declinare il paradigma gehleniano prenderemo le mosse dalle coordinate antropologiche, da quelle strutture di base su cui si costruisce l’antropologia elementare. L’uomo ha la possibilità di sopravvivere e adattarsi al mondo perché è in grado di orientare, modellare e controllare la propria ‘sfera pulsionale’ dando così vita ad una ‘sfera culturale’, costituita da produzioni ideali, quali le istituzioni, le norme etiche, la religione, il diritto, l’arte, ecc. Tutte queste realizzazioni, queste «prestazioni spirituali superiori» possono essere considerate come «un’organizzazione teleologica della natura dell’uomo per ‘meglio’ conservarlo nell’esistenza»13, come “sistemi direttivi” o “idee guida” che hanno portato all’instaurarsi di norme e divieti su cui si basa la convivenza e l’azione coordinata tra gli uomini in vista del raggiungimento di finalità comuni. Sono quindi le istituzioni – la cui teoria è analizzata da Andrea Borsari – a permettere la trasformazione di quella ‘carenza’ e ‘incompiutezza’, tipiche dell’uomo, in ‘cultura’, ‘sicurezza’, ‘bienfaisante certitude’, come se la stessa forza vitale avesse trovato il modo di trasformare quelli che all’inizio si presentavano come ostacoli in garanzie di sopravvivenza. All’interno di questo contesto un’importanza strategica è attribuita da Gehlen al totemismo e alla raffigurazione imitativa; il primo inteso come un comportamento ideativo, non strumentale da cui derivano norme vincolanti di comportamento, la seconda come un plesso concettuale in cui confluiscono la stabilizzazione del mondo esterno attraverso il soddisfacimento di sfondo, un nuovo rapporto con il linguaggio e la capacità simbolica, un allentamento della tensione emotiva. Le istituzioni si configurano come il luogo di soddisfacimento originario del bisogno umano di socializzazione, in quanto la necessità dell’azione reciproca e della relazione rappresenta una categoria centrale per il pensiero gehleniano. In questa problematica si inserisce Michele Farisco con le sue concezioni di “identità relazionale”, per cui l’io non può affermarsi, ma può soltanto distinguersi attraverso la negazione e la differenziazione dall’altro, e di “compensazione”, in virtù della quale l’uomo conduce la sua vita come un’inesauribile dialettica di conversione del negativo, costitutivo e originario, nel positivo, ottenuto attraverso un’attiva trasformazione delle condizioni naturali. L’esistenza umana, dunque, è resa possibile soltanto per mezzo della stabilizzazione soggettiva e intersoggettiva che si realizza nella convivenza sociale, attraverso le istituzioni. La compensazione sociale si impone all’uomo come una necessità per la sua conservazione, in quanto egli non esiste e vive semplicemente, ma può soltanto co-esistere e con-vivere14. 12 13 14

A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., p. 278. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 432. Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002, pp. 93-133.

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Indispensabile all’attività comunicativa è senz’altro il linguaggio, le cui radici antropobiologiche sono analizzate da Mario Marino. La capacità del linguaggio di richiamare esperienze percettive passate e quindi di “esonerarci” dal continuo e invadente contatto con la realtà sensoriale si realizza in stretta connessione tra la sensibilità tattile, visiva e il sistema fonatorio-acustico. Il risultato dell’interazione di questi processi esoneranti è proprio il linguaggio, le cui radici sono essenzialmente antropobiologiche, in quanto si riportano direttamente alle condizioni proprie della costituzione biologica umana, nel senso che, già a livello pre-linguistico, il sistema percettivo-motorio mette in moto quella formazione simbolica di sostituti che, prendendo sempre più le distanze dalla presenza concreta dell’oggetto, permette la genesi delle parole, delle proposizioni e infine del discorso. L’attività linguistica diviene così un modello del rapporto che l’uomo stabilisce con il mondo e con se stesso. Tra il nostro modo di agire e la realtà esterna si colloca come un filtro, un “mondo intermedio”, costituito dal linguaggio nel suo valore simbolico, il quale determina la profonda differenza tra la “condotta” dell’animale e il “comportamento” dell’uomo. In questa prospettiva l’uomo gehleniano può realizzarsi come un essere aperto al mondo, prescindendo da qualsiasi trascendenza dello spirito, della coscienza o della volontà, in quanto i movimenti circolari e comunicativi determinano, in senso pre-intellettuale, il carattere fondamentale e originario dell’esperienza umana, la quale nasce da un “intrattenimento senso-motorio con le cose” e porta ad una costruzione della realtà in funzione dell’azione. Quest’ultima – come mette in luce Vallori Rasini – rappresenta un tema-chiave dell’antropologia di Gehlen, fondamentale per arrivare a stabilire l’interrelazione costitutiva ed essenziale tra coscienza e realtà, spirito e materia, soggetto e oggetto, senza cedere alla tentazione di assolutizzare uno dei due momenti. Nell’azione si realizza, così, un’esperienza immediata della realtà, che viene sentita e conosciuta come tale; non c’è, quindi, più spazio per la frattura tra soggetto e oggetto, ma si perviene ad un’esperienza completamente nuova del reale, in cui alla rappresentazione si attribuisce sia una valenza soggettiva, in quanto gli oggetti vengono fatti propri dal soggetto che li percepisce, sia oggettiva, poiché la realtà è comunque presente e mi invia il suo messaggio. «Nella prossimità dell’oggetto che s’avvicina a me fiducioso e in amicizia, diventa percepibile l’unità del nostro fondamento, che sento raggiunta, e ciò in un’inconfondibile sensazione di forza e di profondità»15. Gehlen, dunque, insiste sulla necessità di ricomporre l’unità dell’essere umano, superando ogni dualismo di cartesiana memoria. L’uomo, come essere agente, va compreso a partire da se stesso e dall’osservazione di come si colloca al suo posto nel mondo, spiegando, così, in termini empirici, sen-

15

A. Gehlen, Wirklicher und unwirklicher Geist, in Philosophische Schriften I, Frankfurt, Klostermann, 1978, p. 212.

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za alcuna “concessione a forme di dualismo” le prestazioni più specificamente umane16. Dopo aver gettato le fondamenta su cui il nostro Autore ha edificato la sua antropologia, passiamo ora ad analizzare alcune interpretazioni del suo pensiero. Di particolare interesse è la lettura in chiave esistenziale condotta da Karl-Siegbert Rehberg. Egli vuol mettere in luce come, anche quando attua una presa di distanza rispetto al pathos esistenzialistico della sua tesi di abilitazione alla libera docenza17, Gehlen non supera mai del tutto i motivi esistenziali alla base del sua riflessione, ma li rielabora nel corso di tutta la sua opera. Quindi ogni “categoria-chiave” della sua teoria antropologica, dall’essere carente all’eccesso pulsionale, dall’esonero all’azione, dalla disciplina alle istituzioni, non è altro che una metafora esistenziale di problematiche complesse che gravano sull’uomo. Al centro della suo progetto, con richiami alla filosofia di Heidegger e all’esistenzialismo di Sartre, nonché alle concezioni di Bloch e alla prassi rivoluzionaria del Sessantotto, si pone l’uomo e la problematicità in cui egli si trova immerso per gestire la propria vita. Proprio per questo il pensiero di Gehlen non diviene mai del tutto inattuale, in quanto lo sviluppo del sé è il compito che l’uomo dovrà sempre assumersi dal momento della sua comparsa nel mondo. Il rapporto che lega Gehlen a Schopenhauer è preso in considerazione da Amedeo Vigorelli. All’interno della ricezione critica dello schopenhauerismo, egli sottolinea l’apporto originale di quest’ultimo non solo nei tradizionali ambiti: metafisico, estetico e religioso, ma anche psicologico e antropologico. L’analisi gehleniana de I risultati di Schopenhauer respinge l’idea che tra di essi si debbano annoverare soltanto la metafisica della natura e la gnoseologia idealistica e sottolinea quelli di rilevanza antropologica piuttosto che metafisica; essi sono: «la scoperta dell’azione reale come problematica di partenza della filosofia»18, «la teoria dell’armonia tra la dotazione di istinti, la struttura degli organi e l’ambiente»19, il riconoscere la differenza tra uomo e animale «nel fatto che l’animale viene messo in movimento da motivi che gli sono presenti, e rimane perciò sempre dipendente dall’impressione immediata, mentre nell’uomo si sarebbe sviluppata una capacità per motivi non immediatamente visibili, astratti, e con ciò anche l’indipendenza dal presente»20 ed infine il quarto e più importante risultato che consiste nel superamento del dualismo metafisico tra corpo ed anima, ritenuto da Gehlen «la più grande rivoluzione antropologica dal tempo dei greci»21. 16 17 18 19 20 21

Cfr. A. Gehlen, Una immagine dell’uomo, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 89 e ss. Cfr. A. Gehlen, Wirklicher und unwirklicher Geist, cit. A. Gehlen, I risultati di Schopenhauer, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 64. Ivi, pp. 65-66. Ivi, p. 67. Ivi, p. 69.

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Nella terza parte del volume si passa ad analizzare quali possano essere i contesti in cui trovano applicazione le teorie gehleniane. Ubaldo Fadini tratta la questione dell’arte e del suo rapporto con la natura. Il percorso dell’arte moderna è un susseguirsi di “esoneri” e di “prese di distanza” sempre più decisi: prima l’abbandono di ogni funzione ideale, poi di ogni funzione rappresentativa, per giungere con l’arte astratta, tipica della società industriale postborghese, al predominio della dimensione soggettiva dell’artista sull’oggetto, in relazione con una società tecnico-scientifico-industriale che pone tra l’uomo e l’ambiente naturale tutto un mondo intermedio di prodotti e realizzazioni tecnico-scientifiche. L’epoca della post-histoire è, quindi, non soltanto l’epoca della post-natura, in quanto la pittura astratta post-impressionista ha realizzato l’autonomia assoluta del mezzo pittorico da qualsiasi ancoramento al mondo naturale, ma è anche l’epoca di una nuova “naturalità” che si manifesta nella ricerca di nuove forme e mezzi di espressione. Anche l’etica vive la difficoltà di mantenere l’equilibrio in un momento di crisi, quando si sono persi i punti di riferimento precedenti e non se ne vedono ancora di nuovi. In questi momenti si sente il bisogno di ritrovare le fonti della regolazione etico-sociale ritornando a quella che è la costituzione propria dell’uomo e ricercando in essa le radici filogenetiche dell’agire morale. Gehlen evidenzia quattro principali richiami etici, attraverso i quali riesce a cogliere le radici socio-biologiche che sono alla base dei rapporti interpersonali di convivenza e quindi anche del comportamento morale. Nella nostra società, proprio a causa dell’eccessivo espandersi dell’umanitarismo e dell’eudemonismo di massa, si è venuta a creare una grave situazione di «ipertrofia morale» che rischia di tradursi in opposte reazioni, che vanno dall’eccessiva responsabilizzazione all’egoismo nichilistico, dal dogmatismo e dal fondamentalismo al relativismo più assoluto. Le difficoltà e le incertezze che caratterizzano la nostra epoca sono attribuite da Gehlen anche all’accentuato processo di industrializzazione, che ha raggiunto un livello mai riscontrato nelle epoche precedenti. Si è verificata, così, una dicotomia tra il livello di civiltà e il livello di dominio tecnologico dell’ambiente, l’uno rivolto all’indietro e l’altro proiettato verso il futuro. Da ciò deriva, come acutamente analizza Federico Sollazzo, il senso di ambiguità, disorientamento e indeterminatezza, che caratterizza la nostra epoca. La cieca fiducia nel progresso, che aveva accompagnato l’umanità fin dalla prima rivoluzione industriale, è ormai entrata in crisi, è subentrato un diffuso malessere e un disagio generalizzato, si deve prendere atto che lo sviluppo accelerato della tecnica non riesce a soddisfare il bisogno di stabilità proprio dell’uomo. Quest’ultimo, però, ha bisogno della tecnica per conservarsi e per compensare le sue carenze biologiche; se un eccessivo processo di tecnicizzazione ha provocato in lui incertezze e difficoltà, è possibile superarle limitando, attraverso l’ascesi, quelle volizioni aggressive e sradicatici, volte a possedere ad ogni costo oggetti di consumo e a sfruttare la natura in ogni sua più riposta risorsa.

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Tuttavia, nonostante i rischi e i pericoli che la moderna società tecnologica comporta, Gehlen resta fedele alla sua immagine dell’uomo, inteso come un essere che tende essenzialmente a conservarsi e per farlo costruisce una civiltà basata sulla tecnica. Certamente poi verranno anche le difficoltà dovute all’alienazione, alla spersonalizzazione, al consumismo e all’aggressività, ma non si può e non si deve uscire dalla propria casa, così come non si può e non si deve abbandonare il proprio “posto nel mondo”. A questo punto quale potrebbe essere il senso dell’antropologia gehleniana in una prospettiva futura? Si può parlare di un’attualità dell’antropologia filosofica? Se gli enormi progressi della genetica, in continua evoluzione, sembrano aver ben documentato la determinazione naturale della vita individuale (e forse avrebbero aiutato Gehlen nel dimostrare la differenza esistente tra l’uomo e le grosse scimmie antropoidi), tuttavia le riflessioni filosofiche sull’uomo trovano ancora un loro spazio, specialmente quando le sfide e biotecnologiche e bio-mediche, oltre che bio-fisiche, bio-ingegneristiche ed ecologiche sembrano incidere pesantemente sulle vite dei singoli e sulla società nel suo insieme. Inoltre sono senz’altro suscettibili di ulteriori ricerche e approfondimenti: la teoria dell’“essere a misura di linguaggio”; i suoi studi di filosofia della tecnica, che, smentendo molte drammatiche Cassandre, ne evidenziano l’imprescindibilità per un uomo che si pone come cittadino del mondo e vuole abitare tutta la terra; la sua teoria dell’azione, attraverso cui supera la scissione tra soggetto e oggetto, spirito e vita , ragione e passione di scheleriana memoria; le sue indagini estetico-sociali sul significato della pittura contemporanea ed infine le sue prospettive etiche, dove l’antropologia cerca di portare un contributo alla morale riconoscendone le molteplici radici socio-biologiche; i suoi studi sulla personalità all’interno della sua teoria sociale e la sua teoria delle istituzioni. In questa prismatica ampiezza di interessi, di studi e di ricerche consiste l’apporto di Gehlen al pensiero del Novecento, che, riconoscendolo a pieno titolo come uno dei fondatori dell’Antropologia filosofica contemporanea, gli attribuisce un posto di notevole rilievo e spessore nel panorama storico-culturale del tempo.

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PARTE PRIMA LE COORDINATE ANTROPOLOGICHE

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Andrea Borsari

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TOTEMISMO E RAFFIGURAZIONE IMITATIVA Su alcuni aspetti della “teoria delle istituzioni” di Arnold Gehlen

1. Le strutture sociali delle società primitive: reciprocità, esogamia, unilinearità, totemismo Quando nel 1955 Arnold Gehlen si trovò a comporre, insieme all’allievo e amico Helmut Schelsky, il fortunato manuale di sociologia che sostenne la ripresa degli studi sociali nella Repubblica federale tedesca del secondo dopoguerra, scelse come argomento per il proprio contributo specifico “le strutture sociali delle società primitive”1. Il saggio si propone di mostrare come l’analisi delle società primitive risulti rilevante anche per la comprensione del funzionamento della società contemporanea e di far vedere quindi che, “fondamentalmente e anche nelle culture che si trovano molto lontane da quella moderna”, si può preparare ed enucleare lo specifico della dimensione sociologica e si riescono a esaminare le sue autonome possibilità di sviluppo. Si propone, inoltre, di definire le “condizioni sociali di partenza” scientificamente conseguibili, a partire dalle quali la storia sociale dell’umanità a venire dovrebbe procedere, mettendo così in questione il concetto stesso di sviluppo fino lì accettato2. 1

2

A. Gehlen, Die Sozialstrukturen primitiver Gesellschaften, in Id., H. Schelsky, a cura di, Soziologie. Ein Lehr- und Handbuch zur modernen Gesellschaftskunde, Düsseldorf-Köln, Diederichs, 1955, pp. 11-43 (il volume contiene contributi anche di Carl Jantke, René König, Herbert Kötter, Gerhard Mackenroth, Karl Heinz Pfeffer, Elisabeth Pfeil, Otto Stammer, e fu regolarmente ristampato fino agli anni Settanta, con l’ottava edizione nel 1971) – d’ora in poi = SG (per tutti gli altri testi di Gehlen citati di seguito, cfr., infra, la Nota bibliografica con relativa tavola delle abbreviazioni). Sul ruolo di Gehlen e Schelsky, cfr., J. Fischer, L’approccio più influente della sociologia tedesca nel secondo dopoguerra, trad. it. di A. Borsari e B. Lubich, in Antropologia filosofica e pensiero tedesco contemporaneo, a cura di A. Borsari (“Iride. Rivista di filosofia e discussione pubblica”, 2003, n. 39), pp. 289-301, e – per il confronto con la scuola di Francoforte – C. Albrecht, G.C. Behrmann, M. Bock, H. Homann, F.H. Tenbruck, Die intellektuelle Gründung der Bundesrepublik. Eine Wirkungsgeschichte der Frankfurter Schule, Frankfurt am Main, Campus, 2000, spec. pp. 228-238, 293-297. A. Gehlen, H. Schelsky, Vorwort, in Id., a cura di, Soziologie, cit., p. 10.

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Se il compito di rilevare le diverse caratteristiche spirituali e materiali delle società ancora oggi (a metà del secolo scorso) incentrate su elementi arcaici e diffuse in larga parte del globo, che vanno da poche dozzine di componenti ai diversi milioni di etnie africane come gli Yoruba, spetta all’etnologia, alla sociologia – osserva Gehlen – esse ripropongono invece tutte il medesimo problema: il problema centrale consiste nel come, in assenza dello stato – al quale giungono solo le più sviluppate tra queste società e solo in una forma parzialmente razionalizzata – e in assenza di una pianificazione economica a lungo termine, si realizzi infine quella stabilità e continuità che è la condizione di ogni tradizione e di ogni sviluppo culturale, ancora così primitivo, ma ugualmente dotato di un elevato grado di specificità e significato proprio (SG, 11-12).

Il problema diventa così quello del processo di “istituzionalizzazione” e della sua possibilità, quando ancora manchino le forme politiche di dominio e siano presenti soltanto forme estremamente precarie e instabili di attività economica. In tali condizioni, le strutture sociali arcaiche possono solo esercitarsi sulla mera datità naturale dei “rapporti fra i sessi e di riproduzione” e attraverso la costituzione di relazioni di parentela “fittizie”, non dimostrabili cioè nel singolo caso, e “artificiali” (SG, 12). L’esposizione di Gehlen si concentra perciò nell’esame dei sistemi di parentela, delle “strutture elementari della parentela”, e si sofferma in termini anche molto tecnici sulle relazioni di reciprocità (SG, 13-18) e di unilinearità (SG, 18-23), e sulla definizione di tipi ideali che ne consegue (SG, 23-30). Nel novero amplissimo di fonti antropologiche, dall’antropologia sociale anglosassone in particolare (R. Piddington, R.H. Lowie, A. R. RadcliffeBrown, G.P. Murdock, W.J. Thomas, B. Malinowski, M. Mead, R. Bendict, R. Landes, W.C. MacLeod, B.H. Quain, W.H.R. Rivers, I. Hogbin, J.R. Swanton, R.H. Mathews, A. Métraux), spicca il rilievo accordato, appunto, alla ricezione del recente Le strutture elementari della parentela (1949) di Claude Lévi-Strauss, più volte citato qui ma, come apparirà con chiarezza nel richiamo e nella ripresa riassuntiva («solo alcune griglie interpretative di grande respiro, rinunciando a tutti i dettagli») delle Strutture sociali delle società primitive compiuti nell’immediatamente successivo Urmensch und Spätkultur (1956), ritenuto decisivo per la dimostrazione – condotta con abbondanza di materiale e grandissimo acume intellettuale – del fatto che le varie possibili regole codificate dello scambio di ragazze da marito, interpretate alla luce della nozione di reciprocità, possono servire non solo a districare i problemi – finora irresolubili – del divieto di incesto e dell’esogamia, ma possono anche farci comprendere che le forme più diverse di relazioni di parentela vengono prodotte tramite stilizzazione e, con esse, le reti strutturali che articolano i sottogruppi (US, 197; 211).

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L’opera di Lévi-Strauss mostra come sui “dati naturali” della riproduzione e della sessualità sia possibile l’instaurazione di un sistema sociale («La proibizione dell’incesto possiede tanto l’universalità delle tendenze e degli istinti, quanto il carattere coercitivo delle leggi e delle istituzioni»3) e la messa in forma della relazione tra natura e cultura. Se infatti la natura abbandona l’accoppiamento al caso e all’arbitrio, la cultura non può non introdurre un ordine di un qualche tipo là dove non ne esiste alcuno. Il ruolo primordiale della cultura è di assicurare l’esistenza del gruppo come gruppo, dunque di sostituire l’organizzazione al caso, così in questo come in tutti gli altri campi4.

L’esogamia codificata e la proibizione dell’incesto a essa collegata diventano nella prospettiva gehleniana figure chiave per consentire “relazioni durevoli tra i gruppi a lungo termine”, basandole su veri e propri vincoli giuridici (consistenti di “prestazioni” e “aspettativa di essere ricambiati in modo corrispondente”), sicché a partire dallo scambio e dal vincolo a ricambiare resi obbligatori diventa possibile fondare una «trama di diritti e doveri che lega i membri dei diversi gruppi, uniti da vincoli parentali stereotipati, a tempo indeterminato», fino alla generalizzazione della reciprocità generatasi attraverso il processo di costruzione della parentela a principio costitutivo delle relazioni sociali, e della loro sedimentazione durevole: tutte le altre relazioni impostate sulla reciprocità – compresi i culti dei morti come reciprocazioni fra vivi e morti ecc. – possono essere stabilite attraverso norme e rese durevoli sul modello dei rapporti di consanguineità e di parentela generatisi in questo modo (US, 198; 211-212).

Più in generale, integrando le acquisizioni lévi-straussiane (“la scienza deve a C. Lévi-Strauss […]”) nel proprio apparato esplicativo, Gehlen riesce a dispiegare la propria ricostruzione del sorgere delle istituzioni. Gli unici dati naturali cui ci si poteva affidare per soddisfare l’interesse per contenuti validi sottratti al trascorrere del tempo erano dunque, di fatto, i rapporti sessuali e riproduttivi, la cui istituzionalizzazione diviene così comprensibile in tutta la sua portata: il corpo sociale dovette, per così dire, stilizzare la sua stessa physis in forme che potessero fungere da modello [Modellformen] (US, 196; 210). 3

4

C. Lévi-Strauss, Les structures élémentaires de la parenté, Paris, Puf, 1949, p. 12, trad. it. di A. M. Cirese e L. Serafini, a cura di A. M. Cirese, Le strutture elementari della parentela (1969), Milano, Feltrinelli, 2003, p. 49 (in più punti di SG – e il raffronto andrebbe documentato nel dettaglio – le formulazioni gehleniane echeggiano direttamente quelle lévi-straussiane). Per una prima discussione del tema e della ricezione dell’opera, e il rimando alla letteratura ulteriore, cfr. M. Hénaff, Claude Lévi-Strauss et l’anthropologie structurale, Paris, Belfond, 1991, pp. 59-132, e E. Comba, Introduzione a Lévi-Strauss, RomaBari, Laterza, 2000, pp. 42-67. C. Lévi-Strauss, Les structures, cit., p. 37, trad. it. p. 75.

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Laddove spetta ancora una volta alla nozione di “stilizzazione” il compito di rendere evidente l’elaborazione del naturale in artificiale, l’efficacia del fittizio, di ciò che è fatto (US, 80; 189: «L’autoriflettersi del comportamento, compiuto in modo così attivo, si chiama stilizzazione: l’azione consiste, vista dall’esterno, in una codificazione o stilizzazione di se stessa»)5. Siamo di fronte a quello che Gehlen chiama «un autentico capolavoro [Meisterstück], scaturito dall’opera di elaborazione culturale [kulturelle Arbeit] di quelle società sul proprio stesso corpo [am eigenen Leibe]», ovvero «nell’attribuzione artificiale, ossia unilaterale, della consanguineità: la cosiddetta discendenza unilineare» (US, 199; 213-214). Grazie alla discendenza unileare, la società – sempre sulla base delle osservazioni di Lévi-Strauss – tende a dividersi in gruppi paralleli «fra i quali è possibile un rapporto di reciprocità a partire dal quale si produce a sua volta l’organizzazione del gruppo nel suo insieme», e si crea così una istituzione «introducendo gruppi definiti basati sulla parentela che dimezzano la parentela naturale sul piano biologico, con l’esclusione di determinati membri» (US, 200; 214). E, sia detto per inciso, i termini specifici della teoria della reciprocità – contro la versione ampliata a “ethos della reciprocità” della quale muoverà in seguito l’attacco di Jürgen Habermas alla “sostanzialità contraffatta” o “imitata” [nachgeahmte Substantialität]6 – sono ripresi qui dal Saggio sul dono di Marcel Mauss, pure seguendo l’esplicito indirizzo lévi-straussiano. La reciprocità come comportamento concreto, coincide con lo scambio in senso preeconomico o metaeconomico. M. Mauss […] ha richiamato con vigore l’attenzione sullo straordinario significato dei rapporti di scambio nelle società primitive e sulla loro onnipresenza giuridica, sociale, religiosa, morale ed economica. Si scambiano merci, riti, danze, formule magiche, feste, uffici funebri, bambini e ragazze da marito. È il solo modo per comprendere il do ut des anche alla sfera religiosa, in cui questo comportamento, notoriamente originario, si inserisce fra le altre relazioni di scambio (US, 197; 211).

Come si è accennato, discutendo Moral und Hypermoral (1969), Habermas sottoporrà infatti a critica serrata l’idea di una “politica” che restituisca “sostanzialità rinnovata artificialmente [künstlich erneuerten Substantialität] alle istituzioni detentrici del potere” nel quadro di una civiltà tecnologica an5

6

La nozione di “stile” svolge un ruolo centrale nella Kulturanthropologie di Erich Rothacker – per le differenze con la quale, cfr. infra –: “c’è una stretta correlazione tra piano di costruzione [Bauplan] e contenuti di realtà vissuti, si tratti del piano di costruzione umano in generale, compreso quello anatomico, si tratti – ed è ancora più istruttivo – di un piano di costruzione speciale, per esempio uno stile di vita abituale o professionale” (E. Rothacker, Philosophische Anthropologie, Bonn, Bouvier, 19662, p. 82). Cfr. J. Habermas, Nachgeahmte Substantialität (1970), in Id., Philosophisch-politische Profile, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1987, pp. 107-126, trad. it. e cura di L. Ceppa, Arnold Gehlen 2. Sostanzialità contraffatta, in Id., Profili politico-filosofici, Milano, Guerini, 2000, pp. 79-98.

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cor più avanzata di quella che, in Germania, già aveva sperimentato una “politica dell’‘originarietà contraffatta’ [o imitata: nachgehamte Ursprünglichkeit]”7, laddove l’“ethos della reciprocità” verrà messo in questione per la sua dimensione sostanziale, mentre per la sua componente efficace-finzionale sarà accostato in positivo all’“agire in maniera controfattuale” che identifica “situazione linguistica ideale” e “discorrere empirico”, per cui «operiamo come se [tale identificazione] non fosse soltanto una finzione [bloße Fiktion] – come anticipazione essa è anche reale [als Antizipation ist eben auch wirklich]»8. Ed è comunque l’aspetto etico-normativo a far scattare la rielaborazione critica habermasiana, se è vero che nella precedente recensione di Urmensch und Spätkultur (1956), la reciprocità – che lì svolgeva fondamentalmente una funzione di costituzione del legame sociale e della socialità come tale (Gehlen parlerà poi di Sozialkitt, “mastice”, “collante” o “cemento” sociale, alludendo al carattere vincolante della circolazione nel malinowskiano ring delle Trobriand o, più ampiamente, al «potere giuridico, morale, economico e rituale della reciprocità nelle società primitive», MH, 52, 167; 66, 179) – viene menzionata insieme allo scambio, e di sfuggita, tra le categorie gehleniane capaci di suscitare “percezioni” [Wahrnehmungen]9. Senza trascurare il fatto che in Morale e ipermorale, pur nel contesto mutato del ritorno in primo piano dell’etica a fronte dell’inadeguatezza crescente del sostegno istituzionale, viene anche ampiamente ripreso il richiamo a Mauss e Lévi-Strauss in relazione alla “reciprocità” [Gegenseitigkeit] (MH, 50-52; 64-66) – «la ricerca sulle società primitive ha dimostrato che la reciprocità era proprio il loro principio di base, con una diffusione universale» –, aggiornandolo con Antropologia strutturale (1958) – “la teoria della reciprocità non è in discussione” – e rileggendo retrospettivamente la definizione di reciprocità in Le origini dell’uomo e la tarda cultura nel suo carattere di stilizzazione come “ininterrotta costante stilistica umana [menschliche Stil-Konstante]” (MH, 52; 66). Ma, per tornare all’argomentazione gehleniana, non si deve scambiare il “senso funzionale” di una istituzione, la conformità a uno scopo del suo funzionamento “quale risulta infine e quale poi può essere afferrata e sviluppata”, con i “motivi” per i quali illo tempore si giunse al costituirsi di quella stessa istituzione. Sicché, nel caso specifico, il problema diventa: come ha potuto una coscienza orientata sul mondo esterno attingere a una dimensione [Sachverhalt] astratta e invisibile come quella di una linea continua di con7 8 9

Ivi, pp. 125-126, trad. it. p. 97. Ivi, p. 117, trad. it. p. 89. J. Habermas, Der Zerfall der Institutionen (1956), ivi, pp. 101-106, qui, p. 104, trad. it. cit., Arnold Gehlen 1. La crisi delle istituzioni, ivi, pp. 74-78, qui, p. 76. Sull’intera discussione, cfr. il contributo di W. Lepenies, in Id., H. Nolte, Kritik der Anthropologie. Marx und Freud, Gehlen und Habermas über Aggression, München, Hanser, 1971, pp. 77-103, trad. it. di L. Sosio, Critica dell’antropologia. Marx e Freud, Gehlen e Habermas sull’aggressività, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 79-106.

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sanguineità, e come si poté ritradurre questa realtà [Sachverhalt] astratta nello status del singolo? (US, 201; 215).

È a questo punto che – riprendendo anche il filo espositivo delle Strutture sociali delle società primitive – Gehlen introduce la categoria di “totemismo” per definire il fenomeno in base al quale «molte società designano i propri gruppi parziali in base ad animali, più raramente a piante, ancor più raramente a cose inanimate» (SG, 30-34). Il totemismo ha un’origine preistorica ed è documentato da numerosi costumi rilevabili, come, in età storica, i nomi dei faraoni della prima dinastia, scorpione, falco e così via, che qualificano il re come capo di un gruppo totemico, oppure come, in ambito etnografico, nelle isole Figi, dove la presenza di più totem nello stesso gruppo si può spiegare con l’unione di diversi gruppi fusi insieme. L’esogamia tra gruppi totemici risulta la regola nella maggior parte delle aree totemiche, ma si danno esogamia senza totemismo e totemismo senza esogamia. Tuttavia, la grande mole di teorie che si sono mobilitate per spiegare questi costumi ha ottenuto scarse possibilità di verifica e oggi domina “una certa rassegnazione” sul problema. L’ipotesi che, di contro, affaccia Gehlen, è quella secondo cui c’è un nesso tra il totemismo e la formazione di un legame di parentela unilineare. Se si considera come nucleo centrale del totemismo il complesso costituito da discendenza (antenati, spirito protettore)-divieto di omicidio-tabù alimentare, e se si suppone che esso abbia avuto una autentica funzione, tale funzione può allora essere consistita solo nella costituzione di quei legami (SG, 31).

Il modello delle specie animali i cui esemplari hanno la stessa origine e restano per tutta la vita quello che sono indipendentemente da dove si trovano, può così fornire uno schema valido per l’autocomprensione di un gruppo, i cui membri non risiedono nel medesimo luogo, ma vogliono distinguersi nettamente da altri gruppi, “come gli orsi dai lupi”, anche se la designazione di sé a partire da un luogo è co-originaria rispetto a quella su base totemica ed altrettanto possibile. Il totemismo però – ipotizza Gehlen – ha reso verosimilmente disponibile alla “razionalità sviluppata in modo ristretto della preistoria” una sorta di “sostegno comportamentale” (Verhaltensunterstüzung) percepibile in modo intuitivo e visibile, una “analogia tangibile”, per rendere conto di una affiliazione duratura a un gruppo non localizzato con reale o fittizia discendenza (SG, 31-32). Allo scopo di approfondire tale ipotesi, Gehlen fa quindi ricorso a una strumentazione più strettamente filosofica, impegnandosi in una sorta di deduzione del totemismo sulla scorta di nozioni come il “porre” fichtiano e la hegeliana necessità dell’oggettivazione in altro per la formazione dell’autocoscienza. Il complesso più elevatamente arcaico che emerge così è quello per cui

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la prima autocoscienza sviluppatasi può cogliere se stessa soltanto attraverso il mondo esterno. Nella ancora ristretta concentrazione di un nucleo dell’io, l’autocoscienza è in grado di cogliersi soltanto attraverso una identificazione di sé con qualcosa di esterno. La capacità di distinguere sé [Sichunterscheiden] diventa esperibile soltanto nell’equipararsi [Sichgleichsetzen] (SG, 32).

In modo analogo, il processo filogenetico è riconoscibile nell’ontogenesi, nel bambino “oggi”, dove l’io infantile coglie se stesso soltanto equiparandosi al nome con il quale altri lo designano dall’esterno. Pertanto, conclude Gehlen, il processo di identificazione con una linea di discendenza o un lignaggio non può essere accaduto per mezzo di un “identificarsi reciproco in maniera diretta”, ma deve essere passato attraverso un “terzo” nel quale entrambe le identità di stirpe non localizzate trovano un “compimento tangibile”, e con il quale entrambe si identificano. Nello stadio preistorico dello sviluppo di una autocoscienza astratta occupa così una posizione centrale l’equiparazione, il porsi insieme, di un gruppo con una specie animale, dalla quale vennero provocati e sostenuti dall’esterno “più elevati gradi di libertà” che dischiusero – evidenziando il “nucleo religioso del fenomeno” – nuovi ambiti di esperienza e nuovi domini dell’essere, che definiscono primariamente la “densità di campo” delle concezioni religiose (SG, 32). E sulla fisiologia di questo rapporto con l’animale, scomponibile in prospezioni sull’origine e sul futuro del gruppo a esso associato, c’è nuovamente una ampia messe di illustrazioni fornite dal repertorio etnografico (SG, 32-34), che, tra l’altro, suggeriscono un nesso tra instaurazione del totemismo e abolizione dell’antropofagia all’interno del gruppo, o spiegano fenomeni di specializzazione ed elaborazione come la nascita di un totemismo individuale in Africa (SG, 33) o come la sopravvivenza mitica del totemismo nei riti e miti di “incorporazione nell’altro” (SG, 34). 2. “L’uomo” dai “sistemi supremi di guida” al “totemismo” Per situare tuttavia questa svolta antropologica, questa integrazione dei risultati dell’antropologia culturale e sociale nell’apparato argomentativo di Gehlen, e cercare, prima di vederne gli sviluppi all’altezza di Urmensch und Spätkultur, di comprenderne il significato e l’importanza, occorre fare un passo indietro e ricostruire la comparsa del totemismo nel luogo cruciale della sua antropologia filosofica, la conclusione di Der Mensch, così come venne mutando tra la prima (1940) e la quarta edizione dell’opera (1950), e come grazie all’edizione critica stabilita da Karl-Siegbert Rehberg (1993) diventa oggi possibile leggere nella sua stratificazione. Nel capitolo intitolato agli Oberste Führungssysteme, ai sistemi supremi o massimi di guida o conduzione o direttivi, che chiude la prima edizione dell’opera (M1, 709-743) il totemismo fa infatti una comparsa sporadica e del

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tutto marginale, definito sul piano dell’“interpretazione del mondo” (Weltdeutung) e svalutato a sistema primitivo di classificazione e ordinamento apparente, pedante e fantastico (M1, 718-719) o a mero nomenclatore nella tassonomia delle forme religiose arcaiche (M1, 733, 716). Anche se, almeno nel primo caso, lo spunto diventa già l’occasione per accedere a una fonte etnografica relativa agli Zuñi del Nuovo Messico (F.H. Cushing, Outlines of Zuñi Creation Myths, Washington, Bureau of Ethnology, 1896) e illustrarne la struttura, l’organizzazione spaziale degli insediamenti orientata in base a sette diverse sezioni del mondo (cielo, terra, mondo inferiore e superiore ecc.) e riferita a sette gruppi esogamici distinti in base a piante e animali noti (orso, coyote, tabacco, antilope ecc.), ciascuno associato a colori, numeri, attività ed elementi naturali specifici. L’esempio non costituisce un caso particolare, ma è rappresentativo di un atteggiamento diffuso in tutte le società e le culture totemistiche in America, Australia, Oceania, in ampie regioni dell’Africa, come pure nella Cina antica. I sistemi totemistici vengono comunque presi in considerazione qui esclusivamente “dal punto di vista” secondo il quale sono ordinamenti dell’interpretazione, orientamenti ultimi del mondo. Ed essi fanno ciò in forma grandiosa, soltanto entro una chiusura e in un isolamento che ci risultano estranei, statici e immobili, e così privi di ogni contenuto di conoscenza per noi abituale, da farli assomigliare ai sistemi deliranti degli psicotici (M1, 719)10.

La tesi principale che il capitolo cerca di dimostrare è che appartiene necessariamente all’essenza dell’uomo una concezione del mondo [Weltanschauung], ovvero un campo di conduzione o guida [Führungsfeld], a partire dal quale l’orientamento nel e del mondo, la normazione dell’agire e l’ordinamento delle pulsioni [Antriebe] vengono colti insieme e, in definitiva, posti in relazione gli uni con gli altri (M1, 742).

La funzione delle concezioni del mondo è quella, in senso generale, di dare luogo a “sistemi direttivi” (Führungssysteme), ovvero a qualcosa di molto 10

A contraddire – almeno sul punto specifico, ma non si tratta di un hapax – quanto lo stesso Gehlen dichiarerà nella lettera a Karl Löwith (19.03.1958) in cui darà conto della prima edizione de L’uomo (“nella parte conclusiva della prima e della subito ristampata seconda edizione del libro Der Mensch si trovano, in particolare alle pagine 465 e seguenti [appunto la sezione in esame qui], alcune frasi formulate in maniera piuttosto drastica in termini nazionalsocialisti”), ovvero che il libro “ha ignorato completamente l’idea di razza” proponendosi di rappresentare esplicitamente “l’unità del genere umano” (cfr. la nota del curatore in M1, 876-877), il testo prosegue affermando: “ma da ciò si deve concludere soltanto che ‘conoscenza’ [Erkenntnis], nel senso europeo-occidentale, è un caso particolare molto raro e la prestazione superiore di una determinata razza [die Hochleistung einer bestimmten Rasse], e che i puri orientamenti di fantasia [Phantasie-Orientierungen] sono stati molto ampiamente sufficienti, oltre che sistematizzabili in grado elevato” (M1, 719).

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vicino a ciò che Alfred Rosenberg, l’ideologo del nazionalsocialismo, chiama “quadri disciplinari” (Zuchtbilder) (M1, 710)11. Altrettanto esplicito, del resto, è qui il richiamo alla “concezione del mondo nazionalsocialista” come notoriamente “distinta dalla religione”, e – quindi – come termine ultimo del processo che ha portato da un assetto di equivalenza alla differenziazione, intorno al XVIII secolo, che rende ora non più sovrapponibili religione e concezione del mondo. Oggetto dell’intero capitolo diventa così la ricostruzione delle diverse “prestazioni” o “funzioni” (Leistungen) dei sistemi direttivi (M1, 710-717), insieme all’illustrazione delle diverse fasi – dalla preistoria all’età moderna – delle concezioni del mondo (M1, 718-733) e della dissoluzione del legame che faceva di Weltanschauung un tutto unico con Religion, attraverso la scientificizzazione dell’immagine del mondo e l’assunzione della formazione dell’agire e della guida del carattere da parte della filosofia e, in seguito, di una sfera immanente dell’etica e della politica fino, appunto, alla “imposizione dei valori del carattere germanico” compiuta dal nazionalsocialismo (M1, 734-740). Sulla base dell’antropologia elementare, e relativa definizione di “compiti”, è possibile identificare tre diverse prestazioni principali realizzate dai sistemi direttivi. In primo luogo, essi forniscono una connessione d’insieme e un contesto ultimo per l’interpretazione del mondo e si collocano così all’interno del compito umano di orientamento nel mondo, ossia di produzione di asserzioni fondamentali sull’insieme del mondo, la sua origine e il suo senso (M1, 712-713). Collegata a questa è poi la seconda prestazione dei sistemi direttivi (M1, 713-714), che consiste in una “interpretazione di sé e della comunità”, in un sistema di asserzioni sulla realtà in generale e sul ruolo che spetta al singolo o alla comunità in questa realtà, traducibili a loro volta in un dare forma all’azione, in imperativi e prescrizioni su ciò che si debba fare o evitare. Qui si esercitano la “scelta” e la “selezione” delle “pulsioni” (Antriebe) “richieste” o “respinte”, che avvengono in parte per influsso diretto tramite “educazione, suggestione, insegnamento”, in parte attraverso l’influenza indiretta di un “modello” (Vorbild) o di una “tradizione” (Tradition): «l’intero complesso di formazione autoritaria del carattere, disciplinamento dell’atteggiamento [Haltungszucht] e normazione dei costumi è in ciò compreso, e per gli stadi precedenti questo lato politico e morale non si può separare dall’altro, poiché anche la vita dello stato, la formazione della comunità e la religione sono originariamente inseparabili» (M1, 714). Un terzo insieme di prestazioni si può identificare, se si pensa all’“essenziale essere abbandonato [o esposto: Ausgesetztheit] dell’uomo” che si rivela in lui e nella sua costituzione (M1, 715-716). Si tratta dei “fatti dell’impotenza” (Tatsachen der Ohn11

Cfr. K.-S. Rehberg, Nachwort des Herausgebers, in M1, 751-786, qui 780-781 (Ordnungsleistungen: 1. Zucht, Charakter, Person); da ricordare che, in termini semantici, il disciplinamento della Zucht ha origine nell’ambito dell’“allevamento” degli animali e nella “coltivazione” delle piante.

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macht), i fallimenti e la morte, la sofferenza e il dolore, l’“instabilità” e l’incommensurabilità del mondo, di cui gli esseri umani fanno esperienza in modo duraturo e consapevole, che incontrano di continuo, in quanto esseri esposti, non stabilizzati e del tutto abbandonati ai casi del mondo, e di fronte ai quali diventa per loro necessario prendere posizione. L’uomo vive gli insormontabili limiti del proprio volere e del proprio potere [Können], egli esperisce la propria impotenza [Ohnmacht] e possiede la forza elementare, fintanto che vive, di rivolgere contro tale impotenza l’eccesso pulsionale: gli interessi dell’impotenza sono quelli che le religioni parimenti hanno dovuto corrispondere in modo adeguato, e ci sono riuscite in quanto hanno fornito sostegno nei limiti del potere [Grenzen der Macht], in particolare di fronte al dato di fatto dell’insuccesso, della sofferenza, del caso e della morte; in quanto esse hanno indicato pratiche per indirizzare il destino, come la magia, gli oracoli e così via, hanno ispirato consolazione e speranza, e mediato lo scambio con le potenze superiori [Übermächten], gli dèi (M1, 715).

Tutti e tre i lati sono presenti nelle prime concezioni del mondo e religioni ed è soltanto in base all’antropologia gehleniana che è possibile intenderne il carattere necessitato: «ogni comunità umana dispone di tali sistemi direttivi, e ne dispone in modo essenziale in quanto umana» (M1, 716). Se, come si è accennato, si può seguirne l’intreccio e i processi di differenziazione nel corso della storia, nell’insieme trova espressione in questi sistemi il “complesso dei problemi dell’esistenza umana”, in quanto «quella di un essere aperto al mondo, agente, che si è posto a se stesso come compito e, in termini biologici, ‘rischiato’ in grado elevato», giacché essi sono anche “le forme in cui una comunità si stabilizza e continua ad esistere” (M1, 716-717). In particolare, per quanto riguarda gli “interessi dell’impotenza”, Gehlen riprende e sviluppa la propria riflessione (M1, 728-734) sulle “esperienze dell’impotenza” (Erfahrungen der Ohmacht), gli esiti negativi anche delle azioni più ponderate e più urgenti, l’impossibilità di soddisfare anche le più elementari aspirazioni a “più vita” e la “depressione” che ne deriva, i destini imprevedibilmente naufragati, la morte certa queste sono esperienze dell’impotenza e sono insuperabili, date insieme all’esistenza dell’uomo: nessun animale sa che morirà, ma neppure ad alcuno di essi è assegnata la pienezza del mondo e con ciò l’essere cronicamente esposto al caso imprevedibile. Non importa molto, in proposito, che si riesca effettivamente, attraverso la conoscenza sistematica, il dominio della natura e dei rapporti vitali, a spostare in avanti i limiti dell’impotenza in maniera duratura: poiché ciò accade effettivamente, l’uomo resta in contatto proprio con questi limiti, che pure sposta sempre più avanti, potenzia anzi le teste di ponte dell’infelicità (M1, 728-729).

In questo modo – e l’affermazione assume lo statuto di “asserzione decisiva” – gli esseri umani non sono in grado di risarcire la propria Ohnmacht nei

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suoi termini essenziali, e per affrontare più in profondità le potenze sovrastanti, reagendo alle loro minacce e catastrofi, evocano l’efficacia della “fantasia” (Phantasie). Come la fantasia ha, in generale, la sua funzione vitale principale nel fungere da “volano per l’azione”, ovvero di «trasporre l’uomo attraverso un movimento virtuale in condizioni ‘migliori’ e immaginate [costruite con l’immaginazione: eingebildete]», così essa è anche la «forza incoraggiante, che trascina l’uomo oltre la coscienza paralizzante della sua impotenza». Non è infatti esatto sostenere che «Deos fecit timor: non la paura, la minaccia di un strapotere, crea gli dèi, bensì l’oltrepassamento [Überwindung] della paura. È naturale non voler credere alla morte e elaborare perciò delle rappresentazioni circa l’aldilà e la sopravvivenza dopo la morte; è naturale popolare di ausiliatrici entità foggiate dall’immaginazione lo spazio che intercorre tra ciò che è sotto il nostro controllo e ciò che avviene al di fuori di esso»; gli “interessi dell’impotenza” sono perciò «manifestazioni dell’inesauribile eccesso di energia pulsionale, sono pertanto al servizio della vita», mentre la fantasia dell’uomo è una «forza [Gewalt] che favorisce la vita, trasporta nel futuro e contrasta la rassegnazione» (M1, 729). Nella forma della finzione filosofica di uno stato originario dell’uomo, soltanto confermata dal richiamo ad Australia, Oceania, Congo, Sudafrica, Araucaria (M1, 731), sempre più nel corso del ragionamento gehleniano la proiezione dell’“ottimismo originario” viene riversata su un “uomo naturale” o “primitivo” capace di mostrare la “forza inesauribile delle pulsioni” immergendo “tutte le circostanze di importanza vitale” in una “atmosfera di fantasmi incoraggianti” (M1, 730-731). Insieme alla personificazione e condensazione dei vissuti e delle situazioni intorno a “centri di forza”, le “radici” principali della concrescita dei sistemi direttivi sono rappresentate dal bisogno di comportamenti ordinati e reciprocamente stabilizzati, di mezzi per contrastare la strapotenza dei fatti (come la magia o altre forme di “guida degli eventi”), per interpretare consapevolmente e individuare relazioni significative, ottenere appoggio, difesa, benedizione (M1, 730). Da una tale deduzione dall’essenza dell’uomo dei suoi ambiti di possibilità risulta quindi che la costruzione di sistemi superiori di guida è “necessaria alla vita”, ne costituisce il necessario “quadro di disciplinamento”, che lo rende in grado, non come singolo ma in generale e nella dimensione della comunità, di affrontare il problema della conoscenza e del dominio del mondo (M1, 733). Se l’edizione del 1944 di Der Mensch presenta già rilevanti variazioni, aggiornamenti (Pareto non è più “Lehrer Mussolinis”), aperture a fonti teoriche e analitiche nuove (la sociologia della religione di Max Weber, l’etologia di Konrad Lorenz, la mentalità primitiva di Lévy-Bruhl), e un ulteriore arricchimento della prospettiva ‘primitivistica’12, è con la nuova edizione post-bellica del 1950 che Gehlen arriva, come accennato, a sostituire interamente l’ul12

Per le differenze tra la prima e la terza edizione, cfr. ivi, M1, 754-755.

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timo capitolo del libro e ad avviare l’elaborazione di una teoria delle istituzioni – concentrandosi sul totemismo come figura genetica dell’oggettivazione istituzionale stessa – intesa esplicitamente come critica e superamento dei limiti della posizione precedente. Il “cortocircuito” (Kurzschluß), il nesso diretto stabilito tra i “sistemi direttivi” e la “costituzione biologica dell’uomo (anche nell’accezione più ampia del termine)” (M 383; 429), diventa così il punto sui cui si concentra l’autocritica di Gehlen. Assumere la Phantasie come “forza creatrice di dèi” capace di strappare direttamente l’uomo alla instabilità, all’esposizione al rischio e all’impotenza risulta ora inammissibile13. Più in generale, diventa ora scorretto porre in risalto la “prestazione o retroazione delle rappresentazioni religiose” nella “sfera delle pulsioni individuali”, giacché siffatto cortocircuito finisce per escludere e mettere tra parentesi “l’intero mondo societario delle istituzioni sociali” con le quali ora vanno posti in relazione “essenzialmente” i sistemi direttivi (M, 383; 429-430). È nota l’importanza della scoperta della nozione di idée directrice di Maurice Hariou che Gehlen rinviene in Carl Schmitt e che gli consente di evidenziare il fatto decisivo che un sistema direttivo (idée directrice) è sempre il sistema di un’istituzione e che dunque, in altre parole, un sistema direttivo (per esempio il cristianesimo puritano o l’etica confuciana) può essere scientificamente e oggettivamente compreso solo in rapporto alle istituzioni sociali nelle quali si incarnò e visse (M, 383; 429).

Insieme all’analisi delle strutture sociali elementari, l’individuazione delle idées directrices rappresenta tuttavia il filo conduttore per la scoperta del ruolo delle istituzioni, dell’importanza di un termine medio, della necessaria oggettivazione in altro, che impedisca il corto circuito pulsioni-sistemi direttivi, con le sue disastrose conseguenze. Il ‘freno’ che impedisce un simile precipitare di piani eterogenei l’uno nell’altro è costituito però, come vedremo, dalla possibilità di identificarsi in un non-io. Da ciò deriva l’importanza strategica che assume ora il totemismo nell’impianto gehleniano, sarà esso appunto a fornire, all’origine del processo di antropogenesi, il modello teorico e l’ipotetico antecedente storico, ritenuto presente in tutte le culture, per il passaggio attraverso altro, la via indiretta che sola rende possibile scongiurare gli effetti destabilizzanti della imitazione diretta. L’argomentazione di Gehlen per giungere a questa conclusione comporta diversi momenti che, accanto all’interruzione del cortocircuito tra la sfera vitalepulsionale e i sistemi direttivi, insistono sulla critica del rapporto complemen13

Insiste sulla cesura definita dalla critica al Kurzschluß K.-S. Rehberg, Zurück zur Kultur? Arnold Gehlens anthropologische Grundlegung der Kulturwissenschaften, in H. Brackert, F. Wefelmeyer, a cura di, Kultur. Bestimmungen im 20. Jahrhundert, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1990, pp. 276-316, qui pp. 287-291, Institutionentheorie. Cfr. anche Ch. Thies, Gehlen zur Einführung, Hamburg, Junius, 2000, pp. 115-129.

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tare tra coscienza e sistemi direttivi, che sembra appartenere a uno strato precedente del pensiero gehleniano ma che si rivela determinante nel fornire lo sbocco con il quale anche il cortocircuito in questione dovrebbe trovare soluzione. Nei passaggi successivi, infatti, il ragionamento comporta una polemica con il relativismo e con la sua pretesa di dissolvere qualunque aspirazione di verità nel nome della sovranità dello spirito sulla successione delle immagini del mondo che si risolve nella vuota astrazione della riflessione. E la polemica viene condotta, nello specifico, in base all’opposizione tra “rappresentare” e “diventare” e alla critica dell’insufficiente ancoraggio istituzionale fornito dal mero “comprendere” e dalla “coscienza storica” o “strumentale”, di contro alla forza creatrice delle “idee direttrici” e della “coscienza ideativa” incarnate in istituzioni capaci di non precludersi per questo “scopi ultimi”. I tentativi di Bergson, Scheler e altri di venire a capo del significato generale di sistemi direttivi come religione e diritto conducono tutti a effetti psicologici di tali idee sull’interiorità e a ipostatizzare una organizzazione teleologica della natura nell’uomo volta a meglio conservarlo nell’esistenza; la religione è stata così intesa da Bergson come «un grande movimento di compensazione, che dalle profondità del vitale bilancia i pericoli dell’intelligenza [Intelligenz], quasi […] una misura difensiva della natura contro le possibilità biologicamente dannose che sono insite nell’intelligenza» (M, 383-385, 392; 431-432, 439). Questi tentativi condividono con le “scienze dello spirito, discipline storiche con fondamento sociologico” il presupposto comune della “coscienza storica”. A partire infatti dall’Illuminismo le religioni e le visioni del mondo vennero oggettivate, “furono esse stesse storicizzate”: «l’evidenza della loro validità si congiunse non più con la realtà immediata dell’esperienza sociale e naturale, ma cercò un sostegno nel materiale malsicuro e cangiante della storia» (M, 386; 433). Dalla collisione tra le diverse strutture della coscienza definite dalla “religione tradizionale”, in cui «i contenuti religiosi, morali o giuridici appaiono in quella singolare posizione intermedia tra essere e dover essere, che loro inerisce finché essi sono nel contempo categorie della concezione del mondo e principi strutturali di istituzioni», e dall’“illuminismo”, in cui «questi stessi contenuti sono oggettivati a rappresentazioni, e perciò, al tempo stesso, vissuti come soggettivi e revocabili», scaturisce il “problema del relativismo”: la questione se tutti quei sistemi direttivi, tanto palesemente eterogenei, possano essere verità, se appunto la verità si presenti al plurale o se, invece, in queste cose non si diano che illusioni, assai opportune forse, con una certa utile funzione fabulatoria, ma tuttavia tali che proprio noi, con le nostre persuasioni ultime, se mai ancora ne avessimo, saremmo gli ingannati. Ma, se nulla è vero, non è allora tutto consentito? (M, 386-387; 433-434).

Si tratta a questo punto di discutere le risposte al problema suggerite da Wilhelm Dilthey e dall’etnologia, esemplificata qui da Ruth Benedict e Bro-

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nislaw Malinowski ma ancora ricondotta a forme di pensiero preliminari e inutilizzabili per il presente contesto teorico (M, 387-391; 434-439). Il tentativo di Dilthey (“questo complicato e oscuro studioso”) fu quello di «distillare persuasioni definitive dalla mera indagine sulle figure storico sociali dello spirito», ripercorrendo la via battuta da Hegel “senza però i suoi convincimenti cristiani”, e si produsse nello sforzo di ristabilire la “sovranità dello spirito” rispetto al movimento delle visioni del mondo tra loro relative (M, 387-388; 434-435). Esso deve il proprio fallimento alla “struttura” stessa della coscienza storica, al suo avvalersi di “rappresentazioni” (Vorstellungen), al confondere e sovrapporre cioè la comprensione e l’essere – un conto è “comprendere” (verstehen) un fenomeno, un altro è “diventare” (werden) quello stesso fenomeno – sicché l’errore di Dilthey risulta visibile con chiarezza nella sua asserzione che suona: «l’esperire [Erleben] uno stato proprio e l’imitare [Nachbilden] uno stato altrui o un’altra individualità sono, nella sostanza del processo, consimili» (M, 388-389; 435-436) – laddove, andrà notato, il Nachbilden mette l’accento piuttosto sul ri-figurare, riprodurre in immagine, che non sull’imitazione mimico-corporea, la ripetizione dei gesti, della voce e della postura. Gehlen commenta il passo di Dilthey rilevando che, al contrario, non c’è una frattura più drastica e incolmabile di quella che si dà tra “volontà rappresentata” e “volontà effettiva”, e che il “rivivere” (Nacherleben) e il “rappresentare” (Vorstellen) l’“energia psichica” di un altro non può significare di per sé la nascita della stessa energia in chi compie tale rappresentazione (M, 389; 436). L’analisi delle visioni del mondo, resa disponibile dalle scienze dello spirito di indirizzo diltheyano, mostra i sistemi direttivi e le idee forza come “verità possibili”, incarnando così “l’assenza di una fede nei simboli guida” (Glaubensmangel an herrschende Symbole) che però è anche contemporaneamente un “bisogno di fede” (Glaubensbedürfnis), e in esse ci si può trasferire “intellettualmente”: è possibile riattuarle in una riappropriazione virtuale con la speranza che questa assimilazione passiva di contenuti vitali meramente rappresentati renda possibile pervenire a un punto di osservazione definito in termini di ‘sovranità dello spirito rispetto a ciascuna di esse’ (M, 389-390; 436).

Nella psiche moderna, infatti, «tutti i contenuti divengono sì comprensibili [verstehbar], ma nella sfera dell’opinare e del rappresentare, e proprio per questo vengono oggettivati [vergegenständlicht] e depotenziati [entmachtet], svuotati di motivazione»; in questo modo anche la psiche propria si trasforma in sujet de fiction e la sovranità dello spirito non è altro che “ipostatizzazione dello stato di riflessione come tale” (M, 390; 437). A una analoga forma di riflessione che si rivela priva di contenuto conduce, in ultima analisi, anche la via empirica del calarsi sin nei particolari nella visione del mondo non solo dei “popoli estinti”, ma anche di quelli “lontani”. Il “vasto campo” delle scienze etnologiche e sociali mette in luce “la relati-

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vità dei valori, dei costumi, delle istituzioni e delle idee-forza”, rinunciando per lo più a asserzioni di portata generale o concependole come ipotesi indipendenti a integrazione di singoli contesti descrittivi, e mira ad affrancarsi dalle “prevenzioni che le norme della cultura di appartenenza comportano” (R. Benedict); oppure, se anche approda a concettualizzazioni più generali, esse assumono la “forma più ovvia” del pensiero teleologico che porta a rappresentare istituzioni quali famiglia, diritto e così via, come sorte da “un agire razionale sotteso da uno scopo” (B. Malinowski), un metodo “palesemente fallito”, in quanto “non fa che spiegare quanto ha già presupposto” (M, 389, 391-392; 436, 438-439). Nel passaggio successivo, Gehlen assimila la “coscienza storica” alla “coscienza strumentale”, giacché entrambe non sono in grado di “porre scopi ultimi” e “da esse non scaturiscono comportamenti in cui si tenga fermo a scopi ultimi”; la coscienza storico-psicologica risente ed è “compensazione” della “decadenza delle istituzioni” e della “disintegrazione sociale”, a loro volta alimentate dallo “scatenarsi senza limiti dell’atteggiamento strumentale” (M, 392-393; 439-440). L’opposizione non sarà così tra scienze della natura e scienze dello spirito, bensì tra il loro insieme indicizzato all’assenza di scopi ultimi e la “coscienza ideativa”, che concerne «quegli atti spirituali e quei comportamenti determinati dalle pulsioni [antriebsbestimmten], nei quali gli uomini coltivano la natura in sé medesimi», e la cui “energia creativa” (Schöpferkraft) si rivela nella «fondazione di istituzioni che per loro essenza hanno il loro fulcro in una idée directrice, in un’idea forza» (M, 393-394; 441). Per dimostrare, infine, che «esistono ben determinati atti non strumentali della coscienza ideativa» dai quali vengono sviluppate le istituzioni, si dovrà appunto ricorre a un esame del totemismo (M, 394-404; 442-452). 3. Totemismo e antropologia filosofica: trasporsi in altro, imitazione, opportunità oggettiva secondaria Il totemismo, o “culto sociale di un animale”, rappresenta una delle poche “forme culturali” dotate di “significato universalmente umano” (allgemeinmenschliche Bedeutung), e la sua configurazione essenziale – al di là delle controversie esemplate qui dal richiamo al Freud di Totem e tabù e al van der Leuuw di La fenomenologia della religione – è riconducibile ad alcuni tratti elementari: “esistono gruppi che si ‘identificano’ con determinati animali e ne portano il nome”; “l’animale totemico è considerato l’antenato del gruppo”; “a questo gruppo è di solito interdetto l’ucciderlo ovvero il cibarsene”; l’epoca “estremamente arcaica” alla quale risale la “struttura della coscienza” cui il totemismo si riferisce fa sì che quest’ultima fosse “orientata in prevalenza sul mondo esterno”, che fosse cioè “un’autocoscienza riflessiva in misura assai scarsa” (M, 394-395; 442-443). La sua diffusione è ampiamente attestata – compendia Gehlen senza ulteriori specificazioni – tra gli indiani

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dell’America meridionale e settentrionale, in numerosi gruppi “primitivi” dell’Africa, dell’Asia settentrionale e orientale, del Pacifico meridionale e dell’Australia, così come, a ritroso nel tempo, nell’antico Egitto, in Messico, in Cina e nella Grecia arcaica («Erinni era in origine una divinità in forma equina […], in Attica, una festa tramandava l’apparizione di Artemide in figura di orso») e, risalendo ancora, nel Paleolitico, quando il culto dell’orso era variamente diffuso (M, 395; 442). Dal punto di vista filosofico, tuttavia, sono due gli espliciti elementi portanti della ricostruzione gehleniana, l’“opportunità oggettiva secondaria” ricavata dall’ontologia critica di Nicolai Hartmann, e il “trasporsi in altro” ricavato dall’interazionismo simbolico di George Herbert Mead14. Sichversetzen in andere (trasporsi in altro) è fatto corrispondere al to take the role of the other di Mind, Self and Society (1934), non senza insistere sulla differenza che, tuttavia, c’è fra la Verkörperung, l’incorporazione come incarnare, impersonare e personificare, cui esso conduce e il “ruolo” (Rolle) stesso («questo popolare concetto, caro ad esempio alla sociologia americana, è un derivato secondario dell’incorporazione», M, 402; 449). Allorché si compiono azioni “in modo che esse abbiano la forma della reazione dell’altro”, o comunque la “reazione dell’altro” viene “anticipata” nel proprio stesso gesto si crea una base comune che è un punto di partenza nuovo, ed è ora possibile reagire al rapporto costituito dalla reazione dell’altro al proprio gesto. Il significato del primo gesto è allora, in entrambi, il medesimo. La coscienza che nasce in un individuo del significato di un gesto che egli compie dipende dall’essersi ‘trasferito’ nella reazione dell’altro, ovvero l’interiorità ha come prima figura il trasferirsi nell’altro su una base comune. Soltanto così un gesto diviene simbolico, ossia significante (M, 262; 301).

L’assumere il ruolo dell’altro è altresì alla base della costituzione dell’autocoscienza, citando direttamente Mead: È evidente che l’autocoscienza nasce quando ci si volge a un altro e si risponde con la risposta dell’altro. Durante questo periodo dell’infanzia il bambino dà vita a un foro, entro il quale impersona vari ruoli. […] Si partecipa allo stesso processo che l’altra persona attua, e si controlla il proprio agire nella prospettiva di questa partecipazione”, sicché – conclude Gehlen, rivelando una possibile convergenza, un’ascendenza e una problematica comune con l’elaborazione di Helmuth Plessner15 – “il trasferirsi in altro significa obiettivarsi, estraniarsi, avere se stessi”, “i 14

15

Per un approfondimento di queste relazioni teoriche, centrali negli sviluppi del pensiero di Gehlen, cfr., intanto, K.-S. Rehberg, Die Theorie der Intersubjektivität als eine Lehre von Menschen. George Herbert Mead und die deutsche Tradition der “Philosophische Anthropologie”, in H. Joas, a cura di, Das Problem der Intersubjektivität. Neuere Beiträge zum Werk George Herbert Meads, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1985, pp. 60-92 e P. Jansen, Arnold Gehlen. Die anthropologische Kategorienlehre, Bonn, Bouvier, 1975, pp. 40 ss. Cfr. A. Borsari, Mimica e antropologia dell’imitazione. Il problema della mimesis nella fi-

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giochi infantili basati sui ruoli e le ‘imitazioni’ [Nachahmungen] significano perciò lo sviluppo dell’autocoscienza per l’indiretta via [Umweg] della coscienza dell’altro in se stessi” e, in questo modo, l’autocoscienza “acquisisce il rapporto specificamente umano con il suo corpo proprio [zum eigenen Leib] (M, 262; 301-302).

Assumere la risposta dell’altro nel proprio comportamento è la “funzione fondamentale” per distinguere il “Sé” da “se stesso” e profilarlo di fronte all’altro; così l’individuo «acquisisce un atteggiamento oggettivo e impersonale nei propri confronti», “diventa per se stesso un oggetto” e, dal punto di vista di una teoria del gioco, le azioni dei vari partecipanti al gioco vengono organizzate in un sistema reciproco, e la «comunità organizzata o il gruppo sociale, che conferisce all’individuo una siffatta e per così dire trasponibile unità del suo Sé» può essere definita “Altro generalizzato” (M, 208-209; 245). Nel caso del totemismo, l’identificarsi, ovvero il procedimento di trasformarsi o metamorfosarsi in un animale attraverso la raffigurazione (darstellende Sichverwandeln), andrà preso “molto letteralmente”, e a tale figura andrà ascritta pertanto la «realizzazione più primitiva, ancora indiretta dell’autocoscienza». Identificandosi con un non-io, il singolo perviene per contrasto a un senso di sé cui può tener fermo nella raffigurazione [Darstellung], più o meno duratura di un altro essere. La coscienza primitiva, volta all’esterno, diviene autocoscienza solo in via indiretta, cioè nel processo della raffigurazione di un non-io, e nell’oggettivarsi, grazie a tale rappresentazione, del proprio Sé, che è rappresentato da un che d’altro (M, 396; 443).

Decisiva comincia a diventare, a questo punto, la relazione con l’“imitazione” (Nachahmung). Sebbene permangano tracce, nella versione definitiva de L’uomo, di una limitazione metodica, di una certa avversione di Gehlen per il concetto, e della necessità di subordinarlo ad altri, come, per esempio, sempre a proposito di Mead e del to take the role of the other, laddove precisa: «Questo processo è mal designato come ‘imitazione’ [Nachahmung], trattandosi invece della realizzazione di un rapporto con se stessi per il tramite di un comportamento di altri» (M, 318; 360); oppure, a proposito del conferimento di significato al simbolo, laddove conclude:

losofia di Helmuth Plessner, in Id., M. Russo, a cura di, Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica, (in corso di stampa). Più in generale, sulla divergente convergenza tra i due, cfr. K.-S. Rehberg, Verwandte Antipoden. Helmuth Plessner und Arnold Gehlen – eine Porträtskizze, in H. Pfusterschmid-Hardtensein, a cura di, Was ist der Mensch? Menschenbilder im Wandel, Wien, IberaVerlag, 1994, pp. 122-138, e la relazione al congresso di Cracovia della Plessner-Gesellschaft (2003), Id., Power as a form of bourgeois self-protection in Helmuth Plessner and Arnold Gehlen (datt.).

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L’imitazione, tanto spesso sopravvalutata, non è, perciò, che una componente di un processo più complesso. Ed è giusto quel che dice Guillaume […]: ‘L’imitazione non può essere una struttura semplice, altrimenti avrebbe una validità biologica più ampia, mentre difficilmente ricorre in esseri diversi dall’uomo’ (M, 262; 301).

Appare tuttavia evidente che, in termini ontogenetici come fase imitativa che consente l’assunzione dell’altro nel bambino attraverso il gioco, e in termini filogenetici come capacità di raffigurazione imitativa nella genesi del totemismo – e, quindi, dell’autocoscienza, della capacità di autoggettivazione e delle istituzioni –, esso assume un peso sempre più rilevante nell’impianto teorico gehleniano. Sicché, per tornare al capitolo conclusivo “il ‘trasporsi in un altro’, l’‘imitazione’, se si vuole, fa nascere l’autocoscienza”, ma essenziale diventa distinguere tra “imitazione diretta” e via indiretta (Indirektheit), passaggio da un termine terzo e comune, che porta al totemismo. Una pallida analogia con tutto questo [con il processo che porta la coscienza primitiva a diventare autocoscienza solo in via indiretta oggettivandosi in un non-io raffigurato] ci si offre ancor oggi nel ‘gioco di ruoli’ dei bambini, nel quale l’Io si presenta a se stesso nelle vesti di un altro e come un altro si coglie. Ora questa figura della coscienza è una figura sociale, che potrebbe anche essere realizzata nel diretto rapporto degli uomini fra loro, nell’‘imitazione’ reciproca [in der gegenseitigen ‘Nachahmung’]. Quel che caratterizza il totemismo è il fatto che tutti i membri di un gruppo, che già sussiste ‘in sé’, si identificano con uno stesso non-io e quindi non si imitano direttamente a vicenda, bensì fissano il medesimo ruolo di una terza entità nei loro rapporti reciproci. Questo non-io deve trovarsi, pertanto, al di fuori del gruppo, è anzi impossibile che possa essere un’altra persona del gruppo, ché questa diverrebbe essa stessa attiva e ridurrebbe di nuovo il rapporto reciproco a imitazione diretta [zur direkten Nachahmung]. Come non-io è necessario trovare un punto di riferimento vivente e prossimo, e tuttavia passivo; si offre allo scopo, come sostrato, il già sussistente sentimento dell’importanza vitale che la presenza e persistenza della vita animale rivestono per l’uomo (M, 395-396; 443).

Nell’“attuazione mimica” (mimische Vollzug) della rappresentazione di uno stesso animale, nei rapporti reciproci tra i membri di uno stesso gruppo, questi ultimi «realizzano in una maniera indiretta [auf eine indirekte Weise] l’autocoscienza della loro oggettiva unità come gruppo», un concetto elevato alla coscienza “molto prima che non sia astrattamente pensato”. Esso ha una portata assai più vasta di ogni esperienza del Noi emotivamente vissuta o raggiungibile nel comportamento comune diretto, e appartiene a una riflessione di specie superiore, che la coscienza volta all’esterno è in grado di raggiungere soltanto se interviene un comportamento in sé riflessivo (l’‘incorporarsi in un che d’altro’). Il modo come il concetto ‘il nostro gruppo’ è poi pensato si collega al punto di riferimento dell’intera struttura, l’animale-totem, e si estende all’ovvia rappresentazione di un’origine comune, esclusiva, da questo (M, 396; 443-444).

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Una tale idea si può certo considerare “falsa o fittizia” (falsch oder fiktiv), da un punto di vista empirico, le andrà attribuita tuttavia una “realtà [Realität] sui generis”: essa è cioè una schematizzazione di un comportamento assai complesso in un concetto evidente [anschaulichen Begriff], al quale si possono collegare esperienze vissute di obbligazione [Verpflichtungserlebnisse], che il concetto riflessivamente astratto ‘il nostro gruppo’ non comporterebbe. Si ingenera così, forse per la prima volta nella storia dell’umanità una coscienza della comunità oggettiva grazie appunto all’identità dell’autocoscienza di tutti (M, 396-397; 444).

Mentre la “coscienza moderna” non sembra adeguata a “tenere fermo” un simile “contenuto intrinseco”, che nello stadio preistorico ha svolto invece una funzione quanto mai progressiva e si è sviluppato poi dentro le “religioni transnaturali” (M, 397; 444). Il carattere obbligante e l’ascetismo a esso collegato – con il Durkheim delle Forme elementari della vita religiosa (1912), richiamato per questo aspetto qui, ma autorevolmente indicato anche come più generale antecedente “molto simile” nel procedere dal totemismo come una sorta di “istituzione originaria”, altrettanto ancorata nel “rito compiuto da una comunità”16 – non possono basarsi esclusivamente sul piano della coscienza, del “comprendere” e della “riattuazione psicologica”, abbisognano anzi di accedere alla “riattuazione reale” e, quindi, al piano filosofico che si è accennato, attraverso una categoria ontologica come l’“opportunità oggettiva secondaria” o “finalità oggettiva secondaria” (sekundäre objektive Zweckmäßigkeit) (M, 398; 445). A far sì che il totemismo non si sia limitato a rivestire una “importanza provvisoria”, destinata a risolversi in breve in “altre forme di comportamento”, ma sia diventato “l’istituzione guida [führende Institution] per molti millenni” fu proprio un’oggettiva e espansiva opportunità immanente a questo comportamento, la quale – subordinatamente – si rivelò solo allorché esso fu realmente attuato. Poiché i singoli membri del gruppo si identificano con uno stesso animale-totem, nel che non soltanto scoprono la loro autocoscienza, bensì rinvengono un punto di convergenza comune nell’autocoscienza di tutti, e poiché la comune obbligazione [Verpflichtung] di non uccidere e di non magiare tale animale rappresenta la forma in cui questa coscienza si può tradurre in un’obbligazione, cioè in un agire ascetico, tale divieto di uccidere impedisce al tempo stesso l’omicidio e il divoramento dell’assassinato all’interno del proprio gruppo, essendosi ogni singolo appunto identificato con il totem rispetto a ogni altro singolo (M, 398; 445-446).

L’unità del gruppo, resa rappresentabile, si produce quindi di fatto “in forza delle consequenziali obbligazioni insite in questo comportamento”: «Perciò il totemismo va concepito come quella forma culturale, diffusa in tutto il 16

K.-S. Rehberg, Zurück zur Kultur?, cit., p. 290.

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mondo, nella quale l’umanità superò l’antropofagia, il che ne spiega la stabilità e l’enorme rilievo» (M, 398; 446). Dal totemismo si producono inoltre riti e miti, che da esso scaturiscono per stabilizzazione retroattiva sull’agire quotidiano e per trapasso progressivo dalla raffigurazione diretta alla narrazione tramandata. Allorché, nelle sue “prime epoche”, la “parallela identificazione con l’animale-totem” doveva essere raffigurata, ovvero “incorporata [verkörpert] e fissata in un comportamento reciproco”, a poco a poco tale comportamento venne “ritualizzandosi”, subì una stabilizzazione retroattiva in forza di una possente opportunità oggettiva per nulla perseguita in origine, anzi inattesa. Le idee direttive non possono vigere soltanto nella testa; debbono essere riflesse da istituzioni reali ed essere compenetrate nei fondamenti del comportamento quotidiano [in die Grundlagen des Alltagsverhaltens] (M, 399-400; 447).

Qualora, poi, «i contenuti della coscienza originariamente totemistici si trasformano in narrazioni di avvenimenti e di azioni, e assumono la forma di eventi passati via via che cominciano a surrogare il reale, attivo comportamento di gruppo svolgentesi nel tempo», sorge il racconto immemoriale dei “miti” di “spiriti totemici”, sulle loro “peregrinazioni” e “metamorfosi” innumerevoli, molto diffuso per esempio in Australia. L’umanità serba in ciò il ricordo [Erinnerung] di una scoperta fondamentale: poiché fu proprio questo metamorfosarsi in altro, questo incorporarsi in un altro essere a consentire il primo poderoso passo innanzi dell’autocoscienza (M, 400; 447).

Questo “comportamento ideativo non strumentale”, “non mosso da scopi consapevoli”, che – con il Malinowski di Crime and custom in savage studies (1940)17 – si estrinseca in atti che “l’uomo compie contro determinate sue pulsioni” e si può ricapitolare nelle “categorie intrinseche” di incorporazione o personificazione, autocoscienza indiretta del singolo, indiretta autocoscienza del gruppo, obbligazione dall’esterno, ascesi, e dell’“altro Io, l’originario creatore (in questo caso, l’animale-totem come capostipite)” (M, 402; 449). Nel caso del totemismo, quindi, le culture che adottarono tali procedure nella cura di animali-totem e di piante-totem contrassero disinteressate [zweckfrei: prive di scopo] obbligazioni verso il vivente, ‘colsero’ opportunità [anche finalità: Zweckmäßigkeiten] che permisero di istituzionalizzare la nutrizione a struttura permanente, di renderla stabilmente un 17

Questo passaggio si può leggere anche come acquisizione di un ulteriore grado di ‘indirettezza’, di Indirektheit, e come “filtraggio culturale dei bisogni” che li interpreta e li definisce, oltre che come esplicazione generale del quadro normativo in cui sono così inseriti: cfr. K.-S. Rehberg, Zurück zur Kultur?, cit., p. 288.

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processo metaindividuale. La costante copertura del fabbisogno finì con il banalizzare in un certo qual modo questo impulso fondamentale e ne esonerò in generale l’uomo, consentendogli attività di grado superiore (M, 402-403; 449-451).

Più in generale, le istituzioni fissano così per “cristallizzazione” “opportunità oggettive ed espansive”, una volta enucleate da “un comportamento ideativo”, di modo che “la loro idée directrice, la norma che le governa è sempre quell’idea sulla quale la coscienza ideativa si era orientata dapprima”, come accade agli ordinamenti matrimoniali esogamici dei “primitivi”, che continuano a regolarsi sull’idea di totem, anche quando questa si è dissolta in una «compresenza di denominazioni ormai quasi soltanto classificatorie e di racconti mitologici indiscriminati, il cui originario contenuto normativo è degenerato nell’obbligo della loro sempiterna reiterazione letterale» (M, 403; 451). Nei termini di questa elaborazione è possibile, in conclusione, ritradurre nelle categorie ontologiche illustrate i motivi che impediscono di istituire – come avevano invece fatto Bergson, Scheler, Beth e lo stesso Gehlen nelle prime edizioni della propria opera – una relazione diretta tra le rappresentazioni religiose e le pulsioni umane: «un’opportunità oggettiva primaria non può riprodurre [abbilden] adeguatamente quella oggettiva secondaria» (M, 404; 452). Se ciò serve a illuminare l’aspetto genetico interno della costruzione gehleniana, diventa chiaro anche, in base alla esposizione che se ne è tentata, come sempre più essa sia stata spinta dal proprio interno procedere a orientarsi verso una specificazione delle istanze terze così individuate nel senso dell’analisi delle strutture elementari della società18 dalla quale abbiamo preso le mosse, e del riorientamento disciplinare che un simile mutamento di prospettiva richiede.

18

E non nel senso dell’analisi giuridica, della sociologia del diritto, e di una teoria delle istituzioni a essa orientata, come accadde invece a H. Schelsky, che su questo consumò con Gehlen nel decennio successivo una rottura pressoché irreparabile: “La sua [di Schelsky] teoria delle istituzioni doveva essere meno ontologica e rigida di quella di Gehlen, il quale – secondo Schelsky – aveva capito la flessibile stabilità del diritto altrettanto poco che l’istituzionalizzabilità dei ‘bisogni di riflessione duratura nella coscienza moderna’, poiché aveva visto in ciò soltanto delle tendenze alla perdita di validità delle istituzioni. Nel 1969, dopo l’uscita di Morale e ipermorale, Schelsky rese più acuta su questo punto la critica al proprio maestro, e su questo tema si ruppe la loro amicizia di quasi una vita”, K.-S. Rehberg, Hans Freyer (1887-1960); Arnold Gehlen (1904-1976); Helmut Schelsky (19121984), in D. Kaesler, a cura di, Klassiker der Soziologie, vol. 2, München, Beck, 20023, pp. 72-104 (la bibliografia, alle pp. 95-99), qui pp. 90-91 (e aggiunge in nota: “In un colloquio del 9 marzo 1983, Schelsky mi disse che Gehlen non aveva capito nulla del diritto e aveva perciò sviluppato una teoria delle istituzioni troppo rigida”, ivi, p. 103).

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4. Antropologia del totemismo e raffigurazione imitativa Nel contributo sulle “categorie antropologico-culturali non consapevoli” (1949) pubblicato a ridosso della profonda rielaborazione de L’uomo qui ripercorsa in compendio, Gehlen esordisce con una presa di distanza dall’interpretazione della disciplina fornita da Erich Rothacker, che, alla luce della critica rivolta alla tradizione diltheyana e al suo approdo relativistico, acquista una maggiore pregnanza e che sembra assumersi l’onere di annunciare una nuova direzione di lavoro nella sua interezza. Le ricerche seguenti si possono intendere come un contributo alla fondazione di una ‘Kulturanthropologie’, sebbene questa denominazione, in origine coniata da Rothacker, abbia rivestito realizzazioni effettive in tutt’altra direzione; oppure si possono considerare come un proseguimento dell’analisi delle categorie dell’esistenza umana, avviata nel mio libro L’uomo, che questa volta si occupa più da vicino, di quanto non accadesse lì, del lato sociale e culturale. Con ciò sarebbe altresì inteso che il comportamento delle società primitive meriti almeno lo stesso interesse scientifico che è stato dedicato già da molto tempo alla vita psichica dei nevrotici (NK, 321).

E in questo modo siamo di nuovo rimandati alla soglia di Urmensch und Spätkultur e alla ripresa del totemismo lì proposta19. La domanda principale alla quale il totemismo rappresenta una risposta, in forza della tesi della “nascita della linea di consanguineità dal rituale imitativo di animali [aus dem imitatorischen Tier-Ritual ]”, investe ora il modo in cui una “coscienza orientata sul mondo esterno” è in grado di “attingere la dimensione astratta e invisibile”, tipica della successione di consanguineità, situandola nello “status del singolo” (US, 201; 215). E l’esposizione del totemismo stesso avviene a partire pressoché esclusivamente da fonti di antropologia sociale e culturale – Murdock, Haeckel, Lowie, Lévi-Strauss, tra gli altri – anche se le differenze culturali per documentare le quali questa disciplina è sorta vengono piegate alla identificazione di modalità sociali comuni e all’attestazione di una presunta unanimità di testimonianze sul carattere generalmente umano del fenomeno (US, 201-205; 216-220). L’intero complesso viene ricondotto al rituale dell’impersonare e incarnare mimicamente le entità animali, ancora ribadendo – ma soltanto per accenni – le virtù della “opportunità secondaria”. 19

Qualche anno dopo, rispondendo alla obiezione di una recensione della quarta edizione de L’uomo, fortemente critica per la perdita del carattere empirico della sua filosofia (“l’antropologia filosofica è ora possibile soltanto nel quadro di una ontologia”), Gehlen richiamò comunque ancora una volta il capitolo finale del volume e la sua importanza per la comprensione dell’origine religioso-rituale delle istituzioni fondamentali, esemplata su quella del totemismo. Cfr. A. Mahn, Über die philosophische Anthropologie von Arnold Gehlen, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, VI (1951-52), pp. 71-93 (una controreplica a p. 99) e A. Gehlen, Stellungnahme zu den Hauptsachen, ivi, pp. 93-98.

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Basta prendere le mosse da questa ipotesi probabile: che un qualsiasi gruppo, caratterizzato da stretti legami di parentela, si sia appropriato di particolari culti distinguendoli in tal modo dagli altri e acquisendo consapevolezza della propria ‘identità’. In seguito deve essere emersa un’inattesa finalità secondaria (US, 203; 217).

Viene inoltre rilevata l’“analogia tangibile” tra le “società animali” e “queste aggregazioni unilineari, ossia artificialmente unilaterali, non localizzate”: tutti gli esemplari di una specie animale hanno una discendenza comune, sono per tutta la vita ciò che sono, eppure vivono dispersi territorialmente. […] Un gruppo di questo tipo, i cui componenti restano vicini o si allontanano spostandosi, che dunque non hanno sempre davanti agli occhi il comune luogo di residenza quale segno della loro coappartenenza al gruppo, ma che vogliono mantenere per tutta la vita e con la continuità della successione – ossia unilinearmente – la loro provenienza comune e che, infine, devono distinguersi nettamente da gruppi diversi, ma ‘analoghi’, presenta un’oggettiva analogia strutturale con gli esemplari di una specie animale (US, 203; 217-218).

Grazie all’identificazione con un terzo diventa possibile la comprensione della coappartenenza che è preclusa alla via astrattamente concettuale, per quanto siano sbalorditive, sempre sulla scorta dei sistemi elementari della parentela di Lévi-Strauss, la “razionalità” e la “schematicità, addirittura traducibile in termini matematici” alle quali pervengono “le società primitive” attraverso la loro capacità di “combinare i propri problemi vitali” (senza peraltro sottintendere una razionalità siffatta a tali soluzioni) (US, 201; 215). Il travestirsi da animale o l’equipararsi a un animale in forma visibile ha così garantito il senso di appartenenza a un gruppo, in cui i singoli si sono identificati con lo stesso animale tenendosi fermi l’un l’altro alla medesima raffigurazione, da ciò la continuità durevole della linea di parentela, il divieto di uccidere e di cibarsi dell’animale totemico, trasposti a loro volta ai membri del gruppo umano, con la conseguente inibizione del cannibalismo. Se tutti i singoli membri di un gruppo si identificano ciascuno con lo stesso animale, se trovano in esso un comune centro di convergenza per la loro unità di gruppo, e se il comune obbligo di non uccidere e di non mangiare quell’animale raffigura la forma in cui quella coscienza può tradursi in un dovere, in un agire ascetico, allora questo divieto di uccisione impedisce nello stesso tempo di uccidere e di mangiare un uomo ucciso appartenente allo stesso gruppo, visto che ciascuno si identifica, di fronte a ogni altro, nel morto. Ciò vuol dire: l’unità del gruppo, che in tal modo diviene rappresentabile, si produce nei fatti, in un senso del tutto fisico. Perciò il totemismo va pensato come una forma di comportamento attraverso la quale l’umanità superò il cannibalismo, e anche questo spiega il suo peso enorme (US, 205; 219-220).

Una volta circoscritta la rilevanza del totemismo sul piano dell’antropologia culturale e sociale, risalta con maggiore nettezza l’importanza del plesso

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concettuale incentrato sulla raffigurazione imitativa e sulla sua capacità antropogenetica, anche per intendere il processo attraverso il quale il totemismo si produce. A partire dalla “imitazione mimica” (mimische Nachahmung), che si dà per esempio nelle danze dei pigmei che «sono tutte mimiche… sono una specie di disegno in azione [aktive Zeichnung] (dessein en action), un’incisione o una scultura con l’aggiunta del movimento», il “comportamento raffigurativo” si sviluppa dalla forma elementare della “semplice scansione ritmica [Rhythmisierung] di un qualsiasi tipo di movimento”. In questo modo l’agire entra in rapporto con se stesso ed esprime questo rapporto in se stesso: nella semplice scansione ritmica e nell’ipersignificatività [Überprägnanz] così prodotta un agire imita se stesso ovvero si rappresenta in se stesso, e un agire che articola il rapporto che ha con se stesso nell’ipersignificatività si conquista per questa via la capacità simbolica. Non è più qualcosa di abituale, né un’azione piatta, diretta a uno scopo oggettivo, né un’espressione affettiva immediata (US, 145-146; 156).

In modo analogo, un bambino che sente pronunciare dei suoni da un adulto avverte in essi un contenuto per lui immediatamente vincolante a rispondere in modo adeguato al richiamo, dando luogo appunto a “imitazione” (Nachahmung); nello specifico, si tratta di “raffigurazione in vivo” (Darstellung in vivo), o “imitazione della forma del fare” (Nachahmung wegen der Form des Tuns), che andrà ritenuta una esclusiva prerogativa umana (US, 146; 156157). Nel bambino, inoltre, la raffigurazione mimica «può essere concepita come una forma di linguaggio più prossima al corpo [leibnähere], affettivamente più intensa e, per così dire, aderente», sempre con Mead, in essa «assumiamo nel nostro personale comportamento gli atteggiamenti di altre persone», e facciamo così esperienza di noi stessi, non in forma immediata, ma in relazione a una “parte estraniata” del nostro “io”, che diviene tale una volta che assumiamo “modi di comportamento altrui” (US, 147; 157). Nelle stesse “società primitive attuali” il comportamento raffigurativo, “ormai largamente razionalizzato come magia”, ha una sua peculiare importanza, e l’“azione ritmicamente stilizzata” ha di per sé carattere “linguistico”, ovvero è “predisposta per l’espressione sociale” e come comportamento solitario può essere soltanto frutto di una nevrosi ossessiva; già in “età preistorica”, «età in cui si deve supporre che si siano evolute le facoltà stesse della coscienza», la raffigurazione deve avere comunque avuto un “significato fondamentale”. Infatti ogni comportamento imitativo innalza il livello dell’autocoscienza. Nel momento stesso in cui colui che raffigura agisce mimicamente [der Darstellende sich mimisch verhält], egli deve – nel corso della messa in scena, per esempio, di un animale – distinguersi da se stesso. Egli vive con maggior intensità se stesso in opposizione a ciò che incarna (US, 146-147; 157).

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Sulla base di un resoconto etnografico delle danze rituali dei pigmei africani20, Gehlen sottolinea come la “ripetizione mimica” (mimische Wiederholung) di eventi o esseri impressionanti rappresenti un modo “chiaro e immediatamente comunicabile” per dare una stabile espressione, in un “comportamento univoco”, all’“obbligo indeterminato” (unbestimmte Verpflichtung) da essi suscitato. La danza mimica della luna nuova, con cui le donne pigmee imitano la luna, è un caso esemplare quanto semplice […]. In un unico procedimento si celano dunque due sequenze imitative [Nachahmungsreihen]: mentre le donne tutte insieme imitano la luna, ciascuna imita l’altra;

siamo di fronte cioè a una sorta di contagio sociale, allorché l’imitazione raffiguratrice di un evento che suscita impressione si svolge sin da principio in modo socialmente contagioso [sozial ansteckend]: il senso di un dovere e il bisogno di fare qualche cosa di tutti si traducono in un comportamento uniforme che ciascuno articola guardando all’altro (US, 147; 158).

L’unità del gruppo con il quale il sentimento di sé del singolo vibra così all’unisono ha bisogno dunque di questo passaggio mediato, che ha anche – come si è visto – un lato “fisico” nella continuità garantita dalla riproduzione nelle forme della discendenza unilineare, attraverso il totemismo e la sua istituzionalizzazione rituale (US, 147-148; 158-159). Un ulteriore elemento che complica e amplia il raggio di azione del comportamento imitativo è costituito poi dall’“immagine” (Bild). Gehlen ‘deduce’ il ruolo dell’immagine dall’incrocio di due “bisogni, tanto profondamente umani, quanto inesauribili”, che possono però “attingere a un soddisfacimento di sfondo” (Hintergrundserfüllung), a sua volta definibile come «il mantenere presso di sé la situazione di copertura del bisogno senza trovarsi nella situazione di bisogni acuti» (US, 154; 165). Un primo bisogno consiste «nel desiderio di raggiungere quella perenne indistruttibilità che è propria di un essere in sé conchiuso e di cui è dotata la materia, conservando tuttavia l’autocoscienza», un secondo bisogno consiste invece nella pretesa che i nostri propri pensieri e desideri potessero realizzarsi nella realtà senza incontrare resistenze. Questi due poli distantissimi del nostro desiderio comunicano grazie alla mediazione dell’immagine: essi si ritrovano congiunti in quella poiché essa è un mondo esterno sussistente e duraturo e, insieme, costituisce un’appropriata risposta spirituale. Questa sintesi altissima – per primo Spinoza la formulò filosoficamente nella coincidenza di extensio e cogitatio – perviene quasi al soddisfacimento di sfondo, quantomeno nella coscienza, attraverso l’immagine che è oggetto di culto [Kultbild] (US, 149-150; 160). 20

P. Trilles, L’âme des Pygmées d’Afrique, Paris, Cerf, 1945.

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A tale modalità afferisce il “rito in presenza di un’immagine” (Ritus vor einem Bilde) che, eseguito in termini mimici, «potendo essere riprodotto in ogni momento e indipendentemente dalle circostanze marginali legate a situazioni passeggere», mette in condizione di «evocare, in una specie di ‘raffigurazione allo stato puro’ [Reindarstellung], tutto il versante interiore dell’esperienza vissuta» (US, 150; 160-161). Prototipo di questo genere di immagini sono le pitture parietali delle caverne spagnole e francesi che raffigurano scene di caccia o sono legate comunque a possibili prede o animali minacciosi per il cacciatore primitivo (US, 150-154; 161-165). Il procedimento attraverso il quale si attua la relazione con tali immagini è sintetizzato da Gehlen in una “serie di momenti dall’intensità crescente”: il processo di identificazione [Sichidentifizieren], l’accogliere in sé, raffigurandolo, un potente essere animato [darstellende Hinheinnehmen eines machtvoll Belebten], costituisce il primo livello. Esso fornisce l’evidenza di un ego che è anche aliud. La sua raffigurazione attraverso l’immagine lo rende, a sua volta, eterno, un dato durevole e pietrificato del mondo esterno: lo stesso animale vivente pare innalzarsi nell’immagine tanto da acquisire un’animazione mistica. Ma l’immagine, a sua volta, trascende se stessa: l’entità è presente in essa, ma al tempo stesso, ‘è in ogni luogo’, è ‘semiinvisibile’ (US, 154; 164-165).

Viene così messa in luce anche la più generale capacità dell’“uomo arcaico” di fare «delle grandi potenze che dominano la realtà [die großen Mächte der Wirklichkeit] – la realtà inesorabile, vitale, che è alla base di ogni agire – il fondamento della vita associata»; una facoltà “essenziale per la sua religione” e “di grande interesse” sul piano antropologico (US, 154; 165). L’istituzione che ha comportato la costante presenza degli oggetti di sopravvivenza, ossia l’allevamento e la cura degli animali, è potuta sorgere, in questa prospettiva, soltanto a partire dal rito, soltanto attraverso la “configurazione culturale dei principi vitali”: se pensiamo che il ‘ruolo cultuale’, per esempio, del bovide era ancora enorme nelle civiltà superiori […]. Se è possibile dare una sola risposta a tutte queste domande essa deve essere cercata nella dimensione del culto, anche se, dopo, deve essere anche possibile derivare dalle stesse premesse come accadde che quelle ‘potenze’ non fossero solo concepite, ma costituissero anche un fondamento per le decisioni vitali, ossia costituissero le istituzioni 21 (US; 165-166).

Se, quindi, il plesso del comportamento raffigurativo e della raffigurazione imitativa comprende fenomeni come la scansione e la danza ritmiche e mimi21

Per la “stabilizzazione attraverso il rito” e, più ampiamente, per una ricostruzione della teoria delle istituzioni di Gehlen, cfr. K.-S. Rehberg, Eine Grundlagentheorie der Institutionen: Arnold Gehlen, in G. Göhler, a cura di, Die Rationalität politischer Institutionen. Interdisziplinäre Perspektiven, Baden Baden, Nomos, 1990, pp. 115-154.

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che, il comportamento responsivo, la raffigurazione mimica “in vivo” e “in materia”, l’imitazione reciproca tra i membri di un gruppo e l’imitazione di qualcosa di esterno al gruppo stesso, il contagio sociale, il carattere linguistico-espressivo dell’azione ritmica stilizzata, la raffigurazione in immagine e il rito davanti all’immagine di culto, la configurazione culturale dei principi vitali, l’identificazione e la differenziazione di sé e altro, la metamorfosi che ne consegue e la rende possibile, sembra improbabile che tale facoltà si limiti a restare un momento all’interno di un processo teleologico finalizzato all’autoconservazione, per quanto ricostruito su base empirica e in termini di finalità oggettiva secondaria. E, sebbene non si possa certo ascrivere a Gehlen qualsiasi apertura che conferisca ai processi imitativo-mimetici una sorta di adorniano “potenziale eccedente della libertà estetica” sul presente22, sembra altresì che il loro ruolo non possa limitarsi a una ricostruzione filogenetica dell’impulso arcaico ad affermarsi nella lotta con un ambiente ostile, ma continui ad agire a sostegno delle “finzioni istituzionali” e delle formazioni simboliche a esse collegate, il cui modello rimane, come si è cercato di documentare, la “nature artificielle” del totemismo, a partire dalla consapevolezza che “il momento dell’artificio e del fittizio è una componente costitutiva essenziale dell’umanità” (US, 212; 227) e che l’uomo è das darstellende Wesen, “l’essere che raffigura” (US, 206; 220). 5. Agire raffigurativo e teoria delle istituzioni Quando, interrogandosi di recente sul rapporto tra “istituzioni e simbolizzazione”, Jürgen Habermas è ritornato sulle pagine gehleniane riprese qui da ultimo, ha osservato che: come già aveva fatto Cassirer trent’anni prima, anche Gehlen spiega la raffigurazione simbolica [symbolische Darstellung] e l’imitazione rituale [rituelle Nachahmung] di scene di caccia nei termini di una risposta stabilizzante all’impetuoso contrasto scatenato da sentimenti ambivalenti, impressioni ed esperienze ri22

Rimane lapidaria la conclusione della conversazione radiofonica tra A. Gehlen e Th. W. Adorno (1965): “Gehlen: […]. Sebbene abbia la sensazione che noi si sia d’accordo sulle premesse di fondo, ho l’impressione che sia pericoloso rendere insoddisfatto, secondo la sua espressione, l’uomo di quel poco che gli è rimasto nelle mani in questa situazione del tutto catastrofica. Adorno: Sì, allora vorrei veramente citare riguardo a tutto ciò la frase di Grabbe: ‘Poiché nulla come la sola disperazione ci può salvare’”, Th. W. Adorno, A. Gehlen, Ist die Soziologie eine Wissenschaft vom Menschen? Ein Streitsgespräch, in F. Grenz, Adornos Philosophie in Grundbegriffen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1974, pp. 225251, qui p. 251, trad. it. La sociologia è una scienza dell’uomo? Una disputa, in U. Fadini, a cura di, Adorno, Canetti, Gehlen – Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, Milano, Mimesis, 1996, pp. 85-107, qui p. 107. Sulla possibile relazione tra i due, cfr., intanto, Ch. Thies, Die Krise des Individuums. Zur Kritik der Moderne bei Adorno und Gehlen, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1997.

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schiose. L’imitazione simbolica [symbolische Nachahmung] delle impressioni nell’immagine [im Bilde], così come la ripetizione rituale delle esperienze nel proprio movimento ritmico, ‘caricano’ l’oggetto di culto di una autorità indipendente che è fascinosa e terrorizzante nello stesso tempo23.

Dal momento che, “ogni stabilizzazione normativa del comportamento” attinge per Gehlen alla “fonte dell’imitazione simbolica”, le stesse “grandi istituzioni” si costituiscono per cristallizzazione intorno alle “idee guida”, nelle quali le “primitive immagini di culto” si sono sublimate. Lungi dall’avere un ruolo cognitivo, queste idées directrices, mobilitano affetti e atteggiamenti per il fatto di trovare una espressione rappresentativa. Esse restano efficaci soltanto quando si sottraggono alla tematizzazione discorsiva ed effettivamente deperiscono insieme alle istituzioni che le incarnano24.

Come aveva sostenuto lo stesso Gehlen nel più tardo intervento su Uomo e istituzioni (1960), «i sistemi di idee di ogni genere devono la loro stabilità, il loro grado di validità capace di sopravvivere al tempo, addirittura la loro possibilità di sopravvivenza, alle istituzioni in cui sono incorporati» (MuI, 76; 104). Il disciplinamento e la normazione del nostro comportamento vengono attuati nel rito – così ritraduce Habermas la forma di obbligazione che abbiamo visto generarsi nel vincolo totemico – “attraverso la violenza simbolica di una controparte resa tabù”25. A differenza di Cassirer, «che collocava la tensione tra espressione e concetto dentro lo stesso medium simbolico», è assente nel pensiero di Gehlen – in forza dell’opposizione e della subordinazione tra “raffigurazione” (Darstellung) e “concetto” (Begriff) – la possibilità di “razionalizzare il naturalistico nucleo rituale-raffigurativo delle istituzioni”. Agli occhi di Gehlen, ‘la grande superiorità della raffigurazione rispetto al concetto’ consiste nel fatto che l’azione stabilizza l’essere imperativistico delle cose privilegiate, laddove i concetti articolano soltanto opinioni fuggevoli e continuamente modificabili26.

Habermas prosegue sottoponendo le conclusioni gehleniane a una “critica immanente”. Se, infatti, in modo plausibile rispetto alle proprie premesse, 23

24 25 26

J. Habermas, Symbolischer Ausdruck und rituelles Verhalten. Ein Rückblick auf Ernst Cassirer und Arnold Gehlen (2001), in Id., Zeit der Übergänge. Kleine Politische Schriften IX, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2001, pp. 63-82, qui p. 81, trad. it. e cura di L. Ceppa, Espressione simbolica e comportamento rituale. Ripensando a Ernst Cassirer e Arnold Gehlen, in Id., Tempo di passaggi, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 37-54, qui p. 53. Ibidem. Ibidem. Ivi, pp. 81-82, trad. it. pp. 53-54.

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Gehlen ha introdotto il “tipo” dell’“agire raffigurativo”, allo scopo di mettere in chiaro l’“origine sacrale dell’autorità obbligante delle norme d’azione”, non è poi in grado, sulla base di questa genesi dell’obbligazione, di spiegare perché “ogni validità normativa debba restare fissata a tale origine”. Il limite di Gehlen è costituito non dalla sua teoria pulsionale, ossia dalla ipotesi di una sovrabbondanza di bisogni sganciati dall’azione, bensì dalle basi insufficienti della sua teoria dell’azione. Gehlen è incapace di cogliere quel processo della razionalizzazione culturale che si realizza attraverso l’agire comunicativo. La fluidificazione comunicativa dei contenuti normativi di miti, riti, simboli e pratiche significa una trasformazione [Umformung], non certo una eliminazione dei fondamenti di validità dell’‘agire senza scopo epperò obbligatorio’27.

Tuttavia, al di là dell’opposizione tra agire comunicativo e agire raffigurativo, con relative metafisiche immanenti, e proprio a partire dalla considerazione su cui si conclude l’intervento habermasiano – «Forme simbolicoespressive legate alla raffigurazione e alla ritualità sono presenti in tutte le società moderne e non solo in forma residuale»28 – sembra possibile rivendicare una portata euristica delle tesi gehleniane, se non altro in considerazione dell’efficacia controfattuale del richiamo alle finzioni istituzionali dallo stesso Habermas rilevata in precedenza, nel porsi il problema del carattere non residuale rispetto alla modernità dei processi di raffigurazione imitativa e di ritualizzazione nel sorgere e nel mantenersi delle istituzioni. Per affrontare il quale Arnold Gehlen ha compiuto la profonda revisione della propria teoria che si è cercato di documentare qui intorno alla nozione di totemismo. Una cesura interna la cui tonalità sachlich, legata alle cose stesse, alla presa d’atto di una catastrofe storica, è stata ben riassunta da David J. Levy, allorché ha puntualizzato: È il fallimento pratico del nazionalsocialismo […] che ha condotto il più tardo Gehlen, sulle stesse basi essenzialmente pragmatiche, a disconoscere e condannare, non semplicemente l’ideologia alla quale aveva dato un tempo il proprio assenso, di nuovo essenzialmente in termini pratici, ma qualsiasi cosa avesse per lui il sapore della mitologizzazione politica29.

Costituirebbe perciò una perdita secca di possibilità conoscitive appiattire, come pure è stato fatto30, sul basso continuo di un’impostazione “securita27 28 29 30

Ivi, p. 82, trad. it. p. 54. Ibidem. D.J. Levy, Gehlen’s Anthropology and the Foundations of the Hermeneutic Understanding, in H. Klages, H. Quaritsch, a cura di, Zur geisteswissenschaftliche Bedeutung Arnold Gehlens, Berlin, Duncker & Humblot, 1994, pp. 405-438, qui p. 424. Cfr. H. Kuhn, Der lange Marsch in den Faschismus. Zur Theorie der Institutionen in der bürgerlichen Gesellschaft, Berlin, Wagenbach, 1974, in particolare la seconda parte: Die Übernahme der faschistischen Theorie durch die Institutionenlehre (A. Gehlen), pp. 29-

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ria”,31 senz’altro presente, l’intera sequenza Zuchtbilder-FührungssystemeInstitutionen, che risulterebbe così priva di qualsiasi discontinuità interna. Come abbiamo visto, invece, è possibile individuare nel problema dell’esito catastrofico della diretta connessione tra pulsioni e sistemi direttivi, nella “posizione vacante” (K.-S. Rehberg) che si apre una volta scongiurato il “cortocircuito” tra i due livelli, il luogo teorico della Institutionenlehre, le virtù della diversione nel terzo e nel trasporsi in altro e della estraniazione in un oggetto che funge da elemento di riferimento comune tra gli esseri umani, evitando il collasso dell’imitazione diretta, e prima ancora quindi e in germe, il luogo teorico del totemismo, nel suo divenire attraverso gli anni cruciali del ripensamento gehleniano, come tale scarsamente considerato dalla letteratura non solo in lingua italiana, che spesso si limita a menzionarne la collocazione32. Mentre l’intero periodo meriterebbe poi di essere messo alla prova di ul-

31

32

60; con l’ulteriore appiattimento di Habermas als Gehlenianer, ivi, pp. 72-92. In direzione analoga, cfr. G. Althaus, Zucht-Bilder, in U. Jaeggi, a cura di, Geist und Katastrophe. Studien zur Soziologie im Nationalsozialismus, Berlin, Waw, 1983, pp. 60-78. Impostata per tempo su una ricognizione delle trasformazioni interne all’opera gehleniana, la “critica” di C. Hagemann-White, Legitimation als Anthropologie. Eine Kritik der Philosophie Arnold Gehlens, Stuttgart, Kohlhammer, 1973. Per una messa a fuoco del peculiare “conservatorismo” gehleniano, cfr. B. Accarino, I teologi del male assoluto, in “Il manifesto”, 30.09.2004, p. 12 (tra l’altro, è di Gehlen l’idea che “l’arginamento della contingenza e la riduzione della complessità siano imperativi dettati all’uomo dalla sua disordinata ricchezza e dalla sua costituzione lussuosa, e che vadano soddisfatti con la configurazione di istituzioni stabili e securitarie”). In relazione al totemismo e alla teoria delle istituzioni in Gehlen, cfr.: F. Jonas, Die Institutionenlehre Arnold Gehlens, Tübingen, Mohr, 1966, spec. pp. 29-42, 43-68, 81-89; J. Weiß, Weltverlust und Subjektivität. Zur Kritik der Institutionenlehre Arnold Gehlens, Freiburg, Rombach, 1971, spec. la parte terza, e le pp. 138-157; P. Jansen, Arnold Gehlen, cit., pp. 6470; L. Samson, Naturteleologie und Freiheit bei Arnold Gehlen. Systematisch-historische Untersuchungen, Freiburg, Alber, 1976, pp. 142-148; D. Böhler, Arnold Gehlen: Handlung und Institution, in J. Speck, a cura di, Grundprobleme der großen Philosophen. Philosophie der Gegenwart II, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1991, pp. 230-284, spec. 266-278; J. Stagl, Die Institutionalisierung der Ethnologie, in H. Klages, H. Quaritsch, a cura di, Zur geisteswissenschaftliche Bedeutung, cit., pp. 845-850; D. Claessens, Instinkt, Psyche, Geltung, Köln-Opladen, Westdeutscher Verlag, 1968, pp. 143-146, 94-99 (spunti anche in Id., Arnold Gehlen und die Soziologie, in H. Klages, H. Quaritsch, cit., pp. 629-634, e la discussione, ivi, 635-638); K.O. Apel, La “filosofia delle istituzioni” di Arnold Gehlen e la metaistituzione del linguaggio (1973) e Id., La morale delle istituzioni come alternativa alla morale della ragione? Sulla dottrina morale di Arnold Gehlen, in A. Gualandi, a cura di, L’uomo un progetto incompiuto, vol. 2, Antropologia filosofica e contemporaneità, “Discipline filosofiche”, XIII (2003) n. 1, pp. 93-114, 115-122; U. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Milano, Angeli, 1988, spec. pp. 106-117 (da ricordare almeno anche Id., Antropologia “negativa” e teoria delle istituzioni in A. Gehlen, in “Cultura e scuola”, n. 82, 1982, pp. 119-128 e Id., La natura dell’istituzione e la sua crisi. Note su Arnold Gehlen, in “Intersezioni”, n. 2, 1982, pp. 371-391); F. G. Di Paola, La teoria sociale di Arnold Gehlen, Milano, Angeli, 1984, spec. pp. 81-87; M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, Roma, Studium, 1990, spec. pp. 178-181; M. Lo Russo, I corpi e le istituzioni. Studio su Gehlen, Bari, Palomar,

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teriori approfondimenti, a partire da uno studio ravvicinato delle fonti e delle documentazioni archivistiche disponibili sull’attività di Gehlen in quella fase. Uno spostamento di interesse così configurato che diede luogo, oltre che all’elaborazione di un nuovo oggetto di ricerca, a quello slittamento disciplinare dalla filosofia alle scienze sociali, che è stato poi codificato come “sociologizzazione del sapere sull’uomo”33 e che comporta un’apertura a temi e fonti provenienti dall’antropologia sociale e culturale, e una torsione empiristica all’approccio di analisi. Anche se, come è stato osservato in un recente bilancio di insieme dell’antropologia filosofica, «l’‘arcaico’ di Gehlen è tutt’altro che un pezzo di bravura teorico, esso è più vicino alla costruzione e alla speculazione che al preteso ‘procedimento empirico-analitico’»34. E, si può aggiungere, nell’uso del materiale etnografico, di storia delle religioni, di studio della preistoria e così via, spesso procede secondo una analoga modalità speculativa, di sapore schopenahueriano, accumulando attestati ‘a conferma’ di ipotesi e intuizioni della teoria sociale. Al punto che l’individuazione del totemismo come una sorta di ‘universale empirico’ la cui diffusione ‘dimostra’ la fase germinale delle istituzioni non sembra avere registrato la crescente messa in discussione della “illusione totemica”, fino alla clamorosa proposta della sua completa dissoluzione (o, almeno, della sua riformulazione in principio di classificazione che esprime la relazione tra gruppi umani e specie animali o altre entità naturali), compiuta da quello stesso Claude LéviStrauss (1962) al quale Gehlen ha altrimenti riservato, e fino alla fine degli anni Cinquanta, un’attenzione costante: non si ha qui a che fare con un’istituzione autonoma definibile mediante proprietà distintive, e tipica di certe regioni del mondo e di certe forme di civiltà, ma con un modus operandi che è delineabile anche dietro strutture sociali tradizionalmente definite in diametrale opposizione al totemismo35.

1996, spec. pp. 78-100; J. Poulain, De l’homme. Éléments d’anthropobiologie philosophique du langage, Paris, Cerf, 2001, spec. pp. 94-113. 33 Cfr. K.-S. Rehberg, Philosophische Anthropologie und die “Soziologisierung des Wissens vom Menschen”. Einige Zusammenhänge zwischen einer philosophischen Denktradition und der Soziologie in Deutschland, in M. R. Lepsius (a cura di), Soziologie in Deutschland und Österreich 1918-1945, in “Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie”, Sonderheft 23, 1981, pp. 160-198, Id., L’antropologia filosofica dal primo dopoguerra agli anni Quaranta e in prospettiva odierna (trad. it. di M. Marino), in Antropologia filosofica e pensiero tedesco contemporaneo, cit., pp. 267-288 34 G. Arlt, Arnold Gehlen – Pragmatismus und empirisches Methodenideal, in Id., Philosophische Anthropologie, Stuttgart-Weimar, Metzler, 2001, pp. 132-160, qui p. 155. 35 C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962, pp. 171-172, trad. it. di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, Milano, il Saggiatore, 1964, p. 144; cfr. anche Id., Le totémisme aujourd’hui, Paris, Puf, 1962, trad. it. di D. Montaldi, Il totemismo oggi, Milano, Feltrinelli, 1964. Critico degli esiti lévi-straussiani, a favore di Gehlen, J. Poulain, De l’homme, cit., p. 104.

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Il che significa certo circoscrivere la portata delle affermazioni e del progetto di ricerca gehleniano, senza per questo rinunciare a interrogarsi su quelle istituzioni del senso che esso ha inscritto nella nostra agenda conoscitiva, al di là della prospettiva di decadenza in cui la sua Kulturkritik le ha ingabbiate e a maggiore ragione nell’epoca che vede riaffermarsi nel mondo con forza accresciuta i fenomeni a esse collegati. Nota bibliografica Le opere di Arnold Gehlen sono citate nel testo che precede secondo la seguente tavola delle abbreviazioni (nel caso esista una traduzione italiana – talvolta modificata qui – il numero o i numeri di pagina corrispondenti vengono indicati, accanto a quelli dell’originale tedesco, dopo un punto e virgola): M = Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden, Aula, 198312, trad. it. di C. Mainoldi, introduzione di K.-S. Rehberg, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983. M1 = Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, edizione critica con inclusione dell’intero testo della prima edizione del 1940, Gesamtausgabe, vol. 3, tomi 1-2, a cura di K.-S. Rehberg, con la collaborazione di Z. Bayraktar, A. Bilo, H. Klinkenberg, H. Müller, J. Mansky, D. Neugebauer, Frankfurt am Main, Klostermann, 1993. MH = Moral und Hypermoral. Eine pluralistische Ethik (1969), Wiesbaden, Aula, 19865, trad. it. di A. Bernini e U. Fadini, introduzione e cura di U. Fadini, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, Verona, Ombre corte, 2001. MuI = Mensch und Institutionen (1960), in Id., Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentdeckung des Menschen, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1961, pp. 6977, trad. it. di S. Cremaschi, Uomo e istituzioni, in Id., Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, presentazione di G. Poggi, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 95-106. NK = Nichtbewusste kulturanthropologische Kategorien, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 1949, vol. 4, n. 3, pp. 321-346. SG = Die Sozialstrukturen primitiver Gesellschaften, in Id., H. Schelsky, a cura di, Soziologie. Ein Lehr- und Handbuch zur modernen Gesellschaftskunde, Düsseldorf-Köln, Diederichs, 1955, pp. 11-43. US = Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen (1956), Wiesbaden, Aula, 19855, trad. it. di E. Tetamo, Le origini dell’uomo e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici, con una prefazione di R. Màdera, Milano, il Saggiatore, 1994.

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Michele Farisco

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ANTROPOLOGIA NEGATIVA E IDENTITÀ RELAZIONALE: L’UOMO PRECARIO DI GEHLEN

1. Compensazione All’interno del composito e variegato panorama filosofico novecentesco un ruolo di particolare importanza, benché non sempre adeguatamente riconosciuto, è occupato dalla “Antropologia filosofica tedesca” che a partire dagli Anni ‘20 del secolo si estende per gran parte di esso in un rapporto di collaborazione o di conflitto con le altre maggiori correnti di pensiero, in particolare rispetto alla Fenomenologia, allo Storicismo, al Pragmatismo e all’Esistenzialismo. La peculiarità dell’Antropologia filosofica tedesca, minimo comun denominatore dei suoi tre principali esponenti tradizionalmente individuati in Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen, è costituita dall’intento di affermare l’assoluta centralità filosofica dell’uomo ‹‹considerato non già semplicemente come natura, come vita, come volontà, come spirito, ecc., ma precisamente come uomo››, nel tentativo ‹‹di riportare il complesso delle condizioni o degli elementi che lo costituiscono al suo modo di esistenza specifico››1. Il fondamento di tale “antropocentrismo filosofico” è individuato nella natura stessa dell’essere umano: […] c’è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è precisamente necessaria un’“immagine”, una formula interpretativa. Circa se stesso significa: circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini; infatti, anche il modo di trattare gli uomini dipende da come li si considera e da come si considera se stessi. Questo però vuol dire che l’uomo deve interpretare la sua natura e perciò assumere un atteggiamento attivo e tale da prendere posizione rispetto a se stesso e rispetto agli altri – il che non è tanto facile a dirsi2.

Come dire: l’antropologia filosofica, ricerca di un’immagine dell’uomo, è una necessità teoretica, morale e politica a un tempo. 1 2

N. Abbagnano, Antropologia, in Idem, Dizionario di filosofia, Torino, Paravia, 20013, pp. 65-66. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Athenaion, Wiesbaden, 1978; trad. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 35.

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Questa concezione della riflessione antropologica nonché la sottolineatura del suo imprescindibile valore sia teoretico che pratico sono di fatto condivise da tutti gli esponenti dell’Antropologia filosofica tedesca. All’interno di essa, tuttavia, si distingue per l’acume e la fecondità della propria analisi il pensiero di Arnold Gehlen, probabilmente l’esempio più significativo della stretta collaborazione scienza – filosofia perseguita all’interno dell’Antropologia. In particolare i presupposti della prospettiva gehleniana sono riducibili a due assunti fondamentali: 1) morfologicamente parlando l’uomo è un “caso d’eccezione”, un “essere carente”, Mängelwesen, apparentemente quasi un errore della natura; 2) storicamente parlando l’uomo vive nell’ambito esclusivo della “sfera della cultura”, in una natura disintossicata e resa idonea alla propria sopravvivenza. In merito, a partire dai contributi di Herder e Nietzsche e in accordo con talune conquiste della scienza a lui contemporanea, Gehlen evidenzia che l’uomo «è ‘senza mezzi da un punto di vista organico’, senza armi naturali, senza organi di attacco o di difesa o di fuga, con sensi privi di una efficacia particolarmente significativa»3. Tale mancanza di specializzazione organica e istintuale, in virtù della quale l’uomo è naturalmente inadatto alla sopravvivenza, rende la sua vita una costante e imprescindibile opera di “compensazione”4, una inesausta dinamica dialettica di conversione del “negativo”5 originario e costitutivo in “positivo”. In virtù di tale dinamica compensatoria possiamo vedere, ovunque spingiamo lo sguardo, che l’uomo si è diffuso ovunque sulla terra e, nonostante la sua mancanza di mezzi fisici, che assoggetta progressivamente la natura […] Cioè egli vive come “essere provvisto di cultura”, ossia dei risultati della sua attività previsionale, pianificata e collettiva che gli permette di preparare tecniche e mezzi della sua esistenza attraverso una trasformazione attiva e previsionale di ogni genere di costellazione di condizioni naturali6.

Non esistono dunque uomini “allo stato di natura”, ossia privi di “cultura” nel senso sopra chiarito: l’essere manchevole diviene Prometeo, il quale non semplicemente vive “ma dirige la propria vita”7. 3 4 5

6 7

Idem, Philosophische Antropologie und Handlungslehre, Klostermann, Frankfurt am Main, 1983; trad. it. Una immagine dell’uomo (1941), in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Napoli, Guida editori, 1990, p. 89. Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002, pp. 93-133. In merito Gehlen afferma che l’uomo ‹‹è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo››, in A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 60. Corsivo dell’autore. A. Gehlen, Una immagine dell’uomo, cit., p. 87. Idem, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 200.

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Questa dinamica di “compensazione”, vero e proprio cuore del pensiero di Gehlen, è ampiamente nota non solo nella ristretta cerchia degli specialisti. Meno approfondita è invece la dimensione comunitaria e intersoggettiva che l’autore le attribuisce giungendo ad affermare, a partire da essa, il carattere relazionale della stessa identificazione del soggetto individuale. 2. Sopravvivenza intersoggettiva L’esistenza dell’uomo è resa possibile in virtù della stabilizzazione soggettiva e intersoggettiva attuata nella convivenza sociale dalle istituzioni. In merito appaiono appropriate le parole di Schwidetzki: ogni cultura estrae, dalla molteplicità dei possibili modi di comportamento umano, determinate varianti e le eleva a modelli di comportamento sanzionato socialmente, che sono vincolanti per tutti i membri del gruppo. Tali modelli culturali di comportamento o istituzioni significano per l’individuo un esonero da troppe decisioni, un indicatore stradale attraverso l’eccesso di impressioni e stimoli, dai quali l’uomo aperto al mondo viene sommerso8.

Ciò vuol dire che le istituzioni, le quali assumono un proprio peso oggettivo, hanno un valore stabilizzante sia per il singolo sia per la collettività. Si può addirittura affermare che, come i gruppi e le simbiosi animali sono “tenuti insieme” da evocatori e da movimenti istintivi, così quelli umani “consistono” in virtù di istituzioni e delle quasi automatiche abitudini di pensiero, di sentimento, di valutazione e di azione che solo nelle istituzioni si “fissano” e solo se inquadrate istituzionalmente divengono unilaterali, abituali e perciò stabili9.

L’istituzione viene in tal modo inserita in una sorta di “automatismo sociale” tecnicamente designato quale “soddisfacimento di sfondo” in virtù del quale l’uomo è esonerato dalla ricerca di sempre nuove garanzie esterne per la realizzazione dei propri bisogni in quanto questa è stabilmente garantita dall’azione istituzionale che sola può mantenere l’individuo in una costante situazione di “copertura del bisogno”10. 8 9

10

I. Schwidetzki, Antropologia culturale, in AA. VV., Antropologia, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Milano, 1966, XI, p. 49. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 107. Cfr. Idem, Urmensch und Spätkultur, Wiesbaden, Athenaion, 1977; trad. it. Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 13-17. A ribadire l’enorme importanza attribuita alle istituzioni l’autore definisce la posizione espressa in quest’opera, la quale raccoglie le sue tesi e i suoi risultati filosofici fondamentali, una “filosofia delle istituzioni”. Cfr. in merito K.O. Apel, La “filosofia delle istituzioni” di Arnold Gehlen e la metaistituzione del linguaggio, in A. Gualandi (cur.), L’uomo, un progetto incompiuto. Significato e attualità dell’antropologia filosofica, Macerata, Quodlibet, 2002, pp. 93-114. Cfr. Idem, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., pp. 57-61.

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Relativamente al soggetto umano, dunque, la capacità, decisiva per un essere che agisce, di prendere posizione verso l’esterno e verso l’interno agendo autonomamente e esercitando il relativo controllo ha come condizione del suo sviluppo l’influsso e la permanente presenza della società11.

Dinanzi al pericolo di un’autonomia della vita pulsionale solo il “contratto” e il “contatto” sociali possono perciò porre dei rimedi, imponendole una forma e una regolamentazione: neppure la coscienza singola può riscattare l’originaria plasticità umana attribuendole una forma adeguata alla convivenza sociale. Le istituzioni si configurano, perciò, come il luogo di soddisfacimento elementare originario del bisogno primario di socializzazione. In rapporto all’esistenza umana, quindi, lo stesso istinto, anche quello alla relazione, risulta essere solo un punto di partenza di per sé non sufficiente se non viene stabilizzato nella istituzione: «Chi trovi esagerata la forte sottolineatura del significato delle istituzioni per la natura e la cultura umane rifletta sul fatto che il vincolo sociale in quanto tale è sorretto dall’istinto solo in ambiti parziali molto circoscritti»12. In particolare questo bisogno di socializzare […] è del tutto neutrale quanto alle forme comportamentali. […] In altre parole: la reciprocità del comportamento è, formalmente, una categoria antropologica assolutamente fondamentale, ma può essere colmata dai più diversi contenuti, dalla cui stabilizzazione esterna dipende il soddisfacimento durevole di questo bisogno»13.

Questa opera di “consolidamento” esterno viene compiuta appunto dalle istituzioni che in tal modo “riempiono” l’informe e pur costitutivo bisogno dell’uomo di relazionarsi al proprio simile. È importante sottolineare come il bisogno dell’azione reciproca e dunque della relazione venga indicato come una “categoria antropologica assolutamente fondamentale”, una caratterizzazione centrale nella visione filosofica di Gehlen. Egli stesso, nelle pagine iniziali della stessa opera testé citata, chiarendo “scopi e metodi dell’autore” aveva affermato di voler ricercare le qualità essenziali dell’uomo per indagare sulle loro interrelazioni nella loro neutralità psico-fisica, specificando poche pagine dopo che per categorie si intendono i concetti relativi alle qualità essenziali dell’uomo considerato dal punto di vista culturale, sociale e storico sulla base di un’analisi rigorosamente empirica. Come dire: l’essere dell’uomo, così come emerge da un’analisi “antropobiologica” fondata sulla collaborazione filosofia – scienza,

11 12 13

Idem, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 88. Idem, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., p. 52. Ivi, pp. 52-53.

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non può che configurarsi quale essere-con-gli-altri-in-reciprocità (Sein = Miteinandersein)14. 3. Identità relazionale Nella sua lettura dell’antropologia filosofica tedesca Esposito esprime in modo chiaro e sintetico il valore specifico attribuito all’altro nella prospettiva gehleniana: «[…] per Gehlen l’‘altro’, più che un alter ego, un diverso soggetto, è prima di tutto ed essenzialmente ‘non-io’: il ‘non’ che consente all’io di autoidentificarsi come colui che è appunto altro dal proprio altro»15. Si compierebbe in questo senso una vera e propria “strumentalizzazione” dell’altro, ridotto a mezzo necessario all’io per essere tale in termini di negazione: «Angustiato dall’enigma della sua esistenza e della sua stessa essenza, l’uomo non ha altra risorsa che cercare di interpretarsi passando attraverso un non io, attraverso qualcosa di diverso dall’umano»16. Il singolo allora non può in alcun modo “affermarsi”, ma solo “negare” e “distinguersi”, senza mai poter scoprire chi egli è ma solo chi non è. Sul piano epistemologico la posizione gehleniana, condivisa, seppur con sfumature diverse, anche dagli altri due esponenti “classici” dell’antropologia filosofica tedesca, Plessner e Scheler, è sintetizzabile nell’assunto che l’antropologia filosofica deve essere un tipo di conoscenza dell’umano, una forma di autocomprensione dell’uomo nella storia che funga nel contempo da critica dell’antropologia. Ogni immagine che pretenda di esaurire la totalità degli aspetti in cui può manifestarsi l’esistenza storica dell’uomo va criticata17.

È questo il succo dell’“antropologia negativa” di Gehlen. Sul piano intersoggettivo tale funzione di identificazione per via di negazione è svolta dalle istituzioni, la cui importanza per la sopravvivenza umana è già stata sottolineata. 14

15 16 17

Prendo in prestito la terminologia utilizzata da K. Löwith nel suo Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, München, DreiMaskenVerlag, 1928 (letteralmente “L’individuo nel ruolo dell’uomo-con”) per rimarcare una sorprendente analogia con il discorso gehleniano. Comune è la centralità filosofica riconosciuta al problema antropologico e comune è la centralità antropologica riconosciuta al problema della relazione, per quanto le metodologie utilizzate dai due non siano del tutto sovrapponibili. In particolare il discorso di Löwith risente in modo marcato degli influssi del pensiero relazionale neoebraico, cosicché l’altro non è “Alius” bensì “Alter” inserito nel rapporto duale Io-Tu. In Gehlen, invece, la relazionalità è costitutiva dell’individuo umano da un punto di vista rigorosamente biologico e politico in senso ampio. R. Esposito, Immunitas, cit., p. 123. A. Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter, Hamburg, Rowohlt, 1957; trad. it. L’uomo nell’era della tecnica, Milano, SugarCo, 1984, p. 24. S. Giammusso, Potere e comprendere, Napoli, Guerini e Associati, 1995, p. 212.

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È possibile pensare antropologicamente il concetto di personalità solo nella più stretta connessione con quello delle istituzioni. […] Voglio dire: quando anche le istituzioni ci schematizzano in un certo modo, quando insieme al nostro comportamento plasmano e rendono tipico anche il nostro pensare e sentire, allora proprio da questa circostanza si traggono le riserve di energia per rappresentare nell’ambito delle proprie circostanze l’unicità, cioè per sperare in modo operativo, creativo, fruttuoso. Chi vuole essere una personalità non nell’ambito delle sue circostanze, ma in tutte le circostanze può solo naufragare18.

Analogamente, seppur in rapporto non limitato alla realtà istituzionale ma esteso al mondo quale totalità di esperienze possibili, è interpretato il concetto di “interiorità”: l’espressione “interiorità”, vita interiore è in genere schiettamente antropologica e designa il medesimo della fattispecie dell’apertura al mondo, il modo cioè in cui questo fatto è vissuto da un essere aperto al mondo come tale. Si può sostituire l’espressione “psiche” con l’espressione “mondo interno”, mentre con l’ancor più icastica espressione “mondo esterno interno” si vuol designare il fatto che certi processi si svolgono nell’uomo sotto l’influsso diretto del mondo; che essi sono “investiti” di impressioni del mondo esterno e pertanto vanno intesi come fasi dello scontro – incontro col mondo, quello appunto che un essere che agisce ed è aperto al mondo deve operare19.

La costituzione del “mondo esterno-interno” viene direttamente congiunta al linguaggio, le cui cinque radici ( vita del suono, apertura, riconoscere, richiamo, gesti sonori) esprimono il suo carattere relazionale sin dalle origini. Condividendo la posizione assunta in merito da Herder, Gehlen afferma che tutti gli stati di consapevolezza dell’uomo sono a misura di linguaggio e non c’è aspetto dell’animo umano che non sia capace di parola o non sia determinato da parole. Ne consegue che l’uomo è comprensibile solo in rapporto all’altro da sé, sia esso umano o no. Assimilazione di mondo interno e di mondo esterno significa pertanto che noi interpretiamo il mondo interno in base a quello esterno e questo in base al primo, poiché entrambi li esperiamo soltanto nell’interpolazione reciproca. Il linguaggio è il centro, il nerbo di questa connessione di espressione e impressione20.

18

19 20

A. Gehlen, Anthropologische Forschung, Zur Selbstbegegnung und Selbstentdeckung des Menschen, Hamburg, Rowohlt, 1961; trad. it. Uomo e istituzioni, in Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 99. Relativamente al rapporto istituzione-soggetività si veda M. T. Pansera, Antropologia filosofica. La peculiarità dell’umano in Scheler, Gehlen, Plessner, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 74-81. Idem, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 297. Corsivo dell’autore. Ivi, p. 299. Sia notato per inciso che da tale citazione consegue che non solo l’esperienza dell’altro (sempre inteso come uomo o meno) è condizione dell’esperienza di sé, ma anche

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E ancora: «Quando noi sviluppiamo la polivalenza delle cose, allora lo spirito comprende anche se stesso nelle sue possibilità mentre comprende le cose»21. Il mondo esterno-interno diviene in tal modo espressione privilegiata della relazionalità trascendentale dell’individuo umano, il quale può sopravvivere e può conoscersi solo se incluso in una ineludibile trama di rapporti nella quale “si afferma negando e si nega affermando”: «Ogni atteggiarsi verso l’esterno passa unicamente attraverso un atteggiarsi verso se stessi, e viceversa: questa la situazione di fondo dell’uomo, essere ‘non definito’»22. Evidentemente questa dinamica relazionale non è circoscritta alla dimensione inter-personale, ma si estende ad includere il rapporto dell’uomo con il “mondo” e con se stesso, cosicché sempre, e sin nelle prestazioni più alte, l’appropriarsi del mondo è insieme un appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’uomo in uno con la sua costituzione è sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso»23.

È lecito parlare, dunque, di una riflessività dell’agire umano, non semplicemente “homo faber”, bensì “homo creator sui ipsius” all’interno di una irriducibile reciprocità. La relazionalità specifica dell’agire umano emerge dal fatto che «il comportamento umano è a tutti i livelli comunicativo, autoricettivo, variabile, plastico, e proprio per questo è aperto al mondo, oggettivo e inventivo. Si dà in riferimento ad un “tu”»24. La base biologica di tale peculiarità dell’uomo è costituita dall’eccesso pulsionale che lo contraddistingue, tra le cui cinque leggi particolarmente significative risultano quelle delle “comunicabilità”, della “apertura al mondo” e della “disciplina”, ad esprimere il fatto che la vita pulsionale umana è per sua essenza orientata sulla comunicazione. […] tutte le pulsioni, anche quelle dell’uomo maturo, sono comunicative, e dunque tanto intellettualizzate quanto prossime all’azione. Il che vuol dire, in ultima analisi, che persino i bisogni somatici sono involti nei costumi del tempo e della società, e che il loro irradiarsi non ci è noto se non nella rifrazione attraverso i prismi che

21 22 23 24

che l’esperienza di sé in quanto tale è condizione della conoscenza del distinto da sé. Tale “rovescio della medaglia”, tuttavia, esula dal presente scritto, nel quale si intende analizzare solo la prima delle due posizioni Idem, Von Wesen der Erfahrung (1936), in Idem, Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, cit.; tr. it. Della natura dell’esperienza (1936), in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 43. Idem, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 393. Ivi, p. 200. Idem, Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, cit; trad. it. Lo stato attuale della ricerca antropologica (1951), in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 163.

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la società e quell’accident absolu costituito dal proprio carattere hanno contribuito a sfaccettare. Come l’uomo penetra nel mondo, così il mondo nell’uomo25.

Si può affermare, perciò, che l’uomo è “biologicamente linguistico”, cosicché il suo patrimonio pulsionale si caratterizza per una innata tendenza alla reciprocità26. Questa “forma linguistica della reciprocità” appare onnipervasiva fino ad includere la stessa azione solitaria, «in cui il movimento sensibile già include la risposta presentita da parte dell’oggetto. Tanto più dunque [...] ciò si verifica nel comportamento sociale in generale»27. Il soggetto umano è come “naturalmente configurato” per rapportarsi all’altro da sé. Viene in tal modo negato il carattere privato e rigidamente soggettivo dell’io e riconosciuto che esso, in virtù della sua stessa costituzione e in tutte le proprie manifestazioni, si muove in una rete di rapporti intersoggettivi che lo costituiscono in proprio e nella quale vengono a definirsi le sfere correlative del “mio” e del “tuo”. Pertanto «l’esperienza non è un processo ‘solitario’, essendo l’‘agire rivolto a un Tu’ la struttura fondamentale dell’intera sfera psichica»28. È questa una posizione già espressa nell’ambito dell’antropologia tedesca da Max Scheler in Essenza e forma della simpatia del 1923 dove l’autore confuta precisamente il presupposto solipsistico che afferma la priorità dell’io rispetto al tu: solo la loro coesistenza e il loro reciproco, “simpatetico” proiettarsi l’uno nell’altro possono garantire le rispettive identificazioni29. E lo stesso Husserl afferma che l’esperienza dell’altro è una specie di Einfühlung o empatia per la quale egli si costituisce per “appresentazione” come un “altro me stesso”30. Tuttavia il riferimento privilegiato di Gehlen è al pensiero pragmatistico, il quale secondo lui ha avuto il merito straordinario di affermare con forza la centralità filosofica dell’azione. Più volte nelle sue opere fa riferimento alle posizioni di Dewey e di Mead, i quali hanno mostrato come i comportamenti specificamente umani siano non solo diretti all’oggetto ma “autoricettivi” o “autotematici”. Di qui Gehlen giungerà a parlare dell’effetto 25 26

27 28 29 30

Idem, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 392-393. In merito afferma Gehlen: «La reciprocità è una categoria fondamentale, riguarda un tratto esenziale dell’essere umano. Se possiamo dirla “istintiva”, ciò va inteso non diversamente che nel caso del linguaggio, ossia nel senso di un comportamento umano “corrente”, di una struttura che lo caratterizza a tutti i livelli». In A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., p. 54). Idem, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., p. 54. Idem, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 200. Cfr. in merito A. Gualandi, La struttura comunicativa dell’esperienza umana, in Idem (cur.), L’uomo, un progetto incompiuto. Significato e attualità dell’antropologia filosofica, cit., pp. 255-298. Cfr. M. Scheler, Gesammelte Werke, Bern – München, Francke Verlag, 1972, XI; trad. it. Essenza e forme della simpatia, Città Nuova, Roma, 1980. Cfr. E. Husserl, Cartesianische Meditationen. Eine Einleitung in die Phanomenologie, Hamburg, Felix Meiner, 1987; trad. it. Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, Milano, Feltrinelli, 1989.

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“retroattivo” dell’azione umana, in particolare del linguaggio, che retroagendo sul soggetto definisce una graduale e costante “auto-modificazione”, una vera e propria “auto-evoluzione” che ne salvaguarda e sviluppa le capacità prometeiche. Mead chiama questa struttura del comportamento “assumere il ruolo dell’altro” (“to take the role of the other”), ossia esperire e agire su se stessi nel proprio comportamento immediatamente in questa relazione con l’altro. Tale principio ha un valore comunicativo, ermeneutico e psicologico. Infatti, in Mind, Self and Society Mead evidenzia come, affinché un simbolo sia significante, è necessario che un individuo assuma nel suo gesto la risposta che questo provoca nell’altro. Medesima struttura ha l’autocoscienza: «È evidente che l’autocoscienza nasce quando ci si volge a un altro e si risponde con la risposta dell’altro. Durante questo periodo dell’infanzia il bambino dà vita a un foro, entro il quale impersona vari ruoli»31. Così l’autocoscienza si sviluppa per l’indiretta via della coscienza dell’altro in se stessi. Precisamente, e paradossalmente, in questo autoestraniarsi nella traslazione verso l’altro da sé l’autocoscienza acquisisce il rapporto con il proprio corpo che è peculiare dell’uomo: «Per mezzo dell’autocoscienza l’organismo individuale entra in certo modo nel suo campo circostante (environmental field), e il proprio organismo diviene una parte della serie di stimoli ambientali ai quali il Sé risponde»32. Si distingue in tal modo l’Io, risposta individuale al comportamento sociale, e il Me, il Sé come oggetto per se stessi. Perfettamente in linea con questo indirizzo di pensiero33 si trova Gehlen, il quale concepisce «il vivente come animato, come mondo interno esterno, perché, esprimendoci, ci apriamo all’esterno e in tal modo ci alieniamo da noi stessi anche nel rapporto interno, ci socializziamo»34. In senso più ampio e complesso questa medesima identificazione per via di negazione viene estesa anche al “gruppo”, all’insieme di più individui, cosicché l’identificazione con un altro è il presupposto dell’esperienza di sé sia per il singolo sia per la collettività. «Il gruppo è esperito solo in quanto è nel contempo qualcosa d’altro, esso cioè deve essere rappresentato mediante una trasposizione in alcunché d’altro e di comune, e l’agire in conformità ad esso»35. L’identità è dunque il risultato di un processo nel quale l’azione svolge ancora una volta un ruolo determinante palesemente espresso nei “riti” delle società primitive.

31 32 33

34 35

G.H. Mead, Mind, self and society: from the standpoint of a social behaviourist, The University of Chicago Press, Chicago, 1967; trad. it. Mente sé e società: dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, Firenze, Giunti – Barbera, 1966, p. 36. Ivi, p. 172. A testimonianza di tale affinità di pensiero scrive il filosofo tedesco: «L’autore americano [Mead], in alcune buone e valide analisi, ha dedotto a partire da questo processo originario l’emergere e il dispiegarsi dell’io nell’uomo, ossia il sorgere, da quella parte del proprio io che si vede con gli occhi dell’altro, dell’autocoscienza». In A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., p. 54. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 300. Ivi, p. 361.

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In origine […] la coscienza dell’appartenenza al gruppo non si appaga affatto, come è per noi, di un sapere astratto o addirittura di un’astratta rappresentazione cogente, bensì l’esperienza vissuta del Noi viene realizzata, cioè personalmente ricreata per mezzo di un comportamento concreto avente per oggetto il tema “noi, questo gruppo”, in trasposizioni totali e reali36.

L’identificazione personale e collettiva ha perciò in origine un valore non semplicemente teoretico, ma anzitutto pratico, ed è precisamente questo suo aspetto originario che oggi si va smarrendo. Paradossalmente oggi la crisi dell’identità soggettiva è causata da un “eccesso di soggettività”, nel contempo causa e conseguenza di una insecurizzazione e di una cronica crisi delle istituzioni, dal quale si origina quanto Gehlen definisce un “positivo bisogno di comunità”. La delusione causata dall’impossibilità di realizzasi nel rapporto con l’altro da sé determina un ripiegamento dell’uomo su se stesso con conseguente “accentuazione eccessiva dell’io” e relativa derealizzazione del mondo e dell’io stesso37. Quale la causa di tale “perdita di identificazione” che rischia di ridurre l’identità ad una chimera? Secondo Gehlen dovrebbe essere altresì chiaro che le sterminate quasi-comunità dei tempi moderni non consentono alcuna stabile identificazione: per i bisogni psicovitali comunicabili dell’uomo la nostra civiltà non ha nulla da offrire che possa adempierli. L’astratta coesione del popolo è a tale proposito troppo vasta, la famiglia troppo esigua38.

L’incommensurabilità, la complessità e l’artificialità della civiltà creata dalla tecnica hanno prodotto una diminuzione del contatto reale, con conseguente crescente alienazione dal mondo e da se stessi, parallela al crescere del dominio sulla materia e allo sviluppo di eccessive direttive, pareri e sentimenti collettivi39. In questo senso, nella spersonalizzante società dell’“homo oeconomicus”, la dialettica io-altro diviene fine a se stessa, non rendendo ragione della complessità dell’individuo e non offrendogli alcuna garanzia di sopravvivenza. La “coesistenza” si muta in tal modo in “convivenza”, la relazione in conflitto. L’uomo rimane solo, privato persino di sé. 36 Ibidem. 37 Definendo il soggettivismo Gehlen afferma: «Con questo termine non intendo in alcun modo qualcosa come riferimento all’io o egocentrismo, o perlomeno non nel senso usuale, ma invece un attaccamento all’io siffatto che il singolo vive senz’altro e immediatamente le sue occasionali acquisizioni interiori, le sue convinzioni e i suoi pensieri – quelli che sono venuti proprio a lui – e le sue reazioni sentimentali, come se fossero importanti da un punto di vista sovrapersonale». In Idem, Prospettive antropologiche, cit., p. 102. 38 Idem, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 361. 39 Cfr. Idem, L’uomo nell’era della tecnica, cit. In merito, a partire dalla riflessione di A. Weber secondo cui l’uomo rischia di divenire vittima della standardizzazione sociale in ragione della quale conta più il suo agire professionale che il suo essere umano, Gehlen,

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4. L’altro come negativo Si è visto che l’unica possibile soluzione alla precarietà e alla costitutiva “indigenza” dell’essere umano all’inizio propende verso l’altro, l’unico oggetto adeguato dell’uomo nel cui rapporto egli realizza un più degno livello di esistenza e definisce una soluzione al proprio “male”. Successivamente, tuttavia, si chiarisce il valore non “positivo” ma “negativo” della relazione: «La vita, per essere del tutto se stessa, deve andare a cercare il negativo per poi difendersi da esso e lo spirito, per diventare immanente, deve rinunciare a se stesso»40. Si recupera in tal modo sul piano della convivenza comunitaria quanto riferito da Gehlen alla naturale costituzione deficitaria dell’individuo umano. Non solo l’identificazione, dunque, ma la stessa sopravvivenza dell’io si compie per via di negazione, cosicché il negativo si configura come condizione d’essere dell’individuo: «Qui si afferma dunque che il negativo è, in genere, un contenuto positivo della realtà»41. Questa “positivizzazione” del negativo avviene per via di “incorporazione” secondo una logica specificamente immunitaria che piega l’intero discorso antropologico alla preminente esigenza conservativa: il pericolo di morte viene superato perché preventivamente “assaggiato”. L’ascendenza filosofica di questa posizione gehleniana è piuttosto complessa: l’orientamento “ontologico” ricorda il maestro Hartmann, la “dialettica negativa” formalmente Hegel, la priorità dell’altro Fichte, il pathos del rischiare se stessi Kierkegaard. Nel contempo l’originalità della prospettiva gehleniana nasce dal valore e dalla funzione non semplicemente teoretica, ma anche e soprattutto socio-politica e pratica in essa attribuita al negativo: condizione d’essere e di significato delle istituzioni esso deve pur sempre sopravvivere, altrimenti l’apparato istituzionale non ha più motivo d’esistere. Di qui la “potenza del vuoto”42 ma anche la “nota malinconica”43 dell’esistenza umana: una duplicità di tono segno della contraddittorietà e della paradossalità dell’individuo. La necessità della negatività è dimostrata, secondo Gehlen, dalla condizione odierna dell’uomo, il quale vive sotto un eccessivo esonero dagli aspetti negativi della vita (fisica) e l’onere eccessivo delle pretese intellettuali della

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indicando un rimedio a tutto questo, afferma che «distanziarsi interiormente da tutto l’apparato, vale a dire dalla propria professione, e mantenersi spiritualmente liberi dal proprio lavoro significa in sostanza: cercare negli ambiti culturali della vita quella fresca vivezza dello spirito che si è dileguata dalle abitudini di tutti i giorni». Ivi, p. 189. Idem, Wirklicher und unwirklicher Geist, in Philosophische Schriften, Frankfurt am Main, Klostermann, 1978, I, p. 126. Ivi, p. 138. Cfr. R. Esposito, Immunitas, cit., pp. 122-133. Cfr. W. Lepenies, Melanconia e società, Napoli, Guida Editori, 1985. Suggestiva l’interpretazione “decadente” dell’antropologia di Gehlen, ma controverse le accuse a questi rivolte di non dare adeguata importanza al “socius” e di “antistoricità”.

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nostra cultura, “too much discriminative strain”, “troppa costrizione a distinguere e a decidere”. Così privato di ogni “tradizione”, ossia di ogni sapere certo e fondamentale, l’uomo è privo di orientamenti e di difese. In questo senso il “negativo” rivela paradossalmente il suo “positivo influsso”. In poche parole è come se la fantasia, l’eccesso di sensibilità e di affetti, l’ipertrofia e la possibilità di degenerazione dell’anima fossero sempre lì ma venissero mantenuti entro limiti e leggi dall’esterno, dalla costrizione delle circostanze, dalla indigenza, dalla testardaggine della natura. Se l’uomo si libera troppo dall’onere della serietà della realtà, della indigenza, del “negativo” – come lo chiama Hegel – allora tutto ciò si estende senza freni44.

Nel saggio sopra citato l’alternativa all’eccessivo esonero o all’onere della intelligenza è individuata nell’“ascesi”, intesa non come “religioso sacrificium”, ma come “disciplina”45. In effetti Gehlen è ben cosciente che niente come l’ascesi è incompatibile con la mentalità capitalista o comunista, tant’è che esso è uno degli elementi del cristianesimo che non sono stati secolarizzati. “Ascetico” diviene allora “disciplinato”, ossia regolamentato in virtù dell’istituzione. In questa dinamica, tuttavia, come già detto, il negativo non è annullato, né in teoria né in pratica, ma costantemente presupposto e “cercato” quale stimolo alla conservazione: la “negazione” diviene “conservazione” della vita. Sul piano specificamente teoretico la prospettiva gehleniana si sviluppa, come già accennato, a partire dalla constatazione della fine di una filosofia “astratta” che pretenda di ipostatizzare il suo oggetto, in particolare l’uomo, mettendo capo ad un’antropologia dialettica che parte dall’esperienza del negativo per giungere all’identificazione dell’uomo stesso. La civiltà nel suo complesso è superamento simbolico della morte; essa rende vita la vita umana e l’uomo uomo, poiché, collaborando alla sua identificazione quest’ultimo ottiene nell’atemporalità dei valori la sua parte di espansione dell’Io, la sua razione di superamento della morte46.

La stessa vita, quindi, è inqualificabile se non in rapporto al suo contrario quale incessante tentativo di “positivizzazione del negativo”.

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A. Gehlen, Philosophische Antropologie und Handulgslehre, cit.; trad. it. L’immagine dell’uomo alla luce dell’antropologia moderna (1952), in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 181. 45 Cfr. N. Russo, Natura e ascesi: le prospettive ecologiche dell’antropologia di Gehlen, in A. Gualandi (cur.), L’uomo, un progetto incompiuto. Significato e attualità dell’antropologia filosofica, cit., pp. 239-262. 46 H. Broch, Politica – Condensatio, in Idem, Azione e conoscenza, Milano, Lerici, 1966, p. 263.

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5. Per una conclusione comparativa Questa definizione dialettico-relazionale dell’uomo proposta da Gehlen definisce una presa di distanza piuttosto netta rispetto allo sviluppo classico del “problema uomo”, tradizionalmente risolto all’interno del più vasto orizzonte metafisico-ontologico tendente a interpretare la relazionalità dell’uomo come un “accidente”, una “proprietà derivata” del suo essere: non ha senso definire l’uomo come soggetto di relazione se prima non lo si è definito come soggetto in quanto tale47. Da parte sua Gehlen, per mutuare un’espressione di Montaigne, propone una “antropologia della transitorietà” che non ricerca ciò che l’uomo è ma ciò che egli diviene: il divenire e non più l’essere sono al centro della riflessione filosofica e l’individuo diviene in quanto con-vive e co-esiste nell’incontro-scontro con l’altro da sé. L’esperienza che l’uomo ha di sé è dunque un’“esperienza dall’esterno” legata alla riflessività della conoscenza reciproca che si sviluppa nella relazione con l‘altro. Già Arnauld aveva affermato che lo spirito nel percepire l’altro da sé percepisce anche se stesso48, mentre Fichte aveva sostenuto che l’attività dell’io, e dunque il suo essere stesso, è provocata dal rapporto dialettico con l’altro io in una “dinamica esistenziale-relazionale”49. Analogamente Feuerbach aveva sostenuto l’“essenza sociale dell’uomo” che ha costitutivamente bisogno dei suoi simili50 e Dilthey affermerà la connotazione relazionale del “Verstehen” e dell’“Erlebnis” definendo la vita come rapporto dell’individuo con gli altri51. Il pensiero neoebraico, da parte sua, fa della relazionalità il fulcro dell’intera propria riflessione filosofica. All’interno della stessa Antropologia filosofica tedesca la condivisione di questa visione relazionale del soggetto, pur con innegabili differenze specifiche, è quanto mai evidente. Come Gehlen anche Plessner non considera l’uomo in se stesso, ma nel suo rapporto costitutivo con l’ambiente che lo circonda e nel quale è inserito: l’identità umana è il frutto della relazione. Così «per l’uomo il suo proprio esserci si distingue nella sua individualità solo a fronte della possibilità che egli avrebbe anche potuto essere un altro»52. Perciò «essere uomo è essere l’altro di se stesso»53, cosicché «l’estraneazione è la condizione dell’identificazione e viceversa»54. L’unica possibile identificazione 47 48 49 50 51 52 53 54

Cfr. P. Orlando, Filosofia dell’essere finito, Napoli, Luciano editore, 1995. Cfr. A. Arnauld, La logique ou l’art de penser: contenant, outre les règles communes, plusieurs observations nouvelles, propres a former le jugement, Lyon, rue Mercière a la Bonne-Conduite, 1684. Cfr. J. G. Fichte, Dottrina della scienza, a cura di Adriano Tilgher, Bari, Laterza, 1925. Cfr. L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, a cura di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1946. Cfr. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, Roma, Assisi, 1972. H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie, in Idem, Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1981, vol. IV, p. 421. Idem, Macht und menschliche Natur, in Idem, Gesammelte Schriften, cit., vol. V, p. 225. R. Esposito, Immunitas, cit., p. 114.

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dell’uomo è dunque per via di negazione: egli è un homo absconditus di cui si può dire solo cosa non è55. L’unica antropologia ammessa da Plessner è quindi un’antropologia negativa, cosicché i punti di partenza di Plessner e di Gehlen coincidono; tuttavia il primo si distingue nettamente dal secondo relativamente agli scopi perseguiti a partire dalla concezione “negativa” dell’antropologia. Questa risulta di fatto funzionale alla affermazione e alla difesa della libertà e della modernità dell’uomo, assumendo in tal modo una connotazione e una radicalità socio – politica estranee all’orientamento conservatore di Gehlen: «perché l’uomo diventi libero, perché realizzi la sua libertà, occorre che ci si abitui a considerarlo come una forma di buco nero in cui ogni determinazione di essenza viene risucchiata»56. In questo senso, trasposto sul piano politico il rapporto con l’altro diviene relazione amico/nemico, la quale viene concepita […] come appartenente alla costituzione essenziale dell’uomo, ed egli viene considerato come questione aperta o come potere proprio perché una concreta determinazione essenziale viene tenuta lontana da lui57.

In tal modo la politica viene intesa non come un ambito di stasi, ma come il luogo della relazione, essa stessa agire perenne che offre all’uomo la mediazione rispetto all’altro e rispetto a se stesso per la conservazione della propria identità: essa è la necessità, che scaturisce dalla costituzione essenziale dell’uomo, di vivere in una situazione di pro e di contro, e di delimitare e di affermare, all’interno della relazione amico/nemico, una zona propria contro una zona altrui – la politica viene concepita come sguardo sul destino segreto dell’essere uomo58.

A buon diritto, perciò, l’antropologia di Plessner è definibile “antropologia politica”: gli unici mezzi attraverso i quali il singolo può salvarsi dall’eccesso spersonalizzante della comunità sono le “prese di distanza”, “gli strumenti del tatto” offertigli dalla politica. In questo senso la politica come la intende Plessner finisce con l’assumere lo stresso ruolo che nel pensiero gehleniano era attribuito all’istituzione: una protezione per via di immunizzazione dall’eccessiva esposizione alla collettività. Tuttavia, se la modalità “immunizzante” è comune e il risultato finale è per molti versi analogo, i presupposti sono questa volta divergenti: dagli scritti di Plessner emerge uno sbilanciamento verso il singolo in quanto tale che è assente dall’orizzonte argomentativo di Gehlen, per il quale l’individuo è se stesso solo e nella misura in cui è 55 56 57 58

Cfr. H. Plessner, Homo absconditus, in Idem, Gesammelte Schriften, cit., vol. VIII. Ibidem. H. Plessner, Macht und menschliche Natur, cit., p. 192. Corsivo dell’autore. Ivi, p. 195.

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membro della comunità e “salvaguardato” dalle istituzioni. Nella prospettiva plessneriana, invece, la comunità è vista a partire dal singolo, cosicché il momento dell’immunizzazione e dell’individuazione è decisamente preponderante rispetto a quello della convivenza. Analogamente in Scheler si ha una definizione “per via negativa” dell’essere umano e delle sue peculiarità: come per Gehlen lo sviluppo e la stessa sopravvivenza umana sono interpretati in termini di “positivizzazione del negativo” mai completamente eliminabile, così in Scheler lo spirito, elemento vitale dell’uomo, paradossalmente non ha una propria capacità di agire, ma può esistere solo in quanto opposto alle tendenze elementari e materiali del soggetto. Lo spirito nella sua forma pura è originariamente impotente, privo di quella forza e attività che solo l’ascesi, la repressione delle tendenze e la conseguente sublimazione gli consentono di attingere59.

In senso specifico lo spirito non vive, ma può solo dirigere la vita. Alla base delle due posizioni vi è quindi la stessa logica immunitaria che rende prioritaria e necessaria una relazione “dialogica” e di coesistenza con la morte potenziale: «Paragonato all’animale che dice sempre ‘sì’ alla realtà effettiva – anche quando l’aborrisce e la fugge – l’uomo è ‘colui che sa dir di no’, l’‘asceta della vita’»60. In questo senso «lo spirito si definisce come distanza dalla vita: l’essere umano è aperto al mondo in quanto è capace di un atteggiamento nei confronti delle cose non funzionale alla conservazione della vita»61. Così «la sua vita assume senso e rilievo solamente da quel ‘no’ – dal colpo di reni avversativo con cui essa si getta fuori di se stessa: si nega per potersi affermare»62. Nell’uno e nell’altro caso abbiamo a che fare con un uomo che non è, ma diviene, “bestia cupidissima rerum novarum”, eterno Faust mai pago di sé. Tuttavia, mentre l’incompiutezza dell’uomo gehleniano è radicata nella sua carenza biologica, l’“incolmabile voragine” dell’animo dell’uomo di Scheler ha un’esplicita connotazione spirituale espressa nell’irriducibile dualismo spirito – corpo. Ciò che è comune, in ogni caso, è la necessità della relazione per l’identificazione dell’individuo. In merito lo stesso Scheler sottolinea l’esistenza di

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W. Lorenzoni, Apertura al mondo: l’antropologia filosofica nell’ultimo Scheler, in AA.VV., Ratio imaginis. Uomo e mondo nell’antropologia filosofica, Firenze, Ponte delle Grazie editori, 1991, p. 85. M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, in Idem, Gesammelte Werke, IX, cit.; trad. it. La posizione dell’uomo nel cosmo, in Idem, La posizione dell’uomo nel cosmo e altri saggi, a cura di R. Padellaro, Milano, Fabbri, 1970, p. 195. D. D’Andrea, Estraneità e distanza: la teoria dell’intersoggettività in Max Scheler, in AA.VV., Ratio imaginis, cit., p. 141. R. Esposito, Immunitas, cit., p. 108.

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una relazione essenziale – non semplicemente fattuale o effettiva – tra l’io e la comunità in generale; […] la caratterizzazione dell’individualità autocosciente come esito di un processo di emancipazione dall’immediatezza dell’indistinto che produce simultaneamente riflessione – relazione con sé – e differenziazione-distanziamento rispetto all’altro»63.

In tal modo, in linea con Gehlen e a differenza di Plessner, il singolo è pensato a partire dalla comunità: «mai e da nessuna parte c’è stato un solipsista!»64. Nel contempo l’identificazione relazionale rinvia alla categoria plessneriana della “distanza”. La diversità che conferisce all’alter ego la sua specifica alterità – che consente all’io altrui di essere qualcosa di realmente altro rispetto all’io – emerge a seguito di un processo di distanziamento dall’ambiente psichico che permette di separare, in un “flusso di esperienze” (storm der Erlebnisse) originariamente indifferente alla polarità io-tu, il proprio dall’“estraneo”65.

In questo modo l’autocoscienza come momento cardine dell’“esser – persona” non può essere disgiunta dalla rappresentazione dell’alterità del tu, perché sussiste una relazione essenziale, costitutiva, tra la coscienza di sé e l’esperienza della distanza rispetto all’io altrui. La differenza rispetto a Gehlen emerge nel momento in cui Scheler dimostra la necessità della comunità non nei termini specificamente politici della “compensazione”, ma attraverso un originale procedimento “per assurdo” secondo il quale la comunità è necessaria affinché l’uomo abbia senso66: «L’uomo, il portatore della forza razionale dell’anima, è un’essenza fatta per la comunità. Dove vi è un ‘io’, vi è un ‘noi’, oppure ‘io’ appartengo a un ‘noi’»67. Se non vi fosse una comunità non vi sarebbe neppure un individuo.

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67

D. D’Andrea, Estraneità e distanza: la teoria dell’intersoggettività in Max Scheler, cit., p. 129. M. Scheler, Probleme einer Sociologie des Wissens, in Gesammelte Werke, VII, cit.; trad. it. Idem, Sociologia del sapere, a cura di D. Antiseri, Roma, Edizioni Abete, 1976, pp. 119-120. D. D’Andrea, Estraneità e distanza: la teoria dell’intersoggettività in Max Scheler, cit., pp. 129-130. Cfr. la dettagliata analisi del valore esistenziale e spirituale dell’intersoggettività scheleriana in R. Racinaro, Il futuro della memoria, Napoli, Guida, 1985; con particolare riguardo al sentimento dell’amore G. Riconda, Introduzione al pensiero di Max Scheler. Fenomenologia e analisi della vita emozionale, Torino, Giappichelli, 1983; in una prospettiva critica rispetto al “dualismo” scheleriano e in rapporto alla “filosofia relazionale” neoebraica M. Buber, Das Problem des Menschen, Lambert Schneider Verlag, Heidelberg, 1954; trad. it. Il problema dell’uomo, a cura di A. Rizzi, Torino, Elle Di Ci, 1983. M. Scheler, Die christliche Liebesidee und die gegenwärtige Welt, in Gesammelte Werke, V, cit.; trad. it. L’idea cristiana dell’amore, a cura di U. Pellegrino, Roma, Edizioni Logos, 1985, p. 44.

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Da qui egli deduce che «il Tu è la categoria esistenziale fondamentale del pensiero umano»68 e conseguentemente la “datità a-priori del tu in generale”. Questi limitati riferimenti alle più disparate posizioni filosofiche moderne e contemporanee con particolare riguardo alla stessa corrente di pensiero cui Gehlen appartiene mostrano chiaramente come la centralità conferita alla relazionalità dall’antropologia gehleniana si ponga in continuità con una tendenza specifica della filosofia a spostare il baricentro del suo pensiero dal sé all’altro. Tuttavia la peculiarità e il maggior merito di Gehlen consistono nell’aver fondato tale relazionalità trascendentale all’interno di una complessa e organica teoria della indigenza e della precarietà del soggetto umano per il quale la compensazione sociale non può essere oggetto della sua arbitrarietà ma si impone come una necessità: l’uomo non semplicemente esiste e vive, ma (più problematicamente…) può solo co-esistere e con-vivere.

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Idem, Sociologia del sapere, cit., p. 119.

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Mario Marino

SUL SIGNIFICATO DI UNA DOTTRINA DELL’ORIGINE DEL LINGUAGGIO PER L’ANTROPOLOGIA DI GEHLEN

1. Il rigetto del primato della coscienza e dello spirito Per comprendere il ruolo della domanda sull’origine del linguaggio nell’antropobiologia di Gehlen, occorre guardare fin dall’inizio alla reciproca compenetrazione tra la fondazione di un’antropologia filosofica come teoria dell’azione e il rigetto di qualsivoglia filosofia che prenda le mosse dalla coscienza e, in generale, da funzioni o istanze superiori quali l’intelletto, la ragione o lo ‘spirito’. Ciò vale sia per L’uomo1, sia, innanzitutto, per il cammi1

Citerò le opere di Gehlen dalle edizioni qui sotto segnalate e con le seguenti abbreviazioni, indicando di volta in volta, separati da punto e virgola, il luogo dell’edizione originale e, qualora sia disponibile, quello della versione italiana. AM = Ein anthropologisches Modell (1968), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, vol. 4, 1983, pp. 203-215, trad. it. Un modello antropologico, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Napoli, Guida, 1990, 247-260; BM = Das Bild des Menschen im Lichte der modernen Anthropologie (1952), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, cit., pp. 127-146, trad. it. L’immagine dell’uomo alla luce dell’antropologia moderna in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 169-184; GPA = Zur Geschichte der Anthropologie (1957), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, cit., pp. 143-164, trad. it., Per la storia dell’antropologia, in Id. Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 185-206; IH = Der Idealismus und die Lehre vom menschlichen Handeln (1935), in Arnold-GehlenGesamtausgabe, cit., vol. 2, 1980, pp. 311-345, trad. it. L’idealismo e la dottrina dell’agire umano, in «Discipline filosofiche», XII, 1, 2002, pp. 11-41; M = Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, cit., vol. 3, tomi 2, 1993, trad. it., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983; PA = Philosophische Antropologie (1971), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, vol. 4, cit., pp. 236-246, trad. it. in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 285-296; PS = Das Problem des Sprachursprungs, in «Forschungen und Fortschritte. Nachrichtenblätter der deutschen Wissenschaft und Technik», 14, 1938, n. 26/27, pp. 291-293; RAS = Rückblick auf die Anthropologie Max Schelers (1975), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, vol. 4, cit., pp. 247-258, trad. it. Uno sguardo retrospettivo all’antropologia di Max

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no di pensiero che ne prepara la stesura. Pensiamo qui al rifiuto dell’antropologia filosofica di Scheler e alla ricerca di nuovi referenti teorici, rintracciati, dapprima, in Schopenhauer e, da ultimo, in Herder. Ma anche al fatto che questi percorsi hanno per sfondo l’abbandono di una personale impostazione idealistica e la costruzione di una teoria dell’azione su duplice base ‘scientifica’, biologica e linguistica. Per quanto Gehlen abbia messo in risalto in modo esplicito l’importanza cruciale della problematica linguistica nella resa dei conti con Scheler e Schopenhauer, ci è sembrato che tale aspetto non avesse ancora ricevuto tutta la considerazione di cui potrebbe godere. A un suo richiamo nel quadro della costruzione dei presupposti de L’uomo, abbiamo, dunque, dedicato la prima parte del nostro lavoro. 1a. La svolta antropologica e il confronto con Scheler Il 1935 è l’anno in cui, per la prima volta in Gehlen, la “categoria centrale”2 dell’azione si aggancia in linea di principio alla prospettiva di un’antropologia filosofica, «che si presenta a sua volta come prima philosophia o scienza filosofica fondamentale»3. Tale operazione esige il superamento dei connotati intellettualistici e astratti di idealismo e realismo in direzione di un’analisi della situazione concreta in cui l’essere umano determina la propria esistenza. Il solo “punto di partenza” d’una filosofia dell’agire, che consenta di conoscere l’uomo ‘nella sua interezza’, per poi stabilire autenticamente le norme del suo comportamento, non può essere [infatti] un qualunque oggetto o valore o stato dell’ambiente obiettivamente percepito – come imposto dal cosiddetto ‘realismo filosofico astratto’ – e neppure un ‘fatto della coscienza in senso stretto’ (ipotesi dell’idealismo astratto). Piuttosto […] solo una situazione, cioè un qualsiasi stato concreto dell’‘uomo per intero’4.

2 3 4

Scheler, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 297-309; RS = Die Resultate Schopenhauers (1938), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, vol. 4, cit., pp. 25-49, trad. it. I risultati di Schopenhauer, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 57-82; WE = Vom Wesen der Erfahrung (1936), in A. Gehlen, Gesamtausgabe, vol. 4, 1983, pp. 3-24, trad. it., Della natura dell’esperienza, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 33-35. Sono grato ad Andrea Borsari per il sostegno e i consigli nella stesura del mio contributo, e a Maria Teresa Pansera per averlo accolto nel presente volume. Dedico questo mio lavoro alla mia famiglia e ai miei amici ‘pisani’ e ‘modenesi’, in ricordo di un Natale che non c’è stato. K. S. Rehberg, Nachwort des Herausgebers, in A. Gehlen, M (774). A. Gehlen, IH (313; 11). A. Gehlen, IH, (331; 29).

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In tal modo, diviene possibile comprendere l’essere umano, rifuggendo gli estremi dell’uomo materialistico, solidificato nella trama delle sue determinazioni oggettive naturali o sociali, e dell’uomo virtuale dell’idealismo, evaporato nello spazio immateriale della propria coscienza. A questo proposito, ci pare particolarmente stimolante l’osservazione secondo cui, quando la filosofia considera «solo la realtà della coscienza, essa diventa astrattamente immanente-idealista e parla di un uomo ideale e comune senza vocazione né professione, e di provenienza incerta»5. Tra i numerosi fili qui intrecciati, spicca il bisogno di superare il dualismo corpo-spirito mediante una teoria dell’azione e un confronto critico con le filosofie astratte e intellettualistiche responsabili del sorgere e persistere di quella divisione. Quest’ultimo dato emerge indirettamente dal passaggio in cui Gehlen dichiara che il compito che qui abbiamo messo in luce risulta evidente anche in un altro modo, e cioè quando colui che fa filosofia già in partenza vuole pensare se stesso come uomo intero e non solo in prospettiva astratta o magari solo come coscienza riflettente6.

Accanto a ciò, assume valenza positiva anche la transitoria ripresa – dalla tesi di abilitazione su Wirklicher und unwirklicher Geist – della nozione esistenzialistica di ‘situazione’. Lo sforzo in essa insito «si trasformerà – infatti – nel tentativo di comprendere le situazioni stesse sulla base di una ricognizione attenta e ‘scientificamente qualificata’ delle caratteristiche essenziali di colui che agisce»7. Dopo la “svolta” del 1935, il paradigma antropobiologico sarà, dunque, definito dall’elaborazione e reciproca integrazione, sul piano d’una teoria dell’azione, del ‘dispositivo antidualistico’ e della comprensione scientifica della natura umana. In questa prospettiva, l’interpretazione di Scheler come punta più avanzata allora disponibile nel cammino verso un’antropologia filosofica e, al contempo, come ultima retroguardia della sua interpretazione metafisica e spiritualista, ha un’importanza notevole, sondata di recente da Lothar Samson8. L’arco di tempo considerato dal suo saggio è il semestre invernale 1935-1936, quando Gehlen tiene a Lipsia un corso su «La filosofia più recente dal 1850», al termine del quale pronuncia tre lezioni su «Il problema dell’uomo. Risultati dell’antropologia filosofica»9. 5 6 7 8 9

A. Gehlen, IH (332-333; 30). A. Gehlen, IH (333; 30). U. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 46. L. Samson, Gehlen und Scheler. Gehlens Antropologie-Vorlesung von 1936, in H. Klages e H. Quaritsch (a cura di), Zur geisteswissenschaftlichen Bedeutung Arnold Gehlens, Berlin, Lang, 1994, pp. 569-597. Cfr. A. Gehlen, Das Problem des Menschen. Resultate der philosophischen Anthropologie, in L. Samson, cit., pp. 594-597.

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Samson le studia in prospettiva di un completo rovesciamento della credenza, alimentata per un certo periodo dallo stesso Gehlen10, secondo cui L’uomo non avrebbe contemplato l’antropologia filosofica di Scheler come uno dei suoi presupposti fondamentali e si sarebbe rivolto a essa più che altro per criticarla11. A parere di Samson, invece, che qui si esprime in modo piuttosto iperbolico, senza quel confronto, Gehlen non avrebbe neanche potuto scrivere il suo capolavoro12. Egli non si sarebbe, infatti, limitato a desumere da Scheler “singoli risultati”, come l’apertura al mondo, o la tesi di una carenza istintuale umana13, ma si sarebbe confrontato in profondità con «la sua concezione dell’antropologia e con il suo schema antropologico fondamentale di spirito e impulso»14, modificandolo in due direzioni, entrambe dipendenti dalla critica alla metafisica. L’azione prenderebbe il posto dello spirito e l’approccio ancora metafisico sarebbe sostituito da uno biologico, in cui l’azione verrebbe dedotta dalla manchevolezza delle condizioni biologiche di partenza dell’agente. La stessa categoria di apertura al mondo, con cui entrambi interpreterebbero l’essere umano, verrebbe modificata da Gehlen (in senso sia formale, sia sostanziale) mediante un ricorso alla categoria dell’azione15.

10 11

12 13

14 15

Le omissioni inizierebbero già nel 1936, quando Gehlen non nominerebbe Scheler, pur seguendo, nella lezione del 13 Febbraio, La posizione dell’uomo nel cosmo praticamente «alla lettera» (ibidem, p. 572). V. perciò A. Gehlen, M (17-29; 47-58), in particolare (17; 47), (19; 49) e (20; 50), dove il testo di Scheler appare più che altro come espressione di una visione equivoca inglobante «pregiudizi», da separare dalla propria e da superare. Un’inversione di tendenza sarebbe avviata, secondo Samson, nel 1957, quando Gehlen scrive che La posizione dell’uomo nel cosmo ha «fatto epoca» nell’antropologia filosofica (A. Gehlen, GPA 152; 194. La stessa opinione è ribadita in BM, 166; 208, e, con altra immagine, ma eguale significato, in AM, 206; 250-251), e culminerebbe nelle lapidarie affermazioni fatte un anno prima della morte in A. Gehlen, RAS (247; 297 e 258; 309). Cfr. L. Samson, cit., p. 569 e p. 592. V. perciò A. Gehlen, Das Problem des Menschen. Resultate der philosophischen Anthropologie, cit., pp. 594-597. Sulla falsariga dello schema graduale scheleriano, Gehlen va in cerca di ciò che è propriamente umano, delineandone un’immagine che rimarca il suo essere relativamente non specializzato e povero di istinti. Componendo in un unico testo tutte le sue considerazioni, viene fuori che «l’uomo ha un minimo di istinti. È un essere relativamente non specializzato […], indifferente rispetto all’ambiente proprio perché ha così poco istinti […]. È sollevato [herausgehoben] dai vincoli specifici [Artgebundenheit]. Le pulsioni sono già in una certa misura variabili rispetto a un ambiente specializzato [spezialisiert]». Egli possiede, come rilevato da Scheler, un’intelligenza pratica, ma anche e soprattutto un’intelligenza teorica, consistente nella capacità di riguardare se stesso e l’oggetto anche in sé, ovvero, ancora una volta, indipendentemente dall’istinto. «Agli uomini le cose interessano come cose, come oggetto [Objekt], non solo come oggetto di pulsione [Triebsgegenstand]». Proprio in rapporto a questa che Scheler considerava prerogativa dello spirito, fa una prima comparsa il linguaggio: «l’intelligenza umana cosalizza, nomina le cose, è legata al linguaggio. […]. Questa oggettività [Gegenständlichkeit] è il tipicamente umano». L. Samson, cit., p. 592. Su quest’ultimo punto, ibidem, pp. 592-593.

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Una verifica di tali indicazioni si può fare con la prima, compendiosa esposizione della nuova impostazione del problema antropologico, fornita nella forma di una dottrina dell’esperienza già pochi mesi dopo la conclusione del semestre invernale del 1935-1936, nel saggio Vom Wesen der Erfahrung. Precisando ulteriormente le critiche di intellettualismo a idealismo e realismo, Gehlen sostiene che sia Kant, sia l’empirismo e il razionalismo moderni, basandosi tutti sul primato della coscienza, avrebbero concepito l’esperienza come una forma di sapere16, ovvero in funzione della conoscenza. Come suggerito, invece, da Aristotele17, la conoscenza costituirebbe solo un momento dell’esperienza, la quale andrebbe piuttosto compresa come azione: «da ciò risulterebbe che le nostre percezioni non devono affatto creare la base per un sapere teorico che ruoti intorno all’esser-così delle cose e che in generale il percepire non ha affatto un significato autonomo»18. Compiendo a questo punto un passo decisivo verso l’antropobiologia, Gehlen spiega questo carattere dell’esperienza umana con la peculiare carenza di adattamenti organici e istintuali all’‘ambiente’, che, esponendo l’uomo a un’inaudita profusione di stimoli e all’inondazione di imprevedibili possibilità, gli impongono da sempre di fare a esse fronte19. Proprio nella misura in cui consente a tutti i livelli di determinare e dominare il mondo al quale siamo aperti, la struttura eminentemente esonerativa dell’azione, colta in modo abbastanza chiaro già in questo testo20, sarebbe una conseguenza della costituzione biologica della specie ovvero, come si legge ne L’uomo, di quel “progetto della natura” che è l’essere umano. Con quest’immagine, Gehlen definisce l’uomo nel duplice e apparentemente paradossale senso di un tentativo operato dalla vita e di una struttura sistematica e integrata. Il primo aspetto rimanda all’eccezionalità dell’umano come vivente, ovvero alla sua carenza, e al rischio cui questa espone l’esistenza della specie; il secondo riguarda l’organicità del vivente, in conseguenza della quale ogni carattere biologico presuppone gli altri e nessuno può essere assunto come la ‘causa’ dei rimanenti21. 16 17

V. perciò A. Gehlen, WE (4; 34). In Aristotele, Gehlen vede intuiti due aspetti salienti della propria teoria: l’esigenza di prescindere da una rigida contrapposizione di soma e psiche e l’accenno al fatto che l’azione mette capo all’acquisizione di conoscenze e abilità richiamabili in ogni momento per far ripartire la prestazione. Accennando qui al carattere «psico-fisicamente neutro» (A. Gehlen, WE, 6; 36) dell’azione, Gehlen si appropria di una formula scheleriana che utilizzerà presto contro il suo inventore. 18 A. Gehlen, WE (11; 41). Cfr. anche A. Gehlen, RS (35; 67). 19 V. perciò A. Gehlen, WE (12; 42). 20 V. in particolare il paragrafo su La funzione esonerante dei simboli dell’esperienza (A. Gehlen, WE, 14-16; 44-47), dove, accanto alle prime esperienze motorie e percettive, ricorre a titolo d’esempio anche il linguaggio. 21 V. perciò A. Gehlen, M (13; 44). Il rifiuto del modello causalista nelle indagini antropobiologiche è costante, e si rifletterà anche nella scelta dell’espressione ‘radici’ per indicare le sorgenti del linguaggio.

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Samson giudica in modo, forse, troppo severo le critiche de L’uomo a Scheler, dal momento che Gehlen fu sempre coerente nel denunciare l’ambiguità e le ricadute metafisiche del concetto di spirito, incluso il mancato superamento del tradizionale dualismo con il corpo, per uscire dal quale egli introdurrà la categoria dell’azione22. Lo stesso “rifiuto dello schema graduale”, che ne L’uomo compendia la maggior parte dei riferimenti critici a Scheler, è, del resto, un passaggio davvero fondativo per l’antropobiologia, se è vero che il “risultato più soddisfacente” di quel metodo consistette, per Scheler, nel mostrare la “necessità intrinseca” per l’uomo di pensarsi in rapporto al divino e alla trascendenza23. A ciò si aggiunga che, abbandonando precocemente il terreno storico per sviluppare teoricamente il confronto tra i due filosofi, Samson non pone in risalto il valore anti-scheleriano del saggio su Schopenhauer del 1938 e, in particolare, la rilevanza della tematica del linguaggio nelle critiche a entrambi. Quest’ultimo punto merita subito una dilucidazione. L’assenza ne La posizione dell’uomo nel cosmo di una teoria del linguaggio nelle affermazioni sulla vita pulsionale e sui problemi dello spirito avrebbe confermato Scheler nella propria dottrina dell’eccentricità e opposizione dello spirito al mondo e alla vita, impedendogli di cogliere a livello del corpo, ovvero nella condizione biologica dell’uomo, il sorgere e il costituirsi di tutte le prestazioni e comportamenti propriamente umani24. Questa lacuna, intesa come eredità di un pensiero che muove idealisticamente dalle funzioni superiori25, non viene chiamata in causa da Gehlen negli anni trenta, sebbene in quel periodo egli lavori a colmarla, ma viene menzionata solo in testi tardi, retrospettivi e, per lo più, d’occasione, volti a delineare sommariamente una storia dell’antropologia filosofica. Scrive, in particolare, Gehlen nel 1968: le prestazioni eccedenti della coscienza, che non è limitata a ciò che è biologicamente utile, venivano introdotte già da Scheler con l’‘apertura al mondo’, ma questi non aveva fornito nessuna teoria del linguaggio26.

22 23 24

25 26

Su questo intreccio, cfr. A. Gehlen, M (20; 49) e, per quanto attiene i saggi successivi, GPA (153-155; 195-197), BM (167; 209), AM (207-208; 251-252 e 210; 254). Cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), in Id. La posizione dell’uomo nel cosmo e altri saggi, a cura di Rosa Padellaro, Milano, Fabbri 1970, p. 220. Ibidem, p. 181: «la caratteristica fondamentale di un essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica [il corsivo è mio] consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico [corsivo nell’originale] […], nella capacità che […] il centro della sua esistenza ha di svincolarsi […] dalla pressione, dal legame […] con la ‘vita’ e con quanto essa abbraccia», in Scheler anche l’intelletto e la psiche. «È possibile – si chiede, infatti, Gehlen – che ci sia qui un’influenza di Kant o dell’idealismo tedesco in generale, quando si rifletteva nel linguaggio ma non sul linguaggio?» (A. Gehlen, RAS, 254; 305). A. Gehlen, (AM 211; 255).

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La stessa opinione ricorre tre anni più tardi in Antropologia filosofica, dove, dopo aver considerato la Weltoffenheit in rapporto al dittico di spirito e anima, Gehlen conclude: «il trascurare l’essenza e il significato del linguaggio da parte di Scheler era cosa destinata a sorprendere»27. Nel saggio del 1975, infine, espressamente dedicato a Scheler, egli ribadisce un ultima volta questo convincimento, notando che, proprio […] a proposito del tema dell’autocoscienza emerge una singolare deficienza che avrebbe potuto essere accennata anche […] a proposito del tema ‘apertura al mondo’: manca del tutto una teoria sul linguaggio28.

La conseguenza è che rimaneva in ombra la natura e la portata dei meccanismi di esonero (tra cui eminente il linguaggio), i quali, rendendo possibile l’azione fin dalle esperienze più elementari, permettono di arginare e dominare il profluvio di stimoli e impressioni conseguente a quella costitutiva ‘apertura’29, ponendo con ciò le premesse sia per la strutturazione della vita pulsionale e di un mondo disponibile alla nostra azione, sia per la genesi dei comportamenti teorici e oggettivanti. «Il linguaggio», ricorda, infatti, Gehlen, «può essere […] concepito come un meccanismo per venire a capo di masse di eccitazioni, siano esse praticamente accessibili oppure no»30. Una tale condizione si spiega con la potenza della sua capacità esonerativa, che libera a un livello più elevato e compiuto dal vincolo alla percezione immediata dell’oggetto e dalla pressione immediata del bisogno e dello stimolo, rendendo disponibile, come motivi e appigli dell’azione, in ogni momento e con il minimo sforzo, l’insieme dell’esperienza del mondo. Tale proprietà fa il paio con l’altra, cui si allude nel passo successivo, per cui la sua origine e la sua espansione si impiantano su processi senso-motori di maneggio con le cose, i cui esiti esonerativi il linguaggio è in grado di assumere e trasporre. In tal modo, una parte essenziale della dottrina del linguaggio elaborata nella seconda metà degli anni trenta e rifluita nella seconda parte de L’uomo, veniva richiamata tutto d’un colpo: il linguaggio – prosegue, infatti, Gehlen – è […] come un sistema di azioni secondarie che abbisognano di un minimo di energia, nel quale, provando e variando, vengono dislocati, separati e riuniti, non le cose stesse ma dei loro evanescenti rapporti.

Lo stesso atteggiamento teorico e le prestazioni spirituali dell’uomo ne sarebbe segnati: «è – infatti – importante che il linguaggio conduca all’azione anche nelle sue sintesi più astratte»31. 27 28 29 30 31

A. Gehlen, (PA, 238; 287). A. Gehlen, RAS (254; 305). V. in tal senso la conclusione della sezione sui simboli in A. Gehlen (WE 15; 45). Gehlen, AM (211; 255). Ibidem.

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1b. I risultati di Schopenhauer e la problematica antropologica Nel 1938, pubblicando I risultati di Schopenhauer, Gehlen rileverà in certi esiti del principio schopenhaueriano di secondarietà del conoscere rispetto al volere altrettante anticipazioni di punti essenziali della propria teoria dell’azione e, con ciò, un’impostazione del problema antropologico non più focalizzato sul primato idealistico della coscienza32. I ‘risultati’, ossia le verità scoperte e consegnate una volta per tutte da Schopenhauer alla tradizione filosofica, ricomprenderebbero la coscienza in funzione dell’azione, comportando su questo piano una demolizione del dualismo di corpo e spirito33. Essi possono essere riassunti così: Schopenhauer avrebbe posto alla base della coscienza la reale azione del corpo e, seguendo questo pensiero sul terreno dell’anatomia comparata, avrebbe colto con grande chiarezza la differenza tra natura umana e animale, attribuendo a quest’ultima una perfetta corrispondenza e una mirabile adeguatezza anatomica e fisiologica all’ambiente, per quanto riguarda sia i mezzi di sostentamento, sia le condizioni di vita. L’uomo ne sarebbe, invece, privo34 e sarebbe caratterizzato dalla condizione opposta, di svincolamento dall’ambiente e dal presente, e di aggancio a uno spazio infinito e a un tempo articolabile e dominabile nelle sue diverse dimensioni. 32

33 34

Schopenhauer avrebbe inaugurato l’era «più moderna», immediatamente successiva a quella iniziata con Cartesio e che, passando attraverso la speculare opposizione di razionalismo ed empirismo, era terminata con Hegel (A. Gehlen, RS, 27; 59 e 31; 63). In tal senso, l’età moderna andrebbe da una forma di idealismo che, sulla base del cogito, fissa un dualismo mente-corpo a quella che tenta di affermare l’istanza monistica, anche se ancora sulla base di un principio di ordine coscienziale, superiore e precedente al corpo, che si incarnerebbe successivamente e gradualmente nella realtà. L’opinione, già espressa dal saggio del 1936, secondo cui l’empirismo aveva «come presupposto comune con il suo opposto, il razionalismo, il fatto di prendere le mosse dalla coscienza» (A. Gehlen, RS, 31; 63), viene mantenuta. Essa, però, viene affiancata dal convincimento sempre più radicale che l’idealismo interpreta e sviluppa nella maniera più potente e compiuta tale principio. A. Gehlen, RS (36; 69). Ne La volontà della natura, i caratteri della sprovvedutezza biologica della specie ricordano da vicino la descrizione dell’essere carente su cui Gehlen lavorava allora: si accenna al nesso tra deficienze organiche ed eccesso pulsionale, a quella che in seguito si sarebbe definita la ‘primavera extrauterina’ e l’importante considerazione, adombrata nell’ancoraggio delle prestazioni intellettuali a quelle razionali, per cui l’uomo sopravvive grazie al supporto di processi astrattivi, cioè, per Gehlen, esonerativi. Proprie alla specie umana, sarebbero, infatti, la moltiplicazione all’infinito dei bisogni, la debolezza relativa della forza muscolare e della capacità di fuga, «la completa mancanza di armi naturali e di rivestimenti naturali», la lentezza della riproduzione, la lunghezza della vita e la «lunga fanciullezza». «Tutte queste importanti esigenze – conclude Schopenhauer – dovevano essere protette dalle forze intellettive» (A. Schopenhauer, La volontà della natura (1836), Roma, Laterza, 1989, pp. 90-91), benché «nell’uomo l’intelletto si erga nella sua superiorità su quello degli altri esseri, sostenuto come è dal sopraggiungere della ragione» (ibidem, p. 90). Ciò non toglie, ovviamente, che vi siano delle distanze incolmabili tra i due filosofi, che coincidono significativamente con quelle che avevano precedentemente marcato l’insoddisfazione per Scheler: l’adozione di uno schema graduale e, in generale, il travisamento metafisico (in questo caso, tramite la ‘volontà’) del nesso di carenza e azione.

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Tale peculiarità si spiegherebbe con il possesso della ragione, ovvero di rappresentazioni astratte35, di cui il linguaggio sarebbe il “primo prodotto” e, al contempo, il principale “strumento”36. L’uomo ha, infatti, in comune con l’animale le sole rappresentazioni intuitive, dette anche concrete, che mantengono in un rapporto diretto con la realtà percepita e fungono da motivi immediati dell’azione di conservazione dell’individuo e della specie. Le rappresentazioni astratte, invece, esclusivamente umane, libererebbero quelle intuitive dal vincolo del qui e dell’ora o, come anche si esprime Schopenhauer, dal «puro impulso provocato da oggetti concreti e occasionali»37. In tal modo, definirebbero una classe affatto nuova di motivazioni, cui si allaccia una dimensione autonoma dell’agire, in cui è possibile progettare e applicare l’azione indipendentemente dal bisogno o dalla percezione del momento. La libertà del volere perde con ciò il suo connotato di facoltà originaria per essere presentata come derivata e scaturita dal processo dell’azione. E non diversamente, la ragione, e con essa il pensiero e la coscienza, adottate dalla tradizione intellettualistica come facoltà votate alla conoscenza, appaiono come strumenti dell’azione, ovvero, per usare la formula schopenhaueriana tanto cara a Gehlen, come un “medium dei motivi”38. La stessa riflessività sarebbe una conseguenza delle rappresentazioni astratte, nel senso che il “rientrare in se stesso” da parte dell’uomo, andrebbe inteso come capacità di astrazione dal qui e dall’ora. In tal senso, l’animale sarebbe irriflessivo, ovvero completa estroversione, e non gli apparterrebbe quello iato tra interno ed esterno, che contraddistingue la natura umana al duplice livello della soddisfazione pulsionale e dell’attività intellettuale. Tali risultati, che pure andavano in direzione opposta a Scheler, rimanevano al di qua di una compiuta concezione antropobiologica per via di due limiti già rimproverati all’autore de La posizione dell’uomo nel cosmo. E se qui Schopenhauer sembra essere giudicato con più indulgenza, ciò non avviene per la volontà di oscurare i debiti teorici con Scheler, quanto piuttosto per il riconoscimento a Schopenhauer dell’attenuante storica di essersi formato nell’epoca in cui l’idealismo trascendentale era riguardato come una svolta epocale nella storia del pensiero occidentale. Il primo limite è la persistenza, a tutti i livelli della ricerca, di un principio metafisico: l’azione del corpo, trasferita a livello di coscienza dalle rappresentazioni astratte, veniva spiegata da ultimo non come indotta dalla carenza organica e istintuale della specie, ma come ef35 36 37

38

A. Gehlen, RS (35; 67). A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), Roma, Laterza, 1984, p. 73. A. Schopenhauer, Quadruplice radice (18131), Torino, Bollati Boringhieri, 1959, §26, p. 159. Sulla funzione esonerante delle rappresentazioni astratte, è suggestivo un brano a p. 161. In generale, le riflessioni di Schopenhauer su questo argomento presuppongono le discussioni sull’astrazione svoltesi tra sei e settecento. La formulazione più chiara e compiuta dell’adozione di questo principio in Gehlen è in M (216; 222).

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fetto di una forza al di là della natura, del corpo e del mondo. In tal modo, si perdeva di vista la necessità vitale dell’agire per l’uomo. Il secondo è l’assenza, nuovamente imputabile all’intellettualismo idealistico (stavolta, kantiano), di una teoria del linguaggio. Schopenhauer, pur constatando la forza esonerante e il nesso del linguaggio con le azioni di ordine più elevato, aveva perpetuato la fatale incomprensione della filosofia trascendentale per il problema dell’origine delle facoltà conoscitive, limitandosi a concepire il linguaggio a partire da funzioni superiori come la ragione o l’astrazione. Ciò che ha impedito a Schopenhauer una concezione più profonda delle prestazioni del linguaggio – scrive, infatti, Gehlen – è stato ancora l’apriorismo kantiano, il quale fa del tutto a meno di una filosofia del linguaggio e ben commette così il suo più grande errore39.

La conseguenza è che non emergeva l’analogia strutturale del linguaggio con i processi elementari di padroneggiamento dell’apertura al mondo, il radicamento in essi del linguaggio e il nesso tra la sua azione in questo ambito e la sua assunzione della guida delle azioni e delle funzioni di ordine più elevato40. 2. La teoria del linguaggio Il luogo teorico e sistematico in cui neutralizzare questi limiti e colmare queste lacune è, dunque, una teoria del linguaggio, in cui il sorgere e lo stabilirsi di funzioni, capacità e comportamenti superiori (siano morali, intellettuali o spirituali) affondano nel contesto della problematica, spiegata antropobiologicamente, dell’apertura al mondo. Come, da un lato, infatti, il significato di quelle attività viene ricondotto all’azione biologicamente necessitata, dall’altro, esse vengono unificate in un’immagine organica e unitaria dell’essere umano. 2a. Il radicamento della teoria del linguaggio nell’antropobiologia La centralità di una siffatta teoria per l’antropobiologia fu messa acutamente in risalto già da Nicolai Hartmann. Nella recensione del 1941 a L’uomo41, egli la comprende come snodo fondamentale e banco di prova di tutta la problematica dell’essere carente, intuendo anche il nesso tra il carattere ‘empirico’ ed ‘elementare’ del discorso di Gehlen sull’uomo e la sua intenzione anti-metafisica e anti-dualistica. Egli scrive, infatti, che il procedimento effettivo dell’indagine [di Gehlen] non mira a rispondere a […] domande speculative. Esso rimane attaccato ai fenomeni; indifferente ai dualismi 39 40 41

A. Gehlen, RS (36; 68). Ibidem. La si legga in N. Hartmann, Kleinere Schriften, vol. 3, Berlin, De Gruyter, 1958, pp. 378-393.

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tradizionali, attende alla questione: come soccorre se stesso l’essere umano povero di istinti e come perviene alla sua sorprendente superiorità sul mondo circostante? E qui, al di qua di ogni interpretazione metafisica, sta il pensiero capitale di inquadrare fin nelle sue sublimi conseguenze il grande enigmatico fenomeno del linguaggio nel contesto delle prestazioni di cui un essere siffatto ha bisogno per la propria esistenza42.

La prima esposizione di questo pensiero, a tratti brachilogica, è in un breve annuncio di poco successivo al saggio su Schopenhauer e in seguito rifluito nell’opera maggiore. Due luoghi delle sue conclusioni attestano in che misura Gehlen avesse allora in vista la lacuna appena ravvisata nel pensiero del suo illustre predecessore. Nel primo, dopo aver individuato una specifica intenzionalità umana, che si contraddistinguerebbe da quella animale per l’auto-attività, l’illimitatezza della sfera di azione e una superiore capacità simbolica, e dopo aver posto al suo centro la vita del suono e l’esuberanza del suo carattere comunicativo, Gehlen enuncia tre “fatti significativi” che discendono da e caratterizzano questa struttura originaria peculiarmente umana del linguaggio. Uno di essi ricomprende l’intuizione schopenhaueriana, secondo cui l’uomo si distingue dall’animale, dominando, grazie alle rappresentazioni astratte, passato, futuro e presente. Dal momento che tutti i suoni sono disponibili e riproducibili a piacere, l’intenzione che scorre in questi simboli è indipendente dal reale esser-presente delle cose o delle situazioni presunte in questi simboli.

Ci si può, pertanto, indirizzare a ciò che non è presente, [e] ‘per questo tramite si ottiene, in pensieri, una visione panoramica del passato e del futuro, come anche dell’assente’ (Schopenhauer)43.

L’altro luogo è posto proprio a coronamento del testo, ed è una cripto-citazione da Schopenhauer, il quale, come Gehlen riaffermerà alla luce della propria dottrina, aveva già osservato che, nel linguaggio, «si integra ogni accordo tra uomini nell’indirizzarsi verso un’attività comune, mondo comune e futuro comune»44. Tornando ora all’inizio di questo annuncio, Gehlen vi suggerisce di affrontare il problema – “considerato quasi insolubile” – dell’origine del linguaggio dal punto di vista delle “prestazioni percettive e motorie infantili”, in una prospettiva che potremmo definire, in prima istanza, di psicologia cognitiva infantile. La considerazione successiva rivela, però, come, fin dall’inizio, egli si riprometta di inquadrare antropologicamente il linguaggio: se si accoglie, 42 43 44

Ibidem, pp. 383-384. A. Gehlen, PS (293). Ibidem. Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 73.

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infatti, la sua proposta, il linguaggio «appare allora come inserito in una struttura di prestazioni specificatamente umana»45. In effetti, il cucciolo d’uomo mostra una duplice caratteristica, non riscontrabile nell’animale: l’apertura agli stimoli e l’incompiutezza dell’apparato motorio. Le due prerogative, cui corrispondono una straordinaria e vitale plasticità di pulsioni e movimenti46, gli pongono due compiti essenziali alla sopravvivenza: il dominio della quantità di impressioni che, in conseguenza di quell’apertura, lo sommergono, e lo sviluppo e completamento dell’apparato motorio. Tali obblighi, al pari dei mezzi per adempierli, scaturiscono dalla non-specializzazione dell’uomo e dalla conseguente, vitale necessità di modificare la natura, conoscendola e ricreandola attivamente. L’infante vi fa fronte congiuntamente con delle prestazioni senso-motorie di appropriazione e padroneggiamento delle proprie attività e del mondo, che hanno le loro premesse nella struttura anatomica, fisiologica e pulsionale della specie. Gehlen può dunque osservare, in polemica con Scheler, che l’uomo produce cultura47 in ragione della propria peculiare biologia e che, in particolare, “l’apertura al mondo dell’uomo è […] un fatto biologico”48, né più e né meno come l’ambiente per l’animale. Quest’ultimo accostamento è coerente con il metodo antropobiologico, e non deve trarre in inganno: Gehlen ritiene, infatti, che, se un modo di considerazione può chiamarsi biologico, non può trattarsi che di questo; vagliare un essere alla luce della questione dei mezzi con i quali esso precipuamente esiste49.

Gli animali hanno a questo scopo l’istinto, l’uomo l’azione: la prima comporta un ‘ambiente’, la seconda un ‘mondo’. Pur con esiti del tutto divergenti, entrambe le strategie discendono dalla biologia del vivente, ovvero dalla 45 46 47

48

49

A. Gehlen, PS (291). Il valore vitale di plasticità pulsionale e motoria si spiega con il vantaggio che offrono all’azione in termini di versatilità e ‘capacità di adattamento’, come attestato in A. Gehlen, M (58 e 151; 82 e 165). A. Gehlen, PS (292): «La natura ricreata [umgeschaffene] senza eccezioni, conoscendo e attivamente, dall’uomo, si chiama seconda natura o cultura, e corrisponde nell’uomo all’ambiente degli animali. Solo in essa, è capace di vivere un essere biologicamente costituito a questa maniera». Ibidem: «entrambe queste serie di compiti non sono contingenti, ma conseguono dalla destinazione dell’uomo all’azione». Gehlen spiega questo assunto, ricorrendo al confronto tra la struttura biologica dell’animale e dell’uomo: «vista biologicamente, la posizione peculiare dell’uomo sta nella sua non-specializzazione. Mentre tutti gli animali, essendo organicamente specializzati, sono adattati a un ambiente proprio alla specie, l’uomo è contraddistinto dalla carenza di specializzazioni organiche (da ‘primitivismi’), dalla mancanza biologica di mezzi. Proprio per questo egli non ha ambiente, perché ‘ambiente’ si chiamano le porzioni di mondo accessibili a un organismo specializzato; l’apertura al mondo dell’uomo è dunque un fatto biologico». A. Gehlen, M (13; 43).

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sua morfologia e fisiologia, come attesta, per esempio, la teoria del gioco. Come, nell’animale, esprime la struttura istintuale in fase giovanile, così, nell’uomo, il gioco è l’attività in cui si manifesta e si esperisce la peculiarità della vita pulsionale umana, ovvero la sua instabilità e plasticità50. Gehlen distingue, del resto, in modo accurato i due concetti, attribuendo solo all’apertura al mondo valenza antropologica: «il concetto di ambiente di Uexküll (mondo percepito) non è un concetto antropologico (apertura dell’uomo al mondo)»51. Si anticipa così una critica de L’uomo a von Uexküll, il quale, adottando per effetto di un pregiudizio idealistico il concetto di ‘soggetto’ in rapporto a tutti i viventi, aveva preso a classificare i tipi umani in base alla coppia categoriale di ‘mondo percepito’ e ‘mondo effettuale’52. Gehlen replica che tale trasferimento comporterebbe uno svuotamento di senso della nozione di ‘ambiente’ e un occultamento della specificità delle prestazioni umane53. Se, da un lato, infatti, si può concepire le realtà designate come ‘ambiente’ e come ‘mondo’ alla stregua, per così dire, di sistemi collaudati di connotazioni connesse a comportamenti, dall’altro, solo l’uomo, in conseguenza della propria non specializzazione, produce tale realtà con la propria auto-attività, in un lungo arco di tempo, senza essere costretto all’appagamento dei propri appetiti, e in modo tale da rendersela alfine altamente disponibile e prevedibile. L’animale, in virtù del proprio corredo istintuale, opera, invece, invariabilmente in funzione del soddisfacimento di potenti impulsi, reagendo a segnali e stimoli secondo schemi comportamentali predefiniti a livello naturale54. Un esame di questa struttura dell’esperienza umana esige il richiamo di alcune analisi de L’uomo. Nei primi dieci mesi di vita dell’essere umano55, un’i50 51 52 53 54

55

A. Gehlen, M (240-242; 243-244). A. Gehlen, PS (292). V. perciò A. Gehlen, M (85-87; 106-108). Ciò mostra come l’antropobiologia sviluppi il proprio orientamento anti-idealistico rispetto sia ai discorsi filosofici sull’uomo, sia al pensiero biologico e alla psicologia animale del proprio tempo. A. Gehlen, M (86-87; 107-108). A. Gehlen, PS (293): sebbene «la struttura percettiva di tutti gli esseri viventi è simbolica (mondo percepito) – nell’uomo, questa simbolica viene arricchita mediante l’auto-attività, una sfera sconfinatamene aperta viene fatta propria mediante attività di maneggio e resa simbolicamente disponibile». In precedenza, aveva anche osservato che «il cucciolo d’uomo è in grado elevato aperto agli stimoli [reizoffen], cioè il mondo percettivo dell’uomo non è, come quello animale, ristretto a contenuti specifici della specie [artspezifisch] e importanti a livello pulsionale [triebwichtig]» (A. Gehlen, PS, 292). Un risvolto di questa argomentazione è l’inciso in cui Gehlen distingue tra l’«indifferenza» degli animali per tutto ciò che non rientra nel mondo subiettivo della loro specie e, dunque, per tutto ciò che non rientra nella soddisfazione dei loro impulsi, e l’«indifferenza» dell’uomo per ciò che lo circonda. La prima è determinata dalla struttura istintuale e organica animale, mentre la seconda è acquisita, proprio in ragione della corrispondente carenza nell’uomo, attraverso l’azione e, soprattutto, la sua prosecuzione a livello linguistico (cfr. A. Gehlen, M 178-179; 190). Il corrispondente quadro biologico è quell’aspetto particolare della non specializzazione

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niziale e prevalente reazione di disturbo e avversione agli stimoli lascia il posto a una progressiva e sempre più ampia “assuefazione” e, con ciò, a una neutralizzazione degli stimoli stessi, finché il piccolo comincia a farsi attivo. L’esemplificazione più chiara – e teoricamente più densa – dei tratti basilari della fase che ora si annuncia, è data dal caso, studiato da Martha Guernsey, di un bimbo di undici mesi che, battuta fortuitamente la testa, dopo aver strillato per alcuni minuti, ripeté meticolosamente il gesto che gli aveva provocato dolore. Gehlen non si accontenta della constatazione che si tratti d’auto-imitazione, né tanto meno condivide la tesi che, facendo del comportamento del bambino l’effetto di un mero piacere motorio, lo equiparerebbe agli scimpanzé di Köhler56. La reiterazione – biologicamente insensata e non predeterminata – di un gesto imprevisto e percepito come doloroso si spiega da ultimo solo se iscritta nella problematica dell’apertura al mondo, e avendo in vista le peculiarità anatomiche e fisiologiche con cui la si affronta. Il movimento con cui il bambino batte il capo gli restituisce, infatti, non solo una sensazione dolorosa, ma anche la duplice, stimolante scoperta di un’inedita possibilità motoria e di una sconosciuta porzione di mondo, con cui quel movimento lo ha messo in comunicazione57. Ripetendolo, e assumendo via via in esso i suoi esiti, il bambino potrà, dunque, acquisire lentamente dimestichezza con entrambe, arricchirle di continuo di nuovi dati e pervenire alfine a impadronirsene e a esonerarle. In prestazioni senso-motorie, egli completa così il proprio apparato motorio e si orienta nel mondo, rendendoselo noto e disponibile58. Gehlen parla a questo proposito di processi e movimenti “circolari” e “comunicativi”, intendendo con ciò che il movimento, da un lato, trova in se stesso lo stimolo alla propria prosecuzione e, dall’altro, comporta sempre un rivolgersi alla cosa in esso coinvolta59. I sistemi che li producono sono quello tattile della mano e quello linguistico di produzione e percezione del suono, i quali dimostrano in ciò un’affinità, che va ben oltre la pur notevole differenza sussistente nel rapporto che ciascuno di essi instaura con lo spazio. Se, da un lato, infatti, la percezione tattile è limitata all’estensione del corpo, mentre

56 57

58

59

definito da Portmann come «primavera extra-uterina», ovvero la venuta al mondo dell’uomo prima del compimento del processo di sviluppo delle sue prerogative di specie (su cui si veda A. Gehlen, M 44-46; 71-73). V. perciò A. Gehlen, M (155; 169). «L’impedimento produce la sensazione, in questo caso del dolore; ma in ciò si disvela un rapporto con la cosa, che viene subito vivacemente colto e proseguito, in questo caso: ripetuto. L’impedimento di un movimento lo rende cosciente solo in senso passivo, il mondo ivi colto lo rende […] comunicativo e impegnabile» (M 154-155; 168). M (165; 177-178): «ci si soffermi a osservare come i bambini manipolano gli oggetti, come di continuo entrano in rapporto con le qualità delle cose che si immettono nella comunicazione con loro, così che il processo della messa a nudo di tali proprietà oggettive è inseparabile da quello dell’intensificazione della propria prestazione, dall’autoestraniazione delle capacità, la quale è al tempo stesso, di tali capacità, l’appropriazione». M (179; 190).

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quella acustica oltrepassa agevolmente tale confine, dall’altro, il “fatto fondamentale” del sistema fonetico-uditivo è indicato da Gehlen nel duplice darsi [doppelte Gegebenheit] del suono, che è tanto attuazione motoria dell’organo della fonazione quanto suono restituito, udito da chi lo emette (…). Qui la capacità di una “propria attività estraniata” è di una evidenza che ha la sua replica soltanto nel sistema tattile della mano60.

La strutturazione del mondo risulta dalla collaborazione di questi due sistemi e dalla loro integrazione con le prestazioni di un altro organo di senso altamente esonerante quale la vista, che permette di condensare e rendere disponibile in una visione panoramica del campo di esperienza i dati congiunti del sistema occhio-mano-udito. I movimenti circolari e comunicativi hanno, tuttavia, eguale incidenza sul padroneggiamento del versante interno, non solo esterno, dell’apertura al mondo. Nella misura in cui, infatti, si auto-avvertono e si auto-alimentano, concentrandosi per così dire in se stessi, prendono a svolgersi indipendentemente da bisogni, impulsi e condizioni di partenza. In tal modo, essi aprono uno iato tra azione e pulsione, che, permettendo il controllo dell’eccesso pulsionale, getta le basi della vita psichica. Uno dei luoghi in cui Gehlen esprime nella forma più concisa questo passaggio, destinato a essere sviluppato sul versante morale e istituzionale nella terza parte de L’uomo, è il seguente. Il sistema costituito dalla mano, dall’occhio e dal linguaggio si affranca dai “bisogni organici elementari” nella misura in cui trova ampiamente in se medesimo materia, motivo, attività, adempimento e perfezionamento; e tale fatto è di importanza fondamentale per la struttura e lo sviluppo della vita pulsionale umana, anzi per l’intero problema del ‘mondo interiore’61.

2b. La resa dei conti con le filosofie della coscienza e dello spirito nella teoria antropobiologica dell’origine del linguaggio Il linguaggio sorge nella cerchia di tali prestazioni circolari e comunicative come una loro parte e in connessione con esse, assumendovi una decisiva preminenza grazie alla capacità, offerta dalla natura del suono e del movimento di fonazione, di condurre queste stesse azioni vitali esoneranti in modo più potente, completo e profondo. Come, infatti, il movimento del suono è l’espressione più perfetta e rilevante della stessa comunicatività e circolarità dei movimenti umani, così il suono ha la capacità esonerante più elevata. Fra le straordinarie prerogative del movimento del suono, vi sono quelle di poter 60 61

M (154; 167). M (174; 185).

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essere prodotto e riprodotto in grande quantità, a proprio piacimento e con un minimo dispendio di energie, di sfociare in “univoche esperienze di successo”, ovvero di riscontri positivi e oggettivi della propria attività, di poter assumere e richiamare in ogni momento qualunque percezione, vicina o lontana, e qualunque movimento o situazione del mondo esperito, di interiorizzare quanto viene dall’esterno e di esteriorizzarlo come proprio, di includere in un nesso fecondo e diretto la manifestazione e soddisfazione dei propri bisogni. Gehlen astrae a questo proposito cinque “radici” o “sorgenti” senso-motorie del linguaggio, corrispondenti ad altrettante manifestazioni o “direzioni” in cui si esprime e si sviluppa la plastica capacità fonatoria del fanciullo. La loro successione non rispecchia affatto un ordine ontologico o a una rigorosa serie causale o temporale, ma per lo più una scelta di esposizione del materiale, non esente da qualche incertezza teorica. Prova ne sia l’incongruenza tra il posto che ricoprono alcune radici nei §§ 14, 19-21 e 24 de L’uomo e quello da esse occupato nello schema riassuntivo finale (§ 26): le prime due, ovvero la “vita del suono” e l’apertura espressiva, o “espressione sonora in risposta a impressioni visive”, rimangono al loro posto, mentre il “richiamo” e il “gesto sonoro” scalano rispetto al “riconoscere”, che, dopo essere apparso come terza, viene rubricato alla fine come quinta. La spiegazione, secondo cui Gehlen, riproducendo nel § 26 de L’uomo parte dell’annuncio del 1938, sarebbe incappato in una svista, non avvedendosi della discrepanza tra l’ordine allora adottato e quello in seguito privilegiato, cozza contro l’evidenza che avrebbe potuto benissimo rimediarvi in una delle numerose edizioni successive del proprio capolavoro. La difficoltà è resa, invece, più acuta dalla tesi iniziale del § 21, secondo cui la radice detta del riconoscere «nasce direttamente, e senza possibilità di distinguerla con nettezza»62 dall’apertura espressiva. Ciononostante, la teoria mantiene una sua coerenza e solidità, nella misura in cui poggia costantemente e in ogni suo punto sulle proprietà circolari e comunicative del movimento fonatorio e sulla plasticità della capacità umana di emissione e ricezione dei suoni nel contesto delle altre prestazioni senso-motorie del fanciullo. Non essendo possibile, in così poche pagine, ripercorrere in tutta la loro estensione la struttura delle singole radici63, si può quantomeno osservare, in prima approssimazione che la «vita del suono», corrispondente alla forma 62 63

M (228; 233). Per una loro piana esposizione, si rinvia a M.T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, Roma, Studium, 1990, pp. 115-123. Un recente tentativo di riprenderle teoricamente è in Jacques Poulain, De l’homme. Éléments d’anthropologie du langage, Paris, Cerf, 2001, in particolare pp. 80-91. In Italia, le opere di Poulain hanno trovato eco grazie ad Alberto Gualandi, il quale si propone, comunque, di svilupparle «a partire da analisi autonome e secondo modalità teoriche in parte originali» (A. Gualandi, La struttura comunicativa dell’esperienza umana, in «Discipline filosofiche», XII, 1, 2002, pp. 255-297, qui p. 256, cui ha fatto seguito La struttura proposizionale della verità umana», in «Discipline filosofiche», XIII, 1, 2003, pp. 123-159).

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più elementare di comunicatività del suono, prende in considerazione le più semplici emissioni sonore del fanciullo, come i cosiddetti soliloqui balbettanti. I suoni che il bambino trae da se stesso, “al tempo stesso li ode”64 ed è, perciò, stimolato a ripeterli: in tal modo, egli esercita la propria «sensibilità acustica […] e capacità di articolazione», svolgendo «una comunicazione meramente sensoriale […], che consiste nell’udire, ripetere, riudire e variare dei suoni propri e estranei»65. L’“apertura” chiarisce, invece, in un confronto più avanzato con l’atto della lallazione, il senso originario del fenomeno dell’espressione: esso consiste nel disinteressato auto-dischiudersi del fanciullo, tramite emissioni sonore, alla varietà di impressioni provenienti dall’esterno66. Il “riconoscere”, come indica la parola stessa, si incarica, a sua volta, di rendere perspicuo che il processo del riconoscimento sorge originariamente nel dialogo sonoro con l’oggetto dell’esperienza. Il “gesto sonoro” e il “richiamo”, infine, si riferiscono a due altre tipologie di comportamento infantile: quella per cui la conduzione di un’azione viene dapprima accompagnata e alla fine anticipata e richiamata tramite suoni sempre più univoci. E quella dei cosiddetti ‘strilli’ del bambino, con i quali «si produce una connessione tra bisogno, suono e adempimento» e una presa di coscienza dei bisogni e delle pulsioni, i quali, «a causa della sprovvedutezza infantile, soltanto nel suono possono acquisire l’efficacia per imporsi»67. Ciò che preme ora rilevare è il duplice e congiunto processo, sotteso alle elaboratissime analisi delle radici, di de-intellettualizzazione e di riconduzione delle presunte prerogative idealistiche e spiritualistiche della coscienza, dell’intelletto o dello spirito a fenomeni originari dei privilegiati processi senso-motori circolari e comunicativi del suono. Ciò vale sia per l’oggettività, espressamente associata da Scheler allo spirito, sia per l’intenzionalità, così cara alla fenomenologia, sia ancora per la consapevolezza, i comportamenti teorici, il pensiero. Gli stessi membri della coppia metafisica fondamentale del pensiero di Schopenhauer, vale a dire la volontà e la rappresentazione, sono riportati in un certo senso a questa dimensione. Gehlen mette costantemente in luce i tratti di pre-intellettualità, per esempio, quando avverte che la «vita del suono» è «ancora indeterminata [...], ancora esente dal pensiero»68, oppure quando pone l’accento sul fatto che il riconoscere consiste primariamente di una reazione motoria condotta a livello sonoro69. Proprio attraverso la teoria delle radici, egli opera, del resto, la 64 65 66 67 68 69

M (161; 173). M (161; 174). M (225-226; 230-231). M (280; 278). M (161; 173) V. perciò a titolo di esempio M (229; 234): «anche nell’uomo il riconoscere permane in linea di principio in tali tracciati motori. Però […] la reazione non è più […] dell’intero corpo, dacché essa compare (...) sotto la guida dei movimenti della fonazione».

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sconfessione delle filosofie che muovono dal primato della coscienza, per le quali ciò che costituisce e contraddistingue la natura umana sarebbero le funzioni intellettive, e non, invece, quelle senso-motorie, da cui si origina anche il linguaggio. «Ciascuna di tali radici nella sua struttura è [...] specificamente umana, il che tuttavia non significherà qui: intellettive». Esse non sono, infatti, «azioni propriamente intellettive, bensì azioni vitali senso-motorie, ognuna con una particolare prestazione e una forma inconfondibilmente umana»70. Quanto immediatamente segue suona come una esplicita messa in guardia dal riprodurre, come avviene in certa filosofia contemporanea, l’antica impostazione metafisica, semplicemente rovesciandola a tutto vantaggio del linguaggio. Decisivo per una teoria antropologica del linguaggio [...] è invece che né le comunicazioni né le prestazioni simboliche, né l’attività riflessa, auto-avvertita, e nemmeno le intenzioni, le prospettive, il mutamento delle prospettive – ovvero, l’insieme delle funzioni acquisite e prodotte per il padroneggiamento sensomotorio dell’apertura al mondo – appartengono soltanto al linguaggio; tutti questi, anzi, sono caratteri propri a tutte le prestazioni percettive e motorie specificamente umane71.

Conformemente a quest’approccio, è possibile rinvenire nell’esposizione gehleniana il programmatico e sistematico rifiuto della terminologia e della concettualità, con cui si allude a un soggetto razionale che interpreti o governi i processi di relazione originaria con il mondo. Così, per esempio, nei due luoghi in cui la teoria dei movimenti circolari e comunicativi si pone alla base, rispettivamente, dei fenomeni della volontà e della consapevolezza e dell’autocoscienza. A dispetto della sua lunghezza, ci pare imprescindibile porre l’attenzione almeno sul primo72: un movimento è volontario quando, sulla base di una esperienza di maneggio, di rapporto, cioè di comunicazione, contiene in sé la sua propria anticipazione legata a una attesa – ed è allora arricchito e, in misura ancor maggiore, ‘suscettibile’ e aperto a determinazioni ulteriori.

Già la vita del suono manifesta la capacità di avviare tale processo: quando articolo, odo e ripeto un suono, quando esso arrivo al mio orecchio senza sforzo pregresso e io lo riproduco […], deve nascere l’attesa […] di udire, ripetuto e restituito dall’esterno, un suono articolato73.

70 71 72 73

M (278; 277). M (278-279; 277). Su cui cfr. anche M (167-170; 179-182). Per il secondo luogo, ancora più stratificato ed esteso, si rimanda invece a M (152-153; 166). M (162; 174).

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La soddisfazione di tale aspettativa invita a un’intensificazione dell’attività fonetica e, di qui, alla sua specializzazione. Gehlen sa che si potrebbe descrivere il processo anche così: il bambino percepisce i suoi movimenti insieme con i loro esiti, ‘associa’ gli uni e gli altri e, poiché in futuro ha la ‘rappresentazione’ dell’esito conseguito nel compierli, la sua ‘volontà’ opera il movimento corrispondente74.

Con ciò, però, avremmo l’uomo già fatto, costituito in anticipo e quasi in contrapposizione a una realtà esterna alla propria interiorità; detto altrimenti, l’uomo scisso in corpo e spirito della tradizione intellettualistica. Già nella scelta terminologica [si] instaurerebbe immediatamente la contrapposizione tra ‘fisico’ e ‘psichico’. Noi invece, – dichiara Gehlen – con i termini ‘disporre’, ‘assumere’, ‘impegnare’, ‘autoavvertimento estraniato’, eccetera, abbiamo scelto concetti neutri rispetto alla distinzione tra fisico e psichico75.

Lo stesso atteggiamento teorico, cui Gehlen accenna, trattando del “riconoscere”, affonda le sue radici nelle virtù del suono. Il riconoscere esige, infatti, un veicolo motorio; ma questa prestazione compete sempre più a quel movimento che tutti gli altri sopravanza in capacità comunicativa, in autoavvertimento, in liberazione degli affetti76,

nonché in capacità di attrarre, avvertire e assumere il proprio successo: ovvero, il movimento del suono. Concentrandosi ed eseguendosi in quest’ultimo, il processo del riconoscere esonera progressivamente da tutti gli altri movimenti corporei che vi si erano inizialmente accompagnati, rendendoli “superflui”. In ciò, si può intravedere la prima avvisaglia di quello straordinario potere del linguaggio, che consiste nell’“esaurire” un oggetto o un’azione nel momento stesso in cui li si è nominati: in tal modo, il linguaggio opera sulla realtà senza tangerla o modificarla. «Ogni comportamento teorico, che in seguito concresce con il linguaggio, si radica effettivamente in questo esonero», per cui «nel linguaggio, è possibile un’attività che nulla modifica nel mondo effettuale delle cose. È questa la condizione di ogni ‘teoria’»77. La dinamica circolare e l’aspetto comunicativo del movimento sonoro sono, infine, alla base anche della spiegazione della cosiddetta “intenzionalità” 74 75 76 77

M (159; 172). Sulla ‘rappresentazione’ come effetto del linguaggio, si veda M (294-295 e 300; 291 e 296). M (159; 172). M (230-231; 234-235). M (231; 235).

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e, per il suo tramite, di ciò che, parafrasando L’uomo, può essere definita la ‘cellula germinale del pensiero’. Polemizzando quasi esplicitamente con le correnti filosofiche che l’avevano agganciata in modo univoco e originario alla pura coscienza o alla incorporea realtà dello spirito, Gehlen avverte che «è un grosso errore supporre l’intenzionalità [Intention] soltanto nell’ambito psichico o addirittura spirituale». Essa compare, infatti, già nel movimento sonoro: «un movimento condotto già intenziona [intendiert], al suo avviarsi, la sua prosecuzione e l’esito comunicativo che avrà»78. Il dirigersi verso qualcosa, senza costrizioni di natura pulsionale o situazionale, in cui consiste il pensiero umano, va, pertanto rintracciato già nel movimento che, riavvertendo se stesso, si re-imposta, carico dell’attesa del proprio compimento. L’anticipazione orientata, che si coglie nel suono, di un adempimento in altri suoni che giungono in risposta […] costituisce il fondamento vitale del pensiero, cioè dell’‘intenzione di qualcosa’ che si coglie ed è orientata nel suono e in questo appunto liberamente disponibile79.

Questo motivo, introdotto inizialmente a proposito della “vita del suono”, viene successivamente ripreso alla fine della trattazione delle radici, dove appare chiaramente come lo sbocco della ricerca sull’origine del linguaggio. Dove è, infatti, si domanda Gehlen, «il tronco nel quale tutte queste radici concrescono, ovvero […] il punto germinale del pensiero?»80 La risposta è che si trova «là dove noi, in un movimento esonerato e non imposto da un bisogno, in pari tempo ci volgiamo a una cosa e la ‘interroghiamo’ nello stesso movimento in cui la maneggiamo»81. Ciò vale eminentemente per il suono, per cui «quando noi, nell’atto fonetico […] ci dirigiamo su cose, e a sua volta questo dirigersi si riavverte sensorialmente, esperendo e interrogando la cosa, il lampo del pensiero è balenato»82. Con un rovesciamento evidente dell’intellettualismo, non è, dunque, il ‘pensiero’ l’ambiente in cui il linguaggio nasce e il mondo ci diventa noto, ma, al contrario, è l’ambito ricchissimo di impegni delle attività senso-motorie in cui sorge e si afferma il linguaggio a renderci familiare il mondo e a costituire la “cellula germinale” del pensiero stesso. Gehlen può così concludere che l’apertura al mondo è costituita e fronteggiata, prescindendo da una presunta trascendenza dello spirito, della coscienza o della volontà, e che i movimenti circolari e comunicativi determinano in senso pre-intellettuale il carattere fondamentale e originario dell’esperienza umana, la quale «nasce e si sviluppa […] da un intrattenimento senso-motorio con le cose» e mette capo a «un’oggettività satura di simboli»83, ovvero a una costruzione della realtà, interna ed esterna, in funzione dell’azione. 78 79 80 81 82 83

M (163; 176). Ibidem. M (282; 279). Ibidem. M 282; 280). M (191; 200). Sull’oggettività come scaturita dai processi circolari e comunicativi senso-

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3. Un potenziale critico non ancora esaurito Ricapitolando il percorso sin qui compiuto, appare evidente come il progetto gehleniano di una nuova antropologia filosofica esiga fin dall’inizio una serrata confutazione delle impostazioni idealistiche e spiritualistiche, che avevano sino a quel momento guidato i tentativi di dare una risposta alla domanda antropologica. Il problema dell’origine del linguaggio acquisisce, in questa prospettiva, un duplice valore: l’assenza di una sua elaborazione si rivela una spia illuminante della persistenza di pregiudizi intellettualistici, mentre la sua soluzione a partire dalle prestazioni senso-motorie infantili permette di neutralizzarli, senza che ciò comporti un abbandono dei positivi risultati precedentemente conseguiti in quell’orizzonte di pensiero. Ciò vale sia per la trattazione scheleriana del problema dell’apertura al mondo, sia per la critica di Schopenhauer al primato del conoscere, sia per i giovanili esperimenti filosofici di Gehlen: sono mantenuti e proseguiti, fra gli altri, il problema dell’azione, la necessità di muovere dal corpo e la problematica delle prerogative e dell’affermazione dell’umano di contro alle svantaggiose condizioni biologiche di partenza. Negli ultimi anni, Gehlen dovette rassegnarsi al tramonto dell’istanza culturale e al progressivo disfacimento dell’impalcatura scientifica del proprio modello della peculiarità dell’uomo come essere carente. Di ciò, è testimonianza un brano della lettera a Konrad Lorenz del 19 Dicembre 1973, in cui, inquadrando in un orizzonte comune la propria teoria della carenza e la dottrina lorenziana della domesticazione con il suo corollario della ‘folgorazione’, arrivava, con grande onestà intellettuale, a confessare: il nostro vecchio problema, la ‘posizione peculiare dell’uomo’, è ora diventato ben obsoleto, giacché un’analoga posizione peculiare, finanche la folgorazione, ce l’ebbero pure archeopterix e i primi dipnoi84.

Ciò non toglie, come è stato acutamente osservato da Rehberg, che la correlata teoria dell’origine del linguaggio non solo può funzionare al di fuori della cornice anti-evoluzionistica e delle preoccupazioni sull’eccentricità dell’uomo nella natura, ma possiede anche, concentrata in sé, «una ricchezza di stimoli che non è stata ancora sufficientemente sfruttata dagli specialisti della materia»85. In tal senso, ci pare che il tentativo di neutralizzare le filosofie che

84

85

motori, numerosi sono i brani cui rimandare, tra cui particolarmente perspicuo ci pare M (166-167; 178). Cit. da K. S. Rehberg, Anmerkungen zum Nachwort, in A. Gehlen, M, 871. Sull’appartenenza di Lorenz e Gehlen a uno stesso «clima spirituale», nonostante la divergenza teorica di fondo sull’accettazione o meno dell’evoluzionismo, ha scritto pagine essenziali Rainer Karneth, Anthropo-Biologie und Biologie, Würzburg, Ergon Verlag, 1991, per esempio pp. 88-93 e, riassuntivamente, p. 93. K. S. Rehberg, Nachwort des Herausgebers, in A. Gehlen, M, 778. Tale autonomia e vita-

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muovono dalla coscienza o dal principio dello spirito, non solo chiarisca il significato storico e teorico dell’indagine sull’origine del linguaggio nel processo di costruzione dell’antropologia filosofica gehleniana. Ma rivela anche il valore positivo e il non ancora del tutto assunto potenziale critico di tale teoria nell’ambito strettamente filosofico, in particolare per quanto attiene la lotta contro i presupposti trascendentalisti e i residui idealistici e spiritualistici, talvolta inconsapevoli, di parte significativa del pensiero contemporaneo.

lità discenderebbero, per un verso, dalla scelta, annunciata nel 1938 e fatta valere in modo rigoroso nelle analisi de L’uomo, di appoggiarsi allo studio empirico della vita infantile (M, 768) e, per un altro, dalla geniale intuizione di centrare l’indagine del linguaggio appunto sugli «aspetti strutturali della facoltà linguistica umana», ovvero sulle originarie articolazioni senso-motorie, piuttosto che sulle evoluzioni posteriori come il «parlare» (M, 779).

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Vallori Rasini

ARNOLD GEHLEN: NATURA UMANA E AZIONE

I. Che Gehlen sia da considerare uno dei più insigni rappresentanti dell’antropologia filosofica contemporanea è cosa più che nota. Altrettanto noti sono il suoi legami con Max Scheler (verso il quale risulta contemporaneamente debitore e critico severo) e con Helmuth Plessner (a cui raramente riconosce meriti dei quali nondimeno tacitamente si avvale), e naturalmente lo sono anche i motivi che li accomunano nell’appartenenza alla medesima corrente di pensiero. Si ha invece l’impressione che sia stata meno considerata la “differenza specifica” nella impostazione antropologica di Gehlen, un certo tratto particolare che ne individua la marcata originalità, rispetto ad altri programmi precedenti o contemporanei, nel rinnovamento dell’indagine sulla natura umana. L’idea che ispira questo breve scritto, già abbozzata altrove1, è che un tale elemento distintivo sia da ravvisare in un complessivo “carattere etico” connesso con la “necessità di azione” tipica della natura dell’uomo. La peculiarità della proposta antropologica di Gehlen consisterebbe nel fatto che, diversamente da Max Scheler e da Helmuth Plessner, la sua concezione prende le distanze da una antropologia intesa sostanzialmente come determinazione dell’”essere” dell’uomo (e pertanto da una concezione che, dichiaratamente o no, si rivela ontologica) per sposare l’idea di una indagine intorno al comportamento umano o meglio al “dovere agire” dell’uomo. È precisamente questa svolta che – nella paradossalità terminologica – vuole segnalare l’espressione “nuova ontologia” utilizzato nell’opera Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt per denotare la propria indagine categoriale2. 1

2

V. Rasini, Etica e antropologia filosofica in Gehlen, in «Intersezioni. Rivista di storia delle idee», XX, agosto 2002, pp. 275-288. Il riferimento è all’ultima parte del saggio, «Una antropologia etica», pp. 285-288, dove vengono comunque solo accennati alcuni degli aspetti della questione. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940, 19502), trad. it. Id., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, a cura di C. Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 428.

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In effetti, Max Scheler non sembra avere intenzione alcuna di allontanarsi dalla secolare tradizione ontologica. Nel suo “manifesto” per una nuova antropologia filosofica – il breve scritto Die Stellung des Menschen im Kosmos che riproduce il testo di una nota conferenza tenuta a Darmstat nel 1927 –, pur manifestando l’intento esplicito di basarsi «sul prezioso tesoro delle conoscenze particolari accumulato dalle singole scienze» – come si legge nella prefazione –, Scheler delinea il sistema d’“essere” del regno organico nella sua composizione graduale, in modo da giungere a «chiarimenti sull’essenza dell’uomo in rapporto alla pianta e all’animale e sulla sua particolare posizione metafisica»3. Le pagine che seguono non disattendono le aspettative create e la «gerarchia delle energie e delle facoltà psichiche»4 che vi viene presentata corrisponde a una descrizione rigorosamente ontologico-metafisica dello sviluppo delle facoltà psico-fisiche vitali della natura. Soltanto nel suo livello più elevato, incontrando il principio spirituale – un principio “opposto” ma non in lotta con la vita –, la progressione di dette facoltà darà origine allo stadio umano, al solo organismo naturale “aperto al mondo” e “capace di dire no” alla vita stessa5. Nei confronti di Max Scheler, Gehlen è sempre piuttosto severo. «Apertamente metafisica e in ultima istanza di genere ontologico era ancora l’antropologia di Max Scheler»6 – dice seccamente, etichettando Scheler come un filosofo antiquato –, e il giudizio non lascia spazio a equivoci. Ma la sua reale posizione sembra di fatto un poco più sfumata, e la gravità del giudizio deriva forse dalla sensazione di un “tradimento” da parte di Scheler, dalla delusione per un passo falso che avrebbe rimesso in questione un notevole conseguimento della sua stessa vivace riflessione. Rispetto alle precedenti posizioni circa la natura dell’uomo, infatti, la filosofia di Scheler rappresenta un indiscutibile progresso: sia nei confronti della “antropologia teologica”, vale a dire delle concezioni che valutavano la natura e la posizione dell’uomo rispetto a Dio, sia nei confronti delle teorie antropologiche dualiste che seguono le orme della consolidata tradizione cartesiana. Il termine di confronto dell’uomo diviene per Scheler l’animale, e la presenza di una coscienza o di una psiche 3

4 5 6

M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, trad. it. Id., La posizione dell’uomo nel cosmo, in Id., La posizione dell’uomo nel cosmo a cura di M.T. Pansera (trad. di R. Padellaro), Roma, Armando, 1997, pp. 115-191: p. 118. È da segnalare anche l’esistenza di un’altra traduzione italiana del testo di Scheler, che riproduce la versione consegnata alle stampe dall’autore nel 1928 (la traduzione di R. Padellaro riproduce invece la versione raccolta nei Gesammelte Werke, rielaborata da Maria Scheler sulla base del manoscritto della conferenza del 1927): M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo. Traduzione dall’edizione originale del 1928, a cura di G. Cusinato, Milano, Angeli, 2000. Le citazioni nel presente testo provengono tuttavia dalla edizione tradotta da R. Padellaro. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, p. 116 e p. 119. Si vedano ivi, p. 144; p. 146 e p. 156. A. Gehlen, Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentdeckung des Menschen, trad. it. di S. Cremaschi, Id., Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, Bologna, il Mulino, 1987, p. 189.

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non costituisce più una discriminante decisiva, essendo stata “scientificamente provata” la presenza di capacità intellettive anche nel regno animale. La scissione tra corpo e anima, che nel pensiero cartesiano faceva degli animali delle semplici macchine e dell’uomo un ente “composto” di sostanza fisica e sostanza psichica, cade nella visione di Scheler, che considera la vita come l’unico principio generatore dei due aspetti della realtà organica, le cui differenti configurazioni si determinano secondo i livelli di sviluppo del principio stesso, e pertanto secondo variazioni di tipo sostanzialmente quantitativo. La componente decisiva introdotta da Scheler nella riflessione antropologica è per Gehlen quella biologica. Sia la focalizzazione della ricerca sul confronto con il regno animale, sia l’insistenza sulla unicità del principio vitale costringono la filosofia a fare i conti con la questione biologica, con la realtà di un corpo la cui indagine era stata precedentemente lasciata nelle sole mani sella scienza. E Scheler disse: ciò che fa dell’uomo un uomo, in paragone agli animali più intelligenti, non è né l’intelligenza, né la fantasia, né la memoria, poiché nell’intelligenza, nella fantasia, nella memoria, nella capacità di scelta, nell’uso di strumenti, in tutte queste cose sta solo una differenza di base tra gli animali più elevati e l’uomo, ma non una differenza fondamentale7.

Se l’intelligenza e più in generale certe prestazioni psichiche sono presenti anche negli animali e le differenze riscontrabili possono essere ridotte a semplici differenze di grado, perde ogni senso distinguere la natura umana appellandosi a una dualità di principi separando il corporeo dallo psichico; e al contempo l’attenzione del filosofo dovrà volgersi molto più seriamente di quanto non abbia mai fatto in passato verso la costituzione biologica dell’essere umano – organismo tra organismi – e la collaborazione con le scienze della vita. Ma se Scheler è riuscito a superare il secolare scoglio del dualismo corpoanima, non ha perciò stesso abbandonato ogni dualismo e, facendo rientrare dalla finestra ciò che era stato cacciato via dalla porta, introduce nello schema di graduazione della potenza vitale un principio spirituale avente la capacità di sottrarsi alle leggi della vita8. Inserito in una trattazione “ampiamente 7 Ivi, p. 24. (Lo stesso saggio qui citato, dal titolo Per la storia dell’antropologia filosofica e contenuto in Prospettive antropologiche, si trova anche, tradotto da G. Auletta, nel volume Antropologia filosofica e teoria dell’azione, a cura di E. Mazzarella, Napoli, Guida, 1990, pp. 185-206. Il saggio è stato citato nella versione raccolta in Prospettive antropologiche tranne in un caso, opportunamente segnalato alla nota 31). 8 Va comunque segnalato, benché non sia possibile discutere qui la questione, che nella introduzione alla citata traduzione dell’edizione originale del 1928, G. Cusinato insiste particolarmente sulla opposizione al dualismo cartesiano operata da Scheler e si sforza, al contempo, di mettere in discussione una lettura dualistica (di contrapposizione tra due principi, spirito e vita) della sua antropologia filosofica. Si veda M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo. Traduzione dall’edizione originale del 1928, cit., in particolare pp. 64-65.

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convincente” e “magistrale” – come dice Gehlen –, opportunamente sorretto da conoscenze nuove nel campo della zoologia, della psicologia e della psicanalisi, il dualismo veniva così semplicemente spostato: non stava più tra “corpo” e “anima”, ma tra “spirito” da una parte e corpo animato dall’altra, e Scheler lo esasperò tanto da contrapporre esplicitamente lo spirito alla vita. Questo centro però [...] a partire dal quale l’uomo compie atti conoscitivi, attraverso il quale egli oggettivizza il mondo, il proprio corpo e l’anima, questo centro non potrebbe a sua volta essere una parte di questo mondo: potrebbe essere collocato soltanto in un fondamento metafisico dell’esistenza, sul quale non ci ha fornito alcuna informazione ulteriore9.

Ma se da un lato è questo preciso “aldilà” rispetto al mondo (alla vita, alla realtà organica e concreta) a essere rifiutato, dall’altro è l’impostazione stessa dell’indagine scheleriana a rivelarsi inadatta allo studio dell’uomo. Allo stesso modo della teoria evoluzionistica – benché raggiungendo esiti del tutto opposti quanto alle ragioni della differenza tra uomo e animale –, Scheler si serve di uno “schema graduale” alla cui sommità si situa l’uomo. Poiché la posizione particolare dell’uomo può esser chiarita solo esaminando l’intera struttura del mondo bio-psichico – dice Scheler rimanendo vittima, secondo Gehlen, di un diffuso pregiudizio –, prenderò l’avvio dalla gerarchia delle energie e delle facoltà psichiche, nell’ordine in cui sono state via via poste in evidenza dalla scienza10.

Poiché insomma l’uomo è comunque un prodotto di natura ed è, anche nel suo essere psichico, contiguo all’animale (venendo i limiti della sfera psichica esattamente a coincidere con quelli della sfera del vivente), è possibile tracciare un percorso lineare e ascendente che dalle forme più elementari dell’“impulso affettivo”, caratteristico della pianta, conduce attraverso l’“istinto” e la “memoria associativa” fino all’“intelligenza pratica” che caratterizza l’animale non meno dell’uomo. Che poi ci sia, inoltre, una “differenza di essenza” a distinguere l’uomo, in questo momento è ininfluente. Quello che Gehlen vuole sottolineare è che Scheler ha avuto bisogno di ipotizzare una continuità tra i viventi che conduce “per gradini” dalla forma del protozoo sino all’uomo, nel quale si troverebbero riunite (come in un vero e proprio microcosmo organico) tutte le tappe precedenti della vita. Ebbene, questa ipotesi può e deve essere evitata, secondo Gehlen, grazie a un approccio differente al problema. L’inadeguatezza del sistema graduale viene dimostrata attraverso la confutazione dei suoi due presupposti cardinali: la classificazione in termini evolutivi delle prestazioni istintuali (che condurrebbe sino alle manifestazioni spirituali) e l’idea che la gradualità delle 9 10

A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., pp. 25-26. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 119.

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prestazioni si rispecchi nella successione delle forme viventi. Utilizzando in particolare i risultati più recenti dell’etologia contemporanea, Gehlen argomenta in favore della tesi contraria all’idea degli istinti come “prodromi” ontogenetici e filogenetici delle manifestazioni spirituali superiori: non sussiste affatto un rapporto di gradualità tra comportamento intelligente e comportamento istintivo, bensì, come vide Bergson, addirittura una tendenza all’esclusione reciproca11.

Ma anche l’altra convinzione, che vi sia un preciso parallelismo tra l’ordine strutturale delle prestazioni e quello della classificazione degli organismi in superiori e inferiori, alla luce delle acquisizioni dell’indagine scientifica non sembra sostenibile. Ad esempio, «animali assai affini, capaci quasi delle stesse azioni istintive, possono essere sorprendentemente diversi quanto a capacità di apprendere un comportamento», e d’altra parte «considerata di per sé, l’intelligenza degli animali non corrisponde per nulla al posto gerarchico assegnato loro dalla sistematica zoologica»12. Al di là della insostenibilità dei presupposti di un simile ordinamento, lo schema graduale sembra poi rispondere appieno ai criteri tipici di una impostazione “essenzialista” della ricerca. È infatti il più adatto a rivelare – in un confronto da cui emergono differenze e continuità – l’essere specifico dei diversi organismi e insomma a darne una rappresentazione ontologica. Ma – come abbiamo già detto – non è alla definizione della natura dell’uomo secondo un approccio di questo tipo – ontologico, essenzialistico – che aspira l’antropologia gehleniana. Il caso di Helmuth Plessner si dimostra sicuramente più complicato. Nella sua opera Die Stufen des Organischen und der Mensch, pubblicata anch’essa nel 1928 e concepita come una introduzione innovativa all’antropologia filosofica, Plessner rifiuta la prospettiva metafisica richiamandosi anzitutto al metodo fenomenologico, in grado a suo giudizio di integrare e dare supporto alla ricerca empirica nel determinare quegli “strati dell’essere” che inevitabilmente sfuggono alla rappresentazione matematico-meccanicistica13. Ma – precisa Plessner nella introduzione alla prima edizione dell’opera – l’adesione al metodo fenomenologico non va inteso nel senso di un “cedimento” del tipo di quello occorso a Max Scheler, poiché «il lavoro fenomenologico [...] necessita, per la filosofia, di una precisa conduzione metodologica che non può derivare né dall’esperienza né da una metafisica»14. Così, per giungere a definire il “principio posizionale” dell’organico, la legge costitutiva dalla na11 12 13 14

A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 53. Ivi, p. 53 e p. 54. Si veda H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie, Berlin, De Gruyter, 1975, in particolare pp. 119 sgg. Ivi, p. V.

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tura umana, Plessner dovrà servirsi anche di altri strumenti di lavoro e principalmente del metodo dialettico15. Nel dare corpo alla sua “filosofia della natura”, lo sforzo antimetafisico di Plessner è sicuramente apprezzabile: il suo appello ultimo è sempre all’esperienza, anche quando si tratti della determinazione degli a priori della vita. Dal suo punto di vista, la ricerca di elementi a priori – rigorosamente “materiali” – “non ha niente a che fare con la metafisica”16. Attraverso il principio posizionale vengono stabilite le caratteristiche specifiche del vivente in quanto tale, identificate le forme del suo rapporto con il “campo posizionale” e infine precisate le tappe della “riflessione” dell’ente organico su se stesso. Ma soltanto il riscontro empirico sembra poter concedere alle categorie del vivente quel supporto senza il quale la deduzione conserva il semplice statuto dell’ipotesi. E se è vero che i “modali organici”, che con riferimento a Helmholtz indicano gli “elementi qualitativi ultimi” della realtà vivente, non si possono risolvere in elementi fisici e chimici, è altresì vero che nell’idea di esperienza (fenomenologicamente ampliata) di Plessner c’è posto anche per una forma di “percezione” che, oltrepassando i confini dettati dal pensiero empirista, configura una realtà più vasta e complessa. Ciò nondimeno, è possibile che il suo sistema gerarchicamente strutturato del mondo organico dia l’impressione di essere niente altro che una raffinata costruzione ontologica, al cui apice si colloca l’eccentrica singolarità dell’essere umano. Sicuramente perché in gioco ci sono “caratteri essenziali” costretti a rinunciare alle cautele di cui si era provvisto Husserl trincerandosi nella coscienza pura; ma anche perché una “graduazione” della natura organica – come anche nel caso di Scheler – richiama alla mente vecchie classificazioni sostanzialistiche e l’idea di un ordinamento dotato di un vertice. Non è comunque da trascurare neanche il fatto che Plessner si serva dello strumento dialettico – idealistico per eccellenza – che rende l’intera costruzione sospetta di speculazione metafisica. Complessivamente, l’interesse di Gehlen per Plessner pare piuttosto limitato. Gli scarsi riferimenti al suo pensiero e ai suoi lavori sono rispettosi e misurati, ma in ogni caso per lo più “strumentali”, finalizzati cioè a dimostrare soltanto come le proprie tesi e le questioni ritenute centrali nell’indagine antropologica attuale avessero talora trovato sostegno anche presso altri accreditati studiosi. È il caso, ad esempio, della delicata questione del rapporto tra interno ed esterno nell’esistenza umana, tra un io e il mondo, e soprattutto dell’attribuzione all’uomo di uno “spirito”. A questo proposito, Gehlen riconosce a Plessner un approccio alla questione di genere totalmente diverso da quello adottato da Scheler, che restando “nel solco di antiche tradizioni” ten15 16

Mi sono soffermata altrove su questa questione; si veda V. Rasini, Filosofia della natura e antropologia nel pensiero di Helmuth Plessner, in «Annali del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze», N.S., I, 1995, pp. 59-77. H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch, cit., p. 76.

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de ad abbandonarsi a “reminiscenze di simboli metafisici classici”17. Considerando le diverse dimensioni in cui si proietta la forma di vita dell’uomo, Plessner affianca a un mondo interno (Innenwelt) e un mondo esterno (Aussenwelt) un mondo comune (Mitwelt), una sfera della condivisione esistenziale in cui l’uomo è già sempre introdotto per via della sua posizionalità eccentrica. E’ questa apertura alla condivisione che ne fa un ente “spirituale”. L’introduzione di un “mondo collettivo” o della forma plurale del proprio “io” (noi) – commenta dunque Gehlen – apportava un’altra definizione dello spirito e questo nel senso di una sfera pensata fin dall’inizio come sociale18.

Eppure, quando Gehlen si trova a ripercorrere le tappe fondamentali della storia dell’antropologia filosofica – e ciò in effetti accade piuttosto di frequente – Plessner viene per lo più dimenticato; mentre quando viene espressamente menzionato cade vittima di una trattazione sommaria e frettolosa. Così accade in chiusura alla raccolta Anthropologische Forschung, pubblicato nel 1961, dove il richiamo all’eccentricità dell’uomo nel pensiero di Plessner e all’idea di spirito in Klages si conclude in un giudizio di sostanziale insufficienza: tutto ciò era “metafisica” e corrispondeva senz’altro alla verità che l’uomo è solo una parte della totalità del mondo, di modo che ponendo la domanda sul primo ci si trova necessariamente a doverla estendere in una domanda sul secondo. Dall’altro lato però tutte queste “mega-informazioni” hanno nell’essenziale ancora una evidenza solo poetica19.

II. A giudicare dalle affermazioni reperibili nel sopra citato volume Anthropologische Forschung, la più che legittima domanda sulla natura e sul posto ricoperto dall’uomo nel mondo ha attraversato una evoluzione che partendo dalle “originarie” concezioni teoriche “più metafisiche” – ed è chiaro a chi si volga il riferimento – si affaccia ora finalmente su di un nuovo scenario filosofico – ancora poco familiare in Germania, ma già decisivo in Inghilterra e in America – nel quale “ci si serve prevalentemente di metodi e concetti propri delle scienze empiriche” producendo in tale modo una sorta di “selezione naturale” delle questioni risolvibili, vale a dire ragionevolmente affrontabili con l’ausilio di dati certi e verificabili. È solo mettendo “tra parentesi” le ipotesi metafisiche – e certe questioni, come ad esempio quella dell’origine delle specie, dovrebbero necessariamen17 18 19

A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 286 e p. 287. Ivi, p. 287. Si veda anche Id., L’uomo, cit., p. 300. A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 189-190.

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te servirsi di simili ipotesi, non avendo per la propria trattazione sufficienti dati empirici – che secondo Gehlen una antropologia di nuovo genere può cominciare a muovere i primi passi20. Ma così facendo, applicando cioè un principio di individuazione delle questioni affrontabili mediante strumenti empirici, non solo si opera una distinzione tra domanda e domanda ma si determina pure uno spostamento della prospettiva dell’indagine. Se infatti la inevitabilmente sospetta “essenza” dell’essere umano tende sempre più a declinare, la legittima aspirazione a mantenere autonomo un campo di indagine squisitamente filosofico deve poter andare incontro al potente sviluppo delle scienze biologiche senza correre il rischio di pericolose e mal tollerate ingerenze. La filosofia dell’uomo deve insomma ritagliarsi un terreno di gioco puntando su innovazione ed equilibrio, ma in ogni caso partendo dal dato inconfutabile della costituzione fisica dell’uomo. Ma precisamente il corredo biologico dell’uomo, mentre definisce il dato del suo “essere” (da indagare comunque mediante strumenti scientifici), determina le potenzialità di questo particolare organismo e indica ciò che esso “può” essere, proprio per il fatto di essere quello che è. E questo ambito, l’ambito dischiuso dalle possibilità messe in gioco con la sua costituzione biologica, viene a definire il campo di pertinenza specifica della nuova filosofia antropologica. Come vedremo, per Gehlen non sarà più tanto all’“essere” (nel senso della sua natura ontologico-costitutiva), quanto piuttosto al “poter essere” dell’uomo o a un suo “dover essere” (finalizzato alla sopravvivenza) che si dovrà guardare come alla prospettiva di maggiore interesse e di più ragionevole produttività. La partenza è dunque offerta alla nuova ricerca antropologica dalla incredibile vastità del “sapere concreto” sull’uomo, dalla straordinaria messe di osservazioni disponibili grazie al lavoro delle molte scienze della vita21. E pur di riuscire a mettere in pratica una rigorosa astensione dalla tentazione delle strategie metafisiche, vale senz’altro la pena di confrontarsi con la difficoltà specifica del nuovo sapere: la scienza empirico-analitica ha dunque il vantaggio di potersi fondare su un atteggiamento della coscienza (ancor oggi) ovvio e autosufficiente; paga però questo vantaggio – riconosce Gehlen – con la peculiare frammentarietà delle sue asserzioni22.

È pertanto inevitabile che anche una filosofia affidata all’atteggiamento empiristico corra il rischio di apparire “a più facce” e passibile di integrazione. Eppure spetta esattamente alla riflessione teorica il compito della unificazione; tocca alla filosofia di trovare “un punto di vista-guida”23 attraverso la 20 21 22 23

Cfr. A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 37. Cfr. A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 37. Ibid. Ivi, p. 39.

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molteplicità dei frammenti di sapere offerti dalle diverse scienze e “ricucire” l’immagine complessiva dell’uomo: «il compito di rappresentare ‘l’uomo’ è difficilissimo, è stato più volte tentato, mai però realizzato»24. Risuonano le parole di Scheler, in questa constatazione – «noi manchiamo di un’idea unitaria dell’uomo» –, e si può riconoscere lo stesso suo sforzo nell’intraprendere «un nuovo tentativo di antropologia filosofica»25. Ma se entrambi aspirano non solo a una ricomposizione dei molteplici tasselli della conoscenza sull’uomo (scientifica per l’uno, anche teologica per l’altro), bensì anche al superamento del tradizionale dualismo corpo-psiche (qualunque sia il giudizio che si attribuisce alla proposta scheleriana di distinguere tra un principio vitale e un principio spirituale), l’impostazione della ricerca, il perseguimento fattuale della ricerca sull’uomo, imbocca nei due filosofi vie diverse. Al fine di “riconoscere la ‘totalità’ dell’uomo” adottando “un determinato punto di vista” ed evitando in primo luogo le domande ultime sul problema mente-corpo (destinate – almeno pare – a sconfinare inevitabilmente nella metafisica), l’antropologia elementare di Gehlen si avvale di una “intuizione globale”26 che possa traghettare lo studioso direttamente sulle sponde delle categorie fondamentali della realtà empirica umana. Si tratta naturalmente di categorie non “sostanziali”, ma semplicemente “descrittive”, che cercano di cogliere i tratti più caratteristici di un essere destinato comunque a un proprio speciale “posto” nel mondo. Il punto di vista “antropobiologico” risulta in grado allora di scorgere la particolare natura del corpo dell’uomo unitamente alla sua complessissima e complicatissima “interiorità” e [...] riesce a cogliere questa connessione, approssimativamente almeno, con specifici concetti fondamentali (categorie), anche là dove ci è venuta a mancare, probabilmente per sempre, la capacità di penetrare il nesso diretto del corporeo e dello psichico27.

Quale potrebbe dunque essere il tema-chiave, l’idea di fondo capace di guidare l’antropologia – come un sicuro filo rosso – nel passaggio al terreno post-metafisico? Il ruolo di un tale punto di partenza sembra poter essere svolto dall’azione, cioè dalla concezione dell’uomo come un essere in primo luogo agente, là dove “azione” in prima approssimazione deve designare l’attività indirizzata alla modificazione della natura in vista degli scopi dell’uomo28.

Sorretto dal presupposto che l’uomo costituisca un progetto unico e particolare della natura, affatto diverso da quello che regola le forme della vita 24 25 26 27 28

Ivi, p. 38. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 117 e p. 118. A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 39 e p. 40. Ivi, pp. 41-42. A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 27.

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animale in genere, l’asse lungo il quale si muove la posizione di Gehlen prevede che questo essere si ritrovi particolarmente carente sul piano del corredo biologico e sostanzialmente “inadatto” alla sopravvivenza nello stato di natura. Per potersi mantenere in vita, l’uomo deve trasformare le condizioni della propria esistenza e trovare forme sempre più efficaci di esonero dalle “fatiche” a cui la natura lo ha condannato. Creare un nuovo mondo è il suo destino e l’azione è lo strumento della sua stessa esistenza. L’azione oltrepassa la scissione tra natura corporea e natura spirituale, e la sua analisi permette la definizione degli elementi strutturali che «racchiudono il nesso del somatico e dello psichico»29. Si tratta di un concetto di azione complesso, che rimanda a un percorso processuale e si distingue dall’agire animale per il fatto di non corrispondere al sistema binario azione-reazione. L’azione stessa – spiega Gehlen – è [...] un complesso movimento circolare che è regolato sulle cose del mondo esterno, e il comportamento si modifica secondo il messaggio di ritorno che annuncia il successo30.

Il modello di questo processo circolare gli viene dall’opera di Viktor von Weizsäcker, un noto neurofisiologo che già negli anni ’20 del secolo scorso insisteva sulla insufficienza della spiegazione causale e sulla inopportunità di una netta distinzione tra percezione e movimento nello studio delle prestazioni organiche. Il circolo dell’azione – dice Gehlen – può essere descritto chiaramente nel modo seguente: quando provate una chiave in una serratura si produce una serie di trasformazioni fattuali a livello della chiave e della serratura, ad esempio quando questa si inceppa e voi dovete provare girando a destra e a sinistra. In queste operazioni c’è una serie di successi ed insuccessi a livello fattuale, che voi vedete, udite e sentite emotivamente, successi e insuccessi che vengono dunque restituiti alla fonte, che voi percepite; e, a seconda della percezione, modificate di nuovo la posizione della chiave, modificate i vostri movimenti di prova, ed infine a livello fattuale si produce effettivamente il successo e la serratura scatta31.

Non soltanto il principio generale della circolarità dell’azione concorda con l’idea del Gestaltkreis elaborata da Weizsäcker – come Gehlen stesso ci comunica espressamente –, ma anche l’esempio specifico del processo di manipolazione della chiave è tratto dalle opere del medico di Heidelberg, che già a partire dai primi anni Venti andava elaborando la propria teoria32. 29 30 31 32

A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 45. A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 29. A. Gehlen, Per la storia dell’antropologia, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 198. A. Gehlen tende a presentare l’elaborazione della propria idea di «circuito (o circolo) dell’azione» e quella di Viktor von Weizsäcker (che per la verità si applica all’atto biologico

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L’idea della impossibilità oggettiva di stabilire un rapporto di causazione tra momento percettivo e momento motorio offriva l’opportunità di constatare l’inscindibilità dell’apporto fisico-corporeo e dell’apporto psichico nella realizzazione dell’attività biologica umana. E Gehlen insiste molto sulla necessità di ricomporre l’unità dell’essere umano, restituendo alla ricerca filosofico-antropologica la “totalità” dell’uomo33 e superando così il tradizionale dualismo cartesiano. Ma se si tratta qui di un tema fondamentale per l’intera corrente dell’antropologia filosofica – e anzi esso rappresenta probabilmente il vero tratto di unione dei suoi esponenti più illustri –, il pensiero ritorna in primo luogo a Scheler per la sua idea di un «originario fenomeno psichico della vita», vale a dire «dell’aspetto psichico dell’autonomia, del movimento spontaneo»34 che porta a considerare il comportamento in generale come un canale privilegiato per l’osservazione del vivente. Il valore del concetto di comportamento – dice Scheler – consiste appunto nel fatto di essere un concetto indifferente dal punto di vista psicofisico. Il che è quanto dire che ogni comportamento è sempre altresì espressione di stati interni, poiché non vi è nulla che appartenga alla interiorità psicologica che non si “esprima” anche nel comportamento in maniera immediata o mediata. Pertanto esso deve essere chiarito sempre in duplice maniera, psicologica e fisiologica a un tempo; per cui è ugualmente errato preferire la spiegazione psicologica a quella fisiologica o viceversa. Per tale motivo – conclude Scheler – Il comportamento è il “campo intermedio” di osservazione dal quale si deve partire35.

33 34 35

in generale e non si limita all’agire umano) come contemporanee (si veda la nota in calce al saggio di Gehlen, Per la storia dell’antropologia, in Id., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 199, oppure in Id., Prospettive antropologiche, cit., p. 37). In effetti il volume di Weizsäcker, Der Gestaltkreis. Theorie der Einheit von Wahrnehmen und Bewegen, è stato pubblicato nel 1940 (Thieme, Stuttgart), nello stesso anno, quindi, in cui è apparsa la prima edizione dell’opera di Gehlen, Der Mensch. Ma la teoria del Gestaltkreis è in realtà precedente di non pochi anni. Già nel 1933, Weizsäcker pubblicava un saggio dal titolo Der Gestaltkreis, dargestellt als psychophysiologische Analyse des optischen Drehversuchs («Pflügers Archiv der gesamten Physiologie des Menschen und der Tiere», 231, pp. 630-661), in cui la teoria, trattata approfonditamente nel volume del ’40, era completamente delineata e i termini della descrizione del circuito funzionale dell’atto biologico chiaramente stabiliti (si veda, ad esempio, ivi, p. 633). L’esempio specifico del processo di manipolazione della chiave si trova poi addirittura in un saggio risalente al 1927: Über medizinische Anthropologie, ora in Id., Gesammelte Schriften, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1986 sgg, vol. V, p. 184. Per approfondimenti sul pensiero di V. von Weizsäcker mi permetto di rimandare a V. Rasini, Alle origini del pensiero biologico di Viktor von Weizsäcker, in «Nuncius» XIV, 1999, pp. 471-489, e a Id., Teorie della realtà organica. Helmuth Plessner e Viktor von Weizsäcker, Modena, SIGEM, 2002. A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 39. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 119. Solo per inciso, è il caso di ricordare che Max Scheler e Viktor von Weizsäcker avevano avuto l’occasione di conoscersi e di scambiare proficuamente le loro idee. Ivi, p. 125.

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Ed è esattamente questo che farà Gehlen: eleggere il comportamento (il comportamento dell’uomo, però, non il comportamento organico in generale) come punto di vista privilegiato, come campo psicofisicamente neutrale da cui avviare la ricerca. L’azione, intesa come mezzo di intervento sulle condizioni di esistenza, non è altro che la modalità specifica del comportamento dell’essere umano; ed è proprio per il suo agire che l’uomo si differenzia dall’animale mostrando le sue peculiarità: il principio dell’azione deve perciò essere assunto come “legge strutturale” della natura umana. Anche l’animale “agisce”, portando a compimento movimenti mirati e altresì volontari. L’animale però, consegnato com’è al mondo dei bisogni fisiologici e forte del proprio corredo istintuale, non ha, come invece l’uomo, la necessità di modificare le condizioni naturali della propria vita per creare un ambiente artificiale, poiché è specializzato e ben adattato al proprio ambiente di vita. La necessità di trasformare il proprio intorno e anche se stesso al fine di garantirsi una sopravvivenza altrimenti impossibile costituisce per l’uomo il primo e più fondamentale “dovere” della sua esistenza. Ma in questo modo, poiché la legge assunta come criterio di distinzione definisce la specificità dell’ente uomo attraverso le sue attitudini comportamentali, finisce per assegnare alla scienza etica – nel senso più ampio di studio della condotta – il ruolo di strumento fondamentale nell’indagine antropologica. Insomma, un’antropologia che non voglia rischiare la caduta nelle irrisolvibili questioni della metafisica non deve occuparsi di ciò che l’uomo “è”, ma di ciò che egli “deve” essere; deve evitare di impostare l’indagine secondo quesiti ontologici e piuttosto seguire le necessità etiche, in senso lato, del proprio oggetto. L’uomo infatti agisce in quanto non “è” adatto alla sopravvivenza, bensì deve “rendersi” tale, deve “mettersi” nella condizione di affrontare l’esistenza. L’azione è la modalità specifica della sua forma di esistenza. Dato il modo in cui si presenta allo stato di natura, cioè come un essere estremamente fragile e biologicamente carente, l’uomo non avrebbe alcuna possibilità di restare in vita: semplicemente “non sarebbe”. Occorre una struttura di prestazioni meravigliosa e d’estrema complessità – dichiara Gehlen – affinché un essere fornito appunto di questa costituzione corporea possa vivere ancora domani, e la settimana prossima, e l’anno che verrà36.

Per questo è assolutamente indispensabile che egli agisca, trovando esoneri alla sua situazione e strumenti capaci di fare fronte alle mancanze. La natura ha destinato l’uomo a una posizione particolare: quella di un progetto unico, che soggiace a un principio di organizzazione nuovo rispetto a quello dell’animale. 36

A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 43.

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Proprio di questo principio – prosegue Gehlen – è che l’uomo, nella sua mera esistenza, trovi dinanzi a sé un compito, che la sua esistenza diventi il suo proprio compito e la sua impresa37.

Avere un compito da realizzare è parte della sua natura; eseguirlo è condizione della sua esistenza. Biologicamente è prigioniero di una mancanza, e strutturalmente avrà a che fare con un “dovere pratico”, che segna il suo “essere” giacché si tratta per lui della possibilità stessa di essere (o di continuare a essere). La natura lo ha privato della specializzazione animale; di una relazione “armonica” (“automatica”) con ciò che lo circonda; gli ha sottratto la possibilità di avere un ambiente, un luogo “proprio” al quale essere adattato nei rapporti di scambio, e gli ha dato in cambio un mondo “aperto”, un campo illimitato di rischi, di avversità, di aggravi. Ma lo ha dotato altresì della giusta flessibilità e di capacità (ancorché in potentia) che lo avrebbero presto trasposto in una nuova dimensione, quella “artificiale”, in cui poter conservare la propria esistenza attraverso il “dover fare”. Come per Herder, insieme allo svantaggio costitutivo, a una situazione in cui «a considerarlo come animale nudo e privo di istinti, l’uomo è la più misera delle creature»38, è dato l’ineguagliabile vantaggio di potersi attrezzare di una realtà diversa, “superiore” e innaturale, forgiata dalle capacità che proprio la forza delle deficienze ha alimentato: «tutte la carenze e i bisogni che aveva come animale costituirono altrettanti pressanti motivi per mostrarsi con tutte le sue energie come uomo»39. Poiché l’uomo è invalido delle più essenziali forze naturali, la determinazione delle specificità antropologiche, delle “invarianti” della natura umana, riguarderà esattamente “ciò che” consente questo passaggio, la trasformazione di uno stato di minorità in una condizione di privilegio e di dominio. La questione di un “compito esistenziale” si pone così in primo piano. Avere la propria esistenza come compito significa condurre una impresa, lunga una intera vita, per la quale devono essere mobilitate tutte le capacità proprie del vivente. E la necessità di entrare nella dimensione etica diventa per l’uomo “strutturale”. Egli deve disporre delle proprie doti, deve affaccendarsi con gli strumenti tecnici e deve sostituire il mondo naturale con un universo culturale; ma soprattutto è tenuto ad assumere “un comportamento nei suoi propri confronti”, a dirigere la propria vita verso degli scopi. Come Prometeo, vede anticipatamente e provvede alle proprie necessità ponendosi nella distanza, «è obbligato a dirigersi su ciò che è lontano, su ciò che non è presente nello spazio e nel tempo; vive – a differenza dell’animale – per il futuro e non nel presente»40. Passo dopo passo, deve dunque costruire la propria esi37 38 39 40

Ibid. J.G. Herder, Abhandlung über den Ursprung der Sprache (1770), trad. it. Id., Saggio sull’origine del linguaggio, a cura di A.P. Amicone, Parma, Pratiche, 1995, p. 111. Ivi, p. 112. A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 59.

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stenza, creando ciò di cui non dispone e sopportando l’esposizione costante alla precarietà e al rischio di fallire. Questo il destino riservato a un essere “incompleto”, un essere ancora (e sempre) “in via di definizione”. Accanto all’eredità di Herder diviene così facilmente riconoscibile quella di Nietzsche. Certamente per Gehlen non è questo l’unico motivo di richiamo al pensiero nietzscheano: si va dalla più generale rivalutazione della costituzione fisica nella determinazione della realtà umana alla diffidenza verso il prodursi di forme di solidarietà e di democrazia sociale; da certi aspetti della concezione dell’istinto, dell’aggressività o del sorgere della coscienza all’idea della necessità di un disciplinamento dell’essere umano. Ma qui ci limiteremo solo a poche considerazioni connesse con la frase secondo cui l’uomo sarebbe «l’animale non ancora stabilizzato» ovvero «non ancora stabilmente determinato»41. L’idea si muove tra la concezione di un progressivo rivolgimento dell’uomo contro se stesso, accompagnato da una “sofferenza che l’uomo ha dell’uomo” per via del suo processo di incivilimento, e la definizione di questo essere come di una “grande promessa”, come di «qualcosa di tanto nuovo, profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo d’avvenire»42, da distinguersi nettamente da qualunque altra forma di vita. L’uomo, già in questi passi di Nietzsche, è progettualità; è un essere che plasma la materia fluida che lui stesso rappresenta “per essenza”, vale a dire per la necessità dettata dalla sua specifica forma d’essere (fisico-biologica), e senza una finalità predeterminata. L’uomo “deve farsi” nella misura in cui appartiene all’universo del divenire, cui è ignoto qualunque definitivum. Al processo di “allevamento” dell’animale uomo concorrono potenze esterne e potenze interne (modi comunque dell’unica forza della natura); con il progredire della sua maturazione, tuttavia, egli saprà rendersi sempre più autonomo, saprà esercitare in misura sempre crescente il principio di autodeterminazione nello svolgere il “compito” che gli è ascritto. Per quanto indeterminato, questo compito configura comunque lo sforzo dell’uomo, «il peculiare lavoro dell’uomo su se stesso»43, come un movimento di progressiva liberazione del volere. Un innalzamento, dunque, che come per Gehlen si delinea, insieme, di carattere costitutivo e morale, e che si gioca sulla necessità biologica di “interpretare il mondo” e naturalmente anche se stessi44. È perciò evidente: «il bisogno, avvertito da chi riflette, di interpretare la propria esistenza umana non 41

42 43 44

F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 sgg., vol. VII, tomo II, Frammenti postumi 1884, trad. di M. Montinari, pp. 111; Id., Al di là del bene e del male, in Opere, cit., vol. VI, tomo II, Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, trad. di F. Masini, aforisma 62, p. 68. F. Nietzsche, Genealogia della morale in Opere, cit., vol. VI, tomo II, Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, trad. di F. Masini, Seconda dissertazione,16, pp. 283-285. Ivi, Seconda dissertazione, 2, p. 257. Si veda il frammento 481 in F. Nietzsche, Opere, cit., vol. VIII, tomo 2, Frammenti postumi 1885-1887, trad. di S. Giametta, pp. 299-300.

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è un bisogno meramente teoretico», come afferma Gehlen in apertura della sua opera fondamentale. Si tratta infatti di un bisogno pratico, del bisogno dal quale dipende l’essere stesso dell’uomo, la sua esistenza e le forme che essa assume. Attraverso le modalità del suo comportamento e la direzione delle sue scelte traspare il lavoro interpretativo che l’essere umano compie su di sé e sul mondo, poiché «secondo le decisioni implicite in tale interpretazione, si rendono visibili o invece si occultano determinati compiti»45. E in fin dei conti, quello dell’interpretazione di sé si dimostra il momento più specifico della necessità comportata dalla legge strutturale, una precisa forma di azione sotto la quale sembra sussunta ogni altra. Fornire una lettura della propria realtà, dare alla propria esistenza un senso è “doveroso”, per un essere che non può fare a meno di produrre una immagine di sé: c’è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è precisamente necessaria un’“immagine”, una formula interpretativa46.

Non importa quale sarà la formula prescelta per dare ragione della propria origine o del proprio ruolo nel mondo: il suo atteggiamento sarà certo diverso, ma dovrà in ogni caso seguire determinati imperativi. L’uomo finisce dunque inevitabilmente per appartenere alla dimensione etica, «deve interpretare la sua natura e perciò assumere un atteggiamento attivo e tale da prendere posizione rispetto a se stesso e rispetto agli altri»47.

45 46 47

A. Gehlen, L’Uomo, cit., p. 35. Ibid. Ibid.

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PARTE SECONDA IL CONFRONTO CON LA FILOSOFIA

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Karl-Siegbert Rehberg

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MOTIVI ESISTENZIALI NELL’OPERA DI ARNOLD GEHLEN La categoria chiave della “Personalità” nell’antropologia e nella teoria sociale di Gehlen1

Introduzione È mio intento individuare, qui di seguito, un filo conduttore per l’interpretazione dell’opera omnia di Gehlen, la sua “questione” di fondo, il motivo centrale di ogni suo lavoro: la cui chiave sta nel rapporto esistenziale tra il “divenire persona” e l’“ordine”. La teoria sociale di Gehlen, a sua volta fondata sulla sua antropologia, riceve continuamente suggestioni ed influenze dalla problematica fondamentale dell’uomo che deve darsi una “forma” – questo il motivo modulato nella sua opera da prospettive diverse e con metodologie differenti. Le persone si evolvono, abbozzano il proprio profilo secondo il “modello” ed il contesto degli ordini sociali, ma ciò che è decisivo è l’inversione operata da Gehlen: l’obbligo di formarsi per ogni persona diventa per lui il parametro, il modello degli ordini sociali. Emergono qui i fondamenti esi1

Ringrazio Beatrice Über (Trento) per la traduzione del testo e Verena Schimpf (Dresden) per avermi aiutato durante la stesura finale del manoscritto e, finalmente, la collega Pansera per l’organizzazione del convegno in occasione del 100° anniversario della nascita di Arnold Gehlen all’Università di Roma Tre nel 2004 e la sua pazienza e disponibilità come curatrice. Abbreviazioni nel testo: GA = Arnold Gehlen Gesamtausgabe [Opere complete], 10 vol., a cura di Karl-Siegbert Rehberg, Francoforte sul Meno, 1978 e ss. GA1 = Bd. 1: Philosophische Schriften I (1925-1933), a cura di Lothar Samson, 1978. GA2 = Bd. 2: Philosophische Schriften II (1933-1938), a cura di Lothar Samson, 1980. GA3 = Bd. 3: Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Textkritische Edition unter Einbeziehung des gesamten Textes der 1. Auflage von 1940, a cura di KarlSiegbert Rehberg, 2 Teilbde, 1993. GA4 = Bd. 4: Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, a cura di Karl-Siegbert Rehberg, 1983 (traduzione italiana: Antropologia filosofica e teoria dell’azione, prefazione di Karl-Siegbert Rehberg, ed. italiana a cura di Eugenio Mazzarella, Napoli, 1990). GA6 = Bd. 6: Die Seele im technischen Zeitalter und andere sozialpsychologische, soziologische und kulturanalytische Schriften, a cura di Karl-Siegbert Rehberg, 2004. GA7 = Band 7: Einblicke, a cura di Karl-Siegbert Rehberg, 1978.

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stenziali del suo pensiero. Queste inclinazioni di fondo hanno trovato la loro rappresentazione “esistenzialistica” più evidente negli scritti filosofici giovanili, ma hanno mantenuto sempre un ruolo determinante per il “riferimento di valore” del modo in cui Gehlen intende il mondo e le situazioni, e quindi anche per tutti gli altri suoi lavori scientifici e di critica contemporanea. La mia tesi, per cui sarebbe rilevabile questa continuità nell’opera di Gehlen, non vuole d’altra parte tralasciare il fatto che egli, in verità, non è rimasto fedele al metodo, inizialmente elaborato, di una “fenomenologia assoluta”, bensì ha modificato alla radice il suo punto di vista filosofico per almeno due volte dopo il 1931. In particolare egli avrebbe, in seguito, abbandonato il concetto di “situazione” (che aveva rappresentato, in Wirklicher und unwirklicher Geist, il punto di riferimento categoriale decisivo per le sue analisi fenomenologiche). Nonostante questi passaggi, affatto irrilevanti o secondari, i motivi di fondo di Gehlen sono rimasti gli stessi fin negli ultimi scritti: il dilemma basilare dell’uomo, diviso tra l’essere in balìa della propria natura e l’eccesso dei propri impulsi, la paura che restino irrealizzabili le sue potenzialità; la sua formazione come persona è l’unico modo di appropriazione del mondo; viceversa, il disporre di se stessi passa necessariamente attraverso le cose del mondo – due volti di quella peculiarità che contraddistingue l’uomo, il suo essere mediato, indiretto. Il punto focale è sempre il rapporto tra le possibilità dell’azione e la formazione individuale, ossia, come diceva Gehlen, la vera questione dell’etica: “come si formi un carattere” (GA1, 267). Nemmeno si intende qui ignorare la presa di distanza di Gehlen rispetto al pathos esistenzialistico della sua tesi di abilitazione alla libera docenza; solo, io lo interpreto in modo diverso da quanto fece l’autore: non il superamento dei motivi esistenziali, bensì la loro rielaborazione emerge a mio parere dalla sua opera. Ogni sua categoria chiave – “essere carente”, “eccesso pulsionale”, “esonero”, “azione”, “disciplina”, “profusione di stimoli” – sono metafore esistenziali di problematiche, segni di una drammatizzazione della minaccia che grava sull’uomo. Il pathos non si limita del resto alla descrizione della dimensione esperienziale, non si profonde in un’empatica attenzione agli individui privati di sicurezza, bensì risulta solamente dall’attivismo con cui è affrontato il problema. 1. Motivi esistenzialistici fondamentali nell’opera giovanile: il pericolo dell’irrealtà e il suo superamento Già nel discorso dello studente ventunenne su Hugo von Hofmannstahl2 si parla della necessità di una scelta esistenziale, del rapporto tra divenire persona ed oggettivazione, o meglio, qui, l’auto-oggettivarsi nell’“opera”. La fa2

A. Gehlen, Rede über Hofmannsthal [prima 1925], in: GA1, pp 1-17.

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coltà umana dell’esperire ha insito in sé un “senso attivistico originario”, dal momento che l’identità dei soggetti può essere raggiunta solo tramite la realizzazione di una originarietà creativa: l’ineffabile specificità della persona, un centro nascosto nell’uomo determina la risposta, una profondità segreta, che ha la forza di smuovere la fantasia, di orientare la volontà, di svelare l’intelletto, di porre in una certa direzione tutte le possibilità – ed ecco, è l’opera. (GA 1, 14)

La tensione produttiva di potenzialità creative ed oggettivazione nella forma è un pensiero guida di ogni filosofia della vita, che si ritrova tuttavia anche formulato pragmaticamente, come in George Herbert Mead, il cui concetto di “l” [io] intende esattamente questo “nucleo” autentico-creativo, comprensivo di tutti gli impulsi vitali di una persona. Già a questo livello emerge d’altra parte la contrapposizione tra i teorici che – come Georg Simmel o il suo allievo György Lukács – descrivono il divenire forma dell’impulso vitale come il “tragico della cultura”, come il necessario legame tra il realizzarsi di un impulso e la sua morte nell’oggettivazione formale, ed altri autori, che nel divenire forma cercano una via di salvezza dalla causa prima che tutto inghiotte. Tale posizione è decisamente quella presa a riferimento da Gehlen, che è consapevole della “tragicità” insita anche in essa, ma ne persegue un superamento attivistico. Il libro in cui Gehlen ha portato alla più alta espressività il motivo conduttore della sua intera opera è il suo scritto per l’abilitazione alla docenza del 1931, Wirklicher und unwirklicher Geist3, il cui esistenzialismo sarà in seguito confermato dalla presa di distanza dello stesso Gehlen rispetto alla posizione che quel testo incarnava4. Egli rimase legato alla concezione di una “filosofia empirica”, la stessa che in questo testo già si delinea, mentre si distanziò con decisione dal suo atteggiamento filosofico di allora: per il tipo di pensiero e il suo pathos si tenderebbe oggi a definire questo libro come ‘esistenzialista’, sebbene l’autore non concepisse se stesso come tale. In ogni caso egli liquidò questa posizione non appena si rese conto di come fosse facile incarnarla e difenderla: contro l’autorappresentazione senza riserve non c’è argomento che tenga5.

Come ho già detto, io sostengo che i motivi esistenziali (assieme alle tracce di quel “pathos esistenzialistico”) non sono mai più scomparsi dall’opera 3 4

A. Gehlen, Wirklicher und unwirklicher Geist [prima 1931], in: GA1, pp. 113-381. Gehlen stesso ha esplicitamente rimandato al fatto che il libro più famoso di Martin Heidegger Essere e tempo in alcuni aspetti presenta pensieri simili, ma lo ha realizzato solo dopo aver portato a termine il suo stesso libro (GA1, p. 219). 5 A. Gehlen, Introduzione, in: Idem, Studien zur Anthropologie und Soziologie, Neuwied, 1963 e Idem, Theorie der Willensfreiheit [prima 1933], in: GA2, pp. 1-179, spec. 7 e ss.

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di Gehlen, anzi l’hanno guidata e stimolata. Tuttavia, a questo motivo di fondo toccò la stessa sorte che, nell’analisi di Gehlen, hanno le pulsioni umane: la sua realizzazione era solo indirettamente possibile, spezzata nel mezzo dell’oggettivazione. L’auto-tematizzazione e la stilizzazione di sé non costituiscono certo una via alla gestione del problema chiave, sul quale in quest’opera sono fornite tante variazioni e sfumature. C’è bisogno invece di una filosofia empirica, “disincantata”; solo questa rende possibile a Gehlen l’esposizione della problematica di fondo della sua riflessione in maniera davvero appropriata alle cose. Alla fine il motivo esistenziale fondamentale della sua opera si rivela in forma “estraniata”: rassegnata, scettica, cinica. La salvezza dell’uomo dal suo pericolo costituzionale sembra descrivibile solamente in negativo, cioè solo nello scongiuro della minacciosa perdita di ogni “umanità” di fronte alla modernità, che con le sue strutture mette in pericolo la personalità. Se già lo stesso Gehlen recepiva il carattere della sua tesi di abilitazione come “esistenzialistico”, non dovrebbe essere difficile provarlo seguendo la sua argomentazione. Per la mia tesi della fondamentale colorazione “esistenzialista” dell’insegnamento di Gehlen nel suo complesso, però, il fattore decisivo sarà il fatto che riesca a mostrare o meno come questo primo scritto fornisca quel “filo d’Arianna” che a sua volta può guidarci attraverso le varie ramificazioni di una produzione complessa, passata attraverso vari cambi di posizione sul piano metodologico, su quello disciplinare, e anche nei contesti e nell’atmosfera.6 Punto di partenza della filosofia gehleniana è stato e rimane il “vivere problematico”, la speranza del trovare se stessi attraverso l’“autoformazione” (Selbstformierung), così come il radicamento della persona in livelli di ordine più alti, i quali sono qualificati innanzitutto come “gradi dell’essere” e “situazioni”, in seguito come “sistemi guida superiori” e istituzioni. Lo stesso tema è approfondito sul piano epistemologico: pienamente in linea con la filosofia del soggetto a partire da Descartes, ma considerando anche la problematica del “comprendere” com’è nelle moderne Geisteswissenschaften e nella posizione fenomenologica, è sempre la persona il punto d’avvio del filosofare, poiché essa è “l’unica cosa cui possiamo adeguatamente accedere” (GA1, 135). Ciò che sta a cuore a Gehlen non è però un auto-accertamento solipsistico, ma l’esperienza come punto di partenza per un pensiero nel quale la persona è momento di avvio e momento di arrivo – in via sia teorica che pratica. Dev’essere gettato un ponte tra il “Soggettivo” e i gradi d’essere di ciò che è ”Oggettivo” e vincolante al dovere. Questo pensiero è sempre pratico, ovvero è legato alla realtà vitale vissuta. L’“Insufficiente”, il Negativo, il Parziale, minaccia e impotenza caratterizzano lo stato da cui Gehlen parte nell’esplicazione dello “spirito” – che è semplicemente un altro termine per “uomo”. Qui si rivela il motivo di fondo 6

Cfr. ibid., p. 8 e Karl-Siegbert Rehberg, Prefazione, in: A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, a cura di E. Mazzarella, Napoli, 1983, pp. 9-25, spec. 15 e ss.

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di una antropologia protestante (per quanto secolarizzata), di una puritana consapevolezza di sé tra peccato e perdizione (in maniera simile a quella di Sartre). È questa l’“umiltà”, presentata con orgoglio, di un uomo che si fonda su se stesso, un uomo che non è in grado di influire sulla “grazia” tramite il proprio fare, e che tuttavia deve “progettarsi”, che è per forza demandato a realizzarsi. Questo uomo deve divenire capace di azione, proprio perché è impotente. Gehlen parla spesso degli “interessi dell’impotenza”, che rendono agli uomini indispensabile il cercare di stabilizzarsi attraverso “sistemi guida superiori”, concezioni del mondo o istituzioni. Questa debolezza induce forzosamente all’eroismo del resistere, e già nel 1931 Gehlen premette al primo capitolo del suo libro la citazione da Hegel: non la vita che teme la morte e si preserva dalla devastazione, ma quella che sopporta e si mantiene in esse, questa è la vita dello spirito7.

Così come più avanti cercherà di esplicare la “posizione dell’uomo” a partire dai condizionamenti tipici della specie di un essere che è “per natura” un essere culturale, così Gehlen nel suo primo libro partiva da una una logica della situazione8. Al centro della riflessione sta, certo, il soggetto singolo. Tuttavia, per l’uomo, l’unico oggetto appropriato è l’Altro. Non è un’idea astratta dell’umanità che può dare un orientamento, bensì le concrete relazioni tra gli uomini, prima tra tutte l’amore. La gerarchia di valori di questo primo teorema dell’ordine è connotata da una dialettica Io-Tu che qui resta vaga (ma è esposta con grande empatia): in qualità di garante dell’appagamento della realizzazione vitale, l’Altro assume un ruolo che più tardi sarà riconosciuto agli ordini oggettivi, ai vincoli istituzionali e alle leggi specifiche di ogni ambito oggettivo. Ogni passo oltre l’Io puramente potenziale trasforma l’esperienza della “propria essenziale incertezza” e fragilità in una “certezza dell’essere” (GA1, pp. 159 e seg.). Detto ciò, non si tratta di speranza romantica, nemmeno di esaltazione comunitaria, poiché l’esistenza dell’esserci empirico trascorre generalmente in una solitudine «nella quale gli uomini cercano di ingannarsi a vicenda, convincendosi di vivere gli uni assieme agli altri» (GA1, p. 319). Il centro della riflessione filosofica nella prima produzione di Gehlen (presentata con giovanile consapevolezza) è il singolo in evoluzione. Anche nella sua “antropologia elementare”, esposta nel 1940, è il processo ontogenetico a costituire per lui il campo dell’esperienza, l’illustrazione delle posizioni raggiunte, il modello delle leggi di strutturazione e crescita formulate in modo

7 8

G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes [prima 1807], in: Idem, Werke in 20 Bänden, vol. 3, a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel, Francoforte sul Meno, 1983, pp. 29 e ss. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, introduzione di K. S. Rehberg, Milano, 1983, p. 109.

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più generico. Il modello di sviluppo a gradini di Wirklicher und unwirklicher Geist è elaborato come schema del processo di crisi esistenziale di ogni giovane uomo, ove cruciali sono le possibilità di superamento della crisi come i rischi di un fallimento. Già qui dunque è formulato in nuce il punto decisivo dell’antropologia e teoria sociale di Gehlen: le minacce sono una prima istanza, esse vanno compensate e ridimensionate, soprattutto tramite orientamento e doveri che trascendono l’individuo e che sono i soli a metterlo in grado di giungere a se stesso. I gradi di sviluppo sono così descritti: inizialmente il bambino vuole “essere l’Altro” in una forma di identificazione emulativa, di appropriazione del mondo attraverso la quale, nell’altro, giungiamo a noi stessi proprio quando, nel contempo, ne siamo più distanti (GA1, pp. 173 e seg.). Sul secondo gradino Gehlen trova l’autoreferenziarsi della persona (il “voler essere sé”), e si è resa evidente la precarietà di una simile situazione. Se il primo stadio riguarda l’infanzia e la prima giovinezza, si dovrà qui pensare alla pubertà ed adolescenza dei giovani borghesi. Significativamente, la problematica di fondo in Gehlen, e dunque anche la sua definizione dell’uomo come un essere vacillante, deriva fortemente dall’evidenza di una simile esperienza formativa vissuta in prima persona (questo non per fare della psicologia a tutti i costi, ma piuttosto per tentare una comprensione dei fondamenti del pensiero di Gehlen che si alimenti anche della sua biografia). In questa fase le azioni appaiono come un che di casuale, “fuoriescono da me estranee e periferiche, volute a metà, sofferte a metà”, e la persona è talmente ancorata a sé da percepire il mondo come minaccia, è serrata nelle proprie fantasie e nella “malattia del negativo” (GA1, p. 185 e seg.). Con l’appropriarsi di un possibile mondo, con la scelta di scopi e l’elaborazione di sentimenti complessi il giovane ha sì scoperto il proprio “Sé”, ma può perdersi, impigliato in esso, dal momento che egli – narcisista ed egocentrico – non è ancora passato attraverso la vincolante comunicazione con cose date e persone. Prendere come imperativi, come fattori determinanti del proprio agire la relazione Io-Tu, altre persone ed altri contesti di validità è una cosa che va appresa con dolore (e che costituisce la terza fase da Gehlen descritta). Lo stesso dicasi per il fatto che non è possibile definire il mondo con il proprio egocentrismo o le proprie fantasie di onnipotenza, perché il mondo è entrambe le cose: esiste al di là del disporre di un Io – e in tal senso anche è minaccioso ed estraneo – ma è anche lo “spazio” della vita, quindi la condizione del realizzarsi del Sé. In questa situazione le produttive possibilità del pensiero e della fantasia celano in sé anche dei pericoli. Solo chi domina questa fase di sviluppo senza perdersi, chi è in grado di conservare tale esubero di possibilità nel confronto con il mondo di fuori, chi impara ad affidarsi a sistemi stabiliti e ad altri uomini – ecco, questi avrà conquistato un vantaggio, una vita interiore più ricca, una sensibilità viva e al contempo concreta, un “più” di mondo. Chi invece fallisce in questa prova di trasformazione nel “regno della necessità”, si ritrova nel migliore dei casi in pericolo di cadere

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malato. La malinconia della giovinezza con i suoi potenziali, pericolosi inasprimenti è un topos che qui si insedia come essenziale9. Nella Teoria della libertà del volere10, apparsa nel 1933, Gehlen affronta un problema tradizionale della filosofia, che da sempre rimanda alla sfera dell’azione. Le soluzioni da lui individuate sono qui di rilievo solamente nella misura in cui riprendono i motivi personalistici della tesi di abilitazione: la volontà appare come superamento dell’umana “dipendenza dalle pulsioni” (Triebhang) ed è definita in riferimento agli ordini della società. Già la “premessa” focalizza sul rapporto tra persona ed azione (GA2 p. 4 e seg.). In questo scritto è tentato un rinnovamento della filosofia con i mezzi dell’“Idealismo”, ovvero nel sentire di una “immediata certezza della pensabilità dell’essente”. L’esito: una libertà filosoficamente provata della volontà non è “piacimento, arbitrio e soggettività” [!], bensì – hegelianamente – “nella sua forma somma, come libero compito della libertà”, è necessità. E la sua corrispondenza soggettiva si chiama “lo stabilire di uno stato della persona” (GA2, pp. 3 e seg.). Già queste riflessioni sulla libertà del volere avevano condotto Gehlen alla dimensione antropologica del problema, ovvero alle condizioni di natura della libertà umana. La “natura” dell’uomo necessita di moralità, «lasciata a sé stessa non è dunque nulla, ma approda alla propria realtà indirettamente, come [...] ‘natura guidata’» (GA2, p. 152). Ciò implica anche che i presupposti della libertà devono essere costruiti, sono legati ad una “autodisciplina”, una maturazione non solo fisica, l’agire sulle pulsioni e la formazione di “una ferma volontà” (GA2, 152 e seg.). Le pulsioni non sono concepite come determinanti della volontà, ma come oggetti dell’elaborazione. Può darsi anche una libera adesione ad esse, ma solo quando a farlo sia una persona “in possesso della facoltà di dire no”. In conclusione: «Destino è ciò che comunque accade» e «la libertà più alta è l’abbandono di ogni egocentrica volontà alla determinazione del proprio destino, e invece la capacità di affermare ogni cosa accada» (GA2, p. 157). L’elaborazione filosofica di Gehlen si è compiuta – in corrispondenza al suo modello della maturazione della persona – come un passaggio dal soggettivo ad una “teoria dello spirito oggettivo”, anche se non era più possibile difendere indomitamente la filosofia della storia di Hegel. Su un piano politico, Gehlen rappresentò sempre la posizione della destra hegeliana dell’approvazione dello Stato, come è espresso chiaramente nella sua lezione inaugurale a Lipsia nel 1935, determinante fin nella teoria delle istituzioni e nelle critiche dello stato tedesco federale. Il rapporto tra libertà e necessità, tra persona ed ordine resta 9

10

Cfr. anche l’interpretazione di un “essere estraneo” in Nietzsche e M. Scheler: K. S. Rehberg, Die Theorie der Intersubjektivität als eine Lehre vom Menschen. George Herbert Mead und die deutsche Tradition der ‘Philosophischen Anthropologie’ in: Hans Joas (a cura di), Das Problem er Intersubjektivität. Neuere Beiträge zum Werk George Herbert Meads, Francoforte sul Meno 1985, pp. 60-92, spec. 86 e ss. Cfr. Gehlen, Willensfreiheit [come nota 5].

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presente anche dopo che Gehlen ebbe abbandonato le premesse del pensiero idealistico sistematico a favore della sua antropologia empirico-filosofica. Una conferma del fatto che l’opzione temporanea di Gehlen per la filosofia idealistica sistematica è da intendersi come un progressivo avvicinamento all’“oggettivo” emerge dalla lettura del suo articolo “in retrospettiva” del 1933 su “Idealismo e filosofia dell’esistenza”11. Qui Hegel è contrapposto ai rappresentanti della posizione esistenzialista, a Kierkegaard e Jaspers. I filosofi esistenzialisti avevano rilevato come “esistenza” fosse una questione non “di acquiescenza e conciliazione, ma di crisi e decisione”, come le questioni della fede non sorgessero dalla certezza di sé, ma dalla disperazione (GA1, 386 e seg.). Anche Gehlen era di tali convinzioni. Per contro, però, egli rifiutava la riflessione soggettivizzante (per lui necessariamente negativa) che, una volta scoperta, diviene parte integrante dell’habitus di pensiero e di comportamento, per «accompagnare poi ogni immediatezza della vita con il suo flebile segnalarsi e porre dubbi» (GA1, 391). Inoltre egli temeva la “brama dell’essere” che impregna ogni tipo di esistenzialismo (compreso il pensiero di Nietzsche) (GA1, p. 401). Attraverso un percorso esistenzial-filosofico si giunge forse ad una “estetica delle pulsioni”, non certo però ad una ontologia (ragion per cui le aspirazioni di Martin Heidegger non sarebbero sostenibili). Questo modo di filosofeggiare procederebbe per categorie come “paura”, “erotismo” o “potere”, ritornando dunque, in certa maniera, sempre a Nietzsche (GA1, p. 395). Ora, per non perdersi in simili sforzi di riflessione (che Gehlen è riuscito a tracciare con tale partecipazione emotiva poiché erano vicini ai suoi), egli opta decisamente per una filosofia della moralità oggettiva, dell’etica, e quindi per Hegel e la teoria della religione di Fichte. Ciò che c’è di decisivo, nel “momento dell’oggettività”, è che «il potere spirituale, per l’individuo […] appare come il modo del generale contro la coscienza di sé» (GA1, p. 402). 1a. Escursus: persona e progetto di sé in Gehlen e Sartre Gehlen, che ben volentieri liquidava con disprezzo il pathos esistenzialista della libertà di Jean-Paul Sartre, giunge d’altra parte a conclusioni molto simili. La categoria di Sartre del “progetto” presuppone la libertà della scelta in ogni situazione e rimanda al fatto che i dati di fatto e le “necessità”, le strutture – per quanto possano sembrare salde e minacciose – abbiano fondamentalmente bisogno del completamento tramite la persona (e in tal senso del riconoscimento). Questa visione include ogni momento della formazione dell’azione e della personalità, necessarie nel senso che anche Gehlen conferiva loro. Anche Sartre, in L’essere e il nulla12, partiva dalla situazione come dal punto di riferimento di ogni attività ed analizzava “avere, fare ed essere” 11 12

A. Gehlen, Idealismus und Existentialphilosophie, [prima 1933], in: GA1, pp. 383-402. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla [prima 1943], Milano, 1965.

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come le “categorie principali della realtà umana”, prendendo il rapporto tra attività e libertà come punto di avvio13– tutto questo come ulteriore parallelo con l’approccio gehleniano. Anche per gli esistenzialisti francesi le formazioni istituzionali delle circostanze fattuali date volta per volta acquisivano importanza crescente, si pensi alla grande, fittizia “sociologia della famiglia” degli studi su Flaubert14. Le direzioni dello sguardo, d’altro canto, divergono radicalmente – anche questa una nota che, ad una considerazione superficiale, potrebbe far apparire come insostenibile la mia tesi dei motivi esistenziali centrali nell’opera di Gehlen. A Sartre sta a cuore la liberazione dai vincoli prefissati del mondo sovrapersonale, a Gehlen invece l’ordinamento in essi attraverso l’individuazione di un rapporto formato sugli altri e quindi su se stessi. Per Sartre la “prova” (Bewährung) dell’uomo sta nell’atto del divenire Sé, anche a condizione della assoluta assurdità della vita umana, nella “scelta” di un’esistenza concreta e nella dignità della resistenza. Le condizioni che implicano coercizione non vanno negate, ma devono farsi punto di riferimento di un progetto di sé. Lo sguardo di Gehlen sulla medesima questione, la sua elaborazione del problema, persino, ancora, le sue “soluzioni” tanto simili seguono però un approccio rovesciato: non la violenza sulla persona perpetrata attraverso i rapporti, non l’essere in balìa dello “sguardo” degli altri, non il turbamento dell’esistenza tramite la mancanza di senso di una vita non più rimandabile ad un fondamento di senso preordinato (divino). Nulla di tutto ciò motiva la dimensione drammatica dell’auto-interpretazione umana, ma invece la soggettività minacciata, l’incompiutezza, il distacco dalle cose, la “possibilità costituzionale di fallire”15. L’uomo deve contrapporvi qualcosa, persino controbattere tutto questo: la formazione di sé come persona che vive all’interno di ordini, che solo in questo modo può elevare e trovare se stessa, creare un’identità. E ancora: in entrambi i casi si parla dello sviluppo di una soggettività che prende posizione nei confronti del mondo, però in Gehlen questo è pensato sul modello della “normalità” borghese, poiché egli diffida delle eccentriche soluzioni di progetti di vita liberi e “liberati”, e vede la convenzionalità come una chance dalla quale il non-convenzionale (cioè il sovra-convenzionale) può in ogni caso generarsi. 2. Antropologia: l’“essere carente” e il pericolo dei “sovraccarichi” Nel 1935 si attua il passaggio di Gehlen all’antropologia ed alla teoria, ad essa legata, dell’agire umano. In precedenza, lasciatosi alle spalle il punto di vista della filosofia esistenzialista, troppo soggettivo, egli aveva inteso sviluppare il metodo idealistico in una teoria dell’azione in grado di porre cano13 14 15

Cfr. ibid., spec. IV° parte cap. 1, II. J.-P. Sartre, L’idiota della famiglia: Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, Milano, 1977. A. Gehlen, L’uomo [come nota 7], p. 58.

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ni etici, e in tal senso oggettivi (GA2, pp. 331 e seg.). La “felicità basata sulla soddisfazione intellettuale”16 (Erfüllungsglück) del pensiero sistematico, tuttavia, gli divenne presto ostica, cosicché infine egli perseguì una fondazione non-metafisica per le categorie oggettive della natura umana. In un primo momento egli intendeva però semplicemente elaborare una antropologia “da dentro”, escludendo cioè il versante “oggettivo” delle condizioni dell’esistenza umana17. Ne L’uomo, tuttavia, sarà proprio questa dimensione ad assumere un ruolo decisivo. L’intento di fondo di Gehlen rimase in ogni caso quello di una comprensione scientifica delle condizioni di vita dell’uomo, in special modo dei processi di formazione tramite i quali questo riesce a stabilizzarsi rispetto al pericolo insito nella sua esistenza stessa. In seguito al suo ultimo atto di aggiustamento dell’orientamento filosofico, ovvero il superamento del metodo idealistico non meno che di quello esistenzialistico, in definitiva a partire dal 1935, Gehlen si decide per una fondazione antimetafisica, diretta contro ogni filosofia sistematica, in un programma di indagine empiricoscientifica della realtà. Potrebbe dunque sembrare che i motivi “esistenzialistici” abbiano subìto una progressiva ritirata, a partire dalla scelta dell’idealismo e poi dell’antropologia filosofica empiricamente fondata, e che siano, alla fine, da ricordare come meri “peccati di gioventù”. È però possibile mostrare che certo, l’argomentazione si volge verso una descrizione di tipo antropologico-biologico dello sviluppo della specie umana, nonché su una teoria sociale sulla compensazione delle incertezze e dei “deficit” dell’uomo, ma anche che proprio quest’ultima tematica – e con essa tutto quanto ha reso noto Gehlen come pensatore e critico conservatore – è comprensibile solamente sulla base della tensione della problematica esistenziale di fondo. 2a. L’“essere carente” – Lo sfondo negativo della “personalità” Dal problema della “personalità” deriva innanzitutto il valore argomentativo dell’”essere carente”, concetto piuttosto controverso da un punto di vista della teoria evolutiva e dell’antropologia biologica.18 Notoriamente si tratta di un modello ripreso da Johann Gottfried Herder19, un concetto comparativo 16 17

18

19

Cfr. A. Gehlen, Wirklichkeitsbegriff des Idealismus [prima 1933], in: GA2, pp. 183-197, spec. 188. Fattori “oggettivi” erano secondo Gehlen la “teoria” delle razze e la differenza tra gli animali e gli uomini, p.e. anche il programma metafisico di Max Scheler; cfr. A. Gehlen, Der Idealismus und die Lehre vom menschlichen Handeln [prima 1935], in: GA2, pp. 313-345, spec. 341. Sulla discussione del concetto di “essere carente” cfr. p. es. l’aspra critica dell’etologo e premio Nobel K. Lorenz, Karl-Siegbert Reberg: Zurück zur Kultur? Arnold Gehlens anthropologische Grundlegung der Kulturwissenschaften, in: H. Brackert e F. Wefelmeyer (a cura di), Kultur. Bestimmungen im 20. Jahrhundert, Francoforte sul Meno, 1990, pp. 276316, spec. 277 e ss. e 303. Cfr. A. Gehlen, L’uomo [come nota 8], pp. 100-113 e Idem, Un’immagine dell’uomo. [prima 1941], in: Idem, Antropologia [come nota 6], pp. 83-96, spec. 88 e ss.

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delineato come un’anatomia morfologica, che si rifà alla “incompiuta” specializzazione degli organi umani. Si tratta di un concetto differenziale di tipo euristico, ottenuto dalla distinzione nei confronti degli animali, che deve descrivere lo sviluppo separato rispetto agli ominidi. La differenza deve essere mostrata esattamente là dove la vicinanza appare massima. La tematica del “posto peculiare” dell’uomo è tra l’altro il tema che unisce tra loro gli autori della “antropologia filosofica”20 a partire da Max Scheler (in realtà già da Paul Alsberg, che si può considerare un importante precursore, con la differenza che questi non ha usato la formula di Scheler e Helmuth Plessner21). Come concetto comparativo, l’espressione di Gehlen “essere carente” ha assolutamente senso. Se la sua funzione si esaurisse in questo, tuttavia, la struttura delle caratteristiche da esso descritta si potrebbe definire anche in un altro modo, più neutrale e in certo senso più “tecnico”. Tra l’altro va ammesso subito che un’espressione come “specializzazione organica relativamente bassa e manchevole adattamento ambientale” sia più complessa ma arida, decisamente inferiore alla suggestiva, plastica parafrasi di Herder compiuta da Gehlen, tranne per il fatto che riesce a riformulare con puntualità l’accezione così come può essere unicamente intesa sul piano biologico. Gehlen ricerca però più che una semplice definizione. Per questo il concetto “essere carente” non presenta solamente i vantaggi di una maggiore pregnanza linguistica, ma è da prendersi, per così dire, quale necessario termine-chiave della teoria gehleniana. Le carenti specializzazioni organiche non sono il fattore decisivo. Molto più rilevante è un concetto di partenza di “ordine politico”, la drammatica presa d’atto dell’incompletezza e incompiutezza dell’uomo, il suo essere disancorato, la sua “capacità di degenerare”, il suo abbandonarsi a se stesso e il suo eccesso pulsionale, in breve: il suo essere a rischio – tutte queste sono categorie esistenziali. Ne deriva, per necessità concettuale, l’interrogativo sulle possibilità di una compensazione, la pretesa di esse. E la risposta è che condotta dell’azione, consapevolezza, adeguatezza al linguaggio (Sprachmäßigkeit)22, (auto-)disciplina, carattere, istituzione,

20 21

22

Cfr. K. S. Rehberg, L’antropologia filosofica dal primo dopoguerra agli anni Quaranta e in prospettiva moderna, in Iride 39 (2003), pp. 267-288 (con la tesi di una “sociologizzazione” del sapere sull’uomo, spec. pp. 276 e ss.). Cfr. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen Lösung, Dresden, 1922; su una controversia sulla posizione di Alsberg nell’opera di Gehlen elaborata dal filosofo Wolfgang Harich cfr. K. S. Rehberg, Affermare le istituzioni. Un’amicizia epistolare tra un comunista e un conservatore, in Discipline Filosofiche XII (2002): L’Uomo, un progetto incompiuto, Vol. I, Significato e attualità dell’antropologia filosofica, a cura di A. Gualandi, Macerata, 2002, pp. 197-224, spec. 215-219 e Idem, Postscriptum per l’edizione italiana, in: ibid., pp. 225-228. Cfr. anche H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie [prima 1928], in: Idem, Gesammelte Schriften, a cura di Günter Dux et. al. vol. IV, spec. pp. 39-77. Cfr. A. Gehlen, L’uomo [come nota 8], p. 215.

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ecc., in breve: cultura, costituiscono la specificità della vita umana. Emerge qui il mito del peccato originale in forma secolarizzata, con le spoglie di determinazioni concettuali di tipo biologico. Cultura è l’obbligo all’autocostrizione sorto dalla colpa (originaria) – motivi simili si trovano anche in Sigmund Freud o Max Weber. 2b. Ontogenesi e teoria dell’azione Se si prende la problematica esistenziale del divenire persona come punto focale di riferimento per tutti i lavori di Gehlen si raggiunge anche la comprensione della costruzione argomentativa della sua “antropologia elementare”: il modello dell’uomo – in quanto essere che agisce e si struttura in base al linguaggio – è elaborato ed esemplificato in base allo sviluppo infantile. L’ontogenesi è il campo dell’indagine empirica dal quale sono estratte le “categorie” antropologiche in qualità di fatti fondamentali non ulteriormente derivabili. La varietà della plasticità umana e delle sue facoltà di sviluppo si fa evidente nelle analisi del divenire persona, in special modo dell’infanzia e della giovinezza, ma ne emerge al contempo anche la minaccia cui è sottoposto l’uomo finché non abbia raggiunto una salda posizione nel mondo. Unico mezzo della “salvezza” dell’uomo da quell’estraneità alle cose trasognata e riflessiva che lo assilla dalla giovinezza è, per Gehlen, l’azione. L’agire spinge l’uomo all’esterno, nel fattuale e strutturato, è l’unica cosa che, minando l’autoreferenzialità irreale dell’Io, può schiudergli la “realtà”; infatti noi «impariamo a conoscerci solamente attraverso le nostre azioni, e chi volesse attendere fino alla fine della sua riflessione non approderebbe a nulla» (GA1, p. 142). Nel compimento dell’azione sono create delle realtà, dei fatti al di là di qualsiasi programmazione o progetto, anche se non indipendentemente da influenze, accenti particolari e canalizzazioni concrete ed intenzionali della corrente continua dei movimenti. Le azioni sono provocate da ciò che fa resistenza, sono portate avanti in processi di oggettivazione (essi stessi un risultato di azioni), sono formate da referenti esterni dell’“interiore” che necessariamente concorrono a dettarne le condizioni, com’è per le esperienze di ogni tipo. La chance al salto fuori dalla nullità della singola esistenza, questo trascendere il puro esserci spinge il tema dell’azione al centro del discorso, prima nei lavori esistenzialistici e idealistici di Gehlen, più tardi in quelli antropologici, e infine in quelli sociologici e di critica contemporanea. Già all’inizio degli anni 30, dalla teoria della volontà, si profilava l’implicazione attivistica che l’azione fosse “il grande mezzo per elevarmi dalla dispersione” (GA1, p. 226). Ciò rimanda alla “presenza”, all’assoluta contemporaneità, che è possibile non solo nell’amore (che “mi reclama totalmente” – GA1, p. 160), ma in tutto ciò che libera da pigrizia e paura, dall’abbandono al futuro o al passato. Da questo dipenderebbe dunque il fatto che il negativo, il pericolo non vanno evitati, ma piuttosto assunti come elemento “necessa-

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rio” della vita (GA1, p. 226 e seg.). Persino la “ricerca del negativo” può dunque farsi necessaria, poiché: la realtà nel suo momento più intenso può essere raggiunta solamente nella totalità, e questa richiede che si sia stati nel Negativo, in una qualsiasi delle sue forme: è indifferente che si sia vista in faccia la morte oppure la necessità, se si sia sostenuta la lotta per la vita o quella per l’esistenza, oppure se ci si sia decisi contro se stessi, nella rinuncia esistenziale all’ideale che la passione teneva ben saldo, […] la vita giungerà a se stessa sempre e solo nel Negativo, cioè palesando ciò che è l’Improprio, il Fantastico della sua pretesa esistenza e nella ricerca di sfere più basse, in una sorta di rinuncia all’essere, guadagnando in realtà, serietà e verità; oppure, essa permarrà, e giunta alla propria totalità, al di là della problematica raggiungerà una vetta dell’essere che prima era solamente in potenza e che ha dovuto mettersi in discussione, come al di fuori di se stessa, prima di poter essere raggiunta (GA1, 264).

Tutto ciò ricorda Hegel come Heidegger, come anche la prosa, avida di morte, delle situazioni-limite Nelle tempeste d’acciaio (Stahlgewitter) di Ernst Jünger. Nell’enfasi della filosofia pratica gehleniana la non-decisività, ovvero la codardia, appare – similmente a Nietzsche o a Carl Schmitt – come la “radice comune dei vizi e dei modi sentimentali del ben agire”. Quell’attivismo che dopo il 1933 Gehlen presentava persino quale fondazione filosofica del fascismo23 non si esaurisce comunque nelle seduzioni della grande azione (auto-)distruttiva (militare), benché sia importante non perdere di vista tali connotazioni. In un contesto sistematico questa prospettiva dell’azione presenta un vantaggio metodologico, ovvero sa rilevare efficacemente la produttività dei processi dell’azione mentre evita, molto coerentemente, qualsiasi conclusione razionalistica (come quella per cui le azioni apparirebbero mera attuazione di progetti e risoluzioni precostituiti nel pensiero). Si tratta di interessanti questioni specifiche per ogni teoria dell’azione; e tuttavia qui contano solamente i motivi di fondo dei contributi nonché delle debolezze di Gehlen sul piano scientifico, che trovano entrambi espressione proprio nel suo attivismo24. 2c. Il nuovo dualismo: azione contro riflessione Sono gli stessi motivi esistenziali di ricerca ed oggettivazione del Sé sopra descritti ad aver indotto Gehlen alla costruzione di un nuovo dualismo, nella 23

24

Cfr. intervista del giovane professore ordinario Arnold Gehlen con la Leipziger Hochschulzeitung dal 14 febbraio 1935: “All’inizio di una filosofia nuova deve esserci una etica come dottrina dell’azione. Da qui risulta una dottrina dell’atteggiamento, ovvero l’etica del nazionalsocialismo.” Cfr. K. S. Rehberg, Aktion und Ordnung. Soziologie als Handlungslehre, Leipziger Klassiker-Lektüren, in C. Bohn e H. Willems (a cura di), Sinngeneratoren. Fremd- und Selbstthematisierung in soziologisch-historischer Perspektive, Festschrift für Alois Hahn zum 60. Geburtstag, Costanza, 2001, pp. 301-337.

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sua teoria dell’azione, che va contro a quella così efficace rappresentazione di un modello antropologico dell’unità dell’uomo: l’agire è contrapposto alla riflessione in un modo che concretamente è di non facile comprensione. Decisione, atto, esperienza di sé nell’agire, esiti ben riusciti dell’affrontare ciò che accade, il compimento di innovazioni della realtà risultano sempre dalla dinamica del processo. Nelle analisi di Gehlen la riflessione resta invece allo stato di puro pre-sentire e post-riflessione, una prestazione della fantasia in prospettiva o retrospettiva. Per la teoria dell’azione ciò comporta plurime conseguenze. Come già nel suo primo libro, nonché nello scritto sulla Libertà del volere, la riflessione non è per Gehlen qualche cosa di liberatorio, ma solo un altro aspetto di uno smarrimento dell’Io, una dipendenza dalle proprie pulsioni, come apatia e passività. E questo non convince molto, tanto più quando si intenda (con Gehlen) l’azione come il coniugare al consapevole aggiustamento comportamentale l’esercizio della routine, come la pratica sintesi tra lo psichico ed il somatico. L’azione necessita della riflessione appunto non solo in quanto fantasia progettuale e pianificazione, e nemmeno solo in quanto pura meditazione su ciò che è già passato. Le azioni umane sono invece decisamente definite proprio dalla riflessione sul loro compiersi. L’agire è sempre riferito al comportamento: è una forma del comportamento. Per questo è connesso indissolubilmente a processi fisici e mentali e si realizza in essi. Agire è la trasformazione attiva e al contempo sempre riflessiva di procedimenti comportamentali in un contesto di intenzioni e determinazioni di rotta. Il proprio comportamento è dominato, canalizzato, orientato per passaggi – per momenti “strategici” –, permeato di significati e adattato alle misure del controllo direzionale. Come più di tutti ha mostrato Alfred Schütz, dell’agire fanno parte progetti orientati al futuro, che come tali rendono l’agire stesso oggetto di fantasia come fosse già compiuto, come se cioè fosse stato raggiunto lo scopo. Il compimento dell’azione non lascia tuttavia intatti intenzioni e scopi, ma li modifica, rafforza, indebolisce, li fa magari “dimenticare” o li sommerge con altri nuovi. Per questo io concepisco come definizione dell’agire il “nucleo dell’azione nel comportamento”. Agire è dunque l’unione di un contesto comportamentale con i complessi presupposti dei campi d’azione interiori ed esteriori. Le azioni sono circuiti dinamici di regole, come bene le seppe descrivere Gehlen25. In questi “processi circolari” non si realizzano solamente dei valori del dovere, ma si producono anche nuovi imperativi. L’agire si compie sempre su più livelli contemporaneamente, è sempre psicologico, sempre cognitivo, percettivo, e assieme sempre sensorio e “linguistico” (anche quando è non verbale); l’agire è dunque sempre anche intellettuale e riflessivo. Per questo la contrapposizione di Gehlen tra azione 25

Gehlen ha creato il suo modello della auto-regolazione e dei processi circolari elementari parallelamente allo sviluppo della cibernetica dal fisico Norbert Wiener, cioè nei primi anni quaranta del scorso secolo, prima pubblicato in: A. Gehlen, L’uomo [come nota 8], parte seconda, cap. 13 (pp. 163-173).

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e riflessione, concretamente, e proprio sulla base del suo modello dinamico d’azione, non convince. Eppure, ancora, questa falsa opposizione è facilmente comprensibile, ovvero come espressione del suo esistenzialismo d’azione, della sua paura dell’autoreferenzialità e mancanza di oggettività del mero pensare. 2d. “Disciplina” Dalla “carente” costituzione di base dell’uomo come dalla conseguente dipendenza dall’azione deriva la possibilità di definire l’uomo come un essere cui inerisce una “disciplina”, come nella formulazione dello stesso Gehlen – con un che di opportunistico (dopo il 1933). Dall’esterno verso l’interno sussiste un nesso inscindibile: il mondo concreto con i suoi compiti e le sue opere, nel quale tutti viviamo; il tipo specifico di lavoro con cui l’uomo affronta tali compiti, poi le abitudini, gli atteggiamenti e le disposizioni […]; l’ordine degli impulsi, che hanno trovato una forma definita, la concentrazione della vita volitiva e infine l’ordine vegetativo del corpo, che trova in queste condizioni la propria umana integrità fisica – non c’è uno stacco netto, e se fossero sottratti all’uomo i suoi compiti per un certo anello della catena, subirebbe decadimento e malattia al successivo. (GA 3, 439)

L’uso del concetto tedesco Zucht ha sempre rimandato innanzitutto a Kant con il significato di (auto-)disciplina, ma Gehlen ha lasciato aperta la questione se non si volesse, o dovesse anche, talvolta, pensare piuttosto all’ideologo nazista molto influente, Alfred Rosenberg, ed alle fantasie di “allevamento” nell’ambito del razzismo biologico. “Disciplina” significava per Gehlen prima di ogni altra cosa auto-educazione ma, molto più in generale, anche trasformazione della persona, inversione dell’orientamento pulsionale, elaborazione dell’“essere culturale” a partire dalle condizioni della sua prima natura. Al fine di una plausibilità adatta all’epoca egli commentava che un “fatto fondamentale di qualsiasi educazione” è quello per cui «educazione e tempra del corpo sono l’unico mezzo per formare il carattere, e quindi una ferma volontà» (GA2, p. 153). Proprio in questa immagine è evidente la vicinanza di questa teoria dell’auto-educazione a quell’etica aristocratica, militare e borghese della sintesi che passa spesso e volentieri per catalogo di “virtù prussiane”. Il dominio di sé come condizione del dominio sugli altri, il superamento delle minacce della decadenza tramite la padronanza di sé, come anche la salvezza dell’attivo maschile contro l’“eterno femminino”26 – tutto questo stava a fondamento della concezione di sé di diversi tipi di azione. 26

Questa era una formulazione di Johann Wolfgang von Goethe nel “Faust, parte II”, ma un’analisi dei discorsi nella prima metà del novecento è stata elaborata da K. Theweleit, Fantasie virili [prima in tedesco 1977], Milano, 1997.

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Militari, conservatori (fin anche alla resistenza anti-hitleriana), politici socialdemocratici che si pretendevano al servizio delle classi sottomesse e della patria, e infine l’intero personale delle istituzioni borghesi – tutti vi potevano ritrovare motivi per i rispettivi atteggiamenti (che sul piano politico stavano spesso agli antipodi). E anche i nazionalsocialisti si adoperavano per l’appello ad un’etica del sacrificio di sé, guidata dalla consapevolezza di un dovere verso il loro interesse al potere. In mezzo a tutto questo, dunque, Gehlen non era affatto estraneo alla dottrina vigente, anche se collocava il senso biologico dell’educazione su di un gradino più basso. Su un piano più astratto, ciò significa: l’uomo è un “essere della disciplina” poiché crea cultura, poiché deve agire, poiché gli animali non conoscono “né moralità né educazione” (GA4, p. 75). In questo punto si inserirebbe anche la teoria sulla volontà che Gehlen elaborò in una prospettiva antropologica. Nella sua opera principale, L’uomo, facoltà del volere e necessità di disciplina (Zuchtbedürftigkeit) di questo essere dalle pulsioni esuberanti e plastiche, l’uomo, vanno di pari passo. “Volontà” non è qui una capacità particolare, bensì è possibile pervadere l’intero corpo – al di là di alcune “disposizioni fisse” come quelle del sistema nervoso vegetativo – con atti di volontà, cosicché “volontà” vuol dire “prendere il comando” dei processi motori di una persona (GA3, p. 430). In tal senso Gehlen può definire l’uomo proprio attraverso la sua volontà. Le risoluzioni volontarie, come anche la forza di attivarsi, fanno parte dei tratti strutturali decisivi di ogni azione. Ancora una volta è Nietzsche lo stimolo, poiché per lui la volontà è «ciò che tratta i desideri come il loro padrone, mostrando loro una via e una misura». Già Aristotele aveva capito che abitudine ed atteggiamento formano l’ethos27. 2e. “Carattere” Poiché la categoria dell’azione è riferita alla stabilizzazione ed alla facoltà dell’uomo di gestire e dominare sia se stesso che i problemi che lo opprimono, essa rimanda ad un modo della realizzazione (o della creazione di realtà). Le azioni non sono da intendersi alla “Robinson Crusoe” (anche se possono bene essere compiute in solitudine); sono sempre correlate a relazioni di tipo sociale. Poiché la canalizzazione delle pulsioni, la stabilizzazione degli impulsi e l’instaurazione di sicurezze dell’habitus stanno in primo piano nell’antropologia gehleniana, anche qui la teoria della personalità è decisiva. Ne L’uomo essa è esposta sotto il titolo di “carattere”28. Si tratta della forma orientata a modelli tradizionali di comportamento, di ciò che nella tradizione individualistica si chiama “identità”, e in Gehlen è la concretizzazione del 27 28

Cfr. A. Gehlen, L’uomo [come nota 8], pp. 413 e ss. Cfr. ibid., parte III, cap. 43 (pp. 416-428).

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concetto di disciplina nella teoria della personalità. In ogni caso anche nella “antropologia elementare” presentata nel 1940 (pienamente in linea con i motivi sin qui descritti) il tema centrale è il superamento del caos interiore, una responsabilità che “si estende sino alle profondità della vita vegetativa”, poiché: gli impulsi incontrollati mostrano «una tendenza all’estendersi [...] dell’area dell’istinto; subentra allora uno svuotamento, un processo di proliferazione e di desolazione, che si spinge sino al punto centrale gravando soverchiamente sul sistema nervoso»29. Una vita, con le parole di Gehlen, “abbandonata dalla condotta”, una vita di pulsioni, “degenera”. Il concetto opposto è quello del “carattere”, inteso come il sistema di pulsioni, interessi permanenti, bisogni, bisogni indotti e così via, ricchi di contenuti e sintonizzati con i vari oggetti del mondo, il carattere è azione e materia dell’azione a un tempo, è in ultima analisi una struttura comportamentale sottesa da pulsioni accettate, fatte proprie o rifiutate, sempre però messe a partito, che sono state attivamente orientate le une sulle altre e sul mondo, oppure che si sono fissate o sono “risultate”, in reciproca successione, quale esito collaterale delle nostre azioni30.

Ad ogni passo dell’opera di Gehlen si fa evidente come i pericoli dell’uomo, il suo essere fragile, minacciato, irreale, si “conservano” proprio nell’inversione delle minacce costituzionali, come dunque l’esposizione al rischio dell’essere umano sia comunque presente in ogni progetto di personalità. Il suo breve schizzo Über Kants Persönlichkeit dell’anno 1938 illustra bene questa idea, poiché questi era stato un esempio vivente di come un carattere è “fondato”31. Kant, debole e mai del tutto libero da dolori, «in vita sua non si sarebbe mai sentito veramente malato, ma mai nemmeno veramente sano», e il raggiungimento della sua età lo avrebbe dovuto solamente a se stesso, ovvero ad una «instancabile prontezza, una dieta costante ed accurata, una condotta di vita pianificata» (GA2, p. 401). Solo attraverso la sua opera, alla quale egli si diede completamente, è possibile capirlo e “vivere per la propria opera” significa non solo: dedicarsi […] o sacrificarsi ad essa, ma significa: darsi ogni giorno, con metodo, coscienza e scrupolo e con la massima disciplina su se stessi, significa operare su se stessi nel senso che dall’esteriore conduzione della vita verso l’interno – cioè fino agli impulsi e alle interne strutture – esista un solo orientamento: quello del compito. (GA2, p. 400)

Questo intende dunque Gehlen quando, nella sua “antropologia elementare” dice: 29 30 31

Ibid., p. 416. Ibid., p. 419 e ss. A. Gehlen, Über Kants Persönlichkeit [prima 1938], in: GA2, pp. 397-406.

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l’uomo non vive, bensì conduce la sua vita. Questo dato di fatto lo incontriamo dunque qui, nel grado più basso, nel nesso delle prestazioni motorie e percettive, che l’uomo deve contemperare in se stesso, e con le quali orienta se stesso nel mondo. Esso però continuerà ad accompagnarci: accompagnarci anche quando giungeremo al linguaggio, nel quale interpretazione del mondo ed autocoscienza si sviluppano sempre e solo l’una in forza dell’altra. Né mancheremo d’introdurlo a spiegazione della struttura, altrimenti misteriosa, della vita pulsionale: dove si paleserà come una attiva pulsione verso l’esterno è sempre, al tempo stesso, una presa di posizione e un atto di padronanza verso l’interno. Solo in questa forma questo dato di fatto entra nelle istituzioni, nelle quali i nostri bisogni individuali s’intrecciano con le necessità generali, oggettive, che l’esistenza vien ponendo alla società32.

Per quanto Gehlen abbia esposto, nella stessa sede, anche dei fondamenti della formazione del carattere che sono legati a fattori ereditari, il divenire persona appare sempre in ogni modo come essenziale risultato delle azioni compiute dall’uomo, essa non è considerata tanto da un punto di vista psicologico, quanto invece quale “prodotto disciplinare della società”, esito dell’essere allevati ed introdotti in ordini sociali stabili. Nella riedizione (la quarta) della terza parte dell’L’uomo fa la sua comparsa, in questo contesto, un orientamento di critica culturale contro il soggettivismo in una “società disintegrata”. La critica della modernità liquida i teoremi dell’irrobustimento: una “educazione formativa” vorrebbe “dei tipi, non delle individualità”, mentre al giorno d’oggi «[sarebbero state abbattute] le forme tramandate di disciplina […] che al rapporto del singolo con se stesso conferivano un contenuto in primo luogo sociale. Ora, invece le persone ricadono nell’immediatezza»33. 3. Teoria delle istituzioni: necessità come condizione della libertà 3a. La nascita arcaica delle istituzioni L’intento di evidenziare i motivi esistenziali nell’opera di Gehlen – pensando alla sua teoria delle istituzioni – non implica affatto che i “fatti sociali” siano “derivati” dalla volontà dei singoli, o da un calcolo razionale o da disposizioni psichiche. La teoria gehleniana della nascita delle istituzioni dal “comportamento raffigurativo”34 si volge anzi empaticamente contro i modelli individualistici della fondazione di ordini (e quindi anche contro ogni teoria liberale del contratto). Nelle società arcaiche la fondazione di istituzio-

32 33 34

A. Gehlen, L’uomo [come nota 8], p. 200. Cfr. ibid., p. 426 e il paragrafo IV del presente saggio. A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici [in tedesco prima 1956], Milano, 1994, spec. cap. 13 (pp. 25 e 31).

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ni si compie, per Gehlen, su un piano strettamente anti-individuale ed a-razionale. Nelle danze mimetiche e nei rituali corporei dei culti totemici si rilevano plurime funzioni: il dominio della pressione di un ambiente che appare ostile, impenetrabile, pervaso dalla paura, e la fusione di pratiche magiche ed ordine sociale. Decisiva è l’(auto-)esperienza di un gruppo come unità che è istituita nel compimento collettivo delle azioni, che è da conservare salda nella memoria e da far rivivere nella reiterazione. Ne deriva una obbligazione latente, che resta spesso indefinita. La teoria delle istituzioni di Gehlen è da leggersi quale teoria del divenire autonome delle azioni, quale analisi dello sviluppo di scopi del sé. Sul piano del rapporto con gli utensili, che non sono mai solamente dei mezzi, ma agiscono sempre strutturando e motivando l’azione, si può mostrare ciò che vale anche per la coltura rituale di piante, per la protezione degli animali e per i riti totemici: l’effetto vincolante di azioni compiute e reiterate. La qualità di richiamo e la validità sono allora fondati non con una risoluzione razionale, ma sono risultati della suggestione di una realtà d’azione vissuta collettivamente e conservata nella memoria. Gli scopi risultano secondari e scomponibili, ma la “data originaria” di ogni validità, ossia la sottomissione a ciò che si è autoprodotto, è già diventata realtà35. A questo livello arcaico, collettivistico e mitologizzante della teoria delle istituzioni (come teoria della nascita di istituzioni originarie) non si può dimenticare che, per la concezione antropologica del problema dell’esistenza umana, è decisivo il fatto che proprio queste istituzioni devono avere la funzione di perpetuare le possibilità della formazione del carattere dei singoli individui, poiché in esse sono “colti e perseguiti assieme scopi vitali”, ma soprattutto esse forniscono un orientamento «ad azioni e sentimenti genuini ed armonici, con l’inestimabile vantaggio di una stabilizzazione anche della vita interiore». Nessuna libertà può dirsi conquistata definitivamente, nessuna vita “riuscita” al di fuori delle istituzioni, bensì sempre solo in relazione ad es-

35

Sorprendentemente Jürgen Habermas (Teoria dell’agire comunicativo [in tedesco prima 1981], vol 2, cap. VI, 2) si riferisce nella sua opera principale “teoria dell’azione collettiva” alla sociologia della religione di Émile Durkheim per colmare una lacuna nella concessione di George Herbert Mead. Esso non avrebbe potuto spiegare “come i simboli sacrali originali potevano nascere dall’interazione immediata.” La soluzione di Gehlen era identica a quella della teoria durkheimiana, sebbene Gehlen probabilmente non avesse letto il testo di Durkheim; ma c’era un’autore di mediazione Maurice Pradines (L’Esprit de la religion. Essai sur les rapports des Disciplines Humaines. Sciences, morale, philosophie – et des disciplines mystiques: magie e religion. Paris/Aubier 1941). Habermas non ha menzionato Gehlen in questo contesto, ma ha in questo modo accettato la premessa più importante della teoria istituzionale gehleniana; cfr. K. S. Rehberg, Die Theorie der Intersubjektivität als eine Lehre vom Menschen. George Herbert Mead und die deutsche Tradition der “Philosophischen Anthropologie”, in H. Joas (a cura di), Das Problem der Intersubjektivität. Beiträge zum Werk G. H. Meads, Francoforte sul Meno, 1985, pp. 60-92 e Idem, Sozialphilosophie und Theorie der Intersubjektivität. Zur neueren deutschen MeadLiteratur, in Philosophischer Literaturanzeiger 38 (1985), pp. 70-83.

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se, per quanto in un caso favorevole possano esistere degli spazi liberi. Sempre da ciò deriva il precetto dell’“estraniamento” – ancora una volta in senso esistenziale – di Gehlen, poiché appunto l’uomo deve la sua libertà al suo essere riconoscibilmente indiretto, all’accettazione dell’essere estraneo36. Questo stimolante apparato teorico reca però anche una mancanza di grande rilievo, ossia la proiezione normativa delle istituzioni in un’epoca arcaica e il confronto di esse, senza mediazioni, con la modernità. Manca qualsiasi radicamento della nascita e trasformazione delle istituzioni in una storia delle stabilizzazioni dei “mondi di vita” ad alto livello culturale tramite il dominio (il titolo Le origini dell’uomo e la tarda cultura indica questo cortocircuito). Le istituzioni sono, per Gehlen, validità incarnata, sono “sacre”, da comprendersi e ricostruire senza tornare al loro “personale”, ai loro gruppi portanti o ai loro apparati amministrativi, esse stanno per così dire al di sopra di qualsiasi esercizio del potere, sono esentate da qualsiasi situazione di lotta e conflitto – valide ed eterne secondo la loro “idea”. Una volta presupposto tutto ciò, sono certamente giustificati i contesti storici concreti, le disparità degli interessi, le aspirazioni al potere, la disposizione al conflitto etc.; la realtà del potere (che si propone essa stessa come “necessaria”) di ogni ordine dato conferma ricorsivamente il proprio fondamento normativo. E se il dominio sistematicamente non è trattato, i privilegi e i processi di ripartizione ad esso connessi si confondono dietro le funzioni di mantenimento dei grandi ordini (soprattutto Stato e Chiesa). Ora, tutto ciò corrisponde ad un progetto normativo della “personalità” e sostiene l’immagine del mondo delle élites: tutti gli uomini necessitano della formazione, ma pienamente essa riesce solo a pochi di essi. Questo può sembrare illuminante quando si scelga lo sguardo “da sopra”: esso necessita di una vicinanza a situazioni d’azione e decisione correlate al potere, ciò che per Gehlen è il presupposto per una storiografia veramente informata (e che egli credeva di trovare negli autori antichi)37. Resta tuttavia una contraddizione non chiarita tra le determinazioni antropologiche universali da una parte, e quelle culturali e legate alla stratificazione dall’altra. Le immagini della società nella filosofia gehleniana, che restano implicite, sono permeate da questa contraddizione. Ad esempio nel modello dell’esonero (Entlastung) si cela una giustificazione inespressa delle forme gerarchiche della divisione sociale del lavoro, o anche della ripartizione delle legittime chance di dominio; infatti, quale forma di esonero potrebbe superare in efficacia quella di una divisione delle posizioni assestata sulla fisionomia sociale e garantita tramite il potere legittimo? – il che include, tra l’altro, il radicamento di un diritto di precedenza del genere maschile (come dettato “dalla natura”), la cui domi36 37

Cfr. A. Gehlen, Sulla nascita della libertà dalla estraniazione [in tedesco prima 1952], in Idem, Antropologia [come nota 6], pp. 425-438. Cfr. A. Gehlen, Ende der Geschichte [in tedesco prima 1975], in GA6, pp. 336-351, spec. 336 e ss. e K. S. Rehberg, Nachwort, in GA6, pp. 639-665, spec. 645.

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nanza nella concettualità dell’azione di Gehlen è legittimata, per così dire, sottobanco. La teoria delle istituzioni di Gehlen è stata in genere intesa solamente come fondazione di ordini sovrapersonali che consumano gli individui. Lo stesso vale per l’aspetto essenziale dell’istituzionalismo gehleniano38. A partire da Thomas Hobbes, il motivo di base di questa prospettiva è che gli ordini istituzionali – prima di tutto lo Stato – debbano essere “immuni da obiezioni”39, e dunque vadano stabilizzati anche contro i loro “fondatori”, poiché essi difendono gli uomini dalla loro stessa natura pulsionale. La validità assoluta dell’ordine deve servire al singolo, perlomeno a sopravvivere in un mondo ostile. Gehlen porta tale riflessione fino alla discussione della possibilità di divenire una “personalità”. Il divenire persona presuppone dei contesti istituzionali (altrimenti non si darebbe alcuna socializzazione); sono le istituzioni che consentono al singolo di formare un “carattere”. Da ciò deriva però anche il fatto che l’“istituzionalismo” di Gehlen non contiene alcuna opzione per l’assolutismo normativo delle “istituzioni totali” – cosa che spesso è stata invece fraintesa. Lo scopo non è la limitazione estrema della libertà, né la dissoluzione della persona, bensì la stabilizzazione di quell’essere sempre costituzionalmente fragile, l’”uomo”; un “Alcatraz” non è il modello utopico di un mondo plasmato dalle istituzioni. D’altra parte l’assenza di dubbio, la superiorità su ogni riflessione e critica sono, per Gehlen, presupposti necessari (e oggi irrimediabilmente concepiti come in disfacimento) per la validità delle istituzioni. 3b. Critica della “tarda cultura” Attraverso questo nesso tra cultura della personalità e validità istituzionale acquisisce asprezza anche la critica gehleniana della “tarda cultura”, in quanto essa non tratta altro se non la crescente improbabilità delle prestazioni di accrescimento personali. Ciò è alla base anche del cordoglio – spesso aggressivo – per un mondo dato per perduto, l’esistenzialismo ex nihilo. Tale pessimismo si limita però a civettare con un nichilismo alla Nietzsche, poiché in Gehlen restano sempre decisive le nostalgie dell’ordine, anche nel momento in cui non vede più alcuna possibilità di una loro realizzazione. Per questo egli cede al formalismo della mera validità, lascia solo intuire per quali ordini concreti egli opti, quando parla in generale di istituzioni. In che misura la sua teoria degli ordini sociali – costituiti con l’azione e stabilizzati con rivendicazioni di validità – riprenda e sviluppi il motivo esistenziale di fondo della 38

39

Cfr. K. S. Rehberg, Eine Grundlagentheorie der Institutionen: Arnold Gehlen. Mit systematischen Schlußfolgerungen für eine kritische Institutionentheorie, in G. Göhler et al. (a cura di), Die Rationalität politischer Institutionen. Interdisziplinäre Perspektiven, Wiesbaden, 1990, pp. 115-144. A. Gehlen, L’Uomo [come nota 8], p. 93.

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sua opera diventa evidente – come già nella sua “antropologia elementare” e nelle sue analisi dell’era della tecnica – quando si considerano le perdite delle strutture comportamentali istituzionali e le minacce che ne derivano per l’uomo, quindi il pericolo di un nuovo imbarbarimento nel bel mezzo della civilizzazione. Dopo che Gehlen, in Le origini dell’uomo e la tarda cultura, ha elaborato le categorie delle funzioni di orientamento e motivazione istituzionali la cui base dinamica va ricercata nelle culture arcaiche, si ritrova perplesso dinanzi all’”era del soggettivismo”, e può fornire solo formule di ripiegamento, come il consiglio di praticare l’ascesi, o di rinunciare ai “privilegi dell’opinione pubblica”. L’intellettualizzazione di una cultura sempre più uniforme, “filtrata dall’agire”, trova una corrispondenza con il “pieno trionfo della componente parassitaria profondamente radicata nell’uomo, la società come una colonia di parassiti” – il che significherebbe la fine della lotta dell’uomo per la propria crescita. Quando il gigante capitalismo, ammansito infine dalla sovrapproduzione di uomini e beni, tira il carro della cultura, la morale si rilassa, poiché non ci sarà più alcuna seduzione nel potere, […] nel ‘teamwork’ la fatica è comunque ridotta a metà, e non sarà certo su quel briciolo di morale richiesta sul piano sessuale che si potrà costruire chissà quale grande visione del mondo. Ed è nondimeno facile idealizzare persino questa forma di vita, perché, volendo, tutto si può idealizzare40.

“Tarda cultura” indica per Gehlen la condizione nella quale gli automatismi della produzione e dell’approvvigionamento di massa, automatismi confortevoli in quanto mezzi dell’esonero, e l’inarrestabile forza di espansione del consumo avrebbero conferito validità all’idea che lo scopo di ogni agire sia evitare l’apatia e stimolare il desiderio. A ciò corrispondono stati di sistema (come pensano anche, con premesse assai diverse, Theodor W. Adorno, Jürgen Habermas e Niklas Luhmann) nei quali le istituzioni “corporative”, ossia basate su specifici concetti di ceto, per esempio modelli d’azione, forme del sapere e strutture di personalità diventano sempre più anacronistiche. Non sono certo queste le condizioni in cui, per Gehlen, è probabile la formazione di caratteri formati sulle istituzioni e che trovino in esse la propria validità. Chi volesse ancora mantenere un “senso della realtà”, e magari persino una moralità, deve sottrarsi alla “dittatura del pubblico, del politicizzabile, dell’informativo”, poiché è da questi imperativi che la personalità è minacciata in maniera radicale. Detto con pathos negativo: poiché esiste ancora il «poter rimanere in silenzio, l’ammissione della perplessità», «la rinuncia alla parola propagandistica proprio in ambito pubblico, la vera capacità deduttiva, poiché si crede ancora nella verità, e si disprezzano le vittorie facili» – poi40

(... in der deutschen Fassung in Urmensch und Spätkultur, S. 258 = 3. Teil Kap. 478. Absatz – da ich die italienische Übersetzung nicht hier habe, bitte die entsprechende Stelle nachweisen und evtl. sprachlich vergleichen...).

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ché simili virtù si possono ancora raggiungere, anche quando “tutti i venti dell’epoca le contrastano”, dietro l’espressione “fine della personalità” è possibile lasciare un punto di domanda41. 4. Soggettivazione e perdita della personalità nell’epoca moderna L’illuminante diagnosi dell’epoca che Gehlen presentò nel 194942 illustra in dettaglio la visione di una perdita di validità delle istituzioni, contemporaneamente all’ipertrofia delle valutazioni soggettive (idea già espressa nella riedizione del L’uomo). Egli tratta qui i fondamenti antropologici della tecnica, assieme alle implicazioni della civilizzazione tecnica descrivibili su un piano di psicologia sociale, prima tra tutte il nuovo rapporto dei singoli uomini con l’ambiente. Come il sociologo di Lipsia, Hans Freyer, nella descrizione dei suoi “sistemi secondari” (sekundäre Systeme)43, anche Gehlen analizza le realtà dei sistemi moderni – a cui si sarebbe poi ricollegato Niklas Luhmann. L’analisi delle “superstrutture”, che nascono dall’unione di economia, scienza e politica, sembra rimandare al fatto che l’iniziale orientamento ai problemi della “personalità” sia stato superato da una filosofia dell’annullamento del soggetto – molto prima dei discorsi “postmoderni” e “poststrutturali”. Questa svolta sarà portata a compimento da Luhmann, la cui vicinanza a Michel Foucault in tale frangente è evidente – ed è da questo punto, proprio, che la teoria di Luhmann44 trae la propria attualità, di questo vive il fascino colto della sua raffinata arte di codificazione. In Gehlen, però, le realtà “sistemiche” della moderna società industriale sono analizzate sempre nel loro rapporto a dei “mondi di vita” formati a livello istituzionale (come si potrebbe dire con le parole di Jürgen Habermas, che proprio in virtù di questa 41 42

43 44

Cfr. A. Gehlen, Das Ende der Persönlichkeit [prima 1956], in: GA6, pp. 250-260, spec. 260. Nel 1949 Gehlen ha pubblicato la prima versione della sua interpretazione dell’epoca tecnica, base della versione estesa nel libro: A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale [in tedesco prima 1957], a cura di M. T. Pansera, Roma, 2003. Cfr. anche K. S. Rehberg, Nachwort, in GA6, spec. pp. 639 e ss. e Nachweise zur Textgeschichte, in GA6, spec. pp. 666-676 e le concordanze in GA6, pp. 818-822. H. Freyer, Theorie des gegenwärtigen Zeitalters, [prima 1955], Stoccarda, 1967, spec. pp. 79-147 con esempi per i sistemi secondari come le “regole del gioco”, “l’amministrazione delle cose”, “cicli” e “potere”. Niklas Luhmann, dopo una carriera come giurista nel ministero tedesco della cultura, ha studiato per un’anno con Talcott Parsons a Harvard, invece la sua carriera accademica in Germania è stata promossa dal sociologo Helmut Schelsky, relatore della promozione e dell’abilitazione di Luhmann a Münster e fondatore dell’Università di Bielefeld, dove Luhmann ha insegnato e lavorato fino alla sua morte. Anche le questioni iniziali, spec. la necessità di ridurre la complessità del mondo in forme e sistemi sociali erano influenzate da Arnold Gehlen; esso è stato indicato da Luhmann nei primi saggi, ma nascosto o “dimenticato” più tardi.

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distinzione non è poi così distante da Gehlen quanto gli piacerebbe). Il “valore della vita di massa” (Massenlebenswert) garantito dai sistemi di mantenimento dell’esistenza, che si basa sul capitalismo dei consumi di massa e sul suo pendant politico, la democrazia di massa, è studiato con estremo acume. Il rigore analitico è generato dal rifiuto, dall’odio per i rapporti, e le analisi di Gehlen sono permeate dal cordoglio per mondi dati per perduti, nei quali erano ancora legittime le definizioni di posizione, come anche le aspettative d’azione e le rappresentazioni di sé, ad esse correlate e riformulate nel loro contenuto, fatte dalle persone. La stilizzazione della post-histoire, qui, non porta per l’appunto ad un consenso postmoderno, l’approccio istituzionale non viene pluralizzato. Ne derivano delle debolezze, come i preconcetti storici e la restrizione dello sguardo critico, nella teoria delle istituzioni ad esempio, che confonde pienamente il tramonto di determinate istituzioni con la dissoluzione dell’Istituzionale in sé. Ci sono però anche dei punti di forza in questa presa di distanza. In ogni caso le analisi di Gehlen sul soggettivismo sono l’espressione chiarissima di una filosofia negativa della storia, o anche di una teoria della personalità costretta alla negazione; nell’epoca moderna, perlomeno ad un osservatore tedesco, una situazione in cui il potere delle “costrizioni oggettive” sia reale e quello gli intellettuali irreale appare tollerabile solamente ancora “con spensieratezza ormai antica”. 4a. Crisi dell’epoca Già negli anni 1930 Gehlen pose la crisi dello sviluppo soggettivo della persona in chiara relazione con una crisi epocale i cui segnali erano l’uniformazione, il livellamento, il predominio della categoria dello scopo. Ciò era da intendersi innanzitutto su un piano nazionalistico e di critica della civilizzazione (per cui fu tirato in ballo Nietzsche, il quale aveva messo in conto al protestantesimo anglosassone “le colossali catastrofi e la perdita di cultura dell’era moderna”45). Gehlen generalizzò questo tema: si potrebbe dire “che negli ultimi ottanta anni […] ogni forza dell’essere si sia ritirata dalle sfere più alte per farsi puramente empirica. Dalla perdita di ogni facoltà al puro presente e di ogni oggetto superiore nasce l’inumanità con le sue bestiali conseguenze: tecnica, capitalismo, guerra mondiale.”46 Riferito al pensiero ciò significa partire dalla perdita di validità di metafisica e religione. Ne consegue la “disgregazione della realtà dello spirito” e la moda del diffidare di esso47. Nella tesi, che Gehlen elaborerà più avanti, sulla improbabilità crescente di riuscire a sollevare una “rivendicazione della norma di una misura personale del giusto” (ovvero essere una “personalità”), si cela implicitamente una 45 46 47

Cfr. A. Gehlen, Geist [come nota 3], p. 180. Qui è accennato la tesi sulla relazione tra protestantesimo puritano e il capitalismo per così dire in un modo rovesciato. Ibid., pp. 180 e ss. Ibid., pp. 127 e ss.

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storia di decadenza della potenza dell’azione personale a ciò riconnessa, rilevabile dalle “perdite di esperienza”48, dalla crescita di “indeterminazioni” culturali, da una tendenza alla finzione in espansione ed un “puerilismo” ad essa direttamente riconducibile49 – tutti questi sono aspetti di una perdita progressiva di cultura. La grande individualità è stata infatti un “fenomeno delle classi superiori del tardo feudalesimo e della borghesia in ascesa”. Gehlen individua lo stabile insediamento di un “individualismo sovreccitato, oggetto di autoriflessione”, che egli chiama “soggettivismo”50, grazie alla condizione di una differenziazione resa possibile, o decisamente indotta, sulla base della produzione industriale e della partecipazione democratica al dominio. Chi tuttavia, in tali condizioni – e qui sta il dilemma del Gehlen critico dell’epoca – rivendica la validità delle istituzioni e della loro formazione di “personalità” per mezzo di argomentazioni teoriche, sancisce l’irrecuperabilità di ciò che egli scongiura, e che può funzionare solo da sé, quindi in modo pressoché naturale. 4b. Alla ricerca della personalità perduta La “perdita sensoria” portata avanti dalla civilizzazione tecnica ed una corrispondente intellettualizzazione porterebbero a perdite di esperienza, alla vita di seconda mano, ma anche, d’altra parte, all’affinamento della percezione di sé dell’uomo, dei suoi mondi interiori. Il “nuovo soggettivismo” appare a Gehlen in tal senso come il prodotto più sorprendente e più temibile della modernità: «Non c’è ancora mai stata, nel mondo, tanta soggettività differenziata ed espressiva» come nell’“epoca della psicologia”, alla quale dobbiamo tante sottili acquisizioni sulla vita interiore dell’uomo51. In parallelo si attua però anche una “uniformazione dell’anima”, poiché questi opposti ricadono nel “medesimo soggetto”52. E ancora una volta l’istanza opposta è una forma della soggettività che si orienta ad ordini ed imperativi, da ricercare oltretutto a tentoni. Nelle condizioni della modernità affermata Gehlen non crede più di poter trovare della “personalità”. Diversamente dall’”individuo” – e Gehlen usa qui un termine di Hugo von Hofmannstahl – questa creazione del sedicesimo secolo, nutrita dal diciannovesimo”53, una “personalità” rappresenta qualche cosa che è sovra-individuale. Da una parte può essere il “superesperto, dalla grande routine”, 48 49 50 51 52 53

Cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica [come nota 42], pp. 69-72. Cfr. ibid., p. 92. Cfr. ibid., pp .83-95. Cfr. ibid., p. 144. Cfr. A. Gehlen, Persönlichkeit [come nota 41], p. 252. A. Gehlen, Moral und Hypermoral. Eine pluralistische Ethik [prima 1969], 6. ed. a cura di K. S. Rehberg, Francoforte sul Meno, 2004, p. 158 (…wenn möglich bitte nachweisen in der italienischen Ausgabe: A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, a cura di U. Fadini, Verona, 2001, pp. 169-170).

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l’uomo [!] dalla grande pratica ed esperienza, che al tempo stesso è superiore alla routine; una figura indispensabile e freneticamente richiesta nell’economia, nella politica, nell’amministrazione; il ‘tipo ideale’, l’uomo dotato di vitalità ed energia lavorativa, intelligenza e lungimirante capacità sintetica, fermezza ed iniziativa, ricchezza di idee e discrezione: in certo qual modo, il successo personificato54.

Esistono tuttavia anche altre possibilità per riempire lo schema, come la personalità “nel senso, difficile da descrivere, della validità di ciò che è qualitativamente insolito”. Anche l’erudizione – sempre che non si sia ancora trasformata in “semplici strumenti per accelerare lo sviluppo della carriera” – potrebbe divenire un “garante della libertà”, e proprio in un mondo della specializzazione. “Personalità” ha quindi in sé qualcosa che oppone resistenza, un “vincolo di fedeltà a valori extra-razionali”55. Dato che una fenomenologia di questo tipo comportamentale riesce poco a Gehlen, e anche le sue descrizioni restano non sistematiche, il concetto sul quale è centrata la sua intera opera è illustrato alla fine da un altro: le “personalità” si generano infatti in relazione alle istituzioni, ne sono plasmate e ottengono la libertà solamente poiché sono state affidate agli ordini istituzionali e contemporaneamente hanno trovato una propria misura. A Gehlen sembra dunque che la “produttività veramente amirevole” che rende tale una personalità, «non la troviamo oggi tanto nell’isolamento della cultura nel campo letterario o artistico, quanto piuttosto là dove qualcuno si sforza di far valere le esigenze dello spirito entro il meccanismo stesso dell’apparato, quindi proprio di non distanziarsene». Sono questi i presupposti per una formazione individuale della quale Gehlen, con un’arguzia spesso citata, disse: «Una personalità: è questa un’istituzione per un solo caso»56. Gehlen riteneva di non poter più puntare sulla grande individualità, sulla mobilitazione weberiana di una persona che sta al servizio della concretezza e che al contempo sia in grado di agire contro le cieche costrizioni oggettive, anche se in lui risuonavano ancora i toni dei canoni nietzscheani57. Così l’unica possibilità che egli vedeva per le masse, e sulla quale Max Weber aveva messo in guardia in modo così penetrante, era la mera preservazione dell’esserci, quindi, per i più, l’ordine per se stesso. Poiché l’ordine può (e deve) essere stabilizzato anche in questa “situazione zero”, Gehlen rinuncia a qualsiasi fondamentalismo di critica culturale, non contesta la civilizzazione tecnica, ma la accetta come condizione organizzativa della società di massa (il che lo 54 55 56 57

Cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica [come nota 42], p. 145. Cfr. ibid., p. 146. Cfr. ibid., pp. 148 e ss. Cfr. sull’influenza di Friedrich Nietzsche su Max Weber: W. Hennis, Die Spuren Nietzsches im Werk Max Webers, in Idem, Max Webers Fragestellung. Studien zur Biographie des Werks, Tübingen, 1987, pp. 167-191 (…wenn möglich bitte nachweisen nach: Il problema Max Weber, traduzione a cura di E. Grillo, Roma, 1991…).

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rende un rappresentante di un “conservatorismo tecnocratico”58). A quel punto, tutt’al più le élites sono in grado di vivere autonomia ed autosufficienza – la possibilità di ritirarsi diventa un privilegio decisivo, e la “personalità” un ricordo normativo. Questa sensazione di una possibilità, ormai vista solo in negativo, anche solo di pensare una “personalità” permea la critica dell’epoca di Gehlen, la sua saggistica politica anti-illuministica, soprattutto il suo intento di porsi contro il movimento del “sessantotto”. L’Illuminismo appare a Gehlen come – citando Madame de Staël – «l’emancipazione dello spirito dalle istituzioni»59. L’accento maggiore su questo si ritrova nel suo ultimo libro, del 1969, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica. Come espressione della sua “etica pluralistica”, nel documento, colmo di risentimento, di una “postmoralità” conservatrice. La principale chance di critica ai teorici della rivoluzione di quei giorni Gehlen, del resto, la mancò, come rilevò a proposito Jürgen Habermas60. Per Gehlen stesso valeva ora in gran misura ciò che egli descriveva come conseguenza dei processi accelerati di trasformazione sociale. Per contro, poi, le catastrofi della storia, i grandi stermini e le uccisioni che nel giro di pochi anni rovesciano una società, distruggono disposizioni da tempo incorporate […], e lasciano indietro gli uomini più vecchi come punti interrogativi viventi e muti. […] La trasformazione affettiva si manifesta come paura, ostinazione o eccitabilità, ma anche come amichevole distrazione pronta ad accogliere tutto senza distinzione, e le reazioni si fanno rozze e volgari, perché restano prossime alla sfera passionale61.

La “dissoluzione dell’autorità statale” ed una “ipertrofia della morale” che penetra tutti gli ambiti vitali avrebbero – così pareva a Gehlen – reso la comunicazione un mero scambio di termini ed opinioni, mentre gli uomini rimangono senza parole: l’istruzione di massa provoca già essa stessa una semplificazione del pensiero. I mezzi di comunicazione di massa lavorano nella medesima direzione, e la politica pone spesso sotto pressione tutti i campi semantici. In tale prospettiva ci sono og58 59 60

61

K. Lenk, Deutscher Konservatismus, Francoforte sul Meno/New York, 1989, spec. pp. 231-244. A. Gehlen, Moral, [come nota 53], p. 98 (…wenn möglich bitte nachweisen nach Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica /A. Gehlen; introduzione e cura di U. Fadini, Verona, 2001...). Cfr. J. Habermas, Nachgeahmte Substantialität. Eine Auseinandersetzung mit Arnold Gehlens Ethik, in Idem, Philosophisch-politische Profile, Terza Ed. Francoforte sul Meno, 1981, pp. 107-126. (…wenn möglich nachweisen nach: Profili politico-filosofici, a cura di Leonardo Ceppa, Milano, 2000). Cfr. A. Gehlen, Moral, [come nota 53], p. 97 (...wenn möglich bitte nachweisen nach Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica /Arnold Gehlen; introduzione e cura di U. Fadini, Verona, 2001, pp. 110-111).

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gi concetti come ‘discussione’, ‘democratizzazione’ o ‘autorità’, che immediatamente riducono al silenzio qualsiasi reale contraddizione62.

Il capitolo sulle “istituzioni” in questa ultima monografia di Gehlen tratta dunque innanzitutto della loro dissoluzione. I progressi dell’esonero liberano le eccedenze pulsionali, mentre “nel crollo delle istituzioni che si vengono a creare, le sintesi spirituali perdono il loro appoggio, si disgregano e vengono eliminate in quanto follie e farse ‘della sconcertante pluralità interiore’ (Gottfried Benn)”63 (MH, 97). Lo “spirito” ridiventa quindi “irreale” – il cerchio si chiude in negativo. Non sono chiaramente condizioni favorevoli per la creazione di una figura normativa capace di coesione sociale. Il predominio delle “grandi medie intelligenze” (come disse Jean Cocteau)64 appare incontestato, il modus più importante della sopravvivenza in una cultura pluralistica si chiama adattamento (il che rimanda alla diagnosi di David Riesman e contemporaneamente alla critica culturale di Adorno)65. La descrizione che Gehlen fa negli anni 50 di questo stato trova intanto corrispondenza in alcune impronte del “postmoderno”: l’intera cultura con tutta la sua ricchezza e le sue innumerevoli contraddizioni e dissonanze suggerisce una poliedricità fittizia, induce al tentativo di adeguarvisi arricchendosi di esperienze, variando impressioni e sensazioni, immagini e pensieri. Questa alta tensione è presente nell’aria, e chi vi si sottrae dovrà sentirsi dare del rimasto-a-casa o nel mondo della luna. Poiché al divenire caos della realtà segue, con una certa necessità, il fumo degli pseudo-arricchimenti e soggettivismi66.

In simili circostanze un riavvicinamento regressivo agli stati naturali da cui si origina l’uomo come essere culturale è per Gehlen inevitabile, si libera un’aggressività a cui chiunque è esposto senza difesa. Di fronte alle rivolte su scala mondiale dei tardi anni sessanta egli vede una grande plausibilità dell’assunzione di Konrad Lorenz per cui si debba partire da un impulso aggressivo dell’uomo (per questo Gehlen corregge il suo rigoroso rifiuto di qualsiasi descrizione delle pulsioni umane di base, essendosi egli a questo proposito spinto troppo oltre)67. Simili revisioni d’accento sfociano in formu62 63 64 65 66 67

Cfr. ibid., p. 179 (...wenn möglich bitte nachweisen nach Morale e ipermorale: un’etica pluralistica /A. Gehlen; introduzione e cura di U. Fadini, Verona, 2001, p. 189). Cfr. ibid., p.93 (... nachweisen nach Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica /Arnold Gehlen; introduzione e cura di Ubaldo Fadini, Verona, 2001, p. 107). J. Cocteau, Thomas der Schwindler/Thomas L’imposteur. Eine Geschichte [in francese prima 1923], Wien et. al., 1954, pp. 86 e ss. D. Riesmann, La folla solitaria, Bologna, 1973 Cfr. A. Gehlen, Persönlichkeit [come nota 41], p. 259. Cfr. A. Gehlen, Progressi della ricerca sugli istinti nel caso dell’uomo [in tedesco prima 1970], in Idem, Antropologia [come nota 6], pp. 269-183.

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le rassegnate nelle quali trova espressione il sentore di un vuoto crescente di possibilità per la protesta personale contro le tendenze dell’epoca. È questo il commiato di un pensatore che vede svanire, nella modernità, la possibilità di propagare, o a questo punto anche solo di poter plausibilmente vivere il compito decisivo del coltivare l’uomo con l’autodisciplina, e con ciò vede svanire ogni metro di misura – in particolar modo quella della coscienza. Il caos non è più visto come la condizione di genesi e lo sfondo minaccioso del singolo; ma è generalizzato, si fa dunque stato di sistema. Se la condizione oggettiva della società è recepita come caotica, l’oggettivazione e l’ethos del dovere non sono più in grado di costruire nulla. È allora necessario ricorrere a grandi metafore, gli stereotipi del disprezzo conservatore per lo Stato sociale non bastano più, né tanto meno la ripetizione della supposizione, che fu già di Alexis de Tocqueville, per cui la rivendicazione dell’uguaglianza e la dinamica della “democratizzazione”, che dissolve le gerarchie, hanno portato all’insaziabilità. In simili condizioni Gehlen ricorre ad immagini allarmanti, apocalittiche: in un’epoca di “mancanza di parole e di bugie” gli appare ormai istituito il “regno del mondo a rovescio”, nel quale “l’Anticristo […] porta la maschera del Salvatore, come nell’affresco del Signorelli in Orvieto”68. Le tarde critiche epocali e polemiche politiche di Gehlen vivono di simili timori ed amarezze, in particolar modo tra tutte la sua critica degli intellettuali (che sul piano descrittivo coglie spesso nel segno). Ciò che gli faceva paura era l’abbattimento dei fondamenti di quella stabilità di cui l’uomo ha bisogno per diventare persona. In tal senso gli intellettuali sono per lui eterni e irresponsabili progettisti e sognatori ad occhi aperti (come in una piena pubertà). D’altro canto, essi portano avanti rivendicazioni al dominio perché sono sottoposti alla condizione del dover essere presi sul serio, imposta loro dalla lotta per l’esistenza; essi rappresentano ciò che è solo pensato, la mera opinione, sono delle pseudo-“personalità”, “etici del pensiero” nel migliore dei casi, ma manca loro completamente la serietà dell’“etica della responsabilità” (per scomodare la distinzione fatta da Weber)69. 4c. Perdita di validità e dominio del mercato: l’arte Quanto sopra esposto trova un efficace esemplificazione anche nel caso delle arti figurative: se queste sono state, un tempo, più che altro “connotati-

68 69

A. Gehlen, Moral [come nota 53], p. 188. (... bitte nachweisen nach: Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica /A. Gehlen, introduzione e cura di U. Fadini, Verona 2001, p. 197). Cfr. i saggi di Gehlen sugli intellettuali nella modernità in: GA7, spec. pp. 239-347. Sulla distinzione tra “etica della responsabilità” ed “etica dell’intenzione” cfr. M. Weber, Politik als Beruf [prima 1919], in Idem, Gesamtausgabe, vol. 17: Wissenschaft als Beruf. Politik als Beruf, a cura di W. J. Mommsen e W. Schluchter, Tübingen, 1992, pp. 157-252, spec. 237 e ss. (…bitte nachweisen nach it. Ausgabe: La scienza come professione; La politica come professione /M. Weber; introduzione di W. Schluchter, Torino, 2001…).

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ve”, ossia inserite in contesti dati, con un tema ed una funzionalità, si sono in seguito lentamente slegate, attraverso un progressivo “realismo”, dagli ordini ecclesiastici ed artigianali; infine, facendo leva sull’aspirazione all’individualità creativa, portata avanti da “personalità dell’arte”, sono giunte a costituire un tessuto istituzionale sui generis, mai del tutto indipendente dalla sfera del dominio e del sacrale, ma nonostante questo autonomo. In uno dei più interessanti testi sulla pittura moderna, il suo saggio sociologico Quadri d’epoca, Gehlen rende onore alle supreme capacità costruttive della modernità artistica70. Grande spazio trovano qui però anche le implicazioni dell’interazione tra la mancanza di una personalità con criteri oggettivi e il dilagare della commerciabilità, che portano a rassegnazione, derisione, cinismo. La conquista maggiore del Cubismo come vera “arte intellettuale” consta, secondo Gehlen, nel trarre con grande consapevolezza degli effetti dal materiale e dai procedimenti di lavorazione e nell’interpretarli con intelligenza. In questo modo si sono definiti dei concetti artistici nuovi, e viceversa gli artisti hanno recepito impulsi anche da teorie e programmi. Gehlen si identificava non con il mito del genio o con le pretese degli Avanguardisti, che da quello stesso mito derivavano, bensì con la varietà di criteri della rivoluzione artistica più fondamentale sin dal Rinascimento, e con il suo orientamento a confrontarsi con delle misure (anche laddove questo si limitasse ad un costruttivismo giocoso). Ciò che per lui era intollerabile era l’Espressionismo, questo “grande scompiglio” che egli viveva come espressione del prorompere di forze a lungo stagnanti (e sublimate): ci si può fare un’idea della durezza e coerenza con le quali i secoli precedenti avevano bloccato le energie centrali dell’interiorità umana soltanto se si è fatta l’esperienza del modo in cui esse divennero libere, manifestandosi ora come esplosioni spirituali. […] Gli affetti e le pulsioni, avvolti nelle nubi di idee variopinte, premevano verso l’alto, […] dappertutto si agitavano istanze di emancipazione e ‘necessità interiori’71.

Nell’arte espressionistica Gehlen, poggiando peraltro su esempi scelti in modo ampiamente arbitrario, trovava soprattutto dei “sovraccarichi”, delle deformazioni, in breve uno sbilanciamento tra le intenzioni e le possibilità dell’esecuzione, una discrepanza di principio tra volontà espressiva e possibilità creative. Va da sé che egli era scettico anche rispetto alle aspirazioni ad una “nuova naturalezza”, poiché «l’uomo è a tal punto un essere culturale che, con la parola d’ordine della ‘natura’, egli non riesce a raggiungere altro che il rovescio culturale di quella cultura dalla quale vuole allontanarsi»72. 70 71 72

A. Gehlen, Quadri d’epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna [in tedesco prima 1960], a cura di G. Carchia, Napoli, 1989. Cfr. ibid., p. 213 e ss. Cfr. ibid., p. 234.

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Il giudizio di Gehlen sull’Espressionismo è effettivamente unilaterale e soggettivo, e non di rado ingiustificato; vi si manifesta la sua veemenza contro i miti dell’originarietà. Egli disprezza totalmente le forme espressive dell’arte contemporanea più attuale, che non mostrerebbe per lui né la capacità né l’acume intellettuale della peinture conceptuelle, e che non lo divertiva nemmeno un po’. D’ora inanzi, artista è chiunque voglia esserlo; di conseguenza, tutto è arte – ovvero nulla è arte, secondo l’opinione di Duchamp. Nessuno, purché abbia un’idea, fosse pure quella di altri, viene escluso; nessuna opera ha più valore di un’altra73.

Così, le forme della dissoluzione di un soggettivismo ormai mediato solamente dal mercato sono subentrate anche qui, e la scena artistica è diventata il segno dell’”epoca della incessabilità”, in cui “l’apparato dell’arte lavora in una maniera nudamente capitalistico-speculativa, una maniera quale in forma così palese non si ritrova più da nessuna parte”74. “Personalità” rimarrebbe in tal senso nient’altro che una caricatura, o comunque (così Gehlen) possibile solo in posizione di ritiro, e quindi invisibile. 5. Riassunto: la minaccia sulla personalità come problema di una critica culturale borghese La teoria dell’azione di Gehlen che prende forma da queste premesse è “borghese” (poiché pone autonomia dell’azione e prontezza all’atto come mezzi dell’auto-crescita e stabilizzazione della persona) e “conservatrice” (poiché diffida di quel potenziale umano all’individualizzazione che ne è il presupposto). Negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta dello scorso secolo Gehlen espose la sua scienza dell’azione, sistematica e non meno significativa di prima, nel contesto di un “attivismo politico” di matrice fascista. Alla medesima dimensione appartengono anche gli studi di Hans Freyer sul Machiavelli, il lavoro di Helmut Schelsky su Hobbes, come anche le spiegazioni di Gehlen stesso su Fichte (o il suo interesse per Vilfredo Pareto75). Non c’è in Gehlen una radice genuinamente nazionalsocialista76. In questi suoi lavori si rispecchia in realtà ciò che per la borghesia tedesca era stata, dall’inizio del secolo, la “tragedia della cultura” e che aveva trovato espressione intellettua73 74 75

Cfr. ibid., p. 361. Cfr. ibid., p. 367. Cfr. K. S. Rehberg, Aktion [come nota 24] e su Pareto come un “classico” della teoria dell’azione: A. Gehlen, Vilfredo Pareto e la sua “scienza nuova” [in tedesco prima 1941], in Idem, Antropologia [come nota 6], pp. 313-360. 76 Cfr. K. S. Rehberg, Nachwort in GA3, pp. 751-786 e 870-915, spec. 753 e ss. e 754 e 879-887.

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le, con molteplici variazioni, in proposte di critica culturale peraltro inconciliabili sul piano politico. Lo stesso fu per Georg Simmel e Max Weber, per Sigmund Freud nelle sue tarde opere di teoria della cultura, per Max Scheler, per Ludwig Klages, per Alfred Seidel, e anche per Max Horkheimer e Theodor W. Adorno; cioè che in un mondo progressivamente “reificato” gli spazi di decisione e responsabilità personale sono minacciati fino ad essere pressoché eliminati, che – come disse Gehlen – “per motivi strutturali l’uomo della società industriale viene relegato nella sfera privata da forze oggettive”, che il prezzo per l’incremento della “cultura oggettiva” è il calo di quella “soggettiva”, che ogni conoscenza “autentica” è costretta a cedere ai modelli del consumo di massa. Così, o in modo simile, era rielaborato lo choc di quel vissuto che preparava le élites all’avanzata della “cultura di massa”. Il segno dell’epoca è allora una “soggettività” senza soggetti, legata a tendenze alla “primitivizzazione” come fenomeno culturale opposto nella civilizzazione tecnica, come compenso psichico per le inarrestabili conquiste della differenziazione tecnica. Un’ultima, sintetica formulazione dell’esito della mia indagine: nell’opera di Gehlen è possibile rilevare continuamente un motivo esistenziale (che inizialmente è stato condotto in senso anche “esistenzialistico”). In tal senso, la sua teoria antropologica si fonda con decisione su un vissuto generazionale: ciò che plasma il motivo è la tensione tra una antiborghese nostalgia dell’azione e l’interesse borghese alla stabilizzazione (e quindi in riferimento sia alle condizioni epocali, sia al proprio sviluppo). È questa anche la prospettiva in cui leggere il sorprendente disvelamento di sé che Gehlen attua nella premessa alla sua tesi di abilitazione [!], nel senso che si tratterebbe “del libro di un giovane uomo che per lunghi anni ha imbastito le riflessioni qui presentate per appropriarsi di una vita che sin dall’inizio gli appare più imposta che posseduta” (GA1, p. 119). È questo l’avvio dell’habitus di un simile modo di fare filosofia. Nella cornice della sociologia della conoscenza – ovvero pensando allo stile del pensiero (e chiaramente non ai contenuti) – questo ci rimanda ad altre interpretazioni del mondo legate ad una prospettiva generazionale, come per Heidegger, per l’esistenzialismo di Sartre, o anche per Ernst Bloch, all’enfatica filosofia della prassi dei rivoluzionari di “sinistra” nel Sessantotto – cosa che fa capire, forse, perché Gehlen non diventa mai del tutto inattuale. Gli atteggiamenti della “rivoluzione conservatrice”77 che riecheggiano non sono quelle del movimento giovanile (Jugend-bewegung), come può essere per Hans Freyer. Fin dal tempo del discorso su Hugo von Hofmannstahl del giovane Gehlen (e anzi, la sua espressione più chiara è proprio nel pathos della tesi di abilitazione) al centro di tutto sta la problematicità della gestione della vita. Per un attimo, in questa prima opera la nostalgia di Gehlen per l’interezza sembra quasi 77

A. Mohler, La rivoluzione conservatrice in Germania 1918-1932. Una guida, trad. di L. Arcella, Napoli, 1990 e S. Breuer, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, Roma, 1995.

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potersi appagare (e proprio per questo, soprattutto, egli cercherà in seguito di distanziarsi dal pathos di questo scritto), e cioè nella relazione Io-Tu, soprattutto nella sua forma più intensa: l’amore. Solo da uomo a uomo si compie questa interiorizzazione della vita, che non lascia fuori niente e nella quale sola si trova la pace, poiché ogni esclusione reciproca nel corrispettivo rapporto d’essere – uomo e ‘mondo della cultura’, uomo e tecnica, uomo e natura inorganica – è svuotata di realtà e resta esteriore (GA1, p. 159).

Gli inferni e le carceri della “irrealtà” sono tracciati da Gehlen in maniera eloquente – come in seguito la concezione dell’uomo come “essere precario” e “soggetto al rischio”, determinata dalla sua natura organica, dalla specificità della sua specie – affinché lo sviluppo del Sé si faccia compito assunto con consapevolezza: l’opera di Gehlen è fondata su un’idea borghese di socializzazione – in un certo senso, come un romanzo filosofico di formazione (Bildungsroman). [Traduzione di Beatrice Über]

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Amedeo Vigorelli

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ARNOLD GEHLEN E LA RINASCITA DI SCHOPENHAUER

1. La rinascita di Schopenhauer è il titolo di un famoso saggio di Piero Martinetti, pubblicato sulla “Rivista di filosofia” nel 1940. Lo studioso italiano prendeva spunto dal fervore di studi schopenhaueriani, fattosi più intenso intorno alla data del 150° anniversario della nascita del filosofo di Danzica, documentato dallo Jahrbuch der Schopenhauer-Gesellschaft e dalla costituzione del museo schopenhaueriano di Francoforte, per auspicarne una rinascita non solo teoretica o speculativa, ma insieme spirituale e religiosa1. Martinetti indicava in sei punti gli aspetti del pensiero di Schopenhauer che ne attestavano – a suo dire – l’attualità: 1) il principio idealistico della sua metafisica; 2) il primato del conoscere concreto, intuitivo, su quello astratto e logico; 3) l’interpretazione analogica del mondo come volontà; 4) il pessimismo della sua morale, che discende dall’adeguata cognizione del carattere finito della volontà individuale; 5) la dottrina della liberazione dalla cieca volontà di vivere; 6) la conclusione religiosa della sua filosofia, culminante (nonostante il cupo pessimismo empirico o immanente) in una visione di ottimismo trascendente. Non intendo soffermarmi sulle ragioni (strettamente connesse con la personale visione teoretica dell’autore) di tale rilettura, né ricordare (sebbene la circostanza non sia priva di qualche interesse storico) come la pubblicazione di tale articolo – che conteneva una citazione dell’invettiva antinapoleonica del vescovo Gregoire, adattata da Martinetti al caso del bellicismo razzistico hitleriano – desse al Fascismo un pretesto per la temporanea soppressione della rivista. 1

“Il rinnovamento di studi schopenhaueriani […] ha anche un carattere innegabilmente religioso e da questo punto di vista deve pure essere valutato” (P. Martinetti, La rinascita di Schopenhauer, “Rivista di filosofia”, XXXI (1940), p. 76).

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Ho richiamato l’espressione di Martinetti, solo per farne meglio risaltare la differenza, rispetto alla lettura che in parallelo andava svolgendo – in quel medesimo tempo – Arnold Gehlen in Germania. Se Martinetti parlava di rinascita schopenhaueriana, Gehlen registrava – con mentalità empirico-positiva, più disposta ad assumere le ragioni della scienza che quelle della metafisica – i risultati di Schopenhauer, in uno degli interventi critici più lucidi ed originali, tra quelli apparsi in quel fatidico 1938 (anno di celebrazioni schopenhaueriane)2. L’unico punto sul quale in apparenza le due letture paiono convergere – l’importanza di Schopenhauer per una filosofia della religione3 – non basterebbe a nascondere un più fondamentale dissenso: dal momento che i quattro punti della filosofia schopenhaueriana che Gehlen è disposto a riconoscere, come risultati acquisiti per l’odierna antropologia filosofica, sono l’esatto rovescio di quelli rilevati da Martinetti in chiave metafisica. Egli respinge con forza l’idea che tra i risultati validi del filosofo di Danzica si debbano annoverare la metafisica della natura e la gnoseologia idealistica, su cui questi aveva cercato di fondarla: né il mondo come volontà, né il mondo come rappresentazione si possono considerare come le tesi in cui si esprime l’originalità filosofica di Schopenhauer! Solo estraendo – si potrebbe dire – il nocciolo razionale dal guscio metafisico della sua esposizione, tali risultati emergono alla luce. Essi hanno tutti rilevanza antropologica, piuttosto che metafisica, e sono: 1) “la scoperta dell’azione reale come problematica di partenza della filosofia”4; 2) l’aver “formulato per primo la teoria dell’armonia tra la dotazione di istinti, la struttura degli organi e l’ambiente”5; 3) la teoria del carattere “intellettuale” della percezione, e la qualificazione del conoscere come medium dei “motivi dell’azione”, vale a dire l’idea della “superficialità dell’intelletto”6; 4) il superamento della forma tradizionale del dualismo metafisico, ovvero l’eliminazione della “distinzione, in tutte le sue forme, tra corpo e anima”7.

2 A. Gehlen, Die Resultate Schopenhauers, in: Gesamtausgabe, Bd. 4, Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, Frankfurt a. Main, Klostermann, 1983, pp. 25-49 (apparso originariamente in: C. A. Emge u. O. von Schweinichen (Hrsg.), Gedächtnisschrift für Arthur Schopenhauer zur 150. Wiederkehr seines Geburtstages. Philosophische Untersuchungen, Bd. 6, Berlin, Verlag für Staatswissenschaften und Geschichte, 1938, pp. 96-118). 3 “Nella ricerca filosofica, su cos’è la religione e su come vive, si può ricorrere solo a lui” (Die Resultate Schopenhauers cit., p. 48). Cfr. A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, trad. di G. Auletta, Napoli, Guida editori, 1990, p. 81. 4 Ivi, p. 32 (trad. it. cit., p. 64). 5 Ivi, p. 33 (trad. it. cit., pp. 65-66). 6 Ivi, pp. 34-35 (trad. it. cit., p. 67). 7 Ivi, p. 36 (trad. it. cit., p. 69).

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2. Chi – come ricorda Gehelen in uno dei saggi che formano il volume Antropologia filosofica e teoria dell’azione – intorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, si accostava ai temi dell’antropologia filosofica, poteva ancora nutrire “ambizioni metafisiche”, nel solco della grande tradizione di cui Nietzsche, Bergson e, per altro verso, Nicolai Hartmann costituivano gli esiti più promettenti. Dietro di loro giganteggiava l’ombra di Schopenhauer, che con il suo concetto di volontà aveva creduto di aprire una via alla soluzione del grande enigma del mondo8. Egli aveva colto nella nozione di Leib (corpo proprio), nel suo carattere immediatamente espressivo, la chiave dell’enigma. E in effetti a tale convinzione – “che l’esteriore sia ‘espressione’ dell’interiore” – da Schopenhauer condivisa con Herder e con tutto il Romanticismo, posta esplicitamente da Immanuel Hermann Fichte alla base dell’antropologia, si richiamava allora un promettente filone di psicologia scientifica, che “al contrario della psicologia classica improntata a Wundt” avvertiva l’esigenza “di considerare l’aspetto somatico”9, superando l’opposizione tradizionale tra esterno e interno, considerazione biologica e psicologica dell’uomo. Indubbiamente Schopenhauer e la sua sistemazione metafisica non avevano evitato lo scoglio del dualismo: ma egli era stato “un dualista [..] contro le sue intenzioni”10, a causa dell’auto-fraintendimento kantiano della sua gnoseologia idealistica, mentre la direzione autentica della sua filosofia era verso un monismo non spiritualistico. Chi aveva saputo meglio cogliere e sviluppare la suggestione pre-fenomenologica della nozione schopenhaueriana di Leib, in quanto Urphänomen della vita, era stato naturalmente Max Scheler. Mi pare di poter cogliere una coperta allusione al debito schopenhuaeriano, contratto dall’autore di Wesen und Formen der Sympathie e Die Stellung des Menschen im Kosmos, debito maggiore di quanto quest’ultimo fosse stato disposto ad ammettere, perfino nell’ironico paragone – contenuto nel saggio di Gehlen Uno sguardo retrospettivo all’antropologia di Max Scheler – di Scheler con l’eroico Arnold von Winkelried, il personaggio dell’epica nazionale svizzero-tedesca caro al “repubblicano” filosofo di Danzica, che lo ricorda (oltre che ne Il mondo come volontà e rappresentazione) nella tesi di laurea del 1813, sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, per esemplificare la propria teoria della coscienza morale come semplice medium dell’azione11. Ma Scheler – nel celebre libro del 1928 – si era limitato 8 9 10 11

Ein anthropologisches Modell, ivi, p. 203 (trad. it. cit., p. 247). Zur Systematik der Anthropologie, ivi, p. 64 (trad. it. cit., p. 98). Zur Geschichte der Anthropologie, ivi, p. 151 (trad. it. cit., p. 193). “Max Scheler aveva qualcosa come una funzione da Winkelried: prendeva a cuore molti problemi spinosi e apriva così un vicolo per il futuro” (Rückblick auf die Anthropologie Max Schelers, ivi, p. 253 [trad. it. cit., p. 303]). Cfr. A. Schopenhauer, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde. Eine philosophische Abhandlung, in: Sämtliche Werke (hrsg. von Arthur Hübscher), Bd. 7, Wiesbaden, Brockhaus, 1972, p. 75 (La

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ad un uso ancora ideologico delle anticipazioni scientifiche schopenhaueriane, inserendone la metafisica della volontà in una Weltanschauung negativa, che da un lato collegava idealmente il buddhismo al freudismo contemporaneo – per il tramite di Schopenhuaer e dello schopenhaueriano Paul Alsberg12 – dall’altro sollecitava i tedeschi a far propria la sfida dell’Ausgleich di Oriente e Occidente13. Gehlen non risparmierà, in Der Mensch, le proprie critiche alla concezione scheleriana della Machtlosigkeit des Geistes, che interpreta la teoria freudiana della sublimazione come processo spirituale, anziché risolverla nella legge dell’eccesso pulsionale, che rimanda al problema della Führung degli istinti14. Quello di una libido del tutto aspecifica, concepita come “réservoir di tutte le ripartizioni di pulsioni nell’uomo”15, è del resto il lascito scientificamente più dubbio della schopenhaueriana metafisica della volontà – come ribadisce il saggio gehleniano Sulla reattività istintiva alle percezioni, nel volume Antropologia filosofica e teoria dell’azione. Altrove vanno cercati gli stimoli decisivi per un’antropologia filosofica finalmente emancipata dall’aura metafisica del Geist: in primo luogo, nella sua rivoluzionaria teoria del linguaggio, come prestazione altamente esonerata del cervello, mediante cui “viene rotto l’incantesimo dell’immediatezza nella quale rimane sempre imprigionato l’animale”16; come organo specializzato della conoscenza, intesa come “semplice mhcanhv del volere”17. Non a caso Gehlen, nel presentare al pubblico scientifico i risultati cui è giunto in Der Mensch, ed in particolare la rivoluzionaria teoria dell’Entlastung, che consente di tradurre l’ambigua nozione metafisica di coscienza in termini di azione, non esiterà a riconoscere a Schopenhauer (accanto a Herder) un ruolo di “precursore” dell’antropologia filosofica18. 3. Il rapporto che unisce Gehlen a Schopenhauer si risolve in questi debiti riconosciuti, e si può dunque considerare riassunto all’interno di una storia del-

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quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, trad. di A.Vigorelli, Milano, Guerini e Associati, 1990, p. 137). M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, in: Gesammelte Werke, Bd. 9: Späte Schriften (hrsg. von M. S. Frings), Bonn, Bouvier Verlag, pp. 46 e sgg. (La posizione dell’uomo nel cosmo, trad. Di R. Padellaro, Milano, Fabbri, pp. 197 e sgg.). M. Scheler, Der Mensch im Weltalter des Ausgleich, ivi, pp. 145-70. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, in: Gesamtausgabe, Bd. 3.1, Frankfurt a. Main, Klostermann, 1993, pp. 59-65 (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, trad. di C. Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 83-88). A. Gehlen, Über instinktives Ausprechen auf Wahrnehmungen, in: Philosophische Anthropologie und Handlungslehre cit., p. 186 (trad. it. cit., p. 229). Ein Bild vom Menschen, ivi, p. 60 (trad. it. cit., p. 94). Die Resultate Schopenhauer, cit., ivi, p. 35 (trad. it. cit., p. 67). Der Mensch, cit., pp. 79 e sgg. (trad. it. cit., pp. 100 e sgg.).

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l’antropologia, che non nasconde il proprio saldo radicamento nella filosofia classica germanica, oppure si estende a una storia attuale della ricezione critica dello schopenhauerismo, che non ha esaurito del tutto la propria suggestione? Personalmente propendo per la seconda alternativa. La nuova stagione di studi, stimolata dall’infaticabile contributo filologico ed esegetico di Arthur Hübscher19, non ha tralasciato di osservare l’apporto originale di Schopenhauer nell’ambito psicologico e antropologico, accanto al più tradizionale ambito etico-metafisico, estetico, religioso (ricostruendo ad esempio, con acribia filologica, il rapporto che la teoria della volontà e dell’inconscio instaura con il giovanile concetto di besseres Bewußtsein)20. Tuttavia, mi pare abbia trascurato di rilevare l’importanza – in tale prospettiva – del saggio di Gehlen del 1938. L’attenzione è stata richiamata se mai – come risulta particolarmente evidente nel lavoro di Kamata – dalle suggestioni ermeneutiche contenute nel Nietzsche di Heidegger, in vista di una decostruzione del concetto metafisico di volontà di potenza. Non si è osservato, che era stato piuttosto Gehlen a portare l’attenzione sui motivi più vitali e proseguibili del rapporto NietzscheSchopenhauer, che non veniva impostato nei termini (giustamente rifiutati da Heidegger) di un superato evoluzionismo biologico, ma neppure dissolto entro una arbitraria “storia della metafisica”, dai contorni indefiniti. Piuttosto, esso veniva riportato nei suoi esatti confini storici, valorizzando le classiche linee di continuità (su cui già Georg Simmel aveva insistito) che collegano Nietzsche (anche per il tramite di Schopenhauer) a Kant e a Goethe. Dentro la crisalide della gnoseologia idealistica e della metafisica volontaristica del Mondo come volontà e rappresentazione, è ai contenuti innovativi, che il kantismo “atipico” di Schopenhauer è in grado di suggerire, in ambito antropologico e psicologico, che può meglio attingere la filosofia contemporanea21. Ma, anche in rapporto alla filosofia della religione, più che all’anticristianesimo polemico di Nietzsche, bisognerebbe guardare – suggerisce Gehlen – nella direzione di Schopenhauer. È stato lui a indicare una “terza via”, al “doppio movimento” provocato dalla dissoluzione del cristianesimo dogmatico, e sfociato da un lato nel “tentativo di sviluppare una seconda Riforma, fondata filosoficamente proprio attraverso una reinterpretazione filosofica 19

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Si veda, a titolo d’esempio, il volume Zeit der Ernte. Studien zum Stand der Schopenhauer-Forschung. Festschrift für Arthur Hübscher zum 85. Geburstag, im Namen d. Schopenhauer-Ges. hrsg. von Wolfgang Schirmacher, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1982. Di A. Hübscher si veda soprattutto: Denker gegen den Strom. Schopenhauer: Gestern - Heute - Morgen, Bonn, Bouvier Verlag, 1988 (Arthur Schopenhauer: un filosofo contro corrente, trad. it. di G. Invernizzi, Milano, Mursia, 1990). Mi riferisco ai volumi di Y. Kamata, Der junge Schopenhauer. Genese des Grundgedankens der Welt als Wille und Vorstellung, Verlag Karl Alber, Freiburg/München, 1988; e di R. Malter, Arthur Schopenhauer. Transzendentalphilosophie und Metaphysik des Willens, Stuttgart, Frommann/Holzboorg, 1991. Cfr. G. Simmel, Kant. Sedici lezioni berlinesi, a cura di A. Marini e A. Vigorelli, Milano, Unicopli, 1986, 1999.

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del Cristianesimo (Fichte, Schelling, Hegel)”, dall’altro nel ritorno e nella “ricerca di una cosiddetta religione naturale” (Feuerbach, Stirner, Nietzsche)22. La scoperta – di cui Nietzsche menerebbe vanto – della antinaturalità (Gegennatürlichkeit) della religione, più che dal meccanico rovesciamento ateistico del timorato illuminismo religioso kantiano, proviene (nei suoi tratti proseguibili) dal più articolato discorso di Schopenhauer, nel quale si possono distinguere almeno tre tesi fondamentali, che Gehlen così enuncia: «1. La religione come interpretazione del mondo ed autointerpretazione vincolanti e valide è sorpassata storicamente. 2. La conduzione delle azioni del singolo e della comunità, dello stato, è possibile con l’ausilio di mezzi naturali a partire dalle fonti dell’esperienza. 3. Una religione individuale della volontà a partire dal rapporto della vita personale con il corso del mondo può sorgere sempre in ogni uomo»23. Più che l’oltrepassamento nietzscheano della metafisica, diventa qui importante la delineazione storica ed antropologica dei tre diversi “interessi”, che possono essere fatti corrispondere – in una generale funzione di stabilizzazione morale degli impulsi – ai tre concetti di religione, distinti da Schopenhauer: la religione come metafisica simbolica di carattere immaginativo, la morale naturale della compassione, la religione come espressione della personalità individuale. Sono, rispettivamente: “gli interessi dell’interpretazione del mondo” (Interesse der Welt- und Selbstdeutung); “gli interessi del modellamento dell’azione” (Interesse der Handlungsformierung); “gli interessi dell’impotenza” (Interesse der Ohnmacht), i “motivi – questi ultimi – di fede più profondi ed indistruttibili” (cui corrisponde l’attività della fantasia, in quanto forza che favorisce la vita, anziché danneggiarla, che spinge nel futuro)24. La consapevolezza dei dislivelli ontologici e valoriali, corrispondenti a tali interessi, potrebbe evitare (come ha in effetti evitato a Schopenhauer) di scivolare nella “irreligiosità astratta”25, una volta compiuto il sacrificio del Cristianesimo e del teismo tradizionali, laddove la nichilistica proclamazione di Nietzsche della “morte di Dio” non ci salva da un tale esito sin troppo scontato. È anche questa una ragione che – a mio modesto avviso – renderebbe auspicabile una rinascita di Schopenhauer, nelle articolate direzioni individuate da Gehlen, specialmente in un clima culturale come quello che ha dominato l’Italia negli ultimi decenni. Alle meritoria fatica di Colli e Montanari, cui dobbiamo la restituzione filologica dell’opera di Nietzsche, non ha infatti corrisposto una cura altrettanto attenta dell’opera di Schopenhauer, fatta oggetto sovente di attenzioni editoriali a dir poco commerciali, che hanno finito per abbassarne il ruolo a quello di “filosofo popolare”, indebolendone viceversa il profilo teorico e finendo con l’oscurare – anziché chiarire – il suo es22 23 24 25

Die Resultate Schopenhauer, cit, p. 41 (trad. it. cit., p. 73). Ivi, p. 48 (trad. it. cit., p. 81). Ivi, p. 45 (trad. it. cit., p. 77: ho leggermente modificato la traduzione). Ibid. (trad. it. cit., p. 78).

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senziale rapporto storico con la filosofia nietzscheana. Una rinascita di Nietzsche si è ormai consumata, mentre quella (ben più auspicabile) di Schopenhauer non si lascia neppure intravedere26. Forse una contemporanea rinascita di Gehlen potrebbe favorirla.

26

Ho già avuto occasione di insistere su questi aspetti nel volume Il riso e il pianto. Introduzione a Schopenhauer, Milano, Guerini e Associati, 1998, a cui mi permetto di rinviare.

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PARTE TERZA I CONTESTI APPLICATIVI

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Ubaldo Fadini

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ARTE E NATURA SU ALCUNI PROPOSITI DI ARNOLD GEHLEN

Quando la nature artificielle dell’uomo si deforma, le arti diventano artificiali. A. Gehlen

In un breve testo della fine degli anni Cinquanta, Gehlen espone con grande chiarezza uno dei motivi centrali della sua ricerca a cavallo tra l’antropologia (filosofica) e la sociologia: quello del carattere “agonistico”, “distruttivo”, di una “nuova naturalità” contrapposta sempre di nuovo alla istituzionalità, comunque declinata, giudicata innanzitutto come “convenzionale” e poi, sulla base della perdita della sua “ovvietà”, come “innaturale”. Richiamando, tra l’altro, anche gli studi di H. Schelsky, Gehlen sottolinea come le forme culturali stabili e abituali siano sempre avvertite come “naturali”, a partire dal riferimento imprescindibile a quella natura umana costitutivamente culturale che appunto si presenta come energia creatrice di cultura. Quando il sistema di tali forme consolidate viene “scosso”, per vari motivi, allora si fa generalmente appello, nella “nostra cultura individualistica”, ad una nuova naturalità dell’uomo, che si caratterizza però a partire da attributi culturali che sono propri dello stile di pensiero delle società più “avanzate”, che presentano la “coloritura del ventesimo secolo”. La dinamica in questione è quindi molto chiara: il sistema delle ovvietà, una volta che viene “scosso”, è destinato a essere “superato” a favore dell’affermazione di uno nuovo – ma quando uno “spirito in anticipo sul suo tempo” contesterà la correttezza della nuova messa in sistema del mondo, intendendola come una intollerabile convenzione, allora si metterà in moto un meccanismo di liberazione dalla costruzione “menzognera” per giungere finalmente alla natura realmente “nuova”. Scrive Gehlen, così sintetizzando i risultati della ricerca: […] i modi culturali di comportamenti, i generi di pensiero e di esperienza, le forme di reazione, eccetera, sviluppati in una determinata società appaiono ‘naturali’

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a coloro che sono stati allevati entro questa società; invece quelli che se ne discostano appaiono ridicoli, inauditi o perversi. Quando queste norme vengono scosse – ciò che sempre avviene in qualche momento, anzitutto per opera di un contatto con l’esterno o di un certo grado di complicazione del sistema culturale – allora appaiono arbitrarie o convenzionali, e ad esse se ne contrappongono altre che si impongono come naturali. Ciò che può ora ottenere il carattere di naturale sarà a sua volta determinato in ultima istanza dal sistema dei presupposti della cultura in questione, che quindi in ultima istanza si limita a sostituire un principio dei modi di comportamento culturalmente modellati, che ha perso l’apparenza della naturalità, con un altro che ha guadagnato questa apparenza1.

È proprio rispetto a questa vera e propria lotta per l’apparenza, per la sua acquisizione, che mi pare opportuno riprendere il filo del ragionamento gehleniano sulla “naturalità della pittura moderna”, così come si sviluppa all’interno del testo già richiamato del ’59 per poi concretizzarsi, secondo modalità ancora più complesse, nel noto studio del ’60 sui Quadri d’epoca (ZeitBilder). L’idea-guida di Gehlen è che al concetto di genio, espressione del bisogno da parte dei teorici dell’estetica settecentesca (da Shaftesbury a Sulzer e Baumgarten) di ricorrere a una nuova naturalità, da contrapporre all’arte convenzionale dell’accademia e della regola, subentri il concetto di personalità artistica, da intendersi effettivamente come nuova “nuova naturalità”. Gustoso è tra l’altro il rinvio di Gehlen ad espressioni giornalistiche che restituiscono un uso ormai convenzionale della nozione di genio, in grado di eruttare “creazioni originali in istintiva libertà come una forza della natura”, applicata all’arte moderna (ad esempio, nella frase: “qui si scatenano nel quadro energie estatiche”), che non sembrano più adattarsi al “sottile disegnatore fantastico Klee” o allo “scaltrito Picasso”. Le osservazioni gehleniane sull’utilizzo “in libertà” del concetto di genio non possono non richiamare quelle di Musil (autore caro a Gehlen) sul “geniale cavallo da corsa” che conduce Ulrich, il protagonista di L’uomo senza qualità, a riconoscersi appunto come uomo ohne Eigenschaften. Sia consentita questa citazione: E un giorno anche Ulrich smise di voler essere una speranza. A quel tempo s’incominciava già a parlare di geni del foot-ball e del ring, ma nelle cronache dei giornali trovava posto tutt’al più un geniale centro-avanti o un grande tennista ogni dieci geniali inventori, tenori o scrittori. Lo spirito nuovo non si era ancora saldamente affermato. Ma proprio allora Ulrich lesse su un giornale, come il primo presagio di una rigogliosa estate, la frase ‘un geniale cavallo da corsa’. Era la cronaca di un sensazionale concorso ippico, e forse l’autore non era neanche cosciente della straordinaria trovata che lo spirito collettivo gli aveva suggerito. Ulrich invece capì di colpo l’ineluttabile concatenazione fra tutta quanta la sua carriera e quella genialità dei cavalli da corsa. Infatti il cavallo è sempre stato l’ani1

A. Gehlen, A proposito di cultura, natura e naturalità, in Idem, Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo, tr. di S. Cremaschi, presentazione di G. Poggi, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 115.

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male sacro della cavalleria, e durante la sua gioventù trascorsa nelle caserme Ulrich non aveva quasi udito parlare d’altro che di cavalli e di donne; sfuggito a quell’ambiente per diventare un uomo notevole, ecco che, quando, dopo alterne vicende, avrebbe potuto sentirsi vicino alla meta dei suoi sforzi, lo salutava di lassù il cavallo geniale che era arrivato prima2.

Ritornare allo sforzo gehleniano per giungere ad una migliore comprensione – “più ravvicinata” – dell’arte moderna vuol dire prendere atto che in esso si coglie la distanza presente, nel fare arte, dal “naturalismo”, cioè dall’idea di una riproduzione, di “gusto” appunto artistico, corrispondente alla “cosa”, “vicina al modello” della realtà incontrata. Il naturalismo, che aveva costituito nel Seicento quella “nuova naturalità” da contrapporre alla versione manieristica della “tradizione classica”, è diventato, soprattutto in apertura del Novecento, quel concentrato di convenzioni e ovvietà, ormai scosso, da dipingersi appunto come l’avversario per eccellenza. I motivi di questa sua riconsiderazione in negativo sono diversi. Gehlen ricorda il cambiamento della disposizione interiore del pubblico, delle domande e degli interessi, dovuto all’avvento della fotografia. Accanto a ciò è da menzionare la scomparsa del concetto di “essere degno di venir rappresentato”, caratteristico di quella pittura realistica che ri-presentava, nel ritratto o nel paesaggio, qualcosa di avvertito come esemplare. La stessa “transizione dal più ampio realismo al ristretto naturalismo dell’Ottocento” appare a Gehlen come l’effetto dell’affermazione di motivi nuovi, prima ignorati e di fatto “plebei”, che si tenta di elevare alla dignità della rappresentazione. Ma il realismo, anche così declinato, all’interno del quale la rappresentazione può addirittura spettacolizzarsi fino a giungere alle soglie del comico e del grottesco, è impresentabile, agli occhi dell’“aristocratico” Gehlen, per via del carattere sempre più ordinario, mediocre, del reale. Ancora da sottolineare è un altro motivo di abbandono del realismo, che deriva dal venir meno del presupposto, sostenuto con forza da Goethe, della “visibilità” della natura “nella sua essenza e nel suo baricentro”; la cultura contemporanea rappresenta la fisica subatomica mediante il linguaggio matematico, dubitando in effetti della possibilità di mettere in immagine “gli elementi ultimi della materia”: Così la nuova pittura ritiene la natura nella sua immediatezza non più degna di essere rappresentata per diversi motivi: perché la fotografia rende del tutto triviale il ritrarre la natura, perché non si vuole più dello spettacolo rappresentativo di ciò che è esclusivo e che, per così dire, regola e richiama all’ordine la persona, e perché si è diffusa la voce che l’involucro esterno visibile della natura, contrapposto agli eventi e alle forze del suo nocciolo, è relativamente privo di interesse. L’arte moderna combatte quindi contro ciò che per molti secoli e ancora in Goethe veniva considerato natura, in lega con le scienze della natura; e combatte 2

R. Musil, L’uomo senza qualità, tr. di A. Rho, introduzione di C. Cases, Torino, Einaudi, 1965, pp. 39-40.

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contro ciò che nello stesso periodo è stato considerato arte, contro il principio primo e basilare dell’imitazione della natura. Il naturalismo o realismo, il cui ultimo esponente importante, Leibl, morì proprio nel 1900, viene considerato oggi in ogni caso convenzione abbandonata, costume insulso, quasi ridicolo, arretrato, che è del tutto da escludere per gli uomini moderni. Viene quindi percepito come necessario ritornare ora alla natura ‘autentica’, ed inizia la ricerca di una nuova natura3.

Gehlen osserva come questa “ricerca” si appoggi sempre di più alla “cultura scientifica”, a quel “pensiero teorico astratto” che rappresenterebbe l’organo più adeguato alla conoscenza della realtà materiale. La contrapposizione alla convenzione del naturalismo è supportata dalle teorie scientifiche, che aiutano a penetrare la natura, a vantare ancora dei diritti, in questo caso artistici, nei suoi confronti. L’attenzione gehleniana è soprattutto sollecitata da quelle affermazioni “sulla natura della natura” che è possibile individuare nelle riflessioni dei maggiori esponenti della pittura moderna, alla base delle quali stanno “teorie del tutto astratte, intellettuali, più o meno sistematizzate”. Ovvio è il rinvio, in questa prospettiva, alle convinzioni di Cézanne e all’interesse di F. Marc nei confronti delle teorie delle scienze naturali, rispetto alle quali si individuava nell’arte il compito di assicurare il loro “divenire forma”. A ciò è da aggiungere l’idea di Mondrian di scartare il sentire e l’immaginare soggettivi per arrivare alla “realtà pura”, alle relazioni immodificabili, a quell’equilibrio di contrasti che rimanda alla contrapposizione fondamentale tra orizzontale e verticale. Certamente artisti come Mondrian combinano evidenze di carattere scientifico con asserzioni del tutto soggettive, ma comunque sempre nel tentativo di direzionare la loro pratica verso una “nuova naturalità”. Non è così sorprendente che Mondrian, nella sua impresa pittorica, arrivi a qualificare la sua pittura come “realista”: la sua convinzione, da “pittore riflessivo”, è che la “cosa creata”, il quadro, corrisponda alle leggi essenziali della natura. Su ciò c’è l’accordo dell’artista più attentamente analizzato da Gehlen, P. Klee, un altro grande “riflessivo”, in un quadro di ricerca di quella “nuova naturalità”, che il “primo teorico dell’espressionismo”, A. Holz, già caratterizzò come decisamente “competitivo” rispetto all’immagine semplificata della natura. Addirittura Holz parla di una tendenza dell’arte a porsi contro la natura, a realizzare creazioni che soppiantano quelle della natura: una tale sensibilità “di rottura” è in fondo tipica della cultura moderna e l’arte la esprime forse nella maniera più chiara, pensandosi, volendosi, come “più che natura, più vera di essa”. Ancora più interessante, rispetto a queste riflessioni sulla “naturalità della pittura moderna”, sono le pagine che Gehlen dedica al valore dell’“anomalo” nella composizione della “nuova naturalità”, quella a cui si tende quando le tradizioni della cultura dominante transitano verso ciò che può essere considerato il loro destino: di diventare cioè mere convenzioni. La cultura tradi3

A. Gehlen, A proposito di cultura, natura e naturalità, cit., pp. 117-118.

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zionale è quella che traccia confini precisi al modo di sentire, di comportarsi, di pensare, al di là dei quali si è “sanzionati” in una qualche maniera, appunto quando ci si pone sotto pena di riprovazione. L’autore di Quadri d’epoca non esita a ad attribuire la definizione di tali confini ad un punto di vista che prende “a metro e misura il maschio adulto e gli affari dominanti”, le regole di un ceto (e di un genere, si potrebbe aggiungere), rivolte a trattare i comportamenti non seri, infantili, le proiezioni oniriche, come delle vere e proprie “sciocchezze”. Lo sguardo del sociologo è qui particolarmente acuto, nel momento in cui osserva come le “stilizzazioni” prodotte dalla “cultura dei dominatori” si spingano fino all’interno del mondo interiore, dello spazio impulsionale. La loro forza propositiva è tale da squalificare altre possibilità di sviluppo degli eventi avvertiti come irrilevanti: le fantasticherie, il giocherellare, la paura vengono considerate, in questo quadro, come qualcosa di “naturale”, che devia dalla norma, vale a dire degenera nell’anormalità. Scrive Gehlen: [Le possibilità] andarono soggette a una duplice interpretazione: lo svago infantile, il giocherellare, la paura, le fantasticherie venivano considerate decisamente naturali (ciò che non è ovvio, in quanto in molte culture primitive i sogni vengono considerati sovrannaturali). Ma per i circoli influenti della società vennero ad un tempo confinati in questa naturalità e andarono soggetti a un divieto, o già in radice, come la paura, o negli sviluppi ulteriori: si possono avere sogni, ma è infantile parlarne o addirittura lasciarsene motivare. A questi fenomeni vengono accostate le malattie. La psicopatia o anche le psicosi vengono da noi certamente considerate naturali – di nuovo a differenza delle società primitive, dove sono di competenza dello sciamanesimo e della stregoneria – ma nella loro naturalità degenerate e anomale. Noi abbiamo il concetto di deviazione naturale, non colpevole, dalla norma”4.

Nella cultura tradizionale che transita verso la stato comatoso della riaffermazione dell’ovvio, è inevitabile che ci siano sempre più persone e circoli che assumono, senza sensi di colpa, il “valore” della naturalità espressa negli atteggiamenti ludici, nei sogni, nei fenomeni dell’“anormalità psichica”. È a questa natura che allora ci si rivolge, alla nuova naturalità che va incontro al suo destino di stilizzazione, di cui si segnala il valore di novità. Con un passo di radicale importanza, Gehlen non può che avventurarsi, a questo punto, nell’arduo sentiero che tratta dei rapporti tra l’arte, soprattutto la pittura moderna, e la psicopatia. Non ritengo scorretto, a questo proposito, il rinvio ad un saggio di G. Benn, altro autore caro a Gehlen soprattutto per la sua declinazione del motivo della “post-storia”, Il problema del genio (1930), nel quale la fenomenologia regressiva-lirica del poeta di Morgue disegna una carta di patologie che fungono da presupposti storico-geologici per l’impresa della 4

Ivi, p. 120.

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messa in forma artistica (delle “tensioni primarie” insiste nel fenomeno stesso dell’artistico). Benn considera appunto la genialità sotto condizioni preliminari opposte ai valori di sviluppo della vita, laddove cioè nell’abnorme e nella degenerazione, nella direzione verso il basso, si origina la “grande suggestione dell’arte”. La figura dell’artista si qualifica, in quest’ottica, come “naturalistica”, in un senso che la porta ad essere venerata, corteggiata, da quella “comunità culturale” attratta, in contrapposizione alla “normale” circolazione di Harvey, dalla circolazione delle psicopatie e delle anomalie negative e produttiva così, accanto alle imprese di salute, di una mitologia moderna fatta di ebbrezza e decadenza che viene chiamata genio: Riassumiamo: i cervelli creativi, vulcanici, diciamo pure: gli esseri geniali: alcuni emergono, alcuni li trascina con sé l’ora, alcuni divengono genii, molti restano in basso come non fossero mai esistiti. Si impone questa immagine: qui i vagabondi, gli alcolizzati, i ricoverati negli ospizi di mendicità, gli individui dalle orecchie deformi, i tisici, l’orda malata, e là l’abbazia di Westminster, il Pantheon e il Walhalla, dove stanno i loro busti. Costruito il Pantheon, modellati i busti, non per gratitudine per ciò che essi hanno fatto (chi mai dovrebbe essere grato, essi in fondo hanno semplicemente fornito i loro prodotti originati da uno stato di necessità o di diletto), non per ammirazione della loro costanza (chi sa mai che cosa sia costanza e come agisca la costanza), ma piuttosto per l’inclinazione del gruppo sociale verso degenerazione e decadenza, accentuata in considerazione del valore di godimento che a una persona normale procurano le baccanti che danzano in catene, a causa dell’impagabile possesso di quella vittima preziosa che è caduta in mezzo alle sue proprie ebbrezze”5.

Gehlen non muove certo verso una considerazione della malattia come motore dell’impresa artistica; sa bene che la follia – o la “crisi nervosa” di un Munch, ad esempio – costituisce un blocco decisivo per ogni sperimentazione salutare, ma ciò che intende sottolineare è come l’esperienza del valore della nuova “natura” includa sempre di più “psicopatici, sognatori e personalità infantili”, in una prospettiva che individua proprio nell’arte la dimensione in cui meglio si evidenzia la ricerca dell’originalità, lo svincolamento dalle norme imperanti. Non manca, in questo quadro, l’indicazione di “pezze d’appoggio”, da rinvenire nelle testimonianze dei maggiori artisti novecenteschi. Un rinvio acuto è alle osservazioni dell’ iper-riflessivo Klee, che nei suoi Diari fa riferimento alle creazioni dei bambini e dei malati di mente come espressioni di un modo di sentire e di far affiorare la natura che va preso molto più sul serio di tutto quello che è contenuto nelle “pinacoteche del mondo”, soprattutto da parte di coloro che premono per superare gli steccati della tradizione, la camicia di forza dell’ovvietà. L’anomalo viene accettato poi a ragione di uno sbriciolamento di quei costrutti della tradizione che lo 5

G. Benn, Il problema del genio, in Idem, Lo smalto sul nulla, tr. a cura di L. Zagari, Milano, Adelphi, 1992, pp. 75-76.

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tenevano rigorosamente all’esterno: l’interdetto viene ri-accolto e tollerato (“ridetto”) all’interno di un’epoca e di una società sotto veste di un contenuto d’esperienza ormai avvertito, “nei circoli intellettuali influenti”, come “naturale”. Detto in altri termini: l’anomalo si propone a poco a poco come ciò che può avere valore di norma, fino a quando lo si percepisce, così “formato”, come obbligatorio. Ritornando sulle considerazioni “reattive” di un “critico d’arte cattolico” come H. Sedlmayr (del quale si ricorda Die Revolution der modernen Kunst), Gehlen rimarca come l’anomalia raggiunga, nel mondo degli artisti moderni, una “qualità di dover essere”, una sorta di “suggestione normativa”, che segna di sé i nuovi valori dell’arte. Combinando tra di loro domande antropologiche e questioni sociologiche, mostrando una certa sensibilità rispetto ad analisi cruciali come quelle contenute nel celebre studio di D. Riesman su La folla solitaria (1953), le pagine gehleniane registrano insieme un distacco della sfera della sperimentazione artistica dalla prassi quotidiana delle società industrialmente avanzate e un inizio però di invasione, da parte di un atteggiamento intimamente sregolato perché pervaso dalla nuova naturalità, di spazi della vita sociale tradizionalmente contraddistinti da una serietà considerata incrollabile. Le persone/personalità naturali, maschere moderne dell’eccedere artistico, proliferano in campi in cui “oggettività, razionalità ed esattezza” già vivono una vita, se non di stenti, comunque precaria. Dietro agli artisti, al loro rompere con le tradizioni, norme e regole “storiche”, muovono moltitudini di intellettuali avversari appunto delle ovvietà convenzionali, sentite come “innaturali” e rispetto alle quali va rivendicato il valore essenziale di una “nuova naturalità”. Con queste riflessioni sull’anomalo che diviene norma, con effetti dirompenti, Gehlen tenta in fondo di restituire all’antropologia filosofica (e culturale) il compito di fornire un contributo ad “una nuova interpretazione” dei concetti di natura e di naturalità, con la consapevolezza che per altre dimensioni dell’oggetto andrebbero richiamate categorie sociologiche, perché questi artisti palesemente compiono all’interno della società un movimento di riscatto quale era noto in precedenza solo nella forma della religione. Il trionfo della pittura moderna dopo la guerra, l’inaudito ripristino degli anni Venti, può anche aver avuto a che fare con un riscatto di massa dalla responsabilità esistenziale, con una restrizione del politico al processo elettorale. In ogni caso ci sembra che ne consegua una emigrazione interna degli intellettuali dal politico, in parte verso la religione, in parte verso queste arti6.

È possibile mettere in relazione fertile queste riflessioni con un’altra annotazione gehleniana, di segno parzialmente diverso, contenuta in L’uomo nell’era della tecnica (1957), nella quale si evidenzia il rapporto di questa emancipazione dall’“ovvio” e dal “naturale”, tipica delle arti (e delle scienze) 6

A. Gehlen, A proposito di cultura, natura e naturalità, cit., pp. 123-124.

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odierne, con l’affermazione dello “spirito della tecnica”, di un loro partner così potente da levare “di mezzo la natura, connettendo le probabilità di vita ai più temerari e possibili progetti dell’intelligenza”. L’antropologia della tecnica disegnata da Gehlen è sostenuta da un’idea della natura costitutivamente artificiale dell’essere umano (che è stata afferrata magnificamente da un artista, non a caso, come Klee, il quale la formula così, come si ricorda in Quadri d’epoca: “Animale uomo – orologio di sangue”), definito da una carenza – istintuale – di fondo, che dà vita ad una progressione “culturale” con effetti “antinaturali”. La facilità nel capovolgere qualsiasi presupposto, il carattere irresistibile delle soluzioni “pure”: questi sono motivi che si possono ritrovare in maniera palmare nelle arti e nelle scienze contemporanee. C’è in breve una infiltrazione inesorabile dello “spirito sperimentale” anche nelle arti che concorre alla produzione di oggetti di fatto “denaturati”. Tra le caratteristiche più significative della “civiltà della macchina” nel suo vorticoso sviluppo, segnato appunto dallo straordinario dinamismo tecnologico e dallo “spirito del capitalismo razionale”, è da indicare la “radicale intellettualizzazione” negli ambiti delle arti e delle scienze, che comporta una diminuzione “dell’evidenza, dell’immediatezza e dell’accessibilità non problematica”. Ciò vuol dire anche che la produzione all’avanguardia sta diventando sempre più astratta e immateriale, come sottolinea Gehlen, in un contesto che vede la parola tecnica conservare qualcosa di importante del suo significato etimologico di abilità artistica, di capacità, di risultato, magari inatteso e poi rielaborato. Lo studioso tedesco è in ogni modo particolarmente interessato al protagonismo della tecnica che emerge in quella tendenza allo sperimentale che contraddistingue appunto il piano delle arti. Il rinvio è allora nuovamente alla pittura moderna, alla dinamica – che si evolve da Cézanne all’“astrattismo” e al surrealismo di M. Ernst e S. Dalì – di progressiva dissoluzione dell’oggetto. Tale processo è però l’espressione di sommovimenti molto profondi, di trasformazioni radicali che Gehlen legge in questi termini: Da un lato infatti i pittori, assimilando teorie e concezioni di moda al loro tempo, di carattere per lo più psicologico, modificarono di volta in volta i loro criteri sulla qualità dell’elemento ottico-pittorico: il dissolvimento della materialità tangibile nel colore, iniziatosi nell’impressionismo, è inscindibile dai concetti della psicologia associativa dell’epoca […]. Dall’altro si affermò la tendenza ad isolare i cosiddetti ‘elementi dell’immagine’, sia dal punto di vista configurativo che coloristico, tendenza della quale gli astrattisti della pittura contemporanea rappresentano l’ultima tappa, la conclusione finale. Questa breve esposizione chiarisce come le teorie e le convinzioni, che avevano raggiunto l’apice, si cristallizzassero ogni volta in un metodo, che venne applicato soltanto finché non furono esaurite tutte le sue possibilità. Esse però continuano ad incalzare per logica propria, e così gli artisti danno più l’impressione di correre verso gli oggetti per impadronirsene che non per plasmarli ancora nelle proprie mani. […] L’elemento spirituale diviene fin troppo chiaro in Picasso, i cui innumerevoli dipinti non fanno pensare che si siano cercate strade per giungere ad una meta bensì il contrario: che siano

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tentativi fatti per vedere il risultato di certi procedimenti. Questo è spirito scientifico, ma è anche spirito tecnico: e i migliori artisti moderni, cioè coloro che intellettualmente sono all’altezza del loro metodo, procedono anch’essi, per dirla con Benn, guardando al microscopio, esaminando, colorando, per presentare infine il risultato7.

È il primato pratico del metodo, meglio: del “metodo-pratico”, l’interesse nei confronti del modo in cui si può attuare qualcosa, che mette in secondo piano il motivo del “contenuto”, rispetto al quale lo “spirito moderno” è sostanzialmente indifferente, proprio in virtù di una sorta di fuoriuscita dal suo periodo meramente “descrittivo-oggettivo”, in direzione di una piena messa a profitto della “immane ricchezza degli strumenti formali del pensiero” (i contenuti verranno dopo…). Tutto ciò va riportato alla dominante teorica delle analisi che si combinano nel testo del ’57, vale a dire alla individuazione dell’indirizzo astratto come caratteristica essenziale di tutte le produzioni avvertite come “progressive” perché scaturenti da “principi nuovi, nuove concezioni”. Ora, quello che preme a Gehlen è segnalare, nel quadro generale della civiltà contemporanea, il valore/valere della cosiddetta “legge dello sfasamento del ritmo”, seconda la quale gli ambiti culturali progrediscono a velocità diverse, presentando anche al loro interno tempi differenti di sviluppo. Ciò produce una scissione nel sistema culturale, responsabile di una sua almeno parziale “estetizzazione”, tra dimensioni fondamentalmente conservatrici, tradizionali, che a causa della perdita del loro carattere vincolante si risolvono in uno pseudo-conservatorismo di cattivo gusto, e altre sfere più propriamente “nuove”, “progressiste”, che isolano sempre più coloro che le coltivano. La conclusione di Gehlen si vuole disincantata: oggi la cultura va in direzioni assolutamente distanti da quelle rintracciabili nel complesso della realtà sociale. Detto in altri termini: la cultura tradizionale tradisce se stessa chiudendosi a salvaguardia del tradizionalismo più miope; la cultura “nuova” si orienta verso ambiti dove si esalta l’indifferenza nei confronti delle conseguenze di certe pratiche e il privarsi dell’impegno morale, manifestando una specie di “tendenziosità senza tendenza”, in quanto ci si trasporta in sfere molto lontane da quelle dove imperano gli interessi economici e politici, “assai concreti e facilmente valutabili”. A tutto questo Gehlen connette anche la “controtendenza al primitivismo” nella produzione culturale, “pressoché inevitabile per motivi finanziari”, visto che l’industria dei media ha come obbligo commerciale quello di assicurare larga popolarità ai suoi prodotti, tenendo conto del “basso livello medio delle esigenze che il pubblico pone a se stesso e alle situazioni a cui si interessa”. Accanto a questa primitività, dell’uomo “incolto”, ce n’è però un’altra da prendere attentamente in considerazione, cioè quella dell’uomo “colto”, che ha sempre più bisogno di eccitazioni forti 7

A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale, tr. a cura di M. T. Pansera, Armando, Roma, 2003, pp. 54-55.

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ed eccessive per sop-portare il sempre meno afferrabile funzionamento delle superstrutture tecno-economico-industriali delle società “post-storiche”. Vi è ancora una variante del primitivismo, che vale come auto-interpretazione ideologica dell’uomo “tradito dall’ermetismo e dalla inaccessibilità della cultura” (l’uomo-massa dei “grandi centri urbani”), identificato da una originaria solidarietà umana “che non conosce forme né differenze”, priva com’è di storia o comunque non pienamente afferrabile dalla presa delle sue protesi culturali. Sul piano delle arti moderne, questo primitivismo può essere messo in rapporto con “le stridenti masse di colore di Kirchner”, le quali contrastano fortemente con “i sogni lievissimi e ipersensibili di Paul Klee”. Ma una sorta di “ritorno al primitivismo” si manifesta anche nella scultura, nelle “brutali semplificazioni di Moore o Brancusi”, con le loro opere di “aspetto tozzo e deforme”. Rispetto al tema del primitivismo, si possono richiamare anche alcune considerazioni contenute in Quadri d’epoca, nelle quali si sottolinea come l’effetto della messa in discussione delle tradizioni, con la loro capacità d’esonero, del venir meno dei “presupposti spirituali, estetici, sociali, anzi perfino quelli tecnici e finanziari, in precedenza dominanti”, comporti appunto un “ritorno alla primitività”, con caratteri però peculiari: a fronte delle pretese di uno “spirito” ormai indebolito nel suo assetto istituzionale, si delinea un processo di riabilitazione di una “naturalità” che si vuole “nuova”. Gehlen riassume in modo incisivo il tipo di logica che sostiene tale ritorno: […] l’uomo è a tal punto un essere culturale che, con la parola d’ordine della ‘natura’, egli non riesce a raggiungere altro che il rovescio culturale di quella cultura dalla quale vuole allontanarsi. Questa natura polemica è, dunque, soltanto una parola per indicare un’alterità più bella rispetto al contesto sociale. […] la società industriale, schiacciata dal tentativo di risolvere i suoi problemi e irreggimentata nelle regole della massificazione, vive la naturalità nella sfrenatezza e nel lasciarsi andare […]. Ampio è in proposito lo spettro delle possibilità: dal bisogno di stimoli, parimenti forti nelle dosi, ma qualitativamente differenti rispetto a quelli offerti dall’ambiente industriale, fino al diritto alla sconcezza e alla rozzezza, dalla disinibizione sessuale alle frenesie dello sport. Questa ‘nuova naturalità’ è, però, immancabilmente circondata da elementi di riflessione, il neoprimitivismo è ben lontano dal momento genuinamente arcaico, ad onta di coloro che scorgono dappertutto elementi ‘mitici’ e ‘magici’8.

L’esperienza della “nuova naturalità” (si ricordi l’espressionismo…) è quindi un’esperienza di libertà e di primitività, certamente da qualificarsi come “culturale”, ma che si realizza al prezzo «del neoprimitivismo e dello sciamare dei pensieri che ronzano come api furiose e che non producono poi di nuovo tanto facilmente miele». Non è difficile ritrovare, all’interno di Quadri d’epoca, gran parte dei temi di A proposito di cultura, natura e natu8

A. Gehlen, Quadri d’epoca. Sociologia ed estetica della pittura moderna, tr. a cura di G. Carchia, Napoli, Guida, 1989, p. 234.

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ralità, sopra evidenziati, ma ciò che mi interessa è rilevare l’idea gehleniana, che trascorre dalle pagine sulla “cristallizzazione culturale” a quelle sulla “secolarizzazione del progresso”, di una scivolamento del (senso del) nuovo, dell’autentica pretesa spirituale del progresso, all’interno di ambiti culturali periferici, rispetto agli spazi delle superstrutture autonomizzate costituite dal nesso di scienza, applicazione tecnica e sfruttamento industriale (disegnati da questioni di routine), nei quali la “nuova naturalità” trova infine espressione: In questi spazi diminuisce perciò la vitalità e la pretesa e l’aspettativa aumentano. Una ‘rivoluzione culturale’, incessantemente e rumorosamente prorogata, sorge allora per dover disdire il presente e per dover riempire il domani con novità: tutto ciò senza la più minima speranza”9.

La “post-storia” è, nell’ottica di Gehlen, “post-natura”, condizione essenziale per l’apparizione di una “nuova naturalità” che si manifesta innanzitutto in ambito “periferico”, sul terreno elastico/plastico delle arti, con una carica “nichilista” che però serve, come voleva Benn, alla delineazione di nuove “forme”. Non mi sembra forzare eccessivamente il ragionamento affiancare il senso dell’indagine gehleniana alla nuova concezione benniana, delineata nei primi anni ’30, del nichilismo, al tentativo cioè di cogliere un possibile “superamento” della regressione nichilista all’elementare in una sorta di “metamorfosi interna” del nichilismo stesso. Ricordo, a questo proposito, alcune osservazioni cruciali di F. Masini, risalenti al 1984: (metamorfosi interna del nichilismo), nella quale le polarità spirito-soma, ratiovita, considerate, secondo il principio di una ‘geologia dell’Io’, cardini del sistema paleontologico-mutativo caratteristico della nostra epoca, riemergono come base per una nuova costituzione di trascendenza da parte del ‘tardo Io’. La ‘catastrofe schizoide’, la ‘fatale nevrosi occidentale’ rappresentano così il presupposto storico-geologico necessario di una mutazione antropologica nella quale l’intelletto diventa la forma espressiva di una trascendenza – quella della forma – in cui si riflette estaticamente (ma l’estasi sarà ora intellettuale, apollinea, nel segno di Pallade e non di Dioniso) lo stesso mondo prelogico, la stessa mitica Vorwelt originaria. Come si legge in Nach dem Nihilismus, nichilismo, dunque, non è soltanto il culmine di un progresso che trasforma l’uomo in una ‘Montierung des Seelischen’ (‘montaggio dello spirituale’), e fa di esso ‘pezzi da incastro per un cosiddetto uomo collettivo e normale’, ma è anche la destrutturazione regressiva di questo ‘scipito rococò’, il ritrovamento, infine, di quell’impeto, di quella ‘tragicità’, di quell’irrazionale, di quell’animalità, di quella totalità arcaico-organica inconscia e ‘mostruosa’ che costituisce lo strato infimo dell’ ‘uomo del quaternario’. […] è dalla ‘sostanza intima della specie’, quella incarnata nell’uomo dei primordi, nel ‘primaere Monist’ (‘monista primario’), che scaturisce la svolta antropologica, vale a dire quel superamento del nichilismo che è più precisamente 9

A. Gehlen, La secolarizzazione del progresso, in “Discipline filosofiche”, a. XI, n. 1, 2001, p. 178.

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una ‘utilizzazione artistica’: ‘dislocazione dall’interno all’esterno’, prosciugamento, nella figurazione, dell’ultima sostanza della specie, trasferimento di forza nella struttura”10.

Al di là delle circostanze storiche che inquadrano il ragionamento di Gehlen, contraddistinto, tra l’altro, da una utilizzazione “istituzionale” (ed “artistica”…) del materiale “plastico” che può essere “salvato” soltanto da un assetto formale, a me sembra che esso possa fornire uno stimolo a ripensare l’eccentrico, il mostruoso, la deformazione (l’“antinaturalità” che sorge dalla distruzione dell’ovvio, dello scontato, di ciò che appare come “naturale” e che va superato in direzione della “nuova naturalità”) in una dimensione però non definibile come “post-storia” (che implica poi la proposta di una “ipermorale” a cui consegnare la “cura” [meglio: il dosaggio] del disagio soggettivo nei confronti di meccanismi di articolazione della realtà “sociale”, di cui spesso sfuggono le “ragioni”), in quanto sono proprio i processi di soggettivazione e le pratiche teoriche che li accompagnano ad essere oggi ulteriormente “valorizzati”, cioè sovradeterminati, nei tempi di produzione appunto di valore con la conoscenza, di fabbricazione continua dell’“immateriale” (tempi di “capitalismo flessibile”, di restituzione in termini di “flessibilità” della “plasticità” antropologica tematizzata da Gehlen), nei quali il “nuovo” assegnato all’ambito delle arti ritorna a circolare, così arricchito, dopo la sua apparente marginalizzazione, nelle reti del “capitalismo cognitivo”, nella società “motrice” della conoscenza11.

10

11

F. Masini, Fascinazione del nichilismo, in Idem, La via eccentrica. Figure e miti dell’anima tedesca da Kleist a Kafka, Casale Monferrato, Marietti, 1986, pp. 149-150. Cfr. anche il mio Metamorfosi del nichilismo. La posizione dell’uomo nella post-histoire, in “Discipline filosofiche”, a. XIII, n. 1, 2003, pp. 275-291. Sia consentito, su questi temi, il rinvio ai miei: Figure nel tempo. A partire da Deleuze/Bacon, Verona, Ombre corte, 2003 (soprattutto la seconda parte, pp. 83-140) e Soggetti a rischio. Fenomenologie del contemporaneo, Troina (Enna), Città Aperta Edizioni, 2004.

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Maria Teresa Pansera

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PROSPETTIVE ETICHE DELL’ANTROPOLOGIA GEHLENIANA

1. L’immagine dell’uomo nell’antropologia gehleniana Nella sua opera principale L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo1 Gehlen si propone di tratteggiare una nuova immagine dell’uomo, ricercata attraverso un confronto costante con le scienze umane e, in special modo, con le discipline bio-morfologiche, psicologiche e sociali. Egli comincia col prendere in esame i risultati delle ricerche biologiche del suo tempo e instaura così un serrato e sistematico confronto tra l’uomo e l’animale. Da questa analisi trae la conclusione che l’uomo è un “essere carente”, cioè non dotato di organi e funzioni “specializzati” tali da conformarlo subito e adeguatamente a un determinato ambiente naturale. La sua possibilità di adattamento e sopravvivenza, invece, è legata al fatto che, unico tra gli esseri naturali, è in grado di creare un proprio ambiente socio-culturale, un “mondo artificiale” nel quale vivere e prosperare. L’elaborazione di una “sfera culturale” in senso lato è una caratteristica peculiare dell’uomo, è la condizione necessaria e sufficiente della sua sopravvivenza. L’uomo gehleniano ci appare, così, come un intreccio fra due immagini classiche: l’homo faber e l’homo sapiens. Del primo conserva la capacità di agire, di costruire strumenti in grado di trasformare l’ambiente naturale in un mondo tecnologicamente avanzato, del secondo il logos, che presiede alla sua azione e dà vita alla cultura e al «mondo dello spirito». Vi è nel pensiero di Gehlen una grande fiducia nell’uomo e nel progresso dell’umanità: malgrado conflitti, miserie, degradazioni, repressioni, alienazioni, angosce e difficoltà di ogni genere, l’essere umano è in grado di salvarsi da solo, con la sua capacità d’azione e la sua intelligenza creatrice di scienze, tecniche, istituzioni, sistemi etici, religioni, arti, letterature, ecc. Si avverte nella sua elevata concezione dell’uomo una sorta di contraddizione tra un bisogno quasi 1

A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden, Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, 1978; 1ª ediz. 1940, poi rielaborata nel 1950, ora in Gesamtausgabe, bd. 3, vol. 1 e 2, Frankfurt, Klostermann, 1993; trad. it. di C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983.

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“metafisico” di distinguerlo radicalmente dagli animali e la convinzione, d’ispirazione scientifica, di non separarlo dalla natura. Gehlen risolve questa antinomia tratteggiando un’immagine dell’uomo, inteso come un “progetto particolare della natura”, una creatura unica ed eccezionale, che si distingue da tutti gli altri esseri viventi, pur restando nell’ambito di una filosofia assolutamente “empirica”. L’opera di Gehlen si colloca al crocevia tra l’antropologia e la sociologia, l’estetica e la psicologia, la biologia e la filosofia della tecnica. Il suo pensiero ci appare ricco di contenuti complessi e multisfaccettati, che rappresentano appieno la costellazione culturale, filosofica ed etico-politica che percorre gli anni centrali del ventesimo secolo. La crisi degli Stati nazionali, il crollo delle certezze istituzionali, la perdita dei baricentri morali e al contempo l’accelerato sviluppo tecnologico, che rischia di accentuare il disagio e l’insicurezza dell’uomo, sono i temi cardine che il nostro Autore affronta nel suo progetto filosofico, volto a impostare la questione antropologica secondo nuove coordinate. Al pari di Scheler e di Plessner, anche Gehlen avverte la “peculiarità” che identifica l’uomo rispetto a tutti gli altri viventi, intuisce che esso deve essere posto su un gradino diverso: ed è questa intuizione originaria che costituisce il fulcro della sua antropologia filosofica. Tuttavia, differenziandosi da Scheler e ricollegandosi invece a Plessner, ricerca per l’uomo un posto privilegiato nella natura, diverso da quello di tutti gli altri organismi viventi, questo costituisce il punto di partenza della sua antropologia “elementare”. Quest’ultima, muovendo dagli aspetti basilari dell’essere umano, cioè da quei fattori che più lo avvicinano all’animale, si estende poi verso “latitudini straordinarie”, ossia verso quelle attività precipuamente ed esclusivamente umane, come il linguaggio, l’immaginazione, la volontà, la conoscenza, la morale, che differenziano nettamente l’uomo dall’animale e che implicano, anche a livello evolutivo, l’ipotesi di un salto2. Infatti l’uomo, per Gehlen, non solo occupa un posto privilegiato nel mondo, ma è egli stesso il prodotto di un “progetto particolare” della natura, non può essere considerato semplicemente come l’ultimo anello di un unico processo evolutivo che accomuna tutti gli esseri viventi, ma deve essere interpretato come il risultato di un progetto separato, di una qualche linea evolutiva distinta da quella degli animali. Quindi, se da un lato l’uomo si differenzia nettamente dagli altri viventi, non è semplicemente una scimmia particolarmente evoluta, dall’altro lato tale distinzione non trova il suo fondamento in un principio ontologicamente differente. Ponendosi in contrasto con l’antropologia scheleriana, Gehlen rifiuta la concezione del vivente “a gradi”3, secondo la quale l’uomo ha in co2 3

Cfr. M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, Roma, Studium, 1990, p. 73 e ss. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., cap. II: Rifiuto dello schema graduale, pp. 47-58.

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mune con tutto il mondo animale i primi gradini della vita psichica, comprendenti gli impulsi affettivi, gli istinti, la memoria associativa, l’intelligenza pratica, ma si differenzia per un principio spirituale che caratterizza l’umana capacità di ragionamento e di astrazione. Mentre l’uomo scheleriano, grazie al “no” che è in grado di pronunciare nei confronti della pressione degli istinti e dell’ambiente circostante, può elevarsi verso il mondo ideale dello Spirito e riconoscere, così, in sé la presenza di quella scintilla divina che lo rende unico e irripetibile, l’uomo gehleniano, invece, pur accogliendo tutti i tratti della specificità umana, dal “dire di no” alla capacità linguistica, dall’andatura eretta fino alla morale, rifiuta l’intervento di qualsiasi principio spirituale e riconduce tutte le funzioni umane, sia corporee che spirituali, ad un’unità strutturale in cui esse sono globalmente iscritte. Non ci si deve lasciar indurre – sostiene Gehlen – alla supposizione che l’uomo sia solo gradualmente diverso dall’animale, oppure a definirlo in base al solo “spirito”, e dunque, per lo più, nel senso di una caratteristica essenziale concepita in opposizione alla natura. L’antropologia conquista fondamentalmente il campo suo proprio soltanto se si lascia alle spalle siffatti pregiudizi; essa deve tener fermo a una legge strutturale particolare, la quale è la medesima in tutte le peculiari caratteristiche umane, e va compresa muovendo dal progetto posto in essere dalla natura di un essere che agisce4.

L’uomo perciò, grazie alla sua capacità d’azione, riesce a conservarsi in tutte le condizioni che l’ambiente può offrire, è in grado di sopravvivere sia all’equatore che al polo nord, in quanto può trasformare il “mondo naturale” in un “mondo artificiale” che soddisfi comunque le sue necessità vitali. E questa sua straordinaria capacità di adattamento lo qualifica come “aperto al mondo” e non “chiuso” in un’angusta nicchia ecologica, come colui che non ha un ambiente ma ha il mondo5. L’essere umano dunque, secondo Gehlen, compensa la sua “carenza ” biologica con un’attività creatrice di cultura, ovvero con le sue facoltà psichiche superiori (il linguaggio, l’immaginazione, la memoria, la ragione, ecc.), che costituiscono il “risarcimento” alla sua deficienza organica e gli permettono di piegare la natura alle sue esigenze. Questi caratteri, che identificano precipuamente l’uomo rispetto a tutti gli altri viventi, non possono farlo considerare come l’ultimo anello di una linea evolutiva che passa attraverso le scimmie antropoidi: se così fosse, rispetto a queste avrebbe organi ancor più specializzati e meglio adattati e non più “primitivi”, meno “specializzati ed affinati”6. Deve essere invece concepito – secondo Gehlen, che fonda le sue ar4 5 6

Ivi, p. 55. Ivi, p. 108. Ivi, p. 60.

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gomentazioni su molti dati di carattere bio-morfologico tratti dalle ricerche dell’epoca – come appartenente a una linea evolutiva separata, come un “progetto particolare” della natura7. Il nostro autore suppone infatti che a un certo stadio dell’evoluzione della specie si siano diramati due tronconi indipendenti: uno che porta alle scimmie antropoidi seguendo la “legge” della specializzazione degli organi e delle funzioni in relazione alle condizioni ambientali; l’altro che conduce direttamente all’uomo attraverso una via che conserva il carattere “primitivo”, “arcaico”, non-specializzato degli organi e delle funzioni, ma che sviluppa enormemente le facoltà psichiche e finisce in tal modo per consentire ugualmente un adattamento all’ambiente o, meglio, a molteplici ambienti. Questa ipotesi permette allora a Gehlen sia di ribadire una certa parentela tra le scimmie antropoidi e l’uomo, sia di differenziarlo nettamente da esse, di non considerarlo loro discendente e di riservagli uno ‘speciale’ posto nel mondo, come creatura unica e incomparabile rispetto a tutte le altre8. Posta in luce tale essenziale diversità biologica, che frappone una notevole distanza tra l’uomo e l’animale e coglie la debolezza di almeno una parte della teoria dell’evoluzione, Gehlen passa ad esaminare le principali caratteristiche dell’essere umano e alcuni aspetti dell’ambiente socio-culturale da lui creato. Importanti, a tal fine, sono i risultati delle scienze psicologiche e sociali, che egli utilizza e discute per analizzare la nascita del linguaggio, la vita pulsionale e il carattere, i tratti salienti della moderna società tecnologico-industriale. Gli animali – a suo parere – sono soggetti ad una quantità limitata di pulsioni istintive e di stimoli sensoriali provenienti dal mondo esterno, recepiscono solo le eccitazioni che sono importanti per la sopravvivenza, in quanto i loro organi, sempre più specializzati e meglio adattati a un determinato ambiente, sono schermati e protetti da un eccesso di input. Essi, inoltre, rispondono alle stimolazioni in modo deterministico, con comportamenti prefissati, immediati, automatici, inconsapevoli, in una parola “istintivi”. Diversa è la situazione dell’uomo: egli è inondato da un profluvio di pulsioni e di stimoli sensoriali, necessari per un’ampia e ricca potenzialità d’azione, ma pericolosi per l’adattamento se non tenuti sotto controllo. Tuttavia non si lascia sopraffare, riesce invece a “prendere le distanze” da essi e, grazie alla sua “plasticità”, ovvero alla capacità di reagire in modo multiforme e vario, li disciplina e li domina con riposte adeguate, scelte in base alle circostanze9. L’essere umano ha la possibilità di mettere in moto processi psico-fisiologici che comportano una consapevolezza di sé e della realtà (da qui la nascita della coscienza) e quindi, dopo un intervallo di tempo, una risposta motoria adatta alla situazione, finalizzata alla sopravvivenza. 7 8 9

Cfr. M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, cit. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 116-117. Ivi, p. 383.

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La reazione agli stimoli sensoriali e alle pulsioni non è pertanto, nell’uomo, un comportamento immediato e cieco, ma un comportamento “mediato”, consapevole, progettato, orientato: è un’“azione”, concetto a cui Gehlen assegna una grande importanza nella sua antropologia. L’uomo, diversamente dall’animale, “agisce” e non semplicemente “reagisce” in modo deterministico alla stimolazione. Il suo comportamento è sempre un’“azione”, sia a livello di semplice reazione motoria a una percezione, sia a livello di condotte più complesse di carattere culturale e sociale10. Nel suo agire per adattarsi all’ambiente e dominare il mondo, l’uomo dispone di un meccanismo molto efficace: l’“esonero”. Con questo termine Gehlen vuole indicare la capacità umana di creare schemi standard di comportamento, i quali, una volta stabiliti, ‘scattano’ automaticamente in circostanze simili e, quindi, non costringono a ripetere ogni volta delle scelte, “esonerano” l’uomo da continue e reiterate selezioni di risposte agli stimoli ambientali e alle pulsioni interne, e liberano energie per ulteriori e più elaborate imprese11. Il “processo di esonero” è così posto, da Gehlen, a fondamento di tutte le funzioni superiori dell’uomo, in ogni campo della vita intellettuale e morale. Tale processo, inoltre, è considerato presente ed è analizzato a diversi livelli: a livello motorio, con la formazione dei riflessi condizionati; a livello percettivo, con la fissazione di “abitudini” nel vedere, nel toccare, nell’ascoltare, ecc.; a livello della comunicazione e del linguaggio, con lo stabilirsi di simboli, di parole che “alludono” a un’esperienza percettiva, che “sostituiscono” un oggetto reale; a livello del pensiero, con l’instaurarsi di una concatenazione di concetti, di rappresentazioni abituali. In tutti questi casi si realizza un processo che fa risparmiare energie, che non obbliga a ribadire le medesime opzioni, che consente di “distanziarsi” dal flusso copioso e ininterrotto di stimoli sensoriali e di pulsioni interne. Di fronte alla pressione degli istinti e dell’ambiente, dunque, l’uomo “agisce”, aiutato dal meccanismo dell’esonero, con un comportamento adeguato, scelto fra tanti e finalizzato alla sua sopravvivenza12. Quindi nell’ambito della costituzione bio-morfologica specifica di quell’unico e globale “progetto della natura” che è l’uomo, vengono iscritte tutte le capacità precipuamente umane, senza ricorrere né alla concezione evoluzionistica dell’affinamento e del potenziamento di qualità già esistenti nel mondo animale, né all’introduzione di un principio spirituale che “informerebbe” di sé l’uomo e lo renderebbe capace di prestazioni intellettuali di livello superiore. L’uomo rappresenta un’eccezione, ma sempre nell’ambito esclusivamente naturale. Infatti, pur essendo “carente di strumenti”, privo cioè di armi di offesa e di difesa, e assolutamente “non definito”, in contrasto con gli ani10 11 12

Cfr. A. Gehlen, Philosophische Antropologie und Handlungslehre (1951-1975), in Gesamtausgabe, bd. 4, Frankfurt, Klostermann, 1983, trad. it. di G. Auletta, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Napoli, Guida, 1990. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 93. Ivi, pp. 89-90.

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mali assai più specializzati e determinati da forti pressioni istintive, si è tuttavia diffuso su tutta la Terra e ha assoggettato, in misura sempre crescente, la natura alle sue esigenze. L’uomo, come essere agente, riesce, quindi, a crearsi una seconda natura, un mondo artificiale in cui sopravvivere agevolmente pur con una “difettosa dotazione organica”. «Egli vive, per così dire, in una natura artificialmente disintossicata, manufatta e da lui modificata in senso favorevole alla vita. Si può anche dire che egli è biologicamente condannato al dominio della natura»13. 2. L’eccesso pulsionale e la teoria delle istituzioni Di fronte alla pressione degli istinti e dell’ambiente, come si è detto, l’uomo agisce, aiutato dal meccanismo dell’esonero, con un comportamento adeguato, scelto fra tanti e finalizzato alla sua sopravvivenza. Nell’elaborazione delle sue azioni interviene l’ambiente socio-culturale e il “carattere”. L’uomo, cioè, da un lato, agisce sulla base di regole e indicazioni fornite dalla società in cui vive, con la sua organizzazione istituzionale e giuridica, con i suoi sistemi etici e norme di comportamento, con la sua cultura scientificotecnologica, religiosa, artistica, ecc.; dall’altro lato, sulla base di un sistema di tratti istintivi e psichici acquisiti e divenuti inconsci che, nel loro insieme, costituiscono il carattere. La “sfera culturale”, del resto, è un prodotto della stessa azione umana, è creata e trasformata attraverso i secoli, e i suoi contenuti sono trasmessi di generazione in generazione tramite l’“educazione”, la quale allo stesso tempo forma il carattere. Rifacendosi in parte alla teoria psicoanalitica (ma anche con nette differenze da essa), Gehlen analizza le caratteristiche del corredo pulsionale umano ponendolo a confronto con quello degli animali. Mentre questi ultimi hanno un numero delimitato e ben preciso di pulsioni istintive, quelle necessarie alla loro sopravvivenza in un determinato habitat (istinto di conservazione, di riproduzione, di allevamento della prole, di migrazione, ecc.), l’uomo invece è soggetto a una grande quantità, a un “eccesso” di pulsioni, che gli sono necessarie per renderlo adattabile a tutti gli ambienti, per la sua “apertura al mondo”. Tale eccessivo bagaglio pulsionale tuttavia, rispetto a quello degli animali, ha la caratteristica di essere “ridotto” (cioè la sua spinta, la sua energia è attenuata, depotenziata, meno forte, urgente e costrittiva), “dedifferenziato” (i vari istinti non sono tra loro ben differenziati, delimitati, marcati, ma hanno contorni sfumati e sovrapposti, che possono tradursi in comportamenti diversi), soggetto ad appagamento “procrastinato” nel tempo (le pulsioni 13

A. Gehlen, Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentdeckung des Menschen, Hamburg, Rowohlt, 1961, trad. it. di G. Cremaschi, Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e al scoperta di sé da parte dell’uomo, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 68-69.

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umane possono non essere immediatamente soddisfatte da una risposta motoria, ma si può frapporre un certo intervallo di tempo, uno iato tra la spinta, il bisogno istintivo e la risposta comportamentale che lo soddisfa, si può sostituire ad un appagamento immediato un piacere differito, ma più sicuro), “plastico” (ogni pulsione non determina sempre lo stesso tipo di comportamento, ma può dar vita a una svariatissima gamma di azioni secondo le circostanze; in questo senso è orientabile, incanalabile, adattabile a situazioni diverse). Se gli elementi di cui abbiamo trattato (l’eccesso, la riduzione, la dedifferenziazione, la procrastinazione, la plasticità) sono le principali caratteristiche dell’apparato pulsionale umano, l’uomo per sopravvivere ed adattarsi all’ambiente deve poterlo utilizzare nel modo più opportuno; ciò significa che deve imparare a disciplinare, guidare, orientare, in una parola “strutturare” la propria vita pulsionale per adattarla ai suoi fini. Quest’opera di strutturazione avviene attraverso tre fondamentali processi che Gehlen riprende in gran parte da Freud: l’“inibizione” delle pulsioni, il loro “spostamento”, la “combinazione” di pulsioni diverse. Ma strutturare la vita pulsionale significa, in definitiva, compiere un’opera di “educazione”, la quale è dunque un processo di disciplina del bagaglio delle pulsioni, che avviene sulla base di norme e indicazioni dell’ambiente socio-culturale: in particolare, in base a indicazioni di “sistemi etici”, che intervengono nell’educazione – per così dire – dall’“interno”, e in base a regole di controllo delle istituzioni, che operano dall’“esterno”. Per il controllo delle pulsioni e l’adattamento all’ambiente è di primaria importanza una valida struttura e organizzazione sociale, cioè la creazione di “istituzioni”; è poi all’interno di queste ultime che sorgono norme etiche e sistemi religiosi, giuridici, artistici, le cosiddette “scienze dello spirito”. L’uomo, dunque, deve prendere posizione non solo contro gli stimoli derivanti dall’esterno, che tentano di travolgerlo, ma anche contro se stesso e le sue pulsioni interiori, e deve riuscire a crearsi dei “meccanismi inibitori” di cui non è stato provvisto dalla natura. Egli è così in grado di orientare e disciplinare tutti i suoi istinti attraverso appropriate inibizioni. L’uomo è un essere che prende posizione verso se stesso e perciò contro se stesso, e si impone un comportamento specifico verso l’esterno in luogo di un altro parimenti possibile. La riduzione degli istinti nell’uomo, che è il contraltare della sua coscienza e della sua plasticità pulsionale, comporta in pari tempo una profonda carenza di meccanismi inibitori autenticamente istintivi14.

L’essere umano, perciò, deve sempre “fare i conti” con la carenza della propria costituzione biologica; ma può imporsi perché la sua azione è sempre un’azione “doverosa”, un’azione guidata da divieti, e il suo agire, che non 14

A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 444.

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può essere soltanto una modalità possibile rispetto a molte altre, è l’unico ed esclusivo comportamento perseguibile. Un agire che abbia in sé la qualità della doverosità è invece un agire esclusivo e cresce precisamente sull’attiva inibizione di altre possibilità. L’unica via per comprendere delle volizioni è pertanto la riattuazione reale e perciò il reale trascendimento di un comportamento meramente rappresentato. Quelle conseguenze effettive che discendono da un reale comportamento di gruppo non si possono desumere quindi né con la comprensione psicologica né mettendo dall’esterno in rilievo, empiricamente (sociologicamente), le nuove trasformazioni che ora si manifestano. Ne viene che la ricerca deve muoversi sul piano filosofico; essa cioè non può avvalersi che di categorie ontologiche15.

Si attua una ‘astuzia della ragione’ che ribalta le mete istintive ‘primarie’ in finalità sociali ‘secondarie’; in questo modo le istituzioni rappresentano la meta finale di tutto il processo teleologico naturale. Sono quindi le istituzioni, secondo Gehlen, a permettere la trasformazione di quella “carenza” e “incompiutezza”, tipiche dell’uomo, in “cultura”, “sicurezza”, “bienfaisante certitude”, come se la stessa forza vitale avesse trovato quell’escamotage attraverso cui trasformare quelli che all’inizio apparivano come ostacoli in garanzie di sopravvivenza. Affinché i divieti, indispensabili per limitare e incanalare le pulsioni individuali, non rimangano soggettivi, lasciati all’arbitrio del singolo, si impone un “limite esterno”, che è rappresentato dalle istituzioni. Quando Nietzsche parla dell’uomo come animale non ancora definito, non intende dire soltanto che si tratta di un animale per il quale è impossibile dare alcuna definizione, ma anche di un essere capace di degenerare, di finire nel caos. Le istituzioni si pongono come la “forma di esecuzione” di compiti e di realizzazione di attività determinanti per l’esistenza umana, quali la riproduzione, la difesa o la nutrizione, che richiedono una cooperazione organizzata e duratura; ed inoltre si pongono come “forze di stabilizzazione” necessarie affinché l’uomo, essere per natura instabile e sovraccaricato di oneri, si orienti in un ambiente sempre più difficile e complesso16. Gehlen, quindi, intende per istituzione un insieme di “istituti, leggi e norme di comportamento” che funzionano come “puntelli esterni”, come “piloni di sostegno” per l’azione dell’uomo e la disciplina delle sue pulsioni. Le istituzioni di una società – sia i suoi istituti, leggi e stili di comportamento, che le forme costanti della loro interazione in quanto ordini economici, politici, sociali, religiosi – funzionano come puntelli esterni, come raccordi fra gli esseri umani che danno sostegno, che soli rendono affidabile il lato interno della morale. L’interiorità umana è un territorio troppo mosso perché si possa fare reciproco 15 16

Ivi, p. 445. A. Gehlen. Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e al scoperta di sé da parte dell’uomo, cit., pp. 97-98.

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affidamento su di esso. Le istituzioni operano come piloni di sostegno e come puntelli esterni, la cui mutevolezza è provata dalla storia e dalla storia della cultura umana nel loro complesso. Ma l’importanza maggiore l’ha qui un postulato della gradualità. Se si distruggono le istituzioni di un popolo, si liberano l’insicurezza di base, la capacità di degenerazione e l’elemento caotico dell’uomo17.

3. Le radici antropologiche dell’etica L’uomo ha la possibilità di sopravvivere e adattarsi all’ambiente che lo circonda perché, con la sua azione, è in grado di orientare, modellare, controllare la propria “sfera pulsionale”, creando una “sfera culturale”, costituita da produzioni “ideali” quali la tecnica, le istituzioni, le norme etiche, il diritto, l’arte e tutti i grandi fenomeni collettivi che fanno parte del mondo storico, culturale e sociale. Tutte queste realizzazioni, queste “prestazioni spirituali superiori” possono essere ritenute come mezzi per la sopravvivenza, come “sistemi direttivi” o “idee guida” che hanno permesso l’instaurarsi di norme e di divieti in grado di consentire la convivenza e l’azione coordinata tra gli uomini in vista del raggiungimento di finalità comuni. Tra gli elementi della sfera culturale, Gehlen attribuisce alle istituzioni il ruolo maggiore per la strutturazione delle pulsioni, cioè per l’educazione e la formazione del carattere, e in definitiva le considera di grande importanza per l’adattamento e la sopravvivenza. Perciò, egli mostra di apprezzare molto società con istituzioni “forti” e bene organizzate. Un ruolo più sfumato e, a tratti, secondario sembra invece accordare alla morale, cioè ai sistemi di norme di comportamento fondate sui valori di bene e di male, ed altre espressioni della vita spirituale o intellettuale umana, come le religioni, le filosofie, le arti, le lettere, ecc. Dopo gli anni ’40, anche in seguito ai grandi rivolgimenti politico-sociali dell’Europa, rivede in parte la sua posizione, e finisce per attribuire ai sistemi etici un peso più incisivo nel disciplinare dall’“interno” la vita pulsionale, e specialmente ove si verifichi una crisi o una minor presa delle istituzioni. Pensa, infatti, con riferimento alle vicende dello stato tedesco, che nel passaggio da una società a istituzioni “forti” ad una a istituzioni “deboli” vi sia contemporaneamente una transizione da un “ethos dello stato” a un “ethos umanitario”, che quasi si sostituisce al primo nell’educazione dell’individuo. Questo ethos venne realizzato e sviluppato in ambienti specifici, oggi si direbbe di intellettuali, che collegavano le loro idee, a partire dalla mancanza di posizionamento sociale, con l’impulso al potere e all’attività pubblica. Si ha l’impressione che il passaggio della cultura a totalità più grandi portasse con sé dei nuovi 17

A. Gehlen, Zur Geschichte der Anthropologie, trad. it. Per la storia dell’antropologia, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., pp. 97-98.

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orientamenti politici e quindi anche morali, in quanto l’esclusività del patriottismo della polis veniva superata o si vedeva ricondotta, se si rivolgeva ad esso, a una validità di second’ordine. Nel grande contenitore del commercio mondiale e delle costituzioni da grande potenza si riversava allora un altro ethos, di cui erano portavoce pacifisti e cosmopoliti, i quali intendevano dare l’idea che lo spirito del mondo parlasse attraverso le loro voci sottili18.

Nel momento in cui rilevanti cambiamenti politici avevano messo in crisi i ruoli precedentemente ben definiti, si sente il bisogno di ricercare le fonti della regolazione etico-sociale, ritornando a quella che è la costituzione propria dell’uomo e ricercando qui le radici filogenetiche dell’agire morale. Gehlen si riallaccia agli stoici per rivisitare il “topos del pacifico stato di natura”19 e delineare così quell’epoca felice in cui l’umanità non si era ancora divisa in stati e nazioni, ma «come un gregge pacificamente in pascolo vivevano armonicamente gli uomini, guidati soltanto dalle leggi della ragione, in quanto non c’era ancora bisogno di leggi scritte»20. Si può quindi stabilire un paragone tra la crisi della democrazia ateniese e quella degli stati nazionali europei, infatti come il filosofo stoico sostituiva al sentimento civico di appartenenza ad uno stato quello della solidarietà umana e il conseguente orgoglio di essere cittadino di un regno universale della ragione (cosmopolitismo), così i moderni intellettuali hanno superato il legame con la singola nazione e, in quanto cittadini del mondo, si aprono verso un nuovo tipo di rispetto e di accettazione per l’umanità nel suo insieme. Si tratta di un’“etica familiare allargata”, che si presenta come una forma “pratica” di amore per l’uomo, come un’accettazione della sua natura e una fiducia nelle sue possibilità, con un’apertura e una disponibilità tipicamente “materne”. È, in fondo, un “ethos dell’amore per il prossimo” che, nato all’interno della famiglia, si estende poi a tutto il genere umano. Per comprendere il senso di questi avvenimenti che hanno profondamente modificato la dimensione etico-sociale dell’umanità contemporanea, Geheln si riporta alla sua concezione dell’uomo, inteso come un complicato incastro di “categorie biologiche” e di elementi spirituali derivanti dalla tradizione e dalla situazione storico-culturale. La difficoltà di mantenere il rapporto tra questi due aspetti, entrambi determinanti per strutturare il carattere dell’essere umano, si è rivelata evidente con la crisi che ha colpito la morale nell’epoca dell’accelerato sviluppo tecnologico. Gli scambi e i collegamenti tra gli sviluppi biologici, in sommo grado a lungo termine, e il tempo della cultura, impaziente e precipitoso, sono del tutto oscuri e 18 19 20

A. Gehlen, Moral und Hypermoral. Eine pluralistische Ethik, Frankfurt am Main-Bonn, Athenäum Verlag, 1969, trad. it. di U. Fadini e A. Bernini, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, Verona, Ombre corte, 2001, p. 51. Ivi, p. 12. Ivi, p. 32.

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si pongono alle spalle della coscienza. Che la morale dell’uomo non abbia tenuto il passo del veloce tempo della tecnica non è che un aspetto di questo fatto21.

Nel momento in cui l’uomo entra in crisi per la perdita di quelli che per lungo tempo erano stati i suoi sicuri punti di riferimento e si sente privo di quei baricentri22 che fino ad ora erano stati il sostegno e la guida delle sue azioni, Gehlen pone l’accento sull’esistenza di diversi elementi istintivi che sono alla base delle relazioni tra gli esseri umani, e che ne regolano i rapporti. Egli, quindi, vuole individuare le radici antropologiche dell’etica in quelle “innate predisposizioni ereditarie”, in quelle “eredità filogenetiche”23, in quelle categorie che concorrono a determinare una pluralità di istanze morali basandosi sulla convinzione che ci siano «nell’uomo più istanze funzionali tra di loro, geneticamente indipendenti e da ultimo socialmente regolative»24. Ponendosi in prospettiva antropologica, il nostro Autore evidenzia quattro richiami etici attraverso i quali coglie le radici socio-biologiche dei rapporti interpersonali che sono alla base della convivenza umana e quindi anche del comportamento morale. Il primo è la “reciprocità”, a cui si rifanno diversi tipi di condotte tra cui la reazione di protezione e di cura, lo scambio e il rispetto dei contratti. La reciprocità o mutuazione del comportamento è riconosciuta da tempo come un fondamento della condotta umana e originariamente venne compresa attraverso formulazioni di diritto naturale, con le quali si sottolineava tanto le qualità innate (istintive) dell’impulso, quanto quelle prossime al giuridico. Si deve concedere reciprocità all’altro. Il dovere non esprime altro che il funzionamento, considerato idealmente appropriato alla situazione, di un impulso istintuale, la cui qualità antropologica viene inclusa in tale considerazione/pretesa: si deve contraccambiare bontà con bontà; si sente però infine anche l’impulso ad abbandonarsi alla cattiva coscienza e all’ingratitudine. Quelle forme del comportamento, adeguate alle situazioni e fondate istintualmente, contro la cui inosservanza la società interviene drasticamente e la cui validità normativa viene così affermata, sono indicate dalla consuetudine o dal diritto25.

Nelle società primitive i comportamenti basati sulla reciprocità costituivano l’unica possibilità di dar vita a un vincolo sociale26. Quello che inizial21 22

23 24 25 26

Ivi, p. 23. A. Gehlen. Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e al scoperta di sé da parte dell’uomo, cit., p. 101; cfr. anche A. Gehlen, Die seele im Technischen Zeitalter, Hamburg, Rowohlt, 1957, trad. it. di M. T. Pansera, L’uomo nell’era della tecnica, Roma, Armando, 2003, p. 69 e ss. A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 51. Ivi, p. 24. Ivi, pp. 61-62. A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur (1956), Wiesbaden, Aula-Verlag GmbH, 1986, trad. it. di E. Tetamo, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 53.

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mente nasce come un semplice scambio commerciale non si limita soltanto all’aspetto economico, ma esercita una funzione di “cemento sociale”27. Ci si scambiano merci, ma anche ragazze da marito, formule magiche e riti propiziatori; attraverso il contraccambio in bovini si può compensare un omicidio, si può presentare un’offerta per i defunti o dare una dote alla propria figlia. Ci si rende così conto che non è soltanto l’aspetto mercantile a caratterizzare lo scambio, ma il suo significato di “rito sociale”. La reciprocità è una categoria fondamentale, riguarda un tratto essenziale dell’essere umano. Se possiamo dirla “istintiva”, ciò va inteso non diversamente che nel caso del linguaggio, ossia nel senso di un comportamento umano “corrente”, di una struttura che lo caratterizza a tutti i livelli. G. H. Mead ha descritto, in geniali ricerche, la comunicazione a gesti e attraverso il linguaggio, con la formula: “assumere il ruolo dell’altro”28.

La reciprocità del comportamento, dunque, «può perfino presentarsi al posto del linguaggio come una seconda via della comprensione», come un «procedimento che “parla da sé”»29 e che permette di comunicare attraverso relazioni di reciproco scambio con la stessa chiarezza ed evidenza di quelle linguistiche. Erodoto, ad esempio, nel ricordare i rapporti tra Cartaginesi e Libici, sottolinea come questi ultimi fossero intimiditi dal dispiegamento di forze e di merci dei primi e decidessero così di ritirarsi da un conflitto che appariva assolutamente impari. Diversi antropologi, tra cui Marcel Mauss, Claude Lévi Strass e Margaret Mead, hanno sottolineato l’importanza della reciprocità nelle società primitive, dove essa costituisce la base di tutti quei rapporti di scambio che hanno condotto alla trasformazione da una comunità basata esclusivamente su legami di sangue ad una società basata su patti e regole di convivenza. Per Gehlen, dunque, «esplorare le reazioni degli altri, in modo simile al linguaggio, riviverle e comprendersi in esse, è esso stesso un bisogno umano elementare»30, a differenza di quanto sostiene Habermas31, il quale, pur riconoscendo nella reciprocità la sola radice dell’etica, si oppone al pluralismo e al biologismo gehleniani e propone, quindi, di identificare nella struttura del discorso possibile l’unico principio di un’etica universalistica. Se la socializzazione si compie nel medium della comunità linguistica ordinaria, allora l’identità del singolo viene a dipendere dalla comunità della comunicazione, ossia non dal suo sistema corporeo individuale bensì dalle relazioni simbo27 28 29 30 31

Ibidem. Ivi, p. 54. A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 64. Ivi, p. 66. Cfr. J. Habermas, Arnold Gehlen 2. Sostanzialità contraffatta (1970), in Profili politico-filosofici, Milano, Guerini e Associati, 2000, pp. 79-98.

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liche di attori individualmente interagenti. Si tratta di una vulnerabilità profonda, che non può fare a meno di appoggiarsi a una regolazione etica del comportamento. Essa rinvia non alle debolezze biologiche dell’uomo, né alla carente dotazione organica del neonato o ai pericoli inerenti all’eccezionale durata dell’allevamento, bensì alla stessa struttura compensatoria del sistema culturale32.

Per Habermas, dunque il fondamento della morale va ricercato in un ethos della reciprocità che non ha radici biologiche, ma è immanente ai rapporti simmetrici della situazione linguistica ideale. Di qui si originano le critiche che rivolge a Gehlen e alla sua teoria, la quale pone alla base delle regolazioni sociali quattro categorie, derivanti da residui istintuali, e tra loro interdipendenti. Il secondo gruppo di regolazioni sociali è rappresentato dalle “virtù fisiologiche”, che sono finalizzate alla conservazione della specie e «sono radicate a livello istintuale o comunque prossime alla corporeità»33. Molte di queste virtù sono state studiate dagli etologi, i quali hanno dimostrato l’esistenza di reazioni di difesa e cura della prole, che vengono innescate dalle forme rotondeggianti morbide e sorridenti, proprie dei piccoli e dei cuccioli, compresi quelli umani. L’etica del benessere (utilitarismo) e quella della felicità (eudemonismo) vengono ricondotte alla base fisiologica, in quanto il loro dirigersi verso il piacere e l’appagamento trae origine proprio dalle virtù fisiologiche. Si tratta di un ampliamento di quelle regolazioni sociali prossime all’istinto che, nella trasformazione etica della modernità, vengono estese dall’ethos familiare fino ad abbracciare l’intera umanità e si concretizzano “nella eticizzazione del vivere bene”34. Dunque Gehlen riconosce come virtù fisiologiche per eccellenza sia la reazione compassionevole verso la sofferenza evidente, sia la risposta istintuale verso ciò che si presenta bello, ben riuscito, gradevole e quindi capace di suscitare ammirazione, interesse e cura, di qui la rivalutazione della vita come bene supremo (eudemonismo sociale) e la conseguente ricerca del benessere per il maggior numero di persone possibile vengono ricondotte all’«ampliamento di regolazioni originariamente prossime all’istinto»35. La terza radice è identificata nell’“umanitarismo” o «indifferenziato amore per l’uomo reso dovere etico»36, il quale prende le mosse dalle tendenze filantropiche dell’etica stoica, basate sull’ideale dell’amicizia, della benevolenza e della moderazione nei confronti dell’intero genere umano, di cui facevano parte anche gli stranieri, i barbari, i prigionieri e gli emarginati. Anche questa volta Gehlen ci presenta questo ethos umanitario come un ampliamento di regolazioni di tipo istintuale: 32 33 34 35 36

Ivi, p. 90. A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 67. Ivi, p. 73. Ivi, p. 68. Ivi, p. 92.

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Ora abbiamo un nuovo caso, antropologicamente molto significativo, del processo di allargamento degli istinti residuali, che si possono dilatare come la gomma fino a comprendere ambiti molto estesi. Qui si tratta cioè della estendibilità e della indifferenziazione dell’originario ethos della stirpe o della regolazione delle condotte all’interno di gruppi sociali di carattere familiare37.

Attualmente, quindi, l’umanitarismo si presenta come una delle morali più diffuse. Gehlen ne sottolinea la derivazione antropologica, in quanto lo considera come un “allargamento” dell’ethos primario della famiglia estesa e della fratellanza38. L’ethos dell’amore per il prossimo è senz’altro il più conosciuto; esso è presente, prima di tutto, all’interno della famiglia allargata, ma è passibile di estensione fino ad abbracciare l’intera umanità. Questo “ethos della stirpe allargato” può essere formulato sia da intellettuali laici che religiosi. Un tale tipo di ethos si va sempre più estendendo ben oltre i suoi confini originali, e quanto più l’aspetto umanitario ad esso connesso si rende chiaramente autonomo, tanto più riesce difficile all’uomo contemporaneo di riagganciarlo a quei pensieri di redenzione, immortalità e pentimento in cui quell’etica era all’inizio radicata. La forte mescolanza delle comunità politiche ed etniche da un lato, l’emancipazione dal concetto di unità, intesa come potenza universale, dall’altro, hanno permesso la realizzazione dell’universalismo dell’amore. Inoltre, oggi, grazie all’incommensurabile aumento degli scambi nel mondo e grazie anche al clima distensivo che si è venuto a creare tra gli stati, molte asperità si sono smussate e l’ethos familiare si è ampliato e ha stretto nuovi legami con l’eudemonismo di massa. L’ethos umanitario non pretende nulla, inoltre è in sintonia con tutte le cose desiderabili, con la prevalenza degli interessi privati e della vita familiare, con l’aspirazione al benessere per tutta l’umanità. In nessuna precedente costellazione culturale questo ethos sarebbe stato capace di sussistere. Le regolazioni etiche non sono quindi indipendenti dalle condizioni esterne oggettive e uno dei meccanismi dell’adattamento ai grandi spazi e alle grandi società l’abbiamo già conosciuto nella categoria dell’“ampliamento delle originarie regolazioni quasi-istintuali”39.

La famiglia allargata o comunità di sangue costituisce il centro da cui partono questi legami basati sulla reciproca assistenza e solidarietà; tuttavia, secondo Gehlen, essa non potrà mai essere il luogo di significativi progressi, in quanto le radici politiche, legate alle virtù statali e al patriottismo, vengono deviate a favore di “una morale domestica dilatata”. L’ ethos familiare è indispensabile per raggiungere e mantenere l’equilibrio interiore e la salute del37 38 39

Ivi, p. 95. Cfr., ivi, cap. 9: Religione ed etica, un nuovo stile, pp. 133-152. Ivi, p. 96.

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l’anima, «ma tutto ciò che ha grandezza, Stato, religione, arti, scienze, fu elevato al di sopra del suo ambito, e la stessa economia acquisì grandi dimensioni soltanto quando si liberò dal complesso dei suoi vincoli»40. La quarta regolazione sociale è identificata da Gehlen nell’“etica delle istituzioni”. La convivenza tra gli uomini si fonda su regole e ordinamenti che trovano la loro origine «nella sfera prossima all’istinto e in nessun modo unicamente nelle riflessioni di tipo oggettivo e razionale»41. La connessione tra istituzioni e costituzione biologica umana costituisce uno degli aspetti basilari dell’antropologia elementare, indispensabile per la comprensione che l’uomo ha di se stesso. Le istituzioni hanno un significato addirittura fondamentale se si considera l’inverosimile plasticità, plasmabilità e vulnerabilità di un essere che tanto facilmente viene mutato da ogni impulso non soggetto a vincoli. Dalle istituzioni dipende, infine, ogni forma di stabilità che raggiunge il cuore delle pulsioni, ogni capacità di durata e continuità di ciò che di più elevato vi è nell’uomo. Il fatto che l’uomo sia un essere storico comporta, viceversa, che egli debba venir utilizzato dalle realtà che nella storia si sono formate, ossia, nuovamente, dalle istituzioni: lo stato, la famiglia, le autorità economiche e giuridiche, eccetera. Se si comprende questo, ci si trova di fronte al nuovo compito di dedurre le istituzioni, ormai autonome e resesi indipendenti dal singolo, dalla natura dell’uomo, e ciò in termini più realistici di quanto facesse Hegel, riferendosi alla stessa realtà con il concetto di ‘spirito oggettivo’42.

Nello stabilizzarsi della convivenza attraverso le istituzioni si trasformano le finalità biologico-primarie dell’organismo-uomo in finalità secondarie e storico-sociali, attraverso il passaggio che porta dalla natura alla cultura, per mezzo di quella capacità d’azione, volta a conservare al meglio l’esistenza umana43. Ancora una volta Gehlen sottolinea il radicamento biologico delle istituzioni, sulle quali si fonda il compito di “stabilizzare” la condotta umana sia nei confronti del mondo esterno che delle pulsioni interne. Da questo punto di vista le istituzioni si manifestano come “attività”, come metodi storicamente condizionati del superamento di compiti vitali e di circostanze, così come l’alimentazione, la riproduzione, la sicurezza esigono una cooperazione regolata e duratura; esse, d’altra parte, appaiono come forze stabilizzanti e come le forme che, per natura, un essere vivente azzardato, instabile e sovraccaricato da uno stato di emotività, trova per se stesso e per un reciproco sopportarsi, qualcosa per cui è possibile contare su se stessi o in certa misura sugli altri44. 40 Ivi, p. 104. 41 Ivi, p. 105. 42 A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, cit., p. 14. 43 Cfr. U Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Milano, Angeli, 1988, p. 117 e F. G. Di Paola, La teoria sociale di Arnold Gehlen, Milano, Angeli, 1984, p. 147. 44 A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 107.

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Fra le numerose istituzioni in cui appare evidente la legalità etica, lo Stato rappresenta per Gehlen l’ordine per eccellenza. Attraverso il diritto, il matrimonio, la proprietà si è data stabilità alle forze pulsionali dell’uomo, di per sé plastiche e incostanti nell’orientamento. Ogni organizzazione statale rappresenta, secondo un proprio stile, determinate forme di comportamento, rendendole obbligatorie ed esemplari per tutti i suoi membri. Quindi il comportamento “istituzionalmente regolato” si configura «come una riproduzione della perduta sicurezza degli istinti propria degli animali a un livello più elevato»45, al punto che, quando vengono scardinate quelle forme inibitorie rigide che hanno contribuito a stabilizzare l’esistenza umana attraverso lunghi periodi, si verifica una «insecurizzazione, che giunge fino in profondità, della persona in questione: il disorientamento colpisce i centri morali e intellettuali, perché anche qui è naufragata la certezza dell’ovvio»46. Tale processo è spesso accompagnato da forme di angoscia ed irritabilità che possono persino produrre una “primitivizzazione” dei comportamenti47. Attraverso le quattro radici dell’etica: la reciprocità, le virtù fisiologiche, l’umanitarismo e l’ethos delle istituzioni, Gehlen vuol sottolineare il radicamento biologico dell’agire morale e mettere in evidenza che nei momenti di crisi, quando l’equilibrio tra l’aspetto vitale e quello socio-culturale dell’uomo si interrompe, il ritorno a quei residui istintuali può servire da punto di partenza per ricercare un nuovo possibile assestamento. 4. L’ipertrofia morale Nella Germania del dopoguerra, sotto l’influsso di una sconfitta senza precedenti e dopo la distruzione di gran parte delle risorse interne, gli individui sono ricaduti nei loro interessi privati e hanno limitato le loro aspirazioni entro un orizzonte particolarmente ristretto. Al passo con l’Illuminismo e la cultura industriale, si è sviluppata nella maggior parte degli uomini, nel posto prima occupato da una fede trascendente, una sorta di “cavità emozionale” dove confluiscono sentimenti che, per loro natura, sono elargibili senza confini e che facilmente si mescolano a un pensiero razionale di tipo utilitaristico, così come si verifica nell’etica della stirpe allargata. Si tratta di un ethos dell’amore per il prossimo che, nato all’interno della comunità familiare, si estende poi a tutto il genere umano. L’aspetto etico si sposta così in primo piano, a spese di quello metafisico e di quello teologico: La religione, soprattutto negli ultimi decenni, diventò sempre più esclusiva e meramente umanitaria e nell’età moderna la secolarizzazione di nuovo stile non 45 46 47

A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 93. Ivi, p. 99. Ivi, p. 100; cfr. anche A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 205.

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si sviluppa più dalle seduzioni del potere temporale e della potenza, bensì dalla morale e dal sociale48.

La frase di Paolo VI: «Io mi sento il padre dell’intera famiglia umana. Perfino quando i figli non conoscono il padre, egli è comunque il loro genitore» esprime l’“etica della famiglia allargata” in cui si realizza il nuovo stile dell’umanitarismo contemporaneo. Esso non è soltanto un generico amore per l’umanità, ma un tipo di amore pratico, il quale, dopo aver eliminato certi concetti inflessibili e sferzanti che caratterizzavano la precedente morale, si apre ad una più vasta accettazione della natura umana e ad una più ampia fiducia nelle sue possibilità di affetto e di disponibilità verso il prossimo. «Così l’etica umanitaria ed eudemonistica delle masse si unisce all’idealismo socio-riformatore del periodo illuminista e alle categorie socialiste per rivestire a nuovo la religione cristiana che si è fatta confusa»49. L’affermazione dell’“ethos umanitario” coincide con un ruolo e un peso sempre maggiori assunti dall’etica nella disciplina delle pulsioni e nella strutturazione del carattere, cioè con una “ipertrofia morale”, concetto con il quale Gehlen intende accrescere la responsabilità dell’uomo, caricandolo in prima persona di scelte che in passato erano delegate alle istituzioni o ai sistemi religioso-culturali. All’inizio della nostra epoca industriale una vecchia morale basata su antagonismi ed alte tensioni ha potuto essere portata avanti ancora per diverso tempo come ideale, poiché essa trovava la sua controparte e la sua razionalità “informante” nella natura e nella relativa scarsezza dei guadagni economici derivanti dal suo sfruttamento.50 Oggi, invece la natura è ben conosciuta e la sua trasformazione è una questione di preparazione, costanza e decisione. L’uomo si considera ormai capace di conoscerla fin nei suoi più riposti segreti e di sfruttarla in tutte le sue più nascoste risorse. In questo senso l’umanità non trova più nulla di superiore a sé, essa deve consolidarsi basandosi sulle sue sole forze e rivolgere sempre a se stessa richieste illusorie di felicità. La morale che fa riferimento a questo generale stato di cose può respingere e dissolvere tutto ciò che potrebbe contrastare il trionfo su una natura svuotata e su una storia ormai stanca. Il dio immortale abita oggi in un altro angolo dell’universo; il dio mortale non è certamente più rappresentato dallo stato, ma dall’intera presente umanità, le cui richieste gravano ora come un carico sempre più difficilmente sopportabile sull’animo del singolo, che non trova più un linguaggio per fondare quell’impossibilità di una morale assoluta che sente chiaramente dentro di sé. Da quando Dio ha fatto posto alla “storia” e questa alla “post-histoire”, l’uomo deve imputare a se stesso tutto ciò che è successo nel gran numero di avvenimenti politici, economici, sociali in cui, pur non facendone direttamente parte, tutti erano indirettamente coinvolti51. 48 49 50 51

A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 142. Ivi, p. 145. Cfr. ivi, cap. 10: Ipertrofia morale, pp. 153-176. Ivi, p. 142.

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Gli antichi potevano giustificarsi ricorrendo all’imperscrutabile volontà del fato, i cristiani si appellavano al “giudizio divino”, noi moderni non possiamo più trovare sollievo fuori di noi. La morale non tollera alcun vuoto, e così arriviamo a sentirci colpevoli per ciò che è successo al di là della nostra partecipazione diretta, ma che noi comunque non abbiamo impedito che accadesse o meglio abbiamo lasciato compiere. La morale non permette alcuna ignoranza, quindi noi ci colpevolizziamo non solo per quanto abbiamo effettivamente compiuto, ma anche per ciò che è accaduto senza la nostra opposizione. In questa prospettiva Gehlen vuole mettere in luce una grave situazione di “ipertrofia morale”, verificatasi proprio a causa dell’eccessivo espandersi dell’umanitarismo e dell’eudemonismo di massa. Gli ambiti da cui questo ethos ipertrofico prende le mosse e in cui è più facilmente rintracciabile, sono il mondo femminile e l’ambiente degli intellettuali52. Il pacifismo, la tendenza verso la sicurezza e il comfort, l’immediato interesse per il singolo, l’indifferenza per lo stato, la prontezza ad accettare le cose e gli uomini così come sono, rappresentano tutte qualità che hanno il loro legittimo luogo di origine in seno alla famiglia e a cui poi il femminismo aggiunge la sua forte colorazione, perché la donna introduce istintivamente in ogni valutazione gli interessi per la prole, le cure per la famiglia, la ricerca del minimo rischio e del massimo benessere. Nella vitalità e nella freschezza del pensiero femminile risiedono le premesse per un allargamento dell’etica in senso umanitario, quando l’ethos dello stato è ormai compromesso o eliminato. Tra gli strati sociali che hanno interesse alla propagazione di questa ipertrofia morale ci sono anche vasti gruppi di intellettuali: gli scrittori, i teologi, i filosofi, i sociologi, i docenti dei diversi tipi di scuola, gli studenti e gli artisti. In una parola si tratta di tutti quegli intellettuali che, non essendo attivi nella prassi politica, economica, amministrativa, sono in grado di lasciar lussureggiare il loro ethos. Non si può contestare all’intellettuale un “sentimento oceanico” di amore per le masse e un profondo odio per l’isolamento e la separazione. Egli ama essere immerso nella corrente degli avvenimenti e proiettarsi verso il futuro, mantenendo sempre un forte legame con l’ambiente circostante e con la propria sensibilità morale. Infine dobbiamo tener conto, nella nostra analisi dell’ipertrofia morale, di un ulteriore elemento: la privatizzazione degli interessi53. L’ethos del benessere umanitaristico si inserisce autonomamente nei bisogni di vita di uomini privatizzati, cioè di quelli che recepiscono con evidenza gli interessi più prossimi, che sono poi quelli della propria famiglia. E così l’ethos torna alla sua fonte naturale, perché non c’è differenza qualitativa tra il bene della famiglia e il bene dell’umanità.

52 53

Ivi, p. 149. Ivi, p. 155 e ss.

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Di conseguenza il borghese industriale cerca il vero sostentamento della vita nella sfera privata, del cui valore e dignità nessuno può dubitare, così egli torna a casa spiritualmente e moralmente. L’etica ipertrofica descritta si adegua senza alcuna difficoltà a questa condizione e agisce, vista in modo inverso, come un prolungamento della vita familiare in tutto il mondo54.

Oltre alla privatizzazione degli interessi, la moderna società industrialmente avanzata è caratterizzata anche dall’accentuato sviluppo dei mass-media, per cui si può dire che l’enorme aumento del nostro campo di informazioni ha comportato un corrispettivo accrescimento del nostro senso di responsabilità: si sta così determinando una specie di “morale a distanza”, che si estende fino alla periferia dell’informazione ed è completamente libera da rapporti con la religione. «L’etica ipertrofica agisce come un prolungamento della vita familiare in tutto il mondo»55, si viene così a delineare una “teleetica”, o un nuovo tipo di etica collegata con i moderni mezzi di comunicazione di massa, la quale stabilisce una forma di obbligazione anche nei confronti di coloro che sono solo virtualmente presenti. Così oggi cominciamo a sentirci responsabili non tanto per la salvezza dell’anima di esseri umani sconosciuti quanto per il loro benessere razionale e degno dell’uomo e siamo pronti a sacrificare qualcosa per questo. Quando l’opinione pubblica di paesi più ricchi sostiene l’aiuto ai popoli bisognosi di sviluppo, ai quali bisogna donare generi alimentari e medicinali e ai quali inoltre si vuole garantire investimenti e possibilità di produzione, non sono solo motivi di prudenza politica e di previdenza e l’interesse a trovare sfoghi per una sovrapproduzione a spingere in questa direzione. Si tratta invece del fatto che sorge un eudemonismo sociale direttamente come senso di obbligazione56.

Il sistema di “morale umanitaria” che si sta affermando si fonda su due principali valori, talora contrastanti e comunque frutto della ricca società industriale di massa: l’egalitarismo e l’eudemonismo, valori che derivano dall’etica familiare (eguaglianza dei figli e il benessere di ciascun membro della famiglia). E invero, al sentimento di eguaglianza e fratellanza universali, tipico di certi ambienti culturali come le comunità religiose, i pacifisti, gli artisti, le femministe, ecc., si affianca e talvolta si contrappone l’“egoismo privato”, il desiderio del benessere e della felicità personali. Contemporaneamente Gehlen si pone il problema di dare un senso al progresso e alla ricerca scientifica ad esso connessa. Ritiene che non si debba attribuire ai singoli nessuna responsabilità per le conseguenze dirette e indirette dello sviluppo tecnologico e che nessuno debba assumersi l’obbligazione morale di esso. «Questo progresso è diventato una inviolabile legge della vita 54 55 56

Ivi, p. 169. A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit. p. 169. A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 185.

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dell’umanità. Nessun singolo deve portare una responsabilità morale per esso»57. Parallelamente la distruzione dell’idealità in ambito politico, economico e religioso ha lasciato il campo alla morale ipertrofica che, con il suo disprezzo per ogni delimitazione e mantenimento di distanza, con la sua erosione di mete poste in maniera esclusiva, si adatta meravigliosamente ad un sistema aperto verso il futuro: essa, infatti, racchiude già in sé l’accettazione di tutto ciò che potrebbe venire ed è pronta a liquidare come “pregiudizi” tutte le posizioni con essa contrastanti. Il nuovo capitolo della storia dell’umanità, che aveva avuto inizio con l’avvento dell’industrializzazione, sta cominciando a scriversi. L’uomo contemporaneo ha acquisito sicurezza nella conoscenza della natura e nella possibilità di sfruttarne le risorse; per spiegare gli avvenimenti che turbano l’equilibrio naturale e le vicende umane non ha più bisogno di ipotizzare poteri occulti da neutralizzare con pratiche magiche, né di ricorrere al fato degli antichi o all’imperscrutabile volere divino. «Che la morale dell’uomo non abbia tenuto il passo del veloce tempo della tecnica non è che un aspetto di questo fatto»58. Nella nostra epoca si è verificata un’“interferenza”59, una sovrapposizione tra uno stadio di civilizzazione, che è più o meno analogo o paragonabile ad altri di epoche precedenti, e un processo di strutturazione dell’ambiente, raggiunto attraverso l’industrializzazione, che non ha affatto riscontro nelle epoche passate. La dicotomia che si stabilisce tra questi due aspetti, tra il livello di civiltà e il dominio tecnologico dell’ambiente, l’uno rivolto all’indietro e l’altro proiettato nel futuro, genera l’ambiguità, il disorientamento e l’indeterminatezza che caratterizzano il nostro tempo. Manca un punto univoco a cui rivolgersi e un baricentro su cui stabilizzarsi. Di qui derivano anche tutte le situazioni di crisi e di conflitto che contraddistinguono la problematica etica del Novecento, dove la morale familiare si contrappone a quella istituzionale, il relativismo e il nichilismo si oppongono al principio di responsabilità e l’indifferentismo alla morale ipertrofica. Il contrasto tra le diverse regolazioni etico-sociali mette in luce la difficoltà in cui si trova immerso l’uomo contemporaneo nella sua ricerca di un nuovo equilibrio. Il ricorso alle radici istintuali delle regolazioni etico-sociali, proposto da Gehlen, potrebbe aiutarci a riavviare un processo che, al momento, sembra essersi bloccato. Infatti così scrive Gehlen nella premessa alla sua opera sull’etica: Questo è un libro di antropologia che vuole fornire un contributo all’etica, un intento che può suscitare sorpresa se si conosce, dagli altri scritti dell’autore o dalle note ricerche della teoria del comportamento, il grande apporto biologico al contenuto problematico dell’antropologia. Di fatto, gli impulsi e i richiami etici 57 58 59

Ivi, p. 186. A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 23. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 116.

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vengono qui concepiti come “regolazioni sociali” e al loro interpretazione deriva anzitutto dal collegamento con le concezioni del corredo istintuale umano, ridotto e instabile, che l’autore ha sviluppato in altri scritti. A quest’ultimo è in ogni modo chiaro che l’uomo è per natura un essere culturale e ciò significa nel presente ambito problematico, che il campo da tempo elaborato della storia dell’etica, articolata in termini di sociologia della cultura, non perde di produttività. Poiché ogni comportamento umano è soggetto ad una duplice considerazione, allora da un lato si può descrivere mediante delle categorie biologiche (specifiche), dall’altro però appare come un prodotto della elaborazione spirituale, come un prodotto anche della tradizione e della situazione temporale, delle costellazioni storiche60.

Come chiarisce Gehlen occorre sempre tener presente il doppio aspetto sia biologico, sia spirituale nell’analizzare tutti i comportamenti umani, compreso naturalmente quello etico. Il fatto che si riparta dalle radici biologiche in un momento in cui l’elemento spirituale-ideativo appare più debole non vuol dire che non si auspichi un suo ritorno. Per ora il nostro tempo è caratterizzato dalla debolezza delle istituzioni e dalla caduta delle idealità in campo religioso, politico, socio-economico, dalla erosione di mete assolute e ideologie totalizzanti e dalla presenza di una “ipertrofica” morale umanitaria la quale, con la sua adattabilità e il suo allentamento di vincoli rigidi, si presenta rivolta al progresso e proiettata nel futuro, in quanto per l’uomo gehleniano, destinato a conservarsi e a sopravvivere al meglio, «non esiste via di ritorno e vi sono solo soluzioni in avanti»61.

60 61

A. Gehlen, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, cit., p. 23. A. Gehlen, Prospettive antropologiche, cit., p. 186.

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Federico Sollazzo

IL RUOLO DELLA TECNICA NELL’ANTROPOLOGIA GEHLENIANA

1. L’imprescindibilità dell’antropologia dalla tecnica La questione della tecnica in Arnold Gehlen è comprensibile solo inserendola all’interno dell’intera concezione antropologica gehleniana: essendo l’uomo un “essere biologicamente carente”, egli è incapace di sopravvivere in un qualsiasi ambiente naturale ed è quindi costretto ad agire al fine di costruirsi il proprio “posto nel mondo”, avvalendosi della tecnica. L’uomo è perciò fisiologicamente inferiore agli animali in quanto non dispone di organi specializzati, la sua sopravvivenza dipende pertanto dalla sua capacità di compensare, tramite strumenti, le proprie carenze naturali. Da una simile impostazione deriva che solo l’uomo è quel vivente in grado di trascendere la propria condizione biologica, a partire da una marcata limitatezza della stessa, questo processo, però, non avviene grazie ad una scintilla divina presente in lui (come nell’antropologia scheleriana), bensì poiché egli rappresenta un “progetto particolare”1 della natura, un essere “umanisticamente” in grado di progettare il proprio futuro svincolandosi da una specifica nicchia ecologica, pervenendo alla realizzazione di un mondo culturale: «La natura ha destinato all’uomo una posizione particolare o, detto in altri termini, ha avviato in lui una direzione evolutiva che non preesisteva, che non era ancora mai stata tentata, ha voluto creare un principio di organizzazione nuovo»2. A partire da queste premesse Gehlen rinviene nella tecnica una triplice risoluzione delle 1 2

Cfr. M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura. L’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, Roma, Studium, 1990. A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und Seine Stellung in der Welt, Wiesbanden, Akademische Werlagsgesellschaft, 1978, trad. it., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 43.

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carenze organiche umane, essa infatti sostituisce gli organi mancanti, potenzia quelli esistenti e agevola il lavoro dell’organismo, cosicché accanto alle tecniche di “integrazione”, che rimpiazzano le capacità non concesse ai nostri organi, compaiono le tecniche di “intensificazione”, che producono effetti superiori a quelli raggiungibili con le sole forze naturali […] Infine vi sono le tecniche di “agevolazione”, volte ad alleggerire la fatica dell’organismo e quindi in generale a permettere un risparmio di lavoro3.

Il prodotto finale di tali tecniche rappresenta un qualcosa di completamente nuovo, che non solo non ha un suo corrispettivo in natura ma si pone addirittura come un’anomalia rispetto ad essa, essendo una artificiale creazione umana. «Anche la tecnica è, come l’uomo, nature artificielle»4. Richiamandosi ad autori quali Max Scheler, Werner Sombart, P. Alsberg, e José Ortega y Gasset5, Gehlen sostiene che la creazione di strumenti e di un conseguente mondo artificiale non siano azioni facoltative per l’uomo, non sono il frutto di una libera scelta; l’uomo è costretto ad agire in tal senso a causa delle sue insufficienze organiche: assenza di una specifica nicchia ecologica, mancanza di uno schema istintuale innato che ne possa orientare il comportamento, carenza di organi e/o sensi specializzati; proprio a causa di questa sua “nudità” egli è obbligato all’azione, intesa come la trasformazione dell’ambiente naturale che lo circonda, adattandolo (e non adattandosi, come gli altri viventi) alle proprie esigenze e necessità6. La tecnica è quindi interpretata sia come un indicatore dell’intelligenza umana, sia come parte integrante dell’essenza dell’uomo, come un elemento da sempre e per sempre insito nella natura umana. Tuttavia, la tecnica non è un qualcosa di staticamente sempre uguale a sé stessa, è infatti riscontrabile in essa un’evoluzione storica derivante dal cambiamento dei materiali utilizzati: dall’antichità ai giorni nostri si è avuta una graduale ma costante sostituzione dei materiali naturali, organici con quelli artificiali, inorganici, sostituzione dovuta ad una maggiore comprensibilità e manipolabilità di ciò che è artificiale, rispetto agli elementi naturali.

3 4 5

6

A. Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter, Hamburg, Rowohlt, 1957, trad. it., L’uomo nell’era della tecnica, a cura di M. T. Pansera, Roma, Armando, 2003, pp. 32-33. Ibidem, p. 33. Cfr. M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, in Gesammelte Werke, Bern, Francke, 1972, Band III, trad. it. La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M. T. Pansera, Roma, Armando, 1997; W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1927, vol. III; P. Alsberg, Das Menscheitsrätsel, 1922; J. Ortega y Gasset, Vom Menschen als utopischen Wesen, Stuttgart, Kilpper, 1951. Cfr. A. Gehlen, Die Technik in der Sichtweise der philosophischer Anthropologie, in Anthropologische Forschung, Hamburg, Rowohlt, 1961, trad. it., La tecnica vista dall’antropologia, in Prospettive antropologiche, Bologna, Il Mulino, 1987.

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Uno dei risultati principali di tutta la storia della civiltà umana è, senza dubbio, l’impiego sempre crescente dell’elemento inorganico in sostituzione dell’organico […] La natura inorganica infatti è, per dirla in breve, meglio conoscibile di quella organica, circostanza che ha fatto rilevare con la dovuta energia Henri Bergson7 […] Queste ultime riflessioni concorrono a dimostrare come la tendenza, constatabile nello sviluppo della tecnica, a soppiantare l’elemento organico mediante materie ed energie inorganiche abbia la sua ragione nel fatto che la sfera della natura inorganica è la più accessibile ad una conoscenza metodica, razionale e rigorosamente analitica, ed alla corrispondente prassi sperimentale. La sfera biologica e quella psichica sono infinitamente più irrazionali8.

La tecnica si pone dunque come un’imprescindibile azione di compensazione delle carenze organiche umane, azione finalizzata alla modificazione delle condizioni naturali in condizioni artificiali, le uniche nelle quali l’uomo possa (soprav)vivere. La tecnica è legata, quindi, all’azione che, a sua volta, deriva dal movimento; infatti, quando un movimento fortuito, casuale viene percepito come piacevole, questo viene ripetuto e confermato, ogni volta, dal suo esito positivo, si giunge così alla consapevolezza del movimento e, in seguito, alla sua automatizzazione “esonerante”. Qualunque prestazione motoria inintenzionale ossia involontaria ha un esito stimolante, e ne nasce una particolare consapevolezza, un estraniato autoavvertimento, di questa prestazione, che ora può essere assunta, impegnata e, soprattutto, elaborata. È questo autoavvertimento estraniato della propria attività a governare l’ulteriore suo sviluppo9.

A differenza dall’animale, che risponde istintivamente ed immediatamente sia agli stimoli sensoriali esterni, che alle pulsioni interne, l’uomo è in grado di scegliere il proprio comportamento, sulla base delle informazioni ottenute dal movimento iniziale, decidendo, di volta in volta, la risposta più adeguata alle varie situazioni; in altri termini, soltanto l’uomo interpone tra lo stimolo e la risposta uno iato razionale. Di conseguenza, l’immagine del mondo propria dell’uomo, il rapporto io-mondo, sarà contemporaneamente passivo ed attivo: passivo per la ricezione dal mondo esterno delle stimolazioni sensoriali, attivo durante la razionalizzazione di tali sollecitazioni sensoriali e la messa in pratica di una particolare risposta. Attraverso tale ragionamento Gehlen ravvisa nell’intelligenza razionale un fattore peculiarmente umano, senza però elevarlo al rango di unica modalità conoscitiva. La conoscenza, infatti, è veicolata dall’azione, la quale è sia attività percettiva che attività intellettiva, in altre parole, la conoscenza non si fonda sulla mera intelligenza 7 8 9

Cfr. H. Bergson, L’évolution créatrice, in Oeuvres completes, Paris, Presses universitaires de France, 1945, vol. II, trad. it. L’evoluzione creatrice, Bari, Laterza, 1964, nota mia. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., pp. 34-36. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 166.

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ma sull’azione. Per questo Gehlen si oppone all’interpretazione dell’intelligenza come fondamentale tratto discriminante fra l’uomo e l’animale, l’originaria distanza tra i due risiede, invece, nelle loro elementari diversità anatomiche e fisiologiche; l’intelligenza, e di conseguenza anche la tecnica, rappresenta unicamente l’inevitabile approdo di determinate precondizioni biologiche: quelle dell’uomo. Inoltre, legando la conoscenza al concetto di azione (a tale proposito, il termine che risulta maggiormente appropriato è quello di “attività conoscitiva”), viene superata la tradizionale disputa dualistica per la supremazia del soggetto conoscente o dell’oggetto conosciuto. Il dualismo, infatti, è l’esito finale di un’impostazione esclusivamente teoretica del problema della conoscenza, un’impostazione che trascura la concreta interazione dell’uomo col mondo. Per questo solo nell’azione risiede la possibilità di sopravvivenza dell’uomo, necessariamente chiamato ad «elaborare in modo intelligente le costellazioni naturali che trova di volta in volta così da potersi mantenere»10. Come si è notato, l’azione e la tecnica derivano da un movimento iniziale che, da accidentale ed involontario diviene consapevole e volontario, quando la sua ripetizione conduce sempre ad un esito positivo. Quando, poi, l’uomo è chiamato a ripetere un movimento o un’azione della quale è già consapevole dell’esito, grazie alle precedenti esperienze, si innesca il meccanismo dell’esonero11 (Entlastung), che consente all’uomo di svolgere in maniera meccanica, quindi minimizzando la spesa delle proprie risorse fisiche e mentali, determinati movimenti e azioni, rivolgendo la sua attenzione ad attività superiori, ritenute più importanti in quanto non hanno un esito certo. Tutte le funzioni superiori dell’uomo, in ogni campo della vita intellettuale e morale, ma anche in quello dell’affinamento motorio e operativo, sono sviluppate grazie al fatto che il costituirsi di stabili e basilari abitudini di fondo esonera l’energia in esse originariamente impiegata per le motivazioni, i tentativi, il controllo, liberandola per prestazioni di specie superiore12.

Pertanto, l’esonero è un’agevolazione consistente nell’instaurazione di abitudini comportamentali che fungono da risposta precostituita a determinati stimoli; si instaura così un movimento circolare tra percezione e risposta, il cosiddetto “circolo dell’azione”. Ma il principio dell’esonero non è relativo solo alle funzioni del singolo uomo, esso ha delle significative ripercussioni 10 11

12

A. Gehlen, Philosophische Antropologie und Handlungslehre, Frankfurt a. M., Klostermann, 1983, trad. it., Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli, 1990, p. 198. A proposito del meccanismo dell’esonero cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., pp. 89-100; Ibidem, Senso della tecnica: sostituto dell’organo, esonero dell’organo, superamento dell’organo, in Prospettive antropologiche, cit.; Ibidem, Oggettivazione ed esonero, in L’uomo nell’era della tecnica, cit.; M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura, cit., pp. 78-81. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 93.

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anche nell’evoluzione storica della tecnica. Infatti, dapprima gli utensili, potenziando il rendimento organico, alleggerivano la fatica fisica, senza però eliminarla del tutto. Successivamente (durante la rivoluzione industriale) furono create delle fonti di energia alternative rispetto alla forza fisica umana, ma esse richiedevano ancora un dispendio di energie mentali, per controllarne il funzionamento. Attualmente, gli apparecchi automatizzati esonerano l’uomo da qualsiasi dispendio d’energie fisiche e/o spirituali. L’automazione (della quale l’emblema massimo è per Gehlen la cibernetica) rappresenta, così, l’apice del concetto di esonero applicato alla tecnica13.

2. I legami della tecnica con la magia Nonostante lo sviluppo tecnologico degli ultimi due secoli sia stato freneticamente veloce, originariamente la tecnica, come si è visto, forniva semplicemente un potenziamento della forza fisica umana, lasciando del tutto ininvestigate questioni che oggi sono spiegate, controllate ed organizzate tecnicamente. Nel tentativo di chiarire questioni di difficile interpretazione, gli uomini si affidarono alla magia, difatti le pratiche magiche «erano adeguate in relazione ad un certo livello di sviluppo»14, mentre successivamente, in linea con l’evoluzione storica della tecnica sopra accennata, quest’ultima nel corso di uno sviluppo molto lungo, ha invaso lo spazio che era in precedenza – quando la tecnica era soltanto tecnica degli utensili – dominato dalla magia: lo spazio che separa ciò che abbiamo in nostro potere attraverso un agire immediato da ciò che consiste in successi e insuccessi non più in potere dell’uomo. La formula magica era per così dire l’attrezzo per le distanze spaziali e temporali15.

Alla ricerca di sicurezze in un mondo sostanzialmente misterioso, l’uomo credeva di poter estrapolare dalla realtà dei segmenti esperienziali che avevano dato buoni frutti, supponendo che l’esito positivo fosse dato dalla ripetizione di specifici comportamenti, indipendentemente dal contesto di fondo. L’irrazionalità della magia risiede, allora, nella mancata comprensione di come successi ed insuccessi non dipendano solo dalla ripetizione di sequenze e schemi comportamentali, di mere relazioni causa-effetto; al contrario, il risultato di un’azione è determinato anche, e probabilmente soprattutto, dalle condizioni in cui si svolge. Ciononostante, se Gehlen vede nella magia una sovrastruttura culturale che, nel tempo, si è dissolta in favore della tecnica, vuol dire che fra magia e tecnica esistono anche delle similitudini, la più evi13 14 15

Cfr. A. Gehlen, L’automazione, in L’uomo nell’era della tecnica, cit. A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur, Wiesbanden, Verlag GmbH, 1986, trad. it., L’uomo delle origini e la tarda cultura, Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 247. A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia, in Prospettive antropologiche, cit., p. 131.

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dente delle quali sta nella forma mentis tecnologica. Anche la tecnica, infatti, si basa, come la magia, sull’estrapolazione, da un preciso contesto, di una catena di azioni che, se ripetuta, deve sempre dare lo stesso risultato16. Il fascino dell’automatismo costituisce l’impulso pre-razionale e metapratico della tecnica, il quale dapprima, e per molti millenni, si esplicò nella magia – la tecnica del soprasensibile – fino a trovare solo in epoca molto recente la sua completa espressione in orologi, motori e meccanismi ruotanti d’ogni genere17.

Ma perché l’uomo è talmente affascinato dal fenomeno dell’automatismo, da farne il fondamento sia della magia che della tecnica? Da ciò che conosciamo dello spirito, dell’intelletto, dei residui istintuali, eccetera, non possiamo però far discendere il fascino dell’automatismo, di modo che dobbiamo introdurre qui una nuova categoria psicologica: questo fascino è un fenomeno di risonanza. Deve esservi nell’uomo una specie di senso interno per ciò che appartiene alla propria costituzione che reagisce a ciò che nel mondo esterno è analogo a questa costituzione propria18.

Ovvero, l’uomo si sente tanto più stabile e sicuro, quanto più nel suo corpo e nel mondo artificiale da lui creato, si ripetono delle regolarità tipiche del mondo naturale. Insomma, ciò che vi è di singolare nel “senso antropologico” della risonanza «sta nell’idea di una primaria autocomprensione a partire dall’esterno, e quindi nella possibilità di comprendere nuovamente il simbolo e la metafora»19. Attualmente però, il senso della risonanza rischia di essere quasi del tutto dimenticato. 3. Le due svolte antropologiche fondamentali e le loro conseguenze L’era attuale è, secondo Gehlen, il risultato della seconda “cesura” o “svolta rivoluzionaria” che si sia realizzata nella storia della civiltà. Per l’Autore, infatti, due “svolte” hanno sinora caratterizzato l’evoluzione del genere umano: il passaggio, nella preistoria (durante il Neolitico), dal nomadismo alla vita sedentaria, ed il passaggio, nella modernità (durante l’Ottocento), dal lavoro manuale al lavoro meccanizzato; Gehlen descrive questa seconda 16

17 18 19

Non è un caso se anche oggi, nell’era dell’automazione, il rapporto di molte persone con la tecnica sia un rapporto di tipo “magico”. L’uomo, infatti, dà un impulso iniziale (che può essere un rito magico, come la pressione di un interruttore) ed attende l’esito finale (che può essere il controllo della natura, come l’accensione di una macchina automatizzata), senza sapere cosa intercorre fra i due momenti; mentre è proprio quel qualcosa che intercorre fra i due momenti a costituire la “condizione di possibilità” perché ad una certa causa segua un certo effetto. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 40. A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia, in Prospettive antropolgiche, cit., p. 132. Ivi.

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svolta con il termine di “industrializzazione”, derivante dalla rivoluzione scientifica che aveva caratterizzato la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo e che tra il XVIII ed il XIX secolo ha dato luogo alla organizzazione capitalistica della produzione. Tali cambiamenti innescano un così radicale rivolgimento di tutte le componenti vitali, da richiedere necessariamente un periodo di transizione per il raggiungimento di una nuova condizione di stabilità. Ad esempio, a seguito del passaggio dal Paleolitico al Neolitico, l’uomo si trasformò da cacciatore in allevatore, le divinità persero il loro aspetto demoniaco e/o animalesco per assumerne uno antropomorfico, cambiarono le dinamiche e le gerarchie interne alle famiglie ed ai gruppi, si svilupparono popolazioni più numerose, divenne cronico ed inevitabile uno stretto legame con l’elemento atmosferico al punto tale da avviarne un primo tentativo di comprensione, e nacquero nuovi diritti e doveri20 poiché la «popolazione sedentaria vive […] in condizioni che costringono a sviluppare nel lavoro il senso del dovere e del servizio»21. Ma, soprattutto, nella società agricola chi si prende cura della natura lo fa per poter usufruire, poi, dei suoi frutti: si assiste così alla nascita della proprietà privata. Il carattere sacrosanto della proprietà privata è uno dei contrassegni delle società basate sull’agricoltura, perché l’ambito delle cose entro cui un uomo agisce e dispone direttamente, e che delimita la sfera della sua responsabilità anche morale per la prosperità di tutto quanto vive e vegeta in tale ambito, deve rimanere riservato alla sua persona22.

Ma la proprietà privata necessita di uno strumento che la tuteli, uno strumento che diviene «la quintessenza della civiltà tradizionale: l’ordinamento giuridico»23. Tali mutamenti, giunti compiuti e sovrapposti alla nostra epoca, contribuiscono ad un nuovo orientamento morale. L’uomo è costretto a ricercare la propria stabilità nel mondo esterno trovandola nelle istituzioni giuridiche che gli consentono di essere esonerato dal dovere continuamente scegliere tra ciò che è possibile fare e ciò che è vietato, tra giusto e sbagliato. L’esonero è tanto più efficace e potente quanto più il singolo è inserito in un gruppo di simili, al punto che «la morale è un’abitudine ormai familiare»24 e quest’epoca diviene «l’epoca dei piccoli raggruppamenti particolari, delle relazioni di fiducia per le quali ci si adopera, si fa realmente qualcosa di concreto; l’epoca dei teams che aggregano persone delle stesse idee»25. Tuttavia, a parere di chi scrive, tale atteggiamento presenta anche un inquietante risvolto: chiudendosi all’interno di gruppi ristretti, dominati da rigorose logiche 20 21 22 23 24 25

Cfr. A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, cit. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 98. Ivi. Ivi. Ibidem, p. 100, corsivo mio. A. Gehlen, Mensch trotz Masse, in «Wort und Wahrheit», 8, 1952, p. 584.

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identitarie, l’uomo limita, “perimetra” il suo contatto con il mondo esterno e, quindi, con gli altri uomini, all’interno di una sfera nota, conosciuta, abituale, “esonerante” che gli eviti un faticoso confronto con il diverso, l’ignoto. L’esito di un simile atteggiamento è stato già colto e magistralmente esposto da Alexis de Tocqueville. Vedo una folla sterminata di uomini simili ed eguali, che si girano senza tregua su se stessi per procurarsi piaceri piccoli e banali di cui si colmano l’animo. Ciascuno di loro, ripiegato su se stesso, è come estraneo al destino di tutti gli altri, i suoi figli e i suoi amici privati costituiscono per lui tutta la specie umana. Per quanto concerne i suoi concittadini, egli vive accanto a loro ma non li vede26.

Se tali sono, in estrema sintesi, le conseguenze della vita stanziale, quali sono quelle relative all’industrializzazione? Il fenomeno dell’industrializzazione ha cambiato del tutto le strutture sociali preesistenti, basti pensare ad esempio alla comparsa dell’urbanesimo, originando delle sovrastrutture sociali talmente complesse da costringere l’uomo a specializzarsi in una qualche funzione, per potersi inserire in esse. Questo nuovo scenario richiede una nuova forma di adattamento mentale e materiale. Le grandi sovrastrutture della nuova civilizzazione divengono autonome, si alienano (Hegel, Marx), cosicché il contegno dell’uomo, sia nell’ambito teorico che pratico, assume di necessità la forma di un’assuefazione ad esse. Tale processo è solo in parte volontario e controllato, in generale esso è inconsapevole, soprattutto quando consiste in una trasformazione del pensiero, del modo di vedere le cose, delle stesse strutture della coscienza, e non soltanto della necessità di accogliere ed elaborare sempre nuovi contenuti27.

Nasce così l’uomo specializzato, “intellettualizzato”, che conosce solo il suo frammento, segmento di sapere, e questa tendenza penetra anche all’interno delle cosiddette scienze umane: la psicologia muta in psicotecnica, la sociologia in sociometria, e così di seguito. Ma, se alla crescita delle sovrastrutture sociali corrisponde una specializzazione dei saperi (e delle funzioni), l’inevitabile conseguenza sarà una perdita di contatto con la realtà nella sua interezza, un’impossibilità di conoscenza globale della realtà, difatti «le “grandi costellazioni” della vita economica, politica e sociale divengono incomprensibili all’intelletto e moralmente insostenibili»28. A questa problematica si tenta di ovviare con dei medium, con delle “istanze intermedie” fra l’individuo e le esperienze (e le conoscenze, e le funzioni) a lui inaccessibili. Nascono così le “esperienze di seconda mano”, diffuse dall’”industria del26 27 28

A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1951, tomo I, vol. II, p. 234, trad. it., La democrazia in America, Bologna, Cappelli, 1957. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 64. Ibidem, p. 67.

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l’informazione” (il più potente “strumento di penetrazione tra le masse” della modernità), la quale mentre trasmette notizie e fatti, persegue anche dei fini e, quindi, “indirizza” le esperienze di seconda mano, ovvero le “opinioni”. La sedimentazione di tutti questi processi nel singolo si chiama opinione: ne comprendiamo ora l’inevitabilità, perché siffatti contenuti schematici compaiono là dove il sapere di prima mano, quello proveniente dall’esperienza autonoma e responsabile, non è sufficiente, mentre l’importanza delle questioni e l’impellente necessità di adattarvisi provocano una presa di posizione. A tali opinioni non ci si può sottrarre perché nel mare magnum delle realtà odierne l’unica risorsa sono le fonti secondarie, le quali ci vengono addirittura incontro sotto forma di immagini e di caratteri a stampa, in tutte le gradazioni della veridicità. E ne abbiamo bisogno per procurarci nell’oceano dell’insicurezza una bienfaisante certitude29.

Per facilitare la diffusione e la comprensione delle notizie, i media tendono a semplificare le stesse sino a renderle banali, le conseguenti opinioni mediatiche saranno, così, rozze, primitive, proprio perché presentate attraverso schemi interpretativi grossolani e, a volte, di parte. Si registra così un deterioramento culturale in quanto, il grande pubblico, non viene messo in grado di percepire le sfumature di significato che oltrepassano la forma (se non anche il contenuto) delle notizie. Ma, se gli uomini manifestano delle difficoltà nella comprensione delle notizie, ciò non avviene solo per le manipolazioni operate dall’industria dell’informazione, ma anche, e soprattutto, a causa della perdita di un ragionevole senso critico, di una capacità di giudizio; a cosa è imputabile tale perdita? 4. Schematizzazione dei comportamenti e disorientamento sociale Ogni società è plasmata da una cultura di fondo, da tipici atteggiamenti culturali, e la forma mentis peculiare dell’era contemporanea è quella tecnica. Di conseguenza, è oggi constatabile «come forme del pensiero sviluppatesi nella tecnica si trapiantino in ambienti non tecnici pur essendo qui inadeguate»30, originando schemi di pensiero tecnico, esemplificati da Gehlen in quattro principi che attualmente, ce ne si renda conto o meno, influenzano le relazioni interpersonali. Essi sono: il “principio del rendimento totale” (consistente nella massimizzazione delle prestazioni lavorative), il “principio degli effetti previsti” (dato da un controllore che indirizza le azioni altrui), il “principio delle misure standard o dei pezzi sostituibili” (in base al quale risultano intercambiabili non solo gli strumenti ma anche gli uomini, nell’esercizio delle loro 29 30

Ibidem, p. 75. Inoltre, cfr. M. T. Pansera, La specializzazione e la perdita di contatto con la realtà, in L’uomo progetto della natura, cit. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 61.

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funzioni sociali) ed il “principio della concentrazione in vista dell’effetto” (nel quale tutti gli sforzi sono finalizzati al raggiungimento di un obiettivo dato). Questi principi, originariamente appartenenti alla sola sfera della tecnica, influiscono ora sull’intera esistenza dell’uomo, al punto tale che «la tecnica in questo senso passa ora in primo piano nelle arti e nelle scienze, e la tendenza allo sperimentale, al metodico-pratico non incontra più limiti di sorta»31. Difatti, un ulteriore effetto della mentalità tecnica applicata ormai a qualsiasi aspetto dell’esistenza, è quello della ricerca ossessiva del miglior risultato possibile in base alle risorse tecniche disponibili: «sull’uomo della tecnica il pensiero dell’effetto ottimale esercita un’attrazione irresistibile»32. Tuttavia la nostra epoca è tutt’altro che perfetta, ottimale, anzi essa risulta essere caratterizzata da una marcata e diffusa ambiguità, equivocità, indeterminatezza. Ciò deriva dalla sovrapposizione di due elementi dicotomici, causanti una “interferenza” sociale; nell’epoca moderna infatti, l’attuale livello di civiltà si trova a dover convivere con un processo tecnologico di strutturazione dell’ambiente, ad una categoria derivante dal passato e quindi ad esso legata (la civiltà) si sovrappone una categoria rivolta e proiettata nel futuro (la tecnologia). Di qui l’interferenza fra uno stadio di civilizzazione (simile a molti altri già comparsi sulla scena del mondo) e un processo (unico nel suo genere) di costituzione del nuovo “ambiente naturale” nel quale l’umanità intende vivere il futuro – cioè quel processo pluridimensionale e trasformatore della coscienza che si chiama “industrializzazione”33.

L’intuibile conseguenza di tale situazione consiste in un generalizzato disorientamento che porta l’uomo ad interrogarsi su tutto ciò che lo circonda, anche su questioni che, apparentemente, dovrebbero essere talmente nitide ed assodate da non necessitare di ulteriori chiarimenti come, ad esempio, il chiedersi se si sia in guerra o in pace, se si abbia o meno una patria, se quella attuale sia l’era del socialismo o del capitalismo34. Disperatamente alla ricerca di sicurezze, l’uomo moderno trova rifugio o nelle, già descritte, “opinioni”, o radicalizzandosi all’interno dello spirito scientifico sorto con l’illuminismo e concretizzatosi con l’industrializzazione, da cui deriva un processo di esasperante razionalizzazione dello spirito umano. Quello che ci si deve domandare, allora, è fino a che punto sia lecito, opportuno o comunque possibile spingere tale razionalizzazione. La soluzione a tale questione sembra essere particolarmente ardua in quanto implica una preliminare distinzione tra gli 31 32 33 34

Ibidem, p. 54. Ibidem, p. 61. Ibidem, p. 116, corsivo mio. Il sentimento della perdita di un baricentro si trova, per Gehlen, alla base delle opere letterarie di Samuel Beckett, Franz Kafka e Robert Musil, nonché dei dipinti di Paul Klee.

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ambiti e i campi potenzialmente razionalizzabili in maniera completa, e quelli che rimarranno sempre parzialmente o del tutto inaccessibili alla ragione; lo stesso Gehlen infatti ammette l’esistenza di settori interamente razionalizzabili (come, ad esempio, la vita dello Stato), e di altri in cui «avrà importanza decisiva mantenere le “diverse distanze che passano tra le cose e il nostro cuore”, se si vogliono evitare conseguenze disumane»35. Ad ogni modo, ciò che a Gehlen interessa evidenziare, è che le problematiche e i disagi tipici della modernità occidentale, non ne designano il tramonto, non sono gli indicatori di una cultura in declino (come vogliono invece studiosi quali, ad esempio, Arnold J. Toynbee ed Oswald Spengler36), essi bensì non indicano altro che la dicotomia fra un modello di civiltà legato al passato, ed una tecnologizzazione energicamente tesa al futuro. In altri termini, questa è agli occhi di Gehlen la prova che la nostra è un’epoca di transizione. Ma prima di analizzare tale transizione è opportuno vedere quali siano, anche dal punto di vista comportamentale, gli effetti della dicotomia sopraesposta. Disorientato, privo di “immobili culturali” che ne possano guidare l’agire, l’uomo moderno affida il proprio comportamento a degli schemi stereotipati che rappresentano unicamente delle funzioni sociali. Le conseguenze di tale “schematizzazione del comportamento” sono molteplici. Innanzi tutto, l’individuo diviene un mero “titolare di funzioni”, perde la sua unicità ed irripetibilità e viene riconosciuto (e si riconosce) non in base a chi esso sia, ma solamente tramite il ruolo che ha e la mansione che svolge. «È ormai evidente che la società di oggi, razionalizzata al massimo e burocratizzata fino in fondo, pretende la trasformazione quasi completa della persona in un ‘titolare di funzioni’»37. Inoltre, il fatto che gli individui esistano gli uni per gli altri solo in base all’attività che esplicano, rende gli stessi interscambiabili: al sistema interessa unicamente lo svolgimento di una funzione, indipendentemente da chi ne sia il “titolare”. Ed ancora, questi schemi standardizzati si manifestano nell’ambito delle azioni esteriori, ma penetrano sin negli atteggiamenti interni, generando un “automatismo interiore” per cui non solo i comportamenti, ma anche i ragionamenti, i giudizi, le decisioni, le valutazioni, i valori, si appiattiscono sulla posizione sociale occupata. Il pensiero di una persona dipende ormai, in massimo grado, non dalla persona stessa ma dal suo ruolo svolto nella società. Gehlen non manca però di notare come la schematizzazione del comportamento comporti anche una funzione di “eso35 36 37

A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 120. Cfr. A. J. Toynbee, A study of History, London, D. C. Somervell, 1956-57, e O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, München, C. H. Beck, 1950, trad. it. Il tramonto dell’Occidente, Milano, Longanesi, 1954. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 136. La scienza che studia il grado di efficienza con cui il singolo può andare a prendere possesso di una determinata funzione sociale è, per Gehlen, la “psicotecnica”; per tal via le persone diventano risorse umane e le caratteristiche personali si riducono ad idoneità di adattamento al sistema sociale esistente.

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nero sociale” che consente all’uomo di superare agevolmente parecchie situazioni, abbandonando le valutazioni schematiche solo di fronte a questioni eccezionali. Tuttavia, la sola esistenza dei “titolari del rendimento”38 e la liquidazione, sotto l’etichetta di geniali o asociali, degli individui che non rientrano in tale categoria, è una chiara dimostrazione di come la società attuale abbia estremizzato le caratteristiche negative dell’industrializzazione, originando delle collettività totalmente razionalizzate, descrivibili come un “apparato” che richiede prestazioni limitate, standardizzate e assegnate secondo le capacità; esige e produce, dunque, esistenze che si intersecano con le macchine e i titolari di funzioni, il cui ethos sta non nell’altruismo, ma nella rinuncia alla personalità (nasce così) un gigantesco congegno in continua espansione, lo spauracchio di una macchina pseudo-vivente39

all’interno della quale l’individuo non ha la possibilità di espandere le proprie facoltà, di vivere il proprio spirito, ma solo il dovere di specializzarsi in una data funzione. Ma, nonostante la presenza di tali problematiche, Gehlen non si scaglia contro la civiltà della tecnica (al contrario, ad esempio, del già citato Ortega y Gasset). Egli ritiene infatti che l’uomo non possa prescindere dalla tecnica, poiché essa fa parte della nostra costituzione antropologica: il progresso tecnologico è un qualcosa di cui l’uomo non può fare a meno; facoltative sono le modalità di tale progresso, non il progresso stesso. Dall’universo della tecnica e delle istituzioni non si può e non si deve uscire. Del resto esso costituisce un “mondo culturale”, quello stesso che l’uomo, “essere incompiuto”, si è costruito, si costruisce, proprio per compiersi. Non si può e non si deve uscire dalla propria casa, abbandonare il proprio “posto nel mondo”40.

5. La ricerca di un equilibrio tra scienza, tecnica e industria: un’epoca di transizione Tale posto è tuttora in via di formazione e la direzione attualmente presa è quella che è stata inaugurata dalla cosiddetta rivoluzione scientifica e dall’industrializzazione; questi due fenomeni, caratterizzanti la seconda svolta antropologica fondamentale, interagiscono con la tecnica e, proprio dalla loro unificazione, prende forma una nuova epoca. Ma quali sono allora i punti di contatto della tecnica con la scienza, da un lato, e con l’industria, dall’altro? 38 39 40

Ibidem, p. 137. Ibidem, pp. 139-140, parentesi mia. A. Negri, A. Gehlen: antropologia elementare e psicologia sociale, in A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Milano, SugarCo, 1984, p. XXVIII.

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L’esperimento è, per Gehlen, il punto d’intersezione tra la tecnica e le scienze naturali; «l’anello di collegamento tra la tecnica e le scienze naturali è l’esperimento»41. Un’ipotesi scientifica, infatti, per essere riconosciuta corretta deve essere sperimentalmente verificabile e, tale verificabilità, si manifesta tramite esperimenti (sempre più complessi) eseguibili grazie alle nuove tecnologie, si realizza così la sovrapposizione dello spirito scientifico con quello tecnico. Sull’altro versante, tecnica e industria sono unite poiché quest’ultima rappresenta la ramificazione commerciale della prima, dando origine ad un processo di generalizzata diffusione (tramite il commercio) di strumenti tecnologici. A seguito dell’unione fra scienza, tecnica e industria, si realizza e si diffonde un tipo di mentalità fattualmente calcolante, “empirica”, che annulla la classica diversità tra scienze positive e scienze dello spirito; quest’ultime, infatti, vengono ormai apprezzate solo se dimostrano di fondarsi su una rigorosa metodologia, al pari delle prime. «L’estendersi dell’atteggiamento empirico anche alle scienze morali dà luogo a fenomeni di nuovo genere […] È, infatti, chiaro che ormai va scomparendo, per quanto concerne il metodo, anche la differenza tra scienze positive e scienze dello spirito»42. Viene così a cadere l’eterogeneità degli approcci allo studio dell’uomo e delle sue opere e, l’unica varietà rimanente, è quella delle “specializzazioni scientifiche”. La civiltà attuale, che prende forma a seguito della citata sintesi di scienza, tecnica e industria, non ha eguali nella storia del genere umano, dunque le sue caratteristiche costituiscono per l’uomo una novità assoluta. Novità che, chi non riesce a comprendere43, considera come un preludio al declino della civiltà occidentale, mentre in esse Ghelen coglie «un sintomo di una trasformazione culturale su scala mondiale»44. Così come durante la “rivoluzione neolitica”, in cui l’uomo passò dall’esistenza nomade alla vita sedentaria, «la trasformazione fu imprevedibilmente profonda e passò attraverso gli esseri umani»45, anche le radicali innovazioni di oggi influiscono profondamente nelle forme di vita degli uomini e necessitano di tempo per essere assimilate. La convinzione gehleniana che «l’umanità non ha ancora trovato un rapporto morale stabile con la civiltà industriale»46 (e che quindi la nostra sia un’epoca di transizione volta alla ricerca di tale stabilità), lo porta ad interpretare il “disagio generale” della nostra era come una conseguenza della perdita degli antichi “immobili culturali”, ossia di saldi e sicuri punti di riferimento per i nostri pensieri, comportamenti, abitudini. Il fatto che «mancano […] “immobili culturali” ai quali si possa affidare la guida del nostro comportamento con la sensazione di far cosa giusta»47, porta gli uomini a ricerca41 42 43 44 45 46 47

A. Ghelen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 55. Ibidem, p. 56. Ancora una volta Ghelen si riferisce a Spengler e Toynbee. A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia, in Prospettive antropologiche, cit., p. 135. Ivi. A. Ghelen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 77. Ibidem, p. 78.

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re la propria sicurezza in inautentici “slogan” linguistici, e nel consumo di beni materiali; consumo che, inoltre, viene alimentato e indirizzato da chi, da tale situazione, trae benefici, generando così un “sistema”48 che non si regge soltanto sul postulato del diritto universale al benessere, il sistema tende anche a rendere impossibile la posizione contraria, il diritto alla rinuncia al benessere, e precisamente in quanto produce e automatizza i bisogni stessi del consumo (difatti) l’industria non produce basandosi su un fabbisogno stereotipato, tradizionale, ma viceversa coproduce essa stessa i bisogni per quei prodotti che, indipendentemente dalla domanda (la quale è solo successiva a questa coltivazione artificiale di un nuovo fabbisogno), sviluppa per conto suo al suo interno49.

Anche il cosiddetto “disagio della tecnica” (cioè la difficoltà di relazionarsi con le innovazioni tecnologiche e con la relativa mentalità tecnica) si inserisce all’interno di tale problematica ma, nell’orizzonte dell’antropologia gehleniana, una possibile soluzione non risiede certo nella rinuncia alla tecnica, bensì nella sua emancipazione dalla scienza e dall’industria. Infatti, ormai «si è giunti al ritmo strabiliante per l’osservatore della reazione a catena fra scienza naturale, tecnica e industria»50, mentre, solo allentando i suoi rapporti con questi due “vicini scomodi” la tecnica potrebbe riappropriarsi del suo autentico significato antropologico. Tale operazione dipende dal recupero di quelli che Gehlen chiama ideali ascetici e che la società dei consumi ha offuscato in favore dei beni terreni al punto tale che, chi oggi volesse orientarsi a favore di uno stile di vita ascetico, non godrebbe più, come in passato, di una sorta di autorità morale, ma verrebbe invece considerato un’originale anomalia all’interno della società, ed il suo comportamento non sarebbe criticato ma semplicemente non compreso. Ciò nonostante, i margini per un recupero degli ideali ascetici sono, da Gehlen, individuati nel crollo del mito dell’onnipotenza del progresso scientifico-tecnologico-industriale, nella crisi dello scientismo. Liberare tramite l’ascesi la tecnica dalla scienza e dall’industria non ne causerebbe il dissolvimento ma, al contrario, la restituirebbe ad una dimensione umana, e segnerebbe la fine del disagio della tecnica. Il collegamento di scienza, applicazione tecnica e sfruttamento industriale costituisce da parecchio tempo una struttura anch’essa automatizzata e completamente indifferente in senso etico. Una trasformazione radicale sarebbe possibile 48

49 50

Il concetto di sistema ricorda inevitabilmente quello espresso da Herbert Marcuse in OneDimensional Man, Beacon, Boston 1964, trad. it., L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1999. Inoltre, a riguardo della consumistica corsa alla prosperità: «si è vista la corsa al benessere accelerarsi di giorno in giorno su una pista dove si precipitavano folle sempre più compatte. Oggi è una rissa violenta», H. Bergson, Le deux sources de la morale et de la religion, Paris, Presses universiteires de France, 1946, trad. it. Le due fonti della morale e della religione, Milano, Comunità, 1973, p. 254. A. Ghelen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., pp. 106-105, parentesi mia. A. Gehlen, La tecnica vista dall’antropologia, in Prospettive antropologiche, cit., p. 138.

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soltanto se attaccasse ai due estremi: al voler sapere, punto di partenza, o al voler consumare, punto di arrivo del processo. In entrambi i casi, l’ascesi, se mai comparisse, sarebbe il segnale di una nuova epoca51.

Facendo parte della sua costituzione antropologica, l’uomo non può svincolarsi dalla tecnica, tuttavia può e deve combattere quel processo di tecnicizzazione dell’esistenza, sfociante nell’ormai noto consumismo. 6. Post-histoire e ipertrofia morale L’humus sociale che ha favorito l’insorgere delle sopraesposte problematiche è quello post-borghese che Gehlen definisce della post-histoire, o della seconda secolarizzazione52. Nella nostra era, infatti, è avvenuta una seconda secolarizzazione (successiva a quella che tradusse i valori fideistici ebraicocristiani in razionali progetti storici, di cui l’emblema massimo sono le idee di libertà e d’uguaglianza) che ha paralizzato il concetto di progresso53, riducendolo a mera ripetizione parassitaria e consumo dell’esistente. La seconda secolarizzazione, insomma, designa quel momento storico in cui, al progresso umano in senso lato, si sostituisce un procedimento di incremento tecnologico, scientificamente e industrialmente (consumisticamente) supportato che, producendo innumerevoli strumenti tecnologici, appiattisce la mentalità degli uomini sugli stessi, dunque sulla realtà esistente, eliminando ogni possibile azione o pensiero critico nei confronti dello status quo54. In tale scenario le uniche “rivoluzioni” possibili sono quelle delle mode. Tuttavia Gehlen vede nell’arte moderna una possibilità di superamento della società tecnologicamente consumistica. Per evidenziare i tratti peculiari dell’arte moderna55, Gehlen parte dall’analisi dell’arte medievale, chiamata “arte ideale”: questa si sforza di propagare significati ideali, mitologici o religiosi, appoggiandosi ad una simbologia astratta, metafisica. L’“arte realistica” rinascimentale, invece, si concentra sul dato oggettivo, cercando di riprodurre fedelmente la realtà, soprattutto quella naturale. Infine l’arte moderna, definita “arte astrat51 52 53 54 55

A. Ghelen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 80. Cfr. A Gehlen, Die Säkularisierung des Fortschritts, trad. it., La secolarizzazione del progresso, in «La Politica», n. 1, 1985. Cfr. A. Gehlen, Über Kulturelle Kristallisation, in Studien zur Anthropologie und Soziologie, Neuwied, Luchterhand, 1963, trad. it., Della cristallizazione culturale, in Il mondo di domani, Roma, Abete, 1964, pp. 489-494. Ancora una volta, è interessante il confronto con un concetto marcusiano: quello di “unidimensionalità”, intesa come l’incapacità di pensare le alternative, espresso ne L’uomo a una dimensione, cit. Cfr. A. Gehlen, Zeit-Bilder. Zur Sociologie und Ästhetik der modernen Malerei, Klostermann, Frankfurt a. M., 1986, trad. it. Quadri d’epoca, Napoli, Guida, 1989; G. Carchia, L’opera d’arte dal rito alla secolarizzazione. Arnold Gehlen e l’estetica del “Post-histoire”, in «Aut Aut», 245, 1991, pp. 123-131.

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ta”, tende alla descrizione della società, ma le descrizioni che ne derivano sono inevitabilmente soggettive, legate cioè alla sensibilità dell’artista. Deriva da ciò una frattura tra la realtà oggettiva e l’interpretazione critica soggettiva della stessa. Frattura che Gehlen ritiene possa trasportarsi dall’ambito artistico all’intera società: come nell’arte astratta non ci si ferma al significato immediato di un’immagine ma la si trascende grazie ad una molteplicità d’interpretazioni, così nell’era odierna non ci si deve arrestare a ciò che la realtà propone ma si deve andare verso il non ancora, in direzione di ciò che è “qualitativamente fuori dal comune”. Ma la post-histoire è anche e soprattutto l’epoca di una nuova sensibilità etica, che ridefinisce i tradizionali legami familiari, espandendoli all’umanità tutta56, ed il fatto che tuttora siano in atto scontri tra uomini portatori di sistemi etici diversi, non mette in discussione la concezione di un ethos familiare allargato; ciò, per Gehlen, dimostra solamente che l’ethos umanitario ha una radice pluralistica57. Ma se tale è la “forma” dell’etica contemporanea, quali sono però i suoi “contenuti”? Si è già mostrato come la nostra sia la società delle informazioni, esperienze ed opinioni di “seconda mano”. Ora, le nostre valutazioni morali possono essere messe a punto solo su ciò che ci sta vicino, ma attualmente le informazioni a nostra disposizione hanno una portata mondiale, conseguentemente «il suo (dell’uomo) organo morale sarebbe assolutamente competente per eventi su scala mondiale»58. Tuttavia questa presunta competenza si fonda su informazioni e opinioni di seconda mano, che rendono tale anche la morale: Sta così sorgendo una specie di morale a distanza, che si estende fino alla periferia dell’informazione […] Si tratta per così dire di una “morale di seconda mano”, che però nel vissuto viene a valere come immediata, ciò che del resto vale anche per le nostre opinioni59.

Quindi, che i mass-media alterino le informazioni (quantomeno poiché le rendono di seconda mano) e le opinioni e la morale su di esse basata, non vi è dubbio; non è però da attribuire unicamente ai mass-media l’enorme dilatazione dell’umanitarismo, dell’eudemonismo e del senso di responsabilità, che Gehlen chiama “ipertrofia morale”. Questa infatti non dipende tanto dallo 56

Tutto ciò ha per Gehlen un’enorme importanza, poiché le norme etiche contribuiscono a controllare ed orientare il comportamento umano, in attesa di una definitiva stabilizzazione della nostra epoca di transizione. 57 Cfr. A. Gehlen, Moral und Hypermoral. Eine pluralistische Ethik, Frankfurt a. M.-Bonn, Athenäum, 1969. A tale concezione pluralistica dell’etica si oppone, in particolare, Jürgen Habermas, per il quale le molteplici forme dell’ethos sono parti di un’unica morale universalistica. 58 A. Gehlen, La situazione sociale nel nostro tempo, in Prospettive antropologiche, cit., p. 183, parentesi mia. 59 A. Gehlen, Sviluppo di una «morale di seconda mano», in ibidem, p. 185.

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sviluppo dei mezzi di comunicazione, quanto dall’affrancamento dell’uomo dalla religione, dalla sostituzione della Fortuna e/o di Dio (come motori delle vicende umane) con la “storia”, ed in essa ogni uomo è responsabile per le sue azioni, per le azioni che induce a compiere e per quelle che lascia che si compiano, insomma, nella storia ogni uomo ha un suo peso specifico da cui derivano delle inevitabili responsabilità60 (leggibili anche come opportunità di fornire il proprio contributo allo svolgimento della storia dell’uomo, che per Gehlen coincide del tutto con la storia del progresso tecnologico.). Concludendo, la tecnica è per l’uomo gehleniano una necessità, i cui effetti variano al variare del modo in cui viene soddisfatta. Conseguenze negative derivano, infatti, dalla sottomissione della tecnica alla scienza e all’industria; esiti positivi derivano, invece, dal vivere la tecnica all’insegna di ideali ascetici. Ora, si potrebbe sostenere che il più importante dei valori ascetici sia il senso della misura e che, quindi, il modo corretto di relazionarsi con la tecnica sia quello di prendere da essa il minimo indispensabile, solo ciò che serve per soddisfare le basilari ed autentiche esigenze dell’uomo, uscendo perciò dalla morsa del consumismo? Se la risposta fosse affermativa, si potrebbe gettare un ponte tra la questione della tecnica in Gehlen e la critica alla società tecnologicamente avanzata della prima Scuola di Francoforte.

60

Senza appiattire le differenze, non si può però non notare un’eccezionale affinità tra l’uomo gehleniano della post-histoire e l’homo creator scheleriano.

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Saggi e narrazioni di estetica e filosofia • •

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ADORNO Theodor, CANETTI Elias, GEHLEN Arnold, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, a cura di Ubaldo Fadini, 1995, pp. 107, ISBN 8885889964, € 11,36 ANGELUS SILESIUS, L’altro io di dio. 414 epigrammi dal Viatore cherubico di Angelus Silesius (Johannes Scheffler), traduzione, prefazione e postfazione a cura di Luciano Parinetto, con delle illustrazioni di Salvatore Carbone, 1993, pp. 205, ISBN 8885889255, € 15,49 (esaurito) ARECCHI Alberto, Abitare in Africa. Architetture, villaggi e città nell’Africa subsahariana dal passato al presente, 1998, pp. 216, ISBN 8887231257, € 16,01 ARECCHI Alberto, DELISSE Louis François, Architettura magica. Le facciate“ricamate” di Zinder, capitale degli Haussa del Niger, 1999, pp. 139, ISBN 8887231400, € 13,43 ARECCHI Alberto, DIALLO Mamadou, Il liuto e il tamburo. Il Mali e la sua musica tradizionale, 2000, pp. 118, ISBN 8887231400, con un CD musicale allegato, € 15,49 ARECCHI Alberto, La casa nella roccia. Architetture scavate e scolpite, 2001, pp. 188, ISBN 8887231931, € 15,49 ARECCHI Alberto, Somalia e Benadir. Voci di un dramma infinito, 2001, pp. 138, ISBN 8884830249, con un CD di musiche originali del Corno d’Africa, € 17,04 ARECCHI Alberto, Popoli d’Africa. Un lungo viaggio, dal Mediterraneo al Capo di Buona Speranza, attraverso mille culture diverse, 2002, pp. 191, ISBN 8884831156, € 15,00 ARECCHI Alberto, BOYM Michele, JUNOD Henri-Alexandre, Tamburi dell’Africa australe. Il Mozambico attraverso tre secoli. Canti e racconti dei Ba-ronga, 2002, traduzione e cura editoriale di Alberto Arecchi, 2002, pp. 191, ISBN 888483094X, con un CD di musica mozambicana, € 17,00 ARNAUD Alain, La decisione di Tertulliano, 1988, pp. 71, ISBN 8885889093, € 6,20 ASTORI Roberta (a cura di), Lo specchio della magia. Trattati magici del XVI Secolo, 1999, pp. 106, ISBN 8887231354, scritti di Agrippa, Cardano, Della Porta, Paracelso, € 10,32 ASTORI Roberta, Formule magiche. Invocazioni, giuramenti, litanie, legature, gesti rituali, filtri, incantesimi, lapidari dall’Antichità al Medioevo, 2000, pp. 142, ISBN 8887231745, € 13,43 BACCARINI Emilio, CANCRINI Tonia, PERNIOLA Mario (a cura di), Filosofie dell’animalità. Contributi ad una filosofia della condiziona animale, Clinamen, Annuario del Dipartimento di Ricerche Filosofiche della Università di Roma “Tor Vergata”, n. 1, 1992, pp. 238, ISBN 8885889328, scritti di Mario Perniola, Marcello Massenzio, Emilio Baccarini, Tonia Cancrini, Paola Linguiti, Riccardo Dottori, Porfirio, Marta Cristiani, Fabrizio Scrivani, Marcella D’Abbiero, Maria Teresa Ricci, Simona Argentieri, Annamaria Laserra, Carlo Ferrucci, Maurizio Mori, € 15,49 BERTINI Fabrizio, BONVECCHIO Claudio, FINI Massimo, PARSI Maria Rita, SEGATORI Adriano, TABOGA Teresa, TONCHIA Teresa, Appuntamento con la morte. Un’opportunità da non perdere, a cura di Angela Deganis, 2005, pp. 111, ISBN 8884832780, € 12,00 AL BIRUNI, L’arte dell’astrologia, a cura di Giuseppe Bezza, introdotto da Antonio Panaino, 1997, pp. 200, ISBN 888588931X, € 15,49 BONESIO Luisa, SCHMIDT DI FRIEDBERG Marcella (a cura di), L’anima del paesaggio tra geografia ed estetica, 1999, pp. 136, ISBN 8887231559, scritti di Herbert Lehmann, Martin Schwind, Carl Troll, Heinrich Lützeler, € 13,43 B OSC Ernest, Belisama. L’occultismo celtico, a cura di Alberto Arecchi, 2003, pp. 115, ISBN 8884831431, € 12,00 BOTTO Fabio, Madre della filosofia. L’inganno consueto, 2005, pp. 128, ISBN 8884831849, € 13,00 BRUNO Giordano, Il sigillo dei sigilli e I diagrammi ermetici, a cura di Ubaldo Nicola, traduzione di Emanuela Colombi, 20053, pp. 127, ISBN 8884833779, con un elenco delle immagini autografe nei testi bruniani originali, € 10,33 BRUNO Giordano, L’arte della Memoria. Le ombre delle idee, a cura di Manuela Maddamma, 1996, 20012, pp. 225, ISBN 8885889778, € 15,50

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BRUNO Giordano, La magia e le ligature, a cura di Luciano Parinetto, 2000, pp. 151, ISBN 8887231389, € 13,43 CAPRA Sisto, Albania proibita. Il sangue, l’onore, e il codice delle montagne con la versione integrale del Kanun di Lek Dukagjini e saggi di Gjon Gjomarkaj e Arben Xoxa, 2000, pp. 246, ISBN 888483001X, € 17,04 CAPRA Sisto, STARNONE Gavino, Albania anno zero. Dopo la guerra che succede?, 1998, pp. 148, ill. col., ISBN 8887231508, € 13,43 CARDANO Girolamo, Metoposcopia. Manuale per la lettura della fronte, a cura di Alberto Arecchi, 1994, 20032, pp. 206, ill., ISBN 8884831989, € 14,00 DAS AREIAS Almir, Cos’è capoeira. Tra danza e lotta: un’arte strumento di libertà, a cura di Luiz Martins de Oliveira (Mestre Baixinho), 2005, pp. 81, ISBN 8884833857, € 11,00 ERACLITO, Fuoco non fuoco. Tutti i frammenti, traduzione e commento a cura di Luciano Parinetto, 1994, 20002, pp. 223, ISBN 8885889220, testo greco a fronte, € 15,49 ERMETE TRISMEGISTO, Corpo ermetico, Asclepio. Scritti teologico-filosofici, vol. I, a cura di Pierre Dalla Vigna e Carlo Tondelli, 1988, 20005, pp. 219, ISBN 885889026, € 17,04 ERMETE TRISMEGISTO, Estratti di Stobeo: Kore Kosmou. Scritti teologico-filosofici, vol. II, a cura di Tiziana Villani e Carlo Tondelli, 1989, 20005, pp. 149, ISBN 88885889107, € 14,46 ERMETE TRISMEGISTO, L’ogdoade e l’enneade, Definizioni ermetiche, a cura di Patrizia Alloni, 1995, pp. 109, ISBN 8885889530, € 10,33 ERMETE TRISMEGISTO, Liber hermetis. Scritti astrologici, prefazione di Pierre Dalla Vigna, traduzione e note di Guido Pellegrini, 2001, pp. 156, ISBN 8884830435, € 15,50 F ADINI Ubaldo, P ASCUCCI Giammario, Immagine-desiderio. Contributo ad una genealogia del moderno, 1999, pp. 185, ISBN 8887231338, € 14,46 FIRMICO Materno, In difesa dell’astrologia. Matheseos Libri, I, a cura di Emanuela Colombi, 1997, pp. 92, ISBN 8885889565, testo latino a fronte, € 10,33 GAGGERO Giacomo, Esperienza musicale e musicoterapia, 20052, pp. 115, ISBN 8884831172, € 12,00 GAVAZZI Iris, Il vampiresco. Percorsi nel brutto, 2004, pp. 144, ISBN 8884832527, € 13, 00 GILARDONI Andrea, I meccanismi dell’obbedienza e le tecniche della resistenza. Materiali per un laboratorio teatrale storico-psicologico, 2005, pp. 195, ISBN 8884833949, € 19,00 GRASSANI Enrico, L’altra faccia della tecnica. Lineamenti di una deriva sociale prodotta e subita dall’uomo,2002, pp. 124, ISBN 8884831180, € 10,33 IBN ‘ARABI Nuhyi al-Din, Il nodo del sagace ovvero l’idea di uomo universale nell’‘Uqlat al-Mustawfiz, introduzione, traduzione e note di Carmela Crescenti, 2000, pp. 194, ISBN 8887231346, € 15,49 ILDEGARDA DI BINGEN, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, a cura di Luisa Ghiringhelli, 1998, pp. 291, ISBN 8887231117, € 18,08 LESCE Francesco, Un’ontologia materialista. Gilles Deleuze e il XXI secolo, 2004, pp. 127, ISBN 8884832942, € 12,00 LESSING Gotthold E., Il teatro della verità. Massoneria, Utopia, Verità, a cura di Luciano Parinetto, tavole di Salvatore Carbone, 1997, pp. 175, ISBN 8885889751, € 15,49 LULLO Raimondo, Trattato di astrologia, 2003, pp. 125, ISBN 8884830745, € 12,00 MCCULLY Robert, Jung e Rorschach, 1988, pp. 284, ill., ISBN 8885889085, € 18,08 METRODORA, Medicina e cosmesi naturale ad uso delle donne: la antica sapienza femminile e la cura di sé, prefazione di Giorgio del Guerra, 1994, pp. 109, ISBN 8885889433, testo greco a fronte, € 9,30 MOSCONI Lodovico, Io ti voleva uguale al primo bene, 1989, pp. 129, ill., ISBN 8885889034, € 9,80 PANAINO Antonio, PELLEGRINI Guido (a cura di), Giovanni Schiaparelli. Storico della astronomia e uomo di cultura, Atti del seminario di studi organizzato dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e dall’Istituto di Fisica Generale Applicata dell’Università degli Studi di Milano, Milano, 12-13 maggio 1997, Osservatorio astronomico di Brera, 1999, pp. 193, ISBN 8887231540, scritti di Raffaella Simili, Maria Casaburi, Salvo De Meis, Hermann Hunger, Agnese Mandrino, Antonio Panaino, Guido Pellegrini, Giuseppe Bezza, Enrico G. Raffaelli, € 15,49 PAOLO D’ALESSANDRIA, Introduzione all’astrologia. Lineamenti introduttivi alla previsione astronomica, a cura di Giuseppe Bezza, 2000, pp. 197, ISBN 8887231737, € 15,49

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PARINETTO Luciano, Alchimia e utopia, prefazione di Giorgio Galli, 2004, pp. 179, ISBN 8884831911, € 15,00 • PARINETTO Luciano, Faust e Marx. Metafore alchemiche e critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non scientifica, prefazione di Giorgio Galli, 2004, pp. 219, ISBN 8884832403, € 15,00 • PATAÑJALI, Yoga sutra. Il più antico testo di yoga con i commenti della tradizione, a cura di Massimo Vinti e Piera Scarabelli, 1992, 20002, 20043, pp. 195, ISBN 8885889360, € 15,00 • PEREGO Marcello, Le parole del sufismo. Dizionario della spiritualità islamica, 1998, pp. 276, ISBN 8887231192, € 18,08 • PERI Francesco, Da Weimar a Francoforte. Adorno e la cultura musicale degli anni venti, 2005, pp. 287, ISBN 8884833868, € 19,00 • PERNIOLA Mario (a cura di) Il pensiero neo-antico. Tecniche e possessione nell’arte e nel sapere del mondo contemporaneo, 1995, pp. 124, ISBN 8885889573, scritti di Mario Perniola, Roberto Motta, Renzo Paris, Claudia Castellucci, Francesco Pellizzi, Giuliano Compagno, Tiziana Villani, Giuseppe Conte, Christoph Wulf, Michel Deguy, Tomaso Kemeny, Isabella Vicentini, Giuseppe Patella, € 10,33 • PEVERADA Stefano, Il canto delle sirene. Protagora e la metafisica, 2002, pp. 428, ISBN 8884831016, € 19,00 • PEVERADA Stefano, Nietzsche e il naufragio della verità. Critica, nichilismo, volontà di potenza, 2003, pp. 571, ISBN 8884831806, € 19,00 • PEVERADA Stefano, Il sacrificio del dio bambino, 2005, pp. 127, ISBN 8884832462, € 13,00 • PICCOLINI Sabina e Rosario (a cura di), Il filo di Arianna I. 42 trattati alchemici, 2001, pp. 330, ISBN 8887231842, scritti di Hortolanus, Arnaldo da Villanova, Nicolas Flamel, Basilio Valentino, Bernardo Trevisano, Vinceslao Lavinio di Moravia, Giovanni Pontano, € 21,70 • PICCOLINI Sabina e Rosario (a cura di), Il filo di Arianna II. 42 trattati alchemici, 2001, pp. 312, ISBN 8887231834, scritti di Ferrari, Salomone Trismosino, George Ripley, Ireneo Filalete, Olivero de Oliveriis da Todi, Clovis Hesteau de Nuysement, Denys Zacharie, € 21,70 • PICCOLINI Sabina e Rosario (a cura di), Il filo di Arianna III. 42 trattati alchemici, 2001, pp. 348, ISBN 8887231826, scritti di Artefio, Kalid Ben Jazichi, Kalid Rachaidibi, Kalid Ben Jesid, Geber, Raimondo Lullo, Frate Elia, Altus, Jean de La Fontaine, Esprit Gobineau de Montluisant, € 21,70 • PLOTINO, Enneadi I e II, a cura di Pierre Dalla Vigna, Carlo Tondelli e Tiziana Villani, traduzione di Carlo Tondelli, 1992, pp. 239, ISBN 8885889387, € 17,04 • PROTO Antonino, Ermete Trismegisto: gli Inni. Le preghiere di un santo pagano, 2000, pp. 178, ISBN 8887231982, € 15,49 • P’AWSTOS Buzand, Storia degli armeni, introduzione e cura di Gabriella Uluhogian, traduzione di Marco Bais e Loris Dina Nocetti, note di Marco Bais, 1992, pp. 231, ISBN 8885889883, € 15,49 • REVERT Eugène, Stregoni, zombi e vodù. Pratiche magiche nelle Antille, traduzione e cura di Alberto Arecchi, 2001, pp. 125, ISBN 888483032X, € 12,40 • ROSSI Paola (a cura di), Atharvaveda. Il Veda delle formule magiche, 1994, pp. 222, ISBN 888588945X, testo sanscrito a fronte, € 13,43 • AL-DIN RUMI, Il canto dello spirito. Aneddoti del Mathnawi, introduzione, traduzione e note di Anna Maria Martelli, 2000, pp. 201, ISBN 8887231664, € 15,49 • SCHIAPARELLI Giovanni, Scritti sulla storia dell’Astronomia antica, parte prima – scritti editi, tomo I, 1997, pp. 462, ISBN 888723101X, ristampa dell’edizione bolognese del 1925, € 23,24 • SCHIAPARELLI Giovanni, Scritti sulla storia dell’Astronomia antica, parte prima – scritti editi, tomo II, 1998, pp. 395, ISBN 8887231125, ristampa dell’edizione bolognese del 1926, € 23,24 • SCHIAPARELLI Giovanni, Scritti sulla storia dell’Astronomia antica, parte seconda – scritti inediti, tomo III, 1998, pp. 338, ISBN 8887231214, ristampa dell’edizione bolognese del 1926, € 20,66 • SICA Anna - ARONSON Arnold, New York Theatre from tradition to Avant-garde, 2005, pp. 192, ISBN 8884831733, € 15,00 • SOTERO M. - ROGORA G. - GANDOLFI D., Corpo simbolo Rorschach. Processi simbolici e archetipici al test di Rorscah in medicina psicosomatica, 1990, pp. 137, ISBN 888588914X, € 13,42 • TASINATO Maria, Elena, velenosa bellezza, seguito da una traduzione dell’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini, 1990, pp. 74, ISBN 8885889123, testo greco a fronte, € 7,75

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TASINATO Maria, Tempo svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, 1990, pp. 93, ISBN 8885889158, € 10,33 TORRES Yólotl González, Il culto degli astri tra gli Aztechi, a cura di Annelisa Addolorato, 2005, pp. 149, ISBN 8884830370, € 17,00 TOTOLA Giorgia, Donne e follie nell’epica romana. Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, 2002, pp. 85, ISBN 8884830834, CD-ROM multimediale in allegato, € 13,00 THEA Paolo, Gli artisti e gli “spregevoli”. 1525: la creazione artistica e la guerra dei contadini in Germania, con un saggio di Karl-Hartwig Kaltner sulle guerre contadine in Austria, 1998, pp. 172, ISBN 8887231206, € 14,46 TRIPALDI Fabio, L’ossessione dello spirito, 2004, pp. 284, ISBN 8884832373, € 16,00 VACCARO Salvo - COGLITORE Marco (a cura di), Michel Foucault e il divenire donna, prefazione di T. Villani, 1997, pp. 217, ISBN 8885889832, scritti di Rosi Braidotti, Lois McNay, Deborah Cook, Mary Tijattas, Jean-Pierre Delaporte, Jana Sawicki, Karen Vintges, Judith Butler, Hélène Cixous, in appendice Quattro interventi di M. Foucault sulla sessualità, € 15,49 V AN S EVENANT Ann, Il filosofo dei poeti. L’estetica di Benjamin Fondane, 1994, pp. 126, ISBN 8885889212, € 11,88 VILLANI Tiziana, I cavalieri del vuoto. Il nomadismo nel moderno orizzonte urbano, 1992, pp. 83, ISBN 8885889395, € 7,75 VILLANI Tiziana e DALLA VIGNA Pierre (a cura di), Guerra virtuale e guerra reale. Riflessioni sul conflitto del Golfo, 1991, pp. 94, ISBN 8885889174, scritti di Mario Perniola, Carlo Formenti, Pierre Dalla Vigna, Tiziana Villani, Felix Guattari, Jean Baudrillard, € 8,78

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