Il Novecento negato. Hayek filosofo politico
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BiBlioteca di cultura Morlacchi diretta da Antonio De Simone 4

Morlacchi Editore

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BiBlioteca di cultura Morlacchi diretta da Antonio De Simone I. II. III. IV.

L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, di Fabio D’Andrea, Antonio De Simone e Alberto Pirni Tra Dilthey e Habermas. Esercizi di pensiero su filosofia e scienze umane, di Antonio De Simone, Fabio Di Clemente, Fabio D’Andrea e Fabrizio Fornari Istantanee. Filosofia e politica prima e dopo l’Ottantanove, di Francesco Fistetti Il Novecento negato. Hayek filosofo politico, di Paolo Ercolani *** FilosoFia e teoria sociale conteMporanea fondata da Antonio De Simone

I. II.

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L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, di Fabio D’Andrea, Antonio De Simone e Alberto Pirni Tra Dilthey e Habermas. Esercizi di pensiero su filosofia e scienze umane, di Antonio De Simone, Fabio Di Clemente, Fabio D’Andrea e Fabrizio Fornari

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Paolo Ercolani

Il Novecento negato Hayek filosofo politico

Morlacchi Editore

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In copertina:

Prima edizione:

2006

Ristampe

1. 2. 3.

Ercolani, Paolo Il Novecento negato. Hayek filosofo politico / Paolo Ercolani Perugia : Morlacchi Editore, 2006 (University press | Biblioteca di Cultura Morlacchi. 4) ISBN: 88-6074-047-9 ; 8°, pp. xvi + 194 ; euro 17,001. Il Novecento negato. Hayek filosofo politico I. Ercolani, Paolo

copyright © 2006 by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica, non autorizzata. Progetto grafico del volume: Raffaele Marciano [email protected] – www.morlacchilibri.com

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Ai liberali di tutti i partiti!

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Indice-Sommario

Ringraziamenti

p. ix

Prefazione di Domenico Losurdo

p. xi

Introduzione

p. 1

I. L’epistemologia di Hayek. «Ignoranza» dei liberi versus ragione dei presuntuosi

p. 23

II. Conoscenza e «catallaxy»: concorrenza, sistema dei prezzi e libertà (senza sicurezza) degli individui p. 39 III. Il «conflitto insanabile» tra capitalismo e democrazia

p. 57

IV. Costruttivismo vs evoluzionismo: le aporie dell’«ordine spontaneo» di Hayek davanti al tribunale della storia p. 71 V. Il «giardiniere» e l’«artigiano». La metodologia sociale di Hayek (e le differenze con Popper) VI. Cosmos vs taxis. L’evoluzionismo di Hayek tra «olismo metafisico» e «distruzione dell’individuo»

p. 89

p. 105

VII. Nomos/thesis – law/legislation: dalla democrazia «onnipotente» alla «demarchia» senza giustizia sociale p. 129

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VIII. Frattura liberale e negazione del ’900: perché Hayek non è un (semplice) conservatore

p. 159

Bibliografia dei testi consultati e direttamente citati nel volume p. 175 Indice dei nomi

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p. 189

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Ringraziamenti

C

onsapevole del fatto che la gratitudine, soprattutto quando è forte e sincera, pertiene alla sfera del sentimento più che a quella di una pagina bianca, vorrei provare comunque a fermare sulla carta il mio «grazie» innanzitutto al Prof. Antonio De Simone, la cui autorevolezza e benevolenza nei confronti dei giovani studiosi hanno reso possibile la pubblicazione di questo mio lavoro presso la casa editrice Morlacchi. Il debito intellettuale e conoscitivo più grande l’ho contratto con il Prof. Domenico Losurdo, maestro unico e impareggiabile i cui insegnamenti sono stati fondamentali affinché avessi concretamente degli «argomenti» con cui riempire le pagine bianche. Un grande ringraziamento sento di doverlo anche all’amico Prof. Guido Liguori (e con lui alla redazione di «Critica Marxista»), per aver sopportato le mie «assenze» dovute a questo lavoro e per avermi insegnato la precisione e la chiarezza nello scrivere di questioni filosofiche. Un grazie di cuore anche alla dottoressa Elisabetta Ambrosi (e con lei alla redazione di «Reset»), per l’amicizia, per i tanti libri che mi ha regalato e per quel discreto, ma fermo, «controcanto» che riesce ad esprimere rispetto alle mie idee di base. Un debito di riconoscenza e gratitudine l’ho contratto con l’Avv. Cesare San Mauro,méntore e maestro di vita ormai da tanti anni, che ringrazio insieme alla Fondazione Roma Europea. Al dott. Orazio Ferri e alla sua splendida famiglia per l’amicizia e la discreta sopportazione della mia «latitanza» dovuta al grande lavoro per questo libro, a Simone Moretti, Loretta Liera e a Fabio, Claudia e Mirko Lucentini per il solo fatto di esistere e di essermi amici da una vita. Infine a Patrizia Calandrini, per la sua vicinanza e per avermi sopportato nei momenti agitati che seguivano al «litigio» con i filosofi. Non un grazie, ma qualcosa di inesprimibile, desidero rivolgerlo ad Anita, Chiara, Lucio, Milena e Nella, quella famiglia senza il cui affetto impareggiabile e supporto morale (e concreto!) mi sarebbe impossibile riuscire a vivere la meravigliosa avventura di «logonauta»!

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Prefazione

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el leggere il libro di Paolo Ercolani, che scorre agile e persuasivo, due capitoli hanno attratto in particolare la mia attenzione, il quarto e il quinto, che in effetti risultano centrali per la comprensione non solo del pensiero del filosofo austriaco ma anche dell’ideologia oggi dominante in Occidente. Sì, ai giorni nostri sono diventati un luogo comune la condanna pronunciata da Hayek dell’«abuso della ragione», della «moderna hybris» o «hybris intellettuale», del «razionalismo o meglio intellettualismo», ovvero del «razionalismo costruttivista» o «costruttivismo» tout court. Nonostante il trionfo da esse conseguito, le categorie qui utilizzate si rivelano del tutto formalistiche: è un formalismo che nasce dall’illusione che sia possibile tracciare una netta linea di demarcazione tra natura e artificio, spontaneità e «costruttivismo». Per renderci conto dell’ingenuità di tale approccio, vediamo se esso ci può essere d’aiuto nella comprensione dei grandi conflitti storici. Esaminiamo ad esempio la lotta ideologica che si sviluppa negli Stati Uniti in occasione della guerra di Secessione e della successiva Ricostruzione che, dopo aver abolito la schiavitù, tenta invano di assicurare ai neri il godimento dei diritti politici e civili. Ebbene, chi, in occasione di tale scontro, incarna le ragioni dello spontaneo sviluppo sociale e chi le ragioni di un oppressivo «costruttivismo»? Per i teorici della schiavitù non ci sono dubbi: essi proclamano di voler difendere un istituto che ha conosciuto una diffusione universale, ha prodotto splendide civiltà (come quella greca e romana), ed è legittimato dai grandi testi religiosi a fondamento della civiltà occidentale, e cioè l’Antico e il Nuovo Testamento. Com’è stato osservato da un autorevole storico americano (Eugene D. Genovese), per questi ideologi la schiavitù è una sorta

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di «common law» che gli abolizionisti hanno il torto di voler cancellare mediante l’azione arbitraria dello Stato, e dunque mediante interventi che pretendono di costringere il reale in schemi rigidi e oppressivi. E, dopo la fine della guerra di Secessione, altrettanto privi di dubbi sono i teorici della white supremacy. Ai loro occhi, insensato è il tentativo dell’Unione di imporre uguaglianza e integrazione razziale dall’alto, cancellando o ridimensionando drasticamente l’autonomia degli stati, facendo ricorso a una dittatura pedagogica chiamata a spazzar via i «pregiudizi» razziali della gente del Sud, nell’ambito di un folle esperimento costruttivististico mirante a cancellare una tradizione secolare e a calpestare valori e costumi consolidati della stragrande maggioranza della popolazione (bianca), in violazione in ultima analisi dello stesso ordinamento naturale. Si possono facilmente immaginare le obiezioni rivolte a questa campagna ideologica. Quale espressione di costruttivismo deve essere bollato il tentativo di realizzare una società fondata sull’eguaglianza e sull’integrazione razziale oppure, invece, l’istituto della schiavitù e l’apartheid e la legislazione contro la miscegenation (i rapporti sessuali e matrimoniali interrazziali)? Dov’è la natura e dove l’artificio? All’artificio e alla coazione insiti nel costruttivismo Hayek contrappone la spontaneità e la libertà che sarebbero proprie del mercato. In realtà, per secoli, il mercato dell’Occidente liberale ha comportato la presenza della chattel slavery, della schiavitù-merce: gli antenati degli odierni cittadini neri sono stati in passato merci da vendere e da acquistare, non consumatori autonomi. Ben lungi dall’essere spontanea, l’odierna configurazione del mercato, con l’esclusione della schiavitù e con la regolamentazione altresì dell’orario di lavoro e con le clausole di protezione delle donne e dei bambini, è il risultato di interventi politici denunciati in quanto arbitrari e dispotici da tutta una serie di autori liberali. Si pensi al problema, assai vivo nella Francia della metà dell’Ottocento, della riduzione dell’orario di lavoro a 12 ore: essa è condannata da Tocqueville come sinonimo di «dispotismo», ovvero – potremmo dire – di

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Prefazione

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«costruttivismo». Sì, è il costruttivismo a spiegare le caratteristiche del mercato, che oggi appaiono ovvie e irrinunciabili anche agli occhi di Hayek. L’ambiguità e il formalismo della categoria di «costruttivismo» non cessano di manifestarsi ai giorni nostri. Negli Stati Uniti non accenna a placarsi il dibattito sulla affirmative action, che cerca ad esempio di favorire l’immissione dei neri nelle Università e di promuovere così la fuoriuscita dalla condizione di emarginazione e di confinamento nei segmenti inferiori del mercato del lavoro, che ancora pesa su di loro. Bollata dagli ambienti di destra in quanto espressione in ultima analisi di costruttivismo, l’affirmative action viene sul versante opposto difesa quale rimedio ai guasti di un costruttivismo che per secoli ha infuriato a danno dei neri. Dilemmi analoghi si pongono in relazione al problema dell’emancipazione della donna: dobbiamo condannare quale espressione di «costruttivismo» ogni misura, ufficializzata o informale, tesa ad assicurare un livello minimo di partecipazione nella vita politica e negli organismi rappresentativi a un gruppo discriminato negativamente per millenni? Detto tra parentesi: nel suo libro forse più famoso (La società libera, Firenze, 1969, p. 493 n.), Hayek considerava pienamente legittima l’esclusione delle donne dai diritti politici ancora in atto in quel momento in alcuni cantoni della Svizzera: egli non riteneva che in quel caso si potesse parlare di costruttivismo, a conferma del fatto che tale categoria e la denuncia in essa insita entrano in campo soltanto allorché si tratta di difendere lo status quo. Spostando l’attenzione su un altro campo, possiamo porci un’ulteriore domanda: dobbiamo condannare in quanto costruttivista la barriera che cerca di bloccare o di contenere al massimo l’ingresso in Occidente di immigrati proveniente dal Terzo Mondo, oppure il tentativo di costruire una società multiculturale, suscettibile di far convivere armonicamente popoli con culture assai diverse l’una dall’altra? In conclusione: la retorica anti-costruttivista non ci aiuta né a comprendere la storia

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alle nostre spalle né a orientarci nei problemi e nei conflitti del nostro tempo. Se Hayek insiste sul carattere rovinoso del costruttivismo, Popper non si stanca di richiamare l’attenzione sul fatto che l’ingegneria sociale non gradualistica assicura di voler realizzare il paradiso sulla terra ma finisce in realtà col produrre l’inferno: l’utopia si rovescia regolarmente in distopia. C’è però un fatto singolare da osservare. Questo motivo ideologico celebra i suoi trionfi proprio nel momento in cui il paese-guida dell’Occidente pretende di rimodellare in modo radicale il pianeta imponendo dappertutto la democrazia con la forza delle armi. Ci si poteva attendere un’ondata di indignazione per questa folle manifestazione di costruttivismo ovvero di ingegneria sociale non gradualistica. Ciò non si è verificato, e comunque a protestare non sono né i seguaci di Hayek né quelli di Popper. Anzi, proprio quest’ultimo sembra aver anticipato, con alcune sue dichiarazioni, l’ideologia della guerra oggi cara a Washington: «Non dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace. Nelle attuali circostanze è inevitabile. È triste, ma dobbiamo farlo se vogliamo salvare il mondo. La risolutezza è qui di importanza decisiva». I «nemici mortali» da liquidare o mettere in condizione di non nuocere, in vista della realizzazione della «pace mondiale» e perpetua, non sono pochi: non si tratta solo degli «Stati terroristi»; c’è anche – prosegue Popper – «la Cina comunista, per noi impenetrabile» (si vedano le due interviste a «Der Spiegel» del 23 marzo e a «La Stampa» del 9 aprile 1992). E dunque, la Crociata per la pace e la democrazia si preannuncia come una serie ininterrotta di guerre; l’utopia si rovescia ancora una volta in distopia. Dà da pensare il silenzio osservato a tale proposito dalla folta schiera dei critici implacabili del costruttivismo e dell’ingegneria sociale non gradualistica. È la conferma del carattere formale di queste categorie, ciò che consente di utilizzarle in modo quanto mai strumentale; è un sintomo altresì della miseria, teorica prima ancora che politica, del liberalismo contemporaneo.

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Prefazione

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È merito del libro di Paolo Ercolani aver richiamato l’attenzione su un nodo centrale del pensiero di Hayek e di Popper e dell’ideologia oggi dominante. Domenico Losurdo

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Introduzione «…free man is an abstraction…»1

Lo strano caso del dottor Friedrich e di mister Hayek

S

tudiando l’evoluzione del pensiero liberale classico, soprattutto in relazione con le concrete applicazioni sul piano sociale dello stesso, può accadere non di rado di pensare all’inquietante villaggio descritto trent’anni fa da Stephen King in Salem’s Lot, in cui gli abitanti di giorno si mostravano – seppur non senza ambiguità di superficie visibili a uno sguardo attento – alla stregua di persone urbane e cortesi pronte, però, ad assumere di notte le fattezze di terribili vampiri2. Questa medesima impressione la si prova analizzando l’opera di Hayek, non soltanto perché in essa sono riscontrabili delle evidenti contraddizioni interne, ma anche perché, soprattutto in Italia, una certa critica entusiasta tende a portare alla luce soltanto alcuni aspetti di questo grande pensatore del Novecento, lasciando nel buio della notte alcune sue speculazioni più scomode e difficili da rubricare all’interno del liberalismo, o della visione univocamente agiografica che spesso ne viene proposta. Intendiamoci, però, e cerchiamo di sgombrare il campo da inutili ambiguità o da possibili, e comode, reprimende da parte dei liberali più entusiasti. Sicuramente non è lecito esaurire la storia liberale con questa metafora, così come, altrettanto sicuramente, occorre essere consapevoli che stiamo parlando della tradizione di pensiero (e di azione concreta in campo sociale) che ha fatto riscontrare i maggiori successi nel corso della storia, mostrando una capacità di elasticità e di adattamento alle Minogue (1963), p. 174. Ho avuto modo di spiegare in maniera più ampia il senso di questa metafora ardita e volutamente provocatoria in Ercolani (2006²), p. 13. 1 2

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circostanze che è mancata ad altre filosofie politiche e sociali. In questo senso, senza ombra di dubbio, possiamo dire di dovere al liberalismo molte delle libertà di cui godiamo in quanto cittadini occidentali e di cui, molto spesso, ci vantiamo nel confronto con le carenze che registriamo presso altre civiltà e culture. Ma sarebbe un errore, in cui incorre in maniera sovente (e non sempre innocente) soprattutto la storiografia italiana, quello di raffigurare il liberalismo alla stregua di una realtà monolitica e magmatica che, da Locke fino ai giorni nostri, avrebbe visto trionfare i propri assunti rimasti invariati nel corso dei secoli, spazzando via, senza che ne rimanesse più traccia nell’impianto delle società in cui viviamo, le istanze di tradizioni «concorrenti» quali per esempio (e soprattutto) quella democratica e socialista. Il liberalismo di Locke non è quello di Constant o di Tocqueville, così come diverso è l’impianto liberale del pensiero di John Stuart Mill e di Hobhouse, poiché il confronto con gli accadimenti storici occorsi in secoli diversi (e con le istanze concrete del socialismo e della democrazia, figlie di contraddizioni e disagi sociali assai urgenti) ha mutato non poco i punti di riferimento di questi grandi pensatori che pur si richiamano alla comune matrice liberale. Per non parlare del Novecento, secolo in cui, soprattutto dopo la grande frattura verificatasi durante i conflitti mondiali e la crisi del ’29, si è assistito a una vera e propria biforcazione del liberalismo, facilmente riscontrabile analizzando le notevoli differenze tra i capisaldi del pensiero di un Mises e di un Friedman da una parte, o di un Popper e di un Rawls dall’altra: a un liberalismo maggiormente ispirato dai valori del libero mercato e dell’individualismo ottocenteschi se ne è affiancato un altro più aperto all’intervento dello stato e della politica per garantire parametri minimi di giustizia sociale e di uguaglianza delle opportunità. Sempre in questa direzione si potrebbe dire che se il liberalismo classico (dalla fine del 1600 alla fine del 1800 circa) ha visto autori fortemente contraddittori, nelle cui pagine accanto a

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Introduzione



nobili e lodevoli esaltazioni della libertà formale individuale, si trovavano enunciate palesi «clausole di esclusione»3 con le quali si giustificavano le peggiori discriminazioni e schiavizzazioni, con il liberalismo del Novecento ci si è trovati di fronte a pensatori che gradualmente hanno dato per scontata l’estensione a tutti gli individui non soltanto delle libertà formali e politiche (quali il diritto di voto) ma anche delle libertà sostanziali. Hayek rappresenta una delle rare eccezioni di pensatore liberale nella cui opera vengono esplicitamente messe in discussione certe conquiste formali e sostanziali non contemplate dalla gran parte del liberalismo classico ma quasi unanimemente date per indiscutibili dagli autori liberali del Novecento. Ecco perché la figura di Hayek risulta oltremodo centrale e utile per cogliere appieno al tempo stesso le trasformazioni del liberalismo e il XX secolo. Poiché egli è certamente un liberale contemporaneo (che quindi non può ignorare certe conquiste della contemporaneità in ambito di tutela delle fasce sociali più deboli), ma è anche un pensatore che, nel nome di un rifiuto netto e appassionato della commistione tra istanze liberali e socialiste (commistione di cui sono figlie le società occidentali in cui viviamo, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale), propende per un ritorno agli assunti e alle pratiche del liberalismo classico in vigore fino alla Prima guerra mondiale, caratterizzato da una teoria della libertà che tollerava palesi discriminazioni di natura razziale, sessuale e censitaria che sono andate gradualmente scomparendo con il Novecento4. Cosicché l’analisi del pensiero di Hayek, al lettore obiettivo e scevro da intenti agiografici, si rivela assai utile per comprendere tutta la complessità e contraddittorietà che caratterizzano il mondo occidentale contemporaneo e la stessa tradizione liberale, che ne è la madre legittima. Cfr. Losurdo (1993²), Cap. II e in particolare p. 36. Nel formarmi questa lettura della storia moderna e conemporanea ho tenuto presente tutta l’opera del mio maestro, Domenico Losurdo, e in particolare (1993), (1993²) e (2005). 3 4

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Se da una parte, infatti, in questo autore è possibile riscontrare alcuni dei capisaldi più nobili e qualificanti del liberalismo (quali la fallibilità della conoscenza, la libertà individuale, l’opposizione al totalitarismo etc.), lo Hayek «notturno» (nel senso di quello meno portato alla luce dagli esegeti entusiasti e acritici, numerosi soprattutto in Italia) si rivela un fiero oppositore del suffragio universale, che non disdegna di escludere le fasce sociali più povere e le donne dal diritto di voto (attivo e passivo), ma anche un contestatore di quella «giustizia sociale» garantita dall’intervento statale su cui si è costruito il più largo benessere dei cittadini delle società occidentali dopo le guerre mondiali. Un Hayek che, nostalgico del liberalismo classico, recupera e rende centrale nella sua speculazione l’anacronistico concetto di «ordine spontaneo», negando di fatto una buona parte della libertà a individui che potrebbero consapevolmente decidere di agire nella e sulla società (magari per tentare di modificarla secondo intenti di miglioramento), ma anche un Hayek che, alla fine, esasperato da un mondo che non prende la piega da lui auspicata, contraddice financo la sua concezione di ragione individuale fallibile, e da non usare in senso costruttivistico, per disegnare un proprio modello di società che non è certo il risultato di un ordine spontaneo ma soltanto della sua reazione all’impianto delle società moderne, troppo contaminato secondo il filosofo dalle istanze socialiste e stataliste. Insomma, il pensatore che «di giorno» si sforza, e per buona parte ci riesce, di mostrarsi un liberale aperto ai cambiamenti e difensore del governo della legge e della libertà individuale, «di notte» si rivela come un fiero reazionario rispetto ad alcune delle più importanti conquiste della contemporaneità, fino al punto di contestare fattivamente l’impianto democratico che ormai ha innervato le società liberali e lo stesso liberalismo del Novecento. È questo Hayek che, in nome di un ordine spontaneo che vede soltanto lui, si rivela un «costruttivista» nel disegnare un progetto costituzionale che non prevede l’uguale trattamento sotto la legge di tutti gli individui, un distruttore di quello stesso individualismo da lui propugnato (poiché se tutti

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Introduzione



gli individui non possono, almeno in linea teorica, pensare di agire col proprio voto, ma non solo, per modificare in meglio la società in cui vivono e non possono godere per quello che è possibile di una parità di opportunità, allora non si capisce di quale individualismo si parla) e alla fine un negatore pervicace di quella che forse è la più grande conquista degli stati occidentali contemporanei: la democrazia. Quello del dottor Friedrich (liberale tout court) e di mister Hayek (negatore di alcune delle più importanti conquiste della contemporaneità fino al punto di impegnarsi per tentare di riportare indietro le lancette dell’orologio), è però uno «strano caso» soltanto se non si è disposti a operare delle distinzioni all’interno del variegato pensiero liberale del Novecento, cioè se non si è disposti innanzitutto a operare le opportune distinzioni rispetto al cuore del liberalismo stesso. In caso contrario si scopre come vi siano stati anche importanti pensatori quali, per esempio, Dewey, Popper e Rawls che, liberali a tutti gli effetti, sono riusciti a conciliare alcuni capisaldi del liberalismo con le oggettive trasformazioni della società, accettando l’inevitabile e per molti versi positivo intervento dello stato nelle questioni economiche e sociali, evitando la sterile contrapposizione tra istanze individualistiche e collettivistiche (poiché se è vero che la società è composta di individui è altrettanto vero che ogni individuo ha un senso soltanto nell’ambito sociale in cui nasce, da cui trae certi valori e in cui si trova a operare in inevitabile interazione con gli altri) e, soprattutto, non sognando neppure lontanamente un mondo in cui si tornano a mettere in questione assunti democratici acquisiti quali la possibilità di voto per ogni individuo. Se la storia del pensiero liberale classico è piena di nobili teorie e pratiche di libertà (da cui sono state escluse per molto tempo larghe fasce di umanità), la vicenda di Hayek è quella di un pensatore che si trova a operare in un momento in cui il liberalismo stava cambiando e si stava «contaminando» con la democrazia e l’universalizzazione di diritti troppo spesso riservati a pochi, e che in tale ambito prende posizione a favore di

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un ritorno indietro, a teorie e pratiche di un liberalismo che la storia si stava incaricando di superare. È, il suo, un tentativo tanto disperato quanto convinto, che proprio nell’utopica opposizione al corso della storia finisce con l’esporlo a contraddizioni non soltanto rispetto al proprio tempo e al nuovo liberalismo, ma anche rispetto ai principali assunti della sua stessa speculazione, che finiscono per essere traditi dal medesimo Hayek nell’incessante e affannosa ricerca di un modo per opporsi al Novecento e alle sue trasformazioni. Di certo, la complessa e articolata trasformazione subita dal pensiero (e dalla pratica) liberale e, con essa, la contraddittoria quanto significativa posizione di Hayek nell’ambito della suddetta teoria politica non possono essere comprese se, come spesso accade in Italia, si indulge in affermazioni che definiscono il filosofo come colui che è «unanimemente riconosciuto come il maggior teorico liberale del XX secolo»5. Ciò che colpisce, e che a mio avviso induce non poco all’errore, non è tanto l’avverbio impegnativo e impreciso («unanimemente»), quanto il semplicismo, e l’indisposizione a operare le dovute distinzioni, con cui viene usato l’aggettivo liberale, quasi si stesse parlando di un’entità immutabile e immutata nel tempo. Andrà pur detto, infatti, e capito il perché anche grazie alla contestualizzazione storico-sociale, che il liberalismo di un Locke (che dava per scontata la schiavitù) o di un Constant (che escludeva dai più elementari diritti politici chi non raggiungeva un certo censo) presenta delle diversità da quello di un John Stuart Mill (teorico peraltro del voto plurale e del dispotismo nei confronti delle civiltà colonizzate), così come ancora più notevoli sono le differenze col liberalismo del Novecento, che non soltanto supera gradualmente le discriminazioni accettate dalla teoria e dalla pratica liberale ancora nell’Ottocento, ma vede anche alcuni tra i più importanti suoi teorici promuovere l’intervento dello stato e della politica per correggere le imper5

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Introduzione



fezioni dovute alle circostanze naturali e casuali e le storture prodotte da un regime di libera concorrenza. Soltanto se si tiene presente questo fatto risulta allora in tutta la sua insensatezza e sterilità, ai fini della comprensione del pensiero liberale in genere e di Hayek nello specifico, parlare di quest’ultimo come del maggior teorico liberale del XX secolo. Se certamente non si può intendere Hayek senza fare riferimento alla tradizione liberale, cui egli comunque appartiene, e se altrettanto certamente è vero il contrario, non si rende però giustizia né a Hayek né al liberalismo, e né si favorisce la comprensione in termini più generali, se si procede attraverso semplificazioni di questo tipo, poco disposte all’analisi critica e alla distinzione. Ma, al di là di questa analisi critica e comparata di Hayek e del pensiero liberale contemporaneo, che abbiamo tentato di operare nei capitoli di questo libro, cerchiamo ora di introdurre le maggiori forme di contraddizione presenti nello specifico della speculazione hayekiana, contraddizioni che lo portano spesso a negare, peraltro, anche alcuni dei più tradizionali capisaldi del liberalismo stesso. Contraddizioni da cui non ha saputo uscire il filosofo stesso, e di cui talvolta non ha dato neppure l’impressione di accorgersi, rispetto alle quali buona parte della critica (in specie italiana) si è applicata nella volontà di ignorare o rimuovere.

Hayek e la ragione Ispirandosi alla scuola liberale scozzese, Hayek sviluppa una concezione fallibilista della ragione. In realtà il filosofo si spinge persino più in là, elaborando una complessa teoria della conoscenza (cfr. il cap. I del presente lavoro) che mira a dimostrare come l’ignoranza giochi un ruolo assai centrale nella vita di un individuo e nei meccanismi dei processi sociali. Nessun individuo possiede in realtà la conoscenza del tutto, essendo essa dispersa fra i vari individui le cui speculazioni e azioni vengono spesso

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regolate da meccanismi inconsci e in-intenzionali. Meccanismi impersonali o inconsapevoli come la tradizione, l’adattamento, le conseguenze in-intenzionali di azioni intenzionali, la libera interazione fra gli individui e l’ordine spontaneo giocano un ruolo assai più centrale per Hayek, nell’ambito dei processi sociali, rispetto alla ragione individuale consapevole e pianificatrice. Come ha sottolineato un’attenta studiosa italiana, la concezione hayekiana della ragione non è in sintonia con il liberalismo classico, che invece istituiva un nesso molto forte tra «libertà e ragione». Il filosofo austriaco, al contrario, opera una vera e propria «svalutazione delle facoltà razionali dell’essere umano» che contrasta con la fiducia nella ragione umana espressa dagli autori liberali6. In questa sua concezione Hayek mostra di fare propria la lezione della scuola austriaca, negando il nesso tra libertà e ragione e istituendo quello tra «ignoranza e libertà»: «il valore della libertà individuale, scrive il filosofo, poggia soprattutto sul riconoscimento dell’inevitabile ignoranza di tutti noi nei confronti di un gran numero di fattori da cui dipende la realizzazione dei nostri scopi e della nostra sicurezza. Se esistessero uomini onniscienti, se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore della libertà […]. La libertà è essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi. Siccome ogni individuo sa poco, e, in particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo»7. L’interprete da cui abbiamo tratto la lunga citazione di Hayek insiste molto, in buona compagnia di altri studiosi itaQuirico (2004), p. 92. Cfr. anche Forsith (1988), pp. 236-7. Cit. in Antiseri (1996²), p. 512. A p. 511 lo stesso autore sottolinea la non insignificante differenza tra Popper, che ha insistito sul fatto che siamo fallibili, e Hayek, per il quale oltre che fallibili siamo anche ignoranti. 6 7

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Introduzione



liani, sulla portata rivoluzionaria di questa concezione, la quale impedirebbe quegli abusi della ragione che sarebbero stati alla base di molti degli eventi totalitari accaduti nel XX secolo. In questa direzione si muove anche Nicola Matteucci, il quale distingue tra illuminismo francese (dominato da un’orgogliosa fede nella ragione umana) e illuminismo inglese, cui si ispira Hayek e che ritiene al contrario che la ragione è «limitata e imperfetta». Ma lo studioso italiano opera una precisazione che, suo malgrado, finisce col mettere in evidenza la profonda contraddizione all’interno del pensiero di Hayek. L’illuminismo inglese, cui si ispira il filosofo, proprio perché ritiene che la ragione è limitata e imperfetta, «guarda con umiltà e rispetto i processi storico-sociali»8. Lasciamo stare se questa affermazione corrisponde a verità per quanto concerne l’illuminismo inglese, che non rappresenta l’oggetto di questo studio, ma concentriamoci su Hayek. Ebbene, per quanto concerne il nostro autore possiamo tranquillamente affermare che ciò non corrisponde a verità. Infatti questi, dopo aver delineato la concezione di ragione di cui abbiamo detto, finisce col contraddirla clamorosamente in sede di pars construens. Il suo rifiuto delle trasformazioni sociali accadute nel Novecento lo conduce a proporre un rinnovato impianto costituzionale («demarchia», cfr. il cap. VII) che nega molti dei meccanismi realizzati dai «processi storico-sociali» della contempraneità e che, proprio per questo, ben lungi dal rappresentare i voleri o i risultati di un presunto ordine spontaneo, si caratterizza per una costruzione tutta interna alla mente di Hayek, il quale evidentemente finisce col ritenere la propria ragione individuale in possesso di quella conoscenza complessiva che da sola può elaborare un progetto consapevole di riforma globale della società9. Matteucci (2001), p. 155. In Italia questo aspetto è stato sottolineato recentemente da Pecora (2002). All’estero la letteratura critica su Hayek è molto più ampia e perspicua anche fra i liberali convinti e viene citata nel corso del libro, per cui ci limi8 9

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Insomma, per un autore che ha sottolineato anzitutto l’ignoranza di noi uomini, il suo appare un chiamarsi fuori abbastanza clamoroso. Tutti ignoranti tranne lui? Hayek e la libertà Il concetto di ragione fallibile, legato alla consapevolezza dell’ignoranza degli individui rispetto alla maggior parte delle questioni sociali, è alla base della teoria della libertà elaborata da Hayek. Libertà che del resto, sulla scia del liberalismo classico, si rivela come il più importante presupposto teoretico e scopo sociale cui si rivolge la speculazione del filosofo. Ogni sua riflessione, ogni critica, perfino le sue proposte più ardite ed elaborate sono dichiaratamente finalizzate a incrementare la libertà individuale, salvaguardandola dai rischi di forte limitazione della stessa che provengono dalle filosofie costruttiviste e collettiviste, come dalle politiche statalistiche o finalizzate alla giustizia sociale, cui si stava votando il controverso Novecento. Tutto ciò a partire già dalla sua prima opera politica, La via della schiavitù, concepita non tanto per analizzare e condannare il totalitarismo del comunismo sovietico e del nazismo tedesco (comunque bersagli implacabili di Hayek), quanto per mettere in guardia i governi dei paesi liberali dall’imitare quei modelli, abbandonando i precetti del liberalismo e adottando teorie e politiche pianificatrici, costruttivistiche e collettivistiche, con le quali le democrazie occidentali scadevano nel baratro del «governo illimitato». tiamo a fare riferimento, per questa contraddizione «costruttivista» all’interno della speculazione del filosofo, a Shearmur (1996), pp. 116-7 e a Bellamy (1992), pp. 222-3, il quale invece di ricorrere alla metafora della pars destruens e construens, preferisce scorgere una «tesi sociale» (anticostruttivista) e una «tesi filosofica» (marcatamente costruttivista e in contraddizione con la prima), la prima che circoscrive fortemente il ruolo della ragione nell’ambito della vita sociale e la seconda che presenta una sistematica difesa dell’ordine liberale fondato su basi razionali.

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In Italia non è mancato chi, ancora una volta in maniera acriticamente entusiastica, ha posto The Road to Serfdom fra le «pietre miliari» delle opere politiche del Novecento, esaltandone l’appassionata difesa della democrazia e delle sue possibili involuzioni10. L’ interprete italiano citato si guarda bene dal sottolineare la forte carica antidemocratica espressa dallo stesso Hayek nelle sue opere più tarde (quelle in cui alla pars destruens della critica ai regimi totalitari si aggiunge la pars construens della proposta di un nuovo impianto costituzionale per gli stati occidentali), laddove si ritrova a negare il principio «una testa un voto». Ma ancora di più colpisce il fatto che un fervente autore liberale, nell’esaltare la forte carica di difesa della democrazia contenuta in The Road to Serfdom, si incarichi di sorvolare tranquillamente sul fatto che l’Inghilterra in cui Hayek scriveva ancora in quegli anni (e fino al 1948) prevedeva il diritto a un secondo voto per i collegi universitari e per i centri d’affari, costituendo un vero e proprio residuo premoderno che contrasta non poco con l’immagine agiografica che viene fornita della nazione culla del liberalismo11. Non è certamente nostra intenzione istituire in questa sede un paragone tra il grado di democrazia dell’Inghilterra del 1944 e la Germania nazista o L’Urss di Stalin, ma tacere questi aspetti non giova certo alla conoscenza né alla comprensione di una storia comunque contraddittoria e complessa quale è stata quella occidentale (ammesso che se ne possa rintracciare una non segnata dal tarlo della contraddizione). Bene ha fatto Glucksmann, già alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, a notare come la «critica del totalitarismo», che ha consentito a molti autori, soprattutto americani, di fare i conti con Hitler e Stalin insieme, ha finito con «l’innocentizzare i regimi “non totalitari”» al punto di perdere di vista i legami di parentela (intellettuali e storici ma anche pratici e contemporanei) 10 11

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Cubeddu (1995), p. 97. Cfr. Taylor (1965), pp. 115-6 e Thorpe (1997), p. 114.

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che indubbiamente ci sono tra «i duri metodi di dominazione dell’Ovest e dell’Est». Hanno un bel da fare questi critici del totalitarismo, continua Glucksmann, a contrapporre al «terrore» delle rivoluzioni continentali la «gloriosa rivoluzione» inglese del 1688 o i fasti della libera America (in particolare il francese ce l’ha con Arendt e Talmon), mentre si dimenticano con molta più facilità che «la tecnica dei campi di concentramento è stata sistematizzata, all’inizio del secolo (XX), dalla liberale Inghilterra, quando i suoi generali dovettero reprimere la rivolta (bianca) delle colonie dell’Africa del Sud». «Mettendo un cappello texano in testa al suo ufficiale che, a cavallo della Bomba, scatena l’apocalisse, Stanley Kubrick (nel Dottor Stranamore) sembra avere avuto una percezione molto più netta delle genealogie reali. Piuttosto che cercare nella tradizione giacobina dell’Europa continentale l’unico esempio di violenza storica e culturale moderna, i teorici del totalitarismo avrebbero fatto meglio a buttare un occhio sui western delle loro dodici stazioni televisive […] Avrebbero potuto scoprire che dall’altra parte dell’Atlantico si comincia uccidendo tutti gli Indiani, oltre a buona parte dei vagabondi, dei banditi e delle ragazze di facili costumi. Per non parlare dei negri». Si tratta, conclude il ragionamento di Glucksmann, di due diverse versioni delle «origini della democrazia totalitaria», che possono condurre a pratiche analoghe sperimentate su ciò che resta degli Indiani, sui Vietnamiti, i Sud-Americani o gli abitanti di Dresda, d’Hiroshima o Nagasaki»12. Insomma, non soltanto vi sono state (e permangono ancora oggi, per molti versi) contraddizioni all’interno della teoria liberale e dei paesi occidentali che ad essa hanno ispirato la costruzione delle proprie società, ma queste contraddizioni hanno finito con l’assumere dimensioni ancora più macroscopiche e tragiche se spostiamo il punto di vista sul piano internazionale, accorgendoci come la libertà dei liberali è stata ben lungi dal valere per tutti e anzi è spesso servita per legittimare forme di 12

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Glucksmann (1977), pp. 369-71.

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Introduzione

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dominio, sfruttamento e schiavizzazione di intere civiltà esterne alla comunità dei bianchi. Questa visione più ampia della storia occidentale, disposta a una visione critica (e autocritica!) della libertà liberale, non viene assolutamente fatta propria né da Hayek né dai suoi più entusiasti celebratori (molto spesso italiani). Non solo, ma al palese rifiuto del filosofo a elaborare una teoria della libertà formale valida per tutti gli individui indistintamente, possiamo tranquillamente aggiungere un ulteriore strascico premoderno, ossia una visione della libertà che rimane chiusa nell’ambito di un’astrattezza non più sostenibile per le società complesse del XX secolo. Insomma, l’impianto della speculazione hayekiana è costruito per promuovere quel sistema che, notava già Aron parlando del liberalismo classico, donava le libertà «soltanto alle classi privilegiate», senza curarsi di concedere alle «masse popolari» quelle due forme di «libertà concreta» che consistono nel sentimento di ottenere un giusto posto e una equa retribuzione nell’ambito del lavoro e di avere una possibilità di promozione sociale13. «Nella nostra epoca», scrive Aron nel 1965, «la libertà implica un minimo di mobilità sociale» e l’individuo, nel suo lavoro, deve avere la percezione di essere trattato con equità, di non subire un’«autorità arbitraria» e di «ricevere una retribuzione commisurata ai suoi sforzi»14. Aron scrive nella stessa epoca di Hayek, ma è evidente che l’intendimento dei due studiosi rispetto a questo punto è assai diverso, visto che l’austriaco non si sogna neppure di sottoscrivere quanto affermato dall’autore francese, che è quanto, va precisato, applicato da tutti i governi occidentali liberali. 13 Aron (1965), p. 355. «In realtà le regole dell’ordine spontaneo (idealizzato da Hayek) circa, ad esempio, l’istituto della proprietà privata, sono le regole dei proprietari, non dei nullatenenti. In altri termini, alla determinazione delle regole dell’ordine spontaneo non tutti i soggetti concorrono in misura eguale: i soggetti socialmente (e contrattualmente) deboli, in particolare, vi partecipano in forme puramente passive», è scritto giustamente in Tedesco (2004), pp. 136-7. 14 Aron (1965), pp. 354.

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Hayek e lo stato Le garanzie ottenute dai cittadini degli stati occidentali sono state rese possibili da un notevole intervento dello stato anche nelle questioni più strettamente economiche. Si possono analizzare nello specifico le diverse sfumature di tale intervento, con modalità e tempi difformi da paese a paese, ma è fuori di dubbio che ciò è avvenuto anche con il benestare, o al più si è trattato di una ragionevole rassegnazione, dei teorici liberali. Hayek si è schierato fin dall’inizio con quegli autori liberali, o se si preferisce liberisti, che hanno rifiutato tale esito e che sono rimasti in netta minoranza (e comunque inascoltati dai governi occidentali) almeno fino alla metà degli anni settanta del secolo scorso. Anche se, va detto senza mezzi termini che Hayek non può essere rubricato acriticamente nella schiera dei liberisti. Le sue posizioni, infatti, non sono assimilabili a quelle del primo Nozick o della scuola anarco-capitalista americana, tendenti a evitare sempre e comunque l’intervento governativo. Egli è favorevole a un intervento dello stato volto a garantire una «rete di protezione» per i poveri, cioè per coloro che non sono in grado di sopravvivere all’interno del meccanismo concorrenziale imposto dal mercato (handicappati, malati fisici e mentali, vecchi, vedove e orfani etc.), purché ciò avvenga fuori dal mercato stesso e con modalità che siano compatibili con un ordine economico e sociale liberale e non servano a insidiarlo15. Ma proprio questa sua posizione, apparentemente mediana fra i liberisti a tutto tondo e gli interventisti, lo espone a contraddizioni rimaste irrisolte. Il risultato è che da una parte i liberisti come Rothbard criticano Hayek ritenendo che la sua teoria dell’ordine spontaneo non potesse che condurlo a una posizione statalista (se Hayek è un teorico dell’ordine spontaneo e se le società umane sono il prodotto del medesimo ordine, sostiene Rothbard, è difficile negare che anche lo stato non ne costi15

Shearmur (1996), p. 63; Matteucci (2001), p. 188; Petroni (1992), pp.

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tuisca un risultato, quindi diventa oltremodo arduo negarlo o anche solo limitarne fortemente l’intervento, senza incorrere in una forma di costruttivismo che contraddirebbe il fondamento stesso della teoria hayekiana); dall’altra parte, comunque, la rigida visione di uno stato che dovrebbe intervenire soltanto al di fuori dell’ordine di mercato (sostituendosi di fatto alle libere associazioni filantropiche in vigore nell’Inghilterra dell’Ottocento), lasciando gli individui che non rientrano nelle suddette categorie svantaggiate a-priori in balia della libera concorrenza, appare anacronistica e soprattutto lo espone a critiche tutt’altro che insensate. Questo soprattutto in virtù del fatto che Hayek, negando il moderno concetto «meritocratico» su cui si basano (o dovrebbero basarsi) le società liberali, finisce di fatto col promuovere una concorrenza viziata in origine da posizioni favorite in partenza. I figli di famiglie ricche e colte, ma anche coloro che beneficiano di eredità o che hanno la fortuna di nascere in ambienti privilegiati, senza un opportuno intervento dello stato volto ad assicurare una quanto più possibile uniformazione delle condizioni di partenza, saranno comunque favoriti in partenza in quello che Hayek chiama il gioco catallattico. I governi che ai giorni nostri intervengono, per esempio, per finanziare le intraprese di giovani imprenditori che magari provengono da famiglie umili, sarebbero stati criticati da Hayek e accusati di interferire nell’ambito del mercato. Alla stessa maniera dei liberali ottocenteschi che criticavano l’istituto della scuola pubblica perché permetteva anche ai figli delle famiglie più umili di poter concorrere per i posti nella pubblica amministrazione, o perché semplicemente li metteva in condizione di innalzare la propria posizione sociale di partenza. Se anche si prendesse per buono, in sede teorica, l’ordine sociale di Hayek fondato sul mercato e in cui questi tipi di interventi statali fossero negati, sottolinea giustamente un interprete dei giorni nostri, ciò non implicherebbe che tale ordine venisse accettato anche dai cittadini, consapevoli a quel punto che non vi sarebbe alcuna relazione assodata tra i riconoscimenti offerti

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da quel tipo di società e il merito individuale. Invece, quegli stessi cittadini, sarebbero ben informati sul fatto che i mercati e i loro ordini legali possono generale molteplici situazioni assai dure nei confronti di individui specifici, per cui non si capisce perché mai questi stessi cittadini non dovrebbero prediligere un ordine sociale in cui l’autorità politica democraticamente eletta (e democraticamente sostituibile) interviene per evitare ingiustizie e posizioni privilegiate in partenza16. Ciò, di fatto e a prescindere dalle modalità criticabili da molteplici punti di vista, è quanto accaduto nei nostri stati occidentali moderni, che hanno visto i governi e la dimensione politica intervenire ben dentro la sfera economica. Tutto ciò costituisce quanto di più radicalmente criticato da Hayek, non senza le contraddizioni cui abbiamo accennato (e che approfondiremo nei capitoli seguenti) e non senza difficoltà concettuali irrisolte alimentate da chi continua a scrivere tranquillamente, e senza distinzioni di sorta che aiutino a comprendere, che il vero liberale, a differenza di quello falso, «è liberista»17.

Hayek e la religione Hayek non si è occupato di religione né vi ha fatto accenno se non in parti assai marginali, e in contesti secondari, della sua vastissima opera. Non vi sarebbe quindi alcun bisogno di affrontare l’argomento (e infatti ci limitiamo a farlo in questa introduzione, volta a mettere in luce le contraddizioni anche di una certa letteratura critica), se non fosse che alcuni autori hanno ritenuto di vedere dei punti di convergenza e persino di reciproca utilità tra il pensiero di Hayek e la religione (in specie quella cattolica)18. Shearmur (1996), p. 213. Antiseri (1998), p. 11. 18 Il primo ad aver formulato in maniera compiuta questa tesi, almeno in tempi recenti, è Garello (1995). 16 17

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Il cattolico liberale Antiseri, in particolare, dopo aver sottolineato l’«innocenza» sempre e comunque del mercato (semmai sono gli individui a utilizzare in maniera immorale il mercato, per esempio vendendo droga, ma le sue logiche sono innocenti in quanto impersonali), ribadisce come una società basata sul libero mercato non esclude assolutamente la «solidarietà» e quindi, per deduzione, tutte quelle istituzioni (come la chiesa, ma anche uno stato che rimanga fuori dalla sfera dell’economia) che, rigorosamente fuori dal mercato, prevedono interventi volti ad assicurare carità e sostentamento ai meno fortunati. In questo senso, conclude Antiseri, il vero liberale «non è anticlericale» e anzi rifiuta quelle forme di anticlericalismo militante che provengono specialmente dalla Rivoluzione francese19. Ora, non è certamente questa la sede per valutare la convergenza o anche solo la serena compatibilità fra il liberalismo e la religione (cattolica), per quanto la storia ci insegni che proprio al liberalismo (e non solo) dobbiamo quella laicizzazione (incompiuta) dei nostri stati cui la chiesa si è opposta con tutte le forze fino a che ne ha avuta la forza; e per quanto, ancora oggi, permangano dei forti dubbi di compatibilità fra una rigorosa libertà dell’individuo (anche all’eutanasia, per esempio) e i dogmi di una chiesa che pretende di regolare la vita civile, e quindi le leggi, degli uomini (anche non credenti e non religiosi) sulla base di precetti derivati dalla trascendenza. Hayek si esprime certamente in termini contrari all’anticlericalismo, ma da qui a vedere una convergenza non problematica tra il suo pensiero e la religione crediamo ce ne corra. Basti un esempio per tutti: da San Tommaso d’Aquino in poi i grandi teologi e uomini di chiesa non hanno negato una possibilità di 19 Antiseri (1998), p. 17. Un altro autore italiano, composta una monografia su «Il liberalismo, Dio e il mercato», sottolinea le uniche due frasi in cui Hayek si occupa della questione per biasimare il «liberalismo continentale», troppo spesso antagonista di tutte le religioni e in particolar modo di quelle organizzate, e per ribadire la propria contrarietà all’«anticlericalismo militante» che ha animato tanta parte del «liberalismo continentale del XIX secolo», cfr. Baldini (2001), p. 134.

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dialogo e di collaborazione tra la ragione e la fede. Ma il problema si presenta quando riflettiamo su quale tipo di ragione. Allora vediamo che la ragione di Hayek, fallibile, «ignorante», strettamente limitata dalle condizioni di tempo e di luogo (quindi assai relativa, nel senso di incapace di assolutezza se non al prezzo di grandi guai), mal si concilia con una dottrina che, citiamo dall’enciclica Fides et ratio, dichiara che «ogni verità, anche parziale, se è realmente verità, si presenta come universale», poiché l’uomo sente il bisogno di «ancorare la propria esistenza a una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio»20. Probabilmente sarebbe auspicabile maggiore accortezza, per non dire dell’occorrenza di spiegazioni ben più approfondite e articolate, da parte di alcuni apologeti della piena sintonia tra liberalismo e religione e, soprattutto, tra cattolicesimo e pensiero di Hayek nella fattispecie.

I due liberalismi e la grande contraddizione di un Hayek «falso liberale» e «antimoderno» Abbiamo detto che mentre il liberalismo del Settecento e dell’Ottocento è caratterizzato in buona parte da autori all’interno del cui pensiero convivono contraddizioni (fondamentalmente una teoria della libertà da cui sono escluse tutta una serie di categorie umane), quello del Novecento si caratterizza per una biforcazione più marcata: da una parte autori legati agli assunti dell’old liberalism e dall’altra autori che hanno fatte proprie molte istanze portate avanti dalla tradizione democratica e socialista. A tal proposito si può parlare di due liberalismi, che non convivono più all’interno dei medesimi pensatori ma che hanno preso strade differenti. 20 Giovanni Paolo II (1998), § 27, pp. 43-4. Più avanti, § 92 pp. 135-6, l’enciclica Fides et ratio dichiara che anche per la filosofia, oltre che per la teologia, si impone oggi il compito di «conoscere ed esprimere la verità», una verità «universalmente valida».

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Introduzione

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Premesso ciò, siamo d’accordo con chi vede il «motivo individualistico» quale elemento che accomuna i due liberalismi, motivo secondo il quale «ciascuno è il miglior giudice del proprio interesse e non è lecito ad alcuna Autorità indirizzare questo interesse in un senso o nell’altro». La vita è un’eterna lotta, una gara costante, e l’importante è che vi siano le condizioni perché questa gara si svolga: «Nel vecchio liberalismo c’è l’esigenza di rimuovere ostacoli di ordine politico-statuale, nel nuovo quella di rimuovere ostacoli sorgenti all’interno della stessa vita economica, come i monopoli privati, allo scopo di raggiungere l’eguaglianza delle opportunità»21. Ed è proprio sul fronte dell’individualismo, strenuamente difeso e promosso da Hayek, che si rivela la più paradossale e considerevole contraddizione nel pensiero del filosofo. Il rifiuto del suffragio universale e l’impedimento che egli pone all’attività politica di tutta una serie di fasce sociali, ma soprattutto la forte limitazione del consapevole intervento degli individui per riformare la società in cui vivono, a favore di un ordine spontaneo che regolerebbe l’esistenza in società degli uomini secondo dinamiche che essi il più delle volte ignorano del tutto o quasi, costituisce una vera e propria «distruzione» dell’individuo in quanto soggetto, ancora più incredibile e sbalorditiva in un autore che ha fatto dell’individualismo il manifesto della propria speculazione, basandosi su contrapposizioni nette e manichee tra individualismo e olismo (o collettivismo)22. L’individuo di Hayek vede la propria ragione fortemente umiliata e circoscritta e, come se questo non bastasse, si trova Valentini (1995), pp. 264-5. Da questo punto di vista pesano come macigni le frasi che troviamo in Touraine (1992), pp. 328 e 338: «la società moderna non ha affatto accettato l’individualismo come valido per la maggior parte delle persone […] l’individualismo fondato sulla razionalità economica è soprattutto associato a un ottimismo da cui noi siamo sommamente lontani al giorno d’oggi». Il sociologo francese conclude affermando che «la società moderna non è né olista né individualista, essa consiste piuttosto in una rete (réseau) di rapporti di produzione e di potere» (p. 337). 21 22

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quasi del tutto cancellata la propria identità sociale, l’agire sociale consapevolmente e razionalmente volto al miglioramento delle proprie condizioni e alla ricerca di una ragionevole felicità terrena, subordinato com’è a meccanismi (endogeni ed esogeni alla propria ragione) che lo muovono alla stregua di una pedina inconsapevole 23. Ammesso e non concesso che Hayek faccia salva la qualità di «soggetto» attivo del singolo individuo almeno nell’agire economico, è fuor di dubbio che si impegna oltremodo per annullare quanto più possibile (almeno per larghe fasce sociali) l’agire politicamente e socialmente consapevole e razionale. La stessa proposta costituzionale di Hayek, che egli chiama demarchia (cfr. cap. VII), prima ancora di essere fondata sul rifiuto del suffragio universale, consiste in un sistema bloccato in cui si vota ogni quindici anni e in cui le cariche che contano sono riservate a una ristretta fascia di figure sociali. Cioè un sistema, di fatto, in cui la facoltà e l’attività politico-sociale degli individui è ridotta all’osso. E, se è vero che «la storia della modernità coincide con la duplice affermazione della ragione e del Soggetto»24 inteso come operante nel sociale e con il sociale, allora prima ancora di un Hayek liberale, conservatore o reazionario, dobbiamo prendere atto di un pensatore che, col suo netto rifiuto di molte delle conquiste avvenute nel Novecento, e in particolar modo con il suo umiliare le facoltà (razionali, pratiche e sociali) dell’individuo, si qualifica da solo se non come «falso liberale»25, di sicuro come «antimoderno».

23 «Una concezione “liberale” dello sviluppo, scrive sempre Touraine, ibid., p. 337, è fondata su una concezione del soggetto del tutto opposta a quella di un individualismo che si rappresenta l’uomo come un essere non sociale». 24 Ibid., p. 477. 25 A inserire Hayek tra i «falsi liberali» è Freeden (1996), Parte seconda, cap. VII-5, il quale, tra le altre argomentazioni, motiva tale affermazione analizzando l’«anomalo» e contraddittorio individualismo espresso dal filosofo.

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Avvertenza

Nel corso di questo capitolo introduttivo, così come in quelli successivi, si è usato il termine «liberale» (liberalismo, etc.) nel significato classico che esso ricopre in Europa, ben lontano dal termine liberal in voga negli Stati Uniti e che, secondo lo stesso Hayek, designa «aspirazioni di natura essenzialmente socialista».

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I.

L’epistemologia di Hayek. «Ignoranza» dei liberi versus ragione dei presuntuosi

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uò l’«ignoranza», in quanto condizione fondante e imprescindibile per l’uomo, costituire un elemento centrale ai fini della comprensione del mondo umano e della costituzione di una società libera? La domanda potrebbe sembrare paradossale o, al limite, provocatoria. Nel caso del filosofo austriaco Hayek non ci troviamo di fronte ad alcuna di queste due possibilità. L’ignoranza, come condizione esistenziale di tutti gli individui, legata alla capacità degli stessi di riconoscersi come ignoranti rispetto alla maggior parte delle questioni che riguardano la loro esistenza, è alla base di ogni buona società1. A tal proposito, quindi, non soltanto Hayek ammette che «la massima di Socrate», secondo la quale il riconoscimento della nostra ignoranza è il principio della saggezza, «ha un significato profondo per capire la nostra società», ma arriva ad affermare che la civiltà stessa «ha inizio quando l’individuo, nel perseguire i suoi fini, può utilizzare più conoscenze di quanto non abbia lui stesso acquisite, e quando, approfittando di una conoscenza che lui stesso non possiede, può uscire dai confini della sua ignoranza»2. Anche il grande amico e collega di Hayek, Karl Popper, fonda la propria speculazione sulla dimensione inevitabilmente La stessa concezione di ragione, che, se propriamente usata, è anzitutto quella «capace di riconoscere i propri limiti», costituisce un presupposto fondamentale per capire il pensiero dell’autore. Cfr. Hayek (1988), p. 8. 2 Hayek (1960), p. 22. Poco più avanti (p. 29) l’autore sostiene che la nostra «necessaria ignoranza» rispetto a tante cose ci fa capire che abbiamo a che fare prevalentemente con probabilità e casi fortuiti. 1

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fallibile dell’uomo e, così facendo, sembra procedere persino oltre su questa medesima strada. Proprio perché l’ignoranza è una dimensione fondante e coessenziale dell’uomo, ogni teoria e azione portata avanti da questi contiene i semi dell’errore che teorie e azioni future avranno il compito di portare alla luce, rendendo possibile un miglioramento graduale che non giungerà mai alla perfezione. Infatti, Popper dapprima chiarisce che per «fallibilismo» intende «l’accettazione del fatto che noi possiamo errare» e che la ricerca della verità certa (certainty), o anche soltanto di un’alta probabilità (high probability), è una ricerca erronea, quindi precisa che, comunque, ciò non implica che all’uomo sia preclusa un’indagine che debba fare a meno di un ideale regolativo di verità. Tanto è vero che la stessa idea di errore implica un concetto di verità come standard rispetto al quale rimaniamo sempre sotto. Con ciò Popper vuole dire che sebbene noi possiamo indagare la verità, anche con qualche ragionevole possibilità di trovarla, tuttavia «non possiamo mai essere certi di averla trovata», poiché «c’è sempre una possibilità di errore». Ma non bisogna al relativismo, poiché «ogni scoperta di un errore costituisce un reale avanzamento verso la conoscenza». Quindi noi dobbiamo «imparare dai nostri errori», anzi dobbiamo addirittura «andare alla ricerca dei nostri errori (we must search for our mistakes)», cosa che, in altre parole, vuol dire che «dobbiamo tentare di criticare (criticize) le nostre teorie»3. In questo modo possiamo rivoltare a nostro favore e persino rendere produttiva la natura limitata e fallibile che ci caratterizza, non rimuovenPopper (1945), v. II, pp. 375-6, ma anche (1983), p. 351. Un concetto simile è stato espresso anche da J. S. Mill (1859), pp. 229-30: «Sfortunatamente per il buon senso degli uomini, il dato della loro fallibilità è ben lungi dall’assumere all’atto pratico il peso che gli viene sempre riconosciuto in teoria. Infatti sebbene ciascuno sappia bene di essere fallibile (fallible), pochi ritengono necessario prendere qualche precauzione contro la propria fallibilità, oppure ammettere l’ipotesi che una qualsiasi opinione di cui si ritengono certi, possa costituire un esempio dell’errore cui loro stessi ammettono di essere esposti (liable)». 3

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dola o rifiutandola, ma andando consapevolmente alla ricerca dei tanti errori cui essa ci espone in modo da non commetterli più e porre le basi per un nostro innalzamento nella scala della conoscenza. Anche Hayek insiste sulla limitatezza e fallibilità intrinseca della nostra capacità conoscitiva e della condizione esistenziale dell’uomo in genere, e anche lui, come Popper (con le dovute differenze), elabora una speculazione (epistemologica quanto sociale) che ci faccia ottimizzare al massimo tale condizione, trovando in essa dei veri e propri punti di forza per l’evoluzione degli individui e della società nel suo insieme. Vediamo infatti che anche per Hayek uscire dai confini dell’ignoranza, cercare di acquisire la «conoscenza», lo si deve intendere alla stregua di un ideale regolativo, poiché mai raggiungibile nella sua completezza. All’uomo è preclusa la conoscenza tout court (anche perché non esiste in quanto entità «astratta», ma è dispersa fra tutti gli individui), egli può soltanto progredire gradualmente, certamente attraverso il proprio intelletto, che però è un «sistema che nel tentativo di adattarsi all’ambiente circostante cambia di continuo»4. Ciò perché l’intelletto fa parte della natura come tutte le cose, non è una sorta di entità esterna che, in quanto indipendente dall’evoluzione naturale, è in grado di conoscerla nel suo insieme così da poter pianificare a piacimento tutto ciò che in essa vi è contenuto. In particolare, per Hayek, ciò non è vero in rapporto alla civiltà: «L’idea di un uomo che deliberatamente costruisce la sua civiltà deriva da un falso intellettualismo che considera la ragione umana come qualcosa al di fuori della natura e provvista di una capacità intellettiva e razionale indipendente dall’esperienza. Ma lo sviluppo della mente umana è parte dello sviluppo della società; e lo stato della civiltà in qualsiasi momento determina la portata e le possibilità di fini e valori umani»5. 4 5

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Hayek (1960), p. 23. Ibid., p. 24.

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A questo punto è importante rilevare non soltanto come Hayek si sforza di rivalutare, ai fini della costituzione di una società, un elemento indubbiamente desueto quale è l’ignoranza degli uomini, ma anche come, attraverso ciò, ci delinea la sua concezione della ragione umana (e delle possibilità e modalità di conoscenza della stessa) e l’importanza imprescindibile che essa assume nel legame stretto che intrattiene con l’edificazione di una società libera. Non è il caso qui di ripercorrere tutta la complessa evoluzione degli studi di Hayek rispetto alla mente e alla teoria della conoscenza. Basti ricordare che l’azione umana, l’agire economico, politico e sociale, si fondano appunto su una teoria della conoscenza che l’autore austriaco ha articolatamente delineato in tutta una serie di saggi composti tra il 1933 e il 19456 e, nello specifico del discorso che qui ci interessa, nel volume The Sensory Order, pubblicato soltanto nel 1952 ma la cui ideazione ed elaborazione risalgono agli anni venti. In questa opera, partendo da un’analisi di psicologia teoretica e di neurobiologia, Hayek tenta di dimostrare come più che su una «ragione» (reason) astratta che apparterrebbe agli uomini, almeno potenzialmente, in egual misura e che, se ben condotta, assicurerebbe una conoscenza certa, in realtà le possibilità di conoscenza umana sono fondate su una «mente» (mind) fisica, fornita appunto di «schemi mentali o regole» estremamente soggettivi (perché diversi, come diverso è ognuno di noi rispetto a un altro e diversa è la mano destra di un soggetto A rispetto alla stessa mano di un soggetto B) e, soprattutto, meta-coscienti rispetto alla ragione stessa, che quindi non li conosce e non ne è cosciente. Questa mente, diversa in ognuno, attraverso caratteristiche tipicamente soggettive, nell’economia della conoscenza umana svolge il ruolo di percepire e catalogare i «dati» che provengono dall’esterno. Questi dati, quindi, non solo vengono percepiti in maniera soggettiva da ogni individuo, ma esercitano anche degli stimoli fisici esterni che provocano delle «reazioni spon6

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Cfr., in particolare, Hayek (1937; 1942-44; 1945).

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tanee» interne le quali, evidentemente e conseguentemente, variano da individuo a individuo7. Per comprendere meglio questo argomento, può essere utile fare riferimento all’ultima opera di Hayek, The Fatal Conceit, in cui viene introdotto il concetto di «spirito» per definire gli schemi mentali astratti di cui è fornita la mente e che fungono alla stregua di «categorie» a priori per la comprensione e la catalogazione della realtà esterna (oltre che per l’azione). Scrive infatti Hayek: «Ciò che intendiamo per spirito non è un qualcosa di cui, alla stregua del cervello (brain), verrebbe fornito l’individuo al momento della nascita, o che il cervello stesso produrrebbe; è piuttosto un qualcosa che il suo bagaglio genetico (per esempio un cervello di specifiche dimensioni e struttura) gli consente, nel corso della crescita, di ricevere dalla sua famiglia e da altri uomini adulti, attraverso l’incameramento (embodied) dei risultati di una tradizione che non è trasmessa geneticamente»8. Da ciò si evince come questi schemi mentali astratti o categorie, di cui è composto lo spirito, pur costituendo senz’altro un a priori, non sono in realtà soltanto il frutto di disposizioni trascendentali, innate o genetiche (e quindi immodificabili, alla stregua di regole valide per sempre (qui si scorge un punto di notevole distacco rispetto alle «categorie» kantiane). Ciò che al singolo individuo viene dato, al momento della nascita, è un cervello con caratteristiche fisiche e neurobiologiche precipue e quindi soggettive. Questo cervello è dotato di uno «spirito» fornito di schemi mentali astratti (di categorie, o regole) che gli rendono possibile una certa conoscenza attraverso la percezione (e catalogazione) dei dati esterni con cui entra in contatto. Questi schemi mentali (o mappa neuronale), attraverso i quali è possibile l’interpretazione (soggettiva) dei dati esterni, possono essere spiegati da una parte come innati, in quanto contenitori 7 Hayek (1952), passim e p. 89 per lo specifico dell’interazione fra dati esterni ed elaborazione interna da parte degli individui. 8 Hayek (1988), p. 22.

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di tradizioni e norme sociali affermatesi per via evolutiva, ma dall’altra parte devono essere intesi come in evoluzione continua, attraverso le modifiche che essi stessi subiscono in base alle nuove esperienze che ciascuno compie nel proprio percorso vitale9. È bene tenere presente, perché in ciò risiede uno dei fattori di limitatezza della conoscenza umana, che questi «dati» esterni non sono quindi oggettivi, ma vengono percepiti (e interpretati) in maniera difforme dai singoli individui proprio in virtù delle specifiche disposizioni della mente di ciascuno (gli schemi mentali differiscono da soggetto a soggetto, né più e né meno di come avviene con le disposizioni genetiche), e del percorso temporale ed esistenziale con cui questo ciascuno viene in contatto con gli oggetti della realtà esterna. Questa conoscenza basilare può salire di grado attraverso la famiglia e le altre persone più adulte e/o esperte (ciò è reso possibile dalla facoltà che questo individuo possiede dell’«imitazione», forse la più importante secondo Hayek10), che lo rendono partecipe di una tradizione di saperi che si è costituita per via evolutiva (e che non smette mai di evolversi)11. Ma non solo questa conoscenza è comunque parziale (perché limitata al dato specifico con cui l’individuo è entrato in contatto: per esempio l’arte di usare lo scalpello), è 9 Cfr. Hayek (1952), p. 16, ma anche, per un’analisi più ampia e dettagliata, Birner – van Zijp (1994), pp. 8-9. 10 Hayek (1988), p. 21. Dell’importanza della tradizione, in un ambito come quello della società liberale in cui la conoscenza viene conseguita attraverso un processo di imitazione che non può essere messo per iscritto e riassunto in poche parole, parla anche Minogue (1963), p. 62. 11 Hodgson (1993), p. 175, ha rilevato in ciò una contraddizione nell’epistemologia di Hayek, la quale oscillerebbe tra l’affermazione di una conoscenza che nasce nell’individuo e una conoscenza collettiva che aprioristicamente costituirebbe il terreno imprescindibile per la stessa conoscenza individuale. Non riteniamo di essere d’accordo su questo punto, o almeno, più che di contraddizione, nel ristretto ambito epistemologico pensiamo si tratti di compresenza di fattori individuali e collettivi nella formazione della conoscenza umana. La qual cosa, semmai, può provocare problemi rispetto al radicale individualismo metodologico di cui lo stesso austriaco si farà promotore in sede sociale e politica. Questa è anche l’idea di Vanberg (1986).

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anche fallibile (perché comunque inserita in un contesto evolutivo aperto a nuove conoscenze e miglioramenti della tecnica dell’uso dello scalpello, per rimanere all’esempio) e, soprattutto, per buona parte inconsapevole, «non cosciente». Le regole, o schemi mentali astratti presenti in forma aprioristica (o, kantianamente, categoriale, visto che Hayek apprezza l’eredità del filosofo tedesco pur distaccandosene) nella mente dell’individuo, pur regolando e rendendo possibile la sua conoscenza, non albergano nella dimensione cosciente dell’individuo stesso e neppure in quella freudiana sub-cosciente, ma in una dimensione super-cosciente troppo elevata perché la coscienza possa arrivare a impadronirsene completamente12. Per chiarire questo ultimo concetto, ci si può rifare a uno degli esempi preferiti da von Hayek, quello del linguaggio. Esso rappresenta l’archetipo di una conoscenza (comunque limitata e fallibile) che l’uomo acquisisce per via evolutiva e imitativa, ma senza divenire consapevole di tutte le regole e le modalità (che sono innumerevoli e quindi impossibili da contenere per una mente sola). Il linguaggio, così come la conoscenza in genere, è per il pensatore austriaco il prodotto dell’interazione di tutti gli uomini, che quindi si evolve spontaneamente (senza una pianificazione prestabilita da parte di qualcuno) e che è impossibile da conoscersi in tutti i suoi aspetti da parte di un solo individuo o anche di un’entità collettiva. Inoltre, ogni individuo solitamente riesce ad accorgersi immediatamente di un errore di sintassi, perché comunque egli possiede questa forma di conoscenza, ma neanche se fosse il più grande dei linguisti sarebbe in grado di ricostruire tutte le regole e i procedimenti attraverso i quali egli ha riconosciuto l’errore, proprio perché, come detto, si tratta di un tipo di conoscenza che per buona parte rimane a uno stato super-cosciente13. Hayek (1969), p. 319: «Questi processi non sono “sub-coscienti”, ma “supercoscienti”. Essi regolano i processi coscienti senza manifestarsi al loro livello». Cfr. anche Caldwell (2004), pp. 337-9. 13 «Tutte le nostre abilità (skills), dal controllo del linguaggio alla padronanza delle attività manuali o dei giochi, azioni che noi sappiamo-come 12

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Grazie all’esempio del linguaggio possiamo chiarire meglio altri due aspetti dell’ epistemologia di Hayek. Intanto possiamo dedurre che la conoscenza, ben lungi dall’essere un’entità unica per tutti gli uomini e da essi raggiungibile a patto di una buona conduzione dell’intelletto, è «dispersa» fra i dati a disposizione di ogni singolo individuo nell’arco di un tempo e di uno spazio ben limitati; in secondo luogo, da questo primo aspetto possiamo evincere una caratteristica fondamentale nell’opera di Hayek, cioè la convivenza, su piani non sempre chiaramente distinti, di due nozioni di conoscenza: «La prima è la “conoscenza informazionale” (o più semplicemente informazione), consistente in un insieme mutevole di “dati”, la quale è dispersa in piccole quote fra gli agenti e non può essere contenuta, data la sua vastità, in una singola mente-stato. La seconda è la “conoscenza”, intesa come una generale capacità di scoprire opportunità, la cui peculiarità non consiste nell’accumulare dati al fine di ridurre il gap informazionale, ma nel saperli rielaborare, aggregare e utilizzare proficuamente. La prima è una nozione sostanzialmente computazionale, nonostante sia descrivibile in termini di flusso; la seconda, al contrario, non può essere compresa in tali ambiti poiché, dinamicamente, rappresenta un potere della mente, una capacità astratta, uno strumento operativo che non può essere calcolato e misurato, proprio perché la sua caratteristica principale consiste tendenzialmente nel trasformare a ogni istante del tempo i dati preesistenti»14. La differente gamma di significati espressa dai termini information e knowledge è esplicitata dallo stesso Hayek, non senza (know-how) compiere senza essere in grado di stabilire come facciamo, costituiscono un valido esempio di ciò», Hayek (1978), p. 7 e Id. (1967), cap. 3, «Rules, Perception and Intellegibility». 14 S. Tagliagambe, Von Hayek e l’evoluzionismo: un approccio metodologico, in Clerico-Rizzello (2000), vol. I, pp. 16-7. Lo stesso autore ricorda come anche Böhm (1994), p. 160, ritiene che «von Hayek’s notion of knowledge… cannot be subsumed within “information”», mentre Gray (1984), p. 37, descrive la «conoscenza» di cui parla von Hayek come un qualcosa «embodied in skills and habits, wich change as society changes and wich are rarely expressible in theoretical or technical terms».

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qualche elemento di imbarazzo per non aver delineato con chiarezza, fino a quel momento, i rispettivi ambiti di competenza: «Anche “informazione” è spesso preferibile dove normalmente parlavo di “conoscenza”, poiché il primo termine si riferisce chiaramente alla conoscenza di fatti particolari piuttosto che alla conoscenza teorica, alla quale il semplice termine di “conoscenza” potrebbe venire inteso riferirsi»15. Emerge ora chiaramente come i «dati» esterni di cui abbiamo prima parlato (dati che ormai possiamo definire anche «informazioni»), costituiscono il materiale a disposizione di ogni mente umana affinché essa, attraverso la percezione, la catalogazione e la relazione di classi di stimoli con classi di risposte, possa «interpretare» il materiale stesso e formarsi una propria «conoscenza». Ma sia le percezioni e la catalogazione, sia l’atto interpretativo (attuato attraverso gli schemi mentali astratti presenti nello spirito in forma aprioristica), sia i dati esterni risultano comunque tutt’altro che oggettivi, in quanto strettamente dipendenti dalla struttura genetica del soggetto conoscente, dalla differente mappa neuronale e dalle singole esperienze da questo precedentemente vissute. L’imprevedibilità dell’agire umano, e quindi l’impossibilità di conoscere il comportamento degli uomini in qualche forma di completezza, deriva proprio dai meccanismi arbitrari ed estremamente soggettivi legati al fenomeno percettivo ed esperienziale di ogni individuo. Non soltanto ognuno di noi è geneticamente diverso, non soltanto ognuno di noi, anche in virtù di questa diversità, percepisce i medesimi dati esterni interpretandoli in maniera diversa, ma ognuno di noi vive anche delle esperienze uniche e irriducibili che formano una struttura (framework) neuronale altrettanto unica, che porterà il soggetto a elaborare i dati percepiti in maniera assolutamente soggettiva e, quindi, a decidere di agire in maniera tanto soggettiva quanto impredicibile da parte di un’altra persona16. Hayek (1986), p. 368. La neurobiologia sta oggi dimostrando sul piano empirico quanto Hayek aveva elaborato negli anni venti (e pubblicato nel 1952) in sede di 15 16

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Ecco perché la conoscenza, descritta da Hayek come «un’azione continua di aggiustamento dei dati percepiti che non collimano con le precedenti esperienze», può essere delineata alla maniera di un processo continuo di acquisizione che è path-dependent (dipendente dal percorso fino a quel momento intrapreso dal soggetto), poiché tale processo «è condizionato dalla storia, dalle caratteristiche genetiche e soprattutto dall’esperienza, cosciente e meta-cosciente, che ogni individuo ha acquisito e continua ad acquisire. Ogni singola percezione dei dati esterni dipende dalle caratteristiche soggettive, che derivano a loro volta da originali percorsi di interpretazione»17. A questo punto si può intendere il senso della celebre metafora di Hayek, che paragona la mente umana al capitano di una nave il quale, ben lungi dal riuscire a tenere sotto controllo tutte le problematiche legate alla navigazione, decide di dirigere la propria attenzione soltanto verso quegli aspetti desueti e difformi dalla norma che i suoi marinai gli sottopongono. È a quel punto che il capitano/mente, anche attraverso il richiamo delle esperienze passate, utilizza le sue disposizioni per «aggiustare» il difforme dalla norma18. Per concludere su questo aspetto, se da una parte noi escludiamo che gli schemi mentali astratti che costituiscono lo spirito siano il mero frutto di una trasmissione genetica (così ritiene la sociobiologia), mentre dall’altra escludiamo l’errore contrario (the fatal conceit, nel linguaggio di von Hayek), che consiste nel pensare che essi vengano prodotti dall’esercizio della ragione, possiamo cogliere appieno il significato della conoscenza appresa attraverso la facoltà dell’«imitazione». Né una struttura genetica aprioristicamente programmata (che dà luogo all’istinto), né l’esercizio della ragione posseggono per il pensatore psicologica teoretica. Cfr. S. Rizzello, Von Hayek e la conoscenza come processo path-dependent, in Clerico-Rizzello (2000), vol. I, cap. 4 (in part. 4.3) e Damasio (1995). 17 S. Rizzello, Von Hayek e la conoscenza come processo path-dependent, in Clerico-Rizzello (2000), vol. I, pp. 98-9. 18 Hayek (1952), p. 95.

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austriaco lo stesso potere della facoltà imitativa, che apprende i saperi tradizionali affermatisi durante il processo evolutivo. Un potere che consiste nel rendere accessibile agli individui un sapere che comunque li supera (perché è «metacosciente»), in quanto incorporato (embodied) nell’ambito di una tradizione in continua evoluzione e troppo ampia per essere riducibile ad alcuna coscienza (e conoscenza) individuale. In questo senso von Hayek può scrivere che la tradizione, appresa per imitazione, si situa «fra l’istinto e la ragione»19. Lasciando da parte la tradizione sociobiologica che in questa sede non ci riguarda, concentriamoci invece sulla presunzione fatale di cui si rendono colpevoli i fautori della ragione (riferendosi a questi von Hayek parla di «razionalismo costruttivistico»). Innanzitutto, rimanendo ancora su un piano squisitamente teorico, occorre subito evidenziare come se da una parte l’errore fatale del costruttivismo consiste nel ritenere che la ragione, cosciente e volontaria, possa regolare la vita psichica e mentale, dall’altra Hayek è convinto precisamente del contrario. La ragione, alla pari di tutto ciò che fa parte della vita dello spirito, è governata dagli schemi astratti che compongono quest’ultimo, per cui essa non fa altro che «sopravvenire» allo spirito, governata dai meccanismi (di cui essa stessa non è cosciente) dello spirito stesso e rispetto ad esso, quindi, in una posizione

19 Hayek (1988), p. 23. L’imprescindibile funzione della «tradizione» è sottolineata anche da Popper (1998), p. 61: «Sotto l’aspetto quantitativo, come pure sotto quello qualitativo, la fonte di gran lunga più importante della nostra conoscenza – a parte la conoscenza innata – è la tradizione. La maggior parte delle cose che conosciamo le abbiamo imparate da esempi, o perché ci sono state dette, o perché le abbiamo lette nei libri, o imparando come criticare, come accogliere e accettare le critiche, come rispettare la verità». In realtà, gli studi più recenti sui processi di evoluzione culturale mostrano che l’imitazione e l’apprendimento sono meccanismi molto complessi, rispetto ai quali la nozione hayekiana della selezione del gruppo appare piuttosto ingenua, cfr. Birner – van Zijp (1994), pp. 184-5, Cavalli-Sforza – Feldman (1981) e Boyd – Richerson (1985).

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di stretta dipendenza e subordinazione20. Per cui, in ultima analisi, la nostra ragione e la nostra coscienza sono ben lontane dal poter controllare i processi di conoscenza verso cui andiamo incontro, molti dei quali sono per noi super-consci e seguono regole non stabilite, e spesso non conosciute, da noi per primi: «Le regole di un ordine spontaneo sono astratte in quanto non è necessario che i soggetti le conoscano esplicitamente e siano in grado di descriverle. È sufficiente che si comportino in un modo che possa essere descritto da tali regole. La loro conoscenza delle regole può essere quindi tacita. Esse rappresentano regolarità di comportamento che si sono sviluppate nel tempo e sono state selezionate dal processo evolutivo perché garantivano la vita sociale meglio di altre regole»21. Ora, se noi teniamo conto del fatto che tutta l’epistemologia di Hayek è motivata dall’intenzione di applicare questo principio di ragione limitata e fallibile ai meccanismi complessi della società22 (l’economia e la politica, in primis), possiamo da una parte comprendere il giudizio espresso da uno dei più autorevoli studiosi della scuola austriaca, il quale ha evidenziato come gli scritti epistemologici del filosofo rappresentano il suo più importante contributo allo studio delle scienze sociali23, dall’altro possiamo finalmente essere in possesso degli strumenti atti a farci comprendere in che senso questa epistemologia fallibilista (basata su una concezione della ragione con un ruolo limitato rispetto alla «costruzione» della realtà e della realtà sociale nelSu questo aspetto seguiamo Gray (1984), p. 30. M. Novarese, Mercato, impresa e imprenditore nel lavoro di von Hayek, in Clerico-Rizzello (2000), vol. I, pp. 188-9. Il concetto di conoscenza «tacita» Hayek lo ha ripreso da un autore fondamentale per la sua biografia intellettuale, cfr. Polanyi (1967). 22 Cfr. Streit (1993). 23 Kirzner (1992), pp. 153 ss., anche se questo autore, maggiormente interessato allo specifico dello sviluppo dell’economia, sottolinea più che altro l’importanza dei saggi che Hayek ha dedicato al nesso tra conoscenza ed economia, cioè (1937) e (1945). Ma anche Gray (1984), p. 136, ha scritto che il primo e importante elemento della teoria sociale di Hayek è di natura epistemologica. 20 21

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lo specifico), Hayek l’abbia elaborata in maniera contrapposta a quella costruttivista (basata su una visione della ragione come unica, cosciente e infallibile «costruttrice» della realtà). La questione dovrebbe essere, a questo punto, di facile comprensione. Abbiamo visto che il pensatore austriaco, attraverso la descrizione di dinamiche e meccanismi a volte complessi, ha elaborato un concetto di ragione non solo fallibile, non solo estremamente soggettiva e variabile da individuo a individuo, ma anche e soprattutto dipendente da meccanismi, quali la tradizione, la conformazione genetica della mente di ciascuno, le informazioni (o «dati» esterni) con cui ognuno riesce a venire in contatto, l’elaborazione soggettiva che di questi dati compie lo spirito attraverso gli schemi astratti, l’esperienza unica e irriducibile di ogni persona. Si oppone radicalmente a questa epistemologia quella da Hayek definita «costruttivista». Il filosofo austriaco individua anche un colpevole «originario»: il «razionalista» Descartes. Questi, agli occhi di Hayek, si è macchiato nientemeno che della colpa di aver dato origine a quell’«Età della Ragione» da cui sarebbero derivate tutte le pretese dei razionalisti nei secoli futuri)24. Per capire brevemente quali possono essere state le «colpe» del filosofo francese agli occhi di Hayek, conviene riferirsi a due celebri opere di Descartes, e cioè le Regulae ad directionem ingenii (1627-8) e il Discours de la Méthode (1637). Nella prima Descartes espone una «regola» fondamentale: in sede teorica non si tratta di analizzare e praticare le singole arti e scienze, di cui indubbiamente si riconosce la diversità in ambito «cosale» (res extensa), quanto di ricondurle tutte all’unico, e unitario, fondamento presente nel soggetto conoscente: la ragione (res cogitans). Questo perché «tutte le scienze non sono nient’altro che l’umano sapere, il quale permane sempre uno e medesimo», cosicché «la conoscenza di un’unica verità, non ci allontana, come fa invece l’esercizio di un mestiere, dal perseguimento di un’altra, ma piuttosto ci è d’aiuto». 24

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Hayek (1978), p. 5.

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Descartes si meraviglia che quasi nessuno rivolga il pensiero alla «retta mente» (bona mens), questa «universale sapienza» cui tutte le cose riconducono e dalla quale soltanto ricevono valore. Insomma, poiché tutte le scienze sono connesse e dipendenti l’una dall’altra, poiché il vero sapere è uno e uno soltanto, perfettamente raggiungibile dalla ragione umana, chi vuole indagare sul serio la verità non deve occuparsi di una scienza in particolare, ma pensare soltanto a coltivare il «lume naturale della ragione», perché esso saprà dirigere la volontà dell’uomo verso la verità e la giustizia.25 Le differenze con Hayek saltano agli occhi. Ma apriamo il Discours, proprio nelle pagine iniziali. Qui la bona mens del testo latino diviene le bon sens del testo francese, quel buon senso o ragione che non soltanto è «naturalmente uguale (naturellement égale) in tutti gli uomini», ma fornisce anche «il potere di giudicare rettamente e distinguere il vero dal falso»26. Omettendo per il momento discussioni sull’esegesi del pensiero di Descartes, è sufficiente mettere in cantiere il fatto che in queste affermazioni del filosofo francese, che delineano una concezione della ragione (e della conoscenza) che Hayek sente sideralmente lontane dalle proprie, è insito, secondo questi, il germe che ha prodotto tutti gli abusi della ragione di cui si sono macchiati gli uomini nel corso della storia. Non solo, e non tanto, in campo epistemologico, quanto nell’ambito in cui esso trova applicazione: quello delle scienze sociali. Pensare, come fa Descartes (almeno nell’interpretazione che ritiene di darne Hayek) che vi sia una ragione ugualmente distribuita fra tutti gli uomini, che ha il potere di cogliere e «costruire» la realtà, di discernere il vero dal falso e di rendere possibile un volere e un agire «retti» da parte dell’uomo, se soltanto condotta attraverso l’esecuzione delle «regole» giuste, costituisce per il pensatore austriaco una forma di presunzione insostenibile e scientificamente infondata27. Descartes (1964-74), vol. X, pp. 360-1 (corsivi nostri). Ibid., vol. VI, p. 2. 27 Hayek si ispirava dichiaratamente all’epistemologia di Hume, il quale 25 26

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Poiché il nesso tra epistemologia e scienze sociali è inscindibile in Hayek, questa presunzione fatale è stata secondo lui alla base degli errori più imperdonabili commessi in sede economica, politica e di costruzione di determinate società. Qui è il fulcro della frattura epistemologica fra l’«ignoranza» (e la fallibilità) dei liberi e la ragione dei presuntuosi. Intento del filosofo austriaco, di contro, abbiamo visto essere quello di rimettere al centro dell’attenzione i limiti costitutivi della ragione e della conoscenza: fallibile, irrimediabilmente soggettiva e in continua evoluzione la prima, dispersa fra tutti gli uomini e nell’impossibilità di essere posseduta per intero da un singolo individuo, gruppo di individui o potere centrale la seconda. In questa ottica, ragionando Hayek con la prospettiva della formazione di una società libera, poiché si rivela impossibile una sua costruzione attraverso la realizzazione di piani consapevoli e razionali da parte degli individui o di un governo centrale (tale «abuso della ragione» sarebbe alla base di società illiberali, poiché l’impossibilità di possedere una conoscenza onnicomprensiva porterebbe inevitabilmente l’autorità centrale a ricorrere a misure coercitive), occorre invece individuare una «dimensione», un ambiente che si limiti a favorire il semplice «coordinamento» dei propositi e delle azioni degli individui, in cui questi ultimi possano trovare le «informazioni» necessarie al libero perseguimento degli scopi individuali. Tale dimensione o ambiente è quello che Hayek chiama «catallassi». non isolato, nella metà del XVIII secolo, propose una concezione della ragione assai limitata e piuttosto ininfluente sia nell’ambito del passaggio dalle impressioni sensibili alle idee sia in quello della volontà e quindi dell’azione umana. Così nel Treatise of Human Nature, dove il filosofo scozzese afferma esplicitamente che la ragione di per sé non può mai costituire un motivo di azione per la volontà e non può mai neppure opporsi alle passioni nella direzione della volontà medesima («la ragione è schiava delle passioni»). Ciò è talmente vero che gli uomini spesso agiscono contro il proprio interesse, ragione per cui concludere, secondo Hume, che non sempre sono guidati dalla valutazione razionale del bene più grande, Hume (1826), vol. 2, II, 3, 3, pp. 168-9 e 172.

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Conoscenza e «catallaxy»: concorrenza, sistema dei prezzi e libertà (senza sicurezza) degli individui

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all’epistemologia di Hayek si evincono due nozioni fondamentali ai fini dell’applicazione nell’ambito delle scienze sociali: la prima consiste nel fatto che la conoscenza come entità unitaria (quindi potenzialmente raggiungibile da uno o più uomini che conducono al meglio la propria ragione), completa e valida per ogni tempo e in ogni luogo non esiste. Bisognerebbe in realtà parlare di «conoscenze» al plurale, o, come preferisce l’economista austriaco, di «conoscenza dispersa» (dispersed knowledge) fra i vari individui. La seconda, evoluzione diretta della prima, è che ogni individuo possiede una conoscenza parziale e fallibile. Parziale in quanto limitata dalle condizioni genetiche, di luogo e di tempo dell’individuo stesso (che quindi non può mai raggiungere una conoscenza completa, anche perché essa non esiste, ma soltanto usufruire di «informazioni» parziali), fallibile perché comunque ogni conoscenza è inserita all’interno di una evoluzione che in qualsiasi momento potrà stabilirne il superamento e l’inadeguatezza. Ora, se una conoscenza completa è impossibile e se ogni individuo possiede una porzione limitata e fallibile di essa, è evidente che il miglior sistema di far vivere e progredire una società di uomini consiste nel lasciar libero ogni individuo di impiegare, come meglio ritiene, la propria porzione di conoscenza per raggiungere i fini che si è dato, così che la libera interazione, o meglio la libera concorrenza interpersonale favorirà il massimo esplicarsi di tutti i saperi individuali. Conviene citare un lungo passo di Hayek, in cui questa connessione fra l’epistemologia

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parziale e fallibile e la metodologia delle scienze sociali trova una chiara enunciazione: «La convinzione centrale da cui tutti i postulati liberali possono essere detti scaturire, è che le soluzioni di maggiore successo dei problemi della società non sono da aspettarsi nel fare assegnamento sull’applicazione di un dato sapere proprio di un individuo specifico, ma nell’incoraggiare quel processo interpersonale di scambio di opinioni (the interpersonal process of the exchange of opinion) dal quale soltanto ci si potrà attendere l’emergere di una migliore conoscenza. È infatti dalla discussione e dalla critica reciproca delle differenti opinioni degli uomini, derivate da differenti esperienze, che si era ritenuto facilitare la scoperta della verità, o almeno della migliore approssimazione alla verità cui si potesse pervenire. La libertà per l’opinione individuale era rivendicata precisamente poiché ogni individuo veniva considerato fallibile, e la scoperta della migliore conoscenza era attesa soltanto dalla costante messa in questione (continuous testing) di tutte le credenze che la libera discussione assicurava. In altri termini, non era tanto dal potere della singola ragione (di cui i veri liberali diffidano), quanto dai risultati del processo interpersonale di discussione e di critica che ci si aspettava un avanzamento progressivo verso la verità. Anche lo sviluppo della ragione individuale e della conoscenza era ritenuto possibile soltanto nella misura in cui l’individuo stesso partecipasse a questo processo»1. Risulta evidente, da quanto letto, che fino a questo punto Hayek richiama la sua teoria della conoscenza per promuovere la libertà di opinione quale condizione preliminare indispensabile per assicurare il migliore avvicinamento alla verità, attraverso il processo interpersonale. Ma poiché col passo citato siamo nell’ambito di un paragrafo in cui l’autore austriaco istituisce il nesso tra libertà intellettuale e libertà materiale, non tardano a chiarirsi gli sviluppi anche in senso sociale della sua epistemologia: «Tutti gli argomenti a favore della libertà intellettuale si applicano anche alla libertà di fare o libertà di azione. Le 1

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Hayek (1978), p. 148.

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svariate esperienze che conducono alle differenze di opinione da cui si origina lo sviluppo intellettuale, sono il risultato delle diverse scelte d’azione prese da persone differenti in circostanze differenti. Così come nella sfera intellettuale, anche in quella materiale, la concorrenza costituisce la migliore procedura di scoperta (competition is the most effective discovery procedure) dei mezzi più adatti per il raggiungimento degli scopi umani. Soltanto qualora sia possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose ci sarà una varietà di esperienze, di conoscenze e di abilità individuali, tale che, attraverso una selezione ininterrotta (continuous selection) delle più riuscite fra esse, condurrà a un miglioramento costante»2. Assistiamo quindi a un passo in avanti non di poco conto. Dal riconoscimento della fallibilità e parzialità della conoscenza a disposizione di ciascun individuo, passando attraverso la conseguente opportunità della libertà intellettuale di ogni persona, giungiamo all’esaltazione della concorrenza come sistema più adatto ai fini di uno sviluppo della società. Il fatto possiede un certo significato poiché dalla fallibilità e parzialità della conoscenza umana si poteva pervenire, per esempio, alla necessità di una cooperazione fra i singoli individui limitati e fallibili. Invece Hayek parla di concorrenza poiché è da un’altra parte che vuole arrivare. Nello specifico vuole condurre il proprio pensiero, e il lettore, alla constatazione in base alla quale da un’epistemologia fallibilista si evince la necessarietà del libero mercato, poiché l’agire umano è anzitutto agire economico, utilizzazione di certi mezzi allo scopo di conseguire certi fini3. L’autore stesso non tarda a svelare il punto: Ibid., pp. 148-9. È appena il caso di dire che questa concezione, fin dall’analisi di Menger, presuppone il rifiuto dell’homo oeconomicus così come è stato espresso dalla teoria economica classica (per esempio da Adam Smith), cioè di un uomo che può agire razionalmente in campo economico proprio perché in possesso di tutta quella conoscenza che gli rende possibile raggiungere i fini in base ai mezzi a disposizione. La qual cosa ha portato uno studioso italiano a operare tale sintesi, con la quale siamo perfettamente d’accordo: «Nel caso di von 2 3

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«C’è un’altra ragione perché la libertà di azione, specialmente nel campo economico (che spesso è rappresentato come di minore rilevanza), è importante quanto la libertà della mente. Se infatti è la mente che sceglie i fini dell’agire umano, la loro realizzazione dipende dalla disponibilità dei mezzi richiesti dai fini stessi, e ogni controllo economico che conferisce potere sui mezzi, conferisce potere anche sui fini»4. Insomma, dice l’autore a titolo di esempio, non può darsi libertà di stampa qualora l’editoria sia soggetta a controllo governativo, così come è impossibile la libertà di riunione se tutti i locali sono di proprietà del governo o la libertà di movimento se i mezzi di trasporto sono monopolio pubblico. Questa è la ragione, conclude Hayek, per cui la direzione statale di tutte le attività economiche (governmental direction of all economic activity), spesso intrapresa nella vana speranza di mettere i mezzi più ampi a disposizione di tutti gli scopi possibili, ha invariabilmente prodotto una severa restrizione dei fini che gli individui possono proporsi. Il filosofo ritiene persino di rintracciare la lezione più importante degli sviluppi politici del XX secolo nel fatto che il controllo della parte materiale della vita abbia dato ai governi dei sistemi totalitari ampi poteri sulla vita intellettuale: «Noi siamo capaci di scegliere i fini che vogliamo perseguire soltanto se una molteplicità di agenzie differenti e indipendenti ci fornisce dei mezzi necessari»5. Hayek (ma la constatazione vale in generale per gli “austriaci”) non si ha tanto l’applicazione al complesso delle scienze sociali teoriche di una scoperta avvenuta nel campo dell’economia e del suo metodo di indagine e di analisi, quanto la riconsiderazione delle scienze sociali teoriche e pratiche movendo da una teoria della conoscenza e dello scambio in condizione di libertà e di conoscenza “limitata”», R. Cubeddu, Von Hayek nella storia del liberalismo, in Clerico-Rizzello (2000), v. 2, pp. 111-2. 4 Hayek (1978), p. 149. 5 Ibid. Mises, che non riteneva fossero possibili vie di mezzo tra un’economia di mercato e una socialista, aveva reso più esplicito l’oggetto del contendere attraverso questa distinzione: «La differenza tra la produzione capitalistica e quella socialista consiste nel fatto che nella prima gli uomini provvedono a se stessi, mentre nella seconda è il sistema che provvede a loro.

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A questo punto l’intento dell’autore austriaco risulta evidente. Una volta preso atto del fatto che la conoscenza umana è fallibile e parziale, che la conoscenza tout court ben lungi dall’esistere consiste in realtà in una serie di informazioni disperse tra tutti gli individui, variabile da soggetto a soggetto a seconda delle rispettive e irriducibili esperienze, vincolate anche dalle precipue condizioni di tempo e di luogo, si tratta di comprendere quale sistema sociale è più conseguente, e confacente, alle suddette e imprescindibili premesse epistemologiche. Ma il punto cruciale consiste proprio in questo: l’uomo, lo scienziato sociale, può e deve soltanto prendere atto del meccanismo che, per via evolutiva e attraverso un processo di selezione che ha visto sconfitte le alternative, si è spontaneamente affermato come quello che ha prodotto i maggiori successi. Pretendere, con la propria ragione, di elaborare un progetto di governo ideale della società equivarrebbe non solo a cadere nel «costruttivismo» presuntuoso, ma anche e soprattutto a illudersi di poter compiere un’impresa impossibile per la ragione umana, fornita di troppe poche informazioni per poter pretendere di elaborare un sistema che possa governare una realtà così complessa. Il prezzo di questa illusione sarebbe un’inesorabile caduta nella schiavitù e nel totalitarismo. Ma qual è questo meccanismo che lo scienziato sociale Hayek ha individuato come il migliore, come quello che si è affermato spontaneamente e attraverso un inesorabile processo di selezione storica? La risposta è articolata: si tratta di quel meccanismo che, formatosi e perfezionatosi attraverso un’evoluzione spontanea dell’interazione umana, sopperisce ai limiti della ragione individuale ma al tempo stesso permette ad ogni singolo di sfruttare le limitate conoscenze a disposizione per la ricerca dei propri fini, in un contesto di libera concorrenza in cui, malgrado gli individui agiscano intenzionalmente soltanto Il socialismo vuol dare da mangiare, da vivere e da vestirsi all’umanità. Ma gli uomini preferiscono mangiare, vivere, vestirsi e cercare la felicità a modo loro», cfr. Mises (1922), p. 449.

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per cercare il proprio profitto, siano presenti degli effetti (di questa interazione umana) in-intenzionali che rendono comunque possibile l’evoluzione della società tutta6. Insomma, l’economia di mercato libera da ogni forma di intervento statale. La libera economia di mercato è quel luogo, quel contesto in cui ogni individuo può ricercare il proprio interesse utilizzando come meglio ritiene le informazioni di cui dispone. Il nesso tra epistemologia ed economia trova quindi una maggiore chiarificazione, soprattutto se teniamo presente che per Hayek «il problema economico della società» consiste nel garantire «il miglior uso di risorse note a ognuno dei membri della società, per dei fini la cui importanza relativa è nota soltanto a quegli individui stessi»7. In questo senso per Hayek l’economia di mercato garantisce la libertà individuale, nonostante i singoli siano in possesso di informazioni parziali e fallibili, e anzi, facendo di questa limitatezza del conoscere un punto di forza notevole. Infatti, dal momento che ogni individuo possiede delle «conoscenze delle circostanze particolari di tempo e di luogo» che sono precluse agli altri, perché risultanti dalla sua condizione ed esperienza irriducibili, proprio per questo egli si trova «in vantaggio rispetto a tutti gli altri, poiché possiede informazioni uniche che possono Cfr. Hayek (1988b), p. 190: «L’interazione spontanea tra le forze sociali è superiore all’azione consapevole, se è vero che a volte risolve problemi che la mente individuale non potrebbe mai risolvere consapevolmente (e che forse nemmeno percepisce), e in questo modo crea una struttura ordinata che accresce le potenzialità degli individui senza essere stata progettata da nessuno di loro. In realtà tutti i processi sociali degni di questo nome, e cioè tutti i processi che chiamiamo «sociali» proprio per distinguerli dalle azioni dei singoli individui, sono quasi ex definitione non consapevoli». Interessante il fatto che Hayek, poche righe sopra, avesse citato il matematico Whitehead, laddove questi scriveva che «la civiltà progredisce mediante l’estensione del numero di operazioni che possiamo compiere senza pensarci», Cfr. Whitehead (1911), p. 61. Su un terreno più propriamente economico, invece, la formulazione più celebre del concetto per cui la ricerca consapevole dell’interesse individuale avviene all’interno di un meccanismo superiore e spontaneo (invisibile hand) che comunque rende possibile l’avanzamento della società, risale ad Adam Smith (1776), vol. I, p. 400. 7 Hayek (1948), pp. 77-8. 6

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essere impiegate con profitto», a patto però che il singolo sia lasciato libero di decidere in piena autonomia8. È a questo punto che possediamo gli strumenti concettuali per cogliere quella che potremmo definire una «ridefinizione della priorità ontologica» tra la teoria della conoscenza (e dell’agire individuale) e l’economia di mercato. Se infatti abbiamo notato come Hayek ha dedicato molto spazio all’analisi della conoscenza fallibile e parziale a disposizione degli uomini, come presupposto fondamentale per poi dedurne la conseguente affermazione, per via evoluzionistica, del sistema di libero mercato in quanto luogo più adatto allo sviluppo della società umana, ora possiamo renderci conto di come l’argomento della conoscenza si riveli puramente «contestuale». Infatti, dato che «i benefici del mercato competitivo sono legati all’esistenza del mercato stesso e non possono essere ottenuti al di fuori di tale contesto», la stessa «conoscenza richiesta per il calcolo economico è acquisibile soltanto all’interno del processo di mercato stesso», al punto che «fuori da tale contesto tale conoscenza di fatto non esiste»9. Insomma, se partendo dai presupposti epistemologici per cui la conoscenza umana è fallibile e limitata, si trattava di affrontare il «problema dell’utilizzo di conoscenza che non viene data a nessuno nella sua totalità», in seguito Hayek arrivava a riconoscere che «il principale merito della vera concorrenza consiste nel fatto che per mezzo di essa si riesce a utilizzare una conoscenza che è divisa tra molte persone e che, se fosse impiegata in un’economia centralizzata, dovrebbe essere compresa tutta in un unico piano»10. Con ciò risulta evidente il nesso inscindibile che il filosofo austriaco istituisce tra teoria della conoscenza, agire umano e libero mercato. Se la conoscenza individuale è parziale e limitata, e se comunque si vuole far salva la possibilità dei singoli Ibid., p. 80. Boettke (1998), p. 145. 10 Hayek (1948), pp. 78 e 202. 8 9

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individui di agire per la ricerca dei propri fini, il sistema del libero mercato, sistema appunto non pianificato da qualcuno in particolare o da un’autorità centrale (questa la conditio sine qua non), ma retto da una libera concorrenza in cui ognuno può scegliere di utilizzare i propri «mezzi» come meglio ritiene, si rivela inevitabilmente come il migliore e più adatto ai fini del progresso della società. Poiché è impossibile per un singolo uomo o per un’autorità centrale conoscere tutte le informazioni disperse fra i vari individui, e poiché risulta quindi impossibile da parte di suddetta autorità creare un piano che governi tutto l’agire economico dei singoli (pena la caduta nel totalitarismo e nella schiavitù), risulta conseguentemente fondamentale un sistema, quello del libero mercato, affermatosi per via evolutiva (ed «endogena»11) e che lasci i singoli pienamente liberi di agire, in base alle proprie conoscenze e ai propri mezzi a disposizione, in un regime di piena concorrenza. Ci sembra opportuno riportare quanto scrive una studiosa italiana che, citando lo stesso Hayek, riassume efficacemente il senso di ciò che stiamo dicendo: «La conoscenza rilevante per il funzionamento del mercato non è che ognuno conosca ogni cosa, ma che ognuno col poco che sa o proprio perché sa poco possa entrare in comunicazione con gli altri e modificare e correggere i propri piani e adattarli gli uni agli altri. La concorrenza esiste proprio perché vi sono dei vuoti di conoscenza e non quando tutti questi vuoti sono, se mai ciò fosse possibile, colmati»12. Hayek combatte apertamente «la credenza secondo cui l’ordine può essere creato solo da forze che si trovano all’esterno del sistema da ordinare (ovvero «esogenamente») (1986), p. 50. 12 Marina Bianchi, Divisione della conoscenza, regole astratte e varietà dei prodotti, in Clerico-Rizzello (2000), vol. I, pp. 208-209. Fungono da completamento a quanto detto le seguenti riflessioni: «Gli agenti economici, individui, famiglie, imprese e tutte le altre organizzazioni, formulano un piano, stabilendo come impiegare nel tempo le risorse di cui dispongono per raggiungere i propri obiettivi. Tali obiettivi possono essere realizzati solo se coerenti 11

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Da ciò si evince come la concorrenza è un concetto che va inteso in senso dinamico, poiché inserita all’interno del complesso meccanismo di evoluzione dell’agire individuale e interpersonale degli agenti economici, per cui sempre soggetta a mutamenti imprevedibili e non pianificabili da alcuno. In questo senso è importante rilevare come Hayek contestasse la definizione di «equilibrio» con cui si soleva caratterizzare l’ambito economico, preferendovi di gran lunga il concetto di «ordine», che rendeva maggiormente l’idea di una condizione cui si giungeva spontaneamente e per gradi, e comunque sempre esposta al cambiamento13. Ma se la conoscenza individuale è comunque fallibile e limitata, come fa a orientarsi di fronte a un fenomeno così complesso quale è quello del mercato? Detto in altri termini, poiché il mondo delineato da Hayek si presenta come una dimensione composta di agenti fallibili, ognuno dei quali ha accesso a differenti particelle di conoscenza (bits of knowledge), la questione reale diventa la seguente: come è possibile il coordinamento delle azioni umane?14 con quelli degli altri. Non necessariamente sarà così, in quanto i piani sono formulati a partire da conoscenze diverse. Inevitabilmente alcune previsioni risulteranno non avverate. Alcuni piani dovranno perciò essere modificati. Attraverso un meccanismo di prove ed errori gli individui e le organizzazioni apprendono e in questo modo il mercato tende all’ordine e individui che non si conoscono cooperano. La concorrenza rappresenta quindi un processo di scoperta attraverso il quale le conoscenze disperse diventano patrimonio di tutti», Marco Novarese, Mercato, impresa e imprenditore nel lavoro di von Hayek, in Clerico-Rizzello (2000), vol. I, pp. 190-1. 13 Per Hayek (1986), pp. 148-9, lo scopo precipuo di un «razionalismo evoluzionista (o critico)» in quanto distinto da un «razionalismo costruttivista (o ingenuo)», consiste nel comprendere che un ordine spontaneo è un «ordine complessivo funzionante che nessuno ha deliberatamente progettato, un ordine che si è formato da sé, indipendentemente dalla conoscenza, e spesso contro la volontà stessa dell’autorità; un ordine che estende il controllo individuale dei fatti al di là del campo dell’organizzazione deliberata, e che non si basa sul fatto che gli individui obbediscono a una certa volontà, ma sul fatto che le loro aspettative si adattano vicendevolmente». 14 Caldwell (2004), p. 337.

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Da cosa sono dati gli elementi per cui, ad esempio, un individuo sceglie quale prodotto lavorare perché conveniente o quale smettere di produrre perché non più conveniente rispetto alle richieste del mercato? Se Hayek esclude l’intervento di un autorità centrale che possa pianificare l’attività economica, fornendo quindi essa agli individui gli obiettivi da raggiungere e per cui spendersi, quale potrà essere per i singoli agenti la bussola in base alla quale razionalizzare il proprio agire economico al di là della mera ricerca del profitto? Sicuramente, per Hayek, il fattore più importante di diffusione di quelle informazioni la cui conoscenza può rendere razionale l’agire economico degli individui, è dato dal «sistema dei prezzi»: «È tale sistema infatti che assicura a chi sta operando in particolari circostanze di tempo e di luogo (the man on the spot) di essere messo in comunicazione con i cambiamenti che stanno avvenendo nel sistema economico nel suo complesso. E questo senza che egli debba necessariamente conoscere le circostanze concrete di tali cambiamenti: è sufficiente per lui sapere che l’importanza relativa delle conoscenze o delle risorse che sta usando è cambiata per poter efficacemente adeguare le proprie risposte a tali cambiamenti. I prezzi sono appunto la misura dell’importanza relativa delle conoscenze. Grazie a questa sorta di codice simbolico o registro di scarsità solo l’informazione rilevante è trasmessa e per di più è trasmessa solo a chi ne deve fare uso»15. Il meccanismo dei prezzi, quello per cui, detto in maniera estremamente riduttiva, all’aumentare o diminuire del costo di una merce l’agente economico può decidere per tempo quale prodotto lavorare perché più richiesto dal mercato e quale no, razionalizzando quindi il proprio agire in base alle informazioni e ai mezzi a disposizione16, mette in evidenza due aspetti centrali della concezione di Hayek. Così scrive Hayek, citato da Marina Bianchi, Divisione della conoscenza, regole astratte e varietà dei prodotti, in Clerico-Rizzello (2000), vol. I, p. 209. «Il sistema dei prezzi è una di quelle formazioni che l’uomo ha imparato a usare dopo essersi imbattuto in esso senza conoscerlo», Hayek (1948), p. 88. 16 Cfr. anche Mises (1944), p. 244: «Nel libero mercato i prezzi sono le 15

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Il primo è che ci troviamo di fronte a un meccanismo non prestabilito, né controllato (sempre secondo l’austriaco) da alcuna autorità esterna al mercato. Un eventuale soggetto pianificatore non solo non potrebbe risolvere le milioni di equazioni presenti all’interno dell’ordine di mercato, ma soprattutto difetta della conoscenza sufficiente anche solo a formularle17. Il meccanismo dei prezzi, quindi, si rivela alla stregua di un processo di coordinamento dell’interagire dei singoli e, al tempo stesso, di diffusione delle informazioni puramente spontaneo, insostituibile da parte di alcuna autorità esterna poiché è il frutto imprevedibile di miliardi di interazioni individuali e perché fornisce informazioni a un numero incalcolabile di soggetti; informazioni di cui nessuna autorità centrale potrebbe disporre e che vengono imprevedibilmente selezionate dagli agenti economici stessi, in base al fatto che si occupino, per esempio, di un ramo produttivo piuttosto che di un altro18. Quindi, all’interno di tale meccanismo, gli agenti economici (gli individui) si trovano alla maniera di coloro che stanno partecipando a un gioco19, con delle regole e dei punteggi validi per guide e i regolatori della produzione, i beni vengono prodotti quando essi possono essere prodotti ricavando profitti e non vengono prodotti quando la produzione implica una perdita». 17 Vaughn (1980), p. 545 e Lavoie (1985), pp. 87-91. Kirzner (1984), p. 409, chiama il problema creato dalla natura decentralizzata della conoscenza soggettiva «the Hayek knowledge problem», caratterizzato da una situazione in cui tutti gli individui (compresi i pianificatori centrali) denotano una fondamentale ignoranza dei fatti sociali nella loro interezza. 18 Cfr. anche quanto scrive M. Polanyi (1951), p. 159, autore fondamentale nella formazione di Hayek: «Quando si ottiene un ordine tra gli uomini lasciando che ognuno di loro interagisca con gli altri di sua iniziativa – soggetto solo alle leggi che valgono indistintamente per tutti – abbiamo un sistema di ordine sociale spontaneo, in cui gli sforzi di tutti gli individui sono coordinati tramite la loro iniziativa individuale e, il tutto, trova giustificazione nella misura in cui la loro libertà va incontro all’interesse generale». 19 Uno studioso della teoria dei giochi ha non a caso, poco più di dieci anni fa, istituito un parallelismo tra game theory e price theory, intendendole come esempi di teorie che assumono la razionalità ma non la conoscenza e notando che «nel modello di equilibrio generale della teoria dei prezzi, si assumeva che ogni individuo è un razionale produttore di decisioni che massimizzano

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tutti e impersonali, che forniscono l’orientamento ai giocatori, rendono possibile il gioco stesso ed escludono l’intervento di una qualche autorità esterna; autorità che per giunta non potrebbe intervenire se non arbitrariamente e coercitivamente, poiché non potrebbe governare i «giocatori» se non imponendogli dei «comandi specifici» che sostituiscano le semplici «regole di condotta» impersonali, le sole che rendono possibile il libero e imprevedibile dispiegarsi del gioco20. Non a caso uno studioso di Hayek, commentando il ruolo che il meccanismo dei prezzi ricopre nel risolvere i problemi di conoscenza dispersa, lo paragona alle «luci che regolano il traffico stradale», contesto in cui vi è l’assenza di una «mente superiore pianificatrice», per cui ogni individuo è libero di prendere la direzione che preferisce ma, al tempo stesso, anche gli altri potranno spostarsi liberamente senza rischi di scontri, perché ciascuno potrà fare riferimento a quella regola di condotta impersonale che è data dal semaforo. Quello del traffico stradale è un esempio di ordine in cui ognuno non sa la direzione che prenderanno gli altri, ciascuno è libero di andare dove meglio crede ma tutti vengono coordinati da un meccanismo impersonale e valido per ogni individuo alla stessa stregua21. l’utilità, ma non per questo si riteneva che ogni individuo conoscesse l’intera struttura del modello economico che il teorico dei prezzi studia. Nel modello della teoria dei prezzi, gli individui si limitano a percepire e a rispondere ad alcuni segnali intermediari dati dai prezzi (intermediating price signals) e si suppone che ogni individuo creda di poter commerciare arbitrariamente sulla base di quei prezzi, anche se anche se può accade che allo stato presente dell’economia non vi sia alcuno che voglia fare quei commerci con lui», vedi Myerson (1991), p. 4. 20 La differenza fra general rules e specific orders and prohibitions è fondamentale in Hayek. Le prime sono tipiche della costruzione di un sistema razionale di diritto (di un ordine spontaneo) in cui le persone sono lasciate libere di seguire le proprie inclinazioni, mentre i secondi sono propri di una pervasiva economia pianificata (comprehensive economic planning) in cui un’autorità centrale (planning authority) impone ordini specifici e proibizioni, oltre che un codice dettagliato del valore di ciò che scarseggia», Hayek (19389), pp. 193-4. 21 Kirzner (1985), pp. 193 ss.

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Dall’altra parte, ma i due aspetti sono ancora una volta collegati, con l’indicazione della centralità del sistema dei prezzi Hayek vuole fare salvo un tassello imprescindibile della sua concezione filosofico-politica: la libertà individuale. Infatti se egli si fosse limitato a constatare la fallibilità e parzialità della conoscenza individuale, difficilmente avrebbe potuto fare a meno di pensare alla necessità di una forte autorità politica, di un governo tutt’altro che limitato. Invece, col sistema dei prezzi, l’economista austriaco ha individuato un meccanismo di trasmissione di informazioni che esalta «l’ignoranza» dei singoli, che addirittura ne fa un punto di forza nella misura in cui questa ignoranza è proprio ciò che garantisce l’evoluzione e il progresso della società (perché rende possibile una grande varietà di variabili imprevedibili), evitando che qualcuno (individuo o governo che sia) possa arrogarsi il diritto di pianificare l’agire umano ponendo le basi per un sistema totalitario22. La libertà individuale è fatta salva anche perché il sistema di funzionamento del mercato è assolutamente impersonale, fondato, come abbiamo visto, su regole generali valide per tutti e che non operano distinzioni o, peggio, ingiustizie sulla base di considerazioni morali, razziali, di simpatia etc., comunque soggettive23. 22 Alla base della difesa della libertà individuale in Hayek (nell’agire economico come nell’agire in genere), c’è l’individualismo metodologico che egli ha potuto apprendere da Mises, il quale partiva dal presupposto per cui «le sfere dell’azione razionale e dell’azione economica sono quindi coincidenti. Ogni azione razionale è economica. Ogni attività economica è un’azione razionale. Ogni azione razionale è in primo luogo un’azione individuale. Solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo agisce», e arrivava alla conclusione che la società sorge soltanto dall’azione degli individui, Mises (1922), p. 113. 23 «L’essenza di un mercato competitivo consiste nel suo carattere impersonale. Nessuno di coloro che partecipano alla competizione può determinare unilateralmente le condizioni alle quali gli altri partecipanti possono avere accesso ai beni o agli impieghi. Tutti devono prendere i prezzi come dati dal mercato e nessun individuo può da solo esercitare un’influenza più che trascurabile sul prezzo, benché tutti i partecipanti nel loro complesso determi-

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L’assenza di un’autorità esterna con il potere di pianificare l’attività degli individui, congiunta alla piena libertà degli individui stessi di perseguire i propri fini in un regime di libera concorrenza, malgrado la fallibilità e parzialità delle informazioni a loro disposizione, costituisce il nerbo dell’economia di mercato. In tal senso la concorrenza stessa si rivela una procedura di scoperta, poiché non avviene all’interno di un contesto in cui si sa già qual è l’opzione migliore, o quale l’investimento più redditizio. Nello sport come negli esami, negli appalti governativi come nei premi letterari, sarebbe oltremodo inutile (pointless) organizzare la competizione se sapessimo in anticipo chi è il migliore; per questo Hayek propone di «considerare la concorrenza come una procedura di scoperta (procedure for discovery) di quei fatti che, se non si ricorresse ad essa, non potrebbero essere conosciuti da nessuno, o che almeno nessuno potrebbe utilizzare»24. L’unica certezza su cui è possibile contare, secondo il filosofo austriaco, è che le società che ricorrono alla concorrenza per conoscere dei fatti ignoti sono quelle che, storicamente, hanno raggiunto i loro scopi meglio di altre. In tale contesto, quindi, i prezzi svolgono la funzione di indirizzare l’attenzione degli individui liberi verso quegli aspetti meritevoli rispetto alle offerte del mercato per varie cose e servizi25. Questa caratteristica per cui la concorrenza, ben lungi dal fondarsi su conoscenze di cui già si dispone, è in assoluto un procedimento di scoperta dell’ignoto, è ciò che rende funesta e liberticida (poiché impossibile) ogni forma di pianificazione da parte di un’autorità centrale qualsiasi. Hayek contesta quella pur influente teoria economica che assume la «concorrenza perfetta» (in particolar modo egli sonino il prezzo per l’effetto congiunto delle loro azioni individuali», Friedman (1962), pp. 119-120. 24 Hayek (1978), p. 179. 25 Ibid., p. 182.

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stiene di riferirsi alle teorie socialdemocratiche) sulla base della convinzione per cui tutti i fatti sono già noti, e, in virtù di questa non irrilevante distinzione, decide di separare nettamente l’ «economia» nel senso stretto della parola, che è un’organizzazione o una struttura nella quale qualcuno, deliberatamente, «assegna delle risorse a un ordine unitario di fini», dall’ «ordine spontaneo» (spontaneous order) prodotto dal mercato, che non è nulla del genere e che per certi aspetti rilevanti non si comporta neppure come un’economia. Anzi, questo ordine spontaneo è diverso proprio perché non garantisce (not ensure) che ciò che l’opinione generale valuta come bisogni più urgenti siano soddisfatti prima di quelli ritenuti meno importanti (e questa è la principale ragione per cui il popolo, in larga parte, si oppone a tale sistema). Hayek conclude il ragionamento argomentando che, in fondo, tutto ciò che viene richiesto dal socialismo, è che l’ordine di mercato o catallassi (catallaxy), come Hayek preferisce definirla per evitare confusioni con l’economia propriamente detta, sia trasformato (should be turned) in un’economia in senso stretto, nella quale una comune e riconosciuta scala di importanza determini quali dei tanti bisogni debbano essere soddisfatti e quali no26. Il riferimento di Hayek al fatto che le società che hanno adottato la concorrenza come procedura di scoperta di fatti ignoti abbiano ottenuto i maggiori successi e siano sopravvissute all’evoluzione culturale, è un dato della massima imporIbid., p. 183. Hayek, (1986), pp. 315-6, dopo aver riconosciuto la paternità della definizione catallaxy a Mises, ricorda che il termine «deriva dal greco katallattein (o katallassein), col quale si intendeva – ed è significativo – non solo “scambiare” ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare da nemici, amici” […] da questo si può formare il termine inglese “catallaxy”, che può essere usato per descrivere l’ordine introdotto dal reciproco adeguarsi delle molte economie in un mercato. Una catallassi è quindi un tipo speciale di ordine spontaneo prodotto dal mercato tramite individui che agiscono secondo le norme del diritto di proprietà, di responsabilità extracontrattuale e delle obbligazioni». 26

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tanza nell’economia del suo discorso. Infatti il filosofo austriaco intende delineare un vero e proprio schema evolutivo che «ricalca la visione del passaggio dalle piccole società “faccia a faccia” alle moderne società, connotate come ordini spontanei. Le prime, infatti, dato il loro basso livello di complessità, sono considerate delle organizzazioni, al pari della famiglia, del clan, dell’orda, della tribù, della fattoria, della piantagione, dell’impresa. Esse sono società chiuse, “monocentriche”, connotate da “bisogni conosciuti di gente conosciuta”, governate da regole prescrittive e gerarchie. Le seconde sono “società aperte”, “policentriche”, impersonali, governate da regole non progettate. Le prime sono semplici, le seconde complesse. Fra questi due estremi vi è la gamma dei processi di transizione che dal primo tipo di società conduce al secondo o, analogamente, dalle regole prescrittive porta alle regole generali»27. Il riferimento a Popper, nel comparare società chiuse e aperte, salta agli occhi: anche questi, infatti, aveva operato tale distinzione, identificando le società chiuse con quelle tribali, regolate da riti magici, in cui la tribù è tutto e l’individuo nulla, in cui il singolo trova il suo paradiso originario perché garantito dalla comunità che tutto conosce e che pianifica l’agire dei singoli. Tali società tribali erano difese da Platone, ma anche da Hegel e dal socialismo i quali, secondo Popper, volevano tornare in una tale condizione subordinando l’individuo a entità collettive quali la classe, il partito, lo stato etc. Ma, obiettava Popper, «per chi ha assaggiato l’albero della conoscenza, il paradiso è perduto». Non possiamo tornare allo stato ferino e, se decidiamo di restare umani, allora c’è soltanto una strada, quella della società aperta. Noi dobbiamo procedere verso l’ignoto (unknown), l’incertezza e l’insicurezza, usando quel poco di ragione che abbiamo per realizzare al meglio entrambi i fini: la sicurezza e la libertà28. 27 Stefano Fiori, Organizzazione, impresa e conoscenza in F. von Hayek, in Clerico-Rizzello (2000), v. I, pp. 181-2. 28 Popper (1945), vol. 1, pp. 200-1.

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In questa comune visione dello sviluppo delle società traspare il simile impianto epistemologico di Hayek e Popper cui abbiamo fatto riferimento nel primo capitolo. Ma simile non significa uguale. Fallibilità e limitatezza della ragione umana, tradotte in ambito sociologico fanno preferire a Hayek l’individuazione di un ordine sociale (quello economico della catallassi) che vive di vita propria, con meccanismi impersonali che lo regolano e rispetto ai quali la ragione umana, nella sua dimensione politica, deve intervenire il meno possibile. Si potrebbe quasi dire che la soluzione di Hayek al problema della conoscenza umana sia di natura economica: l’ordine spontaneo della catallassi come forma di società aperta che garantisce il coordinamento e la libertà dei singoli individui, ognuno con le proprie aspirazioni e con una conoscenza limitata, che in tale ambito trovano adeguata realizzazione. Con Popper le cose cambiano non poco, anche perché, come abbiamo visto, il modello di società che ha in mente deve salvaguardare non solo la libertà ma anche la «sicurezza». È probabilmente per questo che la distinzione popperiana tra società aperta e chiusa può essere pensata più in chiave sociale e politica che economica29. Il riconoscimento della fallibilità e limitatezza della ragione umana, non gli fa individuare come soluzione quella di un ordine impersonale fondato su dinamiche economiche in cui la ragione politica, che è per definizione entità collettiva e sociale, deve intervenire il meno possibile. Il suo modello di società, insomma, non si configura come un ordine spontaneo in cui la libertà individuale è garantita dal lasciare i singoli individui liberi In questo, del resto, Popper sembra più propenso di Hayek ad accettare le conquiste «sociali» e la rivalutazione della dimensione politica cui si assiste nella contemporaneità. Gli stessi studiosi di storia economica, a proposito del Novecento, parlano di un secolo in cui si assiste al graduale «progresso della socializzazione» a fronte di un «superamento del capitalismo». Lo storico dell’economia cui facciamo riferimento, in particolare, ritiene che l’uomo del XX secolo trova nella «solidarietà collettiva», frutto dell’emergere delle politiche statali a favore del welfare, quella «sicurezza» che l’uomo del XIX secolo cercava nella proprietà individuale e nel patrimonio familiare. Cfr. Piettre (1966), p. 504. 29

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di agire nel contesto economico. Nella società aperta di Popper esiste un governo, eletto democraticamente, che rappresenta quella dimensione politica cui è dato intervenire sulle inevitabili storture presenti in un sistema economico concorrenziale, per impedire le ingiustizie e difendere i più deboli. Per garantire tanto la libertà quanto la sicurezza degli individui stessi. A tal proposito Popper ricorda l’«ingiustizia» e l’«inumanità del sistema di capitalismo sfrenato» descritto da Marx nell’800, e sostiene che «se lo stato si limita soltanto a proteggere i cittadini dalla violenza fisica» finisce col fallire nel suo scopo nella misura in cui non protegge i più deboli dall’«abuso del potere economico». Tale importante considerazione conduce Popper alla conclusione per cui «il principio del non interventismo, proprio del sistema economico sfrenato, deve essere abbandonato (has to be given up)», e se noi vogliamo salvaguardare la libertà, dobbiamo chiedere che la politica della libertà economica sfrenata venga sostituita dall’interventismo statale (by the planned economic intervention of the state)30. Malgrado fossero partiti da premesse epistemologiche simili, Hayek e Popper presentano notevoli differenze nell’applicazione in ambito sociale delle stesse. A riprova di una frattura nel pensiero liberale che è riscontrabile studiando l’evoluzione stessa del liberalismo del XX secolo, frattura di cui vanno ricostruite le origini e che impone una riqualificazione del pensiero politico di Hayek, che a questo punto si lascia difficilmente esaurire all’interno del generico aggettivo «liberale»31. Ibid., v. II, pp. 124-5. La frattura all’interno del pensiero liberale, cominciata negli ultimi anni dell’800 e sviluppatasi col Novecento, vede sulle posizioni di Hayek autori quali Röpke, Mises e de Jouvenel. Quest’ultimo, a titolo d’esempio, insistendo proprio sulla «contrapposizione inevitabile» tra liberté ou sécurité, biasima la deriva statalista del liberalismo del Novecento, in particolare laddove scrive che «gli uomini, riconsegnando allo stato i proprio diritti individuali, per ricevere in cambio i diritti sociali», restituiscono alla natura la libertà ricevuta in cambio di una sicurezza che si vuole ricevere. Quando in realtà «la plénitude de la liberté implique la plénitude du risque», de Jouvenel (1945), pp. 425-6. Per una disamina più ampia cfr. Schaller (1950), pp. 174 ss. 30 31

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no degli aspetti principali, se non il principale, che caratterizza la frattura all’interno del pensiero liberale di cui abbiamo fatto cenno nel capitolo precedente, è data dal fatto che la parte maggioritaria del liberalismo «moderno» accetta di intervenire sulle disposizioni della natura e del caso e, in ultima analisi, propone che lo stato si adoperi attivamente per stabilire una quanto più possibile parità delle condizioni di partenza fra tutti gli individui. L’esempio più illustre è costituito da J. Rawls, laddove propone «una concezione della giustizia che annulli (nullifies) gli accidenti della dotazione naturale e la contingenza delle circostanze sociali (the contingencies of social circumstances)», poiché «l’arbitrio presente nel mondo deve essere corretto […]»1. Lo scopo del filosofo americano è oltremodo chiaro: affermare il principio dell’«equa uguaglianza delle opportunità» attraverso la costruzione di un «sistema di giustizia di sfondo» che garantisca la «mobilità sociale» anche ai meno avvantaggiati2. Ma già il sociologo britannico Tawney, in un saggio del 1931 dal titolo significativo («Equality»), descrive la «parità delle condizioni» come fatto a quel tempo accettato da tutti, fornendone una definizione inequivocabile: «La parità delle condizioni è effettivamente reale soltanto nella misura in cui ogni membro di una comunità, quali che siano la nascita, il mestiere o la posizione sociale, possiede in maniera formale e sostanziale 1 2

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Rawls (1971), pp. 15 e 141. Rawls (1982), p. 364.

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delle chances uguali di utilizzare completamente i propri talenti naturali, fisici, caratteriali e intellettivi»3. La crisi del ’29, con la fine della base aurea e del mercato autoregolantesi e, con essi, di molti dei capisaldi del liberalismo classico, crollato di fronte agli straordinari rivolgimenti dei primi decenni del ’900, avevano portato molti autori liberali a prendere atto del cambiamento di paradigma che si imponeva tanto sul piano teorico quanto su quello sociale. Significativo è il caso di un pensatore come Ortega Y Gasset, fortemente individualista e teorico della società guidata da una «minoranza scelta (minoría selecta)», ma disposto ad ammettere e anzi propugnare un «intervento deliberato e programmato dello stato» volto ad assicurare l’«uguaglianza economica» e la «giustizia sociale»4. Del resto il liberale spagnolo ha ben chiaro il fatto che la cosiddetta «società» non è mai ciò che il nome promette, poiché in essa sono presenti anche elementi di «dissociazione» e «repulsione tra gli individui», tanto da renderla una realtà malferma e deficitaria «per costituzione». In tal senso, se le società arcaiche avevano bisogno del frequente intervento da parte di un potere pubblico, spesso e volentieri in forma violenta, ora che si sono sviluppate hanno comunque bisogno di un «corpo speciale incaricato di far funzionare quel potere in maniera incontrastabile»: questo corpo speciale è ciò che comunemente viene chiamato «Stato (Estrado)»5. Ma spostiamoci su un piano più prettamente socio-economico e leggiamo Keynes, il quale, nella sua opera principale, scrive agli inizi degli anni ’30 che «la teoria classica» (quella dell’individualismo sfrenato, del laissez-faire, del non intervento dello stato nelle questioni economiche) rappresentava «il modo nel quale vorremmo che la nostra economia si comportasse, ma supporre che di fatto essa si comporti così, significa ritenere Cit. in Canto-Sperber e Urbinati (2003), pp. 189-190. Cfr. Mermall (1998), pp. 26-7. 5 Ortega Y Gasset (1957), p. 312. Per una diversa interpretazione del liberalismo di Ortega Y Gasset cfr. Pellicani (2006) ed Ercolani (2006). 3 4

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inesistenti le grandi difficoltà cui ci troviamo di fronte»6. Tali considerazioni portano il teorico del New Deal a concludere che «l’intervento dello stato», per esempio per promuovere e finanziare nuovi investimenti, costituisce «l’unica via di uscita da una depressione prolungata e forse interminabile»7. Quanto Keynes aveva compreso da economista era stato peraltro teorizzato circa vent’anni prima da Hobhouse su un piano squisitamente teorico-politico. Questi, criticando il liberalismo classico («ottocentesco») e i forti limiti da esso presentati nella realizzazione concreta di una libertà uguale per tutti, si fa promotore di un nuovo liberalismo che garantisca il benessere (welfare) degli individui e l’effettiva presenza di diritti che rendano possibile la piena realizzazione di tutti i membri della società. Per ottenere ciò, precisa Hobhouse, non si richiede affatto il cambiamento rivoluzionario dell’organizzazione politica e statale, ma un governo in cui «lo stato sia investito di una certa sovranità rispetto alla proprietà in generale e di un potere di supervisione sull’industria in generale». Un tale principio di sovranità economica, conclude Hobhouse, può essere istituito di pari passo con quella «giustizia economica» che l’autore considera parimenti fondamentale ai fini di un vero liberalismo economico8. Questo processo di democratizzazione della teoria liberale, disposta col XX secolo a riconoscere importanza anche al concetto di uguaglianza, si è affermato in maniera netta nella maggior parte dei paesi occidentali, tanto da condurre un poli6 Keynes (1936), p. 34. Per una sintesi efficace della vera e propria «rivoluzione mondiale» che a livello economico-sociale avvenne in quegli anni di crisi del sistema liberale ottocentesco cfr. Arrighi (1994), pp. 358-9. 7 Keynes (1971-89), vol. XXI, pp. 59-60. Al contrario di quanto certi autori (fra cui Hayek) hanno affermato, l’adesione di Keynes ad alcune pratiche vagamente socialistiche non era ideologica, bensì dettata dall’analisi scientifica della realtà socio-economica che il grande economista si trovava di fronte. Lui stesso ricorda come per molti anni avesse convintamente sostenuto le teorie del liberalismo classico e come le avesse dovute abbandonare sulla scorta della necessità imposta dagli eventi, cfr. Keynes (1936), p. VI. 8 Hobhouse (1911), p. 108.

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tologo italiano contemporaneo a definire il sistema dei governi dell’Occidente «una matassa composta da due fili (a skein with two threads)», in cui i due fili, evidentemente intrecciati e ormai indivisibili, rappresentano tanto l’istanza liberale (libertà) quanto quella democratica (uguaglianza)9. Ciò risulta ancora più evidente se dal piano politologico e sociologico ci spostiamo su quello più prettamente storico, perché allora non si può non prendere atto del fatto che dal 1945 quasi tutti gli stati occidentali, nelle intenzioni e nei fatti, abbandonarono la supremazia del mercato per convertirsi a una «gestione attiva e pianificata dell’economia da parte dello stato». Significativo, d’altra parte, è il fatto che lo stesso storico da noi citato, poche righe più avanti rileva come tra i maggiori fautori di un ritorno a un’economia di mercato completamente libera, pena la caduta del capitalismo occidentale verso «la via della schiavitù», vi fosse proprio Hayek, relegato però in quegli anni, e per buona parte del Novecento, al ruolo di «profeta nel deserto»10. È indubitabile che Hayek, votato al «culto della spontanei11 tà» , nell’ambito di questa frattura interna al pensiero liberale si schiera con coloro che sono nostalgici del liberalismo classico Sartori (1987), pp. 383-4. Per un’analisi esemplare del liberalismo classico e delle evidenti «clausole di esclusione» rispetto alle libertà da esso teorizzate cfr. Losurdo (2005). 10 Hobsbawm (1994), pp. 176-7. Per una sintesi storica delle modalità con cui il liberalismo europeo si è convertito all’interventismo (e al protezionismo) statale «ben oltre il punto considerato accettabile dalla dottrina liberale classica», cfr. Lichteim (1972), pp. 37-9. Anche Schumpeter (1943), pp. 423-5 prende atto della molta strada fatta dai principi del capitalismo del laissezfaire, tanto che «oggi è possibile regolare le istituzioni capitalistiche al fine di condizionare il lavoro dell’impresa privata in una maniera che differisce solo di poco da una genuina pianificazione socialista». 11 L’espressione è di T. Maulnier (1937), p. 155. Lo stesso autore parla dei teorici liberali classici come di coloro che «avevano rivendicato per l’attività economica un dominio proprio», da cui erano esclusi politici, giuristi e moralisti. A tali figure era richiesto di astenersi dall’intervenire in un ambito in cui «le sole leggi naturali, immodificabili se non al prezzo di disordine, rovina e catastrofe, dovevano regolare tutti i rapporti umani» (p. 110). 9

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e propongono di lasciare intatto quanto più possibile l’ordine spontaneo regolato dalla natura e dal caso. Poiché esiste un ordine naturale voluto da Dio, questa la sintesi data da Pirou della teoria spontaneista, poiché esso è il migliore possibile, dobbiamo astenerci rigorosamente dall’intervenire nel meccanismo economico: lasciamo che le cose si sviluppino liberamente e si ordinino spontaneamente12. Escludendo l’esplicito riferimento alla provvidenza divina, possiamo dire di essere perfettamente all’interno della dimensione catallattica proposta da Hayek, in cui tutti gli individui competono liberamente alla ricerca del proprio profitto regolati da quell’ordine spontaneo che, proprio perché fondato su regole generali e impersonali, non contempla l’intervento diretto di alcuna autorità politica centrale. Ma tale concezione solleva delle problematiche cui Hayek non sembra voler riconoscere particolare dignità. Queste problematiche, nella loro essenza, riconducono a un quesito unico: quanto può dirsi veramente democratica, quindi impersonale, generale, valida per tutti, questa dimensione della catallaxy in cui, apparentemente, tutti gli individui sono liberi di intraprendere e di competere come meglio credono, di ricercare i propri fini in base alle conoscenze e alle risorse di cui dispongono? Quanto, soprattutto, lo stesso Hayek sembra contrastare quell’aspetto così fondamentale che è dato proprio dalle risorse che ogni individuo possiede prima di poter intraprendere una qualche azione economica, in altre parole dalle opportunità di partenza che lo caratterizzano?13 Pirou (1939), p. 233. È bene chiarire subito che l’idea di «uguaglianza delle possibilità» è accettata da Hayek soltanto in senso formale, come uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e alle regole di condotta. Mentre rifiuta categoricamente «l’idea di assicurare direttamente l’uguaglianza delle possibilità in senso materiale», poiché ciò comporterebbe un intervento dello stato per annullare le differenze che si sono create spontaneamente tra i «giocatori». È assurdo anche pensare di rendere uguali le posizioni «iniziali», poiché in un «gioco che è già cominciato» quale senso può mai avere il concetto stesso di «inizio»? Meglio lasciare al «gioco catallattico» il compito di migliorare spontaneamente le cose. Cfr. Nemo (1988), pp. 237-240. L’interprete francese 12 13

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Ben prima di Hayek, l’eccentrico economista svedese Knut Wicksell, comunque appartenente alla schiera degli economisti neoclassici e impegnato a perfezionare la teoria marginalistica, aveva posto il problema delle condizioni di partenza di ogni individuo, ben prima del momento in cui il medesimo individuo potrà iniziare la sua intrapresa competitiva: «Costituisce un dato evidente il fatto che tutti gli argomenti in favore della libera concorrenza si basano su un fondamento inespresso che, tuttavia, è bel lontano dalla realtà: questo fondamento è che tutti gli individui, sin dalle condizioni iniziali, siano uguali. Se le cose stessero così, è evidente che ognuno sarebbe in possesso della medesima capacità di lavorare, della medesima educazione e, sopra ogni cosa, delle medesime condizioni economiche di partenza. In tal caso sarebbero avvalorate molte affermazioni in favore di una libera e perfetta concorrenza, e ogni persona cui sfuggisse il successo dovrebbe imputare solo a se stessa il fallimento. Ma se invece tutte le condizioni di partenza sono sostanzialmente diseguali, se fin dall’inizio del gioco alcuni possiedono buone carte mentre agli altri rimangono quelle infime, in tal caso la libera concorrenza non può in nessun modo impedire ai primi di vincere ogni mano e ai secondi di pagare immancabilmente il piatto»14. Ora, sarebbe in questa sede fin troppo agevole limitarsi a rintracciare dei passi tratti dalle opere di Hayek in cui il filosofo austriaco dimostra di aver considerato questo aspetto della vicenda, ma di averlo rifiutato come improprio e indegno di considerazione. Per esempio laddove scrive che «dal punto di vista dell’individualismo, sembrerebbe non porsi neppure il problema di far sì che tutti gli individui partano dalle medesime condizioni, impedendo ad alcuni di approfittare dei vantaggi che non hanno conquistato loro stessi, come ad esempio l’essere nati da di Hayek che abbiamo citato ritiene che contro questa «accettazione della fatticità o contingenza della vita» sia stato indirizzato tutto il sistema dell’opera di John Rawls (p. 240). 14 Citato in Gardlung (1958), pp. 208-9.

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genitori più intelligenti e più consapevoli rispetto alla media», ammettendo pure che, in questo aspetto, il suo individualismo è meno individualista del socialismo perché riconosce la famiglia come unità legittima tanto quanto l’individuo15. Ma proprio questo riferimento all’individualismo, e alla libertà individuale quale cardine dell’agire economico e dell’agire in generale degli uomini, ci fa capire che dobbiamo soffermarci su un altro aspetto problematico posto dalla teoria della catallaxy proposta da Hayek. Infatti, anche a voler mettere da parte il discorso sulle condizioni di partenza dei singoli individui, discorso che Hayek esplicitamente rifiuta nel senso che abbiamo analizzato, ci sembra comunque una visione idilliaca, ingenua e irreale quella per cui tutti gli individui, indistintamente e a prescindere dalle condizioni sociali esterne, sono in possesso della facoltà di agire liberamente nel campo del proprio lavoro, come se il mondo fosse composto da tutti piccoli (o grandi) imprenditori che si affrontano felicemente, e costruttivamente, per il benessere della propria azienda o impresa16. Il problema, in realtà, sta proprio qui: individuo e impresa non coincidono, l’evoluzione economica ha visto il formarsi di imprese organizzate, costruite secondo un modello gerarchico in cui sono ben 15 Hayek (1948), p. 31. Del resto lo stesso Schumpeter (1943), p. 171, in una nota a margine tanto significativa quanto trascurata, scriveva che «per quanto possa suonare paradossale, individualismo e socialismo non sono necessariamente opposti. Si può sostenere che la forma socialista di organizzazione garantirà una realizzazione della personalità “veramente” (truly) individualistica, cosa che sarebbe perfettamente in linea con la concezione marxiana». Su quanto la tradizione hegelo-marxiana abbia portato avanti una concezione più «universale» dell’individualismo mi permetto di rinviare ad Ercolani (2002), in particolare le pp. 63-5. 16 Anche Schumpeter era molto critico con Hayek su questo aspetto, ritenendo che i principi di iniziativa individuale e autonomia descritti in The Road to Serfdom, appartengono storicamente a una classe sociale molto limitata di individui. Hayek «si occupa di idee e principi come se volteggiassero nell’aere», afferma Schumpeter, criticando con ciò la mancanza di una riflessione sull’origine problematica del potere in senso lato. Cfr. Schumpeter, in Cunningham-Wood e Woods (1991), v. II, pp. 65 ss.

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pochi quelli che hanno la facoltà di prendere decisioni liberamente (indipendents), a fronte di un gran numero di individui che invece risultano come lavoratori dipendenti e subordinati (employed). Hayek stesso, in questo caso, non ha eluso il problema, ma vi ha posto delle premesse assai opinabili per poi pervenire a delle conclusioni abbastanza contraddittorie. Analizziamo prima queste premesse. Siamo nel capitolo ottavo (parte prima) di The Constitution of Liberty, quello in cui appunto il filosofo analizza il lavoro subordinato e quello indipendente. Lo stesso Hayek comincia col riconoscere che molti degli assunti liberali da lui descritti fino a quel momento valevano più che altro per i tempi precedenti, quelli in cui una grande parte degli individui poteva svolgere un lavoro indipendente. Ma, prosegue il filosofo nella sua analisi, le società di oggi ci vedono, in larga parte, in qualità di impiegati di grandi organizzazioni. Prima di proseguire nel ragionamento, però, Hayek vuole sgombrare il campo da quello che ritiene un mito costruito dalla vulgata socialista, quello per cui il sorgere di una grande massa di lavoratori subordinati, nullatenenti perché non proprietari di mezzi di produzione, sia stato un risultato storico negativo prodotto dall’espropriazione operata dal sistema capitalistico. Per Hayek le cose andarono diversamente: se fino a un certo momento solo chi ereditava una casa, o un pezzo di terra con gli attrezzi, poteva permettersi di formare una famiglia, più tardi chi non poteva usufruire di eredità riuscì a sopravvivere e a costruirsi una famiglia soltanto grazie al fatto che per i ricchi imprenditori divenne redditizio e fattibile usare il proprio capitale per dare impiego a molti: «Quindi il capitalismo ha creato il proletariato, ma lo ha fatto dando a molti la possibilità di sopravvivere e di procreare»17. Il grande rammarico di Hayek, semmai, e qui riprende il ragionamento momentaneamente interrotto, è che ciò ha prodotto un aumento sconsiderato dei lavoratori dipendenti, che sono diventati la maggioranza e hanno 17

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cominciato a coltivare idee ostili rispetto al vero motore della società: l’impresa indipendente. A questo punto Hayek comincia a gettare le sue carte: «Il significato politico di questo sviluppo è stato accentuato dal fatto che, mentre il numero dei dipendenti e proletari andava rapidissimamente aumentando, fu loro accordato anche il diritto di voto18, da cui la maggior parte di loro era stata fino ad allora esclusa. Di conseguenza, nei paesi dell’Occidente (salvo qualche eccezione) l’opinione della grande maggioranza degli elettori si trovò determinata dalle posizioni dipendenti in cui essi erano. Poiché oggi la loro opinione, per lo più, domina la politica, vengono adottati provvedimenti che rendono relativamente migliori le posizioni dipendenti e sempre peggiori quelle indipendenti. Che i lavoratori dipendenti sfruttino così il loro potere politico è più che naturale. Il problema è se alla lunga sia nel loro interesse che la società si trasformi così, progressivamente, in un’unica vasta gerarchia di impiegati e salariati. Un simile risultato pare probabile a meno che la maggioranza dei dipendenti non arrivi a riconoscere che sarebbe nel suo interesse garantire la conservazione di un importante numero di indipendenti. Perché se non lo faranno, a un certo punto scopriremo tutti che la nostra libertà ne ha risentito, e i lavoratori dipendenti scopriranno che, privati di una grande varietà di scelta tra datori di lavoro, la loro posizione non sarà più quella che era»19. Hayek, ben lungi dal ritenere che questo sviluppo storico del sistema capitalistico fosse anch’esso un risultato dell’ordine spontaneo, che andava analizzato e accettato dagli scienziati sociali, propone una soluzione vagamente costruttivistica, quella per cui la maggioranza dei lavoratori dipendenti dovrebbe riconoscere (le modalità rimangono vaghe, comunque) la necessità di garantire un numero auspicabile di lavoratori indipendenti 18 Il corsivo è nostro, per evidenziare il disappunto di Hayek rispetto a questa ulteriore sciagura, quella di concedere anche il diritto di voto ai non proprietari. 19 Hayek (1960), p. 119.

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per il bene di tutta la società. Definire la cosa vaga, significa rendere un omaggio all’intelligenza del filosofo. La cui paura è che, oltre al lavoro dipendente, si vada diffondendo la «mentalità» del lavoro dipendente, quello per cui le persone si adagiano sempre di più sull’idea di essere tutelati dalle istituzioni, da quello Stato che piano piano diventerebbe l’unico datore di lavoro, secondo il tetro disegno dei socialisti, col risultato che diminuirebbero le persone che «accettano il rischio e la responsabilità di organizzare l’uso delle risorse» (the risk and responsability of organizing the use of resources)20. Ma al di là di queste considerazioni, rimane per Hayek il problema di come fare salvo l’agire individuale nell’ambito, per esempio, di un’impresa in cui è comunque presente una rigida organizzazione gerarchica nella quale i lavoratori dipendenti potrebbero avere scarsi margini di iniziativa anche volendo. Un tentativo di soluzione, non privo di problemi che restano aperti, possiamo rintracciarlo più avanti, nella stessa opera, laddove Hayek ricorre nuovamente alla già vista distinzione fra «norme generali» (general rules) e «comandi specifici» (specific commands)21. Nel fare ciò il filosofo sembra sconfessare quanto Ibid., p. 121. Un grande antesignano di Hayek, Herbert Spencer, esprimeva preoccupazioni simili laddove scriveva che “ogni nuova interferenza dello Stato rinforza il tacito assunto per cui è dovere dello Stato stesso combattere i mali e assicurare i benefici. Il potere crescente di una sempre più pervasiva organizzazione amministrativa (growing administrate organization) è accompagnato dal decrescere del potere nel resto della società di resistere ad un suo ulteriore sviluppo e dominio. La moltiplicazione degli impieghi, avviata da una burocrazia crescente, costituisce una tentazione per i membri delle classi governate dalla burocrazia stessa, che ne favoriscono quindi l’estensione ritenendo così di aumentare le possibilità di trovare posti sicuri e onorevoli per i loro congiunti», Spencer (1892), p. 314. 21 Del resto anche in un’opera successiva, Hayek teorizzerà espressamente che «in qualche misura ogni organizzazione deve fare affidamento (must rely) anche sulle regole e non soltanto su comandi specifici, poiché guidando le azioni degli individui attraverso le regole piuttosto che attraverso i comandi specifici, è possibile fare uso di quella conoscenza che nessuno possiede nella sua interezza (to make use of knowledge which nobody possesses as a whole)», Hayek (1973), pp. 48-9. 20

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detto precedentemente, quando biasimando l’estendersi del lavoro dipendente faceva capire che soltanto quello indipendente costituiva «il motore» della società. Infatti egli ora, inevitabilmente, si vede costretto a riconoscere un ruolo alla massa crescente dei lavoratori subordinati, pena l’invalidazione della sua stessa teoria. Allora riconosce che, per esempio nella dialettica capo-subordinati all’interno di un’impresa, il primo potrà anche impartire comandi specifici, con la conseguenza (che è anche un limite) che non vi saranno margini di iniziativa per i subordinati e che quindi non potrà essere utilizzata appieno la conoscenza dispersa fra i vari individui; ma questo stesso capo, nella maggior parte dei casi «servirà meglio ai suoi scopi se darà semplici istruzioni generiche sul tipo di azioni da compiere o sui fini da realizzare in determinati periodi, e lascerà ai vari individui il compito di completare i particolari a seconda delle circostanze: ossia delle loro conoscenze. Tali istruzioni generiche costituiranno già di per se stesse un certo tipo di norma, e l’azione completa in conformità ad esse sarà in parte guidata dalle cognizioni del capo e in parte da quelle degli esecutori. Sarà il capo a decidere i risultati da realizzare, quando, da chi, e forse con quali mezzi; ma il particolare modo in cui vengono realizzati sarà deciso dagli individui responsabili. I domestici di una famiglia o i lavoratori subordinati di una fabbrica saranno, così, principalmente occupati ad eseguire ordini permanenti, adattandoli continuamente alle circostanze e ricevendo solo occasionalmente comandi specifici»22. Ora, non si vuole negare una certa originalità alla soluzione di Hayek, né disconoscergli una qualche forma di coerenza con l’intero impianto della sua concezione, però ci risulta obiettivamente difficile immaginare che quell’individuo, descritto dal filosofo stesso come libero di realizzare i propri fini in base ai mezzi e alle conoscenze di cui dispone, possa essere il medesimo che, in posizione subordinata, lavora (non si sa bene a quali condizioni, poi, perché Hayek non entra nel merito) per qual22

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Hayek (1960), pp. 150-1.

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cun altro che ha già deciso «i risultati da realizzare, quando, da chi, e forse con quali mezzi» raggiungerli. Insomma, la situazione del libero agire degli individui, nell’ambito di società complesse e industrialmente sviluppate, ci sembra assai più complessa e problematica rispetto a come è stata delineata da Hayek. Il problema, se vogliamo spingerci più oltre, sembra concentrarsi su una questione nodale: quanto è compatibile il sistema della catallaxy, ideato da Mises per poi essere ripreso e perfezionato da Hayek, con la democrazia come la intendiamo noi oggi? Mises riteneva che la democrazia fosse «inestricabilmente legata al capitalismo»23, perché fondata su meccanismi spontanei e di libero agire individuale per i quali, per esempio, il «consumatore» era il vero signore della produzione, in quanto, con la sua libertà di scegliere quale prodotto comprare e quale no, risultava come il vero deus ex machina del sistema capitalistico, ai cui gusti gli stessi capitalisti dovevano adeguarsi24. Mises (1922), p. 539. Mises parla a tal proposito di «democrazia dei consumatori», Ibid., p. 443. In termini ancora più espliciti si esprime Friedman (1962), p. 4, il quale ritiene che la libertà economica è «condizione necessaria» per la libertà politica. Quanto la teoria della sovranità del consumatore sia semplicistica e riduttiva possiamo ben accorgercene oggi che viviamo in società in cui la pubblicità, i messaggi subliminali che fanno assurgere al grado di status symbol alcuni prodotti, insomma la «creazione artificiale del bisogno», pervadono buona parte del nostro vivere. Più curioso è il fatto che nessuno di questi apologeti della sovranità del consumatore si fosse ricordato di quella pagina illuminante in cui Marx (nel 1858!) scriveva che «la produzione non è soltanto immediatamente consumo, né il consumo immediatamente produzione; né la produzione è soltanto mezzo per il consumo e il consumo scopo per la produzione, sì che ciascuno dei due termini fornisce all’altro il suo oggetto, la produzione l’oggetto esterno al consumo, il consumo l’oggetto ideale alla produzione; bensì ciascuno di essi – oltre ad essere immediatamente l’altro e il mediatore dell’altro – realizzandosi crea l’altro, si realizza come l’altro». Insomma, intendeva il filosofo di Treviri facendo uso del metodo dialettico nella comprensione di due dimensioni fortemente connesse, «la produzione produce il consumo, creando il modo determinato di consumo e, poi, creando lo stimolo al consumo, la capacità stessa di consumare sotto forma di bisogno», Marx (1857-8), v. I, pp. 17-8. Un meccanismo, quello dell’economia che si è 23 24

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Arrivare addirittura al punto di riconoscere i consumatori come i veri signori del sistema, ma anche concepire tutti gli individui indistintamente come liberamente partecipanti a quel grande ordine spontaneo della catallaxy, ci richiama alla mente, un po’ malignamente, le parole con le quali un grande reazionario francese dell’Ottocento aveva bollato gli intenti dei rivoluzionari: «Quando gli spiriti scaltri e in mala fede convincono il popolo che esso è il sovrano, gli offrono, come il serpente a Eva, il frutto proibito»25. Sarà forse anche per questo che Hayek, più in là nel tempo, riconosce che non soltanto i collettivisti, i pianificatori o le nuove istituzioni monetarie, ma anche e soprattutto le «istituzioni politiche» democratiche, ormai prevalenti nel mondo occidentale minacciano di distruggere l’economia di mercato? Tanto che, a distanza di trent’anni, riteneva di trovarsi d’accordo con Schumpeter, laddove questi aveva teorizzato un «conflitto insanabile» (irreconcilable conflict) tra democrazia e capitalismo?26

resa indipendente dall’uomo, fino a pervenire all’«occupazione totale della vita sociale» e a realizzare un «consumo alienato» alimentato dalla creazione di «pseudo-bisogni», descritto magistralmente da Debord (1967), §§ 42, 43, 47 e 51. 25 De Bonald (1858), p. 379. Anche senza voler essere maligni si può notare come l’anarco-capitalista Rothbard, più coerentemente, ammetteva che «se è vero che in un’economia di libero mercato le persone tendono a produrre quei beni che vengono richiesti dai consumatori, tuttavia non vi è nulla di obbligatorio in tutto ciò. È semplicemente una scelta indipendente del produttore, la cui dipendenza dal consumatore è frutto della sua volontà di massimizzare l’utile, da lui liberamente revocabile in qualsiasi momento», Rothbard (1962), p. 629. 26 Hayek (1978), p. 107.

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Costruttivismo versus evoluzionismo: le aporie dell’«ordine spontaneo» di Hayek davanti al tribunale della storia

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no dei più grossolani errori in cui si potrebbe incorrere studiando il pensiero di Hayek, e malgrado lo stesso autore non sempre sia del tutto chiaro a tal proposito, consiste nel fatto di ritenere schematicamente che la dimensione economica sia caratterizzata soltanto da un’evoluzione coordinata dall’ordine spontaneo, mentre nella dimensione politica avvenga uno scontro tra «costruttivisti» ed «evoluzionisti», con il filosofo austriaco che si schiera convintamene dalla parte dei secondi. Quindi cerchiamo di fare chiarezza e di sgombrare il campo da possibili, e nefasti, fraintendimenti. Innanzitutto, e lo abbiamo visto, l’economia non è regolata soltanto dall’ordine spontaneo della catallaxy. In realtà nella dimensione economica sono ben presenti i piani individuali (generati dal perseguimento dei fini che ogni individuo si propone in base alle sue risorse e conoscenze), così come, con l’evoluzione storica, si sono formate delle imprese vere e proprie, che sono strutture «organizzate» secondo i piani coscienti di un capo o di un consiglio di amministrazione. Il fatto è che, semplicemente, poiché le risorse a disposizione di ciascuno sono limitate, così come, soprattutto, sono limitate le conoscenze che ogni individuo (o capo di un’impresa o consiglio di amministrazione) possiede rispetto a tutte le informazioni (disperse) che caratterizzano un mercato, Hayek ritiene che il modo migliore di far funzionare il medesimo sia quello di lasciare che gli individui agiscano liberamente, senza che un autorità centrale pretenda

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di pianificare tutta l’attività economica1. In questo modo, il mercato competitivo stesso (nella sua globalità, quindi in quanto catallaxy), si rivela, anche e soprattutto attraverso il meccanismo impersonale dei prezzi, un elemento che tende spontaneamente a coordinare i piani, le aspettative e le azioni dei singoli individui, di per sé fallibili e non perfettamente informati2. Allo stesso modo nella dimensione politica, del diritto e delle istituzioni politiche, Hayek è coerente con l’individualismo metodologico del suo maestro Mises (e dell’iniziatore Carl Menger3 per cui riconosce che si deve partire dall’analisi delle azioni (così come dei pensieri, dei progetti etc.) consapevoli dei singoli individui ma, ancora una volta, trattandosi di individui fallibili e parziali inseriti in un contesto interpersonale e complesso, si devono tenere ben presenti anche le «conseguenze in-intenzionali (unintended consequences)» di tali azioni4. Queste conseguenze in-intenzionali, imprevedibili e non pianificabili da alcun individuo o autorità centrale, portano al formarsi, attraverso una selezione naturale di stampo evoluzio1 Per quanto concerne la salvaguardia della libertà individuale all’interno di imprese strutturalmente organizzate (ma anche della potenziale ricchezza data dai tanti individui dipendenti, ognuno col proprio bagaglio di saperi), abbiamo visto che Hayek suggerisce ai capi delle imprese stesse di lasciare il più possibile la libertà ai dipendenti di scegliere «come» svolgere i propri compiti, limitandosi il più possibile a stabilire regole generali (general rules) e a contenere ordini precisi (specific orders). 2 In particolare Gerald P. O’Driscoll (1977) ha ritenuto di individuare un filo comune che lega tutto il pensiero di Hayek: quello del «problema economico come problema di coordinamento (p. 28), per cui emerge una «concezione globale dell’economia in quanto analisi della pianificazione decentrata e del coordinamento del mercato (p. XXI)». 3 Per una ricostruzione del concetto di «individualismo» nell’ambito del pensiero economico fino ai primi del Novecento, si segnala per esaustività Schatz (1907). 4 «Dopo tutto», scrive Milton Friedman (1962), p. 118, «la diversità fra risultati e intenzioni è una delle fondamentali giustificazioni di una società libera: è desiderabile lasciare che gli uomini seguano la china dei loro propri interessi, perché non c’è alcuna possibilità di preveder con sicurezza a quali risultati porteranno».

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nistico (un ordine spontaneo), di «norme di condotta (rules of conduct)» generali e astratte che regolano tutta l’esistenza degli uomini e che, in tal senso, precedono la formazione delle istituzioni stesse e delle leggi stabilite coscientemente dal potere legislativo. In una parola: precedono il governo (e, in teoria, ne stabiliscono limiti e competenze)5. È appena il caso di dire che tale concezione aveva trovato già in Herbert Spencer, autore centrale nell’ambito dell’approccio evoluzionistico allo studio della società, una chiara esplicazione a livello logico. Questi, infatti, dopo aver notato che rimuovere gli ostacoli che impediscono la libera attività degli individui (come aveva fatto il liberalismo della generazione a 5 «Tra le istituzioni che esistono all’interno di una Grande Società, una che di regola occupa una posizione molto speciale è quella che noi chiamiamo governo. Sebbene si possa concepire che l’ordine spontaneo che chiamiamo società possa esistere senza un governo quando il minimum di regole necessarie per la formazione di tale ordine venga osservato senza che esista un apparato organizzato per la loro implementazione, nella maggior parte dei casi l’organizzazione che chiamiamo governo diviene indispensabile per assicurare che queste regole vengano osservate. Questa particolare funzione del governo è talvolta simile a quella di una squadra di sorveglianza e manutenzione all’interno di una fabbrica, il cui compito non è quello di produrre alcun particolare bene o servizio che debba essere consumato dal pubblico, ma piuttosto di controllare che il meccanismo regolante la produzione di quei beni e servizi si mantenga correttamente in funzione. Gli scopi per cui questo meccanismo è usualmente utilizzato sono determinati da coloro che utilizzano le sue parti, e, in ultima analisi, da coloro che compreranno i suoi prodotti. Comunque, da questa medesima organizzazione, che ha il compito di mantenere in ordine una struttura funzionante che gli individui utilizzeranno per i loro propri scopi, oltre a quello di implementare le regole su cui quell’ordine si basa, ci si aspetterà che renda degli altri servizi che l’ordine spontaneo non può produrre adeguatamente. Queste due distinte funzioni del governo non vengono di solito chiaramente separate; tuttavia, come vedremo, la distinzione tra le funzioni coercitive del governo, in cui esso implementa le regole di condotta, e le sue funzioni di fornire dei servizi, in cui necessita solo di amministrare delle risorse poste a sua disposizione, è di importanza fondamentale. Nello svolgere le seconde è un’organizzazione fra le tante, e come le altre parte di un superiore ordine spontaneo complessivo, mentre nello svolgere le prime assolve a una condizione essenziale perché venga preservato tale ordine complessivo», Hayek (1986), corsivi nostri, pp. 62-3.

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lui precedente) equivale a specificare meglio anche gli ambiti entro i quali occorre delimitare l’attività dello stato, e dopo aver dedotto che il riconoscimento della giustezza di ridimensionare fattivamente l’attività governativa costituisce un elemento preparatorio a un riconoscimento anche teorico della cosa, spinge avanti il proprio ragionamento fino a concludere che «una delle verità più conclamate in politica consiste nel fatto che, nel corso dell’evoluzione sociale, l’uso precede la legge (usage precedes law); così quando questa consuetudine si è ben affermata, diventa alla fine legge ottenendo un riconoscimento (endorsement) e una formulazione definitiva da parte dell’autorità. È quindi chiaro che il liberalismo, con la sua pratica di limitazione dell’attività del governo fin dal passato, ha preparato la strada per l’innalzamento della suddetta pratica a principio»6. Al fine di una maggiore chiarezza, conviene ricorrere ad un esempio che costruiamo in base alle argomentazioni dello stesso Hayek. Se nell’ambito del libero agire (o meglio: interagire) fra gli uomini delle società arcaiche (rette da piccole tribù o comunità stabili), uomini appunto in possesso di una conoscenza fallibile e parziale, si è visto che le tribù che ottenevano maggiori successi, sopravvivendo quindi alla selezione naturale operata dall’ordine spontaneo, erano quelle che seguivano alcune regole piuttosto che altre (per esempio la difesa della proprietà privata, il rispetto dei contratti etc.), la funzione di un governo, di un’istituzione che quindi viene dopo queste regole (è una «superstruttura eretta sopra un sistema preesistente di norme»), sarà quella di «organizzare la sanzionabilità e l’implementazione di quelle norme medesime», cosicché, sebbene tale istituzione (il governo) «una volta statuita possa apparire “primaria”, nel senso logico per cui ora le altre norme derivano da essa la loro autorità», in realtà essa è intesa a «rafforzare tali norme che le preesistono». «Essa crea degli strumenti per preservare l’ordine giuridico, e per procacciare l’apparato che deve provvedere a fornire altri servizi, ma essa non definisce ciò 6

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Spencer (1892), p. 292.

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che sono il diritto e la giustizia». Ciò è talmente vero secondo Hayek, che persino di fronte a una rivoluzione che sovverte l’intera struttura del governo e dello stato, la maggior parte delle «regole di giusta condotta», entrate a far parte del diritto civile e penale, continueranno a valere, malgrado la rivoluzione stessa possa essere nata sulla base di una forte contestazione ad alcune di quelle norme: «E ciò avviene perché soltanto soddisfacendo le aspettative generali un nuovo governo può ottenere il sostegno dei propri sudditi e pertanto divenire “legittimo”»7. Il filosofo austriaco riprende espressamente da alcuni pensatori (nella fattispecie, oltre che dal già visto Spencer, da Hume) questa concezione «evoluzionistica» delle norme di condotta che starebbero alla base di ogni governo e stato di diritto (rule of law). In particolare laddove David Hume considera che sebbene il governo sia una «invenzione molto vantaggiosa», e in certe circostanze «assolutamente necessaria» per l’umanità, tuttavia non è impossibile per gli uomini preservare per qualche tempo la società senza fare ricorso a tale invenzione. Ma è importante capire, prosegue il filosofo scozzese, che se anche è possibile per gli uomini mantenere soprattutto una «piccola società incolta (small uncultivated society)» senza governo, è però impossibile che riescano a mantenere una qualsiasi società senza la «giustizia» e in particolare senza l’osservanza di tre leggi fondamentali concernenti «la stabilità del possesso (the stability of possession)», il suo «passaggio per consenso (its translation by consent)» e il «mantenimento delle promesse (the performance of promises)». Ora, queste tre regole sono quindi «antecedenti al governo» e si suppone che impongano un obbligo anteriore al dovere di fedeltà (duty of allegiance) che è stato stipulato a suo tempo nei confronti dei magistrati civili (cioè dei goverHayek (1986), pp. 168-9. Un autorevole studioso di Hayek interpreta questo aspetto del suo pensiero sottolineando come sono le stesse regole che conferiscono il successo a un sistema sociale, piuttosto che a un altro, a sostituire quelle che si rivelavano poco adatte all’ambiente, cfr. Gray (1984), p. 34. 7

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nanti). Ma non solo, Hume si spinge più in là e afferma che lo stesso governo, «al suo primo costituirsi (upon its first establishment)», deriva la sua obbligatorietà proprio da quelle «leggi di natura», e in particolare da quella che concerne il rispetto delle promesse8. Il concetto è chiaro. Hayek, riprendendo il discorso di Hume (e di Spencer), ritiene di enunciare la vera concezione del «governo della legge (rule of law)». Quella per cui, appunto, sono le leggi che si affermano spontaneamente (nell’ambito del libero interagire fra gli individui), quelle che nessun individuo particolare o legislatore ha costruito nella loro completezza, a costituire il fondamento imprescindibile di ogni governo, tanto che, per riprendere Hume, l’obbligo di rispetto verso queste leggi stesse (comunque codificate, quando da una società precivile si passa a un governo organizzato) viene persino prima dell’obbedienza dovuta ai governanti. Ciò perché, potremmo dire, i governanti e i governi passano, costituiscono una «soprastruttura», ma le leggi restano e costituiscono l’ossatura, la struttura codificata del comune sentire di una società9. Abbiamo visto che per Hayek al governo spettano due compiti fondamentali e distinti: l’implementazione di tali regole (per esempio garantendo un ordine di polizia che tuteli la pro8 Hume (1826), vol. 2, III, 2, 8, pp. 318 e 320-1. La medesima idea, per cui «contratti e promesse, in presenza di evidenti benefici in cambio, sono gli unici strumenti ai quali un uomo razionale può considerarsi vincolato» è espressa, in un tempo più vicino al nostro, da Minogue (1963), p. 30. 9 Vedremo in seguito che Hayek si sentirà costretto a distinguere tra law e legislation poiché la deriva presa dai governi moderni, secondo il filosofo, ha condotto a un predominio incontrastato della seconda, per cui i governi ritengono, ingiustamente e peccando di costruttivismo, che ogni loro legificazione possa assurgere al rango di Legge, quando in realtà abbiamo visto che una legge (law) per von Hayek non viene ideata e stabilita nella sua interezza da nessuno, ma è il frutto di una evoluzione della libera interazione fra gli individui all’interno dell’ordine spontaneo, per cui ha diritto di assurgere al titolo di legge soltanto quella norma che ha sopravvissuto all’evoluzione e si è dimostrata imprescindibile per le sorti dei componenti di una società. Al governo, quindi, soltanto il compito di codificarla.

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prietà privata di ciascuno), e questa è la funzione coercitiva; e l’amministrazione delle risorse poste a sua disposizione in vista del bene comune della società, e questa è la funzione di fornire dei servizi. Ora, nel proporre la prima delle due funzioni del governo (quella per cui esso è ben lungi dal poter stabilire il diritto e la giustizia: perché essi sono il frutto dell’ordine spontaneo e dell’evoluzione tra le norme che si affermano all’interno del libero interagire tra gli individui. Il governo si deve in realtà limitare a codificare e implementare le norme stesse), Hayek ritiene di combattere la presunzione fatale dei «costruttivisti» (fondata su un abuso della ragione per cui si ritiene essa, la ragione di un individuo, di un legislatore, di un’autorità centrale, capace di sostituirsi all’evoluzione dell’ordine spontaneo e quindi di stabilire a tavolino, in sede puramente teorica e intellettuale, cosa è legge e cosa no), e così facendo di ispirarsi al liberalismo classico (classical liberalism), quello dei whig inglesi e di poche rarissime eccezioni sul territorio europeo, contrapposto al liberalismo continentale. Nel proporre la seconda di queste funzioni del governo, Hayek intende invece limitare il campo di azione dello stesso, il quale può intervenire in ambito sociale purché tale intervento sia rigorosamente «fuori del mercato», cioè non intralci l’ordine spontaneo che «governa» la catallaxy10. Cerchiamo di analizzare, in forma per quanto possibile sintetica ma esaustiva, come Hayek intende e specifica queste due funzioni del governo. 10 A titolo di esempio, Hayek (1986), pp. 292-3, scrive che «non vi è motivo per cui in una società libera lo stato non debba assicurare a tutti la protezione contro la miseria sotto forma di reddito minimo garantito, o di un livello sotto il quale nessuno scende». È infatti nell’interesse di tutti, ed è anche un dovere morale quello di assistere, all’interno di una comunità organizzata, chi non può provvedere a se stesso. L’importante è che tale reddito minimo uniforme sia fornito «fuori dal mercato», perché i problemi in realtà sorgono, nel discorso di Hayek, quando «la remunerazione per i servizi resi è determinata dall’autorità», così che viene reso «inoperante il meccanismo impersonale del mercato come guida della direzione degli sforzi individuali» (i corsivi sono nostri).

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La prima, quella coercitiva (o di codificazione e implementazione delle regole generali), nasce da una distinzione fondamentale nell’ambito del sistema del filosofo austriaco. Quella tra il «costruttivismo» e l’«evoluzionismo». Se in ambito epistemologico l’atteggiamento costruttivistico è quello che ingrandisce a dismisura il potere conoscitivo della ragione, se in ambito economico è quell’atteggiamento per cui si ritiene che una autorità centrale possa conoscere tutte le informazioni disperse nel mercato e quindi pianificare le attività del mercato stesso, in ambito politico e legislativo il «costruttivismo» è quell’atteggiamento per cui si ritiene che le leggi le facciano gli uomini con la propria ragione, che il governo migliore sia il parto della ragione di individui particolarmente dotati e che, quindi, esso possa e debba ergersi a istituzione che stabilisce ciò che è giusto o sbagliato, che produce quindi il diritto e pianifica e gestisce tutte le attività dei cittadini11. Quindi costruttivisti sono per Hayek certamente i socialisti, ma, e questo è l’aspetto più originale della sua concezione, anche molti autori liberali presenti sul continente europeo, i quali concepivano le istituzioni politiche alla luce di una tradizione filosofica molto differente da quella evoluzionistica predominante in Gran Bretagna, cioè quella di un orientamento razionalistico o costruttivistico (rationalist or constructivist view) che esigeva una intenzionale ricostruzione dell’intera società sulla base dei principi della ragione12. Gli autori incriminati da Hayek sono Descartes, Thomas Hobbes (malgrado fosse inglese), Spinoza, Voltaire e Rousseau, ma anche l’Ecole Polytechnique capitanata da Saint-Simon e dal 11 Di questo «abuso della ragione» Hayek accusa per esempio Comte, il quale, considerando la cosa dal punto di vista logico, riteneva che «il problema fondamentale della nostra riorganizzazione sociale» fosse necessariamente riducibile a questa unica condizione: «costruire una dottrina politica così ben razionalmente concepita che, nell’insieme del suo sviluppo attivo, essa possa sempre essere pienamente conseguente ai suoi propri principi», Comte (1968-71), vol. IV, p. 16. 12 Hayek (1978), pp. 119-20.

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suo allievo Comte (quest’ultima vera e propria fonte della «hybris scientista»), oltre che Hegel e Marx (ma qui già usciamo nettamente dall’ambito del liberalismo). Una delle differenze sostanziali è che mentre per la più antica tradizione inglese (e scozzese, perché Hayek si rifà espressamente a Hume e Smith, oltre che a Ferguson, Burke, de Mandeville, Spencer, e Montesquieu e Tocqueville, uniche «eccezioni» del liberalismo continentale), la libertà individuale, nel senso di una protezione attraverso la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria, costituiva il valore fondamentale; per la tradizione continentale la rivendicazione del diritto, per ciascun gruppo, di autodeterminare con un progetto intenzionale la propria forma di governo occupava il posto più importante. Ciò condusse ben presto all’identificazione del liberalismo continentale con il movimento per la democrazia, che concerneva una problematica assai differente da quella centrale nella tradizione liberale inglese13. Il problema è che la forma di liberalismo prediletta da Hayek, quella britannica, fondata sulla primazia dell’ordine spontaneo e del libero agire individuale (dai quali soltanto, e in un secondo momento, il governo può apprendere e codificare le leggi), forma di liberalismo che ha fatto sentire il suo predominio fino ai primi anni del Novecento, dopo la Prima Guerra Mondiale ha visto un lento e inesorabile declino. E non soltanto per la forte affermazione del socialismo, ma anche sulla scia di una Ibid., p. 120. Nei New Studies Hayek scrive che è contro la vecchia teoria della legge naturale, che egli fa risalire ai pensatori medievali (a Tommaso D’Aquino, in specie) e che riconosceva che molte delle istituzioni della società non sono invenzioni della ragione ma si sono sviluppate spontaneamente (per cui non sono il prodotto di un disegno umano intenzionale), che «il nuovo razionalismo di Francis Bacon, Thomas Hobbes, e in particolare René Descartes, ha affermato invece che tutte le più utili istituzioni umane sono e devono essere un prodotto intenzionale della ragione». Quindi aggiunge che questa ragione è stata concepita alla stregua dell’esprit géométrique di Cartesio, cioè di una capacità della mente di pervenire alla verità attraverso un processo deduttivo che parte da poche premesse ovvie e indubitabili. Hayek bolla tale concezione come «razionalismo ingenuo (naïve rationalism)» o «costruttivismo razionalista (rationalist constructivism)», Hayek (1967), pp. 84-5. 13

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trasformazione del liberalismo stesso, che con autori come John Stuart Mill e Thomas Hill Green si è aperto non poco alle possibilità di intervento da parte dello stato tanto che, in via generale, si è assistito a un «accrescimento delle attività svolte dallo stato (increasing activities of the state)» e a un sempre «più forte controllo economico» da parte del medesimo, che portarono alla conseguenza dello «sviluppo dell’apparato burocratico del governo» e di una sempre più estesa acquisizione, da parte dell’autorità governativa, di poteri discrezionali14. Ma non solo. Il sempre più compiuto dominio dell’industria da parte di un ristretto numero di società per azioni, che ha mutato il carattere della sfera economica fino a produrre processi di accentramento e di concentrazione e l’iniziale mediazione istituzionale del potere politico nella società capitalistica, che poi è sfociato in una vera e propria «programmazione» del mercato da parte dello stato, sono fenomeni che hanno portato più autori a parlare di «post-capitalismo» e a chiedersi addirittura se quella uscita dalla grande crisi del ’29 potesse essere ancora definita una società capitalistica15. Questo rimase un cruccio che Hayek, peraltro, non nascose fino alla fine dei suoi giorni. E per il quale non smise mai di battersi. Riferendoci al cruccio di Hayek per la progressiva affermazione storica del «controllo economico» da parte dei governi, iniziamo già a considerare la seconda delle due funzioni che il filosofo attribuisce allo stato: quella di utilizzare le risorse che gli vengono concesse (per esempio con la tassazione)16 per for14 Hayek (1967), pp. 129-131, dove l’autore prosegue notando che la crisi del ‘29, l’abbandono del gold standard e, sulla scia della guerra, il crescere di politiche nazionalistiche e protezionistiche «sembrarono segnare la fine definitiva della libera economia mondiale». 15 Per esempio è il caso di Giddens (1973), IX-1. 16 «Lungi dal propugnare uno “stato minimo”, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo debba usare il proprio potere per raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti – o non possono esserlo in modo adeguato – dal mercato», Hayek (1986), p. 416.

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nire ai cittadini dei servizi cui l’ordine spontaneo della catallaxy non può e non deve provvedere. Per capire meglio cosa Hayek vuole dire, conviene rifarsi a una delle sue celebri distinzioni, in questo caso quella fra cosmos (o ordine spontaneo) e taxis (organizzazione). Il cosmos, o ordine spontaneo che abbiamo visto caratterizzare tutti gli aspetti della vita degli uomini, essendo il frutto della libera interazione fra individui ognuno con la sua conoscenza e risorse limitate, ed essendo caratterizzato il più delle volte da conseguenze in-intenzionali di azioni intenzionali dei singoli, non può concepire al suo interno i concetti morali di «giusto» o «ingiusto», poiché giusto è soltanto ciò che viene prodotto dall’«artificio umano»17, mentre se all’interno del mercato competitivo qualcuno possiede maggiori ricchezze ciò non dipende da nessuno in particolare, se non dalla libera concorrenza fra gli individui. Per questo tutte le eventuali misure di «giustizia sociale», o comunque di intervento rispetto alla disgrazia in cui possono cadere alcuni cittadini nell’ambito del sistema competitivo, afferiscono alla sola sfera pubblica che, comunque, dovrebbe intervenire fuori dall’ambito del mercato, dando assistenza per esempio ai disoccupati o a coloro che non hanno un reddito, ma non interferendo con le regole del mercato, che sono tanto impersonali quanto spontanee e aliene dal costituire il frutto di un progetto deliberato di qualcuno e quindi non giudicabili secondo criteri di giustizia o ingiustizia18. Hayek rileva che i sentimenti morali che si esprimono nella giustizia sociale derivano da un atteggiamento che, in «condizioni più primitive», l’individuò sviluppò nei confronti dei membri del «piccolo gruppo» cui apparteneva. A tal proposito Ibid., p. 284, n. 28. «Un ordine sociale autogenerantesi o spontaneo, e la struttura ordinata di un’organizzazione, sono due cose molto diverse», tanto che «ciò che oggi viene denominato come giustizia “sociale” o distributiva, ha senso solo all’interno del secondo di questi tipi di struttura ordinata – l’organizzazione – mentre è invece privo di senso rispetto a, e del tutto incompatibile con, quel tipo di ordine spontaneo che Adam Smith chiamò “La grande società”, e sir Karl Popper denominò “La società aperta”», ibid., p. 7. 17 18

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«può essere un dovere riconosciuto assistere l’uomo che si conosce personalmente nel proprio gruppo, come pure conformare le proprie azioni ai bisogni di un altro. Tutto ciò è possibile perché si conosce la persona e la situazione. Nella società aperta le cose stanno diversamente. Qui i prodotti e i servizi di ognuno beneficiano persone per lo più a lui sconosciute. La maggior produttività di tale società si basa su una divisione del lavoro che si estende ben oltre i limiti controllabili da chiunque. Questa estensione del processo di scambio oltre i gruppi relativamente piccoli, e che include numerose persone sconosciute le une alle altre, è stata resa possibile concedendo all’estraneo e persino allo straniero la stessa protezione tramite norme di mera condotta che si applicano ai rapporti dei membri conosciuti del proprio piccolo gruppo»19. È proprio l’impersonalità del mercato, la complessità e vastità della Grande Società, l’enorme divisione del lavoro che fa sì che ciascuno, pur seguendo i propri interessi, contribuisca indirettamente anche agli interessi di altri (senza conoscerli), che porta Hayek a ritenere che lo stato non deve interferire con questo «ordine spontaneo autogenerantesi»20, soprattutto attraverso misure che si arroghino il diritto di stabilire cosa è giusto e cosa no, in un ambito, quello della catallaxy appunto, in cui il giusto e l’ingiusto sono concetti senza senso. È finita l’epoca delle civiltà primitive, tribali, dei piccoli gruppi in cui vigevano ordini specifici impartiti dal capotribù e che vincolavano ogni esponente della tribù stessa a conformarvisi. Con l’evolversi verso grandi società, complesse, numerose, nessun capotribù o Ibid., pp. 293-4 (corsivi nostri). Corre l’obbligo, ancora una volta, di segnalare il debito intellettuale di Hayek con M. Polanyi, il quale notava che «quando si ottiene un ordine tra gli esseri umani lasciando che questi interagiscano seguendo la propria iniziativa e soggetti alle leggi valevoli per tutti quanti senza distinzioni, abbiamo allora un sistema di ordine sociale spontaneo. In cui gli sforzi di tutti i singoli sono coordinati attraverso l’esercizio della loro stessa iniziativa: questo autocoordinamento rende esplicito il fatto che la loro libertà è finalizzata all’interesse generale», Polanyi (1951), p. 159. 19 20

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IV. Costruttivismo vs evoluzionismo

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autorità centrale è più in grado di conoscere, e quindi pianificare, tutte le attività, i bisogni e i propositi degli individui, quindi è giusto che da un sistema chiuso e organizzato centralmente in cui vigevano comandi specifici (specific commands), si passi a un ordine spontaneo autodeterminantesi in cui semplici regole di condotta (rules of conducts), seppur implementate e fatte rispettare dallo stato, garantiscano la giusta e libera competizione fra gli individui stessi21. Il problema è ancora una volta il medesimo. Così come abbiamo visto essere avvenuto per la presunzione costruttivistica, anche in questo caso la storia ha seguito un corso diverso da quello quantomeno teorizzato da Hayek. Né il filosofo prova a negarlo: «Oggi, tuttavia, una parte sempre crescente della popolazione del mondo occidentale entra a far parte di grandi organizzazioni, ed è perciò estranea a quelle regole di mercato che hanno reso possibile la Grande Società. Per essa l’economia di mercato è per lo più incomprensibile. Tali individui non hanno mai messo in pratica le regole su cui tale economia si basa, e i suoi risultati sembrano loro irrazionali e immorali. Spesso vi vedono soltanto una struttura arbitraria mantenuta da qualche potere sinistro. Di conseguenza, gli istinti innati a lungo sommersi sono di nuovo saliti in superficie. Le loro richieste di 21 «La transizione dalla piccola tribù alla comunità stabile e infine alla società aperta e con essa alla civiltà, fu dovuta al fatto che gli uomini impararono ad obbedire a norme astratte comuni, invece di essere guidati da istinti innati che erano appropriati alle condizioni di vita della piccola tribù in cui l’uomo aveva sviluppato la struttura neuronale che è ancora caratteristica dell’homo sapiens», Hayek (1986), p. 538; cfr. Id. (1978), p. 60, in cui Hayek scrive che «il grande progresso che ha reso possibile lo sviluppo della civiltà e in definitiva della Società Aperta, è consistito nella graduale sostituzione dei fini specifici obbligatori (specific obligatory ends) con regole astratte di condotta; ciò ha significato stare alle regole del gioco per agire di concerto sulla base di comuni indicatori, favorendo così un ordine spontaneo. Il grande risultato ottenuto con ciò è consistito nel rendere possibile una procedura attraverso la quale tutte le informazioni di rilievo disperse qua e là sono state rese disponibili a un sempre crescente numero di uomini, sotto forma di simboli che noi chiamiamo prezzi di mercato (market prices).

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una giusta distribuzione, in cui il potere organizzato venga usato per distribuire a ognuno quanto merita, è quindi strettamente un atavismo, basato su emozioni primordiali. Sono questi sentimenti prevalenti a cui i profeti, i filosofi morali e i costruttivisti fanno appello, nel loro piano per la creazione razionale di un nuovo tipo di società»22. Ancora una volta salta agli occhi il confronto con Rawls, il quale prevede espressamente l’intervento governativo (e legislativo) volto alla realizzazione di una «giustizia distributiva» che garantisca una «equa distribuzione dei redditi e delle ricchezze», attraverso l’intervento sulle «condizioni di fondo» del mercato. Il filosofo americano riconosce che Hayek ha ragione laddove afferma che «una diseguale eredità di ricchezza non è più ingiusta di una diseguale eredità di intelligenza», ma questo è vero fino a un certo punto. Poiché il liberalismo difende la libertà degli individui, e poiché per Rawls non può esservi libertà senza «uguaglianza di opportunità», occorre allora prevedere Hayek (1986) p. 545. Il continuo richiamo di von Hayek alla open society di Popper per contestare l’atavismo di coloro che vorrebbero combattere l’incertezza esistenziale, comunque insita nella libertà individuale, facendo ricorso al potere organizzato così da ridisegnare l’intera società sulla base di questo istinto tribale (e tornare a società chiuse), è corretto fino a un certo punto. Se infatti è vero che anche Popper (1945), vol. II, p. 246, rileva come sia sempre «la perduta unità della tribù (the lost unity of tribe), il desiderio di ritornare al riparo (jnto the shelter) della casa patriarcale e di fare in modo che i confini di essa siano i confini del mondo», che sta dietro all’attitudine mistica (mystical attitude) di voler limitare la libertà individuale per incanalarla all’interno di entità collettive e universalistiche; da un altro punto di vista è però altrettanto vero che Popper, che abbiamo visto essere un convinto sostenitore dell’interventismo statale in economia, quando attacca l’attitudine mistica che spinge gli uomini verso le entità collettive, ne fa una questione di libertà intellettuale, di progresso intellettuale dell’umanità, che sarà sempre più elevato quanto più gli uomini impareranno a percepirsi come individui, dotati di una propria ragione che dovranno imparare ad usare in maniera autonoma (evidente l’intento illuministico di Popper, che riconduce direttamente a Kant): «La scelta di fronte alla quale ci troviamo è quella tra la fede nella ragione e negli individui umani a la fede nelle facoltà mistiche attraverso le quali egli si sente unito a un collettivo». 22

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IV. Costruttivismo vs evoluzionismo

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un «set di istituzioni» che assicuri, per esempio, un’eguaglianza nell’educazione e nelle possibilità di formarsi una cultura, ma che tenga anche aperta la competizione per occupare posizioni importanti sulla base di qualità ragionevolmente collegate alla performance. Sono proprio queste istituzioni, conclude Rawls, a essere messe fortemente a rischio quando le «ineguaglianze» e la «concentrazione della ricchezza» si estende oltre un certo limite e proprio per questo il sistema governativo deve prevedere un «ramo distributivo» che attraverso la tassazione impedisca che tale limite venga superato23. È difficilmente contestabile il fatto che le società occidentali si sono sviluppate assai di più nel senso descritto da Rawls, un senso macchiato per Hayek dalla colpa del «costruttivismo». Nel trionfo storico del costruttivismo, come della liberaldemocrazia contemporanea (che ha abbandonato i principi del liberalismo classico e si è lasciata influenzare dalle istanze socialiste e democratiche), per cui si è imposto l’interventismo statale anche nelle questioni strettamente economiche, Hayek vede quella «presunzione fatale» che, fondata su un sostanziale «abuso della ragione» (che pretende di sostituirsi all’evoluzione dell’ordine spontaneo), ci condurrà direttamente verso la via che conduce alla schiavitù. Ora, per concludere ci pare opportuno avanzare due osservazioni, una di carattere storico, l’altra più inerente all’esegesi del pensiero di Hayek. La prima. Hayek scriveva queste cose circa trent’anni fa e, almeno nel Occidente in cui viviamo, la strada per la schiavitù (che il filosofo riteneva inevitabile già nel 1944, anno appunto di The Road to Serfdom, se avessero trionfato le politiche interventiste, cosa che peraltro è accaduta…) è ben lungi dall’essere stata percorsa, ben diversamente da come avveniva per alcuni paesi liberali nei tempi del capitalismo sfrenato rimpianto da Hayek (basti citare il caso degli Stati Uniti, paese in cui fino al 1861 la schiavitù era prevista per legge, e anche dopo fu elimi23

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Rawls (1967), pp. 142-3.

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nata solo formalmente)24. Dobbiamo allora parlare di un Hayek «falso profeta»? Forse, in maniera meno drastica, potremmo semplicemente prendere atto del fatto che la storia si è incaricata di smentire le sue previsioni enfatiche e castrofistiche. La seconda osservazione ci pare più importante ai fini della comprensione del pensiero stesso di Hayek. Abbiamo iniziato questo capitolo invitando il lettore a non separare schematicamente la sfera economica (intesa come regno dell’ordine spontaneo) dalla sfera politica e del diritto (inteso come regno dell’organizzazione, dell’agire razionale e progettuale degli individui). Abbiamo infatti visto che per Hayek, tutta la dimensione umana (l’agire politico così come l’agire sociale ed economico, ma non solo) è governata dall’evoluzione di questo ordine spontaneo, rispetto al quale, e solo in un secondo tempo, gli uomini possono prendere delle misure, o costruire istituzioni e organizzazioni che siano rispondenti e confacenti a quanto suggerito dall’ordine spontaneo stesso. Pena la caduta nel costruttivismo, nell’abuso della ragione e, infine, nel totalitarismo e nella schiavitù. Ma proprio in questa concezione ci pare essere nascosto un problema che, ben lungi dal pensare di poter risolvere, ci accontentiamo di aver individuato. Quello che, prima facie, sembra essere un primato ontologico e cronologico dell’ordine spontaneo rispetto alla ragione umana (e alle sue costruzioni intenzionali e progettate), alla luce di quanto esaminato in questo capitolo, in cui Hayek restringe oltremodo il campo di intervento della politica, non rischia di diventare un primato tout court, in cui tutto l’agire umano razionale finisce col coincidere con l’agire economico? Quanto Hayek scrive proprio nelle pagine iniziali del suo ultimo libro, non sembra certo risolvere il nostro dubbio: «La Quanto il liberalismo classico, pur all’insegna della rule of law, sia stato percorso da un rapporto stretto ed evidente con la schiavitù e la servitù, è dimostrato dallo studio di Losurdo (2005), p. 305, passim e in particolare cap. II, dove l’autore descrive il «parto gemellare» tra nascita ed evoluzione della società liberale e capitalistica e sviluppo delle pratiche schiavistiche. Cfr. anche Williams (1944). 24

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IV. Costruttivismo vs evoluzionismo

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nostra civiltà dipende, non solo nella sua origine ma anche per la sua preservazione, da quello che può in maniera precisa essere definito come l’ordine esteso della cooperazione umana, ma che più comunemente…viene conosciuto come capitalismo». L’autore prosegue dicendo che noi comprenderemo fino in fondo tale ordine soltanto quando, dopo averlo riconosciuto come società di mercato, avremo visto che non è nato da un progetto intenzionale dell’uomo, quanto piuttosto in maniera spontanea. Le stesse regole morali e di condotta che caratterizzano la nostra civiltà, si sono evolute spontaneamente e diffuse attraverso la selezione evoluzionistica, provocando la «relativa crescita in popolazione e ricchezza di quei gruppi che le hanno seguite»25. A questa visione si oppone frontalmente la concezione socialista, la quale, fondata su una teoria acritica e ingenua della razionalità, pensa di poter pianificare centralmente tutto l’ordine esteso della cooperazione umana: è quello che in altra sede, dice Hayek, «ho chiamato “razionalismo costruttivistico”»26. Ora, il nostro dubbio che per Hayek l’agire umano, alla fine dei conti, coincida con l’agire economico, ci sembra trovare sempre più ampia legittimazione. Ancora di più laddove il filosofo ritiene che tutta la civiltà, nella sua origine come nella sua preservazione, dipende dal capitalismo27. Ma la conferma della verosimiglianza del dubbio avanzato ci pone di fronte anche a una contraddizione insita nel pensiero di Hayek: se infatti questi ritiene che l’ordine spontaneo regola tutta la nostra civiltà, che esso si contrappone frontalmente al razionalismo costruttivistico, ma poi ammette che storicamente si è affermato quest’ultimo, con il trionfo delle politiche interventistiche, ma Hayek (1988), p. 6, corsivi nostri. Ibid., p. 8. 27 La nostra tesi è avvalorata da Roland Kley, il quale scrive che «l’ordine nella società, o ordine sociale, coincide per Hayek con la tela (web) delle relazioni economiche caratteristica di una società di mercato ben funzionante», cosicché «la nozione di ordine nella società inevitabilmente richiama il quadro di un mercato, ed è fortemente evidente che per Hayek tale ordine è l’ordine di mercato», Kley (1994), pp. 33 e 35 (corsivo dell’autore). 25 26

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anche con l’ipertrofia della politica e dell’intervento dei governi (non si è realizzato il socialismo radicale, dice Hayek, ma molte delle sue istanze sono state accolte dall’Occidente liberale nel ’90028, allora ci troviamo di fronte a una scelta imbarazzante. O l’ordine spontaneo di Hayek, da molti ritenuto il principium individuationis della sua speculazione, non è così potente e determinante come questi lo descrive, visto che è fallito miseramente e la civiltà occidentale si è assai sviluppata malgrado abbia seguito «ordini» diversi. Oppure possiamo prendere per buona l’esistenza di un ordine spontaneo, ma evidentemente fornito di caratteristiche e dinamiche assai diverse da quelle riscontrate da Hayek, poiché ha finito in realtà per condurci verso una civiltà interventista e fortemente regolata dalla razionalità politica e dalla dimensione governativa. In questo secondo caso, temiamo, il presunto ordine spontaneo descritto da Hayek non può assurgere a un rango più alto di quello che si potrebbe dare a una costruzione razionale, affascinante e magari auspicabile quanto si vuole, ma operata da un singolo individuo con la sua singola ragione. Il singolo individuo, ovviamente, è sir Friedrich von Hayek, affetto da «razionalismo costruttivista» malgré lui.

28 «Anche se il socialismo radicale (hot socialism) è probabilmente una cosa del passato, alcune delle sue concezioni sono penetrate in maniera così profonda all’interno del pensiero corrente da giustificare il compiacimento dei socialisti». Questo perché, aggiunge Hayek, «il miscuglio di ideali che sotto il nome di Welfare State ha in larga parte rimpiazzato il socialismo come obiettivo dei riformatori, richiede un’analisi approfondita volta ad accertare se i suoi risultati non siano molto simili a quelli generati dal socialismo vero e proprio (very similar to those of fullfledged socialism)», Hayek (1967), p. 221.

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V.

Il «giardiniere» e l’«artigiano». La metodologia sociale di Hayek (e le differenze con Popper)

I

n senso generale possiamo dire che gli individui si trovano collocati in un «ambiente» col quale e nel quale si trovano ad interagire e agire. Tale ambiente può essere diviso in «naturale» e «sociale». Lasciando da parte il primo (che è di pertinenza delle scienze naturali), e non entrando volutamente nella querelle sull’identità o diversità del metodo inerente alle scienze naturali e sociali, ci occupiamo in questa sede della metodologia che Hayek ritiene più appropriata rispetto alla gestione dell’ambiente sociale, intendendo con quest’ultimo gli altri soggetti e le istituzioni (classe, partito, capitalismo, governo, chiesa, scuola, parlamento etc.) con i quali l’individuo si trova ad interagire. Hayek e, seppure con importanti distinzioni che analizzeremo, Popper, in virtù del loro individualismo metodologico1 ritengono che siano gli individui presi singolarmente, con le loro azioni intenzionali e, soprattutto, con gli effetti in-intenzionali delle stesse, a produrre l’ambiente sociale che li circonda, imputando agli «scientisti» (o «costruttivisti») e «collettivisti» quell’idea astratta per cui sarebbero invece le entità collettive 1 Boudon – Bourricaud (1982), pp. 306-7 chiamano in causa proprio Hayek e Popper quali autori che hanno insistito sull’importanza dell’individualismo metodologico nelle scienze sociali: «Per questi autori, spiegare un fenomeno sociale significa sempre individuare la conseguenza di azioni individuali». O, detto in altri termini, «una spiegazione è detta individuale (in senso metodologico) nel momento in cui fa esplicitamente di un fenomeno studiato P la conseguenza del comportamento degli individui appartenenti al sistema sociale all’interno del quale P è osservato».

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(classe, società, partito etc.), gli individui perfettamente consapevoli, una «mente sociale» o tutt’al più un «grande legislatore» (che sia un soggetto unico, un governo forte oppure un forte potere legislativo) a costituire e costruire l’essenza dell’ambiente sociale stesso2. A far rifiutare ad Hayek quest’ultima ipotesi sono anzitutto i suoi presupposti epistemologici: essendo la conoscenza un qualcosa di disperso fra tutti gli individui, e non potendo quindi l’ambiente sociale stesso essere che il prodotto complesso dell’azione e dell’interazione (intenzionale o meno, conscia o meno) di tutti i singoli, con le loro risorse e conoscenze limitate, è evidente per il filosofo austriaco che nessuna entità singolare o collettiva può conoscere tutti i dati dispersi e, quindi, non può pianificare (o costruire) l’ambiente sociale se non al prezzo di istituire un regime totalitario e illiberale. Termine di paragone costante per Hayek è soprattutto la sociologia classica francese, quella dell’Ottocento (Saint-Simon e Comte) ma anche quella a cavallo del Novecento (Durkheim), oltre che, naturalmente, la filosofia hegeliana con le sue influenze sul marxismo3. Fino ad arrivare all’opera di Mannheim, vero e proprio manifesto del pensiero «costruttivista»4. Indubbiamente l’idea di società proposta da tali autori differisce dalla visione hayekiana, se non altro, sempre secondo Hayek, perché implica la presenza di una intelligenza (individuale o collettiva) che, dopo aver colto e compreso lo sviluppo generale della società stessa nei secoli, si incarica di proporre scientemente, costruttivisticamente, il modello migliore ai fini di una riorganizzazione generale più razionale.

2 Hayek (1988), p. 111, esclude categoricamente che esista, nell’ambito della società, una «gerarchia unitaria dei fini» ideata e imposta da una mente sociale o da un Legislatore-Pianificatore. Cfr. anche Infantino (1998), pp. 71 ss. 3 Per una valida e sintetica analisi della questione cfr. Infantino (1998), capp. 1.3, 1.4 e 1.5. 4 Mannheim (1940).

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V. Il «giardiniere» e l’«artigiano»

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È il caso, per esempio, di Saint-Simon, il quale nel Cathéchisme des industriels (1823-4), parlando del «sistema industriale» che la società del suo tempo, secondo l’autore, si apprestava ad adottare in seguito alla Rivoluzione francese e descrivendolo come fondato sul principio dell’«uguaglianza perfetta» in opposizione a tutti i diritti e privilegi di nascita (tipici dell’Ancient Régime), sottolineava come fosse evidente che non potendo essere introdotto «né attraverso il caso (par le hasard), né attraverso la normale evoluzione sociale (par la routine)», aveva dovuto essere ideato a-priori e, di conseguenza, inventato nel suo insieme prima di essere messo in pratica5. Non si discosta da tale visione della scienza sociale l’amico e allievo di Saint-Simon, Auguste Comte, il quale anche lui, ben lungi dal considerare lo sviluppo della società come il frutto di un’evoluzione spontanea derivante dall’agire scollegato dei vari individui, ritiene invece che il carattere fondamentale del regime definitivo che il Positivismo viene a inaugurare si fonda sulla «sistematizzazione» di tutta la nostra esistenza personale e sociale6, tanto che «la vera filosofia è quella che si propone di sistematizzare», appunto, per quanto possibile, «tutta l’esistenza umana, quella individuale ma, soprattutto, quella collettiva»7. Il caso di Durkheim, per rimanere in Francia, è paradigmatico di quanto la questione sull’individualismo metodologico sia tutt’altro che semplice. Si tratta infatti di un autore che lo stesso Boudon inserisce tra gli individualisti, ma che rifiuta apertamente «la deduzione della società dall’individuo» tramite un processo spontaneo: «La vita collettiva non è nata dalla vita inSaint-Simon (1966), v. IV, p. 61. Comte (1968-71), v. VII, p. 321. 7 Ibid., p. 8. Anche se, volendo essere più scrupolosi di Hayek nell’analisi di Comte, occorre dire che il sociologo francese aggiunge subito dopo che «l’evoluzione fondamentale dell’umanità è necessariamente spontanea e che soltanto l’esatta considerazione della sua marcia naturale ci fornisce la base generale per un saggio intervento». Ma non è questa la sede per analizzare l’eventuale superficialità del pensatore austriaco rispetto all’analisi dell’opera di Comte. 5 6

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dividuale; al contrario, la seconda è nata dalla prima»8, afferma perentoriamente il pensatore francese. Ma il caso più eclatante, tenuto costantemente presente da Hayek, è quello di Mannheim, autore che più di tutti, negli anni in cui ancora imperversava il secondo conflitto mondiale, si impegna in un’analisi meticolosa delle società occidentali che uscivano dalla grande crisi del sistema liberale e del laissez-faire. Quattro anni prima che Hayek scorgesse nella tendenza generalizzata all’abbandono dei principi del libero mercato la «via della schiavitù», Mannheim dichiara che le società occidentali sono giunte a uno stadio di sviluppo in cui è opportuna una «pianificazione imparziale e democratica», poiché è ormai chiaro a tutti che «le “libertà” della società liberal-capitalista sono spesso appannaggio del ricco, mentre i “non-possidenti” sono costretti a sottomettersi alla pressione delle circostanze». Lo stadio in cui si è giunti, quello della «pianificazione» appunto, è quello in cui la libertà non può consistere nel semplice «controllo reciproco delle singole istituzioni», poiché questo sistema non può mai condurre alla «cooperazione pianificata», l’unica in grado di garantire concretamente una libertà valida per tutti gli individui. «Nella sua fase più evoluta – conclude Mannheim – la libertà può esistere solo quando sia garantita dalla pianificazione»9. Il pensiero di Hayek rispetto alle modalità di formazione di una società, lo abbiamo visto, è sideralmente lontano da tale visione. Non esiste alcuna «vera filosofia» o mente individuale in grado di organizzare e pianificare razionalmente il corso della società, così come tale obiettivo risulta precluso a una classe sociale (è il caso del proletariato descritto dalla teoria socialista) o ad una istituzione collettiva. Il concetto di pianificazione in sé è foriero di schiavitù e totalitarismo. Per Hayek, da una parte vanno combattute le «teorie collettivistiche», che pretendono di comprendere i fenomeni sociali 8 9

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Durkheim (1893), pp. 263-4. Mannheim (1940), pp. 377-9.

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V. Il «giardiniere» e l’«artigiano»



(per esempio la società stessa) alla stregua di entità sui generis che esistono indipendentemente dagli individui che le compongono; dall’altra va combattuto anche quello «pseudo-individualismo razionalisitico» che finisce col condurre anch’esso verso un «collettivismo pratico». Ciò è possibile, per il filosofo austriaco, attraverso un’«analisi individualistica della società» che, rintracciando gli effetti combinati delle azioni individuali, ci faccia scoprire che molte delle istituzioni su cui poggiano i successi degli uomini si sono formate e hanno funzionato «senza il progetto e la direzione di alcuna mente»10. L’idea di Hayek, insomma, esclude categoricamente che la ragione umana, anche nella forma più alta e più sviluppata, possa da sola cogliere, spiegare e costruire quel fenomeno complesso, risultato dell’evoluzione spontanea di molteplici fattori, che risponde alla formazione di una società e delle leggi e istituzioni che la caratterizzano. Già Mandeville, autore oltremodo stimato da Hayek, scriveva che ciò che noi spesso attribuiamo al «genio umano» e alla profondità della sua penetrazione, è in realtà dovuto alla «lunghezza del tempo» e all’«esperienza accumulata» attraverso molte generazioni11. A tal proposito, fra gli autori cui il filosofo si ispira, possiamo citare un brano significativo di Ferguson: «Gli artifici del castoro, della formica e dell’ape sono attribuiti alla saggezza della natura. Quelli delle nazioni civili sono attribuiti a loro stesse, e si suppone che indichino una capacità superiore rispetto a quelle delle menti più primitive. Ma le istituzioni degli uomini, come quelle di ogni animale, sono suggerite dalla natura e sono il risultato dell’istinto guidato da quella varietà di situazioni in cui vengono a trovarsi gli esseri umani. Quelle istituzioni nascono da miglioramenti successivi, realizzati senza alcuna consapevolezza dei loro effetti generali, e portano gli affari umani a uno stadio di complessità che neanche la più grande facoltà di cui la natura umana sia mai stata dotata può progettare, anche se ci 10 11

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Hayek (1948), pp. 6-7. Mandeville (1705-1729), v. II, p. 142.

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si trovasse alla fine del tutto e si potesse abbracciarlo in tutta la sua estensione»12. Se da un punto di vista più strettamente epistemologico, ci spostiamo sul terreno propriamente attinente alla metodologia delle scienze sociali (i due piani sono evidentemente correlati, all’interno del pensiero di Hayek e degli autori a lui prossimi), possiamo vedere come il «razionalismo costruttivistico» produce un agire che a livello sociale apre le porte a fenomeni totalitari e illiberali. Questo nesso è chiaramente formulato da Karl Popper, laddove scrive che «al pianificatore olistico sfugge il fatto che è facile centralizzare il potere, mentre è impossibile centralizzare tutta quella conoscenza che è distribuita tra le menti di molteplici individui e la cui centralizzazione sarebbe necessaria per un saggio esercizio del potere centralizzato. Questo fatto presenta conseguenze di vasta portata. Infatti, impossibilitato ad accertare cosa vi sia effettivamente nelle menti dei singoli individui, egli [il pianificatore] sarà costretto a semplificare il suo problema eliminando le differenze individuali; egli deve cercare di controllare e stereotipare gli interessi e le credenze attraverso l’educazione e la propaganda»13. L’implicazione politica del costruttivismo razionalistico risulta lampante: lo scienziato sociale che ritiene di aver individuato il sistema migliore per rivoluzionare tutto l’impianto sociale, dandogli una forma presuntivamente più razionale, è costretto in realtà ad imporre agli altri uomini quel suo modello, tentando di modificarne le menti e le credenze in maniera funzionale al suo scopo. Ma proprio in quell’aggettivo («olistico»)14 che Popper usa per definire il pianificatore, possiamo scorgere una differenFerguson (1767), p. 182 Popper (1957), pp. 89-90. 14 Pioniere della visione «olistica» della società è Aristotele (Politica), I1253a, 19-29, il quale affermava che «nell’ordine naturale la città precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto (olon) precede necessariamente la parte (meros) ed è dunque chiaro che è per natura che la città è anteriore a ciascun individuo». 12 13

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za non marginale rispetto ad Hayek. Infatti l’autore di Open Society non si oppone al pianificatore (e alla pianificazione) in quanto tale (cioè, in ultima analisi, all’intervento razionale e mirato dell’uomo nelle questioni sociali e, in specie, economiche), ma soltanto a quel pianificatore che pretende di modificare la società nel suo complesso, di rivoluzionarla totalmente, quando in realtà, in virtù della complessità della società medesima e della limitatezza e fallibilità della ragione umana, l’uomo può soltanto tentare di riformarla gradualmente, attraverso un procedimento per tentativi ed errori che Popper chiama piecemal social engineering15. Citando la nota espressione di Marx secondo la quale «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, l’esistenza sociale che determina la coscienza»16 (la società, intesa come ente collettivo, determina la vita degli individui e non il contrario), Popper da un lato intende negarla nettamente affermando che «va riconosciuto che la struttura del nostro ambiente sociale è, in un certo senso, un prodotto dell’uomo (man-made), che le istituzioni e le tradizioni all’interno dell’ambiente stesso non sono né opera di Dio né della natura, ma costituiscono il risultato di azioni e decisioni umane e da esse soltanto modificabili»; dall’altro gli viene minimamente incontro riconoscendo che, tuttavia, quanto sopra detto «non significa che esse [le istituzioni e tradizioni sociali] siano tutte coscientemente progettate e spiegabili in termini di bisogni, speranze e moventi. Al contrario, anche quelle che risultano essere il prodotto di azioni umane consce e intenzionali Ibid., p. 67. Uno studioso e seguace di Hayek, tanto per centrare meglio la questione, esclude categoricamente che si possano modificare da parte dell’uomo le istituzioni liberali, che ciò avvenga «by piece-meal or by full-scale social engineering», perché si produrranno sistematicamente delle conseguenze in-intenzionali, impreviste e tutt’altro che benvenute. Ciò perché «coloro che sperano di ridisegnare le istituzioni sono affetti da un sovraottimismo rispetto alla quantità di conoscenza da loro stessi utilizzabile», Caldwell (1997), p. 1885. 16 Popper (1945), v. II, p. 89. 15

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sono, di regola, i sottoprodotti indiretti, in-intenzionali e spesso non voluti di tali azioni». Questo perché, sempre secondo Popper, «soltanto una netta minoranza di istituzioni sociali sono coscientemente progettate, mentre la stragrande maggioranza di esse è semplicemente “cresciuta” (grown) come risultato imprevisto di azioni umane».17 Ora, al di là delle patenti contiguità con Hayek (nell’individualismo metodologico e nell’importanza assegnata alle conseguenze in-intenzionali delle azioni umane, oltre che, evidentemente, nella limitatezza e fallibilità di fondo della conoscenza individuale), tuttavia il fatto che Popper specifica di avercela col «pianificatore olistico»18 (ammettendo quindi interventi razionali graduali da parte dell’uomo o di quello che potremmo chiamare il «pianificatore gradualistico»), e che sottolinea con forza che comunque «le istituzioni e le tradizioni all’interno dell’ambiente stesso non sono né opera di Dio né della natura, ma costituiscono il risultato di azioni e decisioni umane e da esse soltanto modificabili», lascia spazio all’autore di Open Society non soltanto per pensare, come abbiamo già visto, alla legittimità per esempio di un intervento razionale da parte della politica nelle questioni economiche (regno dell’ordine spontaneo della catallassi per Hayek), ma anche di un intervento generale della razionalità umana nelle questioni sociali, ben più diffuso e importante di quanto non ritiene l’economista19.

Ibid., p. 93. Pianificatore olistico, al di là del Marx che immaginava, con la rivoluzione, un rovesciamento totale della società capitalistica, era per esempio Saint-Simon (1966), p. 155, il quale riteneva che «allo stato attuale dei lumi, il solo modo che possa essere impiegato con successo per determinare un cambiamento radicale nell’organizzazione sociale, consiste nel produrre una nuova dottrina politica superiore a quella che i governi attuali professano. Ora, la produzione di una nuova dottrina è un’azione, per sua natura, brusca e tranciante, poiché tende a cambiare repentinamente le abitudini intellettuali contratte dallo spirito pubblico», corsivo nostro. 19 Questo aspetto è stato messo in evidenza anche da Kukathas (1989), pp. 80-1 e 209. 17 18

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Infatti Popper, riconoscendo che nessuno ha mai dimostrato che vi sono soltanto due alternative, quella tra «capitalismo» e «socialismo» (cioè tra accettazione passiva delle «leggi naturali» economiche e rivoluzione totale e violenta da parte del socialismo), ammette e promuove il metodo alternativo consistente nello «sviluppo di una tecnologia per il miglioramento immediato del mondo in cui viviamo, una tecnologia di ingegneria sociale gradualistica finalizzata all’intervento democratico»20. Ciò per cui Popper si discosta da Hayek, insomma, riguarda proprio la concezione che quest’ultimo esprime dell’ordine spontaneo come luogo che difficilmente contempla l’intervento conscio e razionale dell’uomo, soprattutto nell’ambito catallattico, in cui i meccanismi autoregolantesi e impersonali (nonché prodotti dell’evoluzione culturale e non del disegno razionale di qualcuno, della domanda e dell’offerta, quindi, come del sistema dei prezzi e della libera concorrenza) dovrebbero garantire il perfetto funzionamento. A tal proposito, sempre in Popper, possiamo cogliere quella che si rivela una similitudine interessante. Laddove egli esalta, in ambito scientifico, la «libera concorrenza del pensiero» come condizione fondamentale per il libero e prolifico sviluppo della scienza tra teorie concorrenti e contrastanti, sottolinea però anche come, comunque, queste ipotesi e teorie concorrenti hanno bisogno di una «rappresentanza personale», cioè di avvocati, di una giuria e di un pubblico. A sua volta questa rappresentanza personale, per funzionare, necessita di un’«organizzazione istituzionale», e queste istituzioni devono essere finanziate e protette dalla legge. Ciò porta Popper a concludere che, pur nell’ambito della libera concorrenza del pensiero, «in ultima analisi il progresso si fonda in larghissima misura su fattori politici, 20 Popper (1945), v. II, pp. 142-3, corsivi nostri. Un po’ più avanti Popper esprime esplicitamente il suo apprezzamento per «l’interventismo gradualistico democratico (specialmente del tipo istituzionale descritto nella sezione 7 del capitolo XVII)», cfr., ibid., p. 193.

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su istituzioni politiche che salvaguardano la libertà di pensiero, sulla democrazia»21. Se noi spostiamo tale ragionamento dall’ambito della dimensione scientifica del vivere sociale a quello economico, e nel fare ciò abbiamo ampiamente dimostrato che non ci allontaniamo affatto dagli intendimenti di Popper, possiamo cogliere appieno le differenze non marginali con Hayek. Il riconoscimento dell’importanza centrale delle istituzioni politiche da parte di Popper, favorevole all’interventismo dello stato, o comunque della politica, nell’ambito della concorrenza sia del pensiero che economica, non contrasta con l’idea hayekiana per cui la maggior parte delle istituzioni stesse si sono formate inconsapevolmente e attraverso un’evoluzione culturale frutto dell’«ordine esteso della cooperazione umana». Mentre sembrerebbe, semmai, evidenziare la questione per cui, proprio in un contesto sociale in cui emergono risultati non intenzionali e spontanei rispetto all’agire umano, pochi alcuni o molti di questi risultati possono essere anche sommamente negativi o comunque legittimamente rigettabili da un cospicuo numero di persone22. Ciò rende comunque auspicabile, se non necessario, un intervento da parte della dimensione politica, anche e soprattutto nell’ambito delle faccende economiche, che è quanto Hayek combatte con tutte le forze23. Quest’ultimo ha alle spalle una tradizione forte e consolidata, quella dei pensatori liberali classici (e loro eredi) che della individuazione di una sfera individuale sacra, rispetto alla quale il potere governativo doveva trovare un limite invalicabile, avevano fatto un baluardo storico del liberalismo. Però, anche qui, un esercizio di contestualizzazione può essere utile. Popper (1957), pp. 154-5. Per questa considerazione si veda Kirzner (1992), passim. 23 Per una analisi mirata delle differenze fra Hayek e Popper su questi punti cfr. Baudouin (1994), pp. 220 ss. e Gattei (2002). Mentre per una ricostruzione della presa di distanza da parte di Popper rispetto al pensiero liberista del Novecento, si veda Magee (1973), pp. 83 ss., Burke (1983), pp. 180 ss. ed Ercolani (2005). 21 22

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Se infatti autori come Locke24 o Constant25, quali esempi del liberalismo classico in genere, si trovavano a teorizzare con forza la limitazione dei poteri del governo in quanto avevano a che fare con le monarchie assolute dell’Ancien Régime o con il potere altrettanto assoluto espresso dal «terrore» francese, la grande acrimonia di Hayek per l’interventismo statale e per le politiche di giustizia sociale, messe in atto nei paesi occidentali dalla fine della II Guerra Mondiale in poi, risulta assai meno comprensibile. Soprattutto se confrontato con l’atteggiamento assai più pragmatico di altri liberali a lui contemporanei. È il caso, per esempio, di Kenneth Minogue. Questi da una parte rimarca il fatto che «i liberali insistono nell’intendere lo stato semplicemente come un ingranaggio del meccanismo sociale (simply a piece of machinery), concepito per il bene degli individui, di contro ai loro nemici totalitari che ne fanno un piccolo dio», e ricorda che ai tempi di Locke la società era composta da una moltitudine di individui che avevano sì bisogno degli aggiustamenti politici, ma erano comunque determinati a non divenire schiavi di questi26; ma dall’altra parte, con molto pragmatismo e maggiore senso del corso della storia, prende atto della fine del periodo in cui socialisti e liberali si confrontavano sulla base di «identità prefissate» (planned economy or free enterprise), e constata che un allargato e pressoché «lucidato a nuovo» (refurbished) liberalismo è succeduto a quello delle ideologie del passato, arrivando a concludere che ormai il termine stesso di «liberalismo» è vago, poiché contempla al suo interno sia la libertà individuale sia lo stato paternalistico (state paternalism)27. Tutto ciò comporta che, se si vuole mettere in Per la cui teorizzazione dei limiti del governo rispetto alle libertà individuali (innanzitutto quella di proprietà), si veda Locke (1679-1689), II, §§ 137-8. 25 Il quale afferma che «è falso che la società tutta intera possieda un’autorità illimitata sui suoi membri» e da ciò deduce la realtà di «una parte dell’esistenza umana che, di necessità, resta individuale e indipendente e che rimane di diritto al di fuori di ogni competenza sociale», Constant (1957), p. 1105. 26 Minogue (1963), p. 142. 27 Ibid., p. vii. 24

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atto un’analisi obiettiva del liberalismo stesso, aliena da estremismi e presunzioni di verità, bisogna prendere atto del fatto che «la conseguenza delle idee politiche liberali è consistita nell’instaurazione di una società liberal-democratica sul tipo di quelle dell’Europa occidentale», ma questo risultato «ha richiesto la cooperazione delle circostanze economiche come anche di quelle sociali»28. Detto in maniera più sintetica, se ancora nel ’600 e nel ’700 (e in alcuni paesi europei anche per buona parte dell’800), non era avvenuta la separazione tra la società civile e la dimensione politica (il governo, lo stato)29, fenomeno peraltro individuato e analizzato da Hegel e Marx per primi, la qual cosa comportava quindi un dominio pressoché incontrastato dei governi assoluti sugli individui, con la fine dell’800 e soprattutto con il ’900 la separazione delle due sfere, con conseguenti e ampi margini di autonomia, era senz’altro avvenuta, rendendo evidente la necessarietà di entrambe ai fini del progresso delle società e degli stati, e manifestando anche l’inevitabilità dell’intervento del potere politico sulle questioni economiche, dapprima con le prime misure di legislazione sociale (a partire dalla fine del XIX secolo) poi con la costituzione di quello che è passato alla storia col nome di welfare state30, che ha posto definitivamente fine, almeno all’interno dei paesi occidentali, a quello che Popper chiamava unrestrained capitalism. Ma ormai sappiamo che Hayek, pur prendendo atto dell’evoluzione della storia nel senso da noi delineato, rifiuta apertamente il fatto storico della recuperata centralità della dimensione politica (istituzionale, statale) anche nell’ambito delle Ibid., p. 68. Ibid., p. 143. Qui l’autore ricorda anche che dovunque un paese è piombato nelle mani di governanti che pretendevano un’autorità illimitata per regolare gli affari sociali, oppressione, miseria e guerra ne sono solitamente risultati. E in tutti questi paesi la filosofia prevalente negava la distinzione tra stato e società. 30 Per un’analisi più approfondita di tali questioni rinvio a Ercolani (2004). 28 29

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questioni economiche, ritenendo che tale tendenza costituisca una vera e propria via che condurrà anche i paesi dell’Occidente verso una inevitabile schiavitù. Infatti le società rimarranno libere soltanto se gli individui saranno lasciati completamente liberi di agire all’interno di regole generali di condotta valide per tutti (e di sistemi impersonali come quello dei prezzi, che regolano l’agire economico senza il bisogno di una pianificazione centralizzata, peraltro impossibile), e soltanto se i governi, la legislazione e la politica in genere retrocederanno dal ruolo invasivo che hanno storicamente assunto in forma sempre crescente. Ma, come abbiamo visto nel capitolo precedente, risulta in maniera indubitabile che Hayek, ben lungi dal volersi limitare a una proposta di metodologia sociale, intende in realtà salvaguardare la libertà assoluta dell’agire economico (ritenendo esso il vero agire sociale degli individui, quello che rende possibile il progresso della civiltà, identificando, o meglio: ricomponendo la storica distinzione fra agire economico della società civile e agire politico del governo) dalle interferenze della dimensione politica e statale. Per esempio laddove, dopo aver teorizzato apertamente «la superiorità dell’ordinamento di mercato»31 rispetto a quello politico, chiarisce in questi termini la necessità che nessun altro «potere» contrasti con l’ordine spontaneo del mercato: «In campo sociale la credenza erronea che l’esercizio di qualche potere abbia delle conseguenze benefiche può condurre ad una nuova forma di potere conferito a qualche autorità e che finisce col subordinare gli altri uomini. Anche se questo potere, in sé, non è cattivo, il suo esercizio potrebbe impedire il funzionamento di quelle forze ordinatrici spontanee (spontaneous ordering forces) dalle quali, senza capirle, l’uomo è di fatto ampiamente assistito nel perseguimento dei propri scopi»32. Il ragionamento del pensatore austriaco è chiaro: la conoscenza è dispersa tra milioni di individui; quello che conta ai 31 32

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Hayek (1978), p. 27. Ibid., pp. 33-4

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fini del progresso è soltanto l’agire individuale poiché nessun potere centrale può pensare di racchiudere in sé tutta la conoscenza dispersa; quindi l’unico sistema che garantisce il migliore utilizzo di questa conoscenza dispersa è l’ordine spontaneo del mercato, in cui meccanismi impersonali come il sistema dei prezzi garantiscono l’evoluzione dell’ordine spontaneo stesso attraverso il libero e concorrenziale agire di tutti gli individui33. Se l’ordine sociale coincide quindi con l’ordine del mercato tout court, cioè con quell’ordine esteso della cooperazione umana che soltanto garantisce il libero e pieno dispiegarsi della conoscenza dispersa, risulta allora inequivocabile il noto passo in cui Hayek invita il genere umano, nel suo rapporto con l’ambiente sociale, a comportarsi come «il giardiniere con le piante» piuttosto che come «l’artigiano col suo lavoro». Conviene riportarlo per esteso: «Se l’uomo non vuole fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà imparare che nell’ambito di questo, come in tutti i campi in cui prevale una essenziale complessità di genere organizzato, egli non può acquisire la piena conoscenza che gli potrebbe conferire la padronanza degli eventi. Egli quindi dovrà usare la conoscenza che riuscirà ad ottenere, non per foggiare (to shape) i risultati come fa l’artigiano (craftsman) col proprio lavoro, ma piuttosto per facilitare lo sviluppo degli eventi preoccupandosi di fornire

«Il sistema di comunicazione che noi chiamiamo mercato» è quello che finisce per costituire «il più efficiente meccanismo per gestire le informazioni disperse (for digesting dispersed information) rispetto a qualunque altro che l’uomo abbia deliberatamente progettato», Hayek (1978), p. 34. In realtà ci sembra che quello che Hayek tende a vedere come un ordine spontaneo di relazioni di scambio (il mercato), possa essere meglio inteso come un mondo «caleidoscopico» caratterizzato da credenze, valutazioni e aspettative in incessante fluttuazione, cfr. Shackle (1972), passim. Diversamente, la visione del pensatore austriaco tende a trascurare che la «competizione» non conduce necessariamente e pacificamente all’«ordine», così come la «spontaneità» non necessariamente produce un ordine sociale universalmente gradito, come l’esempio della Mafia e delle bande di strada dimostrano con vigore, Kley (1994), pp. 114 e 118. 33

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l’ambiente appropriato (by providing the appropriate environment), come fa il giardiniere (gardener) con le sue piante»34. È quasi superfluo concludere dicendo che il dubbio rimane sempre lo stesso: se il corso della storia dei paesi occidentali (e liberali) ha visto un costante e crescente sviluppo dell’interventismo politico rispetto alle questioni economico-sociali, viene da chiedersi quanto Hayek si comporti più da artigiano (volendo conformare la realtà ai propri disegni) che non da giardiniere, proponendo una sorta di ritorno alla libertà assoluta nel campo economico35.

34 Ibid. Anche in The Road to Serfdom, composta quasi trentacinque anni prima, Hayek dopo aver individuato che «il principio fondamentale nel condurre i nostri affari consiste nel fare l’uso più grande possibile delle forze spontanee della società (spontaneous forces of society), propone la stessa metafora, dicendo che «il comportamento del liberale verso la società è come quello del giardiniere verso le sue piante, il quale, al fine di creare le condizioni più favorevoli per la loro crescita, deve conoscere quanto più possibile la loro struttura e fisiologia», Hayek (1944), pp. 13-4. 35 Kukathas (1989), pp. 207-13, arriva a mettere in dubbio la pregnanza stessa del concetto di «razionalismo costruttivista» ideato da Hayek, così generico e debole da non impedire che lo stesso filosofo possa essere inserito tra i costruttivisti.

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er comprendere il ruolo (limitato) che Hayek vorrebbe conferire al governo politico (il condizionale è d’obbligo, poiché abbiamo visto che quando il filosofo scriveva, con suo stesso rammarico l’evoluzione storica dell’Occidente aveva riservato un ruolo assai più centrale alla dimensione politica), è necessario analizzare preliminarmente il nesso inscindibile che lega la sua concezione individualistica di partenza alla predilezione per l’ordine spontaneo (la seconda, a nostro avviso, finirà con l’annullare la prima). Tenendo presente una premessa fondamentale: che è il sistema capitalistico (o meglio: della catallassi) in quanto espressione dell’ordine spontaneo a fungere da garanzia alla libertà e che, quindi, è nell’ambito dell’agire economico che si realizzano quelle premesse di libertà per gli individui che la dimensione politica, con un suo intervento pianificatore, potrebbe vanificare1. 1 Hayek esprime continuamente questo concetto, per esempio in The Road to Serfdom (1944), p. 68, laddove scrive che «chiunque controlli tutta l’attività economica controlla i mezzi per tutti i nostri fini, determinando così quali devono essere soddisfatti e quali no…Questo è veramente l’aspetto cruciale del discorso: il controllo economico non equivale meramente al controllo di un settore della vita umana, ma equivale al controllo dei mezzi per tutti i nostri fini»; ma cfr. anche Hayek (1967), p. 229: «L’attività economica fornisce i mezzi materiali per tutti i nostri fini», per cui «la libertà economica costituisce una condizione indispensabile per tutte le altre libertà, cosicché la libera impresa è al tempo stesso una condizione necessaria e una conseguenza della libertà personale».

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Ma, come cercheremo di dimostrare in questo capitolo, il nesso che lega individualismo e ordine spontaneo porterà Hayek a depotenziare in maniera netta il concetto stesso di individuo (la libertà dei singoli di pensare e di agire rispetto alla loro esistenza, nonché di incidere sulla società in cui vivono). Tale depotenziamento, congiunto alla forte limitazione del governo politico avanzata dal filosofo austriaco, condurrà Hayek ad elaborare una proposta politica che vista dal punto filosofico risulterà quantomeno anacronistica, mentre se analizzata nel contesto socio-economico delle moderne società occidentali non potrà che mostrare la sua impronta fortemente reazionaria. Solamente se noi teniamo conto che il vero agire è sempre individuale, questo è il punto di partenza di ogni forma di individualismo, e che i singoli individui possono fare il migliore uso della propria conoscenza (dispersa) e delle proprie capacità (limitate) soltanto all’interno dell’ordine spontaneo proprio della dimensione catallattica (nella sua necessaria autonomia e libertà da ogni forma di potere in qualche misura centralizzante), possiamo allora comprendere come il filosofo austriaco arrivi ad elaborare, seguendo un percorso lineare, una concezione che tende a limitare fortemente il ruolo del governo politico. Quest’ultimo deve limitarsi esclusivamente a garantire il corretto funzionamento dell’ordine spontaneo, intervenendo semmai laddove si presentino effetti eccessivamente indesiderati della concorrenza economica, ma sempre e rigorosamente al di fuori del meccanismo catallattico, il quale deve rimanere comunque spontaneo, autodeterminantesi e non intaccato da alcuna forma di intervento pianificato2. In questa concezione va detto che gioca un ruolo determinante il duplice significato che il pensatore riconosce al verbo greco katallattein (o katallassein): certamente economico 2 Il massimo che Hayek arriva a concedere è che nell’ambito della società, quell’organizzazione chiamata governo «occupi una posizione assai speciale», paragonabile a quello di una «squadra di mantenimento di una fabbrica (a maintenance squad of a factory)», Hayek (1973), p. 47.

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(«scambiare»), ma anche politico («ricevere nella comunità», «diventare da nemico amico»)3. Questo duplice significato della catallaxy, cioè della dimensione spontanea dell’ agire (economico, individuale), risulterà centrale ai fini della limitazione dei poteri dello stato (e allo sminuimento del ruolo dello stesso, fino a relegarlo in una posizione subordinata) teorizzata da Hayek. Poiché mentre il governo, lo stato, il potere politico in genere, costituiscono una dimensione «altra» rispetto a quella economica, con i compiti limitati di garantire il rispetto delle regole e di fornire un aiuto a tutte le vittime o esclusi dalla lotta concorrenziale nell’ambito del mercato, la libertà economica, il potere autodeterminantesi della catallaxy costituisce il fondamento stesso per ogni altra libertà (anche di quella politica, visto il duplice significato suddetto), e l’agire politico dovrà essere subordinato e funzionale al primo. Ma proviamo ad andare con ordine, e a cercare di ricostruire le tappe metodologiche che conducono Hayek a preferire gli ordini spontanei a quelli costruiti, e come le modalità di questa predilezione lo condurranno a una sorta di «tradimento» dell’individualismo espresso in partenza. Innanzitutto bisogna partire proprio da quello che forse è il caposaldo principale della tradizione liberale: l’individuo. Esso è la figura centrale, non soltanto perché va tutelata la sua libertà e la sua proprietà privata, ma anche e soprattutto (nell’ambito del discorso di Hayek) perché da esso e solo da esso bisogna partire per capire i fenomeni sociali. La stessa «prasseologia ha a che fare con le azioni degli uomini individuali», poiché «tutte 3 Hayek (1988), p. 112. Mises stesso, da cui Hayek aveva più direttamente tratto il termine (anche se originariamente era stato coniato dal vescovo Wathely, nel 1838), pur scrivendo che «la catallassi concerne tutti i fenomeni di mercato con le loro rotte, ramificazioni e conseguenze», riconosceva che gli uomini che operano nel mercato sono motivati anche dalle questioni «ideali» oltre che da quelle semplicemente materiali, poiché «l’uomo che agisce è sempre interessato sia alle questioni materiali che a quelle ideali», Mises (1949), p. 233.

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le azioni sono portate avanti da individui», mentre «un’entità collettiva opera sempre attraverso l’intermediazione di uno o più individui le cui azioni si riferiscono alla stessa come a una fonte secondaria». La vita di un’entità sociale collettiva «risiede nelle azioni degli individui che costituiscono il suo corpo» e quindi, in conclusione, «la maniera per avere una cognizione degli interi collettivi (collective wholes) avviene solo attraverso l’analisi delle azioni degli individui»4. Un ribaltamento di questo stato di cose, per cui alla fine sono le entità collettive ad assumere una parte fondamentale nell’ambito della società, tanto da stabilire esse i fini cui gli individui si devono conformare e per i quali devono agire, rappresenta secondo Hayek «il tratto comune di tutti i sistemi collettivisti», all’interno dei quali egli riteneva di inserire il fascismo come il comunismo, due tipi di sistemi collettivisti che differivano tra di loro soltanto «per la natura dello scopo verso il quale volevano dirigere gli sforzi della società»5. Tutti questi sistemi, prosegue l’autore, differiscono dal liberalismo e dall’individualismo per il fatto che intendono «organizzare la società nella sua interezza e tutte le sue risorse per questo fine unitario», e così facendo si rifiutano di riconoscere quelle «sfere autonome» all’interno delle quali i fini degli individui sono supremi. Ma di fatto, incalza Hayek, questo fine unitario in vista del quale la società tutta deve essere organizzata, viene di solito vagamente descritto come «bene comune» (common good) o «benessere comune», quando è evidente che queste espressioni non possiedono un Mises (1949), pp. 41-2. Del medesimo autore va citato un passo fondamentale, in cui si istituisce la stretta connessione tra agire individuale, razionale ed economico: «Le sfere dell’azione razionale e dell’azione economica sono quindi coincidenti. Ogni azione razionale è economica. Ogni attività economica è un’azione razionale. Ogni azione razionale è prima di tutto un azione individuale. Solo l’individuo pensa. Solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo agisce», Mises (1922), p. 113. Per Schatz (1907), p. 559, l’individualismo è «una dottrina filosofica che serve da sottostruttura a una dottrina economica». 5 Hayek (1944), p. 42. 4

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significato sufficientemente definito e tale da potere determinare un particolare corso dell’azione. «Il benessere e la felicità di milioni di persone», afferma infatti Hayek, «non possono venir misurati facendo ricorso ad un singolo parametro»6. In realtà, prosegue poco più avanti il filosofo (riprendendo una delle sue idee cardine che abbiamo analizzato nei capitoli precedenti), se noi osserviamo il corso della storia fino ai giorni nostri, possiamo notare che lo sviluppo attuale della società è stato accompagnato da una «costante diminuzione della sfera in cui le azioni individuali sono governate da regole specifiche», cosicché le regole stesse che fanno parte del nostro codice morale sono diventate di meno per numero e di carattere più generale7. Come abbiamo detto, il filosofo austriaco delinea con ciò una delle idee fondamentali della sua intera speculazione (che riprenderà e svilupperà nelle opere più tarde), quella per cui le regole specifiche imposte da un’autorità superiore, in grande numero e finalizzate a degli scopi unitari, erano proprie delle società arcaiche, pre-capitalistiche, tribali, formate da un ristretto numero di componenti che si conoscevano più o meno tutti e per i quali era possibile stabilire fini e modi di agire validi universalmente. Nelle moderne società capitalistiche composte da una moltitudine di individui, la stragrande maggioranza dei quali non si conoscono e non sanno neppure dell’esistenza gli uni degli altri, è non solo impossibile ma anche nefasto pensare che un’autorità centrale possa stabilire dei fini unitari, un «bene comune» verso il quale dirigere gli sforzi di tutti i singoli: «Non solo non possediamo una tale onnicomprensiva scala di valori, ma sarebbe anche impossibile per qualsiasi mente umana comprendere l’infinita varietà dei differenti bisogni dei diversi individui che competono per le risorse disponibili, e attribuire a ciascuno un peso determinato»8. Ibid. Ibid., p. 43. 8 Ibid., p. 44. 6 7

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E questo non per cattiveria, per indifferenza o per egoismo, ma semplicemente perché è impossibile per ciascun individuo riuscire ad occuparsi di un campo che non sia limitato o anche solo prestare attenzione all’urgenza di un numero di bisogni che non sia altrettanto limitato: «Questo è il fatto fondamentale su cui si basa tutta la filosofia dell’individualismo. Esso non afferma, come spesso asserito, che l’uomo è egoista o pensa soltanto a se stesso, né che dovrebbe farlo. Esso parte semplicemente dal fatto indiscutibile che i limiti dei nostri poteri di immaginazione rendono impossibile includere nella nostra scala di valori più di un settore dei bisogni dell’intera società e che, dal momento che, strettamente parlando, le scale di valori possono esistere soltanto nella mente degli individui, non possono esserci se non scale parziali di valori, inevitabilmente differenti e incompatibili tra loro. Da tale premessa l’individualista conclude che agli individui dovrebbe essere permesso, entro determinati limiti, di seguire i propri valori e preferenze piuttosto che quelli di qualcun altro e che nell’ambito di queste sfere i sistemi individuali di fini dovrebbero essere sovrani e non soggetti al dettato di alcuna autorità esterna. È in questo riconoscimento dell’individuo come giudice ultimo dei propri fini, unito alla credenza che, fino a dove è possibile, le sue idee devono governare le sue azioni, che risiede l’essenza della posizione individualista»9. La questione dell’individualismo è probabilmente una di quelle in cui si riscontrano i maggiori punti di convergenza tra Hayek e Popper. Quest’ultimo infatti concorda sul fatto che «individualismo» non è sinonimo di «egoismo» e che, quindi, non si oppone ad «altruismo» bensì a «collettivismo», che è quel metodo di intendere la società per cui «l’individuo dovrebbe servire gli interessi del tutto, che sia questo tutto l’universo, la città, la tribù, la razza o ogni altro corpo collettivo»10. L’in9 Ibid. Ancora una volta Hayek tiene presente la lezione di Schatz (1907), p. 558, il quale nega che l’individualismo sia un «sistema di isolamento all’interno dell’esistenza e un’apologia dell’egoismo». 10 Popper (1945), v. I, p. 100.

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dividualista può benissimo essere un altruista, tanto è vero che «l’individualismo unito all’altruismo è assurto a fondamento della nostra civiltà occidentale» (Popper porta ad esempio la religione cristiana e Kant)11, ma non può accettare il fatto che in nome degli interessi di un tutto inesistente (che sia la società, la nazione, lo stato, la razza, la classe sociale, il partito) vengano sacrificati gli interessi individuali, le idee e i progetti dei singoli che compongono la società stessa e che, in quanto tali, ne rappresentano il vero e unico motore.12 In base a questa ottica, risulta certamente espressione di collettivismo un’affermazione come quella di Saint-Simon, per cui «l’organizzazione sociale ha come scopo diretto il bene pubblico»13, così come quella di Comte, il quale biasima «l’alta irrazionalità insita in quella strana dottrina che fa derivare lo stato sociale unicamente dall’utilità fondamentale che l’uomo ne trae in vista della completa soddisfazione dei diversi bisogni individuali»14. Ibid., p. 102. È interessante notare come de Tocqueville (1951), tome I, v. II, p. 105, autore liberale sicuramente più problematico di Popper e Hayek, paventava che proprio con lo svilupparsi della «grande società» figlia delle rivoluzioni democratiche, il forte individualismo avrebbe finito con l’isolare sempre di più gli uomini così da svilupparsi di pari passo con l’egoismo: «L’egoismo dissecca il germe di tutte le virtù, l’individualismo dissecca da principio solo la fonte delle virtù pubbliche; ma alla lunga esso attacca e distrugge tutte le altre e finisce per essere assorbito dall’egoismo (et va enfin s’assorber dans l’égoïsme)». Insomma, per il grande sociologo francese l’individualismo (connesso all’egoismo) è figlio della società democratica moderna, e «minaccia di svilupparsi via via che le condizioni si livellano», ibid. Evidente la lettura antipodica rispetto a quella di Popper. 12 Non solo Platone, ma anche «Hegel e gli hegeliani sono collettivisti», in quanto sostengono che «poiché dobbiamo la nostra ragione alla società – o ad una certa società come la nazione – la società è tutto e l’individuo è nulla; ossia che di qualunque valore sia portatore l’individuo, è derivato dal collettivo, che è l’effettivo portatore di tutti i valori», ibid., v. II, p. 226. 13 Saint-Simon (1966), v. V, p. 121. 14 Comte (1968-71), v. IV, p. 432. L’autore francese combatteva apertamente ogni forma di individualismo che potesse spezzare l’armonia universale e unitaria che doveva regnare all’interno della società. Non solo l’individualismo sociale, ma anche quello intellettuale veniva biasimato da Comte, il quale 11

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Ogni teoria che individuasse come fine un’entità collettiva («bene pubblico») o che comunque riconoscesse un ruolo fondamentale a una «mente sociale» o alle istituzioni (ognuna delle quali rappresenterebbe intrinsecamente qualcosa di più della mera somma degli individui che le compongono), potrebbe venir tacciata di «collettivismo» da questa visione a volte troppo rigida espressa sia da Hayek che da Popper15. Ma se analizziamo le affermazioni teoriche dei pensatori facendo uso di un criterio di individualismo così poco elastico, difficilmente anche autori classici del liberalismo potrebbero sfuggire al marchio del «collettivismo». È il caso di Locke, per esempio, il quale un po’ lungo tutto il corso del suo Second Treatise ribadisce che gli uomini che si sono uniti in società hanno affidato a questa l’uguaglianza, la libertà e il potere esecutivo perché utilizzi quei poteri e quelle prerogative in vista del «bene pubblico» (common good); ma anche di John Stuart Mill, il quale giustificava l’esclusione di intere categorie di persone dal diritto di voto con l’argomento che ciò veniva proposto in nome di una generica «salvezza dell’intera società (the safety of the whole)»16. Difficile non considerare che una visione che finisce con l’apparire così rigidamente antipodica del rapporto fra «individuo» e «società» (o stato), possa risultare alla fine dei conti riduttiva nell’ambito del suo proposito di «riorganizzare la società», lavorava anche per una «riforma intellettuale che, all’interno del sistema profondamente sconvolto delle nostre idee sociali, ne ristabilisse una armonica e durevole». Solo un’idea di società unitaria, che venisse innanzitutto realizzata con precisione «all’interno di una sola intelligenza (dans une seule intelligence), poteva produrre una «rigenerazione» sociale, ibid., p. 17. 15 Più dal primo che dal secondo, a nostro avviso, malgrado gli indiscutibili punti di convergenza. Poiché Popper, sulla scia della tradizione liberale più consolidata, sembra più che altro voler prevenire i possibili eccessi da parte delle entità collettive (soprattutto lo stato), mentre Hayek insiste sulla centralità di un «individuo» i cui contorni diventano troppo spesso evanescenti, fino a sfociare dichiaratamente nell’astrattezza. Tanto che alla fine, lo vedremo più avanti, lo stesso individuo di Hayek finirà fagocitato dall’ordine spontaneo. 16 Per Locke, cfr. (1679-89), II, per esempio § 131; per John Stuart Mill, si veda (1972), p. 283.

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(oltre che sterile) e non aiutare affatto la comprensione delle dinamiche sociali. Infatti, nell’ambito dell’analisi della società, concentrarsi esclusivamente sugli individui che la compongono presi nella loro singolarità irriducibile, se da una parte sembra avvalorare l’ipotesi per cui con la modernità si sarebbe affermato, con un carattere del tutto egemonico, un concetto di mercato come vera e propria «ideologia» in cui si attribuisce un notevole primato al rapporto che i singoli individui hanno con le «cose» (piuttosto che al rapporto che gli uomini intrattengono fra di loro, poiché in fondo ogni società o entità collettiva è comunque composta da individui che entrano in qualche relazione)17; dall’altra parte ci sembra che si finisca con il trascurare (o non considerare per nulla) quella componente ineludibile per cui «nella misura in cui partecipa alla società, l’individuo si trascende naturalmente da sé, tanto quando pensa quanto quando agisce»18. Va comunque detto che, nell’ambito della storia del pensiero politico (liberale o meno), l’individualismo di Hayek si caratterizza per una precipuità che lo allontana da alcuni classici, facendocelo riconoscere come il più coerente continuatore della «scuola» scozzese di fine ’700 (nonché dell’olandese de Mandeville e del francese Constant). Certamente gli individui che compongono la «grande società» di Hayek, non sono quelli che fanno capo alla tradizione «contrattualista» nelle sue varie forme. Non sono i singoli descritti da Locke, i quali, in seguito a una scelta razionale e perfettamente consapevole, massimizzano (e razionalizzano) la loro sregolata libertà naturale stipulando un contratto che li vede uniti all’interno di uno stato unitario (in cui ciascun membro si sottomette alla volontà della maggioranza)19; non sono i singoli Cfr. Dumont (1977), passim e pp. 89, 128 (in cui l’autore sottolinea come da Ricardo a Marx, l’economia classica abbia finito con il rintracciare il valore economico sempre più nelle cose piuttosto che nel rapporto fra gli uomini) e 130. 18 Durkheim (1912), p. 23. 19 Locke (1679-89), II, si vedano a titolo di esempio (perché le citazioni 17

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descritti da Hobbes, il cui stato naturale, «senza un potere visibile che li tenga in soggezione (when there is no visibile power to keep them in awe)», è di guerra reciproca e paura e che, quindi, sempre in seguito a una scelta razionale (e necessaria ai fini della sopravvivenza), cedono al Leviatano («Dio mortale») il potere assoluto sulle loro vite20; non sono neppure i singoli descritti da Rousseau i quali, anche loro sulla base di una scelta razionale volta a uscire dal primitivo stato di natura, mettono in comune tutta la loro persona e tutta la loro potenza «sotto la suprema direzione della volontà generale», producendo, al posto delle «persone private dei singoli contraenti», un «corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea e che trae da questo medesimo atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà»21. riguardano il complesso dell’opera) i §§ 95 ss. e il § 211, in cui esplicitamente l’autore scrive che «ciò che istituisce la comunità e conduce gli uomini al di fuori dello sregolato stato di natura unendoli all’interno di una società politica, è l’accordo che ciascuno stipula con gli altri per unirsi e agire come un solo corpo, costituendo così uno stato unico e distinto». 20 Hobbes (1651), p. 85. Alle pp. 87-8 l’autore scrive che per gli uomini «il solo modo per erigere un potere comune capace di difenderli dalle invasioni degli stranieri e dai torti reciproci e quindi di renderli sicuri» rispetto alla loro esistenza e al godimento dei frutti della natura, «consiste nel conferire tutto il loro potere e la loro forza a un solo uomo o a un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutte le loro volontà, con la pluralità di voci, ad un’unica volontà. Questa sola «è la reale unità di tutti quanti in un’unica persona, compiuta attraverso il patto (covenant) di ciascun individuo con ogni altro, come se ogni uomo potesse dire ad ogni altro “io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a questo uomo o a questa assemblea di uomini a questa condizione: che tu gli ceda il tuo e autorizzi tutte le sue azioni alla stessa maniera”. Fatto questo, la moltitudine così unita in un’unica persona, si chiama stato (in latino civitas)». 21 Rousseau (1762), I-6. Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile comporta un «cambiamento assai considerevole nell’uomo, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto e conferendo alle sue azioni quella moralità che prima gli mancava». Infatti, se prima l’uomo agiva seguendo la voce dell’istinto e dell’appetito naturale, che lo faceva badare soltanto a se stesso, nello stato civile «si vede costretto ad agire sulla base di altri principi e ad ascoltare la sua ragione prima delle sue inclinazioni», ibid., I-8.

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L’individuo concepito da Hayek non coincide pienamente neppure con quello elaborato da Adam Smith, anche se con questi ci addentriamo in Scozia e ci avviciniamo fortemente alle posizioni del filosofo austriaco. L’individuo descritto dal grande economista e filosofo scozzese, infatti (si pensi al paradigma dell’homo oeconomicus, rifiutato da Hayek e da Menger prima ancora), è comunque un essere pienamente razionale, il quale, in virtù della propensione naturale allo scambio e al commercio, contribuisce a formare la ricchezza di una società seguendo questa sua inclinazione e mirando al conseguimento dei propri obiettivi individuali. Il suo unico limite è dato dal fatto di essere appunto un singolo, il quale da solo non può contribuire alla ricchezza della nazione nella sua interezza. In questo senso gioca un ruolo «la mano invisibile», che poi è quel meccanismo naturale di massimizzazione del benessere per cui ogni individuo, semplicemente seguendo i propri interessi economici, contribuisce inconsapevolmente alla ricchezza generale grazie al fatto che gli altri individui fanno la stessa cosa22. Indubbiamente la società descritta da Smith, per cui l’agire individuale subisce l’influsso benefico della «mano invisibile», ci avvicina oltremodo alla posizione di Hayek (si pensi all’«ordine spontaneo»), ma non del tutto. Perché comunque in Smith l’agire degli individui è razionale (l’uomo è «economico» in virtù di una propensione naturale di cui è consapevole e di cui si serve razionalmente in vista dei propri interessi) e lo stesso meccanismo della «mano invisibile» è immanente all’attività degli individui nella società, potremmo dire contemporaneo.

22 Cfr. Smith (1776), v. I, p. 15: «Tra gli uomini i più differenti ingegni sono di utilità gli uni agli altri; i differenti prodotti dei loro rispettivi talenti, in seguito alla generale disposizione a trafficare, barattare e scambiare, è come se venissero posti all’interno di un fondo comune in cui ogni uomo può comprare ogni parte del prodotto del talento altrui di cui avesse bisogno»; ma anche ibid., p. 400, in cui Smith descrive il meccanismo naturale della «mano invisibile» per cui ogni individuo perseguendo il proprio interesse, senza volerlo, contribuisce alla ricchezza dell’intera nazione.

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In Hayek invece, e qui cerchiamo di delineare la precipuità del suo individualismo anche rispetto agli autori precedentemente citati, l’individuo possiede una conoscenza limitata, fallibile e, soprattutto, regolata da «schemi astratti» inconsapevoli (cfr. il capitolo I), che si sono affermati per adattamento attraverso un’«evoluzione culturale» spontanea di cui ogni individuo è anche e soprattutto un prodotto, un risultato successivo all’evoluzione stessa. L’individuo concreto, insomma, così come ogni altra cosa concreta, è il prodotto di «rapporti astratti» (o di «regole astratte e generali», o dell’«ordine spontaneo», o dell’«evoluzione culturale»), che regolano la nostra vita senza che noi ne siamo pienamente consapevoli: è ciò che lo stesso Hayek chiama «il primato dell’astratto»23. Quindi anche le istituzioni concrete della società, che apparentemente potrebbero sembrare il mero prodotto di individui concreti, razionali e consapevoli (che, per esempio, scelgono razionalmente di uscire dallo stato di natura e costituire uno stato civile), risultano in realtà essere il prodotto di «rapporti astratti (abstract relations)» di cui nessuno individuo è consapevole e rispetto a cui anzi, a volte, gli stessi individui si trovano a essere dei semplici «strumenti di trasmissione» (se ci si passa l’espressione). 23 «Se siamo tutti consapevoli dell’esistenza dei particolari concreti, ciò non impedisce che ne siamo consapevoli soltanto perché la mente è capace di operare conformemente a regole astratte che noi possiamo scoprire in quella mente, ma che essa deve aver posseduto prima che noi fossimo capaci di percepire i particolari dai quali noi crediamo siano derivate le astrazioni. Ciò che sostengo, in breve, è che la mente deve essere capace di compiere operazioni astratte per essere capace di percepire i particolari e questa capacità si manifesta molto prima di poter parlare di una consapevolezza conscia dei particolari. Soggettivamente viviamo in un mondo concreto e possiamo avere le più grandi difficoltà a scoprire anche solo un numero ridotto dei rapporti astratti che ci fanno discernere le cose differenti e ci rendono capaci di rispondervi differenziatamene. Ma quando vogliamo spiegare che cosa è che ci fa funzionare (what make us tick), dobbiamo iniziare dai rapporti astratti che governano l’ordine che, come un intero, conferisce ad ogni particolare il suo rispettivo posto», Hayek (1978), p. 37, corsivi nostri.

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Hayek stesso chiarisce quanto stiamo dicendo: «Il campo in cui è venuto fuori più chiaramente il fatto che le nostre attività mentali non sono guidate soltanto, o anche principalmente, dai particolari verso i quali sono consapevolmente dirette, o di cui è consapevole la mente agente, ma da regole astratte che non si può dire essa conosca (ma che tuttavia la guidano), è quello della linguistica moderna»24. Per spiegare il suo intendimento il filosofo austriaco da una parte cita un passo tratto dallo scozzese Adam Ferguson, e precisamente quello in cui questi scrive che «il contadino, o il bambino, può ragionare, giudicare e parlare la sua lingua con una capacità di discernimento, una consistenza e un’attenzione per l’analogia che lasciano perplesso il logico, il moralista e il grammatico, quando essi vorrebbero trovare i principi sui quali quel procedimento è fondato, o quando vorrebbero far diventare una regola generale ciò che è così familiare e così ben accettato in casi particolari»; e dall’altra parte fa riferimento al celebre linguista Noam Chomsky, ricordando come «tutti conoscono in che misura questa concezione della teoria della grammatica della sua lingua, che il bambino può osservare senza avere alcuna idea consapevole della sua esistenza», sia stata portata avanti dallo stesso linguista e dalla sua scuola di grammatica generativo-trasformazionale25. In questo senso l’individualismo di Hayek si distingue non soltanto dai classici succitati, ma anche da quello di Mises. Infatti quest’ultimo, in Socialism, trattando della catallaxy nega espressamente che si possa parlare di forze «automatiche» o «anonime» che azionano il meccanismo del mercato, poiché gli unici fattori che dirigono il mercato e determinano i prezzi sono «azioni intenzionali (purposive actions)» di individui: «Non v’è alcun automatismo; ci sono unicamente individui che, consapevolmente (consciously), mirano a fini scelti e che, deliberatamente (deliberately), ricorrono a mezzi definiti per il raggiungimento di quei fini. Non esistono forze meccaniche misteriose; c’è soltanto la volontà di ogni individuo di soddisfare il proprio 24 25

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Ibid., p. 39. Ibid.

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bisogno di beni differenti. Non c’è alcuna forza anonima; ci siamo soltanto io, Bill, Joe e tutti gli altri»26. È evidente che per Mises le figure centrali dell’ordine economico e sociale sono gli individui, i quali agendo razionalmente e consapevolmente per raggiungere i propri obiettivi, contribuiscono tutti insieme a creare l’ordine stesso. Vista da questo punto di vista, la posizione di Mises non si discosta dall’impianto classico del pensiero moderno (che abbiamo analizzato in Locke, Rousseau, Hobbes etc.) in base al quale sono gli individui che, a prescindere dalla motivazioni, decidono razionalmente di costituire una società per preservare al meglio la propria esistenza. O anche, analizzata in un’ottica di individualismo economico (abbiamo visto Smith, ma anche lo stesso Mises), sono comunque gli individui che con il legittimo (e razionale, consapevole) agire finalizzato all’interesse personale, contribuiscono anche non volendo al funzionamento del meccanismo catallatico nella sua interezza27. La visione di Hayek differisce per alcuni aspetti non marginali. Ed è qui che il suo individualismo comincia a vacillare, assumendo dei contorni mal definiti e, a rigore, persino contraddittori. Per capirlo dobbiamo riferirci (cosa che fa lo stesso filosofo) a un autore del ’700, Adam Ferguson, il quale sostiene che «come i venti, che provengono da un posto che non conosciamo e soffiano nelle direzioni che vogliono, le forme della società derivano da un’origine oscura e distante; esse nascono, molto prima della nascita della filosofia, dagli istinti e non dalle speculazioni degli uomini», e da questo deduceva che «le nazioni barcollano sopra istituzioni che sono in realtà il risultato dell’azione umana ma non di un qualche umano disegno»28. Mises (1922), p. 538, corsivi nostri. Caldwell (2004), p. 283, afferma che l’individualismo metodologico di Hayek differisce per molti aspetti da quello dei principali economisti, fino ad arrivare al punto di riscontrare, negli scritti più tardi del filosofo, persino una posizione che finisce col contraddire l’individualismo teorizzato in gioventù. 28 Ferguson (1767), p. 122. In questa ultima celebre espressione, l’autore scozzese cita J.F. Paul de Gondi, cardinale di Retz (1613-1679). 26 27

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Tale concezione può essere accolta come una forma «moderna» di intendimento della politica e delle modalità di formazione di una società, riferendoci a Constant, il quale, nel celebre De la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1819), proprio descrivendo la nuova forma di libertà dei moderni (più autonoma, individuale), in sostituzione di quella degli antichi (una libertà più partecipativa, più politica nel senso etimologico del termine), la caratterizza come quella dimensione in cui l’individuo, ormai «perso nella moltitudine, non si accorge mai dell’incidenza che esercita. La sua volontà non fa mai presa sull’insieme e non c’è nulla che gli mostri la sua cooperazione»29. Insomma, se la forma tradizionale della politica prevedeva una partecipazione razionale e consapevole da parte degli individui, con questa forma moderna si afferma una concezione dell’individuo quale essere che contribuisce alla formazione della società senza rendersene conto, inglobato all’interno di un meccanismo spontaneo che lo sovrasta e che vive di vita propria. Ma qual è questo meccanismo? Come si è formato? E, soprattutto, quale ruolo possono avere gli individui all’interno dello stesso? Si può ancora parlare, a proposito di Hayek, di una concezione individualista, di un intendimento della società finalizzato alla e fondato sulla libertà autonoma degli individui che la compongono? Alle prime due domande (qual è questo meccanismo e come si è formato) il filosofo austriaco risponde con molta chiarezza, in particolar modo laddove afferma che «la nostra civiltà dipende, non soltanto nella sua origine, ma anche per la sua conservazione, da quello che può essere descritto solo come l’ “ordine esteso” (extended order) della cooperazione umana, un ordine più comunemente e forse non correttamente conosciuto come capitalismo»; questo ordine esteso non è derivato da un «disegno» o da un’«intenzione» umana, ma è un «risultato spontaneo»; esso è sorto dal conformarsi intenzionale degli in29

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In Constant (1980), p. 501.

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dividui a certe «pratiche tradizionali e in larga misura morali» che gli uomini tendono molto spesso a detestare e di cui non comprendono valore e significato, ma che tuttavia si sono diffuse attraverso una «selezione evolutiva» data dall’aumento di popolazione e ricchezza registrati presso quei popoli cui «è capitato di seguirle»30. Per chiarire meglio la natura di questo ordine esteso Hayek ricorre a un termine greco (cosmos), intendendo con esso «un ordine che si è formato per evoluzione […] che si autogenera […] endogeno», contrapponendolo al taxis, che è un ordine «esogeno», «artificiale», alla stregua di un’istituzione sociale diretta dall’alto, un’«organizzazione»31. 30 Hayek (1988), p. 6. In merito a tale descrizione apparentemente chiara, va segnalato un punto problematico, non alieno dal tarlo della contraddizione: da una parte questo «ordine esteso» della cooperazione umana si forma e si afferma alla stregua di un processo auto-organizzato, che si sviluppa a un livello superiore rispetto alla volontà e alla coscienza degli uomini; ma dall’altra parte si dice che «è sorto dal conformarsi intenzionale degli individui a certe regole», per poi però tornare a dire che in realtà a quegli individui è solo «capitato di seguirle». Né l’autore sembra tirarsi fuori dall’ impasse più avanti nel corso della stessa opera. Prima, laddove afferma che la stessa «civilizzazione» l’uomo l’ha conseguita «non per la sua ragione né per bontà innata […], ma per l’amara necessità di doversi sottomettere a regole che non ama, al fine di poter resistere ai gruppi rivali che avevano già cominciato a ingrandirsi perché erano inciampati prima su tali regole», ibid., p. 76, corsivo nostro; poi , quando sentenzia che la maggior parte delle persone può riconoscere e adattarsi a svariati tipi di comportamenti (e quindi di regole) differenti senza essere in grado di spiegare e neppure descrivere un tale meccanismo di imitazione, ibid., p. 78. A tal proposito Hayek richiama la distinzione operata da Gilbert Ryle tra il «sapere come (knowing how)» e il «sapere che (knowing that)». Qualche ragionevole dubbio sul ruolo giocato dagli individui, e sul grado di razionalità da essi impiegato nell’ambito dell’ordine esteso è quantomeno legittimo. Fra gli autori che hanno evidenziato il problema segnaliamo Manin (1983). 31 Hayek (1986), p. 51. Cfr. anche Hayek (1978), p. 73, in cui l’autore ricostruisce che «per descrivere un ordine che si è formato spontaneamente», gli antichi greci erano più fortunati di noi, perché «un ordinamento (arrangement) creato deliberatamente dall’uomo mettendo tutti gli elementi al proprio posto o assegnando loro compiti specifici essi lo chiamavano taxis, mentre un ordine che esisteva o si formava indipendentemente da ogni volontà umana…

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Insomma, Hayek è decisamente chiaro quando descrive quello che ormai possiamo chiamare il cosmos, mentre non riesce ad evitare i problemi, e persino le contraddizioni, quando deve chiarire il ruolo e la valenza che gli individui possono assumere all’interno di questo ordine spontaneo. Quello che appare sicuro, e che costituisce un macigno pesantissimo all’interno dell’intera struttura speculativa del filosofo, è che il suo individualismo vede perdere fortemente i contorni definiti, fino al punto paradossale di trasfigurarsi in un «olismo metafisico», rappresentato da un etereo ordine spontaneo in cui gli uomini non si sa bene che ruolo giochino e che comunque non ha trovato, per ammissione stessa del filosofo, realizzazione storica nelle forme e modalità in cui avrebbe voluto Hayek32. Una delle dimostrazioni del fatto che Hayek non riesce a portare fino in fondo la sua concezione individualistica, finendo col subordinarla al fantomatico ordine spontaneo, è data dalla notevole difficoltà nella quale egli si trova quando si confronta con quelle teorie moderne (pur sempre liberali) che promuovono il più possibile la «parità di condizioni e occasioni di partenza» al fine di mettere tutti gli individui nella possibilità di competere al meglio. Un’altra dimostrazione, strettamente legata alla prima, è data dal rifiuto del criterio «meritocratico». La difficoltà di Hayek viene fuori, soprattutto, nel confronto con un suo grande contemporaneo, quel John Rawls (in specie quello di A Theory of Justice, perché poi il filosofo americano lo chiamavano cosmos». 32 Persino un ammiratore di Hayek come Buchanan lo critica per il suo essere «così diffidente (distrustful) rispetto agli espliciti tentativi degli uomini di riformare le istituzioni, al punto da accettare acriticamente l’alternativa evoluzionistica», Buchanan (1975), p. 194 n. 1 e p. 183 n. 3. Sulla stessa scia anche Arnold (1980). Agassi (1975) parla di «individualismo istituzionale», Pettit (1993) si riferisce a un «individualismo olistico», mentre Vanberg (1986) sostiene esplicitamente che la teoria evoluzionistica di Hayek entra in contraddizione con il suo individualismo metodologico. Il tutto, a riprova del fatto che l’individualismo di Hayek presenta notevoli problemi e financo rischi evidenti di contraddittorietà con altre sue teorie.

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avrà dei ripensamenti) esponente di un liberalismo che si stava evolvendo e che, soprattutto, aveva compreso che la questione della libertà degli individui era inscindibile dal problema di garantire il più possibile una giustizia sociale regolata dal governo politico. A tal proposito abbiamo visto come Rawls promuove una concezione della giustizia che «annulli gli accidenti della dotazione naturale (nullifies the accidents of natural endowment)» e persino «la contingenza delle circostanze sociali», affermando con ciò che l’ordine sociale non è un’entità trascendente rispetto al dominio degli uomini, ma un disegno (pattern) che deriva direttamente dalle loro azioni e dalla loro volontà razionale di rendere la società più giusta33. Il filosofo americano precisa più volte nel corso della sua opera che egli non intende eliminare totalmente le differenze fra gli uomini cui ci pone di fronte la natura. Ciò sarebbe impossibile e forse neppure auspicabile. Suo proposito, però, è quello di affermare un’idea di società (e di «giustizia come equità») in cui gli uomini possano «progettare le proprie istituzioni (designing institutions)» e, così facendo, «tentare di servirsi degli accidenti della natura e delle circostanze sociali soltanto in vista del bene comune (common benefit)»34. Di fronte al confronto con Rawls, Hayek tentenna e persino si contraddice. In Law, Legislation and Liberty, infatti, nell’ambito dello stesso capitolo prima cita con favore un passo di Rawls in cui questi esprime apertamente la necessarietà dell’«uguaglianza di opportunità»35, poi si dice incredibilmente d’accordo con tutto l’impianto speculativo del filosofo americano, contestando a quest’ultimo soltanto il fatto di usare

Rawls (1971), p. 15. Ibid., p. 102. Inutile dire che siamo agli antipodi della posizione di Hayek, per il quale le affermazioni come quelle di Rawls sono il frutto di una comprensibile avversione ai risultati «moralmente oscuri (morally blind)» dell’evoluzione spontanea: evolution cannot be just, dichiara perentoriamente Hayek (1988), p. 74 35 Hayek (1986), pp. 276-7. 33 34

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l’espressione «giustizia sociale» per descrivere il proprio intendimento36. Circa dieci anni più tardi, nella sua ultima opera, Hayek evidentemente si ricrede, affermando che «un mondo rawlsiano non avrebbe mai potuto essere civilizzato», in quanto il principio di differenza «sopprime le differenziazioni dovute alla fortuna»37. Ma si può dire che il filosofo austriaco ha fatto tutto da solo. La contraddizione se l’è cercata, poiché egli ha sempre e coerentemente affermato la naturale equità e l’immodificabilità delle differenze cui gli individui si trovano per grazia della natura o per ereditarietà familiare38. Tanto che un commentatore, chiosando il pensiero di Hayek, afferma che «bisogna decidersi a considerare la situazione di partenza di ogni individuo come un “incidente”», e che quindi eventuali posizioni iniziali privilegiate saranno «il frutto di sforzi e meriti anteriori, in particolare all’interno delle famiglie»39. Evidente è il lapsus del commentatore (da noi evidenziato col corsivo) quando parla di «meriti»: Hayek, coerentemente rispetto alla sua concezione dell’ordine spontaneo, ha sempre escluso la validità del criterio «meritocratico» all’interno del sistema catallattico (in maniera più diffusa si può vedere il secondo libro di Law, Legislation and Liberty). Questo perché, ormai lo abbiamo visto, l’ordine spontaneo stesso sovrasta gli individui, le loro conoscenze, azioni, aspettative più o meno legittime. Non è corretto pensare che un individuo, siccome profonde energie e impegno costanti in un’attività economica o sociale, allora per questo otterrà il successo, e ciò perché il meccanismo catallattico è regolato da quello che in cibernetica si chiama feedback negativo e in filosofia «eterogenesi dei fini»: gli esiti e le conseguenze delle azioni consapevoli degli Ibid., p. 306. Hayek (1988), p. 74. 38 Si veda, per es., Hayek (1948), p. 31 ma anche (1978), p. 64 e (1986), pp. 289-90. 39 Nemo (1988), p. 239. 36 37

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individui sono assolutamente imprevedibili e, per ragioni tutte interne all’ordine spontaneo (e quindi sconosciute agli uomini), possono differire anche di molto rispetto alle intenzioni iniziali e ai propositi del soggetto agente. Assolutamente grave, e sintomo di un costruttivismo totalitario, sarebbe per Hayek cercare di interferire con questo ordine e magari, rawlsianamente, concepire una dimensione politica che possa ridisegnare alcune istituzioni col fine di garantire, almeno, condizioni di partenza il più possibile paritetiche fra i vari individui. Ma non significa forse distruggere nella maniera più netta l’essenza stessa dell’individualismo, negare da una parte la possibilità di intervenire politicamente, al fine di garantire il più possibile la parità di condizioni di partenza a tutti gli individui (non togliendo illegittimamente qualcosa ai più fortunati, bensì riconoscendo qualcosa magari ai figli delle famiglie più povere), così che questi possano far valere appieno le proprie capacità e risorse, individuali appunto e non, per esempio, famigliari; e negare dall’altra parte agli uomini la possibilità di criticare razionalmente la propria società e cercare di modificarla (magari anche attraverso «tentativi ed errori») secondo dei criteri di maggiore giustizia rispetto ai quali gli individui stessi potranno entrare in conflitto ma anche trovare dei punti di accordo?40 40 Rawls riconosce maggiori possibilità di intervento da parte della ragione individuale per incidere sulla realtà, proponendo per il singolo una più realistica e saggia capacità di «razionalità deliberativa» sulla base delle circostanze contingenti in cui si trova il singolo stesso. Questa, senz’altro, è consapevole che «la nostra conoscenza di ciò che accadrà se seguiamo questo o quel piano è solitamente incompleta», tanto che possiamo soltanto sperare in una «ragionevole credenza (reasonable belief)» rispetto all’individuazione del nostro bene, ma «se l’individuo agente fa il meglio per una persona razionale in base alle informazioni di cui dispone, allora il piano che seguirà sarà un piano soggettivamente razionale (subjectively rational)». Ciò porta il filosofo americano a concludere che «non è inconcepibile che un individuo o anche un’intera società possano raggiungere la felicità esclusivamente sulla base di un’inclinazione spontanea (spontaneous inclination). Con una grande fortuna e circostanze propizie, ad alcuni uomini può incidentalmente (by nature) capitare di raggiungere il modo di vita che avrebbero adottato con razionalità

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Insomma, e cerchiamo così di giungere a una conclusione, il problema di Hayek comincia proprio dalla sua concezione dell’individualismo troppo rigida e sterilmente contrapposta a un presunto olismo o collettivismo. Proprio questa rigidità, che gli fa negare la dimensione inevitabilmente anche sociale insita in ogni individuo, lo conduce a un’idea di individuo univoca e astratta, tanto che lui per primo non riesce a portarla fino in fondo e finisce col negarla con quello che abbiamo chiamato l’«olismo metafisico» dell’ordine spontaneo41. E dire che la possibilità di sfuggire al «peccato originale» (la concezione individualistica troppo rigida) non gli è mancata, per esempio attraverso la lettura di alcuni dei suoi autori di riferimento. È il caso proprio di quel Ferguson, citato più volte da Hayek con ammirazione per la sua descrizione del meccanismo spontaneo con cui nasce e si sviluppa la società civile, ma ignorato totalmente in quei passi in cui descrive la stessa società come luogo in cui si conciliano, e trovano senso soltanto considerati insieme, l’individuo e il tutto (società, stato etc.)42. deliberativa. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, non siamo così fortunati, e senza riflettere e considerare noi stessi come persone la cui vita si svolge lungo un arco temporale, quasi certamente rimpiangeremo la nostra linea d’azione», Rawls (1971), pp. 417 e 423-4. 41 In questo ci troviamo perfettamente d’accordo con quanto scrive Aaron Sloman alla voce methodological individualism and methodological holism di Bullock-Stallybrass (1977), p. 387, per cui l’intera disputa (tra individualismo e olismo) risulta assolutamente sterile, alla stregua di quella che potrebbe sorgere tra degli ingegneri i quali, riferendosi a una costruzione, litigassero sulla maggiore importanza del meccanismo nella sua struttura o dei singoli materiali e componenti usati. 42 Cfr. Ferguson (1767), p. 29, dove l’autore stimato da Hayek scrive che «appartiene all’uomo come membro della società agire in vista dei propri simili, costruire la propria intelligenza in pubblico, fornire ad essa il pieno esercizio del sentimento e del pensiero», tanto che, «se l’uomo deve lavorare per poter sussistere, allora egli non può conservarsi per un fine migliore di quello del bene dell’umanità (good of mankind). Ancora più sorprendente è questo passo successivo, che Hegel (insieme a tutti i presunti olisti) avrebbe potuto sottoscrivere: «L’uomo è per natura membro di una comunità; e quando è considerato in questa sua caratteristica l’individuo non appare più essere

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Ma senza andare così lontano nel tempo, Hayek avrebbe potuto trovare considerazioni più sagge e meno dicotomiche sul rapporto tra «libertà privata» e «libertà pubblica» in un autore suo contemporaneo, che abbiamo visto averlo influenzato per molti altri aspetti. Quell’autore è Michael Polanyi, il quale scrive che «una società libera è connotata anche dalla vasta gamma di libertà pubbliche attraverso le quali l’individualismo può svolgere una funzione sociale, e non dallo spazio di libertà personali che non producono effetti sociali». Insomma «la concezione liberale della società, che attribuisce un ruolo fondamentale alla libertà individuale nella vita pubblica delle nazioni, deve comunque riconoscere una distinzione tra due aspetti della libertà: quello pubblico e quello privato»43. L’aspetto curioso è dato dal fatto che non soltanto Hayek finisce col distruggere la sua stessa iniziale concezione individualistica, sacrificandola sull’altare dell’ordine spontaneo, ma anche quest’ultimo non lo preserva da problemi notevoli. Il più grande di tutti, lo abbiamo detto, è quello per cui il filosofo austriaco teorizza un ordine spontaneo che storicamente è stato negato dallo sviluppo dei fatti. L’altro è rappresentato dalle critiche implacabili, e per nulla peregrine, che gli sono piovute fatto per sé. Egli deve rinunciare alla sua felicità e libertà quando queste interferiscono con il bene della società (good of society). Egli è soltanto parte di un intero (part of a whole) […] membro di un corpo […] Se ciò deriva dalla relazione della parte con il tutto e se il bene pubblico è il principale obiettivo degli individui, è altrettanto vero che la felicità degli individui è il grande fine della società civile: infatti in che senso mai può la collettività godere di qualche bene se i suoi membri, considerati a parte, sono infelici?», ibid., pp. 57-8. Per un confronto si veda Hegel (1821), p. 359, Aggiunta al § 260: «L’essenza del nuovo stato è che l’universale sia collegato con la piena libertà della particolarità e col benessere degli individui, che quindi l’interesse della famiglia e società civile deve raccogliersi a stato, che però l’universalità del fine non può progredire senza il sapere e volere proprio della particolarità, la quale deve mantenere il suo diritto. L’universale deve quindi essere reso attivo, ma la soggettività dall’altro lato deve venire sviluppata intera e viva». 43 Polanyi (1951), p. 158. E dire che Michael Polanyi è colui che ha coniato il termine e il concetto di «ordine spontaneo», come ricostruisce Jacobs (1999), pp. 115-8.

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addosso per esempio dall’anarco-capitalista Rothbard: questi, infatti, strenuo difensore della libertà e dell’individuo dalle aggressioni del potere statale, critica fortemente l’attenzione posta da Hayek alle conseguenze in-intenzionali delle azioni umane e alla nascita ed evoluzione spontanea delle istituzioni sociali, temendo che per questa via si possa arrivare a legittimare lo stato stesso (soprattutto nel ruolo ampliato che esso ha finito con l’assumere storicamente nei paesi liberali), in quanto prodotto in-intenzionale dell’agire umano e dell’ordine spontaneo44. Il problema sollevato da Rothbard è innegabile e finisce, seppur da una prospettiva opposta, col coincidere con la nostra tesi. O si accetta la supremazia dell’ordine spontaneo e quindi con essa si accettano gli esiti storici occorsi all’Occidente (fra cui la notevole centralità assunta dalla dimensione politica e dall’intervento dello stato), oppure si rifiuta in blocco la teoria dell’ordine spontaneo45. Ma, con quest’ultima eventualità, cosa rimarrebbe dell’impianto hayekiano, visto che questi ha già sacrificato sull’altare dell’ordine spontaneo la sua teoria individualistica e, con essa, ogni possibile teoria coerente della libertà dei singoli?

Rothbard (1987), p. 3. Su questa critica dell’anarco-capitalista a von Hayek pongono l’accento anche Gordon – Modugno Crocetta (2001), pp. 172 ss. Non a caso c’è chi si è chiesto perché mai non si possano leggere anche la democrazia e lo stato come prodotti dell’ordine spontaneo, Dizerega (1989). 45 E dire che il concetto di «ordine spontaneo» è stato quasi unanimemente esaltato dagli studiosi di Hayek. Per esempio da Crowley (1987), p. 287, che lo definisce il «più importante dei suoi immortali contributi alla teoria politica moderna»; ma anche da Larmore (1987), p. 107, che lo raccomanda come «uno dei modelli di società con i quali i teorici politici devono imparare a confrontarsi», o da Pullen (1989), p. 156, che arriva addirittura a definirlo come un concetto che «potrà servire come punto di partenza per la teoria politica del XXI secolo». Fa eccezione Kley (1994), p. 15, che a tal proposito parla di «approvazioni senza riserve». 44

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Nomos/thesis – law/legislation: dalla democrazia «onnipotente» alla «demarchia» senza giustizia sociale

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uando dalla dimensione epistemologica e metodologica ci trasferiamo su un terreno più propriamente politologico, vediamo che Hayek ricorre a una nuova coppia concettuale per spiegare il proprio pensiero: nomos vs thesis. Alla base di tale distinzione vi è la concezione del diritto in quanto frutto dell’evoluzione spontanea e non del parto della mente di uno o più legislatori. Diritto a cui, proprio perché prodotto dell’ordine spontaneo, devono essere sottomessi sia gli individui sia gli stati (o governi), così da affermare quel governo della legge (rule of law) che costituisce l’ideale antico del liberalismo, ma che viene costantemente sconfessato dagli stati moderni secondo Hayek1. Del resto il «governo della legge», esemplificato fin dall’antichità dalla nota formula ciceroniana (legum servi sumus ut liberi esse possimus), viene visto dalla tradizione liberale come una 1 «Nulla differenzia più chiaramente la condizione di un paese libero da quella di un paese sottoposto a un governo autoritario dell’osservanza, che si ha nel primo, di quei grandi principi conosciuti come Rule of Law. Tecnicismi a parte, ciò significa che il governo è vincolato in tutte le sue azioni da norme stabilite e annunciate in anticipo, norme che rendono possibile prevedere con ragionevole certezza in che modo l’autorità farà uso dei propri poteri coercitivi in determinate circostanze, e che rendono possibile la pianificazione dei propri affari da parte degli individui sulla base di tale conoscenza», Hayek (1944), p. 54. Per un’analisi dettagliata del concetto di Rule of Law in Hayek (rispetto alla tradizione liberale) si può consultare con profitto Kukathas (1989), Cap. 4 § 4. Per il debito di Hayek con Dicey e con la tradizione culturale antica si può leggere Leoni (1961), Cap. 3.

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soluzione al gravoso problema della libertà politica di pervenire a regole e leggi che: 1) pongano un freno (curb) al potere arbitrario del governo sulla vita e la proprietà dei cittadini; 2) sottomettano ogni uomo, di ogni ordine e grado, alle leggi del reame e alla giurisdizione dei tribunali ordinari; 3) garantiscano un dominio dello spirito legale all’interno delle istituzioni inglesi2. Punto essenziale della concezione hayekiana, come specificato dall’autore stesso, è che la «discrezionalità» lasciata agli organi esecutivi che detengono il potere coercitivo sia ridotta quanto più possibile, in modo tale da rendere possibile una struttura stabile di leggi (permanent framework of laws) all’interno della quale l’attività produttiva sia guidata da decisioni individuali, mentre la direzione dell’attività produttiva viene esercitata da un’autorità centrale. Per Hayek tale distinzione riprende chiaramente quella più generale tra «governo della legge» e «governo arbitrario», laddove nel primo il governo «limita se stesso a stabilire regole che determinano le condizioni sotto le quali le risorse a disposizione possono essere usate, lasciando ai singoli la decisione circa gli scopi per i quali vanno usate; mentre nel secondo caso è il governo stesso a indirizzare l’uso dei mezzi di produzione per fini particolari»3. Il primo governo, quello della legge, è caratterizzato da «norme formali (formal rules)», mentre il secondo da «norme sostanziali (substantive rules)». Si tratta di una distinzione fondamentale per Hayek, anche se non sempre di facile comprensione nel concreto. Nel 1944 egli sostiene che «la differenza fra i due tipi di norme è la stessa che intercorre tra lo stabilire regole di viabilità (laying down a rule of the road) e ordinare alla gente 2 Dicey (1885 ), p. 191. Sartori (1987), p. 306, riporta il detto di Cicerone e cita note espressioni in favore del «governo della legge» da parte di Locke e Paine, mostrando così la «strettissima connessione tra libertà politica e libertà giuridica» che caratterizza la liberal freedom. Anche Leoni (1961), p. 59, evidenzia il nesso tra l’«ideale giuridico» del governo della legge e l’«ideale politico» rappresentato dalla parola «libertà». L’affermazione di Cicerone è tratta dalla celebre Oratio pro Cluentio, 53. 3 Hayek (1944), pp. 54-5.

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dove andare, o meglio ancora tra il sistemare cartelli stradali e comandare alle persone quale strada prendere»4. Fuor di metafora il filosofo austriaco spiega che «le regole formali dicono in anticipo alla gente quale azione lo stato intraprenderà in determinati tipi di situazioni, definiti in termini generali, senza riferimento (reference) a tempi, luoghi o determinate persone»5. Molto tempo dopo, precisamente nel 1978, Hayek ricorre ancor una volta a due termini della tradizione greca antica per sintetizzare il proprio intendimento. Allora vediamo che il concetto di «norme formali» viene sostituito da quello di nomos, con il quale Hayek intende descrivere una «norma universale di giusta condotta, applicabile a uno sconosciuto numero di casi futuri, e a tutte le persone indistintamente che si trovino nelle circostanze oggettive descritte dalla norma stessa, a prescindere dagli effetti che l’osservanza della norma produrrà in una particolare situazione». Il filosofo definisce tali norme come «astratte» e «indipendenti dai fini individuali», e aggiunge una precisazione importante, che suggerisce un legame tra la sua speculazione epistemo-metodologica e politico-sociale, laddove specifica che tali norme astratte conducono alla formazione di un ordine spontaneo egualmente astratto e indipendente da ogni fine o cosmos»6. Ora, prima di analizzare come questa nuova coppia concettuale stia alla base della distinzione hayekiana tra law e legiIbid., pp. 55-6. Ibid., p. 56. 6 Hayek (1978), p. 77. Di contro, per thesis, Hayek intende «ogni norma che è applicabile soltanto a persone specifiche, o che serve per gli scopi di chi governa. Sebbene tali norme possano ancora essere, in varia misura, generali e riferirsi a una molteplicità di istanze particolari, esse tenderanno, seppure impercettibilmente, a trasformarsi da regole nel senso usuale del termine a comandi specifici (particular commands). Questi ultimi costituiscono lo strumento necessario per gestire un’organizzazione o taxis», ibid. Insomma, il Rule of Law inteso da Hayek richiede che la legge stessa possieda tre attributi fondamentali: che le sue norme siano «generali e astratte», che siano «conosciute e certe» e che rispettino l’uguaglianza individuale che sussiste prima della legge stessa. Cfr. Kukathas (1989), pp. 155 ss. 4 5

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slation, e quindi a fondamento della critica delle democrazie parlamentari moderne e della proposta di Hayek di un nuovo sistema di governo, conviene fermarsi un attimo per notare come il presupposto imprescindibile del pensatore austriaco, ancora una volta, è dato dalla critica del «costruttivismo». Sia la distinzione già vista tra cosmos e taxis, sia quella che stiamo analizzando tra nomos e thesis, che a sua volta è a fondamento di quella tra law e legislation, ci manifestano chiaramente come l’intendimento di Hayek è quello di affermare la centralità dell’ordine spontaneo in tutta la dimensione umana7. Abbiamo infatti visto come sia spontaneo, e per lo più inconsapevole, il processo che conduce gli individui alla conoscenza (comunque sempre parziale e transitoria), ma anche le società a progredire e sopravvivere alla selezione naturale, tanto che Hayek arriva a dire che l’«adattamento all’ignoto (adaptation to the unknown) costituisce la chiave per comprendere tutta l’evoluzione»8. Ora, Hayek vuole dirci che anche il diritto, la base di un ordinamento liberale e democratico, è il frutto di un’evoluzione spontanea e non certo della mente di qualche legislatore, traendo spunto da questa concezione, come vedremo, per una critica implacabile delle democrazie moderne, affette da governi onnipotenti che, eliminando la necessaria distinzione tra potere legislativo ed esecutivo, pretendono di fare leggi su misura per loro o per le classi sociali di cittadini che li hanno eletti.

«Secondo Hayek la morale, la religione, la legge, la lingua, la scrittura, la moneta, il mercato e, da non dimenticare, l’intero ordine della società (the overall order of society), costituiscono tutti degli ordini spontanei. Ciò che li fa appartenere ad un’unica e medesima categoria fondamentale delle formazioni sociali è la loro apparizione non pianificata (unplanned emergence) […] la inaspettata conseguenza delle decisioni e azioni indipendenti dei molti», Kley (1994), p. 33. 8 Hayek (1988), p. 76. Non a caso, ci sia consentito dirlo, citiamo dalla sua ultima opera, in modo tale da poter cogliere il senso definitivo di tale affermazione. 7

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Ma da cosa nasce questo furore costruttivistico che ha impregnato le tanto esecrate democrazie moderne, ponendo fine al governo della legge così rimpianto dal pensatore austriaco? La risposta di Hayek è chiara: i risultati «moralmente oscuri» che sono prodotti dal naturale e spontaneo processo evolutivo conducono gli uomini a voler «assumere il controllo dell’evoluzione (to wrest control of evolution) e plasmarla (to shape) in base ai loro desideri del momento. Ma in realtà questi sono «tentativi infruttuosi» di render giusta una situazione il cui risultato (outcome), per sua natura, non può essere determinato da ciò che ciascuno fa o può sapere. Tentativi che, in ultima analisi, «danneggiano soltanto il funzionamento del processo stesso»: evolution cannot be just, proclama Hayek9. Il pensatore austriaco non omette le proprie fonti di ispirazione, anzi. Primo fra tutti menziona Bernard de Mandeville, colui che nei primi anni del 1700 espose in maniera compiuta il concetto per cui «nel complesso ordine della società i risultati delle azioni degli uomini sono stati molto differenti da come essi li avevano intesi, e che gli individui, nel perseguire i propri fini, egoistici o altruistici che fossero, producevano risultati imprevisti utili ad altri individui che forse neppure conoscevano»10. Mandeville, secondo la ricostruzione di Hayek, fu seguito in questa concezione anticostruttivistica da altri importanti autori, quali gli scozzesi Ferguson, Smith e Hume, nonché, nel XIX secolo, dall’austriaco Menger, i quali affermarono il fondamentale concetto della teoria sociale per cui «nelle relazioni tra gli uomini, le istituzioni complesse e ordinate e, in un senso oltremodo Ibid., p. 74. In questo il filosofo austriaco riprende quanto affermato da Edmund Burke, autore cui Hayek si è dichiaratamente ispirato in più occasioni. Questi, a cavallo tra il ’700 e l’800 scriveva che «noi, i cittadini, dovremmo renderci conto che non è nella rottura delle leggi del commercio, che sono leggi di natura e quindi di Dio, che va riposta la speranza di mitigare lo scontento divino e per rimuovere le calamità sotto cui patiamo o che incombono su di noi», Burke (1815-27), v. VII, p. 404 (si tratta dei Thoughts and Details on Scarcity). 10 Hayek (1987), p. 253. 9

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definito, quelle progettate, possono crescere ben poco come nelle intenzioni del progetto originario, e quindi non sono state inventate ma sono sorte dalle azioni separate di molti individui che non sapevano cosa stavano facendo»11. Dall’altra parte, come da tradizione consolidata del filosofo austriaco, avvezzo alle semplificazioni e contrapposizioni manichee, abbiamo tutta una serie di autori «costruttivisti», «utopisti» e «olisti», convinti che la società esiste sotto forma di intero e che, in conseguenza di ciò, sia modificabile e migliorabile grazie alla mente e alle azioni di uno solo o di pochi. Egli non mette sotto accusa soltanto il socialismo, per definizione ostile alle istituzioni tradizionali in virtù della adesione al «razionalismo costruttivistico» e appartenente al rango delle «ideologie collettiviste», ma anche alcune sponde del «liberalismo continentale» (specialmente francese, con l’eccezione di Tocqueville, Montesquieu e Constant)12, rintracciando i colpevoli della prima ora nella filosofia illuministica francese e in René Descartes il padre fondatore del «razionalismo costruttivistico»13. L’importanza che Hayek attribuisce alla critica del «costruttivismo» è dimostrata, fra le altre cose, dall’impegno che profonde nell’individuare i colpevoli, malgrado delle citazioni al limite del consentito. Prendiamo il caso di Descartes, messo alla berlina da Hayek perché, nella seconda parte del suo Discorso sul metodo, «Sparta gli sembrava eccellere fra le nazioni greche poiché le sue leggi erano il prodotto del disegno di un singolo individuo e, in quanto tali, tendevano tutte a un unico fine»14. Hayek (1960), pp. 58-59. Per questa ricostruzione hayekiana degli autori anticostruttivisti cfr. anche Kley (1994), p. 37. 12 Si veda Hayek (1960), pp. 54-58 (1967), pp. 160-1, (1978), pp. 119-21 e 126-8. 13 Cfr. Kley (1994), pp. 186-7 e Hayek (1960), p. 65 (1967), pp. 84-5, (1988), p. 48 e pp. 143-7 (1986), pp. 37 ss. Sia Kley (1994), pp. 187 ss., sia Kukathas (1989), pp. 207-13, dimostrano come la dicotomia di Hayek regge difficilmente al confronto con i pensatori e con la storia. 14 Hayek (1978), p. 255. 11

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Pretendere di rintracciare la teoria politica del filosofo francese all’interno di un’opera non eminentemente politica, e per di più segnata dall’incombere della censura (e di una saggia autocensura), è oltremodo rischioso. Infatti, poco più avanti del passo segnalato dall’economista, in un ambito ben più rilevante dell’opera di Descartes, il filosofo francese si rivela un «anticostruttivista» e un «anti-olista», secondo la caratterizzazione che di questi due termini ha dato Hayek stesso, laddove afferma che «non sarebbe saggio che un privato progettasse (fît dessein) di riformare uno Stato, mutandovi tutto dalle fondamenta e rovesciandolo per poi rimetterlo in piedi; e nemmeno che volesse riformare il corpo delle scienze o l’ordine stabilito nelle scuole per insegnarle». Mentre ancora più avanti Descartes, ricalcando alcune idee di Montaigne, si scaglia contro quegli «spiriti confusionari e inquieti (humeurs brouillonnes et inquiètes) che, pur non essendo chiamati a ciò dal censo o dalla sorte, non si stancano mai di apportarvi, con la mente (en idée), qualche riforma»15. Con questo, ci si rivela un Descartes anche anti-razionalista e politicamente conservatore, sempre per attenerci alla lettura manichea di Hayek. Emblematico anche il caso di Voltaire, autore non certo rivoluzionario da un punto di vista politico (se lo confrontiamo con i suoi contemporanei), inserito anch’egli tra i costruttivisti poiché, alla voce «Legge» del suo dizionario filosofico, avrebbe fatto questa affermazione: «Se volete buone leggi, bruciate quelle che avete e fatevene altre da soli»16. Eppure, non solo non abbiamo riscontrato nell’opera di Voltaire una tale affermazione, ma anzi proprio nel Dictionnaire Philosophique, all’interno di dichiarazioni apparentemente contraddittorie (ma anche qui: non siamo nel contesto di un’opera di teoria politica e Voltaire non è un politologo!), abbiamo trovato comunque delle notazioni che smentiscono l’interpretaDescartes (1964-74), v. VI, pp. 13-4. Così riporta testualmente e senza battere ciglio un autorevole interprete italiano: cfr. Antiseri (1996), p. 159. 15 16

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zione univoca fornita da Hayek. Per esempio laddove Voltaire pronuncia un’affermazione categorica e che Hayek sottoscriverebbe in toto: «Che la legge non sia mai in contraddizione con la consuetudine (l’usage). Infatti, se la consuetudine è buona, la legge non vale nulla»17. Fin qui abbiamo analizzato i «costruttivisti» non eminentemente politici. Ma anche inserire Hegel e Marx tra gli autori affetti da «costruttivismo razionalistico», cioè tra coloro che «non riconoscono che la società non è il prodotto di un disegno conscio ma è il prodotto inconsapevole dell’evoluzione» si rivela un’operazione non agevole, poiché «non v’è dubbio che Hegel e Marx non hanno pensato la società come il prodotto di un disegno consapevole», bensì «costituisce un punto fondamentale della loro filosofia sociale intendere la società come il prodotto dell’evoluzione storica delle istituzioni umane»18. Non è un caso, infatti, che vi sia stato chi ha visto in Vico (inserito da Hayek tra gli anti-costruttivisti) il precursore di Hegel e Marx19, mentre altri hanno localizzato le fonti della visione hegeliana della società civile, come sistema di interdipendenze, nel lavoro di Locke, Hume, Smith e, specialmente, Ferguson20. Ma allora perché un autore per altri versi attento e rigoroso come Hayek si avventura in citazioni così spericolate, e dicotomie alquanto semplicistiche, pur di suffragare la propria critica del costruttivismo? 17 Voltaire (1764), p. 247, sotto la voce «leggi ecclesiastiche e civili». Forse a «questo» Voltaire si ispirava Hayek quando lo accostava a Kant nell’affermare (e il francese lo aveva fatto prima del tedesco) che «l’uomo è libero soltanto se non deve obbedire ad alcuna persona ma alla sola legge», riconoscendolo tra coloro che hanno perorato la causa del Rule of Law, Hayek (1944), p. 61. Semmai è interessante ricordare quest’altra affermazione di Voltaire, con cui Hayek, nella sua visione più semplicistica delle cose e dell’ordine (spontaneo) del mondo, non avrebbe certo concordato: «Mi è sembrato che alla maggior parte degli uomini la natura abbia assegnato sufficiente buon senso per fare delle leggi, ma che in tutto il mondo non vi sia abbastanza giustizia per poter fare delle buone leggi», Voltaire (1764), p. 244. 18 Kukathas (1989), pp. 207-8. 19 Diamond (1980), in specie p. 357. 20 Avineri (1980), p. 141 n.

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La risposta risulta in maniera abbastanza immediata: la critica al costruttivismo (e quindi la difesa di una visione della società come prodotto dell’evoluzione spontanea) permette ad Hayek di operare la suddetta divisione tra nomos e thesis (o fra law e legislation), che è alla base della critica delle democrazie moderne. Queste ultime, infatti, hanno visto l’abbandono del Rule of Law grazie all’insorgere dell’idea per cui «non vi è limite al potere dei legislatori», idea che in parte è il risultato dell’affermazione storica della «sovranità popolare» e del «governo democratico»21. Il sistema delle leggi, per Hayek, non è qualcosa che un uomo (un legislatore) o alcuni uomini hanno costruito sulla base di considerazioni razionali, di necessità del momento o di interessi particolari. La legge può essere descritta come un comando «dato una volta per tutte (once-and-for-all)» che è diretto a persone sconosciute, facendo astrazione dalle particolari circostanze di tempo e di luogo, e che si riferisce soltanto a quelle condizioni che possono accadere in ogni luogo e in ogni tempo22. Ciò implica che il sistema delle regole in quanto intero (the system of rules as a whole) non deve la propria struttura al disegno di giudici o legislatori, ma è il risultato di un processo di evoluzione nel corso del quale lo sviluppo spontaneo di abitudini e di migliorie, deliberate da parte di individui di un sistema esistente, sono entrati in costante interazione23. Del resto, secondo Hayek questo era lo spirito che stava alla base dell’intendimento di Montesquieu e dei padri della costituzione americana: pensare una costituzione come «insieme dei limiti all’esercizio del potere», che tutelasse la libertà individuale attraverso lo strumento della separazione dei poteri24. Il proHayek (1944), p. 61. Hayek (1960), pp. 149-50. 23 Hayek (1973), p. 100. 24 «Il potere arresti il potere» proclama Montesquieu (1748), XI-4, poiché «tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, di nobili o di popolo» potessero esercitare al tempo stesso il potere di fare le 21 22

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blema è che quella saggia divisione dei poteri (legislativo, giudiziario ed esecutivo) è stata tradita dalle democrazie moderne, in cui «per via di mezzi costituzionali i governi hanno ottenuto poteri che quei pensatori non intendevano affidare loro». La tutela della libertà individuale è stata minata dall’affermazione di quell’idea di democrazia secondo cui, in ogni particolare materia, «la volontà della maggioranza non incontra limite alcuno». Insomma, afferma Hayek, la confusione dei poteri (legislativo ed esecutivo, dove il secondo si è via via arrogato le competenze del primo), propria delle democrazie moderne, ponendo fine al modello di istituzioni democratiche liberali, in cui è lo stesso corpo legislativo a porre le regole di giusta condotta e le direttive per l’attività di governo, «conduce necessariamente ad una graduale trasformazione dell’ordine spontaneo di una società libera verso un sistema totalitario asservito a qualche coalizione rappresentativa di interessi organizzati»25. In questo modo viene distrutto il «governo della legge», o meglio di quelle leggi sviluppatesi per evoluzione spontanea, «astratte» da considerazioni di tempo e di luogo, astratte dagli interessi di un individuo o di un gruppo di potere, valide indistintamente per tutti i cittadini e a cui lo stesso potere esecutivo deve essere soggetto. Hayek riassume la sua idea della degenerazione delle democrazie moderne in questi termini: «Ciò che sta accadendo è precisamente ciò che alcuni avevano temuto a proposito della democrazia già nel XIX secolo. Un sano metodo per arrivare a decisioni politiche largamente accettate si è trasformato in un pretesto per imporre fini sostanzialmente egualitari (egalitarian aims). L’avvento della democrazia nel secolo scorso ha portato un cambiamento decisivo nell’ambito dei poteri governativi. leggi, di eseguire le decisioni pubbliche e di giudicare, ibid., XI-6. Anche per gli autori del Federalista «il concentrare tutti i poteri nelle medesime mani, siano quelle di uno o di pochi o di molti, che ciò avvenga per eredità, per autonomina o tramite elezioni, può a pieno titolo essere considerata la manifestazione della dittatura vera e propria», Hamilton-Jay-Madison (1788), p. 249. 25 Hayek (1986), pp. 5-7.

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Per secoli gli sforzi erano stati diretti verso la limitazione dei poteri del governo; e il graduale sviluppo delle costituzioni non era servito ad altro obiettivo che questo. Ma improvvisamente si ritenne che il controllo del governo da parte dei rappresentanti eletti dalla maggioranza rendesse inutile ogni altro controllo sui poteri del governo, tanto da fare a meno di tutte le varie tutele costituzionali che si erano sviluppate nel corso del tempo. Nacque così la democrazia illimitata (unlimited democracy), e proprio questa democrazia illimitata – non la democrazia in quanto tale – è il problema di oggi. Tutta la democrazia che conosciamo oggi in Occidente è più o meno una democrazia illimitata». L’obiettivo polemico dell’economista è chiaro e più mirato di quanto possa sembrare, e cioè la forma di governo nella quale qualsiasi maggioranza del momento (any temporary majority) possa decidere che qualunque materia le piaccia debba essere considerata alla stregua di affari comuni soggetti al suo controllo: «Il vecchio ideale del “governo della legge” o del “governo sotto la legge”è stato quindi distrutto. Il Parlamento “sovrano” può fare tutto ciò che i rappresentanti della maggioranza trovano utile per conservare l’appoggio della maggioranza stessa (to retain majority support)»26. È evidente come la dicotomia tra un diritto prodotto dall’evoluzione spontanea (nomos) e uno prodotto dal «costruttivismo» delle democrazie moderne (thesis) conduce Hayek su posizioni oltremodo distanti da quelle di alcuni dei più importanti studiosi di diritto a lui contemporanei, che però hanno influito Hayek (1978), pp. 152-3. Già Spencer (1892), p. 369, aveva descritto il «diritto divino dei parlamenti» come la grande «superstizione politica del presente», superstizione che non poteva vantare alcun decreto divino e che quindi non conferiva al corpo legislativo alcuna giustificazione soprannaturale per la sua pretesa di «autorità illimitata». Lo stesso sociologo inglese, peraltro, fra i peccati (sins) dei legislatori una volta ritenuti nefasti e oggi (alla fine dell’Ottocento) all’ordine del giorno, includeva gli atti dei parlamenti che interferivano con la legge della domanda e dell’offerta. Cioè con le divine (queste sì, già secondo Burke come abbiamo visto) leggi dell’economia, ibid., p. 334. 26

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in misura assai maggiore sulla formazione delle suddette democrazie moderne. È il caso di Kelsen, uno dei bersagli preferiti di Hayek lungo tutto il corso della sua opera, il quale pur accettando il fatto che la consuetudine possa essere un elemento produttore di diritto, ribadisce però che proprio il diritto è un «sistema dinamico di norme» e le norme di un tale sistema debbono venir create da «atti di volontà» da parte di quegli individui che sono stati autorizzati a crearle da una qualche norma più elevata. In questo senso Kelsen non ha dubbi nel sostenere che «il diritto è sempre positivo, e la sua positività risiede nel fatto che esso è creato e annullato da atti di esseri umani, ed è quindi indipendente dalla morale e da analoghi sistemi normativi. È questa la differenza fra il diritto positivo e il diritto naturale, il quale, come la morale, è dedotto da una norma fondamentale presumibilmente evidente di per sé, considerata come espressione della “volontà della natura” o della “ragione pura” (o dell’«ordine spontaneo», potremmo aggiungere noi)»27. Ora, aggiunge Kelsen, come la norma fondamentale di un sistema normativo religioso afferma che ci si deve comportare secondo i comandi di Dio e delle autorità da lui istituite, la norma fondamentale di un ordinamento giuridico prescrive che ci si debba comportare come stabilito dai «padri della costituzione» ma anche da quegli individui autorizzati (delegati), direttamente o indirettamente dalla costituzione28. Questi delegati sono ovviamente i parlamentari, cioè quei componenti del potere legislativo che stabiliscono le leggi in base al «principio di maggioranza», secondo il quale «l’ordinamento sociale deve essere in accordo con quanti più soggetti sia possibile, e in disaccordo con quanti meno sia possibile […] Se un ordinamento non potesse essere mutato dalla volontà di una maggioranza semplice dei soggetti, ma solo dalla volontà di tutti (cioè all’unanimità), o dalla volontà di una maggioranza qualificata (ad esempio dei due terzi, o dei tre quarti), 27 28

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Kelsen (1945), pp. 114-5. Ibid., p. 115.

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ogni singolo individuo, o una minoranza di individui, potrebbe impedire un mutamento dell’ordinamento. E l’ordinamento potrebbe essere allora in disaccordo con un numero di soggetti superiore a quello di coloro con la cui volontà concorda»29. Il ragionamento del giurista è perfettamente logico e risulta più familiare alle orecchie di coloro che si ritrovano nelle basi (almeno teoriche) delle democrazie occidentali moderne. Al tempo stesso Kelsen si preoccupa comunque di fornire due precisazioni di non poco conto: la prima è che il sistema da lui descritto «non si identifica affatto con la signoria assoluta della maggioranza»30; la seconda concerne il fatto che si tratta di un sistema democratico e che se coloro che compongono il potere legislativo sono dei deputati eletti dal popolo (e secondo il principio di maggioranza formeranno l’ordinamento giuridico), è anche vero che «è proprio della natura della democrazia che il suffragio sia universale» e che il minor numero possibile di individui debba essere escluso da questo diritto», poiché la democrazia esige che il diritto elettorale sia non soltanto il più universale, ma anche il più eguale possibile31. La questione può essere chiarita ancora meglio grazie alle precisazioni di un autore a noi cronologicamente più vicino. Ibid., pp. 291-2. Ibid., p. 292: «Il principio di maggioranza non si identifica affatto con la signoria assoluta della maggioranza, con la dittatura della maggioranza sulla minoranza. La maggioranza presuppone per definizione l’esistenza di una minoranza; e il diritto della maggioranza implica quindi il diritto di esistenza della minoranza. Il principio di maggioranza è osservato in una democrazia quando è consentito a tutti i cittadini di partecipare alla creazione dell’ordinamento giuridico, per quanto il suo contenuto sia determinato dalla volontà della maggioranza. Non è democratico, perché contrario al principio della maggioranza, escludere alcuna minoranza dalla reazione dell’ordinamento giuridico, anche se l’esclusione sia decisa da una maggioranza». 31 «L’eguaglianza del diritto elettorale è direttamente violata se agli individui che soddisfino a dati requisiti, che siano, ad esempio, letterati o paghino un dato ammontare di imposte, vengono accordati più voti che agli altri (voto plurimo)», ibid., p. 299. Idee identiche vengono espresse da Rawls (1971), pp. 222-3. 29 30

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John Rawls, infatti, parlando della «regola della maggioranza (majority rule)» nella costituzione di un ordinamento giuridico, precisa che essa è giustificata in quanto «modo migliore per assicurare una legislazione giusta ed efficace». Se infatti «si consente il governo di una minoranza, non c’è nessun criterio chiaro per selezionare chi deve decidere e il principio dell’uguaglianza è violato». Una parte fondamentale del principio di maggioranza è che la procedura dovrebbe soddisfare le condizioni della «giustizia di sfondo (background justice)», quali la libertà politica, di parola e di associazione, di prendere parte agli affari pubblici e di influenzare con l’uso di mezzi costituzionali il corso della legislazione. Ma tutto questo, tiene a precisare Rawls, non implica l’idea che «la volontà della maggioranza sia giusta», poiché è ragionevolmente impossibile che un ordinamento giuridico, o anche soltanto una norma, possa aspirare alla giustizia in senso assoluto. E del resto, questa della «giustezza» di una deliberazione legislativa, è cosa che pertiene al giudizio politico e non fa parte della teoria della giustizia, come dimostra il fatto che mentre i cittadini sottomettono, di norma, la propria condotta all’autorità democratica, riconoscendo che «il risultato di una votazione stabilisce una norma vincolante (the outcome of a vote as establishing a binding rule)», così non fanno per quanto riguarda il proprio giudizio32. È evidente che le concezioni di questi due autori contemporanei di Hayek (e con i quali l’austriaco ha il più delle volte polemizzato), corrispondono in linea generale a quanto si è andato gradualmente e faticosamente affermando nelle democrazie occidentali moderne: il suffragio universale (rifiutato da Hayek), la facoltà del potere legislativo di «fare» delle leggi e il criterio della «maggioranza» come quello ragionevolmente più indicato per raggiungere l’irraggiungibile ideale della democrazia. Hayek, invece, terrorizzato dal «principio della maggioranza» e da quelli che secondo lui sono diventati dei «governi illimitati (o democrazie illimitate)», e sulla scia di buona parte 32

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Rawls (1971), pp. 296-7.

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del pensiero liberale del XVIII e XIX secolo, critica fortemente quegli stessi principi che si sono affermati nel XX secolo con le democrazie occidentali moderne33. Il fulcro della questione, ancora una volta, non viene edulcorato dall’economista austriaco: al centro della sua polemica vi è l’insorgere dell’idea per cui «non vi è limite al potere dei legislatori», idea che in parte è il risultato dell’affermazione storica della «sovranità popolare» e del «governo democratico»34. Detto in altri termini, le conquiste moderne del suffragio universale, dei principi democratici di governo, ma anche del welfare state, dell’intervento dello stato nelle questioni economiche etc., avevano sicuramente impresso al corso della storia un percorso che negava i più radicali valori portati avanti da Hayek. In particolar modo la faticosa conquista del suffragio universale35 si rivelava come centrale: infatti se la stragrande maggioranza del popolo aveva diritto ad eleggere i propri rappresentanti al Parlamento, e se si dà per assodato che questa maggioranza è composta da classi lavoratrici di bassa e media posizione sociale, ne consegue che i parlamenti (e i governi) saranno espressione di tali classi, così che, infine, potranno modificare l’ordinamento giuridico sulla base di assunti più confacenti a quelle classi stesse. Di qui lo scagliarsi di Hayek contro la «sovranità popolare» e contro il «governo democratico», colpevoli di spostare i governi occidentali verso politiche improntate a quel vero e proprio «miraggio» che è la «giustizia sociale»36. Cfr. Ercolani (2004), in specie le pp. 54-9. Hayek (1944), p. 61. 35 Per l’analisi storico-politica delle tappe che hanno caratterizzato la travagliata conquista del suffragio universale, costituisce un lavoro imprescindibile quello di Losurdo (1993). 36 L’autore liberale che meglio espresse gli stessi timori, nell’Ottocento, fu J. S. Mill, il quale proponeva il «voto plurimo» sulla base di un pericolo connaturato alla «democrazia rappresentativa»: quello di una «legislazione di classe (class legislation) da parte della maggioranza numerica composta da una sola classe», Mill (1972), p. 256. Per un’analisi più accurata anche del contesto storico, rinvio ad Ercolani (2004). 33 34

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Quella di «giustizia sociale» è, per Hayek, al tempo stesso un’idea e una pratica sociale che ha contagiato le democrazie moderne, grazie all’influsso che le concezioni socialiste hanno avuto sulle stesse. Un’idea recente, che egli fa risalire all’Ottocento e di cui incolpa, fra gli altri, John Stuart Mill e la chiesa cattolica romana37, ma che per l’economista austriaco si rivela del tutto priva di senso, in quanto in un sistema catallattico «in cui ogni individuo può usare liberamente le proprie conoscenze per i propri fini il concetto di “giustizia sociale” è necessariamente vuoto e privo di significato, perché in esso non vi è alcuna volontà che possa determinare i redditi relativi delle varie persone, o evitare il fatto che dipendano in parte dal caso. Si può dare un significato all’espressione “giustizia sociale” soltanto nel caso di un’economia amministrata o sottoposta a “comandi” (come nell’esercito), dove si ordina agli individui cosa devono fare»38. Certamente, ammette Hayek, la percezione dei fautori della giustizia sociale secondo cui una tale società libera possa portare a risultati discutibili e «moralmente» ingiusti sui destini degli individui, non è sbagliata. Il problema è che quello della catallassi è un sistema che, come comprese Adam Smith (e forse prima di lui gli stoici), è in tutto e per tutto uguale a un «gioco» dove l’impegno e l’abilità dei giocatori ha un peso tanto quanto il caso. Insomma, se si lascia operare quello che Hayek chiama il «principio del feedback negativo», bisogna mettere in conto che alcuni individui devono subire delusioni immeritate39, poiché in un gioco non vale il metro del giudizio morale né è possibile stabilire dei criteri oggettivi in base ai quali un agente piuttosto che un altro debba vincere. Si può e si deve fare in modo che vi siano regole valide, che queste siano rispettate da tutti i giocatori, ma poi la partita presenterà comunque un risultato Hayek (1986), pp. 263 e 266. Ibid., p. 271. Sulle critiche di Hayek alla «giustizia sociale» cfr. Gray (1984), pp. 72 ss. e Butler (1983), pp. 64-78. 39 Hayek (1986), p. 273. 37 38

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imprevedibile e che non necessariamente finirà col premiare il giocatore sulla carta più forte o più meritevole40. A tal proposito Hayek si chiede quanto sia giusto incoraggiare i giovani nell’idea che «quando si sforzano veramente riescono», ritenendo che forse sarebbe più opportuno prepararli al fatto che «inevitabilmente alcuni poco meritevoli avranno successo mentre altri meritevoli falliranno»41. E con ciò arriviamo al punto nodale della questione sulla giustizia sociale: quello sull’«uguaglianza di opportunità», rispetto al quale molti autori potrebbero contestare il ragionamento di Hayek. Egli stesso, peraltro, ammette che non si può negare che «nell’ordine di mercato esistente non soltanto i risultati ma anche le opportunità iniziali dei vari individui sono molto spesso diverse: infatti sono condizionate da circostanze ambientali, fisiche e sociali, che non dipendono da loro ma che per molti aspetti potrebbero essere modificate da un’azione governativa»42. Tale richiesta di un’uguaglianza di opportunità, riconosce ancora il filosofo, è avanzata fortemente anche da autori che si riconoscono pienamente all’interno del sistema di libero mercato43. Per il sociologo Spencer (1892), pp. 297 e 308, i problemi cominciavano quando un governo, partendo dal falso assunto per cui ogni «sofferenza sociale» fosse rimuovibile, finiva con l’estendere il suo potere di intervento a tutte quelle questioni in cui ritenesse di intravedere un ingiustizia 41 Hayek (1986)., p. 277. 42 Ibid., p. 289. 43 È il caso, per esempio, di Rawls (1971), pp. 302-3, il quale nello stabilire i due principi definitivi di giustizia per le istituzioni, accanto al primo (che stabilisce l’eguale diritto di ogni persona al più ampio sistema totale di eguali libertà di base compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti), ne formula un secondo (prioritario secondo il filosofo americano) che ammette ineguaglianze sociali ed economiche soltanto se queste sono per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati (compatibilmente con il principio del giusto risparmio) e comunque collegate a cariche e posizioni aperte a tutti sotto condizioni di «equa eguaglianza di opportunità (fair equality of opportunity). Rawls, affermando la «priorità della giustizia rispetto all’efficienza e al benessere», postula che l’equa opportunità precede il principio di differenza e ammette un’ineguaglianza di opportunità solo nella misura in cui questa 40

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Hayek non si dice contrario per principio, prendendo in considerazione l’ipotesi che il governo possa intervenire per realizzare uno dei motti del liberalismo classico (espresso in francese: la carrière ouverte aux talentes), oppure per provvedere su base egualitaria ai mezzi per l’istruzione scolastica dei minori, ma conclude che «tutto ciò sarebbe tuttavia ben lungi dal creare una vera uguaglianza di opportunità, anche per persone che posseggano le stesse capacità. Per conquistare quest’uguaglianza il governo dovrebbe controllare l’ambiente fisico e sociale di tutti, e dovrebbe sforzarsi di provvedere almeno ad un minimo di occasioni favorevoli uguali per tutti. Più l’azione governativa ha successo in questi sforzi, più diventerebbe legittima la richiesta che, secondo lo stesso principio, siano rimossi tutti gli svantaggi ancora presenti o siano compensati imponendo un onere maggiore su coloro che sono relativamente più fortunati»44. Insomma, l’idea di giustizia sociale come si è venuta affermando nelle democrazie moderne è perfettamente irrealizzabile secondo Hayek, perché dovrebbe presupporre un potere troppo centralizzato e capillare da parte del governo politico, il quale se volesse garantire fino in fondo la parità di opportunità per tutti di «sviluppare le proprie capacità», dovrebbe andare a incidere fino a dentro le famiglie dei bambini. E proprio la famiglia , la sua ricchezza, il grado di cultura etc., finisce con il ricoprire un ruolo fondamentale rispetto alle condizioni di partenza di ogni individuo45. In questo senso l’uguaglianza di opportunità è un miraggio, poiché è impossibile da parte di qualunque autorità riuscire a parificare le molteplici condizioni di partenza differenti (fisioaccresce le opportunità di coloro che ne hanno di meno. Naturalmente tali principi sottendono il fatto che per Rawls tutti i beni sociali primari (fra cui la libertà, le opportunità, reddito e ricchezza) possono e «devono essere distribuiti equamente», evidentemente dalle autorità governative. 44 Hayek (1986), p. 289. 45 Ibid., p. 293, ma anche (1960), p. 91, in cui difende l’eredità affermando che è un modo per procurare vantaggi ai propri figli meno costoso socialmente che quello di combattere nella vita per procurar loro buoni posti.

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logiche, famigliari, ambientali etc.) che caratterizzano gli individui, a meno che tale autorità non diventi autoritaria e si impegni in politiche che finirebbero col danneggiare il meccanismo di evoluzione spontanea46. Ci sembra che ancora una volta, il filosofo austriaco, sull’altare dell’ordine spontaneo, dell’evoluzione naturale che l’uomo non deve intralciare, sacrifica gli individui e l’opzione di creare un sistema politico che, per quanto possibile, dia a tutti la possibilità di competere con armi più o meno pari. Anche l’esempio del «gioco» che Hayek avanza non ci sembra proprio calzante. Non c’è nessun contesto, infatti, come quello del gioco (per esempio una partita di calcio) in cui i singoli, per definizione, si spogliano di tutte le loro differenze sociali per indossare un’«uniforme» e così competere alla pari nell’ambito di una partita il cui risultato è imprevedibile. Certo, permangono in tale ambito fattori come il talento e la capacità di aver svolto un valido allenamento, tutti aspetti che, però, l’individuo non si ritrova passivamente e per via ereditaria, in quanto «rendita» o «posizione sociale» acquisita dagli esponenti della propria famiglia che lo hanno preceduto. Voler paragonare la società a un «gioco», cioè a una dimensione a-temporale in cui il gioco stesso degli agenti non risente di fattori ereditari o di diversi punti di partenza (non risente del «prima», in una parola, se non in forme decisamente residuali), non è soltanto un’operazione riduttiva e impropria, ma rischia di rivoltarsi proprio contro colui che avanza tale paragone. Anche perché il mercato non può essere certamente paragonato a In questo senso le posizioni di Hayek ricalcano precisamente quelle del liberista americano Friedman, anche se quest’ultimo è meno drastico e, ammettendo che l’uguaglianza di opportunità è una «componente essenziale» della libertà, nega soltanto che essa, al pari di qualunque altro ideale, possa essere «pienamente realizzata», Friedmann M. & R. (1980), pp. 131-2. Cfr. anche Kley (1994), p. 200, laddove riassume le tesi di Hayek per cui non esiste un criterio standard per stabilire in cosa consiste la giustizia sociale, né esiste una «misura obiettiva» o dei «principi generali riconosciuti e individuabili per la giustizia distributiva». 46

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un luogo idilliaco in cui gli individui (e soltanto essi) competono liberamente per dei fini in base ai mezzi che possiedono. Mai come oggi assistiamo al fatto che il mercato è il regno di poche e grandissime multinazionali, dove contano vantaggi acquisiti, diritti particolari, situazioni di rendita, monopoli parassitari e, soprattutto, vantaggiosi accordi proprio con quel potere politico tanto temuto da Hayek47. Eppure l’economista austriaco non sembra considerare tali aspetti, tanto che, alla stretta dei conti, dà l’impressione di voler salvaguardare più il suo fumoso e impersonale «ordine spontaneo» che non gli individui in carne e ossa. In tal senso il suo «anticostruttivismo», conseguente alla teoria del primato dell’ordine spontaneo, costituisce ancora una volta il metro per comprendere il senso del discorso globale di Hayek. La distinzione tra nomos e thesis, così come quella tra legge e legislazione, con tanto di critica dell’ipertrofia della seconda a causa del miraggio della «giustizia sociale», conduce il filosofo austriaco direttamente alla critica dei governi moderni, colpevoli, sulla base proprio del trionfo degli ideali costruttivi47 Un saggio originale e per molti versi discutibile di F. de Closets (1982), comparso in Francia agli inizi degli anni ’80, mette in evidenza questi limiti congeniti della concorrenza capitalistica liberale, arrivando a proporre una soluzione tanto paradossale quanto foriera di riflessioni. «La ricchezza è un guadagno, i ricchi sono dei “vincenti” e il denaro è la ricompensa dei migliori, degli eletti», questa la sua premessa, ibid., pp. 112-3; poiché però il sistema della concorrenza tra gli uomini tende a stabilizzare i risultati, portando il sistema stesso all’«autoperversione», occorrerà approntare dei «meccanismi correttori» che impediranno alla meritocrazia individuale di continuare a trasformarsi in «devoluzioni ereditarie», ibid., p. 135. Questo perché «la partita non finisce mai» e non si può «trasformare un vantaggio momentaneo in privilegio definitivo», ibid., pp. 112-3; in questo senso occorre organizzare la democrazia secondo questo modello di «capitalismo puro e duro, senza sicurezza, senza privilegi, senza trasmissione ereditaria», ibid., p. 137. Insomma, così come i politici rimettono in gioco il proprio incarico alla fine del mandato, così dovrebbe avvenire per gli imprenditori, che dovrebbero periodicamente rinunciare alle posizioni acquisite. Il saggio è paradossale e a tratti fumoso, ma fa sicuramente riflettere e mette in evidenze le concezioni eccessivamente apologetiche della concorrenza nel libero mercato.

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sti, di voler incidere direttamente su quanto invece è regolato da un’evoluzione spontanea (la legge, la catallassi, la società civile, il mercato etc.), in nome della difesa di gruppi di potere e interesse che hanno contribuito in maniera fondamentale alla loro elezione. In tutto questo Hayek vede il declino della fede nell’ideale della democrazia, poiché i parlamenti democratici hanno spezzato tutti quei vincoli che imponevano ad essi dei limiti e si sono trasformati in assemblee con potere illimitato, nelle quali il principale obiettivo della maggioranza «diventerà inevitabilmente la spartizione di fondi estorti a qualche gruppo minoritario». Infatti, si chiede il filosofo, «chi potrebbe negare che i moderni organi legislativi democratici hanno garantito una selva di sussidi speciali, privilegi, e altri benefici a gruppi di interessi particolari?»48. La democrazia moderna è fallita, secondo Hayek, proprio perché i governi sono diventati onnipotenti, arrogandosi il diritto di modificare a piacimento leggi e costituzioni sulla base dei favori che devono ai gruppi di interesse che li hanno eletti. Fra questi gruppi, ovviamente, vi sono i sindacati, i partiti e le associazioni (lobbies) che ritengono di rappresentare la maggioranza dei votanti e, così facendo, costringono il governo a legiferare a danno delle minoranze49. Ma questa presunta maggioranza qual è? Hayek lo dice qua e là nel corso della sua opera: sono i lavoratori dipendenti, gli impiegati statali, gli operai etc., insomma tutte quelle fasce soHayek (1986), p. 382. Cfr. anche Antiseri (1996), pp. 182-3. «La teoria classica del governo rappresentativo sosteneva che questo poteva raggiungere i propri fini permettendo una divisione tra legislativo ed esecutivo che coincideva con la separazione tra un’assemblea eletta di deputati, e un organo esecutivo nominato da questa. Ciò fallì perché, naturalmente, si voleva sia un governo sia una legislazione democratica, e l’unica assemblea democraticamente eletta pretendeva inevitabilmente il diritto di dirigere il governo e allo stesso tempo il potere di legiferare. Di conseguenza giunsero a combinarsi i poteri della legislazione con quelli del governo. Il risultato fu la nascita del potere assoluto non limitato da alcuna norma: una mostruosa istituzione», Hayek (1986), pp. 409-10. Per la critica hayekiana alla moderna “democrazia illimitata” cfr. anche Butler (1983), pp. 92-4. 48 49

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ciali che indubbiamente costituivano la maggioranza numerica ma che spingevano per una legislazione in senso sociale e per un maggiore intervento dello stato nelle questioni economiche: «Se la democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotata di potere illimitato, io – afferma perentorio – non sono democratico e considero anzi un tale governo pernicioso e non credo potrà funzionare nel lungo periodo»50. È evidente che in questo modo, e con ciò cerchiamo di avvicinarci alla conclusione, Hayek pone due problemi rispetto al ruolo del governo in una democrazia: uno di natura politica (quanto e come può intervenire nelle questioni sociali) e uno di natura costituzionale (come si forma un governo e quali sono i suoi limiti rispetto agli altri poteri. Sul primo punto Hayek è chiaro ma non esente da contraddizioni. Partiamo dalla premessa: «In tutte le società libere – egli scrive – il coordinamento delle attività di tutte le organizzazioni separate, come di tutti gli individui, è reso possibile dalle forze che compongono l’ordine spontaneo. La famiglia, la fattoria, l’industria, la corporazione insieme alle varie associazioni e tutte le istituzioni compreso il governo, sono organizzazioni integrate all’interno di un più comprensivo ordine spontaneo»51. Poi opera un elenco di cose che il governo può e deve fare: rinforzare le regole di giusta condotta; la legislatura e i tribunali devono adattare il sistema corrente di norme agli inevitabili cambiamenti sociali e tecnologici prodotti dalle dinamiche della moderna società di mercato; facilitare il processo di mercato in vari modi; tenere sotto controllo le tendenze potenzialmente autodistruttive inerenti al processo di mercato; allestire una rete di sanità nazionale; prevedere un reddito minimo uniforme per tutti coloro che non sono abili a vivere in una società di mercato; fornire tutti quei beni che il mercato per sua natura non è in grado di produrre o mantenere (teatri, centri sportivi etc.)52. Hayek (1986), p. 413. Hayek (1973), pp. 46-7. 52 Hayek (1986), pp. 428 ss. Per una disamina più dettagliata cfr. Kley (1994), pp. 83-7. 50 51

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Questa lista di compiti assegnati al governo dal filosofo austriaco, hanno condotto un critico della sua opera a scrivere che «per l’economista Hayek il mercato non è un sistema autoregolantesi di cooperazione sociale come il teorico sociale Hayek voleva farci credere». Quando ci spiega la complessità della moderna società occidentale, descrivendocela come il risultato di una spontanea auto-correzione, Hayek dimentica che nella sua agenda per le attività del governo prevede considerevoli misure di direzione centrale (anche in materia economica), che contraddicono l’affermazione precedente in base alla quale il governo costituiva semplicemente una delle organizzazioni all’interno dell’ordine spontaneo53. Se il problema di natura politica espone Hayek (ancora una volta, possiamo ormai dire) a delle contraddizioni palesi, il problema costituzionale ci fa vedere un autore che entra drammaticamente in conflitto con la base del suo pensiero: l’ordine spontaneo e l’anticostruttivismo. Proprio quei capisaldi, quindi, sui quali Hayek si è appoggiato per distinguere nomos e thesis nonché legge e legislazione. Infatti egli, partendo dall’assunto che il diritto, al pari delle altre componenti fondamentali del mondo umano, si forma in maniera spontanea in seguito al processo di evoluzione naturale, e condannando le democrazie moderne che hanno visto un’ipertrofia del potere legislativo dei Parlamenti («la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili» poiché «possiamo avere o un Parlamen53 Kley (1994), p. 87. Un autore contemporaneo e non lontano dalle posizioni di Hayek, come Aron (1990), pp. 632-33, pur constatando che la tendenza moderna da parte degli stati di intervenire nell’economia comportava un pericoloso aumento del potere da parte dei governi (ancora di più se trattasi di governi progressisti, votati alle istanze delle masse con grande preoccupazione delle classi economiche), prendeva più ragionevolmente atto del fatto che per realizzare un programma democratico occorreva lo stato, «nella nostra epoca la più grande forza rivoluzionaria», l’unico in grado di «salvaguardare i valori essenziali della democrazia (fra cui l’elezione e il controllo sui governanti da parte dei governati) […] pur nell’adozione di certi metodi di direzione dell’economia».

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to libero o un popolo libero»54), arriva a proporre una nuova Costituzione che dovrebbe soddisfare l’«esigenza ineludibile di disarticolare la funzione legislativa», divenuta onnipotente e totalitaria nelle democrazie moderne: «Mentre è un unico organo – il Parlamento – che quasi sempre, oggi, provvede alla legislazione e vi provvede con norme che solo a volte sono generali ma che assai più spesso sono particolari (e che pure, però, provenendo dal Parlamento, salgono alla dignità di leggi), domani, per evitare questo tragico sincretismo tra ordini e norme, tra forma e sostanza di legge, domani, secondo Hayek, bisognerebbe bene ripartire l’attività legislativa tra due diversi organi: l’uno, l’Assemblea legislativa, come Hayek lo battezza, adibito alla produzione di leggi vere e genuine, e dunque incaricato delle norme generali; l’altro, l’Assemblea governativa, che corrisponde grosso modo agli attuali Parlamenti, e che come i Parlamenti attuali deve decidere, sì, dell’uso e della destinazione delle risorse che gli sono state affidate ma – ecco la novità – sempre nel quadro e nel rispetto delle superiori disposizioni dell’Assemblea legislativa. Pena, in caso contrario, l’invalidità dei suoi comandi»55. È ovvio, quindi, che la differenza fondamentale tra l’assemblea governativa proposta da Hayek e i parlamenti delle democrazie moderne, consiste nel fatto che la prima dovrebbe essere vincolata alle norme generali di condotta stabilite dall’assemblea legislativa, non potendo inoltre impartire ai privati cittadini ordini che non discendano dalle stesse norme generali. In questo modo Hayek ritiene di aver proposto un sistema costituzionale più libero e non esposto all’arbitrarietà del governo della maggioranza. Sistema che egli, ricorrendo ancora una volta al greco antico, suggerisce di chiamare della demarchia, migliore rispetto alla democrazia (demos: popolo, kratein: potere), il cui secondo termine (kratos) sembra riferirsi alla forza bruta piuttosto che al «governare secondo regole» (demarchia, 54 55

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Hayek (1986), pp. 476-7. Pecora (2002), p. 55.

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invece, deriva dal verbo archein, usato nei composti quali monarchia, oligarchia etc.)56. Questo sistema, secondo l’economista austriaco, garantirebbe da una parte un maggiore rispetto della formazione spontanea delle leggi, grazie a un organo (quello dell’assemblea legislativa) deputato specificamente allo studio, all’elaborazione e alla codificazione di quelle norme che si formano spontaneamente nella società; dall’altra parte (grazie alla limitazione dei poteri dell’assemblea governativa), smorzerebbe gli eccessi costruttivistici dei moderni parlamenti impedendone la legificazione estemporanea o legata agli interessi specifici di una determinata legislatura. Fin qui, apparentemente, nulla quaestio. Ma ora arrivano i problemi. Infatti, se dalle funzioni e competenze di queste due istituzioni previste da Hayek, ci concentriamo sui criteri con cui esse vengono formate, vediamo che nel suo modello di costituzione «non c’è spazio per il suffragio universale»57. Infatti, per quanto concerne il diritto di eleggere rappresentanti all’assemblea governativa, Hayek propone di escludere «impiegati del governo», «coloro che ricevono sussidi o altri supporti finanziari» (notare la genericità dell’espressione58), «pensionati anziani» e «disoccupati», poiché, nella sua proposta, essendo diventata tale istituzione un organo deputato a emanare norme particolari legate a interessi determinati, non sembra una situazione ideale che tali categorie «debbano votare su come dovrebbero essere pagati a spese degli altri». Insomma, coloro che non contribuiscono ai «mezzi» della ricchezza di una società ma si limitano a goderne i «risultati», non possono beneficiare degli stessi diritti degli altri cittadini59. Hayek (1986), pp. 413-4. Pecora (2002), p. 54. Su Hayek e la «nostalgia per un mondo non contaminato dal suffragio universale», si veda Losurdo (1993), capp. VII-5 e VII-7. 58 È curioso il fatto che il caritatevole Hayek da una parte prevede sussidi per gli inabili al sistema di mercato e dall’altra gli toglie nientemeno che il diritto di voto: la carità in cambio della libertà! 59 Hayek (1986), p. 492-3. I medesimi concetti, venivano espressi circa un 56 57

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Né le cose vanno meglio se ci spostiamo ai criteri di formazione dell’altra assemblea, quella legislativa. Leggiamo l’idea di Hayek: «Sebbene eletti dal popolo come rappresentanti dell’opinione su ciò che è giusto, i membri dell’assemblea legislativa (law-making assembly) dovrebbero non essere dipendenti dalla volontà e dall’interesse e certamente nemmeno essere vincolati dalla disciplina di partito. Ciò potrebbe essere garantito eleggendoli per lunghi periodi dopo i quali essi non potrebbero essere rieletti. Per far sì che essi, tuttavia, rappresentino un’opinione corrente, ho suggerito un sistema di rappresentanza per gruppo di età: ogni generazione dovrebbe eleggere, una volta soltanto nella vita (once in their lives), diciamo a quaranta anni, dei rappresentanti che rimangano in carica quindici anni e ai quali sia garantita, in seguito, una carriera come giudici laici. L’assemblea legislativa risulterebbe così composta di uomini e donne tra i quaranta e i cinquantacinque anni […] eletti dai loro coetanei dopo aver avuto l’opportunità di dare prova di sé nella vita ordinaria, e ai quali dovrebbe essere richiesto di lasciare i propri affari per una carica onorifica per il resto della vita». In questo modo Hayek ritiene di potersi avvicinare all’ideale del «senato dei saggi (senate of the wise), costituendo un consesso autorevole che potrebbe limitare, grazie all’istituzione di norme generali, il governo rispetto ad ogni eccesso, soprattutto nel campo della gestione dei tributi: «Non potrei immaginare una restrizione più salutare, per i politici, della consapevolezza di dover suddividere la spesa di ogni penny secondo una scala universale predeterminata che essi non possono alterare»60. Ora, a parte il fatto che non si capisce perché tali componenti dell’assemblea legislativa non potrebbero costituire dei gruppi di interesse e arrivare in qualche modo a «sfruttare» la propria secolo e mezzo prima da Constant (1957), pp. 1146-9, in particolare a p. 1148, laddove afferma che «in tutti i paesi forniti di assemblee rappresentative è indispensabile che queste, quale che sia la loro organizzazione ulteriore, siano composte da proprietari». Infatti «una nazione presuppone sempre che degli uomini riuniti siano guidati dai propri interessi». 60 Hayek (1978), pp. 102-3.

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posizione (magari in combutta con i membri dell’assemblea governativa), il punto determinante è un altro: se l’assemblea legislativa viene eletta soltanto dai quarantenni, mentre disoccupati, pensionati anziani, funzionari statali etc. non hanno mai il diritto di votare per l’assemblea governativa, ne consegue che le suddette categorie avrebbero diritto di votare una e soltanto una volta nel corso di tutta la propria vita, cioè al compimento dei quaranta anni. La qual cosa significa, in pratica, esclusione dal diritto di voto per tutte le suddette categorie. Ma quale norma può stabilire una misura del genere? E soprattutto, sarebbe una «norma generale» e quindi valida per tutti indistintamente? Quis judicabit? Come potrebbe l’assemblea legislativa proporre una norma (essa che si deve occupare di norme generali) che esclude da un diritto fondamentale intere fasce di cittadini61? Se si ritiene che il «governo della legge» liberale sia ben espresso dalla nota espressione di Cicerone (legum servi sumus ut liberi esse possimus), non ci sembra proprio che il modello proposto da Hayek rispetti l’altro fondamentale assunto del grande filosofo antico: unum debet esse omnibus propositum, ut eadem sit utilitas uniuscuiusque et universorum; quam si ad se quisque rapit, dissolvetur omnis humana consortio62. Ma ancora: quale evoluzione culturale spontanea avrebbe mai condotto a questa misura di cui parla Hayek, visto che la storia ci insegna che, seppur attraverso un processo controverso e faticoso, il suffragio si è andato sempre più estendendo nelle 61 Dove vanno a finire insomma la «generalità» (che deve essere valida per tutti indistintamente) e l’«eguaglianza» della legge (che deve essere uguale per tutti allo stesso modo), caratteristiche principali del Rule of Law secondo Hayek (1955), p. 45, cit. in Leoni (1961), p. 63? Ancora una volta si segnala la posizione specularmene opposta di Rawls (1993), pp. 291 e 295, il quale elabora due principi di giustizia di cui il secondo afferma espressamente «cariche e posizioni aperte a tutti secondo condizioni di equa uguaglianza di opportunità», poiché «la priorità della libertà implica, in pratica, che una libertà basilare può essere limitata o negata soltanto in difesa di una o più altre libertà fondamentali e mai per ragioni quali il bene pubblico o valori perfezionistici». 62 Cicerone, De Officiis III, 6.

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democrazie occidentali moderne? Senza contare, come ricorda ancora Pecora63, che questo progetto costituzionale delle due assemblee legislative (una deputata alle norme generali, l’altra ai provvedimenti particolari), con le caratteristiche summenzionate, è frutto della mente di Hayek, di un’idea che si forma dal nulla e sul nulla. Dove va a finire il paradigma evoluzionistico? E lo sviluppo spontaneo del diritto? Non è forse che, ancora una volta (sulla scia di una speculazione volta a reagire alle conquiste delle democrazie moderne), Hayek sacrifica la libertà di molti individui in nome di un ordine spontaneo che non esiste da nessuna parte se non all’interno della propria mente? Il filosofo, in un colpo solo e con un finale pirotecnico, contraddice tutte le sue teorie più importanti (anti-costruttivismo, ordine spontaneo, libertà individuale, la legge che è veramente tale solo se generale, valida per tutti e astratta dalle considerazioni contingenti) in nome della reazione convinta al processo costante di democratizzazione e giustizia sociale che caratterizza i paesi occidentali nel Novecento. Senza contare che, così facendo, Hayek finisce col contraddire il fondamento stesso della sua epistemologia (cfr. supra il cap. I), espressa compiutamente in The Sensory Order e volta a combattere la presunzione costruttivistica di fondare un ordine «esogeno (taxis)» sulla base della teoria per cui la mente umana è essa stessa un prodotto dell’evoluzione culturale, rispetto alla quale non può innalzarsi e coltivare la «presunzione fatale» di modificarlo a suo piacimento. Fra le varie menti umane quella di Friedrich August von Hayek costituisce un’eccezione? Non è stato forse lui a scrivere che «noi dobbiamo spogliarci dell’illusione di poter deliberatamente creare il futuro dell’umanità», aggiungendo che questa è la conclusione finale cui è giunto dopo quaranta anni dedicati a tali problemi?64. Da questo punto di vista ci sembra ineccepibi63 64

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Pecora (2002), p. 57. Hayek (1979), p. 152.

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le la critica senza appello di Oakeshott, il quale, pur partendo da una prospettiva simile a quella di Hayek, quindi condannando il «razionalismo» moderno iniziato con Bacon e Descartes e poi diffusosi anche nelle principali teorie e pratiche politiche del Novecento, rileva che la dottrina di Hayek, in quanto «piano finalizzato a resistere ad ogni pianificazione, è sicuramente migliore della dottrina opposta ma appartiene al medesimo stile di fare politica»65. A questo punto le eventualità sono tre: o questa sorta di entità divina che è l’Ordine Spontaneo ci parla attraverso la sua incarnazione (che sarebbe Hayek); oppure questo genio assoluto possiede dei poteri che gli consentono di decifrare gli sviluppi segreti dell’ordine spontaneo che per ora non vediamo; oppure ancora, e forse è il caso ormai di prendere in considerazione questa ipotesi, visto che la storia è andata e sta andando diversamente, Hayek è «soltanto» un grande pensatore che propone una sua idea di Costituzione e «costruisce» un proprio sistema di governo alternativi al corso che ha preso la storia66. Cosa che non comporterebbe alcun problema presa in sé, se non fosse per quel piccolo particolare per cui, così facendo, egli stesso prefigura delle contraddizioni all’interno del suo sistema speculativo pressoché irrisolvibili.

Oakeshott (1962), p. 21. Uno studioso acritico di Hayek, non preoccupandosi evidentemente di cadere in un’auto-ironia involontaria, descrive il modello di costituzione proposto dal filosofo come una «costruzione interessante (interesting construct), Butler (1983), p. 96. 65 66

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Frattura liberale e negazione del ’900: perché Hayek non è un (semplice) conservatore

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er comprendere il mondo contemporaneo e la storia del Novecento, e nell’ambito di tale comprensione chiarire la posizione complessiva di Hayek, occorre innanzitutto studiare l’evoluzione del liberalismo contemporaneo. Il filosofo austriaco, come da consolidata abitudine, ripercorre la storia del liberalismo attraverso una dicotomia piuttosto netta: da una parte egli vede lo sviluppo di un liberalismo «evoluzionistico», proprio dell’antica tradizione inglese dei whig, il cui valore supremo risiede in una concezione della libertà individuale come «negativa», cioè finalizzata alla protezione attraverso la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria; dall’altra parte individua un liberalismo che si rifà alla «tradizione Continentale», in cui il posto più alto viene occupato dalla rivendicazione di auto-determinazione da parte di ogni gruppo rispetto alla formazione del proprio governo1. La tradizione del liberalismo evoluzionistico o whig è fondata su una concezione della libertà che è stata spesso descritta come «negativa»; essa fa riferimento, come la pace e la giustizia, all’«assenza di un male», a una condizione aperta di possibilità che però non garantisce vantaggi precisi. La libertà rivendicata dal liberalismo (inglese), insomma, richiede dunque la rimozione di tutti gli ostacoli di natura sociale che contrastino gli sforzi Hayek (1978), pp. 119-20. Lionel Robbins (1963), p. 92, conferma che «la concezione della libertà di Hayek, sulla scia dei grandi pensatori liberali del passato, si sviluppa nei termini dell’assenza di una coercizione arbitraria» e in quanto tale può essere intesa come «negativa». Cfr. anche Gray (1989), p. 90. 1

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individuali, mentre non richiede che la comunità o lo stato forniscano beni particolari2. Società e governo quindi, come affermava già Paine dall’altro capo dell’Oceano, devono essere nettamente separati e per nulla confusi: la società, in ogni sua forma, è una «benedizione», mentre il governo, nella sua forma migliore, non è nient’altro che un «male inevitabile», il «sigillo della perduta innocenza»3 Il declino di questa dottrina liberale, cominciato per Hayek nel 1870, è strettamente connesso con una reinterpretazione della libertà come disponibilità (da ottenere attraverso l’intervento dello stato) dei mezzi necessari ad ottenere una grande varietà di obiettivi particolari4. Questa analisi di Hayek non aiuta a fare chiarezza. Innanzitutto perché la distinzione tutta «geografica» tra un liberalismo evoluzionistico «inglese» e un liberalismo costruttivistico «continentale» presenta notevoli limiti ed eccezioni, come deve ammettere lo stesso filosofo quando inserisce tra i costruttivisti Hobbes e Bentham e tra gli evoluzionisti Montesquieu e Tocqueville, solo per fare alcuni esempi. Ma se andiamo ancor più nello specifico vediamo che la dicotomia hayekiana non regge per nulla. Prendiamo due figure centrali del pensiero liberale dell’Ottocento: il francese Bastiat e l’inglese John Stuart Mill. Ebbene è l’autore francese ad avvicinarsi di più alla concezione evoluzionistica e liberistica espressa da Hayek, arrivando a identificare la concorrenza con la libertà e spingendosi fino a definire la prima come «la legge democratica per eccellenza», la più «progressista ed egualitaria», persino la più «comunitaria» di tutte quelle a cui la Provvidenza ha affidato il progresso delle 2 Già Burke (1815-27), v. VI, p. 216, affermava che non doveva essere lo stato a intervenire sulle fisiologiche disparità prodotte dall’agire sociale, poiché ci avrebbe pensato «il più saggio, il più esperto e il più ricco» a guidare, illuminare e proteggere «i più deboli, i più ignoranti e i meno forniti di beni economici» (si tratta dell’ Appeal from the New to the Old Whig). 3 Paine (1894), v. I, p. 69. 4 Hayek (1978), p. 134.

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società umane5. La libera concorrenza, evidentemente non contaminata dall’intervento dello stato, coincide nientemeno che con il «bene dell’umanità»6. Dall’altra parte Stuart Mill si distanzia oltremodo dall’impianto di Bastiat (e di Hayek), istituendo la celebre distinzione fra le leggi e le condizioni della produzione di ricchezza, che «partecipano del carattere delle verità fisiche» e in cui non vi è nulla di volontario o arbitrario, e la «distribuzione della ricchezza» che è materia che pertiene soltanto alle istituzioni umane7. È sulla base di tale distinzione che Mill supera la concezione classica delle leggi economiche, ritenute vere e immutabili alla stregua di leggi naturali e quindi inserite all’interno di un ordine evolutivo che deve rimanere libero dall’azione umana, per farsi promotore di un intervento diretto dell’uomo e del governo al fine di affermare delle condizioni di equità sociale. Le leggi sulla proprietà, scrive il filosofo inglese nel 1848, non hanno garantito il «giusto equilibrio» fra gli esseri umani, ma hanno sovraccaricato di impedimenti soltanto alcuni, riservando i vantaggi agli altri. Esse hanno volutamente alimentato le disuguaglianze e impedito che tutti gli uomini iniziassero in condizioni di parità la gara della vita8. La conclusione di Mill è inequivocabile: l’intervento del governo nelle questioni sociali è oltremodo necessario in molte questioni rispetto alle quali il privato, per ristrettezza di vedute o di mezzi, non è in grado di provvedere in vista del bene comune. In tal senso, il buon governo, ben lungi dal qualificarsi come un’entità che non interviene nel libero gioco delle individualità concorrenti, deve ritagliarsi un ruolo decisamente attivo, volto non soltanto a rimuovere ostacoli e impedimenti alla libera intrapresa, ma anche a «fornire tutto il suo aiuto attivo, tale da incoraggiare e alimentare ogni rudimento di spirito di attività Bastiat (1862), v. VI, pp. 350-2. Ibid., v. II, p. 177. 7 Stuart Mill (1848), v. II, Book II, 1, § 1, p. 199. 8 Ibid., Book II, 1, § 3, p. 207. 5 6

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individuale che dovesse incontrare. Persino arrivando ad «assegnare i suoi mezzi pecuniari» in aiuto agli sforzi privati9. È quindi evidente, anche solo con questi pochi esempi, che la dicotomia istituita da Hayek, fra un liberalismo «continentale» affetto da spirito costruttivistico, contrapposto a quello inglese promotore di una visione evoluzionistica, non regge alla prova dei fatti. Il francese Bastiat era a sua volta allievo di un altro grande economista «evoluzionista» e fautore della libera concorrenza quale Jean Baptiste Say. Mentre John Stuart Mill si rivela il caposcuola e antesignano di tutta una serie di autori in lingua inglese che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, contribuiscono a iniziare quel filone di pensiero che, soprattutto con il Novecento, consumerà la frattura interna al liberalismo facendo propria la visione di uno stato interventista in più direzioni, che ha il compito di garantire, per quanto possibile, la giustizia sociale fra tutti i cittadini. È il caso dell’inglese Hobhouse, pesantemente criticato da Hayek, il quale, nel 1911 e partendo da una premessa che rivoluziona i capisaldi del liberalismo classico («la libertà implica l’uguaglianza»10), critica l’assunto secondo cui «la possibilità dell’individuo di agire senza restrizioni è il principio cardine di ogni progresso» e biasima come «spirito poco profondo (shallow wit)» quello della sua epoca, in cui si rimprovera al liberalismo un’incoerenza coi propri valori nel promuovere al tempo stesso un protezionismo economico per le imprese e una legislazione protettiva per i lavoratori: le due azioni non hanno nulla in comune fra loro, secondo Hobhouse, e certamente contrastano con i valori del liberalismo classico, ma di certo operano nell’interesse della collettività, sulla base del principio per cui la «buona libertà» non è quella di uno che guadagna a spese degli altri, ma quella che può essere goduta da tutti coloro che vivono insieme11. Ibid., v. III, Book V, 11, § 16, pp. 970-1. Hobhouse (1911), p. 17. 11 Ibid., pp. 27 e 41. 9

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Ma possiamo anche spingerci al di là dell’Oceano, in quel paese che ideologicamente ed economicamente raccoglie l’eredità dell’Inghilterra vittoriana, per trovare il più importante filosofo americano, John Dewey, impegnato in una rielaborazione del concetto di individuo che lo porta ad affermare un nuovo liberalismo, fondato sulla critica impietosa del vecchio. L’individualità, scrive il filosofo americano, è composta da due aspetti o lati (aspects, sides) inseparabili: da una parte sicuramente ci sono le inclinazioni, le capacità, il temperamento e la precipua disposizione dell’individuo, ma dall’altro lato vi è la particolare «condizione sociale», le limitazioni, le opportunità e le condizioni ambientali (surroundings). L’individuo è il prodotto tanto di una «capacità specifica» quanto di un «particolare ambiente sociale circostante», per cui considerare uno solo di questi due aspetti, facendo astrazione dell’altro, vorrebbe dire riferirsi ad una «mera astrazione» priva di riscontri nella realtà12. Sostenere come fa Dewey che l’individuo è il prodotto anche dell’ambiente che lo circonda, delle circostanze e delle opportunità che la società in cui nasce e si trova è in grado di garantirgli, equivale a rigettare quella visione dell’individuo astratta e senza tempo che aveva caratterizzato il vecchio liberalismo. Una visione completa dell’individuo, in quanto entità inevitabilmente in relazione con altri individui e con l’ambiente sociale circostante, fa dire al filosofo americano che occorre un «nuovo liberalismo» che sappia raccogliere le proprie energie per affermare il suo antico fine (la promozione e sviluppo dell’individualità) con mezzi rinnovati. In tal senso occorre istituire «ordine sociale» che non può essere fondato su una «convergenza non pianificata (unplanned) ed esterna delle azioni di individui separati». Insomma, è proprio il concetto di ordine spontaneo che viene messo in discussione da Dewey, considerato il «tallone d’Achille» del vecchio liberalismo. Nella società contemporanea, il filosofo scrive queste cose nel 1935, la realizzazione dei fini per cui i liberali si sono battuti, si può ottenere soltanto 12

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Dewey (1891), pp. 301-2

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attraverso un «piano d’organizzazione sociale (organized social planning)» volto alla creazione di un ordine che, ben lungi dall’essere spontaneo, preveda che l’industria e la finanza siano «socialmente controllate in favore di istituzioni che garantiscano la base materiale ed economica per la liberazione culturale e lo sviluppo degli individui»13. Con Dewey facciamo un passo in avanti di non poco conto. Non soltanto, infatti, trova ennesima conferma l’imprecisione e la superficialità della dicotomia hayekiana fra un liberalismo europeo costruttivista e uno inglese e americano evoluzionista tout court, ma con il filosofo americano assistiamo anche a una più realistica concezione della società del Novecento, in cui la contestualizzazione storica, il riferimento alle condizioni concrete e il rifiuto di idee astratte (un certo individualismo, contrapposto alla società in quanto entità collettiva) si presentano come elementi assai più proficui ed efficaci per comprendere il mondo contemporaneo e le società occidentali. A cavallo dell’XIX e del XX secolo si stava consumando una frattura all’interno del mondo liberale che non riguardava soltanto il piano ideale, ma aveva anche e soprattutto a che fare con le trasformazioni delle nazioni occidentali, non più in grado di progredire fondandosi soltanto su un’economia lasciata libera dall’intervento dei governi e della società14. Dewey (1935), pp. 39-40. Non è questa la sede per affrontare la questione, ma è importante rilevare come autorevoli studiosi contemporanei negano che gli stati capitalistici, anche agli albori della civiltà commerciale e industriale, si siano sviluppati seguendo l’imperativo del libero mercato. Landes (1998), pp. 265-6, dopo una lunga ricostruzione conclude che «i massimi fautori del libero commercio (Gran Bretagna e Stati Uniti) erano stati fortemente protezionisti durante la propria fase di sviluppo». Phillips (2002), pp. 93, 232 e 235-6, constata come in America, fin dal 1790, efficaci regimi nazionali hanno quasi sempre impiegato, piuttosto che disimpegnare, il potere federale per favorire l’economia. Lo stesso autore parla di «mito» a proposito dell’«epoca del laissez-faire» con cui si è soliti decifrare la storia degli Stati Uniti dopo il 1865, quando ha inizio la cosiddetta «età dell’oro». Stiglitz (2002), p. 21, ricorda come negli Stati Uniti dell’Ottocento il governo «giocò un ruolo fondamentale nel forgiare l’evoluzione dell’economia». 13 14

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Il fondamentale intervento dello stato nelle questioni economiche divenne con la fine del 1800 un dato irrinunciabile sia sul piano teorico sia su quello delle politiche concrete. A tal proposito uno storico dell’Inghilterra a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento registra il fatto che, in Germania, Bismarck aveva mostrato come una via per resuscitare il pensiero conservatore fosse quella di adottare un’azione di riforme sociali finanziate attraverso la politica fiscale. Altri paesi europei seguirono l’esempio del Cancelliere tedesco per contrastare il dominio inglese in materia di esportazione di prodotti ma anche per dare forza alle grandi industrie che stavano nascendo nei singoli stati. In forza di queste politiche governative di protezione si svilupparono le grandi industrie europee, ma anche gli Stati Uniti, nel 1890, adottarono un rigoroso sistema protezionistico (MacKinley Tariff). La tendenza era ormai generalizzata, nell’Inghilterra liberale riforme quali l’Old Age Pension Act del 1908 e il National Insurance Act del 1911 erano lì a testimoniare l’importanza della legislazione sociale in materia economica, tanto che nel 1892 il leader conservatore inglese Lord Salisbury arrivava a giustificare il metodo delle tariffe doganali e, più in generale, si era verificata una modifica non di poco conto dello slogan dei conservatori: non più «free trade», ma «fair trade», sebbene ufficialmente si continuasse a proclamare il mercato libero come un ideale ancora attuale15. Rispetto a tale tendenza non fa eccezione la Francia, sfuggita alla crisi economica mondiale del 1873, che aveva colpito paesi come l’America e l’Inghilterra, grazie alle barriere doganali con le quali l’aveva astutamente cinta il Thiers16. Dopodichè, ancor di più con l’ingresso nel Novecento risultano oltremodo evidenti i capisaldi che il liberalismo ha dovuto abbandonare sull’onda di rivolgimenti storici ed economicosociali di enorme portata. Le due guerre mondiali, intervallate dalla grande crisi economica del 1929, con la disoccupazione di 15 16

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Thomson (1950), p. 194. Miquel (1976), p. 426.

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massa e la fine del mercato autoregolantesi, segnano anzitutto la crisi del modello liberale classico, che sarebbe uscito da quel periodo così trasformato da essere quasi irriconoscibile. È importante rilevare come non si tratta soltanto di una trasformazione dovuta a cause esogene (le guerre, l’estensione del suffragio con la relativa influenza dei partiti socialisti, la legislazione sociale e lo sviluppo dei diritti di cittadinanza), ma anche endogene al liberal-liberismo stesso. Il sempre più compiuto dominio dell’industria da parte di un ristretto numero di società per azioni, che ha mutato il carattere della sfera economica fino a produrre processi di accentramento e di concentrazione e l’iniziale mediazione istituzionale del potere politico nella società capitalistica, che poi è sfociato in una vera e propria «programmazione» del mercato da parte dello stato, hanno portato più autori a parlare di «post-capitalismo» e a chiedersi addirittura se quella uscita dalla grande crisi potesse essere ancora definita una società capitalistica17. Il mondo stava cambiando con una velocità impressionante, mentre la portata stessa dei rivolgimenti rendeva anacronistiche le istanze del liberalismo classico. La recessione economica cominciata in America col crollo di Wall Street verso la fine del 1928, con il conseguente dirottamento dei fondi dal prestito estero alla speculazione interna, ciò unito alla richiesta da parte delle banche statunitensi del rimborso dei crediti europei, incrementarono oltremodo la crisi dei paesi europei, già flagellati dalla disoccupazione di massa e dalle sempre più frequenti proteste sociali. Cosicché «un paese dopo l’altro fu costretto a proteggere la propria moneta mediante il ricorso alla svalutazione o al controllo valutario. La sospensione della convertibilità in oro della sterlina inglese nel settembre del 1931 portò alla definitiva distruzione dell’unica rete di transazioni commerciali e finanziarie mondiali su cui erano basate le fortune della City di Londra». Il protezionismo imperversò, mentre il capitalismo si chiuse negli iglù delle sue economie di stati-nazione. Si trattò di 17

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Cfr. Giddens (1973), IX-1.

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una vera e propria rivoluzione mondiale, le cui caratteristiche principali erano la scomparsa della haute finance dalla politica mondiale, il crollo della Società delle Nazioni a vantaggio degli imperi autarchici (e degli stati-nazione), l’ascesa del nazismo in Germania, i piani quinquennali in Unione Sovietica e il lancio del New Deal statunitense18. Che non ci si trovasse di fronte a cambiamenti di poco conto è confermato anche da quanto dichiarava nel 1946 ai suoi concittadini un autorevole statista americano di rigorosa fede capitalista: «Nel nostro paese la gente non teme più parole come “pianificazione”[…] la gente ha accettato il fatto che il governo debba pianificare così come in questo paese ogni cittadino pianifica il proprio futuro»19. La frattura all’interno del mondo liberale, insomma, si stava compiendo in quegli anni di grande crisi e si sarebbe protratta per tutto il Novecento fino ai giorni nostri. Una frattura sul piano teorico, con importanti autori liberali schierati per l’interventismo dello stato nelle questioni economiche (Hobhouse, Dewey, Ortega Y Gasset, Popper, Rawls etc.), cui si contrapponevano i teologi del libero mercato, nostalgici del capitalismo ottocentesco (Mises, Hayek, Friedmann etc.); ma una frattura anche sul piano politico-sociale, con tutte le nazioni occidentali impegnate ad adottare politiche interventiste, protezioniste e volte all’affermazione della «giustizia sociale». Ma se quella che abbiamo chiamato frattura sul piano teorico, anche grazie alla posizione di autori come Hayek, ha dato luogo a una contrapposizione ideale mai superata, la frattura sul piano politico-sociale ha trovato una ricomposizione e una sinergia tra le due opposte visioni. In tal senso uno storico come Hobsbawm può ricostruire gli «anni d’oro» (1945-1975), caratterizzati da una sorprendente e costante ripresa delle economie occidentali dopo il secondo conflitto mondiale, attribuendone il merito al «capitalismo post18 19

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Per tutto ciò cfr. Arrighi (1994), pp. 358-9. Cit. in Maier (1987), p. 129.

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bellico», una sorta di «matrimonio tra il liberalismo economico e la socialdemocrazia, con aspetti sostanziali presi in prestito dall’Urss, che per prima aveva promosso l’idea di un’economia pianificata»20. Persino il liberale Berlin, citato dai più soltanto per la sua celebre distinzione tra libertà «positiva» e «negativa», fa propria questa lettura dell’Occidente e del liberalismo contemporaneo. Se il liberalismo delle origini appare come un movimento «unico e coerente» che ha subito lievissime modifiche durante quasi tre secoli, scrive il filosofo, la «coscienza della storia» che si sviluppò nel XIX secolo modificò il disegno «semplice e severo» della teoria liberale classica. Si comprese che il progresso umano era condizionato da fattori che presentavano una maggiore «complessità» rispetto a quanto era stato elaborato agli albori dell’«individualismo liberale». Le società si convertirono gradualmente a una «pianificazione consapevole della società», prosegue Berlin, tanto che «il XX secolo, che ha soddisfatto molte delle aspirazioni del periodo vittoriano, è stato in effetti testimone di un impressionante miglioramento delle condizioni materiali della maggior parte dei popoli dell’Europa occidentale, dovuto in larga misura all’energica legislazione sociale (energetic social legislation) che ha trasformato l’ordinamento della società». Tutto questo, conclude Berlin, in un’epoca in cui gli stessi liberali cominciavano ad ammettere la necessità di alcune correzioni e di un certo controllo della vita sociale, anche da parte dell’«odiato stato», quanto meno per mitigare la disumanità di un’impresa privata «senza le briglie (unbridled)», proteggere le libertà dei più deboli e salvaguardare quei diritti umani fondamentali senza i quali non potevano esserci né felicità, né giustizia, né «libertà di perseguire quelle cose che rendono la vita valevole di essere vissuta»21.

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Hobsbawm (1994), p. 270. Berlin (1969), pp. 8-12.

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Il liberalismo che esce dalle due guerre mondiali, insomma, è costruito su fondamenti del tutto rinnovati: è consapevole della complessità e pericolosità della società post-industriale, per cui condanna il fatto che l’individuo venga abbandonato ad affrontarla con le sue sole risorse; promuove la liberalizzazione all’interno di una nuova maniera di intendere lo stato, in modo che gli interventi protettivi di questo siano compatibili con l’autonomia della società civile, autonomia che viene garantita attraverso la riparazione dei danni, garantendo così la «buona coscienza» indispensabile al dinamismo della società stessa. «Il riformismo socializzante», scrive Burdeau, lo studioso del liberalismo da cui stiamo citando, «non rappresenta la negazione del liberalismo, ma anzi la condizione della sua perpetuazione». Si tratta di un «liberalismo avanzato» in cui, poiché si è preferito avere un tetto, si rinuncia a distruggere la baracca per procedere invece a degli aggiustamenti22. Alla luce dei fatti, insomma, possiamo giungere a un bilancio della posizione di Hayek, nell’ambito del pensiero filosoficopolitico contemporaneo, evitando volentieri la sua visione «dicotomica» (liberalismo inglese vs continentale), per fare nostra invece l’analisi storica e concreta che individua un’evoluzione nell’ambito del pensiero e della pratica liberali. Posta la questione in questi termini, allora, e analizzati i punti principali che separano il liberalismo classico da quello «avanzato» (con tutti i cambiamenti politico-economici cui abbiamo fatto accenno), possiamo comprendere come Hayek, ben lungi dall’essere un pensatore che sostiene e prosegue la presunta tradizione del liberalismo inglese, si rivela come un autore che rifiuta categoricamente molte delle conquiste e delle trasformazioni sociali che caratterizzano la contemporaneità e il liberalismo stesso. Il suffragio universale, la rappresentanza sindacale, l’intervento del governo nelle questioni economiche, l’abbandono della visione filosofica per cui la società umana deve essere lasciata alla regolazione dell’ordine spontaneo,l’affermazione di 22

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Burdeau (1979), pp. 261 e 263.

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politiche volte alla giustizia sociale e alla ricerca di una quanto più possibile parità di condizioni iniziali per tutti, il superamento dell’individualismo economico a fronte del riconoscimento di istanze sociali (che Hayek definirebbe «collettivistiche»), caratterizzano le principali trasformazioni cui hanno assistito gli stati liberali occidentali nel Novecento, e costituiscono il costante (anche se spesso contraddittorio, come abbiamo visto) bersaglio della speculazione del filosofo austriaco. Tenendo presente tutto questo si può tentare di rispondere alla questione posta dallo stesso filosofo: se egli sia stato o meno un conservatore. Le argomentazioni che usa per rispondere sono quantomai significative, anche se, ancora un’ultima volta, lo espongono a contraddizioni che minano la coerenza del suo stesso pensiero. Hayek rigetta categoricamente la definizione di conservatore, affermando piuttosto che il periodo in cui scrive (1959) è caratterizzato da un’ alleanza tra i «difensori della libertà» e i «veri conservatori» in opposizione agli sviluppi che minacciano allo stesso modo i loro differenti ideali23. Ma il liberalismo si differenzia dal conservatorismo per molti e importanti aspetti. Quest’ultimo, infatti, per la sua stessa natura «non può offrire un’alternativa rispetto alla direzione verso cui ci stiamo muovendo»24, mentre l’essenza del liberalismo consiste nel «voler andare avanti e non restare fermo»25. Inoltre il pensiero conservatore è caratterizzato dalla «paura di affidarsi alle forze incontrollate della società», cui sono strettamente legati la «passione per l’autorità» e la «mancata comprensione per le forze economiche», aspetti che contrastano radicalmente con l’impianto teorico di Hayek. Infine la «sfiducia per le teorie astratte e per i principi generali» impediscono al conservatorismo di comprendere le «forze spontanee» della società e di affidarvisi, propendendo quindi per l’autorità Hayek (1960), p. 397. Ibid., p. 398. 25 Ibid., p. 399. 23 24

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e per un forte potere centrale che finiscono col renderlo simile al socialismo26. L’analisi di Hayek, tesa a sottolineare le radicali differenze tra conservatorismo e liberalismo, termina con una considerazione alquanto problematica. Infatti il filosofo ritiene necessario precisare che al giorno d’oggi «ciò che ho chiamato liberalismo ha ben poco a che fare con i movimenti politici che si fregiano di tale nome». Egli vorrebbe un «partito della vita», che favorisca il libero sviluppo e l’evoluzione spontanea, esattamente come era il partito dei whig inglesi alla fine del ’700, che ha ispirato i coloni in America e li ha portati fino alla stesura della Costituzione27. Ma a partire dalla Rivoluzione francese, con la sua «democrazia totalitaria» e le sue «inclinazioni socialiste (socialistic leanings)», la nobile tradizione di pensiero whig si è contaminata e ha perso i pezzi per strada, fino a che, conclude Hayek, il «liberalismo» come lo conosciamo oggi, che quindi è venuto meno ai suoi assunti originari per fare proprie istanze sociali e democratiche, ha preso il posto della concezione whig, non senza che prima il movimento della libertà avesse assorbito il «razionalismo rozzo e militante» della Rivoluzione francese. Il compito dei liberali odierni, secondo Hayek, è proprio quello di lavare il partito della libertà da queste incrostazioni socialistiche e iper-razionalistiche che si sono arbitrariamente introdotte all’interno del liberalismo. Per questo Hayek si definisce liberale con riserve, poiché innanzitutto è necessario recuperare il liberalismo delle origini: «Whig è il nome corretto delle idee in cui credo. Più vado avanti e più mi rendo conto di essere nient’altro che un impenitente old whig, sottolineando la parola whig»28. Ibid., pp. 400-1. Ibid., p. 408. 28 Ibid., pp. 408-9. La requisitoria di Hayek contro i liberali del suo tempo, rei di aver ceduto su moltissimi punti alle istanze socialiste e di aver di fatto snaturato il liberalismo delle origini, è molto simile a quella, accorata, pronunciata da Aron (1977), p. 442, nei confronti dell’Europa occidentale 26 27

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Ora, malgrado certe «alleanze» strategiche e punti di contatto col pensiero conservatore, ammessi e giustificati dallo stesso filosofo in nome dell’alleanza contro il nemico comune del socialismo, Hayek è certamente efficace nel tentare di liberarsi dalla definizione di «conservatore»29. Ma il punto rilevante è un altro: l’efficacia che egli mostra quando deve spiegare cosa «non è» si smarrisce nel momento in cui deve caratterizzarsi positivamente. Insomma, quando Hayek deve fare i conti col liberalismo e con il suo essere un liberale, si moltiplicano i distinguo e, soprattutto, si evidenziano i punti che le società occidentali e liberali del Novecento hanno fatto proprie e che Hayek rifiuta categoricamente, fino ad arrivare a proporre nuovi assetti costituzionali che le farebbero tornare indietro nel tempo. Se per certi versi il pensiero politico di Hayek non è alieno da commistioni col conservatorismo, da altri punti di vista risultano indubitabili le sue posizioni reazionarie (nel senso di rifiuto del Novecento e proposte di ritorno a un liberalismo antecedente alla «frattura» e alle sue conseguenze sul piano sociale)30. Ma il punto nodale è un altro: se il liberale, come egli dice, è per i cambiamenti e per il non imporre agli altri la propria idea «decadente», in cui ormai «uomini e partiti che governano non mostrano più alcun attaccamento per l’economia liberale, né per i meccanismi del mercato né per la proprietà individuale degli strumenti di produzione. Aron è meno combattivo di Hayek e conclude sconsolato che «probabilmente le società europee devono inevitabilmente evolvere verso una certa forma di socialismo». 29 Per quanto la questione rimane controversa, se è vero che il suo allievo Gray dapprima, in un saggio del (1993), p. 38, distingue la posizione di Hayek da quella del pensiero conservatore, scrivendo che «la principale lezione» del filosofo nei confronti dei conservatori concerne il suo metterli in guardia contro l’illusione che uno Stato forte e invasivo possa difendere meglio i loro valori; quindi, in un saggio posteriore (2001), descrive Hayek come un «ideologo conservatore» e «uno dei guru della destra intellettuale che credeva che dobbiamo sottometterci alle insondabili procedure del mercato». 30 Cfr. la voce reactonary in Bullock-Stallybrass (1977), p. 526, in cui il reazionario è identificato come colui che «cerca di riportare indietro le lancette dell’orologio e di ritornare a un ordine antico della società cui si attribuiscono certe caratteristiche che si presume il presente abbia abbandonato».

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di cambiamento al corso spontaneo degli eventi, come possiamo accettare per Hayek la definizione di liberale tout court avendo visto il suo impegno volto a negare le principali conquiste in senso politico e sociale del Novecento? Senza contare che, in questo modo, egli vuole imporre una propria idea al corso dei cambiamenti, che invece si è diretto verso lidi assai diversi rispetto a quelli pensati dal filosofo austriaco? Certamente, questa difficoltà ad inserire Hayek all’interno di una definizione politologia precisa è dovuta alla commistione di teorie diverse che egli usa per costruire il proprio sistema, teorie spesso incoerenti fra di loro31, ma anche e soprattutto alla complessità della contemporaneità: il Novecento è stato il secolo in cui sono esplose con maggiore forza, ma poi si sono superate e persino integrate, le grandi contrapposizioni fra il liberalismo e il pensiero socialista e democratico. Ognuna delle due istanze ha visto profondi mutamenti al proprio interno e ha dovuto abbandonare alcuni dei capisaldi classici della propria identità. Sicuramente il liberalismo ha mostrato maggiore forza e capacità di trasformazione e adattamento alle pieghe della contemporaneità rispetto alla tradizione socialista32, ma di sicuro anche quest’ultima ha contribuito, e non poco, nel disegnare le democrazie occidentali contemporanee. Ecco perché Hayek, con la sua grandezza di «liberale conservatore»33, ma anche con le evidenti contraddizioni all’interno di un pensiero che si dice «evoluzionista» ma che rifiuta le evoluzioni del mondo contemporaneo (non senza privarsi di costruzioni reazionarie34), si rivela come un pensatore fondamentale per comprendere il presente e la nostra storia più recente. Cfr. Caldwell (2004), pp. 346 ss. Cfr. l’ultimo capitolo di Losurdo (2005), intitolato significativamente «l’eredità permanente del liberalismo». 33 Cfr. Gissurarson (1987), p. 11, per una definizione del liberalismo conservatore che ci sembra corrispondere efficacemente al nerbo della speculazione di Hayek. 34 Per quanto, un interprete che aderisce al pensiero di Hayek ribalta la 31 32

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Ci sono tempi in cui soltanto un grande autore complesso e contraddittorio, che si trova per di più a vivere in un momento in cui grandi contraddizioni sociali arrivano al culmine e conducono alla «frattura», può aiutare a comprendere meglio, seppure a volte per via negationis, l’identità politica e sociale di un’epoca anch’essa altamente complessa e contraddittoria. Hayek è certamente uno di questi autori e attraverso la sua opera si può leggere l’evoluzione del liberalismo e dell’Occidente all’interno di quel «secolo breve» i cui effetti sembrano destinati a farsi sentire per un tempo assai lungo.

questione e sottolinea come in realtà il periodo in cui Hayek scrive The Road to Serfdom (1944) si caratterizza come una «fase di reazione contemporanea» ai valori e alle pratiche della società aperta. I totalitarismi fascista e comunista da una parte e le politiche nazionaliste e socialdemocratiche dall’altra (all’interno degli stati liberali), stavano indebolendo i più genuini valori del vero liberalismo e, in questo ambito, il pensiero di Hayek si staglia come un tentativo di riportare le cose al proprio posto. Cfr. Nemo (1988), pp. 320 ss.

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Indice dei nomi *

Agassi J., 121, 175 Antiseri D., 8, 16, 17, 135, 149, 175, 179 Arendt H., 12 Aristotele, 94, 175 Arnold R.A., 121, 175 Aron R., 13, 151, 171, 172, 175 Arrighi G., 59, 167, 175 Avineri S., 136, 175 Bacon F., 79, 157, 189 Baldini M., 17, 175 Bastiat F., 160-162, 175 Baudouin J., 98, 175 Bellamy R., 10, 175 Bentham J., 160 Berlin I., 168, 176 Bianchi M., 46, 48 Birner J., 28, 33, 176 Bismarck O. von, 165 Boettke P.J., 45, 176, 179 Bonald L. de, 79, 176 Böhm S., 30, 176 Boudon R., 89, 91, 176 Bourricaud F., 89, 176 Boyd R., 33, 176 Buchanan J., 121 Bullock A., 125, 172, 176 Burdeau G., 169, 176 Burke E., 79, 133, 139, 160, 176 Burke T., 98, 176 Butler E., 144, 149, 157, 176 * Dall’indice dei nomi abbiamo escluso la voce “Hayek” poiché ricorrente quasi in ogni pagina del libro.

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Caldwell B., 29, 47, 95, 118, 173, 176 Cavalli-Sforza L., 33, 176 Chomsky N., 117 Cicerone, 130, 155 Clerico G., 30, 32, 34, 42, 46-48, 54, 177 Closets F. de, 148, 177 Comte A., 78, 79, 90, 91, 111, 177 Constant B., 2, 6, 99, 113, 119, 134, 154, 177 Crowley B.L. , 127, 177 Cubeddu R., 11, 42, 177 Cunningham-Wood J., 63, 177 Debord G., 69, 177 Descartes R., 35, 36, 78, 79, 134, 135, 157, 177 Dewey J., 5, 163, 164, 167, 177 Diamond A.M., 136, 178 Dicey A.V., 129, 130, 178 Dumont L., 113, 178 Durkheim E., 90-92, 113, 178 Ercolani P., xi, xv, 1, 58, 63, 98, 100, 143, 178 Feldman M., 33, 176 Ferguson A., 79, 93, 94, 117, 118, 125, 133, 178 Fiori S., 54 Forsith M., 8, 178 Freeden M., 20, 178 Friedman M., 2, 52, 68, 72, 147, 179 Friedman R., 179 Gardlung T., 62, 179 Garello J., 16, 179 Gattei S., 98, 179 Giddens A., 80, 166, 179 Giovanni Paolo II (K. Wojtyla), 18, 179 Gissurarson H., 173, 179 Gondi J.F.P. de, 119 Gordon D., 127, 179 Glucksmann A., 11, 12, 179

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Indice dei nomi

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Gray J., 30, 34, 75, 144, 159, 172, 179 Hamilton A., 138, 180 Hitler A., 11 Hegel G.W.F., 54, 79, 100, 111, 125, 126, 136, 181 Hill Green T., 80 Hobbes T., 78, 79, 114, 118, 160, 181 Hobhouse L.T., 2, 59, 162, 167, 181 Hobsbawm E.J., 60, 167, 168, 181 Hodgson G.M., 28, 181 Hume D., 36, 37, 75, 76, 79, 133, 136, 181 Infantino L., 6, 90, 181 Jacobs S., 126, 181 Jay J., 138, 180 Jouvenel B. de, 56, 181 Kant I., 84, 111, 136 Kelsen H., 140, 141, 181 Keynes J.M., 58, 59, 181, 182 King S., 1 Kirzner I.M., 34, 49, 50, 98, 181, 182 Kley R., 87, 102, 127, 132, 134, 147, 150, 151, 181 Kubrick S., 12 Kukathas C., 96, 103, 129, 131, 134, 136, 182 Landes D., 164, 182 Larmore C.E., 127, 182 Lavoie D., 49, 182 Leoni B., 129, 130, 155, 182 Lichteim G., 60 Locke J., 2, 6, 99, 112, 113, 118, 130, 136, 182 Losurdo D., vii, 3, 60, 86, 143, 153, 173, 182 Madison J., 138, 180 Magee B., 98, 182 Maier C.S., 167, 183 Mandeville B. de, 79, 93, 113, 133, 183

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Mannheim K., 90, 92, 183 Marx K., 56, 68, 79, 95, 96, 100, 113, 136, 182, 183 Matteucci N., 9, 14, 183 Maulnier T., 60, 183 Menger C., 41, 72, 115, 133 Mermall T., 58, 183 Mill J.S., 2, 6, 24, 80, 112, 143, 144, 160-162, 183 Minogue K., 1, 28, 76, 99, 177, 183 Miquel P., 165, 183 Mises L. von, 2, 42, 43, 48, 51, 53, 56, 68, 72, 107, 108, 117, 118, 167, 184 Modugno Crocetta R.A. , 127, 179 Montesquieu C.L. de, 79, 134, 137, 160, 184 Myerson R.B., 50, 184 Nemo P., 61, 123, 174, 184 Novarese M., 34, 47 Nozick R., 14 Oakeshott M., 157, 184 O’Driscoll G.P., 72, 184 Ortega Y Gasset J., 58, 167, 183, 184 Paine T., 130, 160, 184, Pecora G., 9, 152, 153, 156, 184 Pellicani L., 58, 184 Petroni A.M., 14, 184 Phillips K., 164, 185 Piettre A., 55, 185 Pirou G., 61, 185 Platone, 54, 111 Polanyi K., 185 Polanyi M., 34, 49, 82, 126, 185 Popper K.R., xiv, xv, 2, 5, 8, 23, 24, 25, 33, 54-56, 81, 84, 89, 94-98, 100, 110-112, 167, 185 Pullen G.R., 127, 185 Quirico M., 8, 185

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Indice dei nomi

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Rawls J., 2, 5, 57, 62, 84, 85, 121, 122, 124, 125, 141, 142, 145, 146, 155, 167, 185 Ricardo D., 113 Richerson P.J., 33, 176 Rizzello S., 30, 32, 34, 42, 46-48, 54, 177 Robbins L., 159, 186 Röpke W., 56 Rothbard M., 14, 69, 127, 186 Rousseau J.J., 78, 114, 118, 186 Ryle G., 120, 186 Saint-Simon C.H. de, 78, 90, 91, 96, 111, 186 Salisbury R.A.T.C. marchese di, 165 Sartori G., 60, 130, 186 Say J.B., 162 Shackle G.L.S., 102 Schaller F., 56, 186 Schumpeter J., 60, 63, 69, 186 Smith A., 41, 44, 79, 81, 115, 118, 133, 136, 144, 176, 187 Schatz A., 72, 108, 110, 186 Shearmur J., 10, 14, 16, 186 Socrate, 23 Spencer H., 66, 73-76, 79, 139, 145, 187 Spinoza B., 78 Stalin I., 11 Stallybrass O., 125, 172, 176 Stiglitz J., 164, 187 Streit M.E., 34, 187 Tagliagambe S., 30 Talmon J., 12 Taylor A.J.P., 11, 187 Tawney R.H., 57 Tedesco F., 13, 187 Tommaso d’Aquino San, 17, 79 Thomson D., 165, 187 Thorpe A., 11, 187 Tocqueville A. de, xii, 2, 79, 111, 134, 160, 187 Touraine A., 19, 20, 187

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Il Novecento negato

Valentini F., 19, 187 Vanberg V., 28, 121, 187 Vaughn K., 49, 187 Vico G.B., 136 Voltaire, pseud. di Arouet F.M., 78, 135, 136, 187 Wathely R., 107 Whitehead A.N., 44, 188 Wicksell K., 62, 179 Williams E., 86, 187, 188 Woods R.N., 63, 177 Zijp R. van, 28, 33, 176

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L’autore

Paolo Ercolani (1972), dottore di ricerca in Filosofia e giornalista pubblicista, è assegnista di ricerca presso l’Università degli studi di Urbino, dove insegna Teoria dei processi di socializzazione e collabora attivamente con le cattedre di Storia della filosofia e Sociologia. Allievo di Domenico Losurdo, si occupa da anni del pensiero liberale e della storia contemporanea, argomenti sui quali ha scritto numerosi saggi per le riviste «Critica marxista» (di cui è membro del comitato di redazione), «Marxismo oggi», «Reset» e «Inoltre».

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