343 14 21MB
Italian Pages 444 Year 1977
THOMAS J. BATA LIBRARY TRENT UNIVERSITY
Digitized by the Internet Archive in 2019 with funding from Kahle/Austin Foundation
https://archive.org/details/ilmitogrecoattidOOOOunse
In copertina: Centauro da Lefkandi (Eubea). Terracotta, alta cm. 36. IX sec. a.C. (da Ann. Brit. Sch. Athens, 65, 1970)
Quaderni Urbinati di Cultura Classica Atti di Convegni
1.
QUESTO VOLUME E’ STATO PUBBLICATO CON IL CONTRIBUTO DEL C. N. R.
UNIVERSITÀ’ DEGLI STUDI DI URBINO CENTRO INTERNAZIONALE DI SEMIOTICA E LINGUISTICA ISTITUTO DI FILOLOGIA CLASSICA
IL MITO GRECO Atti del Convegno Internazionale
(Urbino 7-12 maggio 1973)
a cura di Bruno Gentili e Giuseppe Paioni
Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri
© Copyright by Udizioni dell’Ateneo & Bizzarri Casella Postale 7216 - 00100 Roma
Lavoro redazionale di M. Del Ninno, L. Piccioni, R. Pretagostini Indici di A. Gostoli e M. G. Fileni
SOMMARIO
XI
Avvertenza
I Giornata A. Brelich 3 30
La metodologia della scuola di Roma Discussione G. Piccaluga
33
Adonis, i cacciatori falliti e l’avvento dell’agricoltura \
A. Brelich 49
Vicende storiche di singoli miti greci D. Sabbatucci
57
Aspetti del rapporto mythos-dogos nella cultura greca. I M. Massenzio
63
Aspetti del rapporto mythos-logos nella cultura greca. II
II Giornata M. DETIENNE 69 90
Mythes grecs et analyse structurale:
controverses et problèmes
Discussione J.-P. Vernant
91
Le mythe « prométhéen » chez Hésiode. (Théogonie 535-616; Tra¬ vaux 42-105)
004811
Vili
L. Kahn-Lyotard
107
Le récit d’un passage et ses points nodaux
118
Discussione J.-L. Durand
121
Le rituel du meurtre du boeuf laboureur et les mythes du premier sacrifice animal en Attique
III Giornata A. 137
Green
Thésée et Oedipe. Une interprétation psychanalytique de la Théséide
190
Discussione C. Ramnoux
193
De la légende à la sagesse à travers le jeu des mots P. Pucci
207
II mito di Pandora in Esiodo I. Chirassi Colombo
231 270
Héros Achilleus - Theòs Apollon Discussione
IV Giornata W. Burkert
273 284
Le mythe de rituelle
perspectives
préhistoriques
et
tradition
Discussione G. S.
283
Géryon:
Kirk
Methodological reflexions on the myths of Heracles B. Gentili
299
Eracle « omicida giustissimo ». (Pisandro, Stesicoro e Pindaro)
IX J. Rudhardt
307
La jonction du mythe dans la pensée religieuse de la Grèce
V Giornata J. Courtes
323
Sémiotique et théorie actantielle du récit dans la perspective d’A. J. Greimas
346
Discussione M.
349
Mythology as sign-system P.
363
Hoppâl
Smith
Ethnologie et analyse des mythes grecs C. Calame
369
Mythe grec et structures narratives: le mythe des Cyclopes dans V Odyssée
392
Discussione P.
393
Fabbri
L’invisibile pantera profumata
395
Discussione J.-P.
397
Vernant
Intervento conclusivo
Indici 403
Indice dei luoghi citati
413
Indice dei nomi
423
Indice degli autori moderni
AVVERTENZA
Il presente convegno sul mito greco è nato dalla collabora¬ zione tra il Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica e 1 Istituto di Filologia Classica dell’Università di Urbino. Esso si colloca nel quadro delle ricerche svolte parallelamente — negli anni 1969-1973 — dal Centro (seminari sulle strutture narrative e sul¬ l’analisi mitologica) e dall’Istituto (seminari su mito e lirica greca, su mito e tragedia greca). Il tema del mito (e in particolare del mito greco) interessa un largo numero di discipline e la sua riproposta critica esige un confronto tra metodi differenti d’approccio. Di qui la partecipa¬ zione al convegno di filologi, antropologi, storici delle religioni, psicanalisti e semiotici. Il dibattito, aperto e problematico, ha investito i temi nodali del mito (il suo senso e la sua funzione), marcando un superamento sensibile degli schemi d’interpretazione tradizionali e suggerendo al¬ cune prospettive di ricerca più complesse e moderne. Il convegno si è articolato in cinque giornate nelle quali si sono alternate relazioni e discussioni, che hanno fatto emergere po¬ sizioni e punti di vista talora divergenti, ma tuttavia proficui per una ridefinizione del mito greco e per un rinnovamento delle pro¬ cedure d’analisi. A questo scopo gli organizzatori del convegno hanno ritenuto opportuno di distribuire gli interventi in giornate diverse in cia¬ scuna delle quali fossero rappresentate le differenti metodologie e i differenti approcci: l’analisi diacronica, l’analisi strutturale, l’ana¬ lisi semantica, psicanalitica e semiotica. Gli organizzatori ringraziano vivamente gli studiosi italiani e stranieri che hanno partecipato ai lavori del convegno, il Consiglio Nazionale delle Ricerche che ha concesso un contributo finanziario
XII per questa pubblicazione e i redattori degli Atti. Un ringraziamento particolare al Rettore dell’Università di Urbino e Presidente dei Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica, prof. Carlo Bo, il quale, in linea con la sua tradizionale disponibilità per il lavoro culturale originale e rigoroso, ha promosso e patrocinato il con¬ vegno. Bruno Gentili e Giuseppe Paioni
I GIORNATA
LA METODOLOGIA DELLA SCUOLA DI ROMA Angelo Brelich
Prima di toccare anche soltanto la soglia dell’argomento, mi pare inevitabile chiarire in che senso e misura si possa — e in que¬ st’occasione ormai si sia costretti a — parlare di una scuola romana. E’ la prima volta, infatti, che questo termine, finora usato bonaria¬ mente in conversazioni private tra amici che capivano a volo sia i limiti che i sottintesi dell’espressione, è apparso, con una specie di crisma d’ufficialità, nel programma di un convegno, addirittura inter¬ nazionale, di studiosi. Devo dire subito che una scuola romana di storia delle religioni (perché, se mai, di questo si tratterebbe, e non di una scuola nel campo degli studi di mitologia greca), in realtà non esiste né nel senso banale dell’insieme di un maestro e dei suoi seguaci, né in quello di un ben preciso e facilmente definibile indi¬ rizzo programmaticamente seguito da un gruppo di studiosi romani. Ognuno di noi, di quelli qui presenti e di alcuni altri, ha i propri interessi scientifici che persegue in maniera del tutto autonoma, i propri problemi metodologici che cerca di chiarire ed approfondire di volta in volta nel concreto lavoro di ricerca, senza alcuna adesione pregiudiziale a posizioni teoriche prestabilite; né siamo tutti senz’al¬ tro d’accordo su tutto ciò che uno di noi dice, fa o pensa. In sede privata, si poteva parlare, senza troppo impegno, di una scuola romana — e ce ne rendiamo conto ora, che dobbiamo parlar¬ ne in pubblico — forse solo in base a due ordini di circostanze. Per primo rammenterò quello che per noi è il più immediatamente vis¬ suto, e che perciò neanche ci pone problemi: siamo un gruppo di amici che abbiamo tra di noi un contatto continuo sia nell’ambito dell’Istituto di Studi storico-religiosi dell’Università di Roma, dove svolgiamo la nostra attività professionale, sia in privato, un contatto
4
Angelo Brelich
che ci permette — malgrado le laceranti condizioni desistenza in un’Università come quella di Roma, specie di bolgia infernale dante¬ sca, — frequenti scambi di idee che spesso convogliano i nostri inte¬ ressi in direzioni comuni; ciò avviene, quando avviene, senza pro¬ grammi prestabiliti, in maniera del tutto spontanea, fortunatamente non compromessa da formalità che in altri ambienti derivano dalle differenze di età o di posizione accademica. Di qui l’indipendenza di ciascuno in una pur consistente comunanza d’interessi. La seconda ragione che ci permette di considerarci — sia pure in maniera del tutto informale, finora, — come una scuola, è più complessa. Non l’abbiamo mai teorizzata, anche se i più anziani di noi ne erano abbastanza coscienti. Si tratta, sia detto con ogni riser¬ va, di una nostra comune discendenza o, alla lunga, origine scienti¬ fica. Per definire questa, credo sia preferibile partire dai suoi aspetti negativi. Noi, studiosi italiani (non solo romani) di storia delle reli¬ gioni, non abbiamo dietro le spalle grandi tradizioni che affondino le radici nel secolo scorso. In campo classico ci manca la spontanea assimilazione dello spirito dell’Altertumswissenschaft germanica; in campo comparativo non siamo sorretti da una familiarità acquisita sin dai primi anni di studio con certi problemi e certe cognizioni che nei paesi anglosassoni l’ormai secolare scuola antropologica inglese imponeva, o metteva a disposizione, a chiunque; né abbiamo assor¬ bito, sin da ragazzi, ciò che delle conquiste della scuola sociologica francese circolava nella cultura generale della Francia. La nostra ori¬ gine comune, — ripeto, comune ’alla lunga’, perché i più giovani di noi neanche possono averne piena coscienza, a parte che non ne hanno avuto esperienza diretta —, si riassume in un unico nome, quello di Raffaele Pettazzoni, primo e, fino alla sua vecchiaia, si potrebbe dire, unico studioso italiano di storia delle religioni. Pettaz¬ zoni, appunto perché era primo e unico, per trapiantare questo gene¬ re di interessi nel suolo refrattario della cultura italiana troppo deter¬ minata dai retaggi dell’umanesimo, ha dovuto o voluto compiere da solo un’opera che servisse a colmare lacune enormi nei nostri studi. La mole stessa di quell’opera e gli sforzi che egli vi doveva inve¬ stire, hanno forse ritardato in lui, fino all’ultimo periodo della sua attività, la decantazione di coerenti criteri metodologici: ma comun¬ que si valuti oggi, retrospettivamente, il metodo impiegato nell’uno o nell’altro dei suoi lavori prodotti lungo un mezzo secolo di opero-
La metodologia della scuola di Roma
5
sità, almeno due punti su cui egli non ha cessato di insistere, hanno profondamente inciso su quanto, dopo di lui, in Italia può contare come storia delle religioni. Il primo punto riguarda l’imprescindibile necessità della comparazione e, in particolare, dello studio, a questo fine, dell’etnologia religiosa. Il secondo, il carattere irriducibilmente storico di ogni singola formazione religiosa. I due princìpi potevano sembrare contraddittori agli occhi degli evoluzionisti, degli psicolo¬ gisti, dei rappresentanti della corrente fenomenologica, come d’altra parte anche a quelli degli storicisti puri p.es. di osservanza crociana. La loro stretta interdipendenza sostenuta da Pettazzoni è il punto di partenza comune dei più vari orientamenti italiani nel campo della storia delle religioni. Né le opere di Pettazzoni, né, tantomeno, il suo insegnamento universitario — in cui, tra l’altro, i problemi di metodo hanno occupato relativamente poco posto — sono stati suf¬ ficienti a creare una scuola. Ma l’Istituto di studi storico-religiosi da lui fondato è divenuto, a partire circa dal 1950, un luogo d’incontro e di contatti amichevoli tra studiosi più giovani di Pettazzoni — a cominciare, in ordine d’età, con Ernesto De Martino, con chi vi par¬ la, con Vittorio Lanternari, Dario Sabbatucci, fino a quelli che ormai anche per noi sono giovani e dei quali qui sono presenti Giulia Piccaluga, Marcello Massenzio ed Emanuela Monaco. Attraverso questi contatti, come ho detto, non si è costituita una scuola vera e propria, ma si è formata e si sta tuttora sviluppando una comunità d’interessi e di problemi che ciascuno di noi continua ad arricchire con le pro¬ prie esperienze scientifiche personali. Tanto ho dovuto dire per chiarire il vero senso dell’espressione di scuola romana. L’esposizione che segue è stata concordata tra co¬ loro che, legati all’Istituto di Studi storico-religiosi dell’Università di Roma, partecipano a questi colloqui: concordata su una linea trac¬ ciata da me e discussa in comune, soprattutto con lo scopo di trala¬ sciare i punti su cui l’uno o l’altro di noi non si troverebbe d’accordo. Il « noi » che d’ora in poi adopererò, indica il carattere collet¬ tivo dell’esposizione. *
#
*
Noi non consideriamo come un onore, ma piuttosto come un onere, non un privilegio, ma un obbligo il compito di aprire i Collo¬ qui. Da esso deriva, tra l’altro, la gravosa incombenza di introduire
6
Angelo Brelich
l’argomento stesso che formerà l’oggetto delle nostre discussioni. Sembrerebbe facile dire: l’argomento è la mitologia greca. Ma pos¬ siamo noi parlare di una ’mitologia greca’ esattamente nello stesso senso in cui parleremmo di una ’mitologia egiziana’ o ’giapponese’, di una ’mitologia dogon’ o di una ’mitologia andamanese’? Si tratta di oggetti dello stesso genere che, una volta studiati, si possono met¬ tere l’uno accanto all’altro in una specie di Mythology of All Races? E anzi, se già abbiamo sollevato questo problema, rammentiamone su¬ bito un altro: di « mitologia greca » parliamo nel senso p.es. di una mitologia eschimese oppure in quello della mitologia degli eschimesi del caribù o di quelli del rame? nel senso di una mitologia austra¬ liana o in quello della mitologia dei Kurnai o dei Kamilaroi? Ma anche a prescindere per ora da questa ultima e non indifferente que¬ stione, ci sembra che la semplice giustapposizione di tante mitologie porti a banalizzare, e anzi a obliterare o a non vedere certi problemi che non è lecito ignorare. Perciò ci sembra opportuno, prima di ogni altra cosa, chiederci che cosa sia ciò che conveniamo di chiamare ’la mitologia greca’. Nessuno negherà, credo, che le nostre cognizioni in fatto di mitolo¬ gia greca si fondano su un determinato materiale. Questo materiale ha i propri caratteri particolari. Rendersi conto di questi caratteri è la conditio sine qua non di ogni qualsiasi ulteriore discorso scientifi¬ camente rigoroso sulla mitologia greca. Cominciamo, dunque, per chiederci di quale materiale si tratti. Anzitutto, si tratta soprattutto di un materiale scritto: di testi. Diciamo ’soprattutto’, perché non bisogna dimenticare nemmeno le raffigurazioni che in certi casi possono aggiungere qualcosa alle no¬ stre cognizioni nel campo della mitologia greca. Certo, le raffigura¬ zioni non possono raccontare miti: esse fissano singoli momenti di vicende mitiche — anche nel caso di raffigurazioni cicliche (p.es. delle fatiche di Herakles, ecc.) la situazione non cambia sostanzialmente: si tratterà di tanti singoli momenti — che noi comprendiamo nella mi¬ sura in cui dai testi sappiamo a quali vicende appartengono. Può accadere che una raffigurazione contenga dettagli che non figurano nei testi che abbiamo sulla vicenda cui essa si riferisce: in tal caso essa o aggiunge qualcosa a quanto sappiamo dai testi o ci fa capire che esisteva una variante non conservata in forma letteraria, ma che in tal caso non possiamo ricostruire, se non in via di congettura. Un
La metodologia della scuola di Roma
1
mito che non fosse documentato che in raffigurazione ci rimarrebbe fatalmente sconosciuto. Perciò è giustificato dire che la mitologia gre¬ ca ci è rimasta soprattutto in testi scritti. Ciò l’accomuna, almeno per quest’aspetto, alle altre mitologie antiche e la distingue immedia¬ tamente da quelle che gli etnologi riescono o sono riusciti a raccogliere dalla viva voce di gente appartenente a società senza scrittura. Ma non dobbiamo dimenticare che vi possono essere differenze significative tra una documentazione mitologica scritta e un’altra. In ogni singolo caso dobbiamo chiederci di che natura sono i testi su cui ci fondiamo: chi li ha scritti e per chi, in quale forma e a che scopo? Ed ecco che sotto quest’aspetto della documentazione, la mi¬ tologia greca si distingue piuttosto nettamente dalla maggior parte delle mitologie antiche. I testi che la documentano non sono, anzi¬ tutto, di origine sacerdotale — come lo sono invece quelli che atte¬ stano p.es. la mitologia vedica, o quelle egiziana, ugaritica, ebraica, ecc., — né provengono da una ben determinata classe sociale, come avviene invece nelle letterature di corte o, comunque, di élite domi¬ nante. La loro provenienza è di una varietà estrema:
si tratta di
scritti di poeti, drammaturghi, logografi, storici, cronisti locali, filo¬ sofi, oratori, antiquari, grammatici che si rivolgono a pubblici diffe¬ renti; questi, nel loro insieme, rappresentano l’intera società non¬ analfabeta nelle varie epoche della storia greca e anzi, anche parte della società analfabeta che poteva ascoltare discorsi e sentire recitare poemi o assistere a spettacoli di teatro. Ma è ovvio che diversamente si ripercuote sul modo di trattare i miti se un poeta come Pindaro si rivolge alle persone più autorevoli di una città o se un gramma¬ tico spiega un’allusione mitica di qualche autore più antico. La stes¬ sa varietà vale, del resto, anche per le fonti figurative che vanno dalle scene scolpite sui frontoni dei templi a quelle dipinte sui vasi d’uso quotidiano. Alla grande varietà delle fonti si associa anche una loro straor¬ dinaria abbondanza. Nessun’altra letteratura antica — se non, forse, quella indiana post-vedica — ha lasciato traccia di una tale quantità di miti. Anzi la quantità di miti documentati per la Grecia supera forse anche quella che qualunque etnologo sia riuscito a raccogliere presso una singola società primitiva. Solo che, mentre le raccolte etno¬ logiche di miti ci presentano sempre racconti completi, nel materiale greco siffatte narrazioni integrali, se non sono propriamente rare,
8
Angelo Brelich
restano pur sempre un’infima minoranza della totalità delle fonti: queste consistono soprattutto in migliaia di menzioni, accenni o allu¬ sioni più o meno rapidi, parziali e frammentari. Data l’enorme ab¬ bondanza di questi, si potrebbe forse pensare che essi permettano di ricostruire i racconti interi. Ma nella maggior parte dei casi in cui lo si tenti di fare, ci si imbatte in ’contraddizioni’ tra le singole men¬ zioni. Tali ’contraddizioni’ esistono anche tra le narrazioni integrali del medesimo mito: di fronte a queste, parleremo di varianti miti¬ che. Ma allora anche gli accenni frammentari che appaiono contrad¬ dittori, risalgono verosimilmente a differenti varianti perdute e ciò ostacola gravemente i tentativi di ricostruzione. Ora, la ricchezza di varianti è di nuovo un carattere notevole della mitologia greca docu¬ mentata: la documentazione delle altre mitologie antiche lascia mi¬ nore spazio alle varianti, sia perché è quantitativamente meno abbon¬ dante, sia perché è di provenienza più omogenea. La ricchezza in varianti avvicina, invece, i miti greci ai miti registrati presso le so¬ cietà senza scrittura. Da tutto quel che si è detto finora dipende anche il fatto che — almeno per l’epoca anteriore alla formazione del genere mitogra¬ fico — noi non abbiamo, in Grecia (come invece abbiamo p.es. nella Mesopotamia o in Ugarit), una letteratura mitologica ben distinta da tutti gli altri generi letterari, né un corpus di miti come quello che l’etnografo riesce a riunire presso la società da lui osservata. Al con¬ trario, i miti s’insinuano, nelle più varie forme, in quasi ogni specie di testi che occasionalmente possono parlare di dèi, eroi e altri tipi di esseri mitici, e perfino là dove parlano di personaggi presentati come umani o addirittura di personaggi sicuramente umani, a questi possono talvolta attribuire vicende non precisamente storiche, ma di carattere più o meno mitico. Infine, a differenza delle raccolte etnologiche di miti e anche di certe mitologie antiche rimasteci in un gruppo di testi risalenti alla stessa epoca e allo stesso ambiente, l’eterogeneità della documen¬ tazione mitologica greca si complica ancora, in conseguenza delle sue dimensioni temporali e spaziali. Nel tempo, le nostre fonti vanno dai poemi omerici fino all’erudizione bizantina, cioè si sparpagliano lun¬ go un periodo di circa due millenni, durante il quale la civiltà greca ha subito profondi mutamenti. Quanto allo spazio, non si può tra¬ scurare né l’estensione geografica del mondo greco — dall’Asia Mi-
La metodologia della scuola di Roma
9
nore all’Africa settentrionale, al Mediterraneo occidentale — né, co¬ sa ancora più importante, i caratteri particolari della cultura nelle singole città-stato e nelle singole regioni. Ora, noi possediamo miti greci di carattere strettamente locale, relativi p.es. a un singolo san¬ tuario di una città o a un elemento di un paesaggio, p.es. una sor¬ gente, ma a parte questi, quasi tutti i miti sono localizzati, anche se spesso non senza contraddizioni, cioè variamente localizzati nelle lo¬ ro diverse varianti. Con ciò, per il momento, vogliamo dire soltanto che nella complessità del quadro della mitologia greca possono aver parte anche tradizioni locali oltre che tradizioni di epoche differenti.
Fino a questo punto abbiamo cercato di descrivere, in grandi linee, i caratteri particolari della documentazione mitologica greca. Questi caratteri vengono troppo spesso completamente trascurati, quando si parla delle varie mitologie del mondo, mettendole sul me¬ desimo piano. Eppure, essi pongono una serie di problemi partico¬ lari. Tra questi, concentreremo ora la nostra attenzione su quelli che conglobiamo nel termine problema storico e su quelli che chiamere¬ mo problemi di metodo. Il problema storico posto dal materiale mitologico greco può es¬ sere formulato nella domanda: da che cosa dipendono i caratteri par¬ ticolari di quel materiale? Tenteremo ora una risposta, ovviamente sommaria, che, essendo questa la prima volta che la esponiamo in una connessione organica, sarà anche da considerarsi come prov¬ visoria. La documentazione mitologica greca comincia per noi con i poe¬ mi omerici, nel periodo, cioè, in cui dopo alcuni secoli di analfa¬ betismo, una nuova scrittura si diffonde in Grecia. Dal punto di vista mitologico, i poemi omerici presentano una straordinaria ricchezza: oltre la materia mitica direttamente narrata, essi sono pieni di accen¬ ni e allusioni più o meno fugaci non solo ad antefatti mitici che coinvolgono gli antenati immediati dei personaggi, ma anche a miti divini ed eroici ancora meno direttamente collegati o nient’affatto collegati con l’impresa troiana:
le vicende degli Argonauti, di He-
rakles, miti del ciclo tebano, miti dell’Etolia e innumerevoli altri, come pure miti relativi alla nascita, all’infanzia e a vicende passate degli dèi vengono ora brevemente rievocati, ora semplicemente dati
10
Angelo Brelich
per noti. Vuol dire che all’epoca del costituirsi di questi poemi vi era già, nel mondo ellenico, una vasta e diffusa tradizione mitologica. Se i poemi — che ben presto risulteranno noti in tutta la Grecia — ne presuppongono la conoscenza, vuol dire che essa esisteva già nel periodo analfabeta delle cosiddette « epoche oscure ». E’ in questo periodo, dunque, che dobbiamo cercare gli immediati antecedenti della documentazione letteraria. Ora, le epoche oscure rappresentano una profonda cesura tra il periodo miceneo e il periodo che per co¬ modità chiameremo semplicemente greco. Questa cesura prende ini¬ zio con il collasso della classe dirigente micenea: scompare l’organiz¬ zazione statale — quale che fosse —, scompare la cultura accentrata nei palazzi, scompare la scrittura documentata, per noi, quasi esclu¬ sivamente da tavolette di carattere amministrativo conservate nei pa¬ lazzi. E ora una massa socialmente decapitata, economicamente impo¬ verita, decimata da un impressionante calo demografico, gettata nella confusione di migrazioni e spostamenti, si avvia a creare una nuova, una propria cultura. Quando sottolineiamo il carattere popolare del¬ le origini della cultura ellenica, quando parliamo di una massa e di¬ ciamo p.es. che anche il nuovo alfabetismo greco si presenta, a parti¬ re dall’8° see., quale fenomeno di massa, come mostrano p.es. le iscrizioni rupestri di Thera, naturalmente siamo consci dei possibili equivoci che i termini impiegati potrebbero suscitare: ma, speriamo, non in quest’ambiente, dove nessuno li intenderà anacronisticamen¬ te. Vorremmo ricordare solo un fatto: si parla correntemente di un regime aristocratico nella Grecia più arcaica; ma, anche ammettendo una differenza di status tra una classe dirigente emersa dalle epoche oscure e il resto della popolazione, dobbiamo renderci conto che, se in ogni minuscola comunità greca tra il 9° e il 7° secolo vi erano fa¬ miglie ’aristocratiche’, l’aristocrazia stessa può essere definita, para¬ dossalmente, un fenomeno di massa. Inoltre, la differenza di status sociale non implicava necessariamente una rilevante differenza cultu¬ rale: tra il contadino Esiodo e i « basìleis divoratori di doni » cui egli si rivolge da maestro, non erano certo questi ultimi i portatori privilegiati della cultura. Questa, del resto, con la graduale democra¬ tizzazione della società, tenderà a diffondersi sempre più largamente. Ad ogni modo, la civiltà greca post-micenea è la prima, nell’antichità, che nasce ’dal basso’. Fermiamoci a questo punto, per vedere come i fatti storici ricor-
La metodologia della scuola di Roma
11
dati si ripercuotono sui caratteri della documentazione mitologica. Se i poeti omerici possono contare sulla comprensione del loro pub¬ blico, e precisamente non solo con quanto narrano per esteso, ma anche con le rapide allusioni — vuol dire, si è detto, che il mondo greco possedeva già un ricco patrimonio mitologico almeno verso la fine delle epoche oscure; ora, poiché in quelle epoche la scrittura non esisteva, questo patrimonio mitologico era di carattere orale (co¬ me, del resto, orale rimaneva a lungo anche la trasmissione dei poe¬ mi). Come nelle mitologie delle società senza scrittura, anche nelle tradizioni mitologiche greche esistevano sin da quell’epoca varianti mitiche: lo provano le numerose divergenze nella più antica poesia greca sia in fatto di temi mitici che a noi moderni possono sembrare essenziali (p.es. quelli cosmogonici: si pensi all’accenno omerico a Okeanos e Tethys come coppia primordiale e alla differente teogonia esiodea!), sia in dettagli minimi (come p.es. la madre-moglie di Oidipus, il cui nome è noto sotto le due forme di Iokaste ed Epikaste, se¬ condo YOidipodia non sarebbe stata madre dei propri figli: Paus. 9, 5, 10 sgg.). Il poeta a sua volta — esattamente come il « narratore di miti » più o meno specializzato nelle società primitive — interviene nella tradizione, ora scegliendo tra le varianti disponibili, ora introdu¬ cendone nuove o sviluppando ora questo ora quell’aspetto di una variante. Il poeta, del resto, è colui che sa (o colui che ricorda): co¬ nosce l’enorme quantità di miti, comprese — come i poemi omerici mostrano — anche le tradizioni locali che in Grecia, data l’estensione relativamente grande del territorio e dato il relativo isolamento geo¬ grafico dei singoli centri, dovevano sorgere e pullulare dovunque. Il carattere popolare e orale della più antica mitologia greca spiega, ci sembra, diversi aspetti del materiale di cui stiamo discu¬ tendo, e in particolare quelli che lo rendono più affine a una mitolo¬ gia etnologicamente documentata che non alle mitologie delle so¬ cietà antiche, tramandateci attraverso testi provenienti da ambienti sacerdotali o di corte: così la grande ricchezza quantitativa, la pre¬ senza costante di varianti, la varietà di sviluppo dato ai temi, dalla narrazione estesa ai rapidi richiami. Ma non bisogna credere che l’introduzione della scrittura muti radicalmente la situazione. Intanto, anche l’acquisizione della nuova scrittura è un fatto di carattere popolare: non sono gli scribi appo¬ sitamente istruiti a servirsene e a trasmetterla, ma probabilmente i
12
Angelo Brelich
commercianti e navigatori a contatto con i commercianti e navigatori fenici la introducono ed essa poi si diffonde spontaneamente in am¬ bienti via via più larghi, ancora prima che essa diventi il veicolo di una letteratura. In secondo luogo, passeranno diversi secoli, prima che la letteratura scritta acquisti una diffusione ragguardevole. E, in terzo luogo, anche raggiungendo tale diffusione, essa per molti altri secoli non ucciderà la trasmissione orale dei miti. Ciò significa, dal nostro punto di vista, un prolungarsi pressoché indefinito nel tempo, degli stessi caratteri della mitologia greca, che abbiamo attri¬ buiti alle tradizioni diffuse nelle epoche oscure. E ciò spiega anche altri fatti già osservati nel corso della descrizione del materiale: p.es. che nella letteratura greca — che solo gradualmente diventa una let¬ teratura scritta — non esista un gruppo ben definibile di testi mito¬ logici, ma che il sapere mitologico s’infiltri nei più vari generi let¬ terari. E, ugualmente, che i testi rimastici relativamente poche volte narrano per esteso un mito e infinitamente più spesso si limitano ad accenni e allusioni: ogni autore, infatti, dà per scontata la conoscen¬ za delle tradizioni da parte del suo pubblico (salvo, eventualmente, per i miti strettamente locali), e ne rammenta solo quanto gli serve in un dato contesto. La conoscenza dei miti presupposta dagli autori, almeno fino a tutto il periodo classico compreso, non era, non poteva essere una conoscenza libresca. Dietro i testi che ci sono pervenuti, non vi è solo un’enorme quantità di altri testi, perduti, ma ce, ugual¬ mente perduta per noi, la tradizione orale che formava il tessuto connettivo di tutta la letteratura. Su questi argomenti molto ci sa¬ rebbe ancora a dire, e forse la discussione permetterà di chiarire e precisare quanto per ora rimane necessariamente approssimativo.
>!
(Oi n s2 u 02). L’échange, comme acte de communication, s’écrira alors (il y a entre les deux faire transformateurs une relation d’implication réciproque, sans laquelle il ne saurait y avoir échange): Ft [Si -> (Oi U
Si fl
O,)] JL Ft [S2 -> (O, fl
S2 u O).
Avec l’échange réalisé, se trouvent suspendues les relations virtuelles (exprimées par les signes disjonctifs de la formule précédente), de telle sorte que l’on aura:
Ft [Si -* (Si fl 02)] X
Ft [S2 -> (S2 fl Oi)].
Ce qui n’est vrai ou possible que dans la mesure où:
Oi - o2
Sémiotique et théorie actantielle du récit
335
En d’autres termes, les objets doivent être ici équivalents, tandis qu’ils sont identiques dans le don réciproque (ex. 2); cette équiva¬ lence est garantie par un contrat fiduciaire qui, dans un récit donné, peut ne pas être respecté (ici s’inscrira, par exemple, le jeu de l’être et du paraître: donner un objet pour ce qu’il n’est pas): tel est le cas du conte-type 560 dans lequel l’objet magique (fournisseur de toutes les richesses souhaitées) — lampe, anneau — est repris par son ancien possesseur qui l’obtient (pendant l’absence du héros) d’une servante ou de la femme elle-même, par échange avec des objets neufs apparemment de même nature, mais qui n’ont évidem¬ ment pas de propriété magique. 4. Cas particulier:
celui de la communication participative
(ex.: transmettre un savoir) où le don fait au destinataire n’entraîne pas corrélativement de privation pour le destinateur.
5. Remarques complémentaires 1. Cette succinte et très incomplète description de la com¬ posante grammaticale, telle qu’elle nous est présentée par A. J. Greimas, appelle au moins quelques observations annexes. Revenons tout d’abord à la distinction préliminaire — basée sur le rapport forme vs substance (au plan du contenu) — entre les composantes grammaticale et sémantique. Cette
dissociation
théorique devrait
nous aider à dégager facilement dans le texte deux sortes d’unités correspondantes. Dans la première catégorie entreront, par exemple, les personnages, en tant qu’ils sont agents fonctionnels, donc à titre de « noms propres »; à ce propos toutefois une réserve s’impose, qui concerne particulièrement le conte populaire:
le nom donné aux
acteurs est souvent porteur d’une information sémantique (ex.: Cendrillon). De même seront considérés comme pertinents à la gram¬ maire tous les éléments qui marquent l’appartenance (avoir) ou la dépossession, la transformation, l’équivalence, la comparaison, etc., bref tout ce qui est de l’ordre des relations. Sans vouloir faire ici l’inventaire de cette catégorie, nous remarquerons seulement que la distinction entre unités grammaticales et sémantiques ne sera pas toujours concrètement facile à réaliser (tâche qui pourtant s’impose à l’analyste aux prises avec un texte donné):
il arrive, en effet,
constamment (ou presque) que les unités de contenu relèvent simul-
336
Joseph Courtés
tanément de l’un et l’autre niveau. A la limite, d’ailleurs, la dis¬ tinction même entre unités grammaticales et sémantiques s’avère contestable: elle présuppose que les premières sont strictement d’or¬ dre formel, tandis que les secondes seules véhiculeraient l’informa¬ tion précise (toutes se conjoignant pour produire le sens). Or, il est bien clair que les unités grammaticales ne sont pas pure forme: ainsi dans le cas du « sujet » ou des différents « acteurs » (comme agents): même si leur investissement sémantique complet ne s’opère qu’au fur et à mesure du récit, la seule mention de leur présence (ou de leur nom) est déjà une information sur leur condition d’être animé, voire humain et sexué; de même, la triple modalisation syntaxique (proposée par A. J. Greimas) du vouloir (—faire), du savoir (—fai¬ re) et du pouvoir (— faire), correspond-elle déjà — malgré son haut niveau de généralité — à un investissement sémantique particulier. Ainsi, pour sa constitution, la grammaire du récit est-elle contrainte d’exploiter en partie la composante sémantique. Ceci dit, et pour pouvoir tout de même procéder à des opérations pratiques, nous sommes cependant obligés de maintenir une ligne de démarcation entre termes et relations, même si de fait il y a habituellement che¬ vauchement entre les deux domaines. Car la grammaire reste toujours théoriquement distincte du dictionnaire, même si elle ne s’exprime que par lui: ce qui est vrai, au moins métaphoriquement, dans le cas du récit. Nous rejoignons ainsi la démarche de V. Propp qui, bien que travaillant au niveau formel, réintroduisait subrepticement (?) la composante sémantique, ne serait-ce que par les désignations don¬ nées aux « fonctions ». 2. Le modèle actantiel d’A. J. Greimas — qui n’est plus lié, comme les « fonctions » de V. Propp, à un corpus de contes parti¬ culier — peut-il servir de base à une typologie des récits? Il repose fondamentalement sur un déplacement d’objet (le récit est transfert), sur un avant et un après (contenu inversé vs contenu posé), sur une transformation (quelle soit d’ordre objectif ou subjectif). Dans cette optique, quel sort réservera-t-on alors, par exemple, à certains récits esquimaux (qui se « récitent » régulièrement et se transmettent de génération en génération) dans lesquels « il ne se passe rien », du moins de notre point de vue (il est possible que les Esquimaux y perçoivent un type d’enchaînement qui nous est étranger ou incon¬ nu)? La téléologie qu’explicitent les programmes narratifs (ci-dessus
Sémiotique et théorie actantielle du récit
337
évoqués), leur développement linéaire et orienté, n’est peut-être lié qu’à certaines formes de récits (qui miment l’axe orienté de la com¬ munication verbale): si tel est bien le cas du conte populaire, nous semble-t-il, c’est peut-être déjà moins vrai des mythes où — comme l’a montré magistralement C. Lévi-Strauss — le sens se dit plus dans l’organisation systématique (le mythe est de l’ordre de la lan¬ gue) que dans le déroulement narratif qui lui sert accessoirement — et nécessairement — de support. Ceci dit, il n’en reste pas moins que la structure actantielle se situe tout de même à un très haut niveau de généralité: peut-être même est-elle trop puissante. Ce modèle, en effet, est susceptible de s’appliquer pour le moins à toute la tradition populaire (dont il a été pratiquement extrait), mais aussi à beaucoup d’autres formes de récit (comme en témoignent ses ap¬ plications en tous domaines), le « fait divers » ou le roman par exem¬ ple... et même jusqu’au discours philosophique ou juridique (cf. Documents de travail, n. 7, Centre international de sémiotique et de linguistique, Urbino). Bien plus, il peut tout autant recouvrir un texte très long (ou tout un univers de discours) qu’articuler simulta¬ nément l’un de ses fragments constituants. Comme tel, il ne saurait donc nous fournir les bases d’une typologie: ce qui est par contre tout à fait possible (sinon encore réalisé) au niveau des programmes narratifs particuliers qu’il est capable de générer; la recherche de V. Propp est, à cet égard, exemplaire et prometteuse, qui définit le conte « merveilleux » en en donnant sa formule grammaticale (mor¬ phologique et syntaxique).
6. La composante sémantique 6.1. La théorie actantielle du récit ne saurait s’en tenir au seul point de vue de la forme (grammaire), elle doit également situer la composante sémantique que l’on définira provisoirement comme l’uni¬ vers conceptuel exploité par la narration. Les unités afférentes à ce deuxième niveau peuvent faire l’objet de deux types de lecture: soit hors contexte, soit en contexte. Prenons par exemple l’unité BONNE dans les expressions suivantes: une bonne épouse une bonne récompense 22
338
Joseph Courtes
une bonne recommandation une bonne cuisine une bonne soirée une bonne nuit. Dans chaque cas, la même unité BONNE s’inscrit dans une relation signifiante différente, avec cependant un certain dénominateur com¬ mun (= marque positive d’estimation) qui permet de la reconnaître comme telle. De même, l’unité MAISON pourra-t-elle prendre place en des réseaux contextuels différents, selon qu’elle apparaîtra dans le discours de l’agent immobilier (maison = lieu d’investissement financier), de l’architecte (maison = objet de construction), de la famille (lieu d’habitation), du Women’s Lib (lieu de répression de la femme) ou de l’enfant qui s’est égaré...: toutefois, dans ces di¬ verses positions, elle conserve un élément de signification commun qui la distingue positivement de toute autre unité: comme le con¬ firme le dictionnaire (français) par sa pratique des définitions, le sens d’un terme n’est pas réductible à son seul usage contextuel (au cas contraire, nous pourrions nous contenter de simples concordances). Ces deux exemples montrent qu’une unité conceptuelle (BONNE, MAISON,...), considérée isolément, se définit comme un noyau per¬ manent auquel s’adjoignent des sèmes contextuels qui la rendent capable de s’intégrer dans des récits différents; bien entendu, dans le cadre d’un discours donné, et à un point de la chaîne, un noyau ne saurait s’associer généralement (sauf en littérature, et plus encore en poésie) plusieurs sèmes contextuels (surtout s’ils sont incompatibles entre eux): sinon, l’énoncé deviendrait vite ambigu et la communi¬ cation du message (du conte) impossible. Dès lors, deux directions de recherche s’ouvrent devant nous, a) l’une relative à la distribution des sèmes contextuels, b) l’autre au jeu qu’entretiennent entre eux les divers noyaux qui parsèment le récit; ces deux types d’organisa¬ tion obéissant à des règles de fonctionnement absolument différentes. a) Considérons les quelques expressions suivantes, supposées éparses dans un conte donné (ou dans plusieurs de ses variantes): (la bonne fille se montre aimable) 1) en répondant poliment 2) en donnant à manger, à boire... 3) en accordant son aide
Sémiotique et théorie actantielle du récit
339
4) en prenant soin des enfants 5) en étant bonne envers un chien. Il s’agit ici de diverses unités qui établissent un même niveau
isotopique qui fonde l'homogénéité ou la lisibilité du récit: si leurs noyaux sont différents (« répondre poliment » ^ « donner à man¬ ger »), elles ont cependant en commun un sème contextuel identi¬ que — la /bonté/ — qui peut être repéré ou désigné du fait de sa présence réitérée. Notons bien, en passant, que les noyaux sont auto¬ nomes par rapport au contexte:
ainsi le DON de l’expression 2)
n’est pas nécessairement lié à la /bonté/ (on pourrait avoir dans un autre texte: « il lui donna un poison » = DON + /méchanceté/). Nous retiendrons surtout que le sème commun permet de regrouper contextuellement l’ensemble des unités mises en jeu — qu’elles soient qualificatives (« en étant bonne ») ou fonctionnelles (« en pre¬ nant soin », « en donnant à manger ») — sous une seule unité thé¬
matique (la /bonté/) dont elles sont les supports ou les modalités d’expression. Dans cette perspective, proposée par A.J.
Greimas
comme axe de recherche, nous nous permettrons de définir l’unité (ou le rôle, si l’on se place du point de vue des personnages) théma¬ tique comme la réduction d’un ensemble d’unités qualificatives et/ou fonctionnelles à une catégorie (ou un agent) qui les subsume comme
autant d’expressions (ou expansions définitionnelles) virtuelles pos¬ sibles (ce qui rend compte, entre autre, de la possibilité de faire des résumés, et du jeu des variantes). Et de même que tous les éléments syntaxiques sont récapitulés dans les rôles actantiels et pris en charge par les acteurs (cf. supra), de même le regroupement des unités sé¬ mantiques, opéré sur la base contextuelle, conduit à dégager des
rôles thématiques, également assumés par les personnages: c’est donc ainsi dans les acteurs que s’articulent les deux composantes gramma¬ ticale et sémantique. b) Sans entrer ici dans l’étude des rapports qui régissent la distribution et l’organisation des noyaux dans un récit donné (ils constituent les codes dans les Mythologiques de C. Lévi-Strauss), nous voudrions seulement souligner que les unités de ce genre sont susceptibles d’ouvrir ou de prolonger — indépendamment du con¬ texte — différents parcours spécifiques, entraînant dans leur sillage d’autres figures apparentées. Pour en revenir à notre illustration pré¬ cédente, il n’est pas difficile d’imaginer des enchaînements compiè-
\
340
Joseph Comtés
•
mentaires de cet ordre, avec des développements non pertinents à la suite de l’histoire racontée: — donner à manger / un morceau de / la miche de pain / que la mère a fait cuire / dans le four /... — donner à boire / un verre d’eau /de la fontaine / à quel¬ qu’un assoiffé / par une longue marche /... Comme on le voit sur ces exemples construits, il y a une cer¬ taine ordonnance (par affinité sémantique: fontaine — eau — bois¬ son) des noyaux, qui nous éloigne de plus en plus de l’unité théma¬ tique qui les a rendus possibles. C’est pourquoi, en forme plus générale, nous reconnaîtrons que les unités qualificatives ou fonctionnelles sont prises, pour ainsi dire, entre deux tendances opposées: d’un côté, elle représentent l’investis¬ sement sémantique des personnages et peuvent être synthétisées en quelques unités
thématiques (vraisemblablement peu
nombreuses
dans un récit donné) directement articulable s sur les rôles actantiels, de l’autre elles sont comme tentées de se prolonger en s’associant des éléments conjoints; d’une part, dans une perspective syntagmatique, le contexte tend vers une plus grande homogénéité en im¬ posant une organisation thématique restreinte, de l’autre — selon l’axe paradigmatique — les unités conceptuelles mises en jeu es¬ saient, de par leur noyau, de se soustraire à ce contrôle pour se déve¬ lopper selon leur logique propre. 6.2. Il faudrait ici noter au moins que le dictionnaire conceptuel (mis en oeuvre dans le récit) paraît renvoyer à une articulation socio¬ culturelle du monde ou de l’expérience, et que si nous l’avons consi¬ déré jusqu’ici comme la « substance du contenu » — opposée à la « forme » qu’est la grammaire — ce n’est finalement que de manière abusive et inadéquate:
en rigueur de termes, le dictionnaire con¬
ceptuel qu’exploite le récit, semble être déjà en réalité une (autre) forme du contenu, culturellement déterminée ou organisée à un autre niveau. En ce sens, nous n’aurons donc jamais accès à la « substan¬ ce » du contenu (pas plus d’ailleurs qu’à celle de l’expression), car elle ne nous est jamais perceptible qu’à travers une forme, elle-même toujours variable selon les cultures, les points de vue adoptés et les moments de l’histoire: ce qui exclut a priori l’établissement ferme et définitif d’une sémantique générale (dont Hjemslev lui-même recon¬ naissait qu’elle se situe entre la linguistique et les autres branches
Sémiotique et théorie actantielle du récit
341
de 1 anthropologie sociale). La substance du contenu est, à la limite, une entite vide de sens, ou, plutôt, elle n’est pas encore sens:
elle
correspond en quelque sorte au chaos sémantique primordial (conti¬ nuum indistinct) que la grammaire a pour tâche d’articuler, de ren¬ dre signifiant, en y découpant des unités qui n’ont de sens que dans leurs relations mutuelles. Dans cette perspective, par exemple, « la narrativité considérée comme l’irruption du discontinu dans la per¬ manence discursive d’une vie, d’une histoire, d’un individu, d’une culture, la désarticule en états discrets entre lesquels elle situe des transformations » (A. J. Greimas, in Les objets de valeur). Dans cette nappe indifférenciée qu’est l’univers sémantique d’un récit, la syn¬ taxe — qui est, selon le mot d’A.J. Greimas, « la seule manière d’imaginer la saisie du sens » (id.) — délimite les termes par les réseaux de relations qui les constituent comme tels. Dans un récit considéré, les unités sémantiques ne sont pas données d’ailleurs (com¬ me si elles provenaient d’un découpage conceptuel préalable et dé¬ cisif — celui du dictionnaire de la langue, par ex. — qui leur affecte¬ rait déjà une « valeur » — au sens de F. de Saussure): elles ne se définissent (ou se délimitent) en réalité que par leur jonction et leur position syntaxiques. C’est pourquoi un terme donné (un nom de personnage, d’objet, de plante...) ne trouve sa signification que dans et par la relation syntaxique qui le prend en charge; en dehors du contexte où il figure, il n’est que seule virtualité. D’où l’erreur de ces analyses qui pren¬ nent appui sur des éléments isolés, extraits du niveau de la mani¬ festation, en oubliant le réseau syntaxique sous-jacent qui les définit. L’on comprendra alors pourquoi la sémiotique ne s’intéresse finale¬ ment qu’à l’organisation des relations: si elle mentionne la composan¬ te sémantique, ce n’est que comme un arrière-fond indispensable, comme un présupposé nécessaire à son propre développement. D’au¬ tant plus que l’univers sémantique (comme tel) est toujours fuyant: il est toujours, et à l’infini, la forme d’une forme (comme en témoi¬ gnent par exemple les différents types de discours — qui sont autant d’articulations — qui peuvent être tenus à propos d’un événement ou d’un secteur de l’expérience). Cela ne veut pas dire pour autant que la zone sémantique occupée par un récit donné, par le mythe ou le conte, ne soit pas importante, au contraire. Lorsque A. J. Greimas affirme que la syntaxe « est la seule manière d’imaginer la saisie du
342
Joseph Courtés
sens », il rappelle qu’elle est ce qui rend possible le sens, non ce qui le constitue: le sens est, en effet, et conjointement, dans la gram¬ maire et dans l’univers sémantique, ou — plutôt — dans l’articula¬ tion que la première impose au second. Il n’y a donc pas là une mésestime ou un oubli de la composante sémantique:
simplement,
celle-ci ne saurait s’appréhender hors d’une forme grammaticale. À la limite — et c’est la tâche que se donne la sémiotique — l’on peut
étudier les relations syntaxiques pour elles-mêmes, indépendamment des champs conceptuels dans lesquels seulement on les rencontre concrètement à l’oeuvre. Par contre, l’approche du « sémantique » (considéré isolément) est absolument et radicalement impossible dans la perspective sémiotique: le sémantique est à reverser au compte des sciences anthropologiques.
7. Remarques sur la structure élémentaire de la signification Dans « Les jeux des contraintes sémiotiques » (in Du sens), A. J. Greimas et F. Rastier ont jadis proposé pour le niveau le plus profond ce qu’ils appellent « la structure élémentaire de la signifi¬ cation » {figure 2) — qui articule un univers sémantique S en deux éléments si et s2, opposés et complémentaires —, mettant ainsi à notre disposition un instrument d’analyse particulièrement intéres¬ sant: il s’agit là d’un modèle sémiotique, avec ses lois de fonction¬ nement, et l’illustration concrète qui nous en est donné ne manque S
S
pas d’attrait. Certains, il est vrai, ont pu reprocher à ce carré sémio¬ tique de prendre appui sur des concepts de la logique classique, tout en s’en écartant sur certains points: ainsi par exemple en inversant (éventuellement) le sens de l’implication (de non-s2 vers si, et non
Sémiotique et théorie aetantielle du récit
343
inversement), et plus encore en proposant un terme complexe (S), alors que dans la ligne de R. Blanché, il est clair que l’union disjonctive de deux éléments réellement contraires si et s2 est radica¬ lement impossible:
« excité » et « déprimé » ne peuvent se super¬
poser pour donner « cyclothymique » (ce dernier terme indique seu¬ lement, dans la linéarité temporelle, l’alternance des états « excité » et « déprimé », mais non leur impossible conjonction). Mais, par ail¬ leurs, cette « structure élémentaire de la signification » ne s’éloigne que partiellement de sa référence formelle, puisqu’elle met explici¬ tement en jeu les trois relations fondamentales: contrariété (entre si et s2, et entre les subcontraires non-sl et non-s2), contradiction (entre si et non-sl, entre s2 et non-s2) et implication (entre si et non-s2, entre s2 et non-sl). Vouloir dénoncer ici une incohérence présupposerait que l’on prenne pour norme ou critère la distribution que propose la logique classique. Or il n’est précisément pas du tout sûr que celle-ci soit apte à rendre compte de l’organisation grammaticale du récit, pour laquelle — semble-t-il — d’autres modèles plus adaptés vont, en fait, devoir s’imposer. N’oublions pas, en effet, comme nous le rap¬ pelions ci-dessus à propos de l’union disjonctive, que la réflexion de la logique classique n’arrive jamais à penser les contraires qu’en tant qu’ils sont disjoints: de la sorte, elle apporte des éléments d’articu¬ lation et de conceptualisation très précieux pour une analyse syntagmatique. Toutefois, elle laisse de côté une approche paradigmati¬ que des contraires: ce qui, sur ce point, la disqualifie par exemple pour une étude de la pensée mythique dont l’une des caractéristiques essentielles, comme l’a si brillamment montré C. Lévi-Strauss, est de
conjoindre des éléments opposés. On voit alors que la tentative d’A. J. Greimas et F. Rastier consiste exactement à tenir compte des deux points de vue, paradigmatique et syntagmatique; on ne saurait donc leur reprocher de prendre où ils les trouvent les outils conceptuels dont ils ont besoin, et de les remodeler éventuellement selon les nécessités de leur nouveau champ d’exercice:
ne peut-on
pas légitimement présupposer, ne serait-ce qu’à titre d’hypothèse de travail, que la sémiotique a sa logique propre? Remarquons enfin — et ce n’est pas son moindre avantage — que ce modèle, postulé comme clé de voûte de la signification, peut fonder simultanément aussi bien la distribution syntaxique (nous y avons fait précédem-
344
Joseph Courtes
ment allusion à propos des opérations logiques de la grammaire fon¬ damentale) que l’organisation de l’investissement sémantique: c’est pourquoi, nous avons tenu à le replacer ici, au terme de cette som maire présentation de la théorie actantielle du récit \ Pour notre part, nous n’ajouterons qu’une ultime observation, relative à la conjonction des termes contraires si et s2, qui, à la différence du terme neutre (non-S), paraît faire le plus de difficulté. Cette élaboration d’un terme complexe n’est évidemment pas de na¬ ture logique (au sens habituel du terme), elle est incompatible avec un discours (dit) sensé, cohérent, dont le propre sans doute est d’éli¬ miner au maximum l’irrationalité du vécu. L’union des termes con¬ traires a vraisemblablement un statut spécifiquement pragmatique (tout acteur pouvant allier deux composantes opposées, voire con¬ tradictoires, comme en témoigne la pratique psychanalytique par exemple, avec le jeu qu’elle décèle, dans un sujet donné, entre le discours manifeste et la parole de l’autre), correspondant à la situa¬ tion concrète et complexe des personnages ou à leur contenu ambi¬ valent. Tel est le cas du héros qui, doué d’une puissance magique qui en fait le futur vainqueur, se présente au tournoi faible et sans pres¬ tance, son apparente /faiblesse/ masquant sa véritable Torce/. Cette conjonction des termes contraires est assez difficile à réaliser dans le déroulement linéaire du récit (où les éléments ne peuvent se présen¬ ter que l’un après l’autre), d’autant plus qu’à la différence d’un espa¬ ce sauvage (cet ailleurs des rites d’initiation, qui peut confronter ou
conjuguer simultanément des forces directement opposées:
vie et
mort, par exemple), le tournoi est un lieu hautement contrôlé, puisqu’il est à la fois concours, spectacle et jugement: d’où pour le conteur la nécessité de recourir à un subterfuge, ici par exemple à un dédoublement selon l’être et le paraître, s’il veut essayer d’échapper à 1 union de deux qualifications que l’auditoire juge narrativement incompatibles dans une simultanéité. Ailleurs, ce décalage entre l’ap¬ parent et le cache (ou le visible et l’invisible) se traduira d’une autre manière: cf. ce motif de S. Thompson: « les guerriers tués pendant le jour ressuscitent pendant la nuit» [Index, E. 155.1) où la co-présen-
1 Pour 1 explication détaillée de ce modèle et pour sa mise en oeuvre au niveau des deux composantes sémantique et grammaticale du récit, se reporter à Du sens: «Les jeux des contraintes sémiotiques», pp. 135-155; «Éléments d’une grammaire narrative », pp. 157-183.
Sémiotique et théorie actantielle du récit
345
ce des éléments mutuellement exclusifs /vie/ et /mort/, oblige à une dissociation temporelle que l’on peut même concevoir en forme alter¬ native et indéfinie. Rappelons également le cas analogue de ces con¬ tes où le héros apparaît (régulièrement) de jour comme monstre, et qui — chaque nuit — devient prince charmant. Ces divers exemples et la manière dont ils sont narrativement traités, nous incitent à penser que le procédé stylistique utilisé au plan de la manifestation n’est qu’un biais pour tenter d’esquiver ou pour atténuer la con¬ jonction des termes contraires que prescrit le niveau profond (là où — indépendamment de la consecution linéaire du récit, du texte ou de la chaîne verbale — se situe la perception intuitive ou directe du sens: comprendre, c’est au moins saisir ensemble et en même temps)
346
Joseph Courtés
DISCUSSIONE
Sabbatucci Ho ascoltato con molta attenzione la lezione, per me è una lezione, di lettura scientifica di un mito (di un qualsiasi testo, possiamo dire, ma come lettura scientifica di un mito qui è presentata). Con atten¬ zione e interesse, per un motivo molto semplice: perché non c’è quel tipo di opposizione che lei ha posto tra lettura scientifica e lettura storica. Non c’è perché non esiste un tipo di lettura « storica ». (Ho l’impressione che nasca sempre un equivoco quando ci si presenta come storici). Non c’è una lettura storica; ci può essere soltanto una lettura scientifica del mito. Poi c’è il recupero alla storia di quanto è stato letto, di quanto è stato compreso scientificamente.
Courtes Je ne me prononcerai pas sur le statut de l’histoire, de la pratique historique dans son rapport enfin épistémologique avec d’autres types de sciences...
Sabbatucci Ma io riconosco la preminenza di una scienza mediante la quale possa leggere obiettivamente un testo per poi recuperarlo alla storia. Recuperare alila storia cosa vuol dire? Non significa dire « quando, in che data è successo » ma significa conoscere o individuare una deter¬ minata cultura. Se io non riesco neppure a « conoscere » i testi prodotti da una cultura, a che mi servirebbe per 'il suo recupero alla storia la sola delimitazione cronologica? Quindi io sono molto attento a qual¬ siasi metodo, a qualsiasi scienza (non filosofia!) del linguaggio. Per quanto io possa utilizzarla coinè strumento per il recupero alla storia di una certa realtà. Dicendo « recupero alla storia », io relativizzo ogni realtà al nostro modo di comprendere; non dico che la storia è un assunto; non dico che è il solo modo di comprendere; ma dico che è il modo della cultura occidentale, ossia il « nostro modo ».
Discussione
347
Burkert
Je voudrais faire quelques remarques sur le modèle actantiel du récit de Mr. Greimas: dans la mythologie grecque je trouve des actions — ou des « fonctions » — importantes comme, par exemple, union sexuelle et meurtre, que je ne retrouve pas dans ce modèle, en tout cas pas dans leur place propre. Ce modèle n’est donc pas uni¬ versel; il y a plusieurs types du récit, dont ce modèle n’en explique qu’un. D’autre part, le modèle est trop général: ce serait une descrip¬ tion parfaite de la poste italienne, avec les grévistes comme opposants; mais c’est ni récit ni mythe. Finalement, quelle est lia différence entre récit quelconque et mythe? Dans le mythe — comme dans la métaphore — je vois deux niveaux de signification, un sens primaire du récit traditionnel et l’emploi du récit dans un contexte historique, sociolo¬ gique, politique ou métaphysique. Un modèle du mythe devrait donc être beaucoup plus compliqué.
MYTHOLOGY AS SIGN-SYSTEM
Mihaly Hoppâl
This paper has not been prepared specifically for the present symposium. Originally it was intended as an outline of the new trends in comparative mythology in the Soviet Union.
Therefore
one will not find any immediate connection with the Greek mytho¬ logy. But I think it would be worthwile to review the recent results of the Soviet mythological research.
Because, in my opinion, there
has been some very interesting developments in Russian mythological research which are still not very widely known in the West due to language problems and the limited accessibility to Russian pub¬ lications in mythology.
Our starting point is:
« Semiotics is a new science the subject of which is any kind of systems of signs used in the human society...
In the near future,
semiotics will undoubtedly obtain an important place among the sciences and determine the perspectives of the development of mo¬ dern science ».
We quoted the words of V.V. Ivanov, from the
preface of a small volume which published the abstracts of the first symposium on semiotics held in USSR.
Soviet linguists, experts of
the theory of literature and research workers of some other hu¬ manities realized the truth of the quotation at the very beginning of the sixties. They tried to base their studies upon the fundamental principles of semiotics.
A number of young scientists have been
oriented to the study of certain details of the problem so that various separated partial fields of social life, codes
of « everyday life »
(traffic signs, etiquette, games, poems, myths) have also been taken and analysed.
Since 1962 these studies have been regularly pub¬
lished in Tartu. J.M. Lotman, one of the organisers and leaders of semiotic researches in USSR, teaches at that University.
The regularity is also
Mihaly Hoppâl
350
proved by the fact that every second summer in Tartu, more pre¬ cisely in the neighbourhood of Tartu, summer seminars are held with numerous lectures, the abstracts and theses of which appear in a mimeographed form, while next year the elaborated studies will be published in the edition of the University of Tartu. That is why this group of Soviet scientists is also called the « Tartu semiotic school ». The tracing back of the « historical antecedents » brings us right to the time just before, during and after the revolution, to the golden age of the so-called « Russian formalist » school. Between 1920 and 1940 a few works appeared on the theory of art and mainly literature which were discovered again only in the sixties. During the intermediate decades, owing to known historical events and prin¬ ciples of cultural policy, these works were overshadowed.
« Habent
sua fata libelli » — nevertheless the books had their effect and at the beginning of the sixties those who wanted to make the notions of cybernetics and information theory profitable also in the field of human sciences, during their search for the antecedents recognised that many inventions believed as modern could be found already in these early works. We have no place here to expatiate on these antecedents — but two names must be mentioned, that of S. L. Vigotsky and V. Ya. Propp.
The thoughts of the Russian psychologist who died early
in life harmonize just as the latest establishments of semiotics.
He
pointed out the important role of signs in human culture quite definitely, especially the relationship between the word, as a sign and thinking.
He says that only man can make use of the self-
created stimuli as signs to coordinate the processes of his own behaviour.
Sign-systems created by man are always
of social relations, but these relations are very complex.
the
means
An easier
understanding can be reached by the « socially accepted (institu¬ tionalised) languages » such as the spoken language, gestures, lays and etiquette as well as religion. Modern research examines these languages and the first step is the definition of the constructive elements.
Propp, as a folklorist,
discovered the complicated contact net of elements on the basis of Russian folk-tales.
His utmost thorough and logical ’Morphology'
is an early but even today not discredited example of formal analysis.
351
Mythology as sign-system
In the sixties he created quite a fashion with analysis.
this
method of
After this short introduction, now I want to discuss in greater detail the three topics that I just outlined.
Namely, 1) theoretical
foundations (of semiologioal approach to mythology), 2) Slavic and Indo-European mythology and finally I’ll end with some concluding remarks.
1. Theoretical Foundations, Theory and Practice We have meditated on what title to give the succeeding chapter of our paper expressing on the one hand the varied interest of the Russian scientist and, on the other, referring to the fact that most of the papers deal with theoretical questions — since the bases of introducing semiotics in comparative and altogether the mythological research had to be established.
This work demands theoretical fun¬
daments, so below, a few such basic papers will be shown in a somewhat more detailed way because such problems are not to be found with other representatives of comparative mythology. 1.1.
One of the first such studies which have brought some¬
thing new into this field, the work of three authors, has appeared in a volume edited by T. N. Molosnaya.
They set out from the state¬
ment by which the subject of semiotics is the various sign-systems modelling the world in a differing form from another.
The models
can differ and can be defined with the degree of abstractness: e.g. a mathematical system may be very abstract but does not model very much, while the system of religion may not be so abstract but can model very much.
The linguistic systems are to be found between
mathematics and religion.
The authors (A. A. Zaliznak - V. V. Iva¬
nov - V. N. Toporov) deal with the latter two because they have the further aim to formulate a new research method — which they call semiotic — for the analysis of myths. They have an interesting statement:
in almost all religions
examined by them certain phenomena occur in a similar or the same « semiotic » situation even if there is no relationship between the cultures in either space or time.
The religious « message » (as it is
called in the usage of information-theory) or text appears in these situations.
352
Mi hai y H op pài
In various religions the messages can differ both in content and form.
But they correspond to one another in two respects:
first, people most often want to make contact with «superior » beings — even if this communication is hopelessely one-sided —, second, the message is told in one « language » but in many codes at the same time. What does « in many codes » mean?
The point in ques¬
tion is simply the fact that during a religious ceremony not only words are uttered, but in most cases, certain gestures (bowing, genuflection, crossing oneself), possibly dancing are also included. Not to mention the objective necessaries (statues, pictures, clothing, flags, badges) or the forms of ritual eating or drinking during a ceremony. This complex variety of religious rites is not only characteristic of the primitive peoples but it has been retained, even — if possible — further complicated by the religions of the high cultures. Realizing this during the analysis the authors come to the con¬ clusion that the first step is the segmentation and the clearly isolated description of the codes or levels. In the course of description it is expedient to follow the notion of modern descriptive linguistics based upon
binarity,
but
ade¬
quately long texts have to be taken as its starting point. In each text there are stereotype repetitions which give a statistic oppor¬ tunity to make a comparison between the relevant and unrelevant elements.
After the definition of elements we have to aim at the
definition of semantics (meanings of the elements) of the system. It has been pointed out that a synchronic and semantic description of texts based upon solely religious texts cannot offer a fully satisfac¬ tory result — we have to examine its relation with other systems mainly with the social system and at last, but not at least, with language as well. 1.2.
Another such early and basic work is D. M. Segal’s paper
on ’Various problems of the semantic investigation of mythology’. The starting point in this paper is the concept of modelling:
« Se¬
miotic investigation of mythology understands myth as a system of the behaviour of groups of people which, in the brain of the indi¬ viduals of the given communities, models the surrounding world or some parts of it...
The modelling capacity of myths and their effect
on behaviour are determined by the collective character of the system
Mythology as sign-system
333
of mythology. Contact and communication between people becomes possible by the fact that the semiotic system is common to a certain group of people and the members of the group attribute the same meaning to the elements of this system, and the same way they react upon the message of the signs.
It is interesting how groups of people
where myth still belongs to everyday-life are compared to modern people.
The first is characterised by the high level of myth-con¬
nection; the model of behaviour created by myth is concrete and detailed, whereas modern people get in touch with the more com¬ plexly organized world of the environment not directly, but through the hierarchy of sign-systems. mythological analysis:
Segal also defines the measures of
« to underline the sign-elements, to define
the possible hierarchy of the simple and more complex signs, to determine the syntactic relationship between signs; the system thus set up must be interpreted, i.e. signs and their relations must be contrasted with object outside myth.
At last the interpreted system
of myth is to be contrasted with the behaviour of the group which uses it. This kind of a description complying with such requirements will be finished and comprehensive on a synchronic level ». The study of myth on these three levels corresponds to the three main categories of semiotics: syntax, semantics and pragmatics. 1.3.
Another work of D. M. Segal susceptible to theoretical
problems is a short article, published in 1965, in which he studied again the general regularities of modelling semiotic systems. asserted:
He
the global world-models are the results of cultural con¬
vention — in the terms of semiotics they are conventional signsystems.
Such a sign-system can be learned by the elements of
« everyday-thinking » behaviour. they
are
heuristic. thological
and
from
various
« texts »
of
everyday-
These systems can be characterised by facts, whether open,
heterogeneous
or
heteromorphous,
natural
and
At the same time, he also- published a concrete my¬ analysis.
In
it
he
analyses
a
North-American Indian
(Tsimshian) myth and finds a correlation between syntactic semantic structure.
and
An enlarged version of this, the presentation
of the deep analysis was introduced in -the paper prepared for the semiotic symposium in Kazimierz, near Warsaw. For the formulation of his method of analysis he made use ol the descriptive rules introduced by V. Ya. Propp and Cl. Levi23
Mihaly Hoppâl
354
Strauss.
Segal exceeds his masters in that he — like some other
scientists — alloys the various results.
Since 1969 Segal has been
working in a team led by Ye. M. Meletinsky, and he has been mainly occupied with the analysis of tales (fairy-tales). 1.4.
This is the point where Ye. Meletinsky in his works
becomes associated with the new trend of the Soviet mythological research.
He does not call himself a semiotician, he caractérisés his
activity rather as a structural-morphological or structural-typological work.
His last article — especially remarkable — in which he gives
a survey of the results of the folkloristic structuralism, draws up a balance-sheet about the published papers — only a few similarly good surveys have been made until now, and the number of those setting the course of the future tasks is even less.
In a paradox
way Meletinsky’s earlier works are such and in his books we can find the historical way of looking at things which is still missing. In his work which appeared in 1968 he analyses the folkloristic elements of Edda and a structuralistic analysis of style is also per¬ formed, aiming, at the same time, at establishing historical poetics. Earlier he was already engaged in studying the general structure of heroic poems (« oral epic ») taking Chinese, Turkish, Mongol, Cau¬ casian and Mesopotamian as examples. These two works of his are the lasting products of the renewing Soviet mythological research and for their importance they would deserve another study. There is a very interesting paper among Meletinsky’s most recently published works — under the title in English translation: « The Comparative Study of the mythologies of ancient world » (edited in Moscow in 1971).
In this paper he compares the mytho-
logèmes of the creation of world in Egyptian, Sumerian, Chinese and old Indian mythologies.
For example he deals with the figure of
Kronos, who ate his children — this motive can be found in the my¬ thology of Ancient Egypt as well.
According to Meletinsky’s opinion
the mythological way of thinking was the real forerunner of the phi¬ losophical thinking.
The myths of the archaic societies reflect the
basic steps of the social development and also the stages in the development of thinking.
This has been substantiated in the works
of Hesiod where he enumerated the five periods of the history of mankind: the golden age, after silver, copper and iron and finally the age of the Heroes. The present state of mankind is in opposition
Mythology as sign-system
to the Golden Age.
355
But according to the Greek mythological time-
conception, the Golden Age will return. Meletinsky’s opinion is that the Greek myths of cosmogony, theogony and
anthropogony
are very closely connected
to
their
Eastern counterparts (i.e. Sumerian-Accadic, Hettit-Hurrita, Kanaaniic sources). These connections are mostly genetic.
It should be
noted that the myths of cosmogony are not in the most important or central motives of the Greek mythology. 1.5.
It is characteristic of mythological research in USSR
that the sphere of interest is not limited to a few cultures but comprehends quite wide fields.
B. L. Ogibenin, the talented young
orientalist, is engaged mainly with the problems of the meaning of certain sign-systems. So he alludes to the description of the structure and meaning of rites and myths as well as the linguistic problems of description.
He calls collective memory that mass of rules which
works regularly when we want to create « texts » in the code of either rite or myth.
The systematic functioning of the rules can be
traced back to the programmes of behaviour typical in the given society.
The programmes are comprehensive and can be found as
an organising principle both in myth and rite.
Some myths are
performed, i.e. told in the codes of rite, however, in most cases there is a complementary relationship between text and motion. book
’Structure
of
the Mythological
Texts
of
the
His
RGVEDA
-
(Vedic Cosmogony)’ which appeared in 1968 is above all a linguistic and philological description in which the author attempts to interpret the mythological content of RGVEDA, namely he hopes to find the proper way in examining the « language of mythology » with lin¬ guistic methods.
He defines the elements of mythology and provides
them with distinctive features; such an element is most frequently a mythological figure, deity and a statement about it is characteristic — which, in the case of Vedic texts, appears mostly in the form of sentence. The Vedic world concept is very closely connected with or can be deduced from the nature of language, especially the sacred language — because this language i:s very much of a symbolic nature — Ogibenin writes in another paper.
At the same place he asserts:
the basic myth of RGVEDA is that a sacrifice is performed, i.e. gods are presented with gifts.
(By the theory of general semiotics
the sacrifice — as a gift — is a kind of communication; so the Vedic
Mihaty Hop pal
356
mythology describes a communicational-semiotic process).
In other
words: by the help of sacred rites the ’transmitter’ (the man) selects a series of symbols (e.g. gifts of the sacrifice) from the symbolic code which later will serve for settling the contact with the super¬ natural ’receiver’.
The process of communication can be realised not
only in the given natural language or by gestures but also in the form of pictures, visually.
It is especially the world concept — in a
narrow sense — which can be properly expressed by visual represen¬ tation.
2. Slavic and Indo-European Comparisons It is interesting to observe that the main body of the Soviet semiotic-mythological school is constituted by slavists and orien¬ talists.
The two most active scholars, V. V. Ivanov and V. N.
Toporov are the collaborators of the Slavistic Institute, however, once both of them began their career in the field of orientalistics and linguistics and they have arrived at the fields of slavistics and comparative linguistics.
folkloristics through the comparative
Indo-European
Perhaps it would be more precise to state that in their
works these fields have never been separated.
This becomes clear
with their publications to be surveyed below, first the slavistic studies, then materials regarding wider Indo-European problems. 2.1.
Slavic
reconstructions.
«Slavic
Language - Modelling
Semiotic Systems », the joint work of V. V. Ivanov and V. N. Toporov appeared in 1965.
As its antecedents we must know that
in 1963 on the congress of slavists in Sophia, the two authors presen¬ ted a paper (which can also be called a minor monograph) ex¬ pounding the method of reconstructing Old Slavic texts eleborated by them.
The problem was approached as a semiotic question: an
unknown system is given (certain remaining Old Slavic texts and fragments) which cannot be understood totally because we do not know the code necessary for deciphering the message.
We have the
difficulty of decoding just as in many cases with folkloristic texts. Since we already know more and more about the regularity of the generating language if we take these laws into consideration and apply them in the opposite direction in accordance with research in
Mythology as sign-system
357
linguistic history, we shall probably manage to explain the Protoslavic fragmented texts.
The later Slavic oral traditions especially
need to be taken into consideration. Naturally, the authors do not make the error of analysing comparison only on the highest level of texts, on the levels of content; their investigations reach the deeper morphological and phonological levels as well.
The latter can be
taken in many cases as the proof of the analysis of content. phonological structure of Slavic poems comes to be analysed.
So the After
Jakobson, similarly to him, they suppose that the Slavic poems have a determinable phonological structure.
The word-groups found on
the syntactic level also make a certain system. The structure of the volume is the following: in the first part we can find some elements of the Slavic world model and the defi¬ nition of the elements of the so-called RS (RS is an abréviation for Religious System).
They have taken into consideration only the
upper levels of the system (marked with I., this is the level of the main deities). There are three chapters in this part; the first discusses the RS of Eastern Slavs so that the elements are taken one by one (i.e. the main deities, the source-materials concerning them and tales, myths), then the relationship between these elements are described and represented in the form of nets.
The second chapter demon¬
strates the RS of other Slavic peoples in the same way.
Returning
to the question of reconstructing the ancient Slavic religious system, the authors sum up the system of oppositions in 17 points with the help of which the whole god-system can be constructed.
These op¬
positions are: fortune-misfortune, life-death, up-down, heaven-earth, earth-under, North-South, East-West, day-night, spring-winter, sunmoon,
white-black,
red-black,
earth-water,
near-far,
house-wood,
man-woman, saint-profane. In connection with these oppositions, some very interesting statements can be found in a recent article of Ivanov: « In the An¬ cient Mythologies the model of the universe has an important feature that is the so-called double symbolic classification (two sets of oppo¬ sing symbols).
Universal mythological oppositions of this kind are
the opposition of day and night, and the oppositions of seasons (for example: summer-winter, or spring-autumn).
The last opposition is
very important in the myths and rites of several peoples’ mythologies
Mihaîy Hop pal
358
because the seasonal or transitional rites (rites de passages) are regulated by them. »... « In the archaic societies — especially in Greece — the concept of TIME was imagined as a category which is able to synthesize mythological oppositions (mentioned above: day-night, life-death, summer-winter).
In these ancient societies the
mythological time was distinguished from the so called historical time (in this sense the mythical time can be seen as prehistoric time). The Pythagorean theory on the cyclically recurring schemes of num¬ bers based on the concept of time which is the synthesis of my¬ thological oppositions.
These early Greek ideas on the recurring
time-cycles are related to the above mentioned « double classifi¬ cation » which can be found in the works of Pythagoras and Hera¬ clitus as well as in ithose of their followers. »
The two previous works prepared a number of studies in which the two authors aim at reconstructing the whole system (and not only the old RS of Slavic mythology). have been done.
Accordingly details of studies
E.g. the material of the Bielorussian folklore was
subjected to a thorough analysis.
In the meanwhile the methods of
the formal description of folkloric works were elaborated and myths as well as rites were analysed simultaneously, the results of which were summed up in a minor monograph-like study in 1970.
In the
series of their other reconstructing experiments we have to mention one in which data regarding ‘Veles-Volos’, a Slavic deity, are svste matised, and two others in which Toporov strives to enlighten the relationships between the Baltic and Slavic folklores. V.N. Toporov’s other work, the reconstruction of the « world-egg myth », shows towards wider comparatistic horizons. 2.2.
Indo-European parallels. The reconstruction of the Slavic
mythological system cannot be imagined without the study of IndoEuropean parallels on the one hand, and on the other, turning the problem the other way round,
the reconstruction of
the
Indo-
European mythological system also needs the knowledge of the sub¬ systems. Ivanov and Toporov were directed by this double idea in writing a dozen Indo-European studies. mainly Georges
DuimzU’s
The two authors follow
example but they also make use of Roman
Jakobson’s directions formulated on the 7 th Congress of anthropolo¬ gists in 1964 (International Congress of Anthropological and Eth-
Mythology as sign-system
359
nological Sciences) with the title « The Linguistic Evidence in Com¬ parative Mythology ».
First of all we have to mention Ivanov’s two
earlier works and his short paper about the development of signsymbols with a special reference to the Indo-European mythology. This scheme which appeared among the theses of the 1968 Summer Seminar, shows that the Siberian and Slavic materials are followed by the Indo-European ones. tics » appeared in 1969.
The 4th volume of « Works on Semio¬
In the first chapter of the volume such
articles are published which, according to the presented principles, consider myths, religion and — in general — folklore as a modelling system, that models the surrounding world. The series of studies begin with an article by Toporov in which he strives to reconstruct an IndoEuropean ritual-poetic formula by the help of an incantation material. Speaking about the possibility of such a reconstruction he expresses his conviction that the reconstruction is possible — he quotes Hittite, Ancient Greek, Celtic, Indo-Iranian and Baltic materials as well — thus in the notes a comprehensive bibliography is given for the inves¬ tigation of incantation.
In the same volume V. V. Ivanov comments
on the typological and historical comparative research of the Roman and Indo-European mythology. It is not a finished work, but the very thorough treatment of details of problems will make the foundation of a comprehensive work.
Beside the Roman material, the myths and rites of the Etrus¬
can and Anatolian peoples are also drawn into the comparison.
It is
interesting to observe how he finds ideas which meet the modern theories in the work of the great master, Georges Dumézil. V. N. Toporov has also published two shorter studies: « Paral¬ lels to Ancient Indo-Iran Social and Mythological Concepts ».
The
starting point is that investigations have already found many common elements in the Slavic and Indo-Iranian vocabulary for the expression of social and religious concepts.
In the first part of the article he
proves the parallels between the vocabulary of Avesta and that of Mithra, while in the second part he deals with the relevant elements, etymology of the names of the figures and the mythological sig¬ nificance of a Russian folk-tale (Aarne 301 A, B). Among them he deals with the underground serpent — he further developed this theme in his joint article with Ivanov.
Mihaly Hop pài
360
3. Concluding remarks As it was stressed earlier, the comparative mythological work of V. V. Ivanov and V. N. Toporov cannot be separated from their linguistic activity — but this statement is true not only for them but also for the Soviet semiotic school on a whole.
But this strong
linguistic orientation — in our opinion — is benefited by research. For the future it is encouraging that the sphere of interest for com¬ parative mythology is widened rather than narrowed and tries to find the possibility and the direction of further development in the field of ‘ethnolinguistics’.
The basic principle of ethnolinguistics, so
popular in America, is that 'the language used by the society has a decisive influence on the various manifestations of culture. these fields
where
this
phenomenon can
be
easily
One of
observed
is
mythology itself while in the so-called high cultures it is the religious consciousness. The semiotic investigation of mythology, i.e. its interpretation as sign-system, is a new thought or, if you like, invention of the Soviet scientists surveyed above.
At last I should like to draw the
attention to the work of the leading personality of the MoscowTartu « semiotic school » who lives in Tartu: J. M. Lotman.
He
examines the whole cultural framework and investigates culture itself as semiotic mechanism {as sign-process = semiosis, in the sense of Ch. S. Peirce), the aim of which is the storage, preparation and retrieval of the information. The retrieval of information is carried out by the help of certain texts.
Mythology is only one of the texts.
Lotman draws the attention to the not widely known fact that each science has to develop its own meta-language.
The Soviet
colleagues have successfully formulated the meta-language of mytho¬ logical description but, as we have seen, besides theoretical and methodological works they have done concrete analyses as well. From Sanscrit texts to Russian folk-tales, from Abhasian children’s game to Bielorussian agrarian rites and to the classical Greek and Roman mythology they have examined a lot to test their methods.
That is
why this manifoldness proves the wisdom and thoroughness of their research and this gives their authority, too. Now I should like to conclude this outline with the following question: why and in which way is mythology a sign-system? Today it is a commonplace wisdom that the language,
the
Mythology as sign-system
361
natural language is a sign-system. According to the findings of the Soviet semioticians, each sign-system based on the language is called « secondary modelling sign-system ». Mythology is one of them. In mythology, language is the primary sign-system. For example, in Greek mythology, every mythical figure symbolizes certain forces, values, ideas — their « signifier » function within the whole system. And last but not least within the Greek and in other mythologies as well there are the dual semiotic oppositions, as system-organising forces. (This point has been substantiated by Ivanov and Meletinsky in their article that 1 referred to, above). The very presence of these binary oppositions makes mytho¬ logies very similar to the language; and this allows us to look at mythology as a sign-system.
\
*
»
ETHNOLOGIE ET ANALYSE DES MYTHES GRECS
Pierre Smith
J’interviens ici en tant qu’ethnologue qui s’est occupé d’ana¬ lyser des mythes, et spécialement des mythes recueillis sur le terrain, dans des sociétés d’Afrique noire. Ces mythes ne sont pas intrinsè¬ quement différents, en qualité, en profondeur, en richesse symboli¬ que, en intérêt narratif, de ceux qu’étudient les hellénistes. Les dif¬ férences se situent ailleurs et je crois que les hellénistes devraient en prendre une claire conscience pour surmonter certains de leurs problèmes, car presque tout ce qui fait, à leurs yeux et aux nôtres, le prestige particulier de leur objet, constitue en fait un désavan¬ tage du point de vue des méthodes d’analyse. Les mythes sont d’abord la cristallisation d’une pensée et ce sont les articulations de cette pensée que l’analyse cherche à dévoiler. Alors que les ethnolo¬ gues recueillent des mythes de la bouche de gens et dans des so¬ ciétés pour qui ils continuent d’être la référence essentielle, les hellé¬ nistes travaillent sur des textes écrits le plus souvent à des époques où la pensée qui les avait animés n’était plus de mise et par des gens qui s’en servaient alors dans des buts fort différents de ce qu’avaient pu être leurs fonctions à l’époque où ils n’étaient pas encore considérés commes des « mythes », mais comme le fonde¬ ment d’une vérité et d’une croyance. Le contexte ethnographique si important pour l’analyse est en grande partie perdu pour vous et cela ne peut être compensé, à mon avis, que par des inférences faites à partir du travail de ceux qui sont confrontés, eux, à un contexte vivant. Un autre désavantage relatif provient de l’illusion qu’engendre la place très particulière des mythes grecs dans notre culture. Le fait que, sans y fonctionner vraiment, ils aient été sans cesse cités, repris et étudiés par une immense tradition depuis des siècles, leur confère une aura brillante qui, sans les éclairer aucunement, nous
364
Pierre Smith \
>
donne l’impression qu’ils sont déjà en partie compris, qu’ils font partie de notre héritage et qu’il ne suffit pas de grand chose pour les faire nous parler. Et de fait, les mythes grecs, à la différence des mythes hopi ou yoruba, peuvent servir à nous parler de mille choses qui nous concernent aujourd’hui (cfr. Freud, Sartre etc.) sans pour autant nous parler d’eux-mêmes. Les mythes exotiques ramenés par l’ethnologue n’entretiennent pas cet intérêt ou cette illusion, et si nous ne parvenons pas à les rendre parlants, ils ne nous servent à rien; personne n’a même vraiment envie de les lire. Pour compren¬ dre, pour faire parler des récits qui a priori nous semblent souvent totalement hermétiques ou gratuits, nous sommes donc forcés de nous rendre compte que notre analyse doit s’appuyer sur une théorie de ce qu’est le mythe, en lui-même et parmi les autres productions culturelles, et sur des méthodes conséquentes avec ces hypothèses. Nous serons obligés aussi de constater qu’une théorie, celle qui est fondée sur l’hypothèse la plus féconde et qui fait parler le mieux le plus grand nombre de mythes pris dans leurs contextes ethnogra¬ phiques différents, est meilleure qu’une autre. Quand Lévi-Strauss a pu nous démontrer que les mythes jouaient simultanément sur la valeur physique et la valeur sémantique attribuée aux êtres et aux objets qu’ils mettent en scène et qu’en outre ces valeurs sémantiques s’organisaient en codes qui renvoient indéfiniment les uns aux autres et permettent de parler d’une chose en termes d’une autre (du pas¬ sage de la nature à la culture en termes de cuisine par exemple), tout le monde ou presque s’est accordé pour reconnaître qu’il avait fait faire un grand pas à l’analyse des mythes quels qu’ils soient et malgré les divergences d’opinions sur certains prolongements de sa réflexion. Ainsi, quand des ethnologues spécialistes de différentes sociétés se réunissent pour parler des mythes, ils apportent chacun une érudition et des mythes différents, mais il y a un certain acquis théorique et méthodologique partagé par tous ou qui peut au moins être discuté de façon constructive. Chez les hellénistes, la situation est inverse: tous partagent à peu près la même érudition et discutent de la même mythologie et ils croient pouvoir aller directement aux textes sans expliciter suffisamment les hypothèses qu’ils choisissent ou refusent. Tout ceci dit, non pas pour décourager les tentatives d’analyse de la mythologie grecque qui, pour les ethnologues euxmêmes, constitue sans doute le sujet le plus fascinant qui soit, mais
Ethnologie et analyse des mythes grecs
.3 65
au contraire, pour inciter à prendre en considération notre contribu¬ tion, comme le font déjà plusieurs, et pour souligner tout l’intérêt de la présente rencontre. Je relèverai maintenant trois exemples. Le premier est celui présenté par M. Burkert. Sensible sans doute à l’impossibilité où il se trouve de reconstituer le véritable contexte ethnographique des mythes qu’il étudie, il choisit de privilégier un contexte qui a beau¬ coup retenu autrefois les ethnologues, le shamanisme et les rituels de chasse qui lui sont liés. Comme ce contexte n’a rien à voir, à pre¬ mière vue, avec les mythes qu’il étudie, ni même avec la Grèce en général, il a recours pour se justifier à une théorie qui fait de ce contexte un
archétype psychique privilégié.
Or
qui
soutiendrait
aujourd'hui une telle théorie? Sûrement aucun ethnologue. Les hellé¬ nistes
auraient-ils
de
meilleurs
arguments,
ou
les
psychologues?
N’est-ce pas là-dessus en tout cas que devrait porter la discussion? Pourquoi faire d’un mythe qui relate un vol de bétail au loin la transformation d’un rite de chasse alors que la razzia du bétail est l’activité favorite de presque toutes les sociétés traditionnelles d’éle¬ veurs qui s’intéressent ou non à la chasse par ailleurs, de façon rituelle ou non, mais qui ne confondent certainement pas les deux activités? Dans ces sociétés, en Afrique orientale par exemple, toutes les relations à l’intérieur du groupe social sont axées autour de la répartition, de la circulation et de la transmission du bétail, et tou¬ tes les relations avec d’autres groupes, autour de la razzia des trou¬ peaux (exploit par excellence, mais non intégré à un rituel) et du contrôle des points d’eau. Si on devait croire aux archétypes, en voilà un qui servirait mieux la cause ici que le shamanisme! M. Kirk, lui, est un homme prudent qui se veut empirique, bien informé et préférant à toute théorie préconçue un éclectisme de bon aloi qui lui fait rejeter les hypothèses de l’anthropologie structurale tout en les utilisant un peu. Ainsi, quand il nous dit qu’Héraclès est marqué par l’animalité, il fait une hypothèse; ça n’est pas dit comme tel dans le texte; il le déduit en particulier du fait qu’Héraclès est peint comme hirsute et il attribue donc, comme nous le ferions, une valeur sémantique à cet aspect physique du personnage. Mais pourquoi s’arrête-t-il là et n’applique-t-il pas la même démarche aux autres parties du mythe? C’est parce que le fait d’être hirsute a encore la même valeur sémantique dans notre cul-
366
Pierre Smith
ture; cela va donc de soi, tandis qu’un animal à trois têtes, nous ne voyons plus très bien ce que ça peut évoquer. M. Kirk dit lui-même qu’il se dirigerait volontiers vers ce champ d’interprétation, mais il s’arrête tout de suite quand il se heurte à l’étrangeté d’une pensée dont le sens ne peut plus être reconnu empiriquement mais doit être déduit systématiquement. Ne se met-il pas alors dans la position de l’éclectique qui pour comprendre une langue étrangère observerait: « Ah! Je reconnais ici un mot anglais! Et cette salutation doit vou¬ loir dire Bonjour, et ce mot-là, d’après le contexte, c’est Merci. Quant au reste, on ne peut pas vraiment être sûr! ». Comprendre une langue étrangère sans dictionnaire et sans traducteur ou manuel est pourtant possible. N’est-ce pas un peu ce que l’empirisme refuse d’admettre ici?
«
Je voudrais enfin revenir au problème de la chasse plusieurs fois mentionné ces derniers jours et qui sert un peu de cheval de bataille à ceux des hellénistes ici présents qui paraissent les moins disposés à dialoguer avec les ethnologues. Pour eux, la fréquence de ce thème dans les mythes ne s’explique que par l’histoire, indépendam¬ ment de toute interrogation sur la nature et la fonction des mythes. Les hommes d’aujourd’hui, y compris les Grecs d’ailleurs, pratiquent toujours la chasse, mais c’est une activité occasionnelle et marginale; on pourrait néanmoins démontrer que la chasse occupe une place bien plus grande dans la littérature, au cinéma et à la télévision que des activités telles que l’élevage des porcs ou des poulets, qui sont pourtant beaucoup plus vitales pour nous et qui, à une ou deux exceptions notables près, ne servent jamais de cadre ou de thème à quelque narration que ce soit. Faudra-t-il encore parler de rémi¬ niscences historiques? La chasse n’a-t-elle pas d’autres vertus pro¬ pres à en faire un champ sémantique privilégié? En Afrique noire, même dans des sociétés essentiellement agri¬ coles depuis aussi longtemps que la Grèce, la chassie, secondaire sur le plan économique, revient sans cesse dans les mythes et les rituels. Elle y apparaît d’abord comme une activité qu’on peut opposer de façon significative à l’agriculture pour mieux faire ressortir les pro¬ priétés de l’une et de l’autre. La première consiste à tuer, comme dans la guerre, et c’est donc une activité spécifiquement masculine. La seconde consiste à faire croître, comme dans la reproduction, et est donc plus féminine. La première est une activité impliquant la
Ethnologie et analyse des mythes grecs
367
mobilité, visant des résultats immédiats, fondée sur l’adresse, la chance et le goût du risque; on en vit au jour le jour. La seconde est une activité sédentaire dont les résultats sont différés; elle est fondée sur le travail, la patience et le besoin de sécurité; on en vit en orga¬ nisant l’année. D’autres activités telles que l’élevage, la pêche et la cueillette, vont alors pouvoir s’inscrire facilement entre ces deux pôles et tout un aspect de la division sexuelle du travail en Afrique est lié à ce genre de considérations. D’autre part, la chasse se subdivise elle-même en multiples façons de chasser qui ont toutes de nombreuses connotations:
on
aura d’un côté, par exemple, le chasseur qui, aidé de ses chiens, force la bête à la course, et de l’autre, celui qui pose des pièges. Le premier, plus animal, comptant sur son corps, voué au danger et impulsif, est livré au hasard des rencontres et il en sera de même avec les femmes. Le second, plus savant, comptant sur des techni¬ ques sûres, réfléchi et prévoyant (comme l’agriculteur) use d’une longue patience pour atteindre son but et il préparera son mariage longtemps à l’avance et avec soin. Entre ces deux extrêmes, on pourra situer le chasseur qui utilise l’arc, le poison, le filet etc... La chasse est un opérateur mythologique privilégié pour d’au¬ tres raisons encore. En effet, partout en Afrique, et sans doute ailleurs, on insiste sur l’opposition entre le monde habité, celui du village entouré de ses champs, et le monde sauvage, brousse, forêt montagne, qui est occupé par les non-humains, c’est-à-dire non seule¬ ment les animaux sauvages, mais aussi les esprits, les génies, les divinités, et la chasse est justement l’activité qui entraîne l’homme le plus loin de chez lui et du monde habité en général; c’est donc l’opérateur par excellence des rencontres avec les mondes naturel et surnaturel qui s’opposent chacun à leur façon au milieu humain, d’où aussi l’importance de la chasse dans les rituels initiatiques. Enfin, reste certainement le fait que la chasse est l’activité éco¬ nomique originelle, celle où l’homme s’est d’abord montré à la fois semblable et supérieur aux animaux. Comme dans les références mythologiques à l’origine du feu de cuisine, de la parure, de la mort, des statuts sociaux, ce n’est pas la force du souvenir historique qui s’impose ici, mais celle de la logique du symbolisme. Illustrons ceci par le mythe d’origine de la société bedik, une petite population d’agriculteurs du Sénégal oriental où j’ai travaillé. Tous les lignages
368
Viene Smith
s’y répartissent entre deux moitiés, les Kamara et les Keita, et c’est la rencontre de ces deux éléments qui est considérée comme consti¬ tutive. A l’origine, dit-on, les Keita erraient dans la brousse et les Kamara demeuraient là où se trouve maintenant le village. Les Keita connaissaient les animaux et les plantes sauvages tandis que les Ka¬ mara avaient développé un savoir technique, la forge notamment. Les Kamara demandèrent aux Keita de les rejoindre et leur offrirent la chefferie du village; les Keita acceptèrent et offrirent en échange aux Kamara la maîtrise de la brousse. Ainsi, les Keita, une fois au village, purent domestiquer les plantes et les animaux qu’ils con¬ naissaient bien par leur vie antérieure dans la brousse, tandis que les Kamara devenaient chasseurs et maîtres de l’initiation dans la brousse, car ils purent y appliquer les techniques développées au village (fabrication des armes et des masques).
Si on interprète
l’histoire des Keita comme la réminiscence d’un mode de vie anté¬ rieur à la conquête de l’agriculture et de l’élévage, va-t-on interpré¬ ter de la même façon l’histoire des Kamara qui furent d’abord villa¬ geois et forgerons et devinrent chasseurs ensuite? Peut-on faire une hypothèse sur la moitié du mythe sans faire une hypothèse semblable sur l’autre qui lui est complémentaire? Dans toutes les mythologies, à chaque thème correspond toujours quelque part, comme l’a montré Lévi-Strauss, un thème symétrique et inverse. Or, si la pensée est réversible, l’histoire ne l’est pas. C’est donc à la lumière des lois qui gouvernent la pensée et non de celles qui gouvernent l’histoire qu’il faut éclairer les mythes. C’est du moins ce qu’ont cru devoir conclure non seulement les ethnologues, mais aussi et presque mal¬ gré lui, le spécialiste des mythologies indo-européennes qu’est G. Dumézil dont l’oeuvre devrait contribuer grandement à rapprocher classicistes et ethnologues.
MYTHE GREC ET STRUCTURES NARRATIVES: LE MYTHE DES CYCLOPES DANS L'ODYSSÉE Claude Calame
Le but de cet exposé doit être considéré comme une tentative de montrer comment la leçon d’un mythe s’articule dans un récit. Si nous avons sélectionné parmi tant d’autres mythes grecs celui des Cyclopes, tel que le raconte YOdyssée (9, 106-559), c’est d’abord parce qu’il nous a été transmis sous la forme d’un texte développé et clos dont nous retiendrons toutefois le caractère non proprement mythique; d’autre part, ce texte est largement connu; enfin, con¬ trairement au mythe des races d’Hésiode qui est marqué par une narrativisation minimum en contraste avec son contenu taxinomique très complexe, le mythe des Cyclopes se caractérise par une extrême richesse narrative qui compense une taxinomie sous-jacente relative¬ ment simple. On notera que notre analyse porte exclusivement sur la version du mythe que nous donne YOdyssée; les résultats de notre enquête n’ont de validité qu’à ce niveau puisque nous nous sommes gardé d’y inclure tout élément tiré d’autres versions du mythe des Cyclopes. Conscients
de
l’existence
d’autres
modèles
narratifs1,
nous
avons choisi, pour conduire notre analyse, celui élaboré par A. J. Greimas 2; l’exposé de J. Courtés nous dispense d’en faire la des¬ cription. Nous aimerions simplement indiquer que notre choix mé¬ thodologique a été motivé par le fait que le modèle de Greimas 1 Nous pensons ici spécialement aux recherches du groupe de Constance: cf. e. a. le n° spécial de Poetics 3, 1972, T. A. van Dijk et al., “Two Text Grammatical Models”, Semiotica 6, 1972, pp. 499-545, ainsi que M. Rüttenhauer (ed.), Konstanzer T'extlinguistik Symposium, Hamburg 1973. Pour une tentative analogue à celle de Greimas, cf. C. Bremond, Logique du récit, Paris 1973. 2 Les textes de A. J. Greimas sur lesquels notre analyse prend appui sont les suivants: Sémantique structurale, Paris 1966, p. 172 ss., “Pour une 24
Claude Calarne
370
tente de rendre compte du passage, dans la narration, d’une structure taxinomique statique et immanente à la forme syntagmatique orientée que cette structure assume quand elle est articulée dans un récit (cf.
Du Sens, p. 162 ss.). Laissant de côté le niveau linguistique de la manifestation, notre analyse s’attachera d’abord au plan des structu¬ res superficielles de la grammaire narrative ou sémiotique avant de passer au niveau profond du micro-univers sémantique qu’organise le modèle constitutionnel et qui sous-tend le récit (cf. Du Sens, pp. 135 s. et 158 ss.).
Parallèlement à l’analyse menée selon le modèle défini par Greimas, nous avons tenté de réécrire les différents énoncés narra¬ tifs en intégrant dans cette seconde formulation les résultats d’une enquête récente du même auteur sur les objets de valeur3. Dans ce nouveau développement théorique sur les structures narratives, dont on trouvera un bref résumé dans l’exposé de J. Courtés, les relations entre sujets apparaissent toujours comme médiatisées dans des objets de valeur. Cette médiation a pour conséquence l’extension du principe de communication à l’ensemble des structures du récit. Pour marquer le caractère purement expérimental de notre tentative, ses résultats sont imprimés dans un corps différent. Le récit de la confrontation d’Ulysse avec les Cyclopes s’ouvre, dans le style de l’exposition du mythe des races, par une description d’ordre taxinomique. En effet, avant que ne commence le récit pro¬ prement dit, Homère délimite la figure de trois acteurs qui vont assumer ensuite, en contrepoint avec Ulysse et ses compagnons, déjà qualifiés dans les aventures précédentes, les différents rôles actantiels actualisés dans la narration. Ainsi le processus de dramatisation engagé par le récit est précédé de la définition des termes qui vont
théorie de l’interprétation du récit mythique”, in Du Sens, Paris 1970, pp. 185-230 (première publication en 1966), “Les jeux des contraintes sémiotiques”, ibid., pp. 135-155 (publié en 1968), “Éléments d’une gram¬ maire narrative”, ibid., pp. 157-183 (publié en 1969), “Narrative Grammar: Units and Levels”, Modern Language Notes 86, 1971, pp. 793-806, et “Les actants, les acteurs et les figures”, in C. Chabrol (ed. ), Sémiotique narrative et textuelle, Paris, 1973, pp. 161-176. 3 “Un problème de sémiotique narrative: gages 31, 1973, pp. 13-35.
les objets de valeur”, Lan¬
Le mythe des Cyclopes dans l’Odyssée
371
y être confrontés. La définition de ces termes, qui s’opère au travers d’une série d’énoncés attributifs (EA) ou, mieux, d’énoncés qualifi¬ catifs (EQ, cf. Narr. Gramm, p. 800), se situe sur le plan figuratif ou sémantique par opposition au plan narratif ou
syntaxique, pour
reprendre la terminologie de Greimas (Les actants, p. 169 ss.); cela signifie que les contenus qui seront par la suite investis dans les différents rôles actantiels et qui seront articulés syntaxiquement dans le récit sont posés dès le début. La distinction faite dernièrement par Greimas entre acteurs et actants prend ici tout son sens: les contenus disjoints, conjoints, opposés, etc., au fur et à mesure de leur investissement dans la syntaxe du récit sont subsumés par un nombre restreint de figures actorielles. Les entités dont Homère déli¬ mite les contours au début de son récit sont en effet sémantique¬ ment complexes; elles sont composées de qualités qui s’organisent sur plusieurs
plans. Cette stratification prépare les
isotopies
du
récit à venir; elle prépare les différents niveaux de signification qui vont s’articuler selon les règles de la syntaxe narrative. Elle définit également la compétence des acteurs intervenant dans la narration avant que leurs qualités ne soient réalisées dans la performance que représente le récit (Les actants, p. 164 s.). Homère commence donc son récit par l’énumération des qua¬ lités de ce nouvel acteur de l’Odyssée que représentent les Cyclopes et le contexte dans lequel ils vivent (v. 106 ss.). Les Cyclopes sont des géants (ÛTrspcpiaXoO,
ils n’ont pas de lois communes (àOéfjuaxoi,
Oeixiaxeuei exaaxoç TcodSwv yS’ àAôy/uv), ils n’ont pas d’agora et, par con¬ séquent, ils ne connaissent ni les délibérations publiques, ni le droit (out’
àyopai
[3ou?er((pópoi
labourent pas (oüxs
ours
cpux£Ûoucn.v
Oépuaxeç),
ils ne plantent pas et ne
oüx’ apócoorv),
leur sol produisant
de lui-même orge, froment et raisin, ils habitent chacun pour soi au fond d’une caverne. Cette description de la figure des Cyclopes est complétée par une seconde définition (v.
125 ss.) qui ajoute aux
qualités déjà énumérées le fait que les Cyclopes ne connaissent pas, malgré les ports naturels excellents dont ils disposent, la navigation et que, par conséquent, ils ignorent le commerce. Cette connaissan¬ ce, dit Homère, serait pourtant en mesure de faire des Cyclopes des êtres civiques, des agriculteurs et des vignerons. Les Cyclopes sont donc définis selon les axes isotopiques de la mesure, du droit, de la vie civique, de l’agriculture, du commerce et de l’habitat.
372
Claude Calarne
Cette description sera reprise à propos de Polyphème aux v. 187 ss., où elle s’articule selon les mêmes axes sémantiques; chaque trait y est à nouveau marqué de manière négative par rapport à son contraire humain: le Cyclope est un monstre
(Ksùàpioç), il ne con¬
naît aucune loi (dcOepiaxta), il ne mange pas de pain
(où tuTO'fàyoç),
il vit à l’écart (àTOxveuOev ècov).
À ces traits négatifs s’ajoute toute¬
fois une qualification positive:
Polyphème est éleveur de moutons
et de chèvres. Par cette qualité, la constellation sémantique qui le définit recoupe le monde des civilisés. Avant d’être confrontés au monde des Cyclopes, Ulysse et ses compagnons découvrent celui de l’Ile Petite (v.
116
ss.). Cette
troisième figure ne peut être « anthropomorphisée » puisqu’elle se caractérise précisément par l’absence de tout être humain. Cette île est recouverte de forêts, elle ne connaît ni la chasse, ni l’agriculture,
ni l’élevage: les chèvres qui y vivent sont sauvages4 * * * * * 10. Ce dernier trai distingue le complexe sémantique que définit Pile Petite de celui que représente Polyphème et son monde: alors que Polyphème avait avec le monde des hommes le trait commun de l’élevage du petit bétail, la figure sémantique de Pile Petite inverse exactement les traits caractérisant le monde des hommes. Incarnation du domaine du sauvage, elle est l’image radicalisée de la figure de Polyphème qui, lui, participe à la fois du sauvage et de l’humain avec une pré¬ dominance très nette des traits le rattachant à la sauvagerie. Cette ambiguïté de la figure de Polyphème constitue, nous le verrons, l’un des moteurs de la narration. Ces différents acteurs, Polyphème, les Cyclopes et Pile Petite (que nous désignerons comme a2, a2i, et a22) sont caractérisés par des figures sémantiques comportant un noyau commun de traits mar¬ qués négativement, et un ou deux traits positifs dont la présence ou
4 De manière significative, sur l’Ile Petite les moutons ne sont pas associés aux chèvres comme c’est le cas chez les Cyclopes; les moutons, vivant en troupeau, sont associés à la civilisation, ils ne peuvent être intégrés à l’image de la sauvagerie qu’incarne Pile Petite. Sur le statut en revanche à la fois domestiqué et sauvage de la chèvre chez Homère, cf. O. Korner, Die Homerische Tierwelt, München2 1930, p. 47 ss., et W. Richter in RE 10 A (1972), s. v. Ziege, col. 405. À propos de la complémentarité de la description des qualités de Pile Petite et celles du Cyclope, cf. H. Eisenberger, Studien zur Odyssee, Wiesbaden 1973, pp. 130 ss.
Le mythe des Cyclopes dans l’Odyssée
l’absence sert de trait distinctif:
373
Polyphème est marqué par les
traits positifs de 1 anthropomorphisme (il est un àv/jp TteXwpioç, v. 187) et de l’élevage, les Cyclopes par celui de l’anthropomorphisme seu¬ lement (cf. 6,5 avSpeç uTOpTjvopéovTeç )5, et Pile Petite par l’absence de 1' un et l’autre de ces traits. Ces trois acteurs sont donc réductibles à une seule constellation figurative à structure hypotaxique triple. Il en va de même d’Ulysse et de ses compagnons dont la figure se laisse hiérarchiser en trois termes qui s’incluent: Ulysse (ai), douze compagnons choisis (an) et l’ensemble des compagnons du héros (aX2); nous le verrons, au contraire de a2, les traits distinctifs entre ai, au et ai2 ne seront attribués qu’au travers des épreuves qu’auront à subir ces différents acteurs. Sur le plan de la grammaire narrative, cette réduction des acteurs dans une inclusion hiérarchique se reflète dans la réduction progressive des
actants-sujets
pluriels
à
deux
sujets singuliers Si et S2 qui vont s’affronter contradictoirement6. Le premier volet de cet affrontement est constitué par le débar¬ quement des compagnons d’Ulysse sur Pile Petite (v. 142 ss.). La première confrontation a donc lieu entre les acteurs aX2 et a22. Par une chasse bien organisée, les compagnons enlèvent au territoire sauvage, sur lequel ils viennent de débarquer, ses chèvres, affirmant ainsi leur pouvoir d’hommes sur cette terre vierge. Le repas qui s’ensuit, comme l’activité de la chasse, qualifie les hétairoi comme des hom¬ mes civilisés. Les compagnons dominent donc Pile sauvage en fai¬ sant de ses chèvres une nourriture cuite, civilisée:
la sauvagerie
est niée au profit de la civilisation. Cette première performance suit exactement la séquence d’énoncés narratifs ou syntagme narratif proposé par Greimas (Du Sens, p. 172 ss., Narr. Gramm., p. 803 s.). ENi = F: confrontation
(Si *-*■ S2)
(Sx :
EN2 = F: domination
(Si —> S2)
(Adjuvants: la se, la cuisson) =
a12; S2 :
a22) chas¬
négation de S2
5 On notera cependant que le v. 167 semble indiquer que tous les Cyclopes possèdent des moutons et des chèvres. 6 La qualification qui, dans Od. 1, 70 s., définit Polyphème comme le plus fort des Cyclopes laisse entendre qu’il occupe à l’égard de ses congé¬ nères une position de domination analogue à celle d’Ulysse à l’égard de ses compagnons.
Claude' Calarne
374
EN3 = F: attribution
(Sx
O)
(O: nourriture cuite = civilisation) = assertion de Si
ou
EN3 = F: transfert (Di
O -> D2)
(Di :
a22;
D2:
ai2)
L’assertion de la qualité de civilisé des compagnons d’Ulysse ne fait aucune difficulté puisque File Petite, non anthropomorphisée, ne peut offrir aucune résistance à la transformation des chèvres sauvages en objet de chasse, puis en nourriture cuite et par consé¬ quent en entité culturelle. Il en va tout autrement des Cyclopes. Leur confrontation avec Ulysse et ses compagnons nécessite non plus une seule performance, mais une suite syntagmatique complexe de performances. Cette suite s’ouvre, comme dans tout récit, par un énoncé modal du vouloir (définition de la compétence actantielle du sujet). Ulysse, en effet, avant de quitter l’Ile Petite, réunit ses compagnons en assemblée pour leur exposer son projet (v. 170 ss.: dans cetteàyopr] Ulysse et ses compagnons se qualifient une nouvelle fois comme civilisés, par opposition aux Cyclopes qui ne connaissent pas les àyopai {3ouX7]2
:
ad), -
En possession du savoir, Ulysse n’est cependant pas encore en mesure de se soustraire au pouvoir du Cyclope, ce pouvoir qui s’ex¬ prime dans l’anthropophagie répétée du monstre et dans le rocher qui bloque l’entrée de la caverne, réduisant Ulysse et ses compa¬ gnons dans un état d’apy^avér) (v. 295 ss.). C’est alors qu’intervient la deuxième déception qui aura pour rôle d’attribuer à Ulysse un pouvoir capable de neutraliser celui de Polyphème, comme la première déception avait neutralisé le savoir du monstre en échange du savoir conféré au héros. Et, de manière significative, c’est l’instrument même du pouvoir sauvage de Poly¬ phème, sa massue, qui va conférer à Ulysse, au travers d’une transfor¬ mation d’ordre culturel, le pouvoir dont il a besoin. Transformée d’arbre (sauvage) en épieu affûté et durci au feu (opération cultu¬ relle), la massue du Cyclope devient l’adjuvant (Adj. 2) d’Ulysse en même temps que les quatre compagnons (Adj. 1) qui l’aideront à la manier: ET, = D, : a2
O : massue: pouvoir —> D„ : ai
ou ET, = S : ai —■* (Efi : a2
U
O: massue-, pouvoir fl D-2 : ad), —
appropriation. Le pouvoir que l’épieu confère à Ulysse va lui permettre de passer à l’action. Le récit suit exactement la concaténation syntagmatique des valeurs modales indiquée par Greimas {Du Sens, p. 179): vouloir —> savoir -» pouvoir => faire.
381
Le mythe des Cyclopes dans l’Odyssée
Mais si Ulysse, avec la massue transformée en épieu, s’est ap¬ proprié un symbole extérieur de la force de Polyphème, il s’agit encore, au retour du monstre dans la caverne (v. 336 ss.), de neutra¬ liser
son
pouvoir
propre.
Cette
neutralisation
est
l’objet
d’une
troisième déception dans laquelle tous les EM (v) et ET qui la com¬ posent se situent sur le plan du paraître. Ulysse commence par faire boire au Cyclope le vin de Maron (v. 345 ss.)12. Doté d’un pouvoir enivrant extraordinaire, très supé¬ rieur à celui du vin que Polyphème a l’habitude de boire, ce vin divin est trompeur. Valorisé selon le mode du paraître, il devient le troisième adjuvant (Adj. 3) d’Ulysse: ET6 = Di : ax -> O : vin —> D2 : a2 ou ETe = S : ai -» (Dj
:
U O:
vin / paraître fi
D2 :
a2),
= attribution.
Cet ET, traduit sur le mode de l’être, doit se réécrire-. ETC = S : ai —> (Dx : a2 U O: pouvoir fl D2 : ad), — appropriation. En donnant le vin enivrant au Cyclope, Ulysse s’approprie en effet le pouvoir du monstre. Au don trompeur d’Ulysse, le Cyclope répond lui-même par la promesse d’un don qui se révélera à son tour trompeur (v. 355 ss.); mais auparavant le Cyclope, dans la ligne de son EM (v)2, veut en¬ core connaître le nom d’Ulysse: I EM (v)5 = F : vouloir (S : a2; O (F: savoir; A (F: acquisition; A: ai; O : nom))) ou EM (v)5
= S : a2 (1 O: vouloir (5 : aY —> (D, : ax fl O: savoir [S : ax fl O: identité) fl E)-, : a2), = vouloir — attribution.
12 Le don fait à Ulysse de ce vin extraordinaire est l’objet d’un micro¬ récit dont l’ordre syntaxique et la sémantique inversent ceux de la con¬ frontation d’Ulysse avec les Cyclopes. Homère raconte (v. 196 ss.) que Maron, prêtre d’Apollon, avait donné ce vin au héros comme récompense pour avoir épargné sa demeure — le sanctuaire d’Apollon à Ismare — et la vie des siens. Le micro-récit se résume ainsi en deux ET: ET’ = Dp —> O: vie —> D.,: Maron, et ET” = Dp Maron —> O: vin divin —> Dp ap ou: S: ax —> (5: Maron fl O: vie) o S: Maron —> (5: ax fl 0: vie), structure d’échange réalisé que l’on comparera avec IEN3 qui termine la
382
Claude Calarne
Dans un nouvel énoncé translatif se situant sur le mode du pa¬ raître, Ulysse, en répondant à Polyphème qu’il s’appelle Personne, communique au Cyclope un savoir qui n’est qu’apparent et qui de¬ viendra un 4e adjuvant (Adj. 4) du héros en même temps qu’il con¬ duira à une 4e déception. Mais il y a plus: le nom de Personne ne correspond pas à une simple fausse identité; en se nommant ainsi, Ulysse se nie lui-même, il nie les valeurs
du savoir et du pouvoir
qu’il vient de s’approprier. Nous le verrons, la déception parvient ainsi à son comble. Ce savoir doublement apparent, communiqué par Ulysse en réponse à l’EM (v)4 de Polyphème, s’oppose au savoir réel sur l’identité d’Ulysse et de ses compagnons transmis pour répondre à l’EM {vh du Cyclope qui, lui, ne donne jamais son nom 13: ET? = D? : ai —* O: savoir / paraître —> D2 : a2 ou ET? = S : ax —> (D, : ax Ç\ O: savoir / paraître fl D2 : a2), = renoncement
qui, traduit sur le mode de l’être, doit être réécrit-. ETC — S : (Di : a2 U O : pouvoir fl Eh : ax), = ap¬ propriation. Aussi bien le savoir sur le mouillage du navire d’Ulysse que le pouvoir qu’incarne le vin de Maron et le savoir attaché au nom de Personne sont des objets de valeur apparents qui, tous, vont se retourner contre le Cyclope au lieu de lui conférer les avantages dont ils semblent être porteurs. C’est pourquoi quand Polyphème, en échange de l’indication de la (fausse) identité d’Ulysse, révèle la teneur de sa promesse et dit au héros qu’en guise de présent, il le mangera le dernier (v. 369 ss.), la transformation par le Cyclope confrontation Ulysse - Cyclopes et où seul Ulysse apparaît comme sujetopérateur (cf. p. 384). Dans le cas de Maron, l’échange civilisé que Poly phème a refusé à Ulysse est réalisé. Il en résulte pour Ulysse une quali¬ fication supplémentaire de civilisé et un accroissement de son pouvoir par 1 acquisition d un adjuvant aux qualités surnaturelles. Ce pouvoir extraordi¬ naire du vin de Maron, Polyphème lui-même le reconnaît quand il compare cette ambroisie au vin que les vignes de sa terre produisent sans aucune intervention si ce n’est celle de la pluie de Zeus (v. 357 ss.). 13 Seuls les autres Cyclopes appellent Polyphème par son nom (v. 403, cf. vv. 407 et 446 ainsi que 1, 70); Ulysse s’adresse h lui en le nommant KûxXcù^ (vv. 347, 364, 475, etc.).
Le mythe des Cyclopes dans l'Odyssée
383
de l’échange (apparemment) civilisé en échange sauvage n’a plus aucune efficacité. ETS = Ü! :
a2 ~* O:
ÇeÊviov
:
ou ETS = S : â-2 —> (Dx : a2 U O:
anthropophagie —> D2 Çetviov (~)
âi
D-. : ai), —— re-
noncement. Ce don n’est toutefois qu’apparent puisque, promesse d’anthropo¬ phagie, il a pour conséquence l’absorption par le pouvoir du Cyclope du pouvoir et du savoir d’Ulysse. On peut donc réécrire: ETE = S : a2 —> {D1 : a, U (O : savoir fi pouvoir) fl D2 : a2), = appropriation. La négation réflexive que représente le nom de Personne, dou¬ blement apparente puisque modalisée selon le savoir et le pouvoir, va l’emporter sur la négation réelle, modalisée selon le pouvoir, pro¬ mise par Polyphème. La déception du Cyclope est désormais sans effet. Le sommeil provoqué par le vin de Maron réduit le monstre à l’impuissance. Son savoir et son pouvoir ne sont plus qu’apparents, ils sont à la merci du savoir et du pouvoir réels d’Ulysse.
Ils vont subir, au
travers de la réalisation des déceptions préparées dans les vers pré¬ cédents, une succession de négations. Le pouvoir du Cyclope est d’abord anéanti par la puissance enivrante du vin de Maron, puis par le pouvoir de l’épieu chauffé au rouge qui l’aveugle (v. 375 ss.,
e et 3e déceptions). Son savoir est ensuite nié dans la séquence
2
où les Cyclopes, accourus aux cris poussés par leur congénère, repar¬ tent en apprenant de la bouche du monstre qu’il a été aveuglé par
Personne (v. 399 ss., 4e déception). En même temps, les traits de sauvagerie du Cyclope, eux aussi, se retournent contre lui: les Cyclo¬ pes vivant chacun pour soi, aucun ne se porte réellement à son aide. Dans ce monde sauvage où les relations de civilité n’existent pas, il n’y a pas de place pour un adjuvant! Par contre, Polyphème recon¬ naît qu’il a été vaincu par la ruse et non par la torce (SóXcp
oùSè
(ib)