Il mito della reintegrazione

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Mircea Eliade

IL MITO DELLA REINTEGRAZIONE

Editoriale Jaca Book

Introduzione e traduzione a cura di Roberto Scagno. Titolo originale: "Mitul Reintegraru". Copyright Mircea Eliade. Copyright 1989 Editoriale Jaca Book SpA, Milano. Prima edizione italiana novembre 1989. Su concessione Jaca Book.

INDICE

Introduzione di Roberto Scagno .

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PARTE PRIMA. La polarità divina La «simpatia» di Mefistofele . . . . . . . . Dal «Gang zu den Müttern» alla Magna Mater . . Le dee della Terra . . . . . . . . . . . Il «Tempo» e il «Destino» . . . . . . . . Il Pantheon indiano . . . . . . . . . . Il serpente, fratello del sole . . . . . . . . La «coincidentia oppositorum» nel pensiero indiano Ohrmazd e Ahriman, «fratelli nemici» . . . . . «...Quando l'essere non era e neppure il non essere...»

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PARTE SECONDA. Il mito dell'androgino Séraphîta . . . . . . . . . . L'archetipo androgino . . . . . . Adamo e Eva . . . . . . . . Divinità androgine . . . . . . .

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Introduzione di Roberto Scagno

Nel gennaio del 1949 usciva il Traité d'histoire des religions, non semplice sintesi manualistica o repertorio erudito, ma originale summa morfologico-fenomenologica con la quale Mircea Eliade dall'esilio parigino dava un fondamentale contributo all'ampliamento dell'orizzonte metodologico degli studi storico-religiosi. Nella prefazione(1) Georges Dumézil collocava il libro nella linea di superamento di una concezione della «scienza delle religioni» intesa come riduzione dei fenomeni religiosi a un elemento comune e come ricerca dell'origine dei fatti religiosi e ricostruzione della genealogia delle forme religiose. Tale ricerca e tale ricostruzione — guidate da presupposti positivistici ed evoluzionistici — avevano caratterizzato l'attività dell'antropologia britannica e della sociologia francese, diffondendosi poi anche in altri ambiti di studio. Dumézil vedeva i moderni sviluppi della «scienza delle religioni» posti sotto il segno del logos e non sotto quello del mana, nella convinzione che «una religione è un sistema diverso dalla polvere dei suoi elementi; è un pensiero articolato, una spiegazione del mondo». Di qui l'importanza di mettere in luce «le strutture, i meccanism", gli equilibri costitutivi di ogni religione e definiti, discorsivamente o simbolicamente, in ogni teologia, in ogni mitologia, in ogni liturgia». Allo stesso modo in cui accanto alla linguistica descrittiva e alla linguistica storicocomparativa trova posto una linguistica generale, così accanto agli studi storici analitici o comparativi è auspicabile il consolidarsi di una comparazione tipologica delle funzioni rituali o concettuali, delle rappresentazioni mitiche, eccetera. «Bisogna studiare, per determinarvi costanti e variabili, il meccanismo del pensiero mitico, i rapporti del mito e delle altre parti della religione; le comunicazioni del mito, del racconto, della storia, della filosofia, dell'arte, del sogno». Questi tre ambiti o punti di vista della scienza delle religioni (1) M. Eliade, "Traité d'histoire des religions", Payot, Paris 1949, préface di G. Dumézil, pp. 5-10.

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forse un giorno si riuniranno in una «sintesi armoniosa», ma per il momento e per molto tempo ancora dovranno coesistere, talora in contrasto anche vivace ma non infruttuoso. Per Dumézil, il Traité di Eliade si collocava con pieno merito scientifico nel terzo ambito di ricerca che è indispensabile per rischiarare e aiutare il lavoro degli studiosi dei primi due settori ed è potenzialmente fecondo di sviluppi, nonostante il rischio sempre presente dell'improvvisazione, delle generalizzazioni abusive e delle affermazioni dogmatiche, lasciti negativi di una diffusa pratica scientifica dilettantesca o per lo meno criticamente poco consapevole. Questa linea di lettura duméziliana è confermata da quanto troviamo programmaticamente precisato dallo stesso Eliade nell'avantpropos del Traité(2), ove, rifiutato ogni presupposto evoluzionistico e ogni definizione della religione preliminarmente assunta, si affermava di privilegiare l'analisi morfologica, rinviando ad un «lavoro futuro» l'esposizione dei problemi propriamente «storici» di genesi, sviluppo, prestito e influsso delle diverse civiltà e tradizioni religiose. Nel 1976, recensendo il primo volume della Histoire des croyances et des idées religieuses, Dumézil scriveva: «Dopo un quarto di secolo ecco che si scopre il secondo braccio della stretta con cui Mircea Eliade, professore, filosofo, scrittore, poeta, avvolge fedelmente, appassionatamente i fatti religiosi. Nel 1949, con un titolo improprio, imposto dall'editore, era stata delineata una morfologia del sacro; oggi, con un titolo appropriato, appare la prima delle tre parti della storia delle religioni, che mette in opera questa morfologia»(3). (2) M. Eliade, op. cit., pp. 11-14 (trad. it. "Trattato di storia delle religioni", Einaudi, Torino 1954, pp. xv-xx). (3) G. Dumézil, "L'histoire des croyances de Mircea Eliade. Une «légende des siècles»", in «Le Monde», 17 juillet 1976, pp. 1 e 15. Significativamente, Paul Ricoeur, recensendo il primo tomo della "Histoire des croyances et des idées religieuses", ricordava l'intento programmatico del "Traité" e la prefazione di Dumézil e coglieva il filo sotterraneo che collegava le due parti di uno stesso progetto: «Solo uno spirito capace di comprendere in tutta la sua ampiezza la dialettica del sacro sulla base della sua morfologia poteva scrivere una storia delle credenze e delle idee religiose che fosse una storia comparata. Fin dal 1949, Eliade percepiva questo legame tra morfologia e storia comparata. Il "Traité" presupponeva una incredibile familiarità con la maggior parte delle espressioni religiose dell'umanità, in breve una favolosa cultura storica. Questa cultura storica si lasciava allora trascrivere in una morfologia priva di ogni aspetto cronologico. Ma l'elemento storico era presente, non soltanto per documentare la ricerca, ma per render conto del dinamismo del fenomeno religioso, della sua capacità di rispondere a delle sfide

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Nel libro del 1949 Eliade aveva esaminato gli «elementi simbolici del pensiero religioso, forniti all'uomo dalla sua esperienza secolare e dalle sue successive invenzioni», aveva messo in luce rappresentazioni, idee, immagini che presentano «costanti notevoli» e che sono servite ai visionari, ai profeti, ai teologi «per formulare sia delle risposte ai pochi grandi enigmi di situazione che assillano l'homo cogitans, sia delle regole contro le pulsioni dell'homo necans, futuens, quaerens, imperans, repugnans». La recensione di Dumézil riprendeva la lettura formulata nella prefazione al Traité: «Questi elementi, questi problemi, queste pulsioni sono, tutto sommato, poco numerosi, come sono poco numerosi i suoni e i rapporti sintattici che sostengono la parola. Ma le combinazioni sono illimitate e ci sono migliaia di religioni come ci sono migliaia di lingue. Il progetto della Histoire des croyances et des idées religieuses consiste nel presentare l'essenziale di queste realizzazioni». In una pagina del secondo volume del suo Journal, in data 16 aprile 1976, Eliade annotava: «Ho appena ricevuto un esemplare del primo tomo della Histoire des idées religieuses. Esito a rileggere il mio libro. La sua uscita è posteriore di quasi trent'anni a quella del Traité d'histoire des religions (il cui titolo originale era: Prolégomènes à l'histoire des religions: morphologie et structures du sacré). Il mio ultimo libro non fa che prolungarlo e completarlo»(4). E lo stesso Eliade, in un passo del secondo volume delle sue memorie (uscito postumo), ricordava di aver dovuto cedere, nella discussione con Gustave Payot, alle argomentazioni commerciali dell'editore parigino, precisando, in riferimento alla lunga elaborazione dell'opera (Oxford, inverno 1941 — Parigi, dicembre 1947): «Evidentemente, non avevo mai pensato di lavorare a una Histoire des religions. Ma accettai seduta stante. L'essenziale era che il libro uscisse, anche se con un titolo che non meritava affatto»(5). anch'esse storiche attraverso un inesauribile dispiegamento simbolico e mitico». (P. Ricoeur, "Tant qu'il y aura des dieux...", in «Les Nouvelles Littéraires», n. 2546, jeudi, 19 août 1976). I tre volumi della "Histoire..." sono usciti presso Payot, rispettivamente nel 1976, 1978 e 1983. L'edizione italiana è stata pubblicata per i tipi dell'editore Sansoni di Firenze con il titolo "Storia delle credenze e delle idee religiose" (3 volumi: 1979, 1980, 1983). (4) M. Eliade, "Fragments d'un journal", II (1970-1978), Gallimard, Paris 1981, pp. 271-272. (5) M. Eliade, "Les moissons du solstice, Mémoire", II (1937- 1960), Gallimard, Paris 1988, p. 113. Nelle pagine del primo volume del "Journal", relative agli anni 1945/48,

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L'improprietà del titolo è stata certamente causa di alcuni degli equivoci che si sono perpetuati nella lunga vicenda di questo «classico» e nella sua fortuna critica presso gli specialisti di storia delle religioni, soprattutto in Francia e in Italia. L'edizione einaudiana del 1954 tralasciava inspiegabilmente la prefazione di Dumézil, che avrebbe contribuito a chiarire perplessità e riserve, sostituendola con una prefazione di Ernesto De Martino, acutamente disponibile ad accogliere la novità dell'opera e delle sue implicazioni metodologiche, ma nel contempo rigidamente arroccata in una posizione filosofica — lo storicismo assoluto — che non poteva non mettere in rilievo la frattura inconciliabile nei confronti dei postulati fondamentali eliadiani: l'irriducibilità del sacro, la struttura autonoma delle ierofanie, l'orizzonte ontologico in cui si colloca costitutivamente l'esperienza religiosa (6). I quarant'anni trascorsi dall'uscita del Traité hanno visto la dissoluzione dello storicismo assoluto e la messa in crisi dei rigidi paradigmi epistemologici del razionalismo metafisico. Il campo dello studio delle religioni si è ampliato enormemente sia per l'afflusso di dati documentari filologicamente, sempre più ricchi e accurati, sia per lo sviluppo di nuovi indirizzi, metodi e teorie interpretative. Al conflitto, dialogico e fecondo, tra morfologi-fenomenologi e storici- comparatisti si è progressivamente sostituita una pluralità di specializzazioni disciplinari e settoriali in cui sembra dominare una crescente incomunicabilità(7). Caduti i paradigmi «forti» e le opzioni filosofiche totalizzanti, il terreno di ricerca del comparativismo storico-religioso vede crescere il peso — nella eterogenea varietà delle discussioni metodologiche — dei «funzionalismi» e dei postulati riduttivistici delle diverse scienze antropologiche, sociologiche e psicologiche. In questa complicata situazione nasce l'esigenza di un dialogo interdisciplinare che non trascuri l'eventuale rilettura interpretativa di testi e autori che possono essere considerati «classici» per ricchezza e troviamo numerosi riferimenti alle varie fasi di stesura dell'opera in questione, sempre denominata "Prolégomènes..." Cfr. M. Eliade, "Fragments d'un journal", Gallimard, Paris 1973 (trad. it. "Giornale", Boringhieri, Torino 1976). (6) M. Eliade, "Trattato", trad. it. cit. (la prefazione di E. De Martino, pp. XI-XIV) Cfr. prefazione di De Martino a M. Eliade, "Tecniche dello Yoga", Boringhieri, Torino 1952, pp. 9-11. (7) Un'ampia rassegna di questi problemi in F. Whaling (a cura di), "Contemporary Approaches to the Study of Religion in 2 Volumes", Mouton Publishers, Berlin & New York — Amsterdam, 1983-1985.

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fecondità non contingenti di temi e prospettive di ricerca Nel caso di Eliade un indispensabile contributo a future linee di rilettura è dato dalla ripubblicazione dei suoi numerosi scritti anteriori all'esilio parigino del 1945 e della sua corrispondenza(8). Ciò è utile non solo per illuminare il periodo di formazione dello studioso nel contesto storico-culturale della Romania tra le due guerre mondiali, ma anche per sfumare o modificare radicalmente la perentorietà di certe interpretazioni che, ad esempio, tendono a collocare rigidamente la sua tipologia fenomenologica nella linea di Rudolf Otto e di Gerardus Van der Leeuw o a leggere la sua «ermeneutica creativa» all'interno del quadro teorico della psicologia analitica di matrice junghiana. Come è noto, il soggiorno di studio in India (1928-1931) segnava la svolta decisiva nella precisazione degli interessi del giovane Eliade verso l'orientalistica e la storia delle religioni, interessi nati precocemente negli anni liceali e coltivati e guidati dall'incontro e dal rapporto epistolare con alcune insigni personalità della cultura italiana del tempo (tra gli altri R. Pettazzoni, V. Macchioro, E. Buonaiuti, G. Papini)(9). Con il ritorno in patria alla fine del 1931, Eliade, oltre alla stesura della tesi di dottorato sullo Yoga(10), iniziava una intensa e poliedrica attività intellettuale che durerà fino alla partenza per Londra, nell'aprile del 1940, in qualità di addetto culturale presso l'Ambasciata di Romania: collaborazioni a giornali e riviste romene e straniere, conferenze pubbliche, trasmissioni alla radio, pubblicazione di opere di narrativa, saggistica, orientalistica e storia delle religioni. Nell'autunno del 1933, Eliade veniva nominato professore supplente presso la cattedra di logica e metafisica dell'Università di Bucarest, per iniziativa del suo maestro Nae Ionescu, e nel novembre iniziava il suo corso su «il problema del male e della redenzione nella storia delle religioni», e un seminario di logica sulla «dissoluzione del concetto di causalità nella logica buddhista». L'anno successivo il (8) Si vedano i testi e la corrispondenza raccolti in "Mircea Eliade. Coll. Cahiers de l'Herne", 33, a cura di C. Tacou, Editions de l'Herne, Paris 1978 e in "Mircea Eliade e l'Italia", a cura di M. Mincu e R. Scagno, Editoriale Jaca Book, Milano 1987. (9) Si veda I. P. Couliano, "Mircea Eliade", Cittadella Editrice, Assisi 1978 e R. Scagno, «L'ermeneutica creativa di Mircea Eliade e la cultura italiana», in "Mircea Eliade e l'Italia", cit., pp. 155-170. (10) La tesi sarà discussa nel giugno del 1933 e poi pubblicata con il titolo "Yoga. Essai sur les origines de la mystique indienne", Paul Geuthner, Paris 1936.

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corso era intitolato «Metafisica e mistica», ed il seminario riguardava il De docta ignorantia di Nicola Cusano. L'ultimo corso (1937-38) sarà dedicato al «simbolismo religioso», e in particolare al simbolismo acquatico e a quello dell'albero cosmico(11). In questi corsi Eliade esponeva i risultati delle sue ricerche di indianistica e nel contempo elaborava le linee portanti del suo progetto di morfologia storico-religiosa. In un paese privo di tradizioni nel campo dell'orientalistica e degli studi storico-religiosi, il giovane studioso cercò di aprire nuove vie di ricerca, sia attraverso la fondazione di una rivista internazionale Zalmoxis - Revue des études religieuses (3 volumi, 1938-1942), sia attraverso l'applicazione della comparazione storico-religiosa al ricchissimo patrimonio folclorico(12). Risultato di questi anni di studio e di impegno culturale sono una lunga serie di articoli e saggi che solo in parte sono stati rielaborati e riutilizzati nelle opere dopo il 1945. In un passo delle sue memorie, Eliade scriveva: «La maggior parte delle idee che ho sviluppato nei miei libri, pubblicati in francese a partire dal 1946, si trovavano già in nuce in ciò che scrissi tra il 1933 e il 1939»(13). La lettura del Mito della reintegrazione che qui proponiamo per la prima volta in traduzione, conferma pienamente la suddetta dichiarazione. Ulteriori conferme verranno dagli altri testi sul folclore religioso e sull'alchimia, anch'essi inediti in occidente e non più ripubblicati in Romania, che presenteremo prossimamente. In questi scritti ci troviamo di fronte a un «laboratorio» di idee in gestazione, a una ricerca concettuale e lessicale originale, che troveranno il loro sviluppo, la loro critica elaborazione nelle opere posteriori alla guerra. Lo stile espositivo non è quasi mai lineare; la scrit(11) M. Eliade, "Les promesses de l'equinoxe. Mémoire", I (1907- 1937), Gallimard, Paris 1980; pp. 376, 406 (passim); "Les moissons du solstice. Mémoire", II (19371960), cit., p. 22. Dati e notizie su questo aspetto dell'attività eliadiana in M. Handoca, "Mircea Eliade profesor la Universitatea din Bucuresti", in «Steaua», n. 10 (1985), pp. 26-29. (12) Si veda R. Scagno, "Mircea Eliade e la cultura romena interbellica. Al di là dell'autoctonismo e dell'occidentalismo", in «Buletinul Bibliotecii Române», Rumänisches Institut, Freiburg i. Br., vol. XIV (XVIII), Serie Noua, 1987/88, pp. 130. (13) M. Eliade, "Les promesses de l'equinoxe", cit., pp. 427-428. Cfr. I. P. Couliano, op. cit., pp. 48-68.

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tura procede per apposizione di concetti ed esempi, con sintetiche frasi argomentative e brevi incisi, come di chi vuole consegnare alla carta l'urgere delle scoperte e delle riflessioni, il delinearsi delle prime intuizioni interpretative. È presente sempre lo sforzo di attenzione per l'apparato filologico di supporto, diretto e accurato, e l'esigenza di sfuggire ai condizionamenti negativi del proprio ambiente culturale (contro le abitudini scientifiche e accademiche delle «piccole patrie» europee, ai margini dei grandi imperi, Eliade ha più volte polemizzato in quegli anni)(14), esigenza soddisfatta attraverso la fitta corrispondenza epistolare con gli specialisti nei singoli campi di studio e con viaggi di documentazione nelle biblioteche di Berlino e di Londra. L'intento di comunicare e porre in circolazione nel vivo dibattito culturale le proprie idee statu nascenti spingeva Eliade a pubblicare comunque i propri scritti, anche in situazioni disagevoli. È questo il caso del Mito della reintegrazione, messo a punto durante la settimana trascorsa a Bucarest nel giugno del 1942 (l'ultimo viaggio in Patria prima dell'esilio). Il piccolo volume raccoglieva e completava una serie di articoli scritti tra il 1938 e il 1939 e pubblicati nella rivista Universul literar tra il marzo del 1939 ed il marzo del 1940(15). Nell'aprile di quell'anno, come abbiamo ricordato, Eliade partiva per Londra e nel febbraio del 1941 veniva trasferito a Lisbona, ove rimarrà prima come addetto culturale e poi come consigliere culturale fino alla fine del 1944. Nella traduzione abbiamo preferito rispettare lo stile di scrittura immediato dell'autore, anche a costo di mantenere imperfezioni, cadute e qualche oscurità. Per i termini e le citazioni in sanscrito, ci siamo avvalsi della indispensabile, preziosa e competente collaborazione dell'amico e collega Mario Piantelli, che è intervenuto, non solo per risolvere problemi di traslitterazione e di segni diacritici, ma anche per correggere qualche imperfezione testuale. L'interesse precipuo di questo testo — in fondo unitario e compatto, nonostante che le circostanze della sua composizione abbiano (14) R. Scagno, "Mircea Eliade e la cultura romena interbellica", cit. (15) M. Eliade, "Les moissons du solstice", cit., pp. 58, 84; cfr. D. Allen e D. Doeing, "Mircea Eliade: An Annotated Bibliography", Garland Publishing, Inc., New York & London 1980, pp. 11-12. Alcuni di questi testi sono stati successivamente rielaborati e pubblicati in "Méphistophélès et l'Androgyne", Gallimard, Paris 1962 (trad. it. "Mefistofele e l'Androgine", Edizioni Mediterranee, Roma 1971).

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influito negativamente sul suo aspetto stilistico-formale — risiede, a nostro parere, nella messa in luce della stretta relazione tra i due temi mitico-simbolici della struttura ambivalente, bipolare e ambigua, delle immagini divine e della riconciliazione/totalizzazione (la coincidenza degli opposti). Il procedere ermeneutico è presente in Eliade fin da questi scritti giovanili ed è componente essenziale della sua indagine morfologica (e ciò conferma quanto dichiarato da Ricoeur nel passo relativo al Traité che abbiamo prima citato). La ricostruzione dell'universo mentale arcaico non è compiuta a scapito della dimensione storica. È sempre l'operare umano, la scoperta tecnica, l'evento culturale a rendere possibili nuove intuizioni metafisiche e nuove elaborazioni simboliche, cioè nuove «sintesi mentali». L'orizzonte arcaico non è pertanto un orizzonte piatto, unidimensionale. L'umanità arcaica non vive «fuori» dalla storia, non è una umanità mitica. D'altra parte il pensare mitico-simbolico non si riduce esclusivamente a funzione magico-empirica per la vita materiale. Ritroviamo in questo testo quella dialettica mito-storia che sarà il filo conduttore dell'ultima grande opera eliadiana: Histoire des croyances et des idées religieuses. L'esperienza religiosa è per Eliade soprattutto domanda personale di senso, domanda a un tempo esistenziale e conoscitiva. Se la condizione umana è ambigua compresenza di bene e di male, di precarietà e di conquista, di frammentazione e di lotta, di insensata corsa all'annullamento, nell'uomo è ineliminabile l'anelito alla pienezza spirituale, al superamento dei contrari, alla riconciliazione con l'assoluto. L'«intuizione primordiale» dell'ambiguità presente nella divinità, tradotta nell'immagine della polarità divina, ci rivela tutta la complessità dell'universo mentale arcaico. La sfera del divino non è semplicemente la compensazione per rovesciamento della tragica condizione umana. La soppressione della «separazione», la reintegrazione nel «tutto» originario è aspirazione «universale» (nel senso di «costante» umana) che non può non implicare la comprensione metafisica e mitico-simbolica della natura della divinità. Le immagini simboliche attraverso le quali l'uomo ha cercato di esprimere questa esigenza di duplice conciliazione dei contrari, in se stesso e nella divinità, sono soggette ad alterazioni. Mirabile è l'analisi eliadiana del mito dell'androgino e dell'alterazione del suo significato metafisico (la «degradazione del simbolo») nella letteratura del tardo romanticismo decadente, precursore dello psicologismo contemporaneo. L'esperienza religiosa è legata a una interpretazione mitico12

simbolica. Il piccolo volume che qui presentiamo è prova di come l'ermeneutica eliadiana, applicata al tema mitico della «coincidentia oppositorum» sia in grado di cogliere non solo le «costanti» delle aspirazioni umane, ma anche le differenze: dall'ontogia arcaica (quella che nelle opere successive chiamerà l'«ontologia pragmatica» fondata sul mito vissuto ritualmente) alle speculazioni metafisiche delle diverse tradizioni religiose fino all'impervio terreno della meditazione mistica.

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Parte prima

LA POLARITA' DIVINA

«La simpatia» di Mefistofele

I commentatori del Faust hanno sempre messo in rilievo, come un particolare fondamentale per la comprensione del pensiero goethiano, e tuttavia con un certo stupore, «la curiosa indulgenza» e perfino, per alcuni, «la quasi simpatia» mostrata da Dio verso Mefistofele. «Non ho mai odiato quelli della tua specie» — dichiara il Signore nel famoso passaggio del Prologo in Cielo, rivolgendosi a Mefistofele. — «Fra tutti gli spiriti che negano, il Beffardo (Schalk) è quello che mi dà meno fastidio». Goethe si sforza di giustificare questa simpatia divina verso un demone così negatore nei versi immediatamente successivi: «L'attività dell'uomo troppo facilmente inizia a languire; se appena potesse, l'uomo non farebbe più nulla. Perciò volentieri gli dò un compagno che lo stimoli, e faccia così il suo dovere di diavolo»(1). A nessuno è sfuggita l'importanza di queste dichiarazioni. In nessuna delle confessioni cristiane, infatti, si incontra una simile indulgenza del Creatore nei confronti del demonio, indulgenza coerentemente giustificata da Goethe — «l'attività dell'uomo troppo facilmente inizia a languire» —, ma che ha, dobbiamo riconoscerlo, una base extra-razionale; si potrebbe parlare di una simpatia organica (1) Nelle citazioni goethiane di questo capitolo, Eliade utilizza la traduzione italiana commentata del "Faust" di Guido Manacorda (Mondadori, Milano 1932, 2 voll.) condotta sulla Weimarer Ausgabe: "Faust. Eine Tragödie", in "Goethes Werke", hrsg. im Auftrage der Grossherzogin Sophie von Sachsen (a cura di Erich Schmidt), H. Bohlau, Weimar 1887-88: 14-15 (1-2) Bd. (indicati rispettivamente con Weimar I - II - III). Il giudizio sull'«indulgenza» e la «quasi simpatia» di Dio verso Mefistofele è presente in G. Manacorda, op. cit., vol. II, n. 14, p. 49. Riproduciamo l'originale tedesco dalla "Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche — 28 august 1949", hrsg. von Ernst Beutler, Artemis Verlag, Zürich 1948-1952, vol. 5, p. 152: «Ich habe deinesgleichen nie gehasst; / Von allen Geistern, die verneinen, / Ist mir der Schalk am wenigsten zur Last.» (versi 337-339). «Des Menschen Täatigkeit kann allzu leicht erschlaffen, / Er liebt sich bald die unbedingee Ruh; / Drum geb ich gern ihm den Gesellen zu, / Der reizt und wirkt und muss als Teufel schaffen.» (versi 340-343) (n.d.t.).

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tra il Creatore e Mefistofele. È infatti evidente che il Signore non afferma che la pigrizia e la sterilità dell'uomo lo hanno costretto a dargli un compagno dinamico e pieno di iniziativa. Egli riconosce di fare questa cosa volentieri: «Drum geb ich gern ihm den Gesellen zu...». Evidentemente, nulla può costringere il Creatore, né una certa situazione di fatto (la pigrizia dell'uomo...) può anche soltanto spingerlo a intervenire di nuovo nella creazione. Dio, nella concezione di Goethe, è completamente libero. Ma un fatto è il decidere in piena libertà una determinata cosa (ad esempio il sodalizio tra uomo e demonio) e un altro fatto è gioire della decisione presa, così come afferma all'inizio della tragedia del Faust. La «simpatia» è, del resto, reciproca. Mefistofele, rimasto solo dopo la chiusura del Cielo e la separazione degli arcangeli, si confessa con eguale sincerità. «Di tanto in tanto vedo volentieri il vecchio e mi guardo bene di romperla con Lui. È assai gentile da parte di un gran Signore come Lui discorrere così umanamente, perfino con il diavolo»(2). «Von Zeit zu Zeit seh ich den Alten gern...» Questo verso non è semplicemente percorso dall'ironia mefistofelica, come saremmo portati a credere in un primo momento. C'è molto di più di un motteggio nella dichiarazione di Mefistofele; vi è presente una certa malinconia, e un segreto desiderio di imbattersi nel Creatore. «Di tanto in tanto vedo volentieri il vecchio...» Si potrebbe quasi parlare di una oscura simmetria tra l'affermazione del Creatore e quella di Mefistofele. Infatti, mentre riconosce la simpatia che lo attira verso il padrone dell'Essere, Mefistofele si affretta a giustificarla con un ragionamento: «mi guardo bene di romperla con Lui»... poiché «è assai gentile da parte di un gran Signore come Lui discorrere così umanamente, perfino con il diavolo». Non è necessario essere un competente commentatore di Goethe per rendersi conto che il poeta ha fissato con molta cura, in questo Prologo in Cielo, la posizione dello «spirito che nega» nei confronti (2) «Von Zeit zu Zeit seh ich den Alten gern, / Und hute mich, mit ihm zu brechen. / Es ist gar hübsch von einem grossen Herrn, / So menschlich mit dem Teufel selbst zu sprechen.», (versi 350-353. Edizione citata a cura di Ernst Beutler, vol. 5, p. 152) (n.d.t.).

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del Creatore. In effetti, nessuno di questi versi contiene parole casuali. E se quel gern (volentieri) è pronunciato una volta dal Creatore e una volta da Mefistofele, questa simmetria ha un senso profondo. Una simpatia reciproca lega il Creatore al motteggiatore che nega. Ma la malinconia che possiamo decifrare nelle parole finali di Mefistofele, si riferisce senza dubbio al lungo tempo che dovrà scorrere prima che si ritrovi di nuovo alla presenza del Creatore. «Von Zeit zu Zeit..» Talvolta, dunque, Mefistofele è ricevuto dal Padrone del mondo. Non è forse presente in questo verso goethiano — «von Zeit zu Zeit...» — il ricordo confuso di un ritorno cosmico, in cui il bene e il male coincidono per un momento per poi separarsi di nuovo, spezzati in due estremi? Non saremmo autorizzati a vedere nella simpatia tra il Creatore e Mefistofele qualcosa di più della concezione demoniaca dell'azione e della creazione umana, come è stata formulata da Goethe, a vedere cioè l'idea tradizionale, universalmente diffusa della «coincidenza dei contrari», della fusione tra l'Essere e il Non Essere, della «totalizzazione» del reale? Il presente studio si propone di soddisfare, tra le altre, anche tali domande, che superano l'esegesi della tragedia faustiana e trovano la propria collocazione all'interno della speculazione metafisica. Evidentemente, nell'opera di Goethe la «simpatia» tra il Creatore e il demonio ha un senso ben definito. È sufficiente sfogliare un buon commento del Faust per ritrovare in abbondanza testi chiarificatori scelti dall'intera opera del poeta. Mefistofele è il demone che ferma e, fermando, stimola. Il male è necessario, si è detto molte volte, poiché provoca il bene. Proprio come l'errore al quale Goethe attribuisce virtù stimolatrici: «Se non sbagli, non arrivi alla ragione» («Wenn du nicht irrst, kommst du nicht zu Verstand»), dice Mefistofele ad Homunculus (verso 7847). «La contraddizione è ciò che ci rende produttivi», dichiarava Goethe ad Eckermann (28 marzo 1827). «Talvolta giungiamo alla piena coscienza e comprendiamo che un errore può muovere e incitare all'azione quanto una verità» (Massime, n. 85). O, in un modo ancor più chiaro: «La Natura non si preoccupa degli errori; ella stessa li ripara sempre, e non domanda che cosa ne possa derivare» (Testi tratti dal commento di Manacorda, II Faust)(3). (3) Le tre citazioni sono in Manacorda, op. cit., vol. Il, n. 11, p. 48. Vedasi la prima citazione completa in J. P. Eckermann, "Gespräche mit Goethe in den letten Jahren seines Lebens" (vol. 24 dell'edizione Beutler), Artemis Verlag, Zürich 1948, p. 601: «Das Gleiche lässt uns in Ruhe; aber der Widerspruch ist es, der uns produktiv

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Proprio come l'errore, dunque, che è un momento necessario e attivo nella dialettica umana — Mefistofele è un momento obbligatorio non solo nei confronti dell'uomo, che rende dinamico tentandolo, ma è obbligatorio perfino nel Cosmo, in ciò che Goethe definiva (conformemente alla sua metafisica immanentista) il «Tutto-Uno». Questa formula — il «Tutto Uno» — diverrà sempre più chiara quanto più ci allontaneremo da Goethe e ci avvicineremo alle fonti della sua ispirazione (Giordano Bruno, Boehme, Swedenborg). Non ci proponiamo di seguire le fonti o la filiazione dei motivi del Faust. Ciò è stato fatto, con grande competenza, da moltissimi commentatori ed esegeti della tragedia goethiana. Il presente studio si propone di dimostrare la coerenza metafisica di alcuni motivi antichissimi, che scegliamo appositamente da diversi settori — poesia, iconografia, cosmologia, demonologia, eccetera — proprio per dimostrare la loro permanenza e universalità. Abbiamo tuttavia preferito iniziare la presente ricerca con un commento ad alcuni versi del Faust. In Goethe si incontrano, al di là del fatto che egli ne sia o non ne sia consapevole, una serie di correnti di pensiero che non hanno più fecondato l'opera di nessun europeo, dopo la morte del poeta di Weimar. E la ricerca ci è parsa più allettante con l'iniziare a decifrare, in una tragedia che rischiara particolarmente l'uomo moderno, tracce di una metafisica tradizionale arcaica, extra-storica... Mefistofele, dunque, è, nella concezione di Goethe, lo spirito che nega, che protesta, che capovolge e ferma. Quest'ultima qualificazione ci sembra la più importante. Essa serve a precisare non solo la funzione di Mefistofele (la negazione), ma anche la direzione della sua attività, volta, come ci fa rilevare il poeta, non contro Dio ma macht». La Massima n. 85 è tradotta dal Manacorda dalla Vollständige Ausgabe in Vierzig Teilen auf Grund der Hempelschen Ausgabe neu hrsg. von Karl Alt, in Verbindung mit E. Ermatinger, ecc. Bong u. Co., Berlin 1908-14 (indici 1926), Goldene Klassiker Bibliothek, IV, p. 40. Tale massima corrisponde a quella contrassegnata con il n. 67 nell'edizione citata a cura di Ernst Beutler, Artemis Verlag, Zürich 1948-1952, vol. 9, pp. 505-506: «Manchmal jedoch kommen wir zum völligen Bewusstsein und begreifen, dass ein Irrtum so gut als ein Wahres zur Tätigkeit bewegen und antreiben kann». Cfr. J. W. Goethe, "Massime e riflessioni", TEA, Milano 1988, p. 49. La terza citazione, "Spruch", in "Par." 196 (Weimar III, p. 244) corrisponde probabilmente alla massima n. 1250, dell'edizione a cura di Ernst Beutler (Artemis Verlag, vol. 9, p. 656): «Die Natur bek mmert sich nicht um irgendeinen Irrtum; sie selbst kann nicht anders als ewig recht handeln, unbekümmert, was daraus erfolgen möge». Cfr. J.W. Goethe, "Massime e riflessioni", cit., p. 235 (n.d.t.).

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contro la vita. In effetti, che cosa chiede Mefistofele a Faust, affinché l'anima di quest'ultimo entri definitivamente sotto il suo dominio? Che si fermi. Mefistofele è «il padre di tutti gli ostacoli» (verso 6205). La formula per eccellenza mefistofelica è «Fermati!». «Verweile doch!» Nell'istante in cui Faust si fermerà, la sua anima sarà perduta — spera Mefistofele. Ma il fermarsi non è una negazione del Creatore, bensì della vita. Mefistofele, dunque, non si contrappone direttamente al Creatore, ma alla sua creazione. Al posto della vita, cerca di instaurare la morte; ciò che non diviene più, ciò che più non si trasforma e non scorre, si decompone, perisce. Questa «morte in vita» trascina con sé la sterilità spirituale, condizione eminentemente demoniaca. L'uomo che ha ucciso in sé le radici della vita, e ha estirpato il germe creatore, cade sotto il potere dello spirito che nega. Il crimine contro la vita, conclude Goethe, è un crimine contro la redenzione. Non ci fermeremo qui ad esaminare in quale misura questa affermazione sia cristiana. Un fatto può essere rilevato con decisione dal ruolo ambiguo di Mefistofele: egli si oppone con tutti i mezzi alla vita, allo scorrere, al flusso universale, e tuttavia, attraverso questa opposizione, egli stimola la vita. Lavora contro il bene (poiché la vita, l'avversario principale di Mefistofele, coincide con il bene), ma finisce con il fare il bene — come osservava recentemente un commentatore. Questo demonio che nega è, tuttavia, il più deciso collaboratore del Creatore. Per questo il Signore con prescienza divina — lo dà «volentieri come compagno all'uomo». Teniamo presente per il momento che Mefistofele, principio di negazione e principe delle tenebre, rende dinamica la vita, organizza la creazione e sostiene il Mondo. Più avanti ci renderemo conto dell'ecumenicità di questa concezione di Goethe, considerata da molti del tutto personale e perfino «eretica». Il poeta era però anche un assiduo commentatore della sua stessa opera. Una buona parte delle massime, delle riflessioni, dei diari e delle conversazioni di Goethe convergono verso una sempre più precisa esplicitazione del Faust.(4) «La cosa più alta è considerare il diverso come identico; la cosa più comune è l'azione (Tat), ossia il concreto congiungimento di quelle cose che sono separate (la loro tra(4) La citazione è tratta dal Manacorda (vol. II, n. 14, p. 49). La massima n. 120 (Gold Klass Bibl., IV, p. 16) corrisponde alla massima n. 1137 dell'edizione a cura di Ernst Beutler (Artemis Verlag, vol. 9, p. 643): «Das Höchste ist das Anschauen des Verschiednen als identisch; das Gemeinste ist die Tat, das aktive Verbinden des Getrennten zur Identität». Cfr. J. W. Goethe, "Massime e riflessioni", cit., p. 219 (n.d.t.).

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sformazione) in identità» (Maximen und Relexionen, n. 120). Goethe era ossessionato dall'idea della totalizzazione e dell'unificazione. «Proprietà fondamentale dell'unità vivente; separarsi, riunirsi, passare nell'universale, rimanere nel particolare... Sorgere e perire, creare e annientare, nascita e morte, gioia e dolore, tutto opera intrecciandosi nello stesso senso e nella medesima misura» (ibid., n. 112)(5). Questa coincidenza tra i contrari, questa «totalizzazione» che sostituisce la separazione e la frammentazione universale, non ci indica forse anche il senso della simpatia polare tra il Creatore e Mefistofele? Per rispondere a una simile domanda, è bene abbandonare Goethe e studiare altri tipi di testi.

(5) La massima n. 112 (Gold Klass Bibl., IV, p. 15) citata dal Manacorda (vol. II, n. 14, p. 19) corrisponde alla massima n. 571 dell'edizione a cura di Ernst Beutler (Artemis Verlag, vol. 9, pp. 573-574): «Grundeigenschaft der lebendigen Einheit: sich zu trennen, sich zu vereinen, sich ins Allgemeine zu ergehen, im Besondern zu verharren...» «Entstehen und Vergehen, Schaffen und Vernichten, Geburt und Tod, Freud und Leid, alles wirkt durcheinander, in gleichem Sinn und gleicher Masse». Cfr. J. W. Goethe, "Massime e riflessioni", cit., pp. 136-137 (n.d.t.).

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Dal «Gang zu den Müttern» alla Magna Mater

Il 10 gennaio 1830 Eckermann annota, in seguito ad una conversazione con Goethe relativa alle «Madri» della celebre scena «Galleria oscura» («Finstere Galerie», Faust, versi 6173-6306): «Le madri sono il principio che produce e che conserva, dal quale si origina tutto ciò che ha vita e forma sulla superficie della terra. Ciò che cessa di vivere ritorna ad esse come natura spirituale, ed esse lo custodiscono fino a che trovi l'occasione di entrare in una nuova esistenza... Eterna metamorfosi dell'esistenza terrestre, del nascere e del crescere, del trasformarsi e del distruggersi...»(6) Su questa «galleria oscura», su questo «Gang zu den Müttern», attraverso il quale Faust penetra nel cuore stesso dell'inesausta creazione, si sono scritte intere biblioteche. Goethe, nella celebre conversazione con Eckermann, dichiara di aver mutuato il termine dalla Vita di Marcello di Plutarco. Evidentemente nella sintesi tentata da Goethe (soltanto tentata poiché Finstere Galerie, secondo l'opinione della maggior parte degli esegeti, è una scena fallita, troppo schematica), si incontrano, come al solito, svariati elementi metafisici pitagorici, platonici, spinoziani, eccetera. Non rientra nei limiti del presente studio ricordare ciascuno di essi, neppure di sfuggita. Ma, per poter studiare con cura il senso di quella «simpatia» polare tra il Creatore e Mefistofele non troviamo un esempio più azzeccato della summenzionata scena del Faust. «Nascere e crescere, trasformare e distruggere», così riassume Goethe la funzione cosmica delle «Madri». Mettiamo in rilievo fin da ora il carattere ambivalente «polare», delle «Madri»: fonte della fecondità (6) La citazione completa in J. P. Eckermann, "Gespräche mit Goethe", cit., p. 385: «So, in ewiger Dämmerung und Einsamkeit beharrend, sind die Mütter schaffende Wesen, sie sind das schaffende und erhaltende Prinzip, von dem alles ausgeht, was auf der Oberfläche der Erde Gestalt und Leben hat. Was zu atmen aufhört, geht als geistige Natur zu ihnen zurück, und sie bewahren es, bis es wieder Gelegenheit findet, in ein neues Dasein zu treten» «Die ewige Metamorphose des irdischen Daseins, des Entstehens und Wachsens, des Zerstörens und Wiederbildens ist also der Mütter nie aufhörende Beschäftigung» (n.d.t.).

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universale e principio della distruzione... Ma era proprio necessario ricorrere alle speculazioni pitagorica, platonica, bruniana, eccetera, eccetera, — per giungere ad una simile formula? Un'analoga concezione non si incontra forse al di fuori dei diversi sistemi filosofici, tradizionali o personali, in aree culturali molto più vaste? È sufficiente ricordarsi della Magna Mater, la «Grande Dea», più grande di tutti gli dei, creatrice e custode del tutto, ordinatrice del Cosmo, della vita e della società umana. Divinità conosciuta da tutte le culture arcaiche dell'Asia minore e afroasiatiche, dalla Lidia a Ceylon, dall'Egitto all'Iran, all'India, all'Indocina. Avremmo bisogno di un intero volume per passare in rassegna almeno i più frequenti nomi e attributi, riti e leggende di questa Grande Dea, madre del tutto. Ci accontenteremo di indicare soltanto le linee fondamentali, rinviando il lettore ai lavori classici su questo problema(7). Indubbiamente, soltanto in una società matriarcale, con discendenza matrilineare, si è potuta instaurare la supremazia del culto di una divinità femminile. Là dove la donna e la madre avevano un ruolo predominante, il Cosmo e la vita non potevano essere creati da un dio ma da una dea. Allo stabilirsi dei culti della Dea-Madre ha contribuito, in modo notevole, anche la scoperta dell'agricoltura. L'agricoltura infatti, non solo ha reso possibile una nuova intuizione del Cosmo — nella quale le virtù femminili, la fertilità e la nascita, acquistano funzione di principi — ma ha assegnato alla donna un ruolo di primo piano. In un popolo di pastori nomadi, la donna ha un ruolo del tutto insignificante. Gli uomini addomesticano le bestie selvatiche, gli uomini scoprono i pascoli e sono gli uomini a difendere le greggi. L'agricoltura rende gli uomini sedentari, li lega alla terra. E in ogni società stabile, il ruolo della donna cresce di importanza. Alcuni studiosi affermano persino che la scoperta dell'agricoltura è una invenzione femminile. Lo spirito di osservazione limitato, ma molto preciso — e, potremmo dire, orientato verso la terra — della donna, ha reso possibile il passaggio dallo stadio dei raccoglitori di frutti e di sementi, all'agricoltura. Solo la donna, sostengono alcuni studiosi, ha (7) Frazer, "Adonis, Attis, Osiris", ed. III, London 1914; Baudissin, "Adonis und Esmun", Leipzig 1911; G. Contenau, "La déesse nue babylonienne", Paris 1914; A. Evans, "The palace of Minos at Knossos", Oxford 1921 ss.; M.P. Nilsson, "The Minoan-Mycenaean religion and its survivals in Greek religion", Lund 1927; A. Dietrich, "Mütter Erde", ed. III, Leipzig 1925, eccetera, eccetera; il nostro libro "Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne", Paris-Bucuresti 1936, p. 286 ss.

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avuto tempo e curiosità di osservare che dalle sementi di certe piante graminacee selvatiche crescono altre piante nello stesso luogo dove le sementi sono cadute. Ma il ruolo della donna nelle società agricole non si limita a questo. Le sementi sono sepolte nella terra — la terra è immaginata come una grande matrice, nella quale fruttificano ogni genere di germi. La terra diventa, in tal modo, essa stessa, una donna. Il gesto del seminatore acquista significati occulti; è un gesto generatore e l'aratro (all'inizio, un semplice palo appuntito), diventa un emblema fallico. L'omologazione dell'atto agricolo con l'atto sessuale è ben conosciuta nella storia delle religioni. Ma la terra rimane infeconda senza la pioggia; la donna tellurica deve essere fecondata attraverso la tempesta celeste. E la pioggia — questo particolare è stato osservato fin dai primi tempi dell'agricoltura — è in stretto legame con la luna e con i ritmi lunari. Questi ritmi dominano innumerevoli livelli cosmici: i mari e le piogge, la crescita dei vegetali, la donna. Ho mostrato altrove(8) che intorno alla luna e ai ritmi lunari si sono cristallizzate le prime sintesi mentali dell'umanità. La luna «unifica», «totalizza» livelli cosmici apparentemente diversi: le acque, le piogge, la terra, la vita vegetale, la donna, eccetera. È indubbio, quindi, che in una società agricola nella quale la sorte dell'uomo è così strettamente legata alla pioggia — la donna ha in suo potere i segreti della vita e della morte. Solo la donna partecipa alla magia della luna. Solo lei può implorare la pioggia dato che soltanto lei comprende le virtù acquatiche. Perciò a tutti i rituali agricoli, per provocare la pioggia, prendono parte esclusivamente le donne (le paparude, eccetera)(9). In presenza della minaccia di siccità, la nudità rituale della donna ha un valore magico: le paparude nude attirano il grande uomo siderale. In alcune tradizioni (Cina, eccetera), le nubi di pioggia sono immaginate come dei draghi. Ma questo mostro mitico, il drago, non è che il simbolo della virilità celeste; esso viene risvegliato e chiamato sui solchi infecondi dalla nudità femminile e dai rituali magici. Dunque, la Grande Dea, dalla quale tutte le cose hanno inizio e (8) "Despre o «filozofie» a lunii", in «Revista Fundatiilor Regale», III, n. 12, Decembre 1936, pp. 655-660; "Cosmical homology and Yoga", in «Journal of the Indian Society of Oriental Art», Calcutta, V, 1937, pp. 188-203; «Zalmoxis. Revue des Etudes Religieuses», Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Paris I (1938), p. 228. (9) Nel folclore romeno le paparude sono ragazze che, in tempo di siccità, seminude, con il corpo rivestito soltanto di fronde, cantano e ballano invocando la pioggia (n.d.t.).

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in seno alla quale tutte ritornano, è servita generalmente dalle donne. L'agricoltura ha diffuso dappertutto il culto di questa Grande Dea. Tuttavia, nei tempi storici, troviamo Grandi Dee anche presso popolazioni che non si dedicano in modo particolare all'agricoltura. Le troviamo, ad esempio, presso i barbari, i nomadi, i pastori — o presso popolazioni marittime che si guadagnano la vita con il commercio sull'acqua. Ovunque, però, la Grande Dea è riuscita ad imporre uno dei suoi attribuiti principali. In effetti, essa non organizza soltanto i ritmi agricoli, ma è anche Dea delle acque, dei fiumi in Iran, dei mari presso i pre-ellenici e i Greci. Nelle culture oceaniche e austro-asiatiche, il principio generatore, la fonte di tutti i germi, la matrice di tutte le forme — si trova nelle profondità dell'oceano. Si tratta sempre di una dea, in questo caso di una dea acquatica. I suoi emblemi appartengono al simbolismo marittimo: le conchiglie, le perle, le piante marine. La realtà, la vita, hanno la loro fonte nel fondo del mare. Gli eroi e così pure i santi — la virilità come anche la sacralità — sono consacrati attraverso il contatto rituale con l'acqua oceanica o con un emblema acquatico (perla, pentola con acqua, noce di cocco, eccetera). Le acque sono, infatti, governate dalla luna; le perle sono gocce della luce della luna, nate nelle valve delle conchiglie che hanno un significato spiccatamente femminile (conchiglia = vulva). Cosicché tutte le culture arcaiche — sia agricole che marittime — hanno venerato il principio femminile sotto la forma di una Madre, di una Grande Dea, creatrice e conservatrice del Cosmo. I nomi di queste dee sono innumerevoli. Infatti ogni tribù, ogni popolo, ha avuto un culto locale, e ha dato alla Dea un nome specifico. Quando i legami tra i popoli sono diventati più frequenti e più stretti, i viaggiatori hanno osservato che la Grande Dea si incontra dappertutto — quasi sempre con gli stessi attributi divini e con gli stessi emblemi iconografici. E, intorno a questa Magna Mater, si è realizzato quello che potremmo chiamare il primo «internazionalismo». L'unità del genere umano è stata scoperta dopo che si è scoperta l'unità del cosmo; dato che la Magna Mater era una madre del tutto, degli dei e anche degli uomini. La Magna Mater ha avuto il ruolo della formula che unifica. E unifica non solo il Cosmo (dimostrando che esistono relazioni dirette, causali, tra livelli cosmici tanto diversi: luna, acque, donna, terra, morte, vita) ma anche la stirpe umana. Ogni genere di società umana, infatti, civilizzata o barbara, povera o ricca — trovava punti di contatto e possibilità di comprensione nel culto delle stesse Grandi Dee... 26

Osserviamo fin d'ora la funzione unificatrice della Grande Dea. Attraverso il suo culto, l'uomo «arrotonda» il Cosmo, lo misura, lo unifica. E, sempre attraverso il culto della Grande Dea, l'uomo scopre l'unità della stirpe umana. È significativo che questa unificazione del Cosmo, realizzata intorno alla dinamica del principio femminile e attraverso di essa, si compia attraverso una totalizzazione progressiva dei diversi livelli. Una totalizzazione che non deve tuttavia essere confusa con un sincretismo astratto, così come è avvenuto in certe epoche della vita dell'umanità, quando un dio acquistava tutti gli attributi degli altri dei, diventando infine un mosaico. La «totalizzazione» del Cosmo attorno al principio femminile si effettua con ampie intuizioni e sempre su realtà vive. Non si tratta di una agglomerazione di attributi, dunque, ma di una unione concreta tra realtà diverse. La luna è unita con la terra e con la pioggia attraverso un fenomeno concreto: le nozze tra cielo e terra, la fecondazione della matrice tellurica. Gli esempi possono essere moltiplicati all'infinito. Ritroviamo in questa «totalizzazione», viva e concreta, l'idea goethiana delle «Madri». Ma si tratta soltanto di una simile totalizzazione? Abbiamo incontrato finora solo le funzioni positive del principio femminile: fertilità, nascita, divenire. In questo «tutto» mancano gli elementi negativi: la morte, il dolore, il peccato. Mettiamo in luce anche queste cose...

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Le dee della terra

Sembra a prima vista strano che le Grandi Dee dell'Oriente siano allo stesso tempo divinità della fertilità della terra e divinità della guerra. Ashtarte, dea semitica per eccellenza, è la divinità tutelare dell'amore e della fecondità universale, ma è nel contempo la protettrice dei guerrieri. Nanaia, dea adorata fin dai primi tempi in Mesopotamia e in Iran, è una divinità guerriera, invocata dai soldati in battaglia e alla quale i re chiedevano la vittoria contro i nemici. La molto invocata Ishtar di Babilonia è stata, fin dall'epoca arcaica, dea della fecondità e della guerra. Una altra divinità semitica, 'Anat, il cui culto era abbastanza diffuso in Palestina ai tempi di Tutmosi Terzo (1501-1447 a.C.) aveva gli stessi attributi. Infine, la dea iranica Anaitis — proprio come 'Anat della serie semitica — era la divinità tutelare della fecondità e della guerra(10). Sembra in verità strano, come dicevamo sopra, che una Grande Dea, principio della creazione universale, emblema della femminilità e della maternità instancabile, fons et origo per eccellenza — sia nello stesso tempo una divinità tutelare della guerra. Nessuna virtù femminile trova la sua fecondità nella guerra. È vero, le Grandi Dee asiatiche non sono divinità militari; non appartengono ai soldati — ma alla guerra. Sono venerate dalle donne in tempo di pace e dagli uomini in tempo di guerra. Gli uomini, generalmente, cadono sotto il dominio di queste Grandi Dee soltanto in tempo di guerra. Attraverso la guerra, gli attributi delle Grandi Dee «si fanno conoscere», si impongono anche agli uomini. E questi attributi che, in tempo di guerra, si rivelano agli uomini, implacabili come un destino, sono la lotta e la morte. Per questo le Grandi Dee asiatiche, divinità della feracità e dei (10) Cfr. Benveniste, "The Persian Religion", pp. 27-28; Max Semper, "Rassen und Religionen in alten Vorderasien", p. 219 ss.; Contenau, "La déesse nue babylonienne", pp. 120-122; A. Lods, "Israel", p. 154 ss.; J. Przyluski, "Les noms de la Grande Déesse", in «Revue de l'histoire des religions», Mars-Juin 1932, p. 182 ss., eccetera.

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germi, «proteggono» la guerra; poiché la guerra è il più preciso e il più frequente strumento della morte; essa è, in una parola, una forma della morte. E non è affatto casuale che nella Magna Mater la fonte della vita coincida con la vittoria della morte, le latenze di tutte le forme viventi con la grande larva amorfa, la morte. Il pensiero mitico è sempre coerente, «sistematico». Essendo la Magna Mater una divinità del «tutto», in essa coesistono gli estremi: la vita e la morte, il bene e il male, la beatitudine e il dolore. In verità, la Magna Mater — sul piano morale — fonde il «bene» e il «male». La dea che è servita da fanciulle vergini — è allo stesso tempo servita da cortigiane. Myllita, dea babilonese, era una divinità della fecondità e nei suoi templi si praticava ritualmente l'orgia sacra. Ogni donna — dalla regina fino all'ultima schiava — doveva trascorrere almeno una notte nel tempio di Myllita. Ishtar era adorata da donne vergini: ma Ishtar era essa stessa una «cortigiana celeste», e al suo cerimoniale servivano le cortigiane sacre. Nel culto di ogni Grande Dea asiatica vi era almeno una cerimonia nella quale la vergine coincideva con la cortigiana e i limiti tra bene e male erano cancellati. D'altronde, il senso nascosto dell'orgia rituale era questo: la fusione di tutte le cose, la soppressione di tutti i limiti, la sospensione di ogni «forma», di ogni distanza e discriminazione. L'orgia rituale era compiuta soltanto in certe occasioni; quando la Grande Dea chiedeva la realizzazione sulla terra, nella condizione umana, di ciò che essa era permanentemente, nel Cosmo: il «tutto», senza forme, senza limiti, senza differenze. L'orgia rituale si effettuava all'inizio della primavera, per assicurare un buon raccolto. Si trattava, dunque, di un gesto magico, di promozione della fertilità della terra. Poiché da una parte l'orgia simbolizzava — attraverso la cancellazione di tutti i limiti — la grande fusione sotterranea, il disfacimento del chicco e il suo passaggio in altra cosa; proprio come avviene nell'orgia, l'oscurità tellurica unifica, totalizza, fonde i contorni e i limiti. Gli adoratori delle Grandi Dee di origine e struttura agricola, credevano che l'orgia stimolasse la forza produttiva della terra attraverso l'imitazione magica dell'atto della creazione vegetale, e che non presupponesse soltanto lo scatenamento sfrenato di Eros (gli eccessi orgiastici in rapporto con ogni cerimonia agricola) ma, in primo luogo, la realizzazione di una confusione drammatica nella quale non si poteva più distinguere nessuna «forma» e nessuna «legge». Doveva essere realizzato (sperimentato) lo stato primordiale, pre-formale, caotico — lo stato che, sul piano cosmico, corrispondeva alla situazione indifferenziata, caotica, prece30

dente alla creazione — al fine di promuovere, per mezzo della virtù della magia imitativa, la fusione dei germi nella stessa matrice tellurica e l'atto della fertilità. L'orgia rituale è in stretto rapporto con la vita vegetale. In Tracia, il culto di Dioniso-Zagreus era effettuato con dei frenetici baccanali; la fuga delle donne, di notte, attraverso foreste e montagne, lo sbranamento del capretto (simbolo di Dioniso) e la sua consumazione rituale, il sacrificio del capro e l'aspersione del suo sangue nei campi arati, eccetera. È significativa, anche qui, la presenza esclusiva delle donne; è un mistero nel quale sono accettate solo le donne, le sole che conoscono e dominano i misteri dell'oscura vita vegetale. Il legame tra le donne, la terra e la Grande Dea si è conservato, nelle società agricole, fino ai giorni nostri. Gli innocentisti vivono e compiono i loro «misteri» in sotterranei e cantine. Questa mostruosa eresia è condivisa particolarmente dalle donne. Ma, come in ogni eresia, i princìpi sono qui esagerati fino allo stravolgimento. Gli innocentisti, essendo «ossessionati» mentalmente dai princìpi femminili («fusione», oscurità e calore tellurico, amoralismo magico, eccetera) — sono costretti a sfuggire la luce del sole e a penetrare, sempre più profondamente, nella terra. Potremmo quasi parlare di una «meccanica» spirituale, che attira questi «invasati» nelle gallerie oscure, nel calore e nel buio sotterraneo, là dove non si distingue più nessuna «forma» e dove ogni «legge» perde la sua evidenza. Senza rendersene conto, questi ossessi, essendo dominati esclusivamente dal principio femminile nella sua forma più abietta, tentano con tutte le loro forze di diventare semi, di conquistare una «condizione agricola» dell'uomo, decomponendosi nel senso proprio della parola; poiché vivono in sotterranei, in una terribile dissolutezza, in una inimmaginabile sporcizia, consumati dalle malattie e impazziti dalle orge. Abbandonati per alcuni anni a se stessi, gli innocentisti finirebbero con il decomporsi definitivamente, unificandosi con la terra calda e oscura che tanto amavano prima di morire — così come imputridiscono i semi. Ci siamo soffermati su questa eresia, perché in una eresia si comprendono meglio le conseguenze ultime dei princìpi ai quali essa si ricollega. Ogni eresia è l'esagerazione mostruosa di un aspetto della verità. Nel caso dell'innocentismo, l'eresia consiste nella esaltazione oltre misura del principio femminile e nella comprensione degradata di questo principio; nella sua comprensione, potremmo dire, esclusivamente, attraverso i sensi, come delle larve. L'uomo è un essere che vive nel Cosmo, e che non si può perfezionare se non tenendo conto di 31

tutte le forze cosmiche e di tutti i princìpi che governano queste forze. Parlando in termini mitici, i ritmi cosmici sono guidati da due astri: il sole e la luna, e ogni uomo deve tener conto, nella sua esperienza interiore, di questi «princìpi». Ponendo in accordo armoniosamente in modo esclusivo, la sua esperienza con il sole, l'uomo diventa, con il passare del tempo, «astratto», sterile per un eccesso di luce e chiarezza. Al contrario, sottomettendo l'intera sua esperienza ai ritmi lunari o al «principio femminile» (presente in «terra» e nella donna), l'uomo si decompone per un eccesso di «umidità» o di «oscurità». Ma, a questo proposito, si può aggiungere un'ulteriore osservazione: c'è una «meccanica» bio-mentale, che tende a fissare un uomo o una cultura (più esattamente: il gruppo etnico creatore di cultura) a quel livello che si è scelto nel momento in cui ha rotto l'equilibrio cosmico e ha aderito, in modo esclusivo, a un solo principio. Abbiamo visto come gli innocentisti, esaltando l'orgia e il ritorno allo stato amorfo, indifferenziato — siano attratti in modo fatale, «meccanico», nei sotterranei oscuri e caldi della terra, e trasformati nello «stato» paradisiaco al quale aspira la loro teoria eretica: sono trasformati in semi. Gli uomini delle culture agricole, generalmente, attribuiscono questo stato amorfo, di semi, solo ai morti. Il seppellimento dei cadaveri ha questo senso: la fusione dell'uomo carnale nella matrice che gli ha dato nascita — e la trasformazione dell'«anima» in larva, nell'attesa della resurrezione. Gli inferni pre-cristiani si trovano sotto terra. L'inferno cristiano è anch'esso situato sotto terra. Ciò che i greci, ad esempio, chiamavano «larve», era uno stato pre-formale dell'uomo, uno stato degradato (dalla «forma» alla «pre-forma»). Gli egizi creavano, attraverso certi rituali, una «sorte agricola» all'anima del morto(11) trasformandolo in seme. Come il seme, il corpo del morto è seppellito sotto terra nudo, vale a dire, denudato di «forme», amorfo. Ricordiamo che anche le Grandi Dee orientali sono rappresentate nude; e nudo, senza nessuna forma, metafisicamente parlando, significa virtuale. Il cadavere è fatto ritornare nella grande matrice tellurica, fonte di tutte le forme. Ma, ciò che una cultura agricola applica solo ai morti, le eresie delle culture agricole (ad esempio, l'innocentismo) applicano all'uomo vivo. Ciò che in una cultura agricola si pratica in determinate circostanze (orge cerimoniali per la promozione della vegetazione, eccetera) in una eresia derivata dalle culture agricole, si pratica in modo (11) «Zalmoxis», I (1938), p. 206.

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permanente, senza periodicità. La vita dell'uomo normale, nelle società arcaiche, è in stretto rapporto con i ritmi cosmici. Ora, questi ritmi non sono guidati esclusivamente dalla luna, dalla notte, dall'umidità, dall'oscurità sotterranea. Il sole, la luce, la siccità, eccetera, hanno anch'essi la loro parte di responsabilità nella conduzione della vita umana. E ci sia permessa ancora un'osservazione, di grande rilievo per tutto ciò che seguirà da qui in avanti: i «princìpi», se sono intesi nel loro senso immediato e solo in quanto si verificano ai livelli inferiori della realtà — portano alle eresie e alla degradazione. Il principio femminile, inteso nei suoi livelli superiori, feconda l'opera di un Goethe, ma, se è tradotto nel senso «immediato», sensoriale, epidermico, porta all'orgia sotterranea e alla decomposizione.

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Il «Tempo» e il «Destino»

Quanto più si studiano da vicino i culti delle Grandi Dee eurasiatiche e afroasiatiche, tanto più appare evidente la loro funzione ambivalente. Queste «Madri» del tutto sono, allo stesso tempo e con eguale fervore, divinità della vita e della morte. Anticipando in qualche modo le conclusioni di questo studio, possiamo dire fin da ora che la mente umana, dai tempi più antichi, ha intuito la divinità come una totalità di attributi, come una summa nella quale tutti i contrari coincidono. Come vedremo più avanti, la formula di Nicola Cusano, coincidentia oppositorum, trova le sue fonti non soltanto nella speculazione metafisica e nell'esperienza mistica di un Meister Eckhart o di uno Pseudo-Dionigi Areopagita, ma anche nella tradizione metafisica di moltissime culture. Ciò che è separato e antagonista nella realtà cosmica, è unificato, «totalizzato» nella divinità. Questa coincidenza dei contrari non può essere «compresa» dalla mente umana, così come non può essere realizzata dall'esperienza umana. Come dice lo Pseudo-Dionigi Areopagita, è un mistero, che svela il suo significato solo in determinate circostanze. Questo «mistero» fu conosciuto, senza dubbio, anche dagli adoratori delle Grandi Dee, dalla preistoria fino ai tempi immediatamente precedenti al cristianesimo. Pur collocato, certamente, ad un livello inferiore, si trattava tuttavia di un «mistero», poiché, come scrivevamo sopra, nel culto delle Grandi Dee, i «contrari» coincidevano su tutti i piani: morale, religioso, sociale, eccetera. Le giovani vergini praticavano la prostituzione sacra nei templi, per promuovere la fecondità dei campi; la cortigiana coincideva con la vergine pura, il «sacro» coincideva con il «profano», l'uomo libero coincideva con lo schiavo. I Saturnali costituivano un formidabile rovesciamento dei valori. Ciò che era vietato durante l'anno, era permesso e addirittura promosso durante i Saturnali. Lo schiavo prendeva il posto del padrone, l'onorata matrona si identificava con la donna pubblica dissoluta. Utilizzando una terminologia moderna, potremmo parlare di un rovesciamento di tutti i valori. La funzione rituale e il fondamento metafisico di questo rove35

sciamento è tuttavia trasparente: i Saturnali «totalizzavano» i frammenti di una società umana, allo stesso modo in cui la cerimonia agricola che sta alla base dei Saturnali «fondeva» i germi nella grande matrice tellurica. Il tutto diventava come all'inizio, ab initio, o, se vogliamo ricordare il termine sanscrito, agre, — in principio. E tale «totalizzazione» era realizzata attraverso il «rovesciamento di tutti i valori» e la coincidentia oppositorum. Questa coincidenza dei contrari, si verifica proprio al livello, potremmo dire «biologico», del culto delle Grandi Dee. In effetti, sebbene le dee della terra siano considerate dappertutto come una fonte di beatitudine e di opulenza — il loro culto comprende pratiche sanguinose e rituali selvaggi. Sebbene la dea asiatica sia chiamata Ardvi, «la mansueta e dolce», il suo culto comportava il frustarsi con un fascio di verghe, il frustarsi a sangue, per promuovere la fertilità della terra. Rituali violenti simili si incontrano ovunque in Asia e in Eurasia, sempre in rapporto con le Grandi Dee. L'esperienza religiosa realizzata nei culti delle divinità agricole faceva coincidere la sofferenza fisica con la beatitudine spirituale. Proprio come la purezza morale coincideva con la dissolutezza e il non-valore (il profano) coincideva con il valore (il sacro) — allo stesso modo, il dolore coincideva con la beatitudine. È evidente che, in tutti questi rituali e in tutte queste cerimonie si perseguiva una totalizzazione delle «forme», una coincidenza dei contrari. Un'altra Grande Dea, il cui culto era praticato in Iran, si chiamava Anahita, «l'immacolata». È evidente, alla luce di tutto quanto sappiamo sulle Grandi Dee, che questo nome le si adattava altrettanto bene che il suo contrario(12). Kalì, popolare dea indiana, significava la «mansueta e benevolente», sebbene la sua iconografia sia terrificante: la dea è piena di sangue, ha una collana di teschi umani, gli occhi iniettati di sangue, tiene in mano un calice ricavato da un teschio umano, eccetera. A questa dea è tributato il culto più sanguinoso — e nello stesso tempo più popolare di tutta l'Asia(13). (12) Allo stesso modo in cui le "Iele" sono chiamate in certi luoghi le "Milostive". Nel folclore romeno le "Iele" sono demoni femminili, fate maligne e pericolose per gli uomini ("Milostive" significa letteralmente «clementi», «misericordiose», «pietose»). Sulle tradizioni popolari ad esse legate, vedasi il saggio «Storia delle religioni e culture "popolari"» (pp. 121-145) in Eliade, "Briser le toit de la maison", Gallimard, Paris 1982 (trad. it., "Spezzare il tetto della casa", a cura di R. Scagno, Jaca Book, Milano 1988) (n.d.t.). (13) Cfr. il nostro libro "Yoga", cit., p. 245 ss.

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Avremo ancora l'occasione di ritornare a soffermarci sull'ambivalenza del suo culto. Per il momento, osserviamo che la più importante dea dell'India vedica si chiama Aditi, madre di tutte le cose (la parola aditi in lingua vedica significa «illimitato», «inesauribile»). È la stessa idea del tutto, della Grande Dea nella quale tutte le cose coincidono e tutte si fondono... In oriente, le Grandi Dee sono talvolta rappresentate con un fuso in mano. Esse filano il filo della vita. Così avviene, ad esempio, con la dea con il fuso, trovata a Troia e appartenente all'epoca tra il 2000 e il 1500 a.C. Su alcune monete greche è rappresentata la Grande Dea (la dea Syra), con tutti i suoi attributi: la colombella, il leone, il tempio con l'omphalos e il fuso. Le Parche hanno fatto anch'esse parte, una volta, del gruppo di queste dee. Con il passar del tempo, tuttavia, la loro funzione è stata circoscritta esclusivamente all'ambito limitato della nascita e del destino degli uomini. E, in questa funzione — conservatrice del «filo della vita» — si indovina il carattere ambivalente delle Grandi Dee, che, proprio come guidano i ritmi cosmici (la luna, l'acqua, la pioggia), allo stesso modo dominano il destino dell'uomo. Il filo da esse filato è più lungo o più corto, secondo la loro volontà. Questa «volontà» non ha nessun criterio, di nessun tipo e non è integrata in nessuna legge. Il destino dell'uomo è altrettanto irrazionale della sorte di un'intera comunità umana, che per la volontà della Grande Dea — può perire per fame (siccità) o a causa di una guerra. Una perfetta omologia tra la vita dell'individuo e la vita della specie, omologia realizzata sotto il segno della Grande Dea. La sorte dell'uomo è formulata, miticamente, con il filo della vita. Un periodo più lungo o più corto di tempo. È indubbio che, in certe culture, la Grande Dea ha svolto anche il ruolo di divinità del tempo e del destino. Ad esempio, in India, il «tempo» si chiama kala, parola molto vicina a Kalì, il nome della Grande Dea. Si sono appunto fatti degli accostamenti tra queste due parole, sui quali non è questo il luogo per soffermarsi(14). Il termine kala, «tempo», significa anche «sacro», «oscuro», «macchiato». In queste parole si possono trovare molti significati. Il «tempo» è «nero», poiché è irrazionale, è duro, è implacabile. Colui che vive nel tempo, sotto il dominio del tempo, è

(14) Cfr. J. Przyluski, "From the Great Goddess to Kala", in «The Indian Historical Quarterly», 1938, p. 67 ss.

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un uomo sottoposto a tutta una serie di sofferenze(15). D'altra parte, sempre secondo la concezione indiana, l'umanità vive da molto tempo nel Kali-yuga, cioè nell'«epoca oscura», in cui è possibile ogni specie di confusione spirituale e di crimine, epoca di totale decadenza metafisica, ultima tappa di un ciclo che si conclude. E non è affatto casuale che, nel nome di quest'epoca cosmica, coesistano le nozioni di tempo, oscurità e Grande Dea.

(15) Questa concezione, d'altronde, sta alla base di tutto il pensiero indiano. Vedasi il nostro studio, "La concezione della libertà nel pensiero indiano", in «Asiatica», 4, 1938, pp. 345-354.

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Il pantheon indiano

Il lettore che si imbatte per la prima volta in una mitologia indiana, a stento può dominare una sensazione opprimente di sbigottimento e di timore. Il numero degli dei e dei demoni è infinito e inoltre ogni dio, ogni demone possiede più nomi. La loro genealogia e la loro filiazione sono tanto complicate e oscure quanto lo è la loro onomastica. D'altra parte, quanto più ci allontaniamo dalle fonti più antiche — i Veda — tanto più cresce la confusione. Nella mitologia vedica è possibile orientarsi; ma la difficoltà si accresce quando si tratta di mettere in luce la mitologia puranica o quella «settaria» (come è ingiustamente chiamata la mitologia del Mahabharata). A stento si può conservare un filo conduttore attraverso il labirinto del racconto senza fine di quelle migliaia di dei, demoni, eroi e creature mitiche, che costituiscono tutte insieme il Pantheon dell'India medievale e moderna. Non entra nel piano di questo lavoro uno studio, anche se per sommi capi, della mitologia indiana. Ci siamo proposti soltanto di compiere un'analisi un po' più lunga del tema della «bi-unità» divina e della «totalizzazione» degli attributi divini — e niente di più. Tuttavia siamo in diritto di chiederci: quale è il significato spirituale del Pantheon indiano, ricco e labirintico come la giungla, oceano vegetale nel quale si fondono e si perdono tutte le forme? Per la coscienza indiana, gli dei, come gli uomini, sono forze concrete, individuate; essi appartengono, in altre parole, all'immensa categoria di esistenze «formate»; come gli uomini, gli dei sono namarupa, cioè hanno «nome e forma». Tra uomo e dio non c'è una differenza qualitativa, ma quantitativa. Gli dei godono di certe virtù che non appartengono alla condizione umana; ad esempio, possono essere invisibili, possono assumere ogni forma, vivono in una beatitudine superiore alla felicità che può conquistare l'uomo e vivono molto di più di quanto è concesso agli uomini di vivere. (Non sono tuttavia eterni; eterno non è che lo spirito, il Brahman). Certi uomini, ad esempio gli asceti, possono ottenere con pratiche magiche e occulte le qualità degli dei — anche se, quando le 39

hanno conquistate, sono troppo distaccati dal mondo per poterle far fruttificare. D'altra parte, gli uomini hanno, grazie alla loro stessa condizione umana — che è drammatica, tormentosa — alcune possibilità inaccessibili agli dei. L'uomo si può «salvare», cioè può conquistare l'autonomia perfetta dello spirito, la liberazione dalla schiavitù delle illusioni, dal Karman che lo riconduce incessantemente nel mondo, con la forza cieca della causalità. L'uomo, in una parola, può superare la condizione umana, ottenendo la libertà assoluta dello spirito. Gli dei non possono superare la loro condizione divina. Gli uomini, poiché sono uomini, cioè esseri effimeri e tragici — possono lottare per sopprimere «il nome e la forma», conseguendo così l'autonomia perfetta; la loro propria sofferenza li spinge a salvarsi. Gli dei, vivendo in una beatitudine continua, non sentono bisogno di autonomia. Da questo punto di vista, cioè da quello della libertà dello spirito, è preferibile essere uomo che dio(16). Per ritornare al significato spirituale del Pantheon indiano, il numero immenso degli dei e delle creature mitiche si spiega con la concezione dell'«eterno divenire», concezione che è la pietra angolare nella metafisica indiana. Tutto ciò che non è «libero», tutto ciò che non è «spirito» — si trova in un illimitato divenire, in una trasformazione senza riposo. Uomo, pianta, dio sono namarupa, sono esistenze «individuate», e come tali innumerevoli, poiché il principio della individuazione è nello stesso tempo il principio della pluralità, e allorquando si cessa di essere l'uno, si è senza-numero. Quando l'unità primordiale si infrange, in altre parole quando comincia la creazione, il Cosmo, il divenire, l'istinto ontologico, latente in ogni frammento della grande unità iniziale, cerca di realizzare l'unità all'altro estremo: nell'infinito. Per questo, tutto ciò che diviene, tutto ciò che ha vita tende a moltiplicarsi fino alla sazietà, fino all'esasperazione. Proprio come nella giungla, dove tutti i semi trovano un proprio posto e tutte le forme vegetali si allacciano in una gigantesca fusione — allo stesso modo, le esistenze, a tutti i livelli cosmici, tentano di raggrupparsi, di accrescere incessantemente il proprio numero più delle altre, di diffondersi dappertutto fino alla completa occupazione del Cosmo. Questa tragica condizione dell'individualizzazione, namarupa, tende sempre verso l'unità primordiale, verso il Grande Tutto indifferenziato, (16) Si veda il nostro libro "Yoga", cit. e lo studio "La concezione della libertà nel pensiero indiano", in «Asiatica», 4, 1938.

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precedente alla creazione. Anche questa tendenza verso l'infinito è un tentativo di superare l'individuale. Se questo «individuale» non è soppresso — come nelle tecniche ascetico-meditative o nella contemplazione puramente metafisica — proprio da parte dell'uomo assetato di autonomia spirituale assoluta, esso è soppresso attraverso l'istinto stesso della sua specie, che tende a moltiplicarsi all'infinito, fino ad una congestione totale, che renda impossibile ogni limite, ogni differenziazione, restaurando il caos, cioè l'immagine alterata dell'unità primordiale, non spezzata dall'atto della creazione. L'uomo «singolo» lotta per conquistarsi, attraverso la teoria metafisica e la pratica ascetico-contemplativa, la libertà (mukti, moksa). Questa libertà assoluta equivale alla restaurazione dell'autonomia dello spirito e alla rottura di tutti i falsi legami con il Mondo. L'uomo come «specie» — proprio come le altre «specie» dell'universo — è dominato dallo stesso istinto ontologico; egli tende, senza rendersi conto, a superare l'«individuazione» (namarupa) attraverso una «totalizzazione» che ha come limite l'infinito. Per questo nell'arte indiana non esiste spazio vuoto. Ogni più piccolo angolo è occupato da innumerevoli esseri, dei, divinità minori, animali, piante, emblemi simbolici. La tendenza dello spirito indiano è di occupare lo spazio, ogni volta che c'è un riferimento alle esistenze e alla vita. Dopo che è liberata, la sorgente deve scorrere senza posa sommergendo tutto. L'arte indiana, generalmente, ha come oggetto il Cosmo, e l'artista indiano tratta il Cosmo in conformità con la metafisica tradizionale dell'India: come una ininterrotta ondulazione, come un oceano di forme viventi, come un tutto in divenire. Per questo non esistono spigoli nell'arte e nell'iconografia indiane. I personaggi sono rappresentati in una continua ondulazione; i loro corpi non si spezzano, ma si inclinano, proprio come le liane; le loro braccia non hanno gesti umani (rigidi, spigolosi) ma si curvano come nella danza. (La danza è il simbolo più dinamico della creazione, del divenire ritmico. Siva ha creato il Mondo danzando, è il Nataraja «re della danza». Si tratta di una formula con la quale si esprime la creazione e la vita cosmica). Guardando le scene rappresentate nell'arte indiana, guardando quegli uomini che si inclinano con ritmi rilassati, quelle donne dai corpi rotondi, quegli animali con un'andatura dondolante (gli elefanti, le gazzelle) — si ha l'impressione che in nessuno di essi scorra sangue ma linfa. Non hanno i movimenti spezzati e i gesti a scatti propri del corpo nutrito con il sangue. Il loro ritmo è lento e armonioso come in 41

un grande sonno. Respirano in questo spazio solare ma la fonte della loro vita si trova altrove, nelle acque, nella terra, nella matrice tellurica. Il senso di questa vita vegetale — in cui si integrano attraverso l'arte anche gli uomini e gli dei — deve essere cercato nel valore simbolico dell'acqua, che è allo stesso tempo il principio della indifferenziazione primordiale (il caos = l'acqua in tutte le tradizioni cosmologiche) e la fonte di tutte le «forme». Il ritmo vegetale è solo una formula del ritmo acquatico. «Occupando lo spazio» con esistenze strutturate in conformità con il ritmo vegetale — l'arte indiana manifesta le proprie tendenze verso la «totalizzazione». Da queste note sommarie si possono trarre fin d'ora alcune conclusioni, sulle quali fermeremo la nostra attenzione più avanti. Dalla sofferenza e dalla schiavitù nasce il desiderio di beatitudine e libertà; l'esperienza del «male» conduce fatalmente al desiderio del «bene». (Poniamo tra virgolette queste parole poiché esse tradiscono il pensiero indiano che non conosce «bene» e «male» se non sul piano manifestato, nel namarupa). Gli estremi non si toccano ma si creano l'un l'altro. Ma, anche al di fuori di questo desiderio di certi uomini di salvarsi, conquistando la piena autonomia spirituale, esiste in tutto il Cosmo, nella struttura stessa del divenire, una tendenza latente di ritorno alla matrice, cioè alla indifferenziazione primordiale. Questa volontà di ritorno trapela, come abbiamo visto, attraverso la moltiplicazione esasperata tendente all'occupazione del Cosmo. Questo gesto è formulato iconograficamente con i ritmi vegetali, con i simboli acquatici; l'acqua, il caos indifferenziato e ricco di latenze (di «semi»), sta all'inizio e alla fine del Cosmo. L'«uno», che non può mai essere conquistato nell'attuale condizione cosmica se non da certi uomini (contemplativi) — è cercato in quel «tutto» al quale conduce la moltiplicazione infinita delle forme. Ritroviamo, anche se sotto un altro aspetto, la stessa formula della «totalizzazione».

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Il serpente, fratello del sole

Nel Pantheon indiano si possono tuttavia distinguere due grandi classi di creature mitiche: gli dei (deva) e i demoni (asura). Le lotte tra questi due gruppi di esseri sovrumani costituiscono uno dei capitoli più drammatici della mitologia indiana. Gli dei hanno lottano con i demoni in particolare per la conquista della bevanda che conferisce l'immortalità (amrta, corrispondente alla ambrosia della mitologia greca). In alcuni testi si dice che gli asura erano più potenti, e i deva più valenti nelle faccende spirituali; per questo, nella grande battaglia per la conquista dell'immortalità, hanno vinto gli dei. Allo stesso modo, nella mitologia greca, gli dei olimpici hanno sconfitto i titani. (D'altronde, il carattere «titanico» del gruppo degli asura non può essere messo in dubbio, e un grande conoscitore della mitologia e della metafisica vedica, Amanda Coomaraswamy, traduce deva con «angelo» e asura con «titano»)(17). Nonostante la loro profonda diversità, gli dei e i demoni sono, in un certo senso, «fratelli». Sia gli uni che gli altri sono i figli di Prajapati, il dio di tutte le creature. Dalla stessa fonte traggono origine i due gruppi di esseri sovrumani in una lotta infaticabile. Si sono staccati da una realtà unica, nella quale il bene e il male coincidevano: Prajapati, dio del tutto. Tuttavia i punti di contatto tra demoni e dei sono numerosi. In India ogni concezione dualista resiste a stento all'istinto monista, che tende a ridurre le esistenze ad una stessa unità, «totalizzando» senza posa. Per questo, nella nostra ricerca, l'ambito indiano ha una rilevanza particolare, poiché in India la tendenza dello spirito umano a superare i contrari è più evidente che in ogni altra cultura. Solo in India era possibile che Agni, il dio del fuoco, dio per eccellenza «olimpico», fosse allo stesso tempo un «sacerdote asura», (17) Si veda, a questo riguardo, il suo libro: "A new approach to the Vedas", London 1933, e lo studio "Angel and Titan", in «Journal of the American Oriental Society», vol. 55, 1935, pp. 373-419. Per quanto riguarda il ciclo dell'ambrosia, rinviamo alla monografia di Georges Dumézil, "Le festin d'immortalité", Paris 1924.

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come è chiamato in Rgveda (VII, 30, 3). Il sole, il prototipo degli dei, è chiamato «sacerdote asura di tutti i deva» (ibid., VIII, 101,12). Ma c'è di più; un testo capitale (Pancavimsabrahmana, XXV, 15, 4) afferma che «i serpenti sono dei soli» (sarpya vadityah)(18). In questa formula è concentrata l'intera dottrina della «totalizzazione» e di ciò che Cusano chiamava la coincidentia oppositorum. Infatti, nella mitologia indiana, come anche in altre mitologie eurasiatiche (greca, iranica, eccetera) il serpente e il sole rappresentano due princìpi diametralmente opposti. Il serpente simbolizza le tenebre, le forze telluriche e sotterranee, il regno dei morti e delle larve amorfe; fonte delle latenze, segno della perdita di sé (i morti non hanno più «personalità») e della fusione con l'«altro» o con l'«altra cosa». (Per questo il serpente è anche un simbolo erotico, poiché Eros fa uscire l'uomo di senno, lo getta verso un altro, annulla i suoi limiti). Il sole, d'altra parte, simbolizza la luce, lo spazio chiaro, lo spazio delle forme precise, in cui non è possibile nessuna confusione. Questi due princìpi — la luce e le tenebre, il sole e il serpente — sono, o dovrebbero essere, il più possibile «contrari». Ed ecco, invece, che nel pensiero mitico indiano — che racchiude in modo così miracoloso i segreti dell'intero cosmo — questi princìpi contrari talvolta coincidono. In realtà la coincidenza è indicata solo in pochi testi ma tuttavia con sufficiente fermezza, tale da non lasciar più nessun tipo di dubbio. In altro luogo, Agni — il fuoco sacro, di essenza solare è identificato con Ahirbudhnya, il grande serpente, emblema di tutte le latenze. In Rgveda (IV, 1, 11) Agni è descritto, «senza piedi e senza testa, nell'atto di nascondere le due estremità», proprio come un serpente attorcigliato su se stesso. L'Aitareyabrahmana (III, 36), afferma che Ahirbudhnya è in modo invisibile (parcksena), ciò che Agni è in modo visibile (pratyaksena); in altre parole, il serpente è solo una virtualità del fuoco, mentre le tenebre sono la luce in latenza. Nella Vajasaneyisamhita (v. 33) Ahirbudhnya è identificato con il sole. Il Soma, la bevanda che conferisce l'immortalità, è per eccellenza «divina», solare. Con tutto ciò, in Rgveda (IX, 86, 44), si dice che il Soma «come Agni, esce fuori dalla sua vecchia pelle», espressione che attribuisce all'ambrosia divina attributi ofidici. D'altronde, l'associazione tra Soma e serpenti è stata fatta su altre basi; i serpenti, in (18) La discendenza comune del sole e del serpente si incontra anche in altre culture. Il serpente è il fratello del sole presso i Natchez; cfr. W. J. Perry, "The Children of the Sun", p. 378.

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tutte le tradizioni, non solo in India, sono considerati immortali, poiché cambiano la propria pelle(19). Quindi, tra la bevanda che conferisce l'immortalità e gli animali immortali, deve esistere uno stretto legame. Per questo un testo dice: «Attraverso il sacrificio, i serpenti hanno sconfitto la morte; chi fa la stessa cosa, sconfigge anche lui la morte. I serpenti hanno abbandonato la vecchia pelle, ne sono usciti e hanno sconfitto la morte...». Questa ambivalenza si incontra ovunque in India. Agni è allo stesso tempo un dio buono e cattivo, amico e nemico degli uomini. In un luogo si dice che «mangia gli uomini» e che ci si deve guardare da lui; in un altro, egli è l'araldo degli dei e l'amico e l'ospite degli uomini. (Sia detto tra parentesi, la divinità è sempre concepita sotto due aspetti coesistenti: minacciosa e mansueta, spietata e facilmente indulgente, terrificante e ristoratrice, eccetera. Rudolf Otto, nel suo celebre libro Das Heilige, si è occupato soprattutto degli aspetti «terrificanti» dell'esperienza religiosa). Varuna, dio dei cieli, è allo stesso tempo il dio dell'oceano, «nido dei serpenti» (naganam alayam), come lo chiama il Mahabharata. Varuna è d'altronde, «re dei serpenti» (nagaraja), ma nell'Atharvaveda (XII, 3, 57) è chiamato «vipera». Tutte queste qualità ofidiche non dovrebbero adattarsi ad una divinità uranica, come è Varuna, della quale si dice che ha «mille occhi», da spia, con i quali vede tutto ciò che si fa sulla terra(20). Ma il pensiero mitico e metafisico indiano non perde nessuna occasione per sottolineare la «bi-unità» divina, la coincidenza degli estremi nella divinità, la totalizzazione degli attributi. Il grande mostro, Vrtra, ucciso da Indra, il dio solare, ha la forma di un serpente. Uccidendo Vrtra, Indra libera le acque, che erano state fino ad allora sotto il dominio di questo mostro. Ma la liberazione delle acque per mezzo dell'uccisione del mostro, equivale ad una ri-creazione del Cosmo. Dato che la mancanza delle acque sterilizza e annulla l'intera vita cosmica, Indra, liberando le acque, rende possibile la vita (le piante, le piogge, il nutrimento degli animali e degli uomini, eccetera). Ma lo squartamento del mostro Vrtra da parte del dio solare Indra ha anche un senso cosmologico: la creazione del Mondo. In tutte le mitologie, il Cosmo è creato da un mostro marino, che è ucciso e (19) Frazer ha raccolto molti materiali etnografici in rapporto con questa credenza, cfr. "Le folklore dans l'Ancien Testament". (20) Gli occhi di Varuna sono le stelle. Cfr. «Zalmoxis», I, cit., p. 8.

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fatto a pezzi da parte di un dio solare (il mostro marino Tiamat, ucciso a squartato da Marduk, nella mitologia babilonese, eccetera). Quindi, attraverso lo squartamento del grande serpente Vrtra, il Cosmo prende nascita. Il serpente svolge anche qui il ruolo di «materia», nel senso scolastico del termine. Il serpente simbolizza le latenze, le virtualità, la «materia» informe, caotica (le acque) — dalle quali, attraverso lo squartamento, prende origine il Cosmo, le forme «attuali». Evidentemente, per il pensiero indiano, panteista e immanentista, la «materia» dalla quale si «formerà» il Cosmo è ugualmente una parte della divinità; è la divinità concepita sotto il suo aspetto latente, virtuale, ofidico. Per tale motivo la divinità è attiva, nella religione e nella metafisica indiana, tanto sotto gli aspetti oscuri (ofidici) quanto sotto quelli luminosi (divini). Questi aspetti esprimono le due condizioni della divinità: virtuale e attuale, latente e reale, in stato di riposo e in stato di veglia, tellurica e celeste.

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La «coincidentia oppositorum» nel pensiero indiano

Per questi motivi il nome Varuna dio celeste (con «mille occhi», sahasraksha, come lo chiama il Rgveda VII, 34,10), deriva dalla stessa radice vr — che significa «sviluppare», «manifestare», «attorcigliare» — come il demonio mitico dalla forma di serpente, Vrtra. Forse questo particolare non sarebbe nient'altro che una semplice coincidenza, se non conoscessimo la teoria indiana sulla «bi- unità» divina. Fin dai tempi vedici, quando la metafisica era formulata miticamente, incontriamo il «binomio» Mitravarunau, cioè «Mitra e Varuna», simbolo della divinità «totale», in cui sono compresi i due «aspetti» della divinità: manifestato e non manifestato, luce e tenebre, visibile e non visibile, eccetera. Varuna, quando è solo, è dio del giorno e della notte. Nel binomio Mitravarunau, cioè allorquando è a fianco e in contrasto con Mitra, è il «potere delle tenebre». Le tenebre devono essere qui intese nel loro senso ontologico (il non visibile, il non manifestato) e cosmologico (le latenze di tutte le cose). Si indovina in questa coppia vedica — nella quale Mitra è «manifestato» e sottoposto al «divenire», mentre Varuna è non visibile ed eterno (Rgveda, I, 164, 38) — la concezione fondamentale che le Upanishad hanno formulato più tardi per mezzo dei due «aspetti» del Brahman: apara e para, «inferiore» e «superiore», visibile e invisibile, eccetera. L'unica differenza tra queste due formule è la loro «natura»; la prima (Mitravarunau) è mitica, mentre l'altra (parapara Brahman) è dialettica. Osserviamo con questa occasione una cosa che è di grande importanza per la comprensione del pensiero indiano: la metafisica indiana non evolve, non cambia; si modificano solo le formule e la terminologia, in modo che essa sia accessibile alle diverse epoche. Nella formula mitologica Mitravarunau è espressa la bi-unità divina in termini mitici, e il senso metafisico di questa formula era accessibile ad ogni individuo dei tempi vedici. Nella formula upanishadica, parapara Brahman, lo stesso principio è espresso per mezzo di termini concreti («inferiore», «superiore»; giù, su) ai quali viene conferito un 47

valore metafisico preciso. L'evoluzione della lingua e la trasformazione degli strumenti di espressione del pensiero, non hanno nulla a che fare con i princìpi e non implicano una eventuale «evoluzione» di questi. Le idee, invece, come tutto ciò che cade nell'esperienza umana, nella storia, sono «vissute» diversamente nel corso dei secoli. Il passaggio da una formula all'altra, per esempio dall'espressione mitica o architettonica alla formula metafisica o iconografica, è avvenuto per il bisogno dell'uomo di comprendere, al livello al quale aveva accesso, le verità che gli erano diventate inaccessibili ad altri livelli. In una parola, potremmo dire che le idee non vivono, ma sono vissute; non «evolvono», ma si «dispiegano», cioè manifestano, con il tempo, tutte le conseguenze e i travagli che erano impliciti fin dall'inizio in esse, che vi si trovavano in nuce. La tendenza dello spirito indiano a «totalizzare» gli attributi della divinità, fondendo nella stessa unità tutte le forme o le manifestazioni possibili della divinità — si incontra perfino nelle credenze «popolari». Tali credenze, sia detto di passaggio, sono popolari non per la loro origine e il loro significato, ma per l'adesione diretta delle masse; sono dogmi «vissuti» e «drammatizzati» dalla coscienza popolare. Così, ad esempio, come abbiamo avuto l'occasione di mostrare altrove(21), il mostro vedico Vrtra è diventato, in alcuni testi medioevali della setta Vaishnava, un brahmano, un coraggiosissimo guerriero e persino un santo! D'altra parte, nella demonologia popolare indiana, assistiamo parimenti ad un fenomeno interessante di coincidentia oppositorum. Il demone Ravana, quello che ha rapito Sita, la moglie di Rama, e l'ha condotta nell'isola di Ceylon, è il presunto autore del trattato di medicina magica infantile, Kumaratantra. Un demone, autore di un trattato che contiene formule e rituali anti-demoniaci! Ma, come osserva J. Filliozat, che ha studiato in una specifica monografia questo trattato, in India, il bene e il male non sono che «les apparences opposées qui voilent la Réalité unique»(22). D'altra parte l'India è piena di simili confusioni tra il bene e il male. La dea Hariti, molto nota nel buddhismo cinese, ha ottenuto il diritto di mangiare i bambini di una regione, in seguito a una «buona azione» compiuta in un'altra vita (cfr. «Zalmoxis», I, p. 201). Molti demoni hanno conseguito le loro virtù demoniche con la forza magica delle loro buone azioni antecedenti. (21) «Zalmoxis», I, cit., p. 201 ss. (22) "Le Kumaratantra de Ravana", Paris 1937, p. 159.

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In altre parole, il bene può servire a compiere il male; una creatura demoniaca, attraverso le «rinunce» ascetiche che si è imposte, può conseguire la «libertà» di compiere il male, poiché le sue buone azioni costituiscono una sorta di riserva di forze magiche, che le permettono ogni tipo di attività. Ma questa «confusione» ha un suo senso nascosto. Infatti, per chi vuole trovare l'assoluto e conquistare l'autonomia spirituale, che significato può avere «il male» e «il bene»? Si tratta di valutazioni che hanno un senso e una validità soltanto nel mondo delle apparenze, in questa vita «ignorante» che tutti conduciamo, a livello delle forme (namarupa) e delle delimitazioni individuali. Ma questo livello è privo di «realtà»; tutto ciò che è multiplo e in divenire è privo di realtà, è «illusorio». Quindi, sia il bene che il male, per colui che si può sollevare al di là dei «contrari», sono apprezzamenti soggettivi, illusori. Il saggio (nel senso indiano della parola: colui che si distacca dalle cose) può vedere come coincidono gli estremi e si fondono i contrari nell'unità divina, nell'assoluto. Per questo motivo, tutte le tecniche ascetico-contemplative indiane insegnano al saggio a rimanere indifferente di fronte ai contrari: bene-male, bello-brutto, piacevoledoloroso, caldo-freddo, eccetera. Chi si è incamminato sulla via della «salvezza», chi tende a conquistare l'autonomia perfetta dello spirito, deve realizzare nella propria esperienza la «totalizzazione» dei contrari, che è il segno dello Spirito puro. Questa idea fondamentale — che tutti i «cambiamenti» e i contrasti sono apparenti — si incontra fin dai testi vedici. In Aitareyabrahmana (III, 44), si dice che il sole «in realtà non tramonta e non sorge» (sa va esha na kadacanastam eti nodeti) ma solo si «avvolge su se stesso» (viparyasyate). Il movimento, il divenire, la notte e il giorno, sono soltanto apparenze; si manifestano così solo a noi che viviamo in modo condizionato («sotto il sole», secondo l'espressione indiana). In realtà, il sole (che simbolizza, come in Dante, lo spirito assoluto, la Divinità) non «diviene», non muta ma si «avvolge su se stesso» sul posto (viparyasyate comprende l'idea di «manifestazione», ma non di alterazione, né di mutamento della posizione nel Cosmo). E il testo aggiunge: «chi comprende questo (ya evam veda) realizza la congiunzione (sayujyam), la somiglianza (sarupatam) e l'identità di Cosmo (salokatam asnute) con Lui»; con il sole, cioè con Dio. Chi comprende che non esiste «tramonto e levata» raggiunge lo stesso «mondo» (loka) del sole — supera, con altre parole, il livello cosmico profano, la condizione umana. 49

L'intera metafisica indiana che, sebbene scritta più tardi, è coesistita con i testi rituali vedici — trova il suo fondamento e il suo punto di partenza in questo testo. Tutti i «sistemi» filosofici indiani convergono verso un unico obiettivo: la pluralità e il divenire sono illusori o, in ogni caso, privi di significato; l'assoluto dello spirito puro è altrove (neti! neti!, «né questo! né questo!» il grido del saggio delle Upanishad); il solo mezzo per conquistare l'autonomia spirituale è di superare i contrari, di comprendere che il bene e il male, la luce e le tenebre, eccetera, sono momenti della medesima unità in diverse manifestazioni. La «totalizzazione» degli attribuiti e dei contrari nella divinità non si incontra solo in ambito indiano. In Cina, ad esempio, la coincidenza dei due principi contrari è indicata anche nell'iconografia e nell'arte. Il simbolo delle tenebre (la civetta) si accompagna al simbolo della luce (il fagiano). In modo ancor più evidente, la luce esce dalle tenebre, costituendo nel contempo una «bi-unità» del tipo di quella incontrata in India. Nell'arte indiana è molto frequente il motivo cosiddetto Garuda e il naga, una aquila che afferra con gli artigli un serpente; intrecciarsi del simbolo solare con quello sotterraneo. A Minosse, come mette in rilievo Sir Arthur Evans (Palace of Minos, vol. IV, pp. 188-190), teste di serpenti completano una fenice, uccello per eccellenza solare. Tutte queste rappresentazioni artistiche hanno un senso metafisico molto preciso: la coincidenza dei contrari nella divinità. L'aspetto dualistico è dovuto all'attività o all'inattività della divinità; che può essere virtuale o reale, latente o manifesta.

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Ohrmazd e Ahriman, «fratelli nemici»

In nessuna religione del mondo il dualismo è stato formulato con più precisione e con più veemenza che nella religione di Zarathustra. La lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre è stata concepita dal profeta iranico come il primo principio della metafisica. A questa lotta, che spezza il mondo in due campi avversi, prende parte tutto il Cosmo, poiché vi sono «forze» fisiche e mentali buone, così come vi sono anche forze cattive; vi sono animali e piante buone, così come ve ne sono anche altre cattive. L'uomo non è solo, in questa lotta decisa tra il bene e il male. Non si tratta soltanto di un conflitto interiore, di contrasti nel mondo morale, ma di una vera guerra cosmica. L'incontro tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, avviene ad ognuno dei livelli della realtà e dappertutto la lotta si sviluppa in modo selvaggio, implacabile. In tutto ciò che l'uomo pensa, sente o fa, vince uno dei due princìpi: il bene o il male. Non esiste azione senza significato, non esiste sentimento senza conseguenze e neppure pensiero «neutro» o gratuito. Tutto cade in uno dei due piatti della bilancia, in quello del bene o in quello del male. In nessuna parte del Cosmo esiste una zona neutra, dove non ci sia lotta tra Ohrmazd e Ahriman, tra il bene e il male. L'uomo che lavora con fatica la terra non è impegnato solo in una attività egoistica, con la quale lui e la sua famiglia si guadagnano il pane quotidiano. Egli è, appunto attraverso il suo lavoro agricolo, un soldato del bene e lotta quindi contro il male. L'agricoltura è infatti una buona azione; è un trionfo della luce sulle tenebre, della cultura sul caos, della ricchezza e della fecondità sulla povertà e sulla sterilità, della stabilità sul nomadismo(23). È tuttavia significativo ed estremamente interessante per il nostro studio che questo dualismo, così intransigente, sia stato modificato in certe «sette» iraniche e che tale modificazione sia avvenuta (23) È stato del resto dimostrato che nella parte più antica dello "Zend-Avesta", le cosiddette "Gatha", può essere identificato l'ideale di una società agricola; cfr. A. Meillet, "Trois conférences sur les Gatha de l'Avesta", Paris 1925.

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precisamente nel senso della «totalizzazione» del bene e del male, della luce e delle tenebre. Ad esempio, in una delle religioni misteriosofiche originate dalle dottrine di Zarathustra, nello zurvanismo, si dice che Ohrmazd e Ahriman erano fratelli. Eznik di Golp, vescovo del Pakrevant, nel suo libro Sulle Sette (sec. V) afferma che Ohrmazd e Ahriman sono nati da Zurvan e sono fratelli gemelli(24). Alla stessa cosa credevano anche i manichei che, come si sa, hanno ricevuto il dualismo attraverso il loro profeta Mani, direttamente dalle religioni iraniche(25). Si comprende l'importanza di queste credenze che si riferiscono all'origine comune di Ohrmazd e Ahriman. Il bene e il male sono fratelli, poiché provengono dal medesimo ceppo. Prima che il Cosmo intero divenisse il teatro di lotta dei due princìpi contrari e antagonisti, prima che Ohrmazd e Ahriman si dividessero il Mondo — esisteva soltanto un unico principio, Zurvan, il Signore in cui tutti i contrari coincidono, che non conosce né «bene», né «male», né «luce», né «tenebre», poiché comprende il tutto in sé. Nei termini dell'ontologia vedica, si potrebbe dire che Ohrmazd e Ahriman sono gli aspetti diversi — rispettivamente manifesto e latente — di Zurvan. Tutto quello che ho ricordato, in questo studio, sulla bi-unità divina nella metafisica indiana, sul binomio Mitravarunau, sui serpenti e sugli astri solari, eccetera — ci aiuta a comprendere il significato di queste credenze iraniche sulla filiazione comune di Ohrmazd e Ahriman. Il dualismo zoroastriano si è conservato in seguito in tutte le religioni iraniche e in tutte le sette cristiane che da esse sono nate (il manicheismo, il bogomilismo, il paulicianismo, eccetera). Ma è interessante osservare che questo dualismo non si è potuto mantenere nel suo stato puro. Prima che il Mondo diventasse preda del male e prima che scoppiasse la lotta tra i due Princìpi, esisteva uno stato unitario, indifferenziato, «totale». Il dualismo è un destino dell'attuale condizione cosmica e umana. Ma, all'inizio, ab origine, in principio, non esisteva conflitto, non esistevano «parti», e così succederà alla fine; tutto ciò che ora è spezzato e moltiplicato sarà di nuovo totalizzato, (24) Langlois, "Collection des historiens anciens et modernes de l'Arménie", tome II, Paris 1869, p. 376. (25) Cfr. i rimandi ai testi in Erik Peterson, "Ein Theos", Göttingen 1926, p. 311; E. Benveniste, "The Persian Religion", Paris 1929, p. 78 ss.; H.S. Nyberg, "Die Religionen des Alten Iran", Leipzig 1938, p. 380 ss.

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unificato... Le idee, che sono comprese e vissute diversamente nel corso dei secoli dai vari popoli, hanno talvolta una «storia» piena di avventure. Così è avvenuto anche con questa idea tradizionale della bi-unità divina, le cui diverse interpretazioni e formulazioni abbiamo passato sommariamente in rassegna. Come dicevamo anche in un'altra occasione, le intuizioni primordiali, espresse all'inizio con simboli e affermazioni di valore metafisico, sono degradate con il passare del tempo, fino a diventare semplici superstizioni, leggende o motivi decorativi. Ad esempio, l'idea della filiazione comune del bene e del male, si incontra, sotto una forma degradata, nella demonologia popolare dell'Asia Minore e della area balcanica. Attraverso i lavori di M. Gaster, del professor N. Cartojan e del professor Valeriu Bologa, conosciamo oggi in maniera abbastanza dettagliata la storia del motivo della diavolessa che ruba i bambini lattanti (Avestita, «l'ala di Satana») e del santo Sisoe, che la insegue, le riprende i neonati, e la paralizza con la magia di un talismano(26). L'origine di questa leggenda è, naturalmente, orientale. Proprio il nome di Sisinie rivela l'origine iranica(27). Il santo Sisinie è rappresentato in amuleti come un cavaliere che trafigge con la lancia una diavolessa seminuda, scarmigliata, che giace a terra sotto le zampe del cavallo(28). L'accostamento tra san Sisoe (Sisinie) e san Giorgio è, da questo punto di vista, evidente. Il motivo iconografico del santo cavaliere è stato attribuito da Strygowski ad influenze iraniche. Il problema non è stato ancora chiarito, ma non ci interessa troppo nel presente studio. Ciò che è, per noi, di particolare importanza, è il fatto che, nelle più antiche versioni di questa leggenda, san Sisinie era il "fratello" della diavolessa che uccide i bambini. Un proverbio abissino (citato da Winkler a p. 128) loda il coraggio di questo santo «che ha ucciso sua sorella», mentre nel Sinaxar(29) etiopico, il 21 di aprile, quando è festeggiato san Sisinie, si dice chiaramente che il santo ha ucciso con la (26) Si veda la bibliografia di questo problema in "Notes de demonologie", in «Zalmoxis» I, cit., pp. 197-203. (27) H.A. Winkler, "Salomo und die Karina", Stuttgart 1931, p. 154; E. Peterson, op. cit., p. 122. (28) Una buona parte degli amuleti copti e greco-orientali sono stati pubblicati da P. Perdrizet, "Negotium perambulans in tenebris", Strasbourg 1922; essi sono riprodotti anche nei volumi citati di Peterson e di Winkler. (29) "Agiografia", compendio espositivo delle vite dei santi (n.d.t.).

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lancia sua sorella (Winkler, pp. 129-130). In un apocrifo etiopico, tradotto da R. Basset (La Haute Science, vol. I, p. 351), la diavolessa, chiamata Uerzelia, uccide proprio il figlioletto di suo fratello Susnyos, e questi prega Gesù Cristo di dargli tanta forza per uccidere sua sorella. In effetti, con l'aiuto di Cristo, Susnyos trafigge con la lancia Uerzelia e la uccide... Il santo e la diavolessa, il bene e il male, sono nati dallo stesso ceppo. Il più grande nemico delle partorienti e dei lattanti, la diavolessa Uerzelia (Avestita), è proprio la sorella del più coraggioso difensore delle madri e dei neonati, san Sisinie (Sisoe). Questa coincidenza dei «contrari» è parsa, con il trascorrere del tempo, così strana che la mentalità popolare ha tentato di metterla da parte. Nelle leggende greche, slave e balcaniche di san Sisoe, la diavolessa Avestita non è più la sorella del santo, ma è colei che ruba i bambini della sorella di questi, Malentia. Il santo Sisoe diventa, come era più naturale per la capacità di comprensione popolare, il difensore dei figlioletti di sua sorella. La leggenda si è modificata in conformità con la legge della «degradazione del fantastico»; e precisamente gli elementi che non erano più capiti, sono stati trasformati in modo tale da costituire un episodio coerente. Quando le masse incolte, che hanno ricevuto e hanno ampliato le leggende del santo in lotta con la diavolessa hanno dimenticato il senso primordiale e il significato metafisico di questo conflitto (il bene e il male iniziano dallo stesso ceppo) — lo hanno modificato in conformità con la loro capacità mentale e spirituale. Nella storia delle religioni e nel folclore si incontrano innumerevoli casi di simili degradazioni di senso. A noi interessano, in queste pagine, molto più i sensi primordiali di quelli degradati, modificati attraverso successive «esperienze di vita» (trairi). Per questo mi sembrano tanto significativi i dettagli conservati nelle versioni etiopiche della leggenda di san Sisinie. Ritroviamo qui un tema mitico antichissimo, che ha avuto tuttavia una grande diffusione al tempo del sincretismo e dello gnosticismo. In particolare: la lotta tra Adamo e Lilith (la prima moglie di Adamo), la lotta tra l'Eone buono e l'Eone cattivo. Sorella e fratello, nel caso della diavolessa Uerzelia e di Sisinie; marito e moglie, nel caso di Adamo e di Lilith. Ma, in entrambi i casi, avvicinamento estremo, parentela, i vincoli più stretti che possono esistere tra esseri umani. Il bene e il male, il santo e il diavolo, nascono dallo stesso ceppo — esattamente come Ohrmazd e Ahriman. Questa «confusione» tra gli estremi ci aiuta a comprendere meglio il caso di Ravana, il demone indiano che rapisce e sconcia i bambini e 54

che, allo stesso tempo, è il presunto autore di un popolarissimo trattato di magia e medicina infantile. I due «contrari» sono fusi, qui, in una sola persona mitica. Potremmo andare anche oltre nella ricerca dell'origine di questo mito, drammatizzato all'origine del cristianesimo sotto la forma del santo in lotta con la diavolessa. Vi sono sufficienti indicazioni che possono orientare la nostra ricerca. Winkler ha cercato di mostrare, proprio nel lavoro su ricordato (p. 149 ss.), che, alla origine, la diavolessa era solo l'espressione mitica del mondo delle tenebre, mentre l'eroe (il santo dell'epoca successiva) era la formula mitica del mondo della luce, e la lotta tra di loro era una lotta tra fratello e sorella. Crediamo che il senso primordiale di questo mito sia più profondo, cioè esprima in modo chiaro una verità metafisica. La luna, così come abbiamo avuto l'occasione di ricordare in uno dei capitoli precedenti, simbolizzava per certe popolazioni dell'Asia Minore la realtà ultima, fonte della vita e ritmicità del Cosmo. La vita come la morte erano valorizzate dai ritmi lunari; proprio come la luna cresce e muore, per rinascere, così nasce e muore l'uomo, per nascere di nuovo. Tra la vita e la morte il conflitto è solo apparente, così come lo è tra bene e male. E la vita e la morte e il bene e il male sono soltanto aspetti susseguenti della stessa realtà unica, inaccessibile all'esperienza umana. E questa realtà, che «totalizza» i contrari e gli estremi, è espressa miticamente dalla luna...

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«... quando l'essere non era, e neppure il non essere ...»

I documenti citati o soltanto ricordati finora, mettono in chiara luce il seguente fatto: la presenza più o meno decisa dell'idea di «biunità» divina e di totalizzazione degli attributi e degli estremi entro lo stesso essere divino nelle religioni e nelle mitologie arcaiche, come anche nelle credenze popolari da esse derivate. Questa idea la si incontra più o meno allo stato puro, così come i documenti che ce l'hanno trasmessa, hanno conservato, più o meno chiaramente, la formula metafisica primordiale. È inutile aggiungere che la consistenza metafisica di un testo indiano arcaico (ad esempio i Veda e le Upanishad) non la si incontra in una credenza raccolta da una demonologia popolare, e del resto non saremmo neppure in diritto di incontrarla, non solo perché le leggende e le superstizioni popolari in genere sono prodotte dal degradarsi di alcuni elementi teoretici o mitici iniziali, ma anche per il buon motivo che le Upanishad, ad esempio, erano scritte per trasmettere a un certo gruppo di «iniziati» una serie di formule metafisiche e di regole contemplative, mentre moltissime credenze e superstizioni che abbiamo ricordato, rispondevano a bisogni completamente diversi dal desiderio di conoscenza metafisica. L'estrema eterogeneità dei documenti che abbiamo passato in rassegna costituisce, tuttavia, un argomento ulteriore per dimostrare l'ecumenicità dell'idea di polarità e di ambivalenza divina. Che questa idea sia espressa miticamente (i Veda) o metaforicamente (le Upanishad), in rituali orgiastici (i culti della Grande Dea) o in eresie derivate da una abnorme comprensione del cristianesimo (l'innocentismo), in una certa valorizzazione del simbolismo acquatico e vegetale (l'arte indiana) o in emblemi iconografici (Cina, Creta), in un fatalismo popolare (il filo della vita), o in superstizioni demonologiche (AvestitaSisinie), in mirabili formule gnostiche (Adam-Lilith, l'Eone buonol'Eone cattivo) o in una cosmologia dualista (Ohrmazd e Ahriman), è un fatto che ci interessa in minor misura. Come dicevamo, questa idea primordiale è stata variamente «vissuta» e, soprattutto, compresa su molti piani. Essa ha tuttavia 57

fruttificato dappertutto: nella metafisica, nella mistica, nella mitologia, nella demonologia, nell'arte, eccetera. È un'idea diffusa universalmente, che risponde, indubbiamente, a un bisogno fondamentale dell'uomo, dal momento in cui questi prende coscienza della sua posizione nel Cosmo. Da questa coscienza della sua posizione nel Cosmo, deriva anche il dramma dell'uomo e la sua metafisica. Questa coscienza è infatti, in un certo senso, una «caduta». L'uomo si sente «separato» da qualcosa e questa separazione è una fonte di ininterrotto dolore, timore e disperazione. Si sente debole e solo; e quel «qualcosa», qualunque nome gli dia, è potente ed è totale (più precisamente: «totalizzato», poiché comprende a un tempo tutto ciò che non è l'uomo, e tutto ciò che è altro da lui). Si sente separato da qualcosa, «spezzato» — e intuisce la potenza (la divinità) come un intero, come una grande unità impermeabile e perfetta, sufficiente a se stessa. Tutto ciò che l'uomo pensa coerentemente e tutto ciò che compie con un certo senso, dal momento in cui diviene cosciente della sua posizione nel Cosmo, è diretto verso un unico obiettivo: sopprimere questa «separazione», rifare l'unità primordiale, reintegrarsi nel «tutto» (sia questo «tutto» concepito come una potenza impersonale, come un Dio, eccetera). Ogni atto religioso, per quanto primitivo (rituale, atto di adorazione, liturgia, eccetera) è un tentativo di rifacimento dell'unità cosmica e di reintegrazione dell'uomo. In ogni atto religioso si realizza, infatti, un paradosso, si attua la «coincidenza dei contrari». Il primitivo che si inchina davanti ad una pietra o a un albero, realizza proprio in questo suo oscuro atto religioso una coincidentia oppositorum, poiché la pietra o l'albero, nella sua coscienza, diviene tutto rimanendo nello stesso tempo parte; è un oggetto sacro, pur restando allo stesso tempo un oggetto qualsiasi nel Cosmo. Attraverso ogni rituale si realizza il paradosso della più assoluta ambivalenza; il mattone dell'altare vedico è Prajapati, il dio del tutto, restando allo stesso tempo un semplice oggetto; nel rituale vedico l'essere (Prajapati) coincide con il non essere (il mattone), il tutto coincide con la parte. Non è difficile comprendere il significato metafisico di questi atti religiosi. Allo stesso modo in cui, con il sacrificio vedico, un oggetto inanimato può coincidere con Prajapati, conquistando così l'unità primordiale precedente alla creazione — l'uomo può sperare di rifare, in sé e attraverso di sé, l'intero iniziale, quel «tutto» non spezzato e non frammentato. Perciò, come dicevamo sopra, in tutto ciò che fa con 58

un certo senso (ritualmente) e in tutto ciò che pensa coerentemente (metafisicamente), l'uomo tende incessantemente verso l'unificazione, verso la reintegrazione, la «totalizzazione». Quindi il tipo dell'uomo perfetto, assolutamente in tutte le culture, è l'androgino, come vedremo nelle pagine seguenti. L'uomo non può morire se non ha conosciuto, entro il suo essere, l'unità primordiale: uomo-donna. Questa «unificazione» è un atto sacro, quasi un rituale. Per tale motivo, nelle culture cosiddette primitive, l'uomo è trasformato magicamente in donna, proprio nel momento della sua iniziazione; in altre parole, egli cerca di conseguire la coincidentia oppositorum, di cui si sta parlando, nel proprio essere. Attraverso l'iniziazione, infatti, il giovane passa dalla pubertà alla maturità; diviene se stesso, cioè uomo; e proprio quando si realizza questo passaggio alla virilità, egli sperimenta simbolicamente il polo contrario, la femminilità. Simultaneamente al potenziamento della sua maschilità, si promuove la sua «femminilità», in modo tale che entrambi i poli coincidano e coesistano per un certo tempo, costituendo un uomo compiuto. L'androgino, d'altronde, non è che una copia del tipo ideale del dio. La stessa divinità è androgina, poiché la divinità totalizza i contrari. In verità, ogni divinità è polare, poiché comprende tutte le forme e tutte le possibilità. Jahvè è buono e iroso allo stesso tempo. Dio, così come è stato conosciuto perfino dagli uomini più perfetti, i teologi e i mistici, è tremendo e mite. L'avvicinamento alla divinità può uccidere o salvare. L'esperienza mistica è rapimento e agonia, essa fa scoprire all'anima umana il dolore abissale e l'estasi della perfezione. Nelle più pure forme dell'esperienza religiosa, cioè nel cristianesimo, questa intuizione primordiale si è conservata e ha raggiunto vertici terribili, che solo la teologia mistica può indagare. (Ci affrettiamo ad aggiungere che il punto di vista teologico sulla polarità divina, così come si trova negli scritti dello Pseudo-Dionigi Areopagita, di Meister Eckhart e di Cusano, non rientra nei limiti di questo studio. Allo stesso modo non vi rientrano le speculazioni metafisiche sul nulla, per esempio, in Leonardo da Vinci, in Leibniz, nell'abate Galliani, in Hegel, eccetera). In India, accanto alla forma mite di una divinità, esiste una forma furiosa (Krodhamurti). Il dio Rudra-Siva distrugge e crea così come le dee della fertilità dell'Asia, che sono allo stesso tempo divinità della fecondità e della distruzione, della nascita e della morte. Abbiamo visto, però, che il saggio indiano, il quale tende al superamento della condizione umana, si sforza di sopprimere nella sua espe59

rienza e nella sua coscienza ogni tipo di estremi, cioè si sforza di conquistare uno stato di perfetta neutralità e indifferenza, di diventare imperturbabile al dolore e alla gioia, eccetera, di diventare autonomo. Questo superamento degli estremi, che il saggio indiano cerca attraverso l'ascesi e la contemplazione, significa tuttavia una coincidenza dei contrari. Nella coscienza del saggio non esistono più conflitti, così come nella sua esperienza non sussistono più i contrari: dolore e gioia, desiderio e repulsione, freddo e caldo, piacevole e spiacevole, eccetera. Avviene anche in lui una «totalizzazione» che corrisponde alla «totalizzazione» degli estremi nella divinità. D'altra parte, come ho mostrato altrove(30), dal punto di vista indiano, non è possibile un compimento se non si realizza una «totalizzazione» degli estremi; il neofìta, all'inizio, cerca di cosmicizzare l'intera sua esperienza, omologandosi con i ritmi che dominano l'universo («il sole» e «la luna»), ma, dopo che ha realizzato questa cosmizzazione, egli tende a unificare «il sole» e «la luna», cioè a totalizzare l'intero Cosmo, rifacendo l'unità primordiale precedente alla creazione. Tale unità non significa il caos della pre-creazione, ma l'essere indifferenziato, in cui tutte le forme sono riassorbite. In ogni rituale e in ogni atto mistico è presente un fondamentale paradosso, allorquando si rende possibile la coincidenza di un frammento (ad esempio, nel rituale indiano, il mattone dell'altare) con il tutto (Prajapati), del nulla (l'uomo) con l'essere (Dio), del non-valore (l'oggetto profano) con il valore assoluto (il sacro). Attraverso questi rituali l'uomo si reintegra nel Tutto; il suo non essere coincide con l'Essere divino. Per rendere possibile un tale paradosso è necessaria la cosiddetta rottura di livello, cioè la distruzione del Cosmo e la sua nuova creazione in un'unica unità, nella quale l'uomo non è più separato dalla divinità e il Cosmo non è più spezzato in milioni di frammenti. Questo problema della rottura di livello è però troppo complicato per poter essere dibattuto in alcune pagine. Lo riprenderemo in un'altra occasione. Per il momento, osserviamo che la bi-unità divina risponde a un bisogno fondamentale dell'essere umano: la reintegrazione dell'uomo nel Cosmo attraverso un'assoluta unificazione. In questa unificazione scompaiono gli estremi e si fondono i contrari; il non essere diviene essere, il male coincide con il bene, il profano coincide con il sacro, la (30) "Cosmical homology and Yoga", in «Journal of the Indian Society of Oriental Art», V, Calcutta 1937.

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pluralità coincide con l'unità. Ci fermiamo qui, perché da qui in avanti si dischiude un grave problema di metafisica; di fatto, da qui inizia ogni metafisica. E noi ci siamo proposti soltanto di mostrare le vicissitudini e le «avventure» di un'idea problematica nella storia, ma in nessun caso di dibatterla o di risolverla. Alla fine di questo itinerario — qua e là incresciosamente semplificato — possiamo comprendere le parole del Signore nel Prologo del Faust: «Fra tutti gli spiriti che negano, il Beffardo è quello che mi dà meno fastidio».

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Parte seconda

IL MITO DELL'ANDROGINO

Séraphîta

Séraphîta è forse il più ricco di significati tra i cosiddetti «romanzi fantastici» di Balzac. Questo strano racconto, come pure La peau de chagrin, La recherche de l'absolu, L'enfant maudit e Louis Lambert, è stato collocato dall'autore nella serie «Etudes philosophiques». Non c'è alcun dubbio che meriti il suo posto da tutti i punti di vista. Séraphîta è un vero «studio filosofico» («étude philosophique»), non perché è ricco di conversazioni e commenti filosofici, e neppure per la lunga esposizione delle teorie di Swedenborg o per la strana cosmologia in esso contenuta — ma, in primo luogo, perché Balzac ha riattualizzato in quest'opera un antichissimo e fondamentale tema antropologico: l'Androgino considerato come il modello dell'uomo perfetto, «archetipo primordiale». I lettori si ricordano, certamente, il soggetto e l'ambiente del romanzo. In un castello ai margini del villaggio di Jarvis, nelle vicinanze del fiordo di Stromfiord, viveva una strana creatura di malinconica e insolita bellezza, la quale, simile in questo a tutti i personaggi di Balzac, nascondeva un grande «segreto», un «mistero» impenetrabile. Questa volta, però, non si tratta più di un «mistero», come nel caso di un Vautrin o di un Lucien de Rubempré. Il personaggio di Séraphîta non è solo un individuo bizzarro, in lotta con la società balzachiana; è un essere qualitativamente diverso dal resto dell'umanità e il suo «mistero» non si riferisce a certi avvenimenti del suo passato, ma alla sua struttura umana. Infatti, il misterioso personaggio ama ed è amato, nello stesso tempo, da Minna — che lo vede come un uomo, Séraphitüs — e da Wilfrid, ai cui occhi si presenta come una donna, Séraphîta. Questo perfetto androgino nacque da genitori che erano stati discepoli di Swedenborg. Sebbene non avesse mai oltrepassato i limiti del fiordo e non avesse aperto nessun libro, sebbene non avesse parlato con nessun dotto e non si fosse dedicato a nessuna arte, SéraphîtaSéraphitüs possedeva una vasta erudizione e le sue facoltà mentali 65

superavano quelle dei comuni mortali. Balzac raffigura con patetica ingenuità le qualità di questo androgino, la sua vita solitaria, le sue estasi contemplative. Tutto ciò, ben inteso, sulla base delle dottrine di Swedenborg, nel quale Balzac ha sempre creduto, anche quando non ne comprendeva le opere. Il racconto è scritto soprattutto per illustrare e commentare le teorie swedenborghiane sull'uomo perfetto. L'androgino di Balzac, tuttavia, appartiene solo in minima parte alla terra. Tutta la sua vita spirituale è diretta verso il cielo. Séraphitüs-Séraphîta vive sulla terra solo per purificarsi e amare. Anche se Balzac non lo dichiara con precisione, da tutto il racconto si capisce che SéraphitüsSéraphîta non può abbandonare questa terra prima di aver conosciuto l'amore. Forse questa è l'ultima e la più pregevole perfezione: amare realmente, cioè in senso cristiano, due creature di diverso sesso, e amarle allo stesso tempo. Naturalmente, questo amore è angelico; ma ciò non significa che sia astratto, generico. L'androgino balzachiano ama una certa persona; resta, perciò, nel concreto, nella vita. Non è, per lo meno in terra, un angelo; è un uomo perfetto, cioè un uomo «totale». Séraphîta di Balzac è l'ultima grande creazione artistica europea che ha come motivo centrale l'androgino. Nel corso del secolo scorso ci sono stati dei tentativi di comporre opere letterarie con questo soggetto, ma tali opere non sono mai andate al di là della soglia della mediocrità. Ricordiamo, a titolo di curiosità, il romanzo L'Androgyne (1891) di Péladan, ottavo volume della serie di venti romanzi intitolati dal «mago assiro» La décadence latine. Péladan, nel 1910, è ancora ritornato sullo stesso soggetto, scrivendo l'opuscolo De l'androgyne (nella serie «Les idées et les formes»), che non è completamente privo di interesse, nonostante tutte le aberrazioni e l'informazione confusa in esso presenti. Pare, tuttavia, che l'intera opera di Sar Péladan — che nessuno oggi ha più il coraggio di ripercorrere — sia dominata dal motivo dell'androginia. Almeno così lascia intendere Anatole France, quando dice, riferendosi a Péladan, «qu'il est hanté par l'idée de l'hermaphrodite qui inspire tous ses livres». Péladan è ritornato più volte sul tipo dell'androgino nelle arti plastiche europee e ha discusso con una certa serietà l'androginia della Gioconda e del San Giovanni di Leonardo da Vinci, opere sulle quali si è soffermato, ai nostri giorni, l'occhio scrutatore di Freud. Ma l'intera opera letteraria di Sar Péladan, come anche quella dei suoi modelli contemporanei — Swinburne, Huysmans, Baudelaire — è scritta sotto il segno impuro dell'ermafroditismo, non del mito 66

dell'androgino, come lo abbiamo incontrato in Balzac. Gli eroi di Péladan sono «perfetti» in quanto a sensualità. Il significato metafisico dell'«uomo perfetto» va perduto nella seconda metà del secolo diciannovesimo, e, nell'atmosfera di raffinata decomposizione morale, crimine ed orrore dei libri di Huysmans e Péladan, scompare perfino il ricordo angelico della Séraphîta di Balzac. Théophile Gautier è stato forse l'ultimo dei romantici ad aver intuito, in modo ancora abbastanza torbido, il mito dell'androgino. Chi non ricorda i suoi celebri versi di Emaux et Camées? «Est-ce un jeune-homme? Est-ce une femme? Une déesse ou bien un dieu? L'amour, ayant peur d'être infame, Hésite et suspend son aveu...». Il decadentismo, che ha imperversato per un certo tempo nella letteratura francese e inglese, si cala sempre più profondamente nella morbosa fosforescenza della carne. Il satanismo di Stanislas de Guaita si accompagna all'amoralismo dello Huysmans di Làbas e all'ermafroditismo sensuale dei quadri di Moreau. In Inghilterra, sempre sotto l'influsso di Swinburne, il decadente Alesteir Crowley tenta egli pure di mettere in rilievo l'androginia, ma non riesce a far altro che ad avvicinarsi ad un morboso ermafroditismo. Un'intera letteratura, che presenta tutte le stigmate della decomposizione morale e del satanismo, è cresciuta sotto il segno di questi «maestri». Il lettore può trovare sufficienti citazioni di queste opere rapidamente dimenticate, nel lavoro di Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. (Milano-Roma 1930). Come in tutte le grandi «crisi» che hanno imperversato nella coscienza europea, abbiamo a che fare anche qui con una degradazione del simbolo. Sembrerebbe che, a partire da un certo punto della sua storia, l'Europa non sia più in grado di conservare intatto, per più generazioni di seguito, il significato metafisico di un simbolo. Una volta che un simbolo è «rivelato», cioè una volta che se ne sia presa coscienza in modo immediato, esso comincia ad essere compreso in modo sempre più grossolano, su piani sempre più bassi. In verità, l'androginia di Huysmans, Péladan e Swinburne non è se non una pallida e morbosa imitazione del concetto di «uomo perfetto», che è stato posto di nuovo in circolazione, alla fine del secolo diciottesimo dai romantici tedeschi. Ma, quanta differenza tra queste due concezioni! 67

Nei «decadenti», l'androgino è immaginato come un ermafrodito, visto plasticamente, in cui i sessi coesistono e la cui pienezza ha qualcosa di colpevole, se non proprio di patologico e di satanico. I romantici tedeschi, al contrario, fanno una netta differenza tra ermafrodita e androgino e si interessano esclusivamente di quest'ultimo. Infatti, mentre nel caso dell'ermafrodita, la separazione dei sessi è esagerata — l'androgino costituisce un nuovo tipo di umanità, nella quale la fusione dei sessi, la loro perfetta unificazione, ha creato una nuova coscienza, a-polare. Per i romantici tedeschi, l'androgino sarà il modello dell'uomo perfetto del futuro. Ritter, l'illustre medico, amico di Novalis, nella sua opera, Fragmente aus dem Nachlass eines jungen Physikers, ha abbozzato tutta una filosofia dell'androgino. Per Ritter, il Cristo del futuro sarà androgino. «Eva è nata da un uomo senza aiuto della donna; Cristo è nato da una donna senza l'aiuto dell'uomo; l'Androgino nascerà da entrambi. Ma l'uomo e la donna si fonderanno insieme in un unico fulgore». Il corpo che allora nascerà sarà immortale. Ritter utilizza la terminologia alchemica per parlare in modo adeguato del nuovo tipo di umanità che il futuro partorirà. Questo particolare è abbastanza importante, poiché ci indica un'ulteriore fonte del mito dell'androgino, come è stato riattualizzato dal romanticismo tedesco. Si sa che l'androgino era un simbolo centrale nell'alchimia, come lo era in tutto l'ermetismo antico e medioevale. Baader, anche lui medico, celebre soprattutto per ciò che ha imparato da Boehme e da Swedenborg, si è occupato con passione dell'androgino che ha interpretato con la teologia e con l'occultismo. Per Baader, l'androgino è stato all'inizio del tempo e ci sarà anche alla fine del tempo. L'uomo primordiale è stato androgino: Adamo-Eva. Questa idea antichissima — che ritroviamo in tempi più vicini, negli gnostici e nella Qabbalà — è intesa da Baader in una maniera del tutto personale. L'uomo primordiale (Adamo-Eva), senza coscienza sessuale, aveva come compagno celeste un'Idea, l'androgino che doveva insegnargli a «generare interiormente». Ma l'uomo primordiale cade in peccato: il sonno, durante il quale Eva si separa da Adamo. Questa è la «prima caduta». I due non hanno ancora la precisa coscienza della loro separazione. Soltanto dopo aver morsicato la mela biblica, si rendono conto della loro nudità e si vergognano. Secondo Baader, questa è una seconda caduta. Grazie a Cristo, però, l'uomo ritornerà andro-

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gino, simile agli angeli(31). Wilhelm von Humboldt ha fermato similmente la sua attenzione sul mito dell'androgino in un lavoro giovanile, Über die männliche und weibliche Form. Intuendo una verità tradizionale, che si ritrova in tutte le religioni, Humboldt considera la divinità come androgina. In verità, l'essere supremo non può essere limitato in nessun modo. La teologia, giustamente, chiarisce che la divinità non deve essere intesa con le categorie umane: sesso, età, eccetera. Ma la credenza religiosa in tutti i tempi, credenza semplice, non illuminata dalle rivelazioni teologali, intuisce la divinità come persona concreta; e, poiché la divinità non può essere limitata dal sesso, essa ci viene presentata come androgina. Friedrich Schlegel, ancor giovanissimo, scrive sull'ideale androginico nel suo saggio Über die Diotima, criticando l'accentuazione del carattere femminile e maschile attraverso l'educazione e i costumi, in quanto l'obiettivo verso il quale deve tendere il genere umano è la reintegrazione dei sessi fino al conseguimento dell'androginia. Anche quando non è precisamente indicato, il mito dell'androgino è tuttavia presente in tutta la letteratura romantica tedesca. In un articolo pieno di suggestioni, Nichifor Crainic ha mostrato la presenza dello stesso ideale dell'androgino anche nel poema Luceafarul di Eminescu(32). Sarebbe un interessante problema di storia letteraria rintracciare le fonti occulte che hanno rivelato ai romantici tedeschi questo mito antichissimo. Indubbiamente l'influsso dei mistici e degli occultisti del secolo diciottesimo ha svolto un ruolo preminente in questa «rivelazione». Ma è significativo non l'influsso in quanto tale, bensì il fatto che tutto il romanticismo tedesco si sia lasciato affascinare e fecondare da esso. Gli stessi libri e le stesse idee sono rimasti alla portata di mano degli artisti anche dopo il tramonto del romanticismo, ma non hanno più influenzato nessuno. Vi sono determinate preoccupazioni teoretiche che, con la loro semplice presenza, gettano una luce insolita su di un uomo o su di una società umana. Quindi, il fatto che il mito dell'androgino abbia dominato il pensiero romantico e sia stato intuito anche da un Balzac o da (31) Si vedano i testi in Fr. Giese, "Die Entwieklung des Androgynen Problems in der Frühromantik" (Langensalz 1919) e in Dr. Halley des Fontaines, "La notion d'androgynie" (Paris 1938). (32) "Nostalgia Paradisului" (Bucuresti 1910), p. 393 ss.

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un Eminescu, rappresenta molto di più di un dettaglio di storia letteraria, ma assume la dimensione di un fenomeno che interessa in primo luogo la filosofia della cultura. Per renderci meglio conto dell'importanza che ha questa ultima intuizione del modello perfetto di umanità nella coscienza occidentale, dobbiamo però ricordare, almeno nelle sue linee generali, la storia del mito dell'androgino nel corso dei secoli.

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L'archetipo androgino

Swedenborg, il mistico che ha influenzato in modo così decisivo Balzac, ha rimesso in circolazione, all'inizio del diciottesimo secolo, l'idea dell'androgino come modello umano perfetto. Questa idea, naturalmente, non è stata formulata isolatamente, ma Swedenborg l'ha inserita in tutto un sistema di teologia mistica, meno originale di quanto credevano i suoi contemporanei e le generazioni dell'illuminismo, ma che aveva tutti i caratteri dello stile barocco. Swedenborg, d'altronde, è stato per eccellenza il mistico barocco. La sua novità ha potuto destar sorpresa solo presso uomini di un secolo profano e con tendenze accentuatamente antimetafisiche. Quasi tutto quello che ha detto, era già stato detto da molto tempo nella mistica e nella teosofia europea. Ma il suo grande merito è stato quello di aver riattualizzato alcuni temi filosofici e mistici e di averli rivestiti con un linguaggio accessibile ai contemporanei. Uno di tali temi — che ha avuto, come abbiamo sopra osservato, un certo successo nel romanticismo tedesco e nel post-romanticismo francese — era proprio il mito dell'androgino. Da molto tempo questo problema non era più stato messo in discussione. Per essere più precisi, questo problema non aveva mai goduto di così tanta «pubblicità». Esso faceva parte di una antropologia e di una mistica segreta, la cui discussione nel mondo post-cristiano non era accessibile a chiunque. Per lo meno, così è stato trasmesso il mito dell'androgino nelle tre grandi tradizioni mistiche mediterranee: il cristianesimo, l'ebraismo e l'islamismo; come dottrina segreta, che deve essere conservata con grande cura e comunicata esclusivamente agli iniziati. In verità, in tutto il corso del Medioevo, il mito dell'androgino — considerato come modello di perfezione umana — è presente proprio nelle tradizioni più segrete della mistica e della teosofia, tanto in oriente (islamismo) che in occidente (cristianesimo ed ebraismo). Nei più perfetti mistici dell'Islam, la presenza divina è manifestata attraverso un «angelo-uomo» dall'aspetto androgino. «Il compagno» o «l'amato» di Hafiz o di Suhrawardi non sono precisati in quanto al 71

genere grammaticale; né il pronome né il verbo persiano indicano il genere quando si tratta di questo essere angelicato (seraph), immagine dell'uomo perfetto. L'ambiguità dell'«amato» negli scritti mistici islamici ha dato per molto tempo nascita a confusioni grossolane da parte dei primi traduttori e commentatori europei, ai quali mancavano conoscenze elementari di mistica e metafisica e interpretavano questa ambivalenza in senso volgarmente erotico. Il mito dell'androgino è stato parimenti attivo nei testi della Qabbalà, sebbene questi testi di una straordinaria difficoltà circolassero in circoli molto ristretti di dotti e di mistici ebrei. Il Zohar (III, 5 a, 18 b, eccetera) conserva appunto una interpretazione «coniugale» del mito dell'androgino; l'uomo non diventa veramente uomo (cioè uomo originario) se non quando realizza sulla terra l'unione coniugale. È un'eco dell'antichissima funzione mistica del matrimonio: la perfezione dell'individuo attraverso la totalizzazione. Ma tutta la Qabbalà è basata sull'omologazione uomo-Dio e le nozze umane non sono per la mistica ebraica (in maggior parte, commenti occulti al Cantico dei Cantici) che una pallida immagine dell'unione di Israele con Dio(33). Vedremo che il mito dell'androgino è anche più chiaro agli inizi dell'ebraismo, in quanto Adamo è concepito come androgino. Infine, dal momento che parliamo delle correnti mistiche «segrete» del Medioevo, è giusto ricordare l'alchimia, l'ermetismo e le tradizioni occulte che si sono conservate in occidente nella setta I fedeli d'amore. Uno dei simboli centrali dell'ermetismo alchemico era Rebis (letter. «due cose»), l'androgino cosmico, rappresentato iconograficamente sotto la forma di una creatura umana bisessuale(34). Rebis nasceva dall'unione tra il sole e la luna o, in termini alchemici, tra lo «zolfo sofico» e il «mercurio sofico». Chi poteva ottenerlo, si trovava di fatto in possesso della pietra filosofale; poiché la pietra si chiamava anche Rebis o «l'Androgino ermetico». L'operazione alchemica preliminare alla preparazione della pietra filosofale era l'unione tra il principio maschile e quello femminile. Attraverso l'unione di questi due (33) Cfr. Paul Vulliaud, "La Kabbale Juive" (Paris 1923), 2 voll.; "Le Cantique des Cantiques d'après la tradition juive" (Paris 1925). Sull'ambivalenza del lessico dei testi mistici, cfr. il nostro studio "Limbajele secrete", in «Revista Fundatiilor Regale», 5 (1938), n. 1, pp. 124-141. (34) Cfr. le tavole n. 16 e n. 60 in "Prelude to chemistry" (London 1939) di John Read; Carbonelli, "Sulle fonti storiche della chimica", Roma 1925, p. 17, descrive una curiosa rappresentazione dell'androgino secondo un codice alchemico.

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princìpi si otteneva un «miracolo», un paradosso che rendeva possibile ogni tipo di creazione. (E si sa che una delle virtù della pietra era di trasmutare ogni metallo in oro — di rifare, quindi, la creazione). «L'Androgino ermetico» realizzava uno stato primordiale (perciò «perfetto» — come ogni stato precedente alla individualizzazione attraverso l'atto di creazione) che faceva sì che tutto diventasse possibile: che i metalli imperfetti «immaturi» si trasformassero in oro(35), che la vita e la giovinezza si prolungassero all'infinito, eccetera. Il possesso dell'«Androgino ermetico» portava con sé la sapienza, la scienza di tutte le cose — poiché chi domina una cosa perfetta, diventa lui stesso perfetto. L'alchimista che otteneva il Rebis in laboratorio realizzava lui stesso uno stato androginico. Tutte le operazioni alchemiche si riducevano, in fin dei conti, alla prefigurazione della misteriosa unione tra i princìpi cosmici maschile-femminile, ed è difficile credere che una simile unione non fosse tentata anche alla presenza dell'alchimista(36). Tutte queste tre tradizioni — cristiana, ebraica, islamica — si sono conservate e sono state trasmesse nel più grande segreto, attraverso l'elaborazione di sistemi complicati di simboli, allegorie e linguaggi segreti, per poter essere comunicate agli iniziati. A questo riguardo, esiste una grande differenza tra la mistica cristiana, tanto quella ortodossa quanto quella cattolica-romana, dove tutto era detto alla luce del sole e per tutti, e le correnti segrete dell'occidente che, essendo considerate eretiche, erano costrette a manifestarsi in modo allegorico e sulla base di convenzioni. La tendenza al segreto delle tre tradizioni occulte summenzionate, in cui ritroviamo al posto d'onore il mito dell'androgino, si deve non soltanto alle circostanze esterne (persecuzioni, timore di entrare in conflitto con la Chiesa, di essere incolpati come eretici), ma anche alla loro origine. Tutte queste tre tradizioni, infatti, hanno la loro fonte nello gnosticismo greco-cristiano, anche se le loro idee e le loro tecniche sono molto più antiche e precedono di almeno mille anni l'apparizione del cristianesimo. In verità, lo gnosticismo è stato, fin dai suoi inizi, un movimento segreto ed occulto. Opponendosi al cristianesimo vittorioso, (35) Mircea Eliade, "Metallurgy, Magic and Alchemy", Cahiers de Zalmoxis, 1, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Paris 1938, p. 40 (pubblicato anche in «Zalmoxis», I, cit., p. 122 ss.). (36) Mircea Eliade, "Alchimia Asiatica", Bucuresti 1935; "Cosmologie si alchimie babiloniana", Bucuresti 1937; "Metallurgy Magic and Alchemy", cit., passim.

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che raccoglieva i suoi adepti e il cui messaggio era accessibile ad ognuno, poiché dava valore ad altre virtù che non a quelle speculative e si contrapponeva tanto all'ascetismo eccessivo, quanto alle correnti mistico-orgiastiche del mondo antico — lo gnosticismo pretendeva di essere il «vero» continuatore del Redentore, e affermava di essere il solo capace di comprenderne e di poterne condividere l'insegnamento. Ma non tutti potevano diventare gnostici allo stesso modo in cui chiunque poteva diventare cristiano, attraverso un atto di sottomissione e attraverso il mistero del battesimo Le numerose sette gnostiche imponevano una lunga preparazione teoretica e una difficile iniziazione ascetico-mistica, per poter rivelare la dottrina segreta. Nello gnosticismo si incontravano tutte le correnti di pensiero e tutte le tradizioni religiose orientali e greche. Per questo la letteratura gnostica, pur allo stato frammentario in cui ci è stata trasmessa, è una miniera inesauribile per lo storico delle religioni. In questi testi oscuri sono state infatti conservate idee e usanze molto più antiche. E una delle idee centrali che incontriamo in certe sette gnostiche è proprio questo mito dell'androgino, trasmesso dall'antichità greco-orientale e interpretato in conformità con la teologia cristiana. In un frammento da un testo apocrifo, chiamato Il vangelo degli Egizi, conservato da Clemente Alessandrino (Stromata, III, 13, 92), ci viene detto che il Redentore, interrogato su quando sarebbe venuto il Suo Regno, avrebbe risposto: «Quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell'esterno come nell'interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina». In questo testo si vede chiaramente che, secondo l'autore in questione, l'uomo non potrà essere perfetto se non quando conseguirà la condizione androginica; appena allora si realizzerà il Regno di Dio sulla terra. Questo ideale dell'androgino in un lontano futuro ci ricorda l'ideale dei romantici tedeschi. Sant'Ippolito ci ha conservato moltissime testimonianze sugli gnostici, dei quali ha rifiutato le dottrine. Troviamo così (Refutatio, VI) che Simon Mago concepiva anche lui uno «spirito primordiale» androgino, che egli chiamava del resto arsenothelys (uomo-donna). Questo «spirito primordiale» aveva, potremmo dire, due essenze: lo spirito (nous) superiore, che era il padre — e il pensiero inferiore, che era la donna, creatrice di tutte le cose. Altri gnostici, i docetisti, credevano che gli eoni, ipostasi cosmoantropologiche, fossero androgini. L'androginia dello Spirito supremo, abituale tanto nella filosofia del 74

tardo ellenismo quanto negli scritti degli gnostici, si deve alla concezione fondamentale che identificava Logos con Anthropos. Questa equazione è ipotizzata in tutta la letteratura gnostica e perfino nel Vangelo di Giovanni, nelle epistole di san Paolo e nell'Apocalisse (XIX, 14). San Clemente afferma d'altronde chiaramente il carattere androgino del supremo Anthropos. Da questa androginia del Logos-Anthropos, verificata tanto nella sua funzione cosmologica quanto nella sua funzione soteriologica, derivava la sua ipostasi femminile. In Filone di Alessandria, Logos è identico con Sophia, e nella metafisica di san Paolo, Sophia corrisponde al Logos del Vangelo di Giovanni. Come si vede, anche nella teologia cristiana si è conservata la terminologia ellenistica dello Spirito supremo, non manifestato, concepito come androgino, cioè identico con la sua ipostasi femminile (aletheia, sophia)(37). Gli gnostici, tuttavia, hanno portato fino all'estremo limite questa concezione dell'androginia del logos, concezione perfettamente simmetrica all'androginia di Adamo. Nel Vangelo di Maria, l'immagine luminosa dello Spirito non manifestato, il Protanthropos (corrispondente al logos del Vangelo di Giovanni) è la sua Ennoia, a lui coessenziale(38). Ma la setta gnostica nella quale il mito dell'androgino svolge un ruolo capitale, è la setta detta dei Naasseni, secondo le cui teorie l'archetipo, l'uomo celeste chiamato Adamas, è androgino (arsenothelys). Adamo l'uomo terreno, è solo un'immagine dell'archetipo celeste e come tale è anch'egli androgino. (Si conserva qui la tradizione ebraica di Adamo-androgino, che esamineremo tra poco). Poiché gli uomini sono tutti nati da Adamo, l'arsenothelys esiste in ognuno di loro. Per arrivare alla perfezione, l'uomo deve cercare e ritrovare l'androginia (arsenothelys) in se stesso. I mezzi offerti dai Naasseni per questo perfezionamento attraverso l'androginismo, sono abbastanza curiosi: la magia e l'asessualità. In verità, tanto attraverso pratiche magiche quanto attraverso un'ascesi assoluta, si può sopprimere la condizione umana profana; e ciò significa l'attualizzazione della condizione primordiale, indifferenziata, liberata da ogni attributo e specificità. L'androginia di Adamas, l'uomo originario celeste, è d'altronde simmetrica — nella gnosi dei Naasseni — all'androginia (37) Maryla Falk, "L'equazione ellenistica Logos-Anthropos", in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», vol. XIII (1937), pp. 166-214. (38) Ibid., p. 186.

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dello Spirito supremo, del Logos. «Tutte le cose (dicono i Naasseni), le spirituali come quelle animali e materiali, si riuniranno e si fonderanno in un Uomo, in Gesù figlio di Maria»(39). Questa reintegrazione finale nella totalità pre-esistente del Logos, ha un valore spirituale (la salvezza) e un valore cosmologico (l'unificazione della Creazione). In verità, il «dramma» Logos-Anthropos si può riassumere in tre momenti, decisivi tanto per la condizione del cosmo quanto per la condizione spirituale dell'uomo: 1) il Logos preesistente come totalità universale e divina; 2) la caduta, la frammentazione, la sofferenza; 3) il Salvatore, che reintegra nella sua totalità universale l'intera esistenza spezzata in milioni di vite individuali. Questa grandiosa visione gnostica della reintegrazione finale è lo sfondo cosmico in cui si compie la «totalizzazione» realizzata attraverso l'androginia. Ci fermiamo qui con gli esempi degli gnostici. Stiamo soltanto ripercorrendo la storia di un motivo mitico e non possiamo dibattere tutti i problemi che ci si presentano in questo rapido abbozzo. Ci sembra importante sottolineare il fatto che lo gnosticismo — che ha alimentato le tre grandi tradizioni occulte mediterranee — assegna un ruolo centrale al mito dell'androgino e dell'androginia come una condizione indispensabile di perfezionamento umano. Che cosa può significare tutto ciò? Sappiamo che le dottrine degli gnostici erano raccolte dai quattro angoli del mondo greco-orientale. Come vedremo tra poco, dappertutto nelle civiltà arcaiche l'androgino è considerato il tipo perfetto dell'uomo. Gli gnostici affermano che non si può diventare perfetti se non si realizza la condizione androginica, se non si attualizza in sé l'Adamo primordiale. Per la capacità di comprensione moderna, la condizione androgina potrebbe sembrare — almeno così come è dichiarata dai Naasseni — una regressione(40). L'uomo ritorna al primordiale, ad uno stato indeterminato, preformale; uno stato «totale», informe, non spezzato da attributi e da polarizzazioni. Solo chi conquista un simile stato può sperare nell'assorbimento nella divinità. A Dio non si possono avvicinare le esistenze individuate, limitate da attributi. Avremo, quindi, a che fare nel caso dei Naasseni, con una «totalizzazione» attraverso la regressione nell'amorfo e nell'indeterminato. Di fatto, però, questa «regressione» (39) Ippolito, "Refutatio", V, 6. (40) Si veda, ad esempio, Dr. Halley des Fontaines, "La notion d'androgynie", p. 125 ss.

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ha un senso più profondo, metafisico. È il primo passo verso la reintegrazione dello spirito nella sua condizione primordiale, reintegrazione formulata a volte in termini mitici, a volte in termini teologici. Si intravede qui una sete di soppressione della condizione umana — la stessa sete che fa sì che i mistici cristiani diventino perfetti fino a perdersi nella divinità, o che gli asceti indiani superino con ogni mezzo la condizione umana diventando impassibili e distaccati, simili alle pietre. Pensandoci bene, è sconvolgente constatare che in millenni diversi, in continenti diversi, in religioni diverse — gli uomini sono stati sempre assetati di perfezione e non hanno concepito questa perfezione se non per mezzo della soppressione della condizione umana. In effetti, in fondo, l'androginia verso la quale tendevano gli gnostici era la realizzazione dell'archetipo, di un Adamo che non aveva ottenuto la coscienza di sé poiché era bisessuale e perciò, come tale, indeterminato.

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Adamo e Eva

L'episodio della nascita di Eva dalla costola di Adamo, come ci è stato conservato nel primo capitolo (26-28) e nel secondo capitolo (21-22) della Genesi, ha dato ben presto lo spunto ad infinite esegesi negli ambienti dei dotti ebrei. Una parte di queste esegesi e di questi commenti rabbinici — dall'epoca alessandrina in poi — ci è stata trasmessa. In verità, se Eva è stata fatta dalla costola di Adamo, si può presupporre che Adamo fosse androgino; egli riunificava entrambi i sessi. La «nascita» di Eva è stata, quindi, propriamente la rottura dell'androgino primordiale in due parti: maschio e femmina. Pare che questo fosse del resto il senso dato dall'esegesi rabbinica al testo biblico. «Adamo e Eva erano creati schiena contro schiena, attaccati per le spalle; allora Dio li ha separati con un colpo di scure o tagliandoli in due. Altri sono di diverso parere: il primo uomo (Adamo) era maschio nella parte destra e femmina nella parte sinistra; e Dio li ha spezzati in due metà»(41). Rabbi Jeremiah ben Eleazr afferma che Adamo era bisessuale poiché aveva due facce, una maschile e l'altra femminile. R. Samuel C. Nahaman crede che l'uomo primordiale è stato creato «doppio», essendo attaccato alla donna, schiena contro schiena, fino a quando Dio non li ha distaccati in due metà. Un altro commentatore ritiene che Adamo è stato all'inizio androgino, poiché aveva due facce e una coda ed era maschio da una parte e femmina dall'altra (cfr. i riferimenti in Krappe, p. 314). Come si vede, l'idea dell'androginismo di Adamo si è mantenuta nell'ebraismo anche attraverso i commenti rabbinici, al di fuori degli scritti mistici e cabbalistici, che abbiamo ricordato di sfuggita nel capitolo precedente e che avevano la loro fonte in speculazioni di altro tipo e incontestabilmente più antiche. Nel secolo scorso, parecchi orientalisti, con in testa il geniale François Lenormant, si sono posti la (41) "Bereshith Rabbâ", I, 1, foglio 6, col. 2, eccetera eccetera. — Si vedano i testi in A. Haggerty Krappe, "The Birth of Eve" (Gaster Anniversary Volume, pp. 312-322).

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domanda se per caso il testo della "Genesi" non ci sia stato trasmesso modificato e se la proposizione «Elohim creò l'uomo a sua immagine; Egli li creò maschio e femmina», non debba forse essere letta nel modo seguente: «Elohim creò l'uomo a sua immagine. Egli lo creò maschio e femmina». Un altro orientalista, Fr. Schwalli(42), riprendendo l'ipotesi di Lenormant, dimostra che il pronome personale othâm («loro») non ha senso nella frase sopra citata; non si può riferire a hâ-adam, «uomo», che è al singolare, e si riferisce precisamente ad Adamo. E allora l'orientalista tedesco corregge il pronome personale othâm («loro»), mettendolo al singolare, otho («lui») — modificando il testo biblico così come l'abbiamo riprodotto anche noi sopra. E, per quel che riguarda la parola zâlâ, Schwally ricorda che nel contesto non significa «costola», ma «parte», senso che è frequente nella lingua ebraica quando si tratta della parte (il lato) di una tenda, di un tempio, di un monte, eccetera (cfr. il latino costa, che ha dato il francese côte, «costola», e coté, «parte»; si vedano i riferimenti in Krappe, pp. 311-312). Non so in quale misura questa correzione del testo biblico sia stata accettata dai teologi. In ogni caso, i semitisti possono sempre testimoniare che nella tradizione rabbinica e nell'esegetica ebraica, l'espressione «li ha fatti maschio e femmina» è stata intesa nel senso «lo ha fatto maschio e femmina». Solo così si possono spiegare le citazioni dei commentatori ebrei, riprodotte sopra. D'altronde Adamo, essendo «il primo uomo», doveva essere concepito come androgino — poiché in quasi tutte le tradizioni religiose del mondo, l'uomo primordiale era raffigurato come androgino(43). Yama, il primo uomo della mitologia indiana, significa «gemello»; in testi un po' più tardi, veniamo a sapere che ha una sorella, Yami, proprio come nella tradizione iranica Yima ha una sorella gemella, Yimal. Queste «coppie primordiali» sono, di fatto, una versione più tarda e più razionalista del mito dell'«uomo primordiale», che era androgino. Il primo uomo nella mitologia germanica era Tuisto, parola che deve essere messa in rapporto con l'antico-norvegese tvistr («bipartito»), con il vedico dvis, con il latino bis, eccetera (Krappe, p. 319). Il folclorista Krappe giunge alla conclusione che l'androginismo (42) "Die biblischen Schöpfungsberichte", in «Archiv für Religionswissenschaft"», IX (1906), pp. 159-175. (43) Cfr. H. Güntert, "Der Ariscbe Weltkönig und Heiland", Halle 1923, p. 315 ss.

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dell'uomo primordiale era una caratteristica specifica della tradizione indoeuropea e che il mito di Adamo bi-sessuato si deve ad una influenza di questa tradizione sulla mitologia semitica. La cosa è possibile poiché la mitologia indoeuropea e quella semitica si sono influenzate reciprocamente fin dai tempi più antichi. Ma ci sembra poco importante — per lo meno nella sommaria ricerca che ci siamo proposti di svolgere — lo stabilire alcune eventuali influenze sulle forme storiche del mito dell'androgino, in quanto, a nostro parere, questo mito ha le sue radici nella preistoria e nella protostoria e, d'altra parte, non lo si incontra solo in Asia e in Europa, ma quasi dovunque nel mondo. Per citare soltanto un esempio, l'etnografo J. Winthuis, che ha studiato in particolare il problema della bi-sessualità presso gli australiani, ha provato con una abbondante documentazione, che il primo uomo era concepito dagli australiani come «completo», androgino(44). Si possono facilmente moltiplicare gli esempi. Chi non ricorda l'«uomo primitivo» di Platone (Convito, 16 ss.), che era anche lui androgino e aveva una forma sferica? La sfera, la rotondità — erano formule della perfezione e tutte le volte che nella storia della spiritualità europea si pone decisamente il problema della perfezione dell'uomo, e si costruisce idealmente un nuovo tipo di umanità, allora appaiono, con una frequenza troppo sospetta per poter essere spiegati ricorrendo alle coincidenze, i seguenti temi: la sfera infinita e la geometria mistica — e l'androginismo. Platone è, a questo riguardo, un esempio ben noto. Esempi meno noti sulla «sfera infinita» nelle speculazioni dei romantici tedeschi, dei filosofi della Natura del Rinascimento e dei geometri-mistici di tipo pitagorico — si trovano nel libro di Dietrich Mahnke, Unendliche Sphäre und Almittelpunkt (Halle, 1937), che non discute però il tema dell'androgino e non osserva la strana «coincidenza» che abbiamo ricordato sopra. È ancor più significativo che gli australiani si immaginino l'uomo primitivo — e così pure Kuruna, il totem ancestrale che lo ha fatto nascere — sotto una forma sferica, senza le membra ben differenziate. Ciò costituisce un'ulteriore verifica del fatto che la «rotondità» è la formula arcaica della pienezza indifferenziata, della «totalizzazione» di tutti i contrari, della perfezione primordiale — e l'uomo, sia «primitivo», sia dotto come Platone, allorquando tenta di espri(44) J. Winthuis, "Das Zweigeschlechterwesen" (Leipzig 1928); "Mythos und Kult der Steinzeit", eccetera.

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mere con una formula uno «stato» umano perfetto o un cosmo armonico, utilizza questo simbolo. Ritorniamo ora all'androginismo propriamente detto. Dalle nostre brevi indicazioni si è potuto vedere che l'uomo primordiale è stato concepito come bisessuale sia egli Adamo, Yama, Yima o l'australiano Kuruna. Questa antropologia, che afferma che il tipo perfetto di umanità non può essere che totale, cioè androgino, non è rimasta una semplice creazione mitica nella coscienza dei popoli che l'hanno formulata. Essa è attiva nella vita delle rispettive società, servendo non solo come un modello ideale verso il quale deve tendere l'uomo, ma, soprattutto, come uno schema teoretico per una serie di esperienze rituali di particolare importanza. Riteniamo che non sia stato messo in luce con sufficiente forza il fatto che l'androgino di Platone, ad esempio, o l'uomo primordiale Yama-Yima-Adamo, eccetera, lungi dall'essere dei semplici «miti», dei semplici teoremi astratti, degni di essere discussi da eruditi e contemplati da mistici — erano, prima di tutto, un ideale collettivo, che gli uomini assimilavano per mezzo di rituali, feste e usanze periodiche. In realtà, poiché l'androgino era considerato il tipo umano perfetto, si è sempre cercato di realizzarlo e questa realizzazione, prima di essere un'operazione di perfezione individuale — come in Platone e nei mistici — è stata un'esperienza religiosa collettiva. In certe feste greche avveniva il cosiddetto «scambio delle vesti»(45); i maschi indossavano gli abiti delle donne e viceversa. Questo rituale coincideva con una festa nella quale la licenziosità raggiungeva talvolta vertici inimmaginabili(46). Abbiamo analizzato in altro luogo il significato dell'orgia rituale e abbiamo visto che in tali circostanze si perseguiva, ad un livello inferiore, la stessa «totalizzazione» del bene e del male, la stessa coincidenza del sacro con il profano, la fusione definitiva dei contrari, l'annullamento della condizione umana attraverso una regressione nell'indifferenziato, nell'amorfo. Lo «scambio delle vesti» si inquadra perfettamente nell'esperienza orgiastica. Poiché anche l'androginismo è una fusione dei contrari nello stesso individuo. Del resto, simili rituali non si incontrano soltanto nella Grecia antica. In moltissime feste po(45) Preller, "Griechische Mythologie", vol. I, p. 212; Martin P. Nilsson, "Griechische Feste", p. 49, p. 370 ss., eccetera. (46) J. J. Meyer, "Trilogie Altindischer Mächte und Feste der Vegetation" (Zürich 1937), vol. I, p. 84 ss.

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polari europee, nel mese di maggio, si cerca l'androginizzazione attraverso scambi di vesti, eccetera(47). In India, in Persia e in altri paesi asiatici, il rituale dello «scambio delle vesti» svolge un ruolo centrale nelle feste agricole. In alcune parti dell'India, i maschi portano perfino dei seni artificiali, in occasione di una festa della dea della vegetazione, che è anch'essa, naturalmente androgina(48). Tutte queste cose non sono casuali, non sono dettagli privi di significato, ma hanno invece un significato metafisico molto profondo. È vero che ci si presentano in forme degradate e volgari, ma ciò prova ancora una volta che l'uomo non può «vivere» l'assoluto senza alterarlo. Poiché lo «scambio delle vesti» persegue, di fatto, attraverso l'esperienza religiosa che si presuppone sia provocata dal compimento del rituale — la realizzazione di uno stato androginico, la riconquista della condizione umana primordiale, che era, in tutte le tradizioni, perfetta. L'uomo che indossava abiti femminili non diventava donna come si potrebbe credere a un primo sguardo distratto — ma realizzava, per un certo tempo, la unità dei sessi, condizione che gli facilitava una certa contemplazione totale del cosmo. Penetrava, in quanto androginizzato, in un certo livello della realtà che non gli sarebbe stato accessibile nella condizione umana differenziata, sessuata. Di tanto in tanto, in conformità con i ritmi della natura, l'uomo doveva annullare il suo stato differenziato, cercando di riconquistare, attraverso il rituale, il ritorno allo stato primordiale del suo «antenato» — Adamo-Eva. Che l'interpretazione da noi data al rituale dello «scambio delle vesti» non è arbitraria, lo prova il fatto che nelle cerimonie iniziatiche «primitive» si perseguiva lo stesso scopo: la riunione di entrambi i sessi nello stesso individuo. Tutte le cerimonie di iniziazione delle società primitive non hanno che questo scopo: la realizzazione dell'androginia. Anche quelle operazioni chirurgiche penose, sopportate dal neofita o dalla neofita durante l'iniziazione — e sulle quali non possiamo qui soffermarci — sono fatte con lo stesso scopo: l'androginizzazione, il ritorno all'unità primordiale (si vedano gli studi di Winthuis, Roheim, Laubscher, e così pure l'interpretazione medica di (47) Meyer, op. cit., passim; Ernest Crawley, "The Mystic Rose" (nuova edizione Besterman, London 1927), vol. I, p. 313 ss. (48) J. J. Meyer, op. cit., vol. I, p. 182, eccetera.

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Halley des Fontaines). Ma — e questo particolare è passato quasi inosservato — succede che l'operazione di iniziazione, attraverso la quale il neofita o la neofita prendono conoscenza del loro sesso, è un'operazione di androginizzazione. Prima di essere iniziato, un giovane australiano, ad esempio, non è considerato in possesso di una qualche dignità umana; egli è solo una virtualità, la sua maschilità è larvare. Per diventare maschio, deve passare attraverso una lunga cerimonia di iniziazione, cerimonia che gli rivela la cosmologia e la teologia della tribù, ma soprattutto gli conferma la maturità sessuale. Ora, e anche questo è significativo, proprio nel tempo in cui è compiuta questa conferma, l'iniziato viene sottoposto ad alcuni rituali e ad alcune operazioni di senso contrario, che lo rendono solidale con il sesso opposto. Il giovane subisce un'operazione (la subincisione), che gli attribuisce in un certo modo simbolicamente, un organo sessuale femminile — e la donna, attraverso l'operazione di circoncisione, riceve, ritualmente, un organo sessuale maschile. Contemporaneamente alla promozione dell'adolescente alla virilità, si compie un'operazione contraria, attraverso la quale l'iniziato diviene, in modo rituale, donna. Il senso delle cerimonie di iniziazione è, perciò, il seguente: non si può diventare un uomo, se non si è diventati innanzitutto uomo completo, perfetto. Non si può diventare maschio o femmina, se non si è diventati dapprima androgino. Non si può sopportare la condizione umana, tragica, per la sua polarità, se non si è conosciuta preliminarmente la condizione primordiale, lo stato di perfezione e beatitudine, che ha realizzato l'«antenato», quando non era ancora diventato Adamo ed Eva, ma era Adamo-Eva. Tutte queste cose provano che la sete di perfezione umana non è una scoperta recente dei «civilizzati». Il tipo ideale di umanità che hanno sognato Platone, gli gnostici, i mistici del Medioevo, e i romantici tedeschi, è sognato e realizzato, con mezzi rituali rudimentali, dai «selvaggi» di oggi. Esso non è, quindi, una creazione arbitraria o un mito senza legami attivi con la realtà. I miti non sono, di solito, che la formula teoretica del rituale e il rituale non è che il tentativo dell'uomo di prendere contatto con la realtà assoluta. Nel mito e nel rituale dell'androgino, l'uomo cerca di ritornare allo stato «totale», indifferenziato, dall'«antenato». Da qui derivano moltissime cose, oggi dimenticate o prive di senso per la coscienza moderna. Deriva, tra le altre cose, il valore rituale dell'amore, attraverso il quale l'uomo perde se stesso, fondendosi con l'altro. Ma su queste conseguenze, ritorne84

remo in un altro momento.

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Divinità androgine

In un capitolo precedente abbiamo ricordato alcune sette gnostiche che concepivano Cristo come androgino, il Salvatore essendo il modello dell'uomo perfetto (Anthropos-Logos). Esiste senza dubbio una simmetria ben precisa tra l'androginia umana e quella divina. L'uomo, infatti, rispecchia — perfino nelle religioni più tenebrose — l'immagine della divinità; e la perfezione umana (attraverso la fusione dei sessi) non poteva trovare il suo modello se non nell'androginia divina. La divinità è stata concepita da tutti i popoli come una Potenza e una Realtà assoluta. Nella divinità tutti gli attributi coesistono. Nelle teologie immanentiste — come è, ad esempio, quella indiana — si parla proprio dell'aspetto di non essere della divinità, del suo aspetto non manifestato, che, nel grande mito cosmico, si oppone talvolta all'aspetto manifestato. Come abbiamo visto in altro luogo, nella divinità coesistono il bene e il male, l'essere con il non essere, eccetera. È facile comprendere perché il pensiero mitico e religioso, prima appunto di formulare questo concetto della bi-unità divina in termini di metafisica (essere-non essere) o di teologia (manifestato-non manifestato), lo abbia espresso in termini biologici (bi-sessualità). La vita era, per gli antichi, il più preciso simbolo della potenza, della realtà assoluta. L'ontologia arcaica era espressa in termini biologici. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dall'aspetto esteriore, concreto, di questi linguaggi arcaici, intendendo la terminologia mitica nel senso profano, moderno delle parole. La donna non significa mai «donna» in un testo mitico o rituale — ma si riferisce al principio cosmologico in lei manifestato. Per questo, l'androginia divina che incontriamo in tanti miti e credenze arcaiche, ha un valore teoretico, metafisico. Attraverso di essa si esprime — in termini biologici — la coesistenza dei contrari, dei princìpi cosmologici (poiché sono femmina e maschio) nella divinità. Sive deus sis, sive dea, dicevano i Romani riferendosi agli spiriti dell'agricoltura; sive mas, sive femina. Questa ambivalenza si in87

contra dovunque abbiamo a che fare con divinità della fertilità cosmica. Presso gli estoni, lo «spirito della foresta» è un anno maschio, nell'anno seguente femmina. Il dio Bilika, quel dio che porta con sé il monsone datore di vita, è femminile presso gli abitanti della parte settentrionale dell'isola Andamane, mentre presso gli abitanti dell'interno dell'isola è concepito a volte come maschio, a volte come femmina(49). La dea indiana dell'agricoltura è androgina e, durante la sua festa, gli uomini si travestono ritualmente, per imitare il loro modello divino (i maschi portano seni artificiali). L'idea di androgino è così legata alle divinità agricole che in Europa, in molte feste della primavera, gli uomini si trasformano anch'essi, ritualmente, in androgini. Presso gli australiani — di cui abbiamo ricordato nel capitolo precedente le cerimonie di iniziazione, così interessanti per la concezione della perfezione umana in esse conservata — il Dio primordiale era androgino. Tutta la creazione cerca di conquistare questo stato primario, reale, non solo l'uomo. Nelle religioni australiane è presente una forte nostalgia per la realtà, per la perfezione. Perfino gli alberi sono androgini nella concezione australiana. (Gli alberi sono però anch'essi un simbolo della potenza, del sacro, della realtà assoluta — e come tali non possono essere concepiti unisessuati, come ogni altro frammento del Cosmo). In India, Dyaus dio del cielo, dio maschile per eccellenza, è talvolta femminile; e Purusha, il gigante cosmico dalla cui sostanza nascono i mondi, è anch'esso concepito come androgino. La coppia divina più importante nel Pantheon indiano, Siva-Kalì, è talvolta rappresentata come un unico essere (ardhanartsvara). Nella iconografia tantrica sono molto frequenti le immagini del dio Siva strettamente abbracciato alla Sakti, la propria «potenza», immaginata come una divinità femminile (kalì). Tutta la mistica erotica indiana, del resto, come ho mostrato nel mio libro sullo Yoga, ha come scopo la perfezione dell'uomo attraverso la sua identificazione con una «coppia divina», cioè attraverso l'androginia. Dietro a tutte queste pratiche oscure si trova l'idea che l'uomo non può conseguire la vera autonomia spirituale, se non attraverso il completo superamento dei «contrari», dei limiti che rompono la sua esperienza cosmica e, quindi, gli impediscono di conoscere la (49) Wilhelm Schmidt, "Der Ursprung der Gottestdee", vol. III, Münster 1931, p. 61.

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realtà. Le «nozze mistiche», di cui parlano i testi indiani, hanno come scopo proprio la realizzazione di questa bi-unità umana, il cui modello è la bi-unità divina. L'androginia divina si incontra dovunque nella storia delle religioni(50), ed è degno di nota sottolineare che sono androgini perfino gli dei per eccellenza maschili e le dee per eccellenza femminili. In altre parole, una potenza sacra, che si manifesta cosmicamente con caratteristiche ben definite, avendo un profilo netto (maschile o femminile) non può conquistare questo profilo se non in quanto si presupponeva che fosse stata, prima di tutto, androgina. La divinità, in qualsiasi modo si manifesti, è una potenza assoluta, una realtà ultima — e questa realtà non può essere limitata da nessun tipo di attributi (buono, cattivo, donna, uomo, eccetera). Questa cosa si verifica in ogni settore della storia delle religioni. Il dio supremo della tribù amerindiana Zuni è bisessuale. Presso gli Egizi, alcuni tra i più antichi dei erano androgini(51). Horus era bisessuale, Nun (il dio del caos) aveva come compagna Nunet, e Râ (il dio del sole), Râit. Queste «coppie» divine sono innumerevoli ed esprimono in termini mitici l'androginia della divinità; infatti, la maggior parte delle «compagne» del dio sono soltanto personificazioni tardive del suo aspetto femminile. Nella mitologia scandinava, quasi tutti gli dei importanti sono androgini: Loki, Othin, Tuisto, Ymir, Nerthus, eccetera. Presso i Greci, l'androginia divina era ben nota perfino negli ultimi secoli dell'antichità. Attis, Adonis, Dionysos — questi dei della vegetazione, comuni a tutte le culture comediterranee — erano androgini; così come lo erano anche le dee della fertilità cosmica, le divinità agricole conosciute sotto il nome generico di Magna Mater(52). Come dicevamo più sopra, la divinità non può manifestarsi con una suprema efficacia (nel nostro caso, l'efficacia è femminile), se non prova che è «totale», che la sua realtà è assoluta, cioè al di là di attributi e delimitazioni. Il dio del tempo illimitato degli Iranici, Zurvan, che gli storici (50) Cfr. il mirabile studio di Alfred Bertholet, "Das Geschlecht der Gottheit", Tübingen 1934. (51) E. A. Wallis Budge, "From fetish to God in ancient Egypt", Oxford 1934, p. 7, p. 9. (52) L'aspetto androgino delle divinità agricole è stato sottolineato da J. Halley des Fontaines, "La notion d'androgynie", p. 50 ss.

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greci traducevano con Cronos, è anche lui androgino(53). Da Zurvan nascono i due fratelli gemelli, Ohrmazd e Ahriman, rispettivamente il dio del bene e il dio del male, il dio della luce e il dio delle tenebre, che provano con questo la loro origine comune. È interessante rammentare che anche presso i cinesi esisteva una divinità androgina suprema, che era per l'appunto il dio delle tenebre e della luce(54). Il simbolo è sufficientemente chiaro; la luce e le tenebre sono solo gli aspetti consecutivi della stessa realtà; per chi li osserva isolatamente, sembrano essere separati e in conflitto — ma per il saggio dimostrano di essere non solo «gemelli» (come Ohrmazd e Ahriman), ma un solo medesimo essere, visto sotto il suo aspetto manifestato e non manifestato. La variabilità dei sessi nelle divinità è un problema che ha dato molto da pensare agli specialisti. Si è visto tuttavia appena adesso che la maggioranza delle «coppie divine» (del tipo Bel-Bêlit, eccetera), sono invenzioni tarde o formulazioni imperfette dell'androginia primordiale che caratterizza ogni divinità. Così, ad esempio, presso i semiti, la dea Tanit era chiamata «la faccia di Baal» e Ashtarte «il nome di Baal»(55). Si intravede in questa formula liturgica, l'androginia della divinità primordiale. Vi sono innumerevoli esempi — nelle religioni egizia, babilonese e indiana — in cui la divinità era detta «padre e madre»(56); dalla sua sostanza, senza altra collaborazione, nascono i mondi, le creature, l'uomo. L'androginia divina ha come conseguenza logica la monogenesi o l'autogenesi. In moltissimi miti ci viene raccontato come la divinità abbia avuto origine da se stessa. È un modo semplice e drammatico per dire che la divinità è autosufficiente. Ritroviamo questo mito — basato su di una metafisica molto precisa — in tutte le speculazioni neoplatoniche e gnostiche della fine dell'antichità. Come dicevamo nel capitolo precedente, queste teorie non rimanevano puramente e semplicemente «teorie», ma erano continuamente «vissute» da parte di tutta la collettività. Se la divinità non può (53) E. Benveniste, "The persian religion", p. 113 ss.; J. Przyluski, "The Great Goddes in India and Iran", p. 427 ss. (54) Carl Hentze, "Frühchinesischen Bronzen und Kultdarstellungen", Antwerpen 1937, p. 109. (55) A. Bertholet, op. cit., p. 21. (56) Ibid., p. 19.

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essere che androgina e se, quindi, l'uomo perfetto non può essere, a sua volta, che androgino — allora è giusto che questa androginia sia realizzata da parte dell'uomo proprio qui sulla terra. Evidentemente, l'androginia ottenuta ritualmente, in determinate circostanze (le cerimonie di iniziazione presso gli australiani, le feste della vegetazione, eccetera) non era che uno stato effimero; l'individuo ritornava, in seguito, nella sua triste condizione umana, limitata da attributi e spezzata. Si cercava tuttavia la realizzazione di questo stato primordiale, anche se solo per poco tempo. D'altronde, in tutta la storia religiosa dell'umanità persiste, come una maledizione, questa discontinuità della sperimentazione del sacro. Nessun uomo può rimanere ininterrottamente nella sacralità. Perfino il sacerdote si crea una condizione spirituale del tutto particolare, quando compie un rituale o un mistero — e poi ritorna al suo stato di tutti i giorni, profano. Il «sacro», essendo totalmente diverso dal profano, non può essere sopportato dall'uomo in continuità. In alcuni testi indiani si dice che il brahmano che «non discende per tempo dallo stato sovrumano che gli crea il sacrificio», è ucciso sul posto — è ucciso proprio dalla forza sacra, che la sua povera natura creata, limitata, non può sopportare. Così avviene anche con l'androginia. Essa è uno stato paradisiaco, che l'uomo conquista ritualmente solo in determinate circostanze e per pochissimo tempo. Ma è importante non dimenticare che l'uomo è obbligato a realizzare, anche se soltanto per un attimo, questo stato paradisiaco, questa androginia che significa per lui l'esistenza reale, autonoma e ricca di beatitudini di Adamo, dell'uomo primordiale, qualsiasi nome porti quest'ultimo. Del resto, difficilmente una persona potrebbe fare a meno di queste effimere esperienze dell'androginia, poiché nei più importanti avvenimenti della sua vita è obbligato a realizzarla. Abbiamo visto che l'iniziazione nelle società primitive si basa su di una simile esperienza. Ma anche nelle iniziazioni più «evolute», — come sarebbe ad esempio l'iniziazione nei «misteri» antichi o nell'orfismo — l'androginia svolge un ruolo fondamentale. In ognuna di queste iniziazioni, infatti, il neofita svolge un ruolo femminile. Non è qui la sede per entrare nei dettagli, ma si può parlare di una esperienza androgina proprio nelle grandi correnti mistiche, poiché nell'anima di ogni mistico si compiono delle «nozze divine», e di fronte alla divinità, ogni anima religiosa si comporta come una «sposa». Queste nozze mistiche, tuttavia, non si devono interpretare sol91

tanto come una esperienza precisa della presenza divina nell'anima dell'uomo — ma hanno anche un altro senso, segreto: l'uomo non si può avvicinare alla divinità se non diventando perfetto e, prima di poter conoscere Dio, la sua anima deve «realizzare compiutamente se stessa», ridiventando archetipo, ridiventando Adamo-Eva dell'inizio degli inizi, l'uomo del tempo anteriore al peccato. Infine, per sottolineare il fatto che ogni essere umano, volente o nolente, porta nella sua anima la nostalgia della perfezione, dobbiamo dire che proprio l'atto essenziale dell'amore porta con sé un'esperienza — naturalmente molto sbiadita — di androginia. L'uomo che si innamora, acquisisce «qualità» femminili: grazia, sottomissione, devozione, eccetera, mentre la donna che ama si arricchisce di virtù maschili: spirito di iniziativa, desiderio di protezione, di dominio, di guida, eccetera. Soltanto dopo tali trasformazioni preliminari, un essere umano può sperare di realizzare, in condizioni ottimali, un'esperienza amorosa, che è perdita di sé e passaggio nell'altro. I romantici, in particolare quelli di scuola tedesca, concepivano perfino l'atto erotico come una androginia. Poiché questa esperienza, però, si riferisce a un assoluto — come anche l'esperienza religiosa — essa non può essere realizzata dall'uomo che per un breve periodo. Proprio come il sacerdote che non può «sopportare» la vicinanza della divinità se non temporaneamente e, proprio come l'androginia rituale che non si realizza se non per alcuni istanti, in occasione delle grandi feste collettive, così l'amore, nel cui atto riconosciamo la nostalgia dell'androginismo, non può durare che un attimo. La realtà assoluta è impossibile da sopportare nell'attuale condizione umana.

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