Il colloquio in psicoterapia cognitiva. Tecnica e pratica clinica 8860305705, 9788860305701

"Al paziente cosa dico?" può sembrare, da parte del terapeuta, una domanda rozza, ma eludere sempre la rispost

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Italian Pages 338 [349] Year 2013

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Il colloquio in psicoterapia cognitiva. Tecnica e pratica clinica
 8860305705, 9788860305701

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Dal catalogo R.A. Baer (a cura di)

Come funziona la mindfulness Teoria, ricerca, strumenti

G. Dimaggio, P.H. Lysaker (a cura di)

Metacognizione e psicopatologia Valutazione e trattamento

G.A. Kelly

La psicologia dei costrutti personali Teoria e personalità

M.M. Linehan

Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline Volume I Il modello dialettico Volume II I gruppi di skills training

Due volumi indivisibili con CD-Rom allegato

G. Liotti, F. Monticelli (a cura di)

I sistemi

motivazionali nel dialogo clinico Il manuale

AIMIT

Giovanni Maria Ruggiero Sandra Sassaroli

IL COLLOQUIO IN PSICOTERAPIA COGNITIVA Tecnica e pratica clinica



Rqffaello Cortina Editore

www.raffaellocortina.it

ISBN 978-88-6030-570-1 © 2013 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4

Prima edizione: 2013 Stampato da Consorzio LVG, Azzate (Varese) 'per contoArtigiano di Raffaello Cortina Editore Ristampe o

2013

2014

2 2015

4 2016 2017

INDICE

Autori

XI

Prefazione ( Nino Dazzi)

XIII

Introduzione

XVII

Parte prima Il colloquio cognitivo standard Capitolo l Accertare 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7

1.8 l. 9 1.10 1.11

"Qual è il suo problema?" "Mi racconti una situazione in cui si è presentato il suo problema" Spiegare il modello ABC "Cosa ha provato che non l'ha aiutata?". Elicitare le emozioni disfunzionali "Cosa ci aspettiamo dalla terapia?" . Definire gli obiettivi "Come funziona questa terapia?" . Concordare le regole "Cosa c'è di male in questo?". Identificare i pensieri negativi 1.7.1 "Cosa potrebbe accadere?" , "Cosa c'è di male in questo?". Catastrofizzazione e terribilizzazione 1.7 .2 "Cosa (non) le piace in questo?" . Usare illaddering kelliano "Come pensa che questo debba assolutamente essere?" . Le doverizzazioni "Cosa le piace in quest'obbligo?" . Usare Kelly per le doverizzazioni "Qual è il problema in questo?". Le credenze di scuola CBT standard "Dove ha imparato questo?" . La storia di vita nel colloquio cognitivo v

3 3 7 9 15 17 21 27 27 30 33 36 38 44

Indice

Capitolo 2 Disputare e ristrutturare 2 .l 2 .2

2 .3 2 .4 2.5

2.6 2 .7

2.8 2 .9 2 . 10 2.11 2 . 12

47

"Mettiamo in discussione quel che pensiamo" . Iniziare la disputa "In base a cosa pensiamo questo?" . La disputa logico-empirica 2 .2 . 1 "Quanto è grave/probabile questo?" . Disputare catastrofizzazione e terribilizzazione 2 .2.2 "Non posso sbagliare ed è colpa mia!" . Disputare perfezionismo e responsabilità 2 .2 .3 Quando il paziente ha ragione. Disputare il rischio e l'incertezza 2.2.4 "E se non facesse quel che di solito fa?". La disputa dei controlli e degli evitamenti 2.2.5 "Perché deve?" . La disputa della doverizzazione 2 .2 .6 Siamo schiavi della nostra biografia? Storia di vita e significati personali nella disputa cognitiva "A cosa le serve ragionare così?" . La disputa pragmatica "Davvero non c'è alcun rimedio?". Disputare la carenza di risorse "Cosa significa è intollerabile?" . Validare e disputare l'intolleranza alla frustrazione 2.5 . 1 Lo scenario peggiore: il limite estremo della disputa 2.5 .2 Ridiscutere gli obiettivi di fronte allo stallo della disputa "Perché giudicarsi?" . Disputare l'autostima "Cosa pensa del suo problema?" . Il problema secondario 2.7 .l Disputa del circolo vizioso catastrofico generato dal secondario 2 .7 .2 Disputa del secondario come pensiero anormale Cerchiamo gli errori ( ''alla Beck") "Come possiamo vederla diversamente?" . Ristrutturare e trovare nuovi effetti "Proviamo a farlo davvero?" . Esercizi comportamentali in terapia cognitiva Il silenzio nel colloquio cognitivo La disputa ideale

47 52 54 62 64 66 69 72 74 78 80 84 85 87 90 90 92 95 99 101 104 106

Capitolo 3 E l'empatia dov'è? Validare (e disputare)

(Giovanni M. Ruggiero, Diego F Moriggia, Andrea Bassanini, Sandra Sassaroli) 3 .l 3 .2

La validazione in psicoterapia: aspetti teorici Tecniche di validazione in psicoterapia cognitiva 3.2.1 Disposizione del terapeuta centrata sulla disponibilità 3 .2 .2 Disposizione del terapeuta centrata sulla chiarezza 3.2 .3 Empirismo collaborativo e condivisione degli obiettivi VI

111 111 1 14 1 14 1 15 1 15

Indice

3 .2 .4 Validazione delle emozioni 3 .2.5 Riconoscimento e accettazione dei "test di verifica" 3 .2.6 Promuovere l'attivazione del sistema motivazionale interpersonale cooperativo-paritetico

Capitolo 4 Applicazioni a disturbi specifici

1 15 1 16 1 16 119

4.1 La disputa standard specifica per i disturbi di primo asse con il paziente "facile" 4.2 "Ho paura di aver paura!" . Disputare il panico 4 .3 "Che vergogna! ". Disputare la fobia sociale (Giovanni M. Ruggiero, Francesca Fiore) 4.4 Preoccuparsi e rimuginare. La disputa nel disturbo d'ansia generalizzato 4.5 "Sono il colpevole!" . Disputare il disturbo ossessivo-compulsivo 4.6 Tristi solitudini. Disputare la depressione 4.7 Disputare ilcontrollo nei disturbi alimentari

119 120 129 135 144 149 153

Capitolo 5 Il colloquio cognitivo con il bambino ansioso

(Davide Nahum)

5 .l I disturbi d'ansia in età evolutiva 5.2 La psicoterapia cognitiva in età evolutiva 5 .2. 1 Attenzione all'attaccamento 5 .2.2 Attenzione allo sviluppo cognitivo 5 .2 .3 Attenzione al sistema 5.3 Il trattamento dell'ansia 5 .3 .l Premessa 5 .3 .2 Fase zero: lavoro con i genitori 5.3 .3 Prima fase: creare la relazione terapeutica 5.3 .4 Seconda fase: aumento del vocabolario e degli schemi emotivi del bambino 5 .3 .5 Terza fase: assessment 5.3 .6 Quarta fase: il modello ABC 5 .3 .7 Quinta fase: il disputing dei B 5 .3 .8 Sesta fase: esperimenti comportamentali 5 .3 .9 Settima fase: la fine della terapia

161 161 162 162 163 164 165 165 167 170 171 174 175 178 179 180

Parte seconda Oltre il colloquio cognitivo standard Capitolo 6 Il problema del paziente "difficile" e gli sviluppi di terza ondata del colloquio cognitivo VII

183

Indice

Capitolo 7 Temi e piani di vita nel colloquio cognitivo esistenziale. Il modello LIBET Paziente " difficile" e alleanza terapeutica Il tema di vita come luogo mentale intollerabile ed evitato Il piano di vita patologico e metacontrollante come insieme di scopi evitanti e protettivi 7.4 Dimensioni aggiuntive: deficit metacognitivi e cicli interpersonali 7.5 Interventi terapeutici nella cornice LIBET

7 .l 7.2 7.3

191 191 195 198 201 202

Capitolo 8 Tecniche di colloquio metacognitivo

(Gabriele Caselli)

211 211 213 214 217 220

8.1 Presupposti teorici

8.2 L'analisi AMC 8.3 Linee guida dell'analisi AMC 8.4 Esempi clinici 8.5 Considerazioni conclusive

Capitolo 9 La promozione del funzionamento metacognitivo nel paziente "difficile"

(Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore, Lorena Bianchi, Francesca Carabellz; Melania Marinz; Giancarlo Dimaggio) Il funzionamento metacognitivo Episodi narrativi Disfunzioni metacognitive Promuovere la metacognizione: consapevolezza delle emozioni e delle credenze 9.5 Promuovere la metacognizione: capire i nessi psicologici di causalità 9.6 Promuovere la metacognizione: capire la differenza tra fantasia e realtà 9.7 Promuovere la metacognizione: la comprensione della mente degli altri 9.8 Conclusioni 9 .l 9.2 9.3 9.4

Capitolo 10 N arrative personali e tecniche postrazionaliste nel colloquio cognitivo (Gianluca Prazzoni) 10.1 10.2

Terapia cognitiva e narrative personali Il dialogo clinico VIII

223 223 224 226 227 229 231 233 235

237 237 239

Indice

10.3 10.4

Le narrative personali: temi di vita e aspetti metacognitivi Ristrutturare il tema di vita

243 246

Capitolo 1 1 La relazione come strumento nella prospettiva cognitivo-evoluzionista

(Linda Tarantino, Carmelo La Mela)

11.1 11.2 11.3 11.4

11.5 11.6

Le basi neurobiologiche della psicoterapia Neuroni specchio, empatia e teoria della mente Neuroni specchio, sistemi motivazionali e relazione terapeutica La relazione terapeutica biologicamente fondata nell'ottica cognitivo-evoluzionista 11.4.1 La sicurezza 11.4.2 La pariteticità 11.4.3 La libertà comunicativa Il setting Conclusioni

253 253 255 258 262 264 268 269 270 271

Capitolo 12 Il colloquio clinico nella Video-Based Cognitive Therapy

(Piergiuseppe Vinaz; Maurizio Speciale)

12.1 12.2 12.3 12.4 12.5 12.6

"Chi si capisce è bravo". Sappiamo leggere le nostre emozioni? "Ma ti sei visto?". Come gli altri leggono le nostre emozioni Emozioni e terapia "Me lo leggo in faccia". L'efficacia dell'osservazione del proprio volto La Video-Based Cognitive Therapy in azione: protocollo clinico Un caso clinico

273 273 274 275 276 278 284

Capitolo 13 In trodurre la mind/ulness nel colloquio cognitivo

(Andrea Bassanini, Giovanni M. Ruggiero)

13 .l 13.2

Principi teorici Come introdurre la mindfulness all'interno del colloquio cognitivo

287 287 289

Appendice

293

Bibliografia

305

Indice analitico

315 IX

AUTORI

Andrea Bassanini è psicologo e trainee in psicoterapia cognitiva e cognitivo­ comportamentale. Co labora alle attività di ricerca presso la Scuola di "Studi Cognitivi" di Milano. E professore a contratto presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca, psicologo consulente dell'uoc di psicologia clinica dell'A.O. San Carlo Borromeo, socio della SITCC (Società Italiana di Terapia Comporta­ mentale e Cognitiva) e dell'ACBS (Association for Contextual Behavioral Science).

!

Lorena Bianchi è psicologa, psicoterapeuta e membro del Centro di Terapia mctacognitiva interpersonale di Roma e socia della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). Francesca Carabelli è psicologa, psicoterapeuta e membro del Centro di Tera­ pia metacognitiva interpersonale di Roma e socia della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). Gabriele Caselli è psicologo, psicoterapeuta cognitivo comportamentale, pro­ fessore a contratto presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università di Pavia, ricercatore e docente presso la Scuola di "Studi Cognitivi" di Milano, socio della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). Giancarlo Dimaggio è psichiatra, psicoterapeuta cognitivo, professore di psi­ coterapia della Scuola di specializzazione in Psicologia clinica dell'Università "La Sapienza" di Roma, didatta della SITCC (Società Italiana di Terapia Com­ portamentale e Cognitiva), socio fondatore del Centro di Terapia metacognitiva interpersonale di Roma, didatta presso !'"Istituto A.T. Beck". Francesca Fiore è psicologa, psicoterapeuta cognitiva, socia della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). Gianluca Frazzoni è psicologo, psicoterapeuta cognitivo specializzato in Scien­ ze criminologico-forensi, socio corrispondente della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Carmelo La Mela è psichiatra, psicoterapeuta cognitivo, direttore della "Scuo­ la Cognitiva Firenze" e socio ordinario della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva).

XI

Autori

Melania Marini è psicologa, psicoterapeuta e membro del Centro di Terapia

metacognitiva interpersonale di Roma e socia della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) .

Diego Francesco Moriggia è studente in psicologia presso l'Università di Milano­ Bicocca e sta ultimando una tesi sperimentale sull'interazione tra validazione e disputa dei disturbi alimentari in psicoterapia cognitiva. Davide Amos Nahum è psicologo, psicoterapeuta cognitivo, direttore del Cen­

tro di Psicologia per l'età evolutiva "Ieled" di Milano e Pavia, referente italiano per il protocollo di trattamento dei disturbi d 'ansia nei bambini "Cool Kids Program" di Ronald Rapee (Australia) .

Raffaele Popolo è psichiatra, psicoterapeuta cognitivo, vicepresidente della

sezione italiana della Society for Psy chotherapy Research, socio fondatore del Centro di Terapia metacognitiva interpersonale di Roma, didatta presso la Scuo­ la di "Studi Cognitivi" di Milano e socio didatta della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). Giovanni Maria Ruggiero è psichiatra, psicoterapeuta cognitivo, direttore della

Scuola di "Psicoterapia Cognitiva e Ricerca" di Milano, didatta presso la Scuola di "Studi Cognitivi" di Milano e la "Scuola Cognitiva Firenze", socio didatta della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) . Giampaolo Salvatore è psichiatra, psicoterapeuta cognitivo, didatta presso ]'"Istituto A. T. Beck", didatta presso la PPSISCO (Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica a Orientamento Socio-Costruttivista), socio fon­ datore del Centro di Terapia metacognitiva interpersonale di Roma. Sandra Sassaroli è psichiatra, psicoterapeuta cognitiva, direttrice della Scuola di

" Studi Cognitivi" di Milano, didatta presso la Scuola di "Psicoterapia Cognitiva e Ricerca" di Milano e la " Scuola Cognitiva Firenze", socio didatta della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) .

Maurizio Speciale è psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, di­

datta presso la Scuola di "Studi Cognitivi" di Milano, socio ordinario della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) e di "GNOSIS, No profìt Research Group" . Insieme a Piergiuseppe Vinai ha ideato e sviluppato la metodica della Video-Based Cognitive Therapy.

Linda Tarantino è psichiatra, psicoterapeuta cognitiva, didatta presso la "Scuo­

la Cognitiva Firenze" e socio ordinario della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) .

Piergiuseppe Vinai è medico psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comporta­ mentale, didatta presso la Scuola di "Studi Cognitivi" di Milano, socio didatta della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) e socio fondatore di "GNOSIS, No profìt Research Group" . Insieme a Maurizio Spe­ ciale ha ideato e sviluppato la metodica della Video-Based Cognitive Therapy.

XII

PREFAZIONE Nino Dazzi

Questo volume di Ruggiero e Sassaroli (arricchito da contributi spe­ cifici di altri autori) si segnala anzitutto per la sua originalità e per un'im­ postazione di grande praticità, decisamente in grado di venire incontro alle esigenze dell'operatore e di rispondere alle domande che il terapeuta ai suoi esordi può ripetutamente porsi. Va notato che il termine " colloquio" (che compare nel titolo) può riferirsi sia a singole interazioni paziente-terapeuta, e avere quindi un significato più ristretto, sia, in senso più ampio, alle interazioni tera­ peutiche vere e proprie che hanno luogo nel corso di una psicoterapia. Il cognitivismo italiano nel suo sviluppo storico ha posto, in misura apprezzabile, l'accento sulla dimensione teorica, arricchendo le impo­ stazioni di base di Ellis e Beck e promuovendo ulteriori fecondi sviluppi. Appare chiaro invece che l'intento degli autori di questo volume sia un altro: operazionalizzare il cognitivismo standard calando al meglio la teoria nella pratica clinica. La ricchezza delle esemplificazioni e la struttura stessa del libro, che si ispira alla chiarezza didattica senza cadere per questo in discutibili semplificazioni, ne è la testimonianza. Da questo punto di vista, ed è uno dei pregi dell'opera, viene riempita una lacuna. Poca teoria dunque, o scarsa attenzione alla medesima, in direzione di un'illusoria semplicità? Non è questa l'impressione che si ricava do­ po aver letto il libro. Appare chiaro che il rapporto diretto di amicizia di Sassaroli e Ruggiero con molti esponenti del cognitivismo clinico italia­ no (Bruno Bara, Giancarlo Dimaggio, Maurizio Dodet, Benedetto Fari­ na, Silvio Lenzi, Gianni Liotti, Roberto Lorenzini, Francesco Mancini, Giuseppe Nicolò, Giorgio Rezzonico, Antonio Semerari, il compianto Vittorio Guidano) e internazionale (Tom Borkovec, Raymond DiGiuXIII

Prefazione

seppe, Kristene Doyle, Guillem Feixas, Randy Frost e David Winter) ha permesso loro di cogliere il tradursi delle formulazioni teoriche nel­ la pratica clinica corrente. Diciamo dunque che oltre che della propria esperienza clinica gli autori hanno potuto tenere conto anche di quella di altri clinici e teorici tra i più validi del settore . Com'è passato tutto questo nel volume? Come viene a calarsi la teoria nella pratica? C'è in tutta l'esposizione una costante presenza sia delle formulazioni teoriche (e del background generale) sia delle tecniche, un costante rimando tra i due piani e una sensibilità clinica per l'efficacia degli interventi atti a gestire la sofferenza psichica del paziente, prima ancora di mirare all'efficienza comportamentale. Di qui la risposta spesso esplicita, ma anche implicita, relativa a quan­ to sia strutturata la terapia, a quale rapporto si stabilisca con la diagno­ si, a quanto pesi la dimensione relazionale, per considerare da ultimo dimensioni messe in luce dalla letteratura contemporanea come quel­ la metacognitiva ed esperienziale. Ripensare criticamente le emozioni, promuoverne una gestione interiore? Sì, ma anche facilitare e favorire la costruzione di alternative di azione. Prevalgono nel volume i riferimenti al cognitivismo originario di Ellis, con una presenza, più specifica peraltro, di Beck e rimandi alla teoria dei costrutti di Kelly, fonte di alcuni dei più interessanti approfondimenti del cognitivismo italiano. Le tecniche della disputa logico-empirica (ma si potrebbe ulterior­ mente distinguere tra piano empirico e logico) e della disputa pragmati­ ca vengono concretamente e limpidamente esemplificate, mostrandone punti di forza e punti di debolezza, in particolare rispetto alle proble­ matiche del paziente. Ma come un filo rosso attraversano tutto il volume anche, mi si per­ metta la notazione, forse eccessivamente idiosincratica, una consapevo­ lezza "ideologica" e un'autocritica (teorica e metodologica) . Valgano alcune citazioni, in tema di valori sociali - per esempio: "Al posto di questi valori sociali Ellis predica un individualismo pragmati­ co con una patina stoica di accettazione del destino, per cui la serenità mentale si persegue comprendendo quali sono i propri interessi indivi­ duali, e quanto invece ogni valore sociale sia sempre sospetto . . . " -, on­ de la disputa pragmatica risulterà un'analisi dell'utilità dei propri valori, non del loro valore di verità (in parziale contrasto la tecnica di Beck è più ottimista e meno stoicizzante, ma anche molto neutrale e spersona­ lizzata, più lontana dai cosiddetti significati "soggettivi" del paziente) . La seconda parte del volume, che ha l'unico torto di risultare troppo XIV

Prefazione

breve, mentre propone una quantità di interessantissime sollecitazioni, è dedicata a ulteriori sviluppi del modello cognitivista, più o meno riferibi­ li agli ultimi dieci-quindici anni, e che hanno a che fare con il cosiddetto p aziente " difficile" e in particolare dunque con i disturbi di personalità. Si tratta degli sviluppi che vanno sotto il nome di "terza ondata" del cognitivismo (dopo il comportamentismo e il cognitivismo vero e pro­ prio) . Il paziente "difficile " pone in effetti seri problemi al terapeuta co­ gnitivo e al suo approccio teorico, forzando a evolvere verso concezioni diverse e più ampie dell'attività mentale. In relazione all'approccio della Linehan per i pazienti borderline (Dialectical Behavior Therapy) gli autori rilevano che traspare in esso una concezione più complessa della mente. Non si tratta più infatti di "manipolazione esplicita di pensieri, ma anche di gestione e regolazio­ ne complessa, al tempo stesso intuitiva, cognitiva e metacognitiva del comportamento quotidiano" . D a qui l'utilizzazione dei modelli di attaccamento, l'accento sulla mindfulness, concezioni nuove come quella della self-compassion di Gil­ bert (2009) o l'accento sulla dimensione dell'accettazione di se stessi (Hayes, Strosahl, Wilson, 1999), anche se vi si affianca il commitment (impegno) o infine la novità della Schema Therapy di Young e il ricchis­ simo filone della metacognizione, sviluppato oltre che da autori stranie­ ri, come per esempio Wells (2000), anche da autori italiani, in particolare Dimaggio e Semerari (2007). Da ultimo Ruggiero e Sassaroli trattano un approccio specifico ai " te­ mi e piani di vita nel colloquio cognitivo esistenziale" , nell'ambito del quale è stato messo a punto un particolare modello, il LIBET (Life the­ mes and plans Implication of biased Beliefs: Elicitation and Treatment). È uno dei modi di riprendere la tematica della storia di vita, ogget­ to di interesse per il recente cognitivismo (e non solo), ma soprattutto in quanto tematica cara alla psicoterapia psicodinamica. Perché? Valga per tutte una citazione esemplare, secondo la quale esistono "una certa propensione di alcuni pazienti a difendere le proprie convinzioni distor­ te e perfino a identificarsi con esse, invece di metterle in discussione se­ condo le regole del colloquio cognitivo" e "la possibilità che il paziente utilizzi le sue credenze distorte per gestire il suo giudizio sulla terapia e la sua relazione con il terapeuta" . Dovremmo concludere che esistono debolezze dell'approccio co­ gnitivo tali che la teoria non può che essere abbandonata? Il problema è complesso e tocca il tema dei rapporti tra ricerca sulla psicoterapia e specificità degli approcci. Mi limito anche in questo caso a citare alcune xv

Prefazione

equilibrate riflessioni degli autori: "Sebbene la ricerca in psicoterapia ci abbia fatto capire quanto sia difficile ridurre l'intero processo terapeu­ tico al solo incremento delle capacità critiche e razionali, è pur vero che gli studi di efficacia a favore della terapia cognitiva ci suggeriscono che questo strumento gioca un ruolo significativo nella terapia quantomeno di alcuni disturbi" . Cosa ne possiamo dedurre? Che, almeno per alcuni disturbi, "il ruolo dei meccanismi di cambiamento razionalistico può essere talmente catalizzante e significativo da rendere quasi spontanea e involontaria l'attivazione degli altri tipi di meccanismi terapeutici [ . . ] più tipici di altre terapie, come la cosiddetta relazione terapeutica, l'a­ nalisi della storia di vita o dei contenuti mentali meno immediatamente accessibili alla coscienza". Di qui l'attenzione, forse non così chiaramente tematizzata come in altri casi, a dimensioni tendenzialmente estranee all'approccio cogniti­ vo, come quelle del conflitto, dei meccanismi di difesa e degli aspetti transferali della relazione terapeutica; per fare un nome solo, alla tema­ tica ben esemplificata dall'opera di uno psicoterapeuta psicodinamico come Kernberg. Sono aperture importanti per un clinico, al di là della fedeltà ai propri modelli, in funzione di una maggiore efficacia nel venire incontro alla sofferenza del paziente, con una acuta consapevolezza che normalmente "la terapia cognitiva, anche quando si apre all'emozione e alla relazio­ ne, conserva una sua tipica idiosincrasia illuminista per l'irrazionalità e il conflitto" (Ruggiero, 20 1 1, p. 52) . .

XVI

INTRODUZIONE

"Sì, ma al paziente cosa dico ? " può sembrare una domanda rozza, che tradisce inesperienza e ingenuità. È una domanda che si pongo­ no quasi tutti i giovani aspiranti terapeuti, e molti la formulano aper­ tamente, attendendosi una risposta. Un silenzio sorridente e carico di saggezza può essere una buona risposta. Un modo - come si dice - per non colludere con il giovane affamato di facili soluzioni, un modo per somministrare una cortese e necessaria frustrazione allo specializzando. E tuttavia, parafrasando il detto di uno scrittore, in questo silenzio da "venerato maestro" si può nascondere il tradimento del "solito stron­ zo" (Arbasino, riportato in Berselli, 2007). Il tradimento di chi se la cava sempre e comunque indossando la maschera di quello che la sa lunga, tirando fuori la scusa che certe cose non si possano insegnare, ma van­ no apprese con il tempo e con la crescita. Il che è vero, ma non del tutto. Anche la psicoterapia ha una sua tec­ nica esplicita, delle procedure che si possono comunicare. Ed essendo la psicoterapia una talking cure, una cura parlata, questa tecnica è una tecnica del colloquio. E quindi qualcosa si può rispondere alla doman­ da dell'allievo. Soprattutto la psicoterapia cognitiva, che nasce da una felice semplificazione della tecnica del colloquio terapeutico e che si è sviluppata a partire da problemi clinici pratici, dovrebbe avere i mezzi per rispondere alla domanda: " Sì, ma al paziente cosa dico ? " . Il colloquio psicoterapeutico cognitivo, sia i n Albert Ellis sia in Aa­ ron T. Beck, ha dei principi tecnici chiari e operativi. Si fonda sull'in­ coraggiare il paziente ad apprendere tre abilità di base: l) riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva consapevole ed esplicita, ovvero tra quello che sento e quello che penso e che posso esprimere verbalmente; 2) mettere in discussione la validità di questi XVII

Introduzione

pensieri, il loro valore di verità e di utilità; 3) costruire nuovi pensieri, più veri e soprattutto più utili, che andranno a sostituire quelli vecchi nelle situazioni quotidiane della vita e che quindi genereranno emozio­ ni e azioni differenti; emozioni e azioni a loro volta in grado di gene­ rare maggiore benessere e maggiore capacità di affrontare o almeno di sopportare le situazioni. Tutto questo corrisponde a interventi diretti ai nostri pazienti. E questo libro tenta di indicare quali sono. In altre pa­ role, questo è un libro di tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva. L'atto fondativo della terapia cognitiva fu effettuato da Albert Ellis, psicologo clinico formatosi come psicoanalista presso il Karen Horney Institute di New York alla fine degli anni Quaranta del Novecento. Ellis affrontò un problema di pratica clinica: vide con lucidità i limiti di alcune prescrizioni pratiche della tecnica psicoanalitica dell'epoca e cambiò le regole del gioco terapeutico. Ellis modificò il fuoco dell'azione terapeu­ tica. Mentre Freud metteva al centro i contenuti inconsci, Ellis sostenne che invece l'azione terapeutica dovesse concentrarsi sui contenuti co­ scienti. L'individuo soffre per quello che pensa coscientemente dei suoi problemi presenti e non a causa di contenuti appartenenti al passato, in­ sondabili e inaccessibili alla coscienza. E sono questi pensieri coscienti che vanno accertati, criticati e ripensati. L'atteggiamento del terapeuta diventava quindi attivo e persuasivo, e non più attendista e distaccato. La relazione terapeutica diventava di collaborazione paritaria e pragmatica e non più di rivalità e dipendenza tra un terapeuta ieratico e un paziente ritenuto ribelle per motivazioni a lui ignote. La seduta non era più una riproposizione della tragedia edipica, ma del dialogo socratico. Che cosa significava definirsi " terapeuta razionale" ? Che cosa era successo? Era nato il modello classico del trattamento cognitivo. D 'ac­ cordo, ma tutto questo cosa significa in termini pratici? Come inizia il colloquio terapeutico cognitivo? Come si conduce e si struttura? E qua­ li obiettivi si pone? È quello che vedremo in questo libro, dedicato al­ la trattazione pratica della tecnica del colloquio terapeutico cognitivo. Esamineremo la versione cosiddetta standard della terapia cognitiva, quella focalizzata soprattutto all'accertamento e alla terapia dei cosid­ detti errori cognitivi, pensieri consapevoli e distorti (biased) che causa­ no o contribuiscono a causare nel qui e ora la sofferenza emotiva dei pazienti in cura. Il tutto è corredato di esempi pratici e si accompagna a una riflessione tattica e strategica sugli obiettivi a breve e a lungo ter­ mine delle varie fasi della terapia cognitiva. Il libro è organizzato in due parti. La prima parte tratta la tecnica e la pratica delle tre fasi del colloquio cognitivo classico: accertamento, XVIII

Introduzinnp

disputa e ristrutturazione. A cui si aggiunge un aspetto empatico di va­ lidazione. In questi primi capitoli si espone la migliore tradizione razio­ nalista alla Albert Ellis e cognitiva alla Aaron T. Beck integrata, com'è tipico dell'originale impostazione del cognitivismo italiano, con tecni­ che di accertamento e ristrutturazione costruttiviste mutuate dal mo­ dello di George Kelly. Il quarto capitolo integra, all'interno della di­ sputa cognitiva ortodossa, tecniche di validazione emotiva che tentano di formalizzare il concetto, a volte un po' generico, di empatia. Il quin­ to capitolo tratta le applicazioni speciali ai maggiori disturbi bersaglio della terapia cognitiva: ansia, depressione e bulimia. La prima parte si conclude con un capitolo dedicato al colloquio cognitivo clinico con il bambino ansioso. La seconda parte, costituita da altri otto capitoli, tratta i possibili svi­ luppi futuri, cosiddetti di terza ondata, del colloquio clinico cognitivo: l'attenzione alla storia di vita e agli schemi evolutivi, il modello cogniti­ vo-evoluzionista e quello postrazionalista, la metacognizione, il narra­ zionismo, la mindfulness, e un protocollo specifico di Video-Based Co­ gnitive Therapy che riesce a integrare nel colloquio cognitivo gli aspetti percettivi ed esperienziali.

XIX

PARTE PRIMA

IL COLLOQUIO COGNITIVO STANDARD

l

ACCERTARE

1.1 "QUAL È IL SUO PROBLEMA?"

Ogni terapia, anzi, ogni singolo colloquio di terapia inizia con un pro­ blema. La persona emotivamente sofferente si presenta a noi, ci raccon­ ta quel che l'affligge e, così facendo, diventa o ridiventa ogni volta no­ stro paziente. Spontaneamente o incoraggiato da noi, lui o lei comincia a descrivere la sua sofferenza. Di che cosa mi vuole parlare? Quale problema m i porta? Qual è il suo problema?

Il racconto potrà iniziare con la descrizione di alcuni stati d'animo problematici e dolenti, oppure di una serie di episodi più o meno sfa­ vorevoli e sventurati, oppure di relazioni problematiche che il pazien­ te intrattiene con alcune figure di riferimento del presente o anche del passato. Il racconto dei problemi del paziente potrà prolungarsi per un a o più sedute. Trattandosi di problemi di tipo psicologico, sarà bene accompagnare questi colloqui di accertamento e di conoscenza iniziale con accertamenti diagnostici più formalizzati sia di tipo psichiatrico sia psicologico. Tutto questo è sicuramente indispensabile e importante. Tuttavia questo testo intende focalizzarsi immediatamente sulla tecnica del colloquio terapeutico cognitivo. Si dice che la terapia cognitiva sia un tipo di trattamento molto strut­ turato , meno libero di altre forme di psicoterapia. C'è del vero in questo. E infatti già nel chiedere al paziente qual è il suo problema, il terapeu­ ta cognitivo segue una sua direzione preferenziale. Una direzione non 3

Il colloquio cognitivo 1·tandard

rigida e nemmeno obbligata, eppure plausibile fin dall'inizio e, se con­ fermata dalle informazioni che emergono man mano, sempre più pro­ babile. Questa direzione viene usata come una bussola che dia sicurezza al procedere del colloquio cognitivo. E qual è questa direzione preferenziale? È l'individuazione Jel co­ siddetto pensiero negativo. Cosa vuoi dire? Vuoi dire che fin dall'inizio dobbiamo incoraggiare il paziente a fare attenzione ai suoi pensieri e in particolare a quei suoi pensieri che lo portano a giudicare in maniera negativa, catastrofica e terribilizzante le varie occasioni di vita in cui si manifesta la sua sofferenza. Questi pensieri negativi e catastrofici in qualche modo incoraggiano il terapeuta cognitivo a orientarsi in una direzione abbastanza caratteri­ stica: la depressione e/o l'ansia. E infatti, per ragioni scientifiche e clini­ che, questa terapia è ritenuta particolarmente adatta a curare questi tipi di disturbi emotivi. Ma attenzione. Questo non significa che il terapeuta cognitivo appiccichi indiscriminatamente a ogni paziente un problema di depressione o di ansia. Semmai questo significa che i problemi emotivi che più spontaneamente emergono nell'atmosfera del colloquio cogni­ tivo sono problemi di tipo ansioso o depressivo. Ovvero stati d'animo negativi improntati a preoccupazione o tristezza. Questo perché effet­ tivamente la tecnica del colloquio cognitivo ha sviluppato una grande finezza nel definire ed elicitare i pensieri consapevoli e coscienti (atten­ zione, lo ripetiamo: consapevoli e coscienti) che portano il paziente a valutare depressivamente e/o ansiosamente le situazioni. Depressivamente: ovvero dando valutazioni globalmente e irrimedia­ bilmente negative delle situazioni. Globalmente nel senso che esse in­ vestono l'intero ambito vitale del soggetto, l'intero suo progetto di vita: tutto quel che ha fatto e ottenuto finora in vari ambiti (gli affetti, il lavo­ ro, le amicizie, la realizzazione di sé e la soddisfazione di sé) . Ansiosamente: ovvero facendo previsioni negative e catastroficamen­ te sfavorevoli della piega degli eventi, delle situazioni e degli scenari in cui si svolgono la vita del paziente, i suoi interessi e le sue passioni. La bussola del pensiero negativo può essere utilizzata anche per met­ tere ordine in un racconto troppo erratico, rapsodico, sfuggente e di­ sordinato, che sembra non andare da nessuna parte. " Insomma - si chiederà il terapeuta smarrito e confuso - ma perché questa persona è venuta da me? Avrà una preoccupazione questa persona! E quale? " Come spesso accade, la soluzione è nella domanda stessa. Chiediamo al paziente che cosa lo preoccupa.

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Accertare

Lei si è rivolto a me per qualche problema che la affligge. Mi d ica, che cosa la preoccupa?

In fondo, questo è il modo migliore per iniziare il viaggio con un pa­ ziente che non riesce a descrivere la sua sofferenza. Si parla di preoc­ cupazioni, ma non di ansia e tantomeno di depressione. Un piccolo incoraggiamento in una direzione familiare al terapeuta cognitivo, ma nessuna diagnosi calata dall'alto. Insomma, il colloquio cognitivo è un viaggio del paziente nelle sue preoccupazioni. Ma non è solo un viaggio di scoperta. Il paziente attra­ versa i suoi timori e le sue paure, e costantemente il terapeuta, durante il colloquio, chiama a raccolta le facoltà razionali del paziente. Il che vuol dire le sue capacità di calcolo, di ripensare criticamente le sue emozio­ ni, di mettere sotto esame le situazioni che teme. Chiedendo: "Che co­ sa la preoccupa?" invece che: " Qual è il suo problema? " chiudiamo il colloquio verso una direzione terapeutica. Vedremo in seguito come il concetto di preoccupazione (worry) sia centrale per organizzare il col­ loquio in psicoterapia cognitiva. Attenzione, tuttavia. Questo non vuol dire che i terapeuti cognitivi trascurino le altre emozioni negative. La tecnica standard è applicabile anche ad altri stati psicologici disadattivi. Ellis cita tra le emozioni di­ sfunzionali la rabbia, la gelosia, l'invidia e un'emozione che lui chiama hurt e che in italiano potremmo tradurre con qualcosa che sta dalle parti del dolore morale, del sentirsi feriti, umiliati e offesi. L'unico problema è che queste altre emozioni negative hanno una si­ gnifi cativa componente interpersonale che finisce in qualche modo per influenzare la stessa tecnica, la quale assume in maniera molto manifesta un aspetto relazionale esplicito che va oltre la ristrutturazione cognitiva dei contenuti mentali. Non si tratta solo di esplorare e ristrutturare le credenze cognitive alla base dei comportamenti interpersonali, ma ad­ dirittura di viverle e di gestirle, come in un piccolo psicodramma. Per questi pazienti sono quindi necessari degli accorgimenti aggiuntivi di tipo, per esempio, metacognitivo, esperienziale e/o interpersonale che preferiamo trattare separatamente (vedi seconda parte) . Tornando a noi, è bene mantenersi nella terminologia non diagno­ s ti ca offerta spontaneamente dal p aziente e al massimo integrarla con term ini come "preoccupazione" o "dolore" che in qualche modo de­ , fin is cono il campo. Per il terapeuta cognitivo queste preoccupazioni e queste tristezze 5

Il colloquio cognitivo standard

sono entrambe frutto di valutazioni negative del pensiero cosciente e consapevole. Certo, si tratta di pensieri rapidi e automatici, eseguiti mec­ canicamente e senza attenzione consapevole. Ma assenza di attenzione consapevole non significa assenza di consapevolezza. Fin dall'inizio, il lavoro del terapeuta cognitivo è volto a guidare l'attenzione del pazien­ te su questi pensieri, a non subirne l'automaticità creata dall'abitudine, ma a ripensarne il contenuto negativo. Insomma nel primo colloquio, anche se ancora ci manca un appro­ fondito accertamento diagnostico effettuato con strumenti validati e for­ malizzati (interviste e questionari) dobbiamo già tentare di compiere la nostra prima azione terapeutica: dare al paziente una prima, primissima restituzione. Ovvero, riformulare in parole semplici tutte le difficoltà, tutte le sofferenze e tutti i problemi del paziente riassumendoli in un problema, o al massimo in due o tre problemi. Direi che il suo problema può essere che . . . Però m i dica se è d'accordo, se si riconosce i n ciò che l e dico.

È bene tentare di farlo soprattutto in termini di pensiero negativo e disfunzionale, tendenzialmente ansioso e/o depressivo. Tuttavia non dobbiamo dimenticare di lasciar libero di oscillare l'ago della bussola. La nostra bussola va usata con flessibilità. Se anche il nostro paziente si conferma depresso e/o ansioso, non dobbiamo dare nulla per scon­ tato. Ansia e depressione, lo ripetiamo, vanno considerate bussole, non diagnosi. Ovvero, ciò che importa è dare una prima formulazione del problema in cui si trasmette al paziente un messaggio. Un messaggio in cui ci si mette d'accordo che il problema da trattare terapeuticamente consiste in una visione negativa della realtà. Questa visione negativa della realtà nella sua formulazione di lavoro più semplice ed efficiente è di tipo ansioso o depressivo, perché in questa formulazione c'è solo un atto valutatìvo iniziale in cui si pensa che le cose vanno male. Le cose poi potranno complicarsi. Potranno emergere anche emozioni diverse. La rabbia, per esempio. E quindi pensieri che vanno oltre la tristezza depressiva o la paura ansiosa. Pensieri in cui, per esempio, si valutano gli altri e se stessi in rapporto agli altri in varie maniere, maniere che in qualche modo portano a desiderare reazioni sprezzanti, aggressive, rabbiose. Ma tutto questo richiede una maggiore massa critica d'infor­ mazione. Per iniziare, l'ipotesi di lavoro migliore rimane quella ansio­ so-depressiva. 6

Accertare

Per riassumere • • •

Accertare i l problema generale del paziente. Formu lare il problema nei term i n i di una preoccupazione. Util izzare la formulazione non come diagnosi ma come u na direzione.

1.2 "MI RACCONTI UNA SITUAZIONE IN CUI SI È PRESENTATO IL SUO PROBLEMA"

Una volta concordato un problema da trattare e una volta che ab­ biamo indirizzato per la prima volta il paziente a porre attenzione alla sua sofferenza emotiva e al suo stile di pensiero negativo, dobbiamo in­ dividuare situazioni specifiche in cui si manifesta il problema. In realtà, solo esplorando situazioni determinate, solo chiedendo al paziente di descrivere occasioni circostanziate in cui si è presentato il suo proble­ ma iniziamo davvero a definirlo e a chiarire la ragione che ha portato il paziente a richiedere una terapia cognitiva. Il terapeuta inizia un lavoro di accertamento accurato e cauto, cercan­ do di essere quanto più possibile semplice e concreto. Prima di esplorare il perché di un certo problema, il terapeuta accerterà quando si mani­ festa questo pericolo nella mente del paziente: " In quali momenti della giornata accadono gli episodi problematici? In concomitanza con quali stimoli o situazioni? E inoltre, con quale frequenza? " . Mi può raccontare un'occasione determinata i n cui s i è presentato il suo problema? Un'occasione di cui ricorda concretamente le circostanze, il momento e il luogo in cui è avvenuta, e che sia per lei particolarmente rappre­ sentativa. Oppure, più semplicemente, mi può raccontare l'ultima volta che si è presentato il suo problema?

La precisione è necessaria perché la sofferenza emotiva, soprattutto

se

di tipo ansioso-depressivo, si presenta con un carattere vago e astrat­

Nella percezione del paziente, e poi nelle sue descrizioni, c'è poca attenzione per il dettaglio concreto. Il pensiero negativo è un pensiero

to.

Povero e ripetitivo, poco attento ai contorni delle cose, delle persone,

d egli accadimenti (Borkovec, Inz, 1990) . L'individuo che viene in te­ rapia valuta la realtà come triste, deprimente o pericolosa e ansiogena. Tuttavia queste valutazioni rimangono poco caratterizzate. Per esem7

Tl cnlloquio cognitivo standard

pio, il pericolo è nominato ma non definito. Qualcosa di dannoso può accadere, ma non si sa bene cosa, o almeno come. Inoltre, si può già tentare di attirare l'attenzione sulla disfunzionali­ tà del disturbo. Ovvero, sul fatto che il problema vero della sofferenza del paziente è la sua capacità di impedire una fruttuosa gestione delle situazioni, o almeno di cavarsela senza troppi danni. In questo modo si suggerisce al paziente che il vero obiettivo è comprendere cosa lo bloc­ ca e cosa lo paralizza. Inoltre si selezionano situazioni in cui il paziente è stato effettivamente danneggiato dal suo stato emotivo. Mi può raccontare un'occasione in cui il suo problema le ha impedito di gestire fruttuosamente una situazione, e di cavarsela senza nem­ meno troppi danni? I nsomma, u n'occasione in cui la sua sofferenza emotiva i n qua lche modo l'ha paralizzata?

Insomma, un accertamento accurato svolge non solo la funzione di raccolta dati, ma è già un atto terapeutico. Raccogliendo i dati il tera­ peuta inizia a incoraggiare il paziente a ragionare in maniera più calma e controllata sui suoi stati d'animo, in maniera più attenta ai particolari e meno propensa a trarre conseguenze affrettate e catastrofiche. Il pa­ ziente impara a non subire passivamente le proprie emozioni e a non reagire a esse irriflessivamente. Questo va fatto anche nei casi in cui il paziente o la paziente riferi­ scano problemi in apparenza già chiari e dettagliati. Nulla va dato per scontato. Occorre continuare a chiedere chiarimenti. Chiedere: "Quan­ do? " significa: "In che giorno? A che ora? Dove e con chi ? " . Per esem­ pio, Elena chiede un trattamento terapeutico perché ha la fobia dei cani: PAZIENTE: Il mio problema sono i cani. Ne ho paura.

Dobbiamo subito affrontare la tentazione di concentrarci sulla fo­ bia specifica dei cani (esplorare nel mondo mentale della paziente cosa pensa della pericolosità dei cani, esaminare le sue emozioni di paura, e così via) . Eppure, se superiamo questa tentazione e insistiamo in un ac­ certamento accurato il quadro si modifica: PAZIENTE: Non temo proprio tutti i cani. Ho paura del cane del vicino.

Notiamo come in realtà trattamento e accertamento si intreccino. Un'ammissione del genere è anche una risposta alla domanda: " Quan­ to sono pericolosi per lei i cani? " , "Teme allo stesso modo tutti i ca8

Accertare

ni? . Messa alle strette, Elena ammette di temere solo il cane del vici­ "

no. Continuiamo, senza credere di avere già individuato il problema, a chiedere pazientemente in quali occasioni questa paziente ansiosa teme il cane del vicino: PAZIENTE: Ho paura del cane del vicino la sera, quando esco per correre.

E così abbiamo individuato non solo il problema generale (la paura

dei cani) , ma anche la situazione specifica in cui si manifesta con mag­

giore evidenza e problematicità questo timore. Il passaggio dal disagio emotivo generico alla situazione determinata, nel tempo e nello spa­ zio, in cui esso si manifesta è fondamentale. Ma attenzione: uscire la sera per correre rischia di essere ancora una situazione generica, poco determinata. È una situazione ricorrente, mentre sarebbe meglio sta­ bilire un'occasione specifica. Incoraggiare la paziente a determinare il giorno preciso la aiuterà anche a ricordare cosa davvero provò e pen­ sò quella volta: TERAPEUTA: Quando le è capitato esattamente di voler uscire per cor­ rere e aver provato questo timore? Ieri? La settimana scorsa? Che giorno era?

Una volta individuata una situazione, bisogna iniziare a esporre al paziente il cosiddetto modello ABC. In realtà non è mai troppo presto per iniziare ad applicarlo e lo si può fare fin dal primo minuto di tera­ pia. Esso può essere utilizzato anche per accertare il problema. Oppure si può attendere, come nell'esempio precedente. Ma cos'è l' ABC? È una tecnica di formalizzazione del colloquio cognitivo, sia della fase di ac­ certamento sia del lavoro terapeutico vero e proprio di disputa e ristrut­ turazione. Si tratta di un sistema per guidare il paziente nel processo di comprensione dei suoi meccanismi cognitivi di valutazione degli eventi. Per riassumere • •

Elicitare una situazione problematica i n cui si presenta il problema. Uti lizzare l a sofferenza emotiva provata dal paziente per g u idarlo a in­ dividuare le situazioni problematiche.

1 .3 SPIEGARE IL MODELLO ABC

L'espressione ABC è di Albert Ellis ( 1962) ed è un acronimo, in cui A belie/s e C per consequences. L'antecedent è lo stimolo di partenza, che in terapia è l 'occasione problematica in cui la sta per antecedent, B per

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Il colloquio cognitivo standard

sofferenza emotiva si è presentata in maniera particolarmente vivida e concreta. Per lo più si tratta di situazioni concrete: guidare l'auto, par­ lare in pubblico. Può però trattarsi di qualsiasi cosa, anche di un even­ to immaginario, possibile o perfino impossibile, di uno stato d'animo, di un'emozione, di un pensiero. Può essere una relazione e può appar­ tenere al passato, al presente o al futuro. In alcuni disturbi emotivi l'A può essere un pensiero, come accade nell'ossessività. Nel disturbo di panico l'A è l'emozione di paura. Pensieri ed emozioni sarebbero altre parti dell' ABC, ma in questi casi occorre prendere atto che la situazione di partenza non è di tipo concreto. Nel capitolo 4, dove sono esaminate le applicazioni del colloquio clinico ai vari disturbi, è spiegato meglio come impostare un ABC che non parta da una situazione esterna. Di solito si raccomanda di preferire situazioni concrete e determina­ te nel tempo e nello spazio e di evitare situazioni generiche o ricorrenti, proprio per tenere il paziente collegato a un problema specifico. Inol­ tre sono preferite le situazioni disfunzionali, quelle in cui le cose sono andate storte e la gestione del problema è fallita. I B sono i pensieri, le convinzioni (ovvero, in inglese, i belie/s) che il paziente ha utilizzato per valutare - per lo più negativamente - l' antece­ dent. Infine, i C (le consequences) possono essere emozioni o comporta­ menti, azioni. Ma l'ABC è in qualche modo anche un oggetto concreto. È un foglio suddiviso in tre colonne verticali, in ognuna delle quali si descrive una delle componenti dell'ABC, come segue: A

B

c

Antecedenti

Pensieri

Emozioni e comportamenti

Questa è la versione iniziale, focalizzata sull'accertamento. Vedremo in seguito come nel pieno della terapia l'ABC diventerà un ABC-DEF (ve­ di paragrafo 2 . 12): A

B

c

D

E

F

Antecedenti

Pensieri

Emozioni e comportamenti

Disputa

Ristrutturazione e nuovi effetti

Obiettivi

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Accertare

Il foglio ABC va consegnato al paziente, che così potrà familiarizzare co n lo strumento. Il paziente va istruito e guidato a compilare l'ABC in seduta e attivamente incoraggiato a usarlo a casa. L'esercizio intenso e continuo favorirà la consapevolezza riguardo ai suoi stati cognitivi e al­ le sue emozioni. Le regole di compilazione dell'ABC non sono rigide e fisse. Si può iniziare dall'A, ma anche dal C o perfino dal B, dai pensieri. Come ab­ biamo già scritto, un pensiero o un'emozione può essere l'A di parten­ za. Per esempio, un paziente ossessivo spesso riferirà per prima cosa le proprie idee ossessive. Naturalmente si possono considerare queste idee non solo dei B, ma anche un A. Si tratta in fondo di un problema meramente nominale. In ogni caso, se il paziente mostra difficoltà nel trovare un A, partia­ mo dal suo problema più generale, dal suo malessere emotivo. Se siamo d'accordo con il paziente su quale sia lo stato emotivo che lo fa soffrire, chiediamogli in quali situazioni si presenta. In quale situazione problematica (A) le capita di provare quella soffe­ renza emotiva (C) che mi ha descritto?

In questo caso, la difficoltà nell'individuare l'A ha indotto il tera­ peuta a partire dal C. Se invece l'A era stato individuato con chiarezza

dal paziente, chiediamo al paziente quali C, quali emozioni ha provato. In quella situazione (A) cosa ha provato (C)?

È importante chiarire che le emozioni che ci interessano sono soprat­ tutto quelle negative. Dì più: sono quelle disfunzionali, quelle che non ci aiutano a gestire il problema. Anzi, che cosa ha provato di negativo? E, ancora meglio, cosa ha pro­ vato che non l'ha aiutata? Voglio dire: che non l'ha aiutata a gestire la sit uazione, o a lmeno a sopportarla?

In ogni caso A e C si compilano prima del B, mentre che dopo l'A si compili il C non è proprio una regola sempre esplicitamente espres­ sa da Ellìs. Eppure ci sono buone ragioni per accettare questo sugge­ rim ento. In primo luogo è vero che nel manuale di Neenan e Dryden (2006, p. 60), edizione ufficialmente approvata dall'Istituto Ellis di New 11

Il cnllnquio cognitivo standard

York, nella sequenza di domande raccomandata dagli autori l' elicitazio­ ne dell'emozione elo del comportamento precede quella del pensiero. E poi lo stesso Ellis ( 1 962) riteneva che la situazione problematica do­ vesse essere accertata definendo ciò che era evidente (eventi, emozioni e comportamenti) e che per ultimi andassero esplorati i pensieri consa­ pevoli che accompagnano lo stato di malessere. Una possibile obiezione potrebbe essere: Ma in tale maniera non si rischia di non fare comprendere al paziente il ruolo di mediatore dei pensieri, dei B? L'obiettivo del colloquio cognitivo non dovrebbe essere proprio far capire al paziente che ogni emozione, ogni C, non dipende direttamente dalle situazioni - dagli A - ma dai pensieri, dai B? La rispo­ sta è che sebbene sia vero che il paziente in questo modo ha l'impressio­ ne erronea che il C emerga dall'A, e venga dopo l'A, questa suggestione va inizialmente rispettata. Solo in seguito, elicitando il B, emergerà in maniera più evidente l'azione mediatrice dei pensieri. Un altro possibile rischio che potrebbe derivare da un apprendi­ mento forzato e troppo precoce della posizione intermedia del B tra A e C è che, se si chiedesse il B subito dopo l'A, potrebbe accadere che il paziente non riferisca quanto pensato in quel momento, nel momento della sofferenza, ma fornisca i pensieri più ragionevoli che gli vengono in mente nella situazione protetta della seduta. Definire con esattezza A e C prima di esplorare i pensieri significa allora concentrare la mente del paziente sulla situazione problematica. Facciamo attenzione. Mi d ica cosa ha pensato in quel momento, in quella situazione (A), quando provava quelle emozioni (C). Non mi di­ ca cosa pensa ora di q uella situazione. I n questa maniera mi d irebbe le cose ragionevoli che le vengono in mente ora. Questo però non ci fa capire cosa ha pensato in quel momento e che non l'ha aiutata in quel momento.

Riassumendo, le quattro domande per elicitare un ABC (Neenan, Dryden, 2006) sono: Qual era la situazione nella q uale il problema si è manifestato? (Eiici­ tare l'A) Cosa ha provato? Cosa ha fatto? (Eiicitare il C) In quel che ha provato e fatto, che cosa non l'ha aiutata a gestire quella situazione? (Sottolineare la disfunzionalità e passare al B) Quali cose le passavano in quel momento per la mente che hanno de-

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Accertare

terminato il C e che non l'hanno aiutata? (Eiicitare i l B e sottolineare a ncora la d isfunzionalità)

Torniamo ora alla nostra paziente del paragrafo 1.2, così intimorita per il cane del vicino. Non vogliamo andare a vedere come procede la terapia? A questa paziente piace fare jogging. Si tiene in forma. Come m ai ha paura di questo cane solo quando esce per correre? PAZIENTE: Quando esco in altre occasioni, in realtà non esco a piedi. Prendo l'auto e quindi non passo vicino al cane.

È un quadro di evitamento. La paziente esce fuori di casa solo pro­ tetta dall'auto. Da quanto tempo lo fa? Da mesi. Solo quando vuole fa­ re jogging trova la forza di mettere il naso fuori casa senza protezioni. I �a paziente conferma: PAZIENTE: Ormai esco solo in auto o accompagnata. Solo il jogging mi dà il coraggio di passare accanto al cane.

D'accordo. Ma questo cane che fa? Come esprime la minaccia? Pos­ siamo lasciare la domanda aperta. Oppure stringerla, se la paziente con­ tinua a rimanere sul vago. È così pericoloso questo cane? Cosa fa di real­ mente minaccioso? Abbaia o fa anche altro? Si avvicina? Ringhia? Sono avvenute aggressioni? Lo chiediamo a lei. PAZIENTE: Se il cane è legato non ho paura.

Risposta in realtà incongrua con quanto chiesto. Insistiamo con le stesse domande. Non dobbiamo avere paura delle ripetizioni. PAZIENTE: Se c'è una staccionata non ho paura.

Anche qui la paziente risponde parlando di ciò che la protegge, non della pericolosità del cane. Il terapeuta immagina un certo quadro. Un quartiere residenziale con villette. Giardini, a quanto pare non recintati, all'am ericana. Il cane libero di girovagare oltre il prato del suo padrone. Ma è proprio così? Chiediamo conferma. PAZIENTE: Sì, è vero. Il giardino del vicino non ha staccionata.

D 'accordo. Questo cane è libero di dare fastidio, ma quanto è effet­ tivamente pericoloso? Il terapeuta vede davanti a sé una paziente ansio­ s a, una signorina ben vestita e gentile, ma un po' troppo timida. Quanto è grosso questo cane? Quanto è aggressivo? Quanto danno può fare? PAZIENTE: Anche se il cane è piccolo ho paura.

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Il colloquio cognitivo standard

Questo passaggio è importante: dalla situazione esterna all ' emozio­ ne interiore. Dal cane alla paura. La paziente sottolinea la sua ansia. La dimensione reale del cane non conta, conta l'emozione interiore. Ma fornisce anche un'informazione fattuale: il cane è piccolo. Ma poi ag­ giunge, confermando la sensazione claustrofobica di assedio, e il suo desiderio di evitamento: PAZIENTE: La strada è a fondo cieco: mi obbliga a passare di fronte al giardino del vicino. E poi una volta davvero questo cane ha morso mia sorella.

La conclusione è triste e sconsolata: PAZIENTE: Insomma, non passo di lì perché temo che possa mordermi.

Magari qualcuno si starà chiedendo: ma questo terapeuta che fa? Segue la paziente nel suo girovagare ozioso? Non sarebbe ora di iniziare a lavorare seriamente? Insomma, qui c'è una situazione chiaramente pro­ blematica, da affrontare con un ABC cognitivo che permetta finalmente di iniziare a trattare cognitivamente questo problema, con il suo corre­ do di scopi, credenze ed emozioni. Eppure, prima di iniziare, il terapeuta fa un'ultima domanda di ac­ certamento. Una domanda forse non troppo cognitiva, ma di gestio­ ne comportamentale. D'altro canto la terapia si chiama anche terapia cognitivo-comportamentale. Non dimentichiamolo: non c'è solo la ge­ stione interiore delle emozioni, ma anche la costruzione di alternative d'azione. Insomma il terapeuta, di fronte a questo cane non legato, non controllato da una recinzione, liberissimo di scorrazzare per il vicinato a mordicchiare i passanti, chiede quasi distrattamente alla paziente se ha mai pensato di parlarne con il proprietario, il terribile vicino di casa. PAZIENTE: No, non l'ho mai fatto. Vorrei parlargliene. Vorrei lamentarmi con il mio vicino di questo cane da tanto tempo, ma non ci riesco. Mi vergogno troppo, davvero !

Qual è allora la situazione problematica? Il cane o il vicino? La pau­ ra o la vergogna? Il pericolo fisico o il giudizio sociale? È apparso un nuovo mondo. Vergogna, oltre che ansia. Una ragazza che da settimane non esce di casa a piedi a causa di un cane, e vorrebbe parlarne con il vicino, ma non trova il coraggio. Perché? Qual è il vero problema? La paura dei cani o la vergogna nelle relazioni? La soluzione è semplice: chiediamolo alla paziente e accordiamoci su quale problema lavorare. È il paziente che, almeno inizialmente, stabilisce le priorità.

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Accertare

Per riassumere modello ABC è uno strumento per anal izzare cognitivamente le situa­ zio n i . Spiegare cos'è I'ABC a l paziente, a cosa serve e come è strutturato. Se si preferisce, concedere a tratti al paziente di riferire i nformazioni i n maniera erratica, m a poi individuare un ABC.

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1 .4 "COSA HA PROVATO CHE NON L'HA AIUTATA?". ELICITA}E LE EMOZIONI DISFUNZIONALI

Nel paragrafo 1.2, quello dedicato all'analisi delle situazioni proble­ matiche, è scritto che è preferibile concepire i problemi in termini di preoccupazioni o stati depressivi, e quindi di emozioni di paura, ansia e/o tristezza. Questa nozione rimane valida. Tuttavia è bene tenere con­ to di un paio di accorgimenti aggiuntivi. Il primo è che, analizzando la situazione problematica, è bene indi­ rizzare il paziente anche verso la componente disfunzionale delle emo­ zioni. Disfunzionale, ovvero che non aiuta il paziente a gestire i proble­ mi, o almeno a tollerarli se davvero c'è poco da fare. Le emozioni sono vissute dai pazienti come un fatto, un dato oggettivo. È difficile che ab­ biano già la nozione che esse sono uno stato mentale, e quindi un tipo di pensiero, di informazione elaborata soggettivamente. È difficile quin­ di che i pazienti pensino di poter agire sulle emozioni così come fanno sui pensieri ponderati. Del resto, è vero che non possiamo certo modi­ ficare le nostre emozioni a piacimento, con la stessa immediata efficacia con la quale possiamo agire su ciò che pensiamo adesso. Tuttavia, non è neanche vero che la nostra padronanza delle emozioni sia nulla. Invece, per i pazienti, le emozioni ci sono e lì stanno con la stessa ottusa indif­ ferenza propria degli oggetti esterni. E non possono essere modificate. Chiedere quindi al paziente non solo: TERAPEUTA: Cosa ha provato in quella situazione?

Ma rilanciare chiedendo: Bene. Ora mi dica: tra le emozioni che mi ha elencato, quale, secon­ do lei, non l'ha aiutata? Quale emozione, quale stato d'animo non le è stato di alcuna utilità per gestire il problema che doveva affrontare in quella occasione?

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Il colloquio cognitivo standard

In tal modo il paziente inizia a concepire che le emozioni non sono solo eventi incontrollabili, ma stati mentali più o meno utili e più o meno dannosi e, in quanto tali, forse modifìcabili riflettendo su di essi, com­ prendendo il loro contenuto cognitivo e il loro scopo. La paura non se­ gnala meccanicamente un pericolo, ma valuta cognitivamente la presenza di un pericolo e suggerisce una soluzione che a sua volta è uno scopo: la fuga. Così l'ansia è una valutazione di rischio e suggerisce una soluzione e uno scopo: l'assunzione di uno stato di attenzione e di allerta. E così via. In realtà colui che ha privilegiato ansia e tristezza depressiva tra le emo­ zioni disfunzionali è stato soprattutto Aaron T. Beck. Questo è accaduto principalmente perché Beck aveva formalizzato la terapia cognitiva come cura specifica di due aree determinate, appunto ansia e depressione. Ellis, invece, per vari motivi ha sempre mantenuto un atteggiamento più elastico e distaccato verso il sistema diagnostico della psichiatria, pertanto aveva individuato una lista di otto emozioni che non aiutano il paziente. Ovvero: ansia depressione colpa vergogna affanno/dolore/umiliazione/offesa1 rabbia disfunzionale gelosia disfunzionale invidia disfunzionale. Questa lista è molto interessante ma presenta un problema: compren­ de un territorio emozionale troppo esteso. Colpa e vergogna infatti posso­ no essere comprese nel dominio ansioso, ma questo diventa impossibile per rabbia, gelosia e invidia. In questa direzione si finisce inevitabilmen­ te nell'oceano dei disturbi di personalità. Oceano che, per vari motivi, non può essere facilmente navigato utilizzando solo la bussola della teo­ ria clinica cognitiva standard (Ruggiero, 20 1 1 ) . Non che in quelle acque non rimanga ancora utile un po' di buona vecchia tecnica del colloquio clinico cognitivo, tuttavia sono utili anche altri strumenti. Nel capitolo 7 di questo libro esponiamo un primo tentativo di adattamento della tec­ nica standard a questo ambito psicopatologico. Ciononostante, per i mo­ tivi appena individuati, concludiamo questo paragrafo raccomandando di mantenere la rotta del colloquio clinico cognitivo standard indirizzata tendenzialmente verso l'ambito dell'ansia e della preoccupazione. l.

Così traduciamo l'ambito emozionale della parola inglese hurt. 16

Accertare

Per riassumere •



I ncoragg iare i l paziente a individuare l'aspetto d isfunzionale delle emo­ zioni che ha provato nella situazione problematica. Le emozion i d isfunziona l i possono essere varie e tutte tratta b i l i cogni­ tiva mente, tuttavia è bene i n iziare i l lavoro terapeutico cognitivo i n d i­ rizzandosi verso l 'area ansioso-depressiva .

1 .5 "COSA CI ASPETTIAMO DALLA TERAPIA? " . DI)FINIRE GLI OBIETTIVI

Facciamo attenzione al momento in cui si definiscono e si concor­ dano gli obiettivi con i pazienti. Quando avviene? Questo " quando" è un'informazione preziosa. Insomma, perché il paziente si presenta in te­ rapia? Perché richiede un trattamento? Cosa cerca, cosa desidera, cosa si aspetta da noi e dalla terapia? A volte questo passaggio è quasi inutile. Il paziente comprende la na­ tura psicologica del suo problema, si rende conto di distorcere la realtà e quindi di fare errori di valutazione cognitiva della realtà, di se stesso e degli altri e, coerentemente, si presenta in terapia per esplorare e cor­ reggere questi errori. Certo, desidera anche essere compreso, capito, validato e in qualche modo rassicurato. I suoi errori hanno una storia e non sono frutto di pazzia o di cattiveria. Il suo è un lavoro quasi sponta­ neo, non occorre farci troppa attenzione. A volte. Altre volte non è così e occorre mettersi d'accordo con chiarezza sugli obiettivi. Gli obiettivi della terapia non sono sempre scontati, e su questo pun­ to è bene che i terapeuti cognitivi riflettano con attenzione. Il terapeuta cognitivo, talvolta legato a una visione astrattamente razionalistica del­ la terapia, rischia di ritenere che l'obiettivo sia implicito e già condivi­ so in partenza: accertare e ristrutturare le convinzioni cognitive irrazio­ nali o disfunzionali. Concentrarsi solo su questo e ritenere che tutto il resto scaturisca automaticamente dalla ricerca dell'errore cognitivo è a su a volta un errore. Non dobbiamo dimenticare che in terapia le convinzioni cognitive si definiscono irrazionali non in termini assoluti, ma in rapporto agli scopi e ai bisogni del paziente. Il livello di abilità sociale di cui ha biso­ gno una persona che deve effettuare frequenti prestazioni pubbliche, discorsi, relazioni, esibizioni, è differente da quella richiesta a persone a cui non capitano spesso queste occasioni. Si tratta quindi di raziona­ lità strumentale e pragmatica e quindi di funzionalità delle convinzioni. L a domanda chiave non è sempre: " Cosa è giusto? " e nemmeno: " Cosa 17

Il colloquio cognitivo standard

è vero? " , ma piuttosto: "A cosa ti servono questi pensieri in rapporto a ciò che desideri ? " . Tuttavia questa domanda presuppone che sia chiaro cosa si desidera, quali sono i propri obiettivi. A loro volta gli stessi obiettivi proposti dal paziente, i suoi desideri, vanno sottoposti a una valutazione critica. Non è scontato che ciò che ci chiede il paziente sia compatibile con una terapia. Un paziente potrebbe chiederci obiettivi che sarebbe più opportuno sottoporre a un avvocato ( " Il mio problema è che qualcuno mi perseguita" ) o al personal trainer di una palestra ( " Mi devo rafforzare, sono fisicamente fragile" ) . Certo, il fatto che il paziente si sia rivolto a un terapeuta significa che in qual­ che modo egli percepisce la qualità psicologica e non materiale dei suoi problemi. Egli sa che in qualche modo il suo problema andrebbe rifor­ mulato in termini differenti: ha l'impressione di essere perseguitato, ha l'impressione di essere debole. Si tratta di valutazioni, convinzioni. Ma convinzioni che si esprimono in termini di scopi, obiettivi. Gli obiettivi vanno quindi chiariti e condivisi. Se riteniamo che gli obiettivi proposti dal paziente siano disfunzionali e irrazionali, dobbia­ mo discuterli e confrontarci con il paziente per arrivare a formulazioni condivise. Se questa condivisione non c'è, il lavoro terapeutico ne verrà danneggiato. Si tratta della cosiddetta " alleanza di lavoro" , che non va confusa con la " relazione terapeutica" (Bordin, 1979) . Essa ne è solo una componente, ma forse è la componente più interessante dal pun­ to di vista cognitivo, essendo quella più sensibile a un accertamento e a una ristrutturazione espliciti e quindi cognitivi. Per esempio, forse possiamo ritenere che un paziente desideri un li­ vello di abilità sociale irrealistico o anche inutilmente elevato in rappor­ to al suo benessere. Costui desidera esercitare un fascino irresistibile e ci chiede di rimuovere le convinzioni irrazionali che gli impedirebbe­ ro di diventare estremamente simpatico. Davanti a noi c'è una persona di normale umanità e capacità relazionale, forse addirittura un po' più timida della media, che desidera diventare il re delle serate tra amici. Inoltre costui, avendo raccolto su internet qualche informazione sulla terapia cognitiva, avendo afferrato qualcosa sul rapporto tra convin­ zioni irrazionali e sofferenza, ha pensato che la terapia cognitiva fosse lo strumento giusto per incrementare le sue capacità sociali: potrebbe allora presentarsi in terapia proprio con la richiesta specifica di rimuo­ vere quelle convinzioni che lo danneggiano nella prestazione sociale. PAZIENTE: Il mio problema è che non sono così simpatico come potrei. Ho letto qualche libro di Ellis. Mi ha colpito l'idea delle piccole fra­ si che diciamo a noi stessi e che ci danneggiano. Forse anch'io faccio 18

Accertare

così. Forse basterebbe che smettessi di pensare cose sbagliate per di­ ventare simpatico. Le chiedo se è così.

Il che, in fondo, è ancora accettabile, sebbene occorra sempre andarci piano prima di promettere troppo. La richiesta terapeutica giusta non è tanto diventare più simpatici, ma star meglio, diminuire la sofferenza. Con questo paziente potremo convenire sul fatto che la sua sofferenza si sviluppi soprattutto in contesti sociali, e anche che soffrendo meno effettivamente potrà avere più successo sociale. TERAPEUTA: Be', sì, effettivamente la terapia cognitiva può aiutare anche a migliorare le nostre relazioni sociali. Però non è un addestramento in cui si apprende un'abilità. Si tratta di una terapia. L'obiettivo per noi è sempre superare la sofferenza. Stare meglio. Sia da soli sia con gli altri. Probabilmente poi, stando meglio in mezzo agli altri, la sua compagnia diventerà più piacevole, più simpatica se vogliamo.

La stessa richiesta può essere espressa in termini ancora meno accet­ tabili e adatti a una terapia. PAZIENTE: Il mio problema è che non sono così affascinante e attraente come potrei. TERAPEUTA: In che senso? PAZIENTE: Penso che potrei avere molto più successo con le donne se solo sapessi cosa dire e come fare. Prima pensavo di non essere in grado. Poi ho letto qualche libro di Ellis. E ho pensato che forse sarei capa­ ce se solo la smettessi di danneggiarmi da solo. Mi ha colpito l'idea delle piccole frasi che diciamo a noi stessi e che ci danneggiano. For­ se anch'io faccio così. Forse basterebbe che smettessi di pensare cose sbagliate per riuscire a corteggiare le donne molto meglio di quanto faccia ora. Le chiedo se è così. TERAPEUTA: Non so se è corretto considerare la terapia cognitiva una sor­ ta di addestramento a corteggiare. Qual è esattamente il suo obietti­ vo? Cosa si aspetta? PAZIENTE: Vuole che sia esplicito? Vorrei essere capace di convincere a venire a letto con me tutte le donne che mi piacciono. In questo caso la richiesta è particolarmente allarmante e poco in sin­ tonia con obiettivi terapeutici. Chiedere di incrementare le proprie ca­ pacità seduttive in un contesto terapeutico è un campanello d'allarme di

p ossibili aspetti istrionici e impulsivi del paziente che fa una richiesta del

genere. Ma anche davanti a richieste più congrue e meno preoccupanti, come diventare più simpatici, occorre essere guardinghi. Il problema con questo tipo di richieste è la possibile confusione tra terapia e li/e coaching.

L'obiettivo terapeutico deve essere la gestione della sofferenza psico­ logica prima che l effi cien za comp ortamentale. Una volta chiarito que'

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Il colloquio cognitivo standard

sto, possiamo poi anche comunicare al paziente che il benessere può facilitare l'efficienza e perfino tentare qualche applicazione addestrati­ va della terapia. È vero che la terapia cognitiva, rispetto ad altri orien­ tamenti terapeutici può essere quella più disposta a contaminarsi con tecniche di addestramento, cosiddette skills training. Tuttavia l'obiettivo rimane la sofferenza psicologica e la cura dei sintomi. Per questo si dice che il paziente deve esprimere gli obiettivi in termini "internalizzati" e non "esternalizzati" . L a terapia cognitiva, sebbene applicabile a molti tipi d i sofferenza psichica, ha sviluppato modelli clinici particolarmente sofisticati ed ef­ ficienti per i disturbi di tipo ansioso e depressivo. Quando gli obiettivi terapeutici non sono particolarmente chiari, un modo per orientare la te­ rapia in una direzione per così dire " cognitiva" è focalizzarsi sulla soffe­ renza di tipo ansioso e depressivo: chiedere al paziente quali sono le sue paure e le sue malinconie, quando si presentano e come, e proporgli di concentrarsi su quelle. Qualunque altro obiettivo potrà essere discusso e rinegoziato in un secondo momento. In ogni caso gli obiettivi non sono mai definitivi ma sempre rinegoziabili a vari intervalli durante la terapia. Insomma, man mano che ci si avvicina all'area del paziente difficile e dei disturbi di personalità può diventare sempre più complicato condi­ videre obiettivi realistici con il paziente. Nel paragrafo 7 . l (vedi capitolo 7) sviluppiamo questi temi in maniera più approfondita. Per ora basti dire che alcuni pazienti (cosiddetti " difficili" ) sembrano non compren­ dere che la terapia è trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali. Per alcuni pazienti, purtroppo, accettare questo patto si­ gnifica rinunciare a una serie di altre convinzioni sul proprio malesse­ re che spiegano i problemi psicologici in termini di responsabilità del mondo o degli altri e non di se stessi. È un passaggio delicato, perché è chiaro che mettere in discussione queste idee significa correre il rischio di colpevolizzare il paziente. Al tempo stesso, però, è necessario che la terapia passi attraverso questa assunzione di responsabilità. Per riassumere •





Osservare se i l paziente propone obiettivi terapeutici rea l istici e a ppar­ tenenti a l l 'am bito psicologico. Essere consapevoli che il paziente può proporre obiettivi non psicolo­ gici e non terapeutici: cambiare g l i altri o il mondo. Chiarire che questi possono essere eventua l i graditi effetti collatera l i d e l cambiamento, ma n o n obiettivi terapeutici.

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Accertare



• •



D iffidare anche dei ca mbiamenti psicologici di tipo prestaziona le. Di­ stinguere tra terapia e fife coaching. La terapia privi legia l'incremento della tol leranza della frustrazione. Le prestazioni d i tipo psicolog ico possono essere obiettivo di terapia (per esempio assertività e capacità sociale) ma posson o a nche essere non terapeutici (quindi attenzione). Per esempio, simpatia, brillantezza sociale e - natura lmente - sedutti­ vità sono obiettivi di fife coaching. L'assertività può essere un obiettivo terapeutico.

1 .6 "COME FUNZIONA QUESTA TERAPIA?". CONCORDARE LE REGOLE

Una volta definiti una situazione problematica e uno stato emotivo a essa connesso e una volta che tutto questo è stato inserito nell'armatura dell' ABC, occorre iniziare a trasmettere al paziente le regole del gioco. Dobbiamo assicurarci che il nostro interlocutore, pur nel rispetto della massima libertà, condivida alcune regole di base. Anzi, condivida so­ prattutto una regola di base. È un equilibrio difficile. Da una parte, non dobbiamo dimenticare che i pensieri patologici sono soprattutto pensieri del paziente stesso, dell'irripetibile persona che sta dall'altra parte del tavolo, e occorre non sovrapporre le proprie preferenze e ossessioni a quelle del paziente. Al tempo stesso, un'apertura totale rischierebbe di trasformarsi in disorien­ tamento. n terapeuta deve avere in mente una direzione. Inoltre, il terapeuta cognitivo fin dall'inizio conduce il colloquio in piena trasparenza e comunica al paziente come funziona la terapia cognitiva e come essa suppone di agire sulla sofferenza emotiva. Pro­ prio perché la terapia cognitiva privilegia l'aspetto esplicito e cosciente dell'attività mentale, è giusto che le regole del gioco siano condivise con chiarezza fin dall'inizio. La regola si chiama "ipotesi del primato cognitivo" , ipotesi per la qua­ le l'elaborazione consapevole degli stati mentali avviene sempre (o ten­ denzialmente) in forma di informazione esplicita, verbalizzabile e comu­ nicabile. Secondo questa ipotesi, quel che pensiamo consapevolmente nella nostra testa (ovvero, le piccole frasi che rivolgiamo a noi stessi, come dicevano Ellis e Beck) è in grado di spiegare e guidare gli stati emotivi e p ianificare il comportamento in vista di scopi (Clark, Beck, Alford, 1999). È vero che la ricerca neuroscientifica ha in parte smentito questo modello. Eppure è anche vero che questo principio continua a fun 21

Il colloquio cognitivo standard

zionare bene come principio euristico, come regola pratica di lavoro. Una formulazione leggermente differente sostiene che ogni stato men­ tale, anche il più spontaneo e immediato, corrisponde in realtà a una valutazione cognitiva della realtà esterna e degli stati interni, ovvero è informazione. È il caso delle emozioni, stati interiori spontanei che però sono anche informazione: così la paura è una valutazione di pe­ ricolo, la vergogna di un imbarazzo sociale, la colpa della violazione di una regola (Castelfranchi, 1988) . Attenzione però. Questa formula­ zione, scientificamente più corretta, rischia di introdurre un elemento di confusione non solo per il paziente, ma anche per il terapeuta stes­ so. Insomma, spiegare che provare un'emozione è un modo di pensare anche se non si pensa nulla può diventare pedante. Meglio attenersi a una formulazione semplice, rozza se vogliamo: se provi un'emozione, hai pensato qualcosa. Punto. La regola va comunicata al paziente usando parole semplici e com­ prensibili. Inoltre, la spiegazione non deve essere presentata improvvi­ samente e in astratto. Un intervento del genere suonerebbe didattico e scostante. Deve semmai partire proprio dal problema presentato dal paziente stesso. Questa operazione può essere - a volte e almeno appa­ rentemente - non troppo difficile. Per esempio: PAZIENTE: Il mio problema è prendere l'ascensore. Vengo da lei perché ho timore di prendere l'ascensore.

Situazione ideale. Il paziente è arrivato con un preciso problema di cui ha già colto la natura psicologica e interiore. In altre parole, non " esternalizza" (Cosa vuoi dire? Che non chiede al terapeuta di aiutarlo a eliminare gli ascensori dalla sua vita. Paradossale? Eppure per alcuni pazienti - cosiddetti difficili - si passa attraverso questa fase) . Lo stato emotivo di timore è già ben collegato a un pensiero: la valutazione di un pericolo abbastanza ben definito. Per esempio, che accada qualco­ sa m ascensore. Tuttavia, come abbiamo anticipato, l'intervento può diventare più complesso. In altri casi il paziente sembra concepire la sua sofferenza emotiva come una sorta di fatto oggettivo dotato di vita propria e non come prodotto di operazioni mentali. Per esempio: PAZIENTE: Ho un grave problema d'ansia. TERAPEUTA: Capisco. Potrebbe essere più preciso? In quali occasioni o momenti della giornata lei prova questa ansia?

Saltiamo l'accertamento dettagliato di come si manifesta il disagio del paziente e arriviamo all'argomento di questo capitolo. 22

Accertare

TERAPEUTA: Bene, abbiamo definito con maggiore precisione cosa prova e in quali situazioni si presenta questa sofferenza. Ora devo introdurre una regola fondamentale. Il rapporto tra quel che lei sente e soprattut­ to tra quel che lei soffre, e quel che lei pensa. Quel che le voglio dire è che le sue emozioni di disagio dipendono da certe cose che lei pensa. PAZIENTE: Non capisco. Non vorrà mica dirmi che l'ansia me la vado a cercare? TERAPEUTA: No, no. Ricominciamo daccapo. Cerchiamo di capire insie­ me: Perché proviamo ansia? Cosa pensiamo in quel momento per cui proviamo ansia?

Il rischio della sfida razionalistica è sempre dietro l'angolo. Il pazien­ te potrebbe sentirsi sottoposto a un interrogatorio, o peggio, trattato da idiota. Il "noi" terapeutìco evita questo rischio. Noi soffriamo insieme al paziente e condividiamo il suo problema. PAZIENTE: Non so. Perché proviamo ansia? TERAPEUTA: Intendo dire: Questo stato d'animo, I' ansia, come mai lo pro­ viamo? Perché lo si prova? PAZIENTE: Non c'è un perché. Io ho l'ansia. L'ansia c'è, arriva. Quando c'è, vorrei liberarmene.

Per questo paziente l'ansia è un fatto oggettivo, una sofferenza che capita, una sorta di disgrazia o di sciagura, sia pure mentale, che va eli­ minata. Questa concezione oggettiva degli stati mentali facilita la ricerca di cause non coscienti. La concezione popolare della genetica o dell'in­ conscio è particolarmente adatta a fornire questo tipo di giustificazioni. PAZIENTE: Non saprei. Pensa che la mia ansia potrebbe avere della cause inconsce? C'è un significato che non conosco in quest'ansia?

In alternativa, per seguaci della scienza " dura" : PAZIENTE: Sarà la mia genetica? Sono fatto così?

Le più sofisticate ipotesi scientifiche psicodinamiche o genetiche so­ no più che rispettabili e fondate. Tuttavia, dal punto di vista pratico sono poco compatibili con la fiducia della terapia cognitiva nell'elaborazione volontaria e consapevole. Meglio evitare sottili disquisizioni teoriche tra genetica, psicoanalisi e terapia cognitiva e dirigersi rapidamente verso un a condivisione esplicita del principio cognitivo. Ovvero, arrivati a questo punto possiamo dire: Ora mi spiego. I n questo tipo di terapia si dà importanza a quel che lei pensa consapevolmente. Quel che lei pensa è strettamen­ te legato a quel che lei prova e fa.

TERAPEUTA:

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Il colloquio cognitivo standard

PAZIENTE:

E quindi?

TERAPEUTA: E quindi ogni emozione, ogni stato d'animo e perfino ogni azione sono anche un pensiero. Per "pensiero" intendo q uelle piccole frasi che tutti noi diciamo a noi stessi mentalmente, e con le quali valu­ tiamo u na situazione, pensiamo cosa fare, come comportarci. Queste frasi interiori sono quello che pensiamo. O meglio, sono il modo con il quale chiariamo a noi stessi quel che sentiamo e pensiamo. Per esem­ pio, la gioia si accompagna alla constatazione che è accaduto qualcosa che ci rende felici, o che almeno ci soddisfa. Per l'ansia è lo stesso. Cosa si pensa quando si ha l'ansia?

A questo punto potrebbe iniziare a diventare più facile per il paziente collegare l'ansia alla preoccupazione per qualcosa, alla valutazione con­ sapevole (e non inconscia ! ) della presenza di un pericolo. PAZIENTE: Be', sì, l'ansia è preoccupazione. Preoccupazione per qualcosa. TERAPEUTA: Verissimo. L'ansia si unisce a una valutazione di pericolo. Lei teme qualcosa. E che cosa? Di cosa si preoccupa?

Domanda che abbiamo già trovato nei capitoli precedenti. È chiaro che le varie fasi del colloquio cognitivo si intrecciano tra loro. Ma non va sempre così liscia. PAZIENTE: Per la verità in quel momento non ho pensato proprio a nulla. Avevo l'ansia, e nient'altro. Gliel'ho detto ! Probabilmente è così. Tuttavia dobbiamo metterei d'accor­ do su q uesto punto: ogni emozione corrisponde a un pensiero. Non è una verità che voglio im porle. Semmai è una regola che vorrei condi­ videre. Così come per g iocare una partita si condividono delle regole. TERAPEUTA:

PAZIENTE:

E quale sarebbe questa regola?

TERAPEUTA: Che lei quando prova ansia, in qualche modo, confuso quan­ to vuole, pensa qualcosa. Magari davvero lei non ha detto a se stesso nessuna particolare "piccola frase" dentro la sua testa e quel qualcosa è più una sensazione, un pizzicore che un pensiero chiaro. O si tratta di un'immagine, di un flash. In ogni caso corrisponde a qualcosa che può d irmi a parole.

PAZIENTE: [cenni o mormorii di assenso] TERAPEUTA: Per farla semplice, le direi che comunque l'ansia corrispon­ de a qualcosa che lei ha pensato. Riflettiamoci: A quale pensiero? PAZIENTE: Evidentemente c'è qualcosa che mi preoccupa. Che mi met­ te in ansia. Ho paura di qualcosa? Ma di cosa? Cosa mi preoccupa così tanto? 24

Accertare

TERAPEUTA: Cercheremo di capirlo.

Di nuovo un lieto fine. E se ancora una volta la stessimo mettendo giù facile? Se ancora il nostro paziente non avesse afferrato il concetto? Mi spiace, ma io continuo proprio a non capire. So solo che io ho l'ansia, punto. Non so come dirglielo: Io non penso a nulla. TERAPEUTA: D'accordo. Facciamo un altro esempio, un esempio al con­ trario. Lei dice che nel momento in cui ha questa ansia che la tormen­ ta in realtà non pensa a niente. Ci credo. Però sarà d'accordo con me che esistono pensieri che ci fanno venire l'ansia. PAZIENTE: Per esempio? TERAPEUTA: Per esempio, il timore di arrivare in ritardo. II timore di non stare più bene, di perdere la salute. PAZIENTE: E allora? TERAPEUTA: E allora nulla. Semplicemente, l'ansia è una preoccupazione. Può essere generata da un pensiero in cui ci si preoccupa di qualcosa. Lei di cosa si preoccupa? PAZIENTE:

A questo punto anche i più duri iniziano a cedere. Ma che fare con i duri tra i duri? Occorre attendere. Non dobbiamo pretendere di risol­ vere tutto in un unico colloquio. Intanto rassicuriamoci: la nozione del rapporto tra pensiero ed emozioni avrà iniziato a entrare nella testa del paziente e presumibilmente ad agire. Molto spesso nel colloquio succes­ sivo capita che il paziente abbia cominciato a comprendere il principio cognitivo e a usarlo. È diventato più consapevole dei suoi pensieri e del loro rapporto con il disagio emotivo. Nel frattempo possiamo fare una restituzione interlocutoria ma ottimistica. PAZIENTE: Non so, non saprei. Contin uo a non avere idea di quale pen­ siero possa avermi generato ansia.

Lo troveremo. Per ora l'importante è che lei convenga sulla regola: a ogni emozione corrisponde un pensiero. Un pensiero che pos­ siamo chiarire e poi perfino gestire, addirittura modificare. E modifi­ candolo, agire sulla sofferenza emotiva. Questa è la terapia cognitiva.

TERAPEUTA:

A questo punto si può strategicamente tornare all'accertamento co­ gnitivo. Raccogliere informazioni può aiutare il paziente a comprendere la regola che gli abbiamo spiegato. TERAPEUTA: Torniamo a esaminare come e quando si manifesta questa ansia. In quali momenti della sua giornata si presenta?

Ora concludiamo con qualche altra annotazione teorica sulla regola del primato cognitivo. La terapia cognitiva si gioca tutta su questo rap25

Il colloquio cognitivo standard

porto tra pensiero verbale interno e altri stati d'animo non verbali. Al paziente il terapeuta cognitivo chiede sempre di effettuare il passaggio dal "sentire" e "provare" al " pensare frasi" . Passaggio a volte difficile, ma mai ritenuto impossibile. Non si deve andare alla ricerca di significa­ ti profondi, ma valutare le ragioni dei propri stati d'animo del presente con buon senso e semplicità. La regola obbedisce al principio terapeu­ tico che la sofferenza dipende da elaborazioni mentali consapevoli che il soggetto si autoinfligge nel presente con un certo automatismo, ma in fondo volontariamente, dandone per scontato il valore di verità empi­ rica, la fondatezza logica e anche l'utilità. Inoltre Ellis ammetteva che i pensieri non si presentano alla mente sempre e comunque in forma perfettamente articolata e sviluppata. Per Ellis si tratta, piuttosto, di piccole e rapide frasi, apparentemente inno­ cue ma in grado di generare sofferenza. La formulazione con la quale questi pensieri si presentano alla mente è - spesso - semplicistica e de­ finitiva: etichettature, indottrinamenti, autoistruzioni, per lo più poco argomentate e ancor meno articolate, ma autoinflitte in forma di veri­ tà apodittiche e autoevidenti con un gusto che parrebbe masochistico, dato il loro contenuto negativo. Ellis le chiamava "sciocche frasi" che usiamo dire a noi stessi. La componente effettivamente terapeutica del trattamento diventava quindi la ricerca e l'esplorazione di queste "sciocche frasi" (Ellis, 1962). Così si esprime una paziente descritta da Ellis: " Ogni qual volta mi sco­ pro ad avere dei sensi di colpa o un turbamento, penso immediatamen­ te che la causa di questo turbamento debba essere una sciocca frase che sto dicendo a me stessa . . . " . Non si tratta più di andare a cercare le cau­ se lontane della sofferenza, ma le cause mentali immediate, presenti e agenti qui e ora, in questo momento. In conclusione, per il terapeuta cognitivo ogni stato mentale è verba­ lizzabile come informazione, valutazione di una situazione più o meno problematica, ed è padroneggiabile e modificabile attraverso la rielabo­ razione critica razionale e consapevole. Questo vale per qualunque stato mentale, dalle emozioni alle immagini mentali, dagli stati affettivi alle fantasticherie, dalle meditazioni più ponderate agli impulsi improvvisi. Per riassumere •



Uti l izzare le situazioni problematiche raccontate dal paziente per in­ trodurre il principio del primato cognitivo. Assicurarsi che le circostanze e le emozioni emerse nelle situazioni sia­ no state già ben definite.

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Spiegare i l modello ABC prima di i ntrodurre i l principio del primato co­ g nitivo. I ntrodurre il pensiero (B) come fattore intermedio tra eventi {A) ed emo­ zioni e comportamenti (C). I ncoraggiare attivamente i pazienti che sostengono di non aver pensa­ to n u l la a cercare i pensieri. Spiegare il principio anche a chi non lo condivide e avere fiducia che stia iniziando a comprenderlo.

1 .7 "COSA C'È DI MALE IN QUESTO?". IDENTIFICARE I PENSIERI NEGATIVI 1.7.1 "Cosa potrebbe accadere?", "Cosa c'è di male in questo ?". Catastrofìzzazione e terribilizzazione

Una volta spiegata la regola della connessione tra emozioni e pensie­ ri disfunzionali, si può iniziare a cercare di trovare questi pensieri. Nel

capitolo precedente siamo arrivati al momento in cui il terapeuta invita il paziente a ricordare cosa ha pensato, cosa ha detto a se stesso nel mo­

mento esatto in cui ha provato l'emozione disfunzionale. La domanda va ribadita fino a ottenere una risposta utile. Qui si rivela l'utilità dell'e­ mozione disfunzionale, che aiuta il paziente a individuare il pensiero disfunzionale. Siamo d'accordo che quella certa emozione che ha provato in quel momento non l e fosse utile, che non la aiutasse a gestire la si­ tuazione. Ora cerchiamo di ricordare cosa ha pensato, cosa ha detto a se stesso in q uel preciso momento. Attenzione: qualcosa che sia i n rapporto preciso con l'emozione. TERAPEUTA:

Per esempio: PAZIENTE:

Ho paura di parlare in pubblico. Ogni volta è un problema.

Le emozioni saranno paura e/o vergogna. Alla domanda: " Qual è l'emozione che più di tutte le rende così difficile parlare in pubblico? " il paziente risponde piuttosto imprecisamente che forse è la paura, la Paura di non farcela. Attenzione. Non cediamo alla tentazione di iniziare una disquisi­ zio ne di psicologia scientifica sulla differenza tra paura e vergogna. In realtà ci basta individuare il momento emotivo esatto in cui il paziente 27

Il colloquio cognitivo standard

ha trovato il suo problema (parlare in pubblico) inaffrontabile. Piut­ tosto chiedi am o : Bene. Dunque la paura è l'emozione che più di tutte in q uel momento non l'ha aiutata. Ora m i dica: Cosa ha pensato, cosa ha det­ to a se stesso in quel preciso momento? Quale frase le è passata per la testa che ha generato questa paura paralizzante? TERAPEUTA:

È abbastanza frequente che il paziente possa riferire pensieri non troppo disfunzionali. In un certo senso si tratta di un buon segno: il pa­ ziente è in grado di elaborare pensieri migliori, più utili, di quelli che lo danneggiano. Per esempio: PAZIENTE: Ho pensato di avere molta paura. Ho cercato di pensare di potercela fare, di poter salire sul palco e parlare. Sicuramente la pros­ sima volta ci proverò.

Con gentilezza, interrompiamo il paziente: È un bene che lei abbia pensato di potercela fare. Questo è un buon segno. Però ora stiamo cercando di capire cosa ha pensato di non utile in quel momento. Ci pensi bene: Qual era il pensiero che davvero non l'ha aiutata in quel momento? Che l'ha messa in questa situazione di paura paralizzante? I nsomma, che non l'ha aiutata a par­ lare in pubbl ico?

TERAPEUTA:

Il paziente, a questo punto, potrebbe rispondere tante cose: PAZIENTE: Ho pensato che non ce l'avrei fatta. Che non ero in grado, che non sarei piaciuto, che avrei balbettato, che mi sarei dimenticato cosa dovevo dire, che la mia vista annebbiata per l'emozione mi avrebbe impedito di leggere, che tutti mi avrebbero visto arrossire.

Oppure solo una di queste. Per esempio: PAZIENTE: Potrei arrossire.

Una risposta del genere è una buona partenza, ma è solo una parten­ za. Occorre comprendere meglio e più dettagliatamente cosa c'è nella mente della persona davanti a noi. Questo lo si ottiene con semplici do­ mande ripetute più volte. Non dobbiamo temere di fare più volte la stes­ sa domanda (con la stessa gentile e stolida insistenza che, per esempio, usava il tenente Colombo). Un primo tipo di domanda ripetuta è quella che esplora catene di 28

Accertare

previsioni negative. È la cosiddetta catastrofizzazione (catastrophizing). Chiedendo quali conseguenze negative potrebbero essere causate da un certo evento temuto, possiamo ottenere la descrizione di una serie di minacce o pericoli che possiamo definire oggettivi. Supponiamo sia così. E quindi? Cosa potrebbe accadere a causa di ciò? Attenzione: da ripetersi a ogni risposta

È da notare che Ellis (Walen, DiGiuseppe, Dryden, 1992, p. 135) rac­ comanda la formulazione nei termini dello scenario peggiore, tecnica interessante con varie implicazioni sia nella disputa standard (vedi pa­ ragrafo 2.5.1) sia nei confronti del cosiddetto paziente "difficile " (vedi capitoli 6 e 7). Vediamo come: Supponiamo sia così. E quindi? Qual è la cosa peggiore che potrebbe accadere a causa di ciò? Questa domanda tende a essere più chiusa, quindi è meno consiglia­ bile ripeter/a. Si può fare, all'occasione, senza esagerare ed evitando esiti grotteschi.

Facciamo un esempio: PAZIENTE: Il mio problema sono gli ascensori. Ne ho paura ed evito sistematicamente di entrarvi. TERAPEUTA: Perché non lo fa? PAZIENTE: Temo che l'ascensore possa fermarsi. TERAPEUTA: E una volta che l'ascensore si è fermato, cosa potrebbe accadere? PAZIENTE: Be', potrei rimanerci dentro per giorni. TERAPEUTA: È questa la cosa che potrebbe accadere? PAZIENTE: Chiusa lì dentro potrei impazzire. O perfino morire.

C'è un'altra possibilità. La catena di eventi negativi è la previsione di uno scenario concreto e oggettivo di pericoli temuti. In altri casi, il pa­ ziente non produce previsioni catastrofiche, ma un etichettamento di qualcosa in termini negativi; si parla allora di terribilizzazione (awfuli­ zing) e non di catastrofizzazione. Si esprime il significato negativo degli eventi temuti più che la previsione negativa dei pericoli. Per ottenere questo obiettivo la domanda va formulata in maniera diversa. L' attenzio­ ne non si focalizza più sulla previsione di eventi sgradevoli o di sciagure ( ''Cosa potrebbe accadere ? " ) , ma sul giudizio soggettivo. 29

Il colloquio cognitivo standard

Cosa c'è di male in questo? Qual è il problema in questo? Attenzione: da ripetersi a ogni risposta

Si potrebbe obiettare che la distinzione tra catastrofizzazione e terri­ bilizzazione rischia di essere una sottigliezza. Volendo semplificare, per entrambe l'intervento più adatto è identico: la disputa logico-empirica (vedi paragrafo 2 .2 . 1 ) . Tuttavia, potremmo sostenere che la catastrofiz­ zazione è, in qualche modo, più " oggettiva" della terribilizzazione. Di conseguenza anche la domanda di disputa più adatta può essere diver­ sa. Nel caso della catastrofizzazione è più naturale chiedere quali pro­ ve di fatto empiriche ci sono che giustificano la previsione negativa. E quindi si potrebbe parlare di una disputa solo empirica. La terribilizza­ zione, invece, essendo un'etichettatura idiosincratica, richiama una di­ sputa più mirata alla messa in discussione dei significati personali e dei valori soggettivi che inducono una persona a valutare un evento come negativo e inaccettabile in sé, al di là dei possibili risvolti dannosi. Per esempio, un paziente con un evidente timore di tipo ossessivo e super­ stizioso temeva il colore viola. PAZIENTE: Non posso stare in una stanza in cui c'è un oggetto viola. TERAPEUTA: Come mai? PAZIENTE: Non lo sopporto, è una cosa che non posso accettare. TERAPEUTA: È cosÌ terribile? PAZIENTE: Assolutamente sì. TERAPEUTA: Cosa potrebbe accadere? PAZIENTE: Nulla, semplicemente non deve accadere.

L'idiosincraticità delle terribilizzazioni le rende poco sensibili a una disputa di tipo puramente empirico. Il problema non sono le conseguen­ ze nocive, ma il fatto in sé. In questo caso sembra più opportuno invitare il paziente a chiedersi quale sia la logica di tutto questo: "Dove sta scrit­ to che debba essere così ? " . E infatti si parla di disputa logica (disputa empirica e logica sono descritte nel paragrafo 2 .2 . Come vedremo i due interventi sono largamente sovrapponibili ma non del tutto). l. 7.2 "Cosa (non) le piace in questo ?". Usare il laddering kelliano

C'è un livello di soggettività personale ancora più accentuato della terribilizzazione. Per esplorarlo è opportuno conoscere e usare il cosid­ detto intervento di laddering del modello costruttivista kelliano. Il ter30

Accertare

mine laddering appartiene all'ambito della teoria dei costrutti personali di George Kelly ( 1 955). Per Kelly i contenuti cognitivi hanno un signi­ ficato - positivo o negativo - definito da catene d'implicazioni chiamate costrutti (Gutman, 1 982; Reynolds, Gutman, 1 988). Un evento, scrive Kelly, è negativo perché per me, per i miei tic per­ sonali, o per la mia scala di valori lo è. Insomma, Kelly si distingue so­ prattutto dal cognitivismo standard "alla Beck" (meno da Ellis, che ha un suo coté costruttivista) perché definisce il pensiero negativo di vario tipo (ansioso o depressivo o anche rabbioso) non tanto in termini di pe­ ricoli concreti o minacce oggettive o possibili disavventure e sciagure temute, ma in termini di significato negativo attribuito agli accadimenti, non solo esterni ma anche o soprattutto interiori. Si tratta di significati percepiti più che di eventi oggettivamente catastrofici. Pertanto la do­ manda tipo della conduzione del laddering alla Kelly è: E cosa non le piace in questo? Attenzione: da ripetersi a ogni risposta

In questo caso si preferisce il termine di tcrribilizzazione (aw/ulizing) . Rispetto alla catastrofizzazione si tratta di qualcosa di più soggettivo. Non abbiamo a che fare con la previsione di una sciagura in qualche mo­ do oggettiva. Semmai con uno scenario soggettivamente inaccettabile, che Ellis fa dipendere da un bisogno de/mizionale, il bisogno di etichetta­ re e definire come giusto o sbagliato una situazione o uno stato mentale. Questa domanda è il punto di massima vicinanza tra Ellis e Kelly. Notiamo un'atmosfera più neutra e più avalutativa nella domanda kel­ liana rispetto alla tensione clinica verso la disfunzionalità della tecnica di Ellis. Tuttavia, a dire il vero, non è ancora questa la vera domanda kelliana. Infatti nella teoria di Kelly le implicazioni negative degli eventi si organizzano secondo coppie dicotomiche di opposti che si illumina­ no a vicenda. Per ora siamo ancora nel solo polo negativo del costrutto. Ma dobbiamo cercare anche l'altro polo, quello positivo, che poi sarà negativo a sua volta. Per esempio, nel caso della paziente timida salta fuori che saper parlare in pubblico (polo positivo) implica anche falsi­ tà, inautenticità e perfino arroganza (aspetto negativo del polo positi­ vo) . Ne consegue che per lei il contrario di "timido" è "arrogante " . In tal modo la paziente è paralizzata da un dilemma in cui entrambe le al­ ternative sono negative. PAZIENTE: Il mio problema è parlare in pubblico. Ogni volta è difficile. 31

Il colloquio cognitivo standard

Riflettiamo. Può darsi che lei percepisca nel parlare in pub­ blico qualche aspetto che lei disapprova. Cosa significa per lei questo? C'è qualche significato negativo nel parlare in pubblico? PAZIENTE: Per la verità talvolta mi sorprendo a pensare che chi sa parlare bene in pubblico è anche una persona falsa. TERAPEUTA:

I ntende dire che nel suo problema c'è anche qualcosa che le piace? Qualcosa che gl ielo fa preferire?

TERAPEUTA:

Be' , qualcuno che sa parlare in pubblico è anche qualcuno che recita. Un politico. E forse è anche una persona un po' arrogan­ te, dietro il suo sorriso accattivante. Oggi ho letto sul giornale una vecchia dichiarazione del presidente Reagan. Diceva più o meno che ogni politico dovrebbe aver fatto l'attore.

PAZIENTE:

Di conseguenza, la paziente finisce per temere l'esito positivo della terapia e quasi per evitarlo. Le implicazioni di una simile risposta sono molteplici, con affascinanti contaminazioni con il concetto di difesa psi­ codinamica. La paziente teme l'impegno a stare meglio? Il principio del laddering come ricerca non di previsioni di catastrofi, ma di valori disapprovati, è applicabile anche alle catene di eventi ne­ gativi " alla Ellis/Beck" . Infatti tornando all'esempio della signora che teme di rimanere chiusa in ascensore: E se rimanesse chiusa in ascensore per giorni, cosa non le piacerebbe? PAZIENTE: Mi sentirei sola. TERAPEUTA: E se fosse sola perché non le piacerebbe? PAZIENTE: Mi sentirei fragile, vulnerabile. TERAPEUTA :

Con queste tecniche possiamo chiarire la catena dei timori della per­ sona che ha chiesto le nostre cure. Non si tratta più di limitarsi a rico­ noscere una certa situazione come pericolosa e temibile, ma di fondare più razionalmente questo timore. Per quale ragione tu temi questo? Il pa­ ziente è invitato a rispondere, e già così comincia a familiarizzare con una primissima forma di distacco critico dalle sue emozioni. Emozioni che fino a un momento prima erano vissute con ingenua adesione e pie­ nezza emozionale. Per riassumere •



Partendo dalle emozioni disfunzionali, chiedere quali pensieri d isfu n­ ziona l i il paziente ha effettiva mente concepito in quel momento. Assicurarsi che il paziente riferisca proprio i pensieri d isfunziona l i con­ cepiti durante l'occasione problematica.

32

Accertare









Fare attenzione a l l'eventual ità che i l paziente stia riferendo a ltri pen­ sieri (magari funzionali) prodotti in altri momenti. Esplorare la catena di pensieri negativi uti l izzando l'indag ine dei pen­ sieri catastrofici e/o il laddering. Per esplorare i pensieri negativi, formulare ripetuta mente la stessa sem­ pl ice domanda. Non temere la ripetizione delle domande. 1.8 "COME PENSA CHE QUESTO DEBBA ASSOLUTAMENTE ESSERE? ". LE DOVERIZZAZIONI

Per Ellis il pensiero negativo non dipende solo da una sopravvaluta­ zione dei pericoli quotidiani, la cosiddetta catastrofizzazione (catastro­ phizing). A sua volta, questa può dipendere da quello che abbiamo già chiamato bisogno definizionale. In questo caso si preferisce il termine di terribilizzazione (aw/ulizing) (vedi paragrafo l. 7.2 ) . U n altro dei più frequenti bisogni definizionali è la cosiddetta doveriz­ zazione, traduzione di più termini: demands o musts ma anche, con una certa audacia satirica tipica di Ellis al limite del cattivo gusto (anzi vo­ lontariamente oltre questo limite), musturbations. La doverizzazione è la convinzione che certe cose vadano fatte o debbano accadere in un unico modo e grado, ritenuto giusto, mentre tutti gli altri sono inaccettabili. Secondo Ellis, gli uomini soffrono perché si autoprescrivono regole dogmatiche. E, laddove non riescano a rispettarle, non comprendendo che essi stessi se le sono prescritte, attribuiscono la loro sofferenza non a questa autoprescrizione ma a un loro personale difetto. Ecco quindi un altro errore cognitivo: l'autovalutazione negativa. È pur vero, aggiun­ ge Ellis, che anche la realtà esterna può essere responsabile della nostra sofferenza. Ma anche in questo caso interviene una sciocca frase, una regola interiore autoinflitta a rendere più severa la sofferenza: la con­ vinzione che le delusioni che ci infligge la realtà siano insopportabili e che non sia normale soffrire così tanto. Questa ultima convinzione irra­ zionale è, per Ellis, l'intolleranza alla frustrazione. Riassumendo, per Ellis esistono quattro categorie di pensieri disfun­ zionali:

- catastrofizzazione e terribilizzazione ("È terribile, orribile" ) ; - doverizzazione ( "Accadranno eventi dannosi, sciagure" , "Deve essere assolutamente così " , " Questo va fatto assolutamente in questa ma­ niera " , "Dovrebbe essere così " , "È assolutamente necessario che sia così " ) ; 33

Il colloquio cognitivo standard

bassa tolleranza alla frustrazione ( '' Non posso sopportarlo" , "È in­ sopportabile" ) ;

denigrazione di sé e/o degli altri ( ''Non valgo nulla" , "Sono debole" , " Sono cattivo/a" , " Gli altri sono sempre tranquilli" ) . L e ultime due, bassa tolleranza alla frustrazione e denigrazione di sé e/o degli altri, le tratteremo nei paragrafi 2 .5 e 2.6, anche perché sono state sviluppate anche da Beck. La doverizzazione invece è un prodot­ to originale di Ellis (anche se una definizione psicodinamica di questo concetto era già circolata al Karen Horney Institute di New York, dove Ellis si era formato). I pensieri disfunzionali possono essere espressi spontaneamente dal paziente durante l'accertamento della catastrofizzazione (vedi paragra­ fo 1 .7 ) . Facciamo ora qualche esempio: PAZIENTE: Ho un problema con i colleghi di lavoro. Non ho buoni rap­ porti con loro ultimamente. TERAPEUTA: Capisco. Non dev'essere piacevole. Però le chiedo: Qual è il problema in questo? PAZIENTE: Non dovrebbe accadere. Ci si conosce, ci si stima, non do­ vrebbero accadere screzi. TERAPEUTA: Non dovrebbero o non devono?

Nell'ultimo intervento il terapeuta utilizza una strategia di comple­ tamento della frase (sentence completion assessment strategy) . La dove­ rizzazione non era stata espressa in forma compiuta dal paziente. Lo fa allora il terapeuta, però subito dopo ci si accerta che il paziente si rico­ nosca nella frase proposta dal terapeuta. TERAPEUTA: Le ho proposto un possibile pensiero: "Tra colleghi che si stimano non devono avvenire screzi" . Si riconosce in questo pensie­ ro? Lo definirebbe un pensiero suo?

In questo caso il terapeuta si è limitato a trasformare un " dovrebbero" in " devono" . Altre volte il completamento è più audace: PAZIENTE: Voglio fare un buon lavoro. TERAPEUTA: E quindi lei deve fare un buon lavoro. Giusto?

La forma del desiderio, funzionale, forse nasconde una formulazio­ ne disfunzionale. Anche in questo caso però chiediamo al paziente se s1 nconosce in esso. In ogni caso la doverizzazione è un tipo di pensiero ansioso meno spontaneamente e meno frequentemente espresso della catastrofizza­ zione. Si può quindi didatticamente spiegare al paziente. 34

Accertare

TERAPEUTA: l pensieri che non ci aiutano possono presentarsi i n varie forme. Un principio che secondo questa terapia è davvero importante afferma che i pensieri diventano davvero poco d'ai uto quando li for­ muliamo in forma di "doveri", di "cose che dovrebbero essere assolu­ tamente così " o "fatte assolutamente così". Proviamo a riformulare i suoi pensieri in questo modo?

Naturalmente il paziente potrebbe non comprendere. PAZIENTE: Non mi è chiarissimo. TERAPEUTA: Le faccio un esempio. Lei mi ha detto che gradirebbe fare un buon lavoro. Detto così non è un pensiero particolarmente nega­ tivo. Proviamo a formularlo usando un " devo " . PAZIENTE: Vorrebbe dire che magari penso: "Devo fare un buon lavoro?". TERAPEUTA: È possibile. Anzi, forse lei pensa: "Devo assolutamente fare un buon lavoro" . Ma soprattutto lo ha pensato tutte quelle volte che è rimasto bloccato dall'ansia. Cosa ne dice? Si riconosce in questa formulazione più rigida? PAZIENTE: Non saprei. TERAPEUTA: Attenzione. L'ipotesi non è che lei pensi sempre così. Ma che lei pensi così quando si trova nella situazione critica, nella soffe­ renza emotiva. PAZIENTE: Sì, a pensarci bene è vero. Quando ho l'ansia me la racconto così: "Devo assolutamente farlo bene" . Sento questo impegno con tale forza, con tale tensione che effettivamente sembra più un " de­ vo" che un "voglio" .

Il paziente coglie l a natura automatica e percettiva delle credenze di­ sfunzionali, ma pensa anche che la forma verbale "devo" sia quella che riesce a esprimere meglio il peso paralizzante di questa tensione. Per riassumere •





La doverizzazione è i l secondo tipo d i pensiero d isfunzionale nel mo­ del lo di El lis. La doverizzazione è la convi nzione che certe cose vadano fatte o deb­ bano accadere in un u n ico modo g i usto mentre tutti g l i a ltri modi d i agire o esiti siano i naccettab i l i . S e n o n espressa sponta neamente dal paziente, si può: derivarla completando attivamente le frasi del paziente; invitare il paziente a riformulare i suoi pensieri negativi in term i n i do­ veristici dopo averg l i spiegato il concetto.

35

Il colloquio cognitivo standard

1 .9 "COSA LE PIACE IN QUEST'OBBLIGO? " .

USARE KELLY PER L E DOVERIZZAZIONI

Come aveva notato anche Ellis (vedi paragrafo 1.8), in alcuni casi la doverizzazione può anche presentarsi in maniera subdola, ovvero nella forma funzionale della preferenza. La formulazione verbale può essere apparentemente accettabile. Il paziente non dice: " Deve essere così " , ma: " Voglio, desidero che sia così " . Nel paragrafo precedente abbiamo visto che in questi casi Ellis suggerisce di completare la frase del paziente, spingendolo a prendere coscienza della doverizzazione: " Lei vuole o deve? " . Ma sono possibili anche altre strategie. Qui possiamo usare di nuo­ vo la felice contaminazione, tipica del cognitivismo italiano e spagno­ lo (anzi catalano), tra razionalismo alla Ellis e costruttivismo alla Kelly. Secondo Guillem Feixas e Luis Angel Saw (lo studioso catalano Feixas da vent'anni vanta un felice scambio d'idee con i cognitivisti italiani e con Sandra Sassaroli in particolare) per stanare le rigidità doveristiche che si celano dietro le preferenze dei pazienti può essere utile il vecchio concetto kelliano di " dilemma dicotomico" (Feixas, Saul, 2004) per cui possiamo veramente comprendere il significato soggettivo e personale di una credenza o di uno scopo del paziente solo esplorando il suo op­ posto. In altre parole, una preferenza è vissuta in maniera rigida, ma questa rigidità è nascosta perché il suo opposto è vissuto come assolu­ tamente inaccettabile dal paziente. Tutto questo Feixas e Saul lo analizzano usando il metodo un po' la­ borioso delle griglie di Kelly. Sandra Sassaroli è riuscita a inserire que­ sta tecnica nell'ambiente più amichevole del colloquio cognitivo. Ve­ diamo come: PAZIENTE: Il mio problema è il timore di fallire. TERAPEUTA: Perché? PAZIENTE: Perché voglio diventare brava. Per me è molto importante.

Notiamo come la paziente abbia giustificato il suo timore di fallire con la necessità di essere "brava" . Già intravediamo il dilemma kelliano che la danneggia, due opposti che si escludono a vicenda senza nessuna possibilità intermedia. TERAPEUTA: Vuole o deve diventare brava?

Usiamo la tecnica di Ellis e completiamo la frase per rivelare la do­ verizzazione nascosta dietro la preferenza. 36

Accertare

Capisco quel che lei vuoi dire. Me lo ha già spiegato altre vol­ te. Sì, devo, è un obbligo.

PAZIENTE:

Però ora proseguiamo usando la tecnica del dilemma kelliano. TERAPEUTA:

E perché è così importante? Cosa le piace in quest'obbligo?

Questo è il punto centrale che differenzia la variante costruttivista kelliana. Essa prevede non solo l'esplorazione dei significati negativi e delle conseguenze temute, ma anche dei significati positivi, posti però in contrapposizione rigida, inflessibile e paralizzante rispetto alle pre­ visioni negative. Tecnicamente questa e solo questa è la vera operazio­ ne terapeutica (costruttivista, non propriamente cognitiva) denominata laddering, mentre l'estrazione delle credenze negative andrebbe deno­ minata solo catastrofizzazione (vedi paragrafo 1.7) . Ma cosa risponde la paziente? Perché è così. Perché essere bravi è fondamentale. Perché le cose vanno fatte bene sempre. Mostrare negligenza o incompetenza è un fallimento.

PAZIENTE:

La paziente ha parlato di fallimento e questa potrebbe essere già una catastrofizzazione su cui lavorare, ma oggi noi non vogliamo lavorare " alla Ellis" . Vogliamo tirare fuori con più chiarezza il dilemma kellia­ no, dunque proseguiamo. Come ipotizzato da Kelly, a volte un giudizio negativo si chiarisce solo attraverso il suo contrario. Qual è il contrario del fallimento? Può essere naturalmente il successo, il valore personale, l'intelligenza, come accade nei depressi. Oppure l'invulnerabilità e la forza emotiva, come negli ansiosi. Ma la risposta sorprendente la pos­ siamo trovare in certe personalità ossessive, per cui il contrario del fal­ limento è la moralità, la correttezza, l'essere perbene. Ho fallito perché non ho saputo fare bene le cose. Non mi so­ no impegnata, sono stata negligente. TERAPEUTA: E quindi? PAZIENTE: Non è stato corretto da parte mia essere così negligente. È sta­ ta una scorrettezza da parte mia. TERAPEUTA: Scorrettezza? Dice dawero? Ma si potrebbe dire che lei que­ sto fallimento lo fa dipendere da un problema morale? PAZIENTE: Sì, non ho rispettato i miei standard morali. PAZIENTE:

Ecco che salta fuori il dilemma. Dilemma che rivela come per questa persona il contrario di "brava" sia "immorale" . Vi è anche una connes­ sione con la doverizzazione, perché lo scopo dell'essere "bravi" non è 37

Il colloquio cognitivo rtandard

una preferenza che orienta il comportamento in maniera flessibile e co­ struttiva, ma un dovere irrinunciabile e assoluto, la cui violazione im­ plica l'immoralità. E questa assolutezza dipende dalla particolare con­ cezione che questa persona ha dell'essere "bravi " , che si definisce solo in rapporto al suo opposto: l'essere " immorali" . È un percorso rigido (o "stretto" , in termini kelliani) e non flessibile (o "lasso" , ancora in ter­ mini kelliani) . I n altri casi il polo opposto della bravura può essere la fragilità emotiva. D'accordo fallimento. Ma in che senso? Fallimento riguardo a cosa? Mi spieghi meglio. PAZIENTE: Significherebbe essere una persona che non vale niente. Essere bravi è fondamentale. Le cose vanno fatte bene. Mostrare negligenza o incompetenza è un fallimento.

TERAPEUTA:

Per ora siamo all'interno del prevedibile e dello scontato. I due poli sono "brava" e "fallita". Niente di particolarmente personale e sogget­ tivo. Ma alla successiva sollecitazione del terapeuta la risposta è diversa. Fallito cosa significa? Una sensazione di fragilità, vulnerabilità e rischio di solitudine.

TERAPEUTA: PAZIENTE:

Ecco un nuovo dilemma personalissimo: il contrario di "bravo" è "fragile" , "vulnerabile" e "solo" . Per riassumere •

• •

L'ipotesi kel liana dei d i lemmi propone che la rigidità di un sistema pos­ sa d ipendere dal l'inaccettabilità delle alternative in un costrutto. Questo vuoi dire che per il paziente le alternative sono peggiori delle sue credenze d isfunzionali (owero cadrebbe dalla padella nella brace). Questo sign ifica che possiamo capire una doverizzazione cercando di esplorare quali sono le alternative inaccettabili alla doverizzazione stessa.

1 . 10 "QUAL È IL PROBLEMA IN QUESTO? " . L E CREDENZE D I SCUOLA CBT STANDARD

Continuiamo a proporre le domande che abbiamo già visto nel para­ grafo precedente (sempre con lo stile del tenente Colombo) : Suppon iamo che sia come d ice lei. E quindi? Qual è i l problema i n que­ sto? Cosa potrebbe accadere?

38

Accertare

Le risposte possono essere molte. Nel paragrafo precedente abbia­ mo visto le quattro possibili risposte individuate dal modello di Ellis: catastrofizzazione, doverizzazione, bassa tolleranza alla frustrazione e de­ nigrazione di sé elo degli altri. N egli studi di scuola cosiddetta CBT stan­ dard (CBT è l'acronimo per Cognitive Behavioural Therapy), ovvero di Beck e di chi ha proseguito il lavoro di Beck, troviamo altri contenuti di pensiero disfunzionali. Ne diamo un elenco.

L'orientamento negativo ai problemi o neuroticismo (Eysenck, 1967 ) . Corrisponde alla castrofizzazione/terribilizzazione di Ellis. S i tratta di una tendenza a produrre valutazioni e aspettative pessimistiche e a per­ cepire con prontezza la minaccia ponendosi rapidamente in stato di allerta (Clark, Watson, 1991; Craske, 1999, p. 102; Gray, 1982 ; Robi­ chaud, Dugas, 2005a, 2005b) . Facciamo attenzione: per il paziente il pensiero negativo non è frutto di un'interpretazione errata e distorta della realtà, ma di una valutazione realistica e accettabile di come è fat­ to il mondo. Per il paziente non è il suo pensiero a essere negativo, ma lo è la vita, o il mondo, o anche un particolare aspetto dell'esistenza: il rapporto con gli altri, le occasioni sociali, le possibili sciagure o i guai o i contrattempi, ma anche noi stessi, le nostre debolezze o fragilità o miserie. Di conseguenza, in un quadro negativo, pensare pessimistica­ mente sembrerebbe la scelta più realistica. •

PAZIENTE: Ora le ho detto tutto. Ammetterà che i miei amici sono spes­ so fastidiosi e sopportarli non è facile. Pegg io ancora i col leghi. La mia carriera i noltre è finita in un vicolo cieco e altrettanto si potrebbe dire della mia vita familiare. Va proprio male. • L'intolleranza all'incertezza elo al rischio. Si tratta di una variante sot­ tile e interessante della catastrofizzazione, di una sorta di giustificazione che il paziente può usare per rendere il suo pensiero negativo plausibile, dotato di una certa ragionevolezza. Il paziente ammette che il suo stato di allarme è eccessivo, o lo ammette dopo che è avvenuta una ristruttu­ razione in psicoterapia. In questi casi il paziente può ribattere che rima­ ne comunque un margine di rischio che egli non riesce a sopportare. Il costrutto noto come intolleranza dell'incertezza consiste quindi nell'in­ capacità di sopportare la semplice esistenza di un rischio, la possibilità, sia pure bassa, che si verifichino il pericolo e il danno temuti. È defini­ bile anche come la tendenza a pensare di non poter sopportare ilfatto di

n on conoscere perfettamente tutti i possibili scenari ed eventi /uturz; di 39

Il coltoquio cognitivo standard

non poter sopportare il dubbio che tra i possibili avvenimenti ve ne pos­ sano essere alcuni negativi, anche nel caso che tale possibilità sia molto bassa, oppure a temere che, qualora vi siano delle possibilità negative in un certo scenario, saranno queste che inevitabilmente o tendenzialmente si realizzeranno (Dugas, Freeston, Ladoucer, 1997 ) . PAZIENTE: È vero, l o ammetto. I n fondo è difficile che s i avverino tutte queste mie preoccupazioni, tutti questi eventi che temo. Però potreb­ be succedere. Non mi basta che la probabilità sia bassa. lo vorrei esse­ re sicuro/a che quello che mi preoccupa non possa accadere. Mai. Non tollero questa incertezza.

Durante una seduta il sig. F. P. stava descrivendo i suoi problemi con la fidanzata. Egli era tormentato dal dubbio che la sua storia d'amore potesse concludersi, che la sua fidanzata potesse disamorarsi di lui, o perfino che lui potesse disamorarsi di lei, per tutte le svariate ragioni che possono emergere durante una relazione. Discutendo il problema, a un certo punto il paziente esclamò, come se avesse avuto una improvvisa illuminazione: "Ma allora nella vita non c'è certezza! " . Il timore dell'errore o perfezionismo patologico. Non è solo la prefe­ renza (funzionale) di fare le cose bene o anche in maniera eccellente, ma la tendenza a sottolineare piuttosto gli errori e le imperfezioni presen­ •

ti nei compiti eseguiti che i risultati positivi, e a temere e prevedere che queste imperfezioni conducano inevitabilmente a conseguenze negative e catastrofiche (Frost, Marten, Lahart, Rosenblate, 1990) . In fondo è una doverizzazione: "Devo fare tutto bene" , " Non devo sbagliare ! " . PAZIENTE:

Vorrei fare tutto e sempre bene.

TERAPEUTA: PAZIENTE:

In che senso?

TERAPEUTA: PAZIENTE:

Cosa accadrebbe se non facesse tutto bene?

Farei un errore.

TERAPEUTA: PAZIENTE:

Vorrei O deve?

E quale sarebbe i l problema?

Sarebbe un fallimento. Non devo fare errori.

Il senso eccessivo di responsabilità (inflated responsibility) . È definibile come la valutazione di se stessi come primi responsabili e colpevoli di ogni



40

Accertare

eventuale evento o scenario negativo in cui si abbia una anche remota pos­ sibilità di intervenire o anche di prevenire o impedire (responsabilità per omissione). Questo costrutto è stato definito da Paul Salkovskis ( 1 985 ) da Gangemi, Mancini e Van den Hout (2007) ed è applicabile soprat­ tutto ai pazienti ossessivi. A uno sguardo attento rivela la sua parentela con la doverizzazione di Ellis. Ne costituisce un sottotipo. La persona deve essere sicura di aver fatto veramente tutto il possibile per non po­ ter essere ritenuto responsabile di qualcosa. e

Vorrei riguardare ancora q uel documento. Potrebbe esserci ancora qualcosa da migl iorare. PAZIENTE:

TERAPEUTA: Cos'è esattamente PAZIENTE:

che la preoccupa?

Se ci sono degli errori sarà colpa mia.

• L'intolleranza alle emozioni. È assimilabile alla bassa tolleranza alla fru­ strazione di Ellis, sia pure con un significato più ampio, ed è definibile come la tendenza a interpretare ogni stato emotivo intenso, perfino positi­ vo (gioia, felicità, soddisfazione) come disagevole e negativo, o perché rite­ nuto prova del vicino incombere di eventi dannosi o catastrofici, o per una convinzione di debolezza, fragilità interiore, incapacità di sopportare questi stati d'animo. L'intolleranza alle emozioni negative è presente nella lette­

ratura cognitivista come elemento cruciale del circolo vizioso dell'ansia: i soggetti affetti da disturbo d'ansia non sono in grado di distinguere fra l'emozione di paura e la realtà del pericolo. La paura, quindi, non è un segnale di possibile pericolo, ma la prova definitiva che il pericolo è in­ combente, reale e catastrofico (Beck, Emery, Greenberg, 1985 ) . In que­ ste prime teorizzazioni il timore delle emozioni negative era concepito come specifico del disturbo da attacchi di panico ed era quindi denomi­ nato paura della paura (jear o//ear) , ma era ritenuto presente anche nel­ la fobia sociale come paura della vergogna, di arrossire e dell'imbaraz­ zo (Wells, 1997) o nel disturbo da ansia generalizzato come timore della preoccupazione (Wells, 1997) e in generale come convinzione di non poter tollerare alcuna emozione (Williams, Chambless, Ahrens, 1997) . Anche questa credenza distorta può essere utilizzata dai pazienti per ri­ spondere a un efficace ridimensionamento cognitivo dei loro timori PAZIENTE: D'accordo. Quel che temo difficilmente si avvererà. Ma ci pen­ so e mi preoccupo. Anzi, ho un po' paura. E non riesco proprio a tol­ lerare questa paura.

41

Il colloquio cognitivo standard

Il timore del giudizio altrui. Si tratta di una sopravvalutazione della disapprovazione altrui, spesso generata da un eccesso di attenzione al­ le espressioni del viso, allo sguardo e agli atteggiamenti di chi ci ascolta oppure da una sopravvalutazione dei propri errori, delle proprie man­ canze durante le situazioni sociali (Clark, Wells, 1995 ) . •

PAZIENTE:

N o n sono molto simpatica.

TERAPEUTA:

Come fa a dirlo?

PAZIENTE: Parlo poco, ho paura di espormi, mi vergogno. Ho la sensazio­ ne che gli a ltri mi giudichino.

bisogno di controllo. È definibile come lo strenuo perseguimento e la continua ricerca da parte del soggetto ansioso dell'illusione della certez­ za assoluta di poter impedire che si avverino tutte le possibilità negative da lui stesso costantemente temute e previste attraverso il monitoraggio e la manipolazione continui di alcuni aspetti e parametri della realtà esterna e/o interna (per esempio ilpeso, il cibo e/o il grasso nei disturbi alimenta­ n;- i pensieri intrusivi o l'ordine esterno nel disturbo ossessivo-compulsivo ecc.). Il costrutto del controllo comprende sia la percezione della sua in­ •

n

sufficienza (Rapee, Craske, Brown, Barlow, 1996) sia la convinzione di possedere la capacità di raggiungerlo e lo scopo di conseguirlo a qualun­ que costo, mediante condotte di tipo compulsivo (Sassaroli, Ruggiero, 2002). Ancora una volta si tratta chiaramente di una doverizzazione. PAZIENTE:

Non sopporto l'idea di non avere il controllo di qualcosa.

TERAPEUTA: PAZIENTE:

Quindi cerco di avere il controllo.

TERAPEUTA: PAZIENTE:

E qu indi?

Cerca di averlo o deve averlo sempre?

Devo.

TERAPEUTA:

Questo "devo" è il nostro problema.

Infine tutte le forme di valutazione negativa di sé e/o degli altri, ana­ loga alla denigrazione di sé e degli altri di Ellis. Lasciamo da parte la de­ nigrazione e la sfiducia verso gli altri, che implica una forte componen­ te di personalità paranoide. La valutazione negativa di sé è una sorta di rovescio del senso di autoefficacia di Bandura ( 1 977), definito come la convinzione di essere sia in grado di produrre risposte comportamenta•

42

Accertare

li efficaci di fronte ai problemi sia di poter affrontare la paura e le altre emozioni negative stimolate da una situazione problematica, e infine di poter affrontare e gestire emozionalmente una eventuale fuga o un fal­ limento e di concepire scopi alternativi e soggettivamente significativi e gratificanti di fronte a sconfitte anche gravi. Anche nella definizione di autoefficacia troviamo una forte componente metacognitiva. Infatti secondo Mineka e Thomas ( 1999) il senso di autoefficacia è piuttosto la percezione di poter controllare la propria risposta emozionale e compor­ tamentale in una situazione problematica che una generica convinzione di essere all'altezza. Quel che importa in questa credenza disfunzionale è che si tratta del fondo della catena catastrofica. È interessante notare come possa accadere che il paziente, proprio perché si rende conto di avere credenze errate, invece di trame forza e motivazione per abban­ donarle, usi (ancora una volta disfunzionalmente) questa constatazione come un'ulteriore convinzione negativa: quella autodenigratoria. È vero, a pensarci più attentamente mi rendo conto che tutte queste mie preoccupazioni non hanno molto senso. Mi perdo in un bicchier d'acqua.

PAZIENTE:

E quindi? Che conseguenze ne traiamo? Siamo pronti ad abbandonarle?

TERAPEUTA:

PAZIENTE:

Più che altro mi viene da pensare che sono un cretino.

Questi elenchi di credenze possono essere utilizzati come una bus­ sola dal terapeuta durante il suo lavoro di esplorazione, e condivisi più o meno esplicitamente con il paziente. Alcuni preferiscono spiegarli un po' didatticamente al paziente, dopo una prima fase più spontanea. La spiegazione esplicita facilita la riformulazione in termini differenti delle credenze disfunzionali. Per esempio, i terapeuti REBT spesso gradisco­ no incoraggiare il paziente a riformulare in forma di doverizzazione le loro credenze terribilizzanti. Invece i terapeuti di tradizione beckiana preferiscono mantenersi vicini alle formulazioni spontanee dei pazienti. Per riassumere 111

111

Utilizzare come una bussola g l i elenchi di credenze d isfunziona l i pro­ posti dal modello di E l l is e da quello di Beck e i suoi seguaci per riorga­ n izzare il materiale proposto dai pazienti. Cond ividere esplicitamente le categorie di credenze d isfu nzion a l i dei model l i teorici e incoraggiare i l paziente a riform ulare le sue credenze in term i n i d ifferenti.

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Il colloquio cognitivo standard





I nvitare il paziente a ch iedersi se si riconosce i n altre credenze o ltre a quelle spontaneamente riferite. Alla fine, chiedere sempre la conferma espl icita al paziente: "Si ricono­ sce nelle credenze d isfunzionali ind ividuate?".

1 . 1 1 "DOVE HA IMPARATO QUESTO?". LA STORIA DI VITA NEL COLLOQUIO COGNITIVO

L'esplorazione della radice evolutiva degli stati di sofferenza del pa­ ziente è il cavallo di battaglia di molti orientamenti psicoterapeutici, per lo più psicodinamici. Nel colloquio cognitivo forse si dà meno impor­ tanza a questo aspetto, almeno in prima battuta. Il colloquio cognitivo, infatti, accompagna il paziente soprattutto alla comprensione del qui e ora, del come si scatena la sofferenza, in questo tempo e in questo luo­ go. Inoltre, nel colloquio cognitivo si ha minore fiducia nella capacità terapeutica del ripercorrere la propria storia di vita. Tuttavia, riflettendo, si può capire come la storia di vita abbia un suo valore nella disputa. Se dobbiamo mettere in dubbio il valore di verità di una convinzione, non è cattiva strategia far comprendere al pazien­ te come le convinzioni siano idee apprese in una relazione determinata con persone determinate di riferimento: genitori, fratelli e sorelle, pa­ renti, amici e amiche, compagni di scuola e di lavoro, maestri e allievi. Si tratta di incontri più o meno significativi, non di rivelazioni di leggi im­ perscrutabili e inconfutabili incise nel bronzo. Naturalmente i genitori svolgono un'influenza prevalente, ma non è detto che l'indagine debba limitarsi a loro. In breve, la domanda per iniziare la raccolta di una sto­ ria di vita secondo un'impostazione cognitiva è: Dove ha imparato questo?

La domanda suggerisce che la storia di vita sia anche una storia di apprendimento di convinzioni e di credenze. Dal punto di vista cogni­ tivo della storia di vita l 'analisi è simile a un'anamnesi. La differenza sta nel fatto che nella prima viene sempre chiesto che effetto cognitivo ed emotivo una data situazione provoca nel paziente. Indirizziamo la men­ te del paziente a fare attenzione a come ogni idea si apprende dagli altri in una relazione che è non solo affettiva ma anche conoscitiva. Questa affettività influenza la credibilità di un'idea e il nostro spirito critico, la nostra capacità di distanziarci da essa. 44

Accertare

Insomma, radicare i propri ABC in una storia di vita aiuta il paziente a capire dove e quando ha appreso quel comportamento e lo incorag­ gia a dire a se stesso: " L'ho imparato e posso disimpararlo" . Di con­ seguenza, !ungi dal deresponsabilizzare il paziente (è tutta colpa di mamma e papà) questo intervento incrementa l'assunzione di respon­ sabilità personale e inoltre sviluppa una narrazione che dà più coe­ renza alla propria vita, diminuendo così il pensiero secondario " non sono normale" . In tal modo è possibile utilizzare l a storia di vita non solo per rac­ cogliere informazioni, ma anche come intervento preparatorio per una domanda di disputa, che sarà: Quello che mi ha raccontato è vero e doloroso, e sicuramente la porta a pensare e a reagire nei modi che sappiamo. Ma soprattutto non la aiuta a vivere bene. Le chiedo: È proprio inevitabile essere schiavi del­ la propria biografia?

Trattandosi di un intervento di disputa sarà esaminato meglio nel capitolo successivo (vedi paragrafo 2 .2.6). Forniamo ora un'esemplifi­ cazione di raccolta di storia di vita, un classico caso di genitore assente: TERAPEUTA: Che papà era? PAZIENTE: Un papà apparentemente interessato a me, ma poi nelle co­ se che io ritenevo importanti e per le quali cercavo la sua attenzione non c'era. TERAPEUTA: Mi faccia un esempio. PAZIENTE: Non aveva la dedizione di mia mamma dal punto di vista affettivo, non della presenza fisica. TERAPEUTA: La dedizione no, ma l'abbracciava? PAZIENTE: Poche volte. TERAPEUTA: Stava con lei? Giocava con lei? PAZIENTE: Quasi mai, anche perché per lavoro non c'era quasi mai e poi anche quando c'era . . . TERAPEUTA: Si interessava a lei? PAZIENTE: Non molto, per quello che io ritenevo importante. Magari arrivava a casa dal lavoro con un regalino ma poi mi veniva dato e basta. TERAPEUTA: La rimproverava ogni tanto? PAZIENTE: No. TERAPEUTA: Lei come si sentiva stimata da papà? PAZIENTE: Non saprei . . . da piccola forse un po' di più rispetto a mia mamma ma solo perché non c'era quel controllo che invece con lei c'era. Il non controllo lo leggevo di più come: "Mi ammira di più ri­ spetto alla mamma che invece non si fida mai di me". 45

Il colloquio cognitivo standard

In una relazione del genere si può apprendere anche troppo facilmen­ te un sottile senso di emarginazione ed esclusione. In altri casi l' appren­ dimento delle credenze negative è più evidente ed è presumibilmente mediato da critiche esplicite dei genitori. Con il senno di poi sono felice della scelta del liceo scientifico, ma a quel tempo il mio obiettivo era fare l'ISEF. Dopo anni di danza ero proprio portata per 1' attività fisica, ma questo era il mio sogno, non condiviso dai miei genitori. TERAPEUTA: Questa imposizione dei genitori che effetto le ha fatto? PAZIENTE: Mia mamma era l'oppositore maggiore, mio papà cercava di mediare tra di noi. Alla fine mi ero anche convinta perché c'erano altri miei amici che avevano deciso di frequentare la stessa scuola. TERAPEUTA: Che ricordo ha di sé in quel periodo? PAZIENTE: In classe mi sono trovata molto bene, però la competizione era molto alta e qui il mio perfezionismo saliva. Sapevo di dover dare il massimo e sapevo che anche mia mamma si aspettava questo da me. TERAPEUTA: " Sapevo" è troppo generico: Chi glielo aveva detto? PAZIENTE: Lei voleva il massimo perché se non prendevo il massimo mi rimproverava per non aver fatto di meglio. TERAPEUTA: E lei come reagiva a questo? PAZIENTE: Mi faceva sentire ancora più in ansia. Immaginavo cosa pote­ va succedere se non prendevo il massimo dei voti. Sapevo che avrei dato un dispiacere anche a lei. TERAPEUTA: I rimproveri di mamma allora che effetto le facevano? PAZIENTE: Io ero convinta che fossero giusti, credevo effettivamente di non essermi impegnata abbastanza. Una cosa che però mi faceva ar­ rabbiare era che, invece, da mio fratello non pretendevano questo, solo perché lui aveva sempre preso sei! PAZIENTE:

Per riassumere •







L'anal isi da u n punto d i vista cognitivo della storia di vita è simile a un'a­ namnesi, ma riserva una particolare attenzione al processo di appren­ dimento delle credenze distorte a l l'interno delle relazioni affettive si­ gn ificative. La storia di vita aiuta il paziente a capire come ogni idea si apprende da­ g l i altri in una relazione che è non solo affettiva ma anche conoscitiva. Questa affettività influenza la credi b i l ità di u n'idea e il nostro spi rito critico, la nostra capacità di d istanziarci da essa. In ta l modo il paziente può comprendere che u n'idea d istorta non è stata la rivelazione di una legge imperscrutabile e i nconfutabile.

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2 DISPUTARE E RISTRUTTURARE

2 . 1 "METTIAMO IN DISCUSSIONE QUEL CHE PENSIAMO". INIZIARE LA DISPUTA

Stabilita c concordata una lista di pensieri e credenze irrazionali e di­ sfunzionali che non aiutano il paziente, si può tentare di esaminarli. È il cosiddetto disputing, la disputa delle idee irrazionali. Si tratta dell'inter­ vento terapeutico che mette in discussione le convinzioni del paziente. Il cardine del colloquio cognitivo. Una volta che il nostro paziente inizia a essere più consapevole del legame tra le emozioni di disagio e i pensieri, il passo successivo è fargli capire che, modificando le idee, può cambia­ re anche lo stato d'animo. Nella disputa si discute il fondamento logico e/o pratico delle opinioni che sono state messe in relazione con gli stati d'animo di ansia, tristezza, timore, e così via. La disputa deve essere uno sforzo congiunto. Non dobbiamo criti­ care il paziente, dobbiamo incoraggiarlo a mettere in discussione que­ ste idee insieme al terapeuta. Anzi, a farlo deve essere soprattutto lui, il paziente. Il terapeuta, più che proporre e produrre argomenti, lo deve incoraggiare: Tentiamo insieme di mettere in discussione queste idee? In base a quali argomenti crediamo a queste idee? Queste idee ci sono davvero utili? Ci servono davvero?

Nelle ultime due domande sono accennati i due tipi principali di di­ sputa previsti nel colloquio cognitivo: la disputa logico-empirica ( '' In ba­ se a quali argomenti crediamo a queste idee ? " ) e la disputa pragmatica ( " Queste idee ci sono davvero utili? " , "Ci servono davvero? " ). La prima 47

Il colloquio cognitivo standard

è l'analisi critica del valore di verità, logico ed empirico, di quel che si pensa. La seconda è l'analisi critica del valore di utilità di un pensiero, di quanto servono davvero queste idee, di quanto aiutano. Questo con­ cetto (quanto ci aiutano a vivere bene i nostri stati mentali) aveva fatto già capolino nelle fasi precedenti del colloquio clinico. Si tratta ora di metterlo con più forza al centro della nostra attenzione. Tuttavia, prima di analizzare queste due tecniche specifiche, diamo uno sguardo allo stile e all'atmosfera generale della disputa, nel corso della quale è necessario seguire criteri di cautela e delicatezza . Concre­ tamente, non è consigliabile iniziare attaccando attivamente le convin­ zioni negative del paziente, quasi affermando baldanzosamente: " Ora le dimostro dove lei sbaglia nel vedere tutto nero" . Questa mossa è debole, poiché mette tutto i l carico cognitivo e d emotivo del cambiamento sulle spalle del terapeuta. Esordire promet­ tendo di distruggere le convinzioni negative del paziente genera ansia nel terapeuta, aspettative eccessive e forse anche diffidenza nel pazien­ te. Inoltre, come vedremo, la struttura logica delle convinzioni negative del paziente non sempre le rende permeabili a una confutazione diretta e attiva da parte del terapeuta. Infine, malgrado tutte le buone inten­ zioni, questa posizione rischia di trasmettere solitudine al paziente. Da una parte c'è il paziente, che si sente solo con le sue convinzioni che non lo aiutano, mentre dall'altra il terapeuta che gli dimostra che sono sbagliate (se ci riesce) . L a domanda va formulata in termini diversi. L a posizione migliore è quella in cui paziente e terapeuta insieme mettono in discussione le convinzioni disfunzionali. Ma questo non sempre è possibile. Nei casi in cui il paziente non sia convinto della dannosità delle sue idee e ten­ da a difenderle, occorre fare in modo che sia lui stesso, o lei, a dover dimostrare che il suo pensiero negativo è plausibile e giustificato. Deve essere il paziente a farsi carico della sua visione negativa e dimostrare - prima di tutto a se stesso - che la sua visione negativa è fondata su ar­ gomenti sostenibili. In tal modo si incoraggia il paziente ad assumere una posizione di distacco critico. Fino a quel momento, il paziente non ha mai esami­ nato criticamente le basi logiche e/o empiriche dei suoi tristi pensieri. Ne ha dato per scontato il valore di verità, con la stessa rassegnazio­ ne che si ha davanti alla definitiva inamovibilità dei fatti. Ora, invece, il paziente può iniziare a pensare che le sue non sono constatazioni di verità di fatto, ma potrebbero essere interpretazioni discutibili. Perché vedere tutto nero? 48

Disputare e ristrutturare

Riflettiamo i nsieme. lei è depresso/ansioso/arra bbiato/ad­ dolorato. Abbiamo visto come questo dipenda da un pensiero, da una visione negativa delle cose. Ora la invito a riflettere su quanto sia fon­ data questa valutazione negativa.

TERAPEUTA:

Invitare a riflettere significa anche invitare a riesaminare criticamen­ te la ragioni del pensiero negativo. Il paziente va accompagnato con

tranquillità ad assumere questa posizione critica. Il ricorso al "noi" te­ rapeutico deve essere continuo, poiché il rischio di criticare personali­ sticamente il paziente è sempre dietro l'angolo. TERAPEUTA: Riesaminiamo le ragioni delle sue preoccupazioni. Esaminia­ mo le ragioni logiche e di fatto che le sorreggono. Quanto è fondata la sua visione negativa?

Il paziente potrebbe invocare le circostanze. Lui o lei non vede par­ ticolari errori logici nel suo ragionare. PAZIENTE: Be', però io sono preoccupata/o per ragioni concrete. È la si­ tuazione, non quel che penso, che mi fa preoccupare.

Tuttavia possiamo insistere. In fondo il nocciolo non è tanto scopri­ re le basi logiche del ragionare ansioso o depressivo, ma incoraggiare il

paziente ad avere fìducia nella possibilità di mettere in discussione le proprie preoccupazioni utilizzando anche l'arma del pensiero raziona­ le. Se il paziente non percepisce questa spinta ad assumere un distac­ co critico dalle sue valutazioni, possiamo e dobbiamo insistere facen­ do appello proprio al fatto che il paziente si è presentato in terapia. TERAPEUTA: È vero. È possibile che le sue preoccupazioni siano in parte fondate. Ma la invito a riflettere. Il nostro obiettivo qual è? È mettere in crisi i nostri pensieri. Fino a oggi abbiamo creduto ciecamente al­ Ia nostra sofferenza. Questo è comprensibile, ma non è obbligatorio.

Per concludere con un: Oggi lei è venuto da me, da uno psicoterapeuta. Questo significa che lei stesso in q ualche m isura ha già pensato da solo che fosse venuto il momento di mettere in discussione un certo modo di pensare. TERAPEUTA:

Una variante fa appello al patto terapeutico ancora più esplicitamente: TERAPEUTA: Capisco che le sue preoccupazioni possano essere in parte fondate. Ma lei oggi è venuto a colloquio qui, da uno psicoterapeuta. 49

Il colloquio cognitivo standard

Questo vuol dire che lei pensa che ci possano essere dei fattori psi­ cologici che offuscano il suo giudizio. Lei chiede di essere aiutata/o a cambiare modo di pensare.

Queste negoziazioni e questi richiami al patto terapeutico, al lavorare insieme sulle convinzioni negative che sostengono gli stati d'animo di sofferenza, sono particolarmente necessari e utili con i pazienti cosid­ detti difficili. Ma anche con i pazienti più aderenti alla regola d'oro del colloquio cognitivo può capitare di doversi appellare al patto terapeu­ tico. In questi casi occorre sottolineare come il terapeuta non intenda criticare il paziente, ma solo alcune convinzioni di quest'ultimo. È be­ ne riuscire a far capire che quelle convinzioni non si identificano con la personalità del paziente e non è necessario difenderle come se si difen­ desse la propria dignità. TERAPEUTA: Vorrei che fosse chiaro che mettere in d iscussione alcune sue idee che la fanno soffrire non significa mettere in discussione lei o, ancor peggio, giudicarla.

E, proseguendo: TERAPEUTA: Anzi, lei stesso potrebbe tentare di osservare queste idee con distacco. Queste idee non sono lei. Dunque, perché non metter­ le in discussione?

Un'altra possibile obiezione del paziente all'invito di mettere in di­ scussione le proprie convinzioni irrazionali potrebbe essere, un po' pro­ vocatoriamente: PAZIENTE: Scusi, ma perché dovrei essere io a mettere in discussione quel che provo e penso e sento? Non dovrebbe essere lei? Non è pagato per questo?

Possiamo rispondere richiamandoci proprio al rischio che il pazien­ te si possa sentire criticato se mettiamo in discussione le sue convinzio­ ni disfunzionali. TERAPEUTA: Capisco quel che lei vuole dirmi, ma comunque la invito a tentare lei per primo da solo. Se lo fa lei sarà vantaggioso perché sarà lei stesso a decidere di cambiare. Se lo faccio io, correremo il rischio che lei possa sentirsi criticato/a.

Oppure, molto più semplicemente:

50

Disputare e ristrutturare

Preferisco che inizi lei a mettere in d iscussione le idee che non la aiutano. Tutti gli argomenti che troverà lei saranno per defi­ nizione più adatti e di conseguenza migl iori. lei conosce se stesso/a meglio di chiunque altro e quindi è in g rado d i individuare il modo migliore per mettere in crisi le sue convi nzioni, i suoi pensieri e per­ fino le sue emozioni. TERAPEUTA:

Infine, possiamo concludere con una rassicurazione: TERAPEUTA: Naturalmente, se alla fine troverà delle difficoltà le darò al­ cuni suggerimenti basati sulla mia esperienza e competenza. In ogni caso le sarò sempre vicino in questo cammino.

Se ancora non riceviamo una risposta positiva, possiamo anche esse­ re più espliciti nell'incoraggiare il paziente a cambiare la sua posizione. TERAPEUTA: Credo che finora lei abbia dato per scontate queste sue valu­ tazioni negative, come se fossero dei fatti. Ma potrebbero essere an­ che frutto delle sue interpretazioni. Il bicchiere non è vuoto e non è pieno: è mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno. Ha ritenuto che questi problemi fossero minacce, ma potrebbero essere piuttosto problemi da risolvere. Ha ritenuto gli esiti di queste situazioni catastrofici, ma esistono anche altri possibili esiti. Ha pensato di non essere in grado di gestire tutto questo. Ha creduto di non poter reggere emotivamen­ te lo stress della situazione. In base a cosa? E ancora le chiedo: Come fa a dirlo? Me lo faccia capire.

È dunque buona strategia non precipitarsi a confutare, ma lascia­ re - almeno inizialmente - la palla in mano al paziente e costringerlo a giustificare la propria negatività, in modo da favorire un inizio di di­ stacco critico. Concluso un buon patto di collaborazione, può iniziare la disputa: tra i due tipi di disputa non vi sono rigide regole di precedenza, tuttavia è probabilmente preferibile aprire con la disputa logico-empirica. La possibilità che una certa idea sia non solo poco utile e disfunzionale, ma addirittura falsa, la rende particolarmente vulnerabile alla potenza delle facoltà critiche. La terapia cognitiva si basa tutta su questo atto di fidu­ cia nelle facoltà razionali dell'individuo, nella capacità di queste facoltà di incidere in maniera significativa. Questo non vuol dire ritenere che siano le uniche facoltà a esercitare il co n t ro llo sugli stati mentali, tutta­ via la terapia cognitiva mette in guardia contro il rischio di ritenere che siano del tutto ininfluenti nella gestione degli stati mentali. Un altro argomento a favore della precedenz a della disputa logico51

Il mllnquin cngnitivo standard

empirica potrebbe essere che il paziente tende effettivamente a espri­ mere i suoi problemi in termini vaghi, astratti e generici (Borkovec, Inz , 1990). La minaccia temuta, lo stato depressivo sono espressi in termi­ ni poco definiti: le cose vanno male, e non si capisce bene in che senso. Qualcosa di brutto potrebbe capitare, e non si sa bene cosa. La disputa logico-empirica ricollega il paziente alla realtà: Cosa esattamente po­ trebbe accadere? E quanto è probabile? Approfondiremo tutto questo nel prossimo paragrafo. Per riassumere •







Impostiamo la d isputa cognitiva come un lavoro congi u nto, una col la­ borazione tra paziente e terapeuta. Attenzione a non far d iventare la critica a l le idee distorte una critica al­ la persona del paziente. I ncoraggiare il paziente a d istaccarsi e a criticare lui per primo le sue idee. Il terapeuta confuta direttamente le convi nzioni del paziente solo co­ me ultima ratio.

2.2 "IN BASE A COSA PENSIAMO QUESTO?". LA DISPUTA LOGICO-EMPIRICA

La disputa logico-empirica prende in esame gli argomenti logici e le prove empiriche che sostengono le convinzioni distorte e disfunziona­ li alla base delle sofferenze emotive e dei comportamenti problemati­ ci del nostro paziente. Le domande sono formulate con l'obiettivo di incoraggiare il paziente a riflettere su quali dati e quali ragioni ha a di­ sposizione per giustificare la fondatezza di quel che pensa quando sta male. Naturalmente le domande non vanno poste in termini sfidanti ( ''Dammi le prove ! " ) , ma in un'atmosfera di collaborazione, utilizzan­ do il " noi" terapeutico. In base a cosa pensiamo questo? Cerchiamo di rifletterei su. La ragione che ci dice? Sono fondate queste convinzioni? È mai veramente successo? Lo ha mai osservato? Possiamo portare qua lche esempio? Questo esempio lo possiamo considerare sufficiente? È logicamente significativo? Conferma la nostra idea?

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Disputare e ristrutturare

I n base a quale legge la pensiamo così? Dove sta scritto? Ne siamo proprio sicuri? Proviamoci ancora. Vediamo se riusciamo a convincerci. E perché dovrebbe essere così? E perché invece no? Assumiamo un attegg iamento da scienziati. Che prove abbiamo?

Tutte queste domande vanno a colpire sia l'ambito della logica sia dell'esperienza empirica, con vari gradi di sovrapponibilità. Volendo avere un'altra bussola, si può pescare nel modello di Beck, particolarmente ferrato nell'analisi della struttura della disputa empi­ rica, del " cerchiamo le prove " . L'equazione dell'ansia di Beck, Emery e Greenberg ( 1 985) è uno strumento utile per mettere ordine. Qui la ribattezziamo equazione del pensiero negativo per renderla più flessi­ bile e non limitata all'area dell'ansia. In questa forma è applicabile a qualunque situazione terapeutica in cui occorre fronteggiare e contra­ stare il timore di eventi negativi e il pensiero catastrofico. Ma ecco l'e­ quazione, adattata: pensiero negativo =

probabilità percepita della m inaccia x gravità o costo percepiti della minaccia ------

capacità percepita di fronteggiare il pericolo x capacità percepita di tollerare

Trasformare l'equazione in domande non è difficile: Quanto è probabile che avvenga questa cosa che la preoccupa? Possiamo tentare di quantificare questa probabilità? D'accordo, esiste una certa proba bilità che questo g uaio accada. Le chiedo: "A lei, è mai successo?". Quante volte è accaduto in passato? Questo evento quanto è davvero pericoloso? Quali danni può portare? Possiamo tentare di definire, determinare, quantificare con precisio­ ne questi danni? E quanto sarebbe g rave? E se anche avvenisse, non ci sono rimedi? Non potremmo far nulla per frontegg iarla, per rimediare? Siamo sicuri che, una volta avvenuta la cosiddetta catastrofe, non si possa poi fare nulla per rimediare, attutire le conseguenze, controlla­ re sia pure parzialmente l'evento? E se anche accadesse questo o fosse così terri bile come dice lei, perché pensa di non poterlo tol lerare?

53

Il colloquio cognitivo standard

2.2.1 "Quanto è grave/probabile questo ?". Disputare catastrofìzzazione e terribilizzazione

Tra i pensieri distorti, la catastrofizzazione e la terribilizzazione di El­ lis (vedi paragrafo 1 .7) dovrebbero essere i più sensibili a questo tipo di disputa. Il pensiero catastrofico è un'attività predittiva focalizzata sul­ la realtà e una valutazione negativa della realtà. Essendo la realtà il suo oggetto, possiamo fare appello all'esame di realtà su base empirica e lo­ gica per metterlo in crisi. Con la disputa logica ed empirica della catastrofizzazione il terapeu­ ta incoraggia il paziente a riflettere su come immagina concretamente che avvengano gli eventi negativi, e su quali prove concrete, tratte dal­ la sua esperienza quotidiana, si basano questi pensieri catastrofici. In­ somma, esistono delle prove di fatto che giustifichino tanta negatività? Il più delle volte, infatti, il paziente non ha riflettuto per nulla sulle sue previsioni catastrofiche, ma le ha date per scontate, come verità di per sé evidenti. Spesso il paziente non rappresenta a se stesso il percorso logi­ co o empirico che lo ha portato a concepire le sue valutazioni negative. Semplicemente, egli vede nella sua immaginazione degli eventi temuti ed è spaventato da quelle immagini, non facendo alcuna distinzione tra pensiero e realtà. Per il paziente è sufficiente pensare a qualche guaio per stare emotivamente male. Pensare un pericolo corrisponde alla di­ mostrazione dell'effettiva esistenza del pericolo. Quanto sia poi fonda­ to questo timore, il paziente non lo sa dire. Anzi, nemmeno si è posto il problema. A volte, per incrinare l'edificio del pensiero negativo è suffi­ ciente chiedere al paziente: "Ma come avverrebbero queste disgrazie? " . L a catastrofizzazione va disputata mettendo in discussione i criteri utilizzati dal paziente per giustificare le sue aspettative negative. Il pa­ ziente a colloquio va incoraggiato a soppesare criticamente l'evidenza, le prove di fatto che sosterrebbero le sue valutazioni negative: " In che senso il mondo è pericoloso? " , " Quali pericoli teme davvero il sogget­ to? " , "Una volta individuati questi eventi, quanto sono davvero perico­ losi e secondo quali parametri ? " . Nell'equazione d i Beck, Emery e Greenberg c i sono quattro para­ metri: gravità, probabilità, sopportabilità e rimediabilità. L'intervento si chiama soppesamento delle prove di fatto (weighing the evidence) e si tratta di mettere in discussione le basi che sostengono la credenza della pericolosità del mondo. Stima della probabilità. Incoraggiare il paziente a valutare quanto sia probabile una minaccia significa farlo uscire dalla sua tendenza al pensiero 54

Disputare e rùtrutturare

vago e generico. Siamo in grado di definire con precisione la probabilità che si realizzi la minaccia? Di stimarne la probabilità di concretizzazione? Stima della gravità. Siamo in grado di definire l'entità del danno che ne verrebbe? Dove, quando e come avverrebbe? E a quali condizioni? Occorre chiedere al paziente quanto sarebbero gravi le minacce che lui o lei teme. Definire con esattezza la minaccia significa anche saperne valutare la gravità. Una minaccia può anche essere reale, ma poco peri­ colosa o molto meno pericolosa di quel che sembra. La gravità di una minaccia può essere sopravvalutata. Non dobbiamo scambiare la realtà di una minaccia con la sua pericolosità. Stima della vulnerabilità. E se anche si realizzasse la minaccia, quan­ to siamo vulnerabili? Lo abbiamo valutato? Spesso scambiamo la pre­ senza di una minaccia con la nostra vulnerabilità a essa. Siccome una minaccia esiste, allora siamo vulnerabili. Dove sta scritto? Sono due va­ riabili distinte. Una minaccia può esistere e noi possiamo essere poco vulnerabili a essa. Stima della rimediabilità. Ecco qualcosa a cui i pazienti pensano dav­ vero raramente: si può rimediare a un danno dopo che si è verificato. Il latte è stato versato. E dopo che succede? Non c'è verso di trovare un compenso, un rimedio, una toppa? Si va in latteria e si compra altro lat­ te, si pulisce il pavimento, si sopportano le conseguenze. Stima della tollerabilità. Intollerabile spesso per il paziente è ogni ti­ po di percezione emotiva sgradevole. Ogni emozione negativa è, per il paziente, insopportabile. Dove sta scritto questo? Occorre proporre al paziente uno standard di tollerabilità molto più severo. Per la terapia cognitiva tutto è tollerabile. Se non ti fa morire è tollerabile. Beck ha proposto altri tre parametri altrettanto promettenti per una buo­ na terapia cognitiva. Si tratta della cosiddetta normalizzazione del pensiero negativo e si articola in tre componenti (Beck, Emery, Greenberg, 1985). Normalizzazione rispetto agli altri. Una delle convinzioni del pazien­ te che più di ogni altra catastrofizza le sensazioni negative è l'idea che gli altri non condividano i suoi malesseri emotivi e che egli sia l'unico al mondo o uno dei pochissimi a soffrire di debolezze psicologiche. Far riflettere il paziente su episodi in cui lui o lei ha potuto intuire che an­ che gli altri sono soggetti alle stesse sue paure o a simili timori aiuta a diminuire l'estremo pessimismo delle sue valutazioni. Normalizzazione rispetto al passato. Esplorare il passato facilita nel paziente la consapevolezza che minacce simili a quelle temute nel pre­ sente si sono presentate nel passato e sono state gestite in maniera po­ sitiva e accettabile. 55

Il colloquio cognitivo standard

Normalizzazione rispetto alle situazioni. Una volta che il paziente ha imparato a individuare le situazioni problematiche, diventa possibile trovare situazioni simili che però siano state gestite in maniera migliore o comunque meno disfunzionale. Il paziente può quindi tentare di ap­ plicare questo modello anche alle situazioni legate ai suoi timori. Leggiamo un esempio di colloquio con una paziente: TERAPEUTA: Cosa la preoccupa?

Descrivere con precisione gli eventi temuti è sempre importante e non va mai considerata un'operazione scontata. Come già scritto altro­ ve e spesso (ma è bene ripetersi) una delle peggiori caratteristiche del pensiero negativo è la vaghezza. E questa vaghezza non è posta in di­ scussione, non diventa motivo per cambiare idea. Al contrario diventa un ulteriore motivo di preoccupazione e di minaccia. Qualcosa non va, ma non si sa bene cosa e questo non sapere è ciò che mette paura più di ogni altra cosa (Borkovec, Inz, 1990) . Tutto questo va contrastato. Chiedere un resoconto dettagliato aiuta il paziente a chiarire anche a se stesso/a in che modo dovrebbero realiz­ zarsi i pericoli temuti. Molti passaggi intermedi infatti sono spesso sal­ tati, trascurati o ignorati: PAZIENTE: Penso sempre di poter morire in un incidente automobilistico. TERAPEUTA: Come immagina che possa avvenire questo incidente? PAZIENTE: Questo non lo so, a questo non ci penso. So solo che mentre sono lì che guido improvvisamente penso che potrebbe avvenire. TERAPEUTA: E quando le viene in mente cosa pensa, cosa immagina? PAZIENTE: Vedo me stessa morta. Esanime sul marciapiede o sulla strada. TERAPEUTA: Non ha mai cercato di pensare più dettagliatamente a come accade l'incidente? PAZIENTE: No. Semplicemente vedo me stessa morta dopo l'incidente. TERAPEUTA: Magari immaginare come avviene l'incidente può farci capi­ re meglio quanto sia effettivamente probabile che si verifichi questa eventualità. Quanto è probabile? PAZIENTE: Ripeto. Non ci ho mai pensato con attenzione, non mi sono posta il problema. Io salto alla conclusione: morta.

Non dobbiamo scoraggiarci se in un colloquio un paziente non pare reagire positivamente a un incoraggiamento a mettere in discussione le proprie idee distorte. Stimolato dalla terapia a riflettere meglio su come si realizzino le proprie paure, un paziente può tirare fuori le proprie ri­ sorse migliori al colloquio successivo. Trovatosi davanti allo stesso pro­ blema del colloquio precedente, il terapeuta chiede ancora: TERAPEUTA: Ma come avverrebbe questo incidente? 56

Dòputare e ristrutturare

La paziente questa volta rimane perplessa per qualche secondo. Poi risponde: PAZIENTE: Sa che non ci avevo mai pensato? Mi limitavo a immaginare, anzi proprio a vedere, me stessa morta sul marciapiede e a provare terrore. Non mi ero mai chiesta come ci arrivassi a essere morta sul marciapiede.

Risposta apparentemente non diversa da quelle del colloquio prece­ dente, ma sottilmente meno chiusa e meno difensiva. Il terapeuta per­ cepisce uno spiraglio da allargare. TERAPEUTA: E allora chiediamocelo. Come può arrivare a essere morta sul marciapiede? Pensiamoci insieme: Come awerrebbe questo in­ cidente?

Ancora silenzio, ma un silenzio promettente, che inJica come la pa­ ziente abbia attivato il cervello e stia mettendo fine ai suoi automatismi (vedi anche il paragrafo 2 . 1 1 ) . È tipica di molti pazienti questa difficoltà nell'immaginare concretamente gli eventi. Spesso queste persone hanno contenuti mentali molto astratti, che si presentano alla mente in forma di discorso interiore, quindi verbale, e non in forma di immaginazione vivida e dinamica di eventi. Secondo Borkovec ( 1 994) , la forma verbale è più prossima all'astrazione e più incline a produrre ampi salti associa­ tivi. La paziente probabilmente ha associato l'idea di automobile con quella d'incidente automobilistico. Oppure ha associato due immagini piuttosto statiche: automobile e morte sul marciapiede, senza pensare a tutti gli eventi precedenti e intermedi. Sta al terapeuta incoraggiare la paziente a riempire gli spazi vuoti. TERAPEUTA: Ci pensi bene: Come ha fatto ad arrivare morta sul marcia­ piede? Tra lei che guida e lei morta sul marciapiede ci sono una serie di eventi che non deve dare per scontati. Qui invece ci sono solo due scene: produciamo uno scenario più ricco, facciamo una serie di ipo­ tesi. Fingiamo che lei sia la sceneggiatrice di un film: Cosa ci mette tra lei alla guida della sua auto e lei morta sul marciapieJe?

Incoraggiare il paziente o la paziente a immaginare visivamente, a " filmare" la sequenza degli eventi negativi è un modo per stimolare un pensiero più concreto. C'è una relazione stretta tra disputa empirica e tecniche di guided imagery. La disputa empirica incoraggia il paziente a visualizzare gli eventi in maniera vivida e immaginosa, e la guided ima­ gery fornisce molto materiale empirico. La concretezza a sua volta per­ mette di riesaminare criticamente quanto sia probabile che l'evento si realizzi e come possa avvenire. Se ancora una volta la paziente non rea57

Il colloquio cognitivo standard

gisce, dimostrando una vera e propria difficoltà nell'immaginare scene dinamiche, il terapeuta può e deve guidare il paziente passo passo. Le do qualche suggerimento per lavorare su questo evento catastrofico. Immagina di essere stata investita? Immagina di essersi distratta e di essere finita fuori strada?

TERAPEUTA:

A ogni risposta occorre incoraggiare la paziente a rendere tutto più dettagliato, concreto. La paziente può rispondere che teme di distrarsi o che teme di essere investita. Nel primo caso è bene far riflettere la pa­ ziente sul fenomeno del distrarsi. Come avviene una distrazione? Ci pensi: Lei, mentre guida, si distrae? E quante volte accade? Certo, ci sono rapidi momenti di distrazione. Ma ragioniamo: Quanto deve durare una distrazione per diventare veramente pericolosa?

TERAPEUTA:

Ancora una volta, nulla va dato per scontato. Se la paziente teme di distrarsi, occorre insistere su quell'evento per sdrammatizzarlo. Può capitare che la paziente confonda uno stato di normale guida ri­ lassata con la distrazione. Riflettere su quanto sia probabile rimanere coinvolti in un incidente può portare molto sollievo ad alcuni pazienti (anche se indubbiamente è vero che altri rimarranno indifferenti). Nel colloquio cognitivo è una tecnica comune chiedere esplicitamente al paziente di stimare questa probabilità (Lehay, Holland, 2000). Scale soggettive da O a 100 ( 1 00 ha un valore più metaforico che realmente quantitativo) sono frequente­ mente usate. Riflettiamo. Quanto è probabile che si verifichi questo evento che tan­ to la preoccupa? E se anche avvenisse, quanto sarebbe grave?

Naturalmente la valutazione di gravità di un evento che non implichi evidenti danni fisici è soggetta alle oscillazioni del giudizio personale. Nello stile "alla Beck" , si punta a indirizzare il paziente verso la sdram­ matizzazione dello scenario, a ridimensionare l'ordine di grandezza del­ la catastrofe temuta. Definiamo meglio questa eventualità. È così grave? E per­ ché? Qual è l'esito peggiore di questa situazione che lei teme?

TERAPEUTA:

Questa domanda, l'analisi dello scenario peggiore, la troviamo anche nella disputa " alla Ellis" , ma con finalità molto differenti. Beck formula 58

Disputare e ristrutturare

questa domanda con lo scopo di cercare di far comprendere al pazien­ te quanto siano in fondo improbabili e perfino irrealistici gli scenari peggiori. Non così per Ellis, che indirizza il paziente verso lo scenario peggiore con lo scopo di incoraggiar!o ad accettarne l'eventuale realiz­ zazione. La filosofia di Ellis è quella di insegnare al paziente che tutto è tollerabile. Quella di Beck invece è far comprendere al paziente che le cose non andranno poi così male come temiamo. Inoltre Ellis ha uno stile più colloquiale nell'esaminare le prove di fatto che giustificano il timore del paziente. Non chiede stime di gravi­ tà o di probabilità, ma invita il paziente a riflettere per capire se quello che lui teme è mai accaduto. Questa cosa che lei tanto teme, è mai accaduta? Mi fa degli esempi?

Dopodiché Ellis tende non a sdrammatizzare i timori, ma ad assu­ mere che possano avverarsi e poi a chiedersi se davvero l'esito temuto sarebbe così intollerabile (vedi paragrafo 2.5 ) . Insomma, Beck sdram­ matizza e mostra un tratto ottimista mentre Ellis pare condividere la vi­ sione nera e pessimistica del paziente. TERAPEUTA: È l'unico esito possibile? Ce ne sono altri meno terribili?

Questo è "puro Beck " , che incoraggia il paziente a prendere in con­ siderazione lo scenario non catastrofico. TERAPEUTA: E qual è l'esito più probabile?

Per Beck, inguaribile ottimista, l'esito più probabile non è quello peggiore. In tal modo può essere possibile che il paziente inizi a sdram­ matizzare i suoi timori. O meglio, che il paziente impari a farlo. Ciò che avviene in terapia è un modello che il paziente deve apprendere e ap­ plicare nella sua vita di tutti i giorni. Altre possibilità interessanti per la disputa del pensiero negativo le troviamo nei quattro parametri del pensiero negativo di Robichaud e Dugas (2005a, 2005b):

a) percezione dei problemi come minaccia al benessere b) dubbi d'inefficacia nella capacità di problem solving c) tendenza pessimista sugli esiti d) bassa tolleranza alla frustrazione.

Anche questi parametri offrono buone opportunità per una disputa efficace. Il più fruttuoso è il primo: possiamo infatti utilizzare la " per59

Il colloquio cognitivo standard

cezione dei problemi come minaccia al benessere" come base per in­ coraggiare il paziente a capire che egli scambia la semplice e normale presenza di problemi per minacce. Le emozioni negative sono segnali che individuano problemi da risolvere e non catastrofi irrimediabili. In presenza di sofferenza emotiva possiamo riformulare il nostro pensiero negativo nella seguente maniera: I nvece di pensare: "Qual è la minaccia che devo evitare?", perché non pensiamo: "Qual è il problema che devo affrontare?".

I " dubbi d'inefficacia nella capacità di problem solving" vanno a loro volta sottoposti a critica logico-empirica. Perché il paziente ritie­ ne di non essere in grado di risolvere i problemi? In base a quali va­ lutazioni, a quali riflessioni? Ragionamento analogo per la "tendenza pessimista sugli esiti" . In base a cosa il paziente pensa che l'esito sarà negativo? Infine, per la "bassa tolleranza alla frustrazione" rimando al paragrafo 2.5 .

2.2. 1 . 1 Disputa empirica per la catastro/izzazione e disputa logica per la terribilizzazione Fino a questo punto abbiamo parlato di disputa logico-empirica, la­ sciando intendere che i due aggettivi siano sovrapponibili. Non è del tutto vero. Disputa empirica significa chiedere le prove di fatto, i dati empirici a sostegno della verità di una certa ipotesi. Disputa logica, in­ vece, significa mettere alla prova la coerenza dei nessi che rendono plau­ sibile tale ipotesi. Questa differenza esiste anche in termini clinici? O è troppo sottile? E se esiste, come si esprime in termini clinici? La nostra proposta è che, sebbene sovrapponibili, disputa empirica e disputa logica mostrino delle differenze analoghe a quelle esistenti tra le due categorie del pensiero negativo: la catastrofizzazione e la terribi­ lizzazione. Anche questi due termini sono molto simili e spesso usati in maniera intercambiabile, eppure una differenza di interesse clinico c'è. Come abbiamo già scritto (vedi paragrafo l. 7 . l) , la catastrofizzazio­ ne è un atto mentale di tipo predittivo caratterizzato dal timore di con­ seguenze molto sfavorevoli, appunto catastrofiche. La terribilizzazio­ ne, invece, è un etichettamento negativo di qualcosa: di un evento, di una situazione, di una relazione, di un individuo, di quel che si vuole. L'attenzione non si focalizza più sulla previsione di eventi sgradevoli o di sciagure ( ''Cosa potrebbe accadere ? " ) , ma sul giudizio soggettivo. 60

Di;putare e ristrutturare

In teoria, quindi, le domande per testare questi due tipi di pensiero negativo sono differenti e possono essere formulate nei seguenti termini: Catastrofizzazione: Cosa potrebbe accadere (di male)? Terribilizzazione: Cosa c'è di male in questo?

Naturalmente, rischiano di risultare questioni di lana caprina. Se qualcuno terribilizza, lo farà anche nel caso in cui gli chiedessimo: "Co­ sa potrebbe accadere? " , e viceversa. Tuttavia, in termini di disputa, la differenza può essere significativa. Infatti, è quasi spontaneo, di fronte a una catastrofizzazione, invitare il paziente a fornire prove empiriche a sostegno delle sue fosche previsioni. Ha senso, quindi, chiamare que­ sto intervento " disputa empirica" e solo empirica. Naturalmente la do­ manda di disputa empirica va fatta in termini cortesi e colloquiali, non sfidanti. Per esempio: Disputa empirica

Questo evento, se si verificasse, sarebbe effettivamente catastrofico. Eppure, possiamo chiederci se ci sono stati esempi precedenti. Si è g ià verificata questa cosa? Come possiamo sapere che accadrà? Abbiamo qualche prova?

La terribilizzazione, invece, è un'etichettatura soggettiva e idiosin­ cratica. Non ha senso chiedersi che prove abbiamo che un certo even­ to abbia o meno conseguenze nocive per il paziente perché il paziente non teme l'evento per le sue conseguenze, ma piuttosto non lo accetta in sé. È un suo valore personale. Questo tratto irriducibilmente personale apparenta la terribilizzazione alla doverizzazione e anche ai significati personali (vedi paragrafo 2.2 .6) . E, come nel caso della doverizzazione, la disputa va condotta invitando il paziente a produrre i principi logi­ ci che sostengono la sua visione terribilizzante. Occorre incoraggiare il paziente a chiedersi quale sia la logica di tutto questo: "Dove sta scritto che debba essere così? " . E quindi si può parlare di disputa logica e solo logica. Anche la domanda di disputa logica va fatta in termini cortesi e colloquiali, non sfidanti. Per esempio: Disputa logica

Lei d ice che questo è terribile e i naccettab i le. Rispetto questa sua opi­ nione, ma le chiedo: Perché? D ove sta scritto che debba essere così?

61

Il colloquio cognitivo standard

2.2.2 "Non posso sbagliare ed è colpa mia!". Disputare perfezionismo e responsabilità

Nel paragrafo 1 . 10, dedicato alle idee negative distorte, abbiamo tro­ vato alcune convinzioni che non sono presenti nel modello di Ellis, ma in quello di Beck (in senso lato). Soprattutto l'intolleranza dell'incertezza (Dugas, Freeston, Ladouceur, 1997 ) , il perfezionismo patologico (Frost, Marten, Lahart, Rosenblate, 1990) e la responsabilità eccessiva (Salkovskis, 1985) non hanno corrispettivi in Ellis. n bisogno di controllo, invece, in parte si sovrappone alle doverizzazioni (vedi paragrafo 2.2.4, dedicato a controllo ed evitamento). n timore delle emozioni negative si sovrappo­ ne all'intolleranza della frustrazione (vedi paragrafo 2.2 .4) mentre le varie forme beckiane di bassa autostima e giudizio negativo di sé hanno un ana­ logo nell'ellisiana svalutazione di sé (vedi paragrafo 2.6). Infine, il timore del giudizio rientra nell'ambito della fobia sociale (vedi paragrafo 4.3 ) . Ellis presumibilmente direbbe che perfezionismo patologico e re­ sponsabilità eccessiva sono due musts, due doverizzazioni, ovvero due credenze su come vanno fatte le cose o su come dovrebbero andare le cose a questo mondo. E, come vedremo, alle doverizzazioni si risponde con un tipo specifico di disputa logico-empirica (vedi paragrafo 2.2.5 ) , oppure con l a disputa pragmatica (vedi paragrafo 2 . 3 ) . Tuttavia, prima di accettare in pieno il suggerimento di Ellis, lavoriamo "alla Beck " . Ov­ vero, raccogliamo delle prove. È davvero così nero il quadro? Nel perfezionismo patologico il paziente, prima di doverizzare ( ''Non devo sbagliare" ) compie operazioni cognitive differenti: teme di sbaglia­ re e ritiene che i suoi errori portino conseguenze catastrofiche. Queste due convinzioni vanno messe in discussione. Lei d ice che sbagl iare è inaccettabile e pericoloso. Così però d iamo per scontato che lei abbia sbagliato. Verifichiamo. Mi racconti questi suoi errori.

Raccogliamo dati su questi errori e controlliamo, con calma e insie­ me al paziente, se e quando e dove avrebbe davvero sbagliato. Forse sa­ rà sufficiente questa semplice operazione per sdrammatizzare lo scena­ rio, altrimenti andiamo avanti e applichiamo a questi errori l'equazione del pensiero negativo. Avremo così una quatema di possibili interventi:

- critica dell'assunzione catastrofica: "Se sbaglio, allora tutto andrà male"; - critica della probabilità di sbagliare: "Quanto è probabile che sbagli" ; 62

Disputare e ristrutturare

valorizzazione della possibilità di rimediare agli errori; - valorizzazione della possibilità di tollerare le conseguenze degli errori. Insomma, quanti errori abbiamo davvero fatto? Quanto è probabile che lei davvero sbagli? E quanto sono gravi questi errori? N on c'è rimedio una volta fatto l 'errore? Ne siamo sicuri?

Arrivati qui si prosegue discutendo la doverizzazione perfezionistica, da eseguirsi secondo le linee descritte nel paragrafo 2 .2.2: Lei dice che sbagliare è inaccettabile. Dove sta scritto?

E si conclude, come sempre, sull'intollerabilità: E se anche fosse? Perché sbagliare sarebbe così intollerabile?

Questa strategia può essere applicata al senso di responsabilità, te­ nendo però conto che si tratta di un concetto più astratto e sfuggente, meno legato a singoli episodi ed errori. Una disputa sulla responsabilità e sulla colpa è sempre un'operazione delicata: il rischio è che il paziente ci accusi di giustificazionismo immorale, quindi non è il caso di mettere in discussione il principio di responsabilità in generale, ma è meglio li­ mitarsi ad accertare i fatti di cui il paziente sarebbe responsabile: Lei dice di essere colpevole. Prima però mi racconti queste sue colpe.

La responsabilità può essere diminuita nel concreto, non respinta in principio: È sicuro di essere davvero colpevole?

La colpa può essere condivisa, ma non scaricata: È davvero lei l'unico che risponde di tutto questo?

Infine, la tolleranza dell'eventuale responsabilità non può diventare cinica indifferenza verso l a colp a : 63

fl colloquio cognitivo standard

Come possiamo tollerare questa responsabil ità? Flagel larsi è davvero l'unica maniera di reagire a questa situazione?

2.2.3 Quando il paziente ha ragione. Disputare il rischio e l'incertezza

La disputa dell'intolleranza all'incertezza occupa una posizione parti­ colare nel percorso della disputa cognitiva. Potremmo dire che non solo è una credenza distorta, ma è anche un argomento logico forte a favo­ re del pensiero negativo. Come tale essa può saltare fuori alla fine della disputa della catastrofizzazione. E può saltare fuori come risposta del paziente, risposta che dimostra, in qualche modo, come la preoccupa­ zione e il pensiero negativo abbiano le loro ragioni. Infatti l'intolleranza all'incertezza e/o al rischio è una sorta di giustificazione che il paziente può usare per rendere il suo pensiero negativo plausibile, dotato di una certa ragionevolezza. Perché? È la tesi del cosiddetto " realismo depressivo" (Alloy, Abramson, 1 979) che poi Mancini e Gangemi (in corso di stampa) hanno esteso ad altri disturbi emotivi e ad altri pensieri. È la tesi secondo la quale le cre­ denze del paziente possono essere disfunzionali, ma non sempre false, o non del tutto. In questo caso il paziente ammette che il suo stato di allarme è eccessivo, ma poi ribatte che esiste davvero un margine di ri­ schio: pensare che il margine esista è disfunzionale ma è anche vero, e non può essere confutato solo " alla Beck" . Il problema è semmai che il paziente sostiene di non riuscire a sopportare l'esistenza di questo mar­ gine. Il costrutto noto come "intolleranza all'incertezza" consiste quin­ di nell'incapacità di sopportare l'esistenza del rischio, la possibilità, sia pure bassa, che si verifichino il pericolo e il danno temuti (Dugas, Fre­ eston, Ladoucer, 1997 ) . Come disputare questa posizione del paziente? Come prima mossa, va discussa criticamente l'asserzione, il collega­ mento logico "se . . . allora" . L'asserzione per lo più assume la forma: "Se il mondo è incerto, allora è pericoloso" . Questa asserzione va dapprima accertata, obbligando il soggetto a ragionare sull'incertezza: In che senso l'incertezza è da temersi? Perché l'incertezza delle cose la preoccupa?

In seguito va criticato il collegamento logico con il pensiero cata­ strofico: 64

Disputare e ristrutturare

Perché l 'incertezza è pericolosa, o addirittura catastrofica?

Dovrebbe essere abbastanza facile riuscire a rassicurare alcuni sog­ getti facendoli ragionare sul fatto che incertezza non significa inevita­ bilità dell'esito negativo. Siamo ancora in "zona Beck" . Può bastare? Non sempre. Purtroppo alcuni pazienti non saranno affatto rassicu­ rati da questa ristrutturazione. Per questo secondo gruppo di soggetti, l'ansia è legata proprio alla non prevedibilità dell'esito, allo stato preca­ rio che precede la prova della realtà. Ciò che è insopportabile è la pos­ sibilità, sia pure minima, che l'esito sia negativo. In questo caso si può puntare su due strade differenti, che sono:

l ) riconsiderare se davvero la valutazione d'incertezza sia corretta, se davvero la situazione è così incerta: "È giusto dire che l'esito della situazione è così incerto? O forse no? " ;

2) oppure, accettare definitivamente e perfino arrendersi alla realtà dell'incertezza e del rischio. Tuttavia, questo esito negativo va rifor­ mulato nei termini non di intolleranza al rischio, ma di intolleranza alle emozioni negative legate all'idea di rischio. L'attenzione è spo­ stata dal mondo esterno a quello emotivo interiore: l'incertezza non è più considerata un connotato immodificabile del mondo esterno (cosa del resto vera, il mondo è effettivamente incerto e incontrol­ labile), ma viene ridefinita come uno stato interiore di nervosismo, etichettato come insopportabile. Ma etichettato in base a quale leg­ ge? Una volta arrivati a questo punto, ci si può spostare a disputare l'intolleranza alla frustrazione e alle emozioni negative (vedi para­ grafo 2 .5 ) . I n u n aspetto lei h a ragione: l'incertezza esiste, e l'incertezza in parte è rischio. Ma lei dice anche che il rischio è i ntollerabile. È su q uesta in­ tollerabilità che dobbiamo lavorare. L'incertezza è una condizione del mondo esterno, l'intollerabilità all'in­ certezza uno stato mentale. La psicoterapia lavora sugli stati mentali: se vogliamo fare psicoterapia, la i nvito ad accettare l'idea che il pro­ blema non è l'incertezza, ma la convinzione che questa incertezza sia i ntollerabile.

Insomma, si arriva a quello che è in fondo il traguardo della buona Ji sputa: ridurre il problema al suo centro emotivo e poi chiedersi come tollerare e gestire la sofferenza (vedi il paragrafo 2 .5 ) . 65

Il colloquio cognitivo standard

La possibilità che la persona in cura abbia "ragione" si può presen ­ tare anche in occasioni diverse da quella dell'intolleranza e del rischio. Per esempio, anche in un problema di responsabilità o di perfezionismo è possibile che il paziente non possa oggettivamente permettersi di sba­ gliare o che debba oggettivamente rispondere di una certa pesante re­ sponsabilità. Non ci sono, dunque, distorsioni cognitive. In tutti questi casi si applica la stessa strategia: si convalida la difficile situazione del paziente e si sposta il focus sulla tollerabilità emotiva alla situazione, che è in fondo l'aspettativa del paziente. 2.2.4 "E se non facesse quel che di solito fa?". La disputa dei controlli e degli evitamenti

Nella disputa, è bene ripeterlo, mettiamo in discussione tutto ciò che pensiamo o facciamo in automatico. In questo modo possiamo diventare ' più consapevoli di tutte le valutazioni negative che effettuiamo dandone per garantito il valore di verità: che non sopportiamo l'abbaiare improv­ viso dei cani celati dietro le siepi, che non siamo capaci di colloquiare · anche solo per pochi minuti con persone che non ci piacciono, che non possiamo accettare che i nostri passati amori continuino ad avere una , vita propria al di fuori del nostro possesso, e così via. ' Come già scritto altrove, per ottenere questo risultato il terapeuta effettua semplici domande, tutte in fondo riconducibili a una sola: " Cosa · non le piace in questo ? " . La domanda però va adattata a diversi contesti; nella sua formulazione originale, è particolarmente adatta a mettere in discussione l'ansia, la paura e i suoi aspetti cognitivi. In fondo si trat· ' ta di chiedere al paziente: ·

·.

Cosa teme? Cosa c'è in questo che ci genera paura o ansia? Quale pericolo corriamo?

TERAPEUTA:

Si possono produrre molte domande di queso tipo. In altre situazioni le cose possono però complicarsi: per esempio, quando il paziente ha i suoi piani personali di gestione della paura, piani evidentemente insuf- , fidenti se è venuto in terapia. In questo caso non si tratta di capire cosa ci sia di distorto in una va­ lutazione cognitiva di una situazione, ma cosa non quadri in un piano di gestione patologico. È il caso soprattutto dei controlli compulsivi dd disturbo ossessivo, ma anche degli evitamenti nei disturbi d'ansia. Si po· trebbe allora chiedere al paziente:

66

Disputare e ristrutturare

Perché fa questo? A cosa le serve reagire così? Qual è il suo obiettivo?

TERAPEUTA:

Questa formulazione in positivo tuttavia potrebbe essere insufficien­ te . Il paziente ossessivo (non diversamente in questo dall'ansioso) agi­ sce in vista dell'evitamento di un danno e non dell'ottenimento di un obiettivo; conseguentemente, non fa le cose per un " perché" , ma per un " affinché non " . Questo può determinare delle impasses, delle situazioni in cui il paziente risponde: PAZIENTE:

Non so perché lo faccio. È più forte di me.

In realtà il quadro di evitamento rimane nascosto a causa della for­ mulazione in positivo. Che fare, allora? Riformuliamo la domanda in negativo: Cosa potrebbe accadere, o cosa non le piacerebbe se lei - per una vol­ ta - non facesse q uel che di solito fa?

Possiamo utilizzare l' ABC per facilitare l'operazione terapeutica. Un in cui la situazione è virtuale, non ancora awenuta. È la non ade­ sione del paziente al suo piano di gestione compulsivo. Per esempio, un ABC in cui l'A è: "Mi astengo dal controllare che tutti i rubinetti siano chiusi" . In questo modo l'ABC finisce per generare una guided imagery, integrando stile terapeutico cognitivo ed esperienziale. ABC

Cosa accadrebbe se non controllasse i rubinetti? Be', potrebbe accadere qualcosa di brutto.

TERAPEUTA: PAZIENTE:

Leggiamo la risposta di una paziente ansiosamente controllante. Cosa succede se perde il controllo? Panico ! Quando sul lavoro abbiamo traslocato, mi hanno fatto mettere tutto nelle scatole e hanno detto: "Adesso voi lasciate tutto qui e andate in vacanza ". Quando siamo tornati c'erano tutte le cose in disordine; per me è stato difficile da digerire. Avere tutto in ordine è la mia fissa anche in casa. Da un lato è molto utile perché altrimenti vivremmo nel caos, però è vero che sto male se non sono sicura che in cantina in quello scaffale c'è quella determinata cosa. Andando avanti così uno inizia a voler controllare il mondo! Voglio sapere do­ ve si trova ogni membro della mia famiglia. In realtà non è vero che nella pratica faccio tutto questo ragionamento, ma immagino che un po' dipenda anche da questo; se sono certa che gli eventi vanno in un certo modo sono più tranquilla.

TERAPEUTA: PAZIENTE:

67

Il colloquio cognitivo standard

Ribaltando l'ABC riusciamo quindi a tornare alla situazione standard di uno scenario negativo temuto, e una volta arrivati lì, possiamo torna­ re sul binario consueto. Naturalmente, si può obiettare che l'ABC può iniziare anche con un pensiero, e che nel disturbo ossessivo-compulsivo questa eventualità si verifica frequentissimamente. Quindi è sufficiente assumere il pensie­ ro: "Se non controllassi il rubinetto succederebbe qualcosa di terribi­ le" come un A, visto che si tratta del pensiero ossessivo stesso, mentre il B è la valutazione di tale eventualità come inaccettabile (Melli, 2012). Questa tecnica la si può trovare anche in testi di scuola cognitiva be­ ckiana: è il metodo di valutare lo scenario peggiore (worst case scenario) (Clark, Beck, 2010, p. 209) e viene utilizzato anche da studiosi che svi­ luppano la tecnica di Beck in direzione metacognitiva. Per esempio, per Adrian Wells questo tipo di accertamento è utile per elicitare nella co­ scienza dell'individuo quali sono le credenze rispetto ai rituali. Per Wells è spesso necessario elicitare materiale discutendo le peggiori conseguen­ ze del non impegnarsi in comportamenti rituali, piuttosto che limitarsi a mettere in dubbio i benefici di quei comportamenti. Per esempio, c'è una ragione per non cercare di fermare i rituali? (Wells, 2000, p. 188)

2.2.4. 1 "È più /orte di me.'". Disputare l'impulso Questa tecnica di riformulazione in negativo (''Cosa accadrebbe se lei non lo facesse? Se lei riuscisse ad astenersi? " ) potrebbe applicarsi a un'altra bestia nera del cognitivismo clinico ancora peggiore delle com­ pulsioni ossessive: tutta l'area dell'impulsività rabbiosa o della dipen­ denza dal piacere. Si tratta di un'area clinica molto estesa e che è stata storicamente meno studiata nel cognitivismo clinico di quella ansiosa. DiGiuseppe (2006) se ne è occupato con abbondanza in ambito cogni­ tivo ellisiano. L'ampiezza di questa area clinica richiederebbe un'altret­ tanto estesa trattazione specifica. Essa inoltre mostra ampie sovrappo­ sizioni con tutta l'area del cosiddetto paziente " difficile" , che trattiamo nella seconda parte di questo volume. Il problema è che chiedendo al paziente: " Cosa ha pensato che l'ha fatta reagire o agire così ? " o "Perché lo fa? " , ovvero ponendo l'atto im­ pulsivo nell'A dell' ABC, ci si espone al rischio di una risposta sterile co­ me: "Non ho pensato nulla. Semplicemente è più forte di me" . Un possi­ bile modo per ricondurre le reazioni impulsive e rabbiose a un colloquio di disputa cognitiva classica è chiedere al paziente cosa accadrebbe se davvero riuscisse ad astenersi dalla sua reazione impulsiva: 68

Dz5putare e rz5trutturare

Cosa potrebbe accadere, o cosa non le piacerebbe se lei - a nche solo per una volta - riuscisse ad astenersi?

In tal modo si potrebbero elicitare dei possibili scenari negativi per il paziente, del tipo che sarebbe ingiusto o umiliante o pericoloso o in­ tollerabile non reagire aggressivamente o non obbedire all'impulso de­ siderante. Una volta elicitati questi scenari, si può tornare all'itinerario del colloquio cognitivo classico. 2.2.5 "Perché deve ?". La disputa della doverizzazione

La doverizzazione, la convinzione che certe cose vadano fatte assolu­ tamente in una certa maniera o debbano svolgersi assolutamente in un certo modo, potrebbe essere un modo di pensare particolarmente at­ taccabile con le armi della disputa puramente logica (distinta da quella puramente empirica, come scritto nel paragrafo 2.2 . 1 . 1 ) . Le convinzioni personali arbitrariamente assolutizzate sono infatti vulnerabili. Attenzione, però: una buona disputa logica delle doverizzazioni non si basa su raffinate argomentazioni. Ancora una volta non è il terapeuta che deve tirare fuori abbaglianti sillogismi che inchiodino il paziente, ma al contrario, qui più che mai vale la raccomandazione di continuare a chiedere con gentilezza al paziente di giustificare le sue idee doveri­ stiche. Sarà la loro stessa rigidità che le renderà difficili da giustificare logicamente. Insomma, disputa logica significa chiedere al paziente di giustificare le proprie convinzioni, non distruggerle attivamente. È suf­ ficiente chiedere: Mi perdoni, ma non comprendo perché lei "deve"? I n che senso lei "deve" essere così? Comprendo che queste idee sono da lei profondamente sentite, ma le chiedo: Perché lei "deve" fare questo? Non mi è chiaro perché lei do­ vrebbe essere obbligato/a a fare questo. O perché dovrebbe essere as­ solutamente necessario che le cose vadano così . Me lo spiegherebbe?

Trattandosi di valori personali poco argomentati, la disputa logica sulle doverizzazioni rischia di ridursi a puro scontro d'idee diverse. Per tale motivo è bene evitare eventuali escalation sfidanti. La richiesta al pa­ ziente di argomentare la sua convinzione che certe cose debbano essere fatte o debbano accadere necessariamente in una certa maniera va for69

Il colloquio cognitivo standard

mulata con voce pacata. Occorre davvero riuscire a esprimere un tono di curiosità perplessa e non sprezzante. La tattica migliore è manifestare un certo disorientamento, un'incomprensione sinceramente confusa e perfino lievemente sbalordita. Il paziente deve trovarsi di fronte al fat­ to che quello che per lui o lei è un evidente valore universale inciso nel bronzo può essere incomprensibile per un'altra persona, nello specifico per il terapeuta. In quel momento davvero il terapeuta incarna l'altro, il diverso, che forse il paziente incontra per la prima volta in vita sua. La doverizzazione è un'asserzione particolarmente difficile da soste­ nere, chi la esprime deve esporla con logica inattaccabile. Ma non vi è logica così inattaccabile che possa reggere e dimostrare un dovere: un dovere è sempre un accordo sociale, una convenzione, un patto, e quin­ di si basa su giudizi pratici e non logici. Logica e dovere fanno a pugni; il dovere fa parte del mondo della pratica, ovvero delle decisioni, delle convenzioni, delle abitudini, delle culture e della storia, la logica invece è il regno della necessità atemporale. Chiunque sostenga il valore di ve­ rità assoluto di un dovere va a cacciarsi in un ginepraio; per tale motivo continuare amichevolmente a chiedere al paziente di spiegarsi e giusti­ ficare le sue doverizzazioni può essere efficace. TERAPEUTA: Non riesco a convincermi del perché di questo " dovrebbe essere così" . Me lo spieghi.

Occorre però fare attenzione: le doverizzazioni possono essere valori profondamente sentiti da chi ci sta di fronte. PAZIENTE: Così però mi fa quasi sentire uno stupido.

In questo caso si deve validare l'emozione, ma non concedere nulla alla cognizione (per un approfondimento sulla validazione vedi il capi­ tolo 3 ) , comprendere la sofferenza ma dichiarare il proprio disaccordo, o almeno la propria incomprensione, verso l'idea doverizzante che ha generato la sofferenza: TERAPEUTA: Lo so e mi spiace. Capisco che queste idee siano da lei pro­ fondamente sentite. E credo di capire quanto lei possa soffrire nel ve­ derle messe in discussione. Ma ancor di più lei soffre per queste idee. Però vorrei capisse che il suo nemico non sono io. Sono queste idee rigide. Questi doveri. Dawero: Ma perché deve?

Inoltre, come vedremo nel paragrafo dedicato alla ristrutturazione , dobbiamo far capire al paziente che non dovrà rinunciare ai propri va­ lori, ma renderli più flessibili. Passare da un " devo" a "intendo fare" (vedi paragrafo 2.9). 70

Disputare e ristrutturare

Naturalmente, dopo aver assunto questo atteggiamento benevolmen­ te perplesso alla tenente Colombo, si possono utilizzare delle tattiche disputative. La prima è chiedere degli esempi. M i può fare esempi di persone o ambienti che condividono q uesta convinzione?

Una classica domanda prevede di proporre al paziente cosa pense­ rebbe in quella situazione un amico o "un altro" generico al suo posto. In tal modo si tenta di far comprendere al paziente la natura soggettiva delle sue convinzioni doveristiche: Cosa penserebbe o come si comporterebbe un suo amico in quella si­ tuazione? Condividerebbe questa idea? Cosa farebbe o penserebbe un altro in quella situazione? Condivide­ rebbe q uesta idea?

Il nocciolo della disputa della doverizzazione è far capire al paziente che ogni argomento egli dovesse esprimere a supporto della sua creden­ za doveristica non ne dimostra il valore di necessità assoluta. Al massi­ mo può dimostrare che è una preferenza, un obiettivo. È un obiettivo e una preferenza, per esempio, che le cose siano fatte perfettamente (o almeno bene). È un obiettivo e una preferenza che gli altri si comportino correttamente. È un obiettivo e una preferenza che a questo mondo non accadano ingiustizie. Si può venire incontro al paziente riconoscendo che le sue doverizzazioni hanno un contenuto condivisibile, ma facen­ dogli comprendere che la forma del " devo " , in quanto rigida e inflessi­ bile, rivela un atteggiamento scorretto: Guardi, io capisco le ragioni che lei espone, ragioni per le quali sareb­ be preferibile che le cose andassero così, o che lei riuscisse a fare que­ sto, o che gli altri si comportassero così. Queste però sono preferenze, non doveri. Questi sono obiettivi, non necessità.

La ristrutturazione (vedi paragrafo 2.9) prevede che i " devo" possa­ no diventare "vorrei", " desidero" e "mi pongo l'obiettivo di" (Walen, DiGiuseppe, Dryden, 1992, pp. 1 82 - 1 83 ) . A queste condizioni si otten­ gono delle formulazioni più realistiche, più spendibili e più produttive dei propri valori. 71

Il colloquio cognitivo standard

Quando lei dice "devo" o "dovrebbe" esprime dei valori personali pro­ fondamente suoi: ma cerchiamo di concepire questi valori come obiet­ tivi da raggiungere e preferenze da desiderare, ma non come cose che dovrebbero già esserci. Proviamo a mettere "vorrei", "desidero" e "mi pongo l'obiettivo di fare in modo che" al posto di "devo" o "dovreb­ be". Così conserverà i suoi valori ma li renderà utili, capaci di agire sulla realtà, e non delle gabbie paralizzanti.

2.2.6 Siamo schiavi della nostra biografia? Storia di vita e significati personali nella disputa cognitiva

La storia di vita rischia di sembrare un intruso indesiderato nella macchina della disputa: se si tratta di mettere in crisi i pensieri inutili e dannosi, che senso hanno i sentimentalismi della storia di vita? Non è così semplice: la storia di vita ha un suo ruolo nella disputa perché, se ben raccolta, essa si può concludere tirando la volata a una domanda che è pura disputa: Tutto quello che mi ha raccontato è vero e doloroso, e sicuramente la porta a pensare e a reagire nei modi che sappiamo. Ma tutto questo non l'ai uta a vivere bene. Le chiedo: è davvero inevitabile essere schia­ vi della propria biografia?

Sicuramente si tratta di un'ottima chiusura. Questo intervento di di­ sputa può essere particolarmente efficace se lasciamo che il paziente con agio e comodità racconti la sua storia, senza incalzarlo e senza mettergli fretta, ma permettendogli di spaziare in un racconto ampio. Si tratta di una sorta di lunga validazione che accordiamo al nostro paziente, alla fine della quale, dopo che il dolore del passato ha trovato il suo sfogo, possiamo rivolgergli la domanda. Ma l'esordio? Come si inserisce una storia di vita nel colloquio co­ gnitivo? Possiamo davvero permetterei di introdurla un po' così, quan­ do capita? O esiste una regola? Un possibile suggerimento è: inserire la richiesta della storia di vita dopo una doverizzazione. Cos'è infatti una doverizzazione se non la dichiarazione di un valore idiosincratico, mol­ to sentito dal paziente a livello personale, qualcosa che per lui è così e basta, senza bisogno di alcuna argomentazione logica o empirica? E al­ lora, se non sappiamo cosa rispondere, possiamo dirgli:

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Dùputare e ristrutturare

Dove ha i mparato questo? Dove ha imparato che "deve" essere così?

La terribilizzazione è un altro punto che facilita la storia di vita, per­ ché anch'essa è una valutazione soggettiva, un valore personale pro­ fondamente sentito dal paziente. È naturale chiedere ancora una volta: Dove ha imparato questo? Dove ha imparato che questa cosa è così terri bile, così i naccettabile?

Questo aspetto soggettivo e idiosincratico delle doverizzazioni e delle terribilizzazioni le apparenta fortemente ai cosiddetti " significati perso­ nali" , come sono stati definiti da Guidano e in generale dalla corrente costruttivista radicale o postrazionalista. Nel postrazionalismo accade che i significati personali siano così propri della persona singola da di­ ventare eventi singoli irripetibili e quasi incomunicabili. Tale è l'enfasi per l'unicità della persona, che costruisce da sola il proprio mondo, che sembra quasi che le menti possano solo stimolarsi a vicenda, ma mai ve­ ramente trasmettersi contenuti informativi. Ma anche per Bruner ( 1990) il cognitivismo ha dato eccessiva enfasi al concetto di "informazione " a scapito di quello di " significato" . Se si volesse dire in breve la differenza tra questi due concetti, potremmo dire che l'informazione si calcola e si misura mentre il significato si attribuisce con un atto emotivo (cioè sen­ tito e non calcolato), e inoltre si costruisce e si narra. Questa costruzio­ ne di significato per di più è profondamente radicata nella storia di vita dell'individuo, poiché è all'interno del processo dello sviluppo umano che il bisogno di protezione e prossimità del bambino nei confronti dei genitori permette l'attribuzione di significati alle tonalità emotive spe­ rimentate nella relazione d'attaccamento. In conclusione suggeriamo che doverizzazioni e terribilizzazioni sia­ no gli aspetti più costruttivisti di Ellis e costituiscano degli ottimi ag­ ganci per applicare uno stile più costruttivista alla disputa, in cui non si critichino le basi empiriche e logiche del pensiero ma si ricostruisca la formazione di un significato personale radicato nella storia individuale, concludendo però con un intervento forte: "Deve proprio continuare a ragionare al solito vecchio modo? " . Per riassumere • •

Applicare la disputa log ico-empirica a l pensiero catastrofico. Articolarla secondo i parametri del l'equazione di Beck del pensiero ne­ gativo: gravità, proba bil ità, rimedia b i l ità, tollera b i l ità.

Il colloquio coJ!.nitivo standard

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Util izzare a nche a ltri parametri per articolare la d isputa. Disputa logica e d isputa empirica sono largamente sovrappo n i b i l i . P u ò avere senso definire la d isputa logica più adatta a l la terribil izzazio­ ne e a l l a doverizzazione e la d isputa empirica alla catastrofizzazione. Nel caso dell'intol leranza all'incertezza, riformularla in termini d'i ntol­ leranza della frustrazione. Nel caso di controlli ed evitamenti, discutere gli aspetti negativi del non control lare e/o del non evitare. Opporre una perplessa ma rispettosa incomprensione a l l e doverizza­ zioni del paziente. I ncoraggiare la trasformazione dei "devo" in "vorre i " . Chiedere s e un altro o un a mico condividerebbe le doverizzazioni del paziente. Uti lizzare doverizzazioni e terribil izzazioni per inserire aspetti della sto­ ria di vita e significati persona l i .

2.3 "A COSA L E SERVE RAGIONARE COSÌ ? " . L A DISPUTA PRAGMATICA

Uno dei contributi più significativi di Ellis alla tecnica cognitiva è la disputa pragmatica. Mentre nel caso della disputa logico-empirica si tratta di incoraggiare il paziente a esplorare criticamente il valore di verità dei suoi timori, delle sue ossessioni, dei suoi dolori, delle sue rab­ bie (in breve, dei suoi pensieri negativi) , nella disputa pragmatica ci si chiede, insieme al paziente: A cosa ci serve ragionare così? A cosa ci serve pensare questo? Questa idea dove la porta? Le fa ottenere buoni risultati? Finché crederà questo, come pensa che si sentirà? Ne vale la pena?

Nella disputa pragmatica l'obiettivo è aiutare il paziente a prendere atto che le sue convinzioni portano a risultati non salutari, utilizzando le informazioni raccolte durante l'esplorazione delle credenze irrazio­ nali. Possiamo dire che questo tipo di disputa sembra più indicata per le doverizzazioni, mentre la disputa logico-empirica lo è per le cata­ strofìzzazioni. La disputa pragmatica ha infatti un vantaggio relazionale rispetto a quella logico-empirica: non porta allo scontro frontale con le convin 74

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zioni del paziente. Non essendo focalizzata sul valore di verità dell'idea discussa, questo tipo di disputa suona spontaneamente meno impegna­ tiva per il paziente. Il paziente non vede discussa la verità di quel che crede, ma solo la sua utilità. Una tale disputa, inoltre, porta più natural­ mente a una riconsiderazione flessibile delle proprie idee e non alla sen­ sazione che quel che si pensa sia sbagliato e quindi stupido. Insomma, per una serie di ragioni la disputa pragmatica è più dolce e amichevole di quella logico-pragmatica. Lo stesso Ellis preferiva questa tecnica. Come sappiamo, egli accerta­ va i pensieri distorti chiedendo ai pazienti quali fossero le "piccole frasi" che essi tendevano a dire a se stessi nelle situazioni di sofferenza. Cosa diceva il paziente a se stesso nel momento in cui viveva i suoi problemi? In questo modo il terapeuta cognitivo non accerta tanto il fondamen­ to logico oggettivo delle credenze, ma la giustificazione soggettiva che il paziente dà a se stesso delle proprie sofferenze. E queste giustificazioni tendono a essere pragmatiche, non logiche: "Mi dico questo perché mi serve a questo" . Per questo può essere utile esortare il paziente a ripen­ sare l'effettiva utilità delle sue convinzioni. Insomma, per Ellis le credenze distorte non si presentano alla nostra mente nella forma di asserzioni logicamente fondate (o infondate) bensì assumono l'aspetto di regole e definizioni che il paziente si autoinfligge e che, almeno apparentemente, svolgono una funzione pratica. E rego­ le pratiche, sebbene troppo rigide, sono i cosiddetti musts o musturba­ tions, come le chiamava Ellis (che era un tipo un po' sboccato e dal gu­ sto umoristico efficace, ma non sempre elegantissimo). Una traduzione appropriata potrebbe essere: seghe mentali. Si tratta quindi delle già citate " doverizzazioni" , ovvero di asserzioni prescrittive e/o normative, in cui il soggetto non valuta quanto sia con­ gruente e fondato su situazioni reali lo stato emotivo che egli sta provan­ do, ma quanto sia congruente a una astratta norma che prescrive come dovrebbe andare il mondo, o come ci si dovrebbe comportare o come si dovrebbe essere. Norma astratta sì, ma teoricamente utile secondo il nostro pazien­ te. L'individuo si autosuggestiona negativamente, convincendosi che il mondo non vada come dovrebbe andare, o che egli non si stia compor­ tando nel modo in cui dovrebbe, o che non lo stiano facendo gli altri nel momento in cui disobbediscono a valori per lo più sociali o religiosi. Insomma, matura in sé una convinzione di questo tipo: " Se il mondo an­ classe come dovrebbe andare e io e/o gli altri ci comportassimo come si deve, tutto andrebbe molto meglio del presente inaccettabile andazzo ". 75

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