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Italian Pages 120 [132] Year 2006
IL CINEMA DI JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE
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a cura di
Luca Mosso
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VIAGGIO KKUCS Una collana diretta da Fabio Francione
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FALSOPIANO
IL CINEMA DI JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE
a cura
Luca
di
Mosso
Ringraziamenti: Jean-Pierre e Luc Dardenne Lory Dall'Ombra, Anna De Benedetto - Comune di Milano, Settore Cultura, Musei e spettacolo; Chiara Nobile, Enrico Danesi - MilanoCinema;
Delphine Thompson - Les Films du fleuve; Derives; Emmauelle Lambert - CGRI; Renaud Simons, Enrica Ianicelli - Fortis Bank;
Jean De Ruyt, Sophie De Smedt, Danielle Boost - Ambasciata del Belgio in Italia; Bruno Brianzoli - Consolato Onorario del Belgio a Milano; Sara Pomesano, Antonella Squillaci - Ufficio belga per il turismo; Jean-Paul Ollivier, Dominique Morge, Cesare Vergati - Centro culturale francese di Milano Valerio De Paolis, Federica De Sanctis, Vaira Giacconi - Bim distribuzione
Georgette Ranucci - Lucky Red Celluloid Dreams
Goffredo Fofi, Anna Branchi - Lo Straniero Segnocinema
Il giudizio universale Francesco Casetti - Università Cattolica del Sacro Cuore;
Luciano Barisone, Carlo Chatrian - Infinity Festival; Silvio Alovisio - Biblioteca del Museo Nazionale del Cinema; Arturo Inverici - Fondazione Alasca, Tiziana Bonanni
In copertina: L’Enfant (2005) © Christine Plenus.
© Edizioni Falsopiano - 2005 via Baggiolini, 3 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com
Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Roberto Dagostini Stampa: Impressioni Grafiche S.C.S. a r.l. - Acqui Terme Prima edizione - Novembre 2005
Il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne a cura di Luca Mosso
Il volume è pubblicato in occasione della retrospettiva La fatica del bene. Il cinema dei fratelli Dardenne, Filmmaker/doc10, a cura di Silvano Cavatorta, Giorgia Brianzoli, Luca Mosso (Cinema Gnomo, Milano 30 novembre-4 dicembre 2005),
Redazione: Luca Mosso, Silvia Piraccini
Coordinamento: Giorgia Brianzoli Traduzioni: Alba Bariffi, Daniela Persico
Fotografie: Christine Plenus, Michael Vanden Eeckhoudt Sottotitoli dei film: Laetizia Helin, Grazia Regoli, Annamaria Striccoli
per Associazione Filmmaker Traduzione simultanea: Anna Ribotta
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Un’iniziativa sostenuta da
via Aosta, 2 — 20155 Milano tel 02 3313411 fax 02 341193 e-mail [email protected]
www.filmmakerfest.org
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per il Cinema
Milano Comune (dd { di Milano
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Settore Cultura, Musei e Spettacolo
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Consolato Onorario del Belgio a Milano
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SOMMARIO
Introduzione di Luca Mosso
Dale
Specifici, spirituali. I Dardenne si raccontano a cura di Alba Bariffi, Luca Mosso e Daniela Persico
Se ancora di uomo si può parlare di Carlo Chatrian
ASS)
Il frammento, il volto e l’anima di Daniela Persico
Figli genitori. Un’antipedagogia in quattro atti di Anton Giulio Mancino
“Qual è il futuro del militante?”?. La stagione dei documentari di Dario Zonta
Arrivare in ritardo, andarsene in anticipo di Daniele Gaglianone
pad9
All’ultimo respiro di Rinaldo Censi
Nota biografica DAL
I film Paelo Bibliografia a cura di Daniela Persico
p. 113
INTRODUZIONE di Luca Mosso
La Palma d’oro c’entra poco, almeno per noi. L'appuntamento con il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne, più volte rimandato negli anni, è da sempre un obiettivo prioritario di Filmmaker. Il coronamen-
to — provvisorio, si intende — di un progetto di approfondimento iniziato nel 1999 con la retrospettiva dedicata al documentarista olandese Joan van der Keuken e proseguito con Frederick Wiseman,
Errol
Morris, Peter Forgacs e Rithy Panh. Naturalmente la coincidenza con l’uscita di L’Enfant, che affronta il
mercato italiano sull’onda del successo di Cannes, ci fa molto piacere, anche perché questo film segna un’ulteriore tappa di un rigoroso percorso di ricerca iniziato trent'anni fa con il cinema militante, prose-
guito con i documentari negli anni 1978-1982 e approdato nel 1986 al cinema di finzione. Di questo lungo tragitto, al pubblico italiano e internazionale è nota solo l’ultima parte, quella che da La Promesse (presentato alla Quinzaine di Cannes del 1996) e i successivi Rosetta (1999), Le Fils (2002) e L’Enfant (2005) ridisegna profondamente i
confini del cinema sociale. L'obiettivo di questo libro è di scandagliare invece tutta l’opera dei Dardenne, riconoscendo da una parte le costanti d’autore e mettendo dall’altra in evidenza l’evoluzione di un
pensiero e di uno sguardo. Insieme all’analisi dei temi ricorrenti (il rapporto tra padri e figli, analizzato da Mancino) e a quella delle modalità espressive e comunicative (il ruolo della semisoggettiva, nel saggio di Daniela Persico), ha quindi un ruolo centrale il confronto tra le riflessioni storico-politiche di lavori come Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois e Le Journal e la pienezza espressiva di La Promesse e Le Fils (se ne occupa Dario Zonta), film nei quali la precisione dei gesti e l’accuratezza delle descrizioni ambientali converge in un maturo umanesimo. ‘ Raccontare la realtà e allo stesso tempo trascenderla: è questa la qualità più alta del cinema dei fratelli Dardenne, che raccolgono l’insegnamento di Robert Bresson e, come spiega Carlo Chatrian, lo 13
impiantano nel vivo delle contraddizioni dell’Europa di oggi, dove il senso d’appartenenza si sgretola e il grandioso progetto novecentesco della metropoli entra in una crisi gravissima. Ma il cinema dei Dardenne è anche il prodotto di un metodo e di una prassi di messa in scena arrischiata ed audace. Insieme alle osservazioni di Rinaldo Censi e di Daniele Gaglianone, vengono in aiuto le
riflessioni che gli stessi registi hanno prodotto. Lucidissimi analisti del proprio operato (il diario di Luc Dardenne, Au dos de nos images 19912005, uscito da Seuil nel maggio 2005, ne è un esempio chiarissimo),
i due cineasti hanno messo a disposizione di chi li ha intervistati una messe di informazioni precise e puntuali (raccolte qui, nell’antologia Specifici, spirituali) che, senza sostituirsi all’interpretazione critica, sono il punto di partenza imprescindibile per ogni approfondimento ulteriore. Luc Dardenne scrive di aspirare a un cinema senza stile. Perché “Ogni stile è una caricatura, una somiglianza a se stesso, un destino, una mummificazione, una-vittoria del necrofilo che è in ognu-
no di noi, sempre pronto a raffreddare quello che si muove”. Nei Dardenne metodo e risultati, etica ed estetica sono strettamente connessi: la loro testimonianza e il loro lavoro sono oggi più utili che mai. Chi lavora con le immagini vi troverà una lezione di etica dello sguardo, chi le guarderà da semplice spettatore avrà modo di capire un po” meglio il mondo che gli sta attorno. Milano, novembre 2005
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SPECIFICI, SPIRITUALI. LUC E JEAN PIERRE DARDENNE SI RACCONTANO a cura di Alba Bariffi, Luca Mosso e Daniela Persico
Catturare il male Inutile tentare di catturare il male da vicino, da molto vicino, pro-
prio al centro. Appare così, senza perché, nell’angolo di un’inquadratura troppo lunga, mal incorniciata, non chiara. È dentro questo sguardo inadeguato che l’inumano umano si mostra, è qui che si può prendere una certa coscienza della sua realtà. Abbiamo filmato la sepoltura del corpo di Hamidou [in La Promesse] sotto le lastre con un piano relativamente largo, “poco illuminato”, inquadrando uno spazio disseminato d’ostacoli che riducono la visibilità: è questa realtà del male che volevamo comunicare. Ci sono senz'altro altre maniere, ma tutte,
secondo me, devono evitare il punto di vista che s'immaginerebbe rappresentare la sua luce, la sua espressione. Il male è inimmaginabile,
non appare come immagine. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
Cristianesimo
In Occidente siamo tutti cristiani, siamo tutti ebrei, abbiamo letto o
sentito i dieci comandamenti. Ma penso che in un modo o nell’altro, anche non attraverso il testo della Bibbia, la proibizione dell’omicidio ha fondato la società. Da noi si dice: è cristiano, o: è giudaico. Ma
penso che sia qualcosa che appartiene a tutta l’umanità, di avere in un dato momento proibito l’assassinio. In Le F7/s, Olivier, cioè il padre, colui che normalmente dovrebbe trasmettere questa proibizione, si trova davanti alla tentazione di uccidere. Per noi il film è questo. Si dirà: sì, ma non c’è solo questo, c’è il tema del perdono, che è proprio cristiano, o come lei dice, di un cristianesimo senza Dio. Può darsi. 15
Perché niente nel film ci dice che Olivier fa quel che fa perché crede in Dio, o perché Dio gli ha detto di farlo. Lo fa, credo, per un sacco di ragioni diverse. Intanto, il ragazzo è arrivato, sta lì, che fare? Questo ragazzo lo interessa molto, perché ha ucciso suo figlio. Allora, è vero che c’è in Olivier una capacità di superare il proprio desiderio di uccidere, e questo oggi non è molto frequente. È probabile che la maggioranza degli spettatori rimanga sorpresa. Se vogliamo, il problema è che noi sappiamo che Dio non c’è, l’uomo è solo e ce la dobbiamo vedere tra noi e dobbiamo vedere come non ucciderci. Perché è vero che Dio l’ha proibito, ma lui non c’è più, e allora che si fa? Emiliano Morreale, Padri, figli e assassini; incontro con Jean-Pierre e Luc Dardenne, in «Lo straniero» n. 30/31, dicembre 2002/gennaio 2003
Il Male e il Bene
La menzogna esige una grande costruzione. Il Male è una costruzione appassionata (e appassionante per lo spettatore) di cui bisogna mostrare tutti gli ingranaggi, tutti gli intrecci. La verità, il Bene appaiono allora come una rivelazione. Rivelazione che è liberazione da tutti gli intrighi. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
Come nascono le idee
Noi siamo lenti. Non siamo di quei registi che hanno in testa diecimila progetti, aprono il cassetto e dicono: «Adesso quale faccio?». Invece si parla insieme, a lungo, di quello che si è letto, visto, sentito. Nelle discussioni che precedevano la concezione di L’Enfant ritornava una ragazza che per diversi giorni avevamo visto spingere una carrozzina vicino al set del Le Fils, e che lo faceva in modo violento. 16
Avevamo finito per chiederci se ci fosse qualcuno dentro... Era un neonato. La ragazza era sempre sola. Ci siamo detti che, se continuava a tornare nei nostri discorsi, doveva esserci un motivo. Abbiamo cerca-
to di lavorarci su: all’inizio, dunque, c’è l’immagine di una ragazza che spinge una carrozzina. Cercava disperatamente un padre per il bambino. Quel padre che nella realtà non c’era — in ogni caso noi non l’abbiamo mai visto — è diventato Bruno, e questo si è collegato a una cosa di cui io e Luc avevamo già parlato: la storia di un giovane padre che vende il suo bambino. Le cose si incastrano a poco a poco, si vede un film, si legge un libro, un fatto di cronaca... Jean-Baptiste Morin, «Tu te souviens Inrockuptibles» n. 516, 19 ottobre 2005
de
Jérémie?»,
in
«Les
Realisti tra i surrealisti
Spesso si collega il cinema belga all’immaginazione, alla fantasia. Avete la sensazione che vi sia uno iato tra quell’estetica segnata dal surrealismo, il gusto dello scherzo che caratterizza la «belgitudine» profonda, e il vostro «cinema della realtà»? Non
dimentichiamo
che c’è una
tradizione
documentaristica
in
Belgio, dominata da Henri Storck e Charles Dekeukelaire. Ma è vero che domina una fiction ispirata al realismo magico, il cui maestro è stato André Delvaux (L’Homme Rendez-vous à Bray, Benvenuta,
au cràne rasé, Un soir, un train, L’Oeuvre au noir). Un giorno, lui
stesso ci ha detto che ci apprezzava molto, ma che non avremmo mai potuto fare della fiction sociale in Belgio! Dopo La Promesse, ci ha mandato una bellissima lettera per dirci che si era sbagliato. Credo che
lui si fosse sempre ispirato alla letteratura (fantastica, fiamminga, simbolista), non immaginava che si potesse girare un film di finzione senza partire da un libro. Ora, è vero che da noi non esiste una letteratura di questo tipo. Ma non era questo il nostro ragionamento! Piuttosto ci siamo chiesti perché questo paese rifiutava di guardarsi, di cosa avesse paura, perché avesse un tale disprezzo della sua sto17
ria, della sua vita sociale. Perché questa fuga dalla realtà? Perché nes-
suno ha girato un film sulla deportazione degli ebrei del Belgio? Siamo forse, come dicono alcuni, un Paese inesistente? Noi siamo andati a
riprendere quegli operai, quei partigiani, quei volontari impiegati nelle Brigate internazionali, per trasmettere una memoria. Jean-Luc Douin, «Un bon film, c’est une poignée de main», in «Le Monde», 7 agosto 2005
Dove si torna sempre
Si finisce sempre per tornare a Seraing, sulle rive della Mosa. Abbiamo bisogno di quell’ambiente, di respirare quell’aria viziata in cui abbiamo trascorso la giovinezza. Conosciamo la città come le nostre tasche, ma la gente che ci viveva, le officine, i bar, gli altiforni, la strada delle prostitute, le trattorie, li vedevamo dall’esterno. Se abbiamo
cominciato a riprendere tutto questo, è stato per comprendere un mondo al quale non avevamo accesso. E mostrare come la città è cambiata. Abbiamo visto come le famiglie si sono sfasciate, come ci si sente in colpa a essere disoccupati, e come la gente si ripiega su di sé, sulla diffidenza. Come si sia steso su tutto il disonore, quella cosa opaca a cui non sapevamo dare un nome quando avevamo quindici anni. Jean-Luc Douin, «Un bon film, c’est une poignée de main», in «Le Monde», 7 agosto 2005
Maestri
Armand Gatti ci ha insegnato a uscire dal nostro torpore, sia nella forma, insegnandoci il rigore e smitizzando la tecnica, sia nella sostanza, facendoci
vedere come
partire alla ricerca dei segni dell’uomo,
della sua indistruttibile speranza. [...] Tra i registi, Johan Van der Keuken per il suo accanimento nel 18
modellare la materia come uno scultore. La sua abilità di trasporre lo E Jean Gruault, che ha scritto
stato grezzo, rugoso, della realtà attuale.
la sceneggiatura di Je pense à vous. È lui che ci ha fatto vedere come far emergere un personaggio dal fango della realtà, e farne una cosa diversa da un’invenzione. Lui ci ha comunicato il senso del gruppo: il cinema è questione di affinità, bisogna lavorare con degli amici più che con dei professionisti. Per il resto, il nostro modello è Germania anno zero di Rossellini: quella scena di più di un quarto d’ora in cui il ragazzino passeggia per la città, in esterni, e durante la quale sembra di essere nella sua testa! C'è anche Aurora di Murnau, al quale abbiamo ripensato molto per L’Enfant: esprime la riconciliazione tra un uomo e una donna, a partire da piccoli gesti concreti, senza alcuna magniloquenza. E poi Mîzoguchi, per la sensibilità umana. E Pialat, L’Enfance nue, la presenza di un amore
enorme
che non riesce a venir fuori.
Ovviamente, Bresson. L'ultima inquadratura di Un condannato a morte è fuggito dà veramente la sensazione di essere fuori, liberi, in fuga. Quando li si rivede, ci si sente amici di quei film. Un buon film è una stretta di mano. Jean-Luc Douin, «Un bon film, c’est une poignée de main», in «Le Monde», 7 agosto 2005
Piccoli budget: i vantaggi della povertà
Ho discusso a lungo con Jean-Pierre sul modo in cui continueremo a fare i nostri film dopo la brutta esperienza di Je pense à vous. Una cosa è certa: piccolo budget e semplicità dappertutto (nel racconto, nelle scenografie, nei costumi, nelle luci, nella troupe, negli attori). Avere una nostra équipe, trovare degli attori che abbiano voglia di lavorare con noi, che non ci blocchino con il loro professionismo; degli sconosciuti che non ci conducano, nostro malgrado, verso ciò che è
conosciuto e riconosciuto. Contro l’affettazione, il manierismo che impera: pensare povero, semplice, nudo. (...) Essere nudo, spogliarsi di tutti i discorsi, tutte le chiacchiere su cosa è il cinema, che cosa non lo 20
è e cosa dovrebbe essere... Non volere fare del cinema e voltare le spalle a tutto quello che vorrebbe farci entrare nel Cinema. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
Il metodo
Verso le sette o le sette e mezzo del mattino, prima che la troupe [di Rosetta] arrivi, lavoriamo tutti e due con l’attrice. Immaginiamo i suoi spostamenti. In questa fase uno di noi due fa la parte del cameraman, con o senza mirino, e cerca i punti di vista mentre l’altro lavora con l’attrice. Siamo noi tre a comporre l’inquadratura. Poi chiamiamo l’operatore, il fonico e il direttore della fotografia. Il direttore della fotografia guarda, il fonico pensa già a come muoversi con l’asta e l’operatore viene con la cinepresa. Allora riprendiamo la ricerca: l’operatore sperimenta la fattibilità della nostra proposta, prova con noi, ne discutiamo. Poi uno di noi due resta sul luogo delle riprese con l’attrice e l’altro guarda il monitor, che si trova spesso fuori dai luoghi delle riprese, quando sono troppo ristretti. Chi guarda lo schermo vede con precisione l’inquadratura, è lui che interviene di più, che dice: «Non
vale la pena di fare questo movimento, sarebbe meglio lasciarla uscire di campo, non seguirla e aspettare che rientri lei». È la nostra maniera di lavorare. Alla fine ci troviamo spesso tutti e due davanti al monitor,
per non rischiare di entrare in campo con i movimenti dell’attrice. Finita la ripresa, ne parliamo insieme, decidiamo di ricominciare modi-
ficando il movimento di macchina. Con La Promesse abbiamo preso coscienza del fatto che l’inquadratura si definisce con il corpo dell’attore o dell’attrice. Prima della Promesse, anche per i nostri documentari che in realtà erano molto teatrali, i personaggi arrivavano in uno spazio preesistente. Ora tentiamo di fare in modo che lo spazio sia definito da ciò che lo riempie. Abbiamo scoperto tardivamente questo principio, e ha cambiato molte cose. Sotto questo rispetto, si può dire che La Promesse sia stato il nostro primo film. Bernard Benoliel e Serge Toubiana, «// faut étre dans le cul des cho21
ses». Entretien avec Luc et Jean-Pierre Cinéma» n. 539, ottobre 1999
Dardenne,
in «Cahiers
du
L’imprevisto L.D. Nel film [Rosetta] ci sono due momenti in cui il movimento
della camera non era previsto. Proprio alla fine, dopo il litigio con Riquet, ritroviamo la ragazza protagonista mentre chiude la porta della roulotte per uscire, al mattino, quando va a cambiare la bombola. La cinepresa è davanti e all’improvviso l’operatore non sa davvero più dov’è l’attrice, e neanche lei sa bene dove sia lui. Succede qualcosa,
c’è un fuori fuoco e poi la macchina da presa riesce a ritrovarla. Abbiamo deciso di tenere la scena. Bernard Benoliel e Serge Toubiana, «I! faut étre dans le cul des choses». Entretien avec Luc et Jean-Pierre Dardenne, in «Cahiers du Cinéma» n. 539, ottobre 1999
L’operatore e la tecnica L.D. Benoît Derveux,
il nostro operatore, era molto concentrato,
molto teso prima di cominciare. J.-P.D. L'operatore è completamente avulso dalla realtà del set, è dentro il film. È come lei, come Rosetta. Ha le cuffie e sente il suono del microfono, come noi. L.D. Ha delle scarpe particolari,
a volte per non far rumore,
ma
anche semplicemente per poter correre. J.-P.D. Anche se è leggera, capita che la tecnica a un certo punto prenda il sopravvento, e se non si spezzano le abitudini, durante riprese che durano undici settimane capita che le persone si assestino in una routine. Così a volte non provavamo con gli attori, oppure provavamo con loro e quando i tecnici arrivavano giravamo immediatamente. Cosa che li gettava nel panico... 22.
L.D. Nella roulotte la luce si muoveva, si vedevano i proiettori dalla finestra. Due persone stavano sul tetto a tenere i proiettori fissati su pezzi di legno, per spostarli in funzione dei movimenti di macchina. Quando Rosetta salta dalla finestra, i proiettori che normalmente sono in quel punto vengono subito spostati, appena prima che lei arrivi. Il dispositivo d'illuminazione era molto mobile, molto leggero. Il fuoco veniva fatto a distanza, con un follow-focus. L'assistente operatore era bravissimo: teneva come punto di riferimento l’operatore, non l’attrice. Sapeva che quando l’operatore era in una certa posizione lui doveva fare il fuoco in un certo modo. Si muoveva con lui e, anche se non faceva sempre la stessa cosa, modificava il'fuoco in conformità. Certo,
se poteva vedere sia gli attori sia l’operatore, era un vantaggio; altrimenti, guardava solamente l’operatore. Lavorava a una distanza da due a sei metri. Quando
si entrava e si usciva dalla roulotte, il direttore
della fotografia aveva anche un comando per cambiare leggermente il diaframma. Bernard Benoliel e Serge Toubiana, «Il faut étre dans le cul des choses». Entretien avec Luc et Jean-Pierre Cinéma» n. 539, ottobre 1999
Dardenne,
in «Cahiers
du
La sceneggiatura [In Le Fils] Abbiamo lavorato con una sceneggiatura scritta, molto precisa, anche se qualcosa poteva sempre essere cambiato. Non abbiamo improvvisato granché, perché avevamo fatto un gran lavoro prima, sulla sceneggiatura, la preparazione. I movimenti di macchina evidentemente no, li si trova lavorandoci. Era molto importante la continuità,
come dicevo: girare la prima scena, poi la seconda, e dalla quarantesima in poi si poteva cominciare a cambiare il copione, a immaginare degli sviluppi differenti. Molto più che in Rosetta, ad esempio. Un'altra cosa era che il fine settimana guardavamo il girato della settimana, e decidevamo di rigirare e di cambiare delle cose, ed eventual-
mente cambiare parti di sceneggiatura, di dialogo. Ma c’era una sce23
neggiatura, sulla quale poi abbiamo molto lavorato modificandola, e conteneva già il ritmo del film. Emiliano Morreale, Padri, figli e assassini; incontro con Jean-Pierre e Luc Dardenne,
in «Lo straniero»
n. 30/31, dicembre
2002/gennaio
2003
Ritmo
In L’Enfant giravamo
ogni inquadratura
in media
venti volte.
Finché non otteniamo quello che cerchiamo, si ricomincia... L'ultima
inquadratura è stata girata diciotto volte. Erano le sei, tutti pensavano che fosse finita, tranne noi due. Ci siamo detti che ne avremmo
fatta
ancora una. Ed è stata quella buona. A volte arriva l'illuminazione. Ma questo non ci impedisce di rifare l’inquadratura con un ritmo diverso! Abbiamo cominciato a farlo con Olivier Gourmet in Le Fils. Non sentivamo il ritmo del film, se dovesse essere lento o veloce; così, per precauzione, rifacevamo delle inquadrature più veloci. Quasi tutte le inquadrature! A volte si guadagnavano solo cinque secondi, ma si creava più tensione. Jean-Baptiste Morin, «Tu te souviens Inrockuptibles» n. 516, 19 ottobre 2005
de Jérémie?»,
in «Les
Lo stile
Un cinema senza stile. Ogni stile è una caricatura, una somiglianza a se stesso, un destino, una mummificazione, una vittoria del necrofilo che
è in ognuno di noi, sempre pronto a raffreddare quello che si muove, che non trova la sua forma, la sua immagine. Avviene un assassinio. Appare una forma. Impossibile sfuggirne. Eppure qualcosa deve sfuggirne. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
26
Nei film si parla troppo
Ci interessa di più provare a dare senso a una scena attraverso la maniera di filmare i rapporti tra i corpi dei personaggi e i gesti che un personaggio compie: come passa una tazza a un’altra persona, come versa il caffè nella propria tazza. Questo è più interessante del presentare le azioni come pretesto per parlare. Le parole vengono dopo, quando non si può fare nient'altro. In generale, penso che nei film si parli troppo; è una cosa facile da fare. Ma perché ingombrare un film con le chiacchiere? Joan
M.
West
Re:ationships.
e Dennis
An
interview
West,
Taking
the
with Jean-Pierre
Measure
Dardenne
of Human
and Luc
Dardenne, in «Cineaste», estate 2003
La musica Perché non c’è musica nei vostri film? Per non far otturare gli occhi. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
Lavorare con gli attori L.D. Sul set non parliamo all’attore delle ragioni per cui il suo personaggio faccia una cosa o l’altra. Nessuna spiegazione psicologica del perché agisce in un certo modo. Certo, gli attori hanno le loro opinioni; nella loro testa si fanno il proprio film. Nelle occasioni in cui un attore prova a parlarci di queste sue opinioni, cerchiamo sempre di contraddirlo per mantenerlo leggermente incerto. Quello che facciamo con gli attori è anche molto fisico. Il giorno dell’inizio delle riprese non ci sentiamo obbligati a fare le cose esattamente com’erano nelle prove; fingiamo di ricominciare da zero in modo da riscoprire quello che abbiamo già fatto. Le istruzioni che ?A|
diamo agli attori sono soprattutto fisiche. Cominciamo a lavorare senza l'operatore: solo gli attori, mio fratello e io. Definiamo insieme le inquadrature, provando versioni diverse. Gli attori dicono le loro battute, ma senza recitare. Noi non diciamo loro quale dovrebbe essere il tono delle battute; diciamo solo che vedremo al momento di girare. A questo punto non ci sono né operatore né fonico né luci. A questo punto stabiliamo esattamente i movimenti di macchina e il ritmo della ripresa, che di solito è una sequenza lunga. Questo metodo ci permette di modificare i movimenti degli attori o qualsiasi piccolo particolare. Poi cominciamo, e gli attori recitano davvero il dialogo per la prima volta. Se una battuta non viene pronunciata come vorremmo, non diciamo: «No, dovresti dirla così», ma piuttosto: «Non così, più trattenuto». Chiediamo sempre meno, più neutralità, più vuoto. Cerchiamo di commentare in modo negativo e fisico, in modo che gli attori stessi possano dare un contributo. Joan M. West e Dennis West, 7aking the Measure of Human Relationships. An interview with Jean-Pierre Dardenne and Luc Dardenne, in «Cineaste», estate 2003
Olivier Gourmet
L'abbiamo scelto da La Promesse in poi perché ci sembrava un ottimo attore. Ci interessava il suo modo di muoversi, il suo corpo. Nei tre film lui è sempre il padre: lo era nella Promesse, lo è in Rosetta (lì non c’è il padre, e lui rappresenta una figura sostitutiva) e lo è qui (in Le Fils). Nella Promesse era un padre malvagio... Ma comunque un padre. Qui ci piaceva soprattutto che non si sa che cosa pensi, non si sa cosa aspettarsi da lui. Il suo sguardo è sempre
ambiguo; anche se dipende da come lo si filma: se lo si filma frontalmente meno, ma se lo si prende di tre quarti, quasi di profilo, è veramente spiazzante. In questo abbiamo anche utilizzato molto i suoi occhiali: se lo riprendi di tre quarti la zona tra le lenti e l'occhio, questa sfasatura dello sguardo, è molto interessante. Non sapere cosa farà 28
Olivier era uno dei punti essenziali del film, tanto che non lo sapevamo nemmeno noi: abbiamo girato apposta in ordine cronologico (la prima scena del film è davvero la prima che abbiamo girato, e il finale è stato girato per ultimo), tenendoci aperte le possibilità di varie conclusioni per la storia. Emiliano Morreale, Padri, figli e assassini; incontro con Jean-Pierre e Luc Dardenne, in «Lo straniero» n. 30/31, dicembre 2002/gennaio 2003
Inquadrare di spalle J-P.D: Forse ci sono più inquadrature di schiena rispetto al normale, così, quando si vede la faccia, la si guarda veramente: più di quanto si farebbe se la si vedesse sempre. L.D.: Abbiamo ripreso Olivier da dietro per una serie di motivi. Non molto tempo fa ho visto una foto di Dorothea Lange che credo suggerisca uno di questi motivi. Si vede una donna di colore, sui settanta 0 settantacinque anni, seduta su una panchina, probabilmente in una via
o in un parco di New York, e la si vede da dietro. Ho avuto la sensazione — molto soggettiva — di vedere tutta la sua vita lì sulla sua schiena, sulla sua nuca. Guardarla da quella prospettiva mi ha fatto pensare a una storia, forse una storia di sofferenza. Lei era lì, a guardare il
mondo davanti a sé, e sulla sua schiena c'erano le tracce di tutta la sua storia. C’era il mondo di oggi e il personaggio con la sua storia particolare che il mondo non nota, ma noi sì perché siamo alle sue spalle. E mi sono detto che il caso di Olivier è molto simile. C’è tutta la storia di suo figlio, che all’inizio del film non conosciamo, ma osservan-
do lui da dietro vediamo qualcosa di di personale, di intimo. Eppure è qualcosa che lui non vede, perché non può guardarsi da dietro. Joan M. West e Dennis West, Taking the Measure of Human Relationships. An interview with Jean-Pierre Dardenne and Luc Dardenne, in «Cineaste», estate 2003 29
Filmare il lavoro
Quello che ci ha interessato era innanzitutto filmare il tempo del lavoro [in Le Fils]. Ci siamo accorti che non l'avevamo mai fatto ed
era una cosa che volevamo fare da molto tempo. Perché proprio la falegnameria? La falegnameria era utile perché si impara a misurare. Nel film, ancora più che a lavorare il legno, si insegna a prendere le misure, a riconoscere la giusta distanza. Lo strumento di lavoro è il metro. E si tratta di mettere in relazione situazioni apparentemente incommensurabili: il ragazzo ha ucciso il figlio di Olivier, lui lo sa... Insomma, non era la stessa cosa che imparare a usare un computer. Ci
interessava filmare i gesti del lavoro manuale. Senza dubbio questo è legato alla nostra storia personale. oltre che alla regione in cui il film è girato, che è la regione dove abbiamo passato la nostra infanzia e la nostra adolescenza, e dove il lavoro manuale aveva moltissima importanza, faceva parte della vita quotidiana,
della nostra
storia, e noi
volevamo filmarlo. Emiliano Morreale, Padri, figli e assassini; incontro con Jean-Pierre e Luc Dardenne, in «Lo straniero» n. 30/31, dicembre 2002/gennaio 2003
Specifici, spirituali
Forse riprendere gesti e oggetti molto specifici è ciò che permette allo spettatore di percepire ciò che rimane spirituale, invisibile. Tendiamo a pensare che più ci si avvicina alla tazza, alla mano, alle labbra che stanno bevendo, più si potrà avvertire qualcosa di invisibile; una dimensione che vogliamo seguire e che altrimenti sarebbe meno presente nel film. Come si cattura ciò che avviene quando viene insegnato un gesto? Per esempio, quando [in // figlio] Olivier insegna al ragazzo 1 movimenti del mestiere. Sì, c’è il fatto che l’altra persona ripeterà gli stessi gesti ma sta accadendo anche qualcos’altro. Come si può catturarlo sulla pellicola? Forse riprendendo i gesti con la massi30
ma precisione possibile si può rendere percepibile ciò che non si vede? Joan M. West e Dennis West, Taking the Measure of Human Relationships. An interview with Jean-Pierre Dardenne and Luc Dardenne, in «Cineaste», estate 2003
(traduzioni di Alba Bariffi e Daniela Persico)
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SE ANCORA DI UOMO SI PUÒ PARLARE. IL CINEMA POLITICO DEI FRATELLI DARDENNE di Carlo Chatrian
Come un pioniere l’uomo sposta i propri confini sempre più in là; si allontana sempre più da se stesso. Giinther Anders, L'uomo è antiquato
In origine la polis si contrappone a quei territori privi di ordine e civiltà che le sono estranei. Qui campagna equivale a barbarie. Il senso si perde in un territorio vacuo la cui estensione non è data e, forse, non
importa. La dimensione politica conta solo all’interno di un territorio molto ben definito nello spazio. La politica, secondo il pensiero greco, vede il mondo in termini di discontinuità. Non è questione di individui ma di luoghi in cui valgono determinate regole; solo in un secondo tempo, per estensione, gli uomini si fanno portatori di quei valori e di quelle regole in nuovi spazi. L'idea politica romana (da cui discende la nostra) si innesta qui. La natura agricola del popolo romano applica il principio greco ad un territorio: la città diviene l’ Urbe, ovvero il punto centrale di un’entità in continua espansione. Per la lingua latina, la città
(civitas) è il prodotto di un gruppo di cittadini (cives) riuniti, non
importa dove. Nella lingua greca, invece, è vero il contrario: la polis è l’entità lessicale primigenia. Un passaggio sostanziale è avvenuto tanto che l’ Urbe si può ora associare all’orbe terrarum. Urbi et orbi, appunto. Come dice Jean-Luc Nancy (La creazione del mondo, Einaudi, Torino, 2003), la formula papale che, nel rappresen-
tare un legame religioso (e territoriale), identificava l'Occidente tutto si è progressivamente svuotata di senso. Non più il “mondo intero”, ma un indefinito “dappertutto”. “Più che uno slittamento di senso, è una disintegrazione”. Oggi non solo non è più possibile identificare “la Città”, ma una città in generale così come il mondo in generale. La 33
disintegrazione di questa distinzione territoriale ha delle profonde ricadute a livello politico, proprio perché le nozioni basilari della politica (fino alla sua etimologia) su quelle distinzioni si fondavano. Il problema è che alla dissoluzione dell’unità geopolitica costituita dalla città l’uomo contemporaneo non ha saputo fornire un valido sostituto. Ed insieme alla città è l’immagine del mondo che evapora. Se il cinema dei fratelli Dardenne può essere definito politico è proprio in virtù di quest’attenzione al dato spaziale. In un certo senso nella loro filmografia si può essere leggere la storia della progressiva scomparsa della città. La mappa messa a punto dagli ultimi film descrive quel vuoto di /ogos in cui oggi l’uomo cerca di sopravvivere.
Il fiume e la città Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois (1979) è il secondo documentario firmato dai fratelli Dardenne. Il
video nasce dalla volontà di raccontare i grandi scioperi che sconvolsero il Belgio tra il 1960 e il 1961, un avvenimento storico cruciale per la storia operaia della nazione. L’angolatura scelta tende però a contrastare la “grandezza” e l'ufficialità del soggetto. Tra i tanti testimoni, il ruolo centrale è affidato a Leon M., un sindacalista filmato nella sua prima discesa sulla Mosa sulla barca che si è costruito da solo. Grazie a Leon M., nel cinema nascente dei Dardenne fa la sua comparsa il fiume, un elemento che diventerà centrale nelle fiction successive. Fin
da questo primo intervento, il fiume è spazio di libertà. Uno spazio segnato da un commento in voce off in cui retorica e lirica tendono a mescolarsi. È questo un modo, abbastanza ingenuo, per far ricadere sulle sequenze la simpatia degli autori. Il fiume e la barca (un omaggio a L’Atalante di Jean Vigo) stanno all’opposto della rigida geometria della città. Questa — pur essendo il teatro degli avvenimenti in questione — appare come un universo estraneo. È declinata al passato, nelle immagini d’archivio o nelle parole dei testimoni. I Dardenne fanno di più: mettono in scena la presenza dell’uomo nella città; in questo modo il testimone figura come una ridicola aggiunta ad una scena che sem34
bra pensata in sua assenza. L'immagine politica del corteo o del comizio, l’immagine dell’avvenuta occupazione da parte dell’uomo del centro della città, vive solo nei filmati d’archivio. La città — la polis, lo spazio del ritrovo, della discussione, della messa in atto di un discorso
politico — oggi (nel 1979) è vista come spazio vuoto. O meglio: spazio di un potere ormai autonomo, che vive anche in assenza dell’uomo.
Se si legge in questa prospettiva la filmografia dei Dardenne, ci si rende conto che il loro atteggiamento nei confronti della città si è solo precisato. Nelle traversate di Rosetta sulle strade a scorrimento rapido, nelle corse in motorino di Igor e, dieci anni dopo, di Bruno si definisce l’immagine di un’urbanistica che sembra fatta per ingabbiare l’uomo in traiettorie predefinite. All’opposto il fiume diventa lo spazio di una wilderness inattesa: luogo del pericolo dove le leggi dello stato sociale non valgono. E la sopraffazione diventa un’ipotesi seducente. È curioso che due autori così attenti a disporre le loro sceneggiature abbiano scelto di sviluppare due sequenze gemelle: tanto in Rosetta quanto in L’Enfant l’acqua cerca di inghiottire un ragazzo. Il percorso di fuga dalla società è illusorio e destinato al fallimento; tuttavia quella ribellione alle regole sociali resta lo spunto privilegiato nella trama dei film di finzione. Ed esso è già racchiuso nella figura dal signor Léon, che pacificamente scende la Mosa col suo battello, incurante di semafori, strade, ponti...
La parola: uno spazio abbandonato Nel 1981, dopo un lavoro di ricerca durato tre mesi, Luc e Jean-
Pierre Dardenne realizzano R... ne repond plus, indagine sulle radio libere d’Europa. Il commento iniziale chiarisce la premessa: “l’azione politica fu innanzitutto una questione di voce”. Si badi, di voce e non di parola. La differenza lessicale segna la distanza che intercorre tra i video dei Dardenne e il cinema politico targato “anni Settanta”. Pur essendo cresciuti in una regione siderurgica che è stata la culla di uno dei più forti movimenti sindacali del Belgio, pur essendosi formati alla parola teatrale di Armand Gatti, i Dardenne appartengono ad una gene35
razione nuova, che vede con distacco o nostalgia le prese di parola del cinema interventista post sessantottino. Presagendo i disastri degli anni Ottanta, i due fratelli iniziano a diffidare dell’onnipotenza della parola. R... ne repond plus è da questo punto di vista emblematico. Gli studi delle radio si assomigliano tutti, non sembrano certo delle centrali di potere e neppure luoghi animati da un furore sacro. In fin dei conti riflettono una sorta di apatia o di presa di distanza emanata dalle voci degli intervistati. Se le loro parole sono elogiative, il tono e i volti tradiscono un’altra verità: l'impressione che la parola non sia più il luogo di un agire politico e che la voce fatichi a traforare l’etere. Si respira forse già la dittatura dello show televisivo e la scelta di un progetto trasversale e multilinguistico (tra le radio figura anche l’italiana Radio Popolare) suona anche come un tentativo di rivolta ad una strategia di appiattimento culturale che inizia a profilarsi. La scelta della radio è sintomatica anche ad un altro livello: rappresenta la volontà di indagare uno strumento di comunicazione di massa nel momento in cui tale ruolo tende ad essere messo in discussione. La preoccupazione di arrivare a toccare le persone sta alla base dell’agire dei Dardenne: le scelte estetiche che li caratterizzeranno non possono essere comprese se si prescinde dal percorso che le ha precedute. Storicamente i Dardenne arrivano prima alla parola (via il teatro) che all'immagine. E la scelta di un cinema di parola, di analisi e di riflessione, è la prima strada che 1 fratelli intraprendono quando si confrontano con il lungometraggio. Fa/sch — film tratto dall’omonima pièce di Kalisky — può sembrare un incidente di percorso; è invece la più logica delle conseguenze. L’idea di realizzare un film, in cui la parola è il luogo politico abitato dai personaggi, è il naturale proseguimento di quella perlustrazione condotta nel lavoro in video. Lì i Dardenne avevano compreso come il presente parli sempre di meno e sempre con maggiore fatica. Con Regarde Jonathan (1983) avevano messo alla prova la lezione brechtiana, toccando anche inediti toni surreali e ironici; Falsch, testo carico di senso, ricco di ricadute sul significato della fine di un’epoca, prosegue quell’opzione. Realizzare Fa/sch, un film in cui si rilegge e si reinterpreta un testo già denso di riflessioni, è un atto del pensiero positivo: rendere omaggio alla resistenza dell’uomo alle 36
cose, alla sua intelligenza e alla capacità di leggere la storia. La tragedia del sopravvissuto all’Olocausto diventa un film fantasmatico, ambientato com’è in uno dei classici non-luoghi del presente. Nelle sale e nei corridoi di un aeroporto i Dardenne hanno modo di richiamare, non solo il passato storico del protagonista, ma anche tutta
una fetta di storia del cinema. La messa in scena gioca sul citazionismo, dispone con cura i personaggi nello spazio fino a creare veri e propri balletti. L'adattamento sembra insomma strizzare l’occhio alla riflessione metalinguistica che il loro mentore Chris Marker ha così ben tracciato. Lo spazio astratto della scena non si rivela però il luogo idoneo alla sensibilità dei fratelli. L’insuccesso di Fa/sch li spingerà verso la strada opposta, verso un cinema di luoghi concreti, di lunghi silenzi e di azioni improvvise. La riflessione politica verrà introiettata ed espressa attraverso la configurazione dei personaggi e la disposizione degli spazi.
L’uomo non è (più) il destino dell’uomo
Je pense à vous (1992) è in un certo senso il primo film dei Dardenne. Quasi si trattasse di un’opera d’esordio i registi vi hanno inserito tutto il complesso di location che poi indagheranno con maggiore precisione nei film successivi. Dopo le incursioni teatrali o metacinematografiche (vedi anche il corto // court, il court le monde) la scena ritorna a Seraing, nei quartieri operai tra fabbriche e fiume. Il film nasce come il frutto di un lungo lavoro di ricerca sulla crisi della siderurgia negli anni Ottanta (un documentario che aveva come titolo preparatorio Vulcain chomeur); la sceneggiatura del film risente però anche della mano di Jean Gruault (sceneggiatore per Truffaut e Resnais) e del suo gusto per il romanzesco sentimentale. Il risultato è un’opera troppo piena, talvolta didascalica che parte in tante, troppe, direzioni. Riletto a oltre dieci anni di distanza, colpisce anche la pre-
senza di un ‘“découpage” molto serrato, che sa di “Cinema” e che impedisce alla base documentaria di emergere. Il film manca di quel lavoro di sottrazione che non è solo operazione estetica ma essenzialmente 87
politica. Se la fattura è ancora lontana dallo stile “Dardenne”, il sog-
getto e il taglio dei personaggi esprimono già un pensiero nuovo sul lavoratore e sulla società. Fabrice, l'operaio disoccupato, vive la tragedia della privazione della sua identità. Non è un impiego generico quello di cui ha bisogno, ma il “suo” lavoro. Quasi si trattasse di uno spazio politico, il lavoro è la professione su cui Fabrice ha costruito il suo essere uomo e operaio (leggi: cittadino, ossia appartenente ad una comunità). La fine di questo spazio collettivo è la tragedia terminale da cui prenderanno spunto i film successivi. Je pense à vous è un film sull’umiliazione, nel senso in cui la intende Giinther Anders quando parla del ‘900 come del secolo della vergogna. Vergogna di essere uomo, di non poter essere all’altezza della perfezione tecnologica delle macchine. Ancora profondamente ancorato nella logica operaia del secolo trascorso (ai Dardenne le macchine e la tecnologia non sono mai interessate), il film sigilla la fine dell’homo faber e dà l'avvio ad un percorso di definizione di una nuova tipologia umana. A partire da La Promesse, e quindi, più drasticamente, con Rosetta, il loro sguardo si restringe. Si chiude attorno al nuovo uomo, cercando di seguirlo come farebbe un etnologo, con curiosità e stupore.
Teatro di guerra: il volto di Rosetta
Epurato da ogni scoria sentimentale, ricacciate tutte le tentazioni storicistiche, il cinema dei Dardenne può finalmente confrontarsi con la realtà. La Promesse e soprattutto Rosetta concludono un lento corteggiamento che ha visto gli autori belgi compiere uno strano détour per arrivare alla loro passione di sempre, l’uomo. L'elemento di novità sta nella posizione assunta, nel taglio dello sguardo e ovviamente nella riduzione di ogni distanza fisica tra chi guarda e chi è visto. In un certo senso, Rosetta potrebbe essere descritto come la sfida di raccontare una storia filmando quasi esclusivamente il volto e il corpo di una persona. Mentre lo spazio esterno si riduce e perde definizione (in entrambi i casi si tratta di terre vuote, abbandonate, non più città e non ancora campagna), il corpo dell’uomo si fa carico di veicolare il discorso politico. 38
Qui si compie il passaggio dalla parola all’azione. Rosetta è il prototipo di un nuovo guerriero. La nemesi perfetta del colonizzatore romano, l’emarginato che sfrutta la sua energia per sabotare — come può e come ha imparato — le regole del vivere sociale. Nella giovane ragazza in lotta per conquistarsi un posto di lavoro — ovvero, secondo la personale rilettura dello schema marxista, uno spazio sociale e politico — l’urgenza dell’agire precede ogni forma di discorso politico. Proprio in virtù del suo essere fuori da ogni schema, la guerra di Rosetta contro i suoi simili (e non contro dei padroni che ormai non ci sono più) diventa strumento di denuncia e di riflessione. Non diversamente dalle rivolte che in questo novembre 2005 infiammano le “banlieue” francesi, l’azione di Rosetta crea disagio, perché irrazionale e inattesa. Mette alla berlina l'ipocrisia occidentale che ancora vorrebbe che un logos regnasse sulla città, quando né il primo né la seconda sono più in vita. Ogni gesto di Rosetta — la ragazza privata di emozioni e di sentimenti — è brutale e violento. È come un pugno nella pancia dello spettatore. In questo senso Rosetta è il film più estremo e compiuto degli ultimi anni. Un film privo di barriere e di distanze, privo di parole e carico di umori. Un film capace di riportare indietro l’uomo alla sua origine. Il volto di Rosetta è la matrice da cui prendono il via anche 1 due progetti successivi. Tanto Le Fils quanto L’Enfant esprimono il tentativo di riportare sulla terra l’urlo della ragazza ribelle. La posizione estrema di chi non possiede nulla (nemmeno le parole per esprimere 1 propri sentimenti) risulta in gran parte mitigata. I ragazzi hanno almeno un interlocutore che ne modera l’irruenza e che contribuisce a riportare un pò di ordine — anche a livello visivo — nella realtà. L’Enfant da questo punto di vista è esemplare: la visione di un mondo mercificato, svenduto senza neanche troppe contrattazioni, viene un pò alla volta addolcita. Insieme al pentimento del protagonista fanno la loro comparsa figure prese in prestito dal Cinema, e gangster di bassa categoria rischiano di farne un film di genere. Per fortuna i Dardenne sanno tenersi alla lontana da ogni cliché: e la reazione del cittadino derubato è in fondo più terribile di quella del malvivente! Resta però l’impressione (qui come altrove) che l’happy end sia solo una concessione al botteghino. O forse quest’abdicazione alla lotta e il conseguente adeguamen39
to ad una morale ed ad un ordine stranieri suonano ancora più sinistri. Come se inevitabilmente insieme al mondo sia destinato a dissolversi anche l’uomo. Ma se, invece, l’uomo riuscisse a resistere a questo ordi-
ne senza regole? AI cinema allora spetterebbe il compito di trovargli uno spazio. Forse, allora, il prossimo film dei Dardenne sarà — secondo la
geniale formula di Herzog — un documentario di fantascienza.
Qui non ci sarò io.
Ci saranno i miei capelli e le mie unghie, che non sapranno che il resto è morto e continueranno a crescere e diventeranno polvere. Qui non ci sarò io, che farò parte dell’oblio che è la tenue sostanza di cui è fatto l’universo. Jorge Luis Borges, La recoleta
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IL FRAMMENTO, di Daniela Persico
IL VOLTO E L'ANIMA
Che cosa bisogna ancora sconvolgere, distruggere dei codici? Quello che è importante per un film, È riuscire a ricostruire l’esperienza umana. Uno sconvolgimento,
vista l’assenza di questa esperienza nel nostro tempo. Luc Dardenne
Sorprendere l’istante. Correre, inseguire gli scioperanti. Una videocassetta lasciata nelle mani dei rivoluzionari a testimonianza di quello che stava accadendo. Così i fratelli Dardenne si accostano inizialmente al mezzo espressivo che li renderà noti al pubblico dei grandi festival. Gli anni Settanta, le rivolte operaie in terra Vallone: ha inizio qui la loro lunga esperienza audiovisiva, quasi vent’anni di carriera alla ricerca di una formula espressiva compiuta. Accompagnati da una costante riflessione teorica, i video dei due fratelli belgi si pongono come primo obiettivo di essere un atto di testimonianza. Al principio i Dardenne sono lontani da qualsiasi intenzione artistica: rifiutano il montaggio e giudicano i loro ritratti d’operai come opere di fruizione immediata. Solo successivamente l’attenzione al reale si contamina degli stilemi consacrati e poi superati da Jean-Luc Godard, peraltro già sperimentati dai fratelli nella fase teatrale giovanile, guidata dalla personalità dell’intellettuale rivoluzionario Armand Gatti. La ricerca di uno stato di straniamento in cui lo spettatore dovrebbe essere portato a riflettere sulle mancate rivoluzioni del decennio precedente contraddistingue la loro trilogia della memoria. Le Chant du Rossignol, Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois e Le Journal fanno eco alle modalità riflessive di molti documentari politici di quegli anni. 41
sane to;
n
A volte la citazione diventa più esplicita (l'evidente ripresa di Train en marche di Chris Marker in Léon M.); altrove è riverbero lontano del-
l’incisività di Godard (la costante voce fuori campo che prova a raffreddare la potenza delle immagini d’archivio in Léon M.). Eppure nell’opera documentaria dei Dardenne non si arriva mai a mettere in discussione la verità dell'immagine. Non esiste un lavoro di destrutturazione delle fonti, piuttosto si resta incerti tra la potenza della rievocazione e la disillusione del commento, colpiti dai testimoni scel-
ti affinché la loro singola memoria possa diventare memoria collettiva. Punto nevralgico delle riflessioni di Gatti, la memoria, per essere incisiva, diventa uno stato presente. Infatti, nei documentari dei Dardenne
non esistono flashback: la realtà presente e quella passata vengono poste sullo stesso piano. Ne è esempio la messa in scena del passato rivissuto da Edmond, autore di una rivista clandestina e protagonista di Le Journal. La rappresentazione della sua amara vicenda, narrata senza il supporto d'immagini d’archivio, si basa sul far ripercorrere al protagonista gli eventi che l’hanno condotto al licenziamento. La funzione catartica svolta su Edmond si estende allo spettatore: distaccato dagli eventi grazie alla loro astrazione e allo stesso tempo partecipe grazie alla loro manifesta rappresentazione. Il dualismo ricettivo segna indelebilmente anche le ultime opere dei fratelli Dardenne. Punto d’attrazione per i loro film di finzione è la scoperta dell’altro da sé, che sia la dimensione materna (La Promesse),
quella amorosa (Rosetta) o quella estrema del perdono (Le Fils). I finali dei loro lungometraggi scelgono come ultima immagine la presa di coscienza del personaggio. Un figlio perdona il padre che aveva lasciato sterminare
l’intera famiglia durante
l’epoca nazista (Fa/sch),
un
ragazzo per la prima volta comprende il valore del proprio bambino (L’Enfant): due istanti in cui il flusso d'immagini s’interrompe, scuo-
tendo bruscamente lo spettatore. Non v’è dubbio che l’opera dei Dardenne sia in grado di rivolgersi in modo molto diretto (deliberatamente, verrebbe da dire) allo spettatore, allineandolo alla coscienza rag-
giunta dai protagonisti delle vicende e trasformando un'esperienza individuale in una presa di coscienza collettiva. Ancora una volta il processo è doppio, o meglio triplo a causa delle triplici prese di coscienza: una HH
avviene a livello diegetico, una a livello filmico e una a livello spettatoriale. Nella messa in scena affiora una dimensione duale, un continuo
conflitto in cui lo spettatore si ritrova in bilico tra uno stato d’inclusione e uno stato di esclusione rispetto alle vicende raccontate.
L’immagine escludente Il loro primo
successo
internazionale,
La Promesse,
racconta
la
maturazione di un figlio cresciuto in simbiosi con un padre ottusamente malvagio, culminando nella concretizzazione dell’assenza dell’altro da sé nelle loro misere esistenze. Non è un caso che l’attenzione dello spettatore si catalizzi sulla scena centrale del film, quella in cui padre e figlio, Roger e Igor, trascorrono una serata in un locale di karaoke con due accompagnatrici occasionali. La sequenza è l’unica ad essere accompagnata da una colonna sonora (seppur rigorosamente diegetica) e proprio per questo colpisce in modo particolare l’attenzione dello spettatore. Eppure, analizzando la sequenza si nota un altro catalizzatore dell’attenzione: al lungo soffermarsi della macchina da presa sui volti dei due protagonisti manca un seppur veloce controcampo, tanto più che al loro tavolo siedono anche le due donne. L'occasione di una patetica iniziazione sessuale si trasforma nel momento di maggior coesione tra padre e figlio. Lo stretto primo piano sul volto dei due, trasfigurati guancia a guancia in una sola voce e in una sola persona, induce ma preclude ogni possibile fuoricampo. Il pubblico del locale non esiste più, come le prostitute che li accompagnano sono sparite di fronte all’unione così solida, perché mai messa in discussione, tra padre e figlio. La realtà di Igor è tutta contenuta in quell’immagine esclusiva e totalizzante che rompe con ogni tradizionale racconto cinematografico. Lo stretto primo piano, di cui non viene mostrato il corrispettivo controcampo del pubblico della balera, isola lo spettatore del film come fosse l’unico spettatore della scena, ponendolo in una posizione provvisoria e privandolo degli agi della visione onnisciente. La visione parziale mette in questione non soltanto lo spazio del film ma anche lo spettatore, pronto ad interrogarsi sugli evidenti vuoti che il film offre. 45
Ma l’assenza del controcampo ha nel film un ruolo più ampio e strutturale. Innanzitutto è l’esclusione dell’altro nell’educazione di Igor a manifestarsi nell’assenza del controcampo: non vi è soltanto l’esclusione dell’immigrato, visto unicamente come manodopera a basso costo, ma soprattutto l’esclusione della figura materna. Nel film la madre non è mai nominata, di lei si nota soltanto il peso di una terribi-
le assenza che porta Igor ad avvicinarsi con curiosità ad Assita, moglie fedele e giovane madre.
Partecipazione e straniamento
In Rosetta l’esclusione dello spettatore arriva fin dalla prima scena: la corsa forsennata della ragazza, ripresa di spalle mentre apre e chiude la serie di porte che le si parano di fronte è tutta contenuta in una successione di piani sequenza. Come nel cinéma-verité, l’intervento della macchina da presa è un’irruzione fisica e quindi può essere bloccata: lo spettatore resta bloccato al di fuori delle porte che Rosetta sbatte. Nella sua rabbia il personaggio lo lascia indietro, costringendolo a guardare schermi neri prima che possa proseguire l'inseguimento. Lo spettatore si ritrova fin dal principio in una situazione di disagio: in Rosetta si ha una situazione di esclusione dalla visione e di fuga del personaggio. Dobbiamo aspettare la seconda sequenza per scorgerne il volto: estromessa dall’azienda dove lavora, Rosetta ha terminato la sua lotta e mangia una cialda ai margini della strada. Lontani da ogni psicologismo, i Dardenne mostrano una ragazza che è costretta a vivere in una roulotte, che vuole cambiare vita e sa che c’è un solo modo per farlo: trovare un lavoro. Il suo obiettivo è chiaro e lo spettatore seguirà senza sosta la lunga ricerca di Rosetta, standole il più vicino possibile e vedendo il mondo come lo vede lei, in una semisoggettiva altalenante. La partecipazione empatica al film dovrebbe risiedere proprio in questa partecipazione al mondo visuale della protagonista. La semisoggettiva è una scelta meno marcata ma più efficace della soggettiva: con essa è possibile sia un’identificazione del pubblico nel personaggio, che è sempre presente in scena, sia un’identificazione pressoché totale tra la 46
visuale dello spettatore e quella del personaggio. In più, è proprio grazie alla semisoggettiva che i Dardenne portano alle estreme conseguenze la mancanza di alterità che già segnava La Promesse. Rosetta è sola contro il mondo, nel suo progetto gli unici valori sono la sopravvivenza ed i suoi bisogni primordiali: mangiare, bere, dormire. Rosetta vuole essere diversa dalla madre alcolizzata e riuscire con le proprie forze ad ottenere una vita migliore. Ancora una volta, l'adolescente descritta dai Dardenne soffre di una mancanza (quella paterna) e di un’ossessione (quella materna). L’alterità tra le due donne è evidenziata dalla colonna
visiva che solo raramente raccoglie madre e figlia in un unico fotogramma. Nei pochi e scarni dialoghi, le due donne sono separate all’interno del piano sequenza da alcuni fotogrammi di pavimento o prato, tratti apparentemente di pura concatenazione tra le due figure. In realtà, questi fotogrammi possono essere letti alla luce dell’espediente brechtiano che i Dardenne avevano già sperimentato in Falsch: mostrare lo spazio del conflitto, della mancata comunicazione. Rosetta alterna ad alcune scene in cui lo spettatore nel suo essere partecipe degli avvenimenti non li domina più (al contrario li subisce), ad altre che suscitano un evidente effetto di straniamento. Fin dalla prima sequenza del film la percezione è quasi infastidita dai bruschi sobbalzi della macchina da presa. Il licenziamento, la lotta di Rosetta
con la madre e con Riquet, le corse nel bosco sono paradigmatiche di una visione parziale e segnata dalla difficoltà percettiva. La visione si rinsalda e si stabilizza soltanto nelle sequenze statiche che mostrano i pochi momenti sereni di Rosetta. La messa in scena del film è volta quindi a far vibrare lo spettatore al ritmo degli eventi vissuti dalla protagonista. Caso emblematico è la scena del licenziamento di Riquet: Rosetta è voltata rispetto allo spettatore, cui è dato di vedere la scena esattamente al di sopra delle sue spalle. In profondità ci sono il principale, parzialmente girato, e Riquet posto di fronte a Rosetta. Il ragazzo è poco interessato alle rimostranze del padrone, resta invece allibito per il comportamento di Rosetta che ha tradito la sua fiducia. Lo sguardo di Riquet verso Rosetta si trasforma, nella semisoggettiva in cui è girata la scena, in uno sguardo in macchina: la più forte marca d’interpellazione del film. Lo spettatore è chiamato ad essere vittima della scena, a farsi 47
carico della colpa di Rosetta, fattore questo che in seguito gli permetterà di accompagnarla ad intraprendere la strada dell’espiazione fino all’ultimo, lungo sguardo fuori campo di Rosetta. Meno immediato, ma altrettanto marcante, è l’effetto di straniamen-
to creato dai Dardenne. Quando Rosetta e la madre litigano sull’argine del laghetto, un piano sequenza segue le due donne che stanno tornando verso casa a braccetto; all’improvviso la madre si divincola dalla
figlia lasciandola cadere in acqua. La macchina da presa riprende in continuità la caduta della ragazza nel lago, la madre che scappa dalla parte opposta e Rosetta in acqua che rischia di annegare. Sola a dibattersi in acqua, Rosetta non ha il sostegno di nessuno nel momento del bisogno, persino lo spettatore è tenuto a distanza, lontano, come fosse sulla riva del lago, impossibilitato a partecipare anche solo emotivamente alla vicenda. Accade qualcosa di diverso quando a cadere nel lago melmoso è Riquet: la macchina da presa si concentra sul volto di Rosetta, percorrendo con la solita carrellata lo spazio che separerebbe la ragazza dal salvare il suo unico amico. Il persistente primo piano del volto di Rosetta ben racchiude il suo desiderio recondito: lasciare annegare Riquet, ottenendo così il suo lavoro. È come se la materializzazione di questo desiderio segreto si traducesse di un’assenza del fuoricampo: un modo di negare l’esistenza dell’altro che è entrato nella sua vita. E quando 1l desiderio si realizza, per Rosetta, che ha ottenuto con il tradimento il lavoro di Riquet al chiosco, non esiste più la possibilità di un fuoricampo: gli avventori diventano solo voci e sagome indistinguibili.
Il volto negato
In Le Fils, lo spettatore può soltanto spiare. E in effetti, da sopra la nuca di Olivier, veniamo molto lentamente a conoscenza della vita di un uomo, del suo terribile segreto. Olivier insegna il mestiere di falegname a ragazzi difficili ospiti di un centro rieducativo. Il ritmo preciso dei suoi gesti quotidiani viene rotto dall’arrivo di un nuovo allievo. Dopo diversi tentativi falliti, riesce a scorgerne appena le sembianze attraverso il vetro posto sopra la 48
porta della direzione. Ancora più importante è che lo stesso spettatore sia costretto alla cecità dalla presenza del corpo grosso e goffo dell’uomo, che nel suo sforzo occupa ogni campo. Più volte ritorna durante il film l’impressione di non riuscire a vedere, di non poter cogliere una realtà occlusa che ci sfugge per mancanza di elementi rivelatori. La cecità è una vera frustrazione per lo spettatore incapace di osservare ciò che ha davvero di fronte: l’uomo Olivier. I suoi gesti ripetitivi, le sue
corse lungo i corridoi, i ripensamenti sono gli unici atti che da dietro le sue spalle ci è dato di osservare. Non cresce soltanto una curiosità nei confronti di quel ragazzo appena arrivato, quanto piuttosto l’alone di mistero che Olivier si porta con sé, un mistero celato dietro l’impossibilità di una qualsiasi visione. C’è una nuca sullo schermo, una volontà
di negare un volto. Così come Olivier cerca l’invisibile coscienza di Francis, lo spettatore a sua volta non può scorgere il volto (e con esso il soffocante mistero) di Olivier. Anche nel momento in cui il ragazzo e Olivier iniziano ad entrare in rapporto c’è sempre un segnale di difficile ricomposizione tra le solitudini e le irrequietezze dei due. I loro volti non si affrontano, ognuno preferisce guardare davanti a sé. Ritornano i fotogrammi di distanza che separano Olivier da Francis e dalla ex moglie: lo spazio della mancata comunicazione prende ancora una volta forma. Soltanto quando Francis chiede a Olivier di diventare suo tutore, l’uomo ha finalmente il coraggio di lasciare maggiore spazio alla visione dello spettatore. Specchiandosi nel bagno, l’uomo lancia un lungo (seppur riflesso) sguardo fuori campo: un modo per coinvolgere lo spettatore direttamente, per richiamarlo a porre l’attenzione su quel volto. Finalmente pronto a renderci partecipi del proprio mistero, l’uomo inizia una comunicazione con l’altro da sé. E allora il volto diventa un profilo, un mettersi in relazione (seppur di scontro) con Francis, un lasciare fruire agli spettatori l’inseguimento tra le cataste di legname in una successione di profondi campi medi. E la possibilità finale per Olivier, perdonando l’atto inconsulto di un bambino incosciente, di dividere equamente con lui l’inquadratura.
Proprio l’indagine sul fuoricampo ha portato alla luce il punto più alto raggiunto dai Dardenne: l’individuare l’essenza dell’impressione di 49
realtà nella dialettica tra autore e spettatore. La nenia recitata da Rosetta prima di dormire (“Tu ti chiami Rosetta. Io mi chiamo Rosetta. Tu hai trovato un lavoro. Io ho trovato un lavoro. Tu hai trovato un amico. Io ho trovato un amico. Tu hai una vita normale. Io ho una vita normale. Tu non finirai in un buco nero. Io non finirò in un buco nero”) rende manifesto il bisogno dell’altro, di colui che mette in scena così come di
colui che la interpreta. “La genesi del vedere nei suoi film non si realizza come la sparizione, l’annullamento dello sguardo del cineasta, della sua soggettività ritagliatrice d'immagini a vantaggio di un reale che si darebbe esso stesso a vedere” scrive Luc Dardenne a proposito del documentarista Van der Keuken, ma l’affermazione potrebbe ben adattarsi al suo modo di far cinema: la presenza costante della macchina da presa a mano è volta a rendere quasi fisiche le istanze comunicazionali del testo. Lontani dall’estetica del mostrare tutto cara agli iniziatori del Dogma, i Dardenne nascondono il cuore freddo e riflessivo delle loro opere sotto le apparenze di un ipervoyerismo mai stato tanto casto. I due fratelli, riprendendo il pensiero del filosofo Emmanuel Levinas, annotano sul quaderno di lavorazione di La Promesse: “L'etica è un'ottica”. Niente di più confacente al loro cinema, che conduce lo spettatore, attraverso lo sguardo, a vivere l’esperienza etica che Levinas ama chiamare visione escatologica.
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FIGLI GENITORI. UN’ANTIPEDAGOGIA di Anton Giulio Mancino
IN QUATTRO ATTI
Un ragazzo che, a giudicare dall’aspetto, è appena maggiorenne cammina per strada spingendo un carrozzino. È l’immagine chiave de L’Enfant. Dentro c’è suo figlio, poco più che un neonato. Non sa cosa fare ora. O meglio non sa cosa fare del bambino. Di lì a poco diventa chiaro: si appresta a venderlo. La sua ragazza, sconvolta dal gesto, sviene ed è ricoverata in ospedale. Non vuole più vederlo. Lui, dopo aver invano cercato di convincerla della giustezza dell’azione, recupera il bambino. Ma non basta. Anche la polizia lo interroga per far luce sulla faccenda. Ora il ragazzo torna per strada. Con il carrozzino vuoto. Vuole vendere anche quello. Certo, perché ha bisogno di soldi e forse perché capisce il denaro più della sua nuova condizione di padre. Ma soprattutto perché cerca di dare un senso a se stesso, e implicitamente al bambino. Il film si può riassumere in questi termini, visivi: un bambino che ne trasporta un altro. E se ne sbarazza perché non è neppure in grado di badare a se stesso. Come in ogni film dei fratelli Dardenne, non è dato di sapere a cosa stia pensando il personaggio: il suo mondo interiore si evince dal comportamento, che acquista uno spessore complesso, psicologico, grazie alla durata prolungata dell’inquadratura che lo contiene (e torna a riprenderlo ancora in momenti diversi, sparsi lungo tutto l’asse temporale del film), confondendosi a livello sonoro con i rumori d’ ambiente.
L'ambiente a sua volta, il quartiere periferico della città in cui egli vive, trasmette un’impressione contraddittoria, di estraneità e appartenenza. Lo sforzo del protagonista maschile de L’Enfant consiste proprio in questo: adattarsi allo spazio urbano che lo circonda ma nel contempo lo respinge silenziosamente: lo contiene senza comprenderlo e senza fornirgli le coordinate necessarie per muoversi e agire nel migliore dei mo(n)di possibili. A lui non resta che agire, comunque. Naturalmente lo fa sbagliando. Sbagliando cioè agli occhi di tutti quelli che, per ragioni diverse (legali, criminali, familiari, sociali, morali), lo giudicano, lo
redarguiscono, lo picchiano e lo escludono ulteriormente. e
>il
Un’informazione a questo punto si rende necessaria: il nome del ragazzo è Bruno. Quello della ragazza Sonia. Ma nei film dei Dardenne, i nomi contano relativamente. Sono intercambiabili, come i personaggi da un film all’altro. Potrebbero chiamarsi Igor e Rosetta, ad esempio. Non intercambiabili sono invece i corpi: nei panni di Bruno c’è proprio Jérémie Renier che, più giovane di 10 anni, interpretava il figlio disobbediente di La Promesse. Non è un caso: La Promesse e Rosetta ritraggono in particolare due ragazzi poco più che adolescenti, rimasti intimamente bambini nell’approccio ai problemi: la loro età risente drammaticamente del ruolo difficile e spesso ingrato di figli. In quanto figli devono occuparsi o preoccuparsi dei genitori, e quasi sempre nella cattiva più che nella buona sorte. Igor innanzitutto, novello assistente di un dottor Frankenstein non meno sinistro, tradisce il patto amorale che Roger, suo padre intende stabilire con lui. Lo fa perché scopre a sua volta una acerba vocazione paterna: si dedica infatti alla moglie e al bambino piccolo dell’immigrato africano al quale ha fatto la “promessa” del titolo, obbedendo istintivamente, perché preso alla sprovvista, all'impulso di un atto gratuito ma necessario. Pur senza aver fatto un figlio, pur faticando ad accettare un padre privo di qualsiasi senso comune e umano (all’infuori di un familismo fatto di complicità criminale e omertosa e di una degradata solidarietà maschile), si sforza di proteggere una donna e un bambino inseparabili e sventurati, tentando così di recuperare un contatto con la madre assente (non si sa che fine abbia fatto; il film non lo dice, e non ne ha bisogno dal momento che può concentrarsi sulle con-
seguenze di questo squilibrio originario). Il suo essere figlio di un padre ma non di una madre ha generato un rapporto dove l’affetto si trasforma, per effetto dell’azione di un genitore ignobile verso gli altri ma generoso nei confronti del sangue del suo sangue, in una forma grave di sociopatia. E il frutto disfunzionale ma terribilmente coerente di una confidenza quotidiana e indolore con la prassi illegale: questa cellula familiare sui generis pratica e capitalizza il principio di esclusione/sfruttamento delle non-persone immigrate, il cui unico valore riconosciuto è quello di scambio, manodopera a basso costo, forzalavoro estremamente flessibile da immettere nel mercato. Questo spieDO
ga la precoce e inconsapevole assunzione di responsabilità paterna in Igor (in La Promesse), che idealmente qualche anno più tardi (in L’Enfant) — grazie alla scelta allusiva di usare lo stesso attore — dovrà di genitore. Se lo schema fare i conti con una vera e propria condizione di Igor di legare, nel sotscelta la fosse stato edificante e pedagogico, tofinale di La Promesse, il padre-padrone Roger a una catena, come un animale incapace di condividere le norme elementari di un contratto sociale già molto restrittivo, avrebbe comportato nell’alter ego Bruno una più matura predisposizione al ruolo di genitore. Invece le cose vanno diversamente. Il disagio di figlio (di Igor) si riflette, senza soluzioni di continuità, in quello del neo-padre (Bruno). Il distacco da un genitore negletto poteva prefigurare un destino migliore, ma ha registrato una battuta d’arresto allorché le parti si sono ribaltate. Va detto che un bambino cresciuto ma non troppo come Bruno non è nemmeno paragonabile all’adulto Roger, genitore che corrompe, istruisce in maniera nefasta e ricatta l’adolescente Igor. La differenza non passa inosservata. La sciagurata iniziativa di Bruno di svincolarsi dalle incombenze paterne nasce dalla percezione quasi incosciente della propria inadeguatezza, dallo smarrimento indolente, da una fragilità essen-
zialmente psicologica. Mentre il progetto di Roger, che fa sparire il cadavere dell’immigrato, costringe il figlio a macchiarsi del medesimo reato e cerca di sbarazzarsi con l’inganno e la forza della moglie del defunto, avviandola alla prostituzione, è apertamente criminale. Colpiscono a questo riguardo i personaggi emblematici affidati all’attore Olivier Gourmet, che incarna, in diverse e spesso contrastanti circostanze, l’adulto di sesso maschile in tutte le possibili sfaccettature: Roger, il padre degenere
(La Promesse);
il datore di lavoro che
pensa prima ai figli poi ai dipendenti, licenziando perciò Rosetta (Rosetta); il padre che non si capacita della morte del figlio (Le Fils); il poliziotto in borghese che interroga Bruno sulla compravendita del bambino (nella breve ma significativa apparizione di L’Enfant). Tra questi personaggi la demarcazione è spesso netta, specialmente se si prendono in esame il primo e l’ultimo di questa galleria (il padre che sfrutta gli extracomunitari e il poliziotto): uno trasgredisce la legge, l’altro la tutela. Eppure c’è nel poliziotto, in quanto emblema dell’auto54
rità istituzionale (dunque di uno Stato di tipo patriarcale che censura e reprime), lo spirito di rivalsa trasversale sul “figlio” perduto (il cittadino prima minorenne, Igor, poi maggiorenne, Bruno). Insomma, dopo aver violato il tabù della sottomissione ne La Promesse, dentro lo sche-
ma familiare di matrice maschilista, l’ex figlio ingrato è stato colto in fallo ne L’Enfant nella veste di improvvisato e inadempiente padre. Peraltro non è l’intervento del pubblico ufficiale a far recuperare a Bruno la consapevolezza dell’altro, ma è il ragazzino complice dello scippo a offrirgli una seconda chance. Bruno esercita finalmente la funzione paterna, protettrice, quando lo salva dall’annegamento e dall’ assideramento e poi gli risparmia il carcere, addossandosi completamente la colpa del reato commesso. Gli restituisce le chiavi dello scooter, come se cercasse di ridare al suo bambino il carrozzino venduto per quattro soldi. Poi, di fronte alla sua compagna, trovandosi nel luogo del-
l’espiazione della pena, scoppia in lacrime. È come un ex padre ritornato bambino che cerca di essere consolato dalla madre, trova conforto
in una madre che ha appena imparato a sentirsi tale. Sonia, la madre di suo figlio: il cortocircuito continua. Spostandosi sul versante femminile, sebbene il personaggio di Sonia sviluppi ben prima del suo uomo un forte attaccamento al bambino e, grazie anche all’intervento di aiuto-controllo dei servizi sociali, cominci quasi immediatamente a pensare in termini familiari e non più individuali, la sua condizione preliminare lascia molto a desiderare: rifiuta-
ta e sbattuta fuori di casa dai genitori, cui si è rivolta in cerca di aiuto e di affetto, non può non far leva sul compagno Bruno. I due, sin dall’inizio, si aiutano a vicenda, si aggrappano l’uno all’altra, come possono. Si sforzano di stabilire un rapporto duraturo elaborando un fragile progetto familiare. Sonia è una ragazza altrettanto priva di punti di riferimento nell’universo degli adulti, ma si trova a dover gestire un bambi-
no. E questo fa di lei una persona adulta, comunque. Scampata al tentato suicidio, anche la Rosetta dell’omonimo film avrebbe potuto diventare una ragazza madre e somigliare in tutto e per tutto alla Sonia de L’Enfant. Rosetta sarebbe rimasta incinta dopo essersi legata allo stesso ragazzo, Riquet (interpretato da Fabrizio Rongione), cui aveva tolto il posto di lavoro denunciandolo. Tra quel ragazzo e l’attuale Bruno non S5
sembra esserci una distanza insormontabile: sono anch’essi personaggi contigui, in grado cioè di trascorrere, sotto diverse spoglie e con nuovi nomi, da Rosetta a L’Enfant, così come l’Igor de La Promesse diventa,
senza che nemmeno cambi il volto dell’attore, il Bruno di L’Enfant. I Dardenne non stanno cercando di costruire una saga come fece Truffaut con Antoine Doinel. Il loro progetto trascende la semplice continuità onomastica e l’evoluzione di un carattere in senso romanzesco tradizionale (ciò che, dopo / quattrocento colpi, è accaduto al personaggio interpretato da Jean-Pierre Léaud). I collegamenti tra La Promesse, Rosetta, Le Fils e L’Enfant non sono accidentali, né tuttavia
obbediscono ad una logica seriale, che in Truffaut corrispondeva ad una parabola discendente, sia a livello stilistico che ideologico, segnata dal sostanziale imborghesimento del suo portavoce Doinel. Qui i film, siglati dalla fissità dell’inquadratura (La Promesse e L’Enfant) o dalla mobilità estenuante della camera a mano (Rosetta e Le
Fils), nascono da un bisogno di approfondire lo spazio relazionale e comportamentale dei singoli personaggi, anche predisponendo in ciascuno un cambiamento tanto radicale quanto intimamente contraddittorio: il padre criminale che dà la caccia al figlio ne La Promesse lo fa perché non vuole perderlo, esattamente come ne Le Fils il falegname, il quale, inseguendo l’ossessione di recuperare anche lui un figlio assassinato, cerca a tutti i costi, da padre putativo, di prendere con sé il giovane e irresponsabile omicida; la ragazza che in Rosetta tenta il gesto estremo si riallaccia di fatto a quella che, superato l’impasse omicida e suicida, sembra pronta ne L’Enfant ad assumersi in pieno, pur tra mille difficoltà, un ruolo che potrebbe aver voluto rimuovere. La rete di collegamenti, che porterebbe facilmente a considerare questi quattro film dei Dardenne un sistema molto coerente sotto il profilo antropologico-strutturale, può essere persino amplificata, considerando i singoli elementi come parte di un sistema di varianti che usa l'evoluzione anagrafica (e non solo) dei personaggi e delle reciproche interrelazioni per illuminare un tracciato familiare in perpetua ridefinizione. Dunque: i figli si sostituiscono ai genitori e diventano genitori ben più severi e intransigenti dei loro genitori (La Promesse); i figli accudi56
scono i genitori fino a quando lo sforzo improprio non si trasforma in bisogno tragico di autodistruzione, conseguente all’esigenza di sopprimere la figura materna, causa originaria della propria infelicità (Rosetta che, sulla falsariga del bressoniano Mouchette, riesce a trasformare la tecnica del pedinamento in un lucido diniego esistenziale privo di ricatti sentimentalistici di stampo zavattiniano); la perdita dolorosa di un figlio può diventare il punto di partenza per la ricostruzione di un asse tra generazioni e ruoli dentro una cornice familiare di dipendenza reciproca, sulla base di un rapporto di ambigua, inquietante ma proficua coesistenza che rivela un reciproco bisogno di colmare un vuoto, legando paradossalmente il padre al ragazzo che ha causato la morte del figlio e inevitabilmente finirà per sostituirlo (Le Fils, straordinaria parabola sulla nonviolenza, intesa come forma di comprensione scaturita dalla coesistenza sia pure dolorosa); i due ex figli, cui non è più concesso di rivendicare diritti in seno alle rispettive famiglie, si ritrovano quindi a gestire, stavolta da genitori, le situazioni da cui con fatica e non senza strascichi sono a malapena usciti (L’Enfant, un film che trasforma l’indignazione in compassione). Un discorso antipedagogico in quattro atti.
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“QUAL È IL FUTURO DEL MILITANTE?”. LA STAGIONE DEI DOCUMENTARI di Dario Zonta
Innanzitutto qualche dato: i documentari firmati dai Dardenne sono sei e si raccolgono in una manciata di anni, dal 1978 al 1983. Il mito che vuole i due registi belgi indefessi adepti della chiesa documentaristica passati un pò per caso al cinema di finzione deve essere quindi ridimensionato. Anzi, oggi possiamo dire che il documentario non è il mezzo a loro più congeniale. Della breve stagione documentaria interessano, più dei risultati raggiunti, gli elementi che ci consentono una migliore e più consapevole analisi della loro maturità cinematografica, consacrata esclusivamente al cinema di fiction. Dai documentari e dalla precedente anonima attività nel cinema militante si deduce, con
più chiarezza, il percorso che li ha portati a descrivere quel mondo di emarginati “post movimento operaio”, protagonisti dei loro film. Alla base del ben poco verificato mito documentarista c’è l’incrocio di un pregiudizio positivo e una cattiva interpretazione delle informazioni. Confondere 1 sei film firmati dai Dardenne con la sessantina che ne hanno prodotti, esagerando la portata e il peso della loro attività documentaristica, fa il paio con il consolidato pregiudizio che associa strettamente “documentario” e “realtà”. Insomma, si è pensato che la caratura ‘’veristica” dei film di fiction fosse figlia diretta dell’esperienza documentaria. Supposizioni errate, perché ad uno sguardo appena approfondito i film di fiction appaiono come il risultato di una complessa costruzione formale, tutt'altro che intuitiva, e soprattutto perché i documentari dei Dardenne sono sorprendentemente anti-realistici,
frutto di una messa in scena che ha come primo scopo la distanza dai fatti. Sono documentari di idee, che ricorrono ad elaborate strategie formali, escamotage narrativi, soluzioni “scenografiche”. In Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois (1979) l’intera rievocazione sciopero del secolo, avvenuto
dei fatti insurrezionali dello
in Belgio a cavallo tra il ’60 e il ’61, 59
avviene attraverso un’idea di messa in scena che vede uno dei protagonisti del tempo scendere la Mosa con una barca e costeggiare i luoghi della tempesta operaia, riportata verbalmente dai racconti di alcuni protagonisti e visivamente dai film di repertorio. Un tessuto legato dalla voce off degli autori che interrogano e si interrogano (con toni poetici) sul futuro del militante e della lotta operaia. e già molto Cinema in questo secondo lavoro dei Dardenne e c’è già il fiume, luogo privilegiato, testimone silenzioso, che tornerà in tutti i film di finzione. Il marchingegno è esposto, la chiave di lettura è esplicitata, l’elemento metaforicoè ostentato: il fine è dichiarare l’idea; l’interpretazione oltre il fatto. Gli elementi di una riflessione ideologica si innestano sulla ricostruzione storica e concorrono a segnare senza ombra di dubbio la fine di un’epoca. Il documentario dei Dardenne nasce subito come cinema di idee e di elaborazione politica. In Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouler (1980)
i Dardenne giocano sapientemente con gli spazi, abbandonati e derelitti, dei vecchi siti industriali, visitati, commentati e testimoniati da un
anziano militante, Edmond G., fondatore del locale giornale clandestino. Più che memoria viva, Edmond è un Virgilio che espone all’occhio dei Dardenne gli antichi gironi della passione operaia. Anche qui la “messa in scena” dice quel che i registi pensano. La forma veicola il messaggio, al di là delle parole che qui sono quelle dell’operaio Edmond. Luoghi fantasmatici, attraversati da gatti (incidentale omaggio a Chris Marker) che passeggiano in un regno di morti (cose e ricordi). L'impostazione ci dice che di quel passato non c’è più traccia, memoria e soprattutto conseguenza.
Lo stesso si può dire degli altri lavori di non fiction, l’ultimo dei quali (Regard Jonathan/Jean Louvet, son oeuvre, 1982) ritorna ancora sulla lotta operaia, attraverso il ritratto del drammaturgo vallone Louvet, fondatore, proprio negli anni Sessanta, del Teatro Proletario
della Louviére. Qui un'intervista al drammaturgo si intreccia alle riprese di una pièce teatrale e, ancora, a immagini d’archivio del movimento degli anni Sessanta. Louvet, a quanto ne sappiamo, ha dato una let60
tura operaistica e sartriana di Brecht (come altri negli anni Sessanta: in Italia la faceva Cecchi), portando il teatro fuori dal teatro. Le riprese della pièce mostrano le scene di un dramma operaio che rievoca le azioni e la memoria delle giornate d’opposizione e delllo sciopero. Qui i Dardenne esprimono nel modo più compiuto il singolare ‘“straniamento” documentaristico di cui sono portatori, anti-realistico, d’impo-
stazione ideologica, di interpretazione politica. L'apparato è ancora più evidente, fino al limite di una paradossale ingenerosità pedagogica, facendo di Regard Jonathan un raffinato momento di elaborazione culturale e politica. Nel processo di distaccamento dall’epoca ‘“movimentista”, siamo al punto più estremo, ed ultimo, di distacco, espresso nelle forme della rappresentazione teatrale. Diremo volante.
dopo di R... ne répond plus e Legons d’une université
Ora serve
soffermarsi
su un dato: dei sei documentari,
tre
riguardano il movimento operaio belga. È chiaro che qui risiede il nucleo dell’elaborazione cinematografica, e forse anche dell’esperien-
za politica dei Dardenne. E bisogna in qualche modo considerare che per tutti gli anni Settanta i Dardenne hanno vissuto la stagione dell'impegno militante, realizzando film di servizio che documentano assemblee operaie, scioperi e quant’altro. Video non firmati, dediti alla causa. Il sociale e il mondo del lavoro hanno catalizzato, da sempre, la loro attenzione. Nati nella regione industriale sulle rive della Mosa, all’ombra delle ciminiere della Cockerill, a Seraing, hanno avuto sin
dall’inizio uno stretto contatto con il mondo degli operai e i loro problemi, formandosi una coscienza politica dal di dentro. L'esperienza militante è fondamentale per capire il peso, politico e artistico, della successiva disillusione. Con i primi documentari firmati, i Dardenne
sono già un passo oltre l’importante stagione del movimento operaio. Perché, di fatto, è finita,
e perché ad essa succede la consapevolezza
della sua stessa fine. Il passaggio è importante. All’esperienza diretta, sul campo, e alla riflessione che ne deriva, si aggiunge l’indicazione di uno dei loro mentori, Chris Marker, che nel ’77 fa uscire il fondamen-
tale Le Fond de l’air est rouge. La lezione di Marker è certo ben presente ai Dardenne, e il loro secondo documentario, Lorsque le bateau 61
de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois, sembra proseguire nella stessa direzione, ponendosi come riflessione distaccata sulla fine della stagione militante e di un’epoca calda di lotte e passione. Non c’è, negli autori, nessuna nostalgia nella rievocazione di quel periodo, ma la solenne presa di coscienza del suo fallimento e della sua fine. Il cinema documentario dei Dardenne è la rappresentazione della fine di un’idea di militanza, di partecipazione, di protesta condivisa. L’impossibilità di un suo nuovo posizionamento. I Dardenne vi arrivano dopo averne fatto esperienza diretta e quindi con la consapevolezza che con la fine della militanza politica anche il cinema militante ha perso la sua funzione. La voce off di Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois commenta così le immagini dei cineoperatori che dalle finestre riprendevano gli scontri: “Nel 1960, cosa facevano queste macchine da presa, inquadrando l’insurrezione? Dove si arenavano le loro immagini? Negli schermi serali che offrivano la lotta di classe come evento del giorno? Negli schedari della polizia? Negli archivi per la commemorazione di anniversari e nostalgie di ogni genere?” E, saltando rapidamente al presente, si chiede. “Cosa diventano quando vent'anni dopo le si montano su questo schermo? Non possono forse essere soltanto immagini di una insurrezione risorta che sancisce l’atto di decesso di ogni insurrezione odierna?” per concludere dicendo: “Un'immagine di combattimento di ieri può ancora oggi essere insurrezionale? Oppure è una pallottola in più contro l’insorto?”. Sono domande che i Dardenne rivolgono anche, se non soprattutto, a se stessi. Nel discorso politico in cui sono impegnati non c’è più spazio per il documentario militante. Se il cinema, in quando testimone per immagini, può fare qualcosa, non è più nelle forme della registrazione della realtà e della documentazione. La voce off adotta spesso un registro apertamente lirico. Quando chiede “qual è il futuro del militante?” si indirizza “al gabbiano, al fiume, al sole”. È come se, con la
consapevolezza del loro oggi (il 1979, a quasi vent'anni dalla dissoluzione di quell’evento “rivoluzionario”, e alla fine di un decennio caldo
di intervento), i Dardenne non potessero fare altro che ingaggiare un dialogo a distanza, ma da poeti, con il passato. 62
Tutti i lavori che seguono Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois vanno nella stessa direzione. Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouler si spinge ancora più in là. Il testo della voce off è quasi inerte. La dissoluzione, è sufficiente mostrarla. I luoghi visitati dal film, l'archeologia industriale decrepita e fatiscente, sono prova diretta e definitiva. La ricostruzione dell’attività del giornale clandestino è pura commemorazione, la “bomba” rivoluzionaria definitivamente disinnescata. I due lavori successivi si rivolgono ad altre situazioni. R... ne répond plus (1981) riguarda la stagione delle radio libere private e locali di Belgio, Italia, Svizzera e Germania. Non si tratta della ricerca
di forme nuove di opposizione e protesta: anche a un’analisi superficiale del documentario si intuisce che lo scopo non è quello. Mettendo tutto sullo stesso piano (per l’Italia, Radio Popolare con Radio 105...), confondono la nuova sponda del privato radiotelevisivo con l’esperienza di una radio autonoma e dedita al sociale. La musica con la denuncia e l’inchiesta. Troppo intelligenti per non coglierne le differenze, lasciano al montaggio il giudizio e il disincanto. Perché i Dardenne sono dei pessimisti. E il bagno in nessun fiume potrà mai essere rigeneratore. Legons d’une université volante (1982), che si presenta come una serie per la televisione, intervista cinque emigrati polacchi in Belgio. Anche qui si rifà la storia, e anche qui i rappresentanti di quelle esperienze sembrano testimoni in un procedimento brechtiano di straniamento. Si tratta di interviste supportate dall’uso di cartine. Un finto intento pedagogico che cela una più ambiziosa (e non riuscita) operazione intellettuale. Anche quegli immigrati sono fantasmi della loro nostalgia. Le cose cambiano radicalmente con l’esordio nella fiction. Anche se Falsch (1986) è un film per molti versi anomalo e Je pense à vous (1992) un insuccesso, la novità della direzione è indiscutibile. Con La Promesse (1996), i Dardenne mostrano di aver metabolizzato la scon-
fitta, di aver superato anche la memoria dell’utopia. È finalmente un cinema ‘“post-movimento”, dedito al racconto delle conseguenze socia63
li di quello sfacelo. Idealmente, e realmente, girato sulle rovine dell’epoca “movimentista”. I protagonisti di La Promesse, Rosetta (1999), Le Fils (2002), L’Enfant (2005) sono i figli di quella generazione di operai, proletari, lavoratori che hanno vissuto sulla loro pelle il mito
del lavoro e della protesta. Sono i figli, oggi disoccupati o precari, di coloro che un lavoro lo avevano, al tempo della produzione industriale, e che, nonostante i diversi tentativi, non sono riusciti ad imporre modi e
mondi diversi. Come “figli” adottivi sono gli immigrati che si sono riversati nel paese alla ricerca di un sogno di lavoro che, già svanito, già fantasma, produce una guerra di poveri tra poveri, senza più nemmeno l’ombra di una consapevolezza politica di ribellione, di protesta, di contesa. Una guerra per la sopravvivenza. In questo senso, il cinema documentario dei Dardenne aiuta a collocare il loro cinema di finzione in un'ottica “post-operaia”, ‘“post-movimento”. Ed è chiaro perché i protagonisti della fiction non hanno neanche più un barlume di coscienza di classe, politica. L'istanza rivoluzionaria è assente, cancellata. Regna la
lotta per la sopravvivenza. Tra poveri. Mettere a confronto personaggi, luoghi, situazioni della stagione documentaria con quella di fiction vuol dire mettere a fuoco il vero intento dei Dardenne. Il loro cinema di fiction è apocalittico. È il mondo dopo la “terza guerra mondiale”. I loro film andrebbero collocati in un cinema catastrofista e induttivo. Guardano il particolare che ambisce a rappresentare il generale. Sono massimalisti perché incentrati sulla condizione umana, dopo lo sfacelo. Non è un cinema politico di denuncia. La politica è morta. Restano isolati essere umani che combattono la loro piccola guerra di sopravvivenza personale. Uomini e donne soli, lasciati a se stessi. Senza più comunità né famiglia. Senza più neanche la fantasia di cambiare le cose. Tutti dentro, chiusi, affogati, appestati. Qua e là, nei loro film, c’è un segno di ribellione, ma non dura mai. Qualche segno di redenzione, ma senza soluzione. Se c’è qualche speranza è nella piccola relazione interpersonale, nella formazione minima, uno a uno, nel rapporto di fiducia. Ma siamo irrimediabilmente in una dimensione piccola, pessimista. Quasi finale.
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ARRIVARE IN RITARDO, ANDARSENE IN ANTICIPO di Daniele Gaglianone
Quando nei film dei Dardenne i titoli di coda spezzano l’ultima inquadratura il respiro s’interrompe per un attimo. L’affanno nel quale siamo piombati scivolando (lentamente? rapidamente?) dentro la storia diviene ansia, senso di vuoto improvviso, vertigine. Affannati non da una narrazione faticosa ma dall’aver inseguito, per un tempo che ci pare difficile da imprigionare con dei numeri, l’autore del film. Non si tratta di un pedinamento zavattiniano; l’inseguimento del personaggio è una corsa. Nei film dei Dardenne, da La Promesse in poi, la trama
sembra non esistere; i personaggi non si trovano all’interno di una struttura che fa sentire la propria immanenza. Le cose accadono quando il personaggio le fa accadere o quando si trova all’interno dell’accadimento. La capacità di far nascere le cose da sole non è il frutto di un approccio realistico superficiale. La messa in scena si fonda su scelte precise che suscitano l’effetto paradossale della casualità. L'occhio della macchina da presa non è mai oggettivo; se lo fosse ci mostrerebbe qualcosa che i protagonisti non conoscono. E questo non accade mai. Lo sguardo del film è costantemente in ritardo rispetto a quello del guardato. Lo spettatore non sa mai nulla di più del personaggio perché, semplicemente, non vede di più. La potenzialità dello sguardo fisicamente narrativo è completamente subalterno alle capacità di azione e reazione del personaggio. Il limite fisiologico dell’inquadratura si fa implosivo. Non si tenta di allargarlo, di superarlo, di farlo esplodere. Al contrario, c’è un accanimento verticale verso il centro del quadro. Quando Rosetta sorprende sua madre fare sesso con lo squallido guardiano del campeggio, lo vediamo prima sul suo volto. La macchina asseconda sempre successivamente i movimenti del personaggio. Il lavoro sul limite non riguarda solo il formato. Negli ultimi quattro film dei Dardenne la macchina da presa non attraversa mai la strada trafficata. Ogni volta che Rosetta si avvia verso il campeggio, la macchina si ferma sul ciglio della strada. Lo stesso accade in L’Enfant, 65
ad esempio all’inizio quando la mamma con il bambino in braccio attraversa la strada. La macchina dei Dardenne è tra le più mobili del cinema contemporaneo, ma mai oltre i limiti fisici dell’umano. Anche quando le corse in motorino vengono riprese da vicino, il punto di vista è sempre paritario, come se lo sguardo partisse su un altro motorino. Tutto ciò rende lo sguardo estremamente complesso, proprio perché rinuncia alle proprie potenzialità. Il risultato è sorprendentemente ricco; i film dei Dardenne
possono
sembrare
immediati,
ma
mai
semplici
né tanto
meno poveri. La disciplina di questa soggettività mobile altra, che è l’occhio della cinecamera, evita l'equivoco del realismo: è fin troppo chiaro che i Dardenne si calano nella realtà ma senza l’artificiosità della pretesa neorealistica. Non c'è nessun elemento della macchina
cinema che apparentemente aiuti a costruire la dimensione del reale. C'è una sconfinata solitudine; è difficile immaginare la troupe in movimento nel fuoricampo dei film dei Dardenne. Lo spettatore viene rapito e lasciato solo senza avere la possibilità di aggrapparsi alla finzione. Ovviamente ciò accade spesso al cinema e in film che utilizzano modalità lontanissime da quelle che stiamo prendendo in considerazione; ma che dire, ad esempio, della scena, quasi intollerabile per l'ansia che
suscita, in cui Bruno, il protagonista di L’Enfant interpretato da Jérémie Renier, è sull’autobus con la carrozzina vuota mentre torna indietro a riprendersi il bambino venduto? La solitudine, sia del personaggio sia dello spettatore sia dello sguardo, è il principio che informa la messa in scena. Non c’è nulla a cui possiamo rivolgerci. Né musica, né alternanza di piani, né l'espressività dell’interpretazione, così come il personaggio non può rivolgersi a niente intorno a lui. C'è solo un ragazzo disperato — di una disperazione silenziosa ed anonima — che si appoggia ai sostegni di un autobus, c’è il suono ovattato dell’interno del veicolo, i rumori della strada, qualcuno che parla. E lo spettatore è il più solo di tutti. La solitudine dei protagonisti è la nuca di Olivier Gourmet in Le Fils e quella di Rosetta; non c’è scampo, non si può guardare oltre. I personaggi tentano di uscire dalla propria solitudine attraverso uno scontro risolutivo con la violenza che li circonda. Una violenza più vissuta che esercitata. Rosetta smette di sentirsi sola non 66
quando incontra Piquet e si ripete tra sé e sé: “Ho trovato un lavoro ho trovato un amico”, ma quando di fronte all’uovo che affonda nel
pentolino decide di rifiutare il lavoro, lavoro che lei ha ottenuto in modo ignobile e violento, facendo la delatrice contro Piquet, l’unico
disposto a porsi nei suoi confronti da essere umano. Smette di essere sola perché sente per la prima volta qualcun altro. Rosetta è disposta a qualsiasi cosa pur di lavorare, pur di avere una vita normale, come urla in faccia al padrone quando la licenzia. Ma improvvisamente, di fronte a quell’uovo che affonda (forse come stava affondano lei stessa nel lago e come stava per lasciar andare a fondo Piquet) vede nel suo orizzonte angusto qualcuno che valga la pena d’esser visto, qualcuno dal quale aspettarsi qualcosa di buono. Probabilmente riesce a vederlo proprio perché lei lo ha rifiutato. La lotta finale tra Rosetta e Piquet forse preannuncia una nuova vita per Rosetta, perché per la prima volta non sarà sola. In Le Fils la caccia dentro il deposito di legno che il protagonista compie nei confronti del ragazzo assassino è il tentativo estremo di rompere la solitudine dentro la quale egli si sente sprofondato. Forse è questa l’autentica ragione che lo spinge verso quel giovane, più che uno strano senso di giustizia, una curiosità masochista di conoscere (e punire?) chi gli ha rovinato la vita. In L’Enfant il carcere, luogo della privazione per eccellenza, è l’occasione per 1 due giovani di dirsi con un abbraccio e un pianto rabbioso e liberatorio che l’unico modo che gli resta per cercare di sopravvivere è di stare insieme, che qui significa innanzitutto smettere di essere soli e vivere in modo solidale. Lo stesso accade nel finale di La Promesse: la rivelazione alla donna africana della morte del marito e della terribile menzogna su cui si fonda il viaggio che si prepara a fare è il segno della volontà da parte del ragazzo di scegliere un’altra vita. È lui in realtà ad aver avuto bisogno di un viaggio per liberarsi dalla solitudine, dall’ affetto aberrante e grottescamente sincero del padre. Infatti egli segue la donna che decide di non partire più e cercare giustizia. ‘ Ed è nel finale dei loro film che i Dardenne, con un colpo di coda spiazzante e maleducato, lontani da ogni facile consolazione, ci dico-
no che in fondo a quella discesa agli inferi (la solitudine sociale ed 67
.i
i
esistenziale) c’è l’opportunità di riscattarsi come esseri umani. Un riscatto doloroso e non accomodante ma che porta verso una solidarietà elementare. î I loro film sono delle esperienze dure ma mai sconfortanti; non si esce dal cinema depressi ma stanchi e adrenalinici allo stesso tempo, con la sensazione commossa che qualcosa nelle vite che ci sono state raccontate è cambiato, che un nuovo orizzonte è possibile. Le ultime inquadrature di questi quattro film non sono tagliate, sono letteralmente troncate. Spesso la forbice del montaggio nei loro film appare in anticipo, così come lo sguardo giunge sempre in ritardo. Sembra che i movimenti non abbiano mai il tempo di compiersi definitivamente. Ma è nell’immagine finale che questo approccio si rivela a pieno. Tranne che in La Promesse, dove la macchina smette di seguire i personaggi e si limita a lasciare che se ne vadano (perché là inizia un’altra storia che non vedremo), negli altri finali il taglio è brusco. Il pianto finale di L’Enfant è abbandonato al suo apice; il protagonista di Le Fils non finirà d’allacciare le travi di legno caricate sul furgone. Questa sorta di sincope è amplificata dall’improvviso silenzio che a stacco netto ci spinge attoniti verso (sarebbe meglio dire dentro) i titoli di coda. Raramente ci sono dei titoli di coda così pregni di senso nella loro essenzialità. In quello iato non misurabile in termini né di tempo né di spazio in cui le immagini del film finiscono ed inizia il rullo nero, c’è la tensione verso l’altrove (soprattutto interiore) che i personaggi hanno raggiunto.
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ALL’ULTIMO RESPIRO di Rinaldo Censi
Uno degli aspetti più interessanti del cinema dei fratelli Dardenne è la sfida lanciata ai loro protagonisti. Sfida che implica prove di grande sforzo fisico, gesti di atletismo estremo. Dimensione agonista del cine-
ma dei Dardenne. L’agone, il campo di battaglia che si gioca all’interno dell’inguadratura, non è delimitato da linee sul terreno. Non il ten-
nis, e neppure il football: forse la superficie ghiacciata di un campo da hockey en plein air. Un campo biancastro dove la macchina da presa non resta immobile fuori dal perimetro di gioco, non si limita a panoramicare a destra e a sinistra, ma piuttosto slitta, scivola a fianco degli
attori/giocatori, fluida e precisa, compiendo evoluzioni in tutto simili a quelle richieste a questi atleti cucinati dai sali chimici della pellicola. L’hockey è — paradossalmente — uno sport prossimo alla danza. Certo una strana danza (senza tutù) fatta di gesti repentini e a volte violenti, scatti e piroette: velocità di esecuzione e precisione del movimento. Un atleta si sposta, accelera il passo, compie movimenti e azioni seguito e schiacciato dall’obiettivo di una macchina da presa che lo bracca escludendogli una buona fetta di via di fuga, schiacciandolo in uno spazio esiguo in cui è costretto a muoversi, a produrre qualcosa (ma liberiamoci dalla metafora sportiva; nei film dei Dardenne non si danno calci ad una palla e non si insegue un disco brandendo una stecca; invece si spostano pesi, si raccoglie acqua, si fugge da inseguitori, si spostano tronchi di legno: e questi gesti vengono colti in una ripetizione, diventano appena un battito cardiaco che i due fratelli osservano o meglio auscultano). È il battito colto nei movimenti precisi di un padre di famiglia, la cui calma apparente lascia emergere una tensione trattenuta e dissimulata nella maestria del gesto meccanico da artigiano (Le Fils). Oppure Rosetta La macchina da presa coglie lo spazio in cui un corpo lavora, compie un tragitto, lo ripete, suda, si scortica, soffre e geme. La macchina da presa soffoca lo spazio del suo movimento, simile ad un ostacolo in più segue ostinata i movimenti convulsi e a volte sgraziati di un’adolescente con l’intero mondo appoggiato sulla schiena. 71
I film dei fratelli Dardenne somigliano da questo punto di vista a vere e proprie prove compiute sotto sforzo. Prove colte in una dimensione agonista, cioè colte nell’atto di filmare volontariamente muscoli che partecipano a un certo movimento. Uno stato di tensione, simile, a volte, all’apnea. Ma un muscolo pensa? E il corpo? È possibile chei corpi possiedano una propria meccanica? Il suono assordante della presa diretta (che giunge diretta da dietro lo schermo cinematografico — e si dimentica del Dolby), irriducibile, che si cristallizza per esempio nel rombo di un motore al limite, non fa che sollecitare la sensazione secondo cui il mezzo meccanico che vedo schizzare sull’asfalto, sotto
un cielo plumbeo, non sia altro che l’estensione del corpo di colui che lo guida. La sua forma allegorica e allusiva: la sua figura e questa meccanica conosce dei limiti? Ci vorrebbe qui un esperto di carburatori e di testate! Dovremmo chiedere ai Dardenne. Di certo loro conoscono la meccanica, soprattutto quella legata agli esseri umani. Non è forse vero che i Dardenne filmano punti di rottura, cercano il momento in cui il corpo umano oppure un meccanismo vitale fa crac? Spesso lo trovano. C'è una sequenza terribile nel loro ultimo film, L’Enfant: due ragazzi fuggono in motorino, inseguiti, ricercati per furto. Eseguono alcune gimkane lungo il percorso per seminare e scoraggiare chi sta dietro di loro. La manopola dell’acceleratore, le scale delle marce, il motore che urla strozzato: un motorino, due corpi che fendono l’aria. Braccati, fuggono a piedi, corrono a perdifiato, si nascondono ai bordi di un canale,
immergendosi nell’acqua. Fa freddo. Si nota il loro fiato. Restano a mollo, inquadrati implacabilmente dai Dardenne, per almeno un minuto. Quando escono uno dei due trema. Sul serio. La macchina da presa è immobile:
li osserva. Le labbra tremano, i denti battono. Le gambe
sembrano muoversi per conto proprio. Dopo aver zigzagato con loro, dopo averli pedinati (di più, pressati, col fiato sul collo), dopo averne testato îl funzionamento, la loro capacità, la macchina da presa si ferma (è anch'essa esausta? O è esausto colui che la maneggia?): si limita a
scrutarli un pò a distanza, ne osserva la reazione, contempla crudele il risultato di questa ennesima sollecitazione estrema. Attende che gli inseguitori li individuino, che la polizia li arresti. Le
Film dei fratelli Dardenne. Non c’è tempo di pensare quando ci si muove a tali velocità. Davanti a tali frizioni, sollecitazioni, è lecito ipo-
tizzare che non resti nessuno spazio per la riflessione (o è la macchina da presa che pensa?). E Rosetta? Questa sorella di Mouchette è una povera macchina in carne ed ossa: se si fermasse a pensare, se avesse il tempo di assimilare una presa di coscienza, la farebbe finita. E il giovane padre de L’Enfant? Immobile tra le quattro pareti di un carcere, trova infine il tempo di comprendere ciò che resta di una vita spesa all’ultimo respiro, in moto perpetuo: la macchina da presa è lì, e i Dardenne anche. Ma la risposta resta muta. Una forma di umanità celata tra le lacrime. Una povera macchina in carne èd ossa: se si fermasse a pensare, se avesse il tempo di assimilare una presa di coscienza, la farebbe finita. E il giovane padre de L’Enfant? Immobile tra le quattro pareti di un carcere, trova infine il tempo di comprendere ciò che resta di una vita spesa all'ultimo respiro, in moto perpetuo: la macchina da presa è lì, e i Dardenne anche. Ma la risposta resta muta. Una forma di umanità celata tra le lacrime.
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NOTA BIOGRAFICA
Jean-Pierre e Luc Dardenne sono nati nelle terre che continuano a raccontare nei loro film: a Engis nasce Jean-Pierre (il 21 aprile 1951) e tre anni dopo ad Awirs nasce Luc (il 10 marzo 1954). Della loro infanzia amano ricordare le corse lungo la Mosa, un fiume che diven-
terà luogo mitico della loro produzione cinematografica. Cresciuti in un ambiente cristiano, istruiti in un collegio gesuita dove conoscono il cinema e in particolar modo i film di Robert Bresson, i due fratelli iniziano la carriera di cineasti negli anni Settanta. Jean-Pierre ha già intrapreso degli studi teatrali e Luc si sta per laureare in filosofia quando l’ondata rivoluzionaria, gli scioperi delle principali industrie della Vallonia, li spingono a una attiva partecipazione politica. Jean-Pierre con la videocamera in spalla e Luc al microfono realizzano insieme i primi filmati istantanei. Loro maestro è Armand Gatti. Partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale e attivista durante il maggio 1968 parigino, il drammaturgo e regista influenza notevolmente l’attività dei due fratelli fino agli anni Ottanta. Attraverso i suoi consigli, iDardenne sviluppano nei loro documentari una sorta di memoria del popolo operaio belga che sarà alla base della trilogia Le chant du Rossignol, Léon M., Le Journal, a cui si aggiungerà il ritratto del commediografo Louvet. I discreti successi dei documentari permettono ai due di lanciarsi nella produzione: nel 1976 aprono il Collectif Dérives, una struttura che tuttora finanzia opere di registi perlopiù esordienti (e che dal 1994 si trasforma nella casa di produzione Les Films du Fleuve). È proprio in veste di produttori, che i Dardenne iniziano a prendere le distanze da Gatti, abbandonando gradualmente la Storia per spostare l’attenzione verso gli individui. Quando, negli anni Ottanta, i due registi riescono ad ottenere i finanziamenti per girare lungometraggi di finzione, affrontano il tema della Shoah con Falsch e successivamente quello della disoccupazione in Vallonia con Je pense à vous. I film non hanno successo, né di
pubblico né di critica: i due registi si vedono costretti a una revisione radicale delle strategie produttive e delle pratiche di messa in scena. I
Dopo
anni
d’inattività,
ispirati dalla
celebre
frase
di / fratelli
Karamazov (“ciascuno è colpevole davanti a tutti di tutto per tutti”), i
Dardenne ritornano a scrivere una sceneggiatura: è La fenetre rouge, da cui verrà tratto La Promesse, presentato nel 1996 alla Settimana della Critica del Festival di Cannes. Il film, girato con un budget ridot-
to, sorprende per la libertà e l'efficacia dell’espressione, raccoglie consensi e viene distribuito in tutta Europa. Nel 1999 Rosetta è incluso tra 1 film in Concorso a Cannes e vince, contro ogni previsione, la Palma d’Oro. Nel 2002 con Le Fils è Olivier Gourmet, l’attore prediletto dai
due registi, a ricevere il premio per la migliore interpretazione maschile al festival francese, e infine nel 2005 i Dardenne
sono consacrati
dalla Palma d’Oro per il loro ultimo film, L’Enfant. Nel maggio del 2005 Luc Dardenne firma il volume Au dos de nos images (Seuil), diario intimo scritto “in prima persona plurale” che ripercorre il periodo 1991-2005, dalla revisione critica dell’esperienza di Je pense à vous alla realizzazione di L’Enfant.
(a cura di Daniela Persico)
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JEAN LOUVET/ SON OEUVRE
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I FILM a cura di Luca Mosso e Daniela Persico
Le Chant du rossignol (1978) (t.1. Il canto dell’usignolo)
Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne (video 1/2”, b/n) Durata: 62 min. Origine: Belgio Documentario, andato perduto, sulla resistenza anti-nazista in Vallonia. Sei uomini e una donna raccontano la clandestinità: i sabotaggi, la lotta armata, la stampa clandestina, la sopravvivenza nei campi di concentramento. La prima proiezione pubblica a Liegi in un centro culturale alternativo davanti a settanta spettatori. Lorsque le bateau de Léon M. descendit la Meuse pour la première fois (1979) (t.1. Quando la barca di Leon M. discese la Mosa per la prima volta) Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia (video 1/2”, b/n): Jean-Pierre Dardenne Suono: Luc Dardenne Interpreti: Leon Masy, Bilmoni Guide, René Albert, Jean Coenen, Jeanine
Frangois
Collas,
Georgette
Lothist,
Nicolas
Culot, Jean Derkenne,
Moreau,
Cathy
Motte,
Frangois
Laurent
Dessart,
Motte,
Lucien Perpette, Jeanne e Maurice Princens, Cornelis Treuttens, Frangois Van Swalm, Martin Warnant, Jean-Pierre e Luc Dardenne (voce over) Archivi: Frans Buyens, Fond d’histoire du mouvement wallon, Journal
La Wallonie
Produzione: Collectif Dérives con il sostegno del Ministère de la Communauté frangaise de Belgique Durata: 40 min. Origine: Belgio 19
Dal 16 dicembre 1960 al 22 gennaio 1961, il Belgio ha vissuto quello che la storia ha definito “lo sciopero del secolo”. Produzione di carbone e di acciaio ferme, traffico ferroviario e marittimo paralizzato, settori pubblici chiusi, atti di sabotaggio... Nel film la testimonianza di un vecchio militante, Léon Masy, ricostruisce il movimento dell’inverno 1960.
In Léon M. il linguaggio è poetico, lirico e senza dubbio è il fiume a donare questo sentimento. Il fiume ha interpretato un ruolo. Ma è successo perché ci trovavamo bloccati nel discorso. Come dire? Come chiamare quella terra promessa dove il battello poteva andare? Non potevamo dire l’ Unione Sovietica o la Cina, non era il nostro credo,
non condividevamo questa infatuazione, ma non sapevamo come chiamare questo luogo, così abbiamo iniziato a parlare di terra promessa in un linguaggio più metaforico. Ci siamo ricordati anche di Brecht che si domandava se un fiume è l’acqua che traccia le due rive o se sono le rive che guidano il fiume. Io non so più quale fosse la formula esatta. AA.VV. «Luc et Jean-Pierre Dardenne — Vingt ans de travail en cinéma et vidéo», numero speciale della Revue Belge du Cinéma n. 41, inverno 1996-97
Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouter Le Journal (1980)
(t.1. Perché la guerra finisse dovevano crollare i muri - Il giornale) Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia (video 3/4“ U-Matic, colore): Lucien Ronday Suono: Robert Joris Montaggio: Francis Galopin Interpreti: Edmond Guide, Jean-Pierre e Luc Dardenne (voce over) Archivi: Frans Buyens Produzione: Collectif Dérives, Radio Télévision Belge Francofone (RTBF), Fleur Maigre Coopération Durata: 50 min.
Origine: Belgio 80
Documentario sul giornale clandestino che gli operai della Cockerill hanno realizzato e diffuso tra il 1961 e il 1969. Al centro la testimonianza di uno dei suoi anziani e militanti, Edmond G., licenziato proprio perché impegnato nell’impresa. Raccontiamo quello che è degno di essere raccontato. Penso che con Le Journal abbiamo voluto raccontare una storia degna di essere raccontata perché contiene quell’elemento che noi chiamiamo utopia, ma non nel senso del risultato, di ciò che andrebbe
a colmare
l’utopia;
piuttosto nel senso di qualche cosa che ad un certo punto sfugga alla direzione cui il corso “normale” degli eventi avrebbe teso. Alcune persone compiono degli atti, enunciano delle parole che distruggono il contesto, la determinazione del contesto.
AA.VV. «Luc et Jean-Pierre Dardenne — Vingt ans de travail en cinéma et vidéo», numero speciale della Revue belge du Cinéma n. 41, inverno 1996-97
R... ne répond plus (1981) (t.1. R... non risponde più) Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia (video 3/4“ U-Matic; colore): Stéphane Gatti, Jean-Pierre Dardenne Suono: Jean-Pierre Duret, Eddy Géradon-Luyckx,
Claude Mouriéras
(Mix)
Montaggio: Jean-Pierre Dardenne Produzione: Collectif Dérives, Médiaform, Centre de |’ Audiovisuel à Bruxelles (CBA)
Durata: 52 min.
Origine: Belgio Documentario-inchiesta sulle radio libere in Europa. Per tre mesi davanti all’obiettivo dei Dardenne passano radio libere, locali e private di Belgio, Francia, Italia (Radio Popolare e Studio 105), Svizzera 81
e Germania. Interviste volanti interrogano i cittadini d'Europa su un
fenomeno allora agli albori. Era il nostro primo documentario sull’attualità. Uscivamo dalla memoria, in cui il reale rispondeva ancora ma al passato. Nel presente non risponde più. Avevamo una stupida idea di partenza da esprimere: la vittoria del rumore sull’informazione. Avevamo scelto delle radio commerciali e delle radio politiche: due a Bruxelles, due a Milano, una in Svizzera, una in Alsazia e una in Germania. Alla fine del documentario lo studio della radio è vuoto e tutte le voci si confondono. È un film pessimista perché sono le radio commerciali che hanno vinto. Non volevamo partecipare al mito della radio libera. È per questo che l’abbiamo intitolato R... ne répond plus. “R” è il reale. Proviamo a rianimarlo ma è morto. AA.VV. Les années video in «Luc et Jean-Pierre Dardenne — Vingt ans de travail en cinéma et vidéo», numero speciale della Revue belge du Cinéma n. 41, inverno 1996-97
Lecons d’une université volante (1982) (t.1. Lezioni di un'università mobile)
Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia (video 3/4“ U-Matic, colore)
Produzione: Dérives Productions, Radio Télévision Belge Francofone (RTBF) Durata: 55 min. Origine: Belgio Cinque emigrati polacchi, altrettante testimonianze. Il primo ha lasciato la Polonia negli anni Trenta
per scappare al nazismo, il secondo
dopo la Seconda Guerra Mondiale in seguito all’arrivo dei comunisti,
il terzo è uno studente sfuggito alla recrudescenza antisemita del 1968 e il quarto un insegnante espatriato nel 1976; l’ultimo ha abbandona-
to la patria in corrispondenza del colpo di stato di Jaruzelski nel 1981. 82
Dopo il colpo di Stato del 1981 in Polonia ci siamo detti: bisogna fare qualcosa. Non una cosa che restasse confidenziale ma qualcosa che la gente potesse vedere. Abbiamo preso dei contatti con la televisione belga; il Centro di Liegi ha dato il suo benestare per cinque cortometraggi di dieci minuti ognuno che sarebbero stati trasmessi subito dopo il telegiornale. La nostra idea era di mostrare che quel paese ultranazionalista non era stato una terra d’asilo ma piuttosto una terra d’esilio, dagli anni Trenta fino ad oggi. Volevamo riscrivere la storia della Polonia attraverso i racconti degli esili. AA.VV. Les années video in «Luc et Jean-Pierre Dardenne — Vingt ans de travail en cinéma et vidéo», numero speciale della Revue belge du Cinéma n. 41, inverno 1996-97
Regard Jonathan/Jean Louvet, son oeuvre (1983) (t.1. Guarda, Jonathan/ Jean Louvet e la sua opera)
Regia: Luc e Jean-Pierre Dardenne Fotografia (video 3/4“ U-Matic, colore e b/n): Claude Mouriéras
Operatore: Jean-Pierre Dardenne Suono: Jean-Pierre Duret, Dominique Warnier, André Trésinie (mix)
Montaggio: Georges Souphy, Jean-Pierre e Luc Dardenne Musica: Ravel, Penderecki, Constant, Stockhausen
Interpreti: Jean Louvet, Jeanine Louvet, Christophe Leclercq, André Lenaerts, Henri Monin; Catherine Bady e Michel de Warzee (voce)
Produzione:
Marc
Minon
e Lisa Niccoli per Dérives Productions,
Wallonie Image Production, No Télé Journal, Radio Télévision Belge
Francofone con il sostegno del Ministère de la Communauté francaise de Belgique. Durata: 57 min. Origine: Belgio Documentario sull’opera del drammaturgo vallone di Jean Louvet, fondatore negli anni Sessanta del Teatro Proletario della Louvière. Il film accosta un’intervista a Louvet, immagini d’archivio sul movimento degli anni Sessanta e alcune scene di un boxeur che combatte solo 83
ci
" =
den
sul ring. Il tutto scandito da alcuni estratti della pièce Conversation en Walloine dello stesso Louvet.
Louvet scrittore, ma in rapporto alla classe operaia. Era questo che ci interessava perché ci sono, nelle opere di Louvet, temi di cui non abbiamo parlato nel film. Alla fine con Léon, Edmond, Louvet, parlia-
mo della stessa cosa ma sono tre persone differenti. Con Louvet, per esempio,
riparliamo del 1960. Rifacciamo
la storia, ma
in un altro
modo. È in questa ottica che siamo andati a guardarlo, non soltanto per fare un ritratto di uno scrittore. La sua parola è essenziale, ma lui racconta la sua storia di scrittore leggendo i suoi testi. È come con Edmond e di Léon, anche se formalmente è differente.
AA.VV. «Luc et Jean-Pierre Dardenne — Vingt ans de travail en cinéma et vidéo», numero
speciale della Revue belge du Cinéma
n. 41,
inverno 1996-97
Falsch (1987) Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne Sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Kalisky
Dardenne,
dalla pièce di René
Fotografia (colore): Walther van den Ende
Operatore: Yves Vandermeeren, Montaggio: Denise Vindevogel Suono: Dominique Warnier Scenografia: Wim Vermeylen Musica: Jean-Marie Billy e Jan Franssen Costumi: Colette Huchard Interpreti: Bruno Cremer (Joe), Gisèle Oudart Maillet
(Jacob)
Nicole
Colchat
(Mina),
(Natalia), Christian Jacqueline Bollen (Lilli),
Christian Crahay (Gustav), Millie
Dardenne,
Dautun, John Dobrynine, André Mallamaci, Marie-Rose Roland, Francois Sikivie
Produzione:
Geneviève
Robillard
per Dérives 86
Lenaerts,
Productions,
Jean
Radio
Télévision Belge Francofone (RTBF), Arcanal (Parigi) Théatre de la Place (Liègi), Loterie National Belgique con il sostegno del Ministère de la Communauté frangaise de Belgique Origine: Francia/Belgio. Durata: 82 min. Selezionato
a Cannes
1986
(Perspectives
du
Cinéma
Frangais);
Riccione 1987 (premio SACD e premio della critica). Premio Fémina Blege du Cinéma 1987. Uscita in sala: gennaio 1987 (in Belgio) Un aereo atterra in un aeroporto di campagna. Scende un solo passeggero, Joe, accolto da Lili, la sua fidanzata tedesca. Nella hall, tra i diversi membri della famiglia di Joe si scatena una tormentata resa dei conti che ritorna continuamente sul 1933, anno dell’ascesa di Hitler e dell’inizio delle persecuzioni antisemite. Tratto dall’ultima pièce scritta dal belga René Kalinski, da cui eredita i modi dello psicodramma antinaturalistico, Falsch è il primo film di finzione dei Dardenne. Abbiamo scelto di iniziare con un testo esistente [la pièce di Kalisky]. Forse perché avevamo paura della finzione, paura di partire da qualcosa scritta da noi. Prendendo un testo che esisteva già, si restava nel documentario. Avevamo una realtà preesistente al nostro lavoro filmico. E penso che sia proprio questa la ragione per cui ha funzionato. [...] In Falsch
quello che ci interessava,
oltre a testimoniare
la storia
dell’Olocausto, era testimoniarlo attraverso la storia di una famiglia. Penso che il rapporto tra padre e figlio sia quello che ci ha maggiormente interessato. AA.VV. «Luc et Jean-Pierre Dardenne — Vingt ans de travail en cinéma et vidéo», numero inverno 1996-97
speciale della Revue belge du Cinéma n. 41,
87
Il court, il court, le monde (1987) (t.1. Corre, corre il mondo)
Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia: Alain Marcoen Suono: Thierry de Hallaux, Gérard Rousseau (mix)
Montaggio: Marie-Hélène Dozo Interpreti: John Dobrynine, Carmela Locantore, Christian Maillet, Pascale Tison, André Lenaerts, Jean-Paul Dermont, Frangois Duisinx. Produzione: Dérives Productions, Radio Télévision Belge Francofone
(RTBF) con il sostegno del Ministère de la Communauté frangaise de Belgique . Durata: 10 min. Origine: Belgio John, regista televisivo, sta preparando una trasmissione sulla velocità. Mentre corre a casa per aspettare la compagna Sonia che rientra da New York, il produttore modifica il montaggio correggendo la parte in cui Marinetti viene accusato di fascismo. Nel momento in cui John viene informato telefonicamente dell’accaduto, dalla strada giunge il rumore di un incidente: Sofia nella foga di annunciargli la sua gravidanza ha investito un pedone.
Je pense à vous (1992) (t.l. Penso a te)
Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne Sceneggiatura: Jean Gruault; Luc e Jean-Pierre Dardenne da un’idea di Henri Storck. Musica originale: Wim Mertens Fotografia (35mm, colore): Yorgos Arvanitis Suono: Jean-Pierre Duret, Bruno Tarrière (Mix Dolby SR)
Montaggio: Denise Vindevogel, Ludo Troch Scenografia: Yves Brover-Rabinovici Costumi: Monic Parelle Interpreti: Robin Renucci (Fabrice), Fabienne Babe (Céline), Wladimir Kotliarov, detto Tolsty (Marek), Gil Lagay (Renzo), Pietro Pizzuti 88
(Laurent),
Angélique
Astgen,
Suzanne
Colin,Vincent
Grass,
Pier
Paquette, Stéphane Pondeville, Nathalie Uffner
Direttore di produzione: Joey Fare Produzione: Jean-Pierre Dardenne Luc Dardenne; Dirk Impens, Jean-
Luc Ormières, Claude Waringo per Films Dérives, Titane Production (Parigi), Favourite Films (Bruxelles), Samsa Film (Luxenbourg), Radio Télévision Belge Francofone (RTBF),
S.a.r.l. Centre
Audiovisuel à Bruxelles con il sostegno del Ministère de la Communauté francaise de Belgique, Ministère de la Communauté flamande de Belgique, della Region Wallone, del fondo Eurimage, della Loterie National, della Banca CGER, Canal+ France, CNC (Parigi).
Durata: 95 min. Origine: Belgio / Lussemburgo / Francia Premio per l’interpretazione di Fabienne Babe al Festival du Film Francophone di Namur, 1992; Premio del pubblico ai Festival di Namur e di Biarritz 1992; selezionato al Festival du Film di Parigi 1993. Uscita in sala: ottobre 1992 (in Belgio)
Belgio 1980. L’intera regione di Seraing sprofonda in una gravissima crisi industriale. Quando anche l’ultima rimasta in attività minaccia la chiusura, gli operai entrano in sciopero, ma la negoziazione non va a
buon fine. Fabrizio, 35 anni, è uno dei primi a rimanere a casa; la sua situazione si fa difficile, ma rifiuta alcune offerte di lavoro poco qualificato ed entra in una crisi profonda. Un'opera zoppicante, che troppi compromessi hanno svuotato del suo contenuto. Era da venticinque anni che nessuno in Belgio aveva portato la realtà sociale nella finzione. E alcuni hanno detto chiaramente che bisognava impedire questo tipo di film. Del tipo: “Ci fanno cagare con il loro cinema sociale!”. Stephane Maladrin, La promesse, CNC dossier, 1999.
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La Promesse (1996)
Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne Sceneggiatura: Luc e Jean-Pierre Dardenne, Leon Michaux, Alphonse Badolo. Musica originale: Jean-Marie Billy, Denis M’Punga Fotografia (super16, colore): Alain Marcoen Operatore: Benoit Suono: Jean-Pierre Duret Scenografia: Igor Gabriel Costumi: Monic Parelle Trucco: Tina Kopecka Montaggio: Marie-Hélène Dozo Direttrice di produzione: Véronique Marit Interpreti: Jérémie Renier (Igor), Olivier Gourmet (Roger), Assita Quedraogo (Assita), Jean-Michel Balthazar, Frédéric Bodson, Florian Delain, Hachemi Haddad, Alain Holtgen, Sophie Leboutte, Rasmane
Quedraogo Produzione: Luc Dardenne, Hassen Daldoul per Les Films du Fleuve, Touza Productions (Parigi), Samsa Film S.a.r.l. (Lux), Touza Films (Tunisi), Dérives, Radio Télévision Belge Francofone (RTBF), ERTT
(Tv tunisina) con il sostegno di Eurimages, del Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté francaise de Belgique, della Loterie National de Belgique, Canal+ France, CNC (Parigi), le Fonds d’ Action Sociale. Distributore italiano: Lucky Red Durata: 93 min. Origine: Belgio / Lussemburgo / Francia
Presentato alla Quinzaine des Réalizateurs, Cannes 1996 (premio CICAE) Premio per l’interpretazione di Olivier Gourmet e Premio del pubblico al Festival du film francophone di Namur,
1996
Premio della Giuria della stampa a Jérémie Renier al Festival du Film di Ginevra Gran premio e premio FIPRESCI al Festival di Valladolid, 1996 90
Nomination al premio César come migliore film straniero Premio per il miglior film straniero della National Society of Film Critics di Los Angeles, 1997
Uscita in sala: 16 ottobre 1996 (Belgio e Francia), 16 maggio 1997 (USA) Il quattordicenne Igor lavora con il padre, uno spregiudicato trafficante di manodopera clandestina. Per lui partecipare allo sfruttamento degli immigrati fa parte di un ordine naturale” indiscutibile, ma ad un certo punto qualcosa si incrina nelle sue certezze. Quando l’amico Amidou cade dal ponteggio, Igor decide di onorare la promessa fatta e di prendersi cura della moglie e della figlia dell’immigrato, anche se questo significa tradire il padre e i suoi insegnamenti. Lentamente Igor si svincola dal genitore, scopre la compassione e la solidarietà e forse si avvia a conquistare la dignità umana.
6/11/1994 La Promesse o come un figlio sfugge alla morte di suo padre. Morte invisibile e talmente potente, talmente soffocante, talmente perfetta. Come
scappare da colui che vi ama e che amate? Chi ve lo fa fare? Chi permetterà al figlio di arrivare a guardare, a inquadrare, a fare un buco, un vuoto? Un altro. E bisognerà che venga da lontano, da molto lontano. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
In La Promesse, Igor è in qualche modo toccato dalla grazia: non c’è nessuna ragione specifica perché lui dica la verità a quella donna. La dice perché a un certo punto non si trattiene più, perché questa donna gli ha dato fiducia e lui si sente in debito. Igor ha memoria di quello che ha fatto: ha sotterrato un uomo e l’ha lasciato morire; egli conserva quest'immagine,
si sente colpevole e, più precisamente,
si sente
senza l’aiuto di Dio o di una memoria collettiva. Igor è solo. AA.VV. «Luc et Jean-Pierre Dardenne — Vingt ans de travail en ciné91
ma et vidéo», numero speciale della Revue belge du Cinéma n. 41, inverno 1996-97
Visto dall’Italia
Malgrado il suo stile da docudrama, simile a quello dei primi film di Ken Loach, La Promesse ruota intorno a una storia forte che ha il sapore della tragedia classica. Tra la povertà esistenziale degli immigrati clandestini e dei loro sfruttatori, ai margini della società e della legge, campeggia l’amore estremo tra un padre e un figlio, uniti (nell’assenza di una figura materna di cui non sussiste nemmeno il ricordo) da una complicità di fratelli, un legame amoroso che sconfina nell’identità — come è eviden-
te in quella che forse è la scena più bella del film: quando nel locale notturno Roger e Igor cantano insieme il karaoke, ripresi in primo piano da un’inquadratura fissa che esclude tutto e tutti e li avvicina, guancia a guancia, come due innamorati, perfettamente accordati nel canto, fieri e
felici della loro intesa, dimentichi degli altri. L’iniziazione alla virilità è un assoluto che separa la coppia padre e figlio dal resto del mondo: Roger vuole Igor a immagine di se stesso, suo pari nella lotta, piccolo oplita che combatte fianco a fianco col padre. Nonostante questo, gli altri non sono mai descritti in modo cinico, come vittime o oggetti di questo assoluto. Il film riesce a mantenere una straordinaria parità tra vittime e carnefici, indagati con la stessa pudica tenerezza nel loro sforzo quotidiano di sopravvivere, poiché gli stessi carnefici vengono raccontati lungo la linea di un grande struggimento. Per seguire Roger — che ora lo picchia ora lo abbraccia e lo lava come una madre, ora vuole iniziarlo al sesso con le prostitute — Igor si fa cacciare dal padrone dell’officina presso cui è apprendista; col suo volto da angelo proletario ruba il portafogli di una pensionata — non c’è compassione per chi è protetto dalle istituzioni — e passa di porta in porta a riscuotere i soldi dei clandestini nella sordida palazzina in cui sono stipati. Padre e figlio governano la piccola comunità fuori legge; li sentiamo chiedere ripetutamente agli inquilini se il riscaldamento va bene, se le stufe funzionano: e in questa preoccupazione quasi materna il De
film trova il suo centro, la pietà di un assoluto tragico privo di cinismo. Igor intanto è incuriosito da Assita, la moglie di Amidou, appena arrivata dall’ Africa. La spia da una fessura nella parete della stanza, dove è sola con il suo bambino. Proviamo il suo stesso stupore di fronte a quella maternità nera, sacra e regale; e la diversità non è tanto nel colo-
re della pelle, ma nella madre ignota, perduta, impossibile. Questa scena di intimità materna rubata dal buco del muro prefigura la scelta di Igor, la sua promessa; l’unità si spezza, il ragazzo deciderà di seguire la madre — l’altra da sé — ma per farlo dovrà tradire suo padre. La morte di Amidou,
di cui Roger e Igor sono gli unici testimoni, è la
causa che scatena il conflitto. Ha inizio così la fuga di Igor dal padre, con la donna e con il bambino, una fuga che sembrerebbe un falso movimento — dal momento che non riesce a farle lasciare il Belgio,
e la nasconde proprio nell’officina del suo ex padrone, dove suo padre finirà per sorprenderli. Ma questo giro a vuoto, questo pellegrinaggio disperato di due esseri irriducibilmente estranei — il ragazzo e la madre straniera — è un avvicinamento alla verità sul piano del film, sul piano “poliziesco” e su quello esistenziale. Al padre che lo segue per picchiarlo, il ragazzo sussurra la propria intenzione di rivelare alla donna la morte del marito — cosa che in realtà non ha il coraggio di fare. Colpito alla testa da Assita, Roger perde i sensi, Igor lo immobilizza legandolo per un piede alla catena dell’officina. Quando Roger rinviene, goffo spauracchio con la gamba appesa all’insù, supplica il figlio, lo implora di liberarlo promette la pace. Ha perso gli occhiali e appare indifeso, storpio, con la faccia buona; Igor sembra sul punto di cedere,
e invece esplode, trovando la propria voce in quel “vaffanculo” gridato tre volte che è la sua prima affermazione di distinzione al padre: ‘o non sono come te”. Il passo successivo, spezzato l’abbraccio esclusivo di Roger, è mettere in salvo la “madre”. Così Igor decide di vendere l’anello d’oro, dono del padre e doppio di quello portato da lui, per comprare il biglietto per Assita e il suo bambino. La virilità alla quale giunge Igor, facendosi carico della verità, è consentita dal rapporto con la madre negata, attraverso l’accettazione della 93
vittima. E lo sguardo duro e insieme pudico che emerge dallo stile del film è coerente con questa dolorosa maternità: tutti sono vittime, la
folla dei sans papiers, Igor, Assita, Amidou, il padre ‘“storpio” appeso alla catena e persino il laido sorvegliante déi clandestini. La macchina da presa si insinua all’interno dell’azione,
stretta sui volti e sui
gesti del personaggi, muovendosi da uno all’altro, seguendone i passi, il respiro, intercettandone i mancamenti, le opacità. Il ritmo del montaggio è dilatato, avvolgente, dipana sequenze solo apparentemente vacue (ad esempio quando Igor, intento a preparare i documenti falsi, si blocca davanti al sorriso perfetto della foto di Assita, e dopo essersi passato il bianchetto sui denti anneriti, va a sorridersi allo specchio), evitando qualsiasi sottolineatura drammatica. La violenza è
soffocata dalla pietà. E la tragedia che si compie sotto i nostri occhi è umana e inevitabile. Catherine McGilvray, La Promesse, in SegnoCinema, n. 86 luglio/agosto 1997
Rosetta (1999)
Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Musica originale: Jean-Pierre Cocco Fotografia (super16, colore): Alain Marcoen Operatore: Benoît Dervaux Suono: Jean-Pierre Duret, Thomas Gauder (mix Dolby SR) Montaggio: Marie-Hélène Dozo Scenografia: Igor Gabriel Costumi: Monic Parelle Trucco: Tina Kopecka Interpreti: Émilie Dequenne (Rosetta), Fabrizio Rongione (Riquet), Anne
Yernaux
(la madre),
Olivier Gourmet
(il padrone),
Frédéric
Bodson (il capo del personale), Bernard Marbaix (il direttore del campeggio), Florian Delain, Christiane Dorval, Mireille Bailly, Thomas Gollas, Leon Michaux, Victor Marit, Colette Regibeau, Claire Tefnin,
Sophie Leboutte, Gaetano Ventura, Christian Neys, Valentin Traversi, 94
Jean-Francois Noville Direttrice di produzione: Véronique Marit Produzione:
Jean-Pierre
e Luc Dardenne,
Michèle
e Laurent Pétin,
Arlette Zylberberg per Les Films du Fleuve, ARP
Sélection (Paris), Radio Télévision
Belge Francofone (RTBF) con il sostegno di Eurimages, del Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de la Communauté Francaise de Belgique, dei Télédistributeurs Wallons, La Région Wallone, della Loterie National
de Belgique e con la partecipazione di Canal+ France, CNC (Parigi). Distributore italiano: Key Films Durata: 91 min. Origine: Francia / Belgio Palma d’oro e premio a Émilie Dequenne per la migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes 1999. Menzione Speciale della Giuria Ecumenica. Miglior film, migliori registi e migliore attrice belgi al Joseph Plateau. Premio della Chicago Film Critics Association a Émilie Dequenne come attrice più promettente. Uscita in sala: 22 settembre 1999 (in Belgio), 5 novembre (Usa, solo New York), 3 dicembre (in Italia).
Quando viene licenziata, Rosetta vede andare in frantumi le poche precarie certezze della sua vita e per non soccombere non esita a tradire l’unica persona che aveva espresso umana solidarietà nei suoi confronti. La macchina da presa non cessa mai di interrogare lo sguardo di Émilie Dequenne, ma il film non offre risposte né consolazione.
21/02/1997 Non costruire un intrigo, né raccontarlo, né organizzare uno svolgimento. Essere con Rosetta, essere con lei e vedere come lei fa le cose
e come le cose le capitano. Vedere che le situazioni accadono, sopraggiungono senza preparazione, come avvenimenti imprevedibili. Tutto questo richiede un lavoro di costruzione minuziosa attraverso la messa in quadro e il montaggio. vÒ
14/08/1998 Rosetta è sola affinché lo spettatore possa essere con lei. Lei soffre e chi la guarda può fare l’esperienza di soffrire per l’altro che soffre. Affinché questa esperienza non sia soltanto narcisistica, bisogna che Rosetta resista a ciò che permette allo spettatore di identificarsi in lei e di versare qualche lacrima su se stesso. Lei deve sfuggirgli, deve evitare di piacergli, talvolta, non deve sedurlo, deve evitare di diventare la
vittima alla ricerca della sua troppo facile pietà. Piuttosto deve provocare nello spettatore l’esperienza della sofferenza per l’altro, della sofferenza alla vista della sofferenza altrui: è il modo in cui l’arte può ricostruire l’esperienza umana. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
Visto dall’Italia
“C'è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi”. I fratelli Dardenne sono fra i
pochi, oggi, che potrebbero fare loro la frase di Camus. L’occhio della loro macchina da presa si apre sempre e solo per Rosetta, ragazzina disoccupata che vive in un camper con la madre alcolizzata e che sogna solo un lavoro e un’esistenza normale. Le altre persone sono comparse che entrano nel quadro solo se lei li degna della sua labile attenzione. Rosetta volta la testa, parla con qualcuno e la macchina da presa oscilla nella direzione del suo sguardo fino ad arrivare all’interlocutore, poi torna su di lei, frettolosamente, come se non
avesse tempo da sprecare sulle fisionomie degli altri. Come un pendolo furioso, imovimenti della macchina sono emanazioni di energia rabbiosa lanciata per un attimo sull’ambiente circostante per fare ritorno immediatamente alla propria fonte, come atomi irresistibilmente attratti dal nucleo, dal proprio ossessivo centro gravitazionale. Non si era mai visto un tale furore esclusivo, tanta pervicacia impietosa di uno sguardo per il suo oggetto d’amore. Visione talmente ostinata che i tagli di montaggio, all’inizio, sono dettati e imposti dalle porte che 97
Rosetta sbatte brutalmente in faccia a chi la segue. Una regia senza riguardi e senza scuse, talmente prossima alle cose che toglie tutta l’aria tra gli occhi e l'oggetto; è uno sguardo senza respiro, visione sottovuoto, pugno sferrato in un corpo a corpo. Rosetta corre. Ha il passo veloce; con le gambe corre, con le mani
scava la terra, le immerge nell’acqua, afferra degli ami, delle bottiglie, degli stivali, lavora. Tutto ciò che possiede è il passo e la fretta, un’energia collerica contro la fatica di vivere. E il cinema non è nient’altro che due gambe che corrono nel fango, due mani che fanno fatica a
reggere il peso della macchina a mano. Non c’è mai il sollievo di un campo-controcampo, sigla della reciprocità, spazio dell’avvicendamento, dell’alternarsi di due volti. Rosetta è sola in piani sequenza insostenibili, a combattere contro l’invisibile, contro tutto ciò che è
escluso dalla sua vita. Un piano sequenza che esclude, ecco cos’è questo film. Piani sequenza come filo spinato, contorto e pungente. Il contatto è possibile solo nell’elementare sfregamento, nello scontro violento fra due corpi: solo quando Rosetta entra in collisione con le persone — in una fisicità estrema, elementare, non elaborata cultural-
mente — l’inquadratura si allarga per abbracciare due corpi. Per fare spazio all’altro da sé (che altrimenti resta un rumore fastidioso che preme ai bordi del quadro). All’inizio la vediamo di spalle. La protagonista conquista un nome e un volto solo quando — al prezzo di un tradimento — riesce a trovare un lavoro. I fratelli Dardenne ci ricordano —fortunatamente ci sono loro a ricordarcelo — che è ancora l’economico ciò che sta alla base non solo della politica, ma anche della morale. In una società dove anche il diritto all’identità è privilegio di quei pochi che se la possono comprare, è l’incertezza economica a condannare Rosetta all’incapacità di acquisire una forma e un destino. Cè un'unica immagine serena, ferma, presa
da più morbide distanze: quando lei, dietro il bancone del baracchino dove vende cialde, può finalmente sfoggiare il grembiule bianco della divisa lavorativa. Sul bianco della pettorina c’è ricamato il suo nome, un nome che traballa leggero appena al di sopra del bordo inferiore dell’inquadratura: Rosetta. Scritto con del filo rosso, tracciato nel cor-
sivo incerto dei bambini, tenero come un ricamo sul grembiulino del98
l’asilo. Quel ricamo rosso, quel filo di cotone sottile è l’unica, fuggevole cosa gentile del film. Lei arresta la sua corsa solo due volte lungo la storia: la prima volta per dormire (e che ognuno possa ogni sera recitare il padrenostro di Rosetta: “Tu ti chiami Rosetta. Io mi chiamo Rosetta. Tu hai trovato lavoro. Io ho trovato lavoro...”), la seconda per morire (meraviglioso cerimoniale funebre costruito sulla durata reale del tempo di cottura di un uovo, emblema sacro di perfezione e cibo povero per eccellenza). Ma anche per morire bisogna fare fatica. Lei deve alzarsi e camminare ancora una volta, per portare la bombola del gas rimasta vuota fino alla baracca di uno schifoso essere umano e comprarne un’altra. Deve pagare — i soldi passano di mano in mano - e poi caricarsi tra le braccia la bombola piena. Bisogna pagare anche per guadagnarsi da morire. Per guadagnarsi le lacrime e un ultimo, doloroso primo piano, al prezzo altissimo della fatica. Qui si chiude il film: nell’ultima inquadratura lo sguardo di Rosetta supplica l’avvento di un controcampo che le faccia compagnia, la venuta dell’immagine gemella dove staziona uno sguardo — se non di amore — almeno di umana compassione. Appena un soffio, solo un respiro tenue separa il primo piano di lei dal viso dell’amico. Un soffio che i Dardenne non ci danno; un indugio, un’assenza, una parola
non detta, ma che sta lì sulla punta della lingua (come si potrebbe dire per un'immagine che tarda a venire? In punta di sguardo? Appena dietro la curvatura dell’iride?) C’era l’immagine che mancava, sospesa nel cono di luce sopra le nostre teste, a tremare a metà strada fra il
proiettore e lo schermo. Bastava ancora un attimo. Silvia Colombo, Rosetta, in “Panoramiche” n. 26, primavera 2000
99
Le Fils (2002) (Il figlio) Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia (super16, colore): Alain Marcoen Operatore: Benoît Dervaux Suono: Jean-Pierre Duret, Thomas Gauder (mix Dolby Digital)
Montaggio: Marie-Hélène Dozo Scenografia: Igor Gabriel Costumi: Monic Parelle Trucco: Tina Kopecka Interpreti: Olivier Gourmet (Olivier), Morgan Marinne (Francis), Isabella Soupart (Magali), Nassim Hassàîni, Kevin Leroy, Félicien Pitsaer, Rémy Renaud, Annette Closset, Fabian Marnette, Pierre Nisse, Stephan Barbason, David Manna, Abdellah Amarjouf, Jimmy Deloof,
Anne Gerard, Dimitri Legros, Leon Michaux, Colette Hobsig, Anne Dortu, Sandro Scariano, Isabelle Comte
Produttore esecutivo: Olivier Bronckart Direttori di produzione: Véronique Marit, Philippe Groff, Philippe Toussaint Produzione:
Jean-Pierre
e
Luc
Dardenne,
Denis
Freyd,
Arlette
Zylberberg per Les Films du Fleuve, Archipel 35 (Paris), Radio Télévision Belge Francofone (RTBF) con il sostegno di Eurimages, del Centre du Cinéma et de l’ Audiovisuel de la Communauté Francaise de Belgique, dei Télédistributeurs Wallons, La Région Wallone, della Loterie National de Belgique e con la partecipazione di Canal+ France, CNC
(Parigi).
Distributore italiano: Lucky Red. Durata: 91 min. Origine: Belgio / Francia
Premio a Olivier Gourmet per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes 2002. Menzione Speciale della Giuria Ecumenica. Miglior film al Fajr Film Festival 2003 Miglior film, migliori registi e migliore attore (Olivier Gourmet) belgi all'edizione 2003 del Joseph Plateau. 100
Premio del San Francisco Film Critics Circle per il miglior film straniero. Uscita in sala: 4 ottobre 2002 (in Italia), 9 ottobre (in Belgio), 10 gennaio 2003 (USA) Un falegname accoglie nel suo laboratorio il ragazzo che sei anni prima ha ucciso suo figlio. La tensione tra i due cresce in modo intollerabile, fino a un drammatico scioglimento. Un film di corpi ripresi a distanza ravvicinata, di azioni e di poche parole, una laica via crucis
che mette lo spettatore davanti manifestazione del Male.
a un’incomprensibile e concretissima
29/10/2001 Filmiamo Olivier di spalle. Spesso. Forse troppo spesso? Non so perché, ma Jean-Pierre e io sentiamo che bisogna filmarlo così. Non era
premeditato. È successo girando, proprio all’inizio della produzione, riprendendo quella che sarebbe diventata la prima sequenza del film. Con queste inquadrature di spalle, di nuca, questi piani costruiti da viavai tra le spalle e la nuca di Olivier speriamo di mettere lo spettatore di fronte al mistero, all’impossibilità di sapere, di vedere. Il volto, gli occhi non devono tentare di esprimere la situazione, che basta da sola
a provocare la proiezione dello spettatore. L'espressione di Olivier finirebbe per dirigere troppo, limitare o perfino impedire questa proiezione, quando invece la nuca, le spalle permetteranno allo spettatore di perdersi, come un’auto si perde nella notte. Un’altra cosa che abbiamo
percepito fin dalla prima inquadratura: la minaccia, quella di Olivier nei confronti di colui che si trova nella curva del suo sguardo e, al contrario, la minaccia per lo stesso Olivier, le cui spalle, la cui nuca si
offrono ad un colpo che può venire da dietro. Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
101
Visto dall’Italia Ha addirittura deluso alcuni fan dei loro film precedenti, ma l’ultimo
film dei fratelli Dardenne è lo sviluppo coerente dei precedenti. Il fatto è che i Dardenne sono già oltre il cinema d’autore europeo, ma non perché abbiano voglia di radicalizzare questioni di stile. Nel panorama del cinema francese, sono inclassificabili. Sono di quei registi che paradossalmente colpiscono di più i non cinefili, perché liberano l’energia del cinema. E acquistano, con l’insieme dei loro tre lungometraggi, il valore di un esempio, di un modello di cinema praticabile, addirittura di indissolubilità di scelte estetiche e visione dell’uomo,
della società. Dall’impatto sociologico del primò film (La Promesse), innervato però già di dilemmi etici non piattamente sociopolitici, allo sguardo religioso su un mondo marginale (Rosetta), i registi belgi giungono a una felicissima sintesi, con una scelta geniale nella sua giustezza e semplicità: filmare, attraverso l’atto del lavoro, il tempo del lavoro. Ma il lavoro
dell’artigiano, un operare quasi nell’accezione che dava al termine la Arendt, e quindi qualcosa innanzitutto di trasmissibile, ciò che anzi fonda ogni sana pedagogia, di mastri/ maestri. Se Rosetta aveva davvero uno sguardo religioso su un singolo corpo, che già col suo solo mouchettiano apparire era una promessa di redenzione dal fango, qui la dimensione è quella dell’inter-essere. Per questo il film può sembrare più stilizzato rispetto alla flagranza del precedente. Questo non è un film di corpi, ma di relazioni. E ciò che più colpisce è proprio la posizione dei registi. Che non fingono di essere uguale ai personaggi, ma li guardano e li accettano. Il che significa anche che, al contrario di qualunque film americano o europeo, i personaggi non spiegano le proprie azioni, che esse rimangono in parte oscure a loro e a noi, come peraltro è nella vita. Sarebbe istruttivo far studiare uno script come quello dei Dardenne alle scuole di cinema, con valore proprio di pedagogia negativa, per fare capire a cosa serve davvero una sceneggiatura. I Dardenne non sono improvvisatori, tutt'altro; ma sanno che alla fine bisogna far finta di aver dimenticato la porta aperta, sedersi e vedere chi entra. A loro modo, i Dardenne reinventano il concetto 102
stesso di suspense mostrandone il carattere coessenziale al cinema stesso, al suo ruolo di investigatore del reale, dell’aleatorio, dell’imprevi-
sto: una suspense più rosselliniana che hitchcockiana... Se si può dire provocatoriamente che // figlio è un film strutturalmente “di sinistra”, è in questo senso: il suo punto di vista rappresenta una trascrizione nell’ambito del visibile dello spirito della solidarietà. Il tema del film è come vivere con gli altri, la giusta distanza e il giusto coinvolgimento con gli altri (che sono nello stesso tempo coloro che hanno bisogno d’aiuto e coloro che ci offendono). Hanno ragione i registi: il punto di vista del film è laico, o meglio dà per assunta e digerita l’idea di Rossellini e Bresson, che il cinema consenta il disvelamento del reale, di ciò che l’occhio non vede. Ma fa un passo avanti,
verso gli uomini. E nel fare ciò, // figlio narra la messa in discussione di uno sguardo, come in una mise en abyme del pedinamento zavattiniano. Olivier spiazza noi spettatori in un paio di momenti clou: quando il ragazzo che lui sta seguendo si gira e per non farsi scoprire lui deve scappare e nascondersi (e noi con lui), trasformandosi da pedinatore in pedinato; e quando, mentre interroga il ragazzo in auto, si gira bruscamente per fare retromarcia, e ci guarda. A quel punto, ci ricordiamo che noi non siamo lui e che anche spettatori e registi dobbiamo misurare la giusta distanza tra noi e Olivier; tra noi e il ragazzo. I Dardenne riescono a non farlo notare, ma a una visione attenta ci si accorge che, per
tutto il film, il padre e l’assassino del figlio non sono mai stati nella stessa inquadratura, o meglio nello stesso fotogramma (la mdp passa dall’uno all’altro nello stesso piano-sequenza, ma tenendoli separati). Solo nel finale, mentre lavorano silenziosi, li vediamo agire insieme,
letteralmente sullo stesso piano. Nell’intreccio di esistenziale e sociale, nella scelta decisa di un habitat e di un ethos proletari in cui calare
i dilemmi morali, // figlio è un raro esempio di film camusiano calato nell’oggi. Emiliano Morreale, Padri, figli e assassini; incontro con Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2003
in “Lo straniero”
n. 30/31, dicembre
103
2002/gennaio
SE
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Il figlio di Jean-Pierre e Luc Dardenne, la ditta familiare che ha al
suo attivo alcuni dei più bei film europei degli ultimi anni (La Promesse e Rosetta), è costruito su un doppio fantasma: quello di una paternità negata da un omicidio e quello di una figliolanza non legittima (il nascituro dell’ex moglie) e quella incarnata dal ragazzo apprendista uscito dal carcere minorile dopo cinque anni scontati per aver rubato un’autoradio e aver strangolato un ragazzino. Quando Olivier, interpretato da Olivier Gourmet (premiato a Cannes nel maggio scorso come migliore attore) lascia la sua falegnameria-scuola per i ragazzi sbandati che imparano un mestiere e prendono le misure di una seconda chance sociale e si muove in automobile, la macchina da presa è “seduta” al posto del figlio perduto per sempre. Il lavoro, le azioni dei personaggi, i gesti banali del quotidiano sono il reticolo di questo racconto di lutto e manualità, dolore e desiderio inespresso di una vendetta.
Il posto centrale del lavoro nei nostri film — raccontano Jean-Pierre e Luc Dardenne — dipende dalla nostra storia, dal fatto che siamo nati e vissuti in una regione in cui il lavoro manuale è estremamente impor-
tante. In questo caso è il motore di tutto perché l’apprendistato che Olivier permette a Francis di fare nel suo laboratorio è la realtà concreta intorno alla quale si costruisce il loro rapporto. Abbiamo scelto il mestiere di falegname perché bisogna essere molto precisi con le misure e, invece, la situazione di Olivier non è misurabile, va al di là di ogni calcolo perché si trova davanti l’assassino del figlio e questo crea una tensione molto forte, insostenibile. La macchina da presa è aggrappata al protagonista, lo incalza e lo segue come se lo spettatore dovesse sentire, più che vedere, il mondo dal suo punto di vista. Noi cerchiamo di inquadrare una zona che si trova dietro la nuca, in cui l’attività e la passività del personaggio si mescolano e si confondono e questo vuoto che lasciamo accanto alla nuca di Olivier può suggerire l’idea che sia minacciato. Ma basta un piccolo spostamento e sembra che sia lui a minacciare qualcun altro. Questo permette a chi guarda di formulare delle ipotesi e di essere coinvolto dal punto di vista nervoso. Nella prima parte del film ci si chiede chi sia Francis e che 106
cosa realmente Olivier voglia da lui. La posizione della macchina da presa costringe gli attori a recitare di spalle e questo è molto difficile. Quali indicazioni date ai vostri interpreti? Diamo delle indicazioni che riguardano gli spostamenti, gli atteggiamenti, i gesti. Ci interessa soprattutto trovare il ritmo e il tempo dell’azione che abbiamo in mente. Prima lavoriamo con tutti gli attori senza i tecnici e proviamo scena per scena (per noi ogni scena corrisponde a un “piano”: in Il figlio sono ottantacinque) e di solito già in questa fase creiamo la tensione giusta. In un secondo momento chiamiamo i tecnici e cominciamo le prove con la macchina da presa. Uno di noi due rimane sul set e l’altro segue quello che accade sul monitor
e continuiamo ad affinare il ritmo della scena. Per Il figlio ci sembrava importante costruire un’attesa piena di dubbi. Le parole nei vostri film sono quasi un ingombro, un ostacolo, qualcosa da scavalcare e da superare. Le parole sono unicamente delle indicazioni di gesti: “fai questo, fai quello”. C’è un’economia di parola e si parla solo quando è necessario. Spesso le parole nei film servono per arredare i silenzi o sono lì per commentare qualcosa che è accaduto. Più che le parole è interessante filmare le mani. Infatti, ilfilosofo Pascal diceva che le mani traducono il movimento dell’anima più di altre parti del corpo. Il film finisce, un’attesa si dissolve e se ne crea un’altra che resta
aperta. Noi siamo riusciti a chiudere il film perché mentre scrivevamo la sceneggiatura abbiamo immaginato diversi tipi di finale, ma non riuscivamo a scegliere e ci siamo detti che girando in ordine cronologico, rispetto allo sviluppo della storia, avremmo trovato il finale, strada facendo. Si sa soltanto che qualcosa tra Olivier e Francis appare risolto anche se il perdono non viene esplicitato.
Enrico Magrelli, Incontro con i registi più rigorosi del cinema europeo in “FilmTv”, n. 2002/41
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L’Enfant (2005) (L’enfant — Una storia d’amore)
Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia: Alain Marcoen Operatore: Benoît Dervaux Suono: Jean-Pierre Duret, Thomas Gauder (mix Dolby Digital)
Montaggio: Marie-Hélène Dozo Scenografia: Igor Gabriel Costumi: Monic Parelle Trucco: Tina Kopecka Interpreti: Jérémie Renier (Bruno), Déborah Frangois (Sonia), Jérémie
Segard (Steve), Fabrizio Rongione (il bandito giovane), Olivier Gourmet (il poliziotto in borghese), Stéphane Bissot (la reclusa), Mireille Bailly, Bolzan, Annette
Jean-Michel Balthazar, Frédéric Bodson, Olindo Closset, Samuel De Ryck, Anne Gerard, Hachemi
Haddad, Philippe Jeusette, Alao Kasongo, Sophie Leboutte, Bernard Marbaix, Leon Michaux, Marie-Rose Roland.
Direttore di produzione: Philippe Groff, Véronique Marit Produttore esecutivo: Olivier Bronckart Produzione: Jean-Pierre Dardenne Luc Dardenne, Denis Genevieve Lemal, Alexandre Lippens, Arlette Zylberberg
Freyd,
per Les Films du Fleuve, Archipel 33 (Parigi), Radio Télévision Belge Francofone (RTBF), Scope Invest, Arte France Cinéma
con il sostegno del Centre du Cinéma et de l’Audiovisuel de Communauté Frangaise de Belgique, dei Télédistributeurs Wallons, Eurimages, Programma Media della UE, della Loterie National Belgique e con la partecipazione di Canal+ France, CNC (Parigi), Région Wallone e del Tax.Shelter del Governo federale belga.
la di de La
Diritti mondiali: Celluloid Dreams (Parigi)
Distribuzione: BIM (Italia) Durata: 95 min. Origine: Belgio / Francia Palma d’oro al Festival di Cannes 2005. Uscita in sala: 14 settembre 2005 (in Belgio), 7 dicembre 2005 (in Italia) 108
Bruno e Sonia vivono d’espedienti e si vogliono bene. Quando lei rimane incinta, lui, senza pensarci troppo, vende il figlio al racket delle adozioni illegali. Difficilissimo tornare indietro, e non solo per i ricatti e le minacce che devono fronteggiare. Personaggi privi di profondità psicologica, sono sottoposti a un conflitto lacerante, che il film restituisce in termini essenzialmente fisici. La macchina da presa non stacca mai la presa e gli spettatori scoprono di condividere non solo la paura, ma anche il freddo che provano i protagonisti.
12/02/2005 Undicesima versione del montaggio di L’Enfant. Il film dura circa novantadue minuti. Dobbiamo sicuramente montare ancora qualche versione, ma il ritmo sembra esserci. Percepiamo che quello che abbia-
mo filmato è Bruno che attende (spesso con un muro dietro di sé) e che a quanto pare amiamo filmarlo (Bruno, cioè l’attore Jérémie) anche mentre attende in piedi o seduto. Aspetta l’uomo che deve uscire dal bistrò, aspetta il denaro, aspetta che suoni il suo cellulare, aspetta l’apertura delle porte dell’autobus, aspetta l’ascensore, aspetta l’arrivo del commerciante per rubargli il sacco, aspetta che sua madre gli apra la porta di casa, aspetta che il poliziotto arrivi dietro le sbarre, aspetta Sonia, aspetta il bambino, aspetta Steve, aspetta 1 trafficanti, aspetta l'infermiere... Che cosa aspetta in tutte queste attese? Che cosa aspetta? Aspetta le lacrime, aspetta il momento di debolezza, la perdita delle sue forze. Non il movimento di un riscatto, di una resurrezione, ma la rottura di un movimento, l’arresto, il momento di debolezza che gli permette di vedere Sonia che è lì, di fronte a lui, e di vedere Jimmy che non è fisicamente lì ma che è lì anche lui, di fronte a Bruno in lacrime.
Luc Dardenne, Au dos de nos images (1991-2005), Seuil, Parigi 2005
109
Visto dall’Italia
Nonostante mostrassero uno stile e dei temi da subito riconoscibili, i
primi film dei fratelli Dardenne arrivati in Italia erano tutto fuorché ripetitivi. In un universo da subito coeso, si poteva anzi seguire una precisa evoluzione in una doppia direzione. Da un lato, verso uno stile sempre più depurato. Dall'altro, spostandosi sempre di più dal film sociale verso la riflessione morale o addirittura religiosa. Dopo La Promesse, storia di un figlio che deve scegliere di tradire il padre miserabile sfruttatore di immigrati, il personaggio successivo, Rosetta, era sembrato a molti una reincarnazione di alcune figure di Bresson (la candida Mouchette su tutti). Una ragazza che si negava ostinatamente a ogni redenzione, che spinta dalla povertà umana e materiale si rifiutava anche all’amore disinteressato di un ragazzo, tradendolo. Ma la Grazia stava lì in agguato, e in fondo anche Rosetta, pur ambientato letteralmente nel fango, era un film a lieto fine. // figlio poi non era proprio più possibile confonderlo con un film “di denuncia”: il rapporto tra il falegname e l’involontario assassino del figlio, che diventa suo apprendista, era una geometria carnalissima di relazioni, una lezione sulla sofferenza e sull’insegnamento. Lo stile dei due registi, frattanto, seguiva un eguale percorso di ascesi: sempre abbondante la macchina da presa a mano (ma mai il digitale) e un’aria da documentario, Rosetta esibiva una figura ricorrente che era come un ritratto del personaggio: prima riprendendola di spalle, poi girandole attorno — e poi, quando finalmente stava “nel quadro”, Rosetta usciva di campo, sfuggente. // figlio era ancora più estremo: i personaggi quasi sempre braccati da dietro la nuca, nemmeno in soggettiva ma quasi tappando in parte il campo visivo dello spettatore. E con questo film, tuttavia, i registi si sono trovati davanti a un bivio, come tutti coloro che presto (forse troppo presto) trovino una strada espressiva potente, un “loro” cinema. La vicenda è simile a quelle precedenti, ma accentua i riferimenti religiosi e di metafora cristologica. Una coppia di spostati (Sonia e il ladruncolo Bruno) ha un figlio, e quando Bruno decide di vendere il neonato per una cifra elevatissima, la reazione di Sonia è furibonda. Non lo vuole più vedere, va anche alla 110
polizia. Bruno decide di riprendere il bambino, ma la via della reden-
zione sarà assai più impervia. Il fatto di rendere espliciti i riferimenti religiosi non giova alla scioltezza del film, e il “metodo” dardenniano appare per la prima volta applicato in maniera prevedibile. Per la prima volta, pare che lo sguardo e le vicende non germoglino dalla situazione, lievitando dal documentario alla riflessione morale; ma che in qualche modo un punto di vista forte cerchi conferme nel mondo. Rimane l’atteggiamento “giusto” verso i personaggi, sempre braccati dalla macchina da presa ma mai giudicati: una coppia di idioti che però a modo loro si amano; più che degli innocenti, degli incoscienti criminali e però, chi lo sa, magari redimibili. Rimane l’assoluta onestà verso 1 luoghi, quasi fatti respirare, e il lavoro straordinario con gli attori non professionisti, che con la loro sola presenza giustificano l’esistenza del film. Stavolta più che altrove il cinema dei Dardenne trova senso ultimo in scene crudeli (nel senso della crudeltà artaudiana), tour de force in cui
il rapporto carnale con i corpi degli attori e con i set scarta da ogni sovrastruttura
narrativa, in sequenze
che sfidano la normale
durata
cinematografica: la lunga passeggiata di Bruno con una carrozzella vuota; il frusciare delle banconote quando vengono contate; soprattutto, la magistrale sequenza del tentato furto e della fuga di Bruno e di un giovanissimo complice, che è il vero cuore del film e culmina in una scena “in ammollo” in cui gli attori devono aver rischiato una polmonite. Al confronto, più “programmato” col suo sciogliersi dei personaggi in un fiume di lacrime, è il finale, che omaggia troppo esplicitamente il finale di Pickpocket di Bresson (carcere e redenzione). L’Enfant, nonostante la vittoria a Cannes, è il primo film dei registi (tra i pochi certi maestri del cinema europeo) a suscitare qualche dubbio nello spettatore, a far sentire il bisogno di un'evoluzione meno “interna”, più sorprendente. Fiduciosi, noi devoti degli sfigati Rosetta e Olivier dei film precedenti apprezziamo comunque la coerenza, in attesa del prossimo film. Emiliano Morreale, L’Enfant in “Il giudizio universale” n. 8, dicembre 2005 111
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119
GLI AUTORI DEL LIBRO
Luca Mosso (Bormio, 1962).
Critico cinematografico, vive e lavora a Milano. Collabora al quotidiano “La Repubblica” e al supplemento “TuttoMilano”, alle riviste “Cineforum”, “Panoramiche”, “Lo straniero”, al sito web “Cinemi” e alla trasmissione radiofonica “Piazza Verdi” (Radiotre Rai). Ha curato monografie su Frederick Wiseman,
Errol Morris e quaderni informativi su Peter Forgacs e Rithy Panh. Insegna all’ Accademia di Brera, alla Scuola Civica del Comune di Milano e tiene laboratori all’ Università degli Studi di Milano. Dal 1994 collabora con il festival Filmmaker di Milano. Autore con Francesco Ballo dei video Variazioni Keaton.
Rinaldo Censi (Parma,1967)
Laureato in Filmologia, presso il Dams di Bologna, con una tesi su Philippe Garrel. È dottore di ricerca in Studi Teatrali e Cinematografici presso la stessa Università. Insegna Storia e filologia del cinema all’ Università di Pavia e collabora con la Scuola di specializzazione in Storia dell’arte di Bologna. Collaboratore dell’Enciclopedia del Cinema Treccani, scrive sulle riviste “Cineforum”, “Filmeritica”, “Panoramiche”, “Cineteca” e sul sito web “Cinemi”. Ha curato una
monografia su Takeshi Kitano (Roma, 1998) e ha partecipato a numerosi volumi collettivi. Vive a Bologna.
Carlo Chatrian (Torino, 1971) Critico cinematografico, vive e lavora ad Aosta. E redattore delle riviste “Panoramiche” e “Duellanti” e collaboratore di ‘“Filmeritica” e
121
“Cineforum” Ha curato monografie su Wong Kar-wai, Johan van der Keuken, Nicolas Philibert, Errol Morris, Frederick Wiseman e Maurizio Nichetti. Vice-direttore di Infinity Festival, collabora con il Festival Internazionale del Cinema di Locarno e il Noir in Festival.
Daniele Gaglianone (Ancona, 1966) Regista cinematografico, vive e lavora a Torino. Laureato in Storia e Critica del Cinema, tra il 1991 e il 1997 ha collaborato con l’ Archivio
Nazionale Cinematografico della Resistenza e ha contribuito al programma video curato da Paolo Gobetti Le stagioni della Resistenza in 10 quadri e un prologo. Ha realizzato cortometraggi (La ferita, 1991; Era meglio morire da piccoli, 1992; L’orecchio ferito del piccolo comandante, 1994), documentari (Luoghi inagibili in attesa di ristrut-
turazione capitale, 1997) prima di esordire nel lungometraggio con / nostri anni (2000), premiato al Torino Film Festival e selezionato alla Quinzaine
del festival
di Cannes
2001.
Nel
2004
ha realizzato
Nemmeno il destino, selezionato al festival di Venezia nelle Giornate degli autori, e vincitore del Tiger Award al festival di Rotterdam del
2005.
Anton Giulio Mancino (Bari, 1968)
Critico cinematografico e docente universitario a contratto, vive e lavora a Bari. Collabora con “La Gazzetta del Mezzogiorno”, ‘“Cineforum”, “Diario” e “Cinecritica”. È autore di volumi su Martin Scorsese, Jonathan Demme, Francesco Rosi, John Wayne, Giancarlo Giannini e
Sergio Rubini. È autore di numerosi voci dell’Enciclopedia del Cinema Treccani e del Dizionario dei registi Einaudi. Ha fatto parte dal 2001 al 2005 del Comitato di selezione della Settimana Internazionale della Critica della Mostra di Venezia. Insegna 122
Semiologia del Cinema e degli Audiovisivi all’ Università di Bari e Storia del Cinema e Critica del Cinema all’Università di Macerata. Il documentario Giancarlo Santi: Facevo er cinema (Torino Film
Festival 2005). È il suo primo film.
Daniela Persico (Treviso, 1981)
Laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha studiato alla Sorbonne Nouvelle-Paris II con Jacques Aumont e Roger Odin. Vive a Milano, dove svolge le attività di critico cinematografico per il quotidiano di Lugano “Il Giornale del Popolo” e il mensile “Best Movie”. Cura rassegne cinematografiche nel Canton Ticino ed è attiva nel campo dell’educazione cinematografica nelle scuole lombarde.
Dario Zonta (Roma 1969)
Critico cinematografico, vive e lavora a Roma. Redattore della rivista “Lo straniero”, collabora al quotidiano “L'unità” ed è regista della trasmissione radiofonica “Hollywood Party” (RadioTre). Scrive e ha scritto sulle riviste: “Duellanti”, ‘Mucchio selvaggio”, “Rolling Stone” e “Cinecritica”. Nel 2004 ha curato una monografia dedicata a Daniele Gaglianone (Falsopiano).
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Il cinema di Jean-Pierre e Luc Dardenne a cura di Luca Mosso
“Il Male è una costruzione appassionata (e appassionante per lo spettatore) di cui bisogna mostrare tutti gli ingranaggi, tutti gli intrecci. La verità, ilBene appaiono allora come una rivelazione, una liberazione da tutti gli intrighi”. (Luc Dardenne, 2005).
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